Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL COGLIONAVIRUS

 

SETTIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

GLI UNTORI

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia Culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

 

SETTIMA PARTE

 

GLI UNTORI

 

·         Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

2020: un anno in ostaggio di Covid-19. Simone Valesini su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Da Wuhan a Codogno. I mesi del lockdown. E oggi, i vaccini con la uce in fondo al tunnel. 12 mesi terribili, ma da non dimenticare. E chi se lo dimenticherà, questo 2020. Un anno strano, scandito da preoccupazioni, sacrifici, paure, distanze e nuove abitudini. Un anno di vita sospesa, che in molti vorremmo solamente lasciarci alle spalle e dimenticare al più presto. E che invece sarà importante ricordare, non solo per rispetto verso le tante vittime di questa pandemia, ma anche per assicurarci di aver imparato qualcosa dai successi e dagli errori fatti negli scorsi mesi. Così da farci trovare pronti quando il prossimo, maledetto, virus epidemico tornerà a colpire le nostre società. Per aiutare la memoria, ecco una timeline degli eventi più significativi in questo anno dominato da Covid-19.

31 dicembre 2019, prime avvisaglie. In questa data l’Oms comunica ufficialmente la comparsa dei primi casi di polmoniti anomale nella città di Wuhan, dopo che per giorni il governo cinese ha cercato di silenziare le voci di una possibile nuova malattia diffuse dall’oculista Li Wenliang (che a febbraio morirà proprio a causa di Covid). Si tratta di 41 infezioni riconducibili ad un mercato cittadino, uno dei cosiddetti wet market dove si vendono pesci e animali vivi, che diviene così l’epicentro del primo focolaio della nuova epidemia (anche se le ricerche successive hanno iniziato a mettere in dubbio la questione), e sarà chiuso dalle autorità il primo gennaio del 2020.

9 gennaio, il mondo riscopre i coronavirus. L’Oms annuncia che le autorità sanitarie cinesi hanno identificato il patogeno responsabile delle misteriose polmoniti di Wuhan: si tratta di un nuovo coronavirus ancora sconosciuto, battezzato inizialmente 2019 nCov (nuovo coronavirus del 2019). Il virus inizia subito a fare paura, perché appartiene alla stessa famiglia di Sars e Mers, due delle più pericolose malattie infettive diffusesi negli ultimi decenni. Ma in questa fase i timori sono contenuti, non ci sono ancora conferme che il virus possa trasmettersi da uomo a uomo e anzi, il 14 gennaio il governo cinese (con l’appoggio dell’Oms) annuncia che le indagini svolte sembrano negare il rischio. Il 10 gennaio viene pubblicata la sequenza genetica del virus, e nei giorni successivi in tutto il mondo iniziano gli sforzi per produrre kit diagnostici basati sulla Pcr (i famosi “tamponi”).

21 gennaio, si inizia a parlare di epidemia. Dopo aver smentito per settimane i rischi, il 21 gennaio il governo cinese ammette che il virus è trasmissibile tra esseri umani, e risulta anzi anche particolarmente infettivo. A questo punto ha già ucciso 4 persone e i casi confermati sono saliti a circa 200. Diversi casi sono ormai stati identificati anche fuori dal paese (in Thailandia, Giappone, Corea, Stati Uniti e Francia). Il 23 gennaio il governo cinese decide di agire, e sceglie la linea dura: arriva il primo lockdown, che chiude a casa oltre 18 milioni di cinesi a Wuhan e nelle città limitrofe.

30 gennaio, primi pazienti in Italia. Il presidente del Consiglio Conte e il ministro della Salute Speranza annunciano che sono stati identificati i primi pazienti anche in Italia. Si tratta di una coppia di coniugi cinesi in viaggio nel nostro paese, ricoverati il 29 gennaio in isolamento allo Spallanzani di Roma. Il ministro Speranza annuncia la chiusura del traffico aereo da e per la Cina. Il giorno seguente, 31 gennaio, l’Oms dichiara che la nuova malattia, ancora senza nome, è ora classificata come emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale. Il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza sanitaria in Italia. 

10 febbraio, la malattia ha un nome. I decessi in Cina superano ufficialmente quelli provocati dalla Sars nel 2003, raggiungendo quota 908 (contro le 774 morti registrate durante la precedente epidemia). L’11 febbraio l’Oms annuncia che il nuovo virus, e la malattia che provoca, hanno finalmente un nome: sentiamo parlare per la prima volta di Covid 19 (Coronavirus disease 2019) e del suo agente eziologico, il virus Sars-Cov-2. Il 12 febbraio viene confermata l’infezione di 175 persone a bordo della nave da crociera Diamond Princess, attraccata nel porto di Yokohama, in Giappone. Nelle settimane seguenti 700 passeggeri isolati a bordo della nave verranno contagiati da Sars-Cov-2, e 14 moriranno a causa della malattia.

20 febbraio, inizia l’epidemia italiana. Il paziente italiano numero uno si presenta all’ospedale di Codogno il 17 febbraio con i sintomi di una leggera polmonite. Viene rimandato a casa con una prescrizione di antibiotici, perché in quel momento i criteri per sottoporre i pazienti ad un tampone richiedevano un contatto sospetto con qualcuno proveniente dalla Cina. Nei giorni seguenti le sue condizioni peggiorano, viene sottoposto a tampone molecolare nonostante le prescrizioni contrarie del Ministero e viene trovato positivo. Si iniziano a sottoporre a tampone altri casi sospetti, e il 20 vengono confermati 16 casi autoctoni di Covid 19, 14 in Lombardia e 2 in Veneto. Il 23 marzo arriva il primo decreto legge che impone l’isolamento nei comuni colpiti dall’epidemia: sono 10 nella provincia di Lodi e uno in provincia di Padova. Inizia ufficialmente la stagione dei dpcm: il 5 marzo viene sospesa la didattica nelle scuole e nelle università di tutta la penisola, l’8 marzo si estende la zona ad altre 26 province del Nord Italia, e il 9 marzo viene annunciato il primo lockdown nazionale, che andrà avanti fino al 3 maggio.

11 marzo, Covid è ufficialmente una pandemia. Dopo settimane di attesa e di critiche, l’11 marzo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, annuncia che Covid 19 è stata dichiarata ufficialmente una pandemia. Dall’inizio dell’epidemia nel mondo sono già morte più di 4mila persone, e i casi registrati sono quasi 120mila.

18 marzo, il giorno peggiore. L’Italia finisce sulle prime pagine di tutto il mondo. A fare scalpore è la foto dei camion militari che sfilano per il centro di Bergamo, carichi di bare dirette verso i forni crematori di altre regioni perché la camera mortuaria cittadina non è più in grado da giorni di accogliere nuovi feretri. I morti nel nostro paese hanno quasi raggiunto quota 3mila. Per la fine del mese i morti italiani raggiungeranno la cifra record di 12mila, i casi totali saliranno a 105mila. Non a caso, il 23 luglio il governo decide di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia, da celebrare il 18 marzo di ogni anno.

2 aprile, il mondo è in ginocchio. In questa data viene superata ufficialmente la soglia del milione di contagi in tutto il mondo. I morti sono oltre 53mila, e il virus ha raggiunto ormai i quattro angoli del globo. Dal 27 marzo gli Usa hanno superato i 100mila casi, diventando il nuovo epicentro dell’epidemia: l’11 aprile i morti americani raggiungono quota 20mila, strappando al nostro paese il triste primato dei decessi legati a Covid 19, che detenevamo da metà marzo quando i morti italiani hanno superato quelli cinesi. Entro la fine del mese nel mondo si superano i 200mila morti per Covid 19.

29 aprile, il primo farmaco. Un trial dell’Nih suggerisce l’efficacia del remdesivir, farmaco che dai dati dell’agenzia americana velocizzerebbe del 31% i tempi di dimissione dei pazienti Covid. Il primo maggio il farmaco è il primo (e attualmente ancora l’unico) a ricevere l’approvazione di emergenza dell’Fda per il trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. L’Europa segue a stretto giro, e il farmaco viene approvato dall’Ema a luglio. Nonostante l’alto prezzo deciso dall’azienda produttrice (che in America supera i 3mila dollari per paziente) il medicinale non ha mostrato però benefici sulla sopravvivenza dei pazienti all’interno dello studio solidarity dell’Oms, e l’agenzia mondiale della sanità al momento non ne raccomanda l’utilizzo nei pazienti ospedalizzati.

4 maggio, finisce il lockdown. Con l’ennesimo dpcm il 4 maggio l’Italia esce dal lockdown. Il calo dei contagi permette finalmente di allentare le regole, anche se il ritorno alla normalità è lento, e progressivo. Inizialmente riaprono solamente le attività essenziali, e si torna a poter uscire di casa per incontrare parenti e amici, previo il rigido rispetto delle regole di distanziamento sociale. Il 18 riaprono negozi, musei, bar e ristoranti, e si tornano a celebrare le funzioni religiose. Il 25 è la volta dei centri sportivi, dal 3 giugno si torna a circolare tra regioni.

4 giugno, la ricerca traballa. Due delle principali riviste mediche del pianeta, Lancet e New England Journal of Medicine, annunciano il ritiro di due studi sull’efficacia dell’idrossiclorochina, il farmaco delle meraviglie sponsorizzato dallo stesso presidente Trump. Il problema riguarda i dati, forniti da un’azienda privata, la Surgisphere, che non è in grado di offrire garanzie sufficienti sulla loro accuratezza. È la prima avvisaglia dei problemi che funesteranno la ricerca scientifica su Covid19: conciliare rigore e velocità non è facile, e non è un caso se per la fine dell’anno le ricerche di peso ritirate sul tema dell’epidemia siano arrivati quasi a 40.

15 giugno, arriva Immuni. Voluta dal governo, e presentata come asset strategico per gestire la fase 2 dell’epidemia, il 15 giugno viene finalmente lanciata su tutto il territorio nazionale Immuni, la app per il contact tracing realizzata gratuitamente dalla società Bending Spoons. Nonostante la pubblicità la app stenta però a decollare: ad agosto sono appena 5 milioni gli utenti che l’hanno installata sul proprio smartphone.  A ottobre siamo a circa 7 milioni. Si scopre inoltre che le Asl non avevano l’obbligo di inserire i codici dei pazienti positivi nel database, rendendo di fatto inutile l’applicazione. Conte pone rimedio al problema il 18 ottobre, ma ormai la app si era rivelata un fallimento, almeno per prevenire l’arrivo della seconda ondata epidemica nel nostro Paese.

17 luglio, l’epidemia indiana. Dopo aver superato la prima ondata, iniziata a marzo, senza troppi danni, l’India ha visto risalire l’indice dei contagi durante il periodo estivo. Il 17 luglio i casi nel paese hanno superato quota un milione, con oltre 25mila decessi. Molte aree della nazione tornano in lockdown, e il mondo assiste impotente mentre l’epidemia fa il suo corso chiedendo un costo altissimo in vite umane: ad oggi l’India è il secondo paese più colpito al mondo, con oltre 10 milioni di casi confermati e più di 140mila decessi.

21 luglio, arriva il recovery fund. Dopo giorni di trattative tesissime, il 21 luglio i leader Ue hanno trovato l’accordo sul piano straordinario di aiuti per i paesi maggiormente colpiti dall’epidemia. Una vittoria per l’Italia, che si vede destinare oltre 200 miliardi sui 750 messi a disposizione dal piano.

22 agosto, nuovo record di morti. L’estate ha visto l’epidemia procedere a singhiozzo, con nazioni in cui la situazione è migliorata fino a spingere i più ottimisti a ritenerla storia passata (come in Italia) e altre in cui il virus non ha mai lasciato la presa. Il 22 agosto nel mondo si è superata la soglia degli 800mila morti, soprattutto sulla spinta dell’alto numero di decessi registrati in Usa, India, Sud Africa, Brasile e altre nazioni del Sud America.

28 settembre, un milione di morti. A 10 mesi dall’inizio della pandemia il mondo ha raggiunto il milione di morti per Covid 19. Una soglia psicologica importante: il nuovo coronavirus ha ucciso più persone di quante ne abbiano uccise influenza, Hiv, dissenteria, malaria e morbillo sommate assieme.

2 ottobre, si ammala anche Trump. Dopo aver annunciato che la first lady è risultata positiva a Sars-Cov-2, anche il presidente degli Stati Uniti si ammala e viene ricoverato. Viene dimesso dopo appena tre giorni, dopo aver ricevuto un cocktail di farmaci sperimentali tra cui spiccano gli anticorpi monoclonali della Regeneron (che in Usa hanno ricevuto l’approvazione emergenziale a metà novembre). Non è il primo né l’ultimo uomo politico colpito dalla malattia: prima di lui era capitato a Boris Johnson nel Regno Unito (finito anche in terapia intensiva) e al presidente brasiliano Bolsonaro, e nei mesi seguenti succederà anche a Emmanuel Macron in Francia.

8 ottobre, seconda ondata. Dopo un’estate tranquilla, molti paesi europei hanno visto tornare alla carica il virus con l’inizio dell’autunno. L’Italia inizialmente ha sembrato reggere meglio dei vicini, ma la curva epidemica ha iniziato a impennarsi verso i primi di ottobre. Dall’8 ottobre si corre ai ripari, imponendo l’utilizzo delle mascherine anche all’aperto sull’intero territorio nazionale. Non è sufficiente: la corsa del virus continua inarrestabile, e verso  primi di dicembre si arriva al nuovo record di decessi, con quasi mille morti al giorno.

3 novembre, l’Italia a zone. Per cercare di arginare la seconda ondata epidemica, il nuovo dpcm del 3 novembre stabilisce un sistema di semafori regionali che divide il paese in zone rosse, arancioni e gialle, in ordine decrescente di gravità dell’epidemia. In tutta la nazione viene instaurato un coprifuoco notturno tra le 22:00 e le 5:00 di mattina.

9 novembre, arrivano i dati sui vaccini. Finalmente, novembre riserva anche le prime buone notizie dell’anno. Pfizer annuncia infatti i risultati del trial di fase 3 per il suo vaccino anti covid. L’efficacia sembra aggirarsi attorno al 90%. Pochi giorni e arriva anche l’annuncio della rivale Moderna: vaccino efficace oltre il 95%. È quindi la volta di Astrazeneca, produttrice del vaccino realizzato in collaborazione con l’Università di Oxford su cui l’Europa (e l’Italia) puntano maggiormente per uscire dall’epidemia. In questo caso l’efficacia sembra minore, vicino al 70%, ma durante lo studio è emerso, grazie ad un errore, che un dosaggio minore del preparato potrebbe risultare ben più efficace di quella prevista, raggiungendo una protezione vicina al 90%. Un risultato promettente, che obbliga però a nuovi trial, e ritarda l’approvazione del vaccino.

8 dicembre, il Regno Unito si smarca. Bandendo gli indugi e le precauzioni seguite dal resto dei paesi europei, il Regno Unito decide di approvare il vaccino anticovid della Pfizer senza attendere il parere dell’Ema. Il 9 dicembre è la prima nazione occidentale a iniziare la campagna di vaccinazioni di massa contro Covid 19. Seguono gli Usa, che l’11 dicembre concedono l’approvazione emergenziale al vaccino di Pfizer, e danno inizio alle somministrazioni il 15 dicembre.

21 dicembre, arriva l’ok dell’Europa. A pochi giorni da Natale arriva finalmente l’annuncio della Commissione Europea: a seguito del parere positivo espresso dall’Ema il vaccino di Pfizer riceve l’autorizzazione (condizionale) per l’immissione in commercio nei paesi Ue. Le danze si aprono il 27 dicembre, con una grande giornata di vaccinazioni in tutta Europa. In Italia vengono effettuate le prime 9.700 iniezioni. Dal 29 dovrebbero iniziare ad arrivare le altre 459mila dosi previste per il nostro Paese dal contratto sottoscritto dall’Unione Europea con Pfizer. Il 4 gennaio 2021 si attende quindi l’approvazione del vaccino Moderna, e l’arrivo di nuove dosi e nuove vaccinazioni. La strada è ancora lunga, e se tutto andrà come sperato i vaccini dovrebbero arrivare a garantire l’immunità di gregge (e quindi la fine dell’epidemia) per il prossimo autunno. Ma se non altro, sembra che finalmente il vento stia cambiando.

2020, l’anno da dimenticare che non cancelleremo mai dalle nostre vite. Francesco Leone su Notizie.it il 26/12/2020. Dalla terza guerra mondiale alla pandemia: il 2020 è stato un anno difficile, da dimenticare ma il cui segno rimarrà indelebile sulla nostra pelle. Lo schiaffo del Papa nella notte di San Silvestro, l’uccisione nel raid statunitense a Bagdad del generale Qassem Soleimani e l’alba di una fantomatica terza guerra mondiale. Il 2020 iniziava così, non con il migliore dei presupposti, e avanzava nelle vite di tutto il mondo insinuando lentamente la minaccia di un’emergenza di cui ancora oggi stentiamo a definirne la natura, gli effetti e la capacità di intimorire intere popolazioni, governi ed economie. Era il tempo dell’elezioni regionali, quelle in cui la sfida era tra centrodestra e centrosinistra: una partita a scacchi nel nome delle nuove amministrazioni locali, quelle che ancora in un immaginario dal retaggio democristiano erano considerate come territori da conquistare in vista di instillare il declino del governo centrale. E chi se lo dimentica Salvini che citofona a Yaya nella periferia di Bologna. O ancora il cavaliere Berlusconi che rassicura gli elettori ai banchetti della Santelli a suon di “Lei in 26 anni che la conosco non me l’ha mai data”. Eppure quella corsa elettorale ci aveva fatto provare un non modesto interesse. Le sardine sono solo un esempio. Piccoli pesci in un mare di giovani vecchi che per la prima volta, o di nuovo, carpivano l’importanza del voto, quella che avrebbero successivamente perso più tardi: più precisamente nel referendum costituzionale di settembre quando a fare da padrona del seggio è stata la rabbia, sapientemente mixata nei pregiudizi populisti verso la casta parlamentare promossa da chi voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, ma che alla fine un po’ la figura del tonno l’ha fatta. Viaggiava come sempre tutto rapidamente. Il processo Gregoretti prendeva forma, l’Australia soccombeva al maltempo dopo i grandi incendi che ne avevano devastato gran parte del territorio, Kobe Bryant si spegneva insieme alla piccola Gianna Maria in un incidente in elicottero prima di una celebrazione sportiva provocando l’estremo cordoglio di tutto il mondo dello sport. Scorreva tutto così, rapidamente. Una sequela di vicende, cronaca, politica, lotta per i diritti e battaglie contro il cambiamento climatico. A fare da sottofondo moderato c’era ciò che stava accadendo in Cina: troppo lontano per impensierirci, troppo tardi per poterne comprendere il fenomeno in modo tale da non soccombervi. Così mentre da Wuhan, Nancino e Hong Kong ci arrivavano le immagini di una delle epidemie più bestiali di sempre, noi dichiaravamo lo stato d’emergenza, discriminavamo prima e poi difendevamo la comunità, la ristorazione e la cultura cinese. La verità è che eravamo troppo intenti a non perderci la faida sanremese di Morgan e Bugo e pensavamo (come Zingaretti) che in fondo fare un aperitivo a Milano non era poi un’idea così malvagia, nonostante nella gara alla sicurezza sanitaria, i primi casi e l’allerta del contagio fossero già in pole. L’Italia non si ferma, Milano non si ferma. Poi è stata la volta di Vo’ Euganeo e di Codogno, prima la zona rossa localizzata poi il lockdown generalizzato. Italia zona protetta. Mentre si consumava una strage silenziosa all’interno delle Rsa di tutto il paese, a Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro i morti non si contavano più. L’esodo dei fuorisede viaggiava sulle rotaie delle ferrovie di stato, in barba ai commenti dei governatori del sud che mai come allora hanno desiderato la fuga dei cervelli indigeni. Dalle carceri di tutta Italia giungeva il primo presentimento della tolleranza zero nei confronti delle norme anti-covid. Col tempo abbiamo imparato (chi più, chi meno) a conoscere la schiettezza dei termini "assembramento", "quarantena", "restrizioni". Abbiamo assistito alla politica dei decreti del presidente del Consiglio dei Ministri mentre cercavamo in mascherine il lievito sugli scaffali dei supermercati a entrata contingentata. Abbiamo cantato sui balconi, scoperto lo smart working e le atrocità della pandemia di coronavirus. Ci eravamo fermati, e fermandoci abbiamo scoperto che la nostra non è una società che sopravvive in stasi. La quarantena passa così, tra un fuorionda di Mattarella, una gaffe di Fontana e Gallera e il dolce augurio di Vincenzo De Luca di una vampata di lanciafiamme durante qualche festa di laurea. Quello che è venuto dopo è stata la caccia in elicottero al rider occasionale, al passeggiatore di cani domenicale, al nostalgico dell’aperitivo. L’era dei “governatori sceriffo”. Di seguito la corsa alle terapie intensive, gli eroi in corsia, le storie dalla prima linea e la gara delle regioni al “chi contiene meglio vince e non può essere contestato”. I casi raggiungevano il picco della curva epidemiologica, le vite spezzate erano diventate numeri nel continuo aggiornamento del bollettino della Protezione Civile. La cassa integrazione, i posti di lavoro a rischio e intere categorie abbandonate prima e soccorse poi da provvedimenti in continuo emendamento. Il plateau, il tempo per ragionare sulla riapertura, sull’accesso al Mes per sostentare la crisi economica che veniva alimentata, erta sulle colonne rette dall’emergenza sanitaria vestita da Atlante. Quel 4 maggio sembrava che tutto fosse passato. Silvia Romano era stata liberata e riportata in Italia e con lei era tornata anche la polemica sterile all’italiana. Trascorsi i mesi più bui, la falsa partenza italiana si muoveva in un’estate di sana perdizione (a confronto col tenore di vita osservato in lockdown) giustificata dalle scelte del governo e alternata al caldo delle piazze italiane infervorate dalle proteste di innumerevoli categorie e rappresentanze dei lavoratori. Tra questi balenava in sordina anche il pensiero negazionista: un complottismo che altro non poteva che far scivolare la disperazione dei tanti nel calderone del fanatismo scellerato dei molti. Dall’altra parte del mondo intanto cresceva il movimento Black Lives Matter. Oltreatlantico dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta per mano di un agente di polizia, si mobilitavano attivisti per i diritti civili, folle che facevano scricchiolare la poltrona di Donald Trump prossimo alle nuove elezioni presidenziali. Un tema complesso quello dell’uguaglianza negli Stati Uniti, che vedeva dibattere le parti attorno a scogli generazionali che affondano ancora oggi le radici in differenze culturali appartenenti a epoche ormai abbandonate. Qualcosa di stupidamente difficile. In Italia invece, nella grande complessità situazionale della pandemia, la fase 2 era riuscita a rendere tutto più stupidamente semplice. Distanziamento a scuola? Bando del ministero per i banchi a rotelle. Distanziamento nei locali? Plexiglass, massimo 6 persone al tavolo ma nessuna mascherina indossata una volta seduti. Sostentamento alle partite iva? Assegno da 600 euro da corrispondere con qualche mese di ritardo. Nota bene: nessuna di queste è stata una soluzione, ma col senno di poi, in effetti, è troppo facile asserirlo (o forse no?). C’è chi aveva detto che il virus era morto, clinicamente s’intende. C’era anche chi aveva detto che ci sarebbe stata una seconda ondata nel periodo autunnale. Al tempo erano solo opinioni, voci stampate sulle pagine cartacee e digitali che si sfogliavano di tanto in tanto in vacanza. Settembre ha sancito il crocevia di quella che doveva essere la vera rinascita. Di fatto, mentre inorriditi ascoltavamo la storia di Willy, giovane ragazzo capoverdiano ucciso in una rissa a Colleferro, assistevamo alla volontà dell’elettorato sul taglio dei parlamentari, alla poco preparazione di alcune regioni nella campagna vaccinale e ai mancati controlli sui trasporti, lì dove brulicava il contagio. Distratti, magari dall’incredibile vittoria di Joe Biden e Kamala Harris alle presidenziali in Usa, passavamo i nostri giorni attorniati dall’ombra di un nuovo lockdown mentre i contagi continuavano a crescere a dismisura. Scontavamo le colpe di un’estate passata all’insegna di quella libertà che ci era stata limitata in primavera. Le regioni prendevano colore, le nuove restrizioni richiamavano gli appuntamenti dei dpcm alle luci della ribalta e le piazze delle città pativano il nuovo coprifuoco. L’incubo della Dad è tornato, così come la chiusura dei ristoranti e il timore di doversi ritrovare a contare ancora nuovi morti per covid in Italia. Così è stato. Di nuovo in prima linea, ancora una volta a rincorrere una curva epidemica che ormai c’era sfuggita dalle mani. Ci siamo fermati di nuovo. Abbiamo salutato due eterni campioni come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, ricordandoci che questo poco poetico 2020 ci ha portato via anche Ezio Bosso, Ennio Morricone, Franca Valeri e Gigi Proietti. Adesso tiriamo le somme e attendiamo di capire se almeno a Natale non dovremmo sentirci dei criminali mentre sediamo al tavolo del cenone con le nostre famiglie, nonostante vestiremo una mascherina e stringeremo in mano il referto di un tampone covid negativo.

C’è rimasta una speranza, quella del vaccino, che di certo non redimerà niente di quanto terribilmente inaccettabile sia accaduto in questo 2020. Però magari, stigmatizzando il passaggio di quest’anno nefasto, sorrideremo. E alla domanda che chiede se il 2021 potrà mai essere peggiore dell’anno che lasciamo alle nostre spalle, amaramente risponderemo “Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è“.

Nel 2020 i morti sono diventati solo un numero. Natale Cassano su Notizie.it il 28/12/2020. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. Un numero. Fredde cifre che a volte fatichiamo a ricollegare a vite reali, affetti, sentimenti, problemi e gioie della vita quotidiana. Com’è cambiata l’idea della morte in questo difficile 2020, da quando la pandemia è entrata nella nostra vita? Finché la parola “Covid” era ancora estranea al nostro vocabolario, finché questa infezione misteriosa sembrava circoscritta a qualche lontana città d’oriente, la perdita di una vita è sempre stata vissuta in maniera empatica, anche quando la persona coinvolta non era strettamente legata a noi. Leggendo i giornali o navigando sui social network, era facile immedesimarsi nel dolore dei parenti e provare noi stessi quella sofferenza, sempre consapevoli del classico “poteva accadere a noi”. Eppure da quando a marzo la parola “pandemia” ha cominciato a entrare, silenziosa, nella nostra quotidianità, quel meccanismo si è lentamente spezzato. Con un risultato tragicamente noto: oggi, a quasi un anno di distanza, si nota una maggiore difficoltà nel provare empatia davanti a un decesso che non ci tocca direttamente. E questo è legato direttamente a come la gestione del Covid-19 ha trasformato la nostra percezione della morte. Sembrano infatti lontane anni luce quelle immagini strazianti della fila delle camionette dell’Esercito che attraversano Bergamo con all’interno le salme dei deceduti della prima ondata. Un’immagine che è stata riproposta ciclicamente da TG e giornali, anche per mantenere l’attenzione alta sulla pericolosità del virus, quando al termine della quarantena è scattato il “liberi tutti”. Improvvisamente il Covid non sembrava più un pericolo, bensì un dramma del passato da esorcizzare. Ma dopo i bagordi dell’estate la seconda ondata del virus ci ha investito come un tifone, obbligandoci a tornare a quelle restrizioni a cui così difficilmente ci eravamo abituati. Al contempo, però, diversamente da quello che si diceva (tutti ricordiamo il “ne usciremo migliori”, motto della prima fase, vero?), si è assistito a una deumanizzazione della morte, perché questa si è trasformata in un freddo numero. Lo vediamo ogni giorno nel bollettino, regionale e nazionale, che leggiamo sulla stampa. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. E in questo marasma, l’unico elemento che ci preoccupa è il capire se la curva è in discesa o in risalita. Torniamo così a pensare a noi stessi e a non provare empatia. Un ragionamento che si ritrova anche nelle dichiarazioni pubbliche. Pensiamo alle parole di Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, che davanti alle telecamere ha ricordato la necessità di aprire, perché “le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”. Ecco, in quel “pazienza” si rivede perfettamente il quadro della situazione: il bene della popolazione che supera quello del singolo; la morte giustificata come danno collaterale alla vita di altri.Una situazione che da molti viene accettata, anche a causa dell’effettiva sciatteria che si ritrova nei famosi bollettini della Protezione civile: i decessi direttamente legati al virus non vengono distinti da quelli legati anche ad altre patologie e finiscono nel calderone della statistica, facendo inevitabilmente crescere le fila dei negazionisti, che cercano continui appigli per confermare la confortante ipotesi del “virus che non esiste, è tutto un complotto“. E neppure il Natale ci ha reso, se non più buoni, almeno più empatici. Il gigantesco dibattito sulle aperture che ha preceduto le festività si lega a doppio filo a questo triste risultato: del rischio della morte (soprattutto degli altri) ci interessa poco, l’importante era (ed è) poter respirare un istante di normalità, almeno in un periodo che da sempre è sinonimo di felicità. Doveva essere un Merry Christmas, a tutti costi, in attesa di brindare a un (si spera) felice anno nuovo. E se questo comporta conseguenze per la salute degli altri? Il pensiero comune si riassume in quell’unica parola: “Pazienza”. E allora come si inverte la tendenza, in vista del 2021 ormai alle porte? Difficile dirlo, ma un buon punto di partenza sarebbe tornare a legare quei numeri dei morti a un viso, a una storia, a un particolare che possa nuovamente renderli umani. Qualcuno ci sta provando, ripercorrendo questo 2020 da dimenticare ma che mai cancelleremo dalla nostra memoria, raccontando quelle vite spezzate dalla malattia, nonostante i commenti poco empatici di chi continua imperterrito a sottolineare che “la persona era anziana” oppure che “soffriva di patologie pregresse”. Dimenticandosi che la perdita di un affetto fa male comunque, qualunque sia la causa che l’ha allontanato da noi per sempre.

Il contagio, la quarantena, la morte. E la speranza. Il racconto di un anno di pandemia. Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia. E poi Codogno, Nembro, Bergamo, Jesolo, Milano. Nel diario di una cronista l’Italia in zona rossa. Ognuno con la sua linea di confine. Elena Testi su L'Espresso il 26 dicembre 2020.  Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il...

Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il 30 gennaio. Sono le 22.00 dello stesso giorno, di fronte all’hotel Palatino di Roma, due turisti cinesi vengono messi dentro a un’ambulanza e portati all’ospedale Spallanzani. Entriamo nella grande hall dell’albergo. Il direttore fa cenno con una mano che non può parlare. Un gruppo di inglesi entra e nascosti tra loro ci infiliamo nell’hotel. Tutto è normale, tutto è placido. La notizia del Covid -19 arrivato in Italia è un timido accenno che si disperde in una manciata di ore. C’è vita, c’è normalità, ci sono le persone ammassate per strada. C’è la crisi di Governo con un Matteo Renzi intento a scarnificare il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede. C’è Matteo Salvini con i selfie. C’è la prescrizione. Ci sono i bambini che vanno a scuola. C’è una Wuhan lontana che mormora con gente affacciata ai balconi. C’è un mese. Nulla accade. I treni sono bloccati, la stazione di Bologna è persa in un vociare di persone che tentano di raggiungere Milano. A Casalpusterlengo un macchinista è risultato positivo al Covid-19, hanno deciso di bloccare quella tratta per precauzione. È il 24 febbraio, tre giorni fa un ragazzo di Codogno, paesino di 15mila abitanti è il primo positivo accertato. «La prego mi faccia salire», urla una ragazza a un controllore di Trenitalia, l’uomo fa cenno con la testa. Ci infiliamo tutti dentro l’unico treno pronto a partire per il nord. Non c’è spazio, non c’è aria. Alcuni sono seduti dove si impilano le valigie. È un’Italia schizofrenica. Quando il treno parte ci sentiamo vittoriosi. Passiamo per il Veneto, Casalpusterlengo è ancora chiusa, qualcuno si chiede se il virus non sia nell’aria, ma il pensiero da guerra batteriologica viene schizzato via dalla mente. Le forze dell’ordine in quei tre giorni si sono già piazzate. Nessuno deve uscire. C’è un fuori e un dentro. Un noi e un loro. Sono 47mila quelli in area rossa, l’area del lodigiano. Gli “infetti”, c’è chi li chiama così. Per raggiungere i check-point basta prendere Google maps. I segni rossi nella mappa sono il confine invalicabile. I militari non parlano, rimangono con il mitra a metà. I “quarantenati” si affacciano alla frontiera, una donna ferma l’auto, attende le provviste. Un altro gruppo di persone ha una ruspa, sulla pala viene caricato cibo per animali portato da un paesino vicino, libero dalle restrizioni. Ai check-point arriva di tutto: detersivi, sigarette, cibo. Viene lasciato a pochi metri e poi preso da chi è bloccato dentro. Un ragazzo si nasconde, esce fuori quando vede arrivare un’auto, è la fidanzata. Si scambiano un abbraccio. Lei piange, lui la bacia. Le ambulanze corrono dentro. Sono tante. Non sono ambulanze normali, dentro hanno tutti una tuta bianca che li copre. La gente muore mentre fuori si parla di banale influenza. Una bambina di 14 anni di Codogno rimane sola con la sorella di 12, i genitori sono in terapia intensiva. Ha paura degli assistenti sociali. C’è caos, rimangono sole per dieci giorni. Senza cibo. La protezione civile è sopraffatta, deve consegnare le mascherine che non ci sono, deve organizzare, trovare ossigeno per salvare chi ha crisi respiratorie. Dopo dieci giorni c’è chi si accorge di loro, mentre la vita scivola via. Sono denutrite ma si salvano. Un miracolo nella tragedia. Sembra un paese spezzato da verità diverse. Milano si sente intoccabile, il sindaco Beppe Sala invoca normalità. Arriva il segretario del Pd Nicola Zingaretti da Roma, lo accogliamo circondandolo, tutte le domande sono su Matteo Renzi e la tenuta del Governo. Il simbolo della normalità è uno Spritz, mentre la morte silenziosamente miete centinaia di lodigiani. Ci rendiamo conto che il virus è diffuso più di quanto non si voglia credere quando iniziamo a schivare quarantene. Parte la conta degli incontri. Le distanze e la diffidenza. Ad Alzano Lombardo e Nembro, comuni a pochi chilometri da Bergamo, un’ondata si porta via anime inconsapevoli. Si discute se fare una cinta di protezione per evitare che Bergamo diventi un focolaio. I giorni passano e nulla viene fatto, ancora è da capire il perché, visto che le forze dell’ordine sono già schierate per chiudere l’intera area. Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano, ha uno schema nel suo ufficio. Su un cartellone di carta bianca ci sono le frecce che indicano cosa fare ogni volta che mancano le bombole d’ossigeno. Nell’unica agenzie di pompe funebri di Alzano, le urne sono una accanto all’altra. «Questi fogli – dice la proprietaria – dove c’è data di nascita, luogo e riferimenti, sono persone che noi conosciamo personalmente. Hanno avuto una vita e una storia». Le ceneri sono in barattoli ovali neri con sopra il nome di chi non c’è più. Sono stati messi nei forni crematori dentro un sacco nero. Nudi e con i segni della malattia cicatrizzati sui propri corpi, a cancellare quei segni sono le fiamme. Donne e uomini, giovani e anziani. Sono passati attraverso la malattia. Sono caduti, si sono rialzati, ma anime e corpi sono ancora prigionieri del virus. Le loro storie, gli incubi e le speranze. È il 7 marzo, un sabato, sono le 18. Trapelano notizie di una Lombardia quarantenata. Milano scopre di essere in mezzo a un focolaio. La gente corre verso la Stazione Centrale. È l’inizio del domani e la fine improvvisa dell’oggi. Dopo un giorno l’Italia intera viene dichiarata zona rossa. Alcuni giorni dopo la serrata generale sul Pirellone le luce accese delle finestre scrivono “Restate a casa”, mentre davanti al cimitero di Bergamo c’è la fila di carri funebri. Non ci sono parenti. Il cancello si apre, entrano dentro, lasciano la bara e ripartono. Quel giorno in un’ora ne arrivano dodici. Dodici corpi. In una chiesa non distante uomini con le tute di bio-contenimento disinfettano i feretri. Il sole si è già eclissato, i carri dell’esercito si fermano, i militari escono composti e silenziosi, prendono le bare. Non c’è più spazio nella piccola cappella, sono oltre sessanta. Nessuno in quel momento sa chi ci sia dentro, neanche le famiglie. Non hanno un nome i morti che lasciano la città. Si percorrono chilometri di autostrada senza incontrare nessuno. Le uniche vite che incroci guidano ambulanze o carri funebri. Sono così tanti da farti venire la nausea. Il covid in Lombardia si è infilato ovunque, anche a Milano. La gente alza il volume dei televisori, dello stereo. Ogni casa ha una colonna sonora per coprire il suono della paura. Tutto è avvenuto all’improvviso, senza preavviso. Un frangente che segna il prima e il dopo, ma ognuno ha il suo frangente. Per alcuni è la morte di un parente, per altri è la quarantena, per altri ancora la fine della libertà avvolta dal terrore del contagio. E quei contagi arrivano in corsia. Fuori dall’ospedale di Cremona ci sono dei tendoni bianchi. I malati scendono dalle ambulanze sopra una barella. Fissiamo i loro visi che spariscono nella zona sporca allestita all’aperto, prima di entrare nella tensostruttura riscaldata. Se rimani in silenzio senti la loro tosse e credi di morire con loro. Per istinto ti allontani. Una signora sui sessanta anni arriva, attende e fa cenno a un medico. Poco dopo un uomo con un sacchetto dell’immondizia in mano le si avvicina. «Finalmente», dice la donna all’uomo. Il marito è lì da un tempo infinito: quaranta giorni. «Lo riporto a casa», fa cenno con la mano e vanno via abbracciati. Non capiamo, difficile farlo. Sappiamo che l’ossigeno è finito. Conosciamo le procedure perché le vediamo. Le ambulanze arrivano impacchettano i malati dentro delle coperte termiche dorate. Un colore strano per il dolore, ti viene da pensare ogni volta che i soccorritori li portano via. Poi ci sono i vigili del fuoco che vanno a sfondare le porte delle persone morte da sole in casa. Sono tante e noi lo sappiamo perché vicino casa c’è una caserma dei vigili del fuoco. Stanno proprio davanti. Sulla finestra c’è scritto “FORZA GIACOMO” a lettere grandi e colorate. Dicono che è in terapia intensiva, ma che ce la farà. Dicono tante cose, ma sono terrorizzati negli occhi, nelle smorfie della bocca. Entrano nelle case vuote, avvertiti da qualche vicino. Entrano nei ricordi. La maggior parte sono sui loro letti. Intorno il vuoto. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. I contagi sono iniziati a calare mentre il numero dei medici morti è salito. Giacomo Grisetti vive a Como, lui il Covid lo ha preso per visitare un paziente, parla dalla taverna dove è stato confinato. La moglie gli lascia un vassoio con il cibo. Ricorda l’amico, medico anche lui, prima di essere intubato ha spedito un messaggio nella chat whatsapp «Si mette male, saturo poco». Quando parla di lui la voce si strozza. A volte ti capita di tornare negli ospedali, di cercare alcuni medici per salutarli e di scoprire che non ci sono più. Hanno perso la loro battaglia con il Covid, ma prima ne hanno vinte tante altre salvando la vita dei loro pazienti. Abbiamo capito che la prima ondata se ne stava andando quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è apparso a Lodi. Dopo, l’estate è passata senza che nessuno si fermasse. Non c’è stato un momento di silenzio per le perdite. Eppure ricordiamo quei medici mentre percorrono i corridoi bianchi. Il momento in cui riuscivano a staccarsi la mascherina dal viso, non avevano segni ma solchi. I vestiti zuppi di sudore per le tute. I turni infiniti. Tutto cancellato, coperto dal suono delle discoteche. Ma il covid è un virus subdolo. Cammina con noi. E lo abbiamo tenuto per mano fino a ottobre. Vicino al Michelangelo, il covid hotel della prima ondata, sulla ringhiera di una terrazza c’è un cartello, c’è scritto “andrà tutto bene”. È sbiadito, la luce dell’appartamento è sempre spenta. Abbassi lo sguardo e vedi le auto circolare. Le persone camminano per strada, ammassate in metro arrivano al lavoro. Per un attimo ricordi i corpi degli anziani portati fuori da una Rsa con un telo bianco sopra. La gente sui balconi. La protezione civile che con il megafono intima a stare in case, a indossare la mascherina. Tempi dimenticati. È metà ottobre quando fuori dall’ospedale Niguarda di Milano i pazienti covid-19 iniziano ad essere troppi. Il responsabile del Pronto Soccorso, Andrea Bellone, ha la faccia preoccupata: «Dobbiamo limitare gli spostamenti o non ce la faremo». Il responsabile della terapia intensiva Roberto Fumagalli si commuove pensando a quando avevano chiuso ai covid il suo reparto, perché non ce ne erano più. All’ospedale Sacco, sempre di Milano, Pietro Olivieri, direttore medico, ha già riconvertito metà struttura «e il peggio se continuiamo così, deve ancora arrivare». Il peggio alla fine è arrivato. All’ospedale di Magenta il reparto di terapia sub-intensiva, gestito dal primario Nicola Mumoli, è stracolmo, dentro ci sono 240 pazienti. Se la terapia intensiva è impressionante quello che accade dentro una sub-intensiva è agghiacciante. Il casco che li aiuta a respirare fa un rumore assordante, sono sempre coscienti. Stanno a pancia in giù nella speranza di far entrare più aria possibile nei polmoni. La sensazione è tentare di respirare con il getto della doccia sparato in bocca. Quando chiedi a un medico cosa provano i pazienti che dalla sub-intensiva passano all’intensiva, in molti ti rispondono: «Sollievo, così possono avere una tregua». I reparti si riempiono, i medici per alcuni diventano degli aguzzini, accusati di esagerare. «Tutta una montatura, il Covid non esiste». E così capita che qualche negazionista entri in una farmacia e dica a Cristina Longhini: «I carri dell’esercito non esistono», proprio a lei che ha visto il padre dentro un sacco e che ha saputo qualche mese dopo che quei carri avevano portato via il suo papà a Ferrara. È successo anche a Diego Federici che ha perso entrambi i genitori: «Coppia inseparabile». Soccorritori, volontari che sacrificano la propria vita, inseguiti e insultati perché accusati di creare allarmismo. Presidenti di Regione impegnati a farsi colorare la regione con una tinta che non metta a repentaglio la propria reputazione, il tutto mentre noi contiamo i morti della seconda ondata che superano quelli della prima. È successo in Lombardia, è successo in Veneto, nel Lazio. Nell’Italia intera che parla di vite “non indispensabili” per poi scusarsi. Non c’è solo il Covid, c’è la mancata prevenzioni, le persone morte d’infarto perché non vogliono andare in ospedale. È successo anche a Tonina, portiera a Milano. Sempre sull’attenti appena arrivava un estraneo nel palazzo. Il cuore le si è fermato, ma lei di andare in ospedale con questo covid non voleva proprio saperne. Di Tonina rimane il ricordo della pasta al forno appena sfornata e un cartello con su scritto compianta. L’emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell’ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Non abbiamo atteso la fine della seconda ondata, siamo a dicembre, e in provincia di Verona montano i container per stipare le salme. Dentro la terapia intensiva dell’ospedale di Jesolo si sente una voce: «Urgente, terapia intensiva». Un medico entra con una barella. Con poche mosse la paziente viene intubata, mentre un’altra, la “numero 1”, forse non ce la farà, perché come spiega il direttore Fabio Tuffoletto: «Con il covid il 50% vive, l’altro muore. La verità è che ancora non si è capito bene il motivo». È come tirare una monetina per aria. Per quasi 70mila italiani quella monetina è caduta dalla parte sbagliata. Alle loro famiglie dimenticate dalle Istituzioni un felice anno nuovo. Seppur difficile.

I nostri morti non se ne sono mai andati. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. Giuseppe Genna su L'Espresso il 22 dicembre 2020. L'immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece...

L’immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati, l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta, accecarci mentre vediamo la scena – questo no, non ce lo aspettavamo. Non dimenticheremo il 2020: dodici mesi segnati dal contagio, dalla paura e dalla solitudine. Ma anche dalla consapevolezza che se cambiamo ripartiremo. «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti, noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia. Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori privilegiati. L’uomo che cade, geometrico e minuscolo, newyorkese, lanciatosi da una delle Torri Gemelle – ci ha riguardato e infatti lo abbiamo guardato e riguardato, più volte. Ma non era l’immagine che implicava il rischio per tutti. Era forse la fine di un’idea di occidente o di un capitalismo, il tabù infranto della guerra su suolo americano, una scena in qualche film. Ricaricavamo il video, l’uomo tornava a cadere. Potevamo godere oscenamente di questo spettacolo di morte, perché anzitutto era tale: c’era una dose di spettacolarità. Chi aveva ideato ed eseguito quell’attentato aveva pensato alla risonanza spettacolare. Il che non accade qui, a Bergamo, seconda metà di marzo, nella notte che sa di neve schiacciata nella mota dai pneumatici. Qui non c’è spettacolo. I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorità del tempo, rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a manifestarsi con i caratteri della modernità. L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest’ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi. La bomba ieri, come il virus oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male, sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi affilitti dal male, è nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i sarcofaghi dei deceduti…Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci sarà sempre.

Esclusivo - Troppi morti in Veneto. Si riempiono i container.

L'emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell'ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 dicembre 2020. Dopo il triste corteo dei camion militari in marzo a Bergamo, le foto choc della seconda ondata arrivano dalla provincia di Verona: un container frigorifero sistemato nel cortile di un ospedale, per accogliere le salme delle troppe vittime del covid. Succede a Legnago, la cittadina di 25 mila abitanti dove ha sede il secondo polo sanitario pubblico della provincia. L'ospedale non riesce più a gestire il record dei contagi, ricoveri e decessi: l’obitorio è pieno, per cui le bare vengono spostate nel contenitore d'acciaio collocato all'esterno. Verona è la provincia più colpita dal coronavirus, con più di 1.300 morti e quasi 20 mila persone attualmente positive. E gli ospedali scoppiano, come testimonia il il chirurgo Ivano Dal Dosso, segretario veronese del sindacato dei medici Anaao: «Siamo in una situazione di estremo stress, a Legnago l’altro giorno in pronto soccorso c’erano 49 pazienti, di cui 20 in attesa di un letto. Ormai si gestiscono i malati direttamente lì, con il casco Cpap, come se fosse una terapia semi-intensiva. E questi pazienti non risultano nemmeno censiti nei bollettini della Regione, perché tecnicamente non sono ricoverati». Non va meglio nelle altre province venete, come raccontano gli altri rappresentati degli operatori sanitari ormai stremati. Stefano Polato, medico dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, registra una «situazione decisamente preoccupante: sia le terapie intensive che i reparti attualmente disponibili sono pieni, basta un soffio di vento perché tutto precipiti». Anche a Vicenza, conferma l’ematologo Enrico Di Bona, «il quadro è grave e se continua così si arriverà al collasso, perché tutti gli ospedali dovranno essere riconvertiti esclusivamente al covid». A Treviso il chirurgo ortopedico Pasquale Santoriello, dell’ospedale cittadino Ca’ Foncello, parla di «personale distrutto, sfinito dai turni di 12 ore nelle tute di plastica, e sempre più soggetto al contagio. Poco fa ho incrociato un amico infermiere che mi ha riferito di essere appena risultato positivo al test: stava scappando dall’ospedale passando per gli scantinati, per cercare di non contagiare nessuno». In Veneto si era registrata, il 21 febbraio, la prima vittima italiana della pandemia. Nei mesi successivi della prima ondata questa regione, grazie alla massiccia campagna di controlli con tamponi molecolari avviata dall'ospedale universitario di Padova, ha limitato i contagi e i decessi rispetto al resto del nord Italia. Le riaperture incontrollate di questi mesi in zona gialla, però, hanno fatto esplodere i contagi e i decessi nella seconda ondata. E anche oggi, come ormai da settimane, il Veneto registra il record nazionale di nuovi contagiati (oltre 4.400) e delle vittime: altri 92 morti in 24 ore. Il primo a lanciare l’allarme era stato il segretario regionale dell’Anaao, il dottor Adriano Benazzato, che aveva contestato i criteri utilizzati dalla Regione Veneto per conteggiare i posti disponibili nelle terapie intensive: «In realtà sono soltanto 639, per attivarne 500 in più bisognerebbe assumere almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati e preparati, che in Veneto non ci sono». Gli fa eco il suo vice, Andrea Rossi, geriatra dell’ospedale Borgo Trento di Verona: «In Veneto iniziamo a raschiare il fondo del barile. Qui o la regione cambia colore, oppure rischiamo di trovarci in un'emergenza ancora peggiore. Tra poco il covid potrebbe sommarsi al picco dell’influenza. E se non si corre subito ai ripari, la nave andrà a picco come era successo a Brescia e a Bergamo nella prima ondata».

Da "ilmessaggero.it" il 27 dicembre 2020. Vaccino Covid: via ufficiale alle prime vaccinazioni in Italia all'ospedale Spallanzani di Roma, blindato dalle forze dell'ordine che presidiano gli ingressi. La professoressa Maria Rosaria Capobianchi, una delle ricercatrici che isolò il virus SARS-CoV-2,  l'infermiera Claudia Alivernini e l'operatore sociosanitario Omar Altobelli, alle ore 7,20 sono stati i primi in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. «Oggi l'Italia si risveglia. È il #VaccineDay. Questa data ci rimarrà per sempre impressa. Partiamo dagli operatori sanitari e dalle fasce più fragili per poi estendere a tutta la popolazione la possibilità di conseguire l'immunità e sconfiggere definitivamente questo virus». Così il premier Giuseppe Conte su Twitter a proposito del Vax Day. «Questo vaccino è la strada che serve per chiudere una stagione difficile. Oggi è una giornata che aspettavamo, è un giorno bello, ci da fiducia ma serve ancora tanta cautela e attenzione. Non è finita abbiamo ancora molto da fare e bisogna resistere e rispettare le regoleì». Così il ministro della Salute Roberto Speranza presente allo Spallanzani di Roma con il commissario straordinario per l'emergenza covid Domenico Arcuri, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, l'assessore alla Sanità del Lazio Alessio d'Amato e il direttore sanitario dello Spallanzani Francesco Vaia. 

Le dosi. Le 9.750 dosi di vaccino Pfizer-BioNTech consegnate a tutti i Paesi europei oggi per il vaccino day sono in numero «simbolico». La distribuzione vera e propria - fa sapere il ministero della Salute in una nota - partirà dalla settimana che inizia il 28 dicembre e all'Italia arriveranno circa 470mila dosi ogni settimana. «Non è la fine, è ancora lunga ma è l'inizio della fine. Passo dopo passo, grazie agli operatori sanitari, è l'inizio della fine», ha detto Nicola Zingaretti.

Il piano vaccinale. «La prossima settimana verranno vaccinati medici, infermieri e personale sanitario», ha precisato il commissario straordinario per l'emergenza covid Domenico Arcuri.

Da "ilmessaggero.it" il 27 dicembre 2020. «Mi sento benissimo, sono emozionata, ma ancora più che emozionata sono inorgoglita». Lo ha detto ai giornalisti Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell'Inmi Spallanzani, la quale è stata tra le prime tre persone in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. «Spero che questo privilegio sia esteso presto a tutti», ha aggiunto sottolineando che «non dobbiamo ancora cantare vittoria». Tra i primi vaccinati che l'infermiera Claudia Alivernini: «Ringrazio il direttore sanitario, dottor Francesco Vaia e la dirigenza delle professioni sanitarie, la dottoressa De Angelis, per avermi dato l'opportunità di essere qui oggi. Con profondo orgoglio con grande senso di responsabilità che oggi ho fatto il vaccino: piccolo gesto ma fondamentale per tutti noi». Romana di 29 anni, volto simbolo del personale sanitario in prima linea da mesi nella battaglia contro il coronavirus, questa mattina ha ricevuto il vaccino anti Covid allo Spallanzani. «Oggi sono qui come cittadina ma soprattutto come infermiera a rappresentare la mia categoria e tutti gli operatori sanitari che hanno scelto di credere nella scienza - ha detto l'infermiera -. Ho toccato con mano e visto con i miei occhi quanto sia difficile combattere questo virus, essendo stata in prima linea dall'inizio dell'emergenza: è stato doloroso assistere alle sconfitte che questo virus sha causato. Ma oggi c'è la consapevolezza che è un giorno importante e decisivo. La scienza la medicina sono l'unico mezzo insieme al senso civico di ognuno di noi che ci permetteranno di uscire vincitori da questa battaglia così dura. Lo dico col cuore: vacciniamoci, per noi per i nostri cari e per la collettività». Dello stesso avviso l'infettivologa Alessandra D'Abramo: «Mi sento una privilegiata. Fare in Italia per prima il vaccino contro questa brutta bestia non è una cosa da tutti i giorni. Il vaccino va fatto, è il primo passo, per il cambio di rotta, per battere questo virus maledetto. Per sconfiggerlo. Soltanto chi è stato qui a lavorare può comprendere ciò che abbiamo visto e passato. Dico a tutti di vaccinarsi. Abbiamo passato mesi duri, difficili, complicati anche da spiegare. L'incubo è iniziato il 29 gennaio con una coppia di cinesi. Da quel giorno non ci siamo più fermati. Oggi è un giorno di speranza. Ripartiamo da qui, insieme», ha concluso. 

Coronavirus, allo Spallanzani la prima vaccinata italiana. Giuseppe Conte: "Oggi si fa la storia", ma le dosi sono poche. su Libero Quotidiano il 27 dicembre 2020. Un giorno storico: allo Spallanzani di Roma, i primi vaccinati italiani al coronavirus. Il tutto a partire dalle 7.20 di oggi, domenica 27 dicembre. I primi ad ottenere il siero Pfizer sono stati la professoressa Maria Rosaria Capobianchi, l'infermiera Claudia Alivernini e l'operatore socio-sanitario Omar Altobelli. Dunque due medici infettivologi sempre dell'Inmi: Alessandra Vergori e Alessandra D'Abramo. Si scrive una pagina importante nell battaglia contro il coronavirus.  "Mi sento benissimo, sono emozionata, ma ancora più che emozionata sono inorgoglita" ha detto ai giornalisti Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell'Inmi Spallanzani, la quale è stata tra le prime tre persone in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. "Spero che questo privilegio sia esteso presto a tutti", ha aggiunto sottolineando che "non dobbiamo ancora cantare vittoria". "Lo dico col cuore: vacciniamoci per noi, per i nostri cari e per la comunità". Queste le prime parole di Claudia Alivernini, l'infermiera 29enne dello Spallanzani che ha ricevuto questa mattina il vaccino anti Covid-19. Nel frattempo, su Twitter, Giuseppe Conte cinguettava: "Oggi l'Italia si risveglia. È il #VaccineDay. Questa data ci rimarrà per sempre impressa. Partiamo dagli operatori sanitari e dalle fasce più fragili per poi estendere a tutta la popolazione la possibilità di conseguire l'immunità e sconfiggere definitivamente questo virus". Tutto vero, anche se Conte non dà risposte circa l'ultimo fallimento, ossia il fatto che in questa primissima fornitura di vaccini l'Italia ottiene molte meno dosi rispetto a Germania e Spagna, così come denunciato ieri da Roberto Burioni. 

Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Il suo volto è diventato un simbolo della campagna vaccinale contro il covid e i no-vax l’hanno adesso presa di mira sui social. “Ora vediamo quando muori” si legge in uno dei commenti rivolti a Claudia Alivernini, l’infermiera 29enne dello Spallanzani di Roma, prima vaccinata in Italia contro il coronavirus. Prima dell’iniezione, Alivernini aveva bloccato i suoi profili social per tutelarsi, ma gli attacchi sono comunque arrivati sui profili istituzionali che diffondevano la notizia della vaccinazione. Su Instagram sono apparsi due profili fake a suo nome.

Si legge sul Messaggero: Chi la conosce bene sa quanto sia rimasta scioccata, chiedendone subito la rimozione. L’infermiera che ha accettato di sottoporsi al vaccino «con profondo orgoglio e grande senso di responsabilità», ribadendo di «credere nella scienza», sta valutando in queste ore di denunciare l’accaduto alla polizia postale, probabilmente lo farà già questa mattina. Il reato paventato è quello di furto di identità, senza contare le eventuali minacce.

Clarida Salvatori per il Corriere della Sera il 30 dicembre 2020. «Davvero mi insultano sui social perché ho fatto il vaccino?»: Claudia Alivernini, infermiera 29enne del reparto di Malattie infettive dello Spallanzani, incredula chiede agli amici. Lei che alla vigilia dell' ufficializzazione del suo nome come prima vaccinata d' Italia, si era cancellata da tutti i social network per evitare pressioni e contatti indesiderati. Eppure dopo il V-day di domenica, il livore dei messaggi dei no vax si è riversato contro di lei e contro l' Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma. Prendendo letteralmente d' assalto i profili social istituzionali. Lei, con la discrezione che la contraddistingue, si è trincerata nel silenzio. A parlare è il direttore sanitario, Francesco Vaia, dal suo profilo Facebook: «Ho incontrato Claudia per incoraggiarla dopo le fake news e gli attacchi. Non ce n' è stato bisogno. Claudia sta bene, come tutti gli altri vaccinati, è di ottimo umore ed è sempre più convinta della sua scelta».

I commenti più sgradevoli sono quelli che le augurano reazioni avverse e la morte.

«Perché si tiene il braccio in quel modo? Fra 3, 2, 1...», «Questo non è il giorno dell' inizio, è il giorno della bella inc...», «Eroe di cosa? Ora si aspetta gli effetti indesiderati». Qualcuno si sconvolge persino per il messaggio che Claudia ha voluto mandare al Paese, ovvero che fare il vaccino sia un atto d' amore: «Vada ad ingozzarsi di panettone perché a lei che frega se c' è gente che muore. Egoista», o «Cosa non si fa per la fama». Ma a essere ricoperto di insulti è lo Spallanzani tutto. E i contrari all' antidoto al coronavirus attaccano con termini non proprio eleganti. «Bisognava per forza farne un film?», «Siete ridicoli, dovete fare spettacolo per invogliare, spero che la gente non si vaccini», «Povera ragazza», «Perché non l' hanno fatto per primi i politici visto che si parano sempre il c...», e ancora «Le cavie umane» o «Come stanno i volontari che avete pagato 700 euro per partecipare al test sul vaccino?». C' è persino chi si lancia in teorie sull' obbligatorietà dell' inoculazione: «Ci dicono che non è obbligatorio, ma se poi non lo fai non ti fanno andare da nessuna parte. Ditemi se non è dittatura». Le reazioni di questo tono sono comunque una minoranza. La maggior parte dei commenti è infatti in difesa di Claudia e del centro di eccellenza che combatte il Covid. Uno su tutti: «Siete un orgoglio. Avete brillato in mezzo a tutto questo buio». Allo Spallanzani e ai suoi operatori è giunta la solidarietà del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, come dell' assessore regionale alla Sanità, Alessio D' Amato: «Claudia è la prima vaccinata in Italia contro il Covid. È stata travolta da messaggi e attacchi no vax. Il suo sorriso ci ha raccontato una storia di forza e speranza. Una professionista che ha combattuto il Covid, come tante e tanti giovani che si sono trovati in prima linea. Chi la sta minacciando dovrebbe vergognarsi. Siamo con te Claudia e con tutto il personale sanitario che ha lottato in questi mesi! Un grande abbraccio».

Covid, l’infermiera Claudia Alivernini smentisce di essere stata minacciata. Notizie.it il 31/12/2020. Claudia Alivernini, infermiera che ha effettuato per prima il vaccino anti-Covid allo Spallanzani, ha smentito di essere stata insultata dai no-vax. Claudia Alivernini ha smentito la notizia che la voleva vittima di insulti e minacce sui social network da parte delle frange più irriducibili dei cosiddetti no-vax. L’infermiera dello Spallanzani di Roma non sarebbe quindi mai stata insultata dopo essere stata la prima persona in Italia ad aver ricevuto la vaccinazione anti Covid. Falsa anche la notizia della cancellazione dei suoi profili social.

Il messaggio dello studio legale. Nel commentare la falsa notizia, lo studio legale a cui l’infermiera si è rivolta ha dichiarato: “Vi rappresentiamo che in data odierna lo scrivente studio legale ha provveduto a diffidare il Messaggero alla immediata rimozione e/o cancellazione dell’articolo apparso nell’edizione odierna a pag. 9, a firma della giornalista Alessia Marani, giacché la ns. assistita non ha mai rilasciato le dichiarazioni ivi riportate (né altre dichiarazioni di sorta), né ha tantomeno mai autorizzato chicchessia a rivolgersi alla stampa e/o a terzi per suo conto per rilasciare dichiarazione alcuna. L’infermiera non ha dunque mai rilasciato alcuna dichiarazione al quotidiano romano Il Messaggero, che ha poi diffuso la notizia corredandola del commento della donna. Nonostante la notizia delle minacce di morte non fosse vera, con la sua diffusione l’infermiera ha subito ricevuto moltissima solidarietà da parte delle istituzioni. Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, ha sottolineato che i “no vax in questi giorni stanno mostrando il loro lato peggiore, tra ignoranza e cattiveria“.

Articolo 32 della Costituzione.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Mirabelli: “Vaccino può essere reso obbligatorio con decreto legge”. Notizie.it il 30/12/2020. Il vaccino anti coronavirus può essere reso obbligatorio con un decreto legge: lo ha chiarito il giurista Cesare Mirabelli. Il giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli ha spiegato che per rendere obbligatorio il vaccino anti Covid è possibile adottare una decreto legge che il Parlamento dovrà convertire in legge entro sessanta giorni. Intervistato dal Messaggero, l’esperto ha ribadito come la Costituzione italiana ammette i trattamenti sanitari obbligatori che devono però essere adeguatamente giustificati e disposti con un’apposita legge. Per procedere con tempi ristretti, ha continuato, il governo ha a disposizione lo strumento del decreto legge che poi dovrà essere convertito in legge dalla Camera e dal Senato. “Abbiamo altre esperienze di obbligo di vaccinazione che hanno portato alla sconfitta di malattie gravi per l’individuo e per la comunità, basti pensare al vaiolo e alla poliomielite“, ha aggiunto. Se si decidesse di agire in questo modo, la legge dovrà essere precisa, perimetrata al caso Covid-19 e non generica. Se poi nell’immediato dovesse emergere un’adesione spontanea e si arrivasse all’immunità di gregge, cadrebbe l’obbligatorietà. Inoltre qualora il vaccino dovesse produrre ad un soggetto effetti collaterali dannosi, “questo può essere inteso come un sacrificio che viene imposto, un rischio per il bene della collettività“. Occorre dunque che chi subisce un danno sia indennizzato: nell’interesse della comunità deve avere un ristoro. Mirabelli è anche intervenuto sulla possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente che rifiuti di sottoporsi al vaccino, spiegando che se l’obbligatorietà non è stabilita dalla legge non può essere imposta da poteri privati. “Potrà nella propria organizzazione, per tutelare altri dipendenti, collocare diversamente il lavoratore“, ha chiarito.

Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Per un dipendente che rifiuta di vaccinarsi contro il Covid si può arrivare al licenziamento: a sostenerlo è il professor Pietro Ichino, giurista esperto di diritto del lavoro, che in un’intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che non solo si può rendere obbligatorio il vaccino, “ma in molte situazione è previsto”. “L’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda, il loro benessere”, ha ricordato l’ex senatore Pd e deputato di Scelta civica. Quindi il datore di lavoro non solo può imporlo, aggiunge Ichino, “ma deve farlo”. “Ovviamente se è ragionevole”, ha precisato, “in questo momento non lo sarebbe, perché non è ancora possibile vaccinarsi. Ma, via via che la vaccinazione sarà ottenibile per determinate categorie - per esempio i medici e gli infermieri - diventerà ragionevole imporre questa misura, finché l’epidemia di Covid sarà in corso”, chiarisce Ichino. A suo dire, “chiunque potrà rifiutare la vaccinazione; ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. Quindi, o ti vaccini o ti licenzio? “Sì. Perché la protezione del tuo interesse alla prosecuzione del rapporto cede di fronte alla protezione della salute altrui”.

Inchiesta dell’Ordine su medici negazionisti e No Vax. La pandemia fa strage tra gli operatori sanitari: quasi 90mila contagi e 273 medici morti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Dicembre 2020. Dall’inizio della pandemia su 2.019.660 casi di contagio da Coronavirus avvenuti in Italia, 89.879 hanno riguardato gli operatori sanitari. Sempre in prima linea per combattere contro il nemico invisibile, sono anche quelli più esposti e a rischio e che non possono esimersi dal lavorare. Per questo motivo in tutta Europa le vaccinazioni sono iniziate proprio da questa categoria della popolazione. Basti pensare che negli ultimi 30 giorni i contagi sono stati oltre 16mila. È quanto rilevano gli ultimi dati della Sorveglianza integrata Covd-19 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), aggiornati al 27 dicembre. Rispetto agli ultimi 30 giorni, invece, 413.381 sono stati i casi totali di positività diagnosticati nel nostro Paese, di cui 16.923 tra gli operatori sanitari. Secondo altri dati, quelli raccolti dalla Fnomceo e aggiornati al 28 dicembre, sono 273 i medici morti in Italia durante la pandemia. Gli ultimi in ordine di tempo sono Raffaele Antonio Brancadoro, medico ospedaliero in pensione, Leonardo Nargi, ginecologo, e Stefano Simpatico, neurochirurgo. “I nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante”, è il commento del presidente della Fnomceo, Filippo Anelli. “Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati”. Intanto l’Ordine dei medici di Roma ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di 13 loro colleghi antivaccinisti, scettici o negazionisti del Covid. Si tratta di professionisti che hanno sostenuto sui social network – o addirittura in tv – posizioni volte a sminuire o negare la gravità del Coronavirus come anche l’efficacia del vaccino in tutte le sue forme. Come spiega all’Ansa il presidente Antonio Magi, per 10 di loro il procedimento si è già concluso, mentre per altri tre è ancora in corso. “Si tratta di 10 colleghi che hanno espresso posizioni no vax, e tre invece negazionisti sul Covid”, ha precisato Magi. “La procedura disciplinare è partita dopo che abbiamo ricevuto da cittadini e colleghi degli esposti, corredati da documentazione”. L’iter del procedimento prevede che i medici in questione giustifichino e presentino delle spiegazioni scientifiche a supporto di quanto affermato, che vengono poi valutate da un’apposita commissione dell’Ordine. La commissione, a quel punto, dovrà decidere se procedere con una sanzione o archiviare il caso. “Per alcuni di loro c’è stata l’archiviazione – ha detto Magi – perché si sono pentiti». Per altri, invece, è già scattata la sanzione, «che è andata dalla censura all’ammonimento fino alla sospensione per 1-2 mesi”. Per i tre negazionisti del Covid, invece, il procedimento è ancora aperto. “Uno ha presentato una spiegazione, ma con il Covid i tempi disciplinari si allungano. Per questo tipo di procedimenti serve infatti la convocazione in presenza. Comunque la prima parte dell’iter è stata completata, e credo che per gennaio il nuovo consiglio, che dovrà insediarsi, riuscirà a terminare la procedura”. Ma l’obbligo di vaccino per medici potrebbe essere possibile. Il principio di base dell’ordinamento giuridico “è che ognuno è libero di fare ciò che vuole, a patto di non arrecare danno agli altri. I medici che non vogliono essere vaccinati contro il Covid, possono rimanere liberi di non vaccinarsi ma non possono esporre gli altri a rischio, lavorando a contatto con persone deboli”. Da qui può scattare l’obbligatorietà. In caso contrario “il loro datore di lavoro può non essere obbligato a farli lavorare”. A spiegarlo all’ANSA è Amedeo Santosuosso professore di diritto, scienza e nuove tecnologie presso l’Università degli studi di Pavia. Un principio questo che vale, precisa il giurista, “per tutti coloro che lavorano a contatto con il pubblico, come ad esempio gli insegnanti nella scuola”. La coazione, cioè l’obbligare fisicamente qualcuno dunque è da escludere, ma l’obbligatorietà “può scattare come conseguenza indiretta del non volersi fare vaccinare per una pura questione ideologica. Diverso sarebbe il caso – continua Santosuosso – di una persona che non può sottoporsi a vaccinazione per motivi sanitari. In quel caso il datore di lavoro è obbligato a trovargli un’altra collocazione”.

Ippolito, medici devono vaccinarsi o sospensione da servizio. (ANSA il 29 dicembre 2020) "Tutti gli operatori sanitari, a partire dai medici, devono vaccinarsi contro il Covid e se non vogliono essere vaccinati devono essere sospesi dal servizio perchè, appunto, non possono essere idonei al servizio che svolgono". E' la posizione espressa all'ANSA da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. Ci sono cioè, sottolinea Ippolito, "delle categorie professionali che devono essere vaccinate assolutamente; questo per proteggere se stessi ma anche gli altri, per i contatti estesi che le stesse categorie devono avere con la popolazione. Chi non lo accetta non può esercitare quelle determinate professioni". Per questo, spiega, "tutti gli operatori sanitari non possono esimersi dall'essere vaccinati, poichè rappresentano fonti di rischio per gli altri". Dinanzi ad un rifiuto della vaccinazione anti-Covid, conclude il direttore scientifico dello Spallanzani, "andrebbero sospesi dal servizio, poichè non idonei al suo svolgimento". (ANSA).

Covid: medico negazionista, Asl gli taglia stipendio. (ANSA il 29 dicembre 2020) Una sanzione disciplinare per aver diffuso sul web teorie negazioniste sulla pandemia. E' quanto ha deciso l'Asl To4 nei confronti di Giuseppe Delicati, medico di famiglia con studio a Borgaro, nel Torinese. In un video il medico sollevava forti dubbi sull'esistenza della pandemia e sull'efficacia del vaccino antinfluenzale, citando fonti non meglio specificate del Pentagono. Dopo l'inchiesta della procura di Ivrea per procurato allarme e la segnalazione all'ordine dei medici, l'Asl ha disposto la sanzione disciplinare che consiste nella riduzione dello stipendio "nella misura del 20% per 5 mesi cinque" a partire dal 31 dicembre.

Le imprecisioni dell'uomo di Conte. La matematica secondo Arcuri: il commissario “dà i numeri” sulle dosi di vaccino in Italia e Germania. Carmine Di Niro su il Riformista il 27 Dicembre 2020. Qualcuno aiuti il supercommissario Domenico Arcuri con la matematica. L’uomo preferito dal premier Giuseppe Conte, che gli ha affidato nel corso del 2020 tutte le emergenze legate al Coronavirus (più l’Ilva per il suo ruolo di AD di Invitalia) in una intervista al Corriere della Sera è incappato in dubbie giustificazioni per commentare la disparità di numeri tra Italia e Germania sul numero di dosi di vaccino a disposizione oggi per il V-Day. In Italia sono arrivate 9750 dosi di vaccino Pfizer-Biontech, mentre nei prossimi giorni ne arriveranno 470mila. Un numero notevolmente più basso rispetto a quanto accaduto in altri Paesi dell’Unione Europea: come ricostruito da Reuters la Germania ha ottenuto 156mila dosi, la Spagna 350mila, la Francia 19.500, in Danimarca 40mila. Perché questo trattamento diverso? Secondo Arcuri “il numero di dosi simboliche per partire tutti assieme il 27 dicembre è proporzionale alla popolazione, la Germania dalla Ue ha avuto le stesse dosi o poco più”. Parole che sono facilmente smentibili: l’Italia ha 60 milioni di abitanti, la Germania 83 milioni, circa 23 milioni di cittadini in più rispetto al nostro Paese. Delle due l’una: o Arcuri non conosce la matematica, o non conosce la geografia. Le 156mila dosi arrivate in Germania sono circa 15 volte quelle disponibili oggi in Italia, quindi secondo la ‘proporzione Arcuri’ i teutonici dovrebbero essere circa 900 milioni.

Perché la Germania ha ricevuto così tante dosi di vaccino. Federico Giuliani su Inside Over il 27 dicembre 2020. Il confronto è impari, si nota subito e non deve essere accompagnato da alcuna spiegazione. Il 26 dicembre l’Italia ha ricevuto le prime 9.750 dosi del vaccino anti Covid-19 realizzato da Pfizer-BioNTech. Una quantità minima, per avviare una campagna di vaccinazione irrisoria più che “simbolica”, come era stata definita dal commissario all’emergenza sanitaria Domenico Arcuri. La sensazione è che il governo italiano, grazie a una narrazione roboante, abbia trasformato in una vittoria trionfale quella che in realtà assomiglia molto a una chiara sconfitta sul campo. D’altronde, basta fare i conti in tasca agli altri Paesi europei per rendersene conto. Giusto per fare un esempio, c’è un abisso tra le poco meno di 10mila dosi di vaccino ottenute dall’Italia e le oltre 150mila (151.125 per l’esattezza) della Germania. Secondo Arcuri, il numero di dosi spettanti a ciascuna nazione avrebbe dovuto essere proporzionale alla popolazione presente in quegli Stati. La Germania, dall’Unione europea, “ha avuto le stesse dosi o poco più” dell’Italia e di tutti gli altri Paesi, ha dichiarato il supercommissario.

Un confronto impari. Se è importante considerare la popolazione, allora l’Italia conta circa 60 milioni di abitanti mentre la Germania 83 milioni. Il problema, come abbiamo visto, è che Roma ha ottenuto la miseria di 9.750 dosi. Importanti quanto vogliamo per lanciare un messaggio di speranza, per celebrare il primo passo di un percorso lunghissimo e via dicendo. Ma nettamente inferiori alle 150mila e passa dosi ricevute da Berlino. Calcolatrice alla mano, se la matematica non è un’opinione – e se davvero la variabile da considerare è la popolazione di una nazione – l’Italia avrebbe dovuto avere circa 10mila dosi, a fronte delle 12mila della Germania. E in effetti, per il Belpaese, così è stato. Ma per quale motivo i tedeschi hanno incamerato quasi 140mila dosi in più rispetto a quanto dovuto? Prima di provare a rispondere alla domanda, è utile fare un ulteriore confronto. Il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, è stato chiaro, parlando di un primo carico in arrivo il 26 dicembre (le famose 150mila dosi) e di altri tre carichi (per un totale di 1,9 milioni di dosi) in arrivo il 28 dicembre, il 30 dello stesso mese e nel corso della prima settimana di gennaio. Discorso completamente diverso per l’Italia, con le famigerate 9.750 dosi iniziali, a cui vanno aggiunte 470mila dosi a settimana a partire dal 28 dicembre. Per un totale di 8,749 milioni di dosi nel primo trimestre 2021 provenienti da Pfizer-BioNTech e 1,346 milioni da Moderna.

Due versioni. Facciamo un passo indietro. Il settimanale tedesco Der Spiegel aveva sollevato un polverone in merito a un presunto errore commesso dall’Europa in fase di acquisizione dei vaccini. Nei mesi scorsi Bruxelles ha stretto accordi con più aziende farmaceutiche per ottenere quanti più vaccini anti Covid possibili. La strategia seguita consisteva nel diversificare l’offerta, accordandosi con i player più promettenti in campo. Sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che la Commissione europea abbia scelto di non acquistare 340 milioni di dosi dei due vaccini più promettenti, quelli di Pfizer-BioNTech e Moderna, per rispettare le logiche commerciali. Dal momento che l’Ue intendeva suddividere le fette della torta dei vaccini in modo tale da garantire adeguate quote dell’affare a tutte le case farmaceutiche in corsa, l’inghippo capitato a uno dei player in gara, Sanofi, avrebbe mandato all’aria tutti i piani. Già, perché i francesi di Sano, che avrebbero dovuto ottenere la stessa quota degli altri, hanno riscontrato dei problemi. Morale della favola: il loro vaccino riceverà l’approvazione soltanto nel quarto trimestre del 2021. Risultato: l’Europa, di fatto, non ha acquistato diverse centinaia di milioni di vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna, nel frattempo prelevate da altri. L’indiscrezione è stata respinta dalla Commissione europea. Intanto però, secondo quanto riportato dalla Bild, il governo tedesco, probabilmente alla luce di quanto accaduto con Sano e per paura di restare all’asciutto, avrebbe acquistato più dosi dei vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna (altra indiscrezione per la quale conviene usare il condizionale). Detto altrimenti, in barba ai piani europei, Berlino potrebbe aver prelevato, per i fatti suoi, un bel po’ di vaccini. E questo mentre il resto dei Paesi europei stava aspettando (e rispettando) la suddivisione delle quote tra le case farmaceutiche in corsa. Arcuri ha tuttavia fornito un’altra spiegazione. L’ufficio del Commissario, ha sottolineato il Corsera, ha scritto in una nota che le dosi ricevute dalla Germania non sarebbero state 150mila, bensì 11mila. “Le 150mila che sono state consegnate fanno parte delle forniture successive che nel nostro Paese arriveranno a partire dal 28 dicembre. L’assegnazione è stata fatta a livello Ue sulla percentuale di popolazione, sia per il vax day sia per le forniture successive a regime. Il nostro piano di distribuzione prevede di avere 450mila dosi a settimana a partire da domani, che arriveranno direttamente nei luoghi di somministrazione”, si legge nella nota.

Corriere.it il 27 dicembre 2020. La campagna vaccinale contro il Covid — la malattia scatenata dal coronavirus — è cominciata oggi in tutta l’Unione europea, con qualche giorno di ritardo rispetto alla Gran Bretagna (che, pur essendo ancora parte dell’Ue, è partita in anticipo: e qui spieghiamo perché). Sta causando qualche polemica il numero di dosi ordinate da (e consegnate a) l’Italia per il primo giorno, e il confronto tra i diversi Paesi europei. In particolare, il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha parlato di un primo carico per il suo Paese di 151.125 dosi, arrivate il 26 dicembre. Tre altri carichi, per un totale di 1,9 milioni di dosi, dovrebbero arrivare in Germania il 28 dicembre, il 30 dicembre e durante la prima settimana di gennaio. In Italia sono arrivate, al momento, le prime 9.750 dosi. Il ministero della Salute ha però chiarito che le dosi consegnate a tutti i Paesi europei per il 27 dicembre sono in numero «simbolico»: la distribuzione vera e propria inizierà dalla settimana che inizia il 28 dicembre, e all’Italia arriveranno circa 470mila dosi ogni settimana. Secondo contratto, Pfizer-BionTech e Moderna dovrebbero consegnare all’Italia, nel primo trimestre 2021 rispettivamente 8,749 milioni di dosi e 1,346 dosi. Alla domanda sulla differenza sul numero iniziale di dosi tra l’Italia e la Germania, il Commissario Domenico Arcuri ha risposto al Corriere che «il numero di dosi simboliche per partire tutti assieme il 27 dicembre è proporzionale alla popolazione, la Germania dalla Ue ha avuto le stesse dosi o poco più». Di fronte ai dati forniti dalle autorità tedesche, che sembravano contrastare con questa affermazione, nel pomeriggio di domenica 27 dicembre l’ufficio del Commissario ha scritto in una nota che, per il vax day, la Germania avrebbe avuto non 150 mila ma 11mila dosi: «Le 150mila che sono state consegnate», si legge, «fanno parte delle forniture successive che nel nostro Paese arriveranno a partire dal 28 dicembre. L’assegnazione è stata fatta a livello Ue sulla percentuale di popolazione, sia per il vax day sia per le forniture successive a regime. Il nostro piano di distribuzione prevede di avere 450mila dosi a settimana a partire da domani, che arriveranno direttamente nei luoghi di somministrazione». Nei giorni scorsi, il settimanale tedesco Der Spiegel aveva sostenuto che l’Unione europea avesse «limitato» il numero di dosi prenotate a Pfizer e BioNTech — case farmaceutiche Usa e tedesche — per non sfavorire la francese Sanofi. La notizia era stata smentita dalla Commissione europea. In Germania, però, è cresciuta la pressione perché venissero acquistate più dosi di quel vaccino, anche al di fuori dei piani europei, e la Bild Zeitung aveva parlato di un orientamento in questo senso del governo. Queste dosi però non potrebbero arrivare prima della primavera: non è dunque questa la ragione dietro al numero così elevato di dosi con le quali la Germania inizia la sua campagna vaccinale rispetto ad altri Paesi europei. L’agenzia Reuters, il 24 dicembre, ha ricostruito la situazione delle prime consegne in diversi Paesi europei. Eccole:

Germania. Le dosi consegnate in una fase iniziale saranno, come detto, oltre 150 mila: poco meno di 10 mila per ognuno dei 16 Land. Secondo Arcuri, però, la Germania avrebbe usato per il primo giorno solo 11 mila dosi, in linea con il principio di proporzionalità rispetto alla popolazione. Entro la prima settimana di gennaio, la Germania riceverà 1,9 milioni di dosi.

Italia. Le prime dosi arrivate sono 9.750. Le prossime dosi saranno 470 mila ogni settimana.

Francia. In Francia, il 26 dicembre, sono arrivate 19.500 dosi. La Francia ha 67 milioni di abitanti.

Spagna. Secondo l’agenzia Reuters, la Spagna riceverà 350mila dosi la settimana, a partire dal 26 dicembre.

Svizzera. La Svizzera — che non fa parte dell’Unione europea — ha iniziato la sua campagna vaccinale contando su 107 mila dosi.

Portogallo. Entro la fine dell’anno saranno consegnate 80 mila dosi di vaccino.

Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Bulgaria. Le prime dosi - circa 10 mila — sono arrivate il 26 dicembre.

Ungheria. Il primo ministro, Viktor Orban, ha parlato di un primo carico di dosi di vaccino «sufficiente a vaccinare 35mila persone».

Danimarca. In Danimarca il primo carico è di 40 mila dosi.

Norvegia e Svezia. Il primo carico è di circa 10 mila dosi.

Serbia. La premier Ana Brnabic — che ha ricevuto la prima dose di vaccino del Paese il 24 dicembre — ha parlato di un primo carico di 4,875 dosi.

Questo articolo è stato aggiornato per dare conto della precisazione dell’ufficio del Commissario Domenico Arcuri.

Berlino, accordo bilaterale con Biontech per 30 mln dosi. (ANSA il 28 dicembre 2020. ) - "E' noto che la Germania abbia proceduto a un'ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la Biontech". Lo ha detto la portavoce del ministero della Salute tedesco rispondendo ad una domanda nel corso della conferenza stampa di governo a Berlino. (ANSA).

Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 28 dicembre 2020. Una quota simbolo uguale per tutti i 27 stati della Ue: 9.750 dosi per il V-day. Così era stato deciso, ma la Germania è riuscita a farsene consegnare 9.750 per ognuno dei 16 land. E quelle 151.125 fiale (una enormità rispetto agli altri Paesi ) che il ministro della Salute tedesco Jens Spahn ha annunciato di aver ricevuto il 26 dicembre hanno scatenato un putiferio di polemiche appena placato dalle rassicurazioni di Bruxelles («I vaccini saranno distribuiti entro dicembre seguendo la quota percentuale in base alla popolazione ») e dalle parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: «Presto avremo dosi sufficienti per tutti noi». Nessun chiarimento sulle quote extra per la Germania. Ma per il governo italiano non esiste nessun caso: le oltre 150.000 dosi già inviate in Germania sarebbero solo un anticipo sulla prima vera fornitura prevista tra oggi e domani in tutta Europa e non certo la quota tedesca per il V-day. Il rapporto tra dosi e popolazione previsto dal contratto tra Ue e Pfizer non è stato rispettato nella primissima fornitura non solo per la Germania ma anche per la Francia che di vaccini ne ha già ricevuti il doppio dell'Italia, 19.500, anche se da un sondaggio sembra che un francese su due non voglia usufruirne. «La trovo veramente una polemica assurda, mi sembra il complesso di Calimero, il numero di dosi assegnato alla Germania per il Vax-day era di 11.000 dosi e non 150.000. Che si riferiscono evidentemente alla prima vera fornitura che anche da noi arriverà oggi», taglia corto la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa. Dal ministero della Salute sottolineano: «I contratti con le aziende produttrici dei vaccini sono stipulati direttamente dalla Commissione europea per conto di tutti i Paesi membri dell'Unione. Ogni Paese riceve la quota percentuale di dosi in proporzione alla popolazione secondo le stime Eurostat. All'Italia è destinato il 13,46% di ogni fornitura. Questo equivale a 26,92 milioni di dosi dal contratto con Pfizer-Biontech, di cui 8,749 milioni nel primo trimestre. La consegna della prima delle forniture da 470 mila dosi settimanali è per la settimana che sta per iniziare». Insomma, il contratto è unico, le quote sono state stabilite, tutti riceveranno in proporzione alla popolazione e se qualcuno ha già avuto consegnate più dosi ne riceverà meno in seguito. Di certo, la Germania nei mesi scorsi aveva opzionato un numero ben più alto del vaccino prodotto dalla Pfizer con la tedesca Biontech, rilasciandone poi (quando sembrava che Astrazeneca tagliasse per prima il traguardo) una parte che è stata redistribuita tra tutti i 27 Stati membri della Ue. E, con 410 punti di vaccinazione già pronti, il governo tedesco ha fatto pressione per anticipare i tempi e, probabilmente, per ottenere prima di tutti una fornitura vera: quelle 151.125 dosi che - secondo il ministro Spahn diventeranno quasi due milioni entro la prima settimana di gennaio con tre nuove consegne. Anche se ieri, per un problema alla catena del freddo, in alcuni comuni della Baviera non si è riuscit i ad avviare le vaccinazioni. Saranno 12,5 milioni le dosi della Pfizer che la Ue dovrebbe distribuire entro la fine del 2020, 300 milioni quelle già ordinate all'azienda farmaceutica americana in attesa del verdetto dell'agenzia europea del farmaco sul vaccino di Moderna che potrebbe arrivare il 6 gennaio.

Liberoquotidiano.it il 28 dicembre 2020. La Germania se ne infischia delle regole e si accaparra 30 milioni di dosi di vaccino contro il coronavirus. Il Paese di Angela Merkel ha ammesso l'accordo bilaterale con Biontech (Pfizer) per l'acquisto dell'antidoto che tutti i paesi bramano. Di fatto la Germania ha rotto il patto suggellato tra la Commissione Ue e i Paesi membri per un acquisto collettivo dei vaccini. Alla faccia degli altri - è la sostanza - la Merkel si è portata avanti. Il tutto accade mentre l'Italia è alle prese con un procedimento disciplinare nei confronti di 13 camici bianchi. Questi sotto accusa per aver sostenuto su social e tv l'inutilità dei vaccini, o per aver espresso dubbi sull'esistenza del Covid.

Bruno Vespa, strepitoso vaffa alla Merkel per i vaccini: "Solo i tedeschi", così umiliano gli italiani. Libero Quotidiano il 29 dicembre 2020. L'Europa? Solo balle, solo belle parole. L'ultima drammatica e lampante dimostrazione è arrivata poche ore fa, con la Germania di Angela Merkel che ha rotto a tempo record il patto europeo sull'acquisto di vaccini agendo da sola, con patti ed acquisti privati, in barba a quanto era stabilito a livello comunitario nella battaglia contro il coronavirus. Come sempre, Berlino mostra i muscoli e gli altri, muti, subiscono. Una fastidiosa vergogna. Un caso che mette in luce tutti i limiti, eufemismo, di questa Unione Europea. Un caso che per inciso scatena anche Bruno Vespa, che punta il dito su Twitter, laddove cinguetta: "I naufraghi europei aspettano disciplinatamente in fila di salire sulle scialuppe di salvataggio. Poi arriva un panfilo e salgono a bordo solo i tedeschi...", conclude allusivo. E chi ha orecchie per intendere, intenda.

Mauro Evangelisti per ''Il Messaggero'' il 29 dicembre 2020. La Germania ha già vaccinato più del doppio di persone dell’Italia. Secondo la tabella diffusa sul sito dell’Istituto Robert Koch (l’ente ufficiale che si occupa di malattie infettive in Germania) sono già 21.566, nel nostro Paese siamo a 9.750. Qualcosa non torna. «È noto che la Germania abbia proceduto a un’ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la BioNTech» dice il portavoce del Ministero della Salute tedesco. Basta questa frase a gettare altra benzina sul fuoco della polemica, iniziata già il giorno prima, in occasione del Vaccine day, quando in Italia sono state inviate 9.750 dosi, in Germania 150.000. Interviene la Commissione europea che precisa: «Tutti gli Stati membri riceveranno le dosi del vaccino contro la Covid-19 prodotto da Pfizer e BionTech in dicembre, sulla base della stessa allocazione pro quota, che viene stabilita utilizzando una chiave di distribuzione basata sulla popolazione». All’Italia, proprio in base al numero di abitanti, deve arrivare dunque il 13,4 per cento delle dosi acquistate dalla Commissione europea. Sulla carta funziona così, non ci dovrebbero essere eccezioni, nella pratica la frase del Ministero della Salute della Germana sulle «30 milioni di dosi» sembra dire altro. Certo, BioNTech è tedesca, è stata sostenuta dal governo della Merkel e ha annunciato altri investimenti: a febbraio farà partire la produzione del vaccino anti Covid, realizzato insieme a Pfizer, anche in un nuovo stabilimento a Magdeburgo. Questa corsia preferenziale con il governo tedesco non sorprende. Però, se venisse confermata, violerebbe quanto scritto il 18 giugno in un documento della Commissione europea («Accordo degli stati membri per il reperimento del vaccino contro Covid-19»). Allora si decise un’azione congiunta dei 27 paesi, in modo da avere una maggiore forza contrattuale. All’articolo 7 c’è scritto chiaramente: «Obbligo di non negoziare separatamente». Se la Germania ha siglato un accordo bilaterale con BioNTech, quell’intesa non è stata rispettata, salvo che il contratto con l’azienda tedesca non sia precedente. L’Italia, con i vaccini promessi fino da Pfizer-BioNTech (l’unico ad oggi autorizzato dall’Ema, l’agenzia europea) e da Moderna (il via libera dovrebbe arrivare il 4 gennaio) non ha scorte sufficienti per immunizzare in tempi rapidi il 70 per cento della popolazione. Rischia di restare a guardare altri Paesi, come Germania e Regno Unito, che potrebbero vaccinare più rapidamente i propri cittadini, uscire prima dalla morsa della pandemia e dalla crisi dell’economia. Il governo italiano sta sostenendo la trattativa, sempre a livello di Commissione europea, per aumentare la fornitura di Pfizer-BioNTech del 50 per cento. Nuovo flash-back: l’11 novembre la Commissione europea firmò un contratto con le due aziende per 200 milioni di dosi (27 milioni destinate all’Italia), ma c’era una opzione per altre 100 milioni (e se si riuscirà a ottenerle, aumenterà per il nostro Paese il quantitativo di 13 milioni). La stessa trattativa è in corso con Moderna. Ma se la Germania si smarca, sfruttando il rapporto privilegiato con BioNTech, tutto si complica. Anche Moderna, finanziata pesantemente dall’amministrazione Trump, ha un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e non sarà semplice incrementare la fornitura già prevista che per l’Italia è di 10,8 milioni di dosi. Perfino più labirintico il percorso verso AstraZeneca, colosso anglosvedese con il quale l’Italia aveva un rapporto privilegiato, visto che il vaccino è stato sviluppato dall’Università di Oxford in collaborazione con un’azienda del nostro Paese, Irbm. Il 13 giugno fu annunciato da Italia, Olanda, Francia e Germania un accordo con AstraZeneca per 400 milioni di dosi. Successivamente (ed ecco il documento della Commissione europea della settimana successiva) fu però decisa una linea di azione comune per tutti i Paesi Ue. Oggi AstraZeneca, dopo alcuni intoppi della sperimentazione, non ha ancora l’autorizzazione. Nel Regno Unito danno per scontato che in queste ore arriverà il via libera dell’autorità regolatoria britannica. I media parlano di 10 mila operatori pronti a fare partire, dal 4 gennaio, la campagna di vaccinazione con AstraZeneca (100 milioni di dosi), in parallelo a quella con le fiale di Pfizer-BioNTech. In sintesi: Usa e Regno Unito corrono, la Germania mette la freccia, l’Italia non sa quante dosi, realmente, avrà a disposizione nei prossimi mesi. Molto dipende da cosa dicono i documenti sull’esito della sperimentazione, ma se Ema autorizzerà AstraZeneca, entro fine gennaio saranno consegnate almeno 5 milioni di dosi preparate in uno stabilimento di Anagni. Il lotto totale destinato, sulla carta, all’Italia è di 40 milioni.

Vaccino Covid, sugli acquisti della Germania è intervenuta l’Ue. Per l’Italia 13,5 milioni di dosi in più. Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 30/12/2020. Un giallo che ricorda i tempi della Guerra fredda. C’è stato un momento, ieri mattina, in cui siamo arrivati a un passo dall’incidente diplomatico. Se non di più. Il governo italiano stava pensando di protestare formalmente con la Germania, per la scelta di acquistare 30 milioni di dosi del vaccino anti Covid prodotto dalla Pfizer-BioNTech. Una decisione che rischiava di far saltare il principio di solidarietà tra i Paesi europei, costruito faticosamente con gli acquisti centralizzati da parte di Bruxelles, da dividere poi tra gli Stati membri. Una linea sempre predicata a favore di telecamere ma poi spesso sacrificata al primo refolo di interesse nazionale. L’incidente alla fine non c’è stato. Ma le proteste dell’Italia, assieme a quelle di molti altri Paesi europei, sono arrivate alla commissione europea. E forse le nostre sono state più accese di altre. Se la corsa al vaccino si trasformasse davvero in un liberi tutti e ognuno per sé, per l’Italia sarebbe un disastro. È vero che il governo sarebbe pronto a seguire la stessa strada imboccata dalla Germania, con accordi separati che portino dosi aggiuntive rispetto ai 202 milioni già opzionati via Bruxelles. Ma è vero anche che la dote aggiuntiva della Germania può contare sul fatto che un ramo di Pfizer—BioNTech è tedesco. Mentre l’Italia, almeno per ora, non ha aziende nazionali che producano il vaccino.

Ma nel primo pomeriggio arriva il colpo di scena. . Anzi, la toppa. A parlare è la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, non a caso tedesca: «Abbiamo deciso di prendere altre 100 milioni di dosi aggiuntive del vaccino Pfizer-BioNTech, già in uso. Avremo quindi 300 milioni di dosi di questo vaccino, che è stato valutato sicuro ed efficace. Altri vaccini seguiranno».

Non solo. Perché poche ore dopo un portavoce della commissione dice che «per quanto ne sappiamo nessuno si è assicurato dosi addizionali fuori dall’accordo Ue».

Cosa è successo, allora?

Versione buonista, la Germania si sarebbe portata avanti, bruciando l’annuncio della commissione perché quei 30 milioni, in realtà 27, rientrano nel nuovo accordo europeo. Oppure, versione a telecamere spente, la commissione è intervenuta per evitare che la fuga in avanti della Germania facesse saltare tutto. In realtà la quota tedesca sui 100 milioni aggiuntivi annunciati da Von der Leyen sarebbe più bassa: circa 20 milioni contro i 30 che hanno fatto esplodere il caso. Ma in ogni toppa i segni della cucitura restano visibili. Mancano solo lo spionaggio e il controspionaggio. E non è detto che non ci siano stati.

Germania oppure no, per l’Italia resta la necessità di accelerare sulle forniture. Tra stanotte e domattina, dopo l’ultima modifica del calendario da parte di Pfizer-BioNTech, dovrebbero arrivare altre 470 mila dosi nei 203 siti attivi per ora. Nelle quattro settimane di gennaio la media dovrebbe restare quella, 470 mila dosi. Resta il nodo degli altri vaccini. Per AstraZeneca le notizie non sono positive visto che Ema, l’ente regolatorio europeo, ha confermato che il via libera non arriverà entro gennaio. Noi ne abbiamo opzionato 40,38 milioni di dosi. Il 6 gennaio, invece, dovrebbe arrivare il via libera per Moderna. Abbiamo opzionato 10,7 milioni di dosi e, proprio per compensare in parte il ritardo di AstraZeneca, abbiamo chiesto di raddoppiarle. Due buone notizie arrivano invece sul vaccino Pfizer-BioNTech, l’unico utilizzabile al momento. Intanto i 13,5 milioni di dosi aggiuntive, la fetta italiana dei 100 milioni annunciati ieri da Von der Leyen. Non solo. Il fatto che in ogni fiala ci siano non 5 ma 6 dosi significa che potremo avere Le sei dosi, però, possono essere estratte solo con le siringhe di precisione, le famose luer lock raccomandate dalla stessa Pfizer. Le stesse che ha scelto di acquistare il commissario Domenico Arcuri, a suo tempo contestato visto che sono più costose di quelle normali, scelte da altri Paesi, che però consentono di estrarre solo cinque dosi. Per le siringhe più costose abbiamo speso 1,7 milioni in più. Ma le dosi aggiuntive ci consentono di risparmiare 63 milioni. A conti fatti, conviene.

V-DAY FLOP IN BAVIERA. Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio dell’Arti” il 29 dicembre 2020. Mille dosi del vaccino contro il Covid, destinate ad alcuni distretti della Baviera, erano in contenitori frigo che non avrebbero conservato la temperatura necessaria al trasporto del preparato. Il preparato di Pfizer e BioNTech – che, come quello di Moderna, si basa sulla rivoluzionaria tecnologia mRna, cioè Rna messaggero – va conservato a una temperatura di -70 gradi centigradi. Ora gli amministratori di alcuni distretti della Baviera hanno chiesto a Pfizer e BioNTech se il vaccino possa ancora essere utilizzato senza problemi. In caso di risposta negativa, hanno assicurato, i lotti non saranno inoculati.

Vaccino, errore in Germania: 5 dosi a testa per 8 persone. Notizie.it il 28/12/2020. In Germania è stato commesso un errore molto grave durante il V-Day: la somministrazione di 5 dosi a testa per 8 dipendenti di una casa di riposo. In una casa di riposo di Stralsund, in Germania, otto dipendenti hanno ricevuto cinque dosi di vaccino anti-Covid Pfizer BioNTech a testa, per errore. Lo ha reso noto il quotidiano tedesco Spiegel, spiegando che l’incidente è avvenuto proprio durante il V-Day, giornata in cui l’Europa si è dedicata alle prime vaccinazioni. Secondo quanto reso noto da Stefan Kerth, amministratore del distretto di Vorpommern-Rügen, otto dipendenti della casa di riposo hanno ricevuto cinque dosi di vaccino a testa e quattro di loro sono stati ricoverati in ospedale a scopo precauzionale dopo aver manifestato sintomi simil-influenzali non gravi. Le loro condizioni per il momento non destano preoccupazione e sono monitorati dai medici. Come hanno dichiarato i dirigenti sanitari del distretto di Vorpommern-Rügen, il produttore del vaccino Pfizer-BioNTech ha spiegato che dosi maggiori del farmaco erano state testate su soggetti di prova durante la fase 1 senza gravi conseguenze.

Per il momento l’unica reazione è stata caratterizzata da sintomi simili ad un influenza, da lievi a moderati. Si tratta di eventi avversi di carattere transitorio, mentre non sono stati segnalati degli eventi permanenti. Gli otto dipendenti della Rsa possono stare tranquilli. Nonostante la dose di vaccino anti-Covid moltiplicata per cinque, gli effetti collaterali sembrano non essere preoccupanti, almeno per il momento. Tutti i vaccinati sono sotto costante monitoraggio medico. Una portavoce di BioNTech ha voluto rassicurare spiegando che nei test sono state somministrate quantità di farmaco fino a 100 microgrammi senza avere conseguenze. La dose abituale di vaccinazione è di 30 microgrammi.

Iniettate cinque dosi di vaccino Cos'è successo dopo le punture. Dalla Biontech si sono affrettati a far sapere che i sovradosaggi non hanno mai prodotto gravi effetti collaterali, anche se in effetti si parla di 100 microgrammi contro i 150 che sarebbero stati inoculati agli 8 dipendenti. Federico Garau, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. La campagna di vaccinazione in Germania non ha fatto neppure in tempo ad iniziare che si sono registrati prontamente i primi inconvenienti. Stando a quanto riportato dalle principali agenzie di stampa e confermato poi da Stefan Kerth, amministratore del distretto di Vorpommern-Rügen (nella Germania nordorientale), ad otto dipendenti di una casa di riposo sarebbe stata somministrata una dose di vaccino ben cinque volte superiore al normale, quantificabile in 30 microgrammi. In parole povere, praticamente, alle vittime è stato inoculato l'intero contenuto di una delle fiale in cui viene trasportato e distribuito il siero prodotto da Pfizer-Biontech, ognuna delle quali contiene, per l'appunto, cinque dosi. L'incidente, come riportato da Der Spiegel, ha visto coinvolti otto dipendenti di una casa di riposo di Stralsund (città del Land tedesco del Meclemburgo-Pomerania Anteriore) e si è verificato proprio nella giornata di ieri, vale a dire quella dedicata in tutta Europa alle prime e sperimentali vaccinazioni anti Covid-19 operate su personale medico e sanitario. In realtà in Germania le prime inoculazioni sono avvenute nel corso di sabato 27 dicembre, ma è proprio durante la sessione di domenica che si sono registrati, come riferisce Agi, i primi inconvenienti. L'amministratore del distretto ha riferito alla stampa che le vittime sono state prontamente informate dell'incidente ed hanno ricevuto immediata assistenza sanitaria. Quattro di esse sono state trattenute in ospedale per effettuare ulteriori accertamenti, in quanto lamentavano la comparsa di effetti influenzali. I restanti quattro dipendenti della casa di riposo, invece, avrebbero potuto far ritorno a casa dall'ospedale, non avendo per il momento manifestato alcun sintomo preoccupante. "Sono profondamente dispiaciuto per questo incidente", ha dichiarato Stefan Kerth, garantendo ai giornalisti che si sarebbe trattato di un caso isolato. A correre ai ripari con dichiarazioni accomodanti la stessa casa farmaceutica produttrice del siero. Il produttore Pfizer-Biontech ha infatti spiegato che anche durante le fasi sperimentali del vaccino (nella fase 1, per la precisione), era stato testato un sovradosaggio del medicinale sulle cavie umane, senza che queste ultime sviluppassero degli effetti collaterali con gravi conseguenze. Per ora, dato che la sperimentazione si è forzatamente dovuta arrestare al breve-medio termine, si è assistito a effetti collaterali di carattere passeggero, con sintomi influenzali di non grave entità. Il portavoce della Biontech ha comunque parlato di test effettuati su dosi fino a 100 microgrammi, mentre le 5 contenute nel flacone dovrebbero raggiungere i 150 (come detto, la dose per un individuo corrisponde a 30 microgrammi). Nei prossimi giorni si potrà, probabilmente, sapere di più.

Cristina Marrone per corriere.it il 29 dicembre 2020. Un’infermiera spagnola è risultata positiva al coronavirus 24 ore dopo aver ricevuto la prima dose del vaccino di Pfizer/BioNTech. Lo riporta El Pais. La donna fa parte della squadra di vaccinatori che ha iniziato domenica scorsa a iniettare il siero ai residenti di una casa di riposo a Lleida, in Catalogna. Un test per il coronavirus effettuato il giorno successivo ha dato esito positivo. Le altre quattro infermiere dell’equipe e i 66 ospiti della struttura sono stati posti in isolamento precauzionale. Un’altra infermiera impiegata nella casa di riposo è risultata positiva ieri ma il dipartimento della Salute catalano ha spiegato che non c’è relazione tra i due casi. Le autorità non sanno spiegare cosa abbia originato il contagio. Le infermiere indossavano tute, guanti e doppia mascherina e non erano state a contatto con gli anziani per i 15 minuti che i protocolli medici definiscono contatto stretto con un positivo. Il Dipartimento della Salute non ha eseguito test diagnostici prima dell’inizio della vaccinazione sugli oltre 2.000 infermieri che partecipano al programma di immunizzazione di massa. Secondo una portavoce di Sanità si tratta di professionisti che seguono i protocolli dei rispettivi centri sanitari.

Che cosa può esser successo?

Prima di tutto è da chiarire che la protezione dal coronavirus nei primi 7 giorni dall’inoculo della prima dose del vaccino Pfizer è nulla. La protezione aumenta nel tempo ed è «completa» una settimana dopo l’inoculo della seconda dose (che avviene a distanza di 21 giorni dalla prima). Quindi nei primi giorni dopo il vaccino, come avviene anche con gli altri vaccini, non si è protetti. Ma c’è di più. L’infermiera si è positivizzata 24 ore dopo la vaccinazione: questo significa che si è infettata 1-2 giorni prima dell’immunizzazione. Insomma quando si è vaccinata era già infetta e nulla può fare il vaccino (che è preventivo) a infezione avvenuta. Il caso insomma — come spiega Silvio Garattini, presidente dell’IStituto Mario Negri — «non sorprende e non deve allarmare. Il vaccino Pfizer, l’unico distribuito al momento in Europa, ha bisogno per essere efficace di due dosi: la prima e poi un richiamo dopo 21 giorni. Quindi visto che la donna ha ricevuto solo la prima dose è chiaro che non ha ancora sviluppato immunità. E dal giorno della prima dose ne devono passare 28 per essere ragionevolmente tranquilli». La raccomandazione — spiega all’Agi — «è quella di mantenere le misure prudenziali, a partire dalle mascherine, anche una volta vaccinati. Perché sappiamo che il vaccino nel 90-95% dei casi protegge sicuramente dallo sviluppare i sintomi della malattia, che ovviamente è la cosa più importante, ma non si esclude che ci si possa comunque infettare, seppure con una carica virale bassissima. Servirà un numero di persone vaccinate sufficiente, e un lasso di tempo congruo, per scoprirlo».

(ANSA il 30 dicembre 2020) Un'infermiera che faceva parte di una squadra per la vaccinazione contro il Covid in Spagna è risultata positiva circa 24 ore dopo avere inoculato il farmaco ad alcuni anziani di una casa di riposo nella città di Lleida. Lo riferisce El Pais, aggiungendo che le quattro colleghe che la accompagnavano sono state messe in isolamento a scopo preventivo, insieme ai 66 ospiti della struttura. L'infermiera aveva iniettato il vaccino agli anziani domenica nella casa di riposo Balàfia I. Fonti del Dipartimento della Salute hanno assicurato che il rischio di contagio per i pazienti che sono stati vaccinati è minimo, perché le infermiere che facevano parte della squadra erano adeguatamente protette con camici, guanti e doppia mascherina e non sono rimaste in contatto con gli anziani ospiti più di 15 minuti. (ANSA).

Mauro Evangelisti e Antonio Pollio Salimbeni per “Il Messaggero” il 30 dicembre 2020. Dati di ieri: la Germania ha vaccinato oltre 41mila persone, l’Italia poco più di 8mila. Basterebbero questi due numeri per spiegare che la ritrovata armonia dell'Europa, nella sfida del secolo contro il coronavirus, non è così tanto solida. E a Berlino già in partenza sono arrivate più fiale. L'altro giorno il portavoce del ministero della Salute tedesco ha confermato che la Germania balla anche da sola: ha acquistato 30 milioni di dosi di Pfizer-BioNTech, al di fuori del patto dei 27 Paesi della Ue. Ma le nuvole vengono da lontano, da quando la Germania aveva guardato con diffidenza alle pressioni della Francia di Macron per non superare il quantitativo corposo di dosi di vaccino sviluppato dalla transalpina Sanofi. Ma l'11 dicembre il colosso farmaceutico ha annunciato: la sperimentazione si è rivelata insoddisfacente, se ne riparlerà a fine 2021. Der Spiegel, settimanale tedesco, ha spiegato che il governo federale era stato critico verso la scelta della Commissione europea di chiudere il negoziato con BioNTech-Pfizer (consorzio tedesco-americano) per 300 milioni di dosi a fronte di un'offerta di mezzo miliardo. Il ministro Spahn avrebbe chiesto un incremento ma, secondo il settimanale, sono emerse resistenze di altri Paesi leggasi Francia perché la commessa Sanofi/GSK, consorzio franco-britannico, prevedeva 300 milioni di dosi, e non poteva essere superata da altri gruppi. Tesi respinta come falsa da Bruxelles. Der Spiegel: «L'Unione europea ha comprato pochi vaccini, in ritardo e dai produttori sbagliati».

LE TAPPE

Promemoria: l'Europa per i Paesi membri ha opzionato 6 tipi differenti di vaccini anti Covid, per un totale di 2 miliardi di dosi. Il quantitativo più rilevante è di Johnson&Johnson (che però sta completando la sperimentazione), seguono AstraZeneca (non si sa quando ci sarà l'autorizzazione) e appunto Sanofi/Gsk. Paradossalmente i due vaccini che si sono dimostrati vincenti - Pfizer-BioNTech e Moderna - sono quelli per i quali la Commissione europea ha acquistato meno dosi. Angela Merkel, che su BioNTech (centro di eccellenza di biotecnologie fondato da due scienziati tedeschi di origine turca) ha investito molte risorse, e pressata anche dalle critiche, ha deciso di passare al contrattacco. Ha concluso un acquisto di altre 30 milioni di dosi da Pfizer-BioNTech, che si aggiungono ai 55,8 milioni di cui ha diritto dalla fornitura acquisita dalla Ue. La Germania sta trattando anche con Moderna. Pensare che l'Italia alla strategia unitaria dell'Europa ha creduto: il 13 giugno, con squilli di trombe, aveva annunciato che, insieme proprio a Germania, ma anche a Francia e Olanda, aveva raggiunto un accordo con AstraZeneca. Successivamente si è ampliata l'alleanza a tutti i 27 Paesi membri, ed ecco il famoso documento del 18 giugno: decisione della Commissione sull'approvazione dell'accordo con gli Stati membri sulla fornitura di vaccini Covid-19. Viene dato mandato alla Commissione di trattare. E all'articolo 7 si legge: «Obbligo di non negoziare separatamente. Firmando il presente accordo, gli Stati membri partecipanti confermano la loro partecipazione alla procedura e concordano di non avviare le proprie procedure in anticipo per l'acquisto del vaccino con gli stessi produttori». Una volta siglato il contratto da parte della Commissione europea, però, i Paesi membri possono concluderne altri con lo stesso produttore. Questo ha fatto la Germania, mentre l'Italia ha preferito restare sotto il solo e stretto ombrello della Commissione europea. Angela Merkel non ha violato formalmente l'intesa, ma certo il problema politico permane.

REAZIONI.

E la Commissione Europea come reagisce? «Per quanto ne sappiamo nessuno si è assicurato dosi aggiuntive al di fuori dell'accordo Ue» fa sapere. Per Bruxelles non c'è alcun problema e, d'altra parte, nessun Paese ha criticato quantomeno pubblicamente la mossa di Berlino. Si sapeva che la Germania si stava muovendo, ma aveva anche assicurato che le trattative sarebbero cominciate solo dopo aver accertato che le aziende sarebbero state in grado di soddisfare la domanda di tutti gli Stati membri della Ue. Sta di fatto che la scelta tedesca ha creato malumore a Roma e Madrid, anche se non lo hanno indicato apertamente. Dell'arrivo in Ungheria di 6 mila dosi del vaccino russo che non ha il via libera dell'autorità farmaceutica Ue, intanto, non si occupa nessuno.

Così le Forze armate hanno evitato problemi. Ma la passerella ci è costata 500mila euro. Per il trasporto utilizzati aerei di Aeronautica, Marina ed Esercito. Arcuri non ha avvertito quale valico presidiare per l'ingresso delle dosi in Italia. Chiara Giannini, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. Lo show mediatico del commissario Domenico Arcuri è partito già al confine con l'Italia, dove un furgoncino simile a quello dei surgelati, con due pinguini disegnati sopra, è arrivato (senza scorta dal Belgio) per raggiungere l'ospedale Spallanzani di Roma. In Italia ci devono essere potenti terroristi no vax, visto il grande dispiegamento di forze (dell'ordine) messo in campo. Ciò che non sapete è che l'organizzazione era così carente che da dove arrivasse il camioncino neanche chi doveva accoglierlo lo sapeva. La versione ufficiale è che per depistare eventuali malintenzionati ai tre valichi alpini sono state schierate intere pattuglie dei carabinieri. In realtà, la task force del ministro della Sanità non è stata neanche in grado di avvertire da dove arrivassero i vaccini, poi passati per il Brennero. Santi uomini in divisa, che hanno sempre una soluzione a tutto e che hanno previsto un piano per ogni emergenza. Il furgoncino è arrivato a Roma a tarda serata del 25, giorno di Natale. Ma qualcuno dice che lo stesso Arcuri avesse indicato il 24, creando confusione tra chi doveva accogliere. Perché dirottare il convoglio sulla caserma dei carabinieri di Tor di Quinto, orgogliosamente scortata dal Nucleo radiomobile dell'Arma di Roma e dalla Sos (squadra operativa di supporto) Lazio? Non è dato di saperlo. Ma l'impressione è che l'intero Ambaradan puntasse ai tg nazionali, tanto che orde di giornalisti, la mattina del 26 dicembre, si sono schierate a partire dalle 8 di fronte allo Spallanzani per aspettare un convoglio arrivato alle 11.15. Stessa scena nel pomeriggio, con i cronisti pronti dalle 16 a Pratica di Mare per vedere la partenza delle circa 7.500 dosi destinate alle varie regioni. I mezzi sono arrivati intorno alle 20. Le ragioni? Arcuri e i suoi non davano l'ok alla partenza dall'istituto di malattie infettive. E vogliamo parlare delle spese? Tutto a carico della Pfizer, dal Belgio a qui, ma non i costi degli aerei. Circa 10mila euro per ora di volo solo per i C-27 dell'Aeronautica. Circa 7mila euro per i Dornier dell'Esercito e poco più di 1.500 euro a ora per il P-180 della Marina. Solo per il carburante. Aggiungete costi del personale, manutenzione e usura dei mezzi e i 500mila euro sono raggiunti. Per il trasporto di 6 scatole ad aereo. Molti si chiederanno perché il furgoncino non si sia fermato a Milano o Torino. Sarebbe stato più semplice (e meno costoso) da lì, trasportare i vaccini alle destinazioni del nord. La risposta? «Lo Spallanzani è simbolo della lotta al Covid». Insomma, una conferma dello show nello show, come se l'Italia, in periodo di crisi, avesse soldi da spendere. Mettete, inoltre, che Arcuri al Corriere della sera ha detto che la Germania ha avuto 150mila dosi e noi solo 9.750 perché il calcolo va in base «alla popolazione» e capirete che il commissario pensa che in Germania risiedano 900 milioni di tedeschi. La verità è che la task force di Arcuri fa acqua da tutti i buchi. Buchi tappati da quelle forze armate che da inizio emergenza danno il sangue per garantire la sicurezza degli italiani. «Si dovrebbero ricordare tutti i giorni delle Forze armate - chiarisce il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri - non solo quando devono soccorrere persone e popolazioni. Vedere che la Folgore deve portare quattro vaccini in giro mi pare una volontà di spettacolarizzare la questione». La domanda è d'obbligo: perché con un sistema così efficiente come quello della Difesa il governo non ha affidato ai militari l'intera gestione dell'emergenza? La risposta sta in una politica fatta di ritardi, show mediatici tutti italiani (ne avete visto uno simile in qualsiasi a altro Paese d'Europa?) e pressappochismo che danneggia un'Italia che non ne può più. Usi un C-27 che può trasportare fino a 11,6 tonnellate di materiale per qualche chilo di vaccini? Ti devi dimettere. E lasciare spazio a chi l'emergenza la sa gestire davvero. Senza bisogno di primi piani da grande schermo.

FA per “il Giornale” il 28 dicembre 2020. Efficace, sicuro e molto più economico. Dopo il simbolico V-day europeo l'Italia aspetta le altre dosi Pfizer e quelle di Moderna che è in dirittura d'arrivo ma guarda soprattutto al via libera alla profilassi di Astrazeneca. Non soltanto perché una fiala costa meno di 3 euro ma anche perché il nostro paese ha opzionato 40 milioni di dosi dell'antidoto prodotto in collaborazione con l'università di Oxford. E dalla Gran Bretagna arriva la conferma di un probabile ok entro il 31 dicembre per poi partire con la somministrazione di massa già il 4 gennaio. Ieri Pascal Soriot, amministratore delegato della società farmaceutica, ha ribadito che è stata trovata «la formula vincente» per un vaccino efficace al 95 per cento. E l'efficacia varrebbe per tutti: la conferma dopo una sperimentazione sulla popolazione over 70 che quindi sgombererebbe il campo dai timori che il vaccino non sarebbe adatto per la popolazione più anziana che è poi quella che ne ha più bisogno. Il vaccino di Oxford, sviluppato in collaborazione con la Irbm di Pomezia, assicura Soriot, «è in grado di eliminare al 100 per cento i sintomi gravi di Covid19». Si eviterebbero dunque le complicazioni respiratorie che sono poi quelle che portano i contagiati in rianimazione. «Finora riteniamo che il vaccino sia efficace anche contro la variante inglese del virus, ma non possiamo esserne certi, così condurremo dei test», ha precisato l'ad. Il vaccino messo a punto da Astrazeneca sfrutta un meccanismo tradizionale utilizzando un virus che causa il raffreddore negli scimpanzè, reso innocuo. Al virus viene agganciata la proteina Spike di Sars Cov2. Una volta iniettato il vaccino, il nostro sistema immunitario riconosce la proteina e impara a debellarla, proteggendosi così da una eventuale infezione. La profilassi di Oxford resta stabile ad una temperatura molto più gestibile di quella necessaria per il vaccino Pfizer- BioNtech. Può essere stoccato, trasportato e maneggiato tra i 2 e gli 8 gradi centigradi e non a meno 70 come richiesto dal concorrente Pfizer. AstraZeneca si è impegnata a distribuire l'antidoto al costo di produzione: 2,8 euro a dose. Si tratta di circa un decimo del prezzo di mercato di Moderna e Pfizer. Per questo potrà essere facilmente acquistato e utilizzato nei Paesi più poveri. Il ritardo nell'arrivo del vaccino è conseguente ad un errore nella somministrazione che ha poi però rivelato che mezza dose seguita da una intera protegge in modo più efficace dal virus. Dunque dopo essere stato il primo paese occidentale ad aver dato il via alle vaccinazioni con Pfizer- BioNtech all'inizio di dicembre, il Regno Unito partirà in pole position anche con Astrazeneca. Se le sperimentazioni in atto andranno a buon fine l'Italia potrà contare su 26,92 milioni di dosi per il contratto con Johnson&Johnson; 40,38 milioni di dosi da Sanofi; 30,28 milioni di dosi da CureVac. Ma tutte queste sperimentazioni procedono molto più a rilento. Dovrebbe invece arrivare forse entro l'estate anche il vaccino tutto italiano di Reithera in collaborazione con lo Spallanzani. Uno dei 65 vaccini in fase clinica che ha completato la fase 1.

ANSA il 29 dicembre 2020. Un carico di 470mila dosi che rischia per ora di restare in Belgio a causa del maltempo, bloccato per la neve. Slitta almeno di un giorno nelle varie regioni l'arrivo del vaccino anti-Covid della Pfizer, con le regioni che al momento restano in attesa di riempire di scorte i loro hub, per poi rifornire ospedali ed Rsa, che saranno sorvegliati speciali per le forze dell'ordine. Per le strutture sono infatti pianificati dei Piani dei Prefetti, pronti a mettere al sicuro i carichi da qualsiasi tentativo di furto. Dalle 65mila dosi in Lombardia alle 44mila del Lazio, 40mila in Piemonte e 16mila in Liguria, in queste ore è comunque tutto pronto per "inondare i sistemi sanitari di vaccini", così come annunciato due mesi fa dal governo. Dopo il V-Day, in tutte le Regioni il secondo carico era previsto in queste ore, ma Piemonte e Liguria hanno già ufficializzato lo slittamento: "ragioni logistiche legate all'ondata di neve in tutta Europa", spiegano dalle due Regioni dopo una riunione in videoconferenza con il Commissario per l'Emergenza, Domenico Arcuri. Le prime dosi del nuovo lotto dovrebbero comunque arrivare entro il 30 dicembre ed essere distribuite fino al 31. E restano un giallo i tempi annunciati dalla Pfizer, che consegnerà con i propri mezzi i vaccini in 300 punti sparsi sul territorio. Il colosso farmaceutico, alcune ore prima che trapelassero i rischi di uno slittamento anche in Italia, aveva annunciato ritardi di un giorno anche in Spagna "a causa di problemi logistici" della società in Belgio smentendo le ipotesi di ritardo per l'Italia. Secondo alcune voci nelle prossime ore l'arrivo delle dosi era previsto, attraverso la gestione di una società di spedizioni tedesca, in diversi aeroporti italiani. Ma dalla struttura commissariale per l'Emergenza confermano che le fiale saranno in viaggio custodite su furgoni che partiranno da Lipsia. Il Commissario Arcuri ha avuto "conferma dalla Pfizer che le prime 469.950 dosi del vaccino, previste per l'Italia dal contratto sottoscritto dall'Unione Europea in questa settimana, arriveranno nel nostro Paese a partire da domani". La consegna, effettuata direttamente dalla Pfizer presso i primi 203 siti di somministrazione individuati dal Commissario Straordinario in accordo con le Regioni, proseguirà come comunicato da Pfizer, "nella giornata del 30 dicembre e si concluderà il 31 dicembre", aveva spiegato il Commissario Domenico Arcuri dopo aver avuto la conferma dell'arrivo di 469.950 dosi già i queste ore. E ad essere blindati saranno ospedali e reparti farmaceutici delle strutture dove saranno conservate le fiale. Prefetti e Comitati provinciali per l'ordine pubblico entreranno a breve in campo per la copertura dei servizi di sorveglianza e di scorta delle dosi nei vari territori, da parte di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza: dalla fase di distribuzione delle dosi una volta uscite dagli hub militari a quella di stoccaggio nelle strutture sanitarie. Il Viminale ha un canale aperto con il Commissario attraverso precisi protocolli. La società di spedizione e la stessa Pfizer comunicano con il Commissario, che a sua volta riferisce il calendario e la destinazione agli Interni, pronti a coordinare il tutto sui territori con una serie di staffette degli agenti nei vari luoghi, anche durante il viaggio dei vari carichi. E non si esclude che nelle prossime ore possa essere diffusa una circolare ai Prefetti in merito. Le forze dell'ordine daranno il proprio supporto anche per le vaccinazioni: 310 medici della Polizia sono a disposizione per le somministrazioni a tutto il Corpo, ma anche a semplici cittadini qualora fosse necessario. Ad attrezzarsi sono comunque anche gli ospedali, che in alcuni casi hanno comunicato ai Prefetti di aver potenziato il sistemi di sicurezza con vigilanza privata e telecamere interne. L'arrivo delle 350 mila dosi di vaccini, atteso per lunedì, è slittato in Spagna. Intanto il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha spiegato che in Germania aumenteranno i centri di produzione del vaccino Biontech-Pfizer. "Stiamo lavorando insieme alla Biontech-Pfizer, affinché ci possano essere degli ulteriori centri di produzione del vaccino a Marburgo e in Assia", ha affermato alla ZDF. Biontech ha acquisito il centro di produzione di Marburgo della Novartis. E stando all'impresa tedesca serviranno adesso solo piccoli adeguamenti, per partire con la produzione del vaccino anticovid. "E' noto che la Germania abbia proceduto a un'ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la Biontech", ha detto la portavoce del ministero della Salute tedesco rispondendo ad una domanda nel corso della conferenza stampa di governo a Berlino.

L'obiettivo è finire entro settembre. La soglia dei 42 milioni di vaccinati. Lorenzo Salvia per il "Corriere della Sera" il 27 dicembre 2020. Oggi il debutto simbolico, in contemporanea in tutta Europa. Ma poi? Il piano vaccini dell'Italia ha un obiettivo ambizioso, chiudere la campagna entro l'estate. L'idea è raggiungere l'immunità di gregge, che basta a coprire tutti, prima della riapertura delle scuole a settembre. Ma lungo la strada ci sono ancora diversi punti interrogativi: dalla data di arrivo degli altri vaccini alla effettiva distribuzione delle dosi, dalla durata dell'immunizzazione al numero delle persone che accetteranno di vaccinarsi. In base agli accordi preliminari d'acquisto, nel 2021 l'Italia avrà diritto a oltre 202 milioni di dosi. Una quantità che consentirà di coprire tutta la popolazione e di avere una scorta di riserva. Ma ci sono diversi ma. Al momento l'unico vaccino autorizzato dagli enti regolatori europeo e italiano, l'Ema e l'Aifa, è proprio quello della Pfizer con cui si comincia oggi. E che però è più complicato da distribuire visto che va conservato a una temperatura di 70 gradi sotto zero. Per gli altri vaccini una data di sbarco ancora non c'è. Il primo dovrebbe essere quello di Moderna, che non ha bisogno di una catena di distribuzione in ultra freddo, e per il quale l'Ema ha anticipato dal 12 al 6 gennaio la valutazione. Sugli altri è tutto da vedere. Per questo il quadro delle forniture resta variabile. Dovremmo avere 28 milioni di dosi nel primo trimestre del 2021, tra gennaio e marzo. Poi dovremmo salire al doppio, 57 milioni di dosi, tra aprile e giugno per poi stabilizzarci a 53 milioni tra luglio e settembre. Poi inizierebbe la discesa, restando comunque su volumi importanti, fino ai 20 milioni di dosi nel secondo trimestre del 2022. La date restano flessibili. Ma il percorso per allargare progressivamente la comunità dei vaccinati è stato disegnato. Da metà gennaio si procederà con medici, infermieri, personale e ospiti delle Rsa, le residenze sanitarie per anziani. In tutto quasi 2 milioni di persone. Subito dopo - nelle intenzioni già a febbraio ma più probabilmente verso fine marzo - si passerà alle persone con più di 80 anni, quasi 4 milioni e mezzo. Da aprile si dovrebbe procedere mano a mano verso le persone meno fragili. Prima i quasi 13 milioni e mezzo di persone che hanno tra i 60 e i 79 anni, poi i quasi 7 milioni e mezzo che hanno una comorbilità cronica, cioè la presenza di almeno due patologie. Entro l'inizio dell'estate si passerà poi al resto della popolazione, ma anche qui ci sarà un ordine di precedenza. Il piano vaccinale cita espressamente le categorie appartenenti ai «servizi essenziali come gli insegnanti e il personale scolastico, le forze dell'ordine, il personale delle carceri». In ogni caso saranno sempre possibili delle varianti in corso d'opera. La «strategia di tipo adattivo» dice che le liste di vaccinazione potrebbero essere cambiate nel caso in cui venissero identificate particolari categorie a rischio oppure si sviluppassero focolai in specifiche aree del Paese. Se il calendario vaccinale è ancora mobile i veri punti interrogativi sono due. Il primo è capire quanto durerà l'immunità dei singoli vaccini. Una risposta vera ancora non c'è. Ma resta la possibilità che la più grande campagna vaccinale della storia si debba trasformare in un'operazione di routine, da ripetere ogni anno come per l'antinfluenzale. Naturalmente con il vantaggio di non dover ripartire da zero. Il secondo punto interrogativo è la percentuale di adesione al vaccino. Per arrivare all'immunità di gregge - o meglio solidale, perché protegge anche chi il vaccino non lo può o non lo vuole fare - bisogna raggiungere circa il 70% degli italiani. A spanne 42 milioni su 60. Ci arriveremo? Il vaccino è gratuito ma non obbligatorio. Pochi giorni fa il matematico Piergiorgio Odifreddi ha proposto di dare un piccolo contributo in denaro a chi decide per il sì. Una provocazione, ma neanche troppo perché con una percentuale bassa l'intera operazione sarebbe un buco nell'acqua. Per questo si dovrebbe arrivare alla patente di immunità, la possibilità di viaggiare e di accedere ad alcuni luoghi, come gli stadi, solo se si è vaccinati.

Umberto Rapetto per infosec.news il 29 dicembre 2020. Da anni i grillini aspettavano di replicare il loro fatidico V-Day. Complice la pandemia, il “Vaffa” è stato sostituito dall’italianissima espressione “Vaccination” che ha cercato di entusiasmare una popolazione stremata dalle promesse di una soluzione al terribile “momento” che dura dal febbraio scorso. Quasi si trattasse di un prodotto di consumo, i geni della comunicazione istituzionale – non contenti di aver scelto un logo che incrocia graficamente quello di un supermercato del “Persone oltre le cose” e quello del SuperEnalotto che simboleggia l’alea – hanno suggerito persino l’individuazione di “testimonial” come negli spot promozionali. Mentre la gente continua a morire pagando il più doloroso prezzo della disorganizzazione e dell’incapacità a gestire la drammatica emergenza, si parla con eccitazione del piano di vaccinazione dimenticando di fare banali conti capaci di smontare inutili esaltazioni. Chi plaude alla fatidica notizia delle 470mila dosi di vaccino che arriveranno ogni settimana in Italia, potrebbe prendere carta e penna. Se non si dimentica che servono due dosi per ogni vaccinando e che ci sono 52 settimane in un anno, ci si accorge che – con queste cifre – per completare la missione occorrono circa 220 settimane e quindi oltre quattro anni. Prima che qualcuno si affretti a dire che “arriveranno anche i vaccini delle altre aziende”, varrebbe la pena vedere “se, come, quanti e quando” questi verranno consegnati nel nostro Paese. La spettacolarizzazione di una impegnativa e fondamentale operazione probabilmente nuoce alla sua buona riuscita. Dopo aver visto un osannato leader trebbiare a torso nudo il grano, ci prepariamo a rimirare qualche politico esibire il braccio scoperto per ricevere la fatidica iniezione. L’esibizionismo si è sempre rivelato inutile ma mai come in questi tempi c’è chi non ne può fare a meno. Impera il “mamma, sono felice di essere arrivato «uno»…” del ciclista interpretato da Walter Chiari e non ci si accorge che la sovraesposizione mediatica espone a inevitabili “meme” ogni volta che non si centra l’obiettivo. Una curiosità. Chi cerca su Google “vaccino dosi settimana” trova proprio la cifra delle 470mila dosi sul sito del Ministero della Salute. Chi fa clic, arriva su una pagina che non esiste più e viene indirizzato alla homepage del dicastero… Perché la pagina è stata rimossa?

Mancano celle frigorifere in 9 regioni Gli ostacoli nella campagna di massa. Niccolò Carratelli per "La Stampa" il 27 dicembre 2020. Essere pronti per quando si inizierà a fare sul serio. Terminate le foto ricordo del Vaccino Day, smaltite in pochi giorni le prime dosi spedite dalla Pfizer, tutte le Regioni dovranno essere in grado di ricevere e stoccare in modo sicuro una fornitura di fiale ben più consistente. Nella settimana che comincia domani, infatti, sono attese altre 450mila dosi, che diventeranno 1 milione e 834mila per la metà di gennaio. Non saranno inviate tutte a Roma e poi distribuite dall'Esercito, come avvenuto in questo assaggio di fine anno. L'azienda farmaceutica americana si è impegnata a recapitare il vaccino direttamente nei 294 punti di somministrazione individuati da Regioni e Province autonome per questa prima fase della campagna. Si tratta in gran parte di ospedali, i luoghi naturali dove procedere alla vaccinazione di medici e infermieri. Le dotazioni Di queste 294 sedi, solo 222 sono dotate delle celle ULT (ultra low temperature), necessarie per la conservazione del vaccino a -75 gradi nel lungo periodo. Secondo il piano del Commissario per l'emergenza, Domenico Arcuri, dovrebbero diventare 289 dopo il 7 gennaio, riuscendo di fatto a soddisfare il fabbisogno. Nella tabella pubblicata dalla struttura commissariale, aggiornata a dieci giorni fa, ben 9 regioni riscontravano difetti nella dotazione. In particolare in Lombardia sono documentate 38 celle su 65 punti di somministrazione, in Liguria 10 su 15, in Sardegna 8 su 12, in Sicilia 22 su 38. «Arriveremo a 27 da qui al 15 gennaio - spiegano dallo staff del presidente siciliano Musumeci - ma non è necessario avere le celle frigorifere in tutti i punti di somministrazione». I numeri sono in continuo aggiornamento. Dalla Puglia, ad esempio, dicono di aver recuperato la cella ULT mancante e ora tutti e 11 i centri di vaccinazione regionali ne sono provvisti. Sapere dove mettere il prezioso siero non è un dettaglio da poco. Gli speciali contenitori in cui verranno spedite le fiale (ognuno contiene circa 5mila dosi) possono mantenere la temperatura a -75 gradi per 10 giorni. Tra l'altro in ogni «scatola» è stato installato un sensore termico Gps, per monitorare la temperatura e la posizione di ogni pacco 24 ore su 24. Una volta tirate fuori, però, le fiale vanno usate entro 5 giorni, conservandole in frigo tra i 2 e gli 8 gradi. Oppure si possono tenere a temperatura all'interno degli stessi contenitori di trasporto, aggiungendo ghiaccio secco ogni 5 giorni, per al massimo un mese. Con le celle ULT, invece, viene garantita la conservazione in sicurezza fino a sei mesi. D'altra parte, la stessa Pfizer scommette sul fatto che la vaccinazione in una situazione di pandemia «dovrebbe essere rapida e non crediamo che il prodotto debba essere conservato per più di 30 giorni». Inoltre, la distribuzione del vaccino «si basa su un sistema flessibile just-in-time, in grado di spedire rapidamente le fiale congelate al momento del bisogno, riducendo al minimo la necessità di lunga conservazione». Facile da applicare quando i numeri, delle dosi e delle persone da vaccinare, sono nell'ordine delle migliaia, meno quando si inizierà a ragionare nell'ordine dei milioni. La seconda fornitura garantita da Pfizer sarà di 2 milioni e 507mila dosi, in totale ne dovremmo ricevere 8 milioni e 700mila nel primo trimestre del 2021. Modulare le tempistiche delle consegne nelle varie Regioni sarà fondamentale. E sarà meglio non restare senza ghiaccio secco, la cui disponibilità sul mercato nelle ultime settimane è stata messa in dubbio dagli stessi addetti ai lavori. «Per la movimentazione di milioni di vaccini il ghiaccio secco attualmente disponibile in Italia non è sufficiente», dice a La Stampa Giulio Locatelli, titolare della Locatelli Meccanica di Subbiano, in provincia di Arezzo. Comprarlo ora può costare caro, spiega, meglio produrlo in casa, «una produzione gestita dallo Stato e magari affidata all'Esercito sarebbe la soluzione più logica».

Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” l'1 gennaio 2021.

1. Cosa devo sapere prima di andare a fare il vaccino?

Il digiuno è previsto solo per le somministrazioni in ambiente protetto (ad esempio per persone che in passato abbiano avuto reazioni anafilattiche). Al momento le donne in gravidanza non sono contemplate perché non si hanno dati sui rischi. Chi ha fatto il vaccino contro l’influenza entro due settimane prima, o debba farlo nelle due settimane dopo, è invitato a spostare la vaccinazione anti-Covid.

2. Quanto dura la vaccinazione? Cosa devo fare dopo la puntura?

L’operazione di vaccinazione prevede tempi brevi di permanenza nei punti vaccinali: «Nello specifico una fase di accettazione (5 minuti), la somministrazione (5 minuti) e un periodo di osservazione, in un sala separata e vigilata, di 15 minuti», spiegano Loretta Casolari, medico di igiene ospedaliera e del lavoro del policlinico di Modena, e Vanni Borghi, infettivologo in pensione che fa parte del team vaccinale.

3. Possono esserci reazioni avverse dopo che viene somministrato?

Sì, come per ogni vaccino. Reazioni immediate, come il dolore dovuto all’iniezione, o una reazione allergica. Quest’ultima può essere lieve e si risolve con antistaminici. O grave (anafilassi): in genere si manifesta subito e si risolve con l’intervento del medico. Sono noti sei casi su due milioni. Altri eventi in ordine di frequenza: dolore per l’iniezione, febbricola, cefalea, linfonodi ingrossati, paralisi del nervo facciale.

4. Quanti giorni devono passare tra la prima e la seconda dose?

«Il vaccino è un campanello che suona nella casa del sistema immunitario, lo sveglia e lo attiva nei confronti del patogeno. Due scampanellate svegliano di più», dice Pierluigi Viale, docente universitario e direttore delle Malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna. Serve un richiamo a tre settimane dalla prima dose per aumentare la risposta immunitaria.

5. Servono nuovi controlli a distanza di tempo?

«Siamo all’inizio di una storia, la prima coorte di persone vaccinata», premette il professor Viale. Dunque, in questa fase, ci sarà una sorveglianza post vaccinale attenta. «I pazienti saranno rivalutati. Probabilmente, per qualche sottogruppo di vaccinati, faremo dei tamponi per capire se il vaccino previene la malattia o anche l’infezione».

6. Dopo che l’ho fatto mi posso considerare immune?

«Ci si può considerare immuni dopo una settimana dalla seconda dose e quindi a un mese circa dopo la prima somministrazione», dicono Casolari e Borghi. Dopo si è “protetti” nel 95% dei casi: non si hanno manifestazioni cliniche legate al Covid. «Non vi sono ancora dati sul periodo di protezione da una successiva infezione». Ma è noto che gli anticorpi in chi si è ammalato restano nell’organismo per 9-12 mesi.

7 Devo continuare a indossare la mascherina dopo il vaccino?

Assolutamente sì. «Non sappiamo con certezza se il vaccinato può infettare oppure no. Riteniamo di no, ma non è stato dimostrato. Teoricamente, dunque, potrebbe essere portatore asintomatico e, a maggior ragione, deve mettere la mascherina», spiega Viale. In generale, «il vaccinato a maggior ragione deve portarla perché è una persona fortunata che è arrivata prima al vaccino prima».

8. Dopo che ci saremo vaccinati avremo una “patente”?

Secondo il docente, oggi non ha senso parlare di patente d’immunità. «Ha senso il discorso che il vaccinato sia tracciato, ma soprattutto che sia tracciato il non vaccinato. Durante il prossimo anno ci comporteremo col Covid come adesso in termini di comportamenti personali, affinché chi non ha potuto vaccinarsi non sia un cittadino di serie B. E noi medici valuteremo i pazienti per capire l’impatto del vaccino sulla malattia».

Tutte le risposte dell'Aifa sul vaccino anticovid. Trentacinque risposte alle domande più comuni sul vaccino Pfizer Comirnaty rilasciate dall'Aifa l'agenzia italiana del farmaco. Tutto quello che c'è da sapere prima di sottoporsi alla vaccinazione. Roberta Damiata, Sabato 26/12/2020 su Il Giornale. Da domani, 27 dicembre, inizierà la vaccinazione contro il Covid-19 con il primo vaccino (Pfeizer-Niontech) che ha avuto l'approvazione dell'Agenzia Europea del farmaco l'Ema e di quella italiana l'Aifa. Le prime dosi verranno somminsistrate a medici e ad infermieri da sempre in prima linea dall'inizio della pandemia. Le domande su questa vacccinazione sono comunque molte. Dopo la nostra pubblicazione in esclusiva del foglietto illustrativo del vaccino Pfeizer, oggi l'Aifa, ha stilato 35 Faq, ovvero le domande pià frequenti, dando tutte le risposte necessarie che è importante conoscere prima di procedere alla vaccinazione.

Caratteristiche del vaccino Vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty).

Vaccino a mRNA contro COVID-19.

1. Che cos’è e a che cosa serve?

Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è un vaccino destinato a prevenire la malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) nei soggetti di età pari o superiore a 16 anni. Contiene una molecola denominata RNA messaggero (mRNA) con le istruzioni per produrre una proteina presente su SARS-CoV-2, il virus responsabile di COVID-19. Il vaccino non contiene il virus e non può provocare la malattia.

2. Come viene somministrato?

Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) viene somministrato in due iniezioni, solitamente nel muscolo della parte superiore del braccio, a distanza di almeno 21 giorni l’una dall’altra.

3. Come agisce?

I virus SARS-CoV-2 infettano le persone utilizzando una proteina di superficie, denominata Spike, che agisce come una chiave permettendo l’accesso dei virus nelle cellule, in cui poi si possono riprodurre. Tutti i vaccini attualmente in studio sono stati messi a punto per indurre una risposta che blocca la proteina Spike e quindi impedisce l’infezione delle cellule. Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è fatto con molecole di acido ribonucleico messaggero (mRNA) che contengono le istruzioni perché le cellule della persona che si è vaccinata sintetizzino le proteine Spike. Nel vaccino le molecole di mRNA sono inserite in una microscopica vescicola lipidica che permette l’ingresso del mRNA nelle cellule. Una volta iniettato, l’mRNA viene assorbito nel citoplasma delle cellule e avvia la sintesi delle proteine Spike. Le proteine prodotte stimolano il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici. In chi si è vaccinato e viene esposto al contagio virale, gli anticorpi così prodotti bloccano le proteine Spike e ne impediscono l’ingresso nelle cellule. La vaccinazione, inoltre, attiva anche le cellule T che preparano il sistema immunitario a rispondere a ulteriori esposizioni a SARS-CoV-2.Il vaccino, quindi, non introduce nelle cellule di chi si vaccina il virus vero e proprio, ma solo l’informazione genetica che serve alla cellula per costruire copie della proteina Spike. Se, in un momento successivo, la persona vaccinata dovesse entrare nuovamente in contatto con il SARS-CoV-2, il suo sistema immunitario riconoscerà il virus e sarà pronto a combatterlo. L’mRNA del vaccino non resta nell’organismo ma si degrada poco dopo la vaccinazione.

4. Che cosa contiene?

Il COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) contiene un RNA messaggero che non può propagare se stesso nelle cellule dell’ospite, ma induce la sintesi di antigeni del virus SARS-CoV-2 (che esso stesso codifica). Gli antigeni S del virus stimolano la risposta anticorpale della persona vaccinata con produzione di anticorpi neutralizzanti. L’RNA messaggero è racchiuso in liposomi formati da ALC-0315 ((4-idrossibutil)azanediil)bis(esano-6,1-diil)bis(2-esildecanoato) e ALC-0159 (2-[(polietilenglicole)-2000]-N,N-ditetradecilacetammide) per facilitare l’ingresso nelle cellule. Il vaccino contiene inoltre altri eccipienti:

1,2-Distearoyl-sn-glycero-3-phosphocholine

colesterolo

Potassio cloruro

Potassio diidrogeno fosfato

Sodio cloruro

Fosfato disodico diidrato

saccarosio

acqua per preparazioni iniettabili

Efficacia e sicurezza della vaccinazione

5. La sperimentazione è stata abbreviata per avere presto il prodotto?

Gli studi sui vaccini anti COVID-19, compreso il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), sono iniziati nella primavera 2020, perciò sono durati pochi mesi rispetto ai tempi abituali, ma hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di persone: dieci volte superiore agli standard degli studi analoghi per lo sviluppo dei vaccini. Perciò è stato possibile realizzare uno studio di grandi dimensioni, sufficienti per dimostrare efficacia e sicurezza. Non è stata saltata nessuna delle regolari fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza del vaccino: i tempi brevi che hanno portato alla registrazione rapida sono stati resi possibili grazie alle ricerche già condotte da molti anni sui vaccini a RNA, alle grandi risorse umane ed economiche messe a disposizione in tempi rapidissimi e alla valutazione delle agenzie regolatorie dei risultati ottenuti man mano che questi venivano prodotti e non, come si usa fare, soltanto quando tutti gli studi sono completati. Queste semplici misure hanno portato a risparmiare anni sui tempi di approvazione.

6. Come sono stati condotti gli studi clinici?

Uno studio clinico di dimensioni molto ampie ha dimostrato che il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è efficace nella prevenzione di COVID-19 nei soggetti a partire dai 16 anni di età. Il profilo di sicurezza ed efficacia di questo vaccino è stato valutato nel corso di ricerche svolte in sei paesi: Stati Uniti, Germania, Brasile, Argentina, Sudafrica e Turchia, con la partecipazione di oltre 44.000 persone. La metà dei partecipanti ha ricevuto il vaccino, l’altra metà ha ricevuto un placebo, un prodotto identico in tutto e per tutto al vaccino, ma non attivo. L’efficacia è stata calcolata su oltre 36.000 persone a partire dai 16 anni di età (compresi soggetti di età superiore ai 75 anni) che non presentavano segni di precedente infezione. Lo studio ha mostrato che il numero di casi sintomatici di COVID-19 si è ridotto del 95% nei soggetti che hanno ricevuto il vaccino (8 casi su 18.198 avevano sintomi di COVID-19) rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo (162 casi su 18.325 avevano sintomi di COVID-19).

7. Quanto è efficace?

I risultati di questi studi hanno dimostrato che due dosi del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) somministrate a distanza di 21 giorni l’una dall’altra possono impedire al 95% degli adulti dai 16 anni in poi di sviluppare la malattia COVID-19 con risultati sostanzialmente omogenei per classi di età, genere ed etnie. Il 95% di riduzione si referisce alla differenza tra i 162 casi che si sono avuti nel gruppo degli oltre 18mila che hanno ricevuto il placebo e i soli 8 casi che si sono avuti negli oltre 18mila che hanno ricevuto il vaccino.

8. La protezione è efficace subito dopo l’iniezione?

No, l’efficacia è stata dimostrata dopo una settimana dalla seconda dose.

9. Quanto dura la protezione indotta dal vaccino?

La durata della protezione non è ancora definita con certezza perché il periodo di osservazione è stato necessariamente di pochi mesi, ma le conoscenze sugli altri tipi di coronavirus indicano che la protezione dovrebbe essere di almeno 9-12 mesi.

10. Il vaccino può provocare la malattia COVID-19 o altre alterazioni genetiche?

Questo vaccino non utilizza virus attivi, ma solo una componente genetica che porta nell’organismo di chi si vaccina l’informazione per produrre anticorpi specifici. Non sono coinvolti virus interi o vivi, perciò il vaccino non può causare malattie. L’mRNA del vaccino come tutti gli mRNA prodotti dalle cellule si degrada naturalmente dopo pochi giorni nella persona che lo riceve.

11. Le persone vaccinate posso trasmettere comunque l’infezione ad altre persone?

Gli studi clinici condotti finora hanno permesso di valutare l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) sulle forme clinicamente manifeste di COVID-19 ed è necessario più tempo per ottenere dati significativi per dimostrare se i vaccinati si possono infettare in modo asintomatico e contagiare altre persone. Sebbene sia plausibile che la vaccinazione protegga dall’infezione, i vaccinati e le persone che sono in contatto con loro devono continuare ad adottare le misure di protezione anti COVID-19.

12. Chi esegue la prima dose con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), può fare la seconda con un altro vaccino anti Covid-19, qualora disponibile?

Non ci sono ancora dati sulla intercambiabilità tra diversi vaccini, per cui chi si sottopone alla vaccinazione alla prima dose con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), continuerà a utilizzare il medesimo vaccino anche per la seconda dose.

13. Quali reazioni avverse sono state osservate?

Le reazioni avverse osservate più frequentemente (più di 1 persona su 10) nello studio sul vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) sono stati in genere di entità lieve o moderata e si sono risolte entro pochi giorni dalla vaccinazione. Tra queste figuravano dolore e gonfiore nel sito di iniezione, stanchezza, mal di testa, dolore ai muscoli e alle articolazioni, brividi e febbre. Arrossamento nel sito di iniezione e nausea si sono verificati in meno di 1 persona su 10. Prurito nel sito di iniezione, dolore agli arti, ingrossamento dei linfonodi, difficoltà ad addormentarsi e sensazione di malessere sono stati effetti non comuni, che hanno interessato meno di 1 persona su 100. Debolezza nei muscoli di un lato del viso (paralisi facciale periferica acuta) si è verificata raramente, in meno di 1 persona su 1000.

14. Quali reazioni avverse gravi sono state osservate durante la sperimentazione?

L’unica reazione avversa severa più frequente nei vaccinati che nel gruppo placebo è stato l’ingrossamento delle ghiandole linfatiche. Si tratta, comunque, di una patologia benigna che guarisce da sola. In generale, le reazioni sistemiche sono state più frequenti e pronunciate dopo la seconda dose. Nei Paesi dove è già stata avviata la somministrazione di massa del vaccino sono cominciate anche le segnalazioni delle reazioni avverse, da quelle meno gravi a quelle più significative, comprese le reazioni allergiche. Tutti i Paesi che avviano la somministrazione del vaccino estesa a tutta la popolazione raccoglieranno e valuteranno ogni segnalazione pervenuta al sistema di farmaco vigilanza delle reazioni averse al vaccino, così da poter definire con sempre maggior precisione il tipo di profilo di rischio legato alla vaccinazione.

15. Chi sviluppa una reazione alla somministrazione a chi lo può comunicare?

La segnalazione di una qualsiasi reazione alla somministrazione del vaccino può essere fatta al proprio medico di famiglia o alla ASL di appartenenza, così come per tutte le altre reazioni avverse a qualunque farmaco, secondo il sistema nazionale di farmacovigilanza attivo da tempo in tutto il Paese.

Inoltre, chiunque può segnalare in prima persona una reazione avversa da vaccino utilizzando i moduli pubblicati sul sito AIFA.

16. Come viene rilevata l’assenza di controindicazioni?

Prima della vaccinazione il personale sanitario pone alla persona da vaccinare una serie di precise e semplici domande, utilizzando una scheda standardizzata. Se l’operatore sanitario rileva risposte significative alle domande, valuta se la vaccinazione possa essere effettuata o rinviata. Inoltre l’operatore verifica la presenza di controindicazioni o precauzioni particolari, come riportato anche nella scheda tecnica del vaccino.

17. È stata segnalata una nuova variante del virus SARS-CoV-2: il vaccino sarà efficace anche verso questa nuova variante?

I virus a RNA come SARS-CoV-2 sono soggetti a frequenti mutazioni, la maggioranza delle quali non altera significativamente l’assetto e le componenti del virus. Molte varianti di SARS-CoV-2 sono state segnalate nel 2020, ma finora queste varianti non hanno alterato il comportamento naturale del virus. La variante segnalata in Inghilterra è il risultato di una serie di mutazioni di proteine della superfice del virus e sono in corso valutazioni sugli effetti che queste possono avere sull’andamento dell’epidemia, mentre appare improbabile un effetto negativo sulla vaccinazione.

Condizioni particolari

18. Chi ha già avuto un’infezione da COVID-19, confermata, deve o può vaccinarsi?

La vaccinazione non contrasta con una precedente infezione da COVID-19, anzi potenzia la sua memoria immunitaria, per cui non è utile alcun test prima della vaccinazione. Tuttavia, coloro che hanno avuto una diagnosi di positività a COVID-19 non necessitano di una vaccinazione nella prima fase della campagna vaccinale, mentre potrebbe essere considerata quando si otterranno dati sulla durata della protezione immunitaria.

19. Le persone che soffrono di allergie possono vaccinarsi con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty)?

Le persone con una storia di gravi reazioni anafilattiche o di grave allergia, o che sono già a conoscenza di essere allergiche a uno dei componenti del vaccino mRNA BNT162b2 (Comirnaty) dovranno consultarsi col proprio medico prima di sottoporsi alla vaccinazione. Come per tutti i vaccini, anche questo deve essere somministrato sotto stretta supervisione medica. Le persone che manifestano una reazione allergica grave dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino non devono ricevere la seconda dose. Nei soggetti a cui è stato somministrato il vaccino sono state osservate reazioni allergiche (ipersensibilità). Da quando il vaccino ha iniziato a essere utilizzato nelle campagne di vaccinazione, si sono verificati pochissimi casi di anafilassi (grave reazione allergica).

20. Le donne in gravidanza o che stanno allattando possono vaccinarsi?

I dati sull’uso del vaccino durante la gravidanza sono tuttora molto limitati, tuttavia studi di laboratorio su modelli animali non hanno mostrato effetti dannosi in gravidanza. Il vaccino non è controindicato e non esclude le donne in gravidanza dalla vaccinazione, perché la gravidanza, soprattutto se combinata con altri fattori di rischio come il diabete, le malattie cardiovascolari e l'obesità, potrebbe renderle maggiormente a rischio di COVID-19 grave. L'Istituto Superiore di Sanità ha in atto un sistema di sorveglianza sulle donne gravide in rapporto a COVID-19 che potrebbe offrire ulteriori utili informazioni. Sebbene non ci siano studi sull'allattamento al seno, sulla base della plausibilità biologica non è previsto alcun rischio che impedisca di continuare l’allattamento al seno. In generale, l'uso del vaccino durante la gravidanza e l’allattamento dovrebbe essere deciso in stretta consultazione con un operatore sanitario dopo aver considerato i benefici e i rischi.

21. I bambini possono essere vaccinati con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty)?

Questo vaccino non è al momento raccomandato nei bambini di età inferiore a 16 anni. L’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha concordato con l’azienda produttrice un piano per la sperimentazione del vaccino nei bambini in una fase successiva.

22. Le persone con una documentata immunodeficienza o con malattie autoimmuni possono vaccinarsi?

Non sono ancora disponibili dati sulla sicurezza e l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) nelle persone con malattie autoimmuni, che sono comunque state incluse nelle sperimentazioni iniziali. Durante gli studi clinici non si sono osservate differenze circa la comparsa di sintomi riconducibili a malattie autoimmuni o infiammatorie tra vaccinati e soggetti trattati con placebo. Le persone con malattie autoimmuni che non abbiano controindicazioni possono ricevere il vaccino. I dati relativi all’uso nelle persone immunocompromesse (il cui sistema immunitario è indebolito) sono in numero limitato. Sebbene queste persone possano non rispondere altrettanto bene al vaccino, non vi sono particolari problemi di sicurezza. Le persone immunocompromesse possono essere vaccinate in quanto potrebbero essere ad alto rischio di COVID-19.

23. Le persone con malattie croniche, diabete, tumori, malattie cardiovascolari possono vaccinarsi?

Sono proprio queste le persone più a rischio di una evoluzione grave in caso di contagio da SARS-CoV-2, proprio a loro, quindi, si darà priorità nell’invito alla vaccinazione.

24.Le persone in trattamento con anticoagulanti possono vaccinarsi?

Le persone in cura con una terapia anticoagulante hanno una generica controindicazione a qualsiasi iniezione, per loro la vaccinazione deve essere valutata caso per caso dal proprio medico per il rischio di emorragie dal sito di iniezione.

25. Le persone che hanno fatto la vaccinazione anti influenzale da poco tempo possono vaccinarsi contro il COVID-19?

Non vi sono ancora dati sull’interferenza tra vaccinazione anti COVID-19 e altre vaccinazioni, tuttavia la natura del vaccinoCOVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) suggerisce che sia improbabile che interferisca con altri vaccini. Comunque il distanziamento di un paio di settimane può essere una misura precauzionale.

Procedure di vaccinazione

26. Chi somministrerà il vaccino?

La vaccinazione sarà effettuata da medici e infermieri dei servizi vaccinali pubblici, persone che da tempo praticano vaccinazioni e sono esperte nelle tecniche di vaccinazione. Inoltre, in considerazione della particolarità di questo vaccino, gli operatori sanitari hanno ricevuto ulteriori informazioni tecniche specifiche sulla preparazione e somministrazione del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty).

27. A chi bisogna rivolgersi per vaccinarsi?

La campagna di vaccinazione di svolgerà in più fasi successive, i cittadini saranno invitati ad effettuare la vaccinazione in un ordine di priorità definito dal rischio per le persone di infettarsi e di sviluppare la malattia con conseguenze gravi. Nella fase iniziale la vaccinazione sarà riservata al personale sanitario e al personale e agli ospiti delle residenze per anziani e le vaccinazioni saranno effettuate dal personale dei servizi vaccinali nei 286 ospedali definiti dal Piano nazionale di vaccinazione COVID-19. Lo stesso personale vaccinatore si recherà nelle residenze per anziani per la vaccinazione.

28. Quanto costa la vaccinazione?

La vaccinazione è gratuita per tutti.

29. È possibile vaccinarsi privatamente a pagamento?

No, i vaccini disponibili attualmente saranno utilizzati soltanto nei presidi definiti dal Piano vaccini e non saranno disponibili nelle farmacie o nel mercato privato. È altamente sconsigliato cercare di procurarsi il vaccino per vie alternative o su internet. Questi canali non danno nessuna garanzia sulla qualità del prodotto, che potrebbe essere, oltre che inefficace, pericoloso per la salute.

30. Il vaccino protegge solo la persona vaccinata o anche i suoi familiari?

Il vaccino protegge la singola persona, ma se siamo in tanti a vaccinarci, potremmo ridurre in parte la circolazione del virus e quindi proteggere anche tutte le persone che non si possono vaccinare: la vaccinazione si fa per proteggere se stessi, ma anche la comunità in cui viviamo.

31. La vaccinazione consente di tornare alla vita di prima?

Anche se l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 è molto alta (oltre il 90%) vi sarà sempre una porzione di vaccinati che non svilupperà la difesa immunitaria, inoltre, ancora non sappiamo in maniera definitiva se la vaccinazione impedisce solo la manifestazione della malattia o anche il trasmettersi dell’infezione. Ecco perché essere vaccinati non conferisce un “certificato di libertà” ma occorre continuare ad adottare comportamenti corretti e misure di contenimento del rischio di infezione.

32. Ci sarà vaccino per tutti?

Il Governo italiano, tramite le procedure europee, ha prenotato l’acquisto di oltre duecento milioni di dosi di vaccini anti COVID-19 da sei diversi produttori. Non ci sarà libera scelta su quale vaccino preferire: il vaccino disponibile al tempo e al luogo sarà offerto dai servizi vaccinali in piena garanzia di equivalente sicurezza ed efficacia.

33. Che tipo di siringhe verrà utilizzato?

La vaccinazione sarà effettuata con una speciale siringa sterile monouso dotata di sistema di bloccaggio dell'ago (Luer Lock) per evitare distacchi accidentali; gli aghi sterili monouso sono anche dotati di attacco di bloccaggio: le siringhe usate non vanno reincappucciate (DM 28/9/89) e saranno immediatamente depositate in appositi contenitori di smaltimento.

34. Saranno vaccinati soltanto i cittadini italiani?

Secondo lo schema di priorità definito nel Piano vaccini saranno vaccinate tutte le persone presenti sul territorio italiano, residenti, con o senza permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione.

35. Che documenti sono richiesti per effettuare la vaccinazione?

Un documento di identità valido e la tessera sanitaria. Può essere utile avere con sé anche l’eventuale documentazione sanitaria che possa aiutare il medico vaccinatore a valutare lo stato fisico.

L’ Istituto Superiore Sanità smonta le “fake news” sul vaccino anti covid. Il Corriere del Giorno il 28 Dicembre 2020. Sono tante le fake news sui vaccini, puntualmente elencate e smontate dall’Istituto Superiore di Sanità. I rischi per la salute, le paventate modifiche al nostro codice genetico, l’efficacia: sono tante le fake news sui vaccini, puntualmente elencate e smontate dall’Istituto Superiore di Sanità in un contributo pubblicato su una nuova sezione del suo sito dedicata interamente al vaccino nel giorno del V-Day.

Ecco le principali fake news:

– I vaccini anti Sars-CoV-2 sono stati preparati troppo in fretta e non sono sicuri. FALSO. I vaccini sono approvati dalle Autorità competenti solo dopo averne verificato i requisiti di qualità e sicurezza. L’Ema, l’Agenzia europea per i farmaci, ha approvato oggi il primo vaccino contro SARS-Cov-2.

– E’ inutile vaccinarsi contro il Sars CoV-2 perché il virus è già mutato e il vaccino è inefficace. FALSO. Non vi è alcuna evidenza al momento che la mutazione del virus rilevata nel Regno Unito possa avere effetti sull’efficacia della vaccinazione. I vaccini determinano la formazione di una risposta immunitaria contro molti frammenti della proteina cosiddetta Spike, quella, per intenderci, prodotta dal virus per attaccarsi alle cellule e infettarle. Quindi anche se ci fosse stata una mutazione in alcuni frammenti della proteina Spike è improbabile che possa essere sufficiente a rendere il vaccino inefficace.

– I vaccini costano tanto, potranno vaccinarsi solo i ricchi. FALSO. I vaccini in Italia saranno resi disponibili gratuitamente per tutti i cittadini, a partire dalle categorie individuate come prioritarie. La vaccinazione, seppur con tempi diversi, sarà offerta a tutti.

– Il vaccino a RNA è pericoloso perché modifica il codice genetico. FALSO. Il compito dell’RNA è solo quello di trasportare le istruzioni per la produzione delle proteine da una parte all’altra della cellula, per questo si chiama “messaggero”. In questo caso l’RNA trasporta le istruzioni per la produzione della proteina utilizzata dal virus per attaccarsi alle cellule, la proteina denominata Spike. L’organismo grazie alla vaccinazione produce anticorpi specifici prima di venire in contatto con il virus e si immunizza contro di esso.

– Il vaccino è inutile perché l’immunità dura solo poche settimane. FALSO. La protezione indotta dai vaccini, sulla base dei dati emersi durante le sperimentazioni, durerà alcuni mesi. Solo quando il vaccino sarà somministrato a larghe fasce di popolazione sarà possibile verificare se l’immunità durerà un anno, come accade con l’influenza, più anni, come accade con la vaccinazione antipneumococcica o se sarà necessario sottoporsi a richiami.

– Il vaccino è inutile perché non uccide il virus e non ferma l’epidemia. FALSO. Lo scopo del vaccino è quello di attivare il sistema di difesa dell’organismo contro il virus in modo che qualora dovesse venirne in contatto sia già pronto ad aggredirlo e renderlo inefficace.

– Dopo la vaccinazione potrò finalmente evitare di indossare la mascherina e potrò incontrare parenti e amici in libertà. FALSO. Anche dopo essersi sottoposti alla vaccinazione bisognerà continuare a osservare misure di protezione nei confronti degli altri, come la mascherina, il distanziamento sociale e il lavaggio accurato delle mani. Ciò sarà necessario finché i dati sull’immunizzazione non mostreranno con certezza che oltre a proteggere sé stessi il vaccino impedisce anche la trasmissione del virus ad altri.

Niccolò Carratelli per ''La Stampa'' il 30 dicembre 2020. Le ultime parole famose. Quelle del ministro della Salute, Roberto Speranza, l'altro ieri sul nostro giornale: «Se arriva subito al traguardo anche AstraZeneca - aveva spiegato - entro il primo trimestre si aggiungeranno 16 milioni di dosi e già dal primo aprile potremmo avere 13 milioni di vaccinati». Rischia seriamente di non andare così, se davvero passerà un altro mese prima che il vaccino sviluppato dall'università di Oxford, in collaborazione con la società Irbm di Pomezia, venga approvato dall'Agenzia europea per i medicinali. Dal ministero della Salute predicano calma: «Aspettiamo, vediamo cosa succede nei prossimi giorni - è l'invito - se ora per AstraZeneca arriva l'ok dell'autorità britannica e subito dopo di quella canadese, potrebbero crearsi condizioni favorevoli per un via libera più rapido anche da parte dell'Ema. Ricordiamoci com'è andata con il vaccino Pfizer, autorizzato in anticipo». Ottimismo che va di pari passo con il piano B annunciato dalla Commissione europea: «Dei 100 milioni di dosi aggiuntive Pfizer comprate da Bruxelles, 13 e mezzo arriveranno in Italia - spiegano dallo staff di Speranza - andando a compensare in buona parte l'eventuale ritardo di AstraZeneca. E ci sarà un ulteriore rifornimento anche del vaccino di Moderna, che dovrebbe ricevere l'autorizzazione dell'Ema il 6 gennaio».

La preoccupazione. Dobbiamo affidarci a questi numeri e a questi contratti europei, perché l'Italia non ha un asso nella manica autonomo. Non ha, cioè, accordi separati per l'acquisto dei vaccini, come quello (non confermato ufficialmente) tra il governo tedesco e la BioNTech, che dovrebbe garantire alla Germania altre 30 milioni di dosi dell'unico siero finora approvato a livello europeo, prodotto dall'azienda con sede a Magonza insieme all'americana Pfizer. Nonostante l'attuale incertezza sulle forniture, il Commissario per l'emergenza Covid, Domenico Arcuri, si mostra fiducioso: «L'annuncio di Ursula von der Leyen ci fa guardare con più serenità all'attuazione del nostro piano vaccinale - dice a La Stampa - anche in presenza di un ritardo delle dosi di AstraZeneca, per le quali si potrebbero profilare tempi più lunghi del previsto». In realtà, dalla struttura commissariale fanno filtrare una certa preoccupazione, non solo per i probabili ritardi, ma anche per il rischio che il via libera dell'Ema ad AstraZeneca arrivi alla fine con alcune limitazioni, per esempio sul fronte dell'età, rendendolo utilizzabile solo al di sotto dei 55 anni, cioè per la fascia anagrafica in cui è stata riscontrata la maggiore efficacia. Con i suoi collaboratori il commissario Arcuri ha ragionato sulle fasi della distribuzione, sottolineando margini di manovra comunque favorevoli: se anche il disco verde dell'Ema arrivasse a febbraio, saremmo ugualmente nei tempi previsti, con la fornitura entro fine marzo. Per il semplice fatto che, a quel punto, giocheremmo in casa. Al Commissario, infatti, risulta che i vaccini AstraZeneca siano già pronti nell'impianto di Anagni e potrebbero arrivare molto velocemente all'aeroporto di Pratica di Mare, per far scattare la distribuzione.

L’autorizzazione. Il dramma sarebbe un stop prolungato o un (improbabile) no secco all'autorizzazione, perché «avremmo 40 milioni di vaccini in meno e dovremmo correre ai ripari per rimpiazzarli, cosa non semplice nel breve periodo». L'azienda britannica, tra l'altro, è stata la prima a firmare un contratto con la Commissione Ue, per un totale di 300 milioni di dosi, con un'opzione per ulteriori 100 milioni. Questi ultimi, alla luce dei ritardi, rischiano di sfumare, sostituiti dai 100 milioni in più che Bruxelles ha appena ordinato a Pfizer. Impossibile non considerare le enormi ripercussioni economiche legate all'arrivo sul mercato con un mese di ritardo. Lo sanno bene all'Agenzia europea, obbligata a restare sempre al di sopra delle parti: «Non ha il potere di alterare i tempi e di dare un vantaggio competitivo a una azienda rispetto a un'altra - spiega l'ex direttore esecutivo dell'Ema Guido Rasi - anche per questo pubblica online le date di presentazione delle richieste di autorizzazione dei vaccini». La domanda di AstraZeneca sembra sempre sul punto di arrivare e poi non arriva. È stata annunciata più volte, l'ultima a inizio dicembre, senza nessun seguito concreto. Del resto, aggiunge Rasi, «una multinazionale, come Pfizer o Moderna, si muove più rapidamente rispetto a una alleanza che va da Oxford a Pomezia, con diversi interlocutori che devono comunicare e confrontarsi». Ma in ballo ci sono milioni. Di dosi e di euro.

Vaccino Covid, perché è bene parlare degli effetti collaterali. Giuliano Aluffi su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Febbre, mal di testa, brividi: Antonella Viola spiega i sintomi più frequenti. Che non sono causati dalla puntura: semmai sono il segnale che il sistema immunitario si sta attivando in modo vigoroso. Ed è meglio evitare di prendere antipiretici per abbassare la temperatura. Ieri avete ricevuto il vaccino e oggi avete febbre, mal di testa, brividi, annebbiamento mentale. Che cosa significa e cosa bisogna fare? Le risposte sono rassicuranti: quelli che avvertite sono soltanto gli effetti collaterali più citati da chi ha ricevuto il vaccino anti Covid di Pfizer, e non bisogna fare nulla di particolare, solo aspettare un giorno o due per tornare alla normalità. Perché questa è la breve durata dei sintomi, che comunque, oltre ad infastidire, possono impedire lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Ma per poco: è un piccolo e sopportabile sacrificio utile al benessere proprio e della comunità. Ma soprattutto bisogna considerare questi sintomi una buona notizia: perché indicano che il vaccino sta funzionando come dovrebbe. “Non dovremmo nemmeno chiamarli effetti collaterali, perché in realtà sono normali effetti immunologici”, spiega a Repubblica l’immunologo Paul Offit, direttore del Vaccine Education Center al Children’s Hospital di Philadelphia. “Quando il tuo sistema immunitario è stimolato, in questo caso per preparare una risposta immunitaria contro la proteina “spike” del Sars-Cov-2, una parte di questo include i sintomi. Quindi potresti avere una febbricciola, potresti avere affaticamento, potresti avere dolori muscolari o articolari. Ma durerebbero poco. Io mi sono vaccinato sabato scorso, e due giorni dopo ho avuto febbre e affaticamento. Ma non è stato un dramma, e soprattutto ero felice che il mio sistema immunitario rispondesse in quel modo al vaccino: perché è il segno di una immunità vigorosa. In genere chi ha questa reazione ha meno di 55 anni, e di solito la seconda dose ha più effetto della prima. E questo vuol dire che le persone più anziane non hanno questi effetti collaterali perché il loro sistema immunitario non è vigoroso quanto quello dei più giovani”. Gli effetti collaterali del vaccino anti Covid non sono una sorpresa: “Quello che dobbiamo dire molto chiaramente è che questi sintomi ci sono, e sono anche piuttosto frequenti. Più frequenti che con i vaccini normali: questo va detto alle persone. Che ci sia un 16% di persone che dopo la seconda iniezione avrà la febbre che supera i 38 gradi, è un’informazione che va data. Altrimenti, se succede, poi si rimane spiazzati. Questa percentuale è alta perché i vaccini anti Covid attivano molto la risposta immunitaria” spiega l’immunologa Antonella Viola, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica e docente all’università di Padova. “Però quelli che si stanno vedendo oggi sono gli stessi effetti collaterali che si conoscevano già e che erano stati riportati dettagliatamente da Pfizer nel report di conclusione degli studi di fase 3. Quindi sono cose che già si sapevano. L’unica novità che è emersa da questa campagna di vaccinazione, dopo l’approvazione del vaccino, sono i casi di allergia grave, che invece non erano stati riportati nella sperimentazione Pfizer. Questa è stata l’unica sorpresa, e dipende dal fatto che dalla sperimentazione di fase 3 si escludono le persone che hanno problemi di allergie molto gravi”. Ma tutti gli altri sintomi li conoscevamo già, e sappiamo che sono causati dall’infiammazione, ossia dalla risposta del sistema immunitario. In alcune persone il sistema immunitario reagisce più che negli altri, e quindi causa anche la febbre, il dolore alle ossa, il mal di testa. “Sono effetti delle molecole dell’infiammazione che viaggiano nell’organismo e agiscono causando dolore e febbre. Sia le citochine che altri mediatori dell’infiammazione vengono prodotti e vanno in circolo a creare questi sintomi. È un po’ quello che ci succede con le infezioni”, spiega Antonella Viola. “Quando abbiamo un’infezione, come l’influenza, non è il virus di per sé che ci sta causando il mal di testa o la febbre. Ma è la risposta del sistema immunitario che lo sta combattendo. E qui succede la stessa cosa. Quindi i sintomi che si hanno sono una conseguenza dell’attivazione del sistema immunitario. E infatti sono più frequenti e saranno più frequenti nelle seconde somministrazioni del vaccino. Perché il sistema immunitario sarà più pronto a combattere”.

Effetti collaterali più marcati con la seconda dose. Un dato che sta emergendo dalle vaccinazioni di massa che sono iniziate in molti Paesi, seppure per ora riservate soprattutto al personale sanitario, è che la seconda dose del vaccino provoca una reazione immunitaria più forte. E quindi effetti collaterali più forti. “Anche questo è normale: succede perché quando ti somministrano la seconda dose hai già i linfociti B e i linfociti T predisposti (per effetto della prima dose) per riconoscere la proteina” spiega Paul Offit. “E quindi possono reagire più velocemente e proliferare, e produrre le loro citochine, le proteine immunologiche associate a effetti collaterali come la febbre”. Febbre associata magari a brividi, come riporta un articolo recente del New York Times che intervista cittadini americani appena vaccinati. “Sono sempre i mediatori dell’infiammazione che causano i brividi”, puntualizza Antonella Viola. “Il brivido è un sistema che utilizziamo per far alzare la temperatura del nostro corpo. Facciamo così perché la temperatura aiuta a combattere le infezioni. Sono effetti del tutto normali”.

Viva la febbre. Insomma la febbre post vaccino dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti un buon segno, da accogliere con un minimo di spirito di sopportazione e un più lungimirante senso di sollievo: “Perché ogni essere che cammina, striscia, nuota o vola sulla faccia del pianeta può avere la febbre? La ragione è semplice: perché il sistema immunitario lavora meglio se la temperatura è più alta del normale - spiega Offit - se guardi alle persone che si vaccinano e poi trattano la loro febbre con antipiretici, vedi che hanno anche una minor risposta immunitaria al vaccino. Similmente, se guardi alle persone che hanno una varietà di malattie infettive, vedrai che chi di loro riduce la febbre con antipiretici tende ad avere malattie che durano più a lungo. Questo per dire che non  dovremmo essere così veloci nel trattare la febbre”.

Mi è venuta la febbre: colpa del vaccino o del virus? Chi fosse particolarmente ipocondriaco e scambiasse i sintomi dell’immunizzazione con i sintomi dell’infezione dal virus – magari perché teme di essersi contagiato per un contatto occasionale con qualcuno nel luogo dove ha ricevuto il vaccino - ha un modo per discernere tra realtà e ombre dell’immaginazione: “Se viene la febbre il giorno dopo il vaccino, e nel giro di 24 ore questa febbre sparisce, la logica ci fa pensare che sia a causa del vaccino” spiega Antonella Viola. “Se viene la tosse, invece, no: quella non può essere effetto del vaccino, perché viene a causa della replicazione del virus nei polmoni”.

Dolore al braccio. Un sintomo che è inequivocabilmente legato al vaccino, invece, è il dolore al braccio vaccinato. “Questa è la cosa più normale: è l’effetto locale dell’infiammazione - spiega Viola - quando c’è un’infiammazione, si producono delle molecole che vanno a stimolare i nostri nervi sensoriali e quindi causano la sensazione di dolore. Quindi è dovuto chiaramente a un effetto locale, che poi passa. Del resto la sensazione di indolenzimento nella zona in cui il vaccino è inoculato si ha anche con gli altri vaccini”.

La nebbia mentale. Uno dei sintomi più citati nell’immediato periodo post-vaccino è una sorta di annebbiamento delle proprie capacità cognitive, che rende difficile concentrarsi ed eseguire compiti di una certa complessità. “Anche questa sensazione di confusione dipende dall'attivazione della risposta immunitaria, quindi da queste molecole che riescono ad arrivare al livello del sistema nervoso centrale e che ci causano una sensazione di stanchezza e confusione” ci rassicura Antonella Viola. “Lo abbiamo tutti sperimentato quando abbiamo l’influenza: ci sono volte in cui abbiamo la febbre, altre in cui ci fanno male le ossa e i muscoli, e altre in cui siamo stanchi, confusi e abbiamo più bisogno del solito di dormire. Sono tutte manifestazioni della risposta del sistema immunitario”.

Reazioni allergiche. Se si esclude dalla vaccinazione chi soffre di allergie serie, come quelle alimentari, per il rischio di shock anafilattico, non dovrebbero esserci particolari motivi d’allarme riguardo alle reazioni allergiche in soggetti sani. “In genere per tutti i vaccini c’è circa una persona su un milione che ha una seria reazione allergica. È il motivo per cui a chiunque si vaccini è raccomandato di rimanere in ambulatorio per 15 minuti, proprio per assicurarsi che non si abbia quella reazione” spiega Offit. “Riguardo ai vaccini Covid, non so cosa succederà quando decine di milioni di dosi saranno somministrate: magari potrebbe esserci una seria reazione allergica un po’ più frequente rispetto alla norma: lo scopriremo. Ma in ogni caso le serie reazioni allergiche sono facilmente riconoscibili e trattabili.

Vale senz’altro la pena di vaccinarsi. È importante ricordare che tutte le reazioni che abbiamo descritto sono temporanee: “Scompaiono nel giro di un giorno. E sono di gran lunga preferibili al rischio di contrarre il Covid” spiega Antonella Viola. “Tra l’altro non toccheranno a tutti: capiterà all’incirca al 13% - 16% delle persone di avere mal di testa o febbre. È un piccolo sacrificio che ci viene richiesto per proteggere noi stessi, i nostri cari e la comunità da un problema ben più grave. Perché è vero che da un punto di vista statistico nei giovani il Covid non fa gravi danni. Ma capita anche di vedere dei giovani in terapia intensiva. Nessuno può considerarsi completamente al sicuro dal Covid: il vaccino è l’unico modo per uscirne”. Quindi sì, sono effetti collaterali, ma non è niente di grave. “Se non nel caso di persone fortemente allergiche, non c’è al momento nessun effetto grave riportato” chiosa Antonella Viola. ”E, in ogni caso, questi pazienti con episodi precedenti di anafilassi sono stati esclusi dalla vaccinazione”.

Quali rischi per il vaccino anti-Covid? Dalla gravidanza all’allergia, come essere sicuri. Elena Dusi su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Le donne in gravidanza e gli allergici gravi non sono esclusi dalla campagna. Ma dovranno valutare con il proprio medico il rapporto fra rischi e benefici. Nuovi test sui bambini diranno se l'immunizzazione è adatta anche a loro. In caso di mutazioni estese del virus, il vaccino andrebbe riprogrammato. Con il metodo dell'Rna è possibile farlo in tempi brevi.

1 - Esiste un'età massima per fare il vaccino?

Il vaccino è indicato anche per i grandi anziani. "Anzi, è importante che proprio loro siano i primi a riceverlo", sostiene Roberto Bernabei, responsabile della geriatria del Policlinico Gemelli a Roma e membro del Cts. "Il vaccino per l'influenza, che è il metro di paragone più pertinente, può essere somministrato a ogni età, senza controindicazioni". L'unico problema "è la minore capacità di attivazione del sistema immunitario degli anziani, che è diverso da quello dei giovani". Il vaccino Pfizer-BioNTech ha comunque mostrato un'efficacia del 94% anche fra gli over 65.

2 - Cosa è previsto per le donne in gravidanza o che allattano?

La scelta è lasciata alle donne e ai medici. Il problema è che i test iniziali non possono arruolare fasce a rischio come le gestanti. Le uniche informazioni arrivano dai test sugli animali, che non hanno mostrato alcun danno. Anche se il vaccino non è formalmente autorizzato, l'Aifa (Autorità italiana del farmaco) riconosce che i rischi del Covid, per le future madri, sono più alti della media. Prevede dunque che "l'uso del vaccino durante gravidanza e allattamento dovrebbe essere deciso in stretta consultazione con un operatore sanitario dopo aver considerato i benefici e i rischi". 

3 - Vaccinare i bambini non aiuterebbe a tenere aperte le scuole?

Come le donne in gravidanza, anche i bambini sono una categoria protetta che non può essere arruolata nelle sperimentazioni dei nuovi farmaci. Nessuno dei vaccini attuali, dunque, può essere somministrato sotto ai 16 anni. Anche dopo l'approvazione, comunque, le aziende produttrici proseguiranno i test, coinvolgendo in futuro anche i bambini. Questi nuovi test sono espressamente richiesti dall'Ema, l'Autorità europea dei medicinali. Le aziende non possono esimersi. Nel caso del Covid, i bambini sono considerati a rischio basso. Non avere un vaccino per loro subito non è un grave problema.

4 - Cosa saremo liberi di fare subito dopo l'iniezione?

I vaccinati in realtà non potranno fare nulla di diverso, nell'immediato. L'immunità si attiva una settimana dopo la seconda dose. L'efficacia del vaccino, per quanto alta, non è del 100%. È sempre possibile che un vaccinato ricada nella categoria, pur esigua, dei non protetti. Per saperlo, sarebbe necessario eseguire un test sierologico e verificare la presenza degli anticorpi. Non sapendo poi se i vaccinati sono riparati dai sintomi del Covid, ma restano contagiosi, bisogna mantenere mascherine e distanze per proteggere gli altri.

5 - Si può scegliere il vaccino o riceverne due diversi?

Non si può scegliere il vaccino, soprattutto in questa prima fase in cui le dosi sono molto scarse. Non è possibile ricevere la prima dose con un prodotto e la seconda con un altro: servirebbero dei test per capire se due vaccini diversi sono interscambiabili, e nessuno ha ancora avuto il tempo di farli. Chi invece riceve un vaccino in entrambe le dosi, poi aspetta una settimana, esegue un test sierologico e non mostra gli anticorpi, potrà effettuare un secondo ciclo di vaccinazione con un prodotto diverso nella speranza che il risultato sia migliore. 

6 - Cosa rischia chi soffre in modo serio di allergie?

Come tutti i vaccini, anche quelli per il Covid possono causare allergie. Negli Usa l'anno scorso si sono contate 1,31 reazioni anafilattiche ogni milione di vaccinati, senza vittime. Al momento della somministrazione del vaccino contro il Covid, l'operatore sanitario chiederà al paziente se soffre di allergie ai vaccini o ai suoi eccipienti e deciderà con lui se procedere o meno. L'importante è che l'iniezione avvenga in ambiente protetto: farmaci e presidi per contrastare le reazioni anafilattiche devono essere immediatamente disponibili e il vaccinato deve restare sotto osservazione per 15-20 minuti.

7 - E se le mutazioni dovessero rendere il vaccino inefficace?

I vaccini sono stati messi a punto prendendo come modello il virus di Wuhan. Nel frattempo sulla proteina spike usata come antigene si sono accumulate alcune mutazioni. Queste variazioni potrebbero rendere il vaccino un po' meno efficace. Difficilmente lo renderanno inutile. Soprattutto con il metodo dell'Rna, ricalibrare il vaccino per adattarlo al virus mutato non è difficile. Ugur Sahin di BioNTech, in un'intervista al Financial Times ha detto che servirebbero sei settimane. Andrebbero però ripetute le sperimentazioni, almeno la fase tre. In tutto ci vorrebbero circa tre mesi.

Caro lettore, cara lettrice,

la lettura di questo articolo è aperta anche a chi non è abbonato a Repubblica, in considerazione dell'argomento trattato e della necessità di divulgare un'informazione corretta sul tema dei vaccini.

Giuseppe Remuzzi per corriere.it il 30 dicembre 2020. La lettera Y dell’alfabeto d’autore con cui il numero di 7, eccezionalmente in edicola giovedì 24 e poi per due settimane, prende commiato dal 2020 e guarda alla vita che verrà. Ogni lettera dell’alfabeto è affidata a una grande firma del «Corriere». Interviste, spigolature, ritratti: ritroverete quello che è accaduto a noi e nel mondo, quello che vi ha colpito e commosso. Con uno sguardo già rivolto ai protagonisti del 2021. Ecco il racconto di Giuseppe Remuzzi del Cromosoma Y. Chissà quante volte nel corso di questa pandemia avrete sentito dire che gli scienziati sono divisi. Ma è proprio vero? Sì, ma solo un po’; di fatto sappiamo talmente poco di quello che sta succedendo che non ci si può meravigliare che fra gli addetti ai lavori ci siano punti di vista diversi ed è solo cercando di ricomporli che riusciremo prima o poi a venirne a capo. A domande semplicissime - come: da dove arriva questo virus? (da Wuhan, sì ma dove?); la mascherina serve solo per proteggere gli altri o è utile anche a chi la indossa?; perché gli anziani delle case di cura sono così vulnerabili? - non siamo ancora in grado di rispondere. E ancora: perché gli uomini si ammalano più facilmente delle donne? Lo si era visto già con la SARS del 2003, ma il perché sia così non lo sappiamo ancora, per quanto in questi mesi qualche idea ce la siamo fatta. La prima cosa che è venuta in mente a chi ha cercato di approfondire questo tema sono stati, come potete immaginare, i cromosomi sessuali (XY per il maschio e XX per la femmina).

Questione di cromosomi. «Allora guardiamo ai geni che alloggiano su questi cromosomi», si è chiesto qualcun altro, ed è venuto fuori che degli oltre 100 geni del cromosoma X ce ne sono almeno dieci coinvolti nella risposta immune (e di X gli uomini ne hanno uno solo!). Sul cromosoma X, per esempio, c’è il gene che codifica per una proteina - TLR7 - che sa scovare i virus a singola elica di RNA proprio come è Sars-CoV-2, responsabile della malattia che chiamiamo Covid-19. Di quella proteina gli uomini, con un solo X, ne hanno la metà rispetto alle donne (galeotto fu l’Y, è il caso di dire) e così il loro sistema immune fa molta più fatica a difendersi da questo virus. E non ditemi che nelle donne uno degli X si inattiva nella vita adulta, è vero, ma non in certe cellule del sistema immune e non per il gene TLR7. C’è un’altra considerazione da fare a proposito di X e Y: il virus Sars CoV-2 entra nelle nostre cellule attraverso un recettore, come una chiave che entra nella sua serratura e solo in quella. Ebbene, per questo virus il recettore è un enzima, si chiama Ace-2 e, guarda caso, il gene che forma quell’enzima si trova sul cromosoma X. Averne due di questi geni per le donne, è una bella fortuna, uno forma le proteine che legano il virus (e gli consentono di entrare nelle cellule) mentre l’Ace-2 in eccesso, quello che viene dal secondo X, le proteggerà dai danni al cuore e ai polmoni se si dovessero ammalare. Ma la cosa che mi ha colpito di più degli studi sui rapporti fra geni e Covid - 19 è l’associazione fra gravità della malattia e rischio di morirne e una regione molto particolare del cromosoma 3 che ospita sei geni molto speciali.

Dai Neanderthal a noi. Siamo lontani da XY ma è una storia che vale la pena di raccontare: quel pezzo di cromosoma contiene un certo numero di varianti genetiche - aplotipo - che sono arrivate fino a noi dai Neanderthal con cui l’uomo moderno si è accoppiato fra 35 mila e 85 mila anni fa, probabilmente in Medioriente dopo aver lasciato l’Africa. Questo gruppo di geni ai Neanderthal serviva eccome: è verosimile che li proteggesse da infezioni batteriche o virali altrimenti fatali. Ma oggi quelle terribili malattie sono scomparse ed ecco l’altra faccia della medaglia, chi di noi ha ereditato quell’aplotipo rischia, se si infetta con Sars-CoV-2, di avere una risposta immune esagerata (troppa grazia, Sant’Antonio insomma) che, non solo non lo protegge, ma lo espone a una malattia più severa. Di certo quando i nostri antenati hanno fatto l’amore con i Neanderthal non pensavano che i loro amplessi avrebbero fatto morire qualcuno di noi... cinquanta mila anni dopo.

Dagospia il 31 dicembre 2020. COME HANNO FATTO I CINESI A SOMMINISTRARE 3 MILIONI DI VACCINI SE IL SIERO DELLA SINOPHARM È STATO APPROVATO SOLO OGGI?

COVID: CINA, AUTORITÀ APPROVANO VACCINO SINOPHARM. (ANSA il 31 dicembre 2020) - Le autorità cinesi hanno approvato il vaccino anti-Covid messo a punto dalla società farmaceutica statale Sinopharm: lo riporta la Cnn che cita funzionari del governo. Ieri la Sinopharm ha reso noto che il suo vaccino è efficace al 79,34%. La Cina ha somministrato oltre tre milioni di dosi di vaccino anti-Covid dal 15 dicembre scorso: lo hanno reso noto oggi funzionari del governo nel dare l'annuncio dell'approvazione da parte delle autorità sanitarie nazionali del vaccino sviluppato dalla casa farmaceutica statale Sinopharm. Secondo quanto riporta la Cnn, il vice ministro della Commissione sanitaria nazionale cinese, Zeng Yixin, ha spiegato che i vaccini sono stati somministrati finora a "gruppi chiave" della popolazione, senza però entrare nei dettagli. La Cina ha avviato un controverso programma d'emergenza di vaccinazioni lo scorso luglio con l'uso di vaccini sperimentali: al 30 novembre, ha precisato Zeng, erano già state vaccinate oltre 1,5 milioni di persone considerate "ad alto rischio".

Filippo Santelli per "la Repubblica" il 31 dicembre 2020. Dopo lunga attesa un numero è finalmente arrivato: il vaccino di Sinopharm, uno dei cinque composti cinesi all' ultima fase di sperimentazione, ha un' efficacia del 79%. Ad annunciare ieri il risultato preliminare è stata la stessa azienda farmaceutica di Stato, aggiungendo di avere chiesto alle autorità il via libera alla commercializzazione. Il dato è promettente: colloca il vaccino made in China sotto a quelli di Pfizer e Moderna, oltre quota 90%, ma ben sopra la soglia del 50% considerata minima dall' Oms. Solo che quel numero e le poche righe a corredo non bastano ancora a cancellare l' alone di opacità che circonda la corsa cinese al vaccino. Nel comunicato di Sinopharm manca ogni altro indicatore utile alla comunità scientifica per valutare il composto, come il numero di persone testate o i dati sugli effetti collaterali. E in attesa di capire quando le informazioni saranno rivelate, i prodotti del Dragone continuano a essere somministrati sia in Cina che all' estero. Fin dall' inizio dell' epidemia il regime ha indicato il vaccino contro Sars-Cov-2 come un' assoluta priorità. L' obiettivo è immunizzare i cittadini, ma anche usare il preparato come strumento geopolitico: Xi Jinping ha assicurato che verrà distribuito come «bene pubblico globale », milioni di dosi sono già state vendute o promesse a decine di Paesi. Con il passare delle settimane però il ritardo dei risultati è diventato un problema. Paradosso dei paradossi: a fornire i primi via libera sono stati una serie di governi stranieri, coinvolti a vario titolo nelle sperimentazioni. Gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato ad inoculare il vaccino Sinopharm parlando di efficacia all' 86%, ma senza dettagli. Più frammentari ancora sono stati gli annunci sull' altro composto cinese, quella dell' azienda privata Sinovac: la Turchia ha fissato l' efficacia al 91%, il Brasile si è limitato a dire che è sopra il 50%. La comunicazione di Sinopharm è la prima ufficiale che viene dalla Cina, ma resta comunque incompleta, perfino al confronto con quelle della Russia in merito al suo Sputnik V. Si vedrà quanto tempo impiegheranno le autorità per l' approvazione, probabilmente pochi giorni, e se a quel punto i dati verranno integrati. Già da giugno il governo ha consentito l' utilizzo d' emergenza, cioè per categorie a rischio, di tre vaccini, inoculati a oltre un milione di persone. Diversi esperti hanno messo in guardia sui rischi di procedere prima di avere dei risultati completi, ma le autorità comuniste hanno dichiarato di non aver riscontrato gravi reazioni avverse. Il livello di pressione per il via libera sale ogni giorno di più, anche in Cina: alcuni piccoli focolai sono spuntati in varie parti del Paese, tra cui Pechino, mentre si avvicina il Capodanno lunare, 12 febbraio, quando decine di milioni di cittadini si sposteranno verso i villaggi d' origine su mezzi sovraffollati. Per scongiurare il rischio che la festa riaccenda il contagio, le autorità vogliono vaccinare entro fine gennaio 50 milioni di persone a rischio, come medici, poliziotti e lavoratori della logistica. Le linee produttive sono state rafforzate, pronte a produrre centinaia di milioni di dosi. La scorsa settimana le autorità hanno anche fatto le prove generali della distribuzione. Ma sull' efficacia delle formule il giudizio resta ancora sospeso.

DIETRO I VACCINI, UNA INDECENTE GUERRA DA 50 MILIARDI DI DOLLARI SULLA NOSTRA PELLE. DAGOREPORT: L’ANTIDOTO INGLESE DI ASTRAZENECA, PRONTO A OTTOBRE, FU “CONGELATO”: CHI AVREBBE COMPRATO IL VACCINO TEDESCO-AMERICANO DI PFIZER-BIONTECH A 20 EURO A DOSE (CON TRASPORTO A -80 GRADI) MENTRE UNA DOSE DI OXFORD COSTA 2,80 EURO E PUÒ ESSERE CONSERVATO ANCHE IN FRIGORIFERO?

DAGOREPORT il 31 dicembre 2020. Come mai il via libera al vaccino AstraZeneca non c'è ancora? Eppure Oxford ha presentato la richiesta per l'autorizzazione in largo anticipo, a ottobre. Chiamatela geo-politica. Meglio: la grande truffa del vaccino. Intanto, il vaccino Pfizer-Biontech, prodotto in duplex dagli Stati Uniti di Biden e dalla Germania della Merkel, costa 20 euro a dose (con trasporto a -80 gradi), mentre quello britannico di AstraZeneca 2,80 euro a dose senza problemi di logistica (può essere conservato anche in un frigorifero di una farmacia). Dato che Oxford era pronta a ottobre mentre quello tedesco-americano era in ritardo, occorreva “bloccare” quello britannico: chi avrebbe comprato il vaccino Pfizer-Biontech a 20 euro a dose quando era già in circolazione quello a 2,80 euro? L’affare economico del Covid è mostruoso: ci sono in ballo 50 miliardi di dollari. E qui scende in campo l'agenzia del farmaco europea Ema (dove la Germania ha il suo peso: la Merkel ha investito 400 milioni in Biontech), che ogni giorno trova un cavillo per non dare il suo via libera al vaccino inglese, in attesa che sia pronto quello tedesco-americano. A questo punto, sorge spontanea la domanda: perché Boris Johnson, con la Gran Bretagna flagellata dal virus, non ha subito dato il via ,ad ottobre, alla vaccinazione con AstraZeneca? Qui entra in ballo la spregiudicatezza politica di Boris Johnson che si trova in mezzo a due guai: la sconfitta dell’amico Trump e la complessa chiusura della Brexit. Due fronti troppo pesanti per le sue spalle. Quindi, per ingraziarsi politicamente Biden e Merkel, Johnson fa “ritardare” dalla Mhra, l'agenzia del farmaco del Regno Unito, il nulla osta ad AstraZeneca. Infatti, il vaccino di Oxford (2,80 euro a dose) ottiene l'approvazione da parte della Mhra, l'agenzia del farmaco del Regno Unito, del vaccino anti Covid di Oxford AstraZeneca, solo dopo che mezzo mondo ha già acquistato a 20 euro a dose quello di Pfizer-Biontech e la trattativa della Brexit si è conclusa. Però, con una fava, Boris ha preso due piccioni. Scrive Maria Sorbi sul “Giornale”: “se l'Inghilterra avesse approvato lo studio AstraZeneca a ottobre, quando ha ricevuto i documenti, avrebbe dovuto dividere le dosi con il resto dell' Europa. Ora che può agire secondo Brexit, si può tenere le dosi prodotte tutte per sé, fino all' autorizzazione alla distribuzione in Europa. Quindi non è da escludere che mettere AstraZeneca in coda a Pfizer abbia avuto i suoi vantaggi per molti” (vedi articolo a seguire).

Maria Sorbi per "il Giornale" il 31 dicembre 2020. L'autorizzazione dell' agenzia del farmaco europea Ema per il vaccino di AstraZeneca dovrebbe arrivare entro l' Epifania. Prima rispetto alle ipotesi degli ultimi giorni (si temeva uno slittamento dell' ok alla fine di gennaio) ma comunque in coda rispetto alla concorrenza di Pfizer. Eppure Oxford ha presentato la richiesta per l' autorizzazione in largo anticipo, a ottobre. Come mai il via libera non c'è ancora? Possibile che il «giallo» della mezza dose in meno in grado di rendere più efficace il vaccino richieda così tante verifiche da lasciare al palo proprio l' azienda che sembrava in pole position? Viene il sospetto che dietro al congelamento delle pratiche AstraZeneca ci siano ragioni più politiche che prettamente scientifiche, come è facile immaginare quando in ballo ci sono così tanti soldi e quello che è stato ribattezzato dal' Oms «l' oro liquido». Anche perché, pur non essendo scienziati, è facile intuire che se AstraZeneca avesse realmente ottenuto per prima l' autorizzazione, Pfizer - che ha realizzato un vaccino molto più costoso e infinitamente meno agevole da conservare - avrebbe faticato parecchio a piazzare anche solo un lotto di dosi. E allora cosa è accaduto nel dietro le quinte del braccio di ferro internazionale? C' è un disegno politico sulle autorizzazioni dei vaccini e sulla loro distribuzione? In fondo Pfizer è stata la chiave della campagna elettorale americana e dal suo operato dipende tuttora la credibilità del neopresidente Joe Biden, che ha promesso un milione di dosi al giorno agli americani. Punto numero due: se l' Inghilterra avesse approvato lo studio AstraZeneca a ottobre, quando ha ricevuto i documenti, avrebbe dovuto dividere le dosi con il resto dell' Europa. Ora che può agire secondo Brexit, si può tenere le dosi prodotte tutte per sé, fino all' autorizzazione alla distribuzione in Europa. Quindi non è da escludere che mettere AstraZeneca in coda a Pfizer abbia avuto i suoi vantaggi per molti. Non certo per l' Italia, che nel progetto di Oxford/AstraZeneca ha invece creduto fin dall' inizio e ha opzionato già da mesi 16 milioni di dosi per i primi tre mesi dell' anno e altri 24 milioni per il trimestre successivo. Cosa succederà se con lo slittamento dell' autorizzazione Ema queste dosi non dovessero essere disponibili nei tempi previsti? Il commissario straordinario Domenico Arcuri nei giorni scorsi ha confermato che la Ue sta negoziando un' ulteriore fornitura del vaccino Pfizer. Per l' Italia si tradurrebbe in ulteriori 13,8 milioni di dosi e permetterebbe di «tirare avanti» nonostante i rallentamenti sui tempi di AstraZeneca. Si tratta tuttavia di un nulla rispetto ai 30 milioni di dosi extra chiesti dalla Germania. Una fornitura che va oltre le quote fissate da Bruxelles per ogni stato in base alla sua popolazione. Ma il ministro tedesco Spahn usa un binario parallelo e prende accordi direttamente con le case farmaceutiche per accelerare i tempi e non creare intoppi nel piano vaccini. Come è possibile? Il premier Giuseppe Conte sostiene che non sia consentito negoziare forniture extra accordi Ue ma i fatti lo smentiscono. «Gli acquisti nazionali del vaccino anti Covid sono previsti dall' accordo-quadro dell' Ue», fa notare il ministro tedesco. E dietro la corsia preferenziale, ça va sans dire, c' è anche un governo che dei 750 milioni di euro investiti nelle aziende tedesche impegnate nello sviluppo del vaccino, ne ha dati la metà a BioNTech, che opera assieme a Pfizer.

Mic. All. per "il Messaggero" il 31 dicembre 2020. I cyber-attacchi sono iniziati quando è stato reso pubblico il prezzo di vendita del vaccino: 2,80 euro a dose. E sono proseguiti per giorni, violentissimi, lanciati parte di hacker professionisti. Hacker che ora la Procura di Roma sta cercando di individuare. I pm coordinati dal procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli hanno aperto un fascicolo per accesso abusivo al sistema informatico sul caso degli attacchi web all'Irbm di Pomezia, l'azienda che sta collaborando insieme all'università di Oxford alla messa a punto del vaccino anti-Covid prodotto e commercializzato su vasta scala da AstraZeneca. Le indagini sono state delegate al Cnaipic, Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia Postale. Nei giorni scorsi era stata l'azienda a dare l'allarme, denunciando che le incursioni dei pirati informatici nei loro software si erano intensificate quando era stata comunicata la quantità - oltre tre miliardi - di dosi che sarebbe stata prodotta. «Abbiamo avuto almeno sette attacchi molto pesanti», ha dichiarato in un' intervista Piero Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato dell' Irbm Pomezia. Solo una certezza, per il momento: gli attacchi sono stati lanciati dall' estero, o almeno così sembra. L' obiettivo dei pirati informatici, in tutte le occasioni, era accedere abusivamente ai server dell' Irbm, rubare i dati sensibili dell' operazione vaccino, probabilmente con l' obiettivo di venderli o divulgarli. «Non possiamo più utilizzare mail e telefoni per tutte le comunicazioni di dati sensibili», ha aggiunto Di Lorenzo. Si tratta di uno dei capitoli di una campagna di phishing globale denunciata nelle scorse settimane dall' Ibm, che ha come bersagli aziende e organizzazioni impegnate nello sviluppo della catena del freddo per distribuire i vaccini contro Sars-CoV-2. Secondo CybergON, azienda che si occupa di sicurezza informatica, in questi mesi è stata scatenata una vera e propria cyber-guerra per sottrarre informazioni riservate che ruotano intorno allo sviluppo e alle sperimentazioni dei vaccini, in tutto il mondo. Dal report 2020 di Enisa, l' Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell' informazione, questa attività di spionaggio industriale e informatico è aumentata tra luglio e novembre e si è incrementata in modo esponenziale quando sono arrivati gli annunci delle case farmaceutiche e sono iniziate le somministrazioni in diversi Paesi. Secondo chi indaga, diversi gruppi criminali avrebbero pianificato attacchi mirati ai server delle case farmaceutiche e ai database dei laboratori di ricerca dalla scorsa primavera, quando le ricerche sui vaccini hanno iniziato a dare i primi risultati concreti. In maggio sul dark web era già possibile reperire vaccini falsi e plasma di pazienti Covid-19. Mentre in luglio è arrivato il primo attacco a diversi laboratori americani, inglesi e canadesi da parte del gruppo Cozy Bear, conosciuto anche come Apt29. Secondo gli investigatori una parte degli attacchi sarebbe finanziato dal Paese di provenienza e dai suoi reparti di intelligence. Ma nella maggioranza dei casi i protagonisti sarebbero criminali informatici che puntano a fare montagne di soldi con informazioni riservate.

Vaccino AstraZeneca approvato in Regno Unito: ok dall’agenzia. Notizie.it il 30/12/2020. Il Regno Unito ha approvato l'utilizzo del vaccino Oxford-AstraZeneca: al via le somministrazioni insieme a quelli di Moderna e Pfizer. L’Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari del Regno Unito (MHRA) ha approvato l’utilizzo del vaccino sviluppato da AstraZeneca e dall’Università di Oxford. Si tratta del primo stato ad autorizzarne la somministrazione come già successo per l’antidoto della Pfizer, la cui approvazione era giunta prima di tutto il resto del continente. La notizia è giunta dopo la frenata da parte dell’Agenza europea del farmaco (Ema) che aveva parlato di un possibile ritardo nell’approvazione dell’antidoto originariamente prevista per gennaio. Il vicedirettore Noel Wathio aveva infatti definito improbabile il via libera entro il primo mese dell’anno. “Non hanno ancora fatto domanda, servono altri dati sulla qualità del vaccino“, aveva aggiunto. Il ministro della Salute britannico Matt Hancock ha invece affermato di aver già ricevuto da AstraZeneca e Oxford tutti i dati necessari. Tanto che a poca distanza è giunta l’autorizzazione. Secondo organi d’informazione del Regno Unito, le prime dosi potrebbero essere somministrate a partire dal 4 gennaio 2021. Sono dunque tre allo stato attuale gli antidoti anti Covid approvati e somministrati in territorio britannico: Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca-Oxford. Sono già migliaia le persone che hanno ricevuto il vaccino. L’Unione europea ne ha invece autorizzato soltanto uno (Pfizer-BioNTech) e sul vaccino di Moderna, già approvato anche in Canada e Stati Uniti, l’Ema si pronuncerà il 6 gennaio 2021.

(ANSA il 30 dicembre 2020) - Via libera nel Regno Unito al vaccino Oxford - AstraZeneca. L'ok è arrivato dall'Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari (MHRA), come riferiscono i media locali. E' il secondo vaccino ad essere approvato nell'isola dopo quello della Pfizer. La Bbc rileva che l'approvazione del vaccino Oxford-AstraZeneca costituisce un importante punto di svolta e porterà a una massiccia espansione della campagna di immunizzazione del Regno Unito, dove sono state già ordinate 100 milioni di dosi, sufficienti per vaccinare 50 milioni di persone. Il vaccino Oxford-AstraZeneca è stato progettato nei primi mesi del 2020, testato sul primo volontario ad aprile e da allora è stato sottoposto a studi clinici su larga scala che hanno coinvolto migliaia di persone. È il secondo prodotto ad essere approvato nel Regno Unito dopo quello della Pfizer-BioNTech. Ma a differenza di quest'ultimo, il farmaco Oxford-AstraZeneca è più facile da conservare perché non necessità di temperature sotto i 70 gradi. Proprio ieri l'Ema, l'agenzia europea del farmaco, aveva stimato che fosse "improbabile" l'approvazione del vaccino AstraZeneca in Europa a gennaio.

Vaccino coronavirus, AstraZeneca chiede l'ok all'Ema che replica: "Servono più informazioni". La Repubblica il 30 dicembre 2020. L'Agenzia europea per i medicinali chiede "dati scientifici addizionali rispetto alla qualità, sicurezza ed efficacia". Al via la fase due del piano vaccini: arrivato in Italia il 75% delle dosi Pfizer, l'altro 25% atteso per domani. "Possiamo confermare di aver presentato un pacchetto completo di dati a sostegno di una domanda di autorizzazione all'immissione in commercio condizionale per il vaccino AstraZeneca Covid-19 all'Agenzia europea per i medicinali". A confermarlo è un portavoce di AstraZeneca, la multinazionale che, insieme all'Università di Oxford e a Irbm Pomezia, ha progettato uno dei candidati vaccini anti-Covid. "AstraZeneca - spiega l'azienda - ha inviato i dati su base continuativa e continuerà a lavorare a stretto contatto con l'Ema per supportare l'inizio di un processo formale di richiesta Cma. Un approccio simile alla fornitura di dati su base continuativa è stato adottato con altre autorità di regolamentazione in tutto il mondo". Una notizia che segue di poche ore il via libera da parte del Regno Unito al vaccino di Oxford. Ulteriori informazioni sul candidato vaccino anti-Covid Oxford-AstraZeneca sono state ricevute dall'Agenzia europea per i medicinali Ema da parte dell'azienda "durante il periodo di Natale, in risposta alle domande dei team di valutazione sui dati". Lo apprende l'ANSA da fonti Ema, che sottolineano come "la valutazione di queste informazioni è in corso". La task force Ema su Covid-19 discuterà a breve dei dati con il Comitato Ema per i medicinali ad uso umano (CHMP). La stessa Ema annuncia proprio sito che sono necessarie "informazioni scientifiche addizionali rispetto alla qualità, sicurezza ed efficacia" del candidato vaccino anti-Covid Oxford-AstraZeneca. "Informazioni ritenute necessarie per supportare il rigore richiesto per una autorizzazione al mercato condizionata".

Vaccini, ecco perché la Gran Bretagna ha già approvato quello di Astra-Zeneca. Luca Fraioli su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Londra dà il via libera mentre l'Unione Europea aspetterà fino a fine gennaio: i motivi di una decisione che ha risvolti politici oltre che scientifici. Nel Regno Unito condotti studi più specifici sul preparato di Oxford già da mesi. UK-Europa due a zero. Dopo il vaccino Pfizer, Londra approva prima degli altri (e soprattutto prima della Ue) il ritrovato Astra-Zeneca a cui ha lavorato l’Università di Oxford. C’è da chiedersi: come mai? I funzionari britannici della Medicines and Healthcare products Regulatory Authority (MHRA) sono più efficienti e capaci dei loro colleghi dell’EMA, l’agenzia del farmaco europea? O forse sono più accondiscendenti con una politica che preme per avere in fretta una soluzione all’emergenza Covid da spendere con l’opinione pubblica? Difficile districarsi in una vicenda che intreccia verità scientifiche e battaglie politiche come quella appena conclusasi della Brexit. Ecco però alcune risposte.

La MHRA è una istituzione seria? Nella comunità scientifica l’Agenzia regolatori britannica è considerata una delle più rigorose. Difficile che abbia approvato i vaccini Pfizer e Astra-Zeneca per accondiscendenza al governo. Certamente però, in pieno spirito Brexit, ha proceduto autonomamente senza coordinarsi con le equivalenti autori europee.

Come mai gli inglesi hanno approvato i vaccini per primi? Ancora non si conoscono i dettagli della procedura che ha portato all’ok per il vaccino Astra-Zeneca, anche se la decisione di approvare il vaccino ha fatto seguito a "rigorosi studi clinici e un'analisi approfondita dei dati da parte di esperti dell'MHRA, che ha concluso che il vaccino ha soddisfatto i suoi rigorosi standard di sicurezza, qualità ed efficacia”. Sappiamo però qual è stato il metodo seguito per il vaccino Pfizer: anche in quel caso il Regno Unito fu il primo paese al mondo ad approvarlo, il 2 dicembre. Quel giorno June  Raine, direttrice della MHRA, spiegò il processo usando la metafora di una scalata: “Abbiamo abbiamo iniziato a prepararci nel giugno scorso. Lavorando sui dati parziali fornitici dall’azienda il 10 novembre scorso eravamo al campo base. Poi con le analisi finali abbiamo fatto l’ultimo sprint e oggi siamo arrivati in vetta”. Il segreto inglese sarebbe dunque l’aver lavorato in parallelo con le case farmaceutiche impegnate nella caccia al vaccino. Senza attendere, come si fa normalmente, che tutte le fasi della sperimentazione di un farmaco siano state completate perché le agenzie inizino l’iter che porterà alla sua approvazione.

Nel Regno Unito sono stati condotti studi più specifici? Sì. Lo studio più ampio relativo al vaccino Astra-Zeneca è stato condotto su 11.636 volontari e ha portato a concludere che il vaccino dà una copertura del 62%. Un secondo studio realizzato solo in Gran Bretagna su 2.741 persone a cui è stata iniettata mezza dose e poi una dose intera quattro settimane dopo, ha invece dimostrato una efficacia del 90%.

A che punto è la procedura europea per il vaccino Astra-Zeneca? La riunione per l’eventuale via libera è prevista il 6 gennaio. Ma ieri l’Ema ha fatto sapere che i dati forniti da Astra-Zeneca sono considerati insufficienti anche per una licenza provvisoria. L’azienda, una multinazionale con il quartier generale nel Regno Unito, avrebbe consegnato solo le informazioni relative ai propri studi clinici, mentre ne servirebbero di aggiuntivi sulla qualità del vaccino. Inoltre, la compagnia non avrebbe neppure fatto domanda formale di approvazione all’Ema.

Gli europei sono gli unici in ritardo? No, anche la più importante e rigorosa agenzia del farmaco mondiale, la Food and Drug Administration (FDA) americana non ha ancora approvato il vaccino Astra-Zeneca. La multinazionale sta conducendo un ampio studio negli Stati Uniti e probabilmente solo quando sarà stato completato la FDA si esprimerà. In particolare l’Agenzia Americana vuole più dati sulla protezione che il vaccino offre alle persone anziane e alle minoranze etniche. 

Un mix esplosivo contro il Covid: ora studiano il super-vaccino. AstraZeneca e i russi del vaccino "Spuntik V" uniranno le forze per trial congiunti che potranno dar vita ad un super vaccino contro il Covid. Alessandro Ferro, Domenica 27/12/2020 su Il Giornale. L'unione fa la forza: in tempi di Covid vale anche per i vaccini. Oltre alla "corsa" che decine di aziende nel mondo, ognuna per la sua strada, stanno facendo per mettere a punto il prodotto migliore per bloccare il virus, c'è anche un caso che non si verifica spesso: AstraZeneca e Sputnik V hanno deciso di unire le forze e miscelare i loro vaccini.

La nota di AstraZeneca. L'azienda biofarmaceutica britannico-svedese AstraZeneca ha detto che proverà il suo vaccino anti-Covid in combinazione con quello russo dopo che il mese scorso alcuni scienziati russi avevano suggerito che l'unione dei due preparati potrebbe aumentarne l'efficacia. Per saperne di più, abbiamo provato a metterci in contatto con le rispettive aziende: l'Istituto Gamaleya con sede a Mosca non ha mai risposto, AstraZeneca ci ha inviato una nota in cui viene sottolineato come, per "superare la pandemia COVID-19, sarà necessario più di un vaccino e dato che diversi vaccini sono in fase di sperimentazione e/o approvazione, è importante capire come possono essere utilizzati, la loro intercambiabilità o il loro potenziamento. Essere in grado di combinare diversi vaccini può essere utile per migliorare la protezione e/o l'accesso ai vaccini e per questa ragione è importante esplorare diverse combinazioni al fine di contribuire a rendere i programmi di immunizzazione più flessibili, consentendo ai medici una scelta più ampia al momento della somministrazione". "Unione anche con altri vaccini". La nota di AstraZeneca si conclude con una riflessione che spiana la strada nel "valutare combinazioni eterologhe di diversi vaccini, lavorando con partner industriali, governi e istituti di ricerca in tutto il mondo, e presto inizierà a collaborare con il Gamaleya Research Institute in Russia per capire se due vaccini a base di adenovirus possono essere combinati con successo". In pratica, non è escluso che possa esserci l'unione anche con vaccini di altre aziende. Kirill Dmitriev, capo del fondo sovrano russo RDIF (Fondo russo per gli investimenti diretti) che ha finanziato lo Sputnik V, ha dichiarato "la forza della tecnologia Sputnik V e la nostra volontà e desiderio di collaborare con altri vaccini per combattere insieme Covid", secondo quanto riportato dal Messaggero.

Come funzionano. Le prove inizieranno a giorni, sono previste entro la fine dell'anno. Ma cos'hanno in comune i due vaccini anti-Covid? Intanto, l'italo-inglese sviluppato da AstraZeneca assieme all'azienda Irmb di Pomezia, chiamato AZD1222, ha dimostrato di avere un'efficacia del 62,1% se somministrato in due dosi intere ma l'efficacia aumenta fino al 90% nei volontari che hanno ricevuto mezza dose seguita da una dose intera. È quanto emerso dall'analisi provvisoria degli studi di fase tre, pubblicata sulla rivista Lancet. Nel vaccino è stato sviluppato un tipo di vettore virale non replicante che utilizza un virus innocuo per stimolare il sistema immunitario di un ricevente a sviluppare anticorpi. Rispetto ai vaccini ad mRNA di Pfizer e Moderna, l’iniezione di AstraZeneca è più facile ed economica da produrre, trasportare e conservare (in frigo tra 5 ed 8 gradi). L'Italia punta molto su questo vaccino: ne ha acquistato ben 40,38 milioni di dosi, secondo soltanto a quelli dell'azienda Johnson & Johnson con 53,84 milioni. Ecco lo Sputnik V. Come il vaccino Oxford-Pomezia, anche lo Sputnik V russo si basa su una versione modificata dell'adenovirus, un comune virus del raffreddore. Questo "vettore" viene privato di tutti i geni che causano malattie e modificato per trasportare le istruzioni genetiche per produrre la proteina del coronavirus, che passa alle cellule umane. La proteina spike prodotta dal coronavirus innesca, quindi, una risposta immunitaria che protegge dalla malattia Covid-19.

L'errore di AstraZeneca. E se il sodalizio fosse nato perché uno, o entrambi i vaccini, non hanno dimostrato l'efficacia sperata? Dubbio più che legittimo, dal momento che AstraZenenca ha subito un forte stop a causa di un errore nel dosaggio: ai volontari, infatti, era stata somministrata soltanto mezza dose la quale, a sorpresa, si è rivelata più efficace di quella intera (due dosi intere 62% di efficacia, mezza dose più una 90%). "Non lo so, credo siano logiche aziendali che coinvolgono, semmai, le agenzie regolatorie e alcuni Stati. Quello che è probabile è che, essendo molto simile la piattaforma tecnologica, abbiano pensato ad una sodalizio di sinergia per la produzione e per la messa a punto", ha detto in esclusiva per ilgiornale.it il professore Massimo Clementi, Direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale San Raffaele di Milano, che ci ha spiegato le difficoltà del vaccino italo-inglese. "Errore gravissimo". "AstraZeneca era partita molto velocemente, poi si è trovata in grossa difficoltà per l'errore del dosaggio, errore gravissimo per un'industria farmaceutica, cioè quello di dimezzare la dose. Ci sono varie teorie sul perché sia successo, forse non ha funzionato bene un rilevatore ma è qualcosa che non deve accadere", ha spiegato Clementi. L'Italia, come spiegato prima, ha puntato molto su questo vaccino che, al momento, non dà le garanzie di altre case farmaceutiche. "Se i dati sono quelli che abbiamo visto, a parte il 90% della dose dimezzata, il 70% era ciò che veniva considerato accettabile come efficacia minima ma, allo stato attuale, è notevolmente inferiore rispetto a quelli di Pfizer e Moderna, ben sopra il 90%. Penso, quindi, che ci sia una sorta di difficoltà", ci ha detto il professore Oltre al vaccino, però, l'azienda britannica ha messo a punto uno studio sugli anticorpi monoclonali come profilassi all'infezione. "Mi sembra un'ottima cosa, non tutti i soggetti risponderanno ai vaccini, una piccola quota non risponderà o non potranno essere vaccinati. Avere un'alternativa è sempre una cosa valida", sottolinea Clementi.

L'immunità anti-vettore. Un potenziale problema con questa tipologia di vaccini riguarda l' "immunità anti-vettore": se il sistema immunitario ha precedentemente incontrato il tipo di adenovirus utilizzato nel vaccino, può distruggerlo prima che il vaccino possa innescare una risposta immunitaria. Questo è il motivo per cui il gruppo dell'Università di Oxford ha scelto di utilizzare un adenovirus scimpanzé piuttosto che uno umano. Tuttavia, l'immunità anti-vettore potrebbe anche ridurre l'efficacia dei colpi di richiamo, se ciò comporta l'iniezione dello stesso virus per una seconda o terza volta. Mescolare e abbinare diversi vaccini potrebbe, quindi, fornire una soluzione. Questo concetto è noto come "potenziamento primario eterologo" ed è stato utilizzato nei programmi di vaccinazione contro altre malattie. Differenze con vaccini ad mRna. "L'adenovirus è un vettore inerte, il suo unico compito è portare all'interno delle cellune l'Rna che veicola: molti adenovirus, però, sono diffusi nella specie umana e sceglierne uno umano poteva essere rischioso perché poteva causare una risposta di anticorpi nei confronti del vettore che impediva al vaccino di entrare dentro le cellule", ha spiegato Clementi. È per questo che è stato scelto il vettore di un primate, in questo caso di una scimmia. "Questo problema non c'è con i vaccini ad mRna i quali vengono veicolati da piccole particelle di lipidi, i grassi, che vanno dentro le cellule e sono totalmente inerti". Alcuni dubbi. A differenza di AstraZeneca, Sputnik V utilizza due diversi vettori di adenovirus umani per cercare di innescare una risposta immunitaria più forte e a lungo termine. Non è ancora chiaro quale di questi componenti sarà testato insieme al vaccino AstraZeneca. Come riportato dal TheGuardian, l'immunità anti-vettore potrebbe anche fornire una possibile spiegazione del motivo per cui il vaccino AstraZeneca sembra funzionare meglio se somministrato come mezza dose seguita da una completa, piuttosto che due dosi complete.

Qual è la situazione attuale. Il vaccino sviluppato da Oxford e dall'azienda italiana Irbm di Pomezia, nonostante il brusco stop è già in fase tre e nei prossimi giorni si attende il via libera dell'agenzia del farmaco del Regno Unito per l'uso sulla popolazione inglese. Nelle prime settimane del 2021 potrebbe essere validato anche per l'Italia se ci sarà l'ok di Ema ed Aifa. Di contro, invece, i russi hanno iniziato la somministrazione del loro Sputnik V già il 10 dicembre scorso nonostante molte perplessità da parte del mondo scientifico per la fretta con il quale è stato approvato e la mancanza di un numero di dati sufficiente per l'ok definitivo (ne abbiamo parlato su InsideOver). Nelle ultime ore, però, il ministero della Sanità della Russia ha autorizzato per la vaccinazione di massa anche le persone al di sopra dei 60 anni d'età. Il ministro della salute, Mikhail Murashko, ha sottolineato che le ultime analisi hanno confermato che l'uso dello Sputnik V "non comporta alcun rischio per gli anziani".

Che cosa è e che cosa vuole. Il virus inglese è più forte dell’altro ed è destinato a prenderne il posto. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. È norma universale che niente in Natura resta immutabile. L’evoluzione di ogni forma vivente è incessantemente soggetta a questa legge. Non bisogna infatti pensare che la teoria di Darwin si applichi solo ai dinosauri o agli ominidi discesi dalle scimmie antropomorfe. Al contrario, proprio in questo momento, sotto i nostri occhi, per quanto incapaci di cogliere le minime differenze delle nuove generazioni rispetto alle precedenti, tutte le specie stanno mutando.  Tali mutazioni della prole rispetto ai genitori sono assolutamente aleatorie. Nella maggior parte dei casi le mutazioni sono irrilevanti e la prole ha le stesse capacità dei genitori di adattamento all’ambiente, e quindi le loro stesse probabilità di sopravvivenza. Spesso le mutazioni sono sfavorevoli e ciò pregiudica l’aspettativa di vita degli individui che la presentano. Aspettativa di vita più breve, corrisponde a una minore capacità di riproduzione e, perciò, a una minore possibilità di generare una prole che erediti quella particolare mutazione. A volte invece la mutazione casuale comporta un vantaggio. L’individuo che la possiede avrà maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi, dando origine a una progenie più numerosa, che diffonderà a sua volta questa mutazione. Vediamo in pratica come funziona. Dobbiamo arrivare al Coronavirus inglese, ma è bene arrivarci passando per la savana. Anche un bambino riconosce a prima vista l’anomalia della giraffa. Ci sono sì animali col collo lungo, ma lei esagera… Charles Darwin diede una spiegazione di questa caratteristica che si dimostrò corretta alla prova dei fatti, quando in seguito vennero ritrovati fossili di animali simili alla giraffa, ma con collo più corto. Darwin immaginò che inizialmente le giraffe avessero un collo proporzionato alla loro corporatura ma che, pian piano, generazione dopo generazione, le giraffe nate casualmente col collo un po’ più lungo delle altre avessero maggiore probabilità di sopravvivere e quindi di trasmettere alla progenie questa utile prerogativa. Siccome i germogli più succosi e nutrienti delle piante spinose di cui si nutrono le giraffe si trovano in alto, le giraffe dal collo lungo potevano raggiungerli con più facilità, alimentarsi meglio, essere più robuste, resistere meglio alle carestie e difendersi più efficacemente dagli attacchi dei leoni. Bene, le giraffe possono andare. Veniamo ai virus. Il virus non si può classificare tout court come essere vivente. A differenza degli esseri viventi propriamente detti, il virus nasce, ma non cresce, non ha organi interni, non si muove da solo, non svolge funzioni metaboliche, e quindi non si nutre e non respira, e non si riproduce autonomamente. Come lo definii altrove, è un pacchetto regalo -indesiderato- per cellule. Nella scatola, un guscio rigido di materiale proteico, è contenuto il suo patrimonio genetico, che viene introdotto in modo truffaldino nella cellula. La cellula a quel punto si comporta allo stesso modo dell’uccellino che si ritrova nel nido un pulcino di cuculo: come l’uccellino, ingannato, è indotto ad alimentare il cuculo, così la cellula è indotta a fungere da “ovulo” per il virus che la feconda. Tutta la macchina riproduttiva cellulare, originariamente predisposta per generare altre cellule, si mette a procreare tanti gemelli, figli del virus che l’ha infettata. E, nello specifico, come fa il Coronavirus a ingannare la cellula e indurla ad “aprirgli la porta” e ad accoglierlo al suo interno? Con un inganno, appunto. Lo strumento che il Coronavirus usa per perpetrare l’inganno sono le spine che spuntano dalla sua superficie e che i biologi definiscono “spikes”, spine. Il sistema è simile a quello dei dispositivi elettronici che consentono l’accesso all’utente tramite il riconoscimento della sua impronta digitale. Alla cellula servono alcune sostanze nutrienti che si trovano nel flusso sanguigno e che la cellula riconosce dalla loro composizione chimica: Invece di pronunciare la parola d’ordine, la sostanza nutriente arriva in corrispondenza di una porzione della superficie cellulare preposta al riconoscimento di una certa molecola che deve essere fatta entrare. Questa molecola è contraddistinta da una particolare struttura chimica, proprio come fosse un’impronta digitale. La cellula identifica l’impronta digitale della molecola e consente l’ingresso. Il Coronavirus ha creato un’impronta digitale contraffatta. Le spikes infatti simulano la struttura chimica di una molecola necessaria alla cellula. Il Coronavirus si avvicina alla cellula, espone una delle sue spine a quella parte della parete cellulare predisposta al riconoscimento e il gioco è fatto! Il sensore controlla l’identità attraverso l’esame dell’impronta digitale e viene turlupinato. La parete cellulare si apre e il gran nemico entra senza guerra, anzi accolto come un benefattore. Se solo Dante avesse conosciuto il Coronavirus, non avrebbe mai sostenuto che la “frode è dell’uom proprio male” (Inf. XI, 25)… Ora abbiamo tutti gli elementi per capire la variante inglese del virus, il pericolo che rappresenta e rispondere alle domande e ai legittimi timori sullo sviluppo della pandemia e su possibili nuove ondate. L’arma segreta del Coronavirus sono quindi le spikes. La battaglia si combatte, da parte del virus, affinando il meccanismo delle spikes e, dalla nostra parte, cercando di disattivare le spikes. Anche in questo c’è un’analogia stringente con la guerra di intelligence: c’è chi cerca di affinare gli strumenti di intrusione e chi cerca di bloccarli, il primo per infiltrarsi, l’altro per impedire l’infiltrazione. Il meccanismo delle spikes è efficiente, ma non è infallibile. In natura nulla è infallibile e tutto è perfettibile. Anche il predatore più abile e potente non ha affatto la certezza di riuscire a catturare la preda. Al contrario, generalmente, la preda riesce a sfuggire all’attacco. Il Coronavirus non fa eccezione. Le sue spikes sono proprio un bel meccanismo insidioso, ma si può fare di meglio. Tuttavia un virus non può migliorare da solo le proprie armi, anzi è incapace di fare qualunque cosa, a parte parassitare le cellule. Però il caso può lavorare in suo favore. Generazione dopo generazione, i virus mutano, come le giraffe. Le mutazioni possono essere irrilevanti, dannose, o vantaggiose. Le mutazioni irrilevanti lasciano inalterate le caratteristiche del virus; le mutazioni dannose fanno sì che quel ceppo virale tenda a soccombere e scomparire; le mutazioni vantaggiose, che quel ceppo tenda a imporsi sui suoi cugini meno attrezzati nella lotta per la sopravvivenza. La variante inglese è un ceppo del terzo tipo, che presenta una mutazione utile alla sua diffusione, consistente in una modifica delle sue spikes. Dai primi studi condotti, sembra che le spikes della variante inglese abbiano infatti una capacità di infezione superiore. Sono state messe in vitro colture di cellule infettabili da Coronavirus, si sono introdotti sia il Coronavirus originario, che quello inglese, e quest’ultimo ha prevalso. Alla fine, nella coltura si sono trovati solo Coronavirus inglesi. Anche tra i virus c’è rivalità, perfino tra parenti! Domani vedremo cosa comporta la comparsa del ceppo inglese e la ripercussione sulla campagna vaccinale ormai alle porte.

"Hanno taciuto per tre mesi...". Il virus mutato e i sospetti su Londra. Dai primi di dicembre la circolazione fuori controllo nel Sud Est dell'Inghilterra. E Ricciardi inchioda Johnson: "Sapeva da settembre". Perché lo ha tirato fuori soltanto ora? Andrea Indini, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. Sembra un brutto film già visto. Prima l'allarme: identificata a Londra una variante più contagiosa del Covid-19. Quindi, la decisione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio di chiudere tutti i voli provenienti dall'Inghilterra (ma solo quelli provenienti dall'Inghilterra e non quelli in arrivo dall'Olanda e dalla Danimarca nonostante ne sia certa la circolazione in quei Paesi). Poi la doccia fredda (dopo pochissime ore): la mutazione è già presente in Italia, i medici dell’ospedale militare del Celio hanno sequenziato il genoma della nuova versione in una paziente. Infine il solito dibattito tra virologi che si dividono tra chi crede che non inciderà sull'efficacia del vaccino e chi invece teme che potrebbe metterlo a rischio.

La nuova variante del Covid-19. Questa mattina, intervenuto a Buongiorno su SkyTg24, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, si è congratulato con il governo per aver sbarrato la strada ai voli inglesi "in modo straordinariamente tempestivo". Ma è stato davvero così? La decisione, come sappiamo, è arrivata ieri pomeriggio dopo che nelle ultime ore Boris Johnson aveva optato per un nuovo lockdown totale al fine di frenare la nuova variante del Covid-19. "Non è possibile ignorare la velocità di trasmissione della nuova variante - aveva spiegato il primo ministro - quando il virus cambia il suo metodo di attacco, dobbiamo cambiare il nostro metodo di difesa". Che in Inghilterra circolasse una nuova forma di coronavirus molto più aggressiva, lo si sapeva da mesi. In un grafico pubblicato ieri dall'European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) si vede molto bene l'impennata di ottobre. Tuttavia è stato solo dai primi di dicembre ad accendere l'interesse di Downing Street. Perché? Lo scorso 14 dicembre il segretario alla Salute Matt Hancock aveva ammesso che già una sessantina di autorità locali avevano registrato infezioni da Covid-19 causate da questa nuova variante. Non solo. In quell'occasione Hancock aveva anche fatto sapere che non solo gli scienziati del laboratorio di Porton Down si erano già messi a fare nuovi, dettagliati studi ma che il dossier era stato inviato in modo tempestivo all'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Interrogato sull'argomento lo stesso giorno, durante una conferenza stampa a Ginevra, Mike Ryan, capo delle operazioni di emergenza dell'Oms, aveva messo le mani avanti spiegando che "sono state segnalate molte varianti diverse di coronavirus". Quella inglese, quindi, era solo una in più da monitorare. "Ora la questione è - puntualizzava Ryan in quelle ore - è diffusa a livello internazionale? Rende il virus più serio? Interferisce con farmaci e vaccini? Al momento non abbiamo informazioni in questo senso - concludeva - dunque è importante studiare questa variante, per capire se è significativa".

I silenzi di Boris Johnson. La notizia era circolata anche sulla stampa italiana. Il 14 dicembre ne aveva dato conto anche ilGiornale.it spiegando che l'area maggiormente colpita era quella del Sud-Est (due giorni dopo verrà infatti sottoposta a restrizioni più rigide, quelle di livello 3) e che aveva contagiato almeno un migliaio di persone. "Ad oggi non ci sono prove che si comporti in modo diverso dalle altre già note", spiegava Maria Van Kerkhove dell'Oms rassicurando che la pratica era stata affidata al Virus Evolution Working Group all'interno del più ampio studio delle mutazioni scoperte nei visoni in diverse parti del mondo. Capitolo chiuso. Fino al 19 dicembre quando Johnson aveva indetto una riunione d'emergenza con il suo gabinetto. A preoccuparlo erano state le conclusioni a cui era giunto il New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (Nervtag) dopo aver analizzato i dati dei modelli preliminari della nuova variante e i tassi di incidenza in rapido aumento nel Sud-Est. Le misure erano state immediatamente alzate dal "livello 3" a "livello 4", prevedendo una "zona super-rossa" per limitare anche le riunioni di famiglia. Da quel momento la notizia ha ripreso a circolare anche sulla stampa italiana e a suscitare un qualche interesse del governo Conte. Quello che, però, Johnson non ha detto in quella riunione d'urgenza è che, come rivelato da Walter Ricciardi in una intervista al Messaggero, era a conoscenza di questa minaccia da almeno tre mesi. "Ciò che mi fa arrabbiare è che gli inglesi sapevano già da settembre che era in circolazione questa variante", denuncia il consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza. "Hanno taciuto, non ci hanno avvertito...". Secondo il virologo Andrea Crisanti, la versione britannica del Covid-19 "è apparsa in Spagna" la scorsa estate e "da lì, probabilmente a causa dei flussi turistici, si è spostata in Gran Bretagna". Nessuno, però, ancora sa dirci perché si è diffusa in modo diverso.

Le misure tardive dell'Italia. In Europa il primo Stato a sospendere i voli dall'Inghilterra è stato l'Olanda. La decisione è arrivata sabato mattina. Nelle stesse ore il Belgio faceva lo stesso fermando anche i collegamenti ferroviari con la Gran Bretagna. Era però già tardi: oltre che nel Regno Unito la variante ormai circolava in Australia, Danimarca e Olanda. Per questo quando ieri mattina Di Maio ha deciso di sospendere solo i voli provenienti dall'Inghilterra, la misura è apparsa tardiva e inutile. Esattamente come era stato quando lo scorso gennaio aveva deciso di bloccare gli aerei provenienti da Wuhan senza pensare, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), che i cittadini cinesi potessero fare scalo in altri Paesi e quindi arrivare in Italia in altro modo. "Chiudere i voli con il Regno Unito è una buona mossa se lo fanno tutti gli altri Paesi - fa, infatti, notare Ricciardi nell'intervista al Messaggero - se lo fa solo uno non serve, bisogna farlo in tutta Europa". Non solo. Scoperto già il primo paziente contagiato dalla variante inglese viene da chiedersi quante possano essere le persone già arrivate in Italia dai Paesi indicati dall'Oms come luoghi di incubazione del Covid 19 "mutato". Secondo una stima del Giornale, abbiamo a che fare con circa 45mila possibili "untori". Non pochi vista la velocità con cui si diffonde il nuovo virus. Ma il punto non è questo o per lo meno non è solo questo: se si sapeva già mesi dell'esistenza di una variante più contagiosa, perché si è deciso di intervenire soltanto adesso? Ora tutti a cercare la stessa variante in Italia. Appena ci si sono messi hanno subito trovato un caso. "Più si cerca, più si trova", spiega Crisanti all'agenzia Agi facendo notare che "l'Inghilterra è il Paese in cui si fanno più sequenziamenti al mondo". Tutta la baraonda delle ultime ore, insomma, risulta parecchio difficile da spiegarsi. Anche perché la nuova mutazione (una delle tante) non solo non è più virulenta ma non inficerà nemmeno gli effetti del vaccino.

Coronavirus, Gianluca Veneziani contro i sinistri: "Mangiavano involtini cinesi e ora processano Londra". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 23 dicembre 2020.  Deve essere la nuova forma di politicamente corretto, che potremmo definire geopoliticamente corretto: se l'epidemia arriva da Wuhan, guai a parlare di «virus cinese» e ad addossare responsabilità alla Cina; se invece una sua mutazione attecchisce in Gran Bretagna, non si fa che parlare di «variante inglese» e di quanto essa sia contagiosa. Che dio stramaledica gli inglesi, perché ci hanno mandato la versione aggiornata, 2.0, del Corona, chissà se per negligenza della Corona. Si vede che ai britannici non abbiamo ancora perdonato la Brexit, lo smacco insopportabile di aver lasciato ciò che resta dell'Unione europea; o si vede che, da quando al comando c'è Boris Johnson, che di Trump ricorda le politiche oltreché il taglio dei capelli, delle popolazioni d'Oltremanica si può dire peste e corna. Fatto sta che, non appena si è scoperto che una forma mutata del virus dilagava a Londra e dintorni, tutti in Europa, e soprattutto in Italia, si sono preoccupati non solo di chiudere le frontiere alla Gran Bretagna, come ragionevole, ma anche di sottolineare l'inglesità di questa variante. Evidentemente, per poter girare il mondo, il virus ha imparato l'inglese con accento british Basti vedere i titoli dei giornaloni e dei media mainstream. Ieri il Tg1 delle 13.30 apriva con queste parole: «Covid, la variante inglese del virus è in Italia». Il Corriere della Sera teneva a specificare sotto il titolo ansiogeno «Virus cambiato» che il riferimento era alla «variante inglese»; e poi, sul sito, ripresentava in modo ossessivo l'espressione «variante inglese» nei titoli del pezzo di apertura e di due video. Faceva lo stesso Repubblica, ribadendo in modo seriale che si trattava della «variante inglese». E che dire degli esperti, o presunti tali. Walter Ricciardi, il consigliere del ministro della Salute Speranza, colui che l'altro giorno ha riconosciuto il fallimento della nostra gestione di contrasto alla pandemia, ieri ha gettato la croce addosso alla Gran Bretagna: «Purtroppo», ha tuonato, «il governo inglese ha avvertito tardi della variante del coronavirus e questo non è bello». Massì, dagli contro agli inglesi, per far dimenticare responsabilità altrui Anche il coro dei virologi da salotto tv non può fare a meno di sottolineare che la variante speaks English. Massimo Galli rileva: «Questa variante è in Gran Bretagna dal 20-21 settembre. Temo che da Oltremanica ne sia passata un bel po' da allora»; Giovanni Rezza parla di una variante che «sta circolando a Londra e nel sud-est dell'Inghilterra»; Franco Locatelli di «mutazioni segnalate in Gran Bretagna». Chissà perché nessuno ricorda che questa variante è stata individuata anche in Danimarca, Australia e Olanda, come ha reso noto l'Oms. Del resto, non c'era stata un'indicazione così puntuale di "nazionalità" quando si trattava di definire il ceppo originario del Corona. L'unico ad aver parlato di «virus cinese» era stato Trump, ma per questa ragione era stato accusato di xenofobia, tra gli altri dal Corriere che aveva scritto di un aumento degli «episodi di razzismo contro gli asioamericani», come conseguenza della sua strategia comunicativa. Ora invece additare i britannici di essere scellerati propagatori di virus non è discriminazione, ma forma di legittima difesa. Della serie: insulta la Perfida Albione, ma lascia stare il Dragone.

Covid, che cos’è la «variante sudafricana» e cosa sappiamo delle mutazioni. Silvia Turin e Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 24/12/2020. Che cos’è la variante sudafricana del SARS-CoV-2? È chiamata «501.V2» ed è stata rilevata in quasi 200 campioni raccolti da oltre 50 diverse strutture sanitarie in Sudafrica, dove è stata identificata per la prima volta nella Nelson Mandela Bay. Sembra che sia responsabile della seconda ondata nel Paese. Sono due varianti nate separatamente, ma condividono la stessa mutazione, la «N501Y», nella proteina spike(quella che il virus usa per attaccare le cellule umane).

Quali sono le caratteristiche di queste varianti? Sono simili. Avrebbero maggior potere di diffondere il virus. Nel caso di quella britannica, gli scienziati hanno stimato potrebbe arrivare al 50-70% in più di capacità di trasmissione (anche nei bambini). Anche il virus sequenziato in Sudafrica sarebbe molto contagioso e associato a una maggiore carica virale. Servono ulteriori ricerche perché il nesso tra facilità di trasmissione e le varianti presenti nei due territori potrebbe anche essere casuale.

Il virus sarà più letale? Non sembra che entrambe le varianti possano causare malattia più grave.

Cosa sono le varianti? È normale che un virus, quando si replica milioni di volte, in alcuni casi faccia quelli che possiamo definire, con un paragone, «errori di battitura». I virus che utilizzano l’RNA come materiale genetico, come SARS-CoV-2, sono vulnerabili alle mutazioni, ma il più delle volte queste non sono importanti.

Ci sono altre varianti significative di SARS-CoV-2? Le mutazioni mappate sono già più di 12mila, ma solo pochissime sono rilevanti. Tra queste, quella che distingue il virus di Wuhan da quello che si è diffuso in Europa lo scorso inverno: la mutazione «D614G», diventata dominante in tutto il mondo, con capacità di trasmissione fino a dieci volte maggiore rispetto all’originario lignaggio cinese.

L’efficacia del vaccino è in pericolo? È considerato altamente improbabile che i vaccini progettati finora possano avere difficoltà per questo tipo di mutazioni. Le case farmaceutiche, comunque, hanno iniziato i test di controllo e gli scienziati della University of Texas Medical Branch hanno trovato (ma sono studi preliminari) che gli anticorpi che neutralizzano il ceppo più comune del virus hanno neutralizzato anche ceppi con la mutazione «N501Y».

Dobbiamo preoccuparci? SARS-CoV-2 è un virus che muta relativamente poco, ma dato che è pandemico, le variazioni si moltiplicano milioni di volte e non solo nell’uomo, visto che il Covid-19 può infettare anche i mammiferi (come si è visto nel caso dei visoni) e ritornare all’uomo in forme differenti. È quindi di primaria importanza limitarne la diffusione arrivando all’immunità di gregge.

Come si identificano le varianti del coronavirus? Occorrono sequenze genomiche: esami di laboratorio complessi che non vengono eseguiti spesso, basti pensare che gli Stati Uniti hanno sequenziato solo 51mila test sui 18 milioni di casi di coronavirus mappati, mentre il Regno Unito mira a sequenziarne 10mila a settimana. Dopo l’allarme lanciato dalla Gran Bretagna, i Paesi stanno moltiplicando gli sforzi per i sequenziamenti e così si moltiplicano le segnalazioni, ma non sono esami di routine.

Come contrastare la diffusione delle varianti? Sappiamo già come agire: cercando di limitare i contagi come abbiamo sempre fatto, anzi, con maggiore attenzione, ora che sappiamo che ci sono forme del virus particolarmente «efficienti».

Coronavirus, scoperta "variante italiana simile a quella inglese". Circola da agosto. Arnaldo Caruso, presidente della società italiana di virologia: "Il vaccino dovrebbe contrastarla comunque ma gli studi sono in corso". La Repubblica il 28 dicembre 2020. "Circola dai primi di agosto in Italia una variante" di coronavirus Sars-CoV-2 "molto simile alla famigerata variante inglese". Una "variante italiana" scoperta a Brescia, "che precede la variante emersa solo a fine settembre nel Regno Unito per poi diffondersi in Europa, Italia inclusa, e potrebbe anche esserne un precursore". Lo annuncia all'Adnkronos Salute Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia (Siv-Isv), ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica all'università degli Studi di Brescia, direttore del Laboratorio di microbiologia dell'Asst Spedali Civili. La variante individuata, spiega, "ha diversi punti di mutazione nella proteina Spike. Come quella inglese, anche la variante italiana ha una mutazione in un punto nevralgico dell'interazione Spike/recettore cellulare, più precisamente in posizione 501". Ma a differenza del mutante Gb, "la variante italiana ha anche una seconda mutazione in posizione 493, che rende la sua proteina Spike leggermente diversa da quella del virus pandemico che tutti oggi conosciamo". Ma come si è arrivati a descrivere la variante italiana? "Casualmente - racconta Caruso - osservando una persistenza virale anomala in un paziente che aveva sofferto di Covid-19 in aprile. Anche dopo la guarigione, i tamponi effettuati da agosto in poi avevano sempre dato esito positivo con virus ad alta carica. A novembre ci siamo decisi a sequenziare il virus per capire il perché di questa persistenza, e con nostra sorpresa ci siamo resi conto di avere identificato una nuova variante, simile ma non identica alla variante inglese che iniziava a circolare anche in Italia. A questo punto abbiamo sequenziato anche un campione dello stesso paziente ottenuto ad agosto", scoprendo che "la Spike variata era già presente allora, con tutte le sue mutazioni". "Non sappiamo se la variante inglese è emersa esattamente a fine settembre, così come la nostra ai primi di agosto - precisa il numero uno dei virologi - Un'analisi temporale delle sequenze di Sars-CoV-2, effettuata dal gruppo di Massimo Ciccozzi", epidemiologo dell'università Campus BioMedico di Roma, "ci dice che questa nuova variante italiana potrebbe essersi generata intorno ai primi di luglio. Quel che possiamo affermare dagli studi del collega Ciccozzi è che la nostra è di certo la prima evidenza di mutazioni nella proteina Spike a livello della posizione 501 in Italia e forse, almeno ad oggi, in Europa. L'omologia di sequenza tra la variante da noi identificata e quella inglese porta a pensare che la prima possa avere di fatto generato le altre che oggi stanno emergendo nel nostro continente. Ma per affermare questo è necessario ricostruirne i passaggi, e servono tante analisi del genoma virale ancora non disponibili". Ma c'è timore che il vaccino anti-Covid possa non funzionare sulla variante italiana? "Teoricamente no - risponde Caruso - Il vaccino genera una risposta complessa verso tante aree della proteina Spike", per cui, "anche se vi fossero alcuni anticorpi non in grado di riconoscere una zona mutata come quella in posizione 501 o 493, ce ne sarebbero sicuramente altri in grado di legarsi a porzioni non mutate della proteina. Il loro legame sarebbe sufficiente a impedire l'interazione tra Spike e recettore cellulare, anche solo per una sorta di "ingombro sterico" che gli anticorpi creerebbero sulla superficie del virus. In poco tempo avremo comunque una risposta certa a questa domanda". "L'alta carica virale presente nei tamponi di agosto e novembre" eseguiti sul paziente che non si negativizzava "ci ha permesso di isolare a Brescia i mutanti virali. Questo - sostiene Caruso - ci permetterà di cimentare questi virus con i sieri di pazienti Covid-19 ottenuti durante la prima ondata pandemica, e di valutare la capacità degli anticorpi di neutralizzare questa variante rispetto ai ceppi virali circolanti in precedenza. Appena disponibili, verranno valutati in modo analogo anche sieri di pazienti vaccinati. Io resto al momento ottimista", conclude il presidente dei virologi italiani. La nuova mutazione del Covid-19 a Londra. Andrea Walton su Inside Over il 20 dicembre 2020. La variante del virus Sars-Cov-2 che si è diffusa nell’Inghilterra sudorientale e nella città di Londra ha sconvolto i piani natalizi fatti dall’esecutivo di Boris Johnson. La versione mutata è molto più contagiosa (fino al 70 per cento in più) di quella presente nel Regno Unito e costituisce una minaccia da affrontare nel più breve tempo possibile. La variante è stata individuata per la la prima volta nel mese di settembre nell’Inghilterra sudorientale. Le contee dell’Inghilterra orientale, sudorientale e la città di Londra subiranno restrizioni molto dure a partire da questa domenica ed entreranno, di fatto, in lockdown. Queste aree verranno incluse nel Tier 4, il livello più alto di allarme tra quelli in cui sono suddivise le contee dell’Inghilterra ed i residenti, salvo alcuni casi specifici, non potranno uscire dalle proprie abitazioni. I negozi non essenziali, le palestre ed i luoghi di svago dovranno chiudere, non si potrà incontrare più di una persona non convivente ed unicamente all’aperto ed in un luogo pubblico, i cittadini dovranno lavorare da casa a meno che ciò non sia impossibile e non si potrà uscire ed entrare da queste aree. La variante della discordia. La comparsa della nuova variante può spaventare ma non bisogna dimenticare che, anche nel recente passato, ci sono state altre mutazioni del Covid-19. Tra queste c’è quella comparsa tra i visoni in Danimarca, che ha portato all’abbattimento di milioni di questi animali. Questa mutazione ha suscitato una forte preoccupazione perché gli anticorpi delle persone guarite non sembravano in grado di neutralizzare in maniera efficace questa variante. I virus varianti, che come suggerisce il nome divergono da quelli in circolazione in precedenza, sono però del tutto comuni nel corso di una pandemia e la maggior parte delle mutazioni subite da un virus tende, inevitabilmente, ad autoestinguersi. “Nulla sembra suggerire”, come riferito dal Ministro della Salute inglese Matt Hancock (e riportato dall’Huffington Post) , “che la variante possa essere responsabile di forme più severe di Covid-19 o che possa essere resistente ai vaccini“. Secondo Emma Hodcroft, esperta di genetica virale presso l’Università di Berna, il nuovo ceppo avrebbe tre mutazioni nella proteina spike che il coronavirus utilizza per entrare nelle cellule umane e la scienziata rassicura sul fatto che “Non c’è nulla che suggerisca che la variante abbia maggiori probabilità di causare malattie gravi, e l’ultimo quadro clinico dice che è altamente improbabile che questa mutazione non possa rispondere a un vaccino“. Non è però da escludere che la velocità con cui si è propagata la seconda ondata pandemica in Europa possa essere dovuta proprio ad una mutazione e tra le principali indiziate c’è la 20A.EU1, individuata ad ottobre e diffusa dai lavoratori agricoli spagnoli in gran parte del Vecchio Continente. La variante D614G è invece, al momento, l’unica che ha influenzato in maniera significativa il comportamento del coronavirus e ne ha aumentato la capacità di trasmissione. Il futuro può rivelarsi complesso. Alcuni scienziati sembrano, però, decisamente allarmati da quanto sta accadendo nel Regno Unito. Giorgio Gilestro, neurobiologo e professore associato dell’Imperial College di Londra, ha dichiarato che “più che una variante, si tratta di una famiglia di varianti con una cosa in comune e che sono probabilmente tentativi riusciti del ceppo virale di scappare dagli anticorpi di chi ha sviluppato immunità e sono immuni, ad esempio, alle terapia al plasma”. Gilestro chiarisce come “Questi sono ceppi che si sono sviluppati per pressione evolutiva” e ciò “vuol dire che appena un numero sufficiente di persone inizia ad avere anticorpi contro il virus per immunità acquisita direttamente o per via vaccinale, nuovi ceppi emergono”. Gilestro conclude la sua spiegazione affermando che “Vista la contagiosità, visto il numero di immigrati Ee a Londra, visto il periodo (Natale), temo che sia ormai scontato che questa variante si diffonderà velocemente nel resto d’Europa”. Le parole del neurobiologo potrebbero rivelarsi profetiche, per lo meno per ciò che riguarda la diffusione del virus in Europa. I Paesi Bassi hanno annunciato la sospensione di tutti i voli con il Regno Unito sino al primo gennaio dopo aver scoperto un caso della nuova variante britannica del coronavirus nel proprio territorio nazionale. La variante britannica potrebbe essere già presente in diverse nazioni europee ed è persino possibile che il forte aumento di casi registrato nelle ultime settimane in Europa (ed anche in alcune regioni italiane come il Veneto) possa esservi legato. I governi europei rischiano, proprio come accaduto nel mese di febbraio quando si riteneva che il Covid-19 non fosse presente in Europa ma ancora confinato in Asia, di agire con ritardo eccessivo e quando il danno è ormai stato compiuto.

 Spunta la "variante italiana" Come è nata e cosa può fare. Questa mutazione del virus, come sostengono i ricercatori, avrebbe anticipato quella inglese: qui da agosto. Francesca Galici, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. Che la variante inglese del coronavirus non sia l'unica in circolazione non è una novità. Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia (Siv-Isv), ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica all'università degli Studi di Brescia, direttore del Laboratorio di microbiologia dell'Asst Spedali Civili, ne ha dato la conferma con un'intervista all'Adnkronos. Il medico ha riferito di una variante italiana simile a quella inglese, che si sarebbe però sviluppata prima: "Precede la variante emersa solo a fine settembre nel Regno Unito per poi diffondersi in Europa, Italia inclusa, e potrebbe anche esserne un precursore". I punti di contatto delle due mutazioni sembrano essere molto simili: "Ha diversi punti di mutazione nella proteina Spike. Come quella inglese, anche la variante italiana ha una mutazione in un punto nevralgico dell'interazione Spike/recettore cellulare, più precisamente in posizione 501". Le varianti si distinguono perché quella italiana "ha anche una seconda mutazione in posizione 493, che rende la sua proteina Spike leggermente diversa da quella del virus pandemico che tutti oggi conosciamo". Come spesso accade nella scienza, la mutazione italiana del coronavirus è stata scoperta casualmente "osservando una persistenza virale anomala in un paziente che aveva sofferto di Covid-19 in aprile". Quello analizzato dal professor Caruso è uno di quei casi di cui si è spesso raccontato. Il paziente, nonostante la guarigione clinica, continuava a manifestare tamponi positivi con elevata carica virale anche a distanza di mesi. A novembre si è deciso di sequenziare il virus, ottenendo il risultato descritto. Già in una campionatura di coronavirus dello stesso paziente prelevata in agosto si manifestava la mutazione. "Questa nuova variante italiana potrebbe essersi generata intorno ai primi di luglio. Quel che possiamo affermare dagli studi del collega Ciccozzi è che la nostra è di certo la prima evidenza di mutazioni nella proteina Spike a livello della posizione 501 in Italia e forse, almeno ad oggi, in Europa", afferma Caruso. Alla luce degli studi effettuati, la domanda sulla possibile inefficacia del vaccino attualmente in commercio è d'obbligo. Ma il professor Caruso rassicura: "Il vaccino genera una risposta complessa verso tante aree della proteina Spike. Anche se vi fossero alcuni anticorpi non in grado di riconoscere una zona mutata come quella in posizione 501 o 493, ce ne sarebbero sicuramente altri in grado di legarsi a porzioni non mutate della proteina". Questo legame sarebbe sufficiente per ottenere l'effetto desiderato. Le sequenze dei mutanti virali ottenute a Brescia potranno ora essere cimentate con i sieri dei pazienti negativizzati della prima ondata. Questo permetterà di capire la rispota anticorpale dei diversi ceppi in circolazione. "Appena disponibili, verranno valutati in modo analogo anche sieri di pazienti vaccinati. Io resto al momento ottimista", ha concluso Arnaldo Caruso. Poco fa l'infettivologo Matteo Bassetti ha commentato: "Variante italiana causa picco casi novembre".

Perché in Cina si dice che il virus è stato importato. Matteo Carnieletto su Inside Over il 30 novembre 2020. Sono molti i misteri che ruotano attorno al Covid-19: quando è nato, dove, e come si è verificato il cosiddetto spillover, il salto di specie, ovvero il passaggio del virus dall’animale all’uomo. A lungo, gli esperti hanno affermato che, molto probabilmente, il virus era nato a Wuhan, una città per i nostri standard enorme, che si trova nella provincia dello Hubei, non lontano dal Guandong, una regione molto particolare della Cina. Una terra al contempo benedetta – è infatti uno dei motori della crescita del Dragone – e maledetta in quanto molti focolai epidemici sono nati proprio qui. Per quasi un anno, la vulgata è quindi stata una sola e prevedeva che il virus avesse passaporto cinese. Una cosa non da poco. Questa epidemia sta infatti provocando danni enormi – sia a livello di perdite umane sia a livello economico – a tutto il mondo. Se davvero la Cina è colpevole, allora, questo è per esempio il pensiero di Donald Trump, dovrebbe pagare per i danni che sta provocando a molti Stati. Rivelare qual è davvero l’origine del virus ha dunque un forte significato non solo a livello epidemiologico, ma anche politico. Per questo motivo, negli ultimi tempi in Cina stanno uscendo diversi report volti a creare una nuova narrazione secondo cui il virus non sarebbe nato nell’impero celeste, ma altrove. L’ultima ipotesi – sostenuta da un team di ricercatori cinesi guidati dal dottor Shen Libing, dello Shanghai Institute for Biological Sciences – ritiene che il Covid-19 sarebbe nato in Bangladesh e, solo in un secondo momento, importato in Cina. Secondo i ricercatori cinesi, “sia le informazioni geografiche del ceppo meno mutato sia la diversità del ceppo, suggeriscono che il subcontinente indiano potrebbe essere il luogo in cui si è verificata la prima trasmissione da uomo a uomo di Sars-CoV-2”. E questo perché la terribile siccità che ha colpito l’India nel 2019 ha fatto sì che uomini e animali si abbeverassero dalle stesse fonti. Da qui lo spillover, il salto di specie il contagio umano. Nei primi mesi il virus si sarebbe mosso silente, a causa della bassa età media in India, fino a quando non è arrivato in Cina, esplodendo. Ma non solo. Lo scorso giugno, per esempio, è emerso un focolaio nel mercato di Xinfadi, a Pechino. Prontamente il governo centrale ha bloccato ventinove comunità e, soprattutto, i media hanno cominciato ad affermare che il contagio sarebbe partito da un salmone importato. Uno scenario non dissimile, si è poi verificato nella città di Qingdao, nella provincia dello Shandong, dove è esploso un mini cluster tra alcuni lavoratori impegnati nell’industria della catena del freddo. Anche in questa occasione, le autorità hanno puntato il dito contro le confezioni di alimenti congelati importati dall’estero, sulle cui superfici sarebbero state rinvenute tracce di virus. Verità o propaganda? Difficile dirlo. Un lungo studio del Global Times, pubblicato ieri, sottolineava come i pochi casi di Coronavirus che si sono registrati negli ultimi mesi in Cina, dopo la vittoria di Xi Jinping sul virus, sono da collegare alla “catena del freddo”. Il giornale cinese riporta inoltre che, “dopo uno studio approfondito del sequenziamento degli acidi nucleici e del sequenziamento del genoma virale dei pazienti Covid-19 con campioni ambientali e alimentari del mercato Xinfadi, che è stato collegato a un’epidemia di giugno, gli scienziati cinesi hanno concluso a ottobre che il coronavirus da alimenti importati sarebbe molto probabilmente la causa dell’epidemia di Pechino e che il trasporto della catena del freddo è diventato una nuova via per la trasmissione virale”. Sulla stessa scia, anche Il Quotidiano del Popolo, secondo cui “ogni prova disponibile” induce a sospettare che il coronavirus sia solo emerso e non partito da Wuhan e che la trasmissione tra persone si sarebbe verificata nel “subcontinente indiano”. Il mercato di Wuhan sarebbe dunque stato solo un “amplificatore” del contagio arrivato da fuori. Wu Zunyou, dirigente del Centro per il controllo delle malattie infettive di Pechino, sostiene inoltre che “i primi contagiati di Wuhan lavoravano nell’area del pesce surgelato del mercato Huanan”. Ma tutto questo è possibile? Nessuno, ad oggi, ha confermato o smentito la nascita del Covid-19 in Cina. Anzi, un recente studio realizzato dall’Istituto dei tumori di Milano ha trovato delle tracce del nuovo Coronavirus tra gli italiani già nell’estate del 2019, ben prima dunque che scoppiasse a Wuhan. Siamo dunque noi gli untori del mondo? Improbabile. Anche perché, a livello statistico, molti virus sono nati in Cina, più precisamente nel Guandong. La più temibile delle malattie, la peste, non a caso ribattezzata “morte nera“, è nata in Cina nel 1334, come ricorda Mark Honigsbaum in Pandemie. Dalla spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (Ponte alle Grazie). Da qui si mosse lentamente verso l’Occidente fino ad arrivare prima in Europa e poi in Italia, nel 1348. Stesso discorso anche per l’epidemia che scoppiò ad inizio Novecento, “molto probabilmente provocata dalla marmotta tarbagan – prosegue Honigsbaum – una specie di marmotta che si trova in Mongolia e in Siberia, apprezzata per la pelliccia pregiata, l’epidemia sembra fosse cominciata a Manzhouli, situata al confine tra Cina e Siberia, nell’ottobre del 1910, prima di diffondersi attraverso la linea ferroviaria transmanciuriana a Harbin e ad altri centri lungo il percorso. I principali responsabili furono cacciatori cinesi inesperti che, attirati in Manciuria dall’alto prezzo delle pellicce, non avevano avuto la stessa accortezza dei cacciatori manciuriani nel trattare le marmotte tarbagan malate. Con l’accorciarsi delle giornate invernali in Manciuria, i cacciatori ripresero la strada per la Cina e si mescolarono ai lavoratori agricoli che tornavano e ai ‘coolie’, affollando carrozze ferroviarie stipate e locande. Presto, gli ospedali furono sommersi di pazienti, e nel febbraio del 1911 già si contavano circa 50.000 morti. Molti corpi furono cremati o fatti saltare con la dinamite nelle fosse comuni”. Il professor Giorgio Palù, in un’intervista all’Università di Padova, ha spiegato il perché: “Ci sono  molte risaie, e gli uccelli che planano in queste zone possono essere portatori sani dell’influenza aviaria che viene trasmessa anche tramite le feci: in quegli stagni ci sono miliardi di virus, e lì vicino vengono allevati maiali e altri animali domestici, anche uccelli. Così i virus si propagano: c’è una commistione tra animali domestici e selvatici e tra loro e l’uomo”. Ma non solo. A provocare la diffusione dei virus sono anche i cambiamenti climatici, tema su cui la Cina sta facendo poco o nulla: “Il 20% dei virus è trasmesso da vettori come zanzare, zecche e flebotomi che stanno migrando a causa dei cambiamenti di temperatura, si pensi a West Nile”. Non sappiamo ancora dove è nato il virus, ma ci sono grandi probabilità che sia nato in Cina. La partita “revisionista” di Pechino ha un unico obiettivo: togliersi anche la più piccola ombra di colpa affinché nessuno si presenti per battere cassa. 

Che fine ha fatto il mercato del pesce di Wuhan? Federico Giuliani su Inside Over l'1 dicembre 2020. ”Wuhan Huanan Haixian Pifa Shichang”. La scritta bianca su sfondo blu sopra il cartello posto all’ingresso del famoso mercato del pesce di Wuhan, dove è stato rilevato il primo focolaio di Covid-19 al mondo, è sparita. Le serrande dei piccoli negozietti, in passato affollati da clienti desiderosi di comprare alimenti freschi, sono abbassate dallo scorso primo gennaio. Siamo nel cuore del capoluogo dello Hubei, di fronte a quel che rimane dell’ormai ex Huanan Seafood Wholesale Market, all’incrocio tra New China Road e Development Road, due delle strade più trafficate della città. Il presunto Ground Zero della pandemia di Covid-19 è circondato dai palazzoni dello scintillante Tangjiaduncun Residential District. A pochi passi da qui troviamo la stazione ferroviaria Hankou, il Wuhan museum, banche di ogni tipo, locali Starbucks e McDonald’s. È quasi passato un anno da quando il focolaio di un misterioso virus è scoppiato all’interno del mercato ittico di Huanan. Quelle polmoniti atipiche che colpivano i clienti del bazar non erano altro che il biglietto da visita del Sars-CoV-2, un nuovo coronavirus emerso chissà come, chissà quando e chissà dove. Nonostante siano trascorsi mesi dai primi casi accertati, gli scienziati non sono ancora riusciti a ricostruire la genesi di questo strano agente patogeno. Sul tavolo ci sono varie ipotesi, la più probabile delle quali, la zoonosi (ovvero il salto di specie da un animale all’essere umano), considera il pipistrello il serbatoio del virus e il pangolino l’eventuale ospite intermedio. Non vi sono neppure certezze sull’esatto luogo d’origine del virus. Anche se molti indizi portano alla Cina, gli esperti cinesi hanno recentemente pubblicato alcuni report fornendo supposizioni alternative.

Pesci e occhiali. Che sia o meno il luogo di nascita del virus, il mercato del pesce di Huanan può essere considerato a tutti gli effetti il Ground Zero della pandemia di Covid-19. I primi pazienti di Wuhan affetti dal coronavirus avevano una sola cosa in comune: l’aver transitato tra i banchi del wet market cittadino. Non sappiamo se in quelle concitate settimane di fine dicembre 2019 c’erano già altri focolai in Cina o in altre parti del mondo. Sappiamo soltanto che le fonti certe partono dallo Huanan Seafood Wholesale Market. Oggi l’area a piano terra in cui sorgeva il mercato è sigillata, ma l’edificio in cui era ubicato è tornato operativo. Il secondo piano del mercato ospita varie attività commerciali che vendono e riparano occhiali. Per accedere al livello superiore è necessario registrarsi con un apposito Qr Code, proprio come avviene in gran parte dei luoghi pubblici di tutta la Cina. ”Norme anti coronavirus”, spiegano alcuni. In ogni caso, ai tempi d’oro, il mercato era così organizzato: il pianterreno era adibito alla vendita di pesce e altri alimenti, il primo piano a quella di lenti e occhiali. La strana accoppiata pesci-occhiali ha una lunga storia: circa 15 anni fa, alcuni commercianti di occhiali, attratti dai bassi affitti dell’edificio, decisero di trasferire allo Huanan il loro business.

Un salone illegale. Il primo di gennaio 2020 gli operatori sanitari, bardati con scafandri e tute spaziali, hanno iniziato a prelevare campioni tra i banchi del pesce, chiusi, che sorgevano a piano terra. Prima della serrata, ogni giorno più di mille bancarelle vendevano frutti di mare, pesce, carni e anche animali selvatici vivi. Mentre al primo piano i commercianti continuavano a vendere occhiali, sotto di loro era partita la disinfestazione del sito. Dopo il lockdown che ha coinvolto tutta Wuhan, il mercato ha riaperto i battenti lo scorso 12 maggio. “Ho provato a chiamare i vecchi clienti, dicendo loro che è il posto è sicuro – ha spiegato un venditore di occhiali al The New Yorker – ma ovviamente molti di loro non sono voluti venire”. Lo stesso negoziante ha raccontato che nessuno dei suoi conoscenti era stato infettato nel ”mercato degli occhiali”. “Non era come al piano di sotto”, ha aggiunto, raccontando che è ”lì che si è diffusa la malattia”. Per capire come si è originato il focolaio dello Huanan è dunque necessario scendere ”al piano di sotto”. Dove, accanto alle bancherelle del pesce, sarebbe sorta anche una stanza segreta di mahjong, illegale, ben nascosta e ubicata nei pressi del bagno pubblico. “Ho sentito che quattro persone stavano giocando a un tavolo, e tutti e quattro si sono ammalati”, ha aggiunto il solito negoziante. Impossibile sapere se la malattia infettiva si sia diffusa da questo locale, piccolo e non ventilato, probabilmente portata da un ignoto paziente zero, o tra i pesci esposti. Al momento i negozi di occhiali sono aperti. Ma il nome del luogo è rovinato e la clientela scarseggia. Il destino dello stabilimento è ancora tutto da scrivere. Due le ipotesi: la demolizione del sito per fare spazio a nuovi grattacieli oppure la trasformazione del complesso in una sorta di museo commemorativo per ricordare l’eroica lotta di Wuhan contro il coronavirus. Rimuovere il ricordo del virus e guardare avanti o guardare avanti forti di quel ricordo: le autorità devono ancora decidere il da farsi.

La ricerca finanziata dalla Regione Campania. Coronavirus, al Ceinge di Napoli scoperte le 5 varianti del virus in Italia: “Ha grande capacità di replicarsi”. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2020. Per definirle mutazioni vere e proprie serviranno più dati statistici, ma al momento grazie ai dati a disposizione della Task force coronavirus attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge di Napoli sarebbero cinque le varianti del nuovo coronavirus identificate in Italia. La ricerca, finanziata dalla Regione Campania, evidenzia che il virus non è meno aggressivo rispetto all’inizio dell’anno, ma grazie alle varianti riesce a replicarsi anche in modo più efficace. A riportare la notizia all’Ansa è responsabile scientifico della task force, il genetista Massimo Zollo, docente dell’Università Federico II di Napoli: “Dai dati finora a nostra disposizione, basati su 246 genomi sequenziati da pazienti con Covid-19 emerge che esistono cinque varianti di virus”. Per Zollo “sappiamo che le varianti, identificate con le sigle 19A, 19B, 20A, 20B e 20C, sono presenti in tutta Italia, ma adesso si tratta di capire quale sia la loro incidenza nelle regioni”.

Interrogazione presentata da Maurizio Gasparri. Grillo con la mascherina già a dicembre: il caso finisce in Senato. Redazione de Il Riformista il 29 Maggio 2020. “La mascherina è per proteggermi da voi giornalisti, dai vostri virus. Con quei microfoni siete pieni di batteri”. Era il 17 dicembre scorso quando il comico genovese Beppe Grillo si presentò davanti ai giornalisti con una mascherina nera. Un evento che, allora, sembrò insolito ai giornalisti tanto che chiesero al fondatore del Movimento 5 stelle il perché di quella scelta.  “Sono un antiemorragico – rispose il comico –  fatemi fare il mio lavoro… La mascherina è per proteggermi da voi“. La notizia è tornata in auge in questi giorni tanto che il senatore di Forza italia Maurizio Gasparri ha presentato un’interrogazione in Senato ai ministri dell’Interno Lamorgese e degli Esteri Di Maio. “Beppe Grillo – si legge nell’interrogazione presentata da Forza Italia – a fine novembre, sarebbe stato in ben due occasioni, nel giro di 24 ore, a colloquio con l’ambasciatore cinese a Roma, una delle quali in una cena riservata e già dalla metà del mese di novembre (per la precisione dal giorno 17), vi era stato un primo caso di contagio da COVID-19 in Cina”. L’episodio viene messo in relazione con i rapporti tra Cina e il Movimento 5 Stelle.”I dubbi e le perplessità su ciò che sarebbe accaduto a Roma appaiono più che legittimi, in particolare circa il livello di conoscenza da parte del leader del principale partito politico di governo in Parlamento, in merito all’epidemia che aveva colpito Wuhan e la regione dell’Hubei”, scrive Gasparri. E aggiunge: “I rapporti di Beppe Grillo con la Cina non sono poi così recenti ma risalgono almeno al 24 giugno 2013 allorquando, insieme a Gianroberto Casaleggio, si recò in visita all’ambasciatore cinese a Roma”.

Da corrieredellosport.it il 25 maggio 2020. La partita di Champions tra Liverpool e Atletico Madrid dello scorso 11 marzo non sarà ricordata soltanto per l’eliminazione della corazzata di Klopp: uno studio condotto da Edge Healt - società che analizza i dati per il servizio sanitario britannico - ha rivelato che quel match fu una vera e propria ‘bomba’ virologica provocando ben 41 morti da Coronavirus. Gli spettatori ad Anfield furono 52 mila, 3000 dei quali giunti da Madrid che aveva già adottato un blocco parziale. In Spagna, in quel momento, si registravano secondo la ricerca circa 640 mila persone infette, un dato davvero impressionante: 100 mila, invece, il bilancio inglese. I decessi sarebbero avvenuti tra i 25 e i 35 giorni successivi alla partita, già finita da mesi sotto osservazione perché considerata - insieme ad Atalanta-Valencia - veicolo di diffusione del Covid-19.

L’accusa del sindaco di Liverpool. Il mese scorso erano arrivate le parole del sindaco dell’area metropolitano di Liverpool, il laburista Steve Rotheram: “È scandaloso se le persone hanno contratto il Coronavirus come risultato diretto di un evento sportivo che crediamo non avrebbe dovuto aver luogo. Ciò ha messo in pericolo non solo quelle persone, ma anche il personale in prima linea del SSN e altri nelle loro stesse famiglie che potrebbero averlo contratto. Abbiamo osservato un aumento della curva di infezione. Dobbiamo capire se alcune di queste infezioni sono dovute direttamente ai sostenitori dell'Atletico. Non è stato permesso loro di radunarsi nel proprio paese, ma 3.000 sono arrivati nel nostro e potrebbero aver diffuso il Coronavirus. Il Governo si deve assumersi la responsabilità di non averli bloccati prima".

Dagospia il 26 maggio 2020. Luca Parmitano su Facebook: È stato portato alla mia attenzione un errore da me commesso durante un’intervista rilasciata a una trasmissione televisiva. Nell’episodio in questione, parlando delle precauzioni prese durante il rientro dalla Stazione Spaziale Internazionale, ho erroneamente affermato che, come equipaggio, fossimo al corrente dell’inizio del contagio pandemico già a novembre. Errare è umano, e mi spiace molto vedere che in questo caso il mio lapsus sia stato strumentalizzato. L’errore è dovuto a vari fattori, e qui di seguito ne riporto alcuni.

1) a bordo della ISS non utilizziamo il calendario, ma il Coordinated Universal Time (UTC). L’anno inizia con il giorno 1 e finisce con il giorno 365, e gli eventi vengono eseguiti in base a questa pianificazione. Di conseguenza è possibile confondere un mese con un altro poichè non vi facciamo mai riferimento, ma utilizziamo il giorno UTC;

2) ricordo che, intorno alla fine della missione, parlavamo con l’equipaggio di varie crisi in corso sulla Terra. Nel ripensare agli eventi intorno a quel periodo, ho fatto confusione tra le diverse conversazioni, e nel ricordare gli eventi ho collegato le prime notizie di contagio a un contesto temporale precedente. A bordo, abbiamo appreso del contagio insieme al resto del mondo, quando le agenzie giornalistiche e le grandi testate televisive hanno iniziato a parlarne;

3) tutto questo è facilmente verificabile: le comunicazioni Terra – bordo – Terra sono soggette al Freedom Of Information Act, una legge che impone totale trasparenza e che tutte le comunicazioni siano registrate. Non è possibile ricevere informazioni riservate. Inoltre, l’idea che fossimo già al corrente di un contagio pandemico è smentita dai fatti: le operazioni di rientro della Spedizione 61 sono state svolte normalmente, senza alcuna ulteriore precauzione. Al contrario, quando la situazione pandemica si è rivelata in tutta la sua gravità, l’equipaggio rientrato dalla Spedizione 62 è stato isolato in quarantena per evitare possibili contagi.

Mi scuso, con umiltà, per l’errore e per le conseguenze (del tutto inaspettate): me ne assumo ogni responsabilità.

ALCUNI COMMENTI:

Paola Riccucci: Luca, grazie per la delucidazione. Sicuramente per te era dovere morale e professionale pubblicare questa spiegazione. Per me sei un essere umano, capitano di una navicella spaziale che ha portato l'orgoglio italiano nello spazio. Bravo ????

Mauro Bacheca: Lo ha commesso 3 volte lo stesso errore e ritratta dopo un mese dalla sua prima dichiarazione: diciamo che è un militare e quindi soggetto a rispondere a dei superiori. Comunque non bisogna scusarsi per aver detto la verità, anche perché non ha comunque nociuto a nessuno se non a chi sapeva e non ha fatto nulla per fermare questo casino.

Salvo Vaiasicca: vabbe' ti è scappata la verita' che non dovevi dire, non ci pensare...... in questo mondo di bombardamento mediatico dove le notizie sono super filtrate questa è una vera notizia.

Marcus Fin: Una Persona con skill e addestramento come i Suoi non può commettere questo genere di errori. Vedo invece onore per la divisa che ancora porta e amore per la verità. Credo che dopo la Sua Collega Samantha potremmo assistere ad una nuova defezione dall'Arma Azzurra anche se per motivi diversi ma non meno rispettabili. Complimenti per i risultati raggiunti fino ad ora e non si pieghi alle imposizioni.

Marco Paglia: Pazzesco che il comandante della ISS debba giustificarsi per gli attacchi di qualche complottista che a malapena riesce ad entra su Facebook.

David Rossi per difesaonline.it il 25 maggio 2020. “…a bordo abbiamo un collegamento quotidiano con le realtà terrestri; abbiamo anche accesso alla rete internet; possiamo comunicare con i centri di controllo e già da novembre, avevamo iniziato a seguire i primi contagi, inizialmente soltanto nei paesi asiatici, poi al mio rientro i primi contagi in Europa…” (25 aprile 2020 - trasmissione Petrolio, Rai 1) “…sulla stazione abbiamo seguito quello che stava succedendo sulla Terra: anche prima del mio rientro già da novembre eravamo al corrente di questo probabile contagio pandemico e soprattutto la gravità che si andava allargando a macchia d’occhio proprio in Europa poco prima del mio rientro” (9 maggio 2020 - TG2 storie) Così si è espresso ben due volte nell’ultimo mese Luca Parmitano. Anzi, il colonnello Luca Parmitano, ufficiale dell’Aeronautica Militare con 25 anni di servizio e la bellezza di sei missioni spaziali alle spalle. Non parliamo di una recluta emotiva, né di un uomo a caccia di visibilità mediatica (avrebbe usato altri mezzi…), tantomeno di uno con i nervi fragili: siamo di fronte a uno dei motivi di orgoglio di questo Paese, di un militare che è stato il primo italiano ad effettuare un'attività extraveicolare il 9 luglio 2013, con 6 ore e 7 minuti di passeggiata spaziale, e il primo italiano (e il terzo europeo) al comando della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) durante la Expedition 61. Non parliamo, quindi, di uno che confonde novembre con gennaio per ben due volte. Ebbene, ha detto qualcosa di grosso, anzi di enorme, nel quasi totale silenzio dei media italiani. Innanzitutto, il colonnello Parmitano per primo in Italia e con l’autorevolezza della sua persona e del suo grado, ha confermato ciò che all’estero riportano persino media mainstream1,2, cioè che l’intelligence americana avvertì gli alleati e altri governi, fra cui quello israeliano, già a novembre 2019, mentre ancora ufficialmente la Cina comunista non dichiarava alcuna epidemia da coronavirus. Quello stesso rapporto, sicuramente già disponibile per tutti i leader prima del 28 novembre, secondo tutte le fonti avvertiva che il dilagare di una siffatta pandemia avrebbe provocato “un evento catastrofico”. Lo faceva, con dovizia di prove, molte settimane prima che il compianto dottor Li Wenliang, martire per la libertà assassinato da funzionari comunisti (in Rolls Royce) della Cina continentale, annunciasse al mondo il pericolo imminente. Sarebbe interessante chiedere a Parmitano chi lo teneva informato: se direttamente gli USA o le autorità italiane o anche una pluralità di governi, come pare più probabile (in quanto comandante della ISS). Nelle interviste fa capire che dette informazioni circolavano normalmente fra tutti i membri della missione, anche costituita da cosmonauti russi: pare, quindi, ovvio dedurre che anche Mosca sapesse o fosse stata informata. All’epoca, la Corea del Sud e il Giappone avevano ricevuto le stesse comunicazioni - e forse di più - e si erano adeguati perché avevano fatto le terribili esperienze della SARS e della MERS molto da vicino e, per ragioni storiche e geopolitiche, si fidano della Repubblica Popolare Cinese molto poco. In Occidente, gli avvertimenti non sono stati ritenuti meritevoli di reazione, a parte averli fatti circolare come pare di capire, fra gli stessi governanti che poi hanno, più o meno maldestramente, gestito la crisi. Poi, Parmitano parla di un fenomeno grave che, prima del 6 febbraio, nel nostro Continente “si andava allargando a macchia d’olio”. Si noti bene: non ha usato l’espressione “a macchia di leopardo”, cioè con tante modeste localizzazioni separate fra di loro come appariva a qualunque osservatore in quel periodo, ma a “a macchia d’olio”, cioè con la dinamica che il fenomeno davvero aveva, ma che le cronache e i ministeri della salute hanno scoperto solo nella seconda metà di marzo. Esistono uno o più rapporti o studi dei servizi americani - o di un altro Paese che ha partecipato alla missione Expedition 61 - sull’andamento probabile del contagio da COVID-19 che non sono stati resi pubblici ma sono circolati fra le persone in posizione apicale, fra cui appunto il comandante della ISS? Se sì, ne è stato tenuto conto al momento in cui si sono impostate le prime strategie di gestione della pandemia? Francamente, pare ovvio che gli stessi servizi che avevano elaborato il primo rapporto siano, per così dire, rimasti sul pezzo, anche quando la Repubblica Popolare ha ammesso l’esistenza dell’epidemia e di averla messa sotto controllo. Verrebbe da chiedere al Governo italiano (la delega ai servizi è nelle mani del presidente del consiglio) se una volta informato - ci rifiutiamo di credere che il premier Conte a novembre ne sapesse meno del comandante della ISS - abbia preso misure cautelative, come sottoporre a visita medica i militari che avevano partecipato ai giochi di Wuhan il 18-27 ottobre (v.articolo), appunto il territorio da cui stava dilagando un’epidemia potenzialmente catastrofica. Se sì, con quali risultati? Se no, perché? Tante domande, tantissimi morti e un danno economico incalcolabile. Per adesso, nessuna risposta. Ma una luce si è accesa in fondo al tunnel…

Se Pechino sapeva del virus prima di gennaio, come scrive pure la stampa cinese, allora lo sapevano pure i servizi occidentali, statene certi. E da lì alla Stazione Spaziale Internazionale il passo è più breve di quanto sembri. E le comunicazioni riservate...David Rossi per difesaonline.it il 29 maggio 2020. Dove eravamo rimasti tre giorni fa? Ricominciamo dai famosi video di cui molti hanno scritto e che pochi hanno visto: lasciamo ai lettori la libertà, guardandoli direttamente, di farsi un’idea (v.link o vai a fine articolo). Partiamo con ordine, dalla necessità di chiarimenti dopo che “qualcuno” ha portato all'attenzione dell'ex comandante della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) il fatto di "aver commesso un errore durante un'intervista rilasciata a una trasmissione televisiva": a dire il vero, come potete vedere, le interviste sono DUE e ben distinte. In entrambe, il colonnello Parmitano fornisce sempre e con schiettezza la stessa risposta: a NOVEMBRE lui e l’equipaggio della ISS erano già informati del pericolo rappresentato dal Sars-CoV-2 (che allora non aveva ancora questo nome) come potenziale pandemia. Ricordiamo anche, prima di procedere, lo scenario del giorno del ritorno. Il 6 febbraio c’erano già 31.439 casi, di cui 31.161 nella Repubblica Popolare Cinese, 20 sulla nave da crociera Diamond Princess e il resto in vari Paesi di tre continenti: in un'intervista Parmitano parla della “gravità che si andava allargando a macchia d’olio proprio in Europa poco prima del rientro”. Prima di elencare varie scusanti il colonnello dell'aeronautica afferma: “Errare è umano, e mi spiace molto vedere che in questo caso il mio lapsus sia stato strumentalizzato”. Dopo aver visionato il video, con la strage in corso su tutto il Pianeta - siamo ad oltre 350.000 morti ufficiali -, non credete sia semplicemente legittimo, anzi doveroso, porsi e porre certi interrogativi?

Passiamo ora alle giustificazioni addotte da Parmitano. Dal 1965 Omega, oggi di proprietà di Swatch Group, mette al polso degli astronauti delle missioni a partecipazione umana dei capolavori di eccellenza orologiaia svizzera. Uno fra questi è lo Speedmaster Skywalker X-33, progettato appositamente per gli esploratori dello spazio e testato e qualificato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA). È stato sviluppato per soddisfare quanti, come gli astronauti, sfruttano funzioni speciali come: tre diversi fusi orari, cronografo, timer, MET (Mission Elapsed Time), PET (Phase Elapsed Time) tre sveglie e, ultimo ma non meno importante, il calendario perpetuo. L'orologio è chiaramente visibile al polso del colonnello Luca Parmitano in occasione di almeno tre interviste dallo spazio durante la missione Expedition 61. L’ufficiale, tuttavia, nel comunicato dell'ESA (v.link) afferma che “a bordo della ISS non utilizziamo il calendario, ma il Coordinated Universal Time (UTC). L’anno inizia con il giorno 1 e finisce con il giorno 365, e gli eventi vengono eseguiti in base a questa pianificazione. Di conseguenza è possibile confondere un mese con un altro poiché non vi facciamo mai riferimento, ma utilizziamo il giorno UTC”. Vuol forse dire che non guardava mai e non utilizzava le funzioni del suo orologio sviluppato appositamente per le esigenze degli astronauti? Il colonnello Luca Parmitano afferma, quindi, che a bordo della ISS aveva accesso alle “agenzie giornalistiche e alle grandi testate televisive”. Davvero non ha mai fatto caso che queste gli portavano le notizie indicando in un angolo date e orari, per così dire, terrestri, permettendogli a ogni fruizione di collegare facilmente gli avvenimenti a mesi specifici? Non ha fatto caso alla data nemmeno mentre postava su Facebook per ben 35 volte a novembre e 41 a dicembre come un “terrestre” qualsiasi? Non ha tratto motivo di distinguere NOVEMBRE dagli altri mesi nonostante in quei trenta giorni siano arrivati due nuovi compagni di missione, un’astronauta dalla NASA e un cosmonauta dall’agenzia spaziale russa? Non è valsa, a stimolargli la memoria, l’eccezionale - per certi versi storica - serie di attività extraveicolari (in gergo, EVA) svolte in quel mese, di tale complessità, ricordano le agenzie spaziali americana ed europea, come non si vedevano dai tempi della manutenzione del telescopio spaziale Hubble? E pensare che c’è gente che si ricorda il mese del primo esame o del primo bacio…A tre mesi dal rientro non riusciva - dobbiamo credere - a mettere a fuoco NOVEMBRE, nonostante a bordo della ISS non siano mancate le occasioni per imprimersi nella memoria eventi davvero speciali e collegarli a date specifiche. Come non ricordare gli auguri per il Natale e il pensiero “a chi è lontano dalla famiglia”, fatti a bordo della ISS poco prima della Festa? E la videochiamata augurale fatta al cantante Jovanotti alla fine di dicembre? E ancora prima non si è emozionato a parlare con una star del calibro di Paul McCartney all’inizio di dicembre? Forse non gli sono venuti i brividi ma sicuramente si sarà inorgoglito quando, a inizio NOVEMBRE, ha avuto un collegamento col nostro presidente e suo conterraneo, Sergio Mattarella? Noterete che ho omesso volutamente i giorni: questo perché al di là delle date precise, ognuno di noi fa esperienza del fatto che è molto difficile confondersi con i mesi. Puoi sbagliare il giorno, ma il mese mai e se succede puoi confonderti col mese immediatamente precedente o quello successivo, non prendere NOVEMBRE per FEBBRAIO! Sarebbe bastato dire: “ho erroneamente (sic) affermato che, come equipaggio, fossimo al corrente dell’inizio del contagio pandemico già a novembre. Errare è umano”. Invece, ha cominciato ad arrampicarsi sugli specchi spiegandoci i “vari fattori” a cui il così detto errore sarebbe dovuto e che abbiamo smontato pezzo per pezzo. Sarebbe ora inutile chiedere chi ha “portato alla sua attenzione un errore commesso”. A più di un lettore sarà però venuto il dubbio che chi gli ha chiesto di “riparare” ne avesse interesse e volesse una smentita “a ogni costo”. Nell'ultimo punto Parmitano afferma poi “tutto questo è facilmente verificabile: le comunicazioni Terra – bordo – Terra sono soggette al Freedom Of Information Act, una legge che impone totale trasparenza..." Mi spiace far notare che, mentre scrivo, per l’Italia il Freedom of Information Act a cui fa riferimento lo stesso colonnello per avere maggiori informazioni è stato sospeso dal governo in carica a causa della crisi da COVID-191: la trasparenza è quindi ancora in stato di lockdown! Cari lettori, ci sembra come minimo strano che solo in Italia si neghi quello che media internazionali di specchiata affidabilità affermano: i grandi di questo mondo furono informati - parafrasando le parole di Parmitano - del pericolo di un “probabile contagio pandemico” fin da NOVEMBRE. A noi dispiace disturbare un concittadino come il colonnello Parmitano che gode della nostra stima e ammiriamo, ma il COVID-19 è arrivato a fare stragi di innocenti a marzo senza che le autorità avessero attuato alcuna forma di preparazione. Non possiamo dunque esimerci dal domandare chi sapeva e che cosa: lo dobbiamo ai vivi… e ai morti!

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid? Federico Giuliani il 26 maggio 2020 su Inside Over. Quando all’interno di un Paese scoppia un’epidemia è importante agire in modo tempestivo per evitare che la piaga sanitaria possa diffondersi senza controllo. Il procedimento, solitamente, è sempre lo stesso. Una volta che viene riscontrata la presenza di un focolaio, gli esperti delimitano quell’area alla ricerca della radice dalla quale tutto è partito. È il cosiddetto ”paziente zero”, figura che negli ultimi mesi abbiamo più volte sentito rammentare all’interno dei notiziari televisivi. La descrizione del paziente zero medio può così essere riassunta: si tratta del primo soggetto a essere colpito dalla malattia infettiva, quello attraverso cui l’infezione comincia, nonché il primo a diffonderla agli altri. Da un punto di vista tecnico-scientifico è tuttavia importante distinguere tra ”index case” e ”primary case”. Già, perché l”’index case”, o caso indice, è il primo caso di paziente infetto registrato dalle autorità mediche di un determinato luogo; il ”primary case” è invece la persona che effettivamente introduce un’infezione all’interno di un gruppo sociale (ospedale, scuola o perfino Paese). Non sempre index case e primary case coincidono nella stessa persona. Anzi: il più delle volte è proprio l’opposto, tanto che in numerose epidemie del passato il primary case è tutt’ora sconosciuto. Tornando alla definizione di paziente zero, la sua individuazione è quanto mai fondamentale per ricostruire l’albero genealogico dei contagi.

Il paziente zero italiano. Nel caso della pandemia di Covid-19 è molto complicato risalire al paziente zero. Il motivo è semplice: non abbiamo ancora alcuna certezza sul luogo e sulla data di origine dell’infezione. Sul tavolo ci sono varie ipotesi, ma non prove certe che garantiscano l’ufficialità. La Sars-CoV-2 è nata a Wuhan? È apparsa in autunno, come sostengono alcune indiscrezioni, oppure la misteriosa malattia era già in circolazione dall’estate 2019? Va da sé che senza avere punti fermi resta difficile, se non impossibile, risalire all’esatto paziente zero dal quale è partito tutto. Inoltre, dal momento che il Covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, ogni Paese ha imparato a fare i conti con la ricerca del proprio paziente zero. Partiamo dall’Italia. Il paziente zero non ha ancora un’identità, anche se, in base all’ipotesi avanzata dall’infettivologo Massimo Galli, primario all’ospedale Sacco di Milano nonché docente di Malattie infettive all’università Statale del capoluogo lombardo, tutto potrebbe essere partito da un tedesco. Lo scorso 11 marzo, Galli spiegava all’agenzia AdnKronos che ”gran parte, se non tutta l’epidemia del Lodigiano sia partita da qualcuno che si è infettato in Germania verosimilmente intorno al 24, 25 o 26 di gennaio e che poi è venuto in quella zona dove ha seminato l’infezione, del tutto inconsapevolmente o perché completamente asintomatico o perché ha scambiato i sintomi di Covid-19 per quelli di una normale influenza”. Il primo paziente infetto registrato ufficialmente in Italia, invece, è Mattia, il 38enne di Codogno che per settimane si pensava potesse essere il paziente zero.

Il manager tedesco. La caccia al paziente zero europeo ci porta allora in Germania. Come hanno scritto alcuni medici locali in una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine, un tedesco di 33 anni potrebbe essere stato il primo cittadino europeo ad aver contratto la Sars-CoV-2. La teoria è stata confermata da uno studio operato da Trevor Bedford, professore associato al Department of Genome Sciences e al Department of Epidemiology all’Università di Washington. Scendendo nel dettaglio, il presunto paziente zero europeo ha manifestato i primi sintomi il 24 gennaio. Tre giorni dopo torna a lavoro, in un’azienda a Monaco. Piccolo particolare: tra il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting al quale era presente anche una collega di Shanghai. La donna, in perfetta salute, aveva soggiornato in Germania dal 19 al 22 gennaio ma, il 26 gennaio, una volta rientrata a Shanghai, sul volo di ritorno verso la Cina, inizia a star male. Si tratta del Covid-19. Il 27 gennaio la donna avvisa i tedeschi di quanto accaduto, e quel giorno l’azienda effettua subito test su tutti i lavoratori dello stabilimento. Il nostro 33enne risulta ovviamente positivo; il 28 altri tre colleghi vengono trovati positivi.

Il pescivendolo francese. Anche in Francia mancano alcune tessere per completare il mosaico. Certo è che alcuni scienziati mettono in discussione la timeline ufficiale della pandemia. Michel Schmitt, capo del Dipartimento di radiologia nell’ospedale di Colmar, nella regione dell’Alsazia, ha un’illuminazione. Sentendo l’apocalisse in corso a Wuhan, Schmitt si ricorda dei numerosi pazienti ricoverati nell’autunno del 2019 e sottoposti a tac e radiografie al torace. Dai referti pare che centinaia e centinaia di quei pazienti (per l’esattezza 482) – ha scritto Repubblica dopo aver consultato una ricerca – fossero probabilmente positivi al virus. Il paziente zero? Forse una francese di 28 anni, mai stata in Cina e ricoverata il 16 novembre. Se così fosse, significa che l’epidemia stava circolando in Francia mesi e mesi prima dell’inizio ”ufficiale” dell’epidemia di Wuhan, presumibilmente durante l’estate 2019. In ogni caso i primi tre casi di pazienti francesi infettati dal Covid-19 vengono annunciati soltanto il 24 gennaio. Eppure c’è un altro caso misterioso: quello di Amirouche Hammar, un pescivendolo 43enne che vive a Bobigny e che per alcuni potrebbe essere il paziente zero francese. Si ammala intorno al 20 dicembre, dopo che sua moglie aveva già manifestato sintomi compatibili con il nuovo coronavirus, ben prima che Parigi si trovasse a fare i conti con migliaia di infezioni al giorno. Hammar non aveva effettuato recenti viaggi all’estero: da dove ha contratto il virus? Forse dalla moglie, addetta in un Carrefour situato nei pressi dell’aeroporto di Roissy, uno scalo che fino allo scorso gennaio ha ospitato voli giornalieri provenienti da Wuhan.

L’enigma cinese e il paziente zero americano. Rintracciare il paziente zero cinese equivale a trovare un ago in mezzo a un pagliaio. Tra versioni contrastanti, errori più o meno volontari e silenzi vari, ci sono al meno tre versioni da prendere in considerazione. Secondo le autorità cinesi il primo caso di Sars-CoV-2 si sarebbe verificato lo scorso 31 dicembre. I malati successivi sono stati collegati al Mercato ittico di Huanan, un wet market a Wuhan, capoluogo dello Hubei ed epicentro della pandemia globale. Uno studio condotto da alcuni ricercatori cinesi pubblicato su Lancet sostiene invece che la prima persona affetta da Covid-19, il primo dicembre 2019, fosse un uomo anziano che soffriva di Alzheimer. Non aveva alcun contatto con il mercato del pesce di Wuhan, anche se viveva poco distante da quel luogo. La terza versione è quella riportata dal South China Morning Post, secondo cui il primo a contrarre il virus potrebbe essere stato un 55enne dello Hubei, precisamente il 17 novembre. Impossibile tuttavia avere la certezza assoluta, visto che alcuni casi sono stati retrodatati. E negli Stati Uniti? Il primo infetto negli Usa dovrebbe essere un 35enne di Seattle. Il 19 gennaio, pochi giorni dopo essere rientrato da Wuhan assieme alla famiglia, accusa febbre e tosse. Decide quindi di recarsi in una clinica di pronto soccorso, munito di mascherina e delle adeguate protezioni. Il test, pressoché immediato, dà esito positivo. Le autorità rintracciano immediatamente le persone che hanno avuto contatti con lui o con il resto della sua famiglia. Tutto sembra filare liscio, visto che, a distanza di settimane, nessuno di quei soggetti ha ancora manifestato il Covid-19. Qualcuno, evidentemente, è però sfuggito al controllo. Intanto il paziente zero della Sars-CoV-2 non ha ancora un’identità. Molto probabilmente non ce l’avrà mai. 

·         Un Virus Cinese.

L’autorizzazione mancante, il laboratorio e i pipistrelli: il mistero sulle origini del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 26 dicembre 2020. Una missione, quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Wuhan, per studiare le origini della Sars-CoV-2, tanto attesa quanto “spuntata” a causa del fiato sul collo delle autorità di Pechino. L’autorizzazione a poter visitare i corridoi del famigerato Wuhan Institute of Virology (WIV) mai richiesta dall’Oms al governo cinese (il quale tuttavia, con ogni probabilità, non l’avrebbe mai concessa). Lo strano invito della “Bat woman” Shi Zhengli al team di esperti stranieri di entrare in laboratorio; un assist presto smussato e ridimensionato dai piani alti della struttura o, chissà, dal governo cinese. E ancora: i pipistrelli che tornano al centro dell’indagine come possibili serbatoi del nuovo coronavirus. E, infine, il tentativo da parte di alcuni giornalisti della Bbc di visitare le grotte dello Yunnan, dove qualche anno fa la signora Shi aveva trovato un virus proveniente proprio da un pipistrello e molto simile alla Sars-Cov-2. Un tentativo non andato purtroppo a buon fine a causa di misteriosi ostacoli riscontrati sul cammino dei reporter. Sul tavolo ci sono tutti gli elementi per ricostruire, in versione aggiornata, il mistero sulle origini del Sars-CoV-2. Un enigma che lega il laboratorio di Wuhan, la Bat woman cinese, i pipistrelli e le grotte dello Yunnan. È in uno scenario del genere che si ritroverà presto a lavorare la squadra di esperti allestita dall’Oms.

Ipotesi smentita. Partiamo dal recente contatto avuto tra Shi Zhengli e la Bbc. Miss Shi, in Cina, non ha bisogno di presentazioni. È una delle virologhe più importanti del Paese. Da 16 anni visita le grotte più inaccessibili dell’ex Impero di Mezzo a caccia pipistrelli, dai quali preleva campioni di tessuto e sangue con l’obiettivo di identificare decine di virus mortali. La sua prima missione degna di nota risale al 2004, quando Shi effettua una spedizione nelle caverne situate nei pressi di Nanning, nel Guanxi, per raccogliere tracce dalle colonie di pipistrelli che abitano quei luoghi oscuri. Il suo obiettivo: trovare il colpevole che, soltanto un anno prima, aveva scatenato l’epidemia di Sars. In ogni caso, tornando al presente, Bat woman, grazie alla sua minuziosa caccia ai pipistrelli, è riuscita a formare uno dei più grandi archivi di coronavirus esistenti al mondo. All’interno di questo particolare album fotografico trova spazio anche il CoV ZC45, virus appartenente alla famiglia della Sars rinvenuto nei pipistrelli Rhinolophus affinis, presenti nelle province dello Yunnan e dello Zhejiang. Secondo alcune indiscrezioni, il team di Miss Shi scoprì che il 96,2% del genoma di Sars-CoV-2 si sovrapponeva a un virus presente già in archivio: proprio il CoV ZC45. A pandemia scoppiata, la signora dei pipistrelli rilasciò una lunga intervista alla rivista Scientific American, accennando all’ipotesi che il virus potesse essere sfuggito dall’istituto in cui la donna prestava (e presta tutt’ora) servizio. D’altronde, secondo gli studi di Shi, le aree in cui vi era maggiore probabilità di assistere a una zoonosi erano quelle dello Yunnan, del Guandong e del Guanxi. Non certo le strade di una megalopoli come Wuhan. Un dubbio inizia ad attanagliare la mente della donna: se i responsabili delle polmoniti atipiche erano i coronavirus, questi “potevano forse essere arrivati dal nostro laboratorio?”. A un’idea del genere – soltanto un’ipotesi, in seguito ufficialmente smentita – Miss Shi ha dichiarato di non aver “chiuso occhio per giorni”.

L’invito di Batwoman. Passano i mesi e di Shi Zhengli non c’è traccia. Improvvisamente riappare sui radar con alcune dichiarazioni rilasciate, via mail, alla Bbc. La missione dell’Oms sta per approdare a Wuhan, e i giornalisti le chiedono se non sarebbe il caso di invitare gli esperti nel suo laboratorio, così da escludere, una volta per tutte, la speculazione sulla possibile fuoriuscita del virus dall’istituto. “Ho espresso personalmente e chiaramente che li accoglierei a visitare il WIV”, ha risposto Miss Shi, salvo poi fare retromarcia. “Personalmente apprezzerei qualsiasi forma di visita, basata su un dialogo aperto, trasparente, fiducioso, affidabile e ragionevole”, ha aggiunto la virologa in merito all’accesso della task force dell’Oms ai dati sperimentali e alle registrazioni di laboratorio. Il punto è che “il piano specifico” non dipende da lei. Ovvero: non a lei che spetta decidere se concedere o meno l’autorizzazione di visitare il laboratorio agli esperti internazionali. In un secondo momento, la Bbc ha ricevuto una telefonata dall’ufficio stampa del laboratorio, in cui si diceva che Miss Shi stava parlando a titolo personale e che le sue risposte non erano state approvate dalla struttura. Certo è che l’Oms non ha minimamente preso in considerazione la teoria della fuoriuscita dal laboratorio. E che i membri della squadra inviata a Wuhan, secondo le ultime indiscrezioni, non hanno presentato alcuna richiesta per visitare il laboratorio. Detto in altre parole, il Wuhan Institute of Virology non sembrerebbe interessare a nessuno.

Strada sbarrata. L’ultimo tassello del puzzle riguarda alcune stranezze riscontrate dai giornalisti della Bbc, intenti a visitare il distretto di Tongguan, nella provincia dello Yunnan. Esatto: proprio il luogo in cui Miss Shi aveva recuperato il virus molto simile al Sars-CoV-2. Ebbene, nella ricostruzione offerta dall’emittente inglese, i giornalisti che hanno cercato di raggiungere la meta hanno dovuto fare i conti con una serie di impedimenti. Agenti di polizia in borghese e altri funzionari in auto, senza contrassegni, li hanno seguiti per miglia lungo le strade polverose e sconnesse. A un certo punto i giornalisti sono stati costretti a tornare indietro, visto che il percorso era sbarrato da un camion apparentemente in panne, probabilmente messo appositamente di traverso da qualcuno per scoraggiare gli stranieri a continuare il loro viaggio. La gente del posto, ha aggiunto la Bbc, ha in seguito confermato che quel mezzo era stato posizionato lì in mezzo pochi minuti prima dell’arrivo della troupe giornalistica. Come se non bastasse, gli inviati si sono imbattuti in posti di blocco in cui uomini non identificati hanno spiegato che il loro compito era di tenerli “lontani”. Lontani da cosa? Lontani da dove?

Da adnkronos.com l'1 dicembre 2020. La Cina non avrebbe diffuso, almeno nelle prime fasi dell'emergenza, i dati reali sull'epidemia di coronavirus, che si sarebbe inizialmente manifestato nella megalopoli di Wuhan, e avrebbe gestito male le prime fasi di quella che sarebbe poi diventata una pandemia. Lo sostiene la Cnn specificando di basarsi su informazioni contenute in documenti interni di cui, afferma, è venuta in possesso grazie a un 'whistleblower' (una fonte interna al sistema sanitario cinese) e che precisa di aver verificato con sei esperti indipendenti, aggiungendo di non aver ricevuto risposte dal ministero degli Esteri di Pechino, dalla Commissione sanitaria nazionale e dalla Commissione sanitaria di Hubei, di cui Wuhan è capoluogo. La Cina ha più volte negato le accuse di poca trasparenza e difeso la sua risposta all'emergenza. A un anno da quando il primo paziente noto mostrò i sintomi a Wuhan, secondo una ricostruzione delle prime fasi dell'epidemia pubblicata da Lancet, la Cnn cita un "rapporto contrassegnato come 'documento interno da mantenere riservato' in cui le autorità sanitarie della provincia di Hubei segnalano il 10 febbraio un totale di 5.918 nuovi contagi" (di cui 2.345 "casi confermati" e gli altri tra "diagnosticati clinicamente" e "sospetti"), più del doppio - sottolinea l'inchiesta 'The Wuhan files' - dei dati ufficiali sui casi confermati. Era il giorno in cui da Pechino il presidente Xi Jinping parlava di situazione "molto grave" e il giorno in cui le autorità sanitarie del gigante asiatico riportavano di 2.478 nuovi casi confermati in tutto il gigante asiatico. I dati, sottolinea la Cnn, fanno parte di una serie di "rivelazioni" contenute nelle 117 pagine di documenti 'usciti' dal Centro provinciale di Hubei per il controllo e la prevenzione delle malattie che aprono una 'finestra' su quanto avvenuto tra ottobre 2019 e lo scorso aprile. I documenti, puntualizza la Cnn, non sono prove di un "deliberato tentativo di offuscare quanto scoperto, ma rivelano varie incongruenze tra ciò che le autorità credevano stesse accadendo e ciò che è stato rivelato all'opinione pubblica". Le "discrepanze più nette" emergono secondo la Cnn dai bilanci delle vittime riportati nei documenti: il 7 marzo il bollettino da Hubei parlava di un totale di 2.986 decessi, mentre nel "rapporto interno" vengono "segnalati 3.456 morti, di cui 2.675 decessi confermati, 647 'diagnosticati clinicamente' e 126 'sospetti'". Stando alle rivelazioni, inoltre, un documento di inizio marzo indicherebbe che passavano in media 23,3 giorni da quando un paziente mostrava i primi sintomi alla conferma della diagnosi. I documenti parlano anche di un'altra emergenza sanitaria esplosa lo scorso dicembre: la provincia di Hubei avrebbe fatto i conti con un'epidemia di influenza con un numero di casi 20 volte superiore rispetto all'anno precedente, un'epidemia diffusa non solo a Wuhan ma soprattutto nelle vicine città di Yichang e Xianning. Restano poco chiari, sottolinea la Cnn, l'impatto o le relazioni con l'epidemia di Covid-19. Oggi, secondo l'agenzia ufficiale cinese Xinhua, la Commissione sanitaria nazionale ha confermato quattro casi di trasmissione locale del coronavirus nella Mongolia Interna (che portano il bollettino ufficiale a 86.542 contagi con 4.634 decessi) e otto casi "importati" (per un totale di 3.866). I dati della Johns Hopkins University parlano di un totale di oltre 63 milioni di contagi a livello globale con più di 1,4 milioni di decessi. Gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di casi e vittime.

Articolo di “Le Monde” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'1 dicembre 2020. Almeno una mezza dozzina di persone sono state arrestate, scrive Le Monde. Questa ondata di repressione rivela la paranoia di Pechino nei confronti di qualsiasi versione non conforme alla verità ufficiale su Covid-19. Ne avevano fatto la loro passione: l'archiviazione su un sistema ospitato all'estero, la piattaforma americana GitHub, i contenuti - articoli di stampa o di social network - che scomparivano dal web cinese ad ogni incursione censoria. Le autorità non sembravano preoccuparsi delle loro attività fino a quando l'epidemia di Covid-19 a Wuhan non ha ampliato il loro sito con centinaia di pagine di documenti. In aprile, Chen Mei e Cai Wei, due ventisettenni cinesi, sono stati arrestati a Pechino e tenuti in isolamento per 55 giorni prima di essere formalmente accusati. Sono in attesa del processo, che è imminente, con l'accusa di "opposizione e disordini", un reato che vale fino a quattro anni di reclusione, che viene regolarmente utilizzato per punire gli attivisti. Assieme a questi due storici in erba, sono stati arrestati almeno una mezza dozzina di cittadini giornalisti che si erano mobilitati per documentare il confinamento di Wuhan dal 23 gennaio. Come Chen Qiushi, che all'inizio dell'epidemia pubblicava i suoi rapporti negli ospedali di Wuhan su YouTube e che è stato tenuto in isolamento per quasi 300 giorni. O Zhang Zhan, un avvocato di Shanghai, anch'egli andato a Wuhan per filmare i suoi abitanti, che è stato arrestato a maggio e che presto sarà processato per "opposizione e disordini". Ha respinto le accuse a suo carico e ha fatto più volte lo sciopero della fame.

Paranoia delle autorità. Questa ondata di repressione rivela la paranoia delle autorità cinesi e la loro accresciuta vigilanza contro qualsiasi versione non conforme alla verità ufficiale sul Covid-19 a Wuhan. Dimostra anche quanto si sia ridotto il margine di manovra in Cina per un'intera generazione di giovani idealisti che ancora credevano di potersi impegnare in missioni civili. Chen Mei era uno di loro. Tecnico informatico in un'associazione per bambini ipoacusici e autistici di Pechino, aveva chiamato Terminus2049 il sito creato nel 2018 con il suo compagno Cai Wei, in omaggio al pianeta Terminus, sul quale, nei romanzi di fantascienza dello scrittore americano Isaac Asimov, uno scienziato conserva la conoscenza dell'umanità in via di estinzione. Tra gli articoli di stampa, ma anche libri vietati in Cina, un documentario sul massacro di Tienanmen, il contenuto di un sito di notizie di Hong Kong e un forum dove gli abbonati potevano scambiarsi in forma anonima collegandosi a una VPN, lo strumento che permette l'accesso a siti stranieri. Quando la trasmissione da uomo a uomo del virus è stata ufficialmente confermata a Wuhan il 20 gennaio, la rete cinese è esplosa con speculazioni, dubbi e rabbia. In un forum di discussione riservato agli intellettuali, è stato ampiamente diffuso un saggio che spiega che i cinesi stanno ora pagando il prezzo di non aver difeso la libertà di stampa per 50 anni. Lo Youth Daily, un giornale ufficiale progressista, pubblica una delle prime interviste dell'informatore Li Wenliang, l'oculista che poi è morto a causa di Covid-19. Sul servizio di messaggistica WeChat ci sono tutti i tipi di forum aperti. I residenti di Wuhan stanno indagando: uno di loro invia a WeChat le immagini di otto morti in un ospedale che sostiene di non avere alcun caso. Tutti questi contenuti, anche quelli della stampa ufficiale, saranno completamente eliminati dal web dai censori, come a lavare via ogni traccia dell'effervescenza che sta poi agitando la società cinese. Questi documenti sono archiviati su Terminus2049 e rimangono lì per la consultazione. Oggi, hanno fatto guadagnare a Chen Mei e alla sua compagna l'accusa di "diffondere informazioni false che hanno un effetto negativo sulla società", spiega il fratello maggiore del giovane archivista, Chen Kun, 33 anni. Ex attivista della comunità, ha lasciato la Cina per l'Indonesia all'inizio dell'epidemia, alla fine di gennaio, e poi è venuto a studiare in Francia, dove Le Monde lo ha incontrato. Da allora, ha cercato di tracciare i fili dell'indagine che ha portato suo fratello in prigione. In particolare, aveva aderito a un'iniziativa collettiva per cercare di determinare il numero reale dei morti di Covid-19. "Il governo cinese vuole che la gente ricordi solo una cosa, la sua vittoria sull'epidemia, dice Chen Kun. Se la gente lo mette in dubbio, può rivelare alcuni problemi della società, e loro non vogliono  questo."

"Informazioni sensibili". La sua stessa partenza dalla Cina, crede Chen Kun, ha alimentato i sospetti della polizia su suo fratello: un suo conoscente gli ha detto di essere stato interrogato, poche settimane prima del suo arresto, sul fatto che qualcuno vicino a Chen Mei all'estero potrebbe aver ricevuto "informazioni sensibili". In realtà, Chen Kun non era a conoscenza della società di archiviazione del fratello minore. L'informazione in questione, ha sottolineato, non era un segreto di Stato. Ha lasciato la Cina con la moglie e la figlia come misura precauzionale: "Sapevamo che l'obiettivo di sradicare la pandemia a tutti i costi avrebbe portato a molte azioni che avrebbero ignorato i diritti umani. Che chiunque fosse contagiato si sarebbe trovato completamente alla mercé del governo locale", dice. L'ex attivista e sua moglie erano già stati duramente colpiti dalla prima svolta autoritaria di Xi Jinping sei anni prima. Un'ondata di repressione contro gli ambienti associativi ha poi fatto guadagnare loro diversi mesi di "sorveglianza in un luogo designato", lo stesso prolungato regime di detenzione in isolamento, equivalente alla tortura, che Chen Mei ha subito. Per Chen Kun, arrestato il 6 ottobre 2014, la detenzione ha avuto luogo in una base militare vicino a Pechino. È stato interrogato per tre mesi e due guardie lo hanno tenuto di guardia nella sua cella giorno e notte. "È cento volte peggio di una prigione. Immaginare un giorno di tornare a casa era diventato un sogno stravagante. Mi era rimasto solo un desiderio, quello di chiacchierare con un altro essere umano", dice. Sua moglie, che era stata arrestata qualche giorno prima, vi ha trascorso ottanta giorni. La sequenza di circostanze che li ha portati a questa situazione è grottesca. Chen Kun era allora direttore del Liren College, laboratori educativi legati ad una ONG, Liren (in cinese, "in piedi"), che gestisce librerie per i bambini poveri delle zone rurali. La coppia fa parte di un'intera rete di attivisti, volontari e imprenditori che lavorano ai margini dell'impegno politico, impegnandosi nell'azione dei cittadini. La moglie di Chen Kun, Ling Lisha, fotocopia un giorno di settembre documenti relativi al "movimento ombrello", l'occupazione dei quartieri di Hong Kong da parte dei manifestanti, in una farmacia vicino a un'università di Pechino. La fotocopiatrice è collegata alla polizia segreta e la ricevuta, rilasciata a nome di una delle associazioni, sarà usata come pretesto per l'arresto di un noto attivista per i diritti umani, Guo Yushan, il cui assistente è Chen Kun. Il signor Guo sconterà un anno di carcere, mentre il suo stesso avvocato è condannato a dieci anni. La maggior parte delle associazioni saranno smantellate. Al suo rilascio, la coppia ha un figlio, si trasferisce al Sud e allestisce un asilo nido, rassegnandosi, dicono, a un lavoro "normale". Diverse ondate successive di repressione hanno poi prosciugato il terreno fertile da cui, all'inizio del decennio 2010, erano emerse queste buone volontà, determinate a far avanzare la Cina verso lo stato di diritto. Nel 2015, 300 avvocati sono stati arrestati e circa dieci di loro hanno ricevuto pesanti condanne. Tanto che il periodo in cui tutti si mobilitavano su Internet quando un attivista era detenuto, coinvolgendo avvocati indipendenti, aiutando le famiglie, è in gran parte finito. "Ho scelto un avvocato indipendente per mio fratello. Ma è stato costretto a ricorrere a difensori pubblici. Questi avvocati si rifiutano di parlare con me. La procedura è una scatola nera. Ripetono quello che la polizia dice - che mio fratello ha commesso un crimine - invece di difenderlo. L'obiettivo è quello di impedire ai veri avvocati di fare il loro lavoro", dice Chen Kun. Ma è riuscito a convincere i primi due avvocati ufficiali a ritirarsi, minacciando di informare i loro clienti internazionali, le grandi aziende, del loro inganno. Una prima vittoria simbolica, anche se altri due sono stati nominati per sostituirli.

Da corrieredellosport.it il 7 maggio 2020. Ai mondiali militari di Wuhan "ci siamo ammalati tutti, 6 su 6 nell'appartamento e moltissimi anche di altre delegazioni. Tanto che al presidio medico avevano quasi finito le scorte di medicine". Così Matteo Tagliariol, uno dei campioni della scherma azzurra racconta quanto accaduto lo scorso ottobre e il possibile contatto col coronavirus già allora. "Ho avuto febbre e tosse per 3 settimane - dice lo spadista azzurro - e gli antibiotici non hanno fatto niente; poi è toccato a mio figlio e alla mia compagna. Non sono un medico, ma i sintomi sembrano quelli del covid-19". A questo punto il sospetto è che il coronavirus sia scoppiato in Cina già addirittura ad ottobre. Alle parole di Tagliariol sono seguite quelle della pentatleta francese Elodie Clouvel che all'emittente televisiva Loire7 ha dichiarato: "Abbiamo sicuramente già avuto il coronavirus perché eravamo a Wuhan per i Giochi Militari. Ci siamo ammalati praticamente tutti e io ho avuto problemi mai avuti prima con un'influenza fortissima, quasi terrificante".

Michelangelo Cocco e Gianluca Cordella per “il Messaggero” l'8 maggio 2020. L'epidemia di coronavirus era esplosa a Wuhan due mesi prima che il governo di Pechino e l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) rivelassero al mondo l'esistenza della nuova malattia? È lo scenario che sembra emergere dalle testimonianze di alcuni atleti che dal 18 al 27 di ottobre parteciparono ai Giochi mondiali militari nella metropoli cinese. Lo schermidore Matteo Tagliarol ha raccontato che «moltissimi nella delegazione italiana si sono ammalati di influenza, tanto che c'erano problemi con le scorte di medicine. Quando sono rientrato ho avuto la tosse, la febbre, per tre settimane». «A Wuhan eravamo in sei nello stesso appartamento continua la testimonianza dello spadista azzurro - e ci siamo ammalati tutti». Ma Valerio Aspromonte, il campione di fioretto delle Fiamme Gialle che era nella stessa stanza di Tagliarol, ha ricordi differenti: «Non ho avuto alcun sintomo influenzale: febbre, tosse, niente... E posso dire lo stesso dei miei compagni di stanza. Compreso Matteo che non mi sembra stesse male. Non ho visto atleti moribondi in giro per il villaggio. Che era enorme e pulitissimo, compresi bar e mensa». Sbagliato pensare che il villaggio potesse essere una sorta di isola felice rispetto al resto della città. «In centro si stava bene. Su dieci sere almeno otto le abbiamo passate fuori, compresa l'ultima: siamo andati a cena insieme, tutti noi della scherma, la sera prima di ripartire e poi siamo stati a ballare fino alle 4. Difficile per delle persone che stanno male...». «I controlli erano davvero meticolosi, forse come non mi è capitato mai di vedere in altre competizioni - racconta Kevin Ojiaku, specialista del salto in lungo delle Fiamme Gialle - Per questo le parole di Tagliarol mi hanno sorpreso. Addirittura, a livello ambientale, mi aveva fatto impressione sapere che avevano chiuso le fabbriche tre mesi prima per far abbassare i livelli di smog nell'aria e facilitare le prestazioni sportive. Si vedeva il cielo limpido e mi dicevano che non è usuale da quelle parti». A mettere un tombale sulle parole di Tagliarol è poi arrivata la nota dello Stato Maggiore della Difesa che ha sottolineato come «il personale sanitario militare ha sempre monitorato lo stato di salute della delegazione (...) e non ha riscontrato alcuna criticità sanitaria individuale o collettiva». Eppure secondo uno studio (basato sull'esame di 7.000 sequenze genetiche raccolte in giro per il mondo) che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista scientifica Infection Genetics and Evolution, il virus sarebbe passato dagli animali agli esseri umani proprio tra il 6 ottobre e l'11 dicembre 2019. E, in base a documenti visionati dal quotidiano hongkonghese South China Morning Post, il governo cinese registrò il primo caso del misterioso virus il 17 novembre scorso. Aumenta dunque la pressione internazionale su Pechino per fare chiarezza sull'origine del Covid-19, sulla cui diffusione il presidente cinese, Xi Jinping, e l'Oms lanciarono l'allarme il 30 dicembre. L'Unione Europea ha una posizione diversa dall'Amministrazione statunitense (che continua a insinuare che Pechino avrebbe fabbricato il virus in laboratorio) ma appoggia comunque un'inchiesta internazionale. Pressioni mal sopportate da Pechino, la cui immagine nel mondo hanno rivelato uno studio cinese e uno statunitense è scesa ai minimi dalla repressione di Tiananmen nel 1989. Ieri gli ambasciatori dell'UE si sono visti respingere la pubblicazione di un loro intervento sull'edizione cinese del China Daily, mentre su quella in lingua inglese è stata censurata la frase: «L'esplosione del coronavirus in Cina e la conseguente diffusione nel resto del mondo ci ha costretti a mettere da parte momentaneamente gli incontri programmati». Ieri la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, ha sottolineato che Pechino respinge qualsiasi «presunzione di colpevolezza» ma, nello stesso tempo, ha aperto a un'inchiesta dell'Oms, affermando che la Cina appoggerà un'indagine sulla diffusione del virus «al momento opportuno». Maria Van Kerkhove, epidemiologa dell'Oms, ha confermato che «stiamo discutendo con la controparte cinese su un'ulteriore missione, più accademica rispetto alla precedente, per fare luce su cosa è successo all'inizio». Al contrario «la Cina si oppone alle nazioni, come gli Stati Uniti, che politicizzano la questione dell'origine del virus e fanno pressione per un'inchiesta internazionale con la presunzione di colpevolezza» ha chiarito Hua. È altamente improbabile che la leadership cinese acconsenta a un'inchiesta internazionale indipendente, che potrebbe evidenziare ritardi e mancanze nel contrasto dell'epidemia. Da un paio di mesi Pechino ha infatti mobilitato il suo apparato di propaganda per lanciare il messaggio opposto, e cioè che il successo delle sue misure di contenimento a Wuhan, dimostrerebbe la superiorità rispetto alle democrazie liberali.

Da gazzetta.it il 7 maggio 2020. Valerio Aspromonte risponde a Matteo Tagliariol. Una replica a sorpresa, che smentisce seccamente quanto detto dal compagno azzurro di Nazionale di fioretto ai Mondiali militari di Wuhan di fine ottobre. Tagliariol aveva detto: “Mai stato così male, ho avuto tanta tosse, con me in tanti, compreso il mio compagno di stanza Aspromonte”, ipotizzando un contagio generale al Covid-19. Il fiorettista ha spiegato: “Io ho fatto un viaggio intercontinentale, dopo 16-18 ore sono arrivato al Villaggio di Wuhan, poi ho dormito tanto per la stanchezza e il jet lag ma è normale. Non ho avuto sintomi influenzali, nè febbre, nè tosse particolare. Ero nella stessa camera di Matteo Tagliariol e non capisco perché sia uscito tutto questo a mesi di distanza. Io non ho avuto nulla e la gara si è svolta nel modo più normale possibile”. Aspromonte ha poi continuato: “Siamo stati 11 giorni dentro il Villaggio che era pulito e ordinato, atleti moribondi per il villaggio non ne ho visti, ho sempre mangiato nella mensa del Villaggio, era tutto nella norma. A me dispiace che escano certe cose a distanza di mesi. La mia famiglia e io siamo stati benissimo, nessuno di quelli che è stato intorno a me è stato male, tantomeno io. Poi i tempi di incubazione del coronavirus dicono che sia dai 5 ai 15 giorni, non puoi stare subito male quando arrivi a meno che non lo hai preso prima di partire”, ha proseguito il campione azzurro che si sta allenando ancora a casa. “Non sono mai uscito di casa. Ho fatto una quarantena vera. Ho sempre fatto ginnastica con mio figlio. Ora ho iniziato un po’ di attività all’esterno ma ancora non sono entrato in sala scherma, stiamo aspettando le linee guida della Federazione per iniziare la parte più tecnica. Con le Olimpiadi slittate e le gare che per i prossimi 4-5 mesi non ci saranno, credo sia anche il caso di aspettare, magari una settimana in più, per fare andare tutto per il verso migliore. L’importante è ripartire e fare le cose senza rifermarsi subito”.

Marco Bonarrigo per corriere.it l'8 maggio 2020. Dell’edizione dei Giochi Sportivi Militari 2019, le «olimpiadi» a stellette, si era finora parlato come di una bomba batteriologica fortunatamente disinnescata in tempo utile. Diecimila tra atleti e accompagnatori di 110 nazioni a stretto contatto tra loro (e con la popolazione cinese) dal 18 al 27 ottobre scorso a Wuhan, epicentro mondiale della pandemia. Tutti a casa, sani e salvi, un attimo prima che il contagio iniziasse e senza portare il virus nei 110 paesi di provenienza. Ma ora, in parallelo alla retrodatazione dei primi casi da parte degli scienziati, si moltiplicano le testimonianze di chi, al ritorno dalle gare (tra il 29 ottobre e il 3 novembre), avrebbe manifestato seri problemi di salute che, in almeno un caso, sarebbero stati coperti dalle autorità militari. Ieri la vicenda è esplosa anche in Italia ma le prime testimonianze sono state raccolte a metà aprile dal Norrländska Socialdemokraten (Ns), antico quotidiano del nord della Svezia. L’infettivologo del servizio sanitario regionale Anders Nystedt e alcune infermiere hanno riferito che almeno 12 militari, dai 20 ai 45 anni, presenti alla spedizione (gli svedesi erano 118) hanno manifestato gravi problemi respiratori. Nystedt inviò alla responsabile medica del corpo, Helena Stjärnholm, campioni di sangue dei malati per test sierologici di cui non ha mai avuto i risultati. I reduci di Wuhan sono poi stati confinati nella base militare di Boden e obbligati a non parlare con nessuno del caso. Alcuni si sarebbero ristabiliti completamente solo a febbraio, tre mesi dopo i fatti. Dalla Svezia alla Francia, dove le testimonianze — raccolte dall’Équipe — di due stelle del pentathlon moderno, Elodie Clouvel (argento olimpico) e Valentin Belaud, 5 volte campione del mondo, rivelano problemi respiratori che un medico militare avrebbe diagnosticato come «evidenti sintomi di coronavirus, simili a quelli mostrati da altri partecipanti». La Difesa francese ha affermato di non conoscere i fatti e di «non aver effettuato test», imponendo il silenzio alla coppia. Il fronte italiano si è aperto ieri con Matteo Tagliariol, (aviere, oro olimpico individuale e bronzo a squadre nella spada a Pechino 2008) con un’intervista alla Gazzetta dello Sport e un video su Instagram. Tagliariol ha descritto un forte stato influenzale e seri problemi respiratori sia in Cina che al ritorno in Italia, estendendoli a un’altra stella della scherma, Valerio Aspromonte, finanziere, oro a Londra 2012. Aspromonte però ha negato: «La mia salute era ottimale. A letto ho passato solo poche ore dopo l’arrivo in Cina per recuperare il fuso orario. Mai avuto febbre». I gruppi sportivi militari (200 gli azzurri presenti a Wuhan, tra atleti e accompagnatori) hanno imposto diffuso un comunicato in serata: «Non è stata riscontrata alcuna criticità individuale o collettiva collegabile al contagio da coronavirus». Il generale Vincenzo Parrinello, comandante delle Fiamme Gialle: «Tutti i finanzieri in gara a Wuhan sono sempre stati bene, Aspromonte compreso, e quindi non è stato necessario fare test per il virus». I postumi del mondiale militare hanno avvelenato l’atmosfera negli Usa. Clamoroso il caso di Maatje Benassi, riservista americana di 52 anni, che a Wuhan ha gareggiato nel ciclismo. Da settimane Maatje vive blindata nella sua casa in Virginia, inseguita da minacce di morte. Secondo un gruppo di complottisti deliranti che hanno largo seguito sul web, Maatje sarebbe la «paziente 0» scelta dai cinesi per portare il virus negli Usa, complice l’assenza di controlli del governo statunitense. A sostenere la più realistica voce di positività occultate tra i 280 membri della spedizione americana c’è Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, che chiede al governo americano trasparenza sui positivi per disegnare una geografia corretta del contagio. Il Pentagono? Tace.

·         Un Virus Americano.

Coronavirus: il primo focolaio negli Usa?  Le Iene News il 23 giugno 2020. Per gli Stati Uniti il Covid-19 nasce in Cina, nei laboratori di Wuhan. Per i cinesi lo hanno portato a Wuhan alcuni militari americani. Le due ipotesi, come vi raccontiamo, potrebbero essere collegate. E se il primo focolaio al mondo di Covid non fosse stato in Cina, a Wuhan, ma negli Stati Uniti d’America? Ce lo chiediamo dopo aver analizzato e messo in fila una serie di strane coincidenze. Ma partiamo dall’inizio. Ufficialmente, almeno fino a oggi, il Covid sarebbe nato dai pipistrelli presenti in gran quantità nelle grotte del sud della Cina. Sempre in Cina, proprio nella metropoli di Wuhan, c’è il laboratorio di ricerca sui virus da cui, secondo il presidente Usa Donald Trump, sarebbe uscito il Sars-CoV-2 all’origine della pandemia. Per il portavoce del ministero degli Esteri cinese invece, la colpa potrebbe essere proprio dell’esercito americano, presente in gran numero a ottobre del 2019 a Wuhan durante le olimpiadi militari. Le due circostanze, il laboratorio di Wuhan e le olimpiadi militari, potrebbero avere una connessione. Vediamo perché. Il laboratorio di Wuhan è classificato dal gennaio 2018 al massimo livello di sicurezza biologica, il livello 4. Abbiamo scoperto che c’è più di una correlazione tra il laboratorio di Wuhan e analoghi laboratori americani. A partire da quello di Fort Detrick nel Maryland che ospita i due più importanti laboratori di biosicurezza di livello 4 al mondo. Il primo è il Niaid, l’agenzia federale per le ricerche sulle malattie infettive diretta da 35 anni da Anthony Fauci, immunologo tra i più influenti al mondo e oggi a capo della task force governativa americana per affrontare l’emergenza Coronavirus. L’altro edificio ospita Usamriid, il principale centro militare americano per la ricerca sulle contromisure da adottare in caso di “guerra biologica”. Ma cosa c’entrano questi due laboratori con quello di Wuhan? Per capirlo facciamo un passo indietro e torniamo in Cina, quando nel febbraio del 2018 la rivista di virologia del laboratorio di Wuhan pubblica uno studio proprio sul coronavirus dei pipistrelli. Parliamo di una ricerca svolta a Wuhan su campioni di virus e sangue umano prelevati nella città di Jinning, a più di mille chilometri di distanza. Gli scienziati cinesi, già 2 anni prima, avrebbero scoperto un nuovo Sars Coronavirus del pipistrello che infetta direttamente l’essere umano senza bisogno di passare attraverso un ospite intermedio. Nello studio cinese ci sono alcune frasi che fanno pensare a una possibile correlazione con il Covid-19 di oggi. Il professor Matteo Bassetti, virologo dell'ospedale San Martino di Genova, spiega: “I ricercatori cinesi sono andati a valutare 220 persone che vivevano nella zona di Jinning e hanno fatto uno studio sierologico. Hanno trovato sei persone che avevano gli anticorpi per il Sars Coronavirus dei pipistrelli”. Gli chiediamo se uno di questi virus scoperti nel 2018 possa essere un progenitore del Sars-Cov-2 e Bassetti risponde: “Non si può escludere che non possa essere un progenitore, d’altronde si è detto da principio che questo virus viene dai pipistrelli, quindi è evidente che potrebbe appartenere agli stessi virus che erano stati isolati precedentemente”. Insomma i virus isolati 2 anni fa a Wuhan potrebbero essere i nonni o i genitori del covid19. Ma la cosa si fa ancora più interessante, come ci spiega Basetti: “Alla fine dello stesso studio cinese sono stati indicati i finanziatori della ricerca. Tra questi c’è proprio il Niaid di Fort Detrick, ovvero l'Istituto nazionale di allergie e malattie infettive degli Stati Uniti, con un finanziamento che ammonta a più di 3 milioni di dollari erogati tra il 2014 e il 2018”. Se poi andiamo a vedere la lista dei membri del comitato scientifico della rivista di Virologia del laboratorio di Wuhan che ha pubblicato questo studio, troviamo niente meno che il Professor Sina Bavari, lo scienziato militare a capo del laboratorio americano di Usamriid. Quindi, a quanto emergerebbe, gli americani sarebbero sia i finanziatori che i valutatori dello studio cinese. E che gli americani siano interessati in prima persona a lavorare su quei virus lo dimostra il fatto che nei laboratori di biosicurezza di Livello 4 di Fort Detrick, che tramite Fauci e Bavari abbiamo visto collegati alle ricerche cinesi, si svolgono particolari ricerche denominate “GOF”. Si tratta di “esperimenti di guadagno di funzione” che coinvolgono la sindrome respiratoria da coronavirus, ricerche sospese da Barack Obama nel 2014 per motivi di sicurezza e riprese solo nel 2017 con Donald Trump. Esperimenti che riguardano “la creazione, il trasferimento o l'uso di agenti patogeni dal potenziale pandemico potenziato”. In parole povere si sviluppa e si fa evolvere la pericolosità del virus a scopi scientifici per poi poterlo combattere con degli antivirali o dei vaccini. Quindi gli americani a Fort Detrick potrebbero aver studiato gli stessi virus che hanno studiato prima di loro i cinesi di Wuhan. Bassetti aggiunge: “Il laboratorio per vedere se un antivirale funziona deve avere il virus o devi avere una coltura del virus e testare i nuovi farmaci. Guardi quello che è successo per esempio con il Redemsivir, che è un farmaco che è stato sviluppato per Ebola. Ha dimostrato di avere attività nei confronti del Sars-CoV-2, perché i ricercatori hanno testato l’attività anche nei confronti di questo virus”. E infatti l’8 Marzo 2019 il Professor Sina Bavari, Direttore scientifico Usamriid pubblica uno studio proprio sul Redemsivir dal titolo: “Scoperta di farmaci antivirali ad ampio spettro coronavirus”. Uno studio nel quale sostiene che “questi coronavirus sono associati a nuove sindromi respiratorie”. Insomma i virus del pipistrello scoperti a Wuhan con il finanziamento di Niaid potrebbero essere stati tra quelli studiati e potenziati a Fort Detrick da Sina Bavari per testare il Redemsevir. Ci chiediamo se un virus di questo genere, liberato in una zona abitata, possa diffondersi tra la popolazione. “Dipende”, aggiunge Bassetti, “ci vuole sempre un ospite che lo possa trasmettere. Non è che basta che io lo spruzzo nell’ambiente e in qualche modo io me lo prendo. Cioè i virus per poter in qualche modo trasmettersi hanno bisogno, come abbiamo detto prima, di un ospite intermedio che può essere anche un essere umano”. Quindi perché si scateni un’epidemia ci deve essere almeno un essere umano infettato per trasmettere il virus. Che è esattamente quello che gli americani sostengono che sia accaduto nel laboratorio di Wuhan. Ma se invece questa trasmissione fosse avvenuta proprio a Fort Detrick?  A luglio 2019 con un ordine del Cdc, il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie del governo americano, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid è stato chiuso per un incidente di biocontenimento. La notizia era trapelata solo il 2 agosto, come riportano i media: “Il laboratorio Fort Detrick è stato chiuso a tempo indeterminato”. Ma il New York Times, 3 giorni dopo, aggiunge un dettaglio che dà la misura del problema: nell’ordine di chiusura, il Cdc, l’ha giustificato con "motivi di sicurezza nazionale" che è un modo per mettere il segreto di Stato alla vicenda e così non dare spiegazioni. Secondo un quotidiano locale: “Usamriid ha ricevuto la lettera con l’ordine di cessare di ogni attività dal CDC il 15 luglio dopo un'ispezione di giugno". Ma quattro giorni prima, il telegiornale della rete Abc racconta: “Stasera una malattia mortale in Virginia ha portato due morti e dozzine di residenti infettati di una malattia respiratoria qui nella comunità di pensionamento di Green Spring. Negli ultimi 11 giorni, 54 persone si sono ammalate con sintomi che vanno da una brutta tosse alla polmonite senza indizi chiave su come sia scoppiata la malattia improvvisa”. Passano due giorni e la strana epidemia compare anche in un’altra casa di riposo li vicino. È sempre il tg a raccontarlo: “Un misterioso virus respiratorio ha colpito una seconda casa di riposo nella contea di Fairfax”. L’unica cosa chiara al momento è che, due giorni dopo la seconda epidemia a poche decine di miglia di distanza, con un ordine del Cdc, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid a Fort Detrick nel Maryland, viene chiuso per un incidente di biocontenimento. È sempre il tg a raccontare le paure degli abitanti di quella zona: “Gli abitanti che vivono vicino a Fort Detrick vogliono sapere perché il laboratorio top di Army Germ, uno dei più noti, è stato chiuso così velocemente”. A Fort Detrick infatti gli scienziati Usa gestiscono alcuni degli agenti biologici più sensibili e conducono ricerche mediche all’interno di esso. Ricerche anche su cellule virali molto pericolose, come Ebola e Antrace.  Dentro quel laboratorio i militari americani insomma stavano facendo le stesse ricerche sugli stessi virus potenziati di coronavirus trovati nei pipistrelli di Cina. E allora non possiamo che porci una domanda: c’è forse una correlazione tra la fuga di biocontenimento di Fort Detrick e le epidemie anomale dentro le due case di riposo di Green Spring? È sufficiente osservare la mappa per vedere che vicinissima alle due case di riposo, c’è Fort Belvoir, un ospedale per i militari che tra gli altri assiste anche quelli di Fort Detrick. Ma come sarebbe arrivato il contagio da Fort Belvoir alle due case di riposo? Il fatto è che proprio questo ospedale assiste anche i veterani di guerra delle forze armate americane che vivono anche dentro le due case di riposo. Vi mostriamo alcune immagini, nelle quali si vedono i marines festeggiare nella casa di riposo di Burke i numerosi veterani della seconda guerra mondiale per l’anniversario di fondazione del loro corpo. Può dunque esistere un filo che lega l’incidente di biocontenimento di Fort Detrick, l’ospedale militare di Fort Belvoir e le case di riposo in cui si manifesta l’anomala l’epidemia di luglio? È una domanda a cui hanno cercato di dare risposta anche al Congresso degli Stati Uniti. Le autorità cinesi intanto hanno più volte sostenuto che l’epidemia sarebbe arrivata a Wuhan con i militari dell’esercito americano che partecipavano alle gare del “World Military Games 2019”, in programma dal 12 al 28 ottobre. Noi ovviamente non lo sappiamo ma dal periodico delle forze armate americane scopriamo che alcuni militari di Fort Belvoir hanno partecipato a quei Giochi. Tra questi il sergente di prima classe Maatje Benassi e il capitano dell'esercito Justine Stremick, che serve come medico di medicina di emergenza dell'esercito a Fort Belvoir in Virginia. Quindi almeno due atleti dell’ospedale militare situato vicino alle case di riposo dove c’è stata l’epidemia sospetta di luglio sarebbero andati a Wuhan per le olimpiadi di ottobre 2019. Ma se anche dei militari americani, inconsapevolmente, avessero portato un virus potenziato a Wuhan, si sarebbe dovuta registrare una prima diffusione del contagio tra i 10.000 militari presenti al villaggio olimpico. E allora fate attenzione alla testimonianza del militare Matteo Tagliariol, che ha partecipato per i nostri colori nazionali ai giochi di Wuhan nella specialità della scherma. “A fine ottobre siamo stati come delegazione italiana ai giochi mondiali militari a Wuhan. Fatalità dopo pochi giorni, moltissime persone della delegazione italiana, e poi ho scoperto anche di altre delegazioni, si sono ammalate di influenza. Dopo un po’ di giorni avevo molta tosse. Quando sono stato là sono andato dal medico, e il medico mi ha detto che in quei giorni là c’era moltissima gente che aveva questa forma virale influenzale, tant’è che c’erano un pò di problemi con le scorte di medicine perché le avevano richieste tantissimi atleti. Per quello che riguarda il mio appartamento a Wuhan, tutti gli atleti si sono ammalati e tutti quanti con più o meno gli stessi sintomi e quindi, tosse e tutti abbiamo avuto 2 o 3 giorni di febbre molto alta, però dopo è rimasta tra 37 e mezzo e 38 per tantissimo tempo, più di due settimane. Nessuno si è mai più ammalato di coronavirus”. Davvero una strana coincidenza. L’unica cosa che però ci sembra di aver capito in tutta questa storia è che se il Sars-Coronavirus del pipistrello di Jinning presente da sempre in natura, antenato del Covid-19 modificato in laboratorio, fosse rimasto nella sua grotta, nella remota zona rurale distante 1.000 km da Wuhan, forse non avrebbe mai infettato nessuno e magari si sarebbe evoluto in tutt’altra direzione…

·         Un Virus Norvegese.

Guido Santevecchi per corriere.it il 19 giugno 2020. Con grande rapidità gli scienziati cinesi hanno decodificato il genoma del Covid-19 che ha scatenato il focolaio di Pechino (messo sotto controllo in una settimana esatta). I dati del genoma sono stati comunicati all’Oms e la stampa cinese sottolinea che provano l’origine europea di questo nuovo scoppio epidemico individuato nel mercato di frutta, verdura, carne e soprattutto pesce di Xinfadi che rifornisce il 90 per cento della capitale. Un altro sviluppo importante: questo “coronavirus di ceppo europeo” sarebbe più vecchio di quello che circola attualmente in Europa, dicono i ricercatori cinesi e quindi sarebbe arrivato e si sarebbe stabilito al mercato di Pechino da diverso tempo, prima di essere scoperto. La narrazione delle autorità tende a dimostrare che l’epidemia è stata messa sotto controllo in Cina è che il coronavirus ormai è solo “importato” (quindi esportato da quell’Occidente che a febbraio accusò i cinesi di averlo diffuso nel mondo, dopo averlo sottovalutato e occultato a Wuhan). Sono passati sei mesi, sono morte più di 400 mila persone nel mondo e invece di costituire una coalizione globale per sconfiggere la pandemia, il virus dominante è diventato il sospetto, la mancanza di chiarezza scientifica, la disinformazione. Nelle ispezioni a tappeto nell’area di Xinfadi (vasta come 160 campi di calcio) sono state rilevate 40 tracce di Covid-19 e altre fuori dal mercato, in un raggio di 2 chilometri. Però, quella più suggestiva e utile alla propaganda, è stata la traccia trovata in un campione isolato nella zona dei salmoni. Questa mattina la stampa di Pechino scrive che è stato fatto il “tampone in gola” anche a un salmone, risultato positivo (Il Global Times che cavalca il neonazionalismo sanitario lo ha twittato con soddisfazione). Nei giorni scorsi i cinesi hanno dato grande risalto a un rilevamento di coronavirus sull’asse usato per sezionare i salmoni di importazione nel mercato. Ne è nata una fobia a Pechino, dove il pesce è stato ritirato dai supermercati. La Norvegia, esportatrice del prodotto ittico, ha protestato; i virologi internazionali hanno detto che il salmone e il cibo in genere non portano il contagio ma che il coronavirus passa da tra umani; alla fine anche gli epidemiologi cinesi hanno ammesso che aver trovato quelle tracce nell’area della lavorazione dei salmoni non provava come ci fossero arrivate. Però, tanto per non sbagliare, il tampone al salmone ora gli esperti del Centro di controllo delle malattie pechinese lo hanno fatto. In questo gioco di indizi e speculazioni, le autorità cinesi si dicono certe dell’origine straniera del coronavirus che da una settimana ha messo Pechino in semi lockdown, ma avvertono che bisogna indagare ancora. Spiega il dottor Liu Jun, del Centro nazionale di prevenzione virale: se la partita di salmone è arrivata sigillata e surgelata dall’Europa, il Covid-19 potrebbe aver viaggiato con quelle casse. Se però a Xinfadi era stato aperto per la lavorazione, può essere stato contaminato da un operatore del mercato, con un semplice colpo di tosse o uno starnuto. Prudentemente, per non smentire la narrazione ufficiale, il ricercatore non dice in quale delle due condizioni si trovasse il salmone sottoposto a tampone: surgelato o a temperatura ambiente? Il dato sicuramente positivo è che anche oggi a Pechino il numero dei contagiati è basso: 25. Il focolaio di Xintadi ha causato 183 casi dall’11 giugno. La Fortezza Pechino ha resistito all’assalto del “nemico invisibile”.

·         Un Virus Svedese.

I primi contagi Ue già in autunno: l'ipotesi infezione ai Giochi di Wuhan. Ufficiale in Svezia: "Da noi il virus almeno da novembre". Dopo le olimpiadi militari. Daniel Mosseri, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. Da settimane la Svezia fa notizia per il suo approccio relativamente morbido al coronavirus, con i cittadini responsabilizzati dalle autorità e incaricati di agire con «buon senso» per evitare il contagio. La novità in arrivo da Stoccolma è tuttavia un'altra. Ad annunciarla è stato Anders Tegnell, epidemiologo dell'Agenzia svedese per la salute pubblica (Folkhälsomyndigheten). «Credo che potremmo trovare casi individuali (di coronavirus) fra le persone che hanno viaggiato a Wuhan a novembre e dicembre dell'anno scorso: non mi sembrerebbe per niente strano, anzi del tutto prevedibile». Tegnell ha così commentato con l'agenzia svedese TT la notizia secondo cui il coronavirus era già in Francia lo scorso Natale. Il primo caso di Sars-CoV-2 registrato in Svezia risale ufficialmente a un mese dopo: era il 31 gennaio quando una giovane donna di Jönköping, nello Småland, risultò positiva al tampone per il virus. La ventenne aveva contatto le autorità sanitarie dopo aver sviluppato una brutta tosse al suo ritorno da un suo viaggio in Cina con tappa a Wuhan. La donna non è stata tuttavia l'unica svedese a viaggiare nel capoluogo della provincia di Hubei: dal 18 al 27 ottobre 2019 Wuhan ha ospitato anche la settima edizione dei Giochi militari mondiali una manifestazione sportiva riservata ad atleti militari di tutto il mondo alla quale la Svezia ha partecipato con una delegazione di oltre 100 persone. Al momento non risulta che alcuno degli atleti svedesi presenti in Cina sia stato trovato positivo al coronavirus né Tegnell ritiene necessario fare una ricerca epidemiologica che scavi nel passato. «Al momento non vogliamo caricare ulteriormente il sistema sanitario con questo tipo di indagine che comunque non porterebbe ad alcuna nuova misura», ha affermato dando prova di pragmatismo. Con oltre 23mila casi accertati e 2854 decessi, di cui la metà solo a Stoccolma, i medici e i laboratori del regno scandinavo hanno altro a cui pensare. Secondo l'epidemiologo sarebbe invece interessante scoprire come il virus si è diffuso in Cina, come si è comportato nelle prime fasi della diffusione e, ancora, se si è trattato di una diffusione individuale da un animale a una persona o se si è diffuso a un gruppo di persone per un periodo più lungo. Non è comunque escluso che nella gara a ritroso alla ricerca del paziente zero di tutta Europa la Svezia batta la Francia. È stata un'analisi retrospettiva di campioni prelevati da 14 pazienti in terapia intensiva con sintomi simili all'influenza presso gli ospedali Avicenne e Jean-Verdier nella banlieu parigina a riaprire il dibattito. Il capo della rianimazione nei due ospedali, il dottor Yves Cohen, ha spiegato ai media francesi che dei 14 campioni prelevati da altrettanti malati di polmonite, uno era positivo al Covid-19. Il 42enne all'epoca positivo a sua insaputa oggi sta bene ma ancora non si sa dove abbia preso il virus visto che l'uomo non ha mai viaggiato in Cina. I sospetti sono allora caduti sulla moglie che lavora al banco pesce di un supermercato: la donna, hanno spiegato i medici, potrebbe aver contratto il virus in maniera asintomatica e poi aver infettato il marito, «che il 27 dicembre 2019 aveva il coronavirus», ha chiarito il dottor Cohen. La sue parole retrodatano di un mese l'annuncio del ministro francese della Salute, Agnès Buzyn, che il 24 gennaio aveva confermato tre casi di Covid 19 fra Bordeaux e Parigi. Al momento resta invece fermo al 27 gennaio scorso il primo caso di coronavirus registrato in Germania (il secondo paese dopo la Francia a denunciare la presenza del virus): è quello di un uomo nel distretto di Starnberg, a ovest di Monaco, che avrebbe contratto il virus in azienda (Webasto, un fornitore di componenti per auto) dopo la visita da parte di una collega in arrivo dalla Cina. Quanto ai Giochi militari mondiali di Wuhan, anche l'Italia ha partecipato «con oltre 200 persone fra atleti, staff tecnico e dirigenti accompagnatori», secondo una nota di fine ottobre della Difesa. Nel medagliere italiano si sono contati cinque ori, 13 argenti e dodici bronzi. Ma resta ancora da capire se qualcuno sia tornato a casa con il coronavirus.

·         Un Virus Transalpino.

Francia, il primo caso di coronavirus già a dicembre. Anais Ginori per repubblica.it il 4 maggio 2020. A poche ore dal nuovo affondo americano contro la Cina sull'origine del virus, arriva dalla Francia una notizia che potrebbe rafforzare i sospetti. E' stato infatti accertato un caso di Covid 19 già il 27 dicembre, quasi un mese prima del primo contagio ufficiale (24 gennaio) registrato Oltralpe. L'ha scoperto l'ospedale Jean-Verdier di Bondy, nella banlieue di Parigi, dove sono stati riesaminati i tamponi di pazienti ricoverati con polmonite a dicembre. Andando a cercare negli archivi dei test fatti all'epoca per cercare altri virus, sono state trovate a sorpresa tracce del Covid 19. "Abbiamo verificato a posteriori 24 pazienti affetti da polmonite ed è stato trovato un positivo" ha raccontato Yves Cohen, responsabile del reparto di terapia intensiva dell'ospedale della regione parigina e autore della ricerca che sarà pubblicata su una rivista scientifica. Si tratta di un francese di cinquant'anni che non aveva mai viaggiato in Cina. Nel frattempo l'uomo è guarito e sta bene. "Ha contagiato i suoi due figli ma anche loro stanno bene" ha detto Cohen. La moglie non è stata malata, i medici ipotizzano che sia stata portatrice sana del virus. La donna lavora infatti in un supermercato accanto a un reparto sushi in cui sono presenti anche dipendenti cinesi. E' da riscrivere dunque la cronologia dell'epidemia in Francia, primo Paese europeo a dichiarare il 24 gennaio il ricovero di pazienti Covid 19. All'epoca si trattava di cittadini cinesi: una coppia di turisti e un imprenditore curati tra Parigi e Bordeaux. Per molto tempo le ricerche del paziente zero si erano concentrate nell'Oise, a nord di Parigi, dove c'è stato uno dei primi focolai: l'inchiesta epidemiologica era risalita a casi fino a metà gennaio. Già l'Institut Pasteur aveva concluso da studi sulle caratteristiche genetiche del virus che la circolazione "silenziosa" era cominciata a gennaio. Ora la catena di trasmissione risale addirittura al mese di dicembre. Sarebbe la conferma che il virus aveva cominciato a diffondersi in Europa ben prima dell'allerta di Pechino all'Oms.

·         Un Virus Teutonico.

Silvia Turin per corriere.it il 20 luglio 2020. Nuova relazione da parte di un’equipe dell’Università Statale di Milano con lo studio di 59 nuovi genomi virali ottenuti da pazienti italiani dai primi giorni della manifestazione dell’epidemia fino alla seconda metà di aprile, quando la curva epidemica ha iniziato a declinare. L’esame dei nuovi genomi virali, che vengono messi a disposizione della comunità scientifica nelle banche dati pubbliche, incrementa significativamente il numero delle sequenze ottenute in Italia da infezioni autoctone disponibili ad oggi e confermano i dati di un precedente studio dello stesso team per cui il ceppo «italiano» del virus proveniva dalla Germania (il famoso «paziente 1» tedesco che aveva avuto contatti con una persona proveniente da Shangai).

Paziente zero europeo in Germania. Dall’indagine emerge infatti la netta prevalenza in Italia di un singolo lignaggio virale (e di suoi lignaggi discendenti), ascrivibile, secondo uno dei sistemi di classificazione più largamente impiegati, al lignaggio B1 e correlabile al primo cluster Europeo, che ha avuto luogo in Germania attorno al 20 gennaio ed è stato causato dalla documentata importazione di un ceppo circolante a Shanghai. La nuova ricerca è frutto della collaborazione tra il Laboratorio di Malattie Infettive dell’Università Statale di Milano e più di 10 tra Centri Clinici e Università del Centro e Nord Italia (tra cui Bergamo, Brescia, Cremona, Milano, Padova, Ancona, Siena) e definisce, con un numero maggiore di sequenze, su un’area geografica non limitata alla Lombardia e una temporizzazione più ampia, la dinamica evolutiva e le caratteristiche epidemiologico molecolari del virus SARS-CoV-2 in Italia.

Da noi la variante più contagiosa. Un po’ misteriosamente, un solo lignaggio isolato, ottenuto da un paziente italiano residente in Veneto che non ha riferito viaggi o contatti con persone provenienti dalla Cina, si è rivelato appartenere invece al lignaggio ancestrale B, simile quindi a quello isolato in Italia alla fine di gennaio per diretta importazione dalla città di Wuhan con i due turisti cinesi poi assistiti allo Spallanzani. La divergenza tra gli isolati B1 è risultata relativamente modesta. Tutti i genomi «italiani» mostrano la mutazione 614G nella proteina Spike, che caratterizza ormai la gran parte dei genomi virali isolati in Europa e al mondo, non solo quelli del ceppo B1 ma anche l’unico appartenente al ceppo B, e che sarebbe responsabile della maggior contagiosità dell’agente patogeno. I ricercatori da più parti hanno osservato che questa mutazione ha avuto l’effetto di aumentare notevolmente il numero di picchi (spike) “funzionali” (che possono penetrare nelle cellule) sulla superficie del virus, con l’effetto che ogni particella virale con questa mutazione ha una maggiore capacità di infettare le cellule bersaglio. Una ricerca ha anche scoperto che la mutazione è quasi 10 volte più infettiva in un ambiente di laboratorio rispetto ad altri ceppi. Le analisi genomiche, disponibili grazie alla volontà dei ricercatori di tutto il mondo di caricare i propri dati in un database comune, mostrano che questa varietà è diventata quella dominante dopo l’avvio in Cina dell’epidemia e potrebbe spiegare perché il coronavirus si è diffuso così ampiamente in Europa, Stati Uniti e America Latina.

Altre conclusioni da un altro studio lombardo. Le conclusioni dello studio sono in parte in contraddizione con quanto trovato da un’altra ricerca simile, anticipata qualche giorno fa per il Corriere da Milena Gabanelli e Simona Ravizza: due équipe, del Niguarda di Milano guidata da Carlo Federico Perno, e del San Matteo di Pavia con Fausto Baldanti, hanno esaminato le sequenze di genoma di 350 pazienti. Il confronto del profilo genetico riconosce una provenienza dalla Germania ma poi evidenzia una «figliazione» europea con ben 4 ceppi arrivati in Italia con caratteristiche proprie. In Lombardia sono arrivati il ceppo A e il ceppo B, che a sua volta ne ha generati altri due. Il ceppo A, era più «incendiario» degli altri. Secondo la ricostruzione il ceppo B ha travolto il lodigiano e quello A la bergamasca. I dati spiegherebbero la differenza fra le due zone.

Il vuoto tedesco. LA VERSIONE SUL VIRUS NON REGGE. Inchiesta di: Alessandra Benignetti, Andrea Indini il 26 giugno 2020 su Inside Over. Il Covid-19 può annidarsi ovunque. Persino in una saliera. Così anche il gesto più semplice, come quello di passare il sale ad un collega a mensa può diventare un pericoloso veicolo di contagio. È in questo modo che il paziente 5 e il paziente 4 del cluster della Webasto si sono infettati il 22 gennaio nella sede dell’azienda che produce componenti di ricambio per auto a Stockford, una zona residenziale di 4mila anime ad ovest di Monaco, in Baviera. Forse non si sono neppure guardati. Si davano la schiena, seduti a due tavoli diversi. Eppure due giorni dopo il paziente 5 già mostrava i primi sintomi: febbre, nausea, vomito, tosse, dolori al petto, stanchezza e perdita di appetito. Le vie del Covid sono infinite, e per quanto accurato possa essere il “contact tracing”, resta sempre una percentuale di incertezza. “Uno dei limiti del nostro studio è che naturalmente non tutti gli incontri degli infetti possono essere ricostruiti”, scrivevano in un articolo pubblicato lo scorso 15 maggio sulla rivista scientifica The Lancet, gli specialisti dell’Autorità bavarese per la Salute e la Sicurezza Alimentare, dell’Istituto Robert Koch, dell’ospedale universitario della Charité di Berlino e di altre istituzioni sanitarie tedesche. Gli stessi che hanno seguito gli sviluppi del cluster in Baviera. Finora, il primo esempio di trasmissione da uomo a uomo in Europa. Durante il “periodo di esposizione”, quello seguito all’arrivo da Shangai a Stockdorf il 19 gennaio, per una serie di riunioni, di una dipendente della filiale cinese della società, che già presentava i primi sintomi del Sars-Cov-2, “l’azienda ha tenuto riunioni ed eventi estesi”. “È possibile – continuano gli infettivologi su Lancet – che un caso infetto abbia incontrato un caso successivo talmente velocemente che nessuno dei due si ricordi dell’incontro”. Per questo chi come Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, crede che il virus sia arrivato in Lombardia a fine gennaio passando proprio dal cluster di Stockdorf, preferisce affidarsi alla “pista genetica” più che a quella del tracciamento. Stando alle conclusioni dei colleghi tedeschi il focolaio sarebbe stato isolato nel giro di qualche settimana con un totale di 16 infettati, tra cui 10 dipendenti dell’azienda. Secondo l’infettivologo del Sacco, invece, il virus potrebbe essere andato oltre, viaggiando fino al Lodigiano, una delle prime zone rosse d’Italia. “I dati evidenziano che il Sars-Cov-2 che ha infettato i pazienti italiani coinvolti nella prima epidemia nel Nord Italia e quello isolato negli altri pazienti europei e latino americani che hanno riferito di contatti con l’Italia, è strettamente collegato alla specie del virus isolato in uno dei primi cluster europei osservati in Baviera alla fine di gennaio 2020”, si legge in uno studio intitolato Genomic characterization and phylogenetic analysis of SARSCOV2 in Italy, pubblicato da Galli sul Journal of Medical Virology il 24 marzo scorso. Dalla Webasto però contestano la versione di Galli, assicurando che “nessuno dei dipendenti contagiati” abbia viaggiato in Italia “nei mesi di gennaio e febbraio”. In una nota diffusa il 10 marzo l’azienda, in realtà, chiarisce come “nessuno dei colleghi infettati, né i loro contatti diretti, sia stato in Italia dal 27 gennaio 2020”. Non è chiaro se qualcuno lo abbia fatto prima di quella data. Abbiamo provato a capirne di più interpellando direttamente la società bavarese. Ma alla nostra precisa domanda sulla possibilità di escludere qualsiasi viaggio di lavoro o svago in Italia antecedente alla data del 27 gennaio, giorno in cui la dipendente di Shanghai risulta positiva al test per il coronavirus, la risposta è stata quantomai vaga. “Sappiamo che ci sono delle pubblicazioni in Italia sulla teoria che il virus sia arrivato in Italia dalla Webasto, ci sono altre tesi mediche, ad esempio della Charité di Berlino, che dicono che quella parte del virus è troppo diversa per avere la stessa origine”. Anche i numeri forniti dall’azienda sui contagi non tornano. In una nota dell’11 febbraio si parla di otto casi ospedalizzati: ma il 4 febbraio, secondo i dati forniti dal report pubblicato su Lancet i pazienti contagiati erano già 16, di cui 10 dipendenti della società di Stockdorf. E poi c’è un altro particolare che attira la nostra attenzione. In una serie di interviste agli impiegati contagiati raccolte dall’azienda e forniteci dalla stessa Webasto, uno dei dipendenti descrive le emozioni provate dopo aver scoperto di essere risultato positivo al tampone. “Non ero troppo preoccupato per me – racconta – ma per i miei contatti, compresa la mia nipotina, mia moglie, mia figlia, e gli amici con cui ho ero stato in vacanza sulla neve“. Abbiamo chiesto alla società se sapesse di preciso dove l’impiegato fosse andato a sciare, ma al momento non abbiamo ricevuto chiarimenti in merito. Certo è che se tra le mete sciistiche low cost amate dai tedeschi c’è la Repubblica Ceca e, se la Svizzera non è alla portata di tutti i portafogli, l’Austria e l’Italia restano le destinazioni più gettonate per chi vive in Baviera. Che il virus si sia potuto propagare sulle piste da sci resta una supposizione grossolana, ma rimane il fatto che a preoccuparsene è proprio uno dei dipendenti infettati. Insomma, come il Covid sia arrivato a Codogno, ad oggi, resta un mistero. La versione tedesca, però, che rigetta a priori l’ipotesi che il virus sia approdato nel Lodigiano proprio dalla Baviera, presenta ancora parecchi punti da chiarire. Come è ancora da chiarire cosa sia stato fatto in sede europea per avvertire gli Stati membri del pericolo che stavano per correre. Inchiesta di: Alessandra Benignetti, Andrea Indini.

Covid-19, ecco come e perché la Lombardia è stata travolta. Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 6 luglio 2020 su Corriere della Sera. Uno studio scientifico di Niguarda e San Matteo individua l’ingresso di 4 ceppi differenti a metà gennaio, il più cattivo a Bergamo. L’ipotesi di arrivo dalla Germania su gomma.

Comporre la foto prima dell’incidente. Questo è l’obiettivo ambizioso delle équipe del Niguarda di Milano guidata da Carlo Federico Perno e del San Matteo di Pavia con Fausto Baldanti. alle ore 20, quando all’ospedale di Codogno viene diagnosticato il primo caso di Covid-19. All’improvviso siamo messi davanti allo scenario peggiore: epidemia senza un’origine facilmente identificabile. A oggi manca il «Paziente Zero». Calmate un po’ le acque, i due ospedali pubblici hanno lavorato a un corposo studio scientifico che tenta di mettere qualche punto fermo. Il primo: stabilire quando il virus è entrato in Lombardia. Il secondo: perché si è accanito su questa regione, e ancor di più sulle valli bergamasche. Terzo: è arrivato direttamente dalla Cina o è passato da altre rotte? E quali? Non sono curiosità da virologi. È utile a comprendere meglio cosa è successo e come sorvegliare in futuro.

L’ingresso del virus in Lombardia. Mettiamo da parte le date ufficiali perché ormai abbiamo capito che c’è un’evidente responsabilità della Cina nel rilascio tardivo e parziale delle informazioni epidemiologiche (il primo ricovero all’ospedale di Wuhan di un malato di Covid-19 è dell’8 dicembre 2019, probabilmente anche prima, ma i funzionari cinesi riferiscono dell’esistenza di casi atipici di polmonite il 31 dicembre agli uffici Oms di Pechino che a sua volta prende tempo). Un ritardo di un mese che si è abbattuto come un flagello sul mondo intero. Ma quando è entrato il Covid-19 in Lombardia? Per stabilirlo Niguarda e San Matteo hanno analizzato le sacche di sangue dei donatori Avis di Lodi a partire da gennaio. Nel periodo 12-17 febbraio sono trovati i primi cinque soggetti con gli anticorpi neutralizzanti, cioè quella risposta che si sviluppa in chi è entrato in contatto con il Coronavirus mediamente 3-4 settimane dopo il contagio. Questo dato permette di stimare la presenza del Covid-19 nella Bassa lodigiana a partire almeno dalla seconda metà di gennaio.

La tappa in Europa. Da dove è arrivato il virus in Lombardia? Lo studio (finanziato dalla Fondazione Cariplo che lo presenterà a giorni) ha esaminato le sequenze di genoma di 350 pazienti. Il confronto del profilo genetico permette di individuare i ceppi virali e ricostruire la loro relazione: se sono correlati, se derivano da un unico progenitore, quali rapporti hanno con i ceppi degli altri Paesi. Un modo per tracciare le differenze è misurare la cosiddetta «distanza genetica», cioè com’è cambiato il virus rispetto a quello originario. Più generazioni sono passate, maggiore è il numero di variazioni, un po’ come quando si ricostruisce un albero genealogico. Ebbene, mediante l’analisi comparativa si evidenzia che le sequenze genomiche del virus lombardo sono parenti del progenitore cinese, ma c’è una «distanza genetica», intermediata da altri Paesi europei. Presumibilmente dalla Germania, primo grande scalo europeo dei voli in arrivo dalla Cina. Il New Journal of England Medicine riporta che a metà gennaio una manager proveniente da Shanghai ha avuto due meeting con 4 persone; tutte risultate positive a fine gennaio, inclusa la manager, che si era curata la febbre con antipiretici. Secondo la ricostruzione delle due équipe lombarde, la tappa europea ha «figliato» e i ceppi arrivati in Italia con caratteristiche proprie sono più d’uno.

A Bergamo il ceppo più veloce. In Lombardia sono arrivati il ceppo A e il ceppo B, che a sua volta ne ha generati altri due. In altre parole: al 20 febbraio non c’era un incendio appiccato da un singolo piromane, ma i piromani erano ben quattro, e al lavoro già da un mese. Uno di loro, il ceppo A, era più incendiario degli altri. Questa è la prova che in Lombardia ci sono stati due focolai di matrice diversa (A e B). Ma il punto più delicato dello studio è quello di «misurare» la differenza fra questi ceppi, ed è possibile solo fermando il tempo a ridosso dell’intervento umano, arrivato con la chiusura. Il primo focolaio è quello dei 10 Comuni intorno a Codogno, Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda, con 59 casi il 25 febbraio (pari allo 0,15% della popolazione). Il secondo è quello della Val Seriana, che alla stessa data conta 137 casi. Da lì in poi i numeri cambiano perché il Lodigiano diventa «Zona rossa», mentre la Valle Seriana chiuderà insieme alla Lombardia solo l’8 marzo. Ricostruendo il numero di persone che avevano manifestato sintomi compatibili con il Covid-19 a partire dal 31 gennaio, sembra chiaro che il ceppo che poi ha travolto la Bergamasca (quello A) sia più veloce nella diffusione. I risultati sono ancora in fase di validazione, ma i primi riscontri fanno pensare che nella provincia di Bergamo un contagiato ne infettava 3,5. Mentre il ceppo di Lodi (con i suoi due figli) è un po’ più lento: 1 ne infettava 2. I dati spiegano la differenza fra le due zone, aggravata dall’irresponsabile decisione di escludere dalla «Zona rossa» la Val Seriana, con le conseguenze devastanti che ne sono seguite.

Il virus ha viaggiato su gomma. L’ultimo quesito riguarda il perché i virus si sono concentrati proprio in quelle aree della Lombardia. Qui la scienza non ha risposte, ma fa solo ipotesi, sulla base di caratteristiche comuni che portano verso la logistica e i trasporti. Sono 463 le imprese lodigiane che si occupano di trasporto e logistica e con i loro oltre tremila lavoratori rappresentano la concentrazione percentuale più alta della Lombardia (7%). La loro attività si concentra a Lodi (69 imprese, di cui 17 nel magazzinaggio) e Casalpusterlengo (34). Seguono Sant’Angelo Lodigiano e Codogno rispettivamente con 29 e 23 imprese. Accanto a Piacenza (la città di confine dove si è diffuso lo stesso focolaio di Codogno) ci sono i più grandi magazzini del Nord con la loro logistica: Ikea con circa 1.000 addetti (fra cui 900 di cooperative esterne), e Amazon con 1.600 addetti. A Bergamo le aziende di trasporto e logistica sono oltre duemila, di queste 348 si occupano di attività di magazzinaggio. A Nembro ce ne sono 23, ad Alzano lombardo 20. Vanno presi anche in considerazione i rapporti di import-export con Cina e Germania. A Lodi (seconda solo a Milano) è concentrato il 16% dell’import con la Cina, mentre quello con la Germania è al 5%. Nella provincia bergamasca ci sono 66 grandi aziende manifatturiere legate a Cina e Germania. Per quel che riguarda l’import con la Cina, Bergamo è invece all’11% (terza), e al 10% di quello con la Germania (seconda solo a Milano). Ovviamente in numeri assoluti svetta la città Milano, ma la concentrazione di imprese che potenzialmente possono avere importato il virus è senza dubbio significativa sia a Bergamo che nella Bassa lodigiana. Insomma, mentre a fine gennaio eravamo concentrati a chiudere i voli con la Cina, il virus era già arrivato in Lombardia, pronto a sparare da due fronti, mentre la Regione era senza elmetti. Il resto è la cronaca che conosciamo.

Come Covid-19 è arrivato in Italia. Francesco Boezi il 19 giugno 2020 su Inside Over. Da dove è arrivato il Sars-Cov2? Davvero è partito tutto per via dei contatti tra la Cina e l’Italia? Le sequenze genetiche studiate dal professor Massimo Ciccozzi sembrerebbero raccontare una storia diversa. Ciccozzi è un epidemiologo molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Con il professore abbiamo voluto indagare alcuni aspetti della pandemia lasciati in sospeso, con uno sguardo specifico su quello che sta accadendo a Pechino, dove il contagio sta di nuovo facendo parlare di sé.

Il Sud Italia è stato coinvolto o no nella pandemia? E se sì, in che misura? Medesima domanda per il Centro…

«Anche il Centro-Sud è stato interessato. Abbiamo avuto dei casi, dunque il virus è circolato, ma è circolato di meno. E i motivi sono differenti. La Lombardia ha subito uno tsunami eccezionale, un evento non calcolabile. Noi potremmo essere stati aiutati, per così dire, dal ricovero della coppia cinese presso lo Spallanzani. Sembra un film di Alberto Sordi: “C’erano due cinesi a Roma”. Ma quel ricovero ha comportato il suono di un campanello d’allarme. Questo è avvenuto attorno alla fine di gennaio. A tre settimane circa dal primo caso di Codogno. Le persone potrebbero aver percepito un pericolo, dando vita a quarantene volontarie. Un episodio – quello dei cinesi – che potrebbe essere stato importante. Però il virus nel Centro-Sud è arrivato, come testimoniato anche dagli ultimi focolai del Lazio. Quelli con cui ci siamo confrontati in questi giorni. Il virus ha girato. Il problema più preoccupante deriva dagli asintomatici che non vediamo. Non sappiamo quanti ce ne siano e quanti ce ne siano stati nel Centro-Sud. Ma non c’è una maggiore o una minore suscettibilità. O almeno non possiamo parlarne finché non abbiamo il quadro degli asintomatici».

Lei conferma il fatto che il Sars-Cov2 sia entrato in Italia attraverso due porte differenti?

«Sì. Noi, mesi fa, abbiamo fatto una prima analisi filogenetica, basandoci sul genoma del virus isolato dai pazienti e, tramite questi genomi, abbiamo visto che l’Italia era stata interessata da due differenti ingressi epidemici: uno derivante dalla Germania e uno più europeo in senso lato. Qualcosa che interessava l’Inghilterra ed il Nord Europa e che, in qualche modo, aveva fatto la sua comparsa nel Belpaese. Due fenomeni che, con ogni probabilità, sono avvenuti in due momenti temporali differenti».

Scusi se la interrompo, ma ora sorge spontanea una domanda: quale di questi due eventi è avvenuto prima?

«Credo quello dall’Europa e subito dopo qualche giorno dalla Germania. Ma ora diviene più interessante la nuova analisi filogenetica. Prima avevamo solo tre sequenze del virus italiano. Ora ne esistono molte di più, e quindi abbiamo una possibilità maggiore di dare informazioni precise. Abbiamo individuato almeno cinque cluster epidemici. Non più due quindi, ma cinque. Li stiamo analizzando. Vediamo se sono cluster importanti mediante analisi approfondite. Restiamo per ora sicuri del fatto che gli ingressi epidemici fossero almeno due. Questa e una sorta di rivincita su chi affermava che noi eravamo gli untori d’Europa: noi siamo stati in realtà quelli che hanno subito un flusso virale proveniente dall’Europa».

Attraverso le sequenze filogenetiche possiamo affermare con certezza che il contagio europeo non è derivato dall’Italia. Giusto?

«Assolutamente. L’analisi filogenetica è chiara. Torno a ripetere: una volta terminato questo nuovo lavoro, saremo in grado di dirvi molto di più. Intanto siamo arroccati sul lavoro precedente, che non è poca cosa».

Scusi se la interrompo, ma ora sorge spontanea una domanda: il Sars-Cov2 ci è piovuto addosso dalla Germania?

«Il virus tedesco sembra sia quello che ha infettato la Lombardia. L’altro forse ha interessato il Centro-Sud, o forse sempre la Lombardia. Di sicuro c’è che il virus tedesco ha determinato l’epidemia in Lombardia. La cosa interessante è questa: il Sars-Cov2 è arrivato in Italia attraverso l’Europa. Non siamo stati noi a “regalare” il virus all’Europa. Semmai è il contrario».

Oggi il virus sta cambiando? Cosa raccontano le sequenze?

«Il virus subisce mutazioni. Noi ne abbiamo osservate alcune tra quelle importanti. Esistono mutazioni rilevanti e mutazioni meno rilevanti. Quelle che al virus servono per sopravvivere vengono mantenute e difficilmente perdute. Poi ci sono quelle provvisorie, perché non danno nessun vantaggio al virus, che le perde. Tre mutazioni sono state molto importanti. Una che interessava l’autofagia cellulare (che riguardava la proteina non strutturale Np6), mentre un’altra ha riguardato la polimerasi: questa seconda mutazione ha fatto in modo di poter distinguere almeno tre lineaggi differenti del virus. Parlo di un lavoro che abbiamo fatto con il professor Robert Gallo. La frequenza del numero di mutazioni su questo enzima è nulla nel ceppo asiatico, alta nel ceppo europeo e mitigata nel Nord America. Si trattava di una mutazione che distingueva tre ceppi virali in modo inderogabili. L’ultima mutazione – quella che abbiamo affrontato con il professor Antonio Cassone e il professor Cauda denominata D614G – ci ha fatto comprendere come il virus sia divenuto molto contagioso. La malattia ora è diversa da quella di febbraio e di marzo, ma la contagiosità è rimasta. Nel momento in cui noi abbassiamo la guarda, ecco che arriva il focolaio. Basta una stupidaggine fatta in maniera inavvertita. Questo dipende dalla natura contagiosa del virus. Una natura acquisita mediante questa mutazione che il Sars-Cov2 non ha smarrito per strada. La mutazione che sembra abbia determinato questa contagiosità può essere anche rintracciabile nei pazienti asintomatici e paucisintomatici. Ma la contagiosità è un concetto che prescinde dalla gravità della malattia. Il virus, dopo lo Spillover, ha operato come una falciatrice, togliendo purtroppo di mezzo i soggetti più deboli: coloro che sono deceduti. Una volta finita questa prima fase, il virus ha cercato di adattarsi a noi, convivendo con noi, mentre noi con il lockdown e le mascherine abbiamo favorito la sua recessione. Lo scopo del virus, a livello evolutivo, non è quello di ucciderci, altrimenti morirebbe con noi che siamo il suo nuovo ospite. Per cui lui adesso sta cercando di adattarsi».

La preoccupa la situazione di Pechino?

«Sì, sono preoccupato. Mi preoccupa perché il focolaio è in Cina, da cui e iniziato tutto. E non capisco come sia potuto succedere, considerando che la Cina è un Paese molto attento a questo tipo di eventi. La situazione sarà sicuramente sotto controllo, ma non ho idea del perché stia capitando a Pechino. Spero che sia lo stesso ceppo di Wuhan e non un ceppo mutato. Perché nel caso non fosse lo stesso ceppo, mi preoccuperebbe molto di più. Lo trovo strano: i cinesi sono molto ferrei. Abbiamo avuto modo di conoscere le loro capacità di chiudere tutto in due secondi. Bisognerà aspettare almeno due settimane per indagare la natura di questo focolaio. Onestamente non me lo aspettavo».

Epidemiologicamente parlando, se la sente di dire che Codogno non è stato il primo cluster del virus in Italia? Da dove dovrebbe/potrebbe essere arrivato?

«Codogno ha subito, come ha subito la Lombardia e come ha subito tutta l’Italia. Poi potremmo dire che in Lombardia non se ne sono accorti subito. Così come potremmo dire che in Lombardia hanno avuto magari una epidemiologia di territorio non pronta. O magari hanno aspettato troppo per intervenire. Ma su Codogno non scherziamo: è una vittima dei flussi virali provenienti dall’Europa».

Il caldo è o non è un fattore che influisce sul comportamento del Sars-Cov2?

«Ne discutevo ieri sera col professor Davide Zella. Abbiamo notato che il caldo diminuisce la mortalità. Noi potevamo ragionare sulla mortalità, perché non abbiamo dati certi sulla letalità. Difettiamo del numero di asintomatici, per cui non possiamo ragionare con un denominatore certo. Quello che è certo, purtroppo, sono i morti. E questo abbiamo già potuto verificarlo. Quello che non riusciamo a spiegarci è questo: perché nei Paesi del Centro America, che comunque presentano una temperatura abbastanza alta, il Sars-Cov2 si sta diffondendo? Bisogna vedere qual è la capacità di diffusione. Probabilmente è diversa dalla nostra. Probabilmente loro sono all’inizio della pandemia. Si presuppone che loro siano almeno un mese indietro rispetto a noi e che ora si siano infettati e stiano soccombendo i soggetti più deboli. Il Brasile poi non ha predisposto contromisure come le nostre. E guardi che il lockdown e le mascherine sono state salvifiche per noi. Noi siamo stati bravi. Non so gli altri. La pericolosità del virus, almeno nelle fasi iniziali, dipende molto dal mancato rispetto dalle norme di distanziamento sociale».

Quali altre mutazioni potrebbero avvenire nel futuro prossimo?

«Bella domanda. Dal punto di vista epidemiologico direi che potremmo aspettarci qualunque cosa. Questo virus lo conosciamo solo in parte. Guardi: questo è come un grande puzzle, ogni tanto inseriamo un pezzetto. Possiamo aspettarci un pezzetto che non si incastra. Ma evolutivamente il virus deve adattarsi sempre di più a noi. La storia di questo virus è questa. Ricordiamoci della scomparsa della Sars. Semmai il problema di questo virus potrebbe dipendere dalla sua contagiosità. Più che sparire come la Sars, quindi, penso che, per via della contagiosità, il Sars-Cov2 ci accompagnerà come compagno di viaggio. Ecco perché il vaccino è decisivo».

Laura Cuppini per corriere.it il 5 maggio 2020. Come scrive lo pneumologo Sergio Harari oggi sul Corriere, «Sars-CoV-2 è un grande sconosciuto, una immensa incognita che pesa sul nostro futuro e di cui sappiamo poco, molto poco. Ad oggi sono, infatti, più i punti interrogativi che le risposte certe che la scienza è in grado di dare su questo nuovo virus». Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, ha provato a mettere dei punti fermi durante un’audizione alla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Secondo Ciccozzi, «il virus sta perdendo potenza e sta continuando a mutare. Ma sta facendo mutazioni che a lui non sono più utili». Dunque evolve, ma perde «contagiosità e, probabilmente, letalità». Un dato che secondo l’epidemiologo trova riscontro nel «minor numero di decessi (dovuti alle infezioni pregresse) e nel minor numero di persone in terapia intensiva», risultati possibili grazie alle terapie ma anche alla perdita di potenza del virus. «È un virus nuovo — ha aggiunto l’esperto —, lo stiamo studiando. Non sappiamo, per esempio, quanto dura l’immunità. Anche se sappiamo che c’è».

Nel Nord uno tsunami imprevisto. Nella sua ricostruzione, Ciccozzi ha affermato che «già intorno a dicembre questo virus avrebbe potuto circolare nelle persone». «Il Nord ha avuto uno tsunami assurdo, imprevisto e imprevedibile — ha detto —. In Italia abbiamo avuto due ingressi epidemici diversi, a due settimane di distanza, come abbiamo visto in un nostro lavoro: uno, con ceppi virali dalla Cina, attraverso l’Europa è andato al centro Italia. Successivamente un ceppo tedesco è andato a infettare la Lombardia e il Nord del Paese. Probabilmente si andavano a cercare i cinesi — ha aggiunto l’esperto — e non facevamo caso ad altre parti dell’Europa. E questo è stato uno degli elementi che non ha frenato l’epidemia». Ciccozzi ha poi ipotizzato che il centro-sud Italia si sia salvato da un’epidemia più intensa anche per il caso della coppia cinese ricoverata allo Spallanzani, primo impatto del nostro Paese con la malattia, che ha indotto a comportamenti di autotutela. «La coppia — ha ricordato — è arrivata il 31 gennaio, mentre il primo caso a Codogno è avvenuto il 21 febbraio. Questo ha fatto sì che le persone fossero più preparate: vedendo il caso dei due cittadini cinesi hanno cominciato da sé a distanziarsi, ad avere le mascherine. Hanno cominciato in qualche modo ad elaborare quello che poi è stato fatto durante il lockdown».

I rischi di un secondo lockdown. Sui possibili rischi della fase 2 fa il punto Paolo Bonanni, epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. «Sars-CoV-2 potrebbe mutare il proprio assetto, ma al momento non ha dato prova di grandi cambiamenti — spiega Bonanni —. In questa fase di semi-libertà servono attenzione e cautela. Certamente le fonti di contagio sono ridotte nel nostro Paese, perché il numero di persone infette è calato, ma se i comportamenti individuali non saranno responsabili i contagi torneranno a crescere in maniera esponenziale. Il problema è che questo succederà tra 2-3 settimane o anche un mese: a quel punto un secondo lockdown sarebbe davvero doloroso. Di questo virus sappiamo con certezza due cose: la prima è che gli asintomatici sono molto numerosi e la seconda è che l’incubazione può durare molti giorni». Cosa si può fare per scongiurare il rischio di un secondo lockdown? «Il primo punto è essere responsabili a livello individuale, evitando per esempio gli assembramenti. In secondo luogo credo sia necessario creare una task force per il tracciamento dei contatti dei contagiati — afferma Bonanni —, non possiamo fidarci solo delle app. Nel caso si sviluppino piccoli focolai, saranno utili chiusure mirate».

Raffaello Binelli per il Giornale il 6 marzo 2020. Dopo aver scoperto che il primo contagio del coronavirus in Europa sarebbe avvenuto in Germania tra il 20 e il 21 gennaio (il paziente 1 potrebbe essere un uomo d'affari di Monaco venuto in contatto con una collega tornata dalla Cina), i tedeschi continuano a puntare il dito contro l'Italia. Il ministero degli Esteri tedesco sconsiglia tutti i viaggi non essenziali in Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna e a Vo', in Veneto. Oltre alle zone a rischio già note c'è anche l'Alto Adige. Perché? L’Istituto epidemiologico "Robert Koch" di Berlino afferma che "un terzo dei casi portati in Germania dall’Italia proviene dall’Alto Adige con 36 casi". Non si è fatta attendere la replica della Provincia Autonoma di Bolzano, che definisce questa affermazione "incomprensibile". Ma per quale motivo l’istituto della capitale tedesca ha inserito l’Alto Adige nella lista delle zone a rischio contagio coronavirus, insieme alle già note Lombardia e Veneto? Secondo il presidente della RKI, Lothar Wieler, alla base di questa decisione vi sarebbero tre criteri: il numero delle infezioni, la dinamica dei casi (numeri crescenti) e il numero di infezioni portate dall’area di rischio ad altri Paesi. La tesi lanciata da Berlino potrebbe avere pesantissime ripercussioni sul turismo, già colpito dagli effetti del virus. L’assessore provinciale altoatesino all’Economia, Philipp Achammer, osserva che una "decisione affrettata è incomprensibile e che non ci sono prove che questi vacanzieri siano stati davvero infettati qui". I media tedeschi giorni fa avevano parlato di cinque persone rientrate dall’Alto Adige risultate positive al test del Covid-19, dopo aver soggiornato nelle località sciistiche di Obereggen e Selva Val Gardena. Le montagne altoatesine sono meta di vacanze per la popolazione tedesca, sia d'inverno che d'estate. Lo stesso presidente federale della Germania, Frank-Walter Steinmeier, trascorre diversi periodi di vacanza sull’altopiano del Renon.

Tutta la verità sui contagi: "Il virus? Così l'Italia è stata colpita alle spalle". Il professor Galli punta il dito contro il paziente 1 della Germania: "Tutta l'epidemia iniziale nella zona rossa viene da quel contatto lì". Luca Sablone, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. La situazione Coronavirus in Italia continua a essere delicata: l'ultimo bollettino diramato dal capo del Dipartimento della protezione Civile, Angelo Borrelli, parla di 2.470 nuovi positivi (23.073 totali) e di 349 nuovi decessi (2.158 in totale). Il nostro Paese è ancora martoriato dal Covid-19. Ma da dove è partito tutto questo? L'ultima forte accusa è rivolta a un "altro Paese europeo" che ci avrebbe "presi alle spalle dopo aver chiuso gli accessi dalla Cina". Uno scenario descritto senza mezzi termini dal professore Massimo Galli, che incentra la sua tesi sul paziente 1 tedesco: "Una persona infettatasi malauguratamente, e del tutto casualmente, nel contesto di un episodio epidemico avvenuto nei giorni tra il 20 e il 24 gennaio a Monaco di Baviera, dopo il contatto avvenuto con una signora cinese venuta a fare delle riunioni di lavoro da Shangai, ha portato l'infezione in Italia nella cosiddetta zona rossa". Intervenuto nel corso della trasmissione Centocittà su Radio 1, il responsabile del reparto di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano ha spiegato come la diffusione del contagio in tutto il Nord Italia potrebbe essere attribuita proprio a quel singolo caso: "Tutta l'epidemia iniziale nella zona rossa viene da quel contatto lì, che ha potuto consentire al virus di aggirarsi di nascosto e sottotraccia per quasi 4 settimane prima che si scoprisse l'esistenza del problema in quell'area geografica e anche oltre".

Quel paziente 1 della Germania. Come riportato dall'edizione odierna de La Verità, l'agente patogeno si sarebbe diffuso a macchia d'olio in Veneto, in Piemonte, in Liguria, in Emilia-Romagna e forse anche nelle Marche. Perciò il docente all'Università Statale del capoluogo lombardo ha lanciato un avvertimento agli altri Paesi, dopo che l'Italia è stata descritta come focolaio a livello globale: "Quell'agghiacciante situazione che ha creato tutti questi lutti e tutti questi problemi è un monito anche per le altre nazioni, che cerchino di capire come può funzionare". Galli già diversi giorni fa aveva spiegato che "le nostre evidenze molecolari sull'analisi del virus dicono che quello circolato nella famigerata zona rossa è un virus strettamente imparentato con uno isolato a Monaco di Baviera". Proprio qui qualcuno "se l'è beccato" per poi "tornare a vivere e a lavorare nelle zone intorno a Codogno, o in qualsiasi altra maniera del tutto non percepita". Pure gli esiti delle ricerche del dottor Trevis Bedford, ricercatore al centro Fred Hutch di Seattle, parlavano del virus sequenziato in Germania come il "diretto progenitore degli altri virus comparsi successivamente, e che risultano collegati a una certa frazione dell'epidemia che circola in Europa oggi". Il giovane manager dell'azienda di componentistica per auto Webasto avrebbe contratto il Coroanvirus dopo essere stato a contatto con una collega proveniente dalla Cina, che in seguito al suo rientro in patria avrebbe mostrato i primi sintomi risultando infine positiva al test. L'uomo il 27 gennaio è stato dichiarato contagiato.

E se fosse la Germania la culla del coronavirus in Europa? Paolo Mauri su Inside Over il 5 marzo 2020. Per i media stranieri non c’è ombra di dubbio: l’Italia è la responsabile principale dell’epidemia del nuovo coronavirus Covid-19 in mezzo mondo, proprio a cominciare dall’Europa. I casi riscontrati in Austria, Croazia, Grecia, Svizzera e poi ancora in Danimarca, Estonia, Lituania, Paesi Bassi sino ad arrivare a quelli in Nigeria, India e Messico, sarebbero tutti legati in qualche modo al nostro Paese, o per colpa di turisti italiani o per stranieri che hanno soggiornato per qualche tempo da noi. Il “Bel Paese” sarebbe quindi una sorta di fucina di untori per l’intero globo, almeno secondo una certa stampa estera e anche per qualche avventato – e forse ideologizzato – intellettuale o giornalista di casa nostra, che spesso e volentieri sembra dimenticare l’origine cinese di questa infezione così come ci si dimentica dell’atteggiamento minimizzante e oltremodo rassicurante del governo all’esplodere dell’epidemia in Cina, quando venivano bloccati i voli diretti ma non quelli facenti scalo, mentre altrove, come ad esempio negli Stati Uniti, si imponeva immediatamente la quarantena per chiunque arrivasse da quel Paese . Ma è davvero così? Siamo davvero noi italiani i primi ad aver diffuso il virus in Europa e poi in buona parte del mondo? Ancora prima che ci si affannasse nella ricerca del famoso “paziente 0”, ovvero il primo contagiato sul territorio nazionale, poco meno di dieci giorni fa, c’era però chi stava studiando l’arrivo e la diffusione di Covid-19 grazie alla mappatura del suo genoma, e i risultati sono a dir poco sorprendenti. Cominciamo quindi la nostra disamina da un articolo apparso sul New England Journal of Medicine il 30 gennaio scorso. Nella ricerca scientifica viene descritto quanto capitato in Germania, a Monaco di Baviera, pochi giorni prima, intorno al 24 gennaio, quando un uomo d’affari di 33 anni ha cominciato ad accusare malori, tosse e febbre alta, ma poi si è quasi subito sentito meglio tornando così a lavoro il giorno 27. L’articolo scientifico prosegue notando che il primo caso tedesco, prima dell’insorgere dei sintomi, ha partecipato a diverse riunioni con una partner cinese della sua compagnia vicino a Monaco il 20 e 21 gennaio. La donna, originaria di Shangai, ha visitato la Germania tra il 19 ed il 22 senza aver alcun tipo di sintomo, palesatosi solamente una volta ritornata in Cina, dove è stata trovata positiva al test per il Covid-19 il giorno 26. Il 28 gennaio altri tre impiegati della ditta tedesca sono risultati positivi per il virus e di questi uno ha avuto contatto diretto con il “paziente 2”, il manager tedesco, gli altri due con il “paziente 1”, la donna cinese. Lo studio scientifico, oltre a certificare come la malattia sia sbarcata in Europa passando dalla Germania, che insieme alla Francia ha visto i primissimi casi di Covid-19 certificati, illustra anche un altro fattore molto importante per la nostra narrazione, ovvero la possibilità di contagio da parte di soggetti asintomatici. Basta questo per dire che sia stata la Germania a essere il focolaio principale per l’epidemia? No, ma in questo caso ci viene in soccorso proprio la scienza. L’averne mappato la sequenza genetica, infatti, ci ha permesso di ricostruire “l’albero genealogico” del virus e di individuare quindi i ceppi originari da cui si sono separati i ceppi locali, e nel grafico c’è una sorpresa: il virus italiano, indicato come CDG1/2020, sembra discendere, così come altri ceppi tra cui quello svizzero, finlandese, scozzese, brasiliano e messicano, proprio da quello tedesco originatosi nella Baviera, indicato come BavPat1/2020, o comunque avere un “parente comune”, ragionevolmente derivante dalla cinese sbarcata a Monaco. Possiamo quindi ipotizzare, con una notevole probabilità di certezza, che l’infezione che sta costringendo migliaia di persone in casa e che ha costretto alla chiusura delle scuole – proprio oggi prolungata almeno sino al 15 marzo – si sia diffusa proprio dalla Germania e da quel contatto con la manager cinese. Le tempistiche del resto parlano chiaro e sollevano più di un sospetto anche perché, come la stessa televisione di Stato tedesca Deutsche Welle ha riportato il 20 febbraio scorso, i casi di “influenza” in Germania sono raddoppiati, passando dai 40mila di inizio stagione a 80mila, in appena due settimane. Facendo un po’ di conti, e coi tempi di incubazione di Covid-19 alla mano (dati per 14 giorni), risaliamo circa all’inizio di febbraio, ovvero in un periodo stranamente concomitante col primo caso tedesco accertato e oggetto di studio da parte dei ricercatori.

Coronavirus, in Germania a gennaio il primo contagiato europeo: "Da lui l'infezione fino in Italia". Lo dice una lettera dei medici tedeschi pubblicata dal New England Journal of Medicine. Il contagio sarebbe avvenuto durante il periodo di incubazione. "Virus trasmissibile anche dopo il termine dei sintomi". La Repubblica il 05 marzo 2020. Un uomo di 33 anni di Monaco, in Germania, potrebbe essere il primo europeo ad aver contratto l'infezione del nuovo coronavirus e ad averla trasmessa. Lo comunica una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine del 5 marzo. L'uomo ha manifestato sintomi respiratori e febbre alta il 24 gennaio. I sintomi sono migliorati e il 27 gennaio è tornato al lavoro. Il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting in cui era presente una collega di Shanghai, che è rimasta in Germania dal 19 al 22 gennaio senza accusare alcun disturbo. Secondo una mappa genetica pubblicata sul sito Netxstrain, che ricostruisce una sorta di albero genealogico del virus, il focolaio tedesco potrebbe avere alimentato silenziosamente la catena di contagi al punto da essere collegato a molti casi in Europa e in Italia. Analizzando il percorso e le mutazioni genetiche del coronavirus, gli studiosi hanno rilevato che è entrato in Europa più volte. "Dal primo febbraio circa un quarto delle nuove infezioni in Messico, Finlandia, Scozia e Italia, come i primi casi in Brasile, appaiono geneticamente simili al focolaio di Monaco", rileva Bedford. Il paziente 1 di Monaco aveva mostrato i primi sintomi il 24 gennaio, dopo aver incontrato una collega proveniente da Shangai, poi risultata positiva. Nei quattro giorni seguenti sono risultati positivi anche molti dipendenti della stessa azienda tedesca. Il caso era diventato celebre a fine gennaio come esempio della capacità del coronavirus di trasmettersi anche in assenza di sintomi. Sebbene la sede dell'azienda fosse stata chiusa dopo la comparsa dei primi casi, i ricercatori ritengono che il focolaio di Monaco possa essere collegato a una buona parte dell'epidemia in Europa, compresa l'Italia. "Il messaggio importante - rileva Bedford - è che il fatto che un focolaio sia stati identificato e contenuto non significa che questo caso non abbia continuato ad alimentare una catena di trasmissione che non è stata rilevata finché non è cresciuta al punto da avere dimensioni consistenti".  La donna ha però cominciato a stare male durante il volo di ritorno in Cina, dove è stata trovata positiva al virus 2019-nCov il 26 gennaio. Il 27 ha informato i partner tedeschi delle propria positività e in Germania sono iniziati i test sui colleghi che l'avevano incontrata, fra cui l'uomo di 33 anni, che è stato trovato positivo al virus sebbene ormai asintomatico. Il 28 gennaio sono stati trovati positivi altri tre impiegati della stessa compagnia, che avevano avuto contatti con l'uomo quando era asintomatico. "È da notare - scrivono gli autori della comunicazione - che l'infezione sembra essere stata trasmessa durante il periodo di incubazione, quando i sintomi erano lievi e non specifici" e aggiungono: "In questo contesto il fatto che il virus sia stato trovato in quantità rilevanti nell'espettorato dell'uomo anche nel suo periodo di convalescenza pone il problema della trasmissibilità del virus anche dopo il termine dei sintomi, sebbene tale carica virale rilevata con il test sia ancora da confermare attraverso una coltura del virus". "Il fatto che la viremia possa essere presente anche dopo la scomparsa dei sintomi era già noto" conferma Walter Ricciardi, rappresentante del Comitato esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e consigliere del ministro Speranza. "e ci deve indurre alla sorveglianza dei pazienti dimessi dopo ospedalizzazione, ai quali è consigliabile fare un tampone anche dopo le dimissioni".

"Dalla Cina l'epidemia ha seguito tre vie". "Va sfatato il mito che l'Italia abbia diffuso il virus", ha detto Ilaria Capua, direttrice del centro 'One Health' dell'università della Florida. A partire dall'epicentro dell'epidemia, in Cina, - sostiene la virologa sulla base delle oltre 150 sequenze genetiche dei coronavirus finora pubblicate - il coronavirus ha seguito tra vie per diffondersi nel resto del mondo: una diretta in Europa, una verso gli Stati Uniti e la terza verso Sud, verso Corea e Australia. "Il dato evidente - ha proseguito Capua - è che la dinamica dell'infezione in Europa è diversa da quella raccontata finora". Le sequenze genetiche del coronavirus ottenute in Italia sono ancora poche, ma sufficienti per capire che "non sono stati gli italiani a diffondere l'infezione". E' comunque inutile cercare ancora di rintracciare il paziente zero: potrebbe essere uno, ma potrebbero essere centinaia. Quello che sappiamo - ha proseguito la virologa - è che il nuovo coronavirus è arrivato in Europa dalla Cina probabilmente in gennaio, portato da centinaia di persone. Adesso stiamo cercando di ricostruire gli ingressi multipli in Europa grazie alle sequenze genetiche". Queste ultime sono depositate nelle due grandi banche dati chiamate Gisaid e GeneBank, a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo per essere analizzate. Somiglianze e differenze che emergono dal confronto delle mappe genetiche indicano che "l'Europa si comporta come un'area unica", ha osservato. E' probabile che "una massa critica di persone con il virus arrivata in Europa abbia contribuito a diffonderlo. Non è stata soltanto l'Italia - ha concluso - a fare da cassa di amplificazione".

Il primo caso di Covid-19 in Europa descritto in Germania il 24 gennaio. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Un uomo di 33 anni, tedesco, potrebbe essere il primo europeo ad aver contratto l’infezione del nuovo coronavirus e ad averla trasmessa . Lo comunica una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine del 5 marzo. L’uomo ha manifestato sintomi respiratori e febbre alta il 24 gennaio. I sintomi sono migliorati e il 27 gennaio è tornato al lavoro. Il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting in cui era presente una collega di Shanghai, che è rimasta in Germania dal 19 al 22 gennaio senza accusare alcun disturbo. La donna ha però cominciato a stare male durante il volo di ritorno in Cina, dove è stata trovata positiva al virus 2019-nCov il 26 gennaio. Il 27 ha informato i partner tedeschi delle propria positività e in Germania sono iniziati i test sui colleghi che l’avevano incontrata, fra cui l’uomo di 33 anni, che è stato trovato positivo al virus sebbene ormai asintomatico. Il 28 gennaio sono stati trovati positivi altri tre impiegati della stessa compagnia, che avevano avuto contatti con l’uomo quando era asintomatico. «È da notare—scrivono gli autori della comunicazione— che l’infezione sembra essere stata trasmessa durante il periodo di incubazione, quando i sintomi erano lievi e non specifici» e aggiungono: «In questo contesto il fatto che il virus sia stato trovato in quantità rilevanti nell’espettorato dell’uomo anche nel suo periodo di convalescenza pone il problema della trasmissibilità del virus anche dopo il termine dei sintomi, sebbene tale carica virale rilevata con il test sia ancora da confermare attraverso una cultura del virus». 

Coronavirus in Germania, qui il primo focolaio europeo: ma perché così pochi casi? Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. E’ salito a 318 alle 17 di oggi e tende a crescere, il numero delle persone infettate dal Coronavirus in Germania. Il ministro della Sanità, Jens Spahn, è intervenuto al Bundestag, parlando dell’inizio di un’epidemia e ammettendo che la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi giorni: «Il picco non è stato ancora raggiunto». Spahn non ha escluso che si possa passare a un 2secondio livello” nella lotta al contagio: in quel caso anche le operazioni di routine negli ospedali verrebbero rinviate per concentrarsi sul Sars-CoV-2. Tutti i Land federali, tranne la Sassonia-Anhalt, registrano casi di infezione. Il numero maggiore di contagiati si registra nel Nord Reno-Vestfalia, che è anche quello più popoloso, con 172 casi. Il Robert Koch Institut, responsabile del monitoraggio e della valutazione dell’emergenza Coronavirus in Germania, valuta il pericolo per la popolazione ancora come «misurato», poiché la maggior parte dei casi conosciuti o sono collegati al passaggio in una delle aree di rischio o sono concentrati in zone circoscritte. Per questo la strategia rimane ancora quella del contenimento. Il ministero della Salute ha imposto come misura precauzionale il divieto di esportazione di mascherine, maschere per respirare e altri strumenti di protezione, come guanti sterili e tute protettive. «Tutti i mezzi di difesa devono essere messi a disposizione del nostro sistema sanitario nazionale», è stata la motivazione del governo. Eccezioni saranno previste solo nel caso di azioni di aiuto internazionale. In tutto il Paese sono stati cancellati importanti eventi economici e culturali: non si terranno l’ITB, la Borsa Internazionale del Turismo di Berlino; la Book Messe, la fiera del libro di Lipsia e la Hannover Messe, la più importante fiera industriale del mondo. Rischia di essere un danno economico forte per il sistema Germania e il ministro dell’Economia, Olaf Scholz, si è detto pronto, nel caso di una crisi congiunturale, a mobilitare miliardi di euro per contrastarla. La compagnia di bandiera Lufthansa ha sospeso i voli su altre tratte, dopo quelle dall’Asia: in tutto sono 150 su 770 gli aerei del vettore tedesco che in questo momento non volano. Per i passeggeri che vengono dalle zone a rischio (Cina, Iran, Italia, Giappone, Corea del Sud) alle compagnie aeree, navali, ferroviarie e al personale di aeroporti, stazioni viene richiesto di osservare i passeggeri per notare eventuali sintomi di malattia e riportarli. Chiunque arrivi in Germania in treno, aereo o nave dalle zone a rischio (è successo anche a chi scrive questa mattina) deve compilare un formulario, fornendo recapiti e numeri di telefono, per assicurare la reperibilità in qualsiasi momento. I dati verranno custoditi per trenta giorni. Gli ospedali si stanno attrezzando per intensificare il numero dei test ed eventualmente far fronte a una ondata improvvisa di richieste. A Berlino, dove finora si registrano 8 casi di Coronavirus, la Charité, il più grande policlinico d’Europa, ha attrezzato una tenda per i test in un prato interno, in modo da separare gli eventuali infettati da altri pazienti. L’esempio viene seguito in altri ospedali in tutto il Paese.

Coronavirus, l'azienda tedesca del focolaio 1 ha due sedi in Italia. Webasto ha una sede a Torino e una Bologna. Il primo focolaio di coronavirus in Europa si sarebbe registrato nella casa madre a Stockdof. In Italia assicurano: nessun caso e zero contatti con la divisione tedesca colpita. Federico Giuliani, Venerdì 06/03/2020 su Il Giornale.  Si chiama Webasto, è un colosso tedesco che possiede oltre 50 sedi in tutto il mondo e più di 30 stabilimenti produttivi. La casa madre ha il suo quartier generale a Stockdof, a due passi da Monaco di Baviera. Qui, lo scorso 28 gennaio, l'azienda ha comunicato prima tramite una mail interna poi sul sito web che un manager era risultato positivo al coronavirus. Ebbene, settimane dopo il primo caso, sono emersi particolari interessanti per capire meglio la storia della diffusione del virus in Europa. Innanzitutto il focolaio 1, cioè l'area in cui si è manifestato per la prima volta il Covid-19 in territorio europeo, sembrerebbe proprio essere la sede Webasto in Germania. Inoltre il paziente 0, come ha sottolineato il quotidiano La Verità, sarebbe una dipendente cinese che aveva raggiunto Stockdof da Wuhan per una riunione tra il 20 e il 21 gennaio scorso. Secondo la ricostruzione dei fatti la signora, in quel momento asintomatica, ha incontrato il manager tedesco per poi ripartire, pochi giorni dopo, in direzione Wuhan, dove tra l'altro l'azienda ha pure una sede produttiva. Non solo: Webasto ha 12 stabilimenti in Cina e 1,2 miliardi dei 3,5 miliardi complessivi di fatturato derivano dal business cinese. In ogni caso, una volta arrivata all'aeroporto, la dipendente scopre di avere il coronavirus. Webasto, dopo 10 giorni dalla visita della signora, decide di isolare 14 giorni l'intero quartiere generale per evitare la diffusione della malattia tra gli altri addetti e predispone test a tappeto per tutti. Tornando al manager, l'uomo infetta tutta la sua famiglia. In breve tempo e nonostante le misure di sicurezza prese, il coronavirus riesce comunque a diffondersi nell'azienda colpendo altre 14 persone. Adesso stanno tutti bene ma il vaso di Pandora, in quei giorni convulsi, era già stato scoperchiato.

Due sedi in Italia ma nessun caso. In Italia la Webasto ha due sedi, una a Torino e una a Bologna, e può contare su 541 dipendenti. Secondo quanto riferito dall'ufficio stampa, tutti stanno bene e "non sono stati segnalati casi di contagio" anche se “non risulta che siano stati fatti i tamponi”. È stato poi spiegato che le sedi italiane “non hanno avuto relazioni con la divisione colpita in Germania da coronavirus”. Da quanto emerge l'azienda “è stata da subito molto trasparente”; i dipendenti sono stati informati con un sistema di comunicazione interno mentre gli aggiornamenti sui contagi apparivano sul sito aziendale. Gli stabilimenti italiani hanno adottato tutte le precauzioni disposte da Stockdof: niente viaggi né trasferte e nessun contatto con i contagiati. È per questo motivo che sarebbe stata presa la scelta di non effettuare test su tutto il personale.

·         Un Virus Serbo.

In Veneto isolato ceppo serbo. Zaia: "È una mutazione più aggressiva''. Zaia ha fatto sequenziare il virus serbo trovato sull'imprenditore vicentino rientrato in Veneto dai Balcani: "Ceppo diverso e più aggressivo rispetto a quello italiano''. Federico Giuliani, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. Un nuovo ceppo di coronavirus, mutato e più aggressivo rispetto a quello rintracciato in Italia, potrebbe essere alla base del focolaio di Covid esploso in Veneto e collegato all'imprenditore vicentino rientrato dalla Serbia. Il governatore veneto, Luca Zaia, ha spiegato nel corso di un punto stampa straordinario presso la sede della Protezione civile di Marghera, a Venezia, che sono state riscontrate sostanziali differenze tra il virus ''importato'' dai balcani e quello circolante in Italia.

Il ceppo serbo. Scendendo nel dettaglio, Zaia ha dichiarato di aver fatto sequenziare il virus serbo trovato sui soggetti entrati in contatto con il dirigente di una storica acciaieria con sede a Pojana Maggiore, partito alla volta della Serbia lo scorso 18 giugno e rientrato in Italia il 25 con quattro operai. "Io, senza dire niente a nessuno, ho fatto sequenziare il virus serbo trovato sull'imprenditore vicentino che ha portato qui il virus dopo il viaggio di lavoro, sui suoi colleghi e sulla donna cinese di Padova'', ha riferito il governatore del Veneto. Il risultato dell'indagine è che ''nei quattro tamponi la carica virale era molto elevata''. Ciò significa, ha ribadito Zaia, che il virus è appartenente al cluster serbo ed è ''ben diverso da quello isolato in Veneto e in Italia''. In altre parole, ''si tratta di una mutazione", visto che ''il virus non autoctono è diverso, ha la sua storia ed è più aggressivo" ha concluso il governatore. Dal momento che il ceppo serbo sembrerebbe essere molto più contagioso del virus circolante in Italia, la situazione veneta deve essere monitorata con la massima attenzione. Anche perché l'imprenditore dal quale si è originato il focolaio, prima di essere ricoverato, ha agito con molta sufficienza.

Una vicenda assurda. Riavvolgiamo brevemente il nastro. L'uomo, non appena sono state riaperte le frontiere, è partito alla volta della Serbia per effettuare un viaggio di lavoro. Nei Balcani l'imprenditore sarebbe entrato in contatto con un 70enne del posto, positivo e, secondo quanto riferito dallo stesso Zaia, deceduto nei giorni scorsi. Una volta terminata la sua missione, l'italiano sarebbe rientrato in Italia, dove avrebbe iniziato ad accusare i primi sintomi, tra cui febbre alta e malessere generale. L'uomo non si sarebbe fermato né avrebbe pensato di mettersi in isolamento.

Il viaggio nei Balcani e il no al ricovero: così è nato il focolaio a Vicenza. Dalle prime ricostruzioni è emerso che avrebbe continuato a lavorare come se niente fosse, effettuato vari spostamenti, incontrato una massaggiatrice, partecipato a un funerale e preso parte perfino a una festa di compleanno. Adesso l'imprenditore, che aveva rifiutato l'isolamento, è ricoverato nel reparto di terapia intensiva.

La situazione in Veneto. Tornando al virus, Zaia ha comunque precisato che in Veneto la situazione è sotto controllo. "Siamo in una fase di stabilità – ha sottolineato ancora il governatore - Abbiamo dei focolai domestici che non ci preoccupano, ci preoccupano un pò di più ceppi di virus portati da fuori per i quali abbiamo intensificato i controlli. È un pò la storia da inizio luglio ad oggi, la storia delle badanti moldave, dei parenti dall'Australia, dei cittadini di Congo, Bangladesh...". "In questo contesto - ha concluso - noi abbiamo ormai la certezza che il nostro ceppo di virus è meno virulento e c'è un nuovo fenomeno che magari qualcuno non aveva ben compreso e pensava che fosse solo un discorso da leghisti".

·         Un Virus Spagnolo.

Dalla rassegna stampa di ''Epr Comunicazione'' il 29 ottobre 2020. Una variante del coronavirus che ha avuto origine dai lavoratori agricoli spagnoli si è diffusa rapidamente in gran parte dell'Europa a partire dall'estate, e ora rappresenta la maggior parte dei nuovi casi di Covid-19 in diversi paesi - e più dell'80% nel Regno Unito. Un team internazionale di scienziati che ha seguito il virus attraverso le sue mutazioni genetiche ha descritto la straordinaria diffusione della variante, chiamata 20A.EU1, in un documento di ricerca che sarà pubblicato oggi – riporta il FT. Il loro lavoro suggerisce che le persone di ritorno dalle vacanze in Spagna hanno giocato un ruolo chiave nella trasmissione del virus in tutta Europa, sollevando la questione se la seconda ondata che sta spazzando il continente avrebbe potuto essere ridotta migliorando i controlli negli aeroporti e in altri hub di trasporto. Poiché ogni variante ha una propria firma genetica, è possibile risalire al luogo di origine. "Dalla diffusione di 20A.EU1, sembra chiaro che le misure di prevenzione del virus in atto spesso non sono state sufficienti a fermare la trasmissione delle varianti introdotte quest'estate", ha detto Emma Hodcroft, una genetista evoluzionista dell'Università di Basilea e autrice principale dello studio che deve ancora essere pubblicato su una rivista peer-reviewed. I team scientifici in Svizzera e Spagna si stanno affrettando ad esaminare il comportamento della variante per stabilire se può essere più letale o più contagiosa di altri ceppi. Il dottor Hodcroft ha sottolineato che "non vi sono prove che la diffusione [rapida] della variante sia dovuta a una mutazione che aumenta la trasmissione o influisce sul risultato clinico". Ma ha sottolineato che 20A.EU1 è diverso da qualsiasi versione di virus Covid-19 che aveva incontrato in precedenza. "Non ho visto alcuna variante con questo tipo di dinamica per tutto il tempo che ho osservato le sequenze genomiche del coronavirus in Europa", ha detto. In particolare, i team stanno lavorando con i laboratori di virologia per stabilire se 20A.EU1 porta una particolare mutazione, nella "proteina spike" che il virus usa per entrare nelle cellule umane, che potrebbe alterarne il comportamento. Tutti i virus sviluppano mutazioni - cambiamenti nelle singole lettere del loro codice genetico - che possono raggrupparsi in nuove varianti e ceppi. Un'altra mutazione in Sars-Cov-2, chiamata D614G, è stata identificata che si ritiene renda il virus più contagioso. Joseph Fauver, un epidemiologo genetico dell'Università di Yale che non è stato coinvolto nella ricerca , ha detto: "Abbiamo bisogno di più studi come questo per trovare mutazioni che sono aumentate ad alta frequenza nella popolazione, e poi  vedere se rendono il virus più trasmissibile". La nuova variante, che ha sei mutazioni genetiche distintive, è emersa tra i lavoratori agricoli del nord-est della Spagna a giugno e si è spostata rapidamente nella popolazione locale, secondo lo studio. Tanja Stadler, docente di evoluzione computazionale al Politecnico di Zurigo che fa parte del progetto, ha affermato che l'analisi di campioni di virus prelevati in tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato che derivano da questa stessa variante. "Possiamo vedere che il virus è stato introdotto più volte in diversi paesi e che molte di queste introduzioni sono andate a diffondersi tra la popolazione", ha detto il Prof. Stadler. Iñaki Comas, capo del consorzio SeqCovid-Spagna che sta studiando il virus e co-autore dello studio, ha aggiunto: "Una variante, aiutata da un evento iniziale di superdiffusione, può diventare rapidamente prevalente". I ricercatori hanno concluso che il "comportamento a rischio" dei vacanzieri in Spagna - come l'ignorare le linee guida per l'allontanamento sociale - che "continuano ad impegnarsi in tale comportamento a casa" ha aiutato la diffusione della nuova variante. La ricerca ha dimostrato che la nuova variante rappresenta più di otto casi su dieci nel Regno Unito, l'80% dei casi in Spagna, il 60% in Irlanda e fino al 40% in Svizzera e Francia. Le severe misure di blocco all'inizio dell'anno hanno contribuito a tenere sotto controllo l'ondata iniziale di Covid-19, con una sostanziale riduzione dei nuovi casi nel corso dell'estate. Ma il virus si è diffuso rapidamente in Europa nelle ultime settimane in una rinascita che ha costretto i leader nazionali a introdurre nuove e dolorose restrizioni alle attività social.

Lo studio shock sul coronavirus: "Era in Europa da marzo 2019". Secondo l'università di Barcellona, il coronavirus è stato rintracciato nelle acque reflue nel marzo dello scorso anno. I ricercatori italiani invitano alla prudenza. Valentina Dardari, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Una ricerca dell’Università di Barcellona smonterebbe la tesi di Wuhan affermando che il coronavirus già circolava in Europa a marzo del 2019.

Coronavirus in Europa il 12 marzo 2019. Analizzando le acque reflue della città spagnola, la data esatta della sua comparsa sarebbe il 12 marzo dello scorso anno. Se questo fosse vero, la tesi di Wuhan sarebbe nulla. Gli studiosi italiani hanno però invitato alla prudenza. Mancano ancora diverse conferme che attestino i risultati degli scienziati catalani. C’è comunque da sottolineare che l’Iss aveva rivelato, sempre attraverso lo stesso sistema, che in Lombardia il Covid-19 era già presente a dicembre. Ulteriori esami, questa volta analizzando il sangue di alcuni pazienti, concentravano la comparsa del coronavirus in Liguria sempre nel mese di dicembre. L’ultimo studio effettuato dall’ateneo catalano porterebbe a rivedere tutta la cronologia del virus, la cui comparsa a Wuhan,fino a questo momento, è datata dicembre 2019. A gennaio sarebbe poi giunto in Europa e a febbraio il primo caso in Italia registrato a Codogno.

Lo studio catalano. Lo studio di Barcellona collocherebbe la sua presenza in Europa addirittura un anno prima rispetto a quanto affermato dalla Cina. “Il lavoro, a cui hanno preso parte ricercatori del gruppo di virus enterico UB Gemma Chavarria-Miró, Eduard Anfruns-Estrada e Susana Guix, guidati da Rosa Maria Pintó e Albert Bosch, fa parte del progetto di sorveglianza sentinella SARS -CoV-2. Sebbene COVID-19 sia una malattia respiratoria, è stato dimostrato che nelle feci si trovano grandi quantità del genoma del coronavirus che successivamente raggiungono le acque reflue” è quanto riportato sul sito ufficiale dell’università. Gli studiosi hanno poi analizzato dei campioni congelati del periodo compreso tra gennaio 2018 e dicembre 2019. Ebbene, sono stati trovati dei genomi Covid in quelli di marzo 2019, quando ancora in nessuna parte del mondo su parlava di coronavirus. Inoltre, come ha spiegato Albert Bosch, “tutti i campioni sono risultati negativi per la presenza di genomi SARS-CoV-2 ad eccezione del 12 marzo 2019, dove i livelli di SARS-CoV-2 erano molto bassi ma chiaramente positivi per la PCR e, in più, usando due obiettivi diversi”. La città catalana, sia per motivi turistici che lavorativi, accoglie ogni anno moltissimi stranieri. Sicuramente lo stesso è avvenuto anche in altre città del mondo. Dato che la maggior parte dei soggetti affetti da coronavirus ha sintomi molto simili a quelli dell’influenza, probabilmente all’inizio il primo caso non era stato diagnosticato.

Esperti italiani invitano alla cautela. Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ha sottolineato la differenza con gli studi fatti in Liguria. In questo caso gli esperti avevano dimostrato che alcuni pazienti avevano prodotto anticorpi già a dicembre. Mentre a Barcellona, la ricerca si basa sulle analisi delle acque reflue, dove sono state rinvenute tracce del virus. Per questo motivo il virologo invita alla prudenza, anche se è comunque un risultato interessante. Della stessa idea il professor Luigi Lopalco che ha così commentato la notizia: “Mi pare molto strano, suggerisco cautela”.

Mauro Evangelisti per "ilmessaggero.it" il 26 giugno 2020. Sars-CoV-2 era presente in Europa già a marzo del 2019. Lo sostiene una ricerca dell’Università di Barcellona, già pubblicata, che ha analizzato le acque reflue della città catalana e che ha fissato nel 12 marzo del 2019 la data di comparsa del nuovo coronavirus. Gli scienziati italiani, però, invitano alla prudenza e all'attesa di ulteriori conferme. Ricordiamo, che l’Istituto superiore di sanità aveva già rilevato, con lo stesso sistema, la presenza di Sars-CoV-2 in Lombardia a dicembre; uno studio analogo (in questo caso sulle donazioni del sangue) aveva fissato la stessa finestra temporale di dicembre 2019 in Liguria. Queste ricerche potrebbero portare a riscrivere la storia di Sars-CoV-2, rilevato a Wuhan a inizio dicembre 2019 in Cina, dove è cominciata l’emergenza sanitaria, e successivamente segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità. Si era sempre pensato che il nuovo coronavirus fosse poi arrivato in Europa a gennaio, il caso di Codogno è di febbraio. Ormai è certo che circolasse da prima, ma lo studio dell’Università di Barcellona rischia di mettere in discussione molte certezze. Si legge sul sito ufficiale dell’ateneo catalano: «Il lavoro, a cui hanno preso parte ricercatori del gruppo di virus enterico UB Gemma Chavarria-Miró, Eduard Anfruns-Estrada e Susana Guix, guidati da Rosa Maria Pintó e Albert Bosch, fa parte del progetto di sorveglianza sentinella SARS -CoV-2. Sebbene COVID-19 sia una malattia respiratoria, è stato dimostrato che nelle feci si trovano grandi quantità del genoma del coronavirus che successivamente raggiungono le acque reflue».

Ancora: «I ricercatori hanno analizzato alcuni campioni congelati tra gennaio 2018 e dicembre 2019 con il sorprendente risultato della presenza di genomi SARS-CoV-2 a marzo 2019, molto prima della notifica di qualsiasi caso di COVID-19 in tutto il mondo». «Tutti i campioni sono risultati negativi per la presenza di genomi SARS-CoV-2 ad eccezione del 12 marzo 2019, dove i livelli di SARS-CoV-2 erano molto bassi ma chiaramente positivi per la PCR e, in più, usando due obiettivi diversi. Barcellona riceve molti visitatori per motivi turistici o professionali - continua Albert Bosch - ed è più che probabile che si sia verificata una situazione simile in altre parti del mondo. Poiché la maggior parte dei casi di COVID-19 mostra sintomi simil-influenzali, il primo avrebbe dovuto essere mascherato da casi di influenza non diagnosticata».

Commenta il professor Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova: «In Liguria abbiamo dimostrato che già a dicembre c'erano persone che avevano sviluppato gli anticorpi. In questo caso, a Barcellona, si parla di altro, di acque reflue con tracce di virus, per cui bisogna essere molto prudenti. Serve grande cautela, ma certo è un dato interessante». Prudente anche il professore Pierluigi Lopalco: «Mi pare molto strano, suggerisco cautela».

Origine del coronavirus, trovate tracce nelle fogne di Barcellona a marzo 2019? Parla il prof. Jefferson. Le Iene News il 18 luglio 2020. Intorno alla ricerca sul coronavirus negli ultimi mesi si è creata un’attenzione spasmodica da parte di tutti: “C’è una grande confusione, che rende difficile distinguere quello che sappiamo già dalle ipotesi di studio”. E sulla nascita del coronavirus lontano da Wuhan: “Non l’ho mai detto. E’ un esempio di disinformazione”. Se c’è una cosa che in questi mesi di pandemia ci ha fatto compagnia, è stata l’ossessiva pubblicazione di ricerche, studi e analisi sulle origini del coronavirus. Un bombardamento di informazioni tali che è difficile distinguere tra ciò che è dimostrato e ciò che invece si sta ancora studiando. In questi giorni in particolare è tornata alla ribalta una teoria: il coronavirus non sarebbe nato a Wuhan tra fine 2019 e inizio 2020, ma ben prima. Parliamo però di ipotesi o certezza? “Non sappiamo con certezza se il coronavirus sia davvero nato a Wuhan”. A parlare con Iene.it è Tom Jefferson, epidemiologo inglese e Senior Associate Tutor del Centre for Evidence Based Medicine dell'Università di Oxford. “C’è uno studio, ancora da confermare, che indica la presenza di tracce di coronavirus nelle fognature della città di Barcellona a marzo del 2019”. La notizia di questo studio aveva già fatto scalpore a fine giugno, quando ne era stata pubblicata la prima versione. Anche perché altri studi, più o meno nello stesso periodo, indicavano la presenza del coronavirus nelle acque di scarico di Milano e Torino a dicembre del 2019, “e ne esiste uno simile anche in Brasile”, ci spiega il professor Jefferson. Quindi, come abbiamo letto in questi giorni su alcuni media italiani, il coronavirus non è nato a Wuhan? “Non si può dire questo, gli studi devono essere confermati”, ci dice il professor Jefferson. “E’ possibile che il virus circolasse già prima di quanto si è pensato inizialmente, ma per affermarlo con certezza servono conferme che al momento non ci sono ancora”. “Il punto è che un microrganismo lo trovi solo quando sai che esiste, se non lo sai non puoi nemmeno cercarlo”, ci spiega ancora Jefferson. “Quando un virus come questo inizia a dare problemi all’umanità, allora parte la ricerca. Per sapere da dove arriva però è necessario studiare approfonditamente la storia di questo coronavirus: capire davvero quando è nato, quali sono i fattori che ne hanno facilitato il passaggio, eccetera”. Una questione cruciale come dicevamo all’inizio, perché su un virus conosciuto da così poco tempo la ricerca difficilmente può dare risposte granitiche nel giro di alcuni mesi: “Ci sono diversi studi che ipotizzano una circolazione del coronavirus precedente a quella a noi nota, non è una teoria campata per aria. Però deve essere ancora confermata”, ci dice Jefferson. Come si fa quindi a districarsi tra le tantissime informazioni sul coronavirus? “C’è un grande problema, cioè il livello di confusione e attenzione mediatica che rende la vita molto difficile ai ricercatori. E’ difficile distinguere i fatti dalle ipotesi”. E anche le sue parole, recentemente, sono state travisate: “Non ho mai detto che il coronavirus non viene da Wuhan, non sappiamo ancora con certezza da dove sia venuto. E’ un esempio di disinformazione”. E’ possibile allora avere certezze su questo coronavirus? “Per farlo penso si dovrebbe scrivere una storia della pandemia”, aggiunge ancora il professore. “Nei prossimi mesi mi aspetto che ci sia una ‘corsa all’indietro’, una ricostruzione quasi storica di quanto accaduto. E’ molto difficile ma essenziale, non per colpevolizzare ma per capire se ci sono stati eventi che potrebbero aver scatenato questa pandemia. Ci sono cause concomitanti? Le ipotesi sono le più disparate, dall’inquinamento all’affollamento”. Un altro esempio? “Ci sono molti focolai nei macelli, anche in Italia Codogno è vicina a un grande stabilimento. C’è un possibile legame? Si può passare il coronavirus per via orofecale? Non si sa con certezza, serve approfondire per capire”. E per evitare di scrivere cose che potrebbero non essere vere.

·         Un Virus Ligure.

l coronavirus è arrivato in Liguria molto prima del “paziente zero” di Codogno. Lo rivela lo studio di Alisa effettuato su un campione di donatori di sangue Redazione genova 24.it il 22 Maggio 2020. Genova. Il coronavirus è arrivato in Liguria a dicembre, ben prima che il primo paziente venisse trovato positivo a Codogno il 21 febbraio. Lo rivela lo studio di Alisa effettuato su un campione di donatori di sangue in regione. “Da una prima analisi sui campioni raccolti nel mese di gennaio emerge che 13 campioni erano positivi agli anticorpi IgG, che compaiono almeno sette giorni dopo il contagio. Dati recentissimi dimostrano che i primi casi si sono verificati a dicembre, 5 nella città metropolitana di Genova e 4 a Savona. È estremamente probabile che già a dicembre ci fossero casi di Covid nella nostra regione“, ha spiegato Filippo Ansaldi, direttore della prevenzione Alisa. Già il 27 dicembre, rivela lo studio, una Tac polmonare aveva evidenziato un caso che oggi risulterebbe sospetto coronavirus. Il primo caso era stato registrato il 25 febbraio, una turista arrivata ad Alassio da Castelnuovo d’Adda, uno dei paesi della prima “zona rossa”.

 “Grazie alle indagini previsionali epidemiologiche e alle ricerche coordinate dalla nostra task force di Alisa possiamo confermare che la presenza del Covid-19 in Liguria risale a dicembre, ben prima quindi del cosiddetto ‘paziente zero’ di Codogno. Questo significa che siamo stati investiti molto presto da questa pandemia, ma abbiamo reagito bene, garantendo una risposta efficace con tutti i posti letto necessari a curare i nostri pazienti, sia nelle terapie intensive sia nei reparti di media intensità”, ha commentato il presidente Giovanni Toti. Filippo Ansaldi ha spiegato che “il dubbio che il coronavirus circolasse già prima del 25 febbraio 2020 (data del primo caso ufficiale riscontrato ad Alassio) è emerso con la definizione del modello previsionale epidemiologico, realizzato da Alisa per dare una risposta sanitaria efficiente alla nuova emergenza in termini di posti letto e misure di prevenzione. Quel modello ha messo mette a confronto i pazienti Covid ricoverati nei reparti a media e alta intensità e quelli previsti: il quadro emerso ha fatto pensare che la circolazione del virus fosse verosimilmente antecedente la rilevazione dei primi casi confermati di Covid-19 in Liguria e riconducibile alla fine del 2019. La successiva ricerca sulle tac polmonari e le indagini sierologiche sulla popolazione di donatori hanno evidenziato che verosimilmente la circolazione del Covid in Liguria sia iniziata a partire da dicembre 2019″. L’indagine sulle tac, ancora in corso, ha coinvolto i tre centri radiologici più rilevanti sistema sanitario regionale (Asl 2, ospedale Galliera e Policlinico San Martino) che hanno analizzato un campione di tac polmonari eseguite a partire da dicembre 2019: le tac polmonari, osservate attraverso valutazioni incrociate e secondo la classificazione della società olandese di radiologia, hanno evidenziato che i primi casi sospetti risalgono alla fine del 2019: a dicembre 2019 sono stati rilevati 5 casi suggestivi e un caso molto probabile, a gennaio 16 casi suggestivi e 42 casi molto probabili. Inoltre da circa un mese sono in corso le indagini sierologiche sulla popolazione dei donatori di sangue: si osserva che nel mese di dicembre 2019 già 9 donatori avevano le IgG positive (anticorpo specifico al covid-19 che evidenzia l’entrata in contatto con il virus) mentre nel mese di gennaio 2020 i donatori con IgG positive sono 13.

Coronavirus circolava già a dicembre in Liguria, ora ci sono le prove mediche. Redazione Liguria Oggi il  23 Maggio 2020. Genova – Il coronavirus circolava in Liguria già a dicembre 2019 e quello del 25 febbraio non sarebbe il primo caso registrato. Il sospetto che la malattia fosse presente in Liguria ben prima di quanto scoperto era già sorto da qualche settimana ma ora ci sarebbero evidenze scientifiche grazie a esami particolari, studio degli esami radiologici effettuati ed esami sierologici che lasciano pensare ad una prima ondata di coronavirus in Liguria già a fine anno

“Grazie alle indagini previsionali epidemiologiche e alle ricerche coordinate dalla nostra task force di Alisa, l’Azienda ligure sanitaria, possiamo confermare che la presenza del Covid-19 in Liguria risale a dicembre, ben prima quindi del cosiddetto ‘paziente zero’ di Codogno. Questo significa che siamo stati investiti molto presto da questa pandemia, ma abbiamo reagito bene, garantendo una risposta efficace con tutti i posti letto necessari a curare i nostri pazienti, sia nelle terapie intensive sia nei reparti di media intensità. È la dimostrazione dello straordinario livello di capacità e preparazione dei nostri esperti, insieme ai quali siamo riusciti ad affrontare al meglio la fase più critica della pandemia e con i quali continuiamo a lavorare per il monitoraggio in questa delicata fase2, con dati che anche questa sera sono confortanti”. Così il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha fatto il punto questa sera sulla pandemia da coronavirus in Liguria.

Filippo Ansaldi, responsabile Prevenzione di Alisa, ha spiegato che “il dubbio che il coronavirus circolasse già prima del 25 febbraio 2020 (data del 1° caso ufficiale riscontrato ad Alassio) è emerso con la definizione del modello previsionale epidemiologico, realizzato da Alisa per dare una risposta sanitaria efficiente alla nuova emergenza in termini di posti letto e misure di prevenzione. Quel modello ha messo mette a confronto i pazienti Covid ricoverati nei reparti a media e alta intensità e quelli previsti: il quadro emerso ha fatto pensare che la circolazione del virus fosse verosimilmente antecedente la rilevazione dei primi casi confermati di Covid-19 in Liguria e riconducibile alla fine del 2019. La successiva ricerca sulle tac polmonari e le indagini sierologiche sulla popolazione di donatori hanno evidenziato che verosimilmente la circolazione del Covid in Liguria sia iniziata a partire da dicembre 2019”.

L’indagine sulle tac, ancora in corso, ha coinvolto i tre centri radiologici più rilevanti sistema sanitario regionale (Asl 2, ospedale Galliera e Policlinico San Martino) che hanno analizzato un campione di tac polmonari eseguite a partire da dicembre 2019: le tac polmonari, osservate attraverso valutazioni incrociate e secondo la classificazione della società olandese di radiologia, hanno evidenziato che i primi casi sospetti risalgono alla fine del 2019: a dicembre 2019 sono stati rilevati 5 casi suggestivi e un caso molto probabile, a gennaio 16 casi suggestivi e 42 casi molto probabili.

Inoltre da circa un mese sono in corso le indagini sierologiche sulla popolazione dei donatori di sangue: si osserva che nel mese di dicembre 2019 già 9 donatori avevano le IgG positive (anticorpo specifico al covid-19 che evidenzia l’entrata in contatto con il virus) mentre nel mese di gennaio 2020 i donatori con IgG positive sono 13. 

·         Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Da adnkronos.com l'11 dicembre 2020. "L'Italia ha potenzialmente avuto una diffusione del covid-19 prima di Wuhan". E' quanto si legge sul sito del Global Times, tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, l'organo del partito comunista cinese. L'articolo parte dalla notizia del bambino italiano di 4 anni per il quale è stato riscontrato un'infezione da coronavirus risalente al novembre 2019. "Alcuni esperti - scrive il quotidiano - ritengono ciò indichi che l'epidemia di covid 19 è iniziata in Italia prima che a Wuhan, dove sono stati riscontrati i primi sintomi in un paziente l'8 dicembre 2019". "Tuttavia ciò non indica l'Italia come origine del virus, perché determinare la fonte è un lavoro complicato", continua il giornale, secondo il quale "gli esperti suggeriscono che paesi come l'Italia e gli Stati Uniti lavorino con l'Organizzazione Mondiale della Sanità per analizzare e indagare sull'origine del virus". Il sito cita Wang Guangfa, esperto del Primo ospedale dell'università di Pechino, secondo il quale le nuove prove "rivelano che il virus circolava ampiamente in Italia prima che Wuhan confermasse il primo paziente e l'Italia è stata un altro paese colpito all'inizio, come Wuhan". Secondo Wang, gli esperti cinesi non hanno inizialmente cercato una fonte straniera all'epidemia di Wuhan, facendo sforzi per trovare un'origine animale. "Tuttavia la Cina non è riuscita a trovare una fonte interna" e le nuove prove "suggeriscono che il virus possa essere stato portato a Wuhan da altri paesi, anche se non abbiamo prove su esattamente quale paese", afferma ancora Wang. Il giornale cita anche casi di coronavirus confermati in Usa a metà dicembre e in Francia a fine 2019, prima o attorno al momento in cui il virus è stato identificato in Cina.

Da it.insideover.com il 12 dicembre 2020. Il coronavirus? Era in Italia prima che a Wuhan. L’ultimo studio italiano condotto dall’Università Statale di Milano, in cui si ipotizza che un bambino di quattro anni potesse aver contratto il Covid-19 già a novembre, è stato sventolato da alcuni media cinesi come prova volta a scagionare la megalopoli situata nella provincia dello Hubei. “L’Italia ha potenzialmente avuto una diffusione del Covid-19 prima di Wuhan”, si legge sulle colonne del quotidiano Global Times, che sottolineano proprio il caso del piccolo appena citato. “Alcuni esperti – riporta il giornale – ritengono ciò indichi che l’epidemia di Covid-19 è iniziata in Italia prima che a Wuhan, dove sono stati riscontrati i primi sintomi in un paziente l’8 dicembre 2019″. In merito a questo articolo si è fatta molta confusione, tra chi, in Occidente, ha accusato la Cina di voler scaricare le “colpe” della pandemia sull’Italia e chi, sui social cinesi, è convinto che il proprio Paese sia stato ingiustamente demonizzato.

La posizione cinese.

Punto primo: il governo cinese non ha mai accusato l’Italia di essere il primo focolaio di coronavirus. A sostenere tale ipotesi – che, come tale, deve comunque essere presa con le pinze – sono semmai alcuni media d’Oltre Muraglia e altrettanti netizens cinesi. Stiamo dunque parlando di attori che, pur contribuendo a ripulire l’immagine della Cina, niente hanno a che vedere con il governo in senso lato.

Punto secondo: i più accesi nazionalisti cinesi non vedono l’ora di avere tra le mani studi o ricerche che possano ripulire l’immagine della loro nazione. Già, perché il primo focolaio a esser stato registrato è quello di Wuhan, nella provincia dello Hubei. Per mesi la narrazione ufficiale dei media è stata chiara: il virus è nato a Wuhan, chissà come e chissà quando, e da lì si è diffuso in tutto il mondo. Il punto è che non vi sono certezze che il focolaio scoppiato presso il mercato ittico Huanan, nel cuore della megalopoli cinese da 11 milioni di abitanti, sia effettivamente il primo in assoluto. È probabile che potesse essere soltanto la punta dell’iceberg. E che altrove, in Cina o magari nel subcontinente indiano – come ha sostenuto una ricerca cinese -, potessero esserci casi precedenti. A detta di alcune voci il primo contagio registrato dalle autorità cinesi risalirebbe agli inizi di novembre, anche se la questione è alquanto opaca e le supposizioni si perdono nella nebbia.

La strumentalizzazione del virus. La seconda Guerra Fredda in corso tra Stati Uniti e Cina ha polarizzato ogni settore: dall’economia alla politica passando per la cultura. Anche l’origine del virus è finita sul banco degli imputati. Il presidente americano Donald Trump, soprattutto prima delle elezioni americane, accusava ogni giorno la Cina di essere colpevole di aver nascosto le prove sul Covid. Dall’altra alcuni rappresentanti cinesi hanno tirato in ballo l’eventualità che il virus possa essere stato trasportato in Cina lo scorso ottobre dagli atleti militari impegnati nei Giochi Olimpici di Wuhan. Tornando all’articolo del Global Times, si legge che il caso del bambino di quattro anni “non indica l’Italia come origine del virus, perché determinare la fonte è un lavoro complicato”. Il sito del giornale cita Wang Guangfa, esperto del Primo ospedale dell’università di Pechino, secondo cui le nuove prove “rivelano che il virus circolava ampiamente in Italia prima che Wuhan confermasse il primo paziente e l’Italia è stata un altro paese colpito all’inizio, come Wuhan”. Per Wang, ha aggiunto l’Adnkronos, gli esperti cinesi non hanno inizialmente cercato una fonte straniera all’epidemia di Wuhan, facendo sforzi per trovare un’origine animale. “Tuttavia la Cina non è riuscita a trovare una fonte interna” e le nuove prove “suggeriscono che il virus possa essere stato portato a Wuhan da altri paesi, anche se non abbiamo prove su esattamente quale paese”, ha concluso Wang.

Il virus era già in Italia a novembre del 2019? La scoperta sul bimbo. Un nuovo studio sul Covid dimostra che il virus circolasse in Lombardia già da novembre 2019. Il caso di un bimbo positivo ne darebbe conferma. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale.  Il Covid-19 circolava a Milano già ad inizio dicembre del 2019, ancor prima che a Codogno, il 21 febbraio 2020, fosse accertato il caso del "paziente 1". Lo dimostra uno studio condotto all'Università Statale di Milano i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases nella giornata di mercoledì 9 dicembre. La ricerca vanta la firma del Professor Gian Vincenzo Zuccotti, presidente del Comitato di direzione della Facoltà di medicina e chirurgia, a capo del team in seno al Laboratorio subnazionale accreditato Oms per la sorveglianza di morbillo e rosolia (nel Crc EpiSoMI Epidemiologia e sorveglianza molecolare delle infezioni). All'attenzione degli esperti il caso di un bimbo di 4 anni che, a ridosso a novembre 2019, aveva manifestato sintomi rinconducibili a quelli dell'infezione Sars-Cov-2 pur non avendo mai viaggiato fuori dall'Italia. Attraverso l'analisi di un tampone oro-faringeo a cui era stato sottoposto il giovanissimo paziente, i ricercatori hanno potuto appurare la circolazione del virus in Lombardia in un periodo precedente a quello ufficiale. Sebbene l'identificazione del ceppo virale non sia stata determinabile, è fuori dubbio che la catena di contagi in Italia fosse cominciata in tempi pregressi a quelli stimati dalle successive evidenze cliniche (i primi casi positivi accertati).

Il caso del bimbo di 4 anni. Stando a quanto si apprende dallo studio, un bambino di appena 4 anni avrebbe manifestato i sintomi da infenzione respiratoria acuta - quelli del Covid, per intenderci - a fine dello scorso anno pur non avendo mai viaggiato fuori dall'Italia. Il 21 novembre 2019, il piccolo ha cominciato a soffrire di tosse e rinite; il giorno 30 è stato trasportato al pronto soccorso per via di una severa difficoltà respiratorie seguita da conati di vomito. Il 1° dicembre, ha avuto inizio di un'eruzione cutanea simile al morbillo; il 5 dicembre (14 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi), è stato prelevato il campione di tampone orofaringeo per la diagnosi clinica di sospetto morbillo. Il decorso clinico del piccolo paziente, che comprendeva manifestazioni cutanee tardive, assomiglia a quanto riportato da altri autori; le lesioni maculopapulari (le chiazze rosse sul corpo) sono state tra le manifestazioni cutanee più diffuse osservate durante la pandemia COVID-19 e diversi studi hanno notato un esordio successivo nei pazienti più giovani. "L'idea - dichiara la ricercatrice Silvia Bianchi ad Adnkronos Salute -è stata quella di indagare retrospettivamente tutti i casi di malattia esantematica identificati a Milano dalla rete di sorveglianza di morbillo e rosolia nel periodo settembre 2019-febbraio 2020, risultati negativi alle indagini di laboratorio per la conferma di morbillo". L'infezione da Sars-CoV-2 può infatti dar luogo a sindrome Kawasaki-like e a manifestazioni cutanee, spesso comuni ad altre infezioni virali, come il morbillo. Le iniziali descrizioni di tali sintomatologie associate a Covid-19 sono arrivate proprio dai dermatologi della Lombardia, prima area duramente colpita dalla pandemia.

I risultati della ricerca. A seguito delle evidenze raccolte, i ricercatori hanno pouto accertare che il Covid circolasse in Lombardia almeno 3 mesi prima del "caso uno" di Codogno. "Questi risultati, in accordo con altre prove della diffusione precoce del COVID-19 in Europa, anticipano l'inizio dell'epidemia fino alla fine dell'autunno 2019 . - scrivono gli autori dello studio - Tuttavia, ceppi precedenti potrebbero anche essere stati occasionalmente importati in Italia e in altri paesi europei durante questo periodo, manifestandosi con casi sporadici o piccoli cluster auto-limitanti. Queste importazioni avrebbero potuto essere diverse dal ceppo che si è diffuso in Italia durante i primi mesi del 2020. Sfortunatamente, il campione di tampone, che è stato raccolto per la diagnosi del morbillo, non era ottimale per il rilevamento della SARS-CoV-2 perché era piuttosto un orofaringeo rispetto a un campione su tampone rinofaringeo ed è stato raccolto 14 giorni dopo la comparsa dei sintomi, quando la diffusione virale è ridotta". Che il virus circolasse indisturbato già in tempi non sospetti, era ipotizzabile dall'impatto brusco e repentino con cui si è manifestata la pandemia e dalle successive evidenze scientifiche, prima fra tutte quella relativa al ritrovamento del virus nelle acque reflue di Milano a metà dicembre 2019. La lunga e non riconosciuta diffusione di Sars-CoV-2 nel Nord Italia potrebbe spiegare, almeno in una piccola, l'impatto devastante e la rapida trasmissione virale durante la prima ondata di Covid-19, osservano ancora i ricercatori. "Un sistema di sorveglianza virologica sensibile e di qualità - afferma Antonella Amendola, responsabile dell'attività di sorveglianza del morbillo nel laboratorio MoRoNET ad Adnkronos - è uno strumento fondamentale per identificare tempestivamente i patogeni emergenti e per monitorare l'evolversi dei focolai in una popolazione. I risultati dello studio forniscono indicazioni sui futuri sforzi da mettere in atto per il controllo delle malattie infettive e sulla necessità di implementare la sorveglianza virologica a livello territoriale come strategia prioritaria per un'adeguata risposta alle emergenze pandemiche".

Il mistero irrisolto sull’origine temporale della pandemia. Federico Giuliani su Inside Over il 17 novembre 2020. Siamo tornati al punto di partenza? A distanza di ormai di quasi un anno dai primi casi di Sars-CoV-2 accertati a Wuhan, in Cina, una nuova ricerca scientifica potrebbe cambiare, per l’ennesima volta, la narrazione ufficiale della pandemia. In base a quanto accaduto nella provincia cinese dello Hubei, il mondo intero ha iniziato a prendere familiarità con il nuovo virus all’inizio del 2020. L’Italia, dopo settimane intere in cui un buon numero di virologi e molti politici ripetevano che il nostro Paese era al sicuro e che non vi era alcun rischio sanitario, ha identificato ufficialmente il primo paziente Covid-19 lo scorso 20 febbraio nella provincia di Lodi. Ci sono tuttavia tre enormi misteri rimasti ancora irrisolti. Primo: al momento non conosciamo il paziente 0 italiano, ovvero il soggetto infetto che, suo malgrado, ha portato l’infezione in Italia. Secondo: non sappiamo neppure quand’è che il virus ha iniziato a circolare tra le valli della Bergamasca e la Pianura Padana, trasformando la Lombardia nell’epicentro della prima ondata italiana. Terzo elemento, forse più importante: ignoriamo la provenienza del misterioso agente patogeno, che per alcuni sarebbe arrivato in Italia direttamente da Wuhan, per altri sempre dalla Cina ma via Germania. Lo studio “Unexpected detection of SARS-Cove2 antibodies in the pre-pandemic period in Italy”, pubblicato l’11 novembre sul Tumori Journal e firmata da Giovanni Apolone, direttore dell’Istituto tumori di Milano, ha contribuito a chiarire un paio di aspetti legati alla cronologia della pandemia.

Da settembre a febbraio 2019. La ricerca pubblicata dall’Istituto, in collaborazione con l’Università di Siena, ha dimostrato che il coronavirus circolava in Italia sin dal settembre 2019. Quindi cinque mesi prima rispetto al primo caso accertato dalle autorità sanitarie. Il paper confermerebbe quindi il sospetto sulla circolazione precoce del Sars-CoV-2 all’interno del nostro Paese. Lo studio ha inoltre evidenziato un’altra questione rilevante: nel novembre 2019 molti medici di medicina generale avevano notato la comparsa di strani e gravi sintomi respiratori nei pazienti più anziani, collegati a forme aggressive di influenza stagionale. Una volta scoperta l’esistenza del Covid-19, tutte quelle polmoniti atipiche sono state ricollegate al coronavirus. A questo punto la narrazione pandemica va incontro a un’inevitabile trasformazione. Se è vero che l’Italia ha avuto a che fare con il Sars-CoV-2 ben prima dei casi rilevati in Cina, allora l’apocalisse di Wuhan, avvenuta a gennaio, non può essere la causa scatenante della pandemia. O meglio: quanto accaduto nel capoluogo della provincia dello Hubei tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 potrebbe essere soltanto la punta dell’iceberg di un processo epidemico in corso da chissà quanto. Ma soprattutto di un processo endemico partito da chissà dove.

Origine spazio-temporale sconosciuta. Oltre allo studio dell’Istituto Tumori di Milano, ci sono altre ricerche che accendono spie e sollevano dubbi. Nella narrazione comunemente accettata tutto sarebbe partito da Wuhan il 31 dicembre 2019, giorno in cui sarebbero stati accertati i primi casi di una “polmonite di origine sconosciuta”. Nel giro di poche settimane sarebbero quindi stati rilevati casi analoghi della medesima malattia in tutti i continenti. Eppure il mercato ittico di Huanan, situato nel cuore della megalopoli di Wuhan, potrebbe essere soltanto il primo epicentro noto della pandemia. Il condizionale è d’obbligo, visto che stiamo parlando di ipotesi non ancora scientificamente confermate. Uno studio in via di pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità italiano (Iss) ha scoperto che nelle acque di scarico di Milano e Torino erano presenti tracce del virus Sars-CoV-2 già nel dicembre 2019. In una ricerca condotta dall’Università di Barcellona, con la collaborazione di Aigües de Barcelona, i ricercatori hanno rilevato la presenza del virus Sars-CoV-2 nei campioni di acque reflue di Barcellona raccolti il 12 marzo 2019. C’è poi la considerazione fatta dall’epidemiologo Tom Jefferson del Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), presso l’Università di Oxford, secondo cui molti virus resterebbero inattivi fino a quando non si presenterebbero “condizioni ambientali favorevoli”. Stando alla sua ipotesi, Sars-CoV-2 potrebbe non essersi necessariamente originato a Wuhan. Al contrario, avrebbe potuto trovarsi in modalità “dormiente” in tutto il mondo in attesa delle condizioni favorevoli per potersi diffondere.

Ferruccio Pinotti per il ''Corriere della Sera'' il 16 novembre 2020. Che non fosse iniziato tutto in Cina a dicembre lo sapevamo, ma ora uno studio pubblicato a novembre con prima firma il direttore dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, Giovanni Apolone, ci dice qualcosa di assolutamente inaspettato: a settembre 2019, il 14% del campione di volontari entrati in una ricerca sul cancro al polmone presentava anticorpi per il nuovo Coronavirus. In altre parole, il SARS-Cov-2 circolava in Italia già ben prima di febbraio, e probabilmente fin dall’estate 2019.

L’origine della ricerca. Tutto nasce nell’ambito dello screening per il tumore al polmone «Smile», che da settembre 2019 a marzo 2020 ha arruolato 959 volontari sani per sottoporli a Tac spirale ai polmoni e analisi del sangue. La notizia dell’epidemia cinese a gennaio e quindi l’arrivo in Italia a febbraio deve aver acceso una lampadina nei ricercatori dell’Istituto nazionale dei tumori, che insieme ai colleghi delle università di Milano e Siena hanno fatto il test sierologico a tutti i campioni di sangue conservati. Risultato: su 959 campioni, 111 sono risultati positivi all’immunoglobulina G (16 casi) o all’immunoglobulina M (97 casi). Di questi 111 positivi, 23 risalgono a settembre, 27 ottobre, 26 a novembre, 11 a dicembre, 30 gennaio e 21 febbraio. I positivi provengono da 13 regioni, la metà dalla Lombardia seguita da Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto.

I dati sugli anticorpi neutralizzanti. Dei 111 casi (su 959 campioni), 6 sono risultati positivi anche agli anticorpi neutralizzanti il virus, 4 dei quali già a inizio ottobre. E forse questo dato è il più significativo. Una prevalenza di positivi maggiori del 10%, infatti non sembra accordarsi con i successivi studi sierologici, come quello nazionale Istat-ISS del 2,5% della popolazione. Come spiega Giovanni Apolone: «La prevalenza si riduce quando si guarda ai casi validati del test di neutralizzazione, pari a 6 positivi, di cui 4 in ottobre. Il dato rilevante è questo, non la proporzione di positivi, comunque suggestiva data la corrispondenza con le note prevalenze regionali».

Il virus in pista già l’estate scorsa e le malattie polmonari atipiche. Questi dati confermano i sospetti della circolazione del virus in Italia ben prima del 20 febbraio, probabilmente dall’estate 2019. «Già da novembre del 2019, molti medici di medicina generale hanno iniziato a segnalare la comparsa di gravi sintomi respiratori in persone anziane e fragili con bronchite bilaterale atipica, che è stata attribuita, in assenza di notizie sul nuovo virus, a forme aggressive di influenza stagionale», ricorda lo studio. Ebbene, ora lo possiamo affermare con più sicurezza: non era influenza, ma le prime avvisaglie di Covid, una nuova malattia di cui non si è accorto nessuno fino al tardivo allarme lanciato dalla Cina a fine dicembre. Gli autori dello studio sono gli studiosi e ricercatori Giovanni Apolone, Emanuele Montopoli, Alessandro Manenti, Mattia Boeri, Federica Sabia, Inesa Hyeseni, Livia Mazzini, Donata Martinuzzi, Laura Cantone, Gianluca milanese, Stefano Sestini, Paola Suatoni, Alfonso Marchianò, Valentina Bollati, Gabriella Sozzi, Ugo Pastorino. Il titolo della ricerca è Unexpected detection of SARS-Cove2 antibodies in the pre-pandemic period in Italy, pubblicato su Tumori Journal, uscito l’11 novembre. 2020.

SCETTICISMO DEI COLLEGHI. Da rainews.it il 16 novembre 2020. Ma sia il biologo della Temple University di Philadelphia Enrico Bucci, sia l'immunologa dell'Università di Padova Antonella Viola affermano che quello che i ricercatori hanno trovato è solo la cross reattività del 10% della popolazione mondiale che incontra uno degli altri coronavirus del raffreddore e sviluppa una qualche protezione contro SarsCov2. Come peraltro già noto da uno studio americano pubblicato su Science. Inoltre il test usato a Milano per rintracciare anticorpi non è validato. Scettico anche Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano. "Vediamo di avere delle conferme reali. È veramente difficile pensare che il virus sia così vecchio. Se lo fosse, bisogna chiedersi perché non ha creato molto prima focolai. Che si parli di questo virus in termini di così forte anticipazione uno la domanda se la pone. A Milano si dice più piano, più adagio", dice Galli. 

In radio parte la "Caccia al lombardo rosso": bufera sulla Rai. Nel programma di Rai Radio2 Caterpillar è partita la "Caccia al lombardo rosso", con gli ascoltatori invitati a trasformarsi in delatori per segnalare la presenza dei milanesi fuori regione. Francesca Galici, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. La satira è sacra, la satira va protetta e tutelata. Queste sono le basi per un Paese civile e democratico. Caterpillar è uno dei più noti programmi radiofonici del Paese, una vera istituzione nella trasmissione radio Rai, che da quasi vent'anni allieta soprattutto i viaggi degli automobilisti incolonnati al ritorno dal lavoro. La sua impronta è sempre stata satirica e politicamente scorretta ma i radioascoltatori hanno lamentato un atteggiamento che negli ultimi giorni è andato un po' oltre il limite. Il Covid si sa, ormai da mesi è al centro della cronaca e della maggior parte dei discorsi ed è inevitabile, ma soprattutto lecito e doveroso, cercare anche di scherzarci sopra. I conduttori Massimo Cirri e Sara Zambotti hanno però attirato su di sé le ire dei loro affezionati ascoltatori lombardi. Tra le risate e con un conclamato sottofondo ironico, i due speaker pochi giorni fa hanno lanciato la campagna goliardica Caccia al lombardo rosso. Un'iniziativa che prende spunto dall'ultimo Dpcm di Giuseppe Conte con il quale l'Italia è stata divisa in tre macro regioni di rischio e che vede proprio la Lombardia inserita tra quelle con maggiori restrizioni per l'alta diffusione del virus. Quello che, da Cirri e Zambotti, è stato presentato come un gioco radiofonico consiste nel segnalare in maniera anonima in radio i cittadini lombardi e milanesi che si trovano fuori dai loro confini regionali col rischio di infettare le regioni, a loro dire, più salubri. Una vera e propria azione delatoria nata con intenti ironici, che però è stata presa seriamente dagli ascoltatori, che a quel punto hanno iniziato a telefonare ai centralini di Radio2, emittente del programma. "Vogliamo fare denuncia dell'invasione dei milanesi nelle zone più salubri. Dobbiamo difenderci dall'invasione dei milanesi che arrivano coi loro Suv e ci fanno ammalare tutti", incitava Sara Zambotti dai microfoni di Caterpillar, fomentando ancor gli ascoltatori. La semplice azione delatoria richiesta inizialmente, però, si è trasformata in qualcosa di più importante quando Massimo Cirri ha suggerito alle persone in ascolto di passare dalle parole ai fatti. Certo, stiamo ancora qui a sottolineare lo sfondo ironico e satirico della trasmissione, ma le parole utilizzate dai conduttori hanno un loro peso specifico importante. E così, mentre gli ascoltatori segnalavano la presenza dei lombardi in svariate regioni, Cirri parlava di "forconi, fiaccole e pece per fare giustizia", suggeriva "pick-up con persone sopra armate" e richiamava vecchi adagi storici: "Ricacciare a mare il lombardo invasore". Chi in quel momento si trovava sintonizzato su Radio2 ha potuto anche ascoltare frasi come: "Accatastare le fascine per bruciare i lombardi". "A me piace molto incitare all'odio sociale", scherzava Massimo Cirri mentre i suoi ascoltatori continuavano a chiamare, supportato dalla Zambotti: "Verso i milanesi c'è un certo gusto a farlo". Qualcuno potrebbe obiettare che i due conduttori stessero facendo autoironia, vivendo loro a Milano. Si potrebbero ancora sottolineare il registro satirico di Caterpillar e tante altre giustificazioni a quello che Cirri ha definito "odio sociale". Resta il fatto che da febbraio i lombardi vengono additati, e non per scherzo, come untori del Paese. Sono stati segnalati episodi discriminatori nei confronti di milanesi e lombardi in generale, che non sono riusciti a prenotare le vacanze quando ancora si poteva. Perché alimentare questo sentimento? In questo clima così infuocato è facile che qualcuno prenda sul serio certi suggerimenti, tanto più se vengono trasmessi in uno dei principali canali radiofonici del servizio pubblico nazionale. La Rai dovrebbe unire l'Italia, invece di dividerla. Inoltre, in zona rossa con la Lombardia ci sono Piemonte e Val d'Aosta ma, soprattutto, la Calabria. Perché prendere di mira solo i lombardi che ormai sono etichettati come untori e senza ironia? E sorge anche il dubbio che al centro della satira ci fosse stata una qualunque regione del sud, oggi si parlerebbe di più di quanto accaduto sulle frequenze di Rai Radio2.

"Assalti multipli di ceppi diversi". Così il virus ha piegato l'Italia. Lo studio condotto dai ricercatori del Niguarda e dell'Irccs pavese rivela la presenza di due ceppi diversi nella Regione, presenti già da metà gennaio. Francesca Bernasconi, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. "Una pioggia di meteoriti", che ha colpito la Lombardia all'inizio del 2020. Così, il presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, aveva descritto la pandemia di Sars-CoV-2 arrivata in Italia. Una descrizione riferita allo studio (presentato oggi) promosso dalla Fondazione Cariplo e condotto dai ricercatori dell'Asst Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano e dell'Irccs pavese, secondo cui il nuovo coronavirus ha attaccato la Regione con un "assalto multiplo e concentrico". È la fotografia di quanto accaduto dall'inizio dell'anno in Lombardia. Per metterla a fuoco, i ricercatori hanno analizzato le sequenze genomiche virali da circa 350 pazienti, provenienti da aree diverse del territorio regionale. I dati, come spiega il responsabile scientifico dello studio Carlo Federico Perno, "mostrano inequivocabilmente che il virus è entrato in Lombardia prima di quel che si pensasse in origine e, soprattutto, lo ha fatto con assalti multipli e concentrici di ceppi virali diversi, in luoghi diversi, ma in tempi molto vicini tra loro".

In Lombardia già a metà gennaio. Lo studio ha evidenziato la presenza di catene di trasmissione virali già a partire dalla seconda metà di gennaio. "Il punto nodale che emerge dalla nostra ricerca è che abbiamo evidenza chiara del virus Sars-CoV-2 presente in Lombardia in più punti alla metà di gennaio, il che non esclude che fosse presente un pochino prima, ma non dopo", precisa il virologo Carlo Federico Perno. L'analisi comparativa dei genomi virali, derivati dai tamponi effettuati dal 22 febbraio al 4 aprile 2020, ha permesso di identificare l'ingresso del nuovo coronavirus in Lombardia verso la seconda metà di gennaio. Il dato è rafforzato anche dalla valutazione di sieroprevalenza di anticorpi neutralizzanti contro il patogeno, individuati nei donatori di sangue della zona rossa di Lodi che, come riferisce AdnKronos, oltre che a consentire di stimare precisamente la diffusione dell'infezione, ha identificato 5 soggetti sieropositivi nel periodo tra il 12 e il 17 febbraio 2020. Dato che gli anticorpi si sviluppano circa 3-4 settimane dopo l'infezione, questo dato rafforza la convinzione dei ricercatori, secondo cui il nuovo coronavirus era presente in Lombardia già dalla seconda metà di gennaio 2020.

La doppia epidemia. Sono almeno 2 i ceppi di nuovo coronavirus che hanno iniziato a circolare in Lombardia da metà gennaio. E 2 sono le maggiori catene di trasmissione, rilevate a Nord e a Sud della regione. "Quando è stato riscontrato il primo caso a Codogno, in una forma leggermente diversa, lo stesso era già presente nella zona nord (includente Alzano e Nembro)", spiega Fausto Baldanti, responsabile del Laboratorio di virologia molecolare del San Matteo e professore dell'università di Pavia. Secondo quanto emerso dallo studio, la scoperta del virus nel paziente 1 "è tardiva. In realtà il virus già c'era e non solo a Lodi. C'era anche ad Alzano, a Nembro e in varie altre parti della Lombardia". Quando è stato isolato il nuovo coronavirus a Codogno, "ad Alzano già c'era. Osserviamo 2 cluster, 2 ceppi per semplificare, che sono molto simili, ma diversi quanto basta per dire che uno ha infettato il centro nord e un altro ha infettato il sud. Codogno e Alzano-Nembro hanno camminato in parallelo come è successo in altre parti della Lombardia, ma ad Alzano-Nembro ha camminato più rapido". Gli scienziati sono riusciti a identificare due maggiori catene di trasmissione virale, definite A e B: "La catena A, caratterizzata da 131 sequenze, si è diffusa principalmente nel Nord della Lombardia a partire dal 24 gennaio", nei territori di Bergamo, Alzano e Nembro. La catena B, invece, "composta da 211 sequenze, più variabile, ha caratterizzato l'epidemia del Sud della Lombardia almeno a partire dal 27 gennaio, con le province di Lodi e Cremona investite maggiormente". Secondo i ricercatori, "non è possibile escludere che la circolazione silente, multipla e simultanea di ceppi diversi, possa aver esacerbato la già elevatissima trasmissibilità del virus e aver creato così una vera tempesta virale in una regione così densamente popolata, come la Lombardia, rendendo difficili gli interventi di contenimento della diffusione stessa". E, ad oggi, riferisce il virologo Perno, il Sars-CoV-2 "è il virus più infettivo che abbia mai visto e sembra fatto per restare, da un punto di vista biologico". Per questo, "un vaccino efficace è cruciale".

Claudia Guasco per “il Messaggero” l'1 luglio 2020. Tra novembre e gennaio, quando il Covid-19 era una minaccia esotica confinata in Hubei, all'ospedale di Alzano Lombardo sono stati ricoverati 110 pazienti colpiti da polmonite con «agente non specificato». Era il primo attacco del virus, non riconosciuto e sottovalutato? Oppure solo polmoniti anomale, come accade ogni anno? Di certo l'impennata di contagi impressiona: nel 2018 i casi sono stati 196 in tutto, l'anno dopo 256, il 30% in più. I dati, forniti dall'Ats Bergamo e dall'Asst Bergamo Est, sono confluiti nel fascicolo della procura che indaga per epidemia colposa sulla mancata chiusura dell'ospedale di Alzano e sulla zona rossa mai decretata nell'area della bassa Val Seriana. Al centro delle indagini le polmoniti anomale «registrate - secondo i pm - tra dicembre e febbraio». Dalle relazioni firmate dall'assessore regionale Massimo Gallera, dal direttore generale di Ats Bergamo Massimo Giupponi e dal dg dell'ospedale di Alzano Francesco Locati non si evince se quei numeri, che avrebbero potuto far scattare l'allarme pandemia, siano stati comunicati alla Regione già a novembre. Il Covid entra ufficialmente nella bergamasca domenica 23 febbraio, certificato dai tamponi positivi dei primi due pazienti, ma nei mesi precedenti si sono intensificati i ricoveri con diagnosi in codice 486: termine medico per descrivere una «polmonite con agente non specificato». La crescita è netta: 18 malati a novembre, 40 a dicembre quando il picco dovrebbe destare più di un sospetto, altri 52 a gennaio. Il 23 febbraio è il giorno in cui alle cartelle si è aggiunta la voce «polmonite da Sars - coronavirus associato». Nel rapporto di Giupponi si legge che «dal 1 dicembre al 23 febbraio al Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo risultano 145 dimessi con diagnosi comprese tra i diversi codici utilizzati nella classificazione delle malattie di polmonite. La semplice analisi della Scheda di dimissione ospedaliera non permette di poter ascrivere tale diagnosi a casi di infezione misconosciuta da Sars Cov-2». E ora l'Ats precisa che «non sono riscontrabili evidenze statistiche» che facciano sospettare «una presenza precoce di ricoveri per polmoniti» da Covid in provincia di Bergamo nel «dicembre 2019 e a gennaio e febbraio 2020: il trend è coerente con il passato». I magistrati vogliono capire se è davvero così. E fanno anche un passo in più: la diagnosi dei casi di Covid-19 avviene solo tramite tampone e due circolari ministeriali indicano i protocolli da seguire negli ospedali. La prima bozza del 22 gennaio prevedeva controlli in caso di decorso clinico sospetto, dal 27 gennaio questo criterio sparisce e le direttive del Ministero della Sanità impongono il test solo per chi arriva dalla Cina o è stato in contatto con cinesi. «Studi sierologici e lettura a posteriori delle cartelle cliniche confermano la presenza del virus sul territorio già da diversi mesi. I medici hanno fatto il loro dovere. I protocolli erano sbagliati», afferma il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Un attacco al governo. Se su tutti i malati sospetti dal 22 gennaio in poi fosse stato effettuato il tampone e la bergamasca isolata, è l'ipotesi dei pm, forse ora non si piangerebbero 6.000 morti. È questo il momento cruciale della pandemia e secondo il professor Massimo Galli, direttore del reparto di malattie infettive al Sacco di Milano, quell'esplosione di polmoniti all'inizio dell'inverno va presa con le molle. «Il virus cinese arriva in Italia dalla Germania tra il 18 e il 19 gennaio, il focolaio è stato riconosciuto il 22-23 gennaio - spiega - Noi, sulla base di più di 100 sequenze, abbiamo riconfermato che verosimilmente il Covid entra nel nostro Paese attorno al 26 gennaio. Se fosse comparso a novembre, per le caratteristiche violente che ha, avrebbe provocato un disastro già a dicembre».

Isaia invernizzi per ecodibergamo.it il 30 giugno 2020. Nei primi giorni di marzo quante volte le è capitato di pensare a quelle «strane» polmoniti di due mesi prima. «Strane». Le ha definite così Graziella Seghezzi, medico di Albino, che in questi giorni convulsi rispondeva a 150 chiamate al giorno. In Valle Seriana era esploso il coronavirus. Ma nelle settimane che hanno preceduto l’epidemia stava già succedendo qualcosa. «A gennaio tutti noi abbiamo visto bronchiti e polmoniti strane che non rispondevano ai farmaci abituali - ha dichiarato in un’intervista a L’Eco -. A posteriori, credo di poter dire che fossero Covid-19». Altri medici, in valle, avevano avuto il sospetto. Nessuno però poteva sapere che sarebbe finita così, con migliaia di bergamaschi ricoverati in gravi condizioni. O peggio, morti.

La crescita già a dicembre. Eppure i dati per far suonare un primo segnale d’allarme c’erano. Sono stati resi pubblici solo oggi nei documenti che Ats Bergamo e Asst Bergamo Est hanno fornito al consigliere regionale di Azione Niccolò Carretta, autore di una richiesta di accesso agli atti relativi all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano lombardo. Numeri che mostrano con chiarezza l’impennata di polmoniti «sconosciute» già lo scorso dicembre. E ancora più marcata tra gennaio e febbraio prima di domenica 23, giorno in cui il coronavirus è stato individuato ufficialmente in provincia di Bergamo. Prima dei due pazienti scoperti ad Alzano c’erano stati molti ricoveri con diagnosi in codice 486: «polmonite, agente non specificato». Centodieci tra novembre e il 23 febbraio, giorno in cui al conto si è aggiunto la voce «polmonite da Sars- coronavirus associato». Una crescita netta. Dalle 18 di novembre si passa alle 40 di dicembre, più del doppio. E a gennaio se ne aggiungono altre 52. Da marzo in poi i casi si moltiplicano in modo esponenziale. Le polmoniti sconosciute non sono un unicum dell’ultimo inverno. Come si può osservare dagli stessi dati resi noti da Ats, i codici 486 ci sono sempre stati nell’ospedale di Alzano Lombardo. Ma dall’andamento mensile l’anomalia è chiara, così come è chiara dal confronto tra i ricoveri del 2019 e quelli del 2018: 196 polmoniti non riconosciute nel 2018, ben 256 tra gennaio e dicembre 2019. Il 30% in più, a emergenza ancora molto lontana. Ed è bene specificare che questi numeri ufficiali contemplano solo i ricoveri, non i semplici accessi al pronto soccorso (esclusi da questa statistica), né tanto meno le diagnosi di polmonite fatte dai medici. È logico pensare che, con tutti i dati a disposizione, l’allarme sarebbe stato ancor più lampante.

Protocolli rispettati. Nella relazione firmata dal direttore generale di Ats Bergamo Massimo Giupponi si legge che «dall’analisi del flusso SDO relativo al periodo 1 dicembre - 23 febbraio, nel presidio ospedaliero “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo risultano 145 dimessi con diagnosi ricomprese tra i diversi codici utilizzati dal sistema di classificazione delle malattie di polmonite. La maggior parte di queste tuttavia, risultano avere in diagnosi principale il codice 486 “Polmonite agente non specificato”. La semplice analisi della “Scheda di Dimissione Ospedaliera” non consente di poter ascrivere tale diagnosi a casi di infezione misconosciuta da Sars Cov-2». Su questi dati si è posata anche la lente della procura di Bergamo. Sia per indagare sulle procedure messe in atto all’ospedale di Alzano lombardo nei giorni roventi dell’emergenza, sia per ricostruire se e come sono sfuggiti questi casi sospetti. E qui in gioco entra non tanto solo Alzano o la provincia di Bergamo, ma il ministero della Salute. Come è già emerso, i magistrati bergamaschi che indagano per epidemia colposa hanno acquisito le circolari emanate dal ministero con i criteri scelti per procedere con il tampone e quindi individuare i casi di coronavirus. Nelle prime linee guida, pubblicate il 22 gennaio, raccomandavano di considerare un caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica». Un criterio che è stato poi rivisto nella circolare pubblicata il 27 gennaio che ha introdotto una variabile fondamentale: i casi sospetti, oltre ad avere sintomi, devono anche avere «una storia di viaggi nella città di Wuhan (e nella provincia di Hubei), Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia» oppure aver «visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan e/o nella provincia di Hubei, Cina». Oggi è incredibile pensare che i primi casi italiani, anche i due di Alzano lombardo, sono stati individuati contraddicendo le circolari ufficiali. Lo spiega lo stesso direttore di Ats Massimo Giupponi, che spiega come i primi due tamponi siano stati eseguiti «pur in assenza dei parametri definiti dalla Circolare del Ministero della Salute del 27/01/2020 per la definizione di “caso sospetto”». Se fosse stato fatto il tampone a qualcuna delle 110 polmoniti sospette registrate ad Alzano si sarebbe potuto evitare il disastro? Solo la procura potrà dare una risposta.

 La replica all'inchiesta. Bergamo, polmoniti sospette già a dicembre: l’Ats smentisce. Redazione su Il Riformista il 30 Giugno 2020. “Gli esiti del lavoro sui ricoveri consentono di affermare con discreta ragionevolezza come non siano riscontrabili evidenze statistiche”. L’ATS  (Azienda di Tutela della Salute) Bergamo ha diffuso una nota per smentire una probabile diffusione del coronavirus già a novembre. La procura di Bergamo oggi aveva infatti aperto un’inchiesta in quanto tra novembre 2019 e gennaio 2020 all’ospedale di Alzano Lombardo sarebbero state segnalate 110 polmoniti sospette. Le statistiche però, secondo quanto si legge nel comunicato dell’ATS, non fanno sospettare a “una presenza precoce di ricoveri per polmoniti” da Covid in Provincia di Bergamo nel “dicembre 2019 e nel bimestre gennaio e febbraio 2020” confrontati con il 2017 e 2018 e “si evidenzia inoltre un chiaro effetto di stagionalità in tutti e tre gli anni” precedenti il 2020. “La struttura di Alzano Lombardo mostra un trend coerente” con tale “valutazione”, ha aggiunto l’azienda. La bergamasca è stata per lunghi tratti dell’emergenza coronavirus l’area più colpita della regione più colpita, la Lombardia, dove a causa del virus sono morte 16.644 persone delle oltre 34mila a livello nazionale. Solo nella provincia di Bergamo sono morte circa seimila persone. Domenica 28 giugno, presso il cimitero monumentale di Bergamo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha partecipato a una cerimonia in memoria di tutte le vittime, molte delle quali non avevano avuto possibilità di un ultimo saluto.

L’Iss: «Coronavirus nelle acque di scarico di Milano e Torino già a dicembre». su Il Dubbio il 19 giugno 2020. Lo studio: i campioni prelevati nei depuratori di centri urbani del nord Italia, sono stati utilizzati come “spia” della circolazione del virus nella popolazione. Nelle acque di scarico di Milano e Torino c’erano già tracce del virus Sars-CoV-2 a dicembre 2019. A scoprirlo uno studio in via di pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità realizzato attraverso l’analisi di acque di scarico raccolte in tempi antecedenti al manifestarsi della Covid-19 in Italia. I campioni prelevati nei depuratori di centri urbani del nord Italia, sono stati utilizzati come “spia” della circolazione del virus nella popolazione. «Dal 2007 con il mio gruppo portiamo avanti attività di ricerca in virologia ambientale e raccogliamo e analizziamo campioni di acque reflue prelevati all’ingresso di impianti di depurazione», spiega Giuseppina La Rosa, del Reparto di Qualità dell’Acqua e Salute del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha condotto lo studio in collaborazione con Elisabetta Suffredini del Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria. «Lo studio – prosegue La Rosa –  ha preso in esame 40 campioni di acqua reflua raccolti da ottobre 2019 a febbraio 2020, e 24 campioni di controllo per i quali la data di prelievo (settembre 2018 – giugno 2019) consentiva di escludere con certezza la presenza del virus. I risultati, confermati nei due diversi laboratori con due differenti metodiche, hanno evidenziato presenza di Rna di Sars-CoV-2 nei campioni prelevati a Milano e Torino il 18/12/2019 e a Bologna il 29/01/2020. Nelle stesse città sono stati trovati campioni positivi anche nei mesi successivi di gennaio e febbraio 2020, mentre i campioni di ottobre e novembre 2019, come pure tutti i campioni di controllo, hanno dato esiti negativi». Questa ricerca può contribuire a comprendere l’inizio della circolazione del virus in Italia e fornisce informazioni coerenti rispetto ad altri risultati ottenuti dall’analisi retrospettiva su campioni di pazienti ospedalizzati in Francia, che identificavano un positivo al Sars-CoV-2 in un campione respiratorio, quindi clinico, risalente alla fine di dicembre 2019, e ad un recente lavoro spagnolo che ha rinvenuto Rna di Sars-CoV-2 in campioni di acque reflue raccolte nella metà di gennaio a Barcellona, circa 40 giorni prima della notifica del primo caso autoctono». «I nostri risultati – sottolinea Luca Lucentini, direttore del Reparto Qualità dell’Acqua e Salute – confermano le evidenze consolidate ormai a livello internazionale sulla funzione strategica del monitoraggio del virus in campioni prelevati regolarmente nelle fognature e in ingresso agli impianti di depurazione, come strumento in grado di individuare precocemente e monitorare la circolazione del virus nei diversi territori, supportando le fondamentali informazioni della sorveglianza integrata, microbiologica ed epidemiologica. Bisogna evidenziare che il ritrovamento del virus non implica automaticamente che le catene di trasmissione principali che hanno portato poi allo sviluppo dell’epidemia nel nostro paese si siano originate proprio da questi primi casi, ma, in prospettiva, una rete di sorveglianza sul territorio può rivelarsi preziosa per controllare l’epidemia. Attraverso l’attività condotta nei nostri laboratori, si sta sviluppando una rete di sorveglianza ambientale che può già contare sulla disponibilità e affidabilità di strutture sanitarie e ambientali di eccellenza a livello regionale e sull’apporto fondamentale e la collaborazione dei gestori idrici che possono ancor più contribuirne ad uno sviluppo capillare e tempestivo». «Passando dalla ricerca alla sorveglianza – va avanti Lucentini – sarà indispensabile arrivare ad una standardizzazione dei metodi e dei campionamenti poiché sulla positività dei campioni incidono molte variabili quali per esempio il periodo di campionamento, eventuali precipitazioni metereologiche, l’emissione di reflui da attività industriali che possono influire sui risultati di attività ad oggi condotte da diversi gruppi. Lavoriamo per dare al paese una rete di sorveglianza insieme ad Arpa e ad Ispra». «In questo senso – conclude Lucia Bonadonna, direttrice del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità –  abbiamo presentato una proposta di azione al Ministero della Salute per l’avvio di una rete di sorveglianza su Sars-CoV-2 in reflui, e già nel luglio prossimo avvieremo uno studio pilota su siti prioritari individuati in località turistiche. Sulla base dei risultati dello studio pilota, contiamo di essere pronti per la sorveglianza sull’intero territorio nazionale nei periodi potenzialmente più critici del prossimo autunno».

Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 28 giugno 2020. Scandisce le parole con il tono di chi ha visto le cose e ne è rimasto impressionato. «Tra febbraio e marzo ho fatto 3mila e 700 chilometri. Ho preso imprenditori della Val Seriana di ritorno dalla Cina e li ho accompagnati dall'aeroporto a casa. Arrivavano a Orio al Serio, Linate, Malpensa. Quando, con il lockdown, gli aeroporti hanno chiuso, sono andato a recuperare i clienti in Svizzera - a Zurigo, o a Lugano per i jet privati - e a Nizza. Perché tanti clienti di rientro hanno dovuto volare su questi scali. Poi macchina fino a Bergamo». Si ferma un attimo. Aggiunge: «Mi chiedevo - visto che presto si è capito che il coronavirus girava nella Bergamasca ben prima del 21 febbraio e che le aziende della Val Seriana hanno rapporti stretti con la Cina - perché queste persone, che tornavano da Pechino, Shanghai, Wuhan, Shenzhen, non venissero messe in quarantena. La stessa domanda se la sono fatta anche i miei colleghi». M.C. è un autista privato: un Ncc. Fa questo mestiere da 30 anni. Ha un van da sette posti («Adesso, con il distanziamento, sono diventati quattro») e una berlina. Ma usa quasi sempre il primo. «La mia media è di 12 mila chilometri l'anno. L'80% del lavoro è sugli aeroporti. Tra i miei clienti fissi: imprenditori, uomini d'affari, dirigenti, personaggi pubblici. Anche famiglie e persone sole che vogliono essere accompagnate nelle seconde case». Il driver ha osservato e assistito alla strage orobica del Covid 19 (6mila morti, di cui 670 in città, ndr) da una prospettiva particolare: il suo posto di guida. «Non abbiamo mai smesso di lavorare». Già. Perché dalla chiusura decisa dal governo e entrata in vigore il 10 marzo era esentato anche il trasporto pubblico non di linea, taxi e Ncc. M.C. accetta di raccontare a Repubblica il suo lavoro di febbraio e di marzo: i due mesi durante i quali la falce del virus, nella Wuhan italiana con epicentro la Val Seriana, ha colpito più duro. «Le aziende hanno continuato a lavorare fino al blocco delle attività non essenziali. Alcune hanno iniziato a rallentare già prima. Però per tutto febbraio ho trasportato clienti business. Tanti di ritorno dall'Oriente. Via Francoforte, Berlino, Monaco, Londra. Imprenditori della Val Seriana e che in valle abitano anche». Gli ultimi dieci giorni di febbraio sono quelli che decidono i giochi sulla roulette del Covid 19: nella provincia di Bergamo i contagi s' impennano, a partire proprio da Alzano e Nembro, i due paesi che tra il 5 e l'8 marzo il governo era pronto a cinturare ma poi non se n'è più fatto nulla. «Ho iniziato a prendere precauzioni: sanificazione dell'auto, niente strette di mano, distanza per quanto possibile». Lo stupore dell'autista - per come lo descrive ora - non era solo riferito ai mancati "filtri" su imprenditori e uomini d'affari di rientro dalle aree da dove il coronavirus è partito. «Ho visto tantissimi studenti, Erasmus e non, che atterravano a Orio al Serio, accolti dalle famiglie al completo. Mamme, papà, fratelli, nonni. Baci e abbracci e zero controlli». Siamo ancora a febbraio. «Ho fatto 3mila chilometri in un mese». Il 12 marzo il governo chiude 23 aeroporti italiani. Come cambia, a quel punto, il lavoro degli Ncc che caricano clienti per 90 centesimi a chilometro? «Nizza, Zurigo, Lugano. Molti si sono fatti venire a prendere lì. Anche al confine. Un'auto dall'aeroporto. Un'altra, la mia, dal confine. Hanno rivisto i piani di viaggio in base a divieti e chiusure». Quanto hanno contribuito questi "ritorni" non mappati - un combinato aereo-auto Ncc - a diffondere il virus a febbraio nelle valli bergamasche? E che succede quando i contagi impazzano? Sono alcune delle domande a cui l'inchiesta aperta dalla procura di Bergamo dovrà trovare delle risposte. Mancata zona rossa, caos Rsa, la vicenda dell'ospedale di Alzano Lombardo. «A marzo - racconta M.C., che è stato convocato dagli inquirenti, sono già decine i lavoratori che hanno consegnato lo loro testimonianza per aiutare a far luce - ho iniziato ad accompagnare anche clienti Covid a Milano per fare esami». Anche qualche imprenditore di febbraio? «Può darsi». Il van scuro oggi ha una parete di plexiglass che separa l'autista dai clienti. «Sono stato tra i primi a mettere il sanificatore ad ozono. Il lavoro, con la crisi post covid, si è ridotto moltissimo. Oggi è il 5%. Ma se penso a chi non c'è più, ai loro familiari, e a cosa hanno passato i medici e gli infermieri, mi ritengo fortunato».

L’autista degli imprenditori di Bergamo che tornavano da Wuhan senza controlli. Next Quotidiano il 28/6/2020. L’uomo è stato sentito dalla procura di Bergamo. E ha raccontato di aver portato a casa tantissime persone che arrivavano da zone a rischio senza controlli: «Ho iniziato ad accompagnare anche clienti Covid a Milano per fare esami». Paolo Berizzi racconta oggi su Repubblica la storia di un autista di Noleggio con conducente (NCC) chiamato solo con le iniziali M. C. che racconta il suo lavoro di febbraio e di marzo: i due mesi durante i quali la falce del virus, nella Wuhan italiana con epicentro la Val Seriana, ha colpito più duro. L’uomo è stato sentito dalla procura di Bergamo. «Tra febbraio e marzo ho fatto 3mila e 700 chilometri. Ho preso imprenditori della Val Seriana di ritorno dalla Cina e li ho accompagnati dall’aeroporto a casa. Arrivavano a Orio al Serio, Linate, Malpensa. Quando, con il lockdown, gli aeroporti hanno chiuso, sono andato a recuperare i clienti in Svizzera — a Zurigo, o a Lugano per i jet privati — e a Nizza. Perché tanti clienti di rientro hanno dovuto volare su questi scali. Poi macchina fino a Bergamo». Si ferma un attimo. Aggiunge: «Mi chiedevo — visto che presto si è capito che il coronavirus girava nella Bergamasca ben prima del 21 febbraio e che le aziende della Val Seriana hanno rapporti stretti con la Cina — perché queste persone, che tornavano da Pechino, Shanghai, Wuhan, Shenzhen, non venissero messe in quarantena. La stessa domanda se la sono fatta anche i miei colleghi». Il driver ha osservato e assistito alla strage orobica del Covid 19 (6mila morti, di cui 670 in città, ndr) da una prospettiva particolare: il suo posto di guida. «Non abbiamo mai smesso di lavorare». Già. Perché dalla chiusura decisa dal governo e entrata in vigore il 10 marzo era esentato anche il trasporto pubblico non di linea, taxi e Ncc. Lo stupore dell’autista — per come lo descrive ora — non era solo riferito ai mancati “filtri” su imprenditori e uomini d’affari di rientro dalle aree da dove il coronavirus è partito. «Ho visto tantissimi studenti, Erasmus e non, che atterravano a Orio al Serio, accolti dalle famiglie al completo. Mamme, papà, fratelli, nonni. Baci e abbracci e zero controlli». Siamo ancora a febbraio. «Ho fatto 3mila chilometri in un mese». Il 12 marzo il governo chiude 23 aeroporti italiani. Come cambia, a quel punto, il lavoro degli Ncc che caricano clienti per 90 centesimi a chilometro? «Nizza, Zurigo, Lugano. Molti si sono fatti venire a prendere lì. Anche al confine. Un’auto dall’aeroporto. Un’altra, la mia, dal confine. Hanno rivisto i piani di viaggio in base a divieti e chiusure». Quanto hanno contribuito questi “ritorni” non mappati — un combinato aereo-auto Ncc — a diffondere il virus a febbraio nelle valli bergamasche? E che succede quando i contagi impazzano?

Prima del paziente 1: “Ricoverato il 2 febbraio a Lodi: avevo il coronavirus?” Le Iene News il  28 maggio 2020. Xhoni Mustafaraj, calciatore professionista di 18 anni che vive a 15 chilometri da Codogno, ci ha contattato per raccontarci la sua storia. Con febbre alta, difficoltà a respirare, perdita di gusto e olfatto è stato ricoverato il 2 febbraio a Lodi, rimanendo per due settimane con la maschera di ossigeno in terapia intensiva. La settimana scorsa ha fatto il test sierologico: ha sviluppato gli anticorpi al Covid. Si parla sempre più spesso, analisi epidemiologiche alla mano, del fatto che ci potrebbero essere stati già casi di coronavirus in particolare nella “zona rossa” in Lombardia prima del paziente 1, Mattia, che il 21 febbraio a Codogno (Lodi) ha segnato l’inizio dell’epidemia in Italia. Xhoni Mustafaraj, 18 anni, ricoverato venti giorni prima, il 2 febbraio a Lodi, con febbre alta, difficoltà a respirare e perdita di gusto e olfatto e rimasto per due settimane in terapia intensiva (foto sopra) può essere uno di questi? Può avere contagiato qualcuno visto che per lui non sarebbero state applicate le procedure anti Covid dato che la pandemia in Italia non era ancora iniziata, almeno ufficialmente e lui non aveva avuto contatti con persone provenienti dalla Cina? Sono i suoi dubbi, per questo ci ha contattato, “per essere utile”. Xhoni o “Johnny”, come si pronuncia il suo nome in albanese secondo le origini dei genitori, ci ha contatto dopo che il 20 maggio proprio per questi dubbi si è sottoposto al test sierologico ed è risultato che non ha il Covid ora ma che in passato ha sviluppato gli anticorpi. Insomma avrebbe avuto la malattia, anche se il test sierologico non dà ancora certezze assolute. Vive a San Martino in Strada a 15 chilometri da Codogno con i genitori che hanno un ristorante, studia e fa il calciatore professionista nella Pergolettese in serie C.

Cosa è successo Xhoni?

“Già il giorno prima non mi sentivo benissimo. Era sabato primo febbraio: ho giocato e fatto anche un goal, dopo però ho iniziato a sentirmi male, avevo 38 e mezzo di febbre, soprattutto facevo fatica a respirare e non ce la facevo a muovermi. I miei genitori mi sono venuti a prendere, mi hanno portato letteralmente in braccio a letto e poi hanno chiamato il 118, mi hanno ricoverato nella notte”.

All’ospedale com’è andata?

“In ambulanza mi hanno messo una mascherina, ma nessuno pensava ancora al coronavirus. Solo un infermiere una volta ha chiesto a un altro: ‘Ma quali sono i protocolli per il Covid?’. Avevo alcuni valori del sangue sballati e non respiravo bene: mi hanno ricoverato per due settimane in terapia intensiva con la maschera per l’ossigeno. Sono rimasto cosciente ma stavo malissimo. Avevo perso anche il gusto e l’olfatto”.

Poi?

“In terapia intensiva sono venuti a trovarmi amici e parenti, potevano entrare senza mascherina. Dopo sono stato altre due settimane in reparto, in una stanza da solo. Non vorrei aver contagiato qualcuno e spero che il mio racconto possa essere utile. Mi hanno dimesso il 26 febbraio, la diagnosi era rabdomiolisi (dovuta alla rottura di alcune cellule muscolari e al loro rilascio nel sangue, ndr).

Non ti hanno fatto un tampone?

“No, ormai l’emergenza era esplosa, lo capisco. Ci ho messo due mei a riprendermi, ero spossato. Mio padre ha accusato sintomi simili con febbre alta e gli hanno detto al telefono di stare almeno due settimane a casa. Anche per questo voglio capire se ho avuto il coronavirus”.

Quando hai fatto il test sierologico?

“Il 2o maggio. Risulta che non ho il Covid ma che ho sviluppato gli anticorpi, quindi l’avrei avuto. Devo fare anche il tampone per sicurezza. Ho mandato l’esame anche all’ospedale di Lodi, che mi ha confermato la presenza degli anticorpi: hanno detto che mi daranno una risposta”.

"Il focolaio non era Codogno" Le rivelazioni sulle zona rosse. Codogno, Cremona e la Val Seriana. Il retroscena sulle chiusure mancate. E quei sintomi molto tempo prima del paziente 1. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Non è partito tutto da Codogno. Non è esploso a fine febbraio. E chissà se le "zone rosse" avrebbero cambiato il corso degli eventi. La storia dell’epidemia da coronavirus in Italia è tutta da scrivere, e molti capitoli restano ancora oscuri. Ma quel che ormai appare chiaro è che le convinzioni sin qui radicate, sia sull’evoluzione temporale del contagio che sui luoghi colpiti dal coronavirus, sono probabilmente da rivedere. Se ci basiamo infatti sui dati ufficiali riportati dalla Protezione Civile, la storia dell’epidemia italiana sembra avere una data di inizio (il 20 febbraio) e un luogo preciso (Codogno). È la cronaca che tutti conosciamo e che abbiamo osservato ogni giorno seguendo le (inutili) dirette del commissario Angelo Borrelli. Eppure esiste un prequel oscuro che ci costringe a volgere lo sguardo più indietro. Nello studio intitolato "The early phase of the Covid-19 outbreak in Lombardy, Italy", un gruppo di scienziati ha studiato i "primi 5.830 casi confermati in laboratorio" in Lombardia e ha scoperto che "l'epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020". "Al momento del rilevamento del primo caso Covid-19 - si legge - l'epidemia si era già diffusa nella maggior parte dei comuni del sud-Lombardia". Gli analisti hanno chiesto alle persone sottoposte a tampone e positive al coronavirus di provare a ricordare quando erano sorti i primi sintomi e i risultati sono sorprendenti. Non solo l'epidemia era "in corso prima dell'identificazione del paziente 1", ma addirittura il primo caso di coronavius è del 1 gennaio 2020, un mese e mezzo prima l'esplosione del focolaio a Codogno. A dire il vero, i test sierologici di questi giorni stanno spostando la lancetta addirittura all'ultima decade dello scorso anno. Quel che è certo, comunque, è che tra il 24 gennaio e l'inizio di febbraio in Italia comparivano numeri sempre più consistenti di persone con sintomatologia da Covid-19. Tanto che, quando il 20 febbraio l’Italia scopre il caso nel Lodigiano, circa 1.200 di persone soffrivano già tutti i sintomi da infezione da coronavirus.

Data di insorgenza dei sintomi nei primi casi positivi. È da qui che occorre partire per valutare le scelte del governo in quei primi drammatici giorni e capire se i vari lockdown sono stati tempestivi oppure no. La prima decisione è quella di blindare dieci Comuni nel Lodigiano (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia e Terranova dei Passerini) e Vo' Euganeo in Veneto. La speranza è di contenere l'infezione e di circoscrivere i contagi, ma in poche ore comincia ad apparire evidente che bisogna fare qualcosa in più. "Noi avevamo chiaro che il problema si stava diffondendo anche oltre Codogno - racconta una fonte nella task force lombarda - e in sede tecnica avevamo fatto tantissime ipotesi su come agire". All'inizio, come il Giornale.it è in grado di ricostruire, si pensa di allargare le zone rosse nel Lodigiano. "Avevamo pensato di includere tutti i Comuni che avevano avuto almeno due casi, poi quelli confinanti, in modo da creare una corona un po' più ampia. Questa ipotesi però è stata scartata quando le inchieste sul paziente 1 hanno evidenziato che l'infezione si era ormai propagata e iniziavano ad emergere i primi casi a Bergamo". In quel momento gli epidemiologi ancora non lo sanno, ma in Val Seriana, a Cremona e a Piacenza i contagi si stavano già moltiplicando da giorni. Senza che nessuno se ne accorgesse. Gli studiosi lo capiranno solo diverse settimane dopo, quando le analisi dimostreranno che Codogno non sarebbe neppure il luogo d'inizio della tragedia. Andando a ritroso, la task force lombarda ha infatti scoperto che i primi segnali dell'epidemia sarebbero sorti ad Arese e a Conegliano Laudense, due Comuni di 20mila e 3mila abitanti. E solo in un secondo momento l'infezione si sarebbe allargata alle zone del Lodigiano (il 24 gennaio), di Bergamo e di Cremona (il 31 gennaio). "Se il focolaio fosse stato Codogno - dice la fonte - penso che saremmo riusciti a bloccarlo. Invece una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei giorni lo era un po' meno, è che la nostra velocità di analisi della catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus". Quello che molti si chiedono è perché, una volta appurato che l'infezione era ormai sfuggita dalla cittadella lodigiana, non si sia deciso di chiudere anche le altre aree più colpite (Bergamo, la Val Seriana o Brescia) non appena queste si "accendevano" come nuovi focolai. La successione degli eventi è ormai nota: la Lombardia chiede a Roma di istituire nuove zone rosse, il governo chiede lumi al comitato tecnico scientifico e poi temporeggia. Il 2 marzo, come rivelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità consiglia a Conte di estendere la serrata ai comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e a quello bresciano di Orzinuovi. Ma Palazzo Chigi non si muove. Perché? Difficile dirlo. Sono ore convulse. Anche gli epidemiologi navigano a vista. Quel che è certo è che la decisione andava presa nell'immediato. Tanto che dopo pochi giorni di attesa (tra il 27 febbraio e l'8 marzo), gli esperti iniziano a capire che è già troppo tardi e che l'unica soluzione è chiudere l'intera Lombardia. "Quando è venuto il ministro speranza a Milano (il 4 marzo, ndr), la relazione della task foce già affermava che le zone rosse probabilmente non avevano più senso e che ormai bisognava fermare tutto". Quattro giorni dopo arriverà il Dpcm che chiuderà l'intera Lombardia e altre 14 province del Nord. I tentennamenti di quelle due settimane hanno avuto effetti nefasti, permettendo al virus di insinuarsi nei treni stipati di pendolari, nei pronto soccorso degli ospedali affollati da pazienti in crisi respiratoria convinti di avere una "banale influenza", negli uffici e nelle residenze per anziani. "Sulle zone rosse - dice la fonte nella task force - penso che se anche l'avessimo realizzata non credo che avremmo ottenuto risultati sul contenimento dell'infezione. Ma sicuramente avrebbe permesso di spegnere quei focolai un po' più in fretta, come successo a Codogno. Forse se io e i miei colleghi fossimo stati più convincenti, magari avremmo anticipato anche solo di 3 o 4 giorni la decisione del governo e forse avremmo limitato i danni".

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” l'8 maggio 2020. La Camera dei deputati americani punta il dito contro l’Italia. Ci accusa di non aver fatto, o non aver fatto bene, i controlli che avevamo promesso sui passeggeri in partenza verso gli Usa, quando all’inizio di marzo l’epidemia di coronavirus stava esplodendo. Così ci mette in imbarazzo davanti al mondo, ci rimprovera di aver contribuito a diffondere la malattia in America, e rischia di provocare il risentimento del presidente Trump, che si era fidato del nostro governo, e in base all’impegno preso non aveva bloccato i voli da Roma e Milano. La storia comincia alla fine di febbraio, quando davanti al drammatico aumento dei contagi, Washington considera di estendere all’Europa lo stop del traffico aereo già decretato il 31 gennaio per la Cina. Il primo marzo l’ambasciata di Via Veneto discute con le autorità italiane le alternative, puntando sull’idea che noi potremmo garantire gli screening sui passeggeri in partenza, evitando che i malati raggiungano gli Usa. In cambio dei controlli, loro lascerebbero aperto il traffico aereo. Il 2 marzo l’intesa viene suggellata con una telefonata tra il segretario di Stato Pompeo e il ministro degli Esteri Di Maio, e il giorno dopo il vice presidente Pence annuncia che le verifiche sono già attive sul 100% dei viaggiatori in decollo da Fiumicino e Malpensa. Il ministero della Salute sostiene in realtà di aver dato l’ordine di avviare gli screening il 4 marzo, contraddicendo Pence. Questa sui tempi precisi dell’attuazione è un’altra storia da indagare, ma non rappresenta il focus dell’inchiesta congressuale, che invece si concentra sulle modalità dei controlli, aldilà del fatto che siano partiti in tempo o in ritardo. Le cose infatti non funzionano, e l’11 marzo Trump ordina il blocco dei voli dall’Italia, lasciando aperto solo un collegamento fra Roma e New York per i cittadini che vogliono rientrare nei rispettivi Paesi, ora sospeso dall’Alitalia per mancanza di passeggeri.

Le testimonianze giurate. Tutto nasce da alcune denunce ricevute dal Committee on Oversight and Reform, in particolare il presidente del Subcommittee on Economic and Consumer Policy Raja Krishnamoorthi, diventate nel frattempo testimonianze giurate. Chelsea Connelly, ad esempio, scrive: «Sono candidata al Ph.D. in Storia dell’Arte all’università di Yale, e sono rientrata di recente da un viaggio di ricerca in Italia. In origine il mio itinerario durava oltre tre settimane, durante cui intendevo visitare musei, biblioteche e chiese a Milano, Venezia, Ravenna, Firenze, Roma e Napoli». Chelsea racconta di essere atterrata a Malpensa il 24 febbraio, proveniente da Lisbona, proprio mentre i casi raddoppiavano ogni giorno: «All’arrivo mi hanno misurato la temperatura e lasciato entrare. Ho preso un treno per la stazione, dove è seguito il caos più completo». La studentessa spiega che il suo treno per Ravenna era stato cancellato, e quindi aveva preso quello per Roma, sperando di cambiare a Bologna. Alla fine però tutti i piani saltano. Gli spostamenti diventano impossibili, e quindi Chelsea va a Roma con l’obiettivo di rientrare: «Il 4 marzo ricevo una mail dall’ambasciata, che dice che “tutti i passeggeri diretti negli Usa la cui temperatura è più alta di 99.5 gradi Fahrenheit non sono ammessi a bordo”. Il 5 marzo, indossando una mascherina, lascio l’hotel e prendo il treno per Fiumicino. L’aeroporto è piuttosto vuoto, ma non ricevo alcun controllo del passaporto, domande, o misurazione della temperatura. Non vedo neppure un’area dedicata agli screening». Forse ciò dipende dal fatto che Chelsea non vola direttamente negli Usa, ma parte per il Portogallo, Paese membro di Shengen dove le verifiche sono più rilassate. Poi però racconta che a Lisbona incontra un altro passeggero americano, proveniente da Roma come lei: «Mi dice che non si sente bene, e allora mi allontano». Una producer di Vice News racconta una storia diversa: «Il 2 marzo sono andata in Lombardia per seguire l’epidemia di coronavirus. Sono rientrata il 5 marzo, via Roma. Nel volo interno da Malpensa a Fiumicino non sono passata attraverso controlli di sicurezza aggiuntivi. Però a Roma, i passeggeri sul mio volo per New York hanno dovuto riempire un formulario. L’ho consegnato con la mia carta d’imbarco. Subito dopo, gli agenti mi hanno fatta fermare per un paio di secondi, prima di procedere verso l’aereo». La producer suppone che in quel momento le abbiano fatto un controllo della temperatura a distanza, ma non ne è sicura. Un altro passeggero racconta di essere partito il 3 marzo dall’aeroporto di Peretola, per tornare negli Usa via Lisbona: «Non mi è stata posta alcuna domanda riguardo la mia salute e miei viaggi, e non mi hanno misurato la temperatura».

Il rapporto finale. Sulla base di queste testimonianze, il 19 marzo Krishnamoorthi apre l’inchiesta, di cui La Stampa ha ricevuto in esclusiva per l’Italia tutti i documenti. Scrive una lettera al segretario di Stato Pompeo, al Commissioner della Customs and Border Protection Mark Morgan, e al direttore dei Centers for Disease Control and Prevent Robert Redfield, chiedendo chiarimenti: «Purtroppo abbiamo ottenuto rapporti sulle carenze degli screening. Abbiamo ricevuto lettere da cinque cittadini che sollevano serie preoccupazioni, e riportano di non essere stati sottoposti ad alcun controllo rientrando dall’Italia e dalla Corea del Sud». Krishnamoorthi chiede di essere contattato entro il 23 marzo. Il dipartimento di Stato risponde alle 10 e 3 minuti del 4 maggio, con una lunga mail che scende nei dettagli. Il 7, cioé ieri, la commissione pubblica i risultati dell’inchiesta: «L’indagine ha rivelato un’altra opportunità persa dall’amministrazione per mitigare l’impatto del coronavirus». Quindi aggiunge: «La decisione di affidarsi all’Italia e la Corea del Sud per condurre gli screening è stata presa al livello dei Policy Coordination Committees del Consiglio per la sicurezza nazionale», ossia dalla Casa Bianca. Ma è stato un errore: «Italiani e sudcoreani non hanno praticamente fermato alcun passeggero che volava verso gli Usa. In base alle risposte del dipartimento di Stato, «gli italiani hanno bloccato 13 viaggiatori. Il 5 marzo quattro passeggeri sono stati fermati a Fiumicino, e il 9 marzo altri nove sempre a Roma. Nessun passeggero è stato bloccato a Malpensa», nonostante allora Milano fosse l’epicentro globale della pandemia. La Corea del Sud ha fatto poco meglio, fermando 56 viaggiatori. I Centers for Disease Control ammettono che dal 3 al 14 marzo, quando l’amministrazione si era affidata all’Italia per gli screening, non sapevano come il governo italiano conducesse i controlli e non aveva personale sul terreno per osservarli. L’ambasciata di Via Veneto e il consolato di Milano confermano di aver seguito le operazioni sul posto e telefonando, ma «il dipartimento di Stato non ha conservato i record di queste supervisioni». Il rapporto poi denuncia che le persone in arrivo da Italia e Corea del Sud non sono state controllate neanche all’arrivo negli Usa. Quindi sottolinea che tra il 17 gennaio e il 29 marzo, circa 250.000 passeggeri sono atterrati negli Usa da paesi sottoposti alle restrizioni di viaggio, ma meno di 1.500 sono stati riportati ai CDC per fare screening. Se si considera che ormai gli scienziati hanno appurato come il ceppo di Covid-19 che ha contaminato New York non sia venuto dalla Cina, ma dall’Europa, si capisce la gravità del potenziale ruolo avuto anche dall’Italia nella diffusione della malattia.

Casa Bianca sotto accusa. L’Oversight Committee è guidato dai democratici, che hanno l’obiettivo politico di colpire l’amministrazione Usa, non Roma. Il nostro governo però fa la figura di essere inaffidabile, e ciò rischia di urtare Trump, perché si è fidato di noi, e per questo ora viene colpito dai suoi avversari.

Anticipazione da “Oggi” il 15 aprile 2020. «Il virus era già arrivato fra noi prima di Natale. Non l’abbiamo capito. E non potevamo neppure sospettarlo perché allora, dicembre 2019, dalla Cina non c’era stato ancora un allarme e neanche una segnalazione. Eppure loro, i cinesi, sapevano, perché a metà novembre avevano avuto proprio a Wuhan già 266 persone infettate. Lo ammettono solo adesso, cinque mesi dopo». Così Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico di ricerca Mario Negri, al settimanale OGGI, in edicola da domani. Aggiunge lo scienziato: «Noi sappiamo che fra novembre e dicembre 2019 fra la Cina, in particolare la zona di Wuhan, e la Bergamasca si sono spostate, in andata e ritorno diciamo così, almeno 30 mila persone. Alzano e Nembro sono capitali industriali con contatti da ogni parte del mondo. E ora, dopo le rivelazioni dei nostri medici, i cinesi sostengono che il Coronavirus non è esploso a Wuhan ma è arrivato in Cina dalla Bergamasca. Gli untori saremmo noi! Una stupidaggine assoluta perché il genoma del virus parla chiaro».

Decessi in Lombardia, cresce il sospetto che il coronavirus Covid-19 ci fosse già in autunno. Michelangelo Bonessa il 24 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pompe funebri, medici e professori universitari. Tutti hanno in comune il sospetto che il Covid19 sia arrivato in Italia prima del 2020. E soprattutto in Lombardia. «Non ho mai lavorato così tanto come lo scorso autunno» afferma Stefano Turati, titolare di una storica aziende di pompe funebri milanese, a proposito dell’ultimo trimestre 2019: nei mesi da settembre a dicembre la sua impresa ha letteralmente raddoppiato i ritmi di lavoro. Un incremento mai registrato con questi numeri e per un periodo così lungo che gli ha suscitato il dubbio che il problema potesse risalire a prima dell’allarme Coronavirus. Allo stesso tempo secondo l’agenzia Reuters anche alcuni ricercatori italiani stanno indagando per capire se il numero insolitamente alto di casi di grave polmonite e influenza registrati in Lombardia nell’ultimo trimestre del 2019 possa indicare che il nuovo coronavirus fosse arrivato dalla Cina prima di quanto originariamente pensato. Brescia, Mantova, Crema, Gera D’Adda e altri comuni hanno infatti registrato picchi di polmoniti inusuali già l’anno scorso. Adriano Decarli, epidemiologo dell’università Statale di Milano, ha detto a Reuters di non poter fornire dati esatti, ma negli ultimi tre mesi del 2019 sono stati registrati “centinaia” di ricoveri in ospedale in più rispetto alla norma nelle due città, due dei maggiori focolai dell’epidemia in Lombardia. I ricoverati mostravano sintomi compatibili con polmonite e influenza. I ricercatori – ha spiegato Decarli – stanno controllando i registri ospedalieri e altri dettagli clinici di quei casi, includendo anche persone morte poi nelle loro case, per cercare di comprendere se l’epidemia di coronavirus si era già diffusa allora in Italia. Un’indagine che sarà lunga vista l’emergenza in corso e i cui risultati arriveranno forse prima del vaccino. Intanto anche dalle zone colpite alcuni casi particolari erano stati segnalati anche dai medici di base, come confermato da Mirko Tassinari, responsabile per Bergamo della Federazione italiana medici di famiglia. Alcuni suoi colleghi avevano segnalato infatti casi di polmoniti fuori dall’ordinario. «Da medico – precisa Tassinari – dico però che mi sembra strano che si possano ricongiungere i due fenomeni: la virulenza dimostrata dal Covid19 quando sono esplosi i focolai di Codogno e Bergamo è stata molto più alta, forse, ma non sono un esperto del tema, c’è stata una mutazione del virus». Anche alcune prime rilevazioni sembrano ricondurre la maggior parte dei focolai, compresi quelli nella zona di Brescia e Mantova, a un genere diverso di polmonite causata spesso dal batterio della Legionella, ma da Regione e altri enti territoriali non risultano al momento indagini epidemiologiche complete. Dubbi e sospetti si sommano in un momento in cui anche sui dati ufficiali dell’epidemia in pochi riescono a vederci chiaro. Il fatto poi che i primi contagi e focolai mondiali noti siano quelli cinesi non aiuta perché la Cina non gode di grande fama a livello internazionale. L’unica soluzione potrebbe essere effettuare una serie di analisi sugli scomparsi di quel periodo, come suggerito da altri esperti internazionali: Paul Hunter, professore di medicina all’Università di East Anglia nel Regno Unito, ha detto che a meno che gli scienziati italiani non ottengano risultati positivi dai campioni presi e conservati allora, l’ipotesi non dovrebbe essere considerata perché al momento pare improbabile. Un dubbio che potrebbe essere risolto con delle analisi che però non si sa se si riuscirebbero a svolgere ora: la Lombardia già non riesce a uscire del tutto dalla fase emergenziale e ancora in tantissimi lamentano di non aver potuto ottenere un tampone, nonostante i sintomi da Covid19. L’unico metodo sicuro è rivolgersi alla sanità privata che al prezzo di 120 euro fornisce rapidamente e a chiunque il tampone, però in periodo di non lavoro sono pochi quelli che possono pagare quella cifra. I tempi per un’analisi sui casi sospetti dell’autunno sembrano dunque destinati a dilatarsi.

Coronavirus e bambini, quelle polmoniti sospette a Milano a gennaio: «Forse è stato l’inizio». La ricerca all’ospedale pediatrico Buzzi per capire se il virus si è diffuso prima tra i pazienti più piccoli. I dottori: tanti i quadri clinici che non ci spiegavamo. Zuccotti: «Penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica». Sara Bettoni il 29 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Le tracce iniziali del Covid-19 in Lombardia risalgono forse ai primi di gennaio. Sono diversi gli studi che supportano l’analisi fatta dalla Regione e pubblicata ieri dal Corriere, in cui si contano 1.200 lombardi che hanno accusato sintomi da coronavirus prima del 21 febbraio (quando è stato identificato il primo caso a Codogno). Il virus circolava già. Forse anche tra i bambini. Più di un pediatra a Milano ha visto polmoniti insolite a gennaio e ora l’ospedale dei Bambini «Buzzi» cercherà gli «indizi» per capire se il Covid si sia diffuso prima tra i pazienti in età pediatrica. In uno studio in fase di pubblicazione gli esperti della task force lombarda identificano una fase iniziale dell’epidemia che va dal 1° gennaio al 19 febbraio. Spiega l’epidemiologo Marcello Tirani: «A partire dal “paziente 1” le Ats lombarde si sono adoperate per identificare i contatti stretti. Ai 5.800 testati abbiamo chiesto di ricordare l’esordio dei sintomi e abbiamo ricostruito l’andamento». L’esperto avverte che le date sono indicative, perché basate sulla memoria dei pazienti che potrebbe non essere precisa oppure attribuire al coronavirus i sintomi dell’influenza. «Ma sono tutti risultati positivi. E fin dai primi giorni la progressione del contagio indicava che c’erano altri casi prima del “paziente 1”». Anche l’infettivologo Massimo Gallidell’ospedale Sacco di Milano ha più volte sottolineato che l’epidemia va retrodatata. Primari e medici di famiglia ricordano polmoniti particolari a gennaio, ma solo ora è possibile ricollegarle al virus. «Avevamo avuto l’impressione che ci fossero più casi — conferma Francesco Blasi, a capo della Pneumologia del Policlinico di Milano —, ma era inverno, pensavamo fossero causate dall’influenza». La stessa impressione che hanno avuto i medici di famiglia del Lodigiano e del Milanese. Guardando ai mesi passati, anche i pediatri ricordano «quadri clinici a cui non si riusciva a dare nome e cognome» spiega Gian Vincenzo Zuccotti, direttore responsabile della Pediatria e del pronto soccorso pediatrico del «Buzzi». «Tosse e febbre che non passavano mai. Penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica». Il primario sta sottoponendo a test sierologico il personale dell’area materno-infantile, per verificare se la percentuale di chi ha sviluppato gli anticorpi al virus è più alta rispetto a quella nei reparti per adulti. Silvia Decarlis, pediatra con studio a Sud di Milano, ricorda nei piccoli pazienti visitati a gennaio polmoniti dallo strano decorso, anche se non grave. A suo avviso, però, potrebbero essere stati contagiati dai genitori che hanno continuato a lavorare anche dopo la chiusura delle scuole.

 Coronavirus, i bambini potrebbero essere gli untori: "Strane polmoniti già a gennaio", lo studio dei pediatri.  Libero Quotidiano il 30 aprile 2020. Il coronavirus circolava già a gennaio e forse si è diffuso prima tra i bambini. È quanto emerge dalla ricerca dell’ospedale Buzzi: più di un pediatra a Milano ha riscontrato polmoniti insolite a gennaio. Difficile individuare una data precisa, ma di sicuro c’è che l’epidemia va retrodatata rispetto al paziente 1 riscontrato verso la fine di febbraio. Primari e medici di famiglia, scrive il Corriere della Sera, ricordano polmoniti particolari a gennaio, ma solo ora è possibile ricollegarle al coronavirus: prima era normale ricondurle all’influenza. Però “tosse e febbre non passavano mai - ha dichiarato Gian Vincenzo Zuccotti, direttore responsabile della pediatria del Buzzi - penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica”. Il primario sta sottoponendo ai test sierologici il personale dell’area materno-infantile per verificare se la percentuale di chi ha sviluppato gli anticorpi al virus è più alta rispetto a quella nei reparti per adulti. In attesa di dati certi, resta in piedi l’ipotesi che i bambini siano stati gli untori: una tesi plausibile perché, salvo rari casi, nei pazienti più piccoli la polmonite non è grave e quindi potrebbero essere loro i responsabili del contagio di genitori e nonni, all’insaputa di tutti. 

Coronavirus, il momento sconosciuto dell’epidemia: la mappa del contagio tra Milano e Lodi prima del «paziente 1». I primi malati in Lombardia risalgono al 15 gennaio nei comuni di Arese e Cornegliano Laudense. Gli epidemiologi: è importane capire cosa è successo. Sara Bettoni e Gianni Santucci l'1 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. L’epidemia «oscura» diventa visibile. Rappresentata a colori. Il coronavirus prima del «Paziente 1». Arese e Cornegliano Laudense. Questi due Comuni, in provincia di Milano e Lodi, sono i primi che appaiono nella mappa elaborata dalla task force di Regione Lombardia per ricostruire la diffusione del Covid-19. Già al 15 gennaio tra i loro abitanti (quasi 20 mila il primo, 3 mila il secondo) c’erano i primi malati. Dopo il «Paziente 1» scoperto il 21 febbraio a Codogno, è partita l’operazione di tracciamento dei contatti per individuare i focolai del virus. Successivamente, ai positivi al tampone è stato chiesto di ricordare quando fossero comparsi i sintomi. Attraverso queste indagini su 5.800 casi la squadra regionale è andata a ritroso nel tempo e individuato già a gennaio la comparsa del virus. La mappa e altre informazioni sulle prime due settimane di epidemia, pubblicate nei giorni scorsi dal Corriere, sono state inserite in uno studio dei tecnici del Pirellone in corso di pubblicazione.

Le mappe. «Le mappe riportano i numeri assoluti dei contagi — spiega l’epidemiologo Marcello Tirani, che fa parte della squadra regionale —, col passare dei giorni evidenziano i cluster del contagi nella bassa Lodigiana, a Cremona e nella Bergamasca». I primi segnali a Codogno, riporta il documento, risalgono alla fine di gennaio. Nelle settimane iniziali gli esperti hanno calcolato un intervallo di 6,6 giorni tra la comparsa dei sintomi in un paziente e quella nelle persone da lui contagiate, in linea con il dato cinese. Nella fase esponenziale dell’epidemia hanno calcolato che ciascun malato ha trasmesso il virus in media a 2,3-3,1 altre persone. Numeri e curve sono serviti e servono tuttora a pianificare le strategie per arginare il virus, spiega Tirani, cosicché gli interventi abbiano una base scientifica. Lo studio è in via di aggiornamento, con i dati relativi a 60 mila pazienti. Nelle mappe future verrà inserita anche Milano.

Il momento sconosciuto dell’epidemia. Molti epidemiologi consultati dal Corriere ritengono che sia fondamentale fare luce sull’epidemia nel suo momento sconosciuto (pre-Codogno) per capire se ci siano meccanismi utili per verificare come agire e come intervenire su nuovi focolai quando si accenderanno nelle prossime settimane. Il punto chiave sta nella individuazione rapida, nel tracciamento e nel contenimento: una catena di azioni che, per tempi, andrà accorciata il più possibile. E si potrà fare anche avendo una più chiara visione del perché il virus all’inizio è circolato per quasi due mesi senza essere intercettato.

Coronavirus Milano, la 41enne con la febbre il 22 dicembre: «Ora hanno trovato gli anticorpi al Covid». Gianni Santucci il 30 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. «È iniziata con una febbre poco sopra il 37. Era il 22 dicembre. Poi la febbre è salita. La sera del 26 ha sballato i 39. Ho chiamato la guardia medica. Il giorno dopo, prescritto dal sostituto del medico di base, ho iniziato il primo antibiotico». Professionista milanese, 41 anni: di antibiotici ne prenderà tre diversi, nel tentativo di contrastare una malattia che all’inizio sembrava un’influenza e che invece ha avuto una pesante deriva. La sequenza è stata questa. La febbre continua altalenante e poi scende. Il primo gennaio però iniziano delle fitte violentissime tra le costole, alla schiena. Altra chiamata alla guardia medica. Altra visita in ambulatorio. Secondo antibiotico. Primo sospetto di polmonite. E una tosse talmente pesante che quel giorno il medico fa anche un’altra ipotesi: «Tossendo in modo così forte, potrebbe essersi incrinata una costola». Il 6 gennaio, in pronto soccorso, «ancora piegata da quel dolore tra le costole», alla donna fanno la prima lastra. Esito: «Probabile polmonite». Solo che il versamento è talmente ampio che non si può fare in quel momento la diagnosi con certezza. La (terza) lastra che certifica la guarigione arriverà dopo quasi un mese: il 5 febbraio (in tutto questo percorso, gli ospedali e i medici milanesi non avevano ancora sospetti sulla presenza del coronavirus in città e si facevano pochi tamponi). La donna guarisce. E ha già ricominciato a lavorare quando esplode l’epidemia di Covid-19, col paziente ricoverato a Codogno (21 febbraio). Quella della professionista milanese resterebbe una delle tante «polmoniti anomale» curate dai medici tra fine dicembre e inizio febbraio. Alla fine di questa storia però c’è un aspetto decisivo, che cambia la prospettiva. Qualche giorno fa la donna fa il test sierologico (quello che cerca gli anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta al virus). Risultato: immunoglobuline IgM (quelle prodotte per prime in caso di infezione) «negative». Significa che la donna a fine aprile non è infetta. Le IgG, invece, sono «positive», segno che la professionista ha avuto l’infezione qualche tempo prima. Domanda: lei, dopo quella polmonite di inizio gennaio, è più stata male? «No». Esiste dunque un’alta probabilità che la donna si sia ammalata di coronavirus, a Milano, a fine dicembre. Sarebbe dunque una di quelle persone che ha contratto il virus quando l’epidemia era «sommersa», si credeva lontana e confinata in Cina (le informazioni sul nuovo ceppo di coronavirus scoperto a Wuhan sono state diffuse al mondo tra 31 dicembre e 10-15 gennaio). Secondo la più recente analisi della Regione su quando sono iniziati i sintomi dei «positivi» certificati con tampone, almeno 1.200 lombardi potrebbero aver avuto il Covid-19 tra fine gennaio e 20 febbraio (prima che l’epidemia venisse intercettata in Italia). Potrebbero essere molti di più. E potrebbero essersi ammalati ancor prima. Come la professionista che racconta al Corriere: «Sono guarita e ho ripreso la mia vita di sempre. Ma credo che sia importante raccontare quel che mi è accaduto anche per dare un contributo alla conoscenza del virus». In questo percorso clinico c’è stato solo un momento di sospetto, quando la professionista si è fatta visitare, intorno a metà gennaio, da uno pneumologo. È stato l’unico a chiederle se fosse stata in Cina, cosa che non era avvenuta. In quel momento, per le direttive di politica sanitaria, era quello l’unico alert che veniva valutato per pensare a un contagio da coronavirus (non la presenza di sintomi compatibili, come è stato dopo). Resta da chiarire che in questa storia esiste un margine di incertezza, e che dunque (pur in un quadro di compatibilità come riferito da più esperti consultati dal Corriere) non si può definitivamente affermare che la donna sia stata malata di coronavirus. Sia perché i versamenti hanno sempre «coperto» il focolaio di polmonite, sia perché le è stata diagnosticata anche una pleurite (piuttosto rara nel Covid), sia perché potrebbe essersi infettata (rimanendo asintomatica) dopo la sua malattia di dicembre/gennaio.

IL DOSSIER. Coronavirus, a Milano i contagi già a gennaio: 1.200 lombardi positivi prima del «Paziente 1». L’analisi della Regione sulla comparsa dei sintomi: a partire dal 26/1 il virus inizia a diffondersi a Milano. La ricostruzione della fase sconosciuta dell’epidemia. Gianni Santucci il 29 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Il Covid-19 circolava a Milano già da fine gennaio. Nei 26 giorni precedenti alla scoperta del primo caso «positivo» a Codogno (21 febbraio), almeno 160 persone avevano già contratto il coronavirus tra Milano e provincia (su circa 1.200 in tutta la Lombardia). Eccola, la prima radiografia del mese «oscuro»: quello in cui la catena di contagio s’era già innescata, confondendo all’inizio i suoi sintomi con la coda dell’influenza, e la malattia si diffondeva senza essere intercettata. La fotografia della «Fase 0», quella dell’epidemia sconosciuta, prende forma nella più recente analisi della task-force sanitaria della Regione Lombardia. E se era nella logica che la scoperta del «paziente 1» e del focolaio nel Lodigiano non potessero segnare il vero inizio dell’epidemia in Italia, è ora possibile andare a ritroso e svelare nel dettaglio il quadro precedente.

Il «Giorno 0». Ruota tutto intorno a una data: il 26 gennaio. È altamente probabile che già in quel momento, una sorta di «Giorno 0», solo a Milano ci fossero già i primi 46 casi di Covid-19 (su 543 in tutta la Lombardia). L’analisi è contenuta in un complesso grafico che analizza la «distribuzione della curva di inizio dei sintomi per i casi positivi». Cosa significa? I tamponi per la ricerca del coronavirus iniziano a registrare casi «positivi» dal 21 febbraio, quando il Paese si sveglia e realizza che l’epidemia è «arrivata». Se si guarda dunque al progressivo aumento dei contagiati, la curva comincia a salire appunto dal 21 febbraio e s’impenna rapidamente fino ai 74.348 infettati in Lombardia al 28 aprile. Mano a mano che i pazienti «positivi» sono stati scoperti e certificati con i tamponi, è stato però chiesto loro quando avessero avuto primi sintomi. Ovviamente, non tutti sono stati in grado di dare un’indicazione precisa: qualcuno lo avrà fatto nel dettaglio, altri l’avranno collegata a una visita dal medico di base o a un accesso in pronto soccorso, altri infine saranno stati più approssimativi.

Le «sentinelle». Si tratta comunque di dati essenziali per la conoscenza dell’epidemia: scremati della dose di incertezza grazie all’analisi medica e statistica, permettono ora di raccontare la storia ignota del Covid-19 a Milano e in Lombardia, quella del mese in cui per tutti il coronavirus era ancora un nemico alieno, minaccioso ma confinato nel capoluogo di una provincia cinese. In quel periodo, tutti gli sforzi del sistema antivirus italiano erano concentrati sulle frontiere aeree, e dunque soprattutto su Malpensa e Fiumicino. Un arco di quasi quattro settimane in cui le «sentinelle» scrutavano fuori dalle mura e controllavano le porte d’accesso, mentre il nemico era già entrato in città: 46 (all’epoca ignari) milanesi, secondo le autorità sanitarie, hanno iniziato a manifestare la malattia (dunque erano già infettati) a fine gennaio, e poi sempre ad aumentare: 9 persone che collocano i primi sintomi il 12 febbraio, 13 il 15 febbraio, 10 il 18 febbraio, 35 il 20 febbraio (il giorno prima della notte di Codogno). Il grafico correlato a quello che identifica l’inizio dei sintomi è quello del numero dei contagi giornalieri per «data di ricevimento del tampone in laboratorio», e dunque non per il momento in cui è arrivato l’esito (in qualche caso, nei periodi più critici, anche dopo 72 ore). In quest’ottica, i casi di «positivi» a Milano sono stati: 1 il 21 febbraio, 2 il 22 febbraio, 2 il 23, 9 il 24, fino ai 25 del 29 febbraio e ai 778 del 10 marzo. Tra le due serie di dati, si coglie la cesura tra il primo tempo dell’epidemia nascosta e il secondo tempo dell’epidemia emersa. Ora che sta per essere allentato il lockdown , e dunque all’inizio di una condizione assai simile a quella di gennaio (dipenderà tutto da quanto il servizio sanitario avrà imparato e sarà attrezzato per identificare e isolare al più presto possibile i nuovi «positivi»), diventa fondamentale descrivere le dinamiche dell’epidemia nella sua fase «sconosciuta», avanzata per quasi un mese in modo sommerso. E allora si torna a quella data, il 26 gennaio.

L’epidemia sommersa. Il fatto che i tecnici della Regione Lombardia collochino proprio in quel singolo giorno l’inizio dei sintomi per un numero di pazienti molto alto rispetto alle tre settimane successive è probabilmente frutto di un «arrotondamento». Come dire, per tutti i pazienti certificati Covid-positivi a fine febbraio e che, nella loro memoria, collocavano l’inizio dei sintomi molto indietro nel tempo, sarebbe stata identificata quella data come termine massimo oltre il quale non era possibile retrocedere i primi sintomi. Una data dunque, in qualche modo, «convenzionale». Pur con questi limiti, per analizzare la vera storia del coronavirus in Italia, il 26 gennaio resta comunque una data chiave. E per capirne l’importanza, bisogna collocarla su un quadro globale: solo così ci si rende conto che Milano e Wuhan fossero legate da un destino comune già molto tempo prima che l’Italia se ne rendesse conto. La cronologia offre la prospettiva di un tempo a scansione ultra rapida. Il 31 dicembre i responsabili del sistema sanitario di Wuhan parlano per la prima volta di «polmoniti anomale». Il 7 gennaio le autorità cinesi confermano di aver identificato un nuovo ceppo di coronavirus. Il 10 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità diffonde la notizia dell’epidemia. Il 22 gennaio, infine, Wuhan entra in quarantena. E solo 4 giorni dopo, proprio il 26 gennaio, senza che nessuno in quel momento se ne rendesse conto, 46 milanesi e 543 lombardi collocano i primi sintomi di quella «remota» malattia. Il 29 gennaio vengono infine ricoverati allo «Spallanzani» di Roma i primi due turisti cinesi «positivi», e il giorno dopo l’Italia blocca i voli dalla Cina. Da quel momento, il Covid-19 non arriverà più a Malpensa in aereo. Ma, tranne che a Sondrio, già circola a Milano e in tutta la Lombardia.

Ilaria Capua a DiMartedì: "Coronavirus mutato? Perché non pubblicano le sequenze italiane?". Pesantissimo sospetto. Libero Quotidiano il 22 aprile 2020. Il coronavirus è mutato? Ilaria Capua, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì, prova a far luce su un "buco nero" inquietante nella comuncazione scientifica sulla pandemia in Italia. "Ad oggi non abbiamo informazioni, possiamo dire poco - premette la virologa, dalla Florida -. Ci sono 10mila sequenze di cui 40 italiane, come mai queste sequenze italiane non si pubblicano?". Secondo la Capua è importante avere una fotografia globale, altrimenti non potremo mai combatterlo ad armi pari. C'è bisogno di combatterlo con tutte le forze e le angolazioni possibili". Le stesse mancanze, suggerisce la professoressa, potrebbero caratterizzare anche le scelte politiche sulla Fase 2: "Le decisioni devono essere prese ascoltando le ragioni della salute e poi dell'economia". Dunque? "Occorre effettuare test sierologici per tutti da ripetere dopo una ventina di giorni per capire la dinamica della diffusione". Il suo giudizio è preoccupante: "Siamo ancora in ritardo sulla Fase 2, non abbiamo ancora una idea chiara su come la malattia si sia trasmessa nel Paese. Manca capire com'è messo il Paese".

Coronavirus, dall'ospedale Sacco di Milano le foto del Covid lombardo che sta facendo una strage. Libero Quotidiano il 2 aprile 2020. Sono le prime straordinarie immagini del coronavirus lombardo che sta facendo una strage nella regione e che sono state pubblicate dal sito dell'Adnkronos. Arrivano da Milano e sono state catturate al microscopio elettronico nel Laboratorio di Malattie infettive dell'università Statale-ospedale Sacco, coordinato da Massimo Galli e Gianguglielmo Zehender, in collaborazione con l'Anatomia patologica diretta da Manuela Nebuloni del Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche Luigi Sacco. Hanno ottenuto gli isolamenti - ricordano da UniMi - i ricercatori Alessia Lai, Annalisa Bergna, Arianna Gabrieli (tre giovani scienziate precarie) e Maciej Tarkowski (ricercatore polacco in forze a Milano), mentre hanno effettuato le osservazioni al microscopio elettronico e prodotto le immagini Antonella Tosoni e Beatrice Marchini. In una fotografia, spiegano dall'ateneo, "si osservano chiaramente, ad un ingrandimento di 30000X, le particelle virali di Sars-CoV-2, adese alle membrane sulla superficie e all'interno di cellule Vero E6 utilizzate per l'isolamento". Una seconda foto è invece "la combinazione di 2 immagini a diverso ingrandimento (50000X e 140000X) che mostra le particelle virali con la tipica ultrastruttura caratterizzata dalla corona di glicoproteine superficiali".

Quelle sei "lettere" del virus che hanno scatenato l'inferno. Il ceppo di provenienza del nuovo coronavirus è unico ma in Italia sono state registrate quattro variazioni del suo codice genetico. Federico Giuliani, Lunedì 06/04/2020 su Il Giornale. Lo studio del codice genetico del nuovo coronavirus ha consentito ai ricercatori di fare altre due importanti scoperte. La prima: il ceppo di provenienza del Covid-19 è unico. La seconda: nel territorio italiano l'agente patogeno subito alcune variazioni. A questo proposito il direttore del dipartimento scientifico del Policlinico Militare del Celio, il Colonnello dell'Esercito Florigio Lista, ha spiegato all'agenzia Adnkronos che "il nuovo coronavirus possiede 29 mila lettere che caratterizzano la sua sequenza genetica. Per un confronto, l'uomo ne possiede 3,3 miliardi, i batteri qualche milione. Sono proprio come lettere messe in sequenza dalla prima all'ultima, che abbiamo potuto contare e studiare per schedarne ogni caratteristica, in collaborazione con l'Istituto superiore di sanità". Da qui, prosegue Lista, “abbiamo scoperto che il ceppo di provenienza è unico, ma in Italia si sono registrate alcune variazioni. Sono informazioni importanti soprattutto per studiare un vaccino efficace". L'Iss ha isolato in laboratorio il coronavirus e poi il dipartimento scientifico lo ha sequenziato e analizzato. Lo studio del Sars-Cov-2, pubblicato su Eurosurvelliance insieme a una serie di altri autori da varie istituzioni sanitarie italiane, è avvenuto attraverso "l'analisi di tamponi positivi - evidenzia Lista - dai quali si estrae l'Rna e si sequenzia. In questo caso abbiamo confrontato i campioni del paziente 1 di Codogno e della coppia di coniugi cinesi provenienti da Wuhan, ricoverati all'ospedale Spallanzani di Roma. In entrambi i casi, nella sequenza genetica virale, ci sono delle variazioni: 4 variazioni che differenziano il ceppo di Codogno da quello di riferimento cinese e 6 variazioni fra il ceppo di Codogno e quello del turista cinese".

La variazione del genoma e "i quattro mattoncini diversi". Il racconto del direttore entra nel vivo: “Abbiamo dunque osservato una variazione del genoma del virus italiano sia rispetto al virus rilevato in Cina, sia a quello del paziente cinese a Roma. È come se ci fossero quattro mattoncini diversi all'interno dei 29mila totali. Ed è come se il virus avesse fatto scalo in Europa e abbia metaforicamente indossato delle collane speciali. Così si traccia il viaggio del coronavirus e da qui si comprende anche che abbia fatto una tappa in Germania prima di arrivare da noi". "Il dipartimento scientifico - spiega il direttore - da circa 10 anni è inserito in una rete dei più avanzati laboratori europei che si occupano di biodifesa (tracciamento genetico degli aggressivi biologici e dei virus rari). Il dipartimento del Policlinico Militare dipende dal Comando Logistico dell'Esercito ed è costituito da circa 40 unità (tra medici, biologi, ricercatori e tecnici) di tutte le Forze Armate e alla sue dipendenze vi è anche il neocostituito Centro Veterani della Difesa". Ricordiamo che sono oltre 220 tra medici e infermieri della sanità militare impiegati su disposizione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini nei vari ospedali civili (in particolare in Lombardia) e in alcuni degli ospedali da campo costruiti (Piacenza, Jesi, Crema, Cremona, Bergamo). Inoltre, altro personale sanitario è impiegato nell'ospedale militare del Celio di Roma e nel dipartimento Militare di medicina di Milano.

Davide Milosa per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2020. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, un signore che vive e lavora a Milano inizia ad avere febbre e tosse. Il 10 febbraio viene ricoverato in un importante ospedale del capoluogo lombardo. Diagnosi: "Coinvolgimento polmonare bilaterale con opacità del vetro smerigliato, che ha richiesto cure intensive". È Covid-19. La sua positività sarà però identificata il 20 febbraio, giorno in cui all' ospedale di Codogno il tampone rinofaringeo certifica in un 38enne del posto il primo paziente Covid in Italia. Si chiama Mattia. Da ieri, però, il primato non spetta più a lui, ma al signore di Milano, la cui storia clinica è coperta da uno stretto riserbo. Il dato, che il Fatto è in grado di svelare, implica diverse conseguenze decisive. Le vedremo. La scoperta di un nuovo paziente 1, che retrodata con certezza il contagio, arriva da uno studio scientifico messo insieme dai ricercatori di diversi enti, dall' Istituto superiore di sanità al Laboratorio di microbiologia del Sacco di Milano diretto dalla professoressa Maria Rita Gismondo. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Eurosurveillance. I ricercatori hanno così analizzato le sequenze complete di due ceppi di Sars-Cov2 isolati in due pazienti. La prima risale alla fine di gennaio e riguarda un turista cinese di Wuhan, la seconda e più importante è di un milanese che mostra un contagio autoctono senza collegamenti diretti né con la Cina né con persone rientrate da quel Paese. L' analisi delle sequenze ha dato una prima certezza: l' ingresso multiplo della nuova Sars in Europa e anche in Italia. Il virus del cittadino di Wuhan, infatti, è sovrapponibile ad altri due riferibili a turisti cinesi ricoverati in gennaio allo Spallanzani di Roma. Queste tre sequenze, si legge nel documento, "sono situate in un cluster con genomi principalmente dall' Europa (Inghilterra, Francia, Italia, Svezia), ma anche uno dall' Australia". La sequenza del signore di Milano invece si trova "in un diverso cluster comprendente due sequenze di genomi provenienti dalla Germania (Monaco di Baviera e Baden-Württemberg) e una sequenza del genoma dal Messico". Di più: dall' analisi sulla composizione degli amminoacidi del virus, i ricercatori hanno individuato alcune differenze tra il ceppo del paziente milanese e il virus di Wuhan. Questo potrebbe ipotizzare la mutazione verso una maggiore aggressività. Il dato che al momento appare però rilevante è la retrodatazione del cosiddetto "paziente 1" ai primi giorni di febbraio con una dislocazione geografica che da Codogno ci conduce alle porte di Milano. Un dato in linea con il recente studio dell' Unità di crisi della Regione Lombardia che indica in 385 i sospetti casi di Covid-19 prima dell' inizio formale dell' emergenza. Gli esperti delle Ast regionali collocano persone sintomatiche a partire dal primo gennaio con un andamento prima lieve e poi sempre più veloce. Le mappe allegate indicano attorno alla metà di gennaio due primi casi, uno individuato nell' area di Codogno, il secondo invece proprio a ridosso della periferia nord-ovest di Milano. L' obiettivo ora è comprendere se il genoma del paziente milanese sia sovrapponibile o meno a quello dei ceppi isolati sempre all' ospedale Sacco nei primi tre pazienti arrivati da Codogno. Il dato è rilevante perché un mancato match indicherebbe in Lombardia un secondo ingresso del virus che in parte giustificherebbe la diffusione esponenziale registrata in oltre un mese di emergenza. Il virus dei tre pazienti del Lodigiano mostra un primo errore di replicazione il 26 gennaio, data che al momento viene fissata come ingresso in Lombardia di Sars-Cov2. Questo grazie al lavoro dell' equipe coordinata dal professor Massimo Galli. Le tre sequenze di Codogno sono poi sovrapponibili a una isolata in Baviera attorno al 22 gennaio. Oggi le sequenze complete sono diventate almeno 30. Alcune arrivano dalla zona di Bergamo ed è su queste che i ricercatori stanno lavorando. Anche qua l' obiettivo è capire se il virus circolato in Val Seriana sia lo stesso di Codogno o rappresenti un ennesimo ingresso autonomo. Allo stato dunque, il paziente zero italiano resta un cittadino lombardo, forse del Basso lodigiano che, contratto il virus in Germania, lo ha portato qua. Quello che invece si può dire con certezza, seguendo lo studio pubblicato su Eurosurveillance, è che il nuovo paziente 1 è di Milano e non di Codogno.

Francesco Bechis per formiche.net il 22 marzo 2020. Quasi amici. Il Partito comunista cinese (Pcc) ha trovato il vero responsabile della pandemia globale del coronavirus: l’Italia. Lo fa sapere con un fuoco di fila sui suoi quotidiani ufficiali, rilanciando un’intervista rilasciata alla National Public Radio (Npr), popolare emittente statunitense, dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto ricerche farmacologiche Mario Negri. In un passaggio, il medico ricorda di “aver osservato polmoniti molto strane, e molto gravi, soprattutto fra persone anziane già a dicembre e perfino a novembre”. “Questo vuol dire – prosegue Remuzzi – che il virus circolava, almeno in Lombardia, e prima che fossimo a conoscenza della crisi in Cina”. Le parole di Remuzzi sono ora al centro di un tam-tam sui media ufficiali della Città Proibita, che con toni allusori lascia intendere che l’Italia sia stata il primo epicentro della crisi mondiale. Ecco che allora sul profilo twitter del Global Times, megafono inglese del partito, appare un cinguettio, senza link di rimando né fonti citate: “L’Italia potrebbe aver avuto una strana casistica di polmoniti già a novembre e dicembre del 2019 con sintomi altamente sospetti del Covid19, viene riportato”. Si accoda il Jiefang Daily, il foglio ufficiale del Comitato del Pcc a Shanghai, noto alle cronache per aver coniato, nel lontano 1943, la frase-motto dell’epopea comunista cinese: “Senza il Partito comunista, non esisterebbe una nuova Cina”. “Famoso esperto italiano: il virus potrebbe essersi diffuso in Italia prima dello scoppio in Cina” recita il titolo con cui viene lanciata la notizia. Nel corpo, l’articolo riporta le dichiarazioni di Remuzzi con una cura particolare delle sue affiliazioni, a sottolineare l’autorevolezza della fonte. Peccato che Remuzzi abbia alluso alla possibilità che in Italia circolasse il virus prima che si “fosse a conoscenza” del virus in Cina, non prima che “scoppiasse”. Questa però è ormai la linea ufficiale del Pcc. T-House, blog molto popolare della Cgtn (China global television network), emittente controllata dalla tv statale Cctv (China central television), si spinge oltre. “Come riportato da Npr, il dottor Giuseppe Remuzzi sostiene che i medici ricordano di aver visto strani polmoniti già a novembre, il che può voler dire che il virus circolava in Italia prima ancora che i dottori in Cina ne fossero a conoscenza”. Un capovolgimento a 360°: erano i medici cinesi, spiega il blog della tv pubblica, a non essere a conoscenza del virus in Italia. Dopo il complotto contro gli Stati Uniti, che sono stati accusati prima dal portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian e poi quotidianamente dai media di Stato cinesi di aver diffuso il virus a Wuhan, ora c’è l’Italia nel mirino. La stessa Italia che la Cina da settimane promette di soccorrere con aiuti umanitari e una nuova collaborazione nel settore sanitario con una “Via della Salute”, ma anche nel 5G, raccogliendo un certo successo fra i palazzi della politica.

Coronavirus, svolta con lo studio dell'Ospedale Sacco: "C'è una deriva genetica con importazioni multiple". Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Il coronavirus nel nostro Paese avrebbe avuto più di un "paziente zero". A confermarlo, oltre all'elevato numero di contagi, anche lo studio sui tre ceppi del virus dell'équipe di ricercatori coordinata dal professor Massimo Galli, primario di malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano. Da una delle tre sequenze italiane - spiega Il Fatto Quotidiano - complete comparate con 157 sequenze isolate a livello mondiale, emerge una "deriva genetica" del virus, cioé la sua capacità di mutare e di replicarsi attraverso la creazione di ceppi diversi. Ma le novità non finiscono qui. Il genoma ottenuto dai primi pazienti del Lodigiano, poi deceduti, viene così messo a confronto con quelli cinesi e non solo, al fine di identificare "ultimo antenato comune". Risultato? I tre ceppi italiani stanno in uno stesso cluster (gruppo) assieme ad altri cinque provenienti da Germania, Finlandia, Messico e Brasile. Tutti hanno come antenato il virus cinese che viene datato al 23 ottobre 2019. Diversa invece la data del primo nodo del cluster, quello che comprende i ceppi italiani, legata al 20 gennaio (Baviera), il 26 dello stesso mese è la data del secondo nodo (Codogno).

Coronavirus, da made in China a made in Italy. Antonio Selvatici de Il Riformista l'11 Marzo 2020. Coronavirus: da Made in China a Made in Italy. Vittime e untori, siamo secondi in classifica come numero di decessi e primi in quella mediatica degli untori. Secondi e primi nel globo. Germania, Francia, Belgio, Olanda e gli altri paesi dell’Europa stanno in fondo alla classifica quasi in zona retrocessione, come se il Coronavirus fosse attratto dai sapori dell’Italia. Un morbo buongustaio, ma poco democratico. Che s’accanisce contro gli abitanti della penisola. In pochi giorni l’Italia è diventata l’unica colpevole da trascinare sul rogo mediatico. La Cina ora sia d’esempio: è l’eroe nazione che con determinazione sta sconfiggendo il male. Anzi, l’ha già debellato. Eroi loro, criminali noi. Ma allora, come ha testimoniato il giornalista cinese Li Zehua prima di essere arrestato, per quale ragione i settantaquattro forni crematori di Wuhan lavorano da mesi ventiquattro ore al giorno? Perché il coraggioso ragazzo è stato seguito dalla polizia dopo avere filmato l’esterno dei laboratori del Wuhan Institute of Virology? Argomento scomodo (in solitudine il Riformista l’ha già più volte trattato) che attiva complottistiche fantasie sulla rete. Analizziamo i fatti, senza inseguire fantasmi. I pipistrelli nel 2003, come scrive il nostro Istituto Superiore di Sanità, «furono indicati come i serbatoi del Coronavirus della SARS in quanto vennero identificati nei pipistrelli diversi Coronavirus geneticamente molto simili al virus SARS-CoV isolato dai casi umani». È dunque sensato che in Cina, il paese più colpito dalla SARS, si sia iniziato a studiare con grande attenzione i vari coronavirus e i pipistrelli. Tali mammiferi sono i portatori sani anche dell’attuale Coronavirus. Ed è allo Wuhan Institute of Virology che si compiono studi e sperimentazioni. Così il comunicato stampa dell’istituto cinese del febbraio 2015: «La Commissione Nazionale di Pianificazione Sanitaria e Familiare della RPC e l’Accademia delle scienze cinese hanno inaugurato il laboratorio di biocontenimento livello 4 (P4) a Wuhan, nella provincia di Hubei, il 31 gennaio. Riferendosi agli standard di costruzione internazionali del laboratorio di livello 4 di biocontenimento e alla costruzione relativa della Cina standard, il laboratorio, che è una delle mega strutture scientifiche finanziate dalla National Development and Reform Commission, è stato progettato da Francia e Cina, ed è stato installato e costruito da parte cinese. La struttura è una piattaforma essenziale per la ricerca e lo sviluppo contro le malattie contagiose, la prima entità nella storia della Cina dalla sua fondazione». La rivista scientifica medica Nature Medicine pubblica le scoperte più importanti degli studiosi dei laboratori di Wuhan. Ed è un articolo del 2013 (Isolation and characterization of a bat SARS-like coronavirus in the ACE2 receptor) che oggi appare molto interessante in quanto, come hanno scritto gli studiosi, «si scopre che questo virus condivide» quasi totalmente il genoma che è all’origine dell’attuale epidemia di Coronavirus. Considerando quanto pubblicato negli ultimi anni, sembra proprio che nei blindati laboratori di Wuhan avessero buone cognizioni anche riguardo l’attuale Coronavirus. Inoltre, l’autore della citata pubblicazione è lo stesso che lo scorso a febbraio, sempre su Nature Medicine, pubblica uno dei primi articoli scientifici sul Coronavirus in Cina. Ancora una volta: il coronavirus in quel centro ricerche cinese era di casa. Sarebbe semplice trarre affrettate conclusioni però, supportati da evidenti prove, possiamo affermare che nel Wuhan Institute of Virology, dopo l’epidemia della SARS del 2002-2003, si sono studiati e sperimentati vari coronavirus (le risultanze pubblicate su blasonate riviste medico scientifiche) di cui alcuni sembra abbiano un genoma quasi totalmente compatibile con il nostro Coronavirus. Ciò che più incuriosisce è l’aspetto geografico: sappiamo tutti che Wuhan è la città focolaio. Riprendiamo il comunicato stampa sull’inaugurazione del laboratorio di biocontenimento di livello quattro: «L’attuazione del programma congiunto P4 non solo ha incarnato in modo vivido la profondità e la forza del legame tra Francia e Cina, ma anche la responsabilità nei confronti della comunità mondiale. Aiutando i colleghi cinesi con la tecnologia di progettazione e architettura di livello mondiale delle strutture di biocontenimento, la Francia ha ampliato la sua prima linea di prevenzione e controllo delle malattie […] Secondo il Wuhan Institute of Virology, il laboratorio P4 è una struttura di base specializzata per studi su malattie altamente contagiose e mortali come la malattia da virus Ebola». Globalizzazione delle produzioni, delle merci, della finanza della ricerca e adesso del Coronavirus. Ma allora in quanti sapevano di questo Coronavirus? Tutto all’insegna dello sfrenato neoliberismo che, Coronavirus a parte, ha impostato questo modello di globalizzazione. Quale l’impatto sanitario, sociale ed economico? Quei paesi dove al pronto soccorso ti devi presentare con la carta di credito o con il certificato d’assicurazione sanitaria, come affronteranno la malattia? Non parliamo solo degli Stati Uniti, ma anche dell’Olanda. Forse verrà dichiarato lo stato d’emergenza e quindi l’intervento dello Stato? Ed ecco che il pubblico diventa il salvagente nel mare in burrasca. E la burrasca è anche finanziaria. Ed ecco che l’Italia sta scalando in solitaria la vetta per numero di decessi e appestati. I medici, gli operatori sanitari si stanno prodigando per salvare vite e contrastare il fenomeno. Intanto è passato il messaggio che l’Italia sia il malato d’Europa, la Cenerentola del Coronavirus. Da Made in China, in Made in Italy.

Il treno Frecciarossa deragliato a Lodi e il virus: la linea del contagio. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Galli. Dobbiamo partire da una data. Lo scorso 6 febbraio. È il giovedì del deragliamento del Frecciarossa a Ospedaletto Lodigiano. Il contenimento delle morti (due vittime, i macchinisti, nessun ferito grave fra i pochi passeggeri), non evita, come da prassi in caso di disastro, l’arrivo dei reparti di pronto intervento di carabinieri, finanzieri e poliziotti (solitamente, su una scala da zero a cento, sono ripartiti in 40-20-40 unità). Il personale gravita sulla scena dell’incidente, venendo in contatto con i colleghi incaricati dell’inchiesta, i curiosi che via via migrano dai vicini paesi, i rappresentanti istituzionali; ma gravita anche negli ospedali e negli esercizi commerciali. Il virus, in quella che, a brevissima distanza di chilometri, diventerà la prima «zona rossa», è già in circolo. E tra gli otto e i dodici giorni successivi, le forze dell’0rdine accusano i primi malati. L’inizio di una lunga scia che ci porta fino a oggi e fino a Milano, Bergamo e Brescia. I sintomi sono identici: dolori muscolari, febbre anche sopra i 39 che abbatte i corpi, gola secca e fatica a deglutire, tosse. Pur se con una portata superiore alla norma, gli indebolimenti vengono catalogati come influenza di stagione. È pur sempre il momento durante il quale l’intera Italia, per niente aiutata da catastrofici slogan a uscire il più possibile di casa, sottovaluta la futura pandemia. Non è ancora la fase dei tamponi e così quei carabinieri, finanzieri e poliziotti dormono in caserma insieme agli altri, mangiano in caserma insieme agli altri, e appena si riprendono tornano sui mezzi e in azione insieme agli altri. Fino a quando — e arriviamo al 23 febbraio, domenica — bisogna iniziare a garantire la sorveglianza ai confini di quella «zona rossa» nel Lodigiano. E il personale torna a stretto contatto con il virus. Il Corriere ha ascoltato sette differenti testimonianze. Coincidono. Coincidono a cominciare dall’assenza di protezioni. In questo periodo, febbraio, manca la consapevolezza, lo ripetiamo, della gravità della situazione, e permangono indecisioni nelle scelte governative e di conseguenze su quanto sia importante garantire la sicurezza personale. Ascoltiamo uno dei testimoni: «Ci sono stati anche contatti ravvicinati con i residenti. Parecchie volte. Non so quanto sia filtrato alla stampa, ma in certe situazioni è capitato di spingere via, anche fisicamente, chi a tutti i costi voleva “evadere”. Dopodiché, dobbiamo essere onesti: le mascherine erano poche. Pochissime. E sicuramente con leggerezza noi per primi, ce le scambiavamo: chi smontava dal turno le consegnava al collega che attaccava dopo di lui...». Nel flusso dell’organico inviato ai lembi della «zona rossa», nell’ambito del turnover, ci sono anche uomini che in precedenza, il 19 febbraio, mercoledì — altra data centrale, ferale — sono impiegati nell’ordine pubblico della partita di Champions League, giocata al Meazza tra Atalanta e Valencia, in quella che i medici hanno definito una «bomba biologica», un terrificante vettore del virus per strade e mezzi pubblici di Milano. L’assenza di una decisa «regia» da Roma, al netto delle sollecitazioni dei vertici locali delle forze dell’ordine, genera ulteriori peggioramenti. Oggi reparti dei finanzieri sono a casa, malati o in quarantena; ci sono comandi provinciali chiusi. E ci sono carabinieri e poliziotti in isolamento, probabilmente colpiti dalla pandemia. Scriviamo probabilmente in quanto l’assenza di tamponi non permette d’avere la certezza, un «vuoto» che permane anche per le sorti del personale una volta cessata la febbre: riprendere il servizio come se niente fosse stato? Con quali garanzie per se stessi e i colleghi? La linea del contagio ha avuto un’ulteriore estensione nella Bergamasca e nel Bresciano, viaggiando con le forze dell’ordine. Notizia di venerdì sera è l’aggravamento di un agente del reparto mobile della Questura.

Mascherine usate e quel treno deragliato a Lodi: così nell’Arma si è diffuso il virus. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. Gli agenti sono stati lasciati senza tutele e nel giorno dell’incidente ferroviario si è creato un cortocircuito “pandemico”. Toglieteci tutto ma non la bandoliera. In piena emergenza Covid-19, i carabinieri continuano a svolgere servizio con la tradizionale uniforme con la banda rossa sui pantaloni. E’ al momento caduta nel vuoto, infatti, la richiesta dei sindacati dell’Arma al comandante generale Giovanni Nistri di autorizzare l’uso della tuta normalmente impiegata per le attività di ordine pubblico. “La tuta – scrive questa settimana il Cocer in una nota – garantisce una maggiore sicurezza sanitaria poiché lavabile in lavatrice con qualsiasi disinfettante, al contrario dell’uniforme che deve essere portata in tintoria, dove molte sono chiuse o non garantiscono la pronta consegna”. Richiesta irrealizzabile per i vertici di viale Romania in quanto non ci sarebbero adesso tute sufficienti. Affermazione subito smentita dal Cocer secondo cui “in molte zone sono in dotazione e addirittura nelle aree terremotate ce ne sono in abbondanza”. Ma oltre alle tute mancherebbero i dispositivi di protezione individuale, ad iniziare dalle mascherine il cui utilizzo sarebbe stato limitato da Roma ai soli “casi eccezionali”. “La tutela del lavoro e della sicurezza non può permettersi in questo momento, la cura del tratto e della forma e questo il ministro della Difesa lo deve chiarire e ribadire con fermezza”, replica il Cocer. A dare manforte ai sindacalisti con le stellette, i parlamentati di Fratelli d’Italia. “Ho ritenuto opportuno sollecitare, insieme ai colleghi della Commissione Difesa Wanda Ferro e Davide Galantino, i ministri dell’Interno, della Difesa e della Salute, affinché siano presi immediatamente provvedimenti e vengano fornite tutte le dotazioni necessarie in modo da salvaguardare la tutela della salute del personale”, ha dichiarato ieri il capogruppo di Fd’I in Commissione Difesa alla Camera, Salvatore Deidda. Fra i motivi del dilagare del virus in Lombardia, da alcuni giorni si sta facendo strada l’ipotesi che siano state proprio le forze dell’ordine uno degli acceleratori del contagio. L’episodio scatenante verrebbe fatto risalire al deragliamento del Frecciarossa avvenuto lo scorso 6 febbraio ad Ospedaletto Lodigiano (LO) quando, come ormai da più parti accertato, il virus pare fosse già in circolo. Nei giorni seguenti al deragliamento, fra le centinaia di carabinieri e poliziotti intervenuti sul posto, molti iniziarono ad accusare gli stessi sintomi: febbre, tosse secca, dispenea. Si pensò ad una normale influenza di stagione e nessuno fece il tampone per il Covid-19. I militari, oltre che da Lodi, venivano dalle caserme delle province confinati: Milano, Bergamo, Brescia. Chi si era ammalato, passata la febbre, riprese subito servizio per essere impiegato, dal 23 febbraio e sempre nel lodigiano, ai controlli della prima zona rossa. Inizialmente, poi, l’uso mascherine era raccomandato soltanto a chi avesse contratto il Covid-19 in quanto ai “sani” veniva detto che era inutile. Le disposizioni da Roma in tal senso erano rassicuranti. In un tutorial della fine di febbraio del Comando generale dell’Arma si prevedeva l’uso delle mascherine da parte dei militari solo in presenza di “casi sospetti”. Nei giorni successivi, agli inizi di marzo, accadde l’irreparabile. Tutti iniziarono ad utilizzare le mascherine che, non essendo tante, venivano però indossate per più giorni e scambiate fra i militari in servizio. Quando ci si accorse dell’errore era ormai troppo tardi ed il virus stava dilagando nelle tre province, costringendo l’Arma a mettere in quarantena interi reparti, ad iniziare dal comando provinciale di Bergamo, e a chiudere molte caserme.

Coronavirus, studio-choc dell'Iss: "Il contagio non arriva dalla Cina", l'ipotesi sul paziente 0. Libero Quotidiano il 10 marzo 2020. Un ribaltone? I cinesi non c'entrano? Si parla della diffusione del coronavirus in Italia e degli ultimi studi dell'Istituto superiore di sanità, contenuti nell'indagine epidemiologica contenuta nell'approfondimento pubblicato tra oggi e venerdì 13 marzo sul sito Epicentro. Secondo quanto messo in evidenza dall'Iss, il contagio in Italia non arriverebbe dalla Cina. Nessun caso dell'epidemia avrebbe a che fare con il Dragone. I tre malati - due turisti e un italiano rientrato da Wuhan, che si è infettato in quel Paese - erano stati infatti immediatamente isolati e non hanno trasmesso a nessuno la malattia. Nel report si legge che "è stata poi segnalata dalla regione Lombardia una persona di nazionalità iraniana, tuttavia non è stato indicato dove possa essere avvenuto il contagio anche se la persone si è infettata in Iran". E ancora, l'Iss mette in evidenza che ci sono diverse conferme relative al fatto che il Covid-19 circolasse in Italia da molto tempo, ben prima di quando è esploso il problema a Codogno: in quel comune, i positivi erano già malati di seconda o terza generazione. Questo è quanto sostiene l'Iss, che considera i dati fino al 9 marzo. Un clamoroso cambio di paradigma che apre scenari che però potrebbero restare oscuri, senza risposta.

Da ilsole24ore.com l'11 marzo 2020. La trasmissione dell’infezione da Covid-19 «è avvenuta in Italia per tutti i casi, ad eccezione dei primi tre segnalati dalla Regione Lazio che si sono verosimilmente infettati in Cina». È quanto conclude un'indagine epidemiologica sul coronavirus condotta dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss) e contenuta nell'approfondimento che pubblicato sul portale dell'epidemiologia per la Sanità pubblica Epicentro.

La catena dei contagi parte dall’Italia. È stata poi segnalata dalla Regione Lombardia, rileva l’Iss, «una persona di nazionalità iraniana, tuttavia non è stato indicato dove possa essere avvenuto il contagio anche se la persona si è verosimilmente infettata in Iran». Attualmente, si legge nel documento basato sulla situazione alle ore 10 del 9 marzo 2020, «non è possibile ricostruire, per tutti i pazienti, la catena di trasmissione dell’infezione. La maggior parte dei casi segnalati in Italia riportano un collegamento epidemiologico con altri casi diagnosticati in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, le zone più colpite dall'epidemia». Lo stato clinico è disponibile solo per 2.539 casi, di cui 518 (9,8%) asintomatici, 270 (5,1%) pauci-sintomatici, 1.622 (30,7%) con sintomi per cui non viene specificato il livello di gravità, 1.593 (30,1%) con sintomi lievi, 297 (5,6%) con sintomi severi, 985 (18,6%) critici. Il 21% dei casi risulta ospedalizzato, e tra quelli di cui si conosce il reparto di ricovero (1.545) il 12% risulta in terapia intensiva. L'età mediana è di 69 anni (0-18 anni: 0%; 19-50 anni: 10%; 51-70 anni: 46%; >70 anni: 44%).

Contagi sotto i 30 anni. In attesa di ulteriori approfondimenti, l'indagine chiarisce dunque la natura sostanzialmente “autoctona” dell'infezione da coronavirus in Italia smentendo le ipotesi di una sua “importazione” da un altro Paese Ue, in particolare la Germania. Non solo. Lo studio registra anche una percentuale significativa di casi sotto i 30 anni. Un dato, sottolinea il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro, «che conferma quanto questa fascia di età sia cruciale nella trasmissione del virus». Dopo tre giorni consecutivi nei quali si è registrato un aumento di oltre mille casi, gli 8.514 registrati il 10 marzo indicano solo 529 unità in più. La flessione, in attesa che la stretta generalizzata agli spostamenti imposta dal Governo mostri i suoi frutti, conferma l’importanza dei comportamenti individuali: «Speriamo che gli stessi dati aiutino a orientare i comportamenti di tutti e a capire meglio la situazione - sottolinea Brusaferro -. Se si terranno comportamenti non coerenti con le indicazioni, sarà molto difficile riuscire a modificare le curve: i nostri comportamenti sono veramente l'elemento decisivo», insiste.

Quando gli effetti delle misure restrittive. Gli effetti delle misure restrittive, conclude, non saranno istantanei, ma «coerenti con i tempi di incubazione, che raggiungono 14 giorni e che raggiungono il valore più frequente in cinque giorni». Tuttavia «se rispetteremo le regole vedremo le curve appiattirsi: questo significherà dare la possibilità a chi si ammala e necessita di un supporto ventilatorio di poterlo ricevere nel miglior modo possibile».

La mappa della Cnn mette l’Italia al centro dei contagi. La protesta di Di Maio. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Alla fine è intervenuto anche il ministro degli esteri Luigi Di Maio sul caso della mappa mostrata dalla Cnn: la più diffusa rete tv americana ha mostrato una grafica, a proposito di coronavirus che mette l’Italia al centro del contagio planetario, ignorando la Cina. L’intento era quello di rendere visibile come una serie di persone, dopo un soggiorno nella penisola, avessero esportato la malattia nei loro paesi di origine, generando un effetto domino. Ma dopo il caso dell’emittente francese Canal+ e della «pizza al coronavirus», anche il ser vizio della Cnn non è passato inosservato e ha provocato la prevedibile ondata di polemiche. Luigi Di Maio è intervenuto con un post su Facebook dopo che molti altri utenti italiani sui social avevano segnalato e stigmatizzato il caso. «La cartina della cnn fornisce un’immagine distorta della realtà» afferma il capo della Farnesina. Che subito dopo commenta così: «Mi chiedo quale sia l’intento. Discriminare un Paese che ha una sanità pubblica e che sta gestendo al meglio, nonostante decenni di tagli, una situazione complessa ed emergenziale in alcune zone ? l’Italia è la nazione che sta gestendo con più rigore questa emergenza, che, come sappiamo, si è sviluppata in Cina». Sulla sponda del Pacifico, intanto, è bastato un decesso, uno solo, di coronavirus perché la California il più popolato degli Stati degli Usa (40 milioni di abitanti) , dichiarasse lo stato di emergenza. La decisione è stata annunciata dal governatore Gavin Newsom: ««Si tratta di una misura a tutela delle nostre risorse» e per favorire questioni logistiche» ha dichiarato in un discorso trasmesso in tv. «Con 53 casi positivi, non si tratta più di una questione limitata a una parte del nostro Stato», ha aggiunto Newsom. In tutti gli Stati Uniti il numero dei morti ha raggiunto quota 11. Il decesso che ha determinato la decisione del governatore Newsom ha riguardato un passeggero settantunenne di una nave da crociera sbarcato un mese fa. E non a caso questa mattina (ora italiana) a San Francisco le autorità hanno vietato lo sbarco ai passeggeri di uno di questi «giganti del mare, la Grand Princess. Le autorità sanitarie californiane stanno in queste ore cercando di contattare tutti i passeggeri sbarcati un mese fa da una crociera della stessa nave, proveniente dal Messico. Per il momento lo stato di emergenza non ha effetti di grande impatto sulla vita della popolazione: grazie a questa dichiarazione le strutture e le agenzie dello Stato potranno acquistare beni e serviti con più facilità, condividere informazioni sui pazienti, «Dobbiamo avere più strumenti per affrontare il caso» ha spiegato sempre Newsom in una conferenza stampa. La linea intransigente della California non pare essere condivisa al momento dalla casa Bianca. Le ultime parole del presidente Donald Trump sul pericolo del contagio da coronavirus stanno provocando polemiche. «Molte persone l’avranno e sarà molto lieve, staranno meglio molto rapidamente, non dovranno andare dal dottore, non sentiremo nessuna notizia su di loro», ha detto in un’intervista a Fox News. «Se noi abbiamo migliaia o centinaia di persone che guariscono solo aspettando e andando persino al lavoro, alcuni di loro andranno al lavoro, ma guariranno», ha aggiunto. I centri federali avevano invece raccomandato che anche chi ha sintomi lievi deve rimanere a casa.

Coronavirus in Lombardia, quel buco di cinque giorni che ha infettato tutta l’Italia. La ricostruzione del caso: è stata l’anestesista ad accorgersi della gravità e a forzare i protocolli ma solo dopo che il virus ormai già circolava. Francesco Specchia il 7 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’’ignoto. Il Coronavirus si era nascosto proprio qui…”. Così, con una frase rubata a Sherlock Holmes – “scartato il probabile e il possibile, l’impossibile dev’essere vero- Annalisa Malara, 38 anni, coraggiosa anestesista di Cremona ha commentato sul quotidiano Repubblica la scoperta del “paziente 1”, il primo portatore del Coronavirus in Italia. La dottoressa Malara è quella cocciuta allieva d’Ippocrate che, forzando tutti i protocolli, è riuscita, il 19 febbraio scorso, ad individuare nella “polmonite gravissima e impossibile “ di Mattia -l’omone sportivissismo ancora intubato in terapia intensiva- il silenzioso esordio del virus probabilmente arrivato dalla Cina via Germania. Ma dalla sua intervista viene confermato ufficialmente quel che già si sapeva: Mattia era già arrivato in Pronto Soccorso all’Ospedale di Codogno il 14 con un’influenza durevole e perturbante e l’hanno mandato a casa probabilmente con un’aspirina. Poi è tornato il 18, gli hanno fatto le lastre che evidenziavano “una leggera polmonite”. Infine, il 19 è rientrato nello stesso ospedale, a polmonite già gravissima. “Dalla medicina Mattia è arrivato in rianimazione- afferma il medico- Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso”. Sicché “il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato”. Nel senso che il virus è scivolato sui guanti e sulle mascherine indossate in tutta fretta dall’equipe medica, e non ha contagiato nessuno di loro. Ed è finita che Mattia non ha perso la vita solo grazie alla zelante anestesista, il cui intervento ha fatto ricoverare d’urgenza il paziente al San Matteo di Pavia per “sottoporlo a terapia sperimentale”. E ha fatto certamente guadagnare giorni preziosi rispetto al contrasto all’epidemia. Alla domanda sull’inefficienza del protocollo sanitario che è stata costretta a violare, l’anestesista esprime un dissenso fra le righe: “Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. E ha ragione. Il virus, invece, grazie a lei, è girato indisturbato solo per una settimana scarsa. Che è bastata a sprofondarci in questo gorgo di malattia misto a tensione, a senso d’impotenza e a timore sulla tenuta delle nostre strutture sanitarie. Eppure, passata questa maledetta buriana, noi ci ricorderemo di questi sei giorni e mezzo che hanno sconvolto il nostro mondo, di questo buco d’inefficienza dovuto ad imperizia burocratica di un governo centrale non ancora preparato alla botta e a un piccolo ospedale che probabilmente -all’inizio- troppo s’è fidato del proprio dinamismo lombardo. Ad evitare che le cose andassero ancora peggio è servita l’iniziativa e la rapidità di decisione di un singolo. Di una scienziata che, evidentemente, ha passato più tempo a leggere Conan Doyle che i decreti e le ordinanze della politica. E meno male. 

Coronavirus, De Magistris: “Se fosse partito dal Sud ci avrebbero sparato”. Debora Faravelli 12/03/2020 su Notizie.it. Vena polemica da parte del sindaco di Napoli Luigi De Magistris sulla questione coronavirus. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris si è espresso sull’emergenza coronavirus che sta interessando l’Italia chiedendosi in tono polemico cosa fosse successo se l’infezione si fosse propagata a partire dal Sud. Intervistato in radio, il primo cittadino napoletano ha dichiarato che se si fosse verificata quella circostanza “il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista qualsiasi meridionale“. Un tono evidentemente contestativo che ha però subito lasciato spazio alla gestione della situazione nella sua città. Dopo l’assalto ai supermercati seguito all’emanazione del DPCM del 9 marzo 2020, i cittadini stanno in linea di massima rispettando le norme previste. La maggior parte esce infatti soltanto lo stretto necessario tanto che il capoluogo campano si presenta deserto rispetto all’abitudine. Dal centro storico ai quartieri più collinari così come nelle periferie, le persone in strada sono sempre meno. Vuote o quasi le tradizionali vie affollate come via Toledo, via Scarlatti, via Luca Giordano, ma anche piazza Plebiscito, piazza Bellini e altri luoghi della città.

Non mancano però coloro che sono venuti meno alle disposizioni e che le forze dell’ordine hanno provveduto a multare. Si tratta di persone trovate raggruppate in assembramenti oppure fuori di casa senza una motivazione valida. Vi sono poi stati alcuni esercizi commerciali che non hanno rispettato la chiusura o non hanno provveduto a sanificare gli ambienti.

LA LEZIONE DEL VIRUS A UN CERTO NORD: “L’ALTRO” SEI PURE TU, PRIMA O POI.… E, SFIDANDO IL RIDICOLO, GRIDA AL “RAZZISMO”! Pino Aprile il 4 Marzo 2020. ‘O munn è cagnate! Chelle ca stev ‘ngopp è gghiute sotte, e chelle cha stev sott è gghiute ‘ngopp! Un certo Nord (la cui prima vittima è il resto del Nord, coinvolto in un grossolano giudizio che tutti accomuna nel peggio) fa i conti con i suoi comportamenti e scopre di non stare simpatico e, anzi, proprio sulle palle. I fenomeni sociali sono di lenta costruzione, ma di fulminea espansione: decenni di insulti padani, di supponenza, prepotenza, arroganza, presunzione, “Prima il Nord” e presunto diritto etnico all’offesa dell’altro, sino all’aggressione (zingaro, terrone, migrante, poco importa), hanno tanto caricato il piatto della bilancia, che l’arrivo di coronavirus (il “Cigno nero” l’imprevisto che sconvolge gli assetti consolidati), lo ha fatto calare, ribaltando l’equilibrio.

INSULTATI E PICCHIATI CINESI AL NORD, QUANDO IL VIRUS “ERA CINESE”. E SE DIVENTA PADANO?

Ribaltare, vuol dire che le cose vengono viste e valutate al contrario. Per esempio: Ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di cinesi (presunti colpevoli di virus), alcuni di loro cittadini italiani, ma di origine orientale. In qualche caso, l’inciviltà è giunta ad atti di violenza. Un cinese che gestisce con la moglie un bar a Bassano del Grappa è stato picchiato da un avventore in un locale, a Cassola; altri sono stati offesi, dileggiati (una donna e i figli al supermercato), un adolescente aggredito durante la partita, perché orientale… Poi si scopre che il ceppo di coronavirus che imperversa in Lombardia e Veneto, e da lì dilaga, potrebbe essere padano: autoctono. E se gli incivili che han “fatto pagare” ai cinesi la presunta provenienza del virus fossero insultati, aggrediti, solo perché lombardo-veneti? Razzismo? Chiamatelo come volete, ma sarebbe quella roba di prima, all’incontrario (ricordando che l’imbecillità è universale e se l’aggressore a Cassola è stato aiutato a dileguarsi, a Bassano il cinese aggredito e sua moglie hanno avuto la solidarietà dei loro clienti).

LA PIÙ FLORIDA INDUSTRIA LOMBARDO-VENETA È QUELLA DEI “RISARCIMENTI”, ANCHE PER I DANNI PROVOCATI AD ALTRI.

Con il virus, puntuale come le tasse, è riapparso il riflesso condizionato padano: l’Italia ci copra di miliardi, per risarcirci (modello di moderazione, si accontenterebbero di quattro volte quel che Trump ha chiesto per tutti gli Stati Uniti). Perché loro “producono” e qualunque cosa interrompa o rallenti il flusso ininterrotto di denaro pubblico, scatta il diritto a essere sovvenzionati (Tav, Mose, Expo, Human Technopole, Pedemontane…, ora virus). Nella corsa a chi la spara più grossa, politici di ogni schieramento, ma ugualmente privi di vergogna e senso del ridicolo, si sono rincorsi nel reclamare “risarcimenti”: abolire tasse, non pagare i mutui… Per ora, vince il campionato delle cazzate il Cazzaro Magno, Matteo Salvini, arrivato (per adesso) a 50 miliardi, venti volte la cifra per gli Stati Uniti (2,5 miliardi di dollari). Ma se gli date tempo (e altri mojitos?) vedrete che saprà superarsi. Avviso: stabilite voi la cifra; al Sud chiederemo il doppio, per i danni provocati dalla gestione dell’epidemia, che ne ha favorito l’espansione al Sud.

DOPO FONTANA CON LA MASCHERINA E ZAIA CHE INSULTA I CINESI, CHI INVESTE IN ITALIA?

Perché, se sono i presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia a distruggere la nostra economia con le loro cretinate, si può chiedere a Lombardia e Veneto di pagare i danni o no? Ha fatto il giro del mondo la foto di Fontana con la mascherina (vabbe’ che è carnevale…) che si autodenuncia a rischio infezione, perché una sua collaboratrice è stata (dice, e noi ci crediamo. Non dovremmo?) trovata positiva al coronavirus. Che dite: ci viene ora uno In Italia o ci pensa? Le esternazioni di Zaia su presunte, discutibili abitudini alimentari dei cinesi mangiatori di i topi vivi hanno arricchito lo stupidario della stampa internazionale e indotto Pechino a intervenire. I veneti (“l’anno della fame”) i topi li preferivano essiccati (forse per evitare che tale riserva alimentare si assottigliasse, altri veneti sono mangiagatti)? Come vedete, a sparare cazzate siamo bravi tutti. Il guaio è prenderle sul serio. E quelle da cabaret dei due presidenti sono state un danno serio. Che fanno: ci risarciscono?

FAVORITA LA SANITÀ PRIVATA, QUANDO ARRIVA L’EPIDEMIA E QUELLA PUBBLICA SOFFRE…

I lombardoveneti hanno sempre vantato l’eccellenza della loro sanità regionale, privilegiando, però (specie la Lombardia) quella privata. Ma quando arriva l’epidemia, la sanità pubblica va in apnea e si cercano posti letto per carità a Sud, in strutture pubbliche, confermandosi l’eccellenza padana speculazione pura. E ora mandiamo fatture maggiorate come successo per i nostri malati costretti a farsi curare al Nord? I campioni della diffamazione del Sud via tv e carta (igienica) stampata si sono scatenati nella “denuncia del razzismo” meridionale contro il Nord (certe facce non dovrebbero andare in giro senza mutande). Hanno scatenato l’inferno contro “l’odio razziale” di chi, a Ischia, protestò per l’arrivo di 150 turisti lombardi a rischio virus. I sindaci dell’isola avevano vietato l’accesso; il prefetto lo ha imposto. Brutto sentirsi discriminati, eh? Rita Dalla Chiesa, perdendo una buona occasione per tacere ha criticato l’autodifesa dell’isola invitando a boicottarla come meta turistica. Ma vogliamo scherzare: lombardi trattati come fossero terroni, migranti?

SI È IMPEDITO A ISCHIA DI TUTELARSI E FRA I TURISTI PADANI FATTI SBARCARE A FORZA CE N’ERA UNO A RICHIO VIRUS. ECONOMIA DISTRUTTA

Poi si scopre che uno di quei turisti potrebbe essere positivo al virus. Ischia ha un ospedale con 60 letti, per 60mila persone, vive di solo turismo e ora è considerata l’equivalente di un lazzaretto. Chi paga? Salvini fu accolto con entusiasmo, da molti ischitani, ma i risarcimenti li chiede solo per il Nord, anche quando è il Nord (inconsapevole: mica vorremo prendercela con i turisti lombardi) a rovinare l’economia di una delle capitali turistiche italiane e del Mezzogiorno. La Lega (punta di diamante di una comunità in larga parte consenziente, visti i voti che prende) faceva le campagne contro i terroni che portano sporcizia al Nord, i migranti con la peste, la lebbra, il colera e la scabbia, e chiedeva protezione e…?: risarcimenti (come avete fatto a indovinare?); ora dal Nord arriva al Sud l’epidemia e la distruzione di un sistema economico basato sul turismo, e la Lega chiede risarcimenti. Ma al Nord, anche per i danni che produce agli altri (mentre i governatori del Sud tacciono, come da costume coloniale e gregario).

MA NESSUNO HA CANTATO: “SENTI CHE PUZZA/ SCAPPANO ANCHE I CANI/ ARRIVANO I PADANI”. PER NAPOLI, INVECE…

Ci si stupisce che gli altri si siano rotti i coglioni di un Nord la cui capofila, la Lombardia (più il Veneto, ora), è entrata nell’Italia unita con poco più dell’un per cento del denaro circolante nella Penisola (contro il 66 del Regno delle Due Sicilie) e da allora cresce a spese del Paese, vantando un credito inestinguibile e inesistente. Presumendo di maturare su questo pure un diritto all’insulto, alla denigrazione. Che ora si rivolta contro. Alle persone perbene (e non c’è latitudine che le distingua) chiedo un giudizio sulla colpevole tolleranza verso “il folclore” leghista (vera anima del peggior Nord, con propaggini coloniali a Sud); per farmi meglio capire, applico la legge della reciprocità: immaginate che oggi un terrone un po’ cretino (o… folcloristico?), si mettesse a cantare: “Senti che puzza/ scappano anche i cani/ dal Lombardo-Veneto/ arrivano i padani/ contagiosi, alluvionati/ con l’amuchina/ non vi siete mai lavati/ coronavirus (o Po, a scelta) pensaci tu!”. È ancora folclore? Brucia? E agli altri no? Immaginate di esser chiamati da ministri: porci, topi da derattizzare, merdacce, colerosi…, sol perché padani. E vedere quei figuri rimanere al loro posto, rispettati e riveriti. Brucia? E agli altri no? (A proposito, se quel terrone cretino dovesse davvero parodiare un “grande leader” del Nord e delle sue propaggini coloniali del Sud, prima di censurarlo, pensateci bene: potreste ritrovarvelo vice presidente del Consiglio). Ma io ho fiducia nella potente legge della reciprocità che il virus sta ricordando a chi pensava che toccasse il peggio sempre agli altri, perché gli altri se lo meritano; e ho fiducia nella gente per bene, che se si vede e si sente poco, nel casino dei cialtroni (gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto a far rumore. Vale pure per i cervelli). C’è chi mi oppone che il mio è una sorta di atto di fede. Non è vero: è un fatto di cui si scorgono tracce. Ve ne suggerisco una: un’offesa al giornalismo ha titolato “Virus alla conquista del Sud”. E millanta questo (godendoci, pare) come “Unità d’Italia: ora sì che siamo tutti fratelli”. E capite cosa vuol dire: nel bene, noi siamo il Nord e voi merdacce; diventiamo “fratelli” quando il male che vi abbiamo portato ci accomuna (come nel 1860-61, con l’“Unità” intesa quale bagno di sangue a Sud, carcerazioni, deportazioni, trasferimento a Nord delle industrie, delle commesse e dell’oro meridionali).

MA I CAMPIONI DELLA DIFFAMAZIONE DEL SUD PERDONO COPIE IN EDICOLA E ARRANCANO IN TV

Quella schifezza stampata è un insulto quotidiano al Sud e suscita reazioni disgustate dei terroni. I quali, sbagliando, rischiano di considerarla “la voce del Nord”. Non è così: il giudizio dei lettori si misura in edicola. Sotto la guida del campione di tanto livore nei confronti dei meridionali, la tiratura del fogliaccio è scesa da 120mila a meno di 25mila copie. Ed è il Nord ad averlo schifato. Mentre i programmi di “approfondimento” anti-Sud vedono boicottati i loro inserzionisti. Quindi, qualcuno sa e comprende. Ora forse anche chi non sa e non comprende potrebbe porsi qualche domanda. La reciprocità (a volte, anche tramite un virus) questo dice: attento, che “l’altro” prima o poi, sei tu.

"Polmoniti anomale a metà gennaio, così è nato il focolaio di Codogno”. La svolta della task force di medici sul boom di influenze che retrodata la propagazione del contagio. “Solo con più infetti inconsapevoli in circolazione per molti giorni, si spiegano diffusione e velocità del virus. Giuseppe Visetti il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. CODOGNO - Il focolaio italiano del coronavirus covava sotto la cenere «almeno dalla metà di gennaio». Da questa conclusione si trova «ormai a un passo» la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell’ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio. Grazie alla genetica, poche conferme separano ormai gli scienziati anche dalla ricostruzione del nesso tra «il principale epicentro dell’epidemia», individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito «secondario» di Vo’, nel Padovano. A una settimana dalla prima diagnosi nell’ospedale di Codogno, l’individuazione del «paziente zero» resta incerta. A vacillare però è in particolare, secondo chi segue il dossier, anche l’ipotesi che il dipendente dell’Unilever di Casalpusterlengo sia il «paziente uno». L’uomo, 38 anni di Castiglione, ha diffuso il Covid-19 nell’ospedale del primo ricovero a Codogno e tra coloro che ha frequentato per giorni una volta infetto, al lavoro a facendo sport. La caccia a chi ha involontariamente trasformato l’area ora sigillata in Lombardia in una sorta di «Wuhan italiana», dilagata poi nel resto della regione, nelle zone confinanti dell’Emilia e del Nord Italia, ha registrato una svolta grazie a medici, operatori delle case di riposo e farmacisti dei centri dove si concentra l’origine di oltre il 90% dei casi di positività. Dopo l’esplosione dell’emergenza tra Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio «sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze». Fino al 20 febbraio, giorno in cui il primo caso è stato accertato nell’ospedale di Codogno grazie all’intuizione di una anestesista, nessun italiano privo di rapporti anche indiretti con la Cina, era risultato positivo ai test. Nel Basso Lodigiano già in gennaio c’era però un boom, non inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali l’ha ricondotto «a fattori estranei alla stagionalità». «Eravamo tutti convinti — dice Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti — che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici». Ora il quadro è cambiato e la verità emerge da cartelle cliniche e ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti «normali». La maggioranza è guarita, ma nel sangue sono rimaste le tracce degli anticorpi contro il Covid-19. Dopo l’isolamento del «ceppo lombardo» del coronavirus a Milano, queste vengono ora incrociate geneticamente tra loro. In laboratorio, anche a Roma e a Pavia, prende così forma una rete sempre più precisa di relazioni personali anche non dichiarate, o che gli stessi contagiati non ricordano. «Tra giovedì 20 e lunedì 24 febbraio — spiega uno dei ricercatori — siamo improvvisamente passati da zero a oltre 200 casi di coronavirus tra 50 mila persone di un unico territorio. Effetto di tamponi fatti a tappeto, ma una simile accelerazione non ha precedenti nemmeno in Cina e non trova riscontri nei tempi d’incubazione del Covid-19». Per questo nelle ultime ore viene retrodatata la «diffusione silente» del contagio nel Lodigiano e chi cerca la verità sull’epidemia in Italia tende a concludere che il «paziente uno», stabile e ancora intubato al San Matteo di Pavia, possa non essere tale. Soltanto «con più infetti inconsapevoli in circolazione per parecchi giorni» si spiegano «diffusione, velocità e trasversalità» del contagio infine scoperto giovedì 20 nell’attuale «zona rossa». Area che, pur con crescenti deroghe per consentire una ripresa parziale di aziende e servizi, potrebbe vedere prolungato l’isolamento. All’inizio la cintura sanitaria, presidiata dai posti di blocco, era fissata fino al 4 marzo. Da ieri le autorità temono di doverla prorogare «come minimo fino a metà mese». Più probabile «almeno fino a fine marzo».

Coronavirus, boom di "strane polmoniti" a Codogno già a metà gennaio: il contagio va retrodatato? Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Il focolaio a Codogno e dintorni scoperto con grosso ritardo? È questa la conclusione a cui, secondo quanto riportato da Repubblica in un decisivo retroscena, si trova "ormai a un passo" la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell'ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio da coronavirus. L'ipotesi è che quel focolaio covasse "almeno dalla metà di gennaio". Una discrepanza clamorosa, se si pensa che l'emergenza è esplosa venerdì 21 febbraio. Secondo quanto riporta Repubblica, grazie a test genetici, mancano ormai pochi tasselli per arrivare a ricostruire il nesso tra "il principale epicentro dell'epidemia", individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito "secondario di Vo', nel Padovano. Ma non solo. Crescono altri dubbi. Non solo quello sul "paziente zero", non individuato a una settimane dalla prima diagnosi all'ospedale di Codogno. Vacilla infatti anche l'ipotesi che il "paziente uno" sia il dipendente dell' Unilever di Casalpusterlengo. Si parla del 38enne di Castiglione, che ha diffuso il Covid-19 nell'ospedale del primo ricovero a Codogno e tra le persone che ha frequentato per giorni dopo essere stato infettato, al lavoro a facendo sport. Il punto principale, però, è che come detto l'emergenza coronavirus è vicino ad essere retrodatata dalla task-force di esperti. Come ricorda sempre Repubblica, dopo l'esplosione dell'emergenza tra Codogno, Castiglione d'Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio "sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze". Si arriva poi al 20 febbraio, giorno in cui era stato accertato a Codogno il primo caso, il tutto grazie all'intuizione di una anestesista. Ma nel Basso Lodigiano, si apprende, già in gennaio c'era stato un boom, che non era passato inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali è riuscito a ricondurre questa serie di casi "a fattori estranei alla stagionalità". "Eravamo tutti convinti - dice a Repubblica Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti - che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici". Adesso, ovviamente, il quadro è cambiato. E la verità si mostra dalle cartelle cliniche e dalle ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti "normali". La maggior parte di loro è guarita, ma nel sangue sono rimaste tracce di Covid-19. La prova del fatto che l'emergenza-coronavirus era iniziata ancor prima che ce ne rendessimo conto.

Coronavirus, Forchielli a Otto e mezzo: "Italia come Wuhan? I numeri dicono che siamo messi peggio della Cina". Libero Quotidiano il 05 marzo 2020. A Otto e mezzo in collegamento con Lilli Gruber c'è Alberto Forchielli, un imprenditore che è rientrato in Italia lo scorso novembre e che è soprattutto un esperto di Cina, avendo vissuto e fatto fortuna lì per lungo tempo. "L'Italia farà la fine di Wuhan?", è la domanda della conduttrice di La7. E la risposta di Forchielli non è affatto rassicurante: "Noi dovremmo essere messi peggio della Cina. Se facciamo le proporzioni, loro sono un miliardo e 400 milioni, noi 60 milioni, quindi la nostra popolazione è circa 23 volte inferiore. Noi siamo a circa 4mila casi di contagio, moltiplicati per 23 diventano 92mila e la Cina ne ha avuti 80mila. Quindi come intensità di contagio siamo messi peggio". Antonio Grizzuti per “la Verità” il 5 marzo 2020. Ormai l' Italia è la nuova «colonna infame» del mondo. Solo ieri, una grottesca infografica - della quale ieri si è lamentato in Senato il leghista Alberto Bagnai - mandata in onda dalla blasonata Cnn titolava: «Casi di coronavirus legati all' Italia». Dal centro del mappamondo, a indicare le località infettate, una miriade di linee rosse da Roma in direzione dei cinque continenti. Dagli Stati Uniti all' India, dal Brasile alla Nigeria, passando per la Finlandia e la Malesia, l' etichetta di untori del mondo non ce la toglie più nessuno. Già da diversi giorni, molti governi hanno inserito i comuni della zona rossa nella lista dei luoghi a rischio, una scelta che di fatto ci mette sullo stesso piano di Wuhan. E anche Pechino ha deciso di imporre la quarantena ai viaggiatori in arrivo dall' Italia. D' altronde, i fatti dicono che oggi il nostro è il primo Paese in Europa per numero di contagi e decessi. Ma se è vero - come amano ripetere gli amanti della globalizzazione - che i virus non conoscono confini, chi può dire con certezza che l' Italia rappresenti il «paziente zero» del nostro continente? E che magari il Covid-19 non sia atterrato altrove in Europa per poi approdare solo successivamente dalle nostre parti? Sono le stesse domande che si pongono gli scienziati al lavoro in queste settimane per studiare a fondo l' evoluzione del virus sul piano genetico. Comprendere la nomenclatura degli agenti patogeni come il Covid-19 serve a tracciare gli spostamenti del virus, valutarne la gravità e tenere sotto controllo le sue (potenzialmente pericolose) mutazioni. Insomma, tutti elementi utili a contrastarne gli effetti e limitarne la diffusione. E i primi risultati di questa ricerca, ribaltando la narrazione attuale che addita la piccola Codogno come caput mundi dell' epidemia in corso, lasciano davvero a bocca aperta. Nella mattinata di ieri Trevor Bedford, ricercatore alla divisione Vaccini e malattie infettiva del prestigioso centro di ricerca americano Fred Hutch, ha twittato: «Grazie alla rapida condivisione globale dei dati sul Sars-CoV2 (questo il nome tecnico del coronavirus), possiamo ricostruirne su grande e piccola scala gli schemi di diffusione». Per farla semplice, grazie ai dati condivisi dagli scienziati, sulla piattaforma Nexstrain.org è disponibile l' albero filogenetico del Covid-19. Ognuno dei 161 rami che lo compongono rappresenta uno dei ceppi finora sequenziati. Veniamo a noi. Esiste una «linea comune che contiene i campioni di virus prelevati in Germania, Svizzera, Finlandia, Italia, Brasile e Messico», scrive Bedford. «Il campione italiano proviene dalla Lombardia, e ciò suggerisce che questo ramo sia responsabile di una parte significativa dell' epidemia italiana». Ma le sorprese devono ancora arrivare. Nel tweet successivo il ricercatore spiega che «alla base di queste linee c' è il campione "Germany/BavPat1/2020", riconducibile al "paziente 1" che è stato infettato in Baviera da un collega in viaggio dalla Cina». Anche lo stesso scienziato si mostra stupito: «Incredibilmente, sembra che questo cluster che contiene il ceppo tedesco sia il diretto progenitore degli altri virus comparsi successivamente, e che risultano collegati a una certa frazione dell' epidemia che circola in Europa oggi». Più tardi, lo stesso Bedford preciserà che «i risultati della ricerca non sono definitivi» e che «un maggior numero di campioni dai casi lombardi potrebbero mostrare un ingresso differente». Dunque, come sembrano suggerire gli studi filogenetici, nessuno può escludere che in realtà il cammino del virus sia partito in Germania. Vi immaginate se, anziché dall' Italia, le linee rosse tracciate dalla Cnn fossero partite da Berlino? La storia del «paziente 1» tedesco, in effetti, desta più di un sospetto. Lo scorso 29 gennaio, un dipendente dell' azienda di componenti auto Webasto era risultato positivo al Coronavirus. Nessuna storia di viaggio in Cina né in altre aree a rischio. Pochi giorni prima, intorno al 24 gennaio, aveva avuto un meeting di lavoro con una donna cinese, risultata anche lei positiva al test. Poi i sintomi classici del virus: febbre, tosse, dolori articolari. Rientrato al lavoro, prima di effettuare il tampone l' uomo contagerà diversi colleghi, dando origine a un focolaio in Baviera. Se gli studi sulla genetica del virus messi in luce da Bedford dovessero rivelarsi corretti, forse saremmo in presenza del fantomatico «paziente zero». Come abbia potuto viaggiare il virus dalla Germania fino a noi, ovviamente non è dato saperlo. Gli scambi commerciali con il nord Italia sono molto fitti. Uno studio sui primi casi di Covid-19 in Sudamerica ha messo in luce la similitudine tra il ceppo che ha causato un contagio in Brasile e quello bavarese. Ma dal momento che l' uomo ha viaggiato in Italia, i media si sono affrettati ad attribuirci l' origine del caso. Nuno Faria, professore a Oxford e autore della pubblicazione, ha spiegato alla Verità che «è ancora presto per stabilire se il virus sia arrivato in Italia dalla Germania, dalla Cina o altrove», dal momento che «servono ancora altri dati». Proprio ieri, intanto, una ricerca dell' ospedale Sacco ha confermato che in Italia circolano tre ceppi del virus, i quali presentano forti analogie con quelli circolanti negli altri Paesi europei. Confermata anche l' origine cinese del patogeno. Il virus, inoltre, sarebbe in Italia «diverse settimane» prima che emergesse il focolaio di Codogno. Altro che colonna: se c' è una aspetto infame nella vicenda del coronavirus, perciò, è proprio la delirante campagna mediatica orchestrata ai danni dell' Italia.

Coronavirus, due ceppi diversi: il tipo-L è più contagioso e letale. Secondo un gruppo di ricercatori cinesi esisterebbero due differenti tipologie di coronavirus: un Tipo-L, più contagioso e letale, e un Tipo-S, molto meno aggressivo. Federico Giuliani, Giovedì 05/03/2020 su Il Giornale. Due ceppi diversi di coronavirus. Due tipologie della stessa malattia con distinte caratteristiche ed effetti: è questa l'ultima scoperta di un gruppo di scienziati cinesi. I ricercatori della School of Life Sciences dell'Università di Pechino e dell'Institut Pasteur di Shanghai, sotto la supervisione dell'Accademia cinese delle scienze, affermano di aver scoperto l'esistenza di due versioni di Covid-19. Nel loro studio, pubblicato sulla National Science Review, il giornale della stessa Accademia delle scienze cinese, l'équipe illustra le due tipologie distinte del coronavirus: una definita di Tipo-L, l'altra di Tipo-S. La prima, il Tipo-L, molto più contagiosa e letale della seconda, in un primo momento sarebbe stata la più diffusa. Successivamente un processo di selezione l'avrebbe soppressa in favore del Tipo-S, meno contagiosa. Basandosi su una gamma limitata di dati – e ribadendo la necessità di effettuare studi su una scala più vasta per confermare la teoria – lo studio preliminare ha scoperto che il 70% dei casi analizzati a Wuhan apparteneva al ceppo più aggressivo mentre il rimanente 30% a uno meno aggressivo. La prevalenza del tipo più aggressivo sarebbe diminuita dopo l'inizio di gennaio 2020.

Tipo-S e Tipo-L. Scendendo nel dettaglio, nel paper si legge che “analisi genetiche di popolazione di 103 genomi SARS-CoV-2 hanno indicato che questi virus si sono evoluti in due tipi principali (designati L e S), che sono ben definiti da due diversi polimorfismi a singolo nucleotide”. Detto del Tipo-S e del Tipo-L, nella ricerca viene affrontato un altro aspetto interessante: “L'intervento umano potrebbe aver esercitato una pressione selettiva più pesante sul tipo L, che potrebbe essere più aggressivo e diffusosi più velocemente. D'altra parte, il tipo S, che è evolutivamente più vecchio e meno aggressivo, potrebbe essere aumentato nella frequenza relativa a causa della pressione selettiva relativamente più debole”. "Questi risultati supportano fortemente la necessità urgente di ulteriori studi immediati e completi che combinano dati genomici, dati epidemiologici e record grafici dei sintomi clinici dei pazienti con malattia coronavirus 2019 (COVID-19)", hanno quindi scritto i ricercatori. Come riferisce Reuters, altri esperti non sono del tutto convinti di quanto affermato dai colleghi cinesi. "È difficile confermare studi come questo senza un confronto diretto diretto della patogenicità e diffondersi, idealmente, in un modello animale o almeno in uno studio epidemiologico molto esteso", ha affermato Stephen Griffin, professore ed esperto di infezione e immunità alla britannica Leeds University.

DALLA CINA CONFERMANO: ESISTONO DUE CEPPI, UNO PIÙ VIOLENTO E UNO PIÙ DEBOLE. DAGONEWS il 4 marzo 2020 - Ceppo Laqualunque: le ipotesi suggerite da Vincenzo D'Anna, presidente dei biologi italiani, lo scorso sabato su Dagospia (ci sono più ceppi del virus, uno dei quali presente in Italia prima che il ''paziente 1'' si facesse ricoverare), trovano conferma sia da uno studio cinese pubblicato oggi sulla ''National Science Review'' (qui sotto link e abstract da noi tradotto in italiano), sia dagli scienziati dell'Ospedale Sacco e dall'Università di Milano, che hanno dimostrato come esistano tre diverse sequenze genetiche, e una o più di esse circolava nel Nord Italia ''diverse settimane'' prima dell'esplosione, o meglio dell'emersione, dell'epidemia. L'articolo cinese dice, in parole poverissime, che esistono due tipi di SARS-CoV-2, come si chiama anche il coronavirus di cui parliamo da settimane. Uno che gira da più tempo, più debole e dunque più contagioso: gli infettati hanno sintomi lievi e perciò continuano nelle loro attività quotidiane, vanno in giro, stringono mani, tossiscono in ufficio, e ''colpiscono'' molte più persone (che poi è l'obiettivo finale dei virus). Il secondo invece è molto più aggressivo, ti fa venire la febbre altissima, polmonite, in poche parole ti spedisce in pochi giorni all'ospedale o addirittura al cimitero, cosa che impedisce al virus di propagarsi: se vieni ricoverato, non fai altri contagi (salvo i casi di contagio IN OSPEDALE, come accaduto a Codogno e in Veneto, che sono una tempesta perfetta perché il personale medico si ammala e a sua volta contagia - ignaro - pazienti già indeboliti da altri malanni). Questo NON È l'obiettivo di un virus, che vuole invece viaggiare di ospite in ospite, riproducendosi il più possibile e surfando felice nei nostri sternuti e sputazzi. Per quanto stronzo, il virus non vuole finire isolato in terapia intensiva né al camposanto. Ecco perché nelle scorse epidemie di SARS e MeRS, ci furono molte vittime in pochissimo tempo ma una scarsa diffusione: l'elevata gravità dei sintomi portava i malati a essere individuati e isolati velocemente. Buone notizie quindi? Sì, perché il SARS-CoV-2 tenderà a diventare meno letale col passare delle settimane: lui stesso cercherà di non ammazzare i suoi ospiti così da poterne infettare di più. Come ogni influenza stagionale. Meno buono il fatto che ancora sappiamo molto poco di questo virus, e perché non è chiaro se dal tampone emerga questa differenza: andrebbero ricoverati o isolati subito quelli che hanno il secondo tipo, e forse più ''liberi'' quelli che hanno il primo. Trattare tutti i contagi allo stesso modo sta portando alla paralisi di interi paesi.

Dagospia il 4 marzo 2020 L'ABSTRACT DI UN IMPORTANTE ARTICOLO PUBBLICATO DALLA ''NATIONAL SCIENCE REVIEW'', PUBBLICAZIONE CINESE. L'epidemia di SARS-CoV-2 è iniziata alla fine di dicembre 2019 a Wuhan, in Cina, e da allora ha avuto un impatto su gran parte della Cina e ha sollevato importanti preoccupazioni a livello globale. In questo studio, abbiamo studiato l'estensione della divergenza molecolare tra SARS-CoV-2 e altri coronavirus correlati. Sebbene abbiamo riscontrato solo una variabilità del 4% nei nucleotidi genomici tra SARS-CoV-2 e un coronavirus legato alla SAR di pipistrello (SARSr-CoV; RaTG13), la differenza nei siti neutri era del 17%, suggerendo che la divergenza tra i due virus è molto maggiore di quanto precedentemente stimato. I nostri risultati suggeriscono che lo sviluppo di nuove variazioni nei siti funzionali nel dominio di legame del recettore (RBD) dello spike osservato in SARS-CoV-2 e nei virus da SARSr-CoV di pangolino sono probabilmente causati da mutazioni e selezione naturale oltre alla ricombinazione. Analisi genetiche di popolazione di 103 genomi SARS-CoV-2 hanno indicato che questi virus si sono evoluti in due tipi principali (designati L e S), che sono ben definiti da due diversi polimorfismi a singolo nucleotide che mostrano un legame quasi completo attraverso i ceppi virali sequenziati fino ad oggi. Sebbene il tipo L (che ha colpito circa il 70% dei malati) sia più prevalente del tipo S (circa il 30%), il tipo S è risultato essere la versione ancestrale. Mentre il tipo L era più diffuso nelle prime fasi dell'epidemia a Wuhan, la frequenza del tipo L è diminuita dall'inizio di gennaio 2020. L'intervento umano potrebbe aver esercitato una pressione selettiva più pesante sul tipo L, che potrebbe essere più aggressivo e diffuso più velocemente. D'altra parte, il tipo S, che è evolutivamente più vecchio e meno aggressivo, potrebbe essere aumentato nella frequenza relativa a causa della pressione selettiva relativamente più debole. Questi risultati suggeriscono fortemente la necessità urgente di ulteriori studi immediati e completi che combinano dati genomici, dati epidemiologici e record grafici dei sintomi clinici dei pazienti con malattia di coronavirus 2019 (COVID-19).

(ANSA il 4 marzo 2020) - E' stata ottenuta in Italia la mappa genetica completa dei ceppi del coronavirus SarsCoV2 in circolazione in Italia. Il risultato è stato ottenuto dal gruppo dell'Università Statale di Milano e dall'Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli, lo stesso che aveva isolato i 3 ceppi del virus nell'area di Codogno. Lo rende noto la stessa università. Dalla sequenza genetica emerge la parentela con i virus in circolazione in altri Paesi europei e conferma l'origine dalla Cina. Dalla prima analisi è emerso infatti che il coronavirus isolato da tre persone in Lombardia ha forti analogie con le sequenze genetiche del coronavirus del primo caso rilevato in Italia, quello del turista cinese ricoverato nell'ospedale Spallanzani di Roma con la moglie, e del paziente uno di Codogno, entrambe ottenute da Istituto Superiore di Sanità (Iss) e Policlinico Militare Celio di Roma. Forti anche le analogie con i virus isolati in Europa, soprattutto in Germania e in Finlandia, e in America Centrale e Meridionale. L'analisi, rileva l'ospedale Sacco, conferma comunque l'origine cinese dell'infezione. C'è la prima prova che il coronavirus circolava in Italia diverse settimane prima che ci fosse la diagnosi del paziente uno di Codogno. E' contenuta nelle 3 sequenze genetiche del virus in circolazione in Lombardia, ottenute dal gruppo di Università Statale di Milano e Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli. L'analisi di ulteriori genomi, in corso, potrà fornire stime più precise su ingresso del virus in Italia e possibili vie di diffusione.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 6 marzo 2020. L’Italia è in quarantena a causa del Coronavirus: da oggi, infatti, le scuole sono chiuse su tutto il territorio nazionale, cinema e teatri hanno abbassato le saracinesche, mentre nei prossimi giorni tutti gli eventi sportivi si disputeranno senza spettatori. Sono solo alcune delle misure prese dal Governo, insieme alle raccomandazioni igienico sanitarie, per contrastare l’epidemia di COVID-19 nel nostro Paese. Basteranno per contenere la diffusione del virus in Italia? TPI lo ha chiesto al professor Nino Cartabellotta, tra i più autorevoli metodologi italiani. Medico chirurgo, Cartabellotta è presidente della Fondazione Gimbe, Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze, nata con l’obiettivo di diffondere in Italia la cultura e gli strumenti dell’EBM attraverso iniziative di formazione, editoria e ricerca. Cartabellotta ha spiegato, attraverso i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe, quali sono le criticità attuali e cosa bisogna fare per vincere la sfida contro il Coronavirus.

I valori della Lombardia hanno un incremento più rapido di quello delle altre Regioni. Perché?

«Per varie ragioni: innanzitutto la bassa lodigiana è il focolaio principale, in sostanza la nostra Wuhan; in secondo luogo perché l’epidemia si è sviluppata in ambito ospedaliero con rapida identificazione dei soggetti infetti; infine perché sono stati eseguiti numerosi tamponi (12.138)».

Quello che fa più impressione è che i valori assoluti per l’Italia sono gli stessi dalla Cina (considerando come giorno 1 italiano il 20 febbraio e giorno 1 cinese il 15 gennaio), ma abbiamo meno di 1/20 degli abitanti della Cina. E cosa comporta?

«I numeri della Cina sino a fine gennaio sono da prendere con cautela, nel senso che è verosimile fossero molto più elevati. In ogni caso l’impennata del numero di casi in Italia è molto più ripida di quella cinese e molto simile a quella della Corea, dove i 31 casi del 18 febbraio sono diventati 5.328 il 4 marzo. Le conseguenze della rapida impennata purtroppo le stiamo già toccando con mano: nell’impossibilità di contenere l’incremento percentuale dei casi l’assistenza sanitaria rischia di andare in tilt».

Stando ai dati di ieri ci sono 295 persone in terapia intensiva. Quanti sono i posti letto in terapia intensiva in tutta Italia? Con questa tendenza, quanti giorni abbiamo prima che siano tutti esauriti?

«Secondo i dati del ministero della Salute aggiornati al 2018 in Italia i posti letto di terapia intensiva sono 5.293 tra pubblici e privati accreditati. La situazione è particolarmente critica in Lombardia: ha una dotazione di 859 posti letto di terapia intensiva, ma ben 209 sono occupati da pazienti affetti da Coronavirus. Il ministero della Salute ha già emanato una circolare per aumentare del 50% il numero dei posti letto in terapia intensiva, ma non potrà essere una misura immediata».

Quindi quanto tempo abbiamo?  

«In Lombardia se si mantiene il trend attuale (+20-25% al giorno), in assenza di adeguate contromisure (rimandare interventi chirurgici non programmati, attivare posti di semi-intensiva, coinvolgere il privato accreditato), il tempo è quasi scaduto, anche perché le terapie intensive devono accogliere anche altri pazienti gravi».

Qual è l’identikit del paziente ricoverato in terapia intensiva? È la stessa della Cina, della Corea, o c’è differenza?

«Non lo conosciamo. Non conosciamo nulla dei pazienti che stanno dietro ai numeri snocciolati ogni sera dal capo della Protezione Civile Borrelli. Non è nemmeno stata standardizzata una scheda di raccolta dati per i pazienti positivi al Coronavirus. Di cui oggi non sappiamo assolutamente NULLA».

Perché in Corea il tasso di mortalità è molto più basso che quello italiano?

«Il dato è impressionante: in Corea 32 decessi su 5.328 casi, in Italia 107/3.089. Ovvero per tasso di letalità Italia batte Corea 3,4% a 0,6%. Un dato che sicuramente gioca a nostro sfavore è la popolazione più anziana, ma non credo spieghi una differenza sul tasso di letalità di 5-6 volte superiore. Purtroppo, in assenza di dati sulle caratteristiche cliniche, epidemiologiche e assistenziali dei pazienti è molto azzardato fornire spiegazioni certe».

È ancora possibile contenere la diffusione all’interno dei focolai? Se sì, cosa bisogna fare? Oppure tutta l’Italia è già esposta al contagio?

«La Cina ha insegnato a tutto il mondo come si trasmette e come si debella il virus. Europa, America e altri sono stati a guardare pensando di essere immuni senza preparare strutture sanitarie e popolazione allo tsunami. Il virus è già ampiamente diffuso in tutta Italia: escludendo Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, ieri il numero totale dei casi nelle altre regioni era 365, quasi il 12%. Emblematico il caso delle Marche: il 26 febbraio ha registrato il primo caso, il 4 marzo ne ha riportati 84, di cui 34 ricoverati con sintomi e 15 in terapia intensiva. Il contagio può essere rallentato solo con misure di distanziamento sociale: dall’isolamento dei malati alla tracciatura dei contatti, dalla quarantena delle persone esposte al virus alla chiusura delle scuole, dalle misure relative ai luoghi di lavoro (es. smart working) all’evitare gli assembramenti di persone. Misure estese (in ritardo) a tutta Italia dal DPCM pubblicato il 4 marzo. Le precedenti esperienze di pandemie influenzali, in particolare quella del 2009-2010, hanno dimostrato che è impossibile contenerle nel focolaio iniziale, né prevenire a medio termine la diffusione internazionale dell’infezione. In assenza di vaccini e di farmaci antivirali efficaci, le uniche misure per rallentare la diffusione del Coronavirus sono quelle di distanziamento sociale che permettono di ottenere 3 risultati. Anzitutto ritardare il picco epidemico guadagnando tempo per preparare adeguatamente il sistema sanitario; in secondo luogo ridurre l’entità del picco epidemico per evitare il collasso del sistema sanitario; infine distribuire le infezioni su un arco temporale più lungo, per consentire una migliore gestione dei casi. In altri termini per evitare che una mareggiata (area azzurra) si trasformi in tsunami (area arancione). Ovviamente se le regole dettate dal Governo a livello nazionale sono condicio sine qua non per contenere il COVID-19, serve la massima attenzione delle amministrazioni locali e, soprattutto, il senso di responsabilità dei cittadini: dobbiamo accettare che servono rinunce individuali, tempo e pazienza».

È possibile che in regioni con un sistema sanitario meno efficiente i numeri possano aumentare con una frequenza più rapida?

«La regola generale è “chi cerca trova”: ovvero il numero dei casi è condizionata anche dal numero di tamponi effettuati. Nel meridione quello che più preoccupa non è l’aumento dei casi lievi, ma quello dei casi gravi che richiedono ospedalizzazione o addirittura terapia intensiva. Per essere molto franchi, nessuna Regione del sud è in condizioni di affrontare un’emergenza come quella che sta cercando, con grande difficoltà, di fronteggiare la Lombardia».

Si può immaginare un modello simile a quello della Cina, con i contagi in diminuzione dopo 45 giorni dall’inizio “ufficiale” dell’epidemia? Cosa ci dicono i numeri? Oppure le misure attuate in Italia sono diverse e quindi diverso il decorso?

«È presto per fare ipotesi e vedere i risultati delle misure attuate. Ma ribadisco, la Cina ci ha insegnato come combattere con successo il COVID-19. Noi la lezione l’abbiamo imparata solo a metà».

UN VIRUS PADANO. Coronavirus, l'ipotesi del presidente dei biologi: "Il nostro è un virus padano, non c'entra con la Cina". Libero Quotidiano l'1 Marzo 2020. Il ceppo isolato a Milano di coronavirus per Vincenzo D'Anna, è un "virus padano" che esiste negli animali allevati nelle terre "ultra concimate con i fanghi industriali del Nord". Secondo il presidente dell'Ordine dei biologi italiani esistono due contagi in circolazione nel nostro Paese: il primo - come confermato a Dagospia - cinese, mentre un altro sarebbe locale e sarebbe quello scoperto all'ospedale Sacco di Milano. "Sembra - scende nei dettagli l'esperto - che tale virus sia domestico e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli". Per D'Anna si tratta infatti di un virus para-influenzale, "senza nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione" e per questo impossibilitato a trasmettersi altrove. "Bisognerebbe parlare alla gente - afferma proprio per la dichiarazione precedente - in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. Cominciamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina". Quella del presidente è però un'ipotesi che solo i laboratori potranno confermare o meno. 

Il presidente dei biologi ha un'altra teoria "Ma quale Cina, il Coronavirus è padano". D'Anna: «Viene dai nostri rifiuti industriali». Poi frena: «Solo un'ipotesi». Enza Cusmai, Domenica 01/03/2020 su Il Giornale. Il ceppo isolato a Milano di coronavirus? É un «virus padano» che esiste negli animali allevati nelle terre «ultra concimate con i fanghi industriali del Nord». Sembra una provocazione, ma la dichiarazione vale la pena di essere registrata visto che proviene dal presidente dell'Ordine dei biologi italiani, Vincenzo D'Anna. Ieri ha infatti dichiarato a Dagospia che attualmente esistono due contagi in circolazione nel nostro Paese: il primo, cinese, che ha una diffusione lenta attraverso i viaggi e gli spostamenti degli infettati, mentre un altro sarebbe locale e sarebbe quello scoperto dall'equipe del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano che ha isolato un nuovo ceppo del Covid-19. Il presidente dell'Ordine dei biologi italiani ha inoltre spiegato anche perché il Coronavirus non si trovava in altri stati europei: «Semplicemente, si riteneva inutile cercarlo». Ma come si giustificano le coincidenze di tempistica tra i due virus? E come mai al Sacco non è stato detto nulla sull'argomento? In attesa di chiarimenti da parte dello stesso laboratorio, ecco la valutazione del biologo. «Sembra che tale virus sia domestico ha dichiarato e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli». In sostanza sarebbe un «virus padano» che quindi non circola nelle altre regioni. Anche sulla sua pericolosità, smorza i toni. «É poco più che un virus para-influenzale, senza nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione». Ma non è finita qui. Siccome questo virus padano è localizzato e poco pericoloso, D'Anna critica la gestione pubblica della vicenda e la considera «una delle più grandi cantonate che la politica italiana ha preso, nel solco di quella approssimazione che la caratterizza tutti i giorni». Quindi, sostiene che ne escano «male le istituzioni sanitarie statali troppi asservite al conformismo, il silenzio di migliaia di scienziati, ricercatori ed accademici». Il biologo infine invita tutti ad abbassare i toni. «Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. Cominciamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo coloro per i quali esista un fondato sospetto di contagio. E si tratta comunque sempre del contagio di un virus influenzale. Un virus che ha una mortalità che è ancora più bassa di un virus influenzale La Borsa l'altro giorno ha bruciato circa quaranta miliardi di euro». In serata un'ulteriore «frenata»: «È La mia è solo un'ipotesi. Servono conferme. Se ne potrà parlare solo quando ci saranno risultati di laboratorio».

Dagospia il 29 marzo 2020. Dichiarazione di Vincenzo D’Anna, presidente ordine dei biologi italiani, raccolta da Dagospia. Ecco allora un nuovo colpo di scena destinato a rendere ridicoli sia il panico che il caos sociale ed economico provocato dal nuovo Coronavirus: l'equipe del laboratorio dell'Ospedale Sacco di Milano ha isolato un nuovo ceppo del Covid-19 detto "italiano Ebbene,  sembra che tale virus sia domestico e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Un virus padano, per dirla tutta, esistente negli animali allevati nelle terre ultra concimate con fanghi industriali del  Nord!! Ecco spiegato perché nelle altre regioni il virus latita, come  già noto in letteratura (vedi Wu  et al. Cell Host & Microbe doi:10.2016 j.chom.2020.02.001,2020). Insomma i contagi  sarebbero due: uno pandemico a diffusione lenta attraverso i viaggi degli infettati, e l'altro locale. Quest'ultimo poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte "a rischio" della popolazione. La stessa OMS ridimensiona il tiro e declassa il virus a poco più che un influenza, batte in ritirata anche Burioni che si scusa. In altri stati europei il virus non lo si trovava perché, semplicemente, si riteneva inutile cercarlo. Ma non è’ finita: si aggiunge la specificità territoriale del Coronavirus italiano che rende ancora più specifica la beffa nordista. Ci troviamo innanzi ad una delle più grandi cantonate che la politica italiana ha preso, nel solco di quella approssimazione che la caratterizza tutti i giorni. Ne escono male  le istituzioni sanitarie statali troppi asservite al conformismo, il silenzio di migliaia di scienziati, ricercatori ed accademici.

Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici. Vincenzo D'Anna, presidente dell'ordine nazionale dei biologi, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha detto la sua sul Coronavirus: "Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. E la borsa ieri ha bruciato circa quaranta miliardi di euro. Ricchezza che se ne va. E' tutto fermo, tutto paralizzato, per un virus che è poco più di un virus influenzale. Iniziamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo quelli per i quali esista un fondato sospetto di contagio. Ma si tratta sempre del contagio di un virus influenzale. Un virus che ha una mortalità che se vogliamo è ancora più bassa di un virus influenzale". D'Anna ha proseguito: "Il coronavirus non è più grave o più mortale di una influenza. I nostri stessi morti, e dispiace sempre quando una persona decede, erano ottuagenari, o persone già malate, di cancro o con malattie croniche di tipo cardiorespiratorio. Avrebbe potuto ucciderle anche un virus influenzale. Questa è la verità. Non possiamo sparare alle mosche col cannone. Mi aspetto che gli scienziati comincino a parlare. Molti hanno paura di essere aggrediti, di essere tacciati come superficiali, perché le brutte notizie sono sempre più gradite delle buone notizie, le brutte notizie fanno i titoloni sui giornali. Ne abbiamo lette tante in questi giorni". Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha concluso: "Diciamoci la verità, noi non abbiamo degli scienziati molto coraggiosi in Italia. Ognuno quando può si esime dal mettersi sotto i riflettori, mentre in pochi inseguono come una star la luce dei fari. Mi auguro e spero che questa frenesia finisca, che la gente si cominci a rendere conto che contrarre il coronavirus è come contrarre un virus influenzale. In Europa non ci sono molti contagiati perché molte nazioni il virus non lo cercano".

Coronavirus, “l’ospedale Sacco non ha depositato il genoma”. Recnews.it il 19/03/2020. Il presidente dell’Ordine nazionale dei biologi Vincenzo D’Anna è intervenuto sulla presunta epidemia chiarendo alcuni aspetti. Vincenzo D’Anna, presidente dell’Ordine nazionale dei biologi, è tornato indietro sulle dimissioni dopo aver – ha riferito – ricevuto attestati di stima trasversali. E meno male: senza di lui, in tempi di dittatura mediatica, si saprebbe di sicuro meno sui vaccini e anche sul Coronavirus. Su quest’ultimo argomento, il presidente dell’Onb ha chiarito numerose questioni nel corso di un’intervista rilasciata al divulgatore indipendente Marcello Pamio.

Il “ceppo italiano scoperto” dall’ospedale Sacco. Ne abbiamo parlato a ridosso dell’ufficializzazione della notizia da parte di Massimo Galli. Il medico affermava che l’ospedale Sacco di Milano avesse scoperto il “ceppo italiano del Coronavirus, lasciando tuttavia spazio a una serie di quesiti tuttora senza risposta. Sull’argomento è intervenuto lo stesso D’Anna, che ha chiesto lumi su un deposito che, allo stato, risulterebbe inesistente: “Un collega genetista iscritto all’Ordine dei biologi, mi ha detto che il virus non risulta nelle banche dati dove si depositano i codici genetici dei virus per metterli a disposizione degli studiosi”, ha riferito.

“Due decessi su cento riconducibili al Coronavirus”. Non è l’unica cosa che non torna sulla presunta emergenza. Altri aspetti sono costituiti dai falsi positivi, citati dallo stesso presidente dell’Onb, e dai recenti dati forniti dall’ISS di cui nessun sito, giornale, tg e programma allarmista parla. Cosa dicono? Che “solo – chiosa l’esperto – due decessi su cento sono realmente attribuibili al Coronavirus”. Il che equivale a 60 morti su 3000. Sessanta-morti-su-tremila.

L’Iss, i falsi positivi e la “scienza politicizzata”. Ma perché non si sente parlare più di tanto di aspetti del genere? A una prima lettura, sarebbe facile credere che l’Iss – che fa i dati, decide e divulga– possa cedere a input esterni. Del resto l’organismo presieduto da Brusaferro, salvo modiche con l’ultimo decreto si beccherá dodici milioni aggiuntivi in tre anni. L’Iss è l’Istituto che per l’emergenza coronavirus passa in rassegna e mette il suo “timbro” praticamente su tutto. Anche sui falsi positivi spariti dal dibattito pubblico. “Viviamo in una Nazione – è stato il commento rassegnato di D’Anna – in cui la scienza è asservita alla politica”.

Le caratteristiche del Coronavirus. “Il virus – ha detto il presidente dell’Ordine nazionale dei biologi – per il 50% è asintomatico. È come il virus dell’herpes: c’è ma non ce ne accorgiamo, perché abbiamo nel nostro organismo anticorpi per decine di migliaia di virus. Nove infetti su dieci da coronavirus, non hanno problemi”, il che equivale a 900 persone su 1000. “La percentuale di casi problematici – focalizza ulteriormente D’Anna – equivale allo 0,56% del totale”.

Il procurato allarme di media mainstream e politica. Eppure dei dati rassicuranti non parla quasi nessuno. “Stiamo giocando – riflette il presidente dell’Onb – ad allarmare la gente. Perché abbiamo questa esigenza di allarmare la gente? I tedeschi non hanno avuto l’esigenza di taroccare l’informazione”.

Il caldo. I focolai di Brescia e Bergamo. Il fatto che il virus tema il caldo è stato bollato dalla stampa commerciale come una fake news. Non è d’accordo, forte dei dati presenti nelle pubblicazioni scientifiche, Vincenzo D’Anna: “Il coronavirus – ha detto – ha un suo limite di attività, che va dai +2° ai +27°” (gradi centigradi). Il dato, domanda Pamio, può avere analogia con lo sviluppo maggiore del coronavirus a nord, che comunque come spiegato è da ridimensionare “Ci dobbiamo spiegare – la risposta – i focolai del Bresciano e del Bergamasco. La Lombardia è l’unica regione che consente di spargere i fanghi industriali nel terreno, anche quelli di derivazione farmaceutica. La provincia di Brescia, inoltre, è la più inquinata d’Italia per quanto riguarda le polveri sottili”.

Le altre vittime da coronavirus. Cardiopatici, persone con problemi circolatori, obesi. A causa dell’emergenza (costruita?) potrebbero vedersi ridotte le possibilità di camminare, nonostante per loro si tratti di un gesto vitale. Lo è, in realtà, per tutti, perché solo ciò che è inerte e senza vita può stare fermo e al chiuso. Eppure in queste ore il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’influente ministro dello Sport Spadafora, stanno invocando chiusure totali per vietare completamente le uscite. Gli anziani, i senzatetto che ricevevano provviste dai volontari, gli animali non domestici? Abbandonati per un decreto che paradossalmente è stato battezzato “Cura Italia”. E gli altri non stanno meglio: “Così facendo – chiude D’Anna – riempiremo i reparti di Neurologia”. Inseguendo psicoreati che solo Orwell avrebbe potuto immaginare. 

Perché le dimissioni (ritirate) del presidente dei Biologi erano una buona notizia per la scienza. Dai vaccini al coronavirus, tutte le controversie su Vincenzo D'Anna, che lascia la guida dell'ordine dei biologi. Enrico Cicchetti su Il Foglio il 15 Marzo 2020.  Vincenzo D’Anna ha annunciato ieri sera con una lettera di avere ritirato le sue dimissioni da presidente dell’ordine dei biologi. “In esito ad un approfondimento sull’art. 39 della legge 396/1967, cioé la norma che disciplina le modalità di nomina delle varie cariche in seno al Consiglio dell’Ordine mi è stato fatto rilevare che la legge non prevede alcun meccanismo di sostituzione del Presidente se non per assenza o impedimento, il che fa anche dubitare della stessa ammissibilità delle dimissioni da tale carica slegate dalla contestuale rinuncia anche a quella di consigliere. [...] al fine di non provocare disorientamento nella comunità dei biologi, comunico di ritirare formalmente le mie dimissioni così come presentate in data 14 marzo 2020, confermando in toto quanto reso noto nella lettera inviata in pari data al componenti del Consiglio dell’Ordine dei biologi”. Il politico e biologo Vincenzo D’Anna, che aveva diffuso notizie false sul coronavirus, si è dimesso dalla carica di presidente dell’ordine nazionale dei biologi, che ricopriva dall'autunno 2017. Il sito dell'ordine però non lo cita e segnala invece  “divergenze sulla linea politica, con particolare riguardo al ruolo ed alla funzione che l’Ente deve svolgere in relazione agli eventi di particolare rilevanza scientifica e sociale". "Il casus belli", riporta Quotidiano sanità "è il tema del momento: il coronavirus. Sulla questione era infatti in cantiere un numero della rivista ufficiale dell’Onb. Ma sui contenuti del numero non c'è stato accordo con i membri del Consiglio Direttivo che hanno scritto a D’Anna per chiedergli di 'interrompere l'edizione di un numero speciale sul Coronavirus... e ciò per evitare di comunicare in modo conflittuale con le comunicazioni degli organi governativi e scientifici accreditati, nel rispetto della dipendenza di Onb dal ministero della Salute”. D'Anna, ex deputato e senatore, aveva pubblicato a fine febbraio sul suo sito e sulla sua pagina Facebook un messaggio in cui sosteneva che i ricercatori avessero scoperto un nuovo ceppo del Covid-19 detto “italiano”. Il ceppo, secondo lui, domestico non avrebbe "cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Un virus padano, per dirla tutta, esistente negli animali allevati nelle terre ultra concimate con fanghi industriali del Nord!!". Una fake news: l’Ospedale Sacco di Milano ha infatti isolato i ceppi in circolazione in Italia ma non significa che il virus abbia avuto origine qui, come sostiene D’Anna, bensì è una delle tante varianti del virus identificato a Wuhan. Secondo D'Anna il ceppo "italiano" sarebbe "poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione". Un'altra affermazione pericolosa (perché nel sottovalutare i rischi induce le persone a non prendere le dovute precauzioni) e priva di riscontri clinici. E Ancora, per l'ex presidente dei biologi, "la stessa Oms ridimensiona il tiro e declassa il virus a poco più che un’influenza, batte in ritirata anche Burioni che si scusa". Due falsità in una frase. L'Organizzazione mondiale della sanità non ha mai ridimensionato la minaccia e in realtà ha da poco dichiarato la pandemia. E il virologo Burioni non ha certo smesso di mettere all'erta la cittadinanza sui rischi di questa nuova forma virale. D’Anna, in un’intervista al programma “I Lunatici“, in onda su Rai Radio 2, ha sostenuto che il coronavirus è "un virus influenzale e poco più" con "se vogliamo una mortalità ancora più bassa dell'influenza". Una ulteriore falsità, smentita da tanti importanti e autorevoli medici e ricercatori, tra gli altri anche il consulente del ministero della Salute, il dottor Walter Ricciardi che ha precisato che Covid-19 "non è come una normale influenza, ha un tasso di letalità più alto. E soprattutto, se non la fermiamo rapidamente, rischia di richiedere un numero di posti di terapia intensiva superiore a quelli che ci sono nei nostri ospedali" pure suggerendo di "ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5 per cento muore". Nel febbraio 2019, i docenti dell’università di Pavia hanno bloccato gli esami di stato per i biologi per protesta contro le posizioni sui vaccini espresse dall’Ordine nazionale e dal suo presidente. D’Anna aveva infatti deciso di donare diecimila euro all’associazione “free-vax” Corvelva per finanziare non meglio precisate ricerche sui vaccini. L'allora presidente ha in un primo momento difeso la decisione di finanziare l'associazione, che ha definito “un’associazione meritoria”, e annunciato di volere fare causa per diffamazione contro l'università. Salvo, pochi giorni dopo, ritrattare: ha dichiarato infatti di aver tolto i fondi a Corvelva. Non perché finanziare gli antivaccinisti sia sbagliato, ma perché l'associazione aveva anticipato i risultati dei suoi studi al Tempo. La stessa Corvelva, per altro, il giorno prima aveva già deciso di restituire la donazione dell’Ordine dei Biologi, e l'aveva comunicato su Facebook. Ancora: D’Anna, in diverse occasioni (anche sul Foglio), ha rilasciato dichiarazioni sulla presenza di “metalli pesanti” all’interno dei vaccini. A marzo 2018 ha organizzato il convegno "Nuove frontiere della biologia" al quale partecipavano alcuni dei guru dei no-vax e al quale venne dedicato un articolo sul British Medical Journal. Nel gennaio 2019, ne ha organizzato un altro, "Vaccinare in sicurezza", con altri idoli del mondo free vax. 

Coronavirus, l'esperta del Sacco Maria Rita Gismondo: "Vi dico io perché non è stato trovato il paziente zero". Libero Quotidiano l'1 Marzo 2020. "Nel nostro Paese il virus si è diffuso in modo silente almeno dall'inizio di gennaio". Parola di Maria Rita Gismondo, la professoressa che dirige il laboratorio di microbiologia, virologia e bio-emergenze all'ospedale Sacco di Milano. Per lei sarebbe proprio questo il motivo - così come spiega al Fatto Quotidiano - per il quale ancora "non è stato trovato il cosiddetto paziente zero". Non solo, perché sempre seguendo questo ragionamento pare plausibile supporre che molti casi di polmonite verificatisi in Italia e nella zona del Basso Lodigiano già dopo Natale possano essere contagi concreti da Covid-19. "Già a fine dicembre - specifica la Gismondo - noi abbiamo iniziato a lavorare sulla base di strane polmoniti cinesi segnalate dall'Oms. In quel momento avevamo sintomi influenzali simili al Covid, per di più concentrati in un picco stagionale normale". L'itinerario del virus risulta ancora un obiettivo da dover raggiungere a tutti i costi: "Stiamo raccogliendo e studiando i genotipi di Cov 2 per fare la sequenza totale del virus e paragonarla con quella messa già in rete dai colleghi cinesi, poi in base alle mutazioni rilevate si traccia la mappatura". Una situazione che, secondo l'esperta, si delineerà nelle prossime settimane. 

Galli: «Il Coronavirus in Italia da settimane. Uno tsunami per il sistema sanitario». Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Mentre parliamo al telefono per analizzare l’impennata dei casi di Covid-19, il professor Massimo Galli— primario infettivologo dell’ospedale «Sacco» di Milano — è in reparto, costretto a interrompere tre volte la conversazione per rispondere ai colleghi di altre strutture che chiedono di potergli inviare pazienti gravi: «Quello che lei sta ascoltando in tempo reale vale più delle mie risposte. Siamo in piena emergenza. Sì, sono preoccupato».

Come si spiega questa impennata di contagi?

«È accaduto quello che molti di noi temevano e speravano non accadesse. Il virus ha dimostrato di aver eluso i criteri di sorveglianza. L’epidemia ha a tutti gli effetti conquistato una parte d’Italia. Ci troviamo a dover gestire una grande quantità di malati con quadri clinici importanti. Sta succedendo qualcosa di grave, non soltanto da noi ma anche in Germania e Francia, che potrebbero ritrovarsi presto nelle nostre stesse condizioni e non glielo auguro. Stiamo trattando una marea montante di pazienti impegnativi».

A cosa è dovuta questa esplosione di casi?

«I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente. È verosimile che i ricoverati abbiamo alle spalle dalle due alle quattro settimane di tempo intercorso dal momento in cui hanno preso il virus allo sviluppo di sintomi molto seri, dalla semplice necessità di aiutarli con l’ossigeno fino a doverli assistere completamente nella respirazione».

C’è chi ha paragonato questa malattia all’influenza. Accostamento incauto?

«Chi ha cercato di infondere tranquillità, e li capisco, non ha considerato le potenzialità di questo virus. In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive. La situazione è francamente emergenziale dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria. È l’equivalente dello tsunami per numero di pazienti con patologie importanti ricoverati tutti insieme. Le descrivo la giornata di venerdì, prima che arrivasse la nuova ondata di casi. In Lombardia erano 85 i posti letto occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Per non contare il rischio di contagio al quale sono esposti gli operatori. Un carico di lavoro abnorme».

Le misure predisposte dal governo italiano hanno funzionato?

«È stato fatto tutto ciò che era possibile e adesso bisogna continuare con le restrizioni, cercando di evitare il più possibile l’affollamento. Purtroppo il virus è entrato in Italia prima che si cominciasse a ostruirgli la strada con la chiusura dei voli dalla Cina. La penetrazione nel nostro Paese è precedente, circolava già prima della fine di gennaio anche a giudicare dall’impennata di questi ultimi giorni. Sono tutti contagi vecchi per la maggior parte. Risalgono agli inizi di febbraio, qualcuno anche a prima».

Significa che questa malattia si sviluppa lentamente a cominciare dal contagio?

«È esattamente così. Ha più fasi e si esprime nella sua massima gravità anche a 7-10 giorni dalla comparsa dei primi sintomi. È molto probabile che dietro tutti i pazienti gravi ce ne siano altrettanti infetti ma meno gravi. Per usare un termine tipico dell’epidemiologia, questa è solo la punta dell’iceberg. Anche la migliore organizzazione sanitaria del mondo, e noi siamo tra queste, rischia di non reggere un tale impatto».

L’Italia sembra per ora divisa in due. Al Nord l’emergenza, al Centro-Sud un’apparente calma. Come mai?

«Poteva capitare ovunque e non ci sarebbe stata differenza. Qualcuno, forse una sola persona, è arrivato a Codogno e ha sparso l’infezione senza che ce ne accorgessimo. Un fenomeno casuale con l’aggravante che il focolaio è partito in ospedale. Mi auguro che non accada di nuovo quello che è successo in Lombardia dove un paziente infetto si è presentato al Pronto soccorso e non è stato riconosciuto perché i criteri di classificazione dei sospetti dettati dall’Organizzazione mondiale della sanità erano già superati. Credo che grazie a questo precedente gli ospedali siano allertati».

Lei cosa prevede?

«La maggior parte dei malati guariscono ma ce ne sono tanti, troppi, da assistere. Le aree metropolitane finora sono rimaste fuori dalla zona rossa e speriamo restino così».

Il nuovo coronavirus era in Italia già  da settimane prima del 21 febbraio. Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Lo studio sulle tre sequenze genetiche del virus in circolazione in Lombardia, ottenute dal gruppo di Università Statale di Milano e Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli, ha confermato quel che i medici sospettavano da tempo: il coronavirus circolava in Italia diverse settimane prima che ci fosse la diagnosi del paziente 1 a Codogno. L’analisi di ulteriori genomi, in corso, potrà fornire stime più precise su ingresso del virus in Italia e sulle possibili vie di diffusione, visto che l’indagine epidemiologica non è riuscita a risalire alla catena dei contagi per arrivare al paziente 0, evidentemente proprio perché il virus era già nel nostro Paese, ma non veniva rilevato anche perché i tamponi venivano fatti solo a persone provenienti dalla Cina o che avessero avuto contatti diretti con positivi. Massimo Galli (direttore malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano) al Corriere aveva dichiarato: «Il virus è “sfuggito” prima ancora della misura di chiusura dei voli dalla Cina. È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci conto della sua situazione». I dati per arrivare a questa considerazione erano stati i tanti quadri clinici gravi e tutti assieme del focolaio di Codogno che «fanno pensare che l’infezione abbia iniziato a diffondersi nella cosiddetta zona rossa da abbastanza tempo. Forse è arrivata addirittura prima che fossero sospesi i voli diretti da Wuhan. È verosimile che i ricoverati negli ultimi giorni si siano contagiati da due a quattro settimane fa per poi sviluppare progressivamente i sintomi respiratori in base ai quali molti hanno avuto necessità di ricorrere a procedure intensive», affermava Galli. Ci siamo ammalati per primi in Europa, ne usciremo per primi? «Io spero proprio di sì. Anche per il grosso lavoro che è stato fatto e che è molto valido. È un sacrificio ma nella giusta direzione», conclude l’esperto. «I numeri che vediamo oggi sono i contagi di 10 giorni fa, quando erroneamente pensavamo che il coronavirus non ci fosse anche perché ancora nessuno lo aveva cercato, nessuno immaginava che fosse già arrivato nel nostro Paese e nessuna restrizione era stata messa in atto. La verità è che il trend è ancora in crescita. Non sappiamo che cosa succederà nei prossimi giorni», ha affermato Roberto Burion, virologo dell’ospedale San Raffaele di Milano. Precedentemente un altro studio dello stesso team aveva scoperto che il coronavirus era nato in Cina già a ottobre-novembre, alcune settimane prima quindi rispetto ai primi casi di polmonite anomale identificati e segnalati dal “medico eroe”, Li Wenliang, morto in Cina per il virus. E ricordiamo che nel lodigiano, dopo l’esplosione dell’emergenza tra Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio erano stati colpiti da “strane polmoniti”. «È vero, quest’inverno c’è stata un’impennata di forme polmonari a lunghissima durata, già da dicembre», riferisce all’Ansa Massimo Vajani, presidente dell’ordine dei medici di Lodi.

"Virus in circolo da tempo, inutile la ricerca del paziente zero". Ad affermarlo è la dottoressa alla guida dalla Direzione prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto. "I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente", afferma anche il primario infettivologo del Sacco. Anna Russo, Domenica 01/03/2020 su Il Giornale. "Il virus circola in Europa da molto tempo, almeno da un mese prima rispetto a venerdì 21 febbraio, quando sono stati diagnosticati i due casi di Vo'. E questo, ora, rende del tutto inutile la ricerca del paziente zero".  Ad affermarlo in un’intervista rilasciata a Repubblica è Francesca Russo, la dottoressa alla guida dalla Direzione prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto. È il caso dei due anziani contagiati a Vo’ che fa pensare che il Covid-19 già circolasse sotto traccia da settimane prima della rilevazione del primo contagio in Italia. I due anziani, di 86 e 88 anni, vivono da soli in due diversi quartieri del centro storico di Vo’. Non sono mai stati in Cina, non sono entrati in contatto con persone provenienti dalla Cina, non hanno frequentato luoghi a rischio. I loro parenti sono risultati tutti negativi al Covid-19. Un mistero, che dovrà chiarire l’indagine epidemiologica dei cacciatori del paziente zero. Francesca Russo, che guida i medici dei Servizi di igiene e sanità pubblica delle Asl coinvolte nell’epidemia, ipotizza che il contagio a Vo’ possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, “perché – spiega - il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico". Ma, secondo quanto afferma, sarà impossibile confermarlo: "Riteniamo che il virus circolasse sotto traccia da tempo, insieme con il normale virus influenzale. Nei soggetti debilitati, però, ha provocato polmoniti. Il virus è arrivato in Europa in un momento imprecisato e ha dato luogo ai primi contagi in Germania, poi in Francia, e poi abbiamo avuto i nostri. Può essere stato portato in Italia da chiunque". L’ipotesi è che a Vo’ il contagio (confermati 78 casi ad oggi), “possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, perché il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico". Sono otto i soggetti di origine cinese residenti a Vo’, e sono risultati tutti negativi al test. "Sì, ma è anche vero – dice Russo - che due di loro erano tornati dalla Cina appena venti giorni prima dell'esame. Potrebbero essersi negativizzati, quindi stiamo facendo ulteriori approfondimenti". Vanno avanti a ritmo serrato le indagini del suo team a Marghera, presso l’Unità di crisi della Protezione civile. "In questo momento – chiarisce la dottoressa - rileviamo due situazioni di contagio: la prima è legata al criterio epidemiologico, cioè riguarda soggetti infetti che provengono dalla Cina oppure che si sono contagiati qui stando a contatto con loro; la seconda riguarda i casi che si sono manifestati perché il virus circola in Europa. Non è corretto dire in Italia, meglio dire in Europa". L’idea di Russo è che sarebbe stato impossibile bloccare il virus, perché - sostiene - “Essendo presente anche negli asintomatici, cioè in persone che stanno bene e non hanno tosse o febbre, non c'erano misure realistiche per proteggere il Paese dall'epidemia. E non sappiamo chi sia il paziente zero dell'Italia: può essere uno straniero, ad esempio un turista tedesco, francese o cinese, oppure un italiano di rientro dall'estero”. Che il Coronavirus sia arrivato in Italia da settimane prima che si individuasse il paziente 1, lo pensa anche il professor Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano: “I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente. È verosimile che i ricoverati abbiano alle spalle dalle due alle quattro settimane di tempo intercorso dal momento in cui hanno preso il virus allo sviluppo di sintomi molto seri, dalla semplice necessità di aiutarli con l’ossigeno fino a doverli assistere completamente nella respirazione”. Lo dichiara a il Corriere della Sera, a cui esprime le sue preoccupazioni per l’emergenza sanitaria in corso: “Chi ha cercato di infondere tranquillità, e li capisco, non ha considerato le potenzialità di questo virus. In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive. La situazione è francamente emergenziale dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria. È l’equivalente dello tsunami per numero di pazienti con patologie importanti ricoverati tutti insieme”. E per rendere l’idea descrive la giornata di venerdì: “In Lombardia erano 85 i posti letto occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Per non contare il rischio di contagio al quale sono esposti gli operatori. Un carico di lavoro abnorme”.

Per Galli "bisogna continuare con le restrizioni, cercando di evitare il più possibile l’affollamento. Purtroppo il virus è entrato in Italia prima che si cominciasse a ostruirgli la strada con la chiusura dei voli dalla Cina. La penetrazione nel nostro Paese è precedente, circolava già prima della fine di gennaio anche a giudicare dall’impennata di questi ultimi giorni. Sono tutti contagi vecchi per la maggior parte. Risalgono agli inizi di febbraio, qualcuno anche a prima». Il primario spiega che la malattia ha uno sviluppo lento: “Ha più fasi e si esprime nella sua massima gravità anche a 7-10 giorni dalla comparsa dei primi sintomi. È molto probabile che dietro tutti i pazienti gravi ce ne siano altrettanti infetti ma meno gravi. Per usare un termine tipico dell’epidemiologia, questa è solo la punta dell’iceberg. Anche la migliore organizzazione sanitaria del mondo, e noi siamo tra queste, rischia di non reggere un tale impatto”.

Coronavirus, la cacciatrice del paziente zero: "Il virus circolava da molto tempo, ora non serve più cercare chi l'ha portato". Un posto di blocco dell'esercito al confine della zona rossa a Vo' (agf). Francesca Russo dirige il team di medici delle Asl venete coinvolte nell'epidemia: "Può essere stato portato da chiunque in Europa, se è arrivato senza sintomi quando non c'erano ancora misure stringenti. Il contagio di Vo' causato forse da qualcuno arrivato dalla Cina, al momento non è legato al focolaio di Codogno". Fabio Tonacci il 29 febbraio 2020 su La Repubblica. Non hanno fatto viaggi in Cina. Non hanno avuto contatti con persone tornate dalla Cina. Raramente escono di casa. Vivono da soli. Non hanno frequentato luoghi a rischio. Tutti i loro famigliari sono negativi al virus. E allora, com'è che i due anziani di Venezia - il primo di 86 anni, il secondo di 88, residenti in due quartieri distinti del centro storico e ora ricoverati all'ospedale Civile - hanno il Coronavirus? Nove giorni dopo la scoperta del focolaio veneto, questo è il più oscuro dei misteri che l'indagine epidemiologica dei "cacciatori di virus" dovrà chiarire. "Una spiegazione plausibile c'è...", dice la dottoressa Francesca Russo, mentre in un ufficio dell'Unità di crisi della Protezione civile a Marghera scartabella i report della diffusione del contagio (dati aggiornati a sabato 29 febbraio, ore 18: 195 casi confermati a Vo', Mirano, Venezia, Limena, Treviso e Vicenza, uno a Belluno). "La storia dei due anziani dimostra che il virus circola in Europa da molto tempo, almeno da un mese prima rispetto a venerdì 21 febbraio, quando sono stati diagnosticati i due casi di Vo'. E questo, ora, rende del tutto inutile la ricerca del paziente zero". La dottoressa Russo guida la Direzione Prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto, a lei fa capo il team di medici dei Servizi di Igiene e Sanità Pubblica (Sisp) delle Asl coinvolte dall'epidemia.

Può spiegare meglio?

"Riteniamo che il virus circolasse sotto traccia da tempo, insieme con il normale virus influenzale. Nei soggetti debilitati, però, ha provocato polmoniti. Il virus è arrivato in Europa in un momento imprecisato e ha dato luogo ai primi contagi in Germania, poi in Francia, e poi abbiamo avuto i nostri. Può essere stato portato in Italia da chiunque".

Sta dicendo che era impossibile bloccarlo?

"Esatto. Essendo presente anche negli asintomatici, cioè in persone che stanno bene e non hanno tosse o febbre, non c'erano misure realistiche per proteggere il Paese dall'epidemia. E non sappiamo chi sia il paziente zero dell'Italia: può essere uno straniero, ad esempio un turista tedesco, francese o cinese, oppure un italiano di rientro dall'estero".

La vostra indagine a cosa è arrivata?

"In questo momento rileviamo due situazioni di contagio: la prima è legata al criterio epidemiologico, cioè riguarda soggetti infetti che provengono dalla Cina oppure che si sono contagiati qui stando a contatto con loro; la seconda riguarda i casi che si sono manifestati perché il virus circola in Europa. Non è corretto dire in Italia, meglio dire in Europa".

E perché non serve più trovare il paziente zero?

"Perché il livello di attenzione si è alzato su entrambi i fronti".

Adesso i tamponi vengono fatti solo a pazienti con sintomi, prima li facevate a tutti. È stato un errore?

"Ci siamo attenuti alle direttive ministeriali. E fare i tamponi agli asintomatici ci ha comunque fatto capire che può risultare positiva anche la persona che non ha viaggiato e sta benissimo".

Come è nato il contagio a Vo', dove ad oggi ci sono 78 casi confermati?

"Ipotizziamo che possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, perché il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico".

Però gli otto cinesi del paese sono risultati negativi al test.

"Sì, ma è anche vero che due di loro erano tornati dalla Cina appena venti giorni prima dell'esame. Potrebbero essersi 'negativizzati', quindi stiamo facendo ulteriori approfondimenti".

Il locale pubblico in questione è un B&B. Può essere che a portare il virus sia stato un turista di passaggio?

"Sì. Una ventina di clienti è stata rintracciata dal ministero della Salute per essere sottoposta al tampone".

Il cluster di Vò è collegato agli altri del Veneto o a quello di Codogno?

"Al momento non ci risulta".

La Lombardia ed il Veneto hanno contagiato tutta l'Italia. I focolai nelle altre regioni sono spesso riconducibili ad infettati provenienti dalle zone rosse dell’Italia del Nord.

(ANSA il 3 marzo 2020) - Un settantunenne positivo al Coronavirus è scappato dall'ospedale Sant'Anna di Como ed è ritornato a casa in taxi nella provincia di Bergamo. Il tutto, riferiscono i media locali, è successo ieri mattina. L'uomo era stato trasferito dalla Bergamasca a Como ed era ricoverato in isolamento nel reparto di malattie infettive. Ma ormai si sentiva bene e quindi, dopo il controllo di primo mattino, ha preso le sue cose, chiamato un taxi ed è tornato a casa a Casnigo. Quando in ospedale si sono accorti della sua assenza, durante il giro di visite, hanno avvisato i carabinieri. I militari di Bergamo sono andati nella sua abitazione e lo hanno denunciato per inosservanza ai provvedimenti dell'autorità. Il tassista che, ignaro, lo ha accompagnato a casa ha deciso di mettersi in auto quarantena e sta valutando di denunciarlo.

L'OMS ALZA IL LIVELLO D'ALLERTA 14 PAESI CONTAGIATI DALL'ITALIA. Cristiana Mangani per “il Messaggero”. L'epidemia globale di coronavirus continua ad allarmare. Ieri l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso di alzare l'allerta sulla sua minaccia, portandola da alta a «molto alta». Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha ammesso che l'aumento di casi nei Paesi colpiti è motivo di enorme preoccupazione, dopo aver già parlato di «potenziale pandemico» del Covid-19. A Ginevra, sede dell'Oms, è stato annullato il Salone dell'auto, in programma dal 5 al 15 marzo con 600.000 visitatori previsti. Stessa cosa a Berlino, dove si doveva svolgere dal 4 all'8 marzo la fiera del Turismo: i contagi in Germania sono raddoppiati e continuano a crescere anche in Francia, con 19 nuovi casi. Il ministro della Salute di Parigi ha raccomandato di evitare le strette di mano. «Non abbiamo ancora evidenze che il virus si stia diffondendo liberamente nelle comunità. Fin quando la situazione è questa, abbiamo ancora una chance di contenerlo», ha dichiarato Tedros, ricordando che ci sono più di 20 vaccini globalmente sotto sviluppo e trattamenti molteplici nella fase clinica, con risultati attesi «in poche settimane». Lo scenario di sicuro diventa sempre più complesso perché, come ha aggiunto il direttore generale dell'Oms, ci sono da giovedì «i primi casi in Danimarca, Estonia, Lituania, Paesi Bassi, Nigeria. Tutti legati all'Italia» e «24 casi sono stati esportati dall'Italia in 14 Paesi, mentre 97 dall'Iran in 11 Paesi». A fronte di questo quadro gli Usa hanno elevato l'allerta nei confronti dell'Italia al livello 3 - lo stesso di Cina e Corea del Sud - con la quale si raccomanda ai cittadini americani di riconsiderare tutti i viaggi verso il nostro Paese a causa dell'emergenza coronavirus, evitando quelli che non sono necessari. Così mentre la Cina comincia a diffondere dati incoraggianti: 44 morti e 327 casi aggiuntivi di contagio, al livello più basso da oltre un mese, altrove la situazione è preoccupante. Da ieri nella black list del contagio è entrata anche l'Islanda, con un ottantenne tornato dal Nord Italia. Sono già quasi una ventina gli Stati interessati. Alcuni riguardano persone che hanno fatto viaggi all'estero per lavoro, o per turismo. E ci sono anche stranieri che hanno soggiornato nelle regioni italiane colpite e hanno portato con loro il coronavirus. A dare l'annuncio di una presenza della malattia in Nigeria, è stato il ministero della salute: «Riguarda un cittadino italiano che è tornato da Milano a Lagos dove lavora, il 25 febbraio - è stato spiegato - Il paziente è clinicamente stabile, senza sintomi gravi». Ma la notizia preoccupa particolarmente, perché la Nigeria è il Paese più popoloso dell'Africa, con circa 200 milioni di abitanti, prima nazione al mondo con più abitanti in povertà estrema, davanti all'India. Con un sistema sanitario, certamente non in grado di sopportare una epidemia. Anche l'Olanda ha annunciato il primo caso: una persona a Tilburg che era rientrata dal Nord Italia. Un turista danese, invece, aveva trascorso una vacanza vicino a Sondrio. Un italiano di 34 anni è il primo con l'infezione in Messico. Una donna tornata da Verona il 24 febbraio è in isolamento in Lituania, un dipendente dell'Eni è il primo caso accertato in Algeria. L'elenco continua con la Romania, la Croazia, l'Austria, e molti altri ancora. Infine, si aggrava il bilancio dell'epidemia in Iran, dove da ieri il Parlamento è chiuso sine die dopo che l'infezione ha colpito diversi deputati e alti funzionari, tra cui la vice presidente Masume Ibtikar: altre 8 persone sono morte nelle ultime 24 ore, portando il totale a 34, il numero più alto fuori dalla Cina, che ha inviato un suo team di gestione delle emergenze in soccorso di Teheran. Il numero di contagiati è salito inoltre a 388, cioè 143 in più di ieri, secondo il ministero della Salute. Ma fonti interne al sistema sanitario locale hanno riferito alla Bbc che le vittime sarebbero almeno 210 con migliaia di contagi.

(ANSA il 2 marzo 2020) - La provincia cinese orientale dello Zhejiang segna il primo caso di "contagio di ritorno" del coronavirus dall'Italia, dopo quelli quasi tutti legati all'Iran di Pechino, del Guangdong e della regione autonoma Ningxia Hui. La commissione sanitaria locale, scrive il Global Times, ha riferito che la positività ai test è maturata ieri: Wang, questo il cognome della donna di 31 anni, era rientrata da Milano a Qingtian, contea della Zhejiang, il 28 febbraio. La paziente ha preso medicine dal 16 febbraio ai primi sintomi di febbre, tosse e diarrea.

Adnkronos 21/02/2020. "Sono a 15 km da Codogno? Sono tranquillo, c'è una buona sanità sia in Lombardia che in Emilia Romagna".

Bersani: “E se il virus lo avessimo già avuto in casa prima che scoppiasse in Cina?” Bersani: "Correvamo dietro ai cinesi ma lo stavano propagando gli italiani". La7.it 27/02/2020. Pierluigi Bersani si collega con L'aria che tira dalla sua casa di Piacenza, che dista una quindicina di km da Codogno, comune sotto i riflettori per i casi di coronavirus individuati in Lombardia. "La cosa è seria ma bisogna prenderla senza panico", dice Bersani. Pier Luigi Bersani a Piazza Pulita del 27 Febbraio 2020 : “In quelle zone lì il rapporto di attività e di scambio con la Cina è quotidiano. Il primo contagio potrebbe essere anche avvenuto a dicembre…” “Io non sono un virologo e nemmeno un infettivologo, ma ragiono. Di tutti i contagiati che abbiamo trovato in Italia non ce n’è uno che venisse dalla Cina o che avesse avuto a che fare con un cinese”.

Queste le parole di Pierluigi Bersani, ospite di Mario Giordano nella trasmissione di Rete 4, Fuori dal Coro del 25 febbraio 2020. “Mi viene il dubbio – conclude Bersani – che il virus ce l’avessimo già in casa prima dell’allarme, che noi corressimo dietro ai cinesi mentre lo stavano già propagando gli italiani”.

Coronavirus, il sindaco di Borgonovo Valtidone infetto: "Non mi spiego come possa essere stato contagiato". Libero Quotidiano il 2 Marzo 2020. Tra i nuovi contagiati dal coronavirus c'è anche il vicesindaco di Borgonovo Val Tidone, comune del Piacentino in quarantena. E insieme a Domenico Mazzocchi, si è presentato in ospedale anche il suo sindaco, l'omonimo Pietro Mazzocchi. Ha febbre alta da una settimana, "fissa sui 39. Speravo passasse e invece non è andata così. A peggiorare il quadro un gran mal di testa. Sono in queste condizioni dal 23 febbraio. Poi non ce l'ho più fatta", ha spiegato al Quotidiano nazionale. Il sindaco è stato dimesso, ma la paura resta così come i dubbi. "Non me lo spiego, semplicemente. Da sette giorni ho 39 di febbre e non capisco come ho fatto a contrarre il virus perché se si fa eccezione per qualche impegno di lavoro a Piacenza, sono sempre stato qui: non mi sono mai mosso da Borgonovo. Ho ripercorso tutti gli spostamenti delle ultime settimane ma niente: non riesco a risalire a un possibile contagio". Anche nel piccolo Comune piacentino, dunque, si scatena la caccia all'untore, il "paziente zero", proprio come accaduto ormai 10 giorni fa a Codogno. "Il fatto di non sapere come l' infezione sia arrivata in paese mette un po' di ansia. Ribadisco: né io né i miei collaboratori siamo stati nelle zone del focolaio. Inspiegabile". Anche il resto della giunta è in quarantena, mentre per alcuni dipendenti è stato disposto il test del tampone. "È una settimana che sono a pezzi, sto male sul serio e posso dirle che, prima di recarmi in ospedale, essendo rimasto sempre in casa non ho avuto bisogno di alcun tipo di protezione", conclude il sindaco. 

Zone rosse attorno ai focolai, il governo invia oltre 500 agenti. Personale di polizia, carabinieri e finanza ai varchi organizzati attorno alle città. E resta l’opzione di utilizzare l’Esercito. Posti di blocco della polizia nelle vicinanze di Casalpusterlengo. La Stampa il 24 Febbraio 2020. Il governo, e i presidenti delle Regioni Veneto e Lombardia, hanno preso le loro decisioni. Alle 17 in punto di ieri, con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale, è scattata l’ora X. E da quel momento spetta alle forze di polizia far rispettare la zona rossa attorno ai focolai dell’infezione. Il Capo della polizia, Franco Gabrielli, che al mattino ha presieduto una riunione operativa, ha mobilitato chi poteva partire. E perciò nel corso della giornata i prefetti di Lodi e di Padova hanno ottenuto i rinforzi. Sono 500 tra agenti finanzieri e carabinieri, uomini e donne, che andranno a presidiare le due «cinture sanitarie». Coronavirus, a Casalpusterlengo scattano i posti di blocco. Come comunicato da prefetti e questori, per rendere invalicabili le due aree, è stato necessario organizzare 8 posti di blocco attorno a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, e 35 altri posti di blocco nel Lodigiano. Ogni punto di entrata richiederà almeno 10 persone nell’arco delle 24 ore. Le forze provengono dai reparti mobili e dai reparti di prevenzione del crimine. Sono quei reparti che abitualmente possono spostarsi sul territorio nazionale con agilità. Mai prima, però, era stato necessario uno sforzo così massiccio, da protrarsi come minimo per i prossimi quindici giorni, e senza interruzione nella notte. Quindi al Dipartimento di Pubblica sicurezza non si fanno illusioni: per il momento non è stato necessario ricorrere all’esercito, ma un domani, se saltasse fuori che occorre rinchiudere altre aree-focolaio, le tre forze di polizia non ce la faranno più. Il ricorso all’esercito, però, è un’extrema ratio che il governo vorrebbe scongiurare per ovvi motivi politici e d’immagine. Anche internazionale. All’interno delle due zone rosse, comunque, non è vietato muoversi anche se ci saranno più autopattuglie del solito per i controlli. I prefetti hanno subito fatto presente al governo che però non sarebbero stati mai in grado di garantire gli approvvigionamenti alimentari e sanitari per così tanta gente. È stata prevista, allora, nella regola generale di chiudere scuole e punti di aggregazione, un’eccezione per i rifornimenti: i furgoni avranno deroghe speciali, la polizia garantirà dei “corridoi dedicati” in orari e tragitti indicati, e così i negozi di alimentari e le farmacie potranno e dovranno lavorare anche in condizioni di emergenza. Unica prescrizione obbligatoria: sia chi avrà rapporti con il pubblico, sia gli autisti privati, dovranno dotarsi della strumentazione sanitaria di prevenzione. Anche gli agenti e i carabinieri impegnati nelle aree del contagio dovranno essere protetti adeguatamente. Lo ha richiesto il sindacato (ad esempio Daniele Tissone, del Silp-Cgil, che ha scritto al prefetto Gabrielli chiedendo «garanzie») e lo prevede una circolare emessa dalla Direzione centrale di sanità della Ps. E quindi gli agenti dovranno indossare i «dispositivi di protezione individuale», ovvero guanti e mascherine. Che però non sono infiniti e andranno preferibilmente alle pattuglie impegnate sulla strada, per i «servizi ad immediato contatto con il pubblico». Gli agenti sono stati anche istruiti, al primo sintomo di influenza, anche lieve, di segnalarlo telefonicamente ai superiori, ai propri medici curanti, e all’ufficio sanitario della polizia. Non dovranno assolutamente recarsi in un pronto soccorso, o in ufficio sanitario della polizia, perché altrimenti si presterebbero a diffondere il virus. Più in generale, la polizia cercherà di allestire uffici protetti per il contatto con il pubblico, in primis gli uffici per stranieri o quelli per la concessione dei passaporti. E anche il personale in servizio nelle stazioni, negli aeroporti, e sui treni, dovranno indossare la mascherina. I treni, infatti, e le stazioni, vengono considerati luoghi di potenziale rischio. Trenitalia a sua volta ha disposto che il personale viaggiante dovrà portare l’equipaggiamento protettivo; sui treni saranno installati i dispenser di disinfettante per le mani, si provvederà a pulire e disinfettare meglio i vagoni di tutti i treni, sia le Frecce che le linee dei pendolari. Chi ha già comprato un biglietto e voglia annullare il viaggio, ne avrà la possibilità senza rimetterci. E anche per il personale ferroviario si consiglia di rimanere a casa se ci sono sintomi influenzali. Le forze armate, intanto, sono state focalizzate sulla seconda emergenza del coronavirus, ossia le strutture per la quarantena di chi ha avuto contatti stretti con i contagiati. Tra esercito e aeronautica sono stati messi a disposizione della Protezione civile circa 5000 posti letto in diverse caserme nelle regioni del Nord. In tutta evidenza ci si prepara al picco dei contagi e ciò comporta, a cascata, che andranno isolate migliaia di persone, potenzialmente a rischio per sé e per gli altri. Le sistemazioni non saranno confortevoli come nella palazzina per gli sportivi militari della Cecchignola, non in stanze singole, ma in camere multiple, e molti uomini si ritroveranno a vivere l’esperienza di quando hanno prestato il servizio di leva.

Puglia, deputato leghista: "Chi ha autorizzato il paziente di Torricella a lasciare Codogno?" A chiederlo è l'onorevole barese della Lega, Rossano Sasso, in riferimento al primo caso di covid 19 della regione. Il caso dopo un post su Facebook del medico e consigliere regionale Giuseppe Turco. Emanuela Carucci, Lunedì 02/03/2020, su Il Giornale. Il caso del primo paziente di Coronavirus in Puglia ha creato molto scalpore. A parlarne in Parlamento anche l'onorevole pugliese della Lega, Rossano Sasso, che ha depositato un'interrogazione all'attenzione del ministro della salute, Roberto Speranza, e del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. Quello che non è chiaro al deputato barese è chi ha autorizzato il 33enne di Torricella, un Comune in provincia di Taranto, primo caso di covid 19 in Puglia, a ripartire da Codogno dove si era recato per trovare la mamma malata di Alzheimer e ricoverata in un centro medico specializzato (come specificato da lui stesso in una lettera pubblicata su un giornale locale). "Tutto è partito perché ho letto un post su Facebook di un consigliere regionale in quota ad una lista civica di Michele Emiliano che si chiama Giuseppe Turco, medico di Torricella. - dichiara a ilGiornale.it, Rossano Sasso -Lui stesso ha dichiarato che il 33enne il 24 febbraio scorso sarebbe uscito dalla zona rossa (di Codogno) e ho chiesto (nell'interrogazione) come mai una persona in pieno divieto sia riuscita a tornare a casa.". Nel suo post, Giuseppe Turco ha scritto: "Un nostro concittadino dal 19 al 24 febbraio ha soggiornato a Codogno. Da Codogno lo hanno tranquillizzato a ripartire per Torricella rispettando la quarantena". "Il 33enne ha preso un aereo da Milano diretto a Brindisi. E proprio pochi giorni prima avevo fatto approvare un ordine del giorno con cui lamentavo il fatto che venissero effettuati i controlli con il termoscan (si tratta di termometri di ultima generazione, ndr), soltanto per chi proveniva da voli internazionali o da Roma. Guarda caso due giorni dopo, uno che ha preso il volo da Milano non è stato monitorato, libero di andare in giro e infettare chiunque". Come è riportato nell'interrogazione parlamentare, "è notorio a tutti che vi era l'assoluto divieto per chiunque a lasciare Codogno già a partire dal 23 febbraio". A questo punto l'onorevole Sasso, che ha comunque augurato una pronta guarigione al 33enne di Torricella, ha chiesto ai ministri Lamorgese e Speranza, "se corrisponda al vero che l'uomo sia stato autorizzato a lasciare il comune di Codogno in vigenza del decreto del presidente del consiglio dei ministri del 23 febbraio 2020 e come sia stato possibile il suo allontanamento da tale zona, infine, alla luce di quanto accaduto, quali iniziative intendano assumere, ognuno per quanto di propria competenza, a tale riguardo.". Effettivamente, il 23 febbraio il governo ha approvato il decreto legge per "prevenire e contrastare l'ulteriore trasmissione del virus". Il 24 febbraio, poi, il governatore della Puglia, Michele Emiliano, come accaduto anche in altre regioni, ha emesso un'ordinanza secondo cui chiunque fosse rientrato dalla Lombardia, dall'Emilia Romagna, dal Piemonte e dal Veneto avrebbe dovuto comunicarlo alle autorità competenti. "Secondo quanto riferito dal consigliere regionale, - continua l'interrogazione posta all'attenzione dei due ministri - l’uomo sarebbe stato autorizzato a lasciare Codogno il giorno successivo all’entrata in vigore del decreto. Pertanto, se fosse vero, tutto ciò sarebbe avvenuto in violazione di legge oltre che senza alcun riguardo al più elementare senso civico e di rispetto della comunità locale." L'uomo per rientrare a Torricella ha, infatti, utilizzato diversi mezzi di trasporto, tra cui un volo aereo, venendo, quindi, a contatto con molte persone. Rimane, dunque, il dubbio su chi ha permesso al 33enne di partire dopo essere stato a Codogno.

"Fuori cinesi, lombardi e veneti". Il Sud si barrica (e teme il contagio). Dopo il Molise, anche Ischia «respinge» i turisti Ordinanza cancellata, ma cresce il malumore. Paola Fucilieri, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. «Alla biglietteria del porto di Napoli, davanti al nostro accento marcato, ci hanno chiesto da dove arriviamo. E quando abbiamo dichiarato di essere veneti di Mestre, ci hanno fatto parlare prima con la polizia e poi con il capitano. Che, più possibilista degli agenti, ha fatto salire me e mia moglie sul traghetto diretto a Ischia. Dal quale siamo dovuti però scendere in fretta e furia perché a quel punto tra gli isolani a bordo è scoppiata una vera e propria rivolta. Praticamente ci hanno mandati via. Trattati come untori, abbiamo rinunciato a una vacanza prenotata (e pagata) da due mesi. Avviliti, siamo tornati a casa. Cos'altro potevamo fare?». Contagiati e pronti a infettare tutti. Così ci vedono nelle zone d'Italia (finora) non colpite dal Coronavirus e così non ci vogliono, in particolare al sud. Certo: proteggersi è sacrosanto e serrare i ranghi in situazioni di pericolo più che giustificabile. Consapevoli però che certe paure, molte delle quali davvero eccessive e premature, rischiano di offuscare i veri problemi meritevoli di maggiore attenzione. Tra questi, facendo i dovuti scongiuri, anche l'eventualità purtroppo tutt'altro che remota, che il virus si espanda anche in Meridione. Ieri alle 17 la coppia di mestrini che hanno parlato con noi (69 anni lui, 67enne lei) sono dovuti rientrare in Veneto dopo che l'ordinanza dei sindaci di Ischia dalla mattina aveva imposto il divieto di sbarco temporaneo sull'«isola verde», oltre ai cinesi provenienti dalle aree dell'epidemia e a chi vi abbia soggiornato negli ultimi 14 giorni - esplicitamente a tutti «i residenti in Lombardia e in Veneto». Giustificando il provvedimento, attraverso frasi ben costruite e zeppe di ridondante prudenza, con «l'elevato volume di arrivi turistici» anche d'inverno e «le difficoltà che comporterebbe dover fronteggiare casi di contagio» nel loro territorio «che dispone di un solo ospedale e ed è svantaggiato dal punto di vista dei collegamenti». Un divieto annullato in serata (purtroppo poco dopo che la nostra coppia era salita in treno per tornarsene in Veneto) dal prefetto di Napoli, Marco Valentini. Con la preoccupazione rivolta ai concittadini isolani, ma anche l'attenzione a non scadere in una immotivata forma di isteria collettiva che già fa parlare molti di una forma di razzismo, il prefetto ha disposto che le forze dell'ordine identifichino sì in ambito portuale i cittadini provenienti da Lombardia e Veneto e diretti a Ischia, ma solo per accertare la loro eventuale residenza «nei comuni già individuati dall'autorità sanitaria, nei quali sussiste un cluster di infezione di virus». E, solo in quel caso, impedirne l'imbarco. Mentre la Regione Puglia prepara un'ordinanza per la segnalazione preventiva al medico di base di tutti coloro che stanno rientrando dal Nord e lancia un appello a non presentarsi in ospedale, ma a contattare i numeri di emergenza, vero primatista si rivela il sindaco di Montefusco (Avellino). Che già sabato sera ha timbrato l'«invito» a non lasciare il domicilio irpino e a seguire rigorosamente le disposizioni profilattiche nei confronti di un concittadino 27enne che fa il cameriere nel comune lodigiano dove si annida il focolaio del contagio, Codogno. Il ragazzo aveva appena raggiunto la casa dei genitori dopo aver viaggiato tutta la notte in auto, eludendo gli obblighi di chi si trova nelle zone colpite dal Coronavirus. Stesso trattamento ieri per altri due fratelli irpini, anche loro operai a Codogno, località che hanno abbandonato per tornare in autobus in famiglia, a Lauro. Così il sindaco ha disposto la quarantena per tutte le famiglie che abitano nello stesso condominio e l'azienda trasporti locale ha disinfestato, senza eccezioni, tutti i mezzi della sua flotta. Fa riflettere infine il provvedimento del sindaco di Praia a Mare (Cosenza). Nel quale si ordina che «tutti gli interessati da spostamenti da e per le zone del Nord Italia coinvolte dal focolaio, lo comunichino con urgenza» all'amministrazione comunale. Precisando, tanto per non sbagliare, che per aree di diffusione del Coronavirus, sono da intendere «anche le città di Milano e Torino». E Padova? Mah!

Coronavirus, Rita Dalla Chiesa: "Gli insulti dalla signora? Fuori di testa, stop vacanze ad Ischia". Libero Quotidiano il 29 Febbraio 2020. Continua a tenere banco il caso di Ischia, dove domenica scorsa una donna aveva inveito contro alcuni turisti arrivati da Lombardia e Veneto. Un caso isolato che però ha avuto una lunga scia di polemiche, soprattutto per via della dura presa di posizione di Rita Dalla Chiesa. La quale su Twitter si è espressa così: "Ma la signora di Ischia? Amici del Nord ci sono tanti di quei posti belli in Italia che possiamo vivere anche se non andiamo a Ischia. Ricordiamocelo soprattutto per le vacanze estive... Anche se non è giusto che per colpa di una fuori di testa paghino anche gli altri". L'appello a boicottare Ischia è circolato velocemente in rete, ma il sindaco Enzo Ferrandino ha provato a correre ai ripari: "Nessuna discriminazione razzista, la nostra terra è votata da sempre all'accoglienza e la nostra intenzione è esclusivamente quella di tutelare il diritto alla salute di isolani e turisti". E sul post di Rita Della Chiesa il primo cittadino si è detto sorpreso: "La invito presto a Ischia per farle toccare con mano il nostro millenario spirito di accoglienza".

Coronavirus a Ischia: “I miei genitori a contatto con l'uomo risultato positivo e senza tampone”. Monica Skripka su Le iene News il 06 marzo 2020. Iene.it raccoglie la testimonianza di Cristiano (nome di fantasia), figlio di una coppia di anziani in viaggio di gruppo a Ischia a contatto con un contagiato dal coronavirus. La soluzione della Protezione civile sarebbe stata quella di imbarcarli e rispedirli nelle loro città di origine insieme alla moglie dell’uomo risultato positivo. Le immagini degli ischitani che cercavano di impedire l’arrivo dei pullman carichi di turisti settentrionali hanno fatto il giro del web. E come ci aveva spiegato Teresa, intervistata da Giulia Innocenzi a Iene.it, “la paura è che arrivi il coronavirus: sulla nostra isola non saremmo attrezzati con il nostro unico ospedale”. Ma era solo una questione di tempo, perché il coronavirus è davvero sbarcato sull’isola. Cristiano (nome di fantasia) ci ha contattato per raccontarci la disavventura, e la paura, che hanno vissuto i suoi anziani genitori. La coppia bresciana parte per una vacanza organizzata con destinazione Ischia, proprio il giorno successivo allo scoppio dell’emergenza coronavirus. E appena sbarcano sull’isola un turista del gruppo si sente male, e dopo il ricovero presso l’ospedale di Ischia si scopre che ha il coronavirus. “Il paziente risultato positivo al coronavirus viene trasferito nell’ospedale di Napoli”, ci spiega Cristiano. “I miei genitori”, continua, “insieme agli altri turisti, circa un centinaio, sono stati convocati nell’albergo dove alloggiavano da una persona in tuta bianca e mascherina. A tutti è stata misurata la temperatura e, finita la riunione, hanno chiesto di rimanere in camera fino a nuove istruzioni”. L’operazione si chiude con un applauso, come potete vedere nel video sopra. La Protezione civile però non avrebbe sottoposto nessuno di loro a un tampone perché “non sarebbe stato necessario farlo”. Le direttive vigenti, infatti, consiglierebbero di fare il tampone soltanto a chi presenti i sintomi. Qualche ora dopo, la madre del ragazzo l’ha chiamato dicendo: “Ci hanno imbarcati e rispediti verso Milano. Con noi c’è anche la moglie dell’uomo risultato positivo!”. La preoccupazione di Cristiano, oltre che ovviamente per i suoi genitori, è anche per se stesso e la sua famiglia: “Perché li hanno messi tutti insieme? Se una struttura per il contenimento era già disponibile con tanto di hotel pagato fino a domenica, non sarebbe stato meglio fare analisi più approfondite prima di raggrupparli tutti per il trasferimento?”. Infatti la decisione che è stata presa è stata quella di fornirli di più mascherine a testa e di imbarcali prima su un traghetto speciale per Napoli e poi su bus della Croce Rossa per riportarli a casa. "Ma bastano le mascherine quando si è a contatto con tante altre persone in un interminabile viaggio di 10 ore?", continua Cristiano. Perché arrivati alle porte di Milano, si sarebbe poi proceduto allo smistamento con bus più piccoli, con ogni membro del gruppo che sarebbe stato accompagnato alla propria abitazione. 

Oggi, come ci racconta, sono stati contattati dall’Asl locale e gli hanno detto di rimanere in isolamento per 7/14 giorni. E il tampone? “Niente tampone, a meno che non mostrino febbre o segni di malattia”, ci dice Cristiano.

Coronavirus, l'appello di Musumeci: "Meglio che i turisti dal nord non vengano". Il governatore Musumeci ha invitato i turisti provenienti dalle regioni di Lombardia e Veneto a rimandare il viaggio in Sicilia per evitare di trasmettere il virus. Roberto Chifari, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. Dopo l'appello al premier Conte, il governatore regionale Nello Musumeci ha commentato il contagio di coronavirus che ha colpito l'Isola. I casi acclarati a Palermo e Catania, dimostrano che il virus sarebbe arrivato da persone in viaggio da Milano e Bergamo verso la Sicilia. E allora il numero uno della Regione ha voluto mettere le mani avanti. "Voi immaginate se il focolaio fosse nato in Sicilia e un siciliano avesse portato il coronavirus in Lombardia o in Veneto? Potevamo scappare". Il governatore è tornato a parlare dell'emergenza coronavirus in occasione della presentazione del progetto Garanzia giovani 2. "Tutto può accadere, ma se ci fossero controlli minimi all'accesso in Sicilia eviteremo alcune situazioni - ha detto ai cronisti presenti -. Nessuno vuole alimentare polemiche ma è mai possibile che la gente arriva dalla Lombardia e dal Veneto e nessuno controlli? Quanta gente arriva dal Nord in treno e nessuno li controlla alla stazione di Messina. Eppure lo Stato ritiene di avere fatto tutto quanto era necessario nel controllo dei passeggeri in arrivo. Se un cittadino arriva dal Nord avverte il senso di responsabilità di comunicarlo alle autorità sanitarie, lo tengono sotto monitoraggio. Intanto sarebbe bene non arrivassero turisti dal Nord". Dopo un'ora dalle parole del presidente è arrivata una nota ufficiale dalla presidenza della Regione. Un modo anche per spegnere sul nascere eventuali polemiche. "L'ho detto, e lo ripeto, i turisti provenienti dalle zone gialle farebbero meglio a rimandare di qualche settimana il loro arrivo in Sicilia. Il mio è un appello alla prudenza, nell'interesse di tutti. La Sicilia è e resta, finora, una regione sicura, dove trascorrere la vacanza in un clima assai propizio. Per questo da giorni invito tutti, anche certa stampa, a non fare terrorismo psicologico. In ogni caso, chi arriva da una zona colpita dall'epidemia ha il dovere di informare le autorità sanitarie siciliane, come stabilito dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri". Appena tre giorni fa, il governatore aveva avvisato tutti sul rischio contagio. "Migliaia di altri cittadini italiani e stranieri sono arrivati in Sicilia senza un'accurata azione di controllo. Non c'è un allarme, ma qualcuno deve darci risposte e garanzie". Ieri invece la stoccata è stata per limitare, voi possibile lo sbarco dei migranti in tutti i porti dell'Isola. Un appello che il governo Conte non ha preso in considerazione. "Viviamo una condizione di assoluta difficoltà - ha aggiunto - ed è probabile che l'emergenza possa provocare ulteriori negative ricadute sul mondo delle imprese. Guardiamo con attenzione ma anche qualche apprensione alle iniziative che il governo nazionale vorrà promuovere a sostegno di quelle imprese - ha proseguito Musumeci -. Penso, ad esempio, a quelle turistiche, che già vedono l'annullamento di decine di prenotazioni da ogni parte del mondo. Abbiamo il dovere e anche la responsabilità di dire che la Sicilia non è una terra in cui non si può sbarcare, non si può atterrare - ha ribadito - Semmai servono controlli per i professionisti, turisti, studenti e per i migranti", conclude. 

Invettiva di Tania Pontrelli (DB) contro gli untori mass-mediatici. Redazione siciliaogginotizie.it il 29 Febbraio 2020. La Sicilia non è fortunatamente in stato di emergenza in tema di  Coronavirus, non essendosi sviluppati focolai autoctoni ma – diciamo così – solo d’importazione. Eppure, basti pensare a quello che sta accadendo in Lombardia dove, in alcuni ospedali, si comincia a vedere il "vero rischio potenziale" del virus, la problematicità nel contrastare il contagio che ne deriverebbe se questo dovesse assumere proporzioni insostenibili. È del tutto ovvio, quindi, che il buon senso e la prudenza in un contesto che potenzialmente potrebbe trasformarsi in vera e propria emergenza sanitaria, dovrebbero suggerire maggiori controlli sugli arrivi in Sicilia, siano essi via mare, via terra, via aerea. E il buon senso, atteggiamento che ultimamente un po’ tutti ignoriamo, dovrebbe imporre alla classe dirigente del Paese di limitare il più possibile la diffusione del virus. Che, in quest’ottica, il Presidente della Regione Siciliana rivendichi maggiori controlli al porto di Messina (dove arrivano con i traghetti gran parte dei viaggiatori provenienti dal Continente), negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, è quindi sacrosanto. Oltre che logico, opportuno, sensato, dentro le righe della legittimità e del ruolo. Che, in quest’ottica, il Presidente della Regione Siciliana inviti alla prudenza ed al senso di responsabilità di ognuno di noi, richiamando il principio della autodeterminazione laddove ciascuno dovesse accusare sintomi preoccupanti, è altrettanto sacrosanto, logico, opportuno, sensato, dentro le righe della legittimità e del ruolo. Ciò che invece risulta inaccettabile, mostruoso, ipocrita e schifoso è che (a fronte di questo invito alla prudenza e di una legittima rivendicazione di maggiori controlli) si sia alzata una levata di scudi contro quell’affermazione che certa stampa ha preferito decontestualizzare da un discorso più ampio e generale e che attraverso i social si sia propagata più velocemente del virus: “… è meglio che i turisti del Nord non vengano per ora in Sicilia”, hanno scritto gli untori mass-mediatici. Ed ecco che improvvisati sciacalli, finti buonisti, “novelli Cavour”, riemersi dall’anonimato delle loro esistenze non hanno esitato un solo istante, per un’ora di visibilità mediatica, giusto il tempo di acchiappare qualche like, per strumentalizzare il senso di quella dichiarazione e tentare di massacrare politicamente il Presidente. Ancora più inaccettabile che questa “indignazione” sia giunta da taluni elementi del centrodestra o presunti tali, magari animati dalla voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa nei confronti di un Presidente che non risponde esattamente ai loro desiderata. In quest’orgia di isteria collettiva, al ritmo ossessivo di notizie più o meno incoraggianti che trapelano attraverso i media, l’unico dato certo è che Nello Musumeci è il Presidente dei Siciliani, sta difendendo la salute dei Siciliani medesimi. Trasformare questa sacrosanta legittima difesa, addirittura in una diatriba Nord–Sud, rivendicando strumentalmente il ruolo della Nazione unita, come pure è stato detto ieri sera da qualche esponente politico, è fuorviante, ridicolo e offensivo. Significa manipolare per comunicare. Significa decontestualizzare e manipolare per un’oncia di visibilità mediatica o, peggio ancora, per finalità oscure di chi ama agire   affidandosi a manipolazioni grossolane e vigliacche, frutto di disonestà intellettuale. “La Sicilia non è una terra in cui non si può sbarcare e non si può atterrare: però servono controlli perché non è possibile che i due casi registrati di positività al coronavirus riguardano turisti del Nord perché nella nostra isola non c’è un focolaio. Sarebbe meglio che i turisti dal Nord non venissero”. «L’ho detto, e lo ripeto, i turisti provenienti dalle zone gialle farebbero meglio a rimandare di qualche settimana il loro arrivo in Sicilia. Il mio è un appello alla prudenza, nell’interesse di tutti. La Sicilia è e resta, finora, una regione sicura, dove trascorrere la vacanza in un clima assai propizio. Per questo da giorni invito tutti, anche certa stampa, a non fare terrorismo psicologico. In ogni caso, chi arriva da una zona colpita dall’epidemia ha il dovere di informare le autorità sanitarie siciliane, come stabilito dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri». Questo e solo questo è il senso di un ragionamento onesto, responsabile, che alcuni irresponsabili hanno inteso strumentalizzare per motivi che niente hanno da spartire col Coronavirus e con la salute dei siciliani. Questa è la schiena dritta di un Presidente che ha a cuore, invece, solo ed esclusivamente la salute e il benessere del popolo che lo ha scelto, eletto.

Termino con le parole di Giovanni Marinetti: “Chi non capisce il senso di queste parole è in malafede. E anche un po’ razzista coi meridionali”. Lo dichiara Tania Pontrelli del Direttivo regionale di Diventerà Bellissima.

 Coronavirus, oltre mille contagi e 29 morti. Nel Foggiano 17 in isolamento volontario. Regione Puglia non condivide trasferta Atalanta. Scuole chiuse a Foggia fino al 4 marzo per sanificazione. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2020.

EMILIANO: REGIONE PUGLIA NON CONDIVIDE TRASFERTA ATALANTA - Per il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, «la decisione di consentire ai tifosi dell’Atalanta la trasferta a Lecce non è condivisa dalla Regione Puglia, perché si teme che questo esponga a inutili rischi di contagio. Condivido invece il comunicato del sindaco di Lecce Carlo Salvemini. La decisione del Ministero dello Sport, della Figc e del Coni di rinviare solo cinque delle partite del campionato di serie A previste per domenica 1 marzo è di difficile comprensione. Sarebbe stato preferibile procedere per tempo al rinvio dell’intera giornata calcistica con una motivazione unitaria di prevenzione».

«Il Governo ha deciso che si giocheranno regolarmente a porte aperte Lecce-Atalanta, Lazio-Bologna, Napoli-Torino senza alcun divieto di trasferta per i tifosi ospiti, di cui pure si è parlato nei giorni scorsi come provvedimento chiaramente auspicato dalla Regione Puglia e dal Comune di Lecce. La Regione Puglia, la Prefettura, la Asl territoriale, il Comune di Lecce e le altre autorità locali hanno dovuto prendere atto di questa decisione del Governo, e si attiveranno per fronteggiare al meglio la situazione prevedendo, in caso di riscontro di sintomi coerenti, l’attivazione di rigorosi protocolli sanitari. A tal fine saranno installate agli ingressi dello stadio dalla Asl di Lecce postazioni per uno screening sanitario di base destinato agli spettatori della partita sul modello di ció che accade negli aeroporti». «Postazioni - conclude - che provvederanno all’accoglienza degli ospiti cui saranno notificati gli interventi preventivi previsti dalle disposizioni ministeriali».

Io, "l'untore" tornato da Milano. Giacomo Susca, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Dove non sono riuscite le politiche del lavoro, a nulla è servito lo sbarco di una multinazionale o il reddito di cittadinanza, di sicuro ha potuto lo spettro del Coronavirus. Ma quale «Resto al Sud», semmai «Mi rifugio al Sud». Il Paese si ribalta di colpo e una buona fetta di emigrati al Nord va all'inseguimento di lidi fantastici immuni al contagio. Con scuole, università, cinema e perfino il baretto sotto casa chiusi, il coprifuoco imposto lassù in Padania si contrappone al buen retiro consentito a certe latitudini, dove almeno non sei costretto a girare per le strade in mascherina, anche se è Carnevale. Chi non si sente sicuro nel suo ufficio milanese non apre il sito dell'Oms in cerca di spiegazioni scientifiche, ma quello di Ryanair a caccia di un volo per riabbracciare la famiglia d'origine. Prendete in queste ore il ritorno in Puglia di tanti «cervelli in fuga», ma il discorso vale per tutte le altre regioni del Mezzogiorno. In tutti i paesi si rivedono facce che in genere incroci soltanto a Natale e nelle altre feste comandate, solo che stavolta la gente del posto quando incontra l'amico che vive a Lodi ci pensa su due volte prima di dargli la mano. E dentro casa l'entusiasmo per la sorpresa fuori stagione scema al primo starnuto, e se potessero le mamme di tanti fuorisede farebbero rassettare la stanza del figliol prodigo dall'équipe dello Spallanzani. Ma se a milanesi, torinesi e bergamaschi di momentaneo ritorno viene riservata un'accoglienza degna di un appestato (fino a tampone contrario), la colpa non è soltanto di chi, preso dall'ansia, in questi giorni sta guardando troppi speciali in tv. In Puglia è arrivata la «disposizione urgente in materia di Covid-19» firmata dal governatore Michele Emiliano, con cui tra le altre cose si invitano «tutti i cittadini che comunque rientrano in Puglia provenienti dal Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni, a comunicare la propria presenza nel territorio... al fine di permettere l'esercizio dei poteri di sorveglianza». Col risultato che ieri mattina era più facile riuscire a contattare il presidente cinese Xi che parlare al cellulare con il proprio medico di base. Studenti, impiegati di banca, operai e zie in visita ai nipotini si sono messi in coda negli uffici di Igiene e sanità pubblica dal Gargano al Salento, dove hanno diligentemente rilasciato nome, cognome, domicilio, data di arrivo e di partenza presunta alla fine dell'epidemia. «Mi raccomando, se nei prossimi giorni dovessero comparire sintomi influenzali, non esitate ad avvertirci... ma per telefono eh...!», spiegavano prudenti agli sportelli delle Asl. Tra prevenzione e psicosi, il contagio più veloce è quello del sospetto che trasforma in potenziali untori tutti coloro che studiano e lavorano al Nord, in regioni già dilaniate dalla frattura tra chi è partito e chi è rimasto. Forse il «paziente 0» del Coronavirus è proprio il buonsenso. E oggi non si sente tanto bene.

Post razzista (poi cancellato) del consigliere di Pavia: «Lombardi schifati da chi vive nei rifiuti». Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it. Lo ha scritto, pubblicato, e poi - dopo aver visto la bufera che ha scatenato - cancellato. Ma scripta manent, soprattutto nell’era dei social. E il post che il consigliere comunale di Pavia Niccolò Fraschini ha condiviso su Facebook sta facendo il giro del web. Un insulto gratuito contro i napoletani, implicita risposta a chi sta suggerendo ai lombardi di non recarsi al Sud per evitare di diffondere l’epidemia di coronavirus, come il governatore della Sicilia Musumeci. O da chi ha imposto la quarantena a chi viene dal Nord, come la Basilicata. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all’immondizia (napoletani et similia)», denuncia il consigliere, eletto con la lista di centrodestra Pavia prima e addetto stampa del Consiglio regionale della Lombardia. Il Consigliere Fraschini ne ha un po’ per tutti. Dopo l’attacco ai meridionali, continua «...da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati». Insomma chi osa imporre restrizioni a chi vive al Nord si prende il suo insulto. «Da queste persone non accettiamo lezioni di igiene - conclude — tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». Le risposte degli utenti al post non tardano ad arrivare. E non solo nei commenti — cancellati insieme alle stesse parole di Fraschini dopo poche ore — ma in tutta la sua pagina Facebook. Scrive uno: «Napoli come tutto il meridione ti può insegnare il senso civico..ho vissuto in lombardia per 8 anni quasi..meno male che non sono tutti come te».

Coronavirus, Fraschini (Prima Pavia) se la prende con i napoletani. Polemiche per un post su Facebook del consigliere comunale. "Noi lombardi trattati come untori. Non accetto lezioni da chi vive nell'immondizia". Il sindaco: "Inaccettabile, mi dissocio". Manuela Marziani su Il Giorno il 29 febbraio 2020. Sta sollevando un vespaio il post pubblicato su Facebook dal consigliere comunale di Pavia Prima, Niccolò Fraschini. "Ci è voluto il coronavirus - scrive Fraschini - per far sì che noi lombardi ottenessimo finalmente la #secessione. L'unica differenza è che sono gli altri a secedere da noi appestati e non viceversa!". E ha anche aggiunto: "Noi lombardi veniamo schifati da gente che vive nell'immondizia (napoletani et similia) o che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest ha le fogne popolare da bambini abbandonati". Immediatamente il sindaco Mario Fabrizio Fracassi, esponente della Lega, ha replicato a Fraschini (che in consiglio comunale sostiene la maggioranza di centrodestra): "Come primo cittadino di Pavia e come italiano - ha detto il sindaco Fracassi -, mi dissocio senza se e senza ma dalle dichiarazioni di Niccolò Fraschini, consigliere della lista civica 'Pavia Prima', così come si sono dissociati per intero la mia giunta e i consiglieri di maggioranza. Vorrei considerala solo un'uscita infelice, ma la denigrazione è inaccettabile e va sempre respinta. In questi giorni, poi, in cui dovrebbe prevalere l'unità nazionale di fronte alla crisi, fa ancora più male leggere certe frasi di italiani del Nord contro italiani del Sud e di italiani del Sud contro italiani del Nord, come avvenuto dopo i primi casi del coronavirus in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Il rispetto si deve a tutti. E attaccarci tra di noi, che siamo un unico popolo, è ancora più triste". E Fraschini ha provato a gettare acqua sul fuoco: "Sono sinceramente dispiaciuto - ha commentato - se qualcuno si è sentito offeso dai toni da me utilizzati. Il mio post era dettato da una comprensibile e diffusa esasperazione: da giorni noi lombardi siamo additati come untori e appestati nel resto del Paese e in altri Stati". 

Antonio Folle per ilmessaggero.it il 29 marzo 2020. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». È il post della vergogna lanciato sui social poche ore fa da Niccolò Fraschini, consigliere comunale di Pavia, eletto in una lista di centrodestra in appoggio al sindaco Fabrizio Fracassi. Un vero e proprio uragano di insulti ha costretto l'esponente del consiglio comunale a rimuovere il post incriminato e a "chiudere" la bacheca. Il web, però, non perdona e ormai da diverse ore lo screenshot del post sta circolando su Facebook, suscitando rabbia e indignazione. Una carriera all'insegna del "prima il nord" quella del trentaquattrenne esponente del consiglio comunale di Pavia che, sui suoi profili social - dove si definisce Europeista, liberale, attivo nel volontariato, sciatore, corridore, ottimista, testardo e juventino - mette spesso e volentieri nel mirino proprio i meridionali e le città del sud. Un chiodo fisso che non lo ha messo al riparo da dichiarazioni spesso al limite del razzismo e della discriminazione territoriale. «Sicilia e Sardegna - si legge in un suo commento relativo all'autonomia differenziata delle Regioni - le commissarierei e metterei solo commissari brianzoli per 10 anni, con poteri da stato d'assedio». Una comunicazione social decisamente sopra le righe quella del giovane consigliere comunale lombardo che, a chi gli faceva notare il contenuto razzista di alcuni commenti, poche settimane fa replicava: «Per me razzista non è un insulto. Forse non vi è chiaro. Ho ben altri difetti». Lo stesso Fraschini, che accusa i napoletani di vivere tra i rifiuti, durante la sua campagna elettorale - è stato eletto con 250 preferenze - denunciava il pessimo stato igienico di alcune periferie di Pavia. Uno dei suoi "bersagli" preferiti sembra essere il leader della Lega Matteo Salvini, che Fraschini addita più volte come traditore della causa dell'autonomia della Lombardia. Non mancano gli insulti a Luigi di Maio, all'epoca ministro del lavoro, paragonato ad un asino. La psicosi da Coronavirus ha contribuito a mettere a nudo ancora una volta l'atavica insofferenza tra il nord e il sud del paese. Il vergognoso post di Fraschini - molto pesanti gli insulti rivolti alla Romania -  fa il pari con le altrettanto vergognose immagini della cittadina di Ischia che insultava una carovana di turisti provenienti dal nord. 

Gli untori. Alessandro Guardamagna il 28 Febbraio 2020 su comedonchisciotte.org. Prima della diffusione della cosiddetta “peste di Atene” nel 430. A.C. nessuna città della Grecia aveva mai sperimentato nulla di vagamente simile. Era il maggio del secondo anno della Guerra del Peloponneso, e Atene aveva visto raddoppiare in poco tempo la propria popolazione, raccogliendo masse di profughi dalle campagne in fuga di fronte all’avanzata dell’armata della nemica Sparta. Circa 200.000 persone si erano rifugiate nella città, dove spuntarono da subito baracche, tende e sistemazioni improvvisate erette dai nuovi venuti, che brulicavano come formicai ai piedi dell’Acropoli e nello spazio fra le grandi doppie mura lunghe oltre 27 chilometri che univano la città al porto del Pireo e che avrebbero dovuto garantire ai suoi abitanti protezione contro qualsiasi nemico esterno. Nessuna città della Grecia, neppure la possente Tebe, aveva difese tanto estese, e non a caso il governo ateniese affermava con adamantina sicurezza che la città aveva il sistema difensivo migliore della Grecia. Eppure la peste entrò in città e si diffuse. Le scarse condizioni igieniche e la mancanza di acqua potabile e pulita, unita al sovraffollamento creatosi nel caldo dei mesi estivi, favorirono la propagazione di un morbo sconosciuto. Tucidide, che ne dettagliò l’escalation, racconta come molti morirono nell’abbandono, e altri nonostante le numerose cure prestate loro. Nessun trattamento particolare sembrava funzionare e ciò che apparentemente migliorava le condizioni di alcuni, peggiorava quelle di altri. Sia i forti che i deboli, giovani e meno giovani perirono. Terribile era la vista di coloro che si ammalarono dopo aver cercato di aiutare i propri concittadini e in breve tempo morivano come mosche. I sintomi erano diversi, accomunati da febbre che inizialmente si accompagnava a raffreddore e tosse acuta e all’indebolimento dell’apparato intestinale. Il progredire portava a convulsioni e al blocco dell’apparato respiratorio. Tucidide, più interessato alle implicazioni militari della vicenda, si limitò a speculare sulla natura “bellica” della malattia, mentre Diodoro cercò di considerare i possibili agenti di trasmissione, arrivando a sostenere che l’affollamento aveva inquinato l’aria e questo finì poi col colpire la popolazione. Seppur l’aria avesse poca attinenza con il contagio, le sue osservazioni empiriche non erano del tutto errate quando pensiamo che i virus, e il Coronavirus non fa eccezione, si trasmettono tramite piccole gocce espulse e diffuse nell’ambiente mentre parliamo, tossiamo, starnutiamo, e più un ambiente è affollato e maggiori diventano le probabilità di essere esposti al contagio. Le poche centinaia di ateniesi che erano caduti durante il primo anno del conflitto erano stati celebrati con tutti gli onori, mentre le migliaia di donne e bambini che morirono nell’epidemia furono lasciati spesso a marcire nelle strade nell’abbandono più totale. Inizialmente nessuno sapeva spiegarsi il propagarsi del morbo, che continuò a mietere vittime fra la popolazione. Un po’ come oggi di fronte all’estendersi del contagio del Coronavirus nessuno ha saputo ancora chiarire come un agente patogeno dalle pianure dello Yangtze e del Fiume Giallo a 9.000 km di distanza sia atterrato indisturbato nel mezzo del Nord Italia. E questo nonostante l’Italia “avrebbe, secondo il governo, il sistema di controlli e prevenzione migliore d’Europa“, sul modello delle dichiarazioni del governatore dell’ER che ritiene la sanità della sua regione una delle migliori al mondo. La Germania ha un volume di rapporti commerciali con la Cina di circa tre volte superiore a quello dell’Italia, e finora ha evitato il focolaio del contagio. Secondo alcuni facciamo troppi tamponi, a differenza di quanto avviene in altre nazioni europee. Ed è per questo che noi abbiamo registrato un focolaio ed altri no. Quindi, secondo la stessa logica, nelle regioni d’Italia dove non vi sono focolai è forse perché non vengono fatti controlli sufficienti? Vi erano molti abitanti di Atene che – come molti Italiani di oggi – ritenevano che il contagio non fosse assolutamente casuale. E anzi fosse il diretto risultato di azioni compiute dagli Spartani per colpire i propri nemici. Tale logica, per quanto apparentemente paranoica, aveva un suo senso. Infatti epidemie di tale virulenza erano praticamente sconosciute nella Grecia del V secolo A.C., cosa che induceva gli ateniesi a credere a qualsiasi congettura pur di darsi una spiegazione. In compenso la guerra batteriologica era invece già ampiamente praticata. Un secolo prima Solone avrebbe contaminato le acque utilizzate dalla popolazione di Cirra, indebolendone la guarnigione che capitolò. Alcuni fra gli ateniesi ricordavano come loro stessi avessero avvelenato i pozzi della propria città prima di abbandonarla di fronte all’avanzata dell’armata persiana di Serse nell’estate del 480 A.C. Successivamente in Sicilia gli stessi ateniesi tentarono di avvelenare l’acquedotto di Siracusa per costringere la città alla resa. A rafforzare l’idea che gli Spartani fossero responsabili contribuì probabilmente quanto avvenne l’anno successivo durante l’assedio di Platea, alleata di Atene, quando i soldati di Sparta bruciarono una pira enorme intrisa di pece e zolfo accatastata fuori dalle mura della città. Le fiamme sprigionarono gas mortali di anidride solforosa sui difensori, che per non finire intossicati dovettero abbandonare le difese. La malattia, chiamata impropriamente peste, fu con ogni probabilità una forma di tifo, la cui diffusione fu favorita dalle scarse condizioni igieniche combinate con l’indebolimento fisico di molti dovuto a ristrettezze alimentari del tempo di guerra, o forse un agente patogeno epidemico proveniente dall’Africa, come pensava Tucidide, entrato nel Mediterraneo orientale dalla vicina Persia, e che potrebbe essere assimilato all’ebola. Ma soprattutto a radicare la convinzione che si trattasse di un morbo diffuso dagli Spartani fu semplicemente il fatto che la comparsa della malattia concise con l’invasione dell’armata Spartana in Attica nella primavera del 430 A.C. Un po’ come la diffusione del Coronavirus in Asia coincide con un periodo di continuo braccio di ferro su dazi ed interessi commerciali globali che vede gli USA e l’Europa contrapporsi alla Cina. E in Atene i sostenitori e teorici della cospirazione ebbero ulteriori prove a conferma della propria tesi perché i primi ad essere colpiti e a perire per il morbo furono coloro che si trovarono nei pressi delle cisterne del Pireo, che, si diceva, fossero state avvelenate dagli Spartani. In realtà gli Spartani si avvicinarono alle mura quando l’epidemia era già in corso, e visto da lontano il fumo che si alzava dalle pire dove si bruciavano mucchi di cadaveri ne rimasero ben lontani, accontentandosi di devastare le campagne e razziare il razziabile. Il morbo si diffonderà invece poi nelle zone che videro il passaggio degli opliti o della flotta di Atene, ma non a Sparta, e nel Peloponneso toccherà solo Epidauro, dove gli abitanti si ammaleranno dopo essere entrati in contatto con i soldati ateniesi chiaramente infetti. La popolazione dell’Attica di allora, non ritenendo che la combinazione di condizioni quali sovraffollamento urbano nel caldo estivo e la carenza di igiene fossero fattori scatenanti, si limitò alla semplice equazione che la peste colpiva Atene dove gli abitanti morivano in massa, ma risparmiava “stranamente” Sparta, per cui Sparta doveva esserne in qualche modo responsabile. E’ la stessa idea che di fronte ad epidemie odierne si rafforza in chi è consapevole che le forze armate di molti stati hanno messo a punto nei propri laboratori schiere di germi killer che possono essere utilizzati come armi di distruzione di massa. Sono economici da produrre, letali, assolutamente non ingombranti e possono essere facilmente trasportati, al punto che una valigetta può contenere un arsenale di gas e virus in grado di sterminare la popolazione di stati confinanti e annullare i vantaggi che un esercito più numeroso o un’economia più sviluppata hanno sulla carta contro un avversario più debole. Per cui se il morbo colpisce A ma non B, allora B, se dotato di armi batteriologiche, potrebbe avere realisticamente qualcosa a che fare con l’accaduto. Se poi B dall’indebolimento di A ci guadagna, ecco che l’ipotesi può diventare certezza e ancora più difficile da scalfire. Si calcola che l’Attica abbia avuto tra le 70.000 e le 80.000 vittime, la maggioranza delle quali morirono dopo un paio di settimane dopo aver contratto il morbo. 10.000 di questi servivano nella falange o nella flotta ateniese. Complessivamente circa il 34% della popolazione perì, la maggioranza nei primi anni due anni delle ostilità. Non meno devastante fu il contraccolpo economico. E’ stato calcolato che solo nel primo anno la perdita per le casse dello stato dovute alla mancata tassazione e al collasso dei redditi ammontò a circa 500 milioni di euro del giorno d’oggi. Nonostante Atene continuasse la guerra, non fu prima del 415 A.C., ben 15 anni dopo l’epidemia, che riuscì a organizzare nuovamente operazioni ad ampio raggio, con una forza militare rinnovata e una nuova riorganizzazione finanziaria. Non a caso è stato osservato che in termini relativi il danno causato dall’epidemia si rivelò per Atene pari al disastro che la Germania subì con Stalingrado. Nessuna sconfitta campale contro Sparta avrebbe potuto ridurla in simili condizioni. Nei primi anni di ostilità le invasioni Spartane dell’Attica non raggiunsero lo scopo di attirare il nemico in una grande battaglia in campo aperto e distruggerlo, nonostante l’indebolimento causato dal morbo. Né gli Ateniesi, colpiti duramente, si limiteranno più a restare all’interno delle mura della città per trovarvi la morte. Ciascun contendente dovette quindi ridefinire le proprie strategie per il futuro. Alla fine la peste di Atene, raggiunto il culmine, si arrestò per inerzia. Anche il Coronavirus, misteriosamente arrivato in Italia, potrebbe esaurire la sua forza di diffusione semplicemente per inerzia, se non lo ferma prima la propaganda, che ieri mattina confermava 480 casi e 12 morti, e ieri sera aveva ridotto i casi di contagio confermati a 282, risaliti oggi a 655. Intanto mentre i numeri fluttuano e cambiano a seconda delle circostanze, il virus continua a propagarsi. A differenza di Atene dove i morti per le strade non si potevano nascondere, qui la diffusione e i decessi sono in numero più contenuto, per fortuna, ma questo non significa che il virus non aumenti nelle aree del contagio. Non abbiamo a che fare con il capitano Trips, ma neppure con un raffreddore, visto che questo virus uccide, e il raffreddore no. La terribile epidemia che mise in ginocchio Atene non solo causò la morte di decine di migliaia di persone, incluso Pericle, ma anche il declino della più antica democrazia del mondo. Non si possono ancora conoscere con esattezza le conseguenze che il Coronavirus avrà per l’Italia e per l’attuale governo che, nonostante le ripetute rassicurazioni sul sistema di controllo e prevenzione migliore d’Europa, qualcosa deve aver sottovalutato, purtroppo, visto che l’infezione è esplosa e il nostro è al momento il terzo stato al mondo per contagiati e deceduti, primo paese con un focolaio al di fuori dell’Asia. Sembra anche verosimile che non sarà necessario sperimentare le tragiche morti di 1/3 della popolazione (per fortuna), come avvenne ad Atene 2450 anni fa, per subire un arresto economico. I mercati di oggi si spaventano per molto meno. In Italia coloro che già un mese fa avvertivano sulle possibili conseguenze del contagio ed invitavano il governo ad adottare misure più stringenti erano tacciati di essere sciacalli e per alcuni membri del governo rimangono tali – “Salvini? Si sta veramente comportando da sciacallo“. Secondo altri membri dell’esecutivo ora sono diventati anche untori, cioè diffusori della malattia. Chissà tra poco qualcuno potrebbe suggerire che la peste di Milano del 1630 è stata scatenata da Matteo Salvini e schiere di leghisti. Non erano ancora nati allora, e l’accusa non servirà a fermare il Coronavirus sospettato di mire populiste, ma è poi importante? Anche la CNN ieri consigliava al governo Italiano di adottare misure più severe, ma nessun esponente dell’esecutivo si è scomodato a parlare di stampa affetta da sciacallaggio. Quando tutto sarà finito potrebbe venire anche la curiosità di visitare Codogno, luogo che alcuni media presentano come pullulante di locali, feste e balli continui e con un via vai da far invidia a Las Vegas, e che secondo il presidente del consiglio è anche sede di un ospedale che non rispetterebbe i protocolli, anche se resta da capire come. Ad Atene, mentre si cercavano i colpevoli e cresceva l’odio contro Sparta, vi erano anche coloro che credevano che l’epidemia fosse stata provocata da un’antica profezia. Almeno loro, pur nella sventura, sapevano essere originali.

Alessandro Guardamagna lavora come insegnante d’inglese e auditor qualità a Parma, in precedenza ha ottenuto un PhD in Storia e un Master in American Studies presso University College Dublin, in Irlanda, dove ha lavorato e vissuto per 10 anni. Da sempre sovranista, scrive articoli di politica e storia su ComeDonChisciotte dal 2017. 

L’eterna caccia all’untore. Ilario Ammendolia su Larivieraonline.com l'1 marzo 2020. Uno spettro si aggira per il mondo: il Coronavirus. Non è lecito scherzare sulla malattia anche perché le paure sono umane e nessuno è immune. Poi però c’è una specie mutante del virus che si è diffusa a velocità della luce e che aggredisce il cervello. Gli studiosi l’hanno classificato come “Coglionavirus”, perché fa rincoglionire la gente. Noi calabresi l’abbiamo già sperimentato a nostre spese quando, nell’estate del 1867, si diffuse a Napoli una grave epidemia di colera. Nei paesi della Locride dapprima si riempirono le Chiese chiedendo a Dio, alla Vergine e ai Santi di risparmiarci dal morbo, ma quando il colera incominciò a mietere vittime si cercò il “Nemico”. La ricerca venne effettuata dappertutto, ma ebbe effetti tragici proprio nel nostro comprensorio. Era il 4 settembre, infatti, quando la campana suonò nel villaggio di San Nicola di Ardore e una massa irrazionale e superstiziosa, sobillata da una parte delle classi dirigenti, tra cui l’arciprete del paese, si riversò nelle strade per “vendicare i morti di colera”, come scrive Filippo Racco ne “I fatti di Ardore”. Non debellarono, né potevano debellare, il vibrione colerico, ma fecero una strage di innocenti. Gli untori vennero individuati nei componenti della famiglia Lo Schiavo che, sentendosi accerchiati, tentarono la salvezza rifugiandosi nella caserma. Inutile! La folla s’era trasformata in un’immensa a travolgente onda di rabbia e di odio che non esitò a circondare l’edificio e a dargli fuoco. I militari si salvarono con una sortita che provocò feriti, tra cui una donna appartenente alla famiglia Lo Schiavo che, il giorno dopo, fu trovata dalla folla mentre giaceva dolorante su un pagliericcio. Trasportata sulla pubblica strada, fu finita con un colpo di schioppo. Nello stesso modo furono ammazzati i bambini innocenti “scovati” nei loro nascondigli. Alla fine di quelle giornate si contarono 13 vittime di cui ben 6 appartenenti alla famiglia Lo Schiavo. Numerosi furono i feriti e molti gli edifici bruciati, tra cui la farmacia del paese. Cercavano un “nemico” che non c’era. Avevano però l'alibi dell'ignoranza e delle miseria che oggi non dovremmo avere e, dall’assurdo massacro del 1867, giunge un monito rivolto a tutti noi ma, soprattutto, alle classi dirigenti che avrebbero il dovere della serietà e della compostezza, che tuttavia spesso non hanno. Per esempio molti giornalisti hanno trasformato la giusta esigenza di informazione in sventagliate di mitraglia cariche di terrore e continuano a comportarsi come i monaci dell’anno Mille che giravano i paesi per annunciare l’imminente fine del mondo. Onestamente provo rabbia e vergogna dinanzi alle manifestazioni razziste di Ischia o di altri paesi che vorrebbero vietare l'ingresso ai "nordici", così come dinanzi al magistrato che non entra in aula perché l’avvocato è milanese. La rabbia e vergogna che, in passato, ho provato dinanzi alle tantissime manifestazioni razziste contro i bambini “rom” o contro gli immigrati di colore. “Meridionalismo” da secoli significa ospitalità, generosità, accoglienza. Quindi, se potessi dare un consiglio, direi ad alcuni sindaci e presidenti di Regioni del Sud di smetterla di diffondere allarmismo e di emettere ordinanze illegittime, strampalate, divisive quanto inutili. Altro è il messaggio che, in questi giorni, dovremmo mandare ai nostri fratelli che vivono e lavorano nelle Regioni del Nord. Siamo complementari e non contrapposti, malgrado la storica miopia delle classi dirigenti del Nord e del Sud. Questo è il momento dell’Unità e di affrontare spalla a spalla ogni possibile emergenza mettendo sin da subito, pur con le dovute cautele, tutte le strutture ricettive della Calabria e del Sud a disposizione delle Regioni del Nord. Verrà poi il tempo per riparlare della “questione meridionale”, della “diffamazione calcolata del Sud”, della necessità di abolire il titolo V e di attuare con urgenza l’articolo 3 della Costituzione. Oggi no! Oggi siamo un unico popolo… parte dell’Umanità.

Se all’improvviso la cinese sull’autobus diventa l’untore che innesca la pandemia. Fulvio Giuliani il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il corto circuito con venature razziste che scatta inesorabile: stop agli involtini primavera e ai barconi che traboccano di cinesi e asiatici. Roberto Burioni, ben noto uomo di scienza a cui dobbiamo una consistente fetta della battaglia di civiltà in favore dei vaccini, sostiene che le notizie dei sospetti casi di contagio da nuovo coronavirus non andrebbero neanche date. Perché innescherebbero un inevitabile circolo vizioso di allarmismo. Calandomi nel punto di vista dello scienziato, non posso non riconoscerne le ragioni, ma da giornalista provo sempre un brivido di diffidenza, davanti alle notizie taciute, anche con le migliori intenzioni. Resto dell’idea che un’informazione quanto più completa possibile, intellettualmente onesta e sostenuta da robuste collaborazioni scientifiche, soprattutto in casi come questo, sia il modo migliore per contrastare l’insorgere di ondate di panico. Se è vero che non sentir parlare di un caso sospetto, nell’immediato possa evitare ( o ritardare…) l’insorgere di un senso di paura, a medio termine può innescare il dubbio che le autorità stiano nascondendo qualcosa. Che non ci dicano tutto. Da che mondo è mondo, davanti alle pandemie la reazione della pubblica opinione si muove sostanzialmente su un doppio binario. Da una parte, il timore di essere inghiottiti in un incubo non gestibile, l’ancestrale terrore della morte senza volto, che arriva a sconvolgere le nostre esistenze. Dall’altra, la necessità di scaricare la paura che si fa rabbia. Ci mettono poco le persone a sentire l’esigenza di trovare un colpevole. Non potendosela prendere con un virus, è facile rivolgere la propria attenzione a chi detiene il potere, identificandolo istintivamente come un’entità interessata solo a mantenere l’ordine pubblico, anche a costo di raccontare bugie clamorose. Del resto, anche in queste ore, i sospetti sul comportamento del governo cinese si moltiplicano e non solo in ambienti sensibili al Complottismo. Tacere, per farla breve, non conviene mai. Quello che conviene è invitare le persone a ragionare, spiegando loro – ad esempio – che boicottare i ristoranti o i negozi cinesi è poco più di un riflesso condizionato. In teoria, l’unica cosa utile che dovremmo fare è informarci su eventuali e recenti viaggi in patria di chef o personale cinese di ciascun locale, per tacere delle visite che ciascuno di loro potrebbe aver ricevuto dal paese natale. Evidentemente, una follia, senza dimenticare che il temuto portatore ( magari sano) del coronavirus potrebbe essere dalle fattezze caucasiche…Escludendo, pertanto, di chiudersi in casa e aspettare o l’Armageddon o che passi la paura, conviene approfittare di questi giorni concitati per qualche riflessione sul nostro tempo. Comincerei da questa: spesso possiamo intere settimane a dibattere, accalorandoci, sulle proposte di nuove barriere fisiche e ideali, dividendoci fra chi propugna la difesa anche fisica del nostro piccolo mondo e chi considera tutto questo solo una perdita di tempo. Poi, arriva il nuovo coronavirus, svelando l’imbarazzante inconsistenza di certi dibattiti. In un mondo interconnesso come quello di oggi, semplicemente dobbiamo prendere atto che le nostre fortune e sfortune dipendono anche da una miriade di relazioni, a cui rinunciare è semplicemente impensabile, perché troppo costoso. Ne andrebbe del nostro stesso stile di vita. I problemi, da quelli relativamente imprevedibili come le pandemie ai grandi temi che caratterizzano la nostra epoca, meritano massima razionalità e decisioni a un tempo rapide e strategiche. i tocca sentir parlare, invece, di rischi di diffusione in Italia del virus, collegati alle tratte dei migranti. Una lettura che sfida contemporaneamente senso del ridicolo e della realtà. Con la fabbrica del mondo che rischia di andare in tilt – di questo dovremmo aver paura, non di fantasmi agitati per motivi elettorali il dibattito in Italia si ferma al boicottaggio dell’involtino primavera o al confronto social sui barconi nel Mediterraneo, che notoriamente traboccano di cinesi. Amo il mio Paese, anche quando la farsa sembra prendere il sopravvento, eppure proprio per questo amore sento la necessità di un dibattito più maturo. Davanti all’idea stessa di una pandemia, è umano che la reazione della pubblica opinione non sia improntata ad una ferrea logica. Che però l’irrazionalità rischi di entrare anche in ben altre sfere, per meri calcoli politici, è abbastanza insopportabile. Lasciamo parlare gli esperti, ascoltiamoli e affidiamoci a loro. Non sono un’élite, è gente che ha studiato. L’alternativa mi spaventa, ad oggi, molto di più del coronavirus.

Laura Anello per “la Stampa” l'11 marzo 2020. «Liberaci, Santuzza nostra». «Santuzza, pensaci tu». Bisogna venire quassù, a cinquecento metri di altezza sulla città, fino al santuario di Monte Pellegrino, per raccontare Palermo ai tempi del virus. Qui, sul promontorio che Goethe definì il più bello del mondo, una vertigine di azzurro e di mare, c' è una continua processione di fedeli che chiedono a Santa Rosalia il secondo miracolo. «La liberazione dalla nuova peste», come scrive una delle tante mani sul librone posto all' ingresso della grotta con le reliquie. Il primo le riuscì nel Seicento, quando Palermo era piegata dal bubbone sbarcato con un vascello arrivato da Tunisi, gravido dei doni del sovrano d' Africa. La peste già dilaga nel Mediterraneo, ma il viceré di Sicilia, Emanuele Filiberto, non resiste alla cupidigia per quel tesoro e apre le porte alla rovina. È il 7 maggio del 1624. Due mesi dopo (siamo al 15 luglio) si ritrovano su Monte Pellegrino le ossa che la commissione di esperti - in cerca di qualsiasi segno dal Cielo - si affretta ad attribuire a Rosalia, la giovane nobile eremita vissuta cinque secoli prima, tra il 1130 e il 1170. «Santa Rosalia, salvaci tu», implora il popolo di allora. «Santa Rosalia, salvaci tu», implorano i palermitani di oggi che arrivano ogni giorno quassù al santuario dopo avere scalato il promontorio, o in macchina quando la salita è troppo dura. «Otto su dieci lasciano sul nostro libro un' invocazione alla santa perché ci liberi dal coronavirus», dice don Gaetano Ceravolo, attivissimo reggente del santuario, che da ieri ha sospeso le messe pubbliche, come disposto dalla diocesi, ma tiene aperti il santuario e la grotta zeppa di reliquie, dove grandi cartelli avvertono della distanza di sicurezza da tenere. E già. Perché, neanche un anno dopo il ritrovamento delle ossa su questo monte, la peste fu sconfitta, al passaggio della processione che il 9 giugno 1625 vide sfilare in città i resti della santa, con gli ammalati che guarirono sotto gli occhi di tutti. Santa Rosalia diventò patrona di Palermo a furor di Chiesa e di popolo, scalzando senza troppi complimenti le quattro sante che fino ad allora si erano divise la tutela della città. «Ho spostato le due reliquie della santa, un osso e un dente, più vicino al flusso dei pellegrini», dice don Gaetano. Ci sono scritte in italiano: «Santa Rosalia, fai che ci possano ridare la casa e liberaci da questo virus come hai già fatto tanto tempo fa». Ma ci sono anche messaggi in inglese e in tamil, la lingua della comunità che a Palermo ha adottato la santa come sua protettrice. Percorsi i tornanti che portano giù dal monte, Palermo è silenziosa e attonita. Deserta piazza Massimo, quasi deserta la via Maqueda, che fino alla scorsa settimana era gremita dai turisti. Chiusa l' Assemblea regionale siciliana, il Parlamento più antico d' Europa, nel palazzo che un tempo ospitava l' imperatore Federico II, chiuso il Consiglio comunale, blindata la procura, chiusi gli uffici giudiziari. File ordinate davanti ai supermercati, dopo gli assalti nella notte: qualcuno contingenta gli ingressi. File davanti alle farmacie, con i cartelli fuori: «Finiti amuchina, gel, alcol, mascherine». Tutti con il fiato sospeso, aspettando la batosta del virus che finora si è fermato a 64 contagi ma che inevitabilmente crescerà: si spera più tardi possibile, per dare il tempo di attrezzare gli ospedali a corto di posti. Nei bar è il deserto. «Pensavo che la Palermo popolare, quella che di solito se ne frega di tutto perché tutto ha visto e a tutto è sopravvissuta, se ne fregasse anche del coronavirus - commenta Francesco Massaro, titolare di uno dei più grandi bar della città, quaranta dipendenti - e invece la gente è spaventata, e i clienti sono al lumicino. Io, come gli altri, ho perso il 60 per cento di fatturato". Alle 18 chiude la saracinesca, come da decreto. Pattuglie di polizia sorvegliano l' ingresso alla città, sulla statale che arriva da Messina. Chiedono l' autocertificazione che autorizza a circolare per ragioni di lavoro o per motivi indifferibili. Sembra una dogana di un altro secolo. «Chi siete?», «Cosa portate?», scherza qualcuno parafrasando Benigni e Troisi di «Non ci resta che piangere», precipitati loro malgrado nel Medioevo da un momento all' altro. Come loro, tutti vorrebbero svegliarsi e scoprire che è solo un film.

Eyam, il paese inglese che nel Seicento si sacrificò per fermare la grande peste di Londra. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. I provvedimenti della Cina per evitare il diffondersi del coronavirus ricordano la storia del villaggio che nel 1665 fu colpito dalla peste: per evitare il propagarsi dell’epidemia, gli abitanti si misero in quarantena. Niente più tour di gruppo all’estero dalla Cina. È questa la nuova, drastica misura disposta dalle autorità di Pechino per fermare l’epidemia di coronavirus. Da lunedì 27 gennaio tutti i servizi per i viaggi di agenzie cinesi sono stati sospesi, comprese le prenotazioni di alberghi e biglietti aerei. Una vicenda che, ricorda il New York Times, ad alcuni lettori britannici potrebbe riportare alla mente la storia di Eyam, un villaggio della contea del Derbyshire, che oggi conta meno di mille abitanti. Nel Seicento, Eyam divenne il simbolo del «sacrificio» cui fu chiamata tutta la Gran Bretagna: nel settembre del 1665, infatti, il villaggio fu colpito da un’epidemia di peste bubbonica causata dall’arrivo di alcuni abiti infestati da pulci, portati da Londra da un sarto locale, George Viccars, la prima vittima della pestilenza (qui la sua storia nella sezione «Local Legends» della Bbc). Per evitare il propagarsi dell’epidemia anche nelle località limitrofe, gli abitanti di Eyam — su consiglio del parroco, William Mompesson e del suo predecessore, Thomas Stanley — si misero «spontaneamente» in quarantena: venne impedito a chiunque di entrare o uscire durante i quattordici mesi nei quali la peste si diffuse. Acqua e viveri vennero mandati dalle campagne: come ricorda sempre il NyT, i soldi venivano lasciati in un pozzo riempito di acqua e aceto «disinfettante». L’emergenza cessò nel novembre del 1666: dei 350 abitanti ne morirono 250-260 (anche la moglie di Mompesson, ndr), mentre i villaggi vicini furono appena sfiorati dall’epidemia. La «Grande peste» di Londra venne raccontata, tra gli altri, anche da Daniel Defoe: nel 1722 uscì in forma anonima il romanzo «Diario dell’anno della peste» («The Journal of the Plague Year»), una cronaca fedele degli effetti dell’epidemia di peste bubbonica che colpì la City tra il 1664 e il 1666 (Defoe aveva all’epoca solo 5 anni). I più curiosi troveranno un richiamo all’incipit dell’opera di Defoe in Fruttero & Lucentini, «Íncipit» (1993): «Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra, e anch’io ne intesi parlare nel mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste».

Accadde nel 600. Ma sembrano le cronache di oggi, scrive Piero Sansonetti il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Ecco perchè sul giornale pubblichiamo la "Storia della Colonna infame" di Alessandro Manzoni. Iniziamo la pubblicazione a puntate di una delle principali opere letterarie di Alessandro Manzoni: "Storia della Colonna Infame", pubblicata come appendice nell'ultima edizione, quella definitiva, dei Promessi Sposi. E' il racconto, commentato, di un avvenimento vero, accaduto nel 1630 ma - purtroppo - mai realmente concluso. Sette capitoli, più un'introduzione. Perché dico: mai realmente conclusa? Perché assomiglia maledettamente a tante storie di malagiustizia di oggi. La trama, riassunta in due righe, è questa: alcuni testimoni accusano un signore di avere sparso sui muri degli unguenti che diffondevano la peste. Questo signore viene arrestato e torturato e infine indotto ad accusare un secondo signore, un barbiere. I due vengono condannati a morte e prima al supplizio. Naturalmente sono innocenti, anche perché gli untori (cioè dei presunti mascalzoni che diffondevano la peste ungendo i muri) non esistono, non sono esistiti mai. Le testimonianze che hanno inchiodato i due poveretti, assomigliano tremendamente alle deposizioni dei pentiti moderni. O alle famose intercettazioni per sentito dire. La tortura, usata per estorcere confessioni assurde, assomiglia invece al carcere preventivo e all'uso che se ne fa oggi come strumento di indagine. La smania dei giudici del seicento di assecondare le credenze popolari sembra uguale alle smanie che oggi hanno i giudici di soddisfare lo spettacolo di massa. E Alessandro Manzoni, quando scriveva la sua furia per queste ignominie, era isolato e sbeffeggiato dalle classi dominanti dell'epoca, come succede oggi a chiunque voglia esprimere un punto di vista garantista. Untori, roba del seicento? E allora - chiedo - il processo agli scienziati che non seppero prevedere il terremoto dell'Aquila? E quello alla scienziata - Ilaria Capua - accusata di aver diffuso il morbo dell'aviaria per arricchirsi? "Storia della Colonna infame", ci è sembrato - più che una vecchia opera di letteratura - una riflessione, pacata e attualissima, sulla giustizia di oggi. Per questo vi consigliamo di leggerla.

Flavia Perina per linkiesta.it il 25 febbraio 2020. Chiuse le scuole, le università, i musei e i cinema, sospese le manifestazioni sportive, sconsigliate (in Lombardia) o proibite (in Veneto e Friuli) le feste private e «qualsiasi tipo di aggregazione». Isolati undici comuni a Nord; proibito l’accesso ai turisti del Nord in sei comuni del Sud (Ischia). Niente messe in tutta la Lombardia. Niente Carnevale a Venezia. Fermi gli esami di ammissione al Campus Biomedico a Roma. È solo una cronaca parziale dei giorni della Grande Paura, della World War Z italiana che ha spianato ogni altra preoccupazione – non c’è più politica né cronaca fuori dal dibattito sul Coronavirus – e cancellato ogni domanda al di là del fatidico: quanti sono oggi i contagiati? E i morti? «Panico», scrivono i giornali, «Il morbo è tra noi», «Avanza il virus», e il tam-tam sui social si regola di conseguenza costruendo un’emergenza diversa da tutte perché orizzontale, egalitaria, condivisa, oltre la destra e la sinistra, e per di più apocalittica e vagamente vendicativa verso la parte di umanità che ci sta più antipatica: quelli che viaggiano molto, che escono molto, i potenziali “pazienti zero” con l’agenda piena di appuntamenti mondani, sportivi, amorosi, ora finalmente costretti a casa come noi gente comune. Siamo il Paese dei “Promessi Sposi”, il grande romanzo italiano che tutti hanno citato in questi giorni per il capitolo sugli untori e sull’approccio superstizioso alla malattia – «Non ci cascate, non siamo più nel Seicento» – ma andrebbe ricordato soprattutto per altro. Nel racconto manzoniano è il flagello, il virus, il contagio, il grande giustiziere della Storia, l’agente provvidenziale che fa fuori Don Rodrigo e il Conte Arrigo e restituisce la libertà ai protagonisti. L’idea del morbo palingenetico, insomma, è scritta nel DNA nazionale ed è elemento centrale dell’educazione scolastica italiana, che spesso esaurisce pure ogni percorso di formazione culturale del cittadino medio. Anche per questo il Coronavirus è spaventoso ma al tempo stesso popolare, suscita ansia ma anche una diabolica attrazione. Anche per questo tra chi sostiene «è solo un’influenza» (Maria Rita Gismondo, capo dei virologi all’ospedale Sacco di Milano) e chi dice il contrario (il virologo Roberto Burioni), la gran parte delle persone sceglie d’istinto il secondo che pure, quando ammoniva sul morbillo e sui vaccini, era diventato bersaglio fisso del polemismo nazionale. Il Coronavirus è, in versione attenuata ma promettente, la Spagnola e l’Atomica, l’invasione zombie e il riscaldamento globale messi insieme. Restituisce corpo a un confortevole sentimento millenarista, cancella le diseguaglianze nel modo più semplice e diretto. Corrisponde, in fondo, a un desiderio ed è per questo che risulta un agente emotivo così potente e di successo rispetto a ogni altra emergenza reale o potenziale. Gli esperti fanno notare che, a fronte delle 2.500 vittime certificate della nuova malattia, il cambiamento climatico ha prodotto negli ultimi vent’anni mezzo miliardo di vittime nel mondo. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è causa di 80mila decessi ogni dodici mesi. Avremmo, insomma, ben altri guai per cui preoccuparci e ben altri motivi per rivoltare come un calzino le nostre città e le nostre abitudini, ma questo nuovo virus ci soddisfa intimamente più di tutti. Ci consegna alla paura ma anche al brivido di una inaspettata avventura collettiva, proietta un film nazionale finalmente condiviso. Le strade deserte di Castiglione e Codogno. I talk show in onda senza pubblico. Il Duomo di Milano, simbolo della milanesità e quindi dell’operosità del Nord, interdetto alle visite e persino alla preghiera. Il possibile stop alle scadenze fiscali e alle bollette. Leggiamo e ci sentiamo tutti Renzo e Lucia, tutti preoccupatissimi, tutti perversamente affascinati da un’epidemia che spiana le ordinarie preoccupazioni della vita in nome di timori più grandi e collettivi.

La peste di Milano: inchiesta su un caso di cronaca di 400 anni fa. Negazionismo della cittadinanza, ritardi della politica, provvedimenti contraddittori, caccia all'untore straniero. Ecco perché dal flagello del 1629-1630, ricostruito dalle testimonianze storiche, i meccanismi sono rimasti gli stessi. Francesco Turano il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Lo scopo dell'inchiesta che segue è raccontare un fatto di cronaca di 390 anni fa. Il risultato dell'inchiesta è che lo sviluppo psicoevolutivo dell'essere umano, a differenza della scienza e della tecnologia, non avviene per anni o secoli ma attraverso le ere della filogenesi (decine di migliaia di anni). L'evento è la peste di Milano del 1629-1630, come raccontato dagli storiografi Ripamonti, Lampugnano e Tadino, da Manzoni e da altri che per lo più oggi sono fermate della metropolitana o strade. La risposta dei cittadini, delle istituzioni e della comunità internazionale non è diversa, negli schemi di fondo, da quella data al Cov-Sars-2. Ma ecco il racconto.

A settembre 1629, in piena Guerra dei Trent'anni (1618-1648), i lanzichenecchi di Albrecht von Wallenstein e le truppe di Rambaldo di Collalto scendono in Italia attraverso la Valtellina e la zona del lago di Lecco per sostenere la causa del Sacro Romano Impero, alleato con la Spagna e con i Savoia nella guerra di successione di Mantova e Monferrato. Gli avversari sono la Francia e la Repubblica Serenissima.

Il 20 ottobre 1629 Lodovico Settala segnala al Tribunale della sanità di Milano che fra il lecchese e la bergamasca, nel corridoio dove sono passati i soldati, vengono segnalati presunti casi di peste. Settala è il protofisico ossia, in termini moderni, il presidente dell'Ordine dei medici. È nato nel 1552 e ha 77 anni. Quando ne aveva 24, già medico, ha vissuto la pestilenza dell'anno 1576. Ha quindi esperienza teorica e di campo. Avvertito da Settala, il Tribunale della sanità spedisce un commissario – figura radicata nella storia italiana – a indagare, accompagnato a un medico di Como. I due si fanno abbindolare dal negazionismo locale che attribuisce i decessi alle febbri autunnali e al paludismo o malaria.

Il 30 ottobre, appena dieci giorni dopo l'ispezione, i casi si sono moltiplicati al punto tale che le autorità decidono di controllare gli ingressi entro le mura di Milano, una delle città più popolate nell'Europa del tempo, sviluppatissima nei commerci, con residenti calcolati fra 200 e 250 mila. I responsabili della sanità redigono una grida per affrontare l'emergenza. Ma il decreto non viene pubblicato per le esitazioni di chi teme conseguenze economiche e le misure restano lettera morta per quasi un mese.

Il 14 novembre i magistrati di sanità fanno un passo in più ed espongono la gravità della situazione al governatore Ambrogio Spinola, rappresentante della corona di Spagna e veterano della guerra delle Fiandre. Il genovese Spinola è impegnato nell'assedio di Casale Monferrato e non solo non presta troppa attenzione al contagio ma peggiora la situazione attivamente.

Il 18 novembre, infatti, il governatore ordina grandi celebrazioni pubbliche per la nascita del primogenito di Filippo IV di Spagna, il principe Carlo. Decine di migliaia di milanesi scendono in strada a festeggiare.

Il 29 novembre, quando finalmente è pubblicata la grida del 30 ottobre, la peste è già in città. Secondo il Tadino, medico prima che storiografo, si individua anche il paziente 1. È un soldato italiano dal nome incerto che combatte con l'esercito spagnolo. Morto lui, vengono bruciati il suo letto e i suoi vestiti. I suoi parenti vengono spediti in quarantena al Lazzaretto che sorge all'incirca dov'è oggi la via omonima, una parallela di corso Buenos Aires nei pressi di Porta Venezia, l'antica Porta orientale.

E poi cominciò la caccia all’untore. Nessun paragone tra il coronavirus e la peste del 1630. Ma rileggere i due capitoli dei Promessi Sposi dedicati all’epidemia può essere lo stesso utile. Le misure di legge sembrano portare qualche esito e l'inverno passa con danni limitati. Le basse temperature dell'inverno lombardo potrebbero essere state meno favorevoli al contagio dato che la peste nelle sue varie forme (bubbonica, setticemica e polmonare) è causata dal batterio Yersinia pestis. Il morbo è diffuso dal ratto, portatore spesso asintomatico. Pulci o zanzare, che d'inverno sopravvivono con maggiore difficoltà, lo trasferiscono all'uomo. Ma c'è un altro fattore. Nei mesi fra la fine del 1629 e l'inizio del 1630 si è diffuso un senso di omertà da parte di chi ha un parente malato o moribondo e preferisce non denunciarlo per evitare quarantene, sequestri, blocco dell'attività. Per chi ancora non ha conosciuto direttamente il morbo, consigli e divieti delle autorità sanitarie sono interpretati come limitazioni alla libertà civile e alle necessità lavorative, quando non come vessazioni insensate. I medici Alessandro Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico, vengono insultati per strada. Settala senior, riconosciuto mentre circola per la città con una portantina, viene preso a pietrate e si salva di giustezza perché i servitori riescono a infilarsi nel portone di un amico del dottore. Mentre il contagio cresce e il Lazzaretto supera la sua capienza massima di duemila posti (arriverà a sedicimila), si celebrano le festività di Pasqua (31 marzo 1630) come se niente fosse. Ad aprile la situazione continua a peggiorare. lazzaretto-milano-720x0-c-defaultDurante la Pentecoste, in una bella domenica di maggio scelta dai milanesi per una scampagnata fuori Porta orientale nei pressi del cimitero di San Gregorio e dunque del Lazzaretto (stampa accanto), i magistrati cittadini organizzano una messinscena terrificante per scuotere le coscienze. Fanno sfilare una carretta carica dei corpi nudi di un'intera famiglia sterminata dal morbo nella notte. La paura, invece di prendere la strada dell'ammaestramento, si incammina verso la superstizione.

Il 17 maggio si sparge voce che qualcuno abbia unto gli assiti del Duomo con materiali venefici. Le panche vengono portate fuori e lavate. È l'inizio della caccia all'untore, approvata in qualche modo dalla grida del tribunale della sanità del 19 maggio che impone di segnalare chiunque abbia un comportamento sospetto.

Nei giorni successivi i momenti di tensione e di violenza si moltiplicano. Un vecchio che spolvera con il mantello la panca della chiesa viene trascinato fuori e massacrato di botte sotto gli occhi dello storico Giuseppe Ripamonti. È testimoniato oltre ogni ragionevole dubbio che i muri vengono effettivamente imbrattati con una materia giallognola. Non si saprà se questo luridume viene sparso da agenti di poteri stranieri o da semplici imbecilli in vena di scherzi. Dalla Spagna si denunciano quattro untori francesi che vagherebbero per un'Europa già molto internazionale, a diffondere il morbo come forma di guerra chimica. Un gruppetto di francesi viene identificato per strada a Milano. Si salvano per miracolo dal linciaggio e, per un miracolo ancora maggiore, vengono assolti dalle accuse.

L'11 giugno, dopo giorni di pressioni da parte dell'autorità temporale che vuole offrire conforto alla popolazione, l'arcivescovo Federico Borromeo mette da parte le sue perplessità e accetta di guidare una processione alla quale partecipano decine di migliaia di fedeli di ogni classe sociale. Il corteo parte all'alba dal Duomo con il feretro di San Carlo Borromeo, cugino di Federico. La reliquia viene portata in giro per tutti i quartieri della città, con fermate nelle piazze principali. La diffusione del contagio dopo la processione nella calca estiva è devastante. Due secoli dopo persino il fanatico cattolico Manzoni, devoto di San Carlo Borromeo e ammiratore di Federico, faticherà a trovare scusanti per il suo amato cardinale. Poiché però San Carlo non può essere colpevole e monsignor Federico nemmeno, la furia collettiva si accanisce ancora di più contro gli untori.

Il 21 giugno poco prima dell'alba, nel quartiere della Vetra de' Cittadini, l'attuale zona San Lorenzo-Porta Ticinese, “una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia a una finestra” (Manzoni, Storia della colonna infame) vede un uomo che strofina qualcosa contro i muri e denuncia il fatto. L'individuo sospetto sarà trovato in poco tempo. È Guglielmo Piazza, da circa un mese eletto commissario della sanità. È l'untore ideale proprio perché appartiene alla schiera dei vessatori, coloro che spediscono la gente a morire al lazzaretto. Viene torturato. Non resiste. Denuncia come complice e produttore del veleno il barbiere Giangiacomo Mora, più altri. Settimane di interrogatori feroci e confessioni estorte porteranno all'identificazione come mandante di don Juan Cayetano de Padilla. Grazie ai suoi mezzi, l'hidalgo spagnolo sarà l'unico a salvarsi da un'esecuzione capitale di indimenticabile atrocità. Unknown-1Con sentenza del 27 luglio Mora e Piazza vengono “messi su un carro, condotti al luogo del supplizio, tanagliati con ferro rovente per la strada; tagliata loro la mano destra; spezzata l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di fabbricare in quel luogo”. Secondo i censimenti dell'epoca, alla fine della pestilenza Milano conta 64 mila abitanti da 200-250 mila. Tre su quattro sono morti di peste. Fra loro, come sembra altamente probabile, anche il governatore Spinola (settembre 1630).

Di quanto raccontato, a distanza di quattro secoli, sono cambiate le technicalities. La tortura è vietata, come la pena di morte. La peste è un fattore di contagio presente (fra 1000 e 3000 casi all'anno secondo l'Oms) ma controllato grazie agli antibiotici e alla profilassi dopo l'ultima epidemia a fine Ottocento iniziata in Cina e conclusa con 12 milioni di morti.

La risposta psicologica al morbo invece segue le solite fasi.

1. Negazionismo assoluto. Secondo Manzoni (I promessi sposi, cap. XXXI), chi metteva in guardia “veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Insomma, è solo un'influenza.

2. Inizia a circolare la paura, sotto traccia. Timore dei provvedimenti delle autorità sanitarie da parte “della Nobiltà, delli Mercanti, della plebe”. Le nuove norme, che obbligano a cambiare comportamento, sono identificate a costrizioni inutili.

3. Con l'avanzare del contagio il negazionismo retrocede ma ancora combatte con quella che Manzoni chiama “trufferia di parole”. Il lavoro di mistificazione e falsificazione arriva a produrre neologismi: “febbri maligne” e “febbri pestilenti”. Si incomincia però a comprendere che il contagio non è limitato a una categoria di popolazione. In questo caso, i poveri.

4. Non si può più negare la realtà. Allora, in una situazione di panico generalizzato, si cerca di falsificare il nesso causa-effetto. Colpa dei francesi, degli alemanni, degli spagnoli. Infine, colpa degli untori.

L'untore può essere chiunque, allora come oggi. Un alemanno, un cinese, un vecchio. Tutti ma non noi.

Eterno ritorno. Quando Giuseppe Belli raccontò in romanesco l’epidemia in cui morì anche Leopardi. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 21 marzo 2020. Il poeta fissò in versi “Er collera mòribbus”, il contagio che colpì tutta Italia tra il 1835 e il 1837. Gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente, Roma senza messe e senza feste per l’epidemia e lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?» La gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente. Roma senza messe e senza feste per l’epidemia. I lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?». I politici che prendono misure di cui non si sa l’efficacia. Le informazioni nascoste. Le polemiche su quanto sta succedendo all’estero. E i Social scatenati in cui si scambiano notizie vere e fake: queste ultime anche in chiave di improbabili “dritte” su chi ci sia veramente dietro, o sui modi più infallibili per non infettarsi o per guarire…No. Non stiamo parlando del coronavirus, è a essere fiscali nell’epoca di cui stiamo parlando non c’erano i social di oggi, stile Facebook o Whatsapp. Però c’era l’osteria, che in qualche modo ne faceva le funzioni. Anzi, sono i social d oggi a ricostruire in senso virtuale quello che una volta si diceva davanti a un boccale di vino. Ed è appunto una «Converzazzione a l’Osteria de la Genzola Indisposta e ariccontata co trentaquattro sonetti, e tutti de grinza» che Giuseppe Gioacchino Belli utilizzò per raccontare Er collera mòribbus. Quell’epidemia in cui il 14 giugno 1837 morì pure Giacomo Leopardi. Copia e incolla dal Vocabolario Treccani: «Cholera morbus ‹kòlera …› locuz. lat. scient., usata in ital. come s. m. (anche semplicem. cholera). – Nome, oggi non più in uso, del colèra, che ebbe in passato, anche in ital., le varianti grafiche e fonetiche chòlera e cholèra». Ma cholera nella espressiva storpiatura popolare romana diventava «collera»: sottinteso «di Dio contro i peccatori», il che serviva alle autorità pontificie per alleviare in qualche modo le proprie responsabilità, e anche alla gente per farsene una ragione. E «Mòribus significa se more», scrive Belli in nota. Quel romanesco pre-Unità nazionale era molto meno italianizzato di quello di oggi: il confronto con i versi di Cesare Pascarella e poi di Trilussa permette di cogliere bene l’evoluzione. Anche un romano dell’anno 2020 può dunque avere bisogno della traduzione: «Conversazione all’Osteria della Giuggiola», che si trovava in Trastevere. «Disposta e raccontata in trentaquattro sonetti e tutti di vaglia». Scritti tra 4 agosto 1835 e 24 dicembre 1836, nelle raccolte di Sonetti di Belli sono però messi in genere in appendice, dopo l’ultimo del 21 febbraio 1849. Cominciano con un avventore che spiega con tono ben informato che il «còllera o o collèra», comunque lo si chiami, «qui da noi nun ce viè, sippuro è vera». Sì, dicono che a Nizza sta facendo «piazza pulita». Ma è «seggno che questi matti maledetti/ Nun ze sanno avé cura della vita». Non è che mangino topi vivi come i cinesi, ma non hanno quella cura della pratica religiosa che a Roma il governo pontificio impone, e che tiene lontani dalla «collera» divina. Invece la «collera» si scatena lo stesso, e costringe tutti a stare chiusi dentro. «Adesso ha da venì sto serra-serra/ De porcaccia infamaccia ammalatia», annota l’ultimo sonetto, del 24 dicembre 1836. Già il 30 agosto 1835 il Sonetto 26 ci informa che sono stati chiusi i teatri. «Inibbì le commedie?! E che magnnera/ V’immaginate sta leggiaccia infame?/ Tanto bene, sor faccia de tigame/ S’apre er teatro, e sta notizia è vera». Ed è tragedia per il poveraccio che facendo la comparsa si guadagnava il minimo per sopravvivere: «Un povero garzon de falegname/ Che ciabbusca du’ pavoli pe ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?». Impagabile il racconto del «sentito dire» sui rimedi che funzionano. «Sapete er fijo de Monzù Boietto», che sarebbe il farmacista di Nîmes Monsieur Boyer, «Ha scoperto che un po’ de corallina/ È la vera e fficaccia medicina/ Pe guarì sto fraggello benedetto», informa sicuro il Sonetto 19 del 31 agosto. Ma già il 2 settembre il Sonetto 20 sentenzia che «Già è scartato er rimedio der Bojetto/ Adesso tutto era gran preservativo/ Conziste in un tamtin d’argento-vivo/ Drent’una penna che sse porta in petto». E l’11 settembre il Sonetto 21 osserva: «È una scena! Qua ognuno ha er zu’ segreto/ Chi vò er cannello, chi vò la patacca/ Chi era làvudon, chi er thè; chi una casacca/ De fanella, chi era vischio de l’abbetto». Tra le varie cure proposte, «Una canfora, uno ojo, e un antro aceto: Questo vò che sse dormi co ‘na vacca:», la più curioosa è quella secondo cui il colera non viene alle donne incinte. «Quello dice ch’er male nun z’attacca/ A le donne che in corpo abbino er feto». Conseguenza prevedibile: «Sta vertù che ppò avè la gravidanza/ Mo ha cresciuta la rtabbia in ne le donne/ De fasselo infilà drent’a a la panza/ Per cui mariti, amichi e confessori/ Nun arriveno a ttempo a corrisponne/ A ttante ordinazioni de lavori». Anche allora ce se la prendeva con l’Europa. «Ma tutt’a tempi nostri! E caristìa/ E libbertà, e diluvi, e ppeste, e guerra/ e la Spaggna, e la Francia, e l’Inghlterra», attacca il Sonetto della vigilia di Natale. E conclude: «Chi sta peggio di tutti è Gesucristo/ Ch’ha pperzo la novena de Natale/ Haii tempo a ffà ppresepi e accenne artari:/ Questo è er primo Natale che ss’è visto/ Senza manco un boccon de piferari». E spiega Belli in nota: «non fu dato accesso nei nostri stati ai pifferari, gente regnicola, che vengono, ogni anno a far novene». Gli zampognari venivano dal Regno delle Due Sicilie, e il confine politico permetteva di bloccare la gente in modo molto più efficace di quanto non abbiano provato a fare governatori e sindaci prima che Conte mettesse l’intera Italia ai domiciliari. In effetti Belli scrisse quando il male ancora non era arrivato a Roma. Lettere di amici – altro Social dell’epoca – gli avevano dato però notizia che proprio in quell’agosto 1835 la «porca malattia infernale» in poche ore aveva provocato ad Ancona sette morti, con un seguito di centinaia di morti a settembre. «Er collèra sta a Napoli, fratelli», informa il primo novembre 1836 il Sonetto 33. «E sta a Gaeta e in tre o quattr’anrri lochi/ E ppe tutto li morti non zò pochi/ E l’imballeno a sson de campanelli». Il sinistro suono dei campanelli che avvisavano dell’avvicinarsi del carro dei morti: spettacolo che descrive anche Manzoni parlando dell’epidemia a Milano del 1630, in quei Promessi Sposi che escono la prima volta nel 1827 ma sono da noi conosciuti soprattutto nella edizione ampiamente rivista del 1840. Pure Pulcinella è morto, ci informa l’ulimo Sonetto. Il 20 settembre, nel più assoluto silenzio per non allarmare la cittadinanza, a Roma è stata istituita «una commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’ occasione che vi si manifestasse il cholera asiatico». Da cui il Natale senza zampognari, e il 14 gennaio del 1837 la proibizione anche del Carnevale. Ira popolare, e pazciale marcia indietro con l’autorizzazione alla Festa dei Moccoletti, che ovviamente ridiffuse il contagio. Non manca il disagio nell carceri, tant’è che posti di fronte alla possibilità di scegliere il 9 febbraio 114 detenuti politici dello Stato Pontificio preferirono l’esilio in Brasile al restare in prigione in casa al rischio di ammalarsi. Ma il riconoscimento ufficiale della presenza del colera in città ci sarà solo il 18 agosto 1837 sul Diario di Roma, con la precisazione che l’indole dell’ epidemia «si mostra finora molto meno maligna di quella che nella maggior parte delle capitali europee». All’epoca lo Stato Pontificio era anche meno trasparente di quanto non lo siano oggi la Russia di Putin o la Cina di Xi Jinping. La dichiarazione ufficiale della fine dell’ epidemia sarà il 3 novembre, e ufficialmente i morti sono 5.419. Ma il censimento di Pasqua dà nel 1837 una cittadinanza di 156.552 abitanti e nel 1838 di 148.903, per una differenza di 7.649.

Il Coronavirus riporta in vita Manzoni, gli untori e i giudici compiacenti. Walter Siti de Il Riformista il 13 Marzo 2020. In questo periodo si è abusato della parola “untori”: ricavata, evidentemente, dal ricordo scolastico dei Promessi sposi. Ma se rileggiamo i capitoli 31 e 32 del libro, vero saggio illuministico inserito nel romanzo, scopriamo che gli untori (nella fantasia popolare) diffondevano la peste consapevolmente e a pagamento; su mandato del cardinale Richelieu o di altre potenze straniere. I due capitoli sono una requisitoria contro l’inerzia dei politici, contro i “sogni” degli intellettuali (basandosi su Aristotele negavano la peste, o l’ammettevano attribuendola a influssi astrali) e contro la credulità di «quello che i poeti chiamano volgo profano, e i capocomici rispettabile pubblico», insomma delle masse. L’invenzione seicentesca degli untori assomiglia a certe ricostruzioni complottistiche che circolano oggi in Rete: che il virus sia stato costruito in laboratorio dagli Usa per mettere in ginocchio la Cina, o che la Cina si sia offerta, in cambio di una riduzione dei dazi, per eliminare un bel po’ di anziani occidentali, riequilibrando il welfare. In un’epoca come la nostra, in cui sono migliorati i processi decisionali e la fiducia nella scienza, si spera che queste bufale restino relegate nel recinto innocuo degli ignoranti che si sfogano con like indignati – ma se davvero l’epidemia dovesse estendersi e aggravarsi, non è escluso che tali fandonie possano condurre ad atti di violenza. Pur nella distanza tra le due situazioni storiche, alcuni meccanismi universalmente umani si ritrovano identici: prima di tutto, il pendolo psicologico che oscilla tra la negazione del flagello e la sua enfatizzazione, con conseguente panico. È fastidioso ammetterlo, ma il nostro cervello e la nostra psiche non sono come volontà li desidera, né possono evitare che l’emotività disordinata prevalga sulla ragione. «Il povero senno umano cozzava coi fantasmi creati da sé», scrive Manzoni, e aggiunge: «Parlare è talmente più facile che pensare». Pietà e compassione nei confronti dei nostri simili, che è anche pietà per noi. Ma questo non significa non poter giudicare gli errori e le manchevolezze, sia morali che civili; nel proseguire la lotta contro il virus bastardo, ci saranno da registrare anche oggi, come allora, «l’imperfezione degli editti, la trascuranza nell’eseguirli, la destrezza nell’eluderli». Don Alessandro fa nomi e cognomi, di politici, di popolani, di medici e magistrati. È duro soprattutto con questi ultimi, non nei due capitoli sopraddetti ma nella Storia della colonna infame, che al romanzo avrebbe dovuto essere allegata; è la storia di come i giudici abbiano ottenuto molte confessioni di sedicenti untori mediante la tortura. Ma, ed è la parte più interessante, non sempre le confessioni furono estorte – alcuni infelici si convincevano di essere untori o, nel delirio della malattia, ripetevano incoscienti il gesto dell’ungere di cui avevano piena la testa. La colpa dei magistrati sta nell’averli voluti colpevoli, tortura a parte: per timore, scrive Manzoni, «di mancare a un’aspettativa generale», di sembrare «meno abili, se scoprivano degli innocenti» – i giudici sono portati a «mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa». Come non riflettere sui rischi analoghi che corrono i magistrati di oggi, e anche i media che talvolta si sostituiscono ai giudici? Dopo aver visto le sorprendenti analogie, vediamo le grandi differenze. Prima di tutto per l’entità materiale della tragedia: Milano prima della peste contava 250 mila abitanti, dopo la peste 64 mila – significa che era morto il 75% della popolazione, una cifra oggi impensabile. Gli sciacallaggi, le violenze dei monatti, l’imbestiarsi dei rapporti umani avevano assunto tinte cupe e selvagge – oggi siamo civilizzati, globalizzati, informatizzati. Di fronte a una mortalità diecimila volte minore, quel che pare insopportabile è la necessità di cambiare “stile di vita”; vige ormai un’inerzia, nelle nostre abitudini, che fa parere un sacrificio anche rinunciare al cinema, o alla partita di calcio, o all’happy hour e alla festa di compleanno; siamo viziati, abbiamo nascosto sotto i rituali quotidiani le fratture profonde che non vogliamo ammettere. Poi, certo, c’è l’economia che va male e può peggiorare non si sa ancora quanto: lo spettro della recessione, il turismo al collasso, i negozi e le aziende che rischiano di chiudere. Il cambiamento che cerchiamo di evitare sarà forse coatto, forse dovremo capire che la globalizzazione trionfante ha qualche bug; forse ci sarà una forte spinta alla digitalizzazione della vita intera, forse rinnegheremo Arcelor Mittal ma non Google; finita l’emergenza, tutti si accapiglieranno di nuovo su come cambiare, e lasciare che le cose vadano “naturalmente” sembrerà come sempre la soluzione migliore, in attesa di un altro scossone. Nel racconto di Manzoni c’è un conflitto interessante tra religione e prudenza sanitaria: i medici sconsigliano gli assembramenti, ma il clero preme per chiedere tutti uniti a Dio (o a san Carlo) di allontanare la peste; perfino il cardinal Federigo, mente illuminata, cede alle insistenze per una solenne processione a piedi scalzi che moltiplicherà il numero dei contagi. Ora la religione è più saggia ma l’economia ha preso il suo posto, sottolineando il conflitto tra lavoro e salute; come se l’economia fosse la nostra nuova religione, e la povertà l’inferno. Si naviga purtroppo a vista, lasciando molto alla responsabilità individuale, come è obbligatorio in democrazia; sarà interessante vedere, nell’evolversi della situazione, come una società dello spettacolo saprà reagire alla privazione degli spettacoli, quanto saprà rinunciare all’intrattenimento e ai fantasmi d’onnipotenza che porta con sé. Chi potrà impedire ai ragazzi di riunirsi nei rave party? O forse loro, i nativi digitali, vinceranno perché il digitale non contagia: riusciremo a tenere a freno la frenesia di mobilità consegnandoci ancora di più all’irrealtà quotidiana, e alle multinazionali che la comandano?

Dalla peste al Coronavirus: la «seconda volta» della Lombardia. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Modeo. È stato evocato subito, ai primi segni tangibili dell’epidemia. Già il 26 febbraio, con la situazione ancora relativamente perimetrata, il preside del liceo Volta di Milano, Domenico Squillace, esortava i suoi ragazzi a «condurre una vita normale» e a «leggere Manzoni» (i capitoli sulla peste), sintetizzandone con esemplare concisione i tratti di una «straordinaria modernità». Ma i teenager, com’è noto e in parte comprensibile, di norma rigettano Manzoni; e anche per molti di noi — che pure istintivamente l’avrebbero accolto —quell’invito suonava come un riflesso pavloviano, un (doveroso) ricorso a un Padre Fondatore, e trasmetteva un certo disagio, come succede spesso quando si accostano eventi remoti e «attuali», un testo «letterario» (anche se, nella fattispecie, permeato di verità storica) e fatti «reali». Per qualche purista, accostamenti simili sono ai limiti del kitsch. Poi, più o meno a partire dallo scorso week-end, un accumularsi di fatti, cifre, percezioni, immagini sembrava mutare tutto. Domenica 8 marzo era una giornata radiosa: chi si fosse spostato in macchina dalla città e dalla sua periferia verso Monza e la Brianza avrebbe potuto vedere aprirsi per gradi, tra lo scorrere laterale dei palazzi, il cielo e i monti dei Promessi sposi («Quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello…») in una risoluzione da 4K «naturale», dovuta all’azione del vento. Ma quello scenario — che in momenti ordinari può esaltare o consolare come pochi altri — interagiva coi numeri dell’epidemia e con gli allarmi reiterati via-WhatsApp di medici e anestesisti (dai reparti di terapia intensiva), producendo un contrappunto spietato, e inducendo a una muta disperazione. Disperazione che si è declinata in commozione il giorno dopo, all’apparire della foto di un’infermiera dell’Ospedale Maggiore di Cremona, Elena Pagliarini, accasciata su un pc dopo 10 ore di servizio ininterrotto, con guanti, mascherina e camice monouso ancora indossati. Come avrebbe spiegato il giorno dopo l’autrice della foto, la dottoressa Francesca Mangiatordi — medico del Pronto Soccorso allo stesso ospedale — quello scatto voleva essere un omaggio, un «abbraccio» ideale alla dedizione di un’operatrice al termine di una notte in cui non si riusciva, per insufficienza di erogatori, a «ossigenare» tutti i 50 pazienti arrivati in quelle ore; e che Elena assisteva come poteva, spesso «con le lacrime agli occhi». Quell’immagine — come succede qualche volta in situazioni simili — riusciva a condensare in sé la tensione crescente di tutti, a risolvere in una sintesi fulminea la paura e il desiderio di vincerla. Da lì, da quei giorni e da quell’immagine — cui se ne sarebbero sovrapposte molte altre, come quelle delle bare bergamasche ospitate nelle chiese o caricate sui camion dell’esercito — l’accostamento con Manzoni è sembrato via via più fondato. Al punto da divampare in decine di articoli. Eppure, qualcosa continuava e continua — ostinatamente — a non tornare: prima e più che per la narrazione manzoniana, per il raffronto troppo sbrigativo tra la «prima volta» della Lombardia e del Nord — la prima esposizione di quelle aree a uno shock epidemico in età moderna, almeno di quell’ intensità e di quella portata simbolica — e la «seconda», cioè l’esposizione in corso allo shock epidemico e psicosociale (comunque devastante) di SARS-CoV-2. Una disinvoltura che sembra fondere i due shock in un’indistinzione ambigua, negando le loro specificità a ogni livello, da quello microbiologico a quello dello stress e della sofferenza sociale e individuale. Per verificare il loro grado di comparabilità e per tornare a Manzoni in modo meno automatico, bisogna forse partire da lontano. Quando si dice «peste», si intende di norma la forma «bubbonica», che pure in certe fasi (come nel Medioevo) appare in alternanza con quella «polmonare» (invernale e più letale). Osservata «in lunga durata», la peste bubbonica si articola in tre cicli pandemici: il primo, nell’Alto Medioevo, come «peste di Giustiniano», che produce «venti ondate», tra 542 e 767, lungo la tratta Mar Rosso-Costantinopoli- Roma; il secondo esteso tra la Morte Nera del ‘300 e le pestilenze secentesche, ultima ondata prima del declino della malattia; il terzo relativo alla fase asiatica, a partire dalla seconda metà dell’800. Con un’ulteriore, più ampia ciclicità o meglio circolarità: quella che unisce l’innesco della Morte Nera (dall’Asia all’Europa) e il «rientro» dall’Europa all’Asia. L’innesco ha un iter tortuoso: penetrando nello Yunnan e in Birmania, gli eserciti mongoli vengono a contatto col patogeno attraverso gli «ospiti serbatoio», i roditori selvatici (ratti neri) diffusi alle pendici dell’Himalaya; quindi, lo trasportano prima nelle steppe dell’Asia Centrale (dove si stabilisce nei roditori locali), poi verso l’Europa, passaggio decisivo l’assedio del khan Djanisberg e dell’Orda d’Oro (1347) alla base commerciale genovese di Kaffa, sul Mar Nero, coi cadaveri dei pestilenti gettati oltre le mura per contagiare e fiaccare il nemico. Il «rientro» — dopo cinque secoli di esplosioni periodiche in Occidente, ogni dieci-dodici anni — avviene intorno al 1855 nelle aree di Hong Kong, dove nel 1894 il batteriologo Alexandre Yersin isola l’agente patogeno, cioè il batterio Yersinia pestis, arrivato all’uomo per spillover o «salto di specie» dall’ospite serbatoio (il ratto) ma soprattutto da ospiti intermedi come la pulce parassita dei ratti stessi (Xenopsilla cheopis) o il pidocchio. Le pestilenze secentesche condividono con quelle trecentesche molti tratti epidemiologici e culturali: il carattere «endemico» tra quiescenze e esplosioni, che si attenuano solo con le prime reazioni di contenimento (la quarantena escogitata a Dubrovnik nel 1377, durante la peste «veneziana»); la «triangolazione» fatale con le guerre (uno dei principali veicoli di trasmissione) e le carestie (che espongono al patogeno organismi debilitati e immunodepressi), tale da ispirare una litania diffusa («A peste, fame et bello/ libera nos, Domine»); e soprattutto l’insinuarsi traumatico a livello psicosociale e esistenziale, come mostrano in un senso l’iconografia medievale (il diffondersi di «danze macabre» e «Trionfi della Morte», come negli affreschi dell’Oratorio de’ Disciplini a Clusone), nell’altro la statuaria barocca di piazza, le tante «colonne» votive «della peste» in tante aree della futura Mitteleuropa (celebre quella viennese, ma non ne mancano nel Nord Italia, come a Concorezzo). Il discrimine principale, invece, tra il ciclo trecentesco e quello secentesco consiste nei tassi di letalità e nell’impatto demografico. La Morte Nera uccide in cinque anni (tra 1347 e ’52) 25 milioni di europei, e da un terzo alla metà della popolazione eurasiatica e africana, che ammontava a 500 milioni di persone. Per quanto devastanti, i numeri delle pesti secentesche sono di molto inferiori, anche se vanno integrati con quelli di molte altre epidemie (tubercolosi, scorbuto, dissenteria) che si diffondono seguendo i continui sposamenti militari nel contesto della Guerra dei Trent’anni (1618-48), il conflitto decisivo dell’Europa moderna, innescato dalla contrapposizione tra cattolici e protestanti ma presto dilatato in ennesima sequenza del contrasto franco-asburgico per l’egemonia continentale. «Affluente» secondario del conflitto, la guerra di successione di Mantova e del Monferrato dopo la morte di Vincenzo II Gonzaga (1627), fondale della pestilenza lombarda anche nella narrazione manzoniana. A loro volta, i dati della peste secentesca in Nord Italia sembrano abnormi se paragonati ai giorni e alle ore che stiamo vivendo. Non si hanno dati precisi sul periodo complessivo (1629-33); ma sul biennio centrale (1630-31, i picchi nel Carnevale del ’30 — con le «misure» allentate — e nell’estate del ’31) Manzoni stesso valuta per le sei «regioni» coinvolte (Lombardia, Piemonte, Repubblica di Venezia, Trentino, Emilia-Romagna, Toscana) un milione di morti, vicino al dato oggi diffuso (che è superiore di 100.000). A sorprendere, è la distribuzione, per cui decisive sono le due fonti principali di Manzoni, il medico Alessandro Tadino e il medico-canonico Giuseppe Ripamonti. Il dato-monstre di Milano quanto a decessi sembrerebbe infatti fuori discussione: secondo Tadino, resterebbero a fine epidemia 64.000 abitanti su 250.000, con una perdita del 74%); secondo Ripamonti, i morti sarebbero 140.000 su 200.000 (con percentuale simile, 70%); anche se studi recenti, pur mantenendo alta la mortalità (46%), ridimensionano di molto la demografia (60.000 su 130.000). Percentuali altrettanto se non più alte appaiono in Veneto (Verona perde il 61% degli abitanti, Padova il 59) e in Emilia (Modena il 55, Parma il 50); e comunque distruttive in tutta l’odierna Lombardia (Cremona 46%, Brescia 45, Como 42, Bergamo 40). Nel Ducato di Milano, com’è noto, l’irruzione dell’epidemia viene «favorita» dal crash economico-produttivo del biennio precedente (’28-’29), in cui centrali sono la crisi del tessile (per via della concorrenza fiamminga) e la penuria di grano, alle origini di disordini sociali (come quelli descritti nei «tumulti del pane»), tali da costringere gli Asburgo a chiamare in soccorso i Lanzichenecchi, le «bande alemanne» portatrici del patogeno in mezza Europa. Con ovvi effetti di circolarità viziosa: a Busto Arsizio, ad esempio, la crisi post-pestilenza sui brand locali (cotone e seta del mitico baco, il filugello) diverrà parossistica. Milano, per la verità, aveva già patito tra ‘400 e ‘500 diverse irruzioni di peste o di altre epidemie: nel 1447 una non meglio precisata «febbre» mieteva 22.000 morti e provocava nei contagiati deliri tanto intensi da indurli a gettarsi dalle finestre; nemmeno 40 anni dopo (1484) la cosiddetta «epidemia magna» portava all’edificazione del Lazzaretto fuori Porta Venezia (opera avveniristica — 288 stanze — di Lazzaro Palazzi) e impressionava Leonardo al punto, forse, da fargli concepire una «nuova “città aperta», in grado di disperdere «la tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno»; infine, un secolo più tardi, la non meno celebre «peste di San Carlo», che «cinquantatrè anni avanti» al 1630 (cioè nel 1576) aveva «desolata» «una buona parte d’Italia». Ma nonostante quei precedenti — è uno dei tratti più controintuitivi della narrazione manzoniana sull’epidemia — quando il morbo irrompe a macchia «in questo o quel paese» sembra dovuto a «mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Solo ai più anziani, che ricordano la peste di San Carlo — pochi, in una comunità dall’aspettativa di vita piuttosto bassa — quei segni non risultano «nuovi». Per i più — come per noi oggi con SARS- CoV-2 — la peste è l’incontro con l’«unfamiliar», con una dimensione frastornante. A questo punto, dovrebbe emergere «oltre ogni ragionevole dubbio» l’impossibilità di un accostamento frontale tra la peste del 1630 e l’impatto di SARS-CoV-2, che pure ha di nuovo investito in modo drammatico la Lombardia come «avamposto», come nucleo di sofferenza di un’epidemia-pandemia. Non si tratta solo di cifre, che parlano da sé. Si tratta anche di una configurazione socioeconomica molto diversa, in cui la presenza/assenza di guerre, carestie e condizioni sanitarie disperate esercita un discrimine molto marcato. Così che molto diversi diventano anche gli ambienti, i paesaggi materiali e sociali. Per rendersene conto, sarebbe sufficiente andare a rileggersi alcune sequenze del romanzo: l’attraversamento di Milano da parte di Renzo per raggiungere il lazzaretto (XXXIV, con un’allucinata classificazione somatica e neuropsichiatrica degli «sbandati» nelle strade); le condizioni igienico-sanitarie e l’atmosfera allucinata del lazzaretto stesso (XXXV); il celebre «funerale» della piccola Cecilia (di nuovo XXXIV), per inciso uno dei vertici formali del romanzo, dolente e penetrante come l’aria di una Passione bachiana o di un Oratorio di Händel. Questi ultimi esempi dimostrano come in Manzoni lo scrittore e lo storico non siano mai davvero separabili. Nei capitoli iniziali sulla peste, però (XXXI-XXXII), il Manzoni «storico», pur non potendosene distaccare, prevale temporaneamente sullo scrittore, come mostra il grande lavoro sulle fonti. Lì, è come se gareggiasse coi modelli classici di storici-scrittori, Tucidide o l’amato Tacito. Sono quindi soprattutto quei due capitoli a fare del romanzo una possibile interfaccia tra le due epidemie (peste e SARS-CoV-2), a permettere di andare oltre (a lato) della loro incomparabilità attraverso una serie di relazioni (per analogia o differenza) a livello di «invarianze» politico-economiche o comportamenti individuali e collettivi. Con un’aggiunta, non scontata. Manzoni adotta il romanzo storico anche per poter «parlare a nuora perché suocera intenda» (descrivere le sopraffazioni degli occupanti secenteschi per alludere a quelle degli occupanti suoi contemporanei, aggirando i rischi censori); e lo colloca in quel periodo proprio perché la peste gli permette di risolvere la complessità dell’intreccio e completare il suo scavo sulla natura umana e la psicologia sociale. Questo finisce per collocare il libro, ai nostri occhi, in un’ideale posizione «mediana», in una sacca temporale equidistante, 200 anni dopo la peste e 200 prima di SARS-CoV-2. Diverse tra quelle relazioni sono state già evidenziate, a partire proprio da quelle psicosociali (vedi l’epidemia come scrematura di comportamenti solidali o egoico-criminali). Qui ne proponiamo altre. Alcune sono incidentali e esterne, come quelle sull’esordio del contagio. L’analogia consiste nella possibile coincidenza dei «pazienti zero»: un soldato delle «bande alemanne» (lanzichenecchi mandati a Milano per controllare i tumulti) e un asintomatico tedesco, un impiegato della bavarese Webasto che passa nel lodigiano tra 24 e 26 gennaio, a sua volta contagiato da una collega di Shanghai in un «meeting» aziendale inter-continentale a Monaco). La differenza, nell’area del focolaio primario, nel ‘600 situata a nord di Milano (area lecchese-brianzola), oggi a sud (Codogno, Lodi e la bassa tutta). Altre sono più profonde, strutturali. Proviamo a individuarne qualcuna: un paio di analogie e un paio di differenze, con l’ovvia asimmetria — a tratti — tra una realtà «regionale» e una «nazionale».

La prima analogia riguarda il «contenimento» dell’epidemia, le pratiche e i provvedimenti per separare contagiati e suscettibili, che deve affrontare comuni impasse e problemi, anche se con gradazioni diverse. Nella Milano secentesca, il rigetto-rimozione iniziale sulla gravità della situazione dovuto alla «comune miscredenza» di popolo e istituzioni (le «beffe incredule» e il «disprezzo iracondo» del primo; la «cecità» delle altre) si traduce in una letargia complice («l’imperfezion degli editti», «la trascuranza nell’eseguirli», «la destrezza nell’eluderli») che fa precipitare la situazione. Né servirà il tardivo destarsi «da un profondo sonno» dei Magistrati, che cercano di rendere operative le proposte del tribunale della sanità («i sequestri ordinati, le quarantene prescritte»); tribunale e, a sua volta, aveva implorato «cooperazione» e ottenuto «poco o niente». Anche nella reazione al primo diffondersi di SARS-CoV-2 ci sono stati rigetti di massa (incredulità e scetticismo irridente da bar) e esitazioni/contraddizioni nei provvedimenti, tra poca coordinazione (Governo, Regioni, Comuni) e contraddittorietà sia di atteggiamento (oscillante tra rassicurazione e allarme) sia di provvedimenti, così come non sono mancati sabotaggi nell’eseguirli, con momenti della più classica strafottenza anarcoide nazionale (gli affollamenti delle piste di sci al nord, gli assembramenti al centro-sud, gli assalti ai treni). Sabotaggi che stanno proseguendo tuttora, nonostante una situazione ospedaliera oltre ogni limite, rendendo impossibile ogni contrasto davvero risolutivo alla diffusione del patogeno.

La seconda riguarda il rapporto epidemia/economia, cui Manzoni dedica ampio spazio e che è subito emersa come la complicanza principale nel gestore SARS-CoV-2. Nella Milano colpita dalla peste, i problemi principali sono il reperimento di cibo, i costi sanitari e «il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori». Quindi, dato il bilancio drammatico dello Stato («le casse vòte»), si procede in due modi: da un lato (come già nella peste di San Carlo) si cerca di ottenere dalla Camera la sospensione delle sue «imposizioni»; dall’altro, i Decurioni cercano «di far danari per via d’imprestiti», distribuendoli poi «un po’ alla Sanità, un po’a’ poveri» e acquistando il grano per il pane. Quadro non dissimile da quello di questi giorni, con provvedimenti interni (esenzioni per tasse e mutui, bonus per categorie mirate) e un patto con la Ue e la Bce per una flessibilità (leggi: un indebitamento) eccezionali, che compensi le spese immani (in primis sanitarie) e l’arresto di Pil.

Le due differenze sono altrettanto rilevanti. Una è l’incidenza sociosanitaria e psicosociale del clero (regolare e secolare), inconcepibile in una società come la nostra. Nei Promessi sposi, quasi tutte le figure centrali nella gestione dell’epidemia- cui i politici si rivolgono impotenti- sono ecclesiastici: il padre cappuccino Felice Casati, che segue 50.000 ricoverati nel Lazzaretto; il suo collega Michele Pozzobonelli, che soddisfa una richiesta disperata dei magistrati e della Sanità (la sepoltura di migliaia di cadaveri lasciati nelle strade) reclutando 200 contadini; e il contributo di 60 parroci che accettano di ricoprire funzioni «temporali» (surrogare la penuria di operatori sanitari) al prezzo della vita (ne moriranno infatti «otto noni»). Solo un anticlericalismo volgare potrebbe disconoscere un simile contributo. Ai nostri occhi, a quella perdita corrisponde — nell’altra differenza — un guadagno. Perché sarebbe altrettanto inconcepibile, per noi — almeno per le maggioranze — la riconduzione causale di un’epidemia a interventi divino/demoniaci o all’azione venefica degli untori. Certo, anche allora in tanti erano intimamente orientati a spiegazioni più logiche (l’incidenza del contagio/contatto), come riassume il memorabile aforisma manzoniano sul conformismo delle masse: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune», dove per «buon senso» si intende il versante «popolare» di quel disincanto razionale condiviso da Manzoni col «congiunto» Pietro Verri. Ma un vero superamento della visione metafisica» delle epidemie avrebbe dovuto passare per la concezione microbica, che vede accumularsi alcune delle sue tappe più spettacolari pochi anni dopo la morte di Manzoni: i «postulati di Koch» per mostrare il legame tra un microorganismo specifico e una determinata malattia infettiva (1884); lo stesso isolamento di Yersina pestis da parte di Yersin (1894); quello del primo virus (del «mosaico del tabacco») attraverso i contributi di Ivanovskij e Bijerinck (1892 e 1898).

Da quel momento — nel nostro scontro tra specie con i patogeni — non solo cominciamo a morire meno (per cure sempre più efficaci); sappiamo anche perché moriamo. Il break della concezione microbica delle epidemie ci ricorda quanto la Lombardia del 2020 sia lontana (aliena) rispetto a quella della peste. Certo, in tutti e due i casi parliamo di vaste aree (comprendendo il Nord) densamente abitate e altamente produttive, assetto predisponente in un contagio. Ma quella era una proto-regione spartita tra il Ducato e la Serenissima; questa una regione-mondo innervata e plasmata da flussi migratori interni e internazionali, con un capoluogo tra i più «mixed» del pianeta; il che non esclude perverse continuità, coi ‘ndranghetisti infiltrati al posto dei Bravi. Quella era un’area di peso tra altre in una Nazione a venire; questa una regione-traino che produce il 22% del Pil nazionale: il che spiega, tra l’altro, la grande cautela iniziale nell’«isolarla» (così come tutto il Nord): la Cina ha potuto blindare la megalopoli Wuhan e l’Hubei in scenari da Andromeda perché il resto della Repubblica continuava a produrre e esportare: congelare la Lombardia equivale a congelare l’Italia.

Diverse sono poi le caratteristiche dei due patogeni: perché è vero che tutti e due sono stati «cercati» dall’uomo (i topi himalayani dai Mongoli e i pipistrelli-reservoirs di SARS CoV-2 da qualche mercato di animali selvatici» in Cina); ma il mondo medievale-moderno della peste (che procede verso «l’unificazione microbica») è lontano dall’essere connesso e veloce come il nostro, sintetizzato dall’«effetto Lorenz», quell’effetto— ricordiamo — per cui «il battito d’ali d’una farfalla a Pechino può scatenare un uragano a New York» e in cui basta sostituire il pipistrello alla farfalla per vederne il «dark side». Così come molto diversa, infine, è la parabola evolutivo-epidemiologica. La peste del 1630-31 è al tramonto occidentale: si ritrae già a partire dal 1640 (scomparirà nel 1722, dopo fiammate come Londra), tanto che si è ipotizzata un’immunità di gruppo maturata proprio nelle pestilenze precedenti; in realtà, il batterio regredisce da un lato per la nuova profilassi (il sapone di Marsiglia) dall’altro- soprattutto- per mutamenti climatici che introducono al posto del ratto nero quello grigio (surmolotto), molto più resistente al bacillo. Il coronavirus di SARS-CoV-2 è antico per il pipistrello ma nuovo per l’uomo, e nessuno ne conosce i «comportamenti». Se la proiezione inglese di queste ore fosse esatta (una curva estesa al 2021, lì si una vaga simmetria con la peste del 1630-31), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato.

Se la proiezione inglese di queste ore fosse esatta (una curva estesa al 2021 e agli anni a venire), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato, almeno in attesa del vaccino. (una curva estesa al 2021, lì si una vaga simmetria con la peste del 1630-31), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato. Il che introduce «il» tema: il fatto che SARS-CoV-2 «non sia la peste» (e qui si è cercato di mostrarlo in modo definitivo), non significa che sia un virus di impatto lieve («poco più che un’influenza»). Sicuramente non ora, a sistema immunitario scoperto.

E proprio il caso lombardo è lì dimostrarlo. Un caso la cui entità eccezionale, tra l’altro, non è facile da esplicare (ci vorranno mesi), con diversi cofattori possibili: il fatto di costituire il «fronte» dell’incontro col patogeno; il tratto citato che unisce densità demografica e connessione commerciale-sociale tra province; i tanti siti di produzione tenuti aperti; l’alta età media della popolazione (dovuta a quella stessa «eccellenza» sanitaria ora in crisi); i contagi nosocomiali; la variazione locale del patogeno; l’inquinamento; chissà cos’altro.

Primo, i dati. Alla sera del 20 marzo, la Lombardia registrava 22.264 casi e 2549 decessi, un «tasso grezzo» di letalità dell’11,4%: per quanto da ridimensionare di molto in rapporto alla diluizione dei contagi non computati, resta altissimo rispetto a quello del resto d’Italia (24.757 casi per 1483 decessi, 5.9) Tra le aree più colpite, la bresciana e la bergamasca, in particolare paesi come Nembro o Alzano.

Secondo, gli anziani. Un serpeggiante allegretto cinico-amorale non solo irride l’età media dei decessi (più o meno 80 anni), ma vede anzi in questo una «soluzione» naturale a uno dei «tappi» dell’Occidente il peso sanitario-pensionistico che sta incurvando il sistema. In più. Secondo l’allegretto, il fatto che quegli anziani muoiano per l’incidenza co-fattoriale del virus su patologie pregresse, ne indicherebbe la sostanziale irrilevanza. Ora, l’età media ha già registrato diverse eccezioni: una delle ultime è Diego Bianco, operatore 118 all’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo (47 anni ma un volto da ragazzo, nessuna patologia pregressa), a tacere di tanti under 50 o persino 40 che stanno testimoniando sull’aggressività del patogeno. Quanto alla componente co-fattoriale, non si può (far finta di) non capire come in assenza di SARS-CoV-2 molti di quegli anziani avrebbero avuto ben altre — e più regolari — aspettative di vita. Ma soprattutto, a quell’allegretto non va poi prestata troppa attenzione: anche pensando a come progredisce la malattia (le testimonianze sulle «voci flebili» che invocano aiuto, o sugli «sguardi angosciati», ancora più eloquenti) e a come si muore (soli, ogni affetto amputato), viene naturale concentrarsi sui bagliori nella foresta: il trend generale crescente ma non più esponenziale, i buoni dati locali (Codogno), gli ospedali in costruzione. E sulla «battaglia di Milano» da vincere o almeno impattare, perché, se si perdesse lì, gli attuali scenari da sopportare (reclusione e atmosfera da distopia-light nelle strade) potrebbero essere da rimpiangere. E ben sapendo che non ci sarà una cesura netta a indicare il «dopo» (il temporale liberatorio dei Promessi sposi o la colomba dopo il diluvio), ma che l’uscita si intravedrà dopo un lungo corpo a corpo col patogeno, giorno per giorno, ora per ora.

Manzoni scriveva, come s’è visto, da uno spaziotempo mediano, 200 anni dopo la peste e 200 anni prima di SARS-CoV-2. Potremmo disporci anche noi in quella posizione, 2 secoli dopo i Promessi sposi e 2 prima di un 2220 in cui poterci trasferire idealmente per leggere in retrospettiva sul nostro attuale momento. Immaginare un futuro in cui non si è contemplati individualmente è sempre un buon esercizio anti-apocalittico. Cosa vorremmo trovare? Magari un testo - magari una nuova narrazione storica, non importa su quale supporto - in cui si leggesse che la Lombardia-mondo nel 2020-21 ha affrontato il primo shock epidemico del millennio e- tra grandi difficoltà- l’ha superato, come aveva superato quello, ancora più sconvolgente, di 400 anni prima. E magari che al testo si accompagnasse un’immagine-simbolo: quella di un’infermiera di Cremona.

Tra le tante edizioni dei Promessi sposi se ne segnalano due; quella dei Tascabili Einaudi, 2012 (che include in appendice anche la Storia della colonna infame ed è introdotta in modo eccellente da Salvatore Silvano Nigro); e quella della BUR Rizzoli, 2014, a cura di Francesco De Cristofaro, arricchita anche in questo caso dalla Colonna infame, da tutte le illustrazioni di Francesco Gonin e da un ricco commento.

Per le epidemie-pandemie tra Medioevo e età moderna si rimanda a Adriano Prosperi (Dalla Peste Nera alla Guerra dei Trent’anni, Einaudi, 2000) e al nuovo libro di Frank M. Snowden, Epidemics and Society, Yale, 2019.

Ulteriori approfondimenti italiani sono i libri di Carlo Maria Cipolla sulla peste (su tutti Contro un nemico invisibile, Il Mulino, 2007) e uno studio recente di Guido Alfani e Marco Percoco sull’impatto economico-demografico delle epidemie di peste in Italia tra 1575 e 1700 (The Economic History Review, marzo 2019).

Dagli all'untore. Vittorio Coletti l'1 marzo 2020 su La Repubblica. Chissà se il dirigente di Alisa, la superazienda sanitaria ligure, che, in una grida contro il contagio da Coronavirus, ha non limitato, come ragionevole, ma del tutto proibito le "visite di conforto" ai malati e ai vecchi ricoverati in luoghi di cura, si è reso conto di aver rinnovato uno dei danni collaterali più lamentati nella storia delle pestilenze: la trascuratezza degli affetti più cari. Boccaccio, nella descrizione della peste di Firenze, scrive scandalizzato: "E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e… i parenti… rade volte o… mai si visitassero", ma addirittura "l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote … e… la donna il suo marito…li padri e le madri i figliuoli (malati), quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano". Ma non è solo questo aspetto a riemergere dal più buio passato. Le due signore, che, in strada a Imperia, mi chiedono chi c’è dietro l’epidemia in corso e che, alla mia ingenua e pedantesca risposta sulle origini del contagio da animali all’uomo e sull’alta infettività di un virus nuovo per il corpo umano ecc. ecc., scuotono il capo deluse, convinte, l’una, di "poteri forti" e, l’altra, di "trame oscure", rinnovano in pieno XXI secolo la paura e la caccia all’untore raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi. Cap. xxxi: "Mentre (l’autorità competente) cercava (la causa, l’origine della peste), molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato": gli untori. Nel Seicento si pensava che la peste doveva essere trasmessa deliberatamente da persone cattive, come oggi il coronavirus da poteri forti e da trame segrete. Si era così sicuri degli untori immaginari che chi allora, come il maldestro sottoscritto oggi, si sforzava di proporre ragionamenti diversi, negando "l’esistenza di una trama, passava per cieco, per ostinato, se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzione del pubblico". Perché? Ecco la risposta di Manzoni: "Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano… volentieri quella credenza (negli untori): ché la collera aspira a punire: e… le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi". Oggi non si tratta certo di rassegnarsi, perché ci sono i mezzi e la cultura per combattere o almeno contenere efficacemente i danni dell’ennesima epidemia, ma bisognerebbe attenersi, ancora con Manzoni, al buon "metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare" e invece la comunicazione sui social ha moltiplicato, con le chiacchiere a vanvera, i complotti, gli untori, le congiure politiche, le speculazioni indicibili. E tanti oggi, come nel Seicento i milanesi (colti e popolani), sono sicuri degli untori e li giustizierebbero sul posto, come era stato fatto con quelli di Milano, se questi nuovi malvagi non fossero così più astuti e potenti dei vecchi da restare sconosciuti e inafferrabili. Le due signore non hanno il minimo dubbio e non so se compatiscano la mia ignoranza o disprezzino la mia complicità. L’epidemia da coronavirus, pensano, non ci sarebbe se non ci fosse questa nuova generazione di untori. Forse non ci sarebbe neppure il coronavirus. Oggi, del resto, la realtà fisica della malattia, di qualsiasi malattia, è revocata in dubbio e sempre più la si ammette solo come esito o di errore medico o di interesse economico o di calcolo perverso di forze occulte: tutte e solo cause umane, anche per mali che o ne hanno troppe per spiegarli con una sola o ne hanno di così radicate nella costitutiva debolezza dell’uomo da non poter essere mai del tutto eliminate. Se non ci fossero disfunzioni o malvagità, si pensa, non ci sarebbero malattie. Due secoli abbondanti di progresso culturale e scientifico ed ecco che, al riaffacciarsi di una delle più antiche minacce che incombono da sempre sull’uomo: un’epidemia (forse ci si illudeva di esserne ormai immuni?), riemergono gli stessi pensieri, le stesse reazioni irrazionali della popolazione della Milano del milleseicento alle prese con la peste. Sembra incredibile!

Untori, numeri e false voci. Mario Barenghi il 27 Febbraio 2020 su doppiozero.com. Di tutti gli strumenti inventati dal genere umano si può fare un uso buono o cattivo. Ad esempio, per quanto riguarda la matematica, io mi sono convinto da tempo (a ragione o a torto: non ho le prove di quanto sto per dire) che usi cattivi, compresi in un arco che va dal discutibile al deleterio fino al pessimo e all’esecrabile, sono avvenuti in campo economico-finanziario. Economisti ignari di matematica e matematici ignari di economia hanno cooperato per mettere in circolazione una serie di tecniche e procedure che hanno provocato effetti enormi, in larga misura imprevisti, nella più assoluta indifferenza dell’aurea definizione, condivisa a suo tempo dallo stesso Adam Smith, secondo cui l’economia, dopo tutto, è «una scienza morale». Esempi di uso buono, anzi, prezioso della matematica si trovano invece in campo medico; e in particolare in campo epidemiologico, tema che imperversa nell’informazione di questi giorni. Un’efficace esposizione dei dati fondamentali è stata fornita da Paolo Giordano sul «Corriere della Sera» dello scorso 25 febbraio, in un articolo al quale rimando senz’altro (Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos).  Dalle considerazioni di Paolo Giordano – non diverse, del resto, da quelle fatte da numerosi esperti, e non solo in questo frangente, a cominciare dal noto virologo Roberto Burioni – si possono comprendere bene certi aspetti della questione dei vaccini, di cui molto si è dibattuto in tempi recenti. Ad esempio, risulta chiaro perché, per prevenire le epidemie, è indispensabile che siano vaccinate percentuali ben definite della popolazione, diverse a seconda delle malattie (la cosiddetta «immunità di gregge», herd immunity). Se si richiede una copertura vaccinale elevata per il morbillo (il 95%) è perché il morbillo è una malattia molto contagiosa: un malato di morbillo infetta in media altre 15 persone. Quindici sarà quindi il parametro R0 del cosiddetto «modello SIR»: sigla, questa, desunta dalle iniziali delle tre categorie o compartimenti in cui la popolazione viene suddivisa in questo tipo di analisi, cioè Susceptibles (coloro che possono ammalarsi), Infectious o Infected (gli infettivi o infettati), Ricovered (i guariti). Ma il discorso sui modelli matematici applicati all’epidemiologia potrebbe essere lungo, e richiederebbe competenze che non ho. Piuttosto, converrà soffermarsi su un altro aspetto. I modelli matematici che spiegano la diffusione delle epidemie possono essere usati anche per descrivere la diffusione delle notizie; in particolare, delle notizie false. Come scrive lo stesso Paolo Giordano, «Anche rispetto a un’informazione errata ognuno di noi appartiene a uno dei tre insiemi: i Suscettibili, gli Infetti oppure i Guariti». Questa dinamica è in qualche maniera adombrata da una ormai consolidata metafora: l’uso dell’aggettivo «virale» per indicare una diffusione capillare e repentina. Personalmente, io l’ho sempre trovato sgradevole. Faccio fatica a scindere i vocaboli «virus» e derivati dalla connotazione patologica: se una parola, uno slogan, un modo di dire, un aneddoto, un’immagine, un filmato viene associato all’attributo «virale» non riesco a non percepire un’implicazione morbosa, che può investire sia la semplice propagazione (è improprio pericoloso perverso che una certa cosa sia divulgata), sia la cosa in sé, sulla quale ai miei occhi viene immediatamente a gravare un’ipoteca di nocività. Ciò che viene qualificato come «virale» mi pare insomma veicoli sempre contenuti falsi, mistificanti, malevoli, oltraggiosi. Ciò detto, a un italianista non può non sovvenire una circostanza notevolissima. La più accurata rappresentazione del propagarsi di un’epidemia, la peste del 1630 in Lombardia descritta nel cap. XXXI dei Promessi sposi, è immediatamente seguita dalla descrizione del delirio degli untori (cap. XXXII). Alla diffusione del contagio s’intreccia un’epidemia di notizie fasulle: invenzioni febbrili partorite dalla paura e dalla rabbia, dalla smania feroce di vendicarsi su qualcuno, da un’immaginazione accesa e funesta. Il Manzoni non presenta modelli matematici: ma dalle sue pagine risulta chiara la proporzione diretta fra la misura della catastrofe e l’alterazione delle facoltà mentali, che stravolge la capacità di giudizio. Uno degli episodi più significativi del romanzo è l’incontro fra Renzo, tornato a Milano a cercare Lucia, e il passante che lo scambia per untore (cap. XXXIV). Lì per lì non accade nulla: lui si spaventa, lo minaccia, Renzo se la dà a gambe. Quanto al passante, corso a casa, racconta trafelato di aver incontrato un untore, che aveva in mano «lo scatolino dell'unto, o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de' due)», e aveva tentato di fargli il colpo. Il narratore ci informa che costui sopravvisse al contagio; non solo, ma ebbe la ventura di campare a lungo: «e ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: – quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste». Insomma, il pregiudizio è tanto più vasto e persistente, quanto maggiore è la sensazione di impotenza: non solo ostacola l’esercizio della ragione, ma distorce le stesse capacità percettive. Ma c’è un’altra considerazione che occorre fare. Finora non si sono verificati, mi pare, episodi drammatici di intolleranza: la ricerca di capri espiatori, allo stato presente, è stata contenuta entro limiti controllabili. Avvisaglie, però non ne sono mancate. Ora, negli stati d’animo collettivi vige una notevole forza d’inerzia. Un gruppo sociale o una comunità tradizionalmente indifferente di fronte a un fenomeno può – in apparenza (in apparenza solo!) d’improvviso – cambiare umore, e attaccarcisi d’un tratto con attenzione spasmodica, facendone oggetto di un’ossessione. Da questo punto di vista, è indispensabile restare sul chi vive. Mai sottovalutare i sintomi di derive paranoidi. Per citare di nuovo il Manzoni, quando il delirio degli untori fosse conclamato, sarebbe troppo tardi per arginarlo: troppo costoso – o troppo rischioso – opporsi a una credenza dilagante. I fantasmi più pericolosi sono quelli che «il povero senno umano» (come diceva don Lisander) si fabbrica da sé. Pericolosi, perché derivano da un senso di vulnerabilità: chi ci si aggrappa, in assenza di armi migliori, riversa nell’affrontarli un’energia e un’intransigenza tanto maggiori quanto più forte è l’impressione di non avere altra risorsa. Insomma: oggi più che mai abbiamo bisogno di rimanere lucidi. Di ragionare, di prestare ascolto agli esperti. E ricordiamoci di quanto sarà accaduto, quando, in tempi tranquilli, rialzeranno la testa i No-Vax e i loro accoliti; e quando qualcuno, per lucrare consensi, darà loro spago. Nello stesso tempo, conviene domandarsi che cosa corrisponde, nel caso delle notizie false, agli strumenti con cui la medicina contrasta i virus patogeni. L’immunità permanente, a livello di credenze collettive, è probabilmente, nel senso stretto del termine, una chimera. Però esiste la possibilità di individuare le falsità (diagnosi!) e denunciarle. Esiste la possibilità di scovarne i germi nelle fasi di latenza. E la cosa che assomiglia di più ai vaccini – sia pur temporanei, e bisognosi di periodici richiami – è rappresentato dall’educazione. Troppo spesso accade ancora di incontrare nostri concittadini che rigettano con sufficienza, o con insofferenza, i numeri. Certo, i numeri possono anche essere manipolati; anche con i numeri si può mentire, eccome. Ma al di fuori dei numeri, dei dati, delle statistiche, ci sono solo le impressioni soggettive: le idiosincrasie personali, l’aneddotica spicciola. Come si usa dire, i discorsi da bar. Ecco, forse bisognerebbe frequentare un po’ di più i bar, e non aver paura di discutere con chi li frequenta. O meglio: imparare a discutere con chi li frequenta.  (Chi ha aggiunto: invece di scrivere articoli per «Doppiozero»? Vi ho sentito! Ma sì, avete ragione voi). 

·         Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. Da un paio di mesi Codogno non registra contagi. Ma il nome della cittadina è quello e per molti significa una sola cosa: zona rossa, allarme! Una sorta di marchio d' origine con il quale devono talvolta fare i conti i residenti che vorrebbero prenotare una vacanza. È successo, per esempio, a Davide Passerini, avvocato codognese e pure sindaco di un vicino paese, Fombio, che avrebbe voluto trascorrere un fine settimana in Toscana. «Volevamo tornare in un agriturismo che c' era molto piaciuto. Tre famiglie con figli, 12 in tutto - racconta Passerini - ho chiamato il proprietario della struttura ma non c' era posto. Gentilmente, si è offerto di trovarci un' altra sistemazione. Detto fatto: bed&breakfast in zona. Abbiamo prenotato e sembrava tutto a posto. Giro la fotocopia della carta d' identità e preciso per mail che siamo di Codogno. Risposta dell' albergatore: purtroppo affittiamo di settimana in settimana». Affiorano delusione e rabbia. «Ho richiamato il tipo dello scorso anno per capirne di più e lui, dopo essersi informato, me l' ha detto chiaro: erano terrorizzati per il Covid. Ora, io non voglio fare nomi perché so bene che poi questi signori vengono crocifissi dai social ma trovo tutto ciò davvero mortificante». È singolare il fatto che lui stesso abbia voluto puntualizzare al bed&breakfast che arrivavano da Codogno. «Perché il pregiudizio c' è, si sente, si respira. Molti concittadini mi hanno raccontato storie analoghe. In Liguria sono arrivati a restituire la caparra pur di non ospitarli». Toscana, Liguria, Sicilia, Abruzzo, Romagna. Ambra Traversoni voleva fare un regalo al suo ragazzo organizzando una vacanza sulla riviera romagnola. Ha provato in tre alberghi e sono stati tre no. «Solo per il fatto che è di Codogno», spiega il padre Danilo, facendo così insorgere il sindaco di Riccione, Renata Tosi: «Faccio fatica a credere a questi rifiuti, proprio noi che abbiamo nominato un infermiere di Codogno, fra i primi a intervenire sull' emergenza, ambasciatore di Riccione nel mondo». Passerini plaude: «Dalle Alpi a Lampedusa mi hanno manifestato solidarietà. So che per qualche stolto ci sono migliaia di persone illuminate. Ma quel retropensiero, quando spunta, è imbarazzante».

Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 30 marzo 2020. Ben prima di Mattia e non a Codogno. Il paziente uno potrebbe essere un anziano ammalatosi di Covid a gennaio, ricoverato in una clinica privata di Piacenza e poi portato via da personale che indossava tute da biocontenimento. Lo racconta un'infermiera della clinica Piacenza del gruppo Sanna, dove adesso sono in malattia ben 150 operatori su 250. Alcuni di loro si sono ammalati poco prima che a Codogno venisse diagnosticato il primo caso ufficiale di coronavirus. Quell'anziano, poi deceduto e solo dopo risultato positivo, potrebbe essere il paziente numero uno, secondo l'inchiesta di Report di Sigfrido Ranucci in onda questa sera su Rai3. Uno dei medici della clinica accusa i primi sintomi lo stesso giorno della diagnosi di Codogno, un chirurgo che ha operato fino al 12 febbraio viene contagiato ma lo scopre dieci giorni dopo a Tenerife. E in un'altra clinica del gruppo, la Sant'Antonino, il 17 febbraio un altro anziano viene portato via dal 118 e poi risulta positivo. Ma nessuno dà l'allarme nonostante nella zona, già da fine dicembre, fosse stato registrato un anomalo incremento di polmoniti particolarmente virulente e refrattarie alle cure. Nessuno cerca il virus. E Report scopre che il 22 gennaio una circolare del ministero della Salute dà due indicazioni: cercare nei pazienti sospetti un link con la Cina ma anche una polmonite che non risponde alle cure. Questo secondo punto scompare in una circolare di cinque giorni dopo per ricomparire solo il 9 marzo. E nel frattempo il virus dilaga cogliendo l'Italia impreparata. Il piano nazionale contro le pandemie è vecchio di dieci anni. Avremmo dovuto aggiornarlo ogni tre anni, raccomandava l'Oms, per essere pronti a ridurre l'impatto del virus sui servizi sanitari e sociali, tutelare medici e strutture ospedaliere, laboratori, farmacie, forze dell'ordine. Avremmo dovuto predisporre dispositivi di protezione, fare scorta di antivirali e kit diagnostici. E invece non abbiamo neanche le mascherine. Il piano doveva essere coordinato dal ministero della Salute, dalle Regioni e dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie, diretto da Claudio d'Amario. Ma prima di lui c'era Raniero Guerra, oggi ai vertici dell'Oms.

Coronavirus, il vero paziente uno è un anziano morto a gennaio? Lisa Pendezza il 30/03/2020 su Notizie.it. Il paziente uno italiano potrebbe non essere Mattia: si indaga su un anziano deceduto a gennaio forse proprio a causa del coronavirus. Mattia, il 38enne di Codogno considerato il paziente uno in Italia, potrebbe non essere in realtà il primo caso di coronavirus nel Paese. Si fa strada l’ipotesi che ben prima di lui – un mese, per l’esattezza – un altro italiano abbia presentato i sintomi del Covid19. Si tratterebbe di un anziano deceduto dopo essere stato ricoverato in una clinica privata del gruppo Sanna di Piacenza a gennaio (la stessa clinica che ora registra 150 operatori in malattia su 250, molti dei quali si sono ammalati proprio poco prima della diagnosi di Mattia). Nessuna conferma ufficiale, al momento: solo un’ipotesi venuta alla luce durante un’inchiesta di Report a cui Sigfrido Ranucci dedicherà la puntata del 30 marzo, in onda su Rai3. Secondo quanto emerso dall’indagine, il vero paziente uno potrebbe essere un anziano che, dopo il ricovero, è stato portato via da operatori sanitari che indossavano tute di biocontenimento. A raccontarlo è una radiologa che lavora proprio nella clinica piacentina: è lei a sottolineare che lo stesso giorno della diagnosi del 38enne di Codogno anche un chirurgo di Piacenza ha accusato i primi sintomi, ma ha scoperto di essere stato contagiato solo una decina di giorni più tardi, mentre si trovava a Tenerife. Lo stesso chirurgo aveva continuato a operare fino al 12 febbraio. Eppure niente di tutto questo è bastato a far suonare un campanello d’allarme. Nessun allarme neppure dopo che, fin da dicembre 2019, nella zona è stato registrato un incremento anomalo del numero di polmoniti (proprio come a Codogno), né quando, il 17 febbraio, un secondo anziano è stato ricoverato in un’altra clinica del gruppo Sanna, la Sant’Antonino, ed è poi risultato positivo al coronavirus. Eppure, secondo una circolare emessa dal Ministero della Salute il 22 gennaio, i medici avevano il compito di vigilare sui possibili casi di Covid19 non solo segnalando i pazienti con sospetti legami con la Cina ma anche i casi di polmonite che non rispondono alle normali cure.

La medesima indicazione, secondo Report, sarebbe però scomparsa dalla successiva circolare e comparsa nuovamente solo nei provvedimenti emanati il 9 marzo, quando già in tutta Italia cominciava il lockdown per contenere l’epidemia.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2020. I sindaci e gli abitanti dell' ex zona rossa lo avevano temuto fin da subito. La riapertura immediata dell' ex area protetta di Codogno avrebbe potuto far tornare a crescere il ritmo dei contagi dopo che i primi divieti avevano invece «rallentato» l' epidemia. Oggi quel timore rischia di essere concreto guardando i dati delle ultime rilevazioni. Si torna a salire, dopo settimane di progressivo calo del trend, arrivato anche a toccare l'uno per cento. Tanto che a Codogno, cittadina epicentro della prima fase della pandemia, si è arrivati anche a crescita zero. Nelle ultime ore però la percentuale è risalita. «Abbiamo sei positivi in più - spiega Francesco Passerini, sindaco della cittadina lodigiana e presidente della Provincia -. Nelle ultime giornate eravamo fermi a 268 casi. Un segnale che i divieti introdotti con la zona rossa avevano funzionato». Adesso però il timore è opposto: «Sì, e ci aveva sorpreso vedere che nel decreto del governo dello scorso 8 marzo la zona rossa veniva abolita - prosegue Passerini -. Che senso ha chiudere tutto se poi, appena arrivano i primi risultati positivi, si dà la possibilità di riaprire negozi e di spostarsi per lavoro praticamente ovunque?». Il timore degli abitanti di Codogno, Casalpusterlengo e degli altri otto comuni «ex rossi» era stato anche quello che il virus potesse tornare a diffondersi grazie a «forestieri» dopo la riapertura dei check point: «Noi abbiamo fatto sforzi molto rigidi, i risultati si sono visti perché nelle prime due settimane c' è stata una riduzione dei contagi - dicono gli abitanti -. Ora quegli sforzi rischiano di essere vanificati». La questione non è secondaria. Perché in queste settimane di lotta al virus gli epidemiologi hanno osservato attentamente quel che accadeva a Codogno e gli effetti delle restrizioni su quella zona, tanto da decidere di estenderle (anche se in modo più soft) sull' intera Lombardia. «L' emergenza non è alle spalle, basti pensare che in un mese, dal 22 febbraio al 22 marzo, le persone morte sono quasi il triplo rispetto agli anni passati», racconta il sindaco Passerini. Il conto dei numeri è impressionante. Le vittime del 2019 sono state 52, 49 quelle del 2018: in un mese di emergenza si è arrivati a 125. «Si muore ancora, ogni giorno. Ma è l' effetto dei contagi delle scorse settimane». I dati in crescita confermano che l' epidemia potrebbe tornare a colpire nelle stesse zone. «Non c' è un effetto di immunità di gregge, l' isolamento protegge dalla diffusione del virus, ma solo attraverso il vaccino è possibile creare davvero una immunità diffusa. Purtroppo siamo ancora molto lontani da questa prospettiva». E Lodi non vuole rivivere lo stesso incubo.

Il Da "leggo.it" il 20 marzo 2020. Un turista italiano che si trovava in India è morto nella notte dopo un ricovero lungo due settimane per via del coronavirus: l'uomo, un medico di Codogno in pensione, aveva 68 anni. Si è spento ieri notte in una clinica di Jaipur, in Rajasthan, per un arresto cardiaco. La notizia è stata pubblicata dai media indiani e confermata da fonti del tour operator italiano da cui la coppia aveva acquistato il viaggio. Solo pochi giorni fa l'italiano era stato dichiarato negativo dai medici dell'ospedale, che affermavano di averlo curato con una combinazione di farmaci antiretrovirali. «Per quanto ci riguarda, stava bene», ha detto a IndiaToday il primario del SMS Medical College di Jaipur Sudhir Bhandari, che ha specificato come l'italiano avesse problemi di cuore: giovedì mattina era stato trasferito in una struttura privata, il Fortis Hospital, sempre a Jaipur. Nella notte, l'infarto e il decesso.

Sigep.it. Rimini, 26 marzo 2020 - La notizia che circola in queste ore di una vicinanza fisica fra due spazi espositivi predisposti da aziende con ragione sociale in Cina e nel nord Italia all´ultima edizione di SIGEP di Rimini corrisponde al vero. Così come corrisponde al vero che a gennaio la stessa vicinanza fisica si è registrata in decine di altre fiere, in aeroporti, treni e innumerevoli posti di aggregazione. Il SIGEP è terminato il 22 gennaio. Il paziente zero si è registrato a Codogno quattro settimane dopo. Un po´ lunga come incubazione. Invitando tutti a un atteggiamento responsabile su temi di tale gravità, Italian Exhibition Group vigilerà con attenzione perché eventuali ulteriori notizie o supposizioni non ledano gli interessi di un mercato che rappresenta uno dei più floridi "made in Italy". E non ledano quelli della Società stessa, quotata alla borsa italiana. La diffusione di informazioni prive di fondamento saranno perseguite legalmente. Sull´argomento IEG non ha altro da aggiungere.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 26 marzo 2020. Dal 18 al 22 gennaio a Rimini si è svolta la fiera del gelato Sigep. “Sigep è l’unica fiera al mondo nella quale si presenta tutta la filiera del gelato artigianale, che va dalla sua preparazione con le nuove tendenze, per arrivare fino ai concept per i locali, agli eventi, alle competizioni, alle tecnologie e agli ingredienti del momento”, recita il sito. Ben 200mila presenze, 33mila buyer esteri con 1250 espositori provenienti da 30 paesi. Aziende da tutto il mondo, dunque, a fine gennaio sono accorse nella cittadina romagnola per trascorrere 4 giorni tra stand e padiglioni, all’interno della fiera. Nulla di strano, se non ci fosse una coincidenza che lega la città cinese di Wuhan a Codogno, legame che prima di questa data è difficile da individuare. Nel padiglione B3, in cui c’erano all’interno circa 60 stand, osservando la mappa sul sito e qui sotto, si nota che ci sono tre stand interessanti: il primo è il Wuhan Huiyou Wood Products Co., Ltd, un’azienda che produce oggetti biodegradabili come cucchiaini e vassoi. (Ricordiamo che Wuhan è stata chiusa il 23 gennaio, il Sigep è iniziato il 18 gennaio). Lo stand successivo è quello di Crema, “Il punto italiana di Nanni Franco”. A poca distanza, e sempre in quel padiglione, c’è Pomati Group srl. che è un’azienda di Codogno (fa macchine per il cioccolato). Che possa essere questo il primo contatto tra Wuhan e Codogno/Crema? Poi, sempre in quel padiglione, ci sono Cesarin Spa del veronese e molti altri del nord (Torino, Varese, Milano, Schio, Legnano… ) e anche del sud Italia, da Caivano a Reggio Calabria. Nel padiglione a fianco, vicino alla porta che collega i due padiglioni e molto vicino allo stand di Wuhan, c’è “La torrefazione Sammarinese” di San Marino. Chiamo l’azienda di Codogno Pomati che produce per fare il cioccolato ed era a Rimini nello stesso padiglione. Mi risponde un’impiegata: “A quella fiera siamo stati in tanti qui di dell’azienda di Codogno, almeno una decina di persone. C’era tantissima gente, avevamo solo il tempo di andare nel bagno, che era dentro al padiglione”, mi racconta. Nel padiglione accanto, quello di sinistra, a poca distanza dallo stand di Wuhan, ci sono  varie aziende trevigiane tra cui Alphatech di Vittorio Veneto, la Steelco, la Vito Italia, la Imesa e così via. Ora, è vero che potrebbe essere una coincidenza, ma in effetti nello stesso padiglione in cui c’è l’azienda di Wuhan ci sono anche aziende di Crema e Codogno con bizzarre vicinanze anche con aziende di San Marino e Treviso, due zone molto colpite dal Coronavirus. C’è anche da aggiungere che Rimini stessa ha registrato vari contagi già da febbraio. La titolare Giovanna Pomati dell’azienda di Codogno Pomati mi racconta: “Io e i miei ragazzi a gennaio eravamo lì ma mi creda, non abbiamo avuto neppure il tempo di guardarci intorno tanta era la ressa. Gli unici punti di possibile contatto con persone di altri stand erano il bagno e il bar del padiglione. Tutto è possibile certo, ma noi che eravamo lì non ci siamo ammalati. Potremmo essere stati asintomatici, certo, e riconosco che il caso sia curioso, ma non eravamo neppure l’unica azienda di zona presenti a quella fiera. ”. In effetti al Sigep c’erano anche Telme di Codogno e Frigomat di Lodi, ma in padiglioni piuttosto distanti. Insomma, impossibile stabilire se questo sia il luogo in cui tutto è iniziato a Codogno, ma è innegabile che per un’eventuale indagine epidemiologica i tempi tornano e potrebbe essere una pista interessante.

Coronavirus, Selvaggia Lucarelli: "Gli stand di Wuhan e Codogno fianco a fianco alla Fiera di Rimini il 23 gennaio. Solo una coincidenza?" Libero Quotidiano il 26 marzo 2020. C'è una coincidenza sulla quale forse occorre fare una riflessione per capire perché Codogno e Crema sono stati i primi focolai del coronavirus in Italia. "Dal 18 al 22 gennaio c’è stata la fiera del gelato Sigep a Rimini", scrive Selvaggia Lucarelli in un post pubblicato sul suo profilo Twitter dove allega anche un articolo di Tpi. "Lo stand di Wuhan e quello di Codogno erano nello stesso padiglione". A Rimini in quei giorni sono arrivate aziende da tutto il mondo. Nel padiglione B3, in cui c’erano all’interno circa 60 stand, c'erano quello di Wuhan Huiyou Wood Products Co., Ltd, azienda che produce oggetti biodegradabili come cucchiaini e vassoi (Wuhan è stata chiusa il 23 gennaio, il Sigep è iniziato il 18 gennaio). Subito di fianco c'era quello di Crema, Il punto italiana di Nanni Franco. E nello stesso padiglione il Pomati Group srl di Codogno. E ancora Cesarin Spa del veronese e molti altri del nord (Torino, Varese, Milano, Schio, Legnano… ). "Chiamo l’azienda di Codogno Pomati che produce per fare il cioccolato ed era a Rimini nello stesso padiglione. Mi risponde un’impiegata", racconta la Lucarelli, "'A quella fiera siamo stati in tanti qui di dell’azienda di Codogno, almeno una decina di persone. C’era tantissima gente, avevamo solo il tempo di andare nel bagno, che era dentro al padiglione', mi racconta. Nel padiglione accanto, quello di sinistra, a poca distanza dallo stand di Wuhan, ci sono  varie aziende trevigiane tra cui Alphatech di Vittorio Veneto, la Steelco, la Vito Italia, la Imesa e così via". Insomma, nello stesso padiglione si sono ritrovate aziende delle città più colpite dal coronavirus: Wuhan, Crema, Codogno, San Marino, Treviso. La titolare Giovanna Pomati dell’azienda di Codogno Pomati dice che "gli unici punti di possibile contatto con persone di altri stand erano il bagno e il bar del padiglione. Tutto è possibile certo, ma noi che eravamo lì non ci siamo ammalati. Potremmo essere stati asintomatici, certo, e riconosco che il caso sia curioso, ma non eravamo neppure l’unica azienda di zona presenti a quella fiera”.  

“Cinesi untori alla Fiera di Rimini”. Ma lo “scoop” della Lucarelli è una bufala. Penelope Corrado venerdì 27 marzo  2020 su Il Secolo d'Italia. Lo scoop della Lucarelli sui cinesi untori a Rimini? Fake news. Ecco la smentita, nei particolari, della ditta chiamata in causa dalla blogger. “Alcuni organi di stampa hanno riportato l’ipotesi di un collegamento tra la zona di Codogno, colpita tra le prime dall’emergenza Coronavirus, e lo svolgimento della fiera Sigep di Rimini dello scorso mese di gennaio, che ha visto la partecipazione di oltre 1200 aziende tra cui la Pomati Group” e una azienda, fra le tante, originaria di Wuhan. “Essendo stati citati in tal senso, riteniamo doveroso precisare che nessun dipendente e nessun dirigente della Pomati Group cha ha partecipato alla Fiera Sigep di Rimini, ha riportato sintomi riconducibili all’infezione da coronavirus, né prima, né durante, né dopo la manifestazione fieristica riminese”. Lo sottolinea la Pomati Group bollando poi la notizia come una fake news. “Peraltro occorre evidenziare che il periodo di osservazione del contagio, stabilito dagli organi sanitari competenti, tra i 7 e i 14 giorni di incubazione, non coincide con le tempistiche dello svolgimento della fiera (18/22 gennaio) e il primo caso di Codogno (21 febbraio) essendo trascorsi oltre 30 giorni – conclude l’azienda di Codogno – Quanto sopra esposto, allo scopo di chiarire la posizione della Pomati Group, riteniamo che questa notizia circolata ha tutte le caratteristiche di una fake news”. Singolare notare il repentino voltafaccia della Lucarelli, molto simile a quello del suo collega del Fatto quotidiano, Andrea Scanzi. Fino a poche settimane fa la giurata di Ballando con le Stelle interveniva in tv per dire che sul coronavirus c’era un allarme ingiustificato. Era stata tra le prima a partecipare alle iniziative nei ristoranti cinesi per ribadire che il nesso tra la Cina e il coronavirus era solo un allarme xenofobo. La stessa Lucarelli, che oggi si scopre virologa, un mese fa insegnava a Roberto Burioni come fare lo scienziato. Un allarmismo ingiustificato, spiegava la blogger. “Burioni ha calcato parecchio la mano, per esempio scrivendo su Twitter di “conseguenze irreparabili se non si fosse isolata la Cina” e dimenticando così la sua missione e le sue responsabilità di scienziato. Non si scrive, in un tweet, conseguenze irreparabili con leggerezza, perché quell’aggettivo evoca morte e disastri, alimenta la psicosi”. Un mese dopo la stessa blogger dà la caccia agli “untori”. Complimenti.

Lo stand di Wuhan al Sigep: una interrogazione parlamentare a 5 stelle.  Redazione riminiduepuntozero.it il 21 Aprile 2020. Siccome non si placa l'attenzione sulla fiera di Rimini e una deputata 5 stelle torna sul tema, abbiamo cercato di capire cosa si sapeva del coronavirus nei giorni del Sigep e quali altre manifestazioni si svolgevano nei quartieri di tutta Italia. “Le ragioni del mancato rilievo della notevole presenza di persone provenienti da Wuhan alla Fiera di Rimini proprio nei giorni della chiusura della medesima regione da parte del governo cinese…”. Lo stand di Wuhan alla manifestazione dedicata al gelato artigianale e all’arte del dolce continua a tenere banco. Chi sperava che dopo l’incendio appiccato da Selvaggia Lucarelli, seguito dalla reazione monitoria di Ieg (unita ai pareri di esperti vari che hanno escluso relazioni fra Sigep e contagio in quel di Codogno, pare arrivato dalla Germania), il fuoco si sarebbe spento, evidentemente si sbagliava. E’ un parlamentare pentastellato a tornare sul tema, ma non uno dei due con base a Rimini (Giulia Sarti e Marco Croatti). Si tratta di Alessandra Ermellino, eletta nella circoscrizione Puglia. L’ha presentata il 16 aprile. Va segnalato anche un libro che s’intitola Il coglionavirus, scritto da Antonio Giangrande, che in dettaglio ripercorre tutti i “capitoli” della vicenda coronavirus e menziona pure il dolce scoop di Selvaggia Lucarelli.

Torniamo alla interrogazione rivolta al presidente del Consiglio e al ministro della Salute. L’onorevole mette in evidenza tutti gli allarmi sottovalutati e inascoltati lanciati da vari organismi internazionali sulla diffusione della pandemia. Scomoda pure il Dis, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, e inserisce nella lista dei fatti che sembrano rivestire una certa dose di anomalia, anche questo: “in data 6 marzo 2020, sulle pagine di un blog a diffusione nazionale viene riportata la notizia che nei giorni dal 16 al 20 gennaio 2020 presso la Fiera di Rimini (al «Sigep», fiera alimentare internazionale) è presente uno stand di Wuhan e centinaia di buyer della stessa città. All’evento partecipano complessivamente oltre 100 mila persone. A quanto risulta all’interrogante, nel padiglione B3 vi sono anche stand di Codogno e delle province di Bergamo e Brescia” (qui). Da questo punto di vista l’interrogazione non aggiunge nulla alla news di Selvaggia Lucarelli, ma tiene accesi i riflettori e bisognerà vedere cosa risponderà il governo. Ieg aveva subito stoppato ogni illazione sventolando querele: “Il SIGEP è terminato il 22 gennaio. Il paziente zero si è registrato a Codogno quattro settimane dopo. Un po’ lunga come incubazione. Invitando tutti a un atteggiamento responsabile su temi di tale gravità, Italian Exhibition Group vigilerà con attenzione perché eventuali ulteriori notizie o supposizioni non ledano gli interessi di un mercato che rappresenta uno dei più floridi ‘made in Italy’. E non ledano quelli della Società stessa, quotata alla borsa italiana. La diffusione di informazioni prive di fondamento saranno perseguite legalmente. Sull’argomento IEG non ha altro da aggiungere”. Aveva anche evidenziato che “a gennaio la stessa vicinanza fisica si è registrata in decine di altre fiere, in aeroporti, treni e innumerevoli posti di aggregazione“. Abbiamo cercato di capirne qualcosa di più su queste fiere. Stando al sito della Regione Emilia Romagna, calendariofiereinternazionali.it, a gennaio 2020 si sono tenute in Italia 16 manifestazioni:  a Firenze dal 7 al 10 gennaio, a Milano dall’11 al 13, e poi Riva del Garda, Bologna, ancora Firenze, Verona, Vicenza, Rimini, e così via, fino alle ultime a cavallo fra gennaio e febbraio, nella capitale. Alcune catalizzano grandi numeri, altre meno. Alcune annoverano molti espositori dalla Cina, e sono soprattutto quelle che trattano di moda, lifestyle, private labels, wedding planner. Stabilire con certezza se abbiano ospitato qualcuno proveniente da Wuhan è un’impresa. Da una rapida verifica sui siti delle fiere che pubblicano l’elenco degli espositori non ne abbiamo trovati. Fra gli eventi con tanti frequentatori dalla Cina ci sono anche le fiere di Ieg dislocate fra Vicenza e Rimini, che lo stand di Wuhan e i buyer dalla stessa città li ha avuti.

Inseguire il virus sull’asse Rimini-Codogno (perché al Sigep c’era uno stand anche della città che ha avuto il “paziente 1”) allo stato delle informazioni note è pura follia. Addossare al Sigep responsabilità di qualche natura è ugualmente un azzardo e per una semplice ragione: alla data del 22 gennaio, quando termina, ancora non era stato decretato lo stato di emergenza sanitaria e non era in vigore nessuna norma di contenimento. E poi responsabilità su cosa visto che non è stato dimostrato alcun legame, in termini di diffusione del contagio, fra Rimini e Codogno?

A dicembre 2019 a Whuan ha già fatto la sua comparsa la polmonite anomala e la stampa non tarda a riferire che il 1° gennaio ha chiuso il mercato di quella città per ragioni sanitarie (qui). Agli inizi di gennaio 2020 gli scienziati hanno isolato un nuovo coronavirus: SARS-CoV-2 (coronavirus 2 da sindrome respiratoria acuta grave). Il primo decesso confermato risale al 9 gennaio 2020. (qui). In seguito si è detto che i primi contagi a Whaun risalirebbero a novembre 2019, ma non occorre spingersi così indietro.

Dai primi di gennaio anche i media italiani pubblicano la notizia che “le autorità cinesi hanno avviato un’indagine sulla diffusione di una misteriosa polmonite di natura virale con decine di persone colpite nella città di Wuhan, nel centro della Cina. In totale i casi confermati sono 44 – riferisce la Bbc – di questi 11 sono considerati «gravi», hanno precisato le autorità locali nelle scorse ore” (La Stampa 4/1/2020).

Il 3 gennaio, infatti, la Bbc titolava “China pneumonia outbreak: Mystery virus probed in Wuhan”. Seguiranno numerosi altri servizi: il 5, 8, 9 (giorno in cui La Stampa torna sull’argomento con vistoso titolo: “Il virus che fa paura all’Oriente: epidemia di polmonite alla vigilia dell’esodo per il Capodanno cinese”) 11 gennaio, eccetera eccetera.

Il 9 gennaio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (non certo esempio di barra dritta sin dall’inizio nella gestione del coronavirus) fa sapere che le autorità sanitarie cinesi hanno individuato un nuovo ceppo di coronavirus mai identificato prima nell’uomo: 2019-nCoV. Il virus è associato ad un focolaio di casi di polmonite spuntati a partire dalla fine di dicembre 2019, appunto, nella città di Wuhan. Wuhan, Wuhan, Wuhan. Il virus che fa paura viene abbinato, anzi incatenato, alla città di Wuhan prima che Sigep apra i battenti, il 16 gennaio. Ma sono i primi allarmi, che non trovano ancora la dovuta sponda nemmeno sulla stampa. I tg serali puntano in quei giorni su Meghan e Harry.

L’Italia, come tutto il resto del mondo, se la prende comoda. Il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza sanitaria per l’epidemia da coronavirus il 31 gennaio (in Gazzetta Ufficiale il 1° febbraio), a seguito dell’emergenza internazionale di sanità pubblica dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La task-force del ministero della Salute viene riunita il 22 gennaio per “coordinare ogni iniziativa relativa al fenomeno coronavirus 2019-nCoV”. Il giorno dopo Wuhan viene messa in una quarantena da galera. Sigep ha chiuso i battenti il 22 e si lecca con soddisfazione numeri da fare ingolosire molte fiere: “oltre 200mila presenze di operatori professionali, 33mila buyer provenienti da 187 Paesi, in testa Spagna, Germania e Francia, ma anche tanti paesi da Asia e Americhe a partire da Cina e Stati Uniti”. L’azienda di Wuhan mostra ancora sul sito internet l’invito rivolto ai propri clienti a partecipare al Sigep, dove ha esposto articoli usa e getta, biodegradabili, ecologici in legno, bambù: bastoncini per il gelato, cucchiai, contenitori e tanto altro.

Morale: Ieg non ha infranto regole e decreti (che sarebbero arrivati molto dopo), e non vigeva nemmeno lo stato di emergenza sanitaria, come abbiamo visto. Si potrebbe però notare che la Fiera di Rimini conosce bene la situazione della Cina ed ha antenne molto sensibili da anni su quel territorio, non poteva non avere contezza delle informazioni che riguardavano Wuhan (che comunque cominciano ad affacciarsi a ridosso della manifestazione): e allora perché rischiare?

E’ il 2016 quando Ieg sigla l’accordo per la Travel Trade Market, fiera del turismo di Chengdu, nel sud-ovest della Cina.  Ha coltivato “nel tempo un network che si sviluppa in tutto il mondo a Rimini, Vicenza, Milano, Dubai, New York, San Paolo e Shanghai e attraverso partnership consolidate a Las Vegas, Guangzhou, Chengdu e Hong Kong” (qui). Poi nel 2018 “entra nel vivo l’attività di Europe Asia Global Link Exhibitions (EAGLE), la joint venture tra Italian Exhibition Group (IEG) e VNU Exhibitions Asia con focus lo sviluppo del business fieristico Cina – Italia”. Ma alla domanda sui “rischi”, sottovalutati o meno, sono l’Italia, l’Europa e il mondo interno che dovrebbero rispondere.

Alessandra Ermellina fa parte della commissione Difesa. Appena trapelata la notizia della sua interrogazione, ha subìto una sorta di “isolamento” dal movimento 5 stelle. Il capogruppo e tutti i componenti del M5S in commissione hanno preso le distanze “in maniera decisa dall’interrogazione depositata alla Camera dalla deputata Alessandra Ermellino, e riportata da alcuni organi di stampa, che ha sollevato dubbi assolutamente illegittimi sull’operato del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza in relazione all’emergenza coronavirus”. Giudicano “privi di fondamento, oltre che irresponsabili, tutti i tentativi di accusare le istituzioni di mancata tempestività nell’affrontare la crisi. Ogni affermazione contenuta nell’interrogazione e ogni dichiarazione della deputata Ermellino non corrispondono al pensiero dei deputati e delle deputate del Movimento cinque stelle in commissione Difesa, che esprimono sostegno pieno per il prezioso e delicato lavoro svolto dal Dis e per le modalità con cui il governo e il presidente del Consiglio Conte stanno gestendo l’emergenza, in linea con le indicazioni che arrivano costantemente dal comitato tecnico scientifico e dalle maggiori autorità nazionali e internazionali in tema sanitario”. I deputati concludono: “Alimentare colpevolmente la diffusione di notizie false è un comportamento molto grave che aumenta un’inutile dietrologia e contribuisce a creare confusione. Noi, pertanto, lo respingiamo con forza. Continuiamo ad essere al fianco del governo e ci impegniamo a fare tutto quanto in nostro potere per garantire sempre gli interessi dei cittadini”. Un tempo battaglie come quella di Alessandra Ermellino erano all’ordine del giorno nel movimento. Un tempo, però. Adesso è tutta un’altra storia.

Codogno un mese dopo: dal primo caso di coronavirus alle luci di speranza. L'emergenza non è ancora superata nella città del Lodigiano dove tutto è cominciato: "Ma adesso la lotta per la vita normale deve ripartire". Carlo Annovazzi il 21 Marzo 2020 su La Repubblica. Enzo era lo sport, fisico statuario, il rugby nel cuore, la palestra, la scuola. Aldo aveva avviato e sviluppato anno dopo anno l'attività, era la "ferramenta". Bruno aveva in gioventù fatto l'arbitro e nelle discussioni della piazza era il riferimento quando si discuteva di partite e arbitraggi. Umberto era riuscito a far lievitare l'industria di famiglia. L'aveva, Umberto, fatta diventare un polo internazionale, dando lavoro a tanti in paese. Lele aveva una agenzia immobiliare, la moglie era Melissa. È la Spoon River della Bassa, tutta da scrivere anche se i giorni più bui sembrano passati e l'orizzonte comincia a essere un poco più chiaro. Il 21 febbraio Codogno diventava il centro d'Italia e poi del mondo, immersa in una realtà mai pensata e mai vista, la guerra è un ricordo ormai di pochi. Un mese dopo il coronavirus fa meno paura. "L'emergenza non è ancora superata però ormai i casi diminuiscono di giorno in giorno e vediamo una piccola luce" dice Francesco Passerini, il sindaco. La capitale della Bassa Lodigiana, sedicimila abitanti in costante risalita, l'avamposto di un territorio di cinquantamila anime che si è visto arrivare addosso l'onda lunga senza alcuno strumento per cavalcarla, continua a vivere una non vita, le attività rimangono sospese come il tempo. "Siamo al mesiversario " prova a prenderla leggera Lorenzo, cinquantenne manager che gli ultimi anni della sua vita li aveva passati avanti e indietro con Milano come tantissimi altri e dal 21 di febbraio non ha più potuto prendere treno o auto, è rimasto a lavorare da lì, da casa sua. Come lui Michele, broker, Giorgio, manager della ristorazione, Stefano, responsabile della contabilità di una multinazionale, solo per fare qualche esempio. Loro sì, hanno lavorato. Chi aveva e ha un negozio invece, tutto fermo e la situazione è la stessa anche adesso. Si sentono ancora ambulanze ma molto meno in sottofondo. Soprattutto, ci sono i dati che testimoniano quanto la barriera alla fine abbia retto, quanto Codogno sia stata l'esempio vero, il modello da esportare. Da inizio anno i morti sono stati 120, nel 2019, stesso periodo, 104. Sedici in più, sono tanti certo, un quindici per cento in più. Ma per fortuna non la strage che i primi istanti facevano temere. "Responsabilità, serietà, dignità. Ecco, Codogno è stata questa. Un modello di comportamento e i risultati si vedono" spiega ancora Passerini che a 35 anni si è trovato a vivere e gestire una situazione mai successa a nessuno. Il modello è stato istituire un immediato centro di coordinamento tra sindaci, forze dell'ordine e volontari. "Siamo stati volontari tra i volontari". Tutto fatto in casa perché da fuori non è arrivato nulla e nessuno. E poi la gente che ha capito subito che si doveva rimanere in casa. "Il momento organizzativo più difficile sono state le ventidue ore tra l'annuncio delle misure e il decreto. Il momento umano più duro non poter dare conforto ai parenti e degno tributo ai defunti". Quando tutti hanno capito la gravità della situazione, hanno fatto valere la tradizionale concretezza della terra. Certo, si dirà, il momento ha obbligato a una trasformazione della vita. Ma visto quello che sta continuando a succedere da altre parti, Milano per esempio, non era scontato. È stata una vittoria che ha portato a una serie di vittorie. Una su tutte, la capacità di aver avuto l'intuizione giusta in tempi rapidi e certi. Annalisa Malara è di Cremona ma lavora all'ospedale di Codogno. È lei ad aver capito che Mattia non aveva una semplice polmonite. Un ospedale che ingiustamente attaccato dal premier Conte ha dimostrato doti di resistenza infinita ed ora vorrebbe far arrivare alto il suo grido di soddisfazione mista a rabbia ma preferisce continuare a lavorare a testa bassa o alta, a seconda di come la si legge. Ci sono medici che curano sul territorio colpiti dal coronavirus trasmesso loro dai pazienti, lasciati allo sbando dovendo continuare ad assicurare le prestazioni senza indicazioni, mascherine, guanti, in quattro addirittura non ce l'hanno fatta come Marcello Natali, Ivano Vezzulli, Giuseppe Borghi e, ultimo, Andrea Carli deceduto in India per il virus contratto in ambulatorio a Codogno prima del viaggio da persone positive senza che lo sapessero. E la rabbia è tantissima. C'è in via Pietrasanta un presidio medico miliare per garantire alla popolazione le prescrizioni giornaliere. La protezione civile, cinquanta persone che si alternano, continua dopo quattro settimane ad assicurare pasti a domicilio soprattutto ai soggetti più fragili, "e anche ieri sera ci siamo presi noi la responsabilità di organizzare una distribuzione immediata per evitare di buttare il cibo di mense e ditte che altrimenti andava in scadenza" spiega Lorenzo Nicolini, il responsabile. C'è la quotidianità che si è fermata all'improvviso. Gigi e Carlo Cornali hanno portato avanti la pasticceria di famiglia, la pasticceria del paese, e producono il Biscotto Codogno. Un nome e un marchio che più codognesi di così si muore, esiste da oltre un secolo. "Sarà molto lunga ancora, temo" spiega Gigi. E Pasqua è ormai praticamente saltata. I corrieri ancora non arrivano, i prodotti non vengono distribuiti, la zona rossa che qui è partita è adesso estesa a tutta la Lombardia. La lotta per la vita normale però dovrà ripartire. Perché un mese di tutto chiuso, di attività e produzioni bloccate ha avuto un impatto devastante. "Abbiamo bisogno di interventi normativi, prima di tutto. E poi dovremo fare tutti insieme un grande lavoro per far ripartire la nostra Codogno. Non siamo il territorio del virus, siamo la patria del latte, della meccanica di precisione, abbiamo un tasso di disoccupazione bassissimo, più basso di quello della Lombardia che è già un record". Quando sarà finita, Codogno rialzerà la testa. Lo si capisce dagli sguardi delle persone. E il mese più buio rimarrà un vivo ricordo sconfitto.

«Ci hanno lasciati soli. La scelta più difficile? Chiudere il cimitero». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Il sindaco sposta la mascherina sulla testa e fuma una sigaretta davanti all’ingresso del Centro operativo comunale. «Quella sera ero rimasto fuori a bere qualcosa con un mio consigliere» ricorda. «A mezzanotte e un quarto arriva una chiamata dal prefetto. Avevamo appena avuto il caso del frecciarossa deragliato e siccome anche quella volta era stato lui a chiamarmi, alle sei del mattino, ho pensato in automatico: non sarà successo qualcos’altro sul treno...E invece sento che mi dice: volevo avvisarla che abbiamo un paziente contagiato dal coronavirus all’ospedale di Codogno. E vabbè, da quel momento in poi niente è stato più lo stesso». Era la notte fra il 21 e il 22 febbraio, la prima di tante passare a dormire quasi zero e a gestire l’emergenza peggiore di sempre. Francesco Passerini rimette a posto la mascherina e dice che «sì, capisco che da ora in poi la parola Codogno sarà associata alla parola covid, ma vorrei che fossero notati anche i comportamenti responsabili della mia comunità e di tutte le comunità della prima zona rossa. Siamo stati i primi, appunto. Abbiamo metabolizzato le privazioni antivirus e forse è anche per quello che facciamo meno fatica a seguire i divieti arrivati dopo per tutti. Quel che sappiamo è che oggi i dati sui contagi ci fanno ben sperare». La guerra non è vinta, lo sanno tutti. Ma la crescita molto contenuta degli infetti, oggi, racconta che la strada dell’isolamento funziona, a Codogno come negli altri nove Comuni chiusi per primi (quasi 50 mila persone).In questo mese di incertezza e sgomento crescenti «non c’è stato un solo cittadino che sia venuto a protestare o a lamentarsi di qualcosa» racconta il sindaco, «eppure di difficoltà ne abbiamo avute e vuole sapere una cosa? Nei 15 giorni del nostro isolamento, e anche dopo, nessuno è venuto ad aiutarci. Nessuno. Solo qualche giorno fa sono arrivati quattro medici dell’esercito. Nient’altro». Il senso è: Codogno se l’è cavata da sola. Lungo la strada principale che l’attraversa sembra tutto identico a un mese fa. Il silenzio fa risuonare il rumore di ogni passo. Per strada qualcuno con i sacchetti della spesa, le sole insegne illuminate sono, come allora, quelle delle farmacie e degli alimentari, e non si vede nessun assembramento. La chiesa centrale è aperta per chi vuole entrare a pregare in solitudine ma niente funzioni di nessun genere. Una coda ordinata (non lunga) aspetta con pazienza e con la giusta distanza fuori dal supermercato che si trova proprio di fronte all’ospedale, il luogo dove tutto è cominciato e dove il pronto soccorso è chiuso ormai da settimane. Nel resto dei reparti -come in tutti gli altri ospedali della Lombardia - è un continuo far posto ai pazienti covid o creare barriere fra aree «sporche» del virus e altre che invece sono «pulite», e guai a contaminarle. Poco più in là, il cimitero. Chiuderlo «è stata la scelta più difficile» per dirla con il sindaco. È stato come rendere ancora più solo chi aveva un saluto - almeno un saluto - da fara davanti alla lapide di una persona cara. E così, appena sono finiti i giorni di quarantena, il suo cancello è stato il primo a riaprirsi, anche se gli ingressi sono limitati e il tempo di visita concesso è lo stretto necessario. Radio zona rossa trasmette dalle frequenze di quella che prima del virus era la radio parrocchiale. Solo che adesso la scaletta dei programmi, chiamiamoli così, non è più dettata dalle messe e dalle preghiere ma dai bollettini sui numeri dei contagi, sulla situazione, sulle necessità. I ragazzi dell’oratorio che la gestiscono ne vanno fieri e ogni giorno gli appuntamenti sono alle 11 e alle 17. Decine di volontari non hanno mai smesso di considerarsi in quarantena, di consegnare spesa e farmaci, di affrontare difficoltà pratiche ed emotive, soprattutto per le persone più anziane in isolamento. Non a caso Codogno è diventata un modello. Un mese dopo il ricovero del «paziente uno», l’allarme e il dolore per le vittime, e per chi sta lottando ogni giorno per sopravvivere - si fanno sentire molto più del primo giorno. Assieme a una sola certezza: non è il momento di abbassare la guardia.

Coronavirus, al fronte di Rogoredo: diario di un medico di base che visita dietro un vetro. L'allarme. Gli infettati. I dispositivi che non arrivano. E la creatività per continuare ad aiutare i pazienti, in un quartiere popolare di Milano Sud. Sul marciapiede, senza che si contagino. Fabrizio Marrali il 20 marzo 2020 su L'Espresso. Mi chiamo Fabrizio, ho 58 anni, faccio il medico di famiglia a Rogoredo da quando ne avevo 31, appena dopo la specializzazione. Nel quartiere mi conoscono tutti e mi chiamano “dutur”, da sempre. Che poi Rogoredo è qualcosa di più di un quartiere. È un paese. Un paese che pur essendo attaccato alla linea sud città, è rimasto quasi isolato fino al 1990, quando è arrivata la linea gialla del metrò. Un paese che è stato di operai per più di un secolo, le acciaierie Redaelli, la Montecatini... Operai milanesi e venuti dal Mezzogiorno, che si sono mescolati tra loro nei decenni. Poi la gentrificazione del centro ha portato qui tante altre famiglie, quasi sempre proletarie: gente che prima abitava magari al Ticinese o in Porta Romana, di là del ponte di corso Lodi. Insomma, Rogoredo è un quartiere popolare per eccellenza. Qui faceva il medico di famiglia anche mio padre e qui ho sempre deciso di restare a curare i miei vecchietti, le mie vedove, le coppie che hanno preso un appartamento in queste vie perché costano meno e adesso che c'è “la gialla” si arriva in Duomo in quarto d'ora. Molti miei pazienti li ho visti nascere, crescere, morire. Tutte le mattina vado lì, nel mio studio di sempre, quello che era anche di papà e che dà sulla strada, proprio come se fosse un negozio. Ma ora lo studio è diventato un bunker, per la salvezza di tutti; e i pazienti li devo visitare da dietro il vetro, passando le ricette dalla fessura sotto la porta. È iniziato tutto a gennaio. Doveva essere intorno al giorno 20 quando ho iniziato a sentire le notizie di questo virus che si stava diffondendo in Cina. Poi ho letto che poteva essere trasmesso anche da soggetti asintomatici e ho cominciato a preoccuparmi: è da quando ero studente che ho sentito i medici più grandi dire che prima o poi sarebbe arrivata una pandemia influenzale tipo la Spagnola, giusto un secolo fa. Ma lì per lì non ho fatto ancora niente, se non sperare che non arrivasse in Italia. Lo studio era ancora fisicamente aperto, non volevo spaventare nessuno. Il 31 gennaio ho letto dei primi due casi di Roma, i due turisti cinesi, ora guariti. Non si è saputo altro per quasi tre settimane, a parte il rimpatrio in sicurezza degli italiani che stavano in Cina. Tutto sembrava ancora lontano. Il 20 febbraio, un giovedì, siamo però invitati a una prima riunione dell’ordine dei medici sul coronavirus con l'infettivologo Giorgio Galli del Sacco, convocata in un hotel. Siamo un centinaio, ci si parla, qualcuno non nasconde la preoccupazione. Galli ci racconta tutto della malattia e della sua elevata contagiosità ma ci tranquillizza dicendo che per ora ci sono solo tre casi in Italia tutti di importazione, allo Spallanzani di Roma. Ma proprio quel giorno, il 20, viene trovato positivo Mattia, il trentottenne di Codogno (ora guarito anche lui). Io lo vengo a sapere solo il giorno dopo, quando la notizia si diffonde sui media, proprio mentre sto visitando un paziente che mi tossisce addosso. Codogno è a mezz'ora da Rogoredo, sulla direttiva che dalla via Emilia porta in città: molti pendolari che vengono da lì e prendono la metropolitana proprio a Rogoredo. Capisco che, presto, saremo coinvolti anche noi, qui. Wuhan era lontana, Codogno è a due passi. Finisco l’ambulatorio, è venerdì, quindi inizio a pensare a come devo organizzarmi per riaprire il lunedì dopo. Nel week-end mando una mail urgente ad Ats Milano, l'agenzia per la tutela della salute, il mio interlocutore istituzionale del Sistema sanitario. Chiedo che mi mandino quelli che in gergo chiamiamo dpi, i dispositivi di protezione individuale: occhiali, camici, guanti idonei. Comunico all'Ats che se non arriveranno indicazioni da parte loro, da lunedì riceverò con la sala d’attesa chiusa. Non arriva nessuna risposta. Lunedì 24 febbraio allora decido di riaprire lo studio in “modalità bunker”, com'è ancora adesso. Non si entra, non ci si mescola in sala d'aspetto: mi invento le visite dal vetro. Quando un paziente arriva, mi chiama con il cellulare, come ho indicato con un cartello sulla porta. Io vado al vetro e si inizia. I pazienti sono stupiti ma comprensivi. Mi conoscono, sanno che forse sto improvvisando, ma che li sto tutelando. Quelli che proprio devo vedere di persona li faccio passare dal retro, uno a uno. I dispositivi di protezione che mi hanno mandato sono ridicoli, non idonei. Disinfetto tutto appena un paziente esce. Spiego a tutti che se hanno raffreddore tosse e febbre non devono venire in studio ma contattarmi al telefono. Le esigenze non urgenti devono essere rimandate. E la richiesta di farmaci da parte dei pazienti avviene tramite una cassettina nera: il ritiro della medicina avviene dopo due ore direttamente in farmacia. La voce di quello che sto facendo si diffonde e alcuni colleghi in zona mi chiamano un po’ perplessi: sto forse esagerando? No, non sto esagerando. Anzi, quando non c'è nessuno mi occupo di sanificare con l'amuchina il gradino dove stanno i pazienti quando li visito da dietro il vetro. Alla fine della settimana, venerdì 28 febbraio, faccio il conto delle segnalazioni di pazienti con febbre: sono aumentati, troppo. E io posso fare solo il telemedico. Lo stesso giorno vengo a sapere che un mio collega di zona ha visitato in studio una paziente con polmonite: poco dopo è stata ricoverata ed è risultata positiva al Covid-19. Allora inizio a martellare l'Ats perché ci diano finalmente dispositivi idonei e per far fare il tampone al collega. Dalla Ats arriva un niet: il tampone a voi medici lo faremo solo se avrete sintomi. Inizio a pensare che noi dottori in prima linea a sud di Milano siamo carne da macello e mi convinco sempre di più della mia modalità bunker. Il 9 marzo ho anch'io il primo paziente con Covid-19. È una giovane donna con tosse e febbre secca, aveva incontrato il padre (poi rivelatosi anche lui positivo) a Crema, sette giorni prima. Ma deve stare a casa e basta: ormai il criterio anamnestico è saltato e ricoverano solo se il paziente ha una saturazione dell'ossigeno bassa. Inizio a pensare che cosa altro posso fare e mi viene un'idea: la saturimetria a domicilio. Mi dò da fare e trovo una decina di saturimetri da distribuire ai pazienti: sono perlopiù malati singoli a casa, ma ho anche una comunità che seguo da anni e ne mando qualcuno anche a loro. Quattro giorni dopo, in questa comunità, un mio paziente ha la febbre e la saturimetria bassissima, a 79. È il secondo che faccio ricoverare per Covid-19. Tutto al telefono. Mentre scrivo queste righe siamo a venerdì 20 marzo. Un mese esatto da quando l' infettivologo Giorgio Galli ci ha parlato per la prima volta del virus. Sembra passata una vita. E la battaglia di Milano è appena cominciata. Sono già 5 i medici di famiglia morti in Lombardia. Ce ne saranno altri. Mi manca il contatto diretto con i pazienti. Ma quelli critici mi aggiornano ogni giorno al telefono. Vado avanti. Lunedì mattina sarò di nuovo dietro il vetro. Resistere, resistere, resistere. 

Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. Un mese dopo, mentre ci si prepara a contare i vivi e i camion dell' esercito portano via altre 80 bare, è ora di iniziare a farsi delle domande. E, soprattutto, di trovare delle risposte. Perché Bergamo? Come mai una città di 110 mila abitanti diventa il lazzaretto d' Italia, seconda al mondo, per morti e contagi, solo a Wuhan? Perché il coronavirus ha scelto questa provincia per aprirsi un varco spaventoso e conficcare qualcosa come un quarto delle croci disseminate in 30 giorni in Italia? Sono le domande che si stanno ponendo, assieme a migliaia di famiglie, studiosi, esperti e osservatori della "curva anomala" Bergamo. La prima risposta, dritta, arriva una da Silvio Garattini, bergamasco, presidente e fondatore dell' istituto Mario Negri. «Purtroppo qui è stata privilegiata la protezione dell' attività economica rispetto alla tutela della salute - dice - . Eppure il modello Codogno era noto. Perché non è stato applicato anche a Bergamo, nel focolaio della valle Seriana che aveva già iniziato a produrre un numero allarmante di contagiati e di morti? A Codogno hanno subito istituito la zona rossa. A Bergamo c' è stata una grave sottovalutazione. Di chi sia stata la responsabilità non sta a me dirlo. Però posso dire che la mancata chiusura del focolaio di Alzano e Nembro è stata un detonatore». Prima di provare a sciogliere il mistero della (non) zona rossa, vediamo cosa ha comportato. In provincia di Bergamo nell' ultima settimana sono morte 400 persone, 88 ieri. I contagi hanno raggiunto quota 5.869. Nessun' altra provincia italiana ha questi numeri. Ma, in rapporto alla percentuale, nemmeno mondiale. Di più: secondo il sindaco Gori i numeri sarebbero 4 volte inferiori alla realtà (tenuto conto dei tanti anziani morti in casa senza che sia stato eseguito il tampone). Una proiezione attendibile - tra i numeri ufficiali e a quelli sommersi - porta a una stima di oltre 1000 decessi. Forse 1.500 (sui 4.825 nel Paese). E dunque: un morto su 4 in Italia è bergamasco. Di questa bomba virale Alzano e Nembro sono stati gli inneschi. Siamo al 23 febbraio. Quattro giorni dopo la partita di Champions Atalanta- Valencia a San Siro, dove 45mila tifosi hanno accelerato l' effetto domino del coronavirus. All' ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano vengono accertati i primi due casi bergamaschi. Se non entrambi, uno è passato di sicuro dal pronto soccorso. Il riverbero della paura che si è accesa il 21 febbraio nell' altro focolaio, Codogno, spinge la direzione sanitaria a chiudere l' ospedale. Si suppone per sanificare e creare una safe zone dedicata ai ricoverati per il virus. Così non è. L' ospedale riapre poche ore dopo. Passa qualche giorno e si scopre che diversi medici e infermieri sono positivi e sintomatici. Si ammaleranno in tanti: primario, medici, infermieri, barellieri. E ovviamente - è facile ipotizzare - molti di quelli che sono passati dall' ospedale. Ma il particolare più interessante è del 12 febbraio. Un abitante di Villa di Serio racconta a Bergamonews che quel giorno la madre viene ricoverata ad Alzano per uno scompenso cardiaco. Nove giorni dopo muore. «È il 21 febbraio. Le infermiere quel giorno entravano nelle camere con mascherine protettive di quelle poi distribuite per il coronavirus. Forse all' ospedale sospettavano del Covid-19 già da qualche giorno». La camera ardente viene allestita nella chiesina di San Lorenzo. «C' era moltissima gente, si abbracciavano. Per giorni, nonostante il numero dei morti crescesse, assembramenti e contatti sono proseguiti». Le due settimane tra il 23 febbraio e l' 8 marzo (quando arriva il secondo Dpcm per arginare il contagio). Fissiamo questo arco temporale. Ad Alzano e Nembro, e ormai in tutta la val Seriana, passano i giorni e morti e contagiati aumentano a ritmi record. L' assessore regionale Giulio Gallera chiede e richiede a Roma di istituire una zona rossa. Si fa, non si fa. Niente. Tutto aperto. «Tante aziende della zona hanno contatti continui con la Cina - dice Alberto Zucchi, direttore servizio epidemiologico Ats Bergamo - . È probabile che il virus in valle circolasse prima che a Codogno. Già da dicembre, forse. Ma non lo conoscevamo. Una serie di polmoniti sono state addebitate a complicanze influenzali, poi abbiamo scoperto essere Covid-19. Erano segnali di allarme». Le aziende dunque. Le 376 imprese e i 3.700 dipendenti. Potevano fermarsi? Pare di no. Intanto da Alzano il contagio si allarga alla provincia. Che succede? Niente. Il 28 febbraio Confindustria Bergamo lancia la campagna "Bergamo is running", un video per tranquillizzare i partner europei. «Le operazioni delle nostre aziende non sono contagiose», dice il direttore generale Paolo Piantoni. A Bergamo il 28 febbraio ci sono 103 casi: cresceranno. Ma nessuno ci bada. Gori - poi con onestà ammetterà la sottovalutazione - pensa che vita sociale e precauzioni possano ancora coesistere. Gallera prima esclude la zona rossa, poi, il 3 marzo, si rende conto. Fino a battere i pugni con Roma: «La decisione sta al governo». L' ok non arriverà mai. «Una volta che hai permesso al virus di diffondersi non riesci più a far niente. Puoi provare ad arginare, ma è difficile», dice Garattini. Oggi i bergamaschi non hanno più nemmeno una bara su cui piangere i morti. Li contano e basta. Prima che i militari li raccolgano per portarli a cremare in altre città.

Coronavirus, tecnico radiologo di Cremona: “Da gennaio troppe polmoniti atipiche sui giovani”. Riccardo Castrichini il 23 marzo 2020 su Notizie.it.  Il coronavirus sarebbe in Italia da molto prima rispetto al primo caso rilevato a Codogno lo scorso febbraio e a segnalarlo ci sarebbero diversi casi di polmoniti atipiche che a gennaio avevano riguardato molti giovani. É questa la testimonianza portata avanti da Carlo Giussani, tecnico radiologo da 35 anni all’ospedale di Cremona, anch’esso risultato positivo al Covid-19. “Non so dire come abbia contratto il Covid 19, ma sono stato tra i primi casi a Cremona e ho pensato di morire”, queste le sue parole rilasciate in un intervista al Tgcom24. “Mi sono ammalato in contemporanea con il paziente 1 di Codogno e in quegli stessi giorni della zona rossa del Basso Lodigiano, Cremona viveva una situazione simile. Io sono un sopravvissuto, ma la realtà è che sembra di svuotare il mare con il cucchiaino”.

A Cremona troppe polmoniti atipiche sui giovani. E poi, nel suo racconto, il ricordo delle molte polmoniti atipiche che a gennaio aveva costretto al ricovero anche tanti ragazzi giovani: “Già a fine gennaio avevamo notato polmoniti atipiche in giovani sottoposti a lastre. Sono 35 anni che lavoro in radiologia e non ricordavamo una tale concentrazione. Era cosa anomala in tempi non sospetti e il nosocomio si è mosso per tempo riorganizzando spazi e forze lavoro”. Da li poi l’esplosione dei casi a Cremona e il contagio di molti operatori sanitari, tra cui lo stesso Giussani che dice: “Come è avvenuto il contagio? Non ho saputo dirlo neanche alla Asl, né mi è stato facile risalire a tutti i miei contatti: in Radiologia siamo un esercito di 60-70 addetti, in più mi sposto per i reparti a fare lastre. Mi sono accorto che avevo sintomi influenzali ed era strano perché avevo fatto il vaccino. Mi hanno sottoposto a tampone perché ero stato a contatto con un paziente oncologico di pneumatologia che era morto con coronavirus. Ma non collego il mio contagio a lui; non ho mai avuto problemi respiratori né soffro di altre patologie. A un certo punto ho pensato che fosse stata la mia compagna ad ammalarsi per prima. Non so davvero, anche perché nel mio reparto comunque ero l’unico positivo in quei giorni e, dopo, l’epidemia non c’è stata perché siamo stati messi subito sotto controllo”.

La speranza del vaccino. L’intervista al tecnico radiologo si chiude con un suo messaggio di speranza affinché si trovi il prima possibile una cura al coronavirus: “Mi auguro che si trovi il vaccino. A questo ora bisogna pensare. Nel mio isolamento personalmente ho potuto riapprezzare quello che della vita avevo; ho ricominciato a leggere libri, ad ascoltare la radio. Non lamentatevi di stare a casa, godetene prima che si ricominci a fare i criceti.

"Polmoniti anomale a metà gennaio, così è nato il focolaio di Codogno”. La svolta della task force di medici sul boom di influenze che retrodata la propagazione del contagio. “Solo con più infetti inconsapevoli in circolazione per molti giorni, si spiegano diffusione e velocità del virus. Giuseppe Visetti il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. CODOGNO - Il focolaio italiano del coronavirus covava sotto la cenere «almeno dalla metà di gennaio». Da questa conclusione si trova «ormai a un passo» la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell’ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio. Grazie alla genetica, poche conferme separano ormai gli scienziati anche dalla ricostruzione del nesso tra «il principale epicentro dell’epidemia», individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito «secondario» di Vo’, nel Padovano. A una settimana dalla prima diagnosi nell’ospedale di Codogno, l’individuazione del «paziente zero» resta incerta. A vacillare però è in particolare, secondo chi segue il dossier, anche l’ipotesi che il dipendente dell’Unilever di Casalpusterlengo sia il «paziente uno». L’uomo, 38 anni di Castiglione, ha diffuso il Covid-19 nell’ospedale del primo ricovero a Codogno e tra coloro che ha frequentato per giorni una volta infetto, al lavoro a facendo sport. La caccia a chi ha involontariamente trasformato l’area ora sigillata in Lombardia in una sorta di «Wuhan italiana», dilagata poi nel resto della regione, nelle zone confinanti dell’Emilia e del Nord Italia, ha registrato una svolta grazie a medici, operatori delle case di riposo e farmacisti dei centri dove si concentra l’origine di oltre il 90% dei casi di positività. Dopo l’esplosione dell’emergenza tra Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio «sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze». Fino al 20 febbraio, giorno in cui il primo caso è stato accertato nell’ospedale di Codogno grazie all’intuizione di una anestesista, nessun italiano privo di rapporti anche indiretti con la Cina, era risultato positivo ai test. Nel Basso Lodigiano già in gennaio c’era però un boom, non inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali l’ha ricondotto «a fattori estranei alla stagionalità». «Eravamo tutti convinti — dice Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti — che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici». Ora il quadro è cambiato e la verità emerge da cartelle cliniche e ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti «normali». La maggioranza è guarita, ma nel sangue sono rimaste le tracce degli anticorpi contro il Covid-19. Dopo l’isolamento del «ceppo lombardo» del coronavirus a Milano, queste vengono ora incrociate geneticamente tra loro. In laboratorio, anche a Roma e a Pavia, prende così forma una rete sempre più precisa di relazioni personali anche non dichiarate, o che gli stessi contagiati non ricordano. «Tra giovedì 20 e lunedì 24 febbraio — spiega uno dei ricercatori — siamo improvvisamente passati da zero a oltre 200 casi di coronavirus tra 50 mila persone di un unico territorio. Effetto di tamponi fatti a tappeto, ma una simile accelerazione non ha precedenti nemmeno in Cina e non trova riscontri nei tempi d’incubazione del Covid-19». Per questo nelle ultime ore viene retrodatata la «diffusione silente» del contagio nel Lodigiano e chi cerca la verità sull’epidemia in Italia tende a concludere che il «paziente uno», stabile e ancora intubato al San Matteo di Pavia, possa non essere tale. Soltanto «con più infetti inconsapevoli in circolazione per parecchi giorni» si spiegano «diffusione, velocità e trasversalità» del contagio infine scoperto giovedì 20 nell’attuale «zona rossa». Area che, pur con crescenti deroghe per consentire una ripresa parziale di aziende e servizi, potrebbe vedere prolungato l’isolamento. All’inizio la cintura sanitaria, presidiata dai posti di blocco, era fissata fino al 4 marzo. Da ieri le autorità temono di doverla prorogare «come minimo fino a metà mese». Più probabile «almeno fino a fine marzo».

Coronavirus, boom di "strane polmoniti" a Codogno già a metà gennaio: il contagio va retrodatato? Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Il focolaio a Codogno e dintorni scoperto con grosso ritardo? È questa la conclusione a cui, secondo quanto riportato da Repubblica in un decisivo retroscena, si trova "ormai a un passo" la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell'ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio da coronavirus. L'ipotesi è che quel focolaio covasse "almeno dalla metà di gennaio". Una discrepanza clamorosa, se si pensa che l'emergenza è esplosa venerdì 21 febbraio. Secondo quanto riporta Repubblica, grazie a test genetici, mancano ormai pochi tasselli per arrivare a ricostruire il nesso tra "il principale epicentro dell'epidemia", individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito "secondario di Vo', nel Padovano. Ma non solo. Crescono altri dubbi. Non solo quello sul "paziente zero", non individuato a una settimane dalla prima diagnosi all'ospedale di Codogno. Vacilla infatti anche l'ipotesi che il "paziente uno" sia il dipendente dell' Unilever di Casalpusterlengo. Si parla del 38enne di Castiglione, che ha diffuso il Covid-19 nell'ospedale del primo ricovero a Codogno e tra le persone che ha frequentato per giorni dopo essere stato infettato, al lavoro a facendo sport. Il punto principale, però, è che come detto l'emergenza coronavirus è vicino ad essere retrodatata dalla task-force di esperti. Come ricorda sempre Repubblica, dopo l'esplosione dell'emergenza tra Codogno, Castiglione d'Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio "sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze". Si arriva poi al 20 febbraio, giorno in cui era stato accertato a Codogno il primo caso, il tutto grazie all'intuizione di una anestesista. Ma nel Basso Lodigiano, si apprende, già in gennaio c'era stato un boom, che non era passato inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali è riuscito a ricondurre questa serie di casi "a fattori estranei alla stagionalità". "Eravamo tutti convinti - dice a Repubblica Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti - che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici". Adesso, ovviamente, il quadro è cambiato. E la verità si mostra dalle cartelle cliniche e dalle ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti "normali". La maggior parte di loro è guarita, ma nel sangue sono rimaste tracce di Covid-19. La prova del fatto che l'emergenza-coronavirus era iniziata ancor prima che ce ne rendessimo conto.

Coronavirus, il focolaio del Nord. Primi casi di contagio tra italiani: 15 malati. L'infezione partita a Codogno (Lodi) da un 38enne mai stato in Cina. Dieci paesi isolati. “Non uscite da casa". Giampaolo Visetti il 22 febbraio 2020 su La Repubblica. Tappati in casa davanti a social e tivù con l’incubo del virus. Al mattino ancora si aggrappavano alla speranza di un pessimo scherzo di carnevale. Con il passare delle ore e l’aumento dei contagiati, calma e battute si trasformano in panico e silenzi. «Sembra incredibile — dice a tarda sera Mariuccia, proprietaria del bar “La Tentazione” di Castiglione d’Adda, dove il morbo si sarebbe trasmesso la prima volta — nessuno sa come lottare contro un nemico invisibile». Cinquantamila persone, nel cuore dell’epidemia, adesso temono davvero che il Lodigiano si riveli la Wuhan d’Italia. Il coronavirus, dalla Cina centrale, ha ormai raggiunto una delle aree più globalizzate del Nord ed è, oltre che in Veneto, alle porte di Milano. Dieci i paesi chiusi attorno all’epicentro del contagio, tra Codogno, Castiglione e Casalpusterlengo. Stop a tempo indeterminato per asili, scuole, uffici, negozi e locali pubblici anche in altri sette paesi. Fermi anche i treni. A rischio-isolamento perfino Lodi. Invitato a restare in casa, per almeno una settimana, un terzo degli abitanti di una provincia che conta 230 mila residenti, snodo cruciale tra Lombardia ed Emilia Romagna. Il primo bilancio del contagio, oltre che fulmineo, è impressionante: 15 infettati, ricoverati tra l’ospedale di Codogno e il centro specialistico «Sacco» di Milano, alcuni in condizioni gravi. Altri due in Veneto, vittime di un altro focolaio. Oltre 250 i pazienti posti in quarantena: 70 medici e infermieri, 79 tra famigliari e amici entrati in contatto con i contagiati nei tre centri-focolaio. «Venerdì mio figlio è venuto a trovarmi — dice a Castiglione la mamma dell’uomo che ora lotta con la morte nel reparto di terapie intensive di Codogno — stava male e il medico ha accettato di visitarlo qui. È un omone, forte e sportivo. Pensavamo a una brutta influenza. Questa mattina me l’hanno lasciato vedere in ospedale: intubato, incosciente, molto grave. Quasi non l’ho riconosciuto». Francesca e il marito Moreno, chiusi in casa a due passi dall’ambulatorio di quel medico di base, pure colpito dalla polmonite, aspettano di fare il tampone ordinato dall’unità di crisi costituita in Regione. A diffondere il contagio, dopo essere stato infettato da un amico, sarebbe loro figlio Mattia, 38 anni, residente a Codogno, chimico nello stabilimento Unilever di Casalpusterlengo. Ai primi di febbraio ha frequentato più volte bar e ristoranti della zona assieme a un amico, dipendente della «Mae» di Fiorenzuola d’Adda, nel Piacentino. Tra i ricoverati, anche la cognata. «Era tornato dalla Cina il 21 gennaio — dice la proprietaria della farmacia Gandolfi di Castiglione — ed è venuto ad acquistare le solite medicine contro il raffreddore». L’intuizione si è accesa giovedì sera a Valentina, 36 anni, moglie di Mattia, insegnante, in congedo da settembre e al settimo mese di gravidanza. Si è ricordata delle uscite del marito e dell’amico che lavora in Cina, rientrato il per capodanno lunare. Il primo caso di coronavirus trasmesso tra italiani, è stato scoperto così. Lo ha detto subito agli infettivologi della cittadina, che da domenica non si spiegavano l’improvvisa febbre a 40 di Mattia, passato al pronto soccorso e in medicina interna, prima di aver preferito proseguire le cure a casa. Dietro le finestre ora sbarrate il mistero sulla positività al virus si è dissolto. «Il morbo a questo punto — dice il direttore dell’ospedale, Massimo Lombardo — può al massimo essere contenuto: nessuno può eliminarlo». Oltre 120 i colleghi di Mattia sottoposti al tampone all’Unilever, dove sono stati chiusi mensa e reparti da lui frequentati. Due le caserme, di esercito e aeronautica, attrezzate per la quarantena di quasi 200 persone tra Milano e Piacenza. Tra i contagiati, con Mattia «non trasportabile» ci sono sua moglie Valentina e l’amico rientrato dalla Cina, considerato il «paziente zero» in Italia. Negativo al test, avrebbe trasmesso il virus da asintomatico, o durante quella «influenza» poi superata. La valutazione sulla presenza degli anticorpi è in corso all’Istituto superiore di sanità. Con loro anche il medico di Castiglione e il compagno di corsa di Mattia, figlio della proprietaria del bar dove sembra esplosa l’epidemia. A Milano tre clienti abituali del locale, tutti settantenni, oltre a cinque medici e quattro pazienti dell’ospedale di Codogno, secondo incubatore ora chiuso alle visite dall’esterno. Chi avverte i sintomi di un’influenza viene invitato a restare in casa e a chiamare il 112. Deserte anche le strade dei paesi sigillati. Deviati da oggi pure i treni. Chi esce lo fa con le mascherine, esaurite, o coprendosi il volto con la sciarpa. «Siamo piccole comunità — dice sotto shock il sindaco di Castiglione, Costantino Pesatori — frequentiamo gli stessi posti: se si ammala uno rischiamo di ammalarci tutti». Mattia, in due settimane, ha incontrato centinaia di persone. Non solo in laboratorio all’Unilever. Anche correndo con gli amici del Circolo podistico «Codogno 82»: uscite quotidiane, più una mezza maratona il 2 febbraio a Santa Margherita Ligure e una corsa non competitiva il 9, a Sant’Angelo Lodigiano. Sabato scorso era andato a giocare a calcio: campionato amatori, lui centrocampista del bar «Picchio» di Soragna, contro il «Sabbioni» di Crema. «Aveva qualche linea di febbre — dice l’allenatore — sembrava niente». Invece era già tutto. «A mezza mattina — dice Cecilia Cugini, preside delle medie a Codogno — i genitori sono venuti a riprendersi i bambini. Piangevano perché qui la vita non sarà più quella prima». Nulla di visibile, nella notte che sconvolge la pianura delle cascine e delle industrie. Proprio questo, come l’esplosione di una centrale atomica, paralizza anche i pensieri.

Gli errori dell’ospedale di Codogno che hanno contribuito a diffondere il Coronavirus. Alessandro D'Amato il 26 Febbraio 2020 su nextquotidiano.it. Lunedì Giuseppe Conte ha annunciato di voler avocare le responsabilità in materia sanitaria che spettano alle Regioni per evitare «gli errori compiuti nell’ospedale di Codogno» che, respingendo il paziente 1 senza sottoporlo al test, era diventato «focolaio d’infezione». Il governatore Fontana (Lega) aveva replicato: «Non posso tacere. Ci hanno dato dei razzisti perché prima che scoppiasse l’epidemia volevamo aumentare i controlli. Il premier ci disse “Fidatevi di me”: allora non dica che siamo noi i responsabili». A puntare il dito sul problema dell’ospedale di Codogno come veicolo di infezione era stato anche l’infettivologo Massimo Galli in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Galli successivamente ha parzialmente rettificato la sua posizione: «L’attribuzione di una responsabilità diretta e di un comportamento scorretto ai colleghi e all’ospedale di Codogno —chiarisce l’infettivologo — va comunque assolutamente al di là delle mie intenzioni e delle mie convinzioni». E ancora: «È verosimile che l’epidemia non sia, nella sua origine, recentissima nell’area del Lodigiano ed è certo che la persona che si è rivolta all’ospedale di Codogno per assistenza non è colui che ha importato il virus in Italia (il cosiddetto paziente «zero», ndr). È quindi probabile che il virus sia circolato per diversi giorni prima che il caso grave numero uno si rivolgesse ai sanitari di Codogno. È altrettanto evidente che i colleghi di tale ospedale non avevano  alcun elemento che li aiutasse a sospettare le cause delle manifestazioni cliniche del paziente, che non poteva essere considerato sospetto per coronavirus in base alle definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità».

Il paziente 1 in Lombardia (La Repubblica, 22 febbraio 2020). Il Corriere della Sera oggi riepiloga cosa è successo all’ospedale di Codogno e perché gli errori commessi nell’occasione hanno contribuito alla diffusione del Coronavirus nel lodigiano e da lì alle altre regioni e agli altri Stati d’Europa, spiegando però che l’applicazione alla lettera della circolare ministeriale in qualche modo discolpa il nosocomio: Il «paziente 1» entra in Pronto soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il motivo del non aver ipotizzato subito la possibilità del coronavirus: «Non è di ritorno dalla Cina». In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina.

L’errore dell’ospedale di Codogno e la circolare del ministero. A quel punto, racconta ancora il quotidiano, il paziente 1 viene spostato in rianimazione e lì infetta i due anestesisti benché questi siano protetti dal protocollo. Ma cosa è successo all’interno dell’ospedale in quelle ore? La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l’esito del tampone.

Coronavirus, la mappa dei contagiati (La Stampa, 26 febbraio 2020). In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori». Un medico in quarantena di Castiglione d’Adda, cittadina a poche chilometri da Codogno, racconta all’agenzia AdnKronos: «Siamo stati un po’ delle cavie. Bisogna dare ai medici delle protezioni, spero che nelle altre regioni non si facciano gli stessi errori». Ancora: «Nelle settimane precedenti c’erano state troppe polmoniti strane. Ma per il nuovo coronavirus tutto quello che dovevamo fare era chiedere agli assistiti se venivano dalla Cina, e in particolare dall’area a rischio». Forse c’è stata una sottovalutazione, forse non si è capito che in un mondo ormai sempre più piccolo un virus partito da una megalopoli cinese come Wuhan poteva arrivare anche dove meno ce lo si aspettava, nella quiete della Bassa Lodigiana. Però resta una domanda: perché non è stata scelta una linea più rigorosa dall’Italia imponendo i test per tutti i casi sospetti, anche quelli che non avevano legami con la Cina? Perché i paesi dell’Unione europea non hanno scelto questa linea comune prima che il contagio arrivasse? Perché fare il test ad ogni persona con la tosse non è praticabile.

Contagio da coronavirus, Procura Lodi apre un’inchiesta: il paziente 1 rifiutò il ricovero. Redazione de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. La Procura di Lodi ha aperto un’inchiesta per fare luce sulla diffusione del coronavirus nel Lodigiano. In particolare, i carabinieri del Nas di Cremona si sono recati negli ospedali di Codogno, Casalpusterlengo e all’ospedale Maggiore di Lodi, ritenuta la zona rossa in cui si è diffuso il virus del covid 19.

SEQUESTRATA LA CARTELLA CLINICA DEL PAZIENTE 1 – Da fonti vicine all’indagine si apprende inoltre che i carabinieri del Nasi di Piacenza hanno sequestrato, su disposizione della Procura di Lodi, le cartelle cliniche del paziente 1. Il fascicolo aperto nelle scorse ore dai magistrati lodigiani è al momento a carico di ignoti.

“PAZIENTE 1 NON ERA SOSPETTO, DECLINO’ RICOVERO” – Proprio sul caso del paziente 1, il 38enne che il 18 febbraio scorso si era presentato all’ospedale di Codogno, il direttore dell’Azienda socio sanitaria locale di Lodi, Massimo Lombardo, ha precisato in una nota che l’uomo non presentava “alcun criterio che avrebbe potuto indentificarlo come ‘caso sospetto’ o ‘caso probabile’ di infezione da coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020″. “Durante l’accesso in pronto soccorso è stato sottoposto agli accertamenti necessari e a terapia; tuttavia decideva di tornare a casa nonostante la proposta prudenziale di ricovero”, spiega ancora Lombardo. “Nella notte tra i giorni 18 e 19 febbraio”, il paziente ‘Caso 1’ andato all’ospedale di Codogno, “si ripresenta al pronto soccorso dello stesso ospedale per un peggioramento dei sintomi: viene quindi ricoverato nel reparto di medicina dove il peggioramento delle condizioni cliniche ha determinato l’intervento del rianimatore la mattina del 20 febbraio e il contestuale ricovero in rianimazione. A questo punto, parlando con la moglie, il rianimatore viene informato di una cena, svoltasi a fine gennaio, alla quale avrebbe partecipato il Caso 1 e dove era presente un amico rientrato dalla Cina, ma anche quest’ultimo fatto, secondo i protocolli del ministero, non classificava il Caso 1 come caso sospetto o caso probabile”. Lo scrive in una nota Massimo Lombardo, direttore generale dell’Asst di Lodi.

Coronavirus: Nas negli ospedali, la Procura di Lodi apre una indagine. Affari Italiani Mercoledì, 26 febbraio 2020. Coronavirus, il governatore lombardo Fontana difende l'ospedale di Cologno: "Falla altrove, ma non dico dove..." Ma la Procura di Lodi accende i riflettori. "Non bisognava dire che è stato commesso un errore o che c'è stata una falla, la falla è stata altrove ma non diciamo da dove viene perchè non voglio fare polemiche": è quanto ha detto il governatore della Lombardia Attilio Fontana a SkyTg24, tornando sulle parole del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sull'ospedale di Codogno. "Lanciare accuse a medici o infermieri che si comportano in maniera eccellente mi fa molto arrabbiare", ha aggiunto. Il premier aveva parlato di una gestione "poco prudente" della situazione nell'ospedale di Codogno e già ieri aveva provocato le piccate reazioni di Fontana e dell'assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera. Poi in serata sembrava essere giunto il chiarimento. Tuttavia, secondo quanto riportano le agenzie, la Procura di Lodi sta conducendo accertamenti sulle procedure preventive adottate per prevenire il contagio in alcuni ospedali, in particolare in quello di Codogno. L'inchiesta riguarda non solo le procedure adottate a Codogno, ma anche a Casalpusterlengo e Lodi, dove questa notte i Nas  hanno fatto un'ispezione. Gli stessi Nas questa mattina sono stati all'ospedale di Lodi per eseguire accertamenti.

Salvini, assurda inchiesta ospedale di Codogno dopo parole Conte. Matteo Salvini ha ribadito che, a suo giudizio, sarebbe "assurdo" se vi fosse un'inchiesta aperta all'ospedale di Codogno "in conseguenza di quello che ha detto il presidente del Consiglio". "Quei medici andrebbero premiati e non certo indagati", ha affermato il segretario leghista. "Spero che abbiano capito male le agenzie che se veramente in questa situazione di emergenza ci fosse inchiesta su tutto quello che dicaimo non avrebbe senso. Spero dia un fraintendimento". 

Il «paziente 1 rifiutò il ricovero» all’ospedale di Codogno. Il direttore generale dell’Asst di Lodi, da cui dipende anche l’ospedale di Codogno, ha chiarito che il «Paziente 1» non era sospetto, quando si è presentato per la prima volta in pronto soccorso: e ha rifiutato la «proposta prudenziale» di ricovero.

Procura apre un’inchiesta sui contagi negli ospedali del Lodigiano. Aperto un fascicolo sulla diffusione del virus. E avviate verifiche sulle procedure adottate negli ospedali di Codogno, Casalpusterlengo e Lodi. Michele Di Lollo, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. I rapporti tra il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, e il premier Giuseppe Conte non sono buoni. Negli ultimi giorni sono volati stracci tra i due, in più occasioni. La polemica sarebbe legata a una dichiarazione del presidente del Consiglio in merito a presunti errori commessi da un ospedale (il riferimento all’istituto di Codogno appare evidente) i quali avrebbero poi favorito il contagio del coronavirus in tutto il Nord Italia. E in altri ospedali. Conte, senza riferirsi a una struttura in particolare, aveva parlato di “gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi”. In altre parole, un ospedale non avrebbe seguito i protocolli favorendo la diffusione dell'epidemia. Ora un altro tassello si aggiunge a questa vicenda. La procura di Lodi ha aperto un’inchiesta conoscitiva per ricostruire le dinamiche sulla diffusione del coronavirus e sulle procedure adottate negli ospedali di Codogno, Casalpusterlengo e Lodi, zona ritenuta il focolaio del virus. La ormai nota zona rossa. I carabinieri del Nas (Nucleo Antisofisticazione) di Cremona sono apparsi all’ospedale di Lodi per eseguire accertamenti nell’ambito dell’indagine sulle procedure adottate in questo ospedale e in quello di Codogno per evitare il dilagare del virus. Non solo, questa notte i militari per la tutela della salute di Cremona hanno fatto visita con diversi uomini anche in altri ospedali lodigiani. L’ispezione è iniziata ieri in giornata a Codogno per poi proseguire nel nosocomio di Casalpusterlengo. E concludersi nella notte all’ospedale Maggiore di Lodi. L’obiettivo delle ispezioni è comprendere le dinamiche di diffusione del virus e ricostruire esattamente cosa sia successo negli scorsi giorni. Con la finalità di prevenire ulteriori trasmissioni della malattia. Tra le polemiche che colpiscono il governo e i presidenti delle singole regioni, non è possibile non citare il caso Marche. È una sfida in piena regola allo Stato centrale quella del governatore, Luca Ceriscioli, del Pd, che ha deciso la chiusura delle scuole fino al 4 marzo. Anche se nella sua regione non esistono per ora casi accertati di coronavirus. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha scelto la linea dura per impedire altre fughe in avanti, annunciando che impugnerà il provvedimento. Ma Ceriscioli, presidente di una regione che andrà al voto in primavera, e in polemica con il suo partito incerto sulla sua ricandidatura, non ci sta a tornare indietro sui suoi passi. E a Circo Massimo su Radio Capital afferma: “Noi andiamo avanti. Se la mia sia una sfida al governo, non dipende certo da me”. In questo quadro irrompe anche Matteo Salvini: “Incredibile e vergognoso lo scontro fra governo Pd e regione Pd sulla pelle dei marchigiani!”. Il leader della Lega è già con un piede nella prossima campagna elettorale.

Coronavirus, il «paziente 1 rifiutò il ricovero» a Codogno: la ricostruzione. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it. Mentre l’Italia si trova ad affrontare la situazione di emergenza dettata dalla diffusione del Coronavirus, si chiariscono sempre più le circostanze che avrebbero portato alla diffusione di uno dei focolai più importanti, quello del Lodigiano. Secondo quanto dichiarato da Massimo Lombardo, direttore dell’Azienda sanitaria di Lodi, il paziente «caso 1» — il 38enne ancora ricoverato, in condizioni stabili, all’ospedale di Pavia — quando si è presentato per la prima volta al pronto soccorso di Codogno, «si è presentato al pronto soccorso dell’Ospedale di Codogno una prima volta il giorno 18 febbraio senza presentare alcun criterio che avrebbe potuto indentificarlo come “caso sospetto” o “caso probabile” di infezione da Coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020». «Durante l’accesso», scrive ancora Lombardo, «è stato sottoposto agli accertamenti necessari e a terapia; tuttavia decideva di tornare a casa nonostante la proposta prudenziale di ricovero». «Nella notte tra i giorni 18 e 19 febbraio», il «paziente 1» si è poi ripresentato «al pronto soccorso dello stesso ospedale per un peggioramento dei sintomi: viene quindi ricoverato nel reparto di medicina dove il peggioramento delle condizioni cliniche ha determinato l’intervento del rianimatore la mattina del 20 febbraio e il contestuale ricovero in rianimazione». Ed è solo a questo punto — dopo che il giovane è stato visitato, in reparto di Medicina, da parenti, amici e molti medici — che «parlando con la moglie, il rianimatore viene informato di una cena, svoltasi a fine gennaio, alla quale avrebbe partecipato il “Caso 1” e dove era presente un amico rientrato dalla Cina». «Ma anche quest’ultimo fatto, secondo i protocolli del ministero» — chiarisce Lombardo — «non classificava il “Caso 1” come “caso sospetto” o “caso probabile”». Secondo quanto ricostruito dal Corriere qui, tra il momento in cui il «paziente 1» entra per la seconda volta in Pronto soccorso (le 3.12 del 19 febbraio) e il momento in cui gli viene effettuato il tampone (intorno alle 16 del 20 febbraio) sono trascorse 36 ore. In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio aveva cancellato quella frase e prevedeva controlli solo per chi avesse avuto legami con la Cina. Le cartelle cliniche del paziente 1 — secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa — sono state oggi sequestrate dai carabinieri del Nas di Piacenza. La Procura di Lodi ha aperto un fascicolo, al momento a carico di ignoti.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Al pronto soccorso di Codogno, in provincia di Lodi, hanno dovuto visitare due volte M.M., 38 anni e paziente 1, prima di capire che era contagiato dal coronavirus. Nel frattempo, nei due differenti passaggi, è venuto a contatto con altri pazienti, con medici e infermieri. All'ospedale di Monselise, nel Padovano, hanno tenuto ricoverato per almeno dieci giorni Adriano Trevisan, prima vittima del coronavirus, e l'amico, entrambi di Vo' Euganeo, con una polmonite, senza intuire che era Covid-19. E probabilmente i medici hanno deciso di eseguire il test solo dopo che dalla Lombardia è arrivata la notizia del contagiato a Codogno. L'altro giorno il premier Giuseppe Conte ha accusato l'ospedale nel Lodigiano di avere gestito male le procedure e di non avere così contenuto gli effetti del contagio. A Padova, invece, la procura ha aperto un fascicolo sulla morte di Trevisan e sull'operato dei medici. Ma cosa non ha funzionato? L'assessore regionale del Lazio, Alessio D'Amato, la pensa come Conte: «Lo dico scevro da ogni elemento polemico, anche perché abbiamo dato tutta la disponibilità e la confermiamo, però sia nell'ospedale di Codogno sia nell'ospedale veneto qualche elemento di difficoltà c'è stato». Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, invece si è infuriato con Conte, tanto che nel vertice di ieri c'è stato anche un momento di tensione in cui ha abbandonato la riunione. Il sindaco di Codogno, Francesco Passerini, difende i medici dell'ospedale: «Hanno dovuto chiedere con insistenza all'uomo arrivato in pronto soccorso e alla moglie se avessero avuto contatti con la Cina. E se nella notte lei non avesse ricordato quella cena del marito con l'amico tornato dall'Oriente, i medici non avrebbero potuto svolgere il test, qualcuno li avrebbe accusati di commettere un abuso visto che sarebbero andati oltre ai protocolli indicati dal Ministero della Salute». In sintesi: le linee di guida del Ministero, sulla base di quelle dell'Oms, prevedevano che si facessero i test solo sui pazienti con sintomi come tosse e febbre e solo se erano tornati dalla Cina o avessero avuto contatti con persone che erano state nelle zone a rischio. Qualcuno osserva però che a Codogno è stato sbagliato il metodo per ascoltare il paziente, a cui sono stati chiesti gli spostamenti in presenza di altre persone. C'è però un medico in quarantena di Castiglione d'Adda, cittadina a poche chilometri da Codogno, che racconta all'agenzia AdnKronos: «Siamo stati un po' delle cavie. Bisogna dare ai medici delle protezioni, spero che nelle altre regioni non si facciano gli stessi errori». Ancora: «Nelle settimane precedenti c'erano state troppe polmoniti strane. Ma per il nuovo coronavirus tutto quello che dovevamo fare era chiedere agli assistiti se venivano dalla Cina, e in particolare dall'area a rischio». Forse c'è stata una sottovalutazione, forse non si è capito che in un mondo ormai sempre più piccolo un virus partito da una megalopoli cinese come Wuhan poteva arrivare anche dove meno ce lo si aspettava, nella quiete della Bassa Lodigiana. Però resta una domanda: perché non è stata scelta una linea più rigorosa dall'Italia imponendo i test per tutti i casi sospetti, anche quelli che non avevano legami con la Cina? Perché i paesi dell'Unione europea non hanno scelto questa linea comune prima che il contagio arrivasse? Chi è in prima linea, come il primario di un grande pronto soccorso romano, scuote la testa: «I colleghi di Codogno hanno rispettato le procedure, magari è mancata una intuizione, ma con i dati e le prescrizioni a disposizione non potevano fare altrimenti. E fare il test a qualsiasi paziente con febbre e tosse non è praticabile. Solo nel mio pronto soccorso, in questa stagione di diffusione della normale influenza, arrivano ogni giorno almeno venti pazienti con quel tipo di sintomi».

Coronavirus, all’ospedale di Codogno il test sul “paziente 1” solo dopo 36 ore. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano e Simona Ravizza. Il «paziente 1» entra in Pronto Soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Davanti ai dati che parlano di oltre la metà dei casi di contagio negli 11 Comuni intorno a Codogno, s’impone la domanda: qualcosa non ha funzionato in quell’ospedale? Il dubbio l’ha instillato anche il premier Giuseppe Conte facendo infuriare il governatore Attilio Fontana. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il test gli viene fatto solo intorno alle 16 del 20 febbraio. Il motivo: «Non è di ritorno dalla Cina». In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina. Così l’assessore alla Sanità Giulio Gallera ieri può andare in Consiglio regionale a dire che l’ospedale di Codogno ha rispettato i protocolli. Vero. Eppure Mattia per 36 ore resta in ospedale infetto senza che nessuno lo sappia e quindi senza nessuna misura di contenimento. La conferma che è davvero contagiato dal virus arriva formalmente alle 21, sempre del 20. Ma per gli operatori di turno l’allerta rossa scatta che è quasi mezzanotte. È soltanto a quell’ora che all’interno dell’ospedale vengono informati tutti. E da quel momento in poi la situazione si fa complicata, per non dire caotica. Dalle chat di familiari che hanno a che fare con medici, infermieri e pazienti ricoverati, si riescono a ricostruire i passaggi di una notte nella quale, per ore, si decide tutto e il contrario di tutto. È un frenetico consultarsi fra medici, infermieri, direzione sanitaria, Regione, ministero della Salute. Il «paziente 1» viene spostato in Rianimazione e contagia i due anestesisti che si occupano di intubarlo, benché a questo punto siano protetti secondo il protocollo. La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l’esito del tampone. In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori».

Coronavirus, nessun tampone per il vicino del paziente 1 di Codogno? Le Iene News il 26 febbraio 2020. La storia incredibile di Gabriele, vicino di casa a Codogno del paziente 1 da cui sarebbe partito il focolaio lodigiano di coronavirus: “Ho chiamato più volte i numeri dell’emergenza ma nessuno ancora è venuto a farmi il tampone”. Ci raccontano tutto Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. L’emergenza coronavirus è appena esplosa in Italia. Il focolaio da cui tutto sarebbe partito, e che fino a questo momento registra quasi il 90% di vittime e contagiati, è la zona della provincia di Lodi, da domenica pomeriggio isolata da un cordone di esercito e polizia: chi entra non esce più, se non dopo una “quarantena” di almeno 14 giorni. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti affrontano l’emergenza coronavirus raccontando la storia di una delle decine di migliaia di persone che vivono all’interno della “zona rossa”. Si chiama Gabriele, un uomo che qualche giorno fa aveva chiamato una radio, per lanciare una accorata richiesta: “Sono in auto-quarantena. Abito nello stesso condominio del 38enne Mattia, da cui è partito il coronavirus. È una settimana che ho febbre e tosse ma non riesco a farmi fare il test”. Antonino Monteleone lo chiama per verificare se a distanza di qualche giorno sia riuscito a farsi fare il tampone, l’unico modo per verificare se sia stato infettato dal coronavirus. Ma la storia che ci racconta è alquanto paradossale: è quella di Gabriele, che è entrato in contatto col “paziente 1”, il 38enne di Codogno da cui sarebbe partito il focolaio lodigiano. “È una settimana che ho febbre e quindi da domenica scorsa quando ho saputo dell’esplosione del virus proprio nel mio paese ma addirittura proprio nel mio palazzo perché i primi due infettati sono i miei vicini di casa, immediatamente ho chiamato il mio medico curante”, racconta Gabriele. “Questi mi ha indirizzato immediatamente al 112, dicendomi che lui non mi avrebbe accolto nel suo studio e non sarebbe venuto nemmeno a casa mia a visitarmi. E così ho contattato il 112, più di una volta, ho cominciato a contattarlo nel pomeriggio. L’operatore mi ha chiesto più volte il motivo della chiamata, e gli spiegavo che effettivamente sono residente nello stesso luogo dov’è partito il virus”. Gabriele infatti non solo abita nello stesso condominio, ma addirittura nella stessa scala, esattamente al piano terra, dello stabile dove vive con sua moglie, Mattia il 38enne considerato “paziente 1”. Il giovane prosegue il suo racconto: “Ho cominciato a chiamare nel pomeriggio e ho avuto risposta dal 112 dopo 3 o 4 chiamate alla sera di venerdì. Il medico del 112 m’ha chiesto se avevo avuto dei contatti diretti con questi miei vicini di casa e io ho confermato che non ho avuto un contatto diretto, ma che semplicemente frequentiamo la stessa rampa di scale, la stessa portineria. E basta. Mi ha risposto che se non c’è stato un rapporto dovevo contattare il mio medico curante al che gli ho spiegato che era stato lui a indirizzarmi al 112. Il medico, testuali parole, mi ha detto ‘guardi ha ricevuto un’informazione errata da parte del suo medico, contatti il suo medico perché è lui che deve curarla’. Ma essendo venerdì sera, non ho più potuto contattare il mio medico curante”. E allora Gabriele si è dovuto arrangiare da solo, mettendosi in auto-quarantena. “Siamo tutti in isolamento, io mia moglie e mio figlio, ma stiamo bene”. E poi ci spiega: “Mi ha chiamato l’Ats, l’azienda di tutela della salute e mi ha invitato a non lasciare casa, a me personalmente”. E così Gabriele racconta di aver fatto venire in casa, per visitarlo, un’amica dottoressa: “È venuta una mia amica dottoressa, di sua spontanea volontà. Mi ha auscultato i polmoni e li ha trovati abbastanza sgomberi. Mi ha tranquillizzato dicendo che sicuramente è una semplice influenza stagionale, quindi io sono tranquillo. Però richiediamo il tampone, per tranquillizzare anche gli altri, perché io ho un’attività a contatto con il pubblico e i clienti venendo a sapere che non sto molto bene e abito proprio nell’epicentro dell’epidemia si sono un po’ allarmati e preoccupati”. Ma c’è per Gabriele anche un altro motivo di preoccupazione: “Ho scoperto sabato sera tardi che un mio amico è risultato positivo al test. Siamo usciti a cena al ristorante, il giorno 7 febbraio, in compagnia. L’ho detto ai sanitari. Di primo acchito mi hanno detto comunque ‘sicuramente lei avrà una priorità perché a questo punto lei passa come persona avente avuto un contatto diretto con l’infettato’”. Antonino Monteleone gli chiede: “Ma lei ha notizie dal suo amico positivo?” “No non so come stia, so che è ricoverato al Sacco di Milano ma non so in quali condizioni”. “Quindi all’inizio le hanno detto che lei non aveva bisogno del tampone, poi cosa le hanno detto?”, gli chiede ancora. E Gabriele spiega: “Questa mattina i tamponi qua erano finiti e stavano aspettando che arrivassero...” Cioè a Codogno, epicentro dell’epidemia, erano finiti i tamponi… Gabriele prosegue nel suo racconto: “Secondo me erano già finiti da sabato, era per quello che temporeggiavano, e alle 3 del pomeriggio hanno ripreso a fare tamponi alle persone più esposte, più a rischio. Però a me hanno chiamato alle 7 di questa sera ma per ribadirmi la stessa cosa, che hanno tantissime richieste, e comunque devo ancora aspettare mettermi in quarantena, non avere contatti con l’esterno, perché ci sono altre priorità prima da accontentare. E poi nei giorni prossimi verrà anche il mio turno, questo è quanto”. Ma la cosa ancora più incredibile è che, a quanto racconta, a nessun altro di quel condominio sarebbero venuti a fare il tampone. “Nel mio palazzo no, c’è la vicina di casa degli infettati che sta aspettando anche lei il tampone. Il nostro è un condominio grande che ha 3 scale però nello specifico questa è la scala D e ci sono circa 10 famiglie. Qua non si è visto nessuno, non hanno neanche disinfettato niente”. Intervistiamo anche il figlio di Gabriele, che con il fratello fa il video maker e a cui è appena saltato un lavoro. Gabriele spiega: “Aveva una commessa di lavoro a un concerto dell’Arena di Verona l’altro giorno, appena hanno scoperto che lui veniva da Codogno gli hanno cancellato la commessa, soltanto perché proveniente da Codogno…”. Proprio ai figli di Gabriele, Francesco e Filippo, abbiamo chiesto di raccontaci qual è l’atmosfera a Codogno, messa sotto quarantena dal nostro governo Italiano, e da domenica pomeriggio isolata da polizia e esercito. Ce lo mostrano attraverso i loro video racconti: “Ecco qua stiamo entrando nel parcheggio del supermercato, ci sta un botto di gente che è venuta a fare la spesa ovviamente per prendere i beni di prima necessità e niente ci sono i vigili urbani, che stanno gestendo la cosa. Adesso ci avviciniamo un pochino di più comunque c’è la gente con i carrelli della spesa che fa la fila e aspetta di entrare ecco qua. Pochi alla volta entrano, per entrare al supermercato devi per forza avere mascherina e guanti. Molta gente è nel panico e invita le persone ad accaparrarsi il più possibile i prodotti dei supermercati beni di prima necessità perché poi hanno paura che rimangono senza”. Dopo essere stati al supermercato U2, Francesco e Filippo ci portano a vedere com’è la situazione nell’altro grande supermercato di Codogno, l’Iperfamila. Prosegue il loro video-racconto: “Ci stiamo avvicinando al Iperfamila, un altro supermercato grosso di Codogno dove è la stessa cosa: si è organizzata appunto la fila, c’è la protezione civile che fa entrare poco alla volta sempre le persone. Molta gente con la mascherina, per far la spesa penso che ci voglia un po’ di tempo. Nel supermercato fanno entrare 10 persone alla volta che sono pochissime quindi insomma potete immaginare che in un paese di 15 mila abitanti se solo 10 persone possono entrare in un supermercato abbastanza grosso la fila è lunga c’è da aspettare molto tempo”. Insomma è caos a Codogno e nella zona rossa, epicentro del focolaio di coronavirus. Anche per quanto riguarda i presìdi sanitari che aiutano a contenere il contagio. Filippo prosegue il suo video-racconto: “Fuori dalla farmacia tra le tante persone c’era anche un signore che con la mascherina tossiva e il fatto è che l’idea che è circolata è che chi ha un sintomo come quello, come tra gli altri la febbre, tosse, qualsiasi tipo di difficoltà respiratoria dovrebbe stare a casa per non rischiare di portare in giro il virus. Però questo può avvenire se qualcuno viene a casa tua a darti una mano, a portarti i medicinali e eventualmente a visitarti, se invece questa cosa non è garantita e qua a Codogno vi assicuro non è garantita, chi ha la tosse e vive da solo deve andarsi a comprare le medicine da solo ovviamente perché non tutti hanno qualcuno che può andarli a comprare al posto loro”. All’indomani della nostra prima telefonata, proviamo a richiamare Gabriele.  E quello che ci racconta ha dell’incredibile… “Come stai? “. “Meglio, sì, meglio meglio grazie. La novità è che sono stato chiamato per andare all’ospedale di Sant’Angelo Lodigiano… È un ospedale che è al di fuori della zona rossa in cui noi viviamo”. “E come ci vai?”. “Appunto, ho detto vabbè… Io sì, sono in grado di guidare, prendo la mia macchina, arrivo qua al primo posto di blocco che è a 5 km, e giustamente i carabinieri mi fermano e non mi fanno passare, anche spiegandogli che devo andare all’ospedale per fare il tampone, e mi rispondono, giustamente, ‘ma noi abbiamo una direttiva ministeriale che dalla zona rossa nessuno entra e nessuno esce, per nessun motivo, se non per portare alimenti o medicinali’. Quindi non mi fanno passare”. Antonino Monteleone gli chiede: “Però è strano che proprio la Asl, che dovrebbe rispettare alla lettera le disposizioni, abbia detto di prendere...”. “Ma non c’è coordinamento. Gli spiego il caso. E dicono ‘ah, non la fanno passare? sì in effetti noi non abbiamo nessuna facoltà di dare dei lasciapassare, ma non avendo disponibilità di medici che vanno alle abitazioni dei richiedenti, siamo costretti a mandarli negli ospedali”. Una situazione paradossale: un uomo malato da una settimana, chiede da venerdì di poter fare un tampone essendo entrato in contatto di sicuro con il “paziente 1” e dopo 4 giorni finalmente gli propongono di fare un tampone in un ospedale che però è fuori dalla zona rossa e che quindi non può raggiungere in alcun modo”. Assurdo. Gabriele prosegue il suo racconto: “Vengo richiamato dall’ospedale di Sant’Angelo Lodigiano che mi dice ‘lei ha un appuntamento per il tampone oggi pomeriggio alle 15’ Gli dico che sono appena rientrato a casa, che ho cercato di raggiungerli ma sono stato fermato al posto di blocco della polizia, che mi ha rimandato a casa perché non fanno passare nessuno. E poi mi dicono ‘stiamo cercando di organizzare adesso un centro per i tamponi, nella sua zona che sarà Codogno all’interno della zona rossa e quindi aspetti ancora la nostra chiamata, che verrà richiamato per fare il tampone”, qua all’interno della zona rossa”. Anche noi de Le Iene abbiamo provato a chiamare più volte il numero dell’Ats, cioè dell’azienda della tutela della salute di Milano che sta dando tutte queste indicazioni contraddittorie al vicino di casa del paziente numero 1. Ma anche noi senza molto successo…”. Proviamo a richiamare Gabriele dopo cinque giorni da quando ha segnalato alla sanità Lombarda la sua situazione. Ci risponde il figlio: “Sì mio papà è in casa ma non c’ha più voglia di rispondere al telefono. Insomma è un po’ scazzato… però non ci sono novità, te lo posso dire io, la situazione è sempre questa tamponi non ci sono non ce li fanno non arrivano”. Che dire insomma? Ai cittadini che si rivolgono alle autorità sanitarie viene detta una cosa, poi un’altra e alla fine vengono lasciate in sospeso le loro vite e di chi li ha frequentati. Ma anche gli stessi medici non sembrano andare molto d’accordo tra loro. Come è accaduto nel battibecco tra il direttore del laboratorio dell’ospedale Sacco e l’immunologo Roberto Burioni. Se la prima ha parlato di una “follia”, perché “è stata scambiata influenza per pandemia”, Burioni su Twitter, di lei ha detto: “Temo che la signora del Sacco abbia lavorato troppo nelle ultime ore, dovrebbe riposarsi”.  

Coronavirus: “Il mio collega a contatto diretto col 38enne di Codogno, disperato senza tampone”.  Alessandro Barcella Le Iene News il 23 febbraio 2020. Raccogliamo la testimonianza di un uomo del lodigiano il cui collega è entrato in contatto con il 38enne da cui è partito il focolaio di coronavirus nel lodigiano, e che da tre giorni chiede disperatamente di essere sottoposto a tampone. “È chiuso in casa con moglie e due figlie, continua a chiamare l’emergenza ma nessuno viene a controllarlo”. “Coloro che riscontrano sintomi influenzali o problemi respiratori non devono andare in pronto soccorso, ma devono chiamare il numero 112 che valuterà ogni singola situazione e spiegherà che cosa fare. Per informazioni generali chiamare 1500, il numero di pubblica utilità attivato dal ministero della Salute”. Questa è l’indicazione che le autorità di stanno diramando da giorni, per evitare che il contagio da coronavirus dilaghi. Ma diverse testimonianze che stiamo raccogliendo in queste ore fanno pensare che la macchina dell’assistenza abbia diverse lacune. Davide (nome di fantasia) è un uomo che vive nel lodigiano ed è testimone della vicenda che ci ha voluto raccontare per chiederci aiuto. Riguarda un suo collega, come lui impiegato in una grande azienda di Casalpusterlengo, uno dei comuni lodigiani in isolamento. “Il mio collega ha uno zio che da qualche tempo è ricoverato all’ospedale di Codogno. Giovedì scorso è andato in visita dallo zio e a quanto ha scoperto in seguito, in quelle ore nello stesso reparto si trovava, ricoverato, il 38enne da cui sarebbe partito il focolaio di coronavirus del lodigiano. Il mio collega è rimasto nella stanza con lo zio e in quel reparto per almeno un’oretta . Sua cugina, la figlia dell’anziano ricoverato, aveva invece passato notti intere ad assistere il padre ed è risultata positiva al coronavirus: adesso è in quarantena a Pavia”. Il collega, ci spiega ancora Davide, è stato classificato dalle autorità sanitarie come un “contatto diretto”, e dunque a rischio contagio. Ma al momento non è stato ancora sottoposto al tampone. “È da venerdì all’ora di pranzo, dopo essere stato classificato come contatto diretto, che il mio collega cerca disperatamente di essere sottoposto a tampone. Ha chiamato più e più volte sia il numero unico dell’emergenza 112 che il 1500: gli hanno detto che sarebbero andati a casa da lui per eseguire il tampone, ma ancora nulla! Anche ieri alle 21 ha richiamato, hanno detto che sarebbero andati, ma nulla”. “Ovviamente è molto preoccupato: a casa, che è in uno dei comuni in quarantena, ha moglie e due bimbe. E pensare che questa mattina hanno eseguito il tampone a sua madre, sorella dell’anziano ricoverato a Codogno. Lui intanto continua a chiamare, gli hanno detto di attendere ma nessuno ancora è arrivato a controllarlo a domicilio”. La preoccupazione di Davide, oltre che ovviamente per il collega, è anche per se stesso e la sua famiglia: “Siamo tutti preoccupati, anche noi colleghi che abbiamo avuto contatti con lui, in azienda a Casalpusterlengo”. In questo articolo abbiamo anche raccontato la storia di Paolo, operaio nell'azienda dove lavorava il primo paziente che ha contratto il coronavirus in Italia e che a Iene.it ha rivolto un appello: "Nessuno mi ha ancora contattato per fare il tampone, ho un figlio di tre mesi". 

Coronavirus: “Lavoro nell'azienda dell'infetto e nessuno mi contatta per il tampone”. Le Iene News il 23 febbraio 2020. Paolo è operaio nell'azienda dove lavorava il primo paziente che ha contratto il coronavirus in Italia. Ma nessuno l’ha contattato per fare il tampone, e lui teme per il figlio di tre mesi. “Salve, io sono di Codogno... e lavoro in azienda... che si trova a Casalpusterlengo. Non sono ancora riuscito a parlare con qualcuno per sapere se devo fare un tampone o no, per vedere se ho qualcosa...”. Riceviamo questo messaggio un’ora fa, e ci mettiamo subito in contatto con Paolo (nome di fantasia), operaio dell'azienda dove lavorava il primo paziente che ha contratto il coronavirus in Italia. Risultano contagiati anche la moglie, incinta al settimo mese, un amico, figlio del titolare di un bar, e tre clienti di quel bar. “Ieri mattina ho visto al telegiornale che era stato contagiato un lavoratore della mia azienda, e che avevano fatto il tampone a 120 dipendenti. Ma io non ero di turno e sono fra i lavoratori dell’agenzia del lavoro, e non mi ha chiamato nessuno”. Sarebbero più di 500 i lavoratori che gravitano intorno all'azienda. Così Paolo chiama l’agenzia del lavoro. “Ma non hanno saputo dirmi se dovevo fare o meno il tampone. Mi hanno detto che non sapevano cosa dovevano fare, perché loro non erano preparati. Non mi hanno saputo dire se mi sarei dovuto presentare al lavoro e neanche se eventualmente le giornate a casa mi sarebbero state pagate”. Ma la preoccupazione più grande di Paolo è un’altra: “Ho a casa un bambino piccolo che ha appena fatto il vaccino e gli è venuta la febbre. Come faccio a sapere se è normale febbre post vaccino oppure se l’ha presa da me?”. Così va alla stazione dei carabinieri per chiedere informazioni. “Mi hanno detto di chiamare il 1500. È quello che ho fatto, ma non mi ha mai risposto nessuno. È dalle 8 del mattino che sono attaccato al telefono”. Il 1500 è il numero attivato dal ministro Speranza per rispondere alle domande dei cittadini sul coronavirus, a disposizione h24 dalla sala operativa del ministero della Salute. Così proviamo a chiamare anche noi. Diverse volte ci dà occupato, mentre una volta ascoltiamo un messaggio registrato: “A causa dell’elevato numero di chiamate pervenute, si informa che tutte le linee sono occupate”. Così Paolo ieri sera prova a chiamare il 112. “Mi hanno detto che mi avrebbero richiamato, ma non mi ha richiamato nessuno. Ho provato a richiamare oggi ma sono rimasto in attesa per quattro o cinque minuti, e non mi ha risposto nessuno”. Ha paura della possibilità del contagio in azienda. “Non so se lo conoscevo o meno, lui lavorava in un altro settore. Ma sicuramente frequentavamo gli stessi spazi comuni: la mensa, le macchinette del caffè...”. Ieri l’agenzia del lavoro l’ha richiamato per dirgli che oggi e domani sarebbe dovuto restare a casa. Altre direttive non ne ha avute. E sta ancora aspettando risposte su come comportarsi.

Coronavirus: "Con la febbre da tre giorni chiamo il 112 che mi dirotta al 1500, ma il numero è in tilt e non so cosa fare". Giuliano Balestreri su it.businessinsider.com il 23 febbraio 2020. Ospedali in affanno, medici insufficienti e numero d’emergenza in tilt. Il coronavirus sta mettendo a dura prova il sistema sanitario italiano, complice anche la psicosi generalizzata che invaso il Paese. Business Insider Italia ha raccolto la storia di una giovane milanese con febbre e sintomi influenzali che inutilmente ha provato a mettersi in contatto con le strutture sanitarie. “Ho la febbre da tre giorni – dice – Non ho incontrato nessuno proveniente direttamente dalla Cina ma non posso essere sicura che le persone viste negli ultimi 14 giorni non abbiano avuto loro rapporti con gente tornata dalla Cina (o dal Lodigiano a questo punto)”. Per motivi professionali, infatti, la donna che lavora nel modo della comunicazione, incontra decine di persone ogni giorno. Motivo per cui mossa dal senso civico (“giusto per scrupolo” spiega lei) e poiché ha in programma di prendere “un paio di aerei la prossima settimana” decide di chiamare il 112 come suggerito a Milano: “Aspetto in linea, dopo 20 minuti mi risponde un operatore. Sono paziente perché immagino la mole di chiamate da filtrare, ma non faccio in tempo a dire qualcosa sulla mia influenza che mi dice di chiamare il 1500” istituito dal ministero. Lei prova a chiamare, ma il numero è intasato “poi casca la linea. Ho provato ininterrottamente per 24 ore, ma non c’è linea. Chiamo il medico di base, ma anche lui ha il telefono staccato. Ho dovuto rinunciare. Mi sono messa sul divano a guardare la televisione”. Prendere la linea con il numero ministeriale 1500 è semplicemente impossibile: Business Insider ha provato più volte, ma senza successo. Ma che la situazione sia complicata lo conferma anche un medico di un pronto soccorso emiliano: “Non siamo pronti a gestire l’emergenza. Il numero d’emergenza è inattivo o intasato, gli infettivologi non sono abbastanza (nonostante almeno una quarantena e diversi casi sospetti) e come se non bastasse l’ufficio igiene dice che fino a lunedì non è in grado di fare i tamponi indirizzando i casi sospetti al pronto soccorso”. Esattamente il contrario di quello che suggeriscono le linee guida del ministero.

Dagospia il 24 febbraio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: La coppia cinese dello Spallanzani si è salvata anche grazie al ricovero in una rianimazione altamente specializzata. I posti nelle rianimazioni ospedaliere italiane sono pochi e sempre occupati da pazienti con varie patologie ( traumi, interventi..ecc.). Se l’epidemia di coronavirus si diffonde in modo esponenziale di quel 20% di pazienti gravi , quanti moriranno per l’impossibilità di un ricovero in rianimazione? Nel diluvio di chiacchere sui media nessuno ne parla, i nostri megaesperti non fanno che magnificare la nostra sanità,  nessuno che abbia il coraggio di affrontare e chiarire come risolvere questo problema. Voi sapete a chi chiedere lumi in proposito? Grazie. Un vecchio medico.

Coronavirus Codogno, gli infermieri dell’ospedale. «Siamo al terzo turno consecutivo, non ci sono cambi». Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. È l’emergenza nell’emergenza. All’ospedale di Codogno (Lodi), ormai isolato dopo i casi di Coronavirus tra medici e pazienti, ci sono équipe di infermieri e sanitari bloccati da quasi 24 ore nei reparti a rischio. Si tratta del personale ospedaliero che è entrato in contato con i malati risultati positivi al test sul Covid-19 e che ancora attendono, senza risposte, istruzioni sul loro futuro. «Non abbiamo alcuna informazione, siamo in attesa del risultato sul test a cui siamo stati sottoposti ieri — spiega uno degli infermieri —. Non ce la facciamo più a livello fisico e siamo in crisi a livello psicologico perché nessuno è in grado di darci risposte o permetterci di finire questo infinito turno». In particolare il problema riguarda sei infermieri del reparto di medicina interna, quello dove si sono registrati già due casi di positività tra i degenti. Il personale ospedaliero ha scritto una lettera urgente al direttore sanitario dell’ospedale di Codogno: «Segnaliamo il nostro avvenuto contatto diretto in questi giorni con i medici risultati positivi ai test effettuati per la ricerca del coronavirus. Dopo aver saputo che per i medici di reparto è stata predisposta la misura cautelare della quarantena. Segnaliamo inoltre che la quasi totalità dei nostri colleghi infermieri ha telefonato per segnalare l’indisponibilità ad essere presente nel reparto nelle prossime giornate, aprendo così ovvi problemi di continuità assistenziale». Gli infermieri, infatti, non hanno ricevuto il cambio ieri sera dopo il turno dalle 14 alle 22. In questo momento le équipe, coordinate da un medico di reparto, sono al terzo turno di lavoro ininterrotto. «Già stanotte non si è presentato nessuno a darci il cambio e noi saremo costretti ad un turno di 16 ore. E stamattina idem. Noi siamo qui da ieri alle 14 senza avere risposte certe e dovendo provvedere ancora alle necessità assistenziali del reparto». Medici e infermieri stanno garantendo terapie e assistenza ei malati ricoverati ma si trovano in stato di isolamento assoluto: «Non possiamo lasciare l’ospedale, servono squadre di infermieri che garantiscano la possibilità di cura per i pazienti ricoverati. I risultati dei nostri test ancora non ci sono. È una situazione di emergenza».

Nessuno dà il cambio ai tre infermieri di Codogno: «Abbandonati da tutti». Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Ci sono un uomo e due donne, nell’ospedale di Codogno, che meriterebbero una medaglia al valore civile. Perché resistono da giorni alla stanchezza, alla lontananza dalle famiglie e all’amarezza di sapersi abbandonati dai colleghi che avrebbero dovuto dargli il cambio. Si chiamano Fabio, Giovanna e Dana, sono gli infermieri del Reparto di Medicina, dove il «paziente uno» è stato ricoverato prima che si scoprisse positivo al coronavirus e dove nei giorni scorsi sono stati registrati almeno quattro casi di contagio. Fabio, Giovanna e Dana sono entrati in servizio la sera del 20 febbraio e da allora i colleghi dei turni successivi non si sono mai presentati a sostituirli. Non si parla di colleghi in quarantena costretti a rimanere lontano dal Reparto perché entrati in contatto diretto o indiretto con dei contagiati. Si tratta di persone che nei giorni del rischio contagio non avevano lavorato e quindi erano certamente non infetti: non contagiati dal virus ma malati, stando ai certificati medici che hanno mandato per giustificare l’assenza. L’intero turno che avrebbe dovuto prendere servizio la mattina del 21 — per dire — si è rifiutato in blocco di dare il cambio ai colleghi. Né quel mattino né dopo. E in questi giorni non è stato certo facile andare avanti in tre, giorno e notte, con una ventina di pazienti, senza riposare mai davvero né allontanarsi dal reparto per non rischiare contagi negli altri settori. Ogni tanto hanno dato una mano i colleghi della Riabilitazione, anche quella punto di passaggio del paziente uno, ma da ieri il reparto è chiuso, i pazienti trasferiti altrove e quindi fine degli aiuti. La situazione si è complicata ancora di più mercoledì mattina quando l’infermiere è finito in isolamento in day service, la zona degli ambulatori, perché aveva la febbre. Quindi sono rimaste Giovanna e Dana, sempre più stanche, aiutate da ieri mattina da un’operatrice sociosanitaria e da una collega del Pronto soccorso (che è chiuso). Certo, per un reparto come Medicina servirebbero infermieri specifici ma non c’è verso: tutte le chiamate di soccorso al personale infermieristico del settore sono rimaste inascoltate. E allora si è guardato altrove. Agli infermieri della Cardiologia riabilitativa, per esempio, che si sono rifiutati anche per non esporre al rischio di contagio il loro reparto, rimasto finora fuori dal caos coronavirus. Nel cercare un rimedio la Direzione sanitaria ha perfino fatto un passo fuori norma, diciamo così: ha interrotto la quarantena degli infermieri del Pronto soccorso che avevano avuto a che fare con il paziente uno, ha chiesto che facessero il tampone e, se negativo, che tornassero a lavoro. Anche stavolta però niente: la caposala ha preteso un consulto con la Regione e la Regione, consultata, ha rimandato tutti a casa a riprendere la quarantena. Risultato: da lunedì si sta cercando di tamponare la carenza con l’aiuto di una cooperativa esterna. Fabio, Giovanna e Dana sono sfiniti. Si concedono poche ore di sonno, qualche telefonata a casa, ai figli. Nient’altro. Gli amici con i quali sono in contatto raccontano di tutta l’amarezza che sentono addosso quando pensano ai colleghi che non li hanno aiutati. «La condivisione avrebbe alleggerito fatica e paura — scrivono — e invece ci hanno abbandonato, proprio loro che conoscono Medicina e sanno perfettamente cosa stiamo passando...». Non sono arrabbiati, piuttosto sono delusi e ogni tanto se lo chiedono fra loro: «Con che faccia ci guarderanno negli occhi quando ci rivedremo?».

Coronavirus, la lettera dei medici in quarantena: “Malati lasciati soli”. Redazione de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. “Buongiorno, siamo due colleghe da un paese nell’epicentro dell’epidemia. Siamo in quarantena da venerdì. Per senso di responsabilità abbiamo deciso di non muoverci dall’ambulatorio per poter rispondere alle centinaia di chiamate che da venerdì e soprattutto sabato e domenica hanno affollato i nostri telefoni, per alleggerire il gravoso lavoro degli altri operatori. Tutti i pazienti che abbiamo visitato a domicilio da gg 10/2 per patologie respiratorie sono risultati positivi al coronavirus. Personalmente 7! E 6 la mia collega. Due di questi sono già morti e 6 di cui abbiamo notizia sono in rianimazione”. Inizia così una delle tante lettere di denuncia che il Presidente dell’Ordine dei Medici di Lodi, Massimo Vajani, e il Presidente della Federazione degli ordini dei Medici – FNOMCeO, Filippo Anelli, stanno ricevendo da venerdì scorso, dopo l’insorgere dei focolai di Covid-19 nel Nord Italia. “Siamo 4 MMG su 6000 abitanti! Tre siamo in quarantena, uno è ricoverato un paziente positivo da venerdì – racconta la dottoressa -. Già da domenica abbiamo segnalato la situazione e trovato due medici disponibili ad aiutarci! Ne avete contattato e mandato uno solo, su due paesi, con due mascherine in dotazione! noi da remoto facciamo tutte le ricette, ma tutto il personale della farmacia è in quarantena e le titolari poverette forniscono un paziente per volta dalla finestra (fortuna che non piove) con code chilometriche! Il collega mandato, nonostante i cartelli, ieri si è trovato in ambulatorio un paziente febbrile e dispnoico, come poteva non visitarlo. È sceso il 112 adeguatamente protetto, lui colla sua unica mascherina si è dovuto pulire la sala d’attesa! La mia collega qui con me in ambulatorio ha fatto il tampone domenica 23 e ancora non sa il risultato! Abbiamo pazienti con polmoniti da Coronavirus accertati lasciati a domicilio perché non gravi, ma devono essere visitati! anziani malati, oncologici a domicilio a cui hanno annullato tutte le visite e si sentono abbandonati!”. Alla fine, alcune richieste molto concrete e un appello: “Mettete tutti i medici di medicina generale ancora sani in condizioni di non ammalarsi!”. E intanto il presidente dell’Ordine dei Medici di Lodi, Massimo Vajani, ha voluto scrivere una lettera di ringraziamento a tutti gli iscritti, che tanto si stanno adoperando in questi giorni. “Desidero esprimervi la mia profonda gratitudine, anche a nome del Consiglio dell’Ordine, per come state affrontando l’emergenza da coronavirus nel nostro territorio – scrive -. Un grazie va a tutti i Colleghi ospedalieri per l’abnegazione, la professionalità e il coraggio che stanno dimostrando. Parimenti un grazie a tutti gli infermieri e gli operatori. Un grazie a tutti i Medici di Medicina Generale e ai Pediatri di Libera scelta che sono in prima linea a contatto con i pazienti, anche potenzialmente infetti, senza gli adeguati mezzi di protezione”.

Coronavirus, il dramma dei medici di base a Lodi: "Tutti contagiati e abbandonati, chi visita i pazienti?" Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. L'ordine dei medici di Lodi pubblica una lettera che arriva direttamente dal principale focolaio di coronavirus emerso nel Nord Italia. "Siamo 4 medici di famiglia su 6000 abitanti. In 3 siamo in quarantena, 1 è ricoverato": inizia così la testimonianza a tratti drammatica dei medici di base della zona del lodigiano. "Tutti i pazienti che abbiamo visitato a domicilio dal 10 febbraio per patologie respiratorie sono risultati positivi al coronavirus. Due di questi - si legge nella lettera - sono già morti e sei di cui abbiamo notizia sono in rianimazione. Già da domenica abbiamo segnalato la situazione e trovato due medici disponibili ad aiutarci. Ne avete contattato e mandato uno solo, su due paesi, con due mascherine in dotazione". In pratica c'è un solo medico con una dotazione insufficiente che deve sostituire i medici di base che si trovano in isolamento, in un territorio di 6mila abitanti. Una situazione che ricade soprattutto sui pazienti positivi al coronavirus che non hanno la possibilità di essere visitati.

Coronavirus, i medici di Lodi: “Siamo tutti isolati, chi visita i pazienti?”. Debora Faravelli il 28/02/2020 su Notizie.it. Medici in quarantena per il coronavirus, pazienti senza visite, un dottore per 6.000 abitanti: la lettera di denuncia dei medici di Lodi. L’Ordine dei medici di Lodi ha diffuso una lettera che denuncia la situazione di difficoltà che si sta vivendo nel focolaio lombardo del coronavirus. A scriverla sono state due colleghe di un paese della zona rossa che l’hanno indirizzata al presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici Filippo Anelli e al Presidente dell’Ordine dei Medici di Lodi Massimo Vajani. Coronavirus: lettera dei medici di Lodi. La loro lettera inizia con la constatazione che tutti e quattro i medici di famiglia presenti nell’area, che conta 6.000 abitanti, sono isolati. Hanno infatti spiegato che i pazienti che hanno visitato a domicilio dal 10 febbraio per patologie respiratorie sono poi risultati positivi al coronavirus e dunque anche loro hanno dovuto mettersi in quarantena. Per avere un aiuto hanno dunque segnalato la situazione e trovato due medici disponibili ad aiutarli, ma chi di dovere ne ha contattato e inviato soltanto uno per due paesi e per giunta con sole due mascherine. Vi è quindi un solo medico con una dotazione evidentemente insufficiente che dovrebbe prendersi cura di territorio di 6.000 abitanti. Le due dottoresse hanno spiegato la situazione in cui si è venuto a trovare. Hanno raccontato che, nonostante le molteplici richieste di non recarsi al Pronto Soccorso o in ambulatorio in caso di sintomi sospetti, ha dovuto ricevere un paziente con febbre e difficoltà respiratoria. Di conseguenza, per evitare la diffusione di un’eventuale infezione, ha poi dovuto pulire la sala d’attesa con la sua unica mascherina. Una situazione ingestibile che pesa, oltre che sui medici, anche sui pazienti positivi al coronavirus e sugli altri malati che non hanno la possibilità di essere visitati. Per questo a conclusione del loro appello hanno chiesto l’arrivo immediato di un altro medico dotato di adeguate misure di protezione che possa visitare anche le persone con febbre.

Coronavirus, medico di Casalpusterlengo: "Noi, dimenticati da tutti". Il medico Michele Polini, attivo presso l'ambulatorio di Codogno, denuncia una cattiva gestione dell'emergenza coronavirus: "Ci hanno dato le mascherine solo 3 giorni fa". Rosa Scognamiglio, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. "Noi medici di base siamo trattati come carne da cannone". Sono le dichiarazioni al vetriolo di Michele Polini, medico di Casalpusterlengo, uno dei dieci comuni nel Lodigiano sottoposti a regime di stretta sorveglianza dopo l'esplosione del coronavirus. Parole rabbiose, intrise di risentimento quelle del dottore casalino impegnato, alla pari di tanti altri colleghi che in questi giorni hanno ricevuto gli onori della cronaca, in prima linea nel contrasto all'epidemia Covid-19. Proprio nella cittadina di Casalpusterlengo, infatti, lo scorso 22 febbraio, è stato registrato il primo decesso per sospetto contagio in Lombardia, il secondo in Italia. Una donna di 77 anni è stata ritrovata senza vita nel suo appartamento, colpita da un infarto letale. Un'indagine post-mortem ha poi accertato la positività al nuovo virus dell'anziana sebbene le sue condizioni di salute fossero già fortemente compromesse da patologie cardiovascolari pregresse. Il dottor Polini, attivo presso un ambulatorio locale fino a qualche giorno fa, aveva visitato uno degli amici del 'paziente 1' (M.Y.M, il 38enne di Castaglione D'Adda attualmente ricoverato in Rianimazione al Policlinico San Matteo di Pavia) risultato positivo ai test. Per questa ragione, anche per lui è scattata la quarantena: "Mercoledì, 7 giorni fa, ho visitato un mio paziente trovato poi positivo, un ragazzo che ha frequentato il 38enne di Castiglione d'Adda, il paziente uno. - racconta all'agenzia Adnkronos - E' stato da me in ambulatorio e venerdì, su mio consiglio, ha chiamato il numero unico per le emergenze ed è stato trovato positivo al Coronavirus. Il giorno successivo sono stato contattato dal servizio vaccinazione della Ats, l'agenzia territoriale salute, e messo in quarantena per 14 giorni dalla visita, quindi fino a mercoledì 4 marzo". In previsione di un eventuale, massiccio contagio, l'ambulatorio di Casalpusterlengo è stato interdetto al pubblico: tutti i dottori operanti nella struttura sono costretti all' isolamento domiciliare. "Nell'ambulatorio dove lavoro, ora chiuso, siamo tre dottori di medicina generale. - spiega - La mia collega è stata messa in quarantena il giorno prima di me, era il medico curante della seconda vittima, l'anziana trovata morta in casa; io, condividendo con lei l'ambulatorio e avendo visitato l'amico del paziente uno, sono stato messo in quarantena subito dopo. E' rimasta la nostra collega che da sola deve farsi carico di tutti i 4500 pazienti". Una denuncia in piena regola quella del medico casalino che, senza temere la gogna mediatica, solleva alcune criticità riguardanti la gestione dell'emergenza coronavirus. "L'organizzazione di gestione dell'emergenza non è stata il massimo. - continua Polini - Fino a venerdì scorso la prevenzione e la cura alle persone che andavano più tutelate erano scarse. Abbiamo scoperto che dobbiamo arrangiarci come meglio possiamo. Se mettono in quarantena la terza collega si ferma il paese". Stando a quanto dichiara Polini, i dottori della cosiddetta "zona rossa" avrebbero ricevuto comunicazione della disponibilità dei kit sanitari presso l'Ats di Lodi soltanto nella tarda mattinata di domenica. Fino a quel momento, ne sarebbero stati sprovvisti. "Noi medici abbiamo saputo solo domenica scorsa, tre giorni fa, che era in distribuzione l'altro ieri presso l'ordine dei medici a Lodi il kit mascherine. - prosegue - Lunedì sera avremmo dovuto prendere la macchina e andare a prenderle. L'unico segnale che abbiamo avuto è stato a fine gennaio: una mail che diceva che in caso di paziente con tosse che viene in ambulatorio avremmo dovuto contattare il numero in emergenza. Ma tra raffreddore e influenza è da dicembre che tutti i giorni 40/50 pazienti ci tossiscono in faccia". Tante le parole di encomio spese dai rappresentati istituzionali nei confronti dei camici bianchi operanti nelle strutture di rilievo nazionale impegnati sul fronte coronavirus. Poche quelle per gli "eroi locali", i medici senza gloria delle piccole città. E Polini non esita a rimarcarlo "Si parla giustamente degli eroi dello Spallanzani e del Sacco, - conclude - ma i poveri imbecilli dei medici generali non li ha mai nominati nessuno, nessuno si è preoccupato della prima filiera di questa emergenza, siamo carne da cannone. Sono a casa agli arresti domiciliari e, finché posso, non mi resta che gestire la mia clientela per telefono".

Coronavirus: “Mio padre, segregato all'ospedale di Codogno, dove c'è l'emergenza”. Le Iene News il 23 febbraio 2020. Daniela, una donna del lodigiano il cui padre 79enne dopo una caduta è ricoverato da giovedì nell’ospedale di Codogno, epicentro del focolaio di coronavirus, racconta: “Non possiamo andarlo a trovare, infermieri e medici sono bravissimi ma pochi e pieni di lavoro. E forse ho anche incrociato il 38enne, il primo contagiato. Ma nessuno mi fa il tampone”. È nel reparto di Medicina dell’ospedale di Codogno che è stato identificato il 38enne che è considerato il “paziente 1”, il primo contagiato di coronavirus del focolaio del lodigiano, che finora conta almeno 85 contagiati. E proprio in quel reparto c’è ricoverato, da giovedì, un uomo di 79 anni della provincia di Lodi, caduto in casa forse per i postumi di una vecchia polmonite. A raccontare la sua storia è Daniela (nome di fantasia), la figlia dell’anziano. Daniela è preoccupata perché da giovedì non può avere contatti con il padre. L’ospedale è infatti, al momento, completamente isolato. “L’ho portato a Codogno perché, rispetto all’ospedale di Lodi, è più piccolo e l’attesa è minore. Da quando è scoppiata l’emergenza l’ospedale è stato completamente bloccato, nessuno può entrare né uscire, la situazione è difficile innanzitutto per il personale. Me lo racconta mio padre, che riesco a sentire almeno via telefono. Quando ho chiamato gli infermieri, mi hanno detto che sono pochi, che ci sarebbero altri sospetti di coronavirus in reparto, e che non riescono a fare alzare mio padre, che ha il catetere, per andare in bagno. Lui non vuole disturbare gli infermieri e da allora non si alza dal letto”. Daniela ha anche un altro motivo di preoccupazione, legato strettamente al contagio da coronavirus. “Non ricordo esattamente se fosse giovedì o venerdì, ma andando in visita da papà ho incontrato un ragazzo giovane, che era ricoverato lì. L’ospedale è pieno di anziani e mi aveva colpito la presenza di quel giovane, che si trovava ricoverato una o due stanze accanto a quella di mio padre, al secondo piano di medicina. Tornando a casa, la mattina dopo, ho avuto paura che quel ragazzo fosse il 38enne con il coronavirus. A mio padre questa mattina hanno fatto il tampone al naso, per verificare l’eventuale contagio. E io? Venerdì sera ho subito chiamato il 112, spiegando che forse avevo incrociato quell’uomo. Mi hanno detto che sarei stata contattata, ma nulla. Ho richiamato l’indomani mattina e mi hanno detto che sarebbe stata Milano a contattarmi, perché comunque non avevo avuto contatti stretti con lui, e che non rientravo nell’emergenza”. E torna a pensare al padre in ospedale: ”Al momento non abbiamo nessun mezzo per poterci confrontare sulla situazione dei nostri cari, che sono di fatto segregati in ospedale.  Gli infermieri non hanno purtroppo il tempo per aggiornarci, se non in modo molto sommario. E non sappiamo quando potremo rivederli”.

«Vi racconto l’emergenza Coronavirus all’ospedale di Codogno e nella sanità del Lodigiano». Alessandro D'Amato l'1 Marzo 2020 su nextquotidiano.it. «Sono stato io a denunciare l’ospedale di Codogno e a far mandare i NAS. La situazione lì è insostenibile e lo dico io che ci ho lavorato quarant’anni. Verrano anche domani perché mancano persino le mascherine»: Gianfranco Bignamini, segretario regionale della FISI (federazione italiana sindacati intercategoriali), ex infermiere proprio all’ospedale di Codogno, racconta oggi a NeXtQuotidiano cosa sta succedendo nel paese e nel lodigiano per l’emergenza. «Prima di tutto vorrei ringraziare tutto il personale, li conosco tutti, sono stati lasciati soli in un momento delicato per la nostra provincia. Ma l’emergenza parte da lontano, dai tagli dei governi e della Regione, oggi mancano 70 infermieri e non mi hanno mai ascoltato quando l’ho segnalato. Noi siamo un paese che non ha prevenzione ma negli ultimi 15 anni hanno tagliato e tagliato. Dieci giorni prima dello scoppio dell’emergenza l’Azienda Ospedaliera imponeva dieci ore di lavoro. Hanno bisogno di sicurezza, salario e dignità». Bignamini spiega che il personale non ha bisogno di medaglie ma di un contratto vero e di assumere personale, non solo per l’emergenza ma per dare un servizio migliore: «Questa crisi mette davanti a tutti le mancanze della Regione, io ho chiesto le dimissioni del direttore generale dell’azienda ospedaliera di Lodi, di Gallera e di Fontana per questo: è stato chiuso per sette ore il pronto soccorso perché non ce la fanno più. Ma non è una situazione di Lodi, vale per tutti: non c’è prevenzione». Bignamini dice che due suoi iscritti hanno preso il Coronavirus e quasi tutti i suoi sono in quarantena: «Non è colpa dei medici e degli infermieri se è scoppiata l’emergenza. Quando è arrivata la persona malata (il paziente 1, Mattia, ndr) e l’hanno rimandato a casa perché non erano preparati. Eppure le notizie dalla Cina arrivavano: perché non preparare al pericolo? Quando ho denunciato ho indicato l’amministrazione come responsabile: ci sono state 18 ore di buio a Codogno, sono stati lasciati soli, senza mascherine… un dramma». E ancora: «Addirittura dal venerdì a otto giorni dopo mancavano ancora le mascherine… Poi c’è la questione dei posti letto della rianimazione, che sono stati tagliati, senza personale c’è chi ha fatto 48 o 50 ore di lavoro consecutive. Ma se ne sono accorti oggi che manca il personale?». Oggi, spiega Bignamini, mancano 70 infermieri nell’intera azienda ospedaliera di Lodi, ma anche medici: «A Lodi la situazione è peggiore: il pronto soccorso è stato chiuso per dodici ore, ieri hanno fatto uscire una circolare per far rientrare al lavoro medici e infermieri pensionati. Ma perché dopo una settimana si arriva a questo punto? L’ospedale di Codogno nel 1973 aveva dieci primari, 632 posti letto. Oggi i posti letto sono 98. Questi sono i risultati». Nell’emergenza cosa manca a Codogno? «20 infermieri e 10 operatori sanitari, ma manca anche altro, quello che tengono nascosto: Lodi sta messa peggio di Codogno, mancano infermieri, medici, tecnici di radiologia e soprattutto i posti letto in rianimazione. Non si possono inventare come hanno fatto, smantellando un reparto vuoto e mandandoci un infermiere che però non è addestrato e non ha quelle competenze». E le mascherine? «Giovedì a Casalpusterlengo e a Lodi non c’erano. Mi hanno chiamato e io ho detto loro di non entrare in servizi ma la loro abnegazione ha avuto la meglio». Ma hanno lavorato senza? Non rischiano così? «E cosa facevano? Se non entravano rimaneva vuoto l’ospedale. Bisogna dargli merito che sono andate, ma è l’amministrazione che ci ha lasciati soli, come Schettino ha abbandonato la nave anche il direttore generale lo ha fatto. Non si è visto nessuno a Codogno. Io se fossi un direttore generale sarei tutti i giorni a fianco dei lavoratori…». Infine c’è un problema sottovalutato: quello dei rifiuti speciali: «Anni fa sono stati fatti dei cartoni per il materiale, poi ci sono i sacchi dell’immondizia dove non va il materiale non infettivo. Per quello infettivo viene una ditta due o tre volte alla settimana. Quando il 18 febbraio è scoppiata l’emergenza quei contenitori sono rimasti chiusi in ospedale tre giorni in una stanza. Quando la ditta è andata a prendere i contenitori dai reparti nella parte nuova dell’ospedale hanno usato i montacarichi che non sono stati igienizzati, nella parte vecchia l’ascensore che usano è quello degli infermieri e della mensa; lì passano anche i panni sporchi. Noi sterilizzavamo tutto, oggi la ditta appaltatrice lava tutto insieme e non sterilizza niente. Già è grave normalmente, durante un’emergenza è ancora più grave». E ancora: «Mettono i sacchi infettivi vicino alla biancheria, nessuno disinfetta l’ascensore, ho detto al direttore che risponderà di tutto questo davanti alla magistratura». Bignamini racconta anche un altro fatto: «Quando il 20 sono stati chiusi gli ambulatori sono rimasti aperti il CUP e il prelievo del sangue con 100 persone in attesa. Io sono andato là e ho detto che il direttore pagherà se qualcuno viene contagiato, sia per quanto riguarda gli infermieri che per i cittadini. Sono andato dai carabinieri e mezz’ora dopo è stato chiuso tutto. Io chiedo le dimissioni del direttore generale, di Gallera e di Fontana perché la loro sanità a parole è bella ma quando la barca affonda se ne lavano le mani. A Codogno da stamattina alle 5 sono passate 16 croci rosse per andare in ospedale. Farò di tutto perché questa gente vada in galera».

Da repubblica.it il 21 febbraio 2020. Ha 38 anni, è nato a Castiglione d'Adda e vive a Codogno con sua moglie, lavora all'Unilever di Casalpusterlengo, tutti paesi in provincia di Lodi. Ma il primo contagiato in Italia da coronavirus ha, in queste settimane, avuto contatti - come è logico - con tantissime persone. Per questo le autorità sanitarie stanno cercando di ricostruire i suoi spostamenti, per allargare il raggio dei tamponi necessari per rilevare l'eventuale positività al test, visto che i casi negativi sono già saliti a sei e tra questi c'è un compagno di sport del 38enne. Il 38enne è ricoverato da mercoledì sera all'ospedale di Codogno in condizioni molto gravi. L'ipotesi - tutta da verificare - è che il contagio possa essere avvenuto tra fine gennaio e inizio febbraio, quando l'uomo ha cenato con un collega appena rientrato dalla Cina (e che lavora all'Unilever ma di Fiorenzuola d'Arda, nel Piacentino). Finora sono stati ricostruiti gli spostamenti degli ultimi giorni: ecco cosa sappiamo. L'uomo, che è molto sportivo, fa parte del Gruppo podistico di Codogno, il 2 febbraio ha partecipato a una corsa con altri 18 podisti a Portofino, il 9 febbraio a una corsa a Sant’Angelo Lodigiano. Sabato mattina ha partecipato a un corso della Croce Rossa a Codogno e poi a una partita di calcio a 11 con la sua squadra, la Picchio di Somaglia, contro squadra cremasca Amatori Sabbioni del campionato Amatori del Csi. Domenica si sarebbe presentato poi al Pronto soccorso di Codogno con la febbre alta: rimandato a casa, è tornato mercoledì quando poi è stato ricoverato. Centinaia, quindi, potenzialmente, le persone che sono entrate in contatto con l'uomo, sua moglie, e con lo stretto conoscente ricoverato al Sacco. Per questo la Regione invita i cittadini di Codogno e Castiglione a non uscire di casa. In paese sono esaurite tutte le mascherine e i flaconi di antisettici per le mani in farmacie e negozi, tanto che molti hanno esposto cartelli sulle vetrine. Poche persone in giro e, quelle che si avventurano, si coprono naso e bocca con sciarpe e maglioni.

Il medico che cura Mattia: «Un farmaco anti Hiv per salvare lui e gli altri». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. L’infettivologo in trincea contro il Coronavirus da 80 ore di fila: «Ormai il conto l’ho perso». E il «Paziente Uno» di una maledetta conta di casi. Raffaele Bruno, 54 anni il prossimo 29 marzo, è l’emblema del senso di responsabilità di tutti i medici e infermieri che da giorni lavorano senza rientrare a casa né vedere la propria famiglia. Mattia, il 38 enne di Castiglione d’Adda, è il simbolo dei pazienti che stanno lottando per sopravvivere. Il loro destino si incrocia venerdì notte al Policlinico San Matteo di Pavia, culla dell’Infettivologia italiana. Mascherina FFP2, copricamice impermeabile, calzari, cappello, guanti, tutti di materiali per il biocontenimento, Bruno esce dalla Rianimazione dove si trova sotto sedazione il ricercatore dell’Unilever.

Come viene curato Mattia?

«Io non posso parlare del singolo caso. Ma le sue cure sono le stesse di tutti i malati più gravi ricoverati in Terapia intensiva».

Che tipo di terapie state utilizzando?

«Per il Coronavirus non c’è una cura specifica perché è un nuovo virus passato all’improvviso dall’animale all’uomo. Stiamo usando terapie empiriche in modo ragionato».

Quali sono?

«È un cocktail di medicinali, tra i quali c’è anche un farmaco contro l’Hiv che non utilizzavamo più e ora abbiamo riacquistato. Lo somministriamo due volte al giorno».

Gli altri farmaci?

«C’è la Ribavirina, un vecchio antivirale utilizzato per l’influenza, che diamo anche questo due volte al giorno.Poi ci sono gli antibiotici per prevenire le infezioni batteriche che somministriamo quattro volte al giorno».

Perché un medicinale contro l’Hiv?

«Il principio attivo è il Lopinavir, un antiretrovirale che appartiene alla classe degli inibitori della proteasi, un enzima presente sia nell’Hiv sia nel Coronavirus».

Ci sono statistiche sul tasso di successo di questi farmaci?

«Al momento dobbiamo accontentarci dei risultati preliminari che sono incoraggianti. Un follow-up a lungo termine non c’è ancora. Sono cure che si sono dimostrate efficaci in laboratorio. E che già hanno usato in Cina e in Corea».

Mattia è il «Paziente Uno», poi ci sono quelli ricoverati in reparto, quelli che si autopresentano in Pronto soccorso, quelli che telefonano da casa.

«L’unico caso confrontabile con quello che stiamo vivendo oggi, almeno in termini di percezione di gravità, è la Spagnola del 1918. Di positivo c’è che, almeno nell’85% dei casi, il Coronavirus non dà alcun problema, oltre a un banale stato influenzale. All’incirca nel 15% dei casi, invece, può portare a complicazioni, ma come le istituzioni ripetono da giorni in pazienti per lo più anziani».

Com’è la situazione vista dal fronte?

«Decine e decine di persone arrivano in Pronto soccorso perché dicono di essere entrati in contatto con possibili contagiati. Fino a domenica dovevamo fare a tutti il tampone. Per fortuna ora li facciamo solo a chi presenta sintomi, in modo da non sprecare tempo e kit di diagnosi. Fino a qualche giorno fa al 112 rispondevamo in 45 secondi, oggi passano 14 minuti. L’agitazione è alle stelle. Perfino mia figlia mi ha detto di non tornare a casa perché ha paura che io la possa contagiare».

Coronavirus, il tragico errore all'ospedale di Codogno. L'infetto rimandato a casa tre giorni fa. Libero Quotidiano il 21 Febbraio 2020. C'è un errore che potrebbe costare tantissimo. L'uomo di 38 anni contagiato dal Coronavirus e ricoverato all'ospedale di Codogno in gravi condizioni, ha avuto "i primi sintomi il 15 febbraio, il 18 febbraio è andato in pronto soccorso, ma è stato rimandato a casa, quindi è stato ricoverato il 19". A ricostruire il primo accesso in ospedale del malato è l'assessore alla Salute della Regione Lombardia, Giulio Gallera, in conferenza stampa. Nel momento in cui è arrivato in ospedale non ha però dichiarato subito il contatto con il cosiddetto "caso indice", ovvero il collega tornato dalla Cina il 21 gennaio, che però risulta negativo al test, semplicemente perché non ha "collegato" l'episodio: "Aveva un po' di influenza e di febbre e non era così grave da essere ricoverato". Per questo insieme di fattori non è scattata la procedura d'emergenza che prevedeva da subito un isolamento e il tampone specifico. Al contrario la procedura sarebbe scattata, in base a quanto stabilito, per chi si fosse presentato con la febbre dichiarando di essere arrivato dalla Cina o di aver avuto un contatto diretto. Sono stati un centinaio finora i casi con queste modalità che però sono risultati negativi al test. "Soltanto di fronte alla forte insistenza della moglie che ha ricordato, il giorno dopo, che un amico del marito era tornato poco tempo fa dalla Cina, ieri pomeriggio gli è stato effettuato il tampone e che ha dato la riprova con certezza del contagio", ha concluso Gallera.

Coronavirus, l’anestesista di Codogno che ha intuito la diagnosi di Mattia: "Ho pensato all’impossibile". Annalisa Malara, 38 anni, di Cremona, è il medico dell’ospedale lombardo che ha intuito la malattia, individuando il focolaio italiano. In poche ore lui si è trasformato nel paziente 1. Giampaolo Visetti il 06 marzo 2020 su La Repubblica. «Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore. Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch’io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato». Annalisa Malara, 38 anni, anestesista di Cremona, è il medico dell’ospedale di Codogno che ha cambiato la vita di tutti con un’idea folle: intuire che Mattia era stato attaccato dal coronavirus. In poche ore lui si è trasformato nel paziente 1 in Italia e lei ha scoperto di essere il medico che ha individuato il focolaio italiano. Grazie alla sua pazzia clinica, il nostro Paese e il resto del continente hanno avuto il tempo per tentare di rallentare l’epidemia. Per gli straordinari medici anonimi dei piccoli ospedali di provincia, la storia di Annalisa e di Mattia è una rivincita insperata: un grande riscatto.

Perché ha intuito che la verità si nascondeva nell’assurdo?

«Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’ignoto. Il coronavirus si era nascosto proprio qui».

Vuole spiegare dall’inizio l’attimo che sta cambiando il destino collettivo?

«Mattia dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite. Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima».

Lei non è un’infettivologa: perché il caso è stato affidato a lei?

«Il paziente e tutti noi siamo stati salvati da rapidità e gravità dell’attacco virale. Dalla medicina è arrivato in rianimazione. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso».

Cosa ha fatto?

«Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo».

Il tampone è stato immediato?

«Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo».

Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?

«Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane».

Cosa è successo dopo che l’ha scovato?

«Il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato».

Perché?

«Nessuno di noi è stato contagiato. Siamo usciti oggi (ieri, ndr) dalla quarantena: chiusi in ospedale abbiamo continuato a curare i malati anche in queste due settimane».

Pensa di aver salvato la vita del paziente 1 e di altri infettati in Italia?

«Nessuno può dirlo. Avevo davanti un ragazzo giovane e sano. Il quadro suggeriva una polmonite virale, non batterica. I primi trattamenti, in rianimazione, sarebbero stati gli stessi praticati poi per il Covid-19. Solo dopo il trasferimento al San Matteo di Pavia si è potuto sottoporlo ad una terapia sperimentale».

Cosa insegna questa incredibile storia di coraggio scientifico?

«Che la fortuna, se insisti, ti aiuta. Se una persona sta male, una causa c’è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci. Il Covid-19 non aveva messo in conto che l’essere umano, pur di sopravvivere, non si rassegna».

Crede di avere un merito particolare?

«No. Però spero di aver contribuito a dare tempo a colleghi e istituzioni, in Italia e in Europa. Abbiamo guadagnato giorni preziosi per il contrasto all’epidemia. Se anche i cittadini li usano bene, rispettando indicazioni e misure di prevenzione, molti potranno guarire e altri eviteranno il contagio».

Le pare che questo stia accadendo?

«Io sono solo un medico. La responsabilità delle grandi scelte spetta alla politica: che però, in circostanze eccezionali, coincide con l’etica».

Giuseppe Nigro per gazzetta.it il 21 febbraio 2020. "Gioca a pallone, è un podista: fa di tutto, bicicletta, piscina. È una bestia alta così, 90 chili, ha una struttura forte". C'è tutta la tenerezza e la disperazione di cui solo un genitore può essere capace nelle parole con cui il padre di M.M., il 38enne in gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva di Codogno per Coronavirus, ha affidato a Fanpage.it la convinzione che il figlio è forte, e ce la farà. Parole con cui ha raccontato anche che M.M. è uno sportivo, e che sportivo. È un runner, M.M.: podista della G.P. Codogno 82, ha partecipato con altri 19 atleti della sua società alla mezza maratona del 2 febbraio tra Santa Margherita Ligure e Portofino, la "Due Perle" (chiusa più o meno a metà dei 1172 partecipanti, in 1h49'53" per quello che conta: zero), e poi di nuovo il 9 febbraio a Sant'Angelo Lodigiano. A Santa Margherita Ligure è già scattata la psicosi. Non solo running. M.M. è un centrocampista della Picchio di Somaglia, squadra della provincia di Lodi del campionato amatori Csi (Eccellenza Cremona-Girone A), con cui è sceso in campo sabato contro la Amatori Sabbioni (0-0 a Madignano, Cremona): la partita di domani contro la Pieranica, in programma al "Nichetti" di Capergnanica (Cremona), è stata rinviata. Una delle 40 gare di diversi campionati, dall'Eccellenza alle Juniores Femminili per cui la Lega Dilettanti della Lombardia ha imposto lo stop. Intanto i giocatori della Picchio di Somaglia sono stati invitati dall'Asst di Crema a non muoversi da casa fino al 29 febbraio: si tratta di una ventina di persone messe in quarantena e verranno controllate dai medici della Ats. E gioca a calcetto, M.M.: tra i contagiati ci sono tre clienti di un bar di Codogno il cui figlio del titolare aveva giocato a calcetto con il 38enne.

Da corriere.it il 23 febbraio 2020. Il coronavirus arriva in Piemonte. Un caso di contagio è stato registrato oggi, sabato 22, all’ospedale Amedeo di Savoia di Torino. Si tratta di un uomo di 40 anni che ha avuto contatti con alcune delle persone contagiate in Lombardia. Il 40enne al momento, ha un po’ di febbre, ma non sarebbe grave. Lo ha confermato la Regione Piemonte nel corso di una conferenza stampa organizzata nella sede della protezione civile di Torino, in corso Marche.

Unità di crisi permanente. «Alle 18 avremo un confronto con il governo - ha detto il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio - Da ieri, venerdì 21 febbraio, abbiamo una situazione che stiamo gestendo, il livello di attenzione è altissimo e ora di contenimento. Con prefetto e sindaca abbiamo ritenuto opportuno riunire l’Unità di crisi permanente. Quindici i casi in corso di accertamento al momento.

Da liberoquotidiano.it il 23 febbraio 2020. Il coronavirus tiene banco in queste ore. Dopo i primi contagi e i primi due decessi, anche Rita Dalla Chiesa commenta la tragica situazione. "Io capisco il diritto alla privacy - esordisce su Twitter -. Ma se tengono nascosti i nomi delle persone 'sospette', il contagio si allarga come un cerchio nell'acqua....Chi è entrato in contatto con quelli ricoverati, ha il diritto di saperlo, per potersi far controllare". In effetti, a parte l'identità del 77enne, Adriano Trevisan, morto a causa dell'epidemia cinese, nessuno è a conoscenza di chi sono gli altri 32 infetti in Lombardia, i 7 in Veneto e la donna deceduta a Casalpusterlengo. 

Il «Paziente 1» sta meglio, lascia la terapia intensiva: ora respira in autonomia. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Sta meglio il «paziente 1» del coronavirus in Italia, Mattia, il manager 38enne dell’Unilever di Casalpusterlengo trovato, per primo, positivo al Covid-19 all’ospedale di Codogno, nel Lodigiano. «È stato trasferito dalla terapia intensiva a quella sub intensiva, nella struttura clinica di Pavia in cui è ricoverato. È stato cioè “stubato”, in quanto ha iniziato a respirare autonomamente». Lo ha reso noto l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Giulio Gallera. La moglie del «paziente 1», incinta di 8 mesi, è tornata a casa, da qualche giorno, dopo essere stata ricoverata al Sacco. Tutto è cominciato il 20 febbraio, quando all’ospedale di Codogno, nel Lodigiano, il manager della Unilever arriva in condizioni gravissime: ha la febbre molto alta e la polmonite. Il tampone rivelerà la drammatica realtà: il Covid-19 è arrivato in Lombardia e la mette sotto assedio. A fine giornata saranno 15 contagiati, almeno 250 in quarantena in attesa dei risultati del test e 50 mila abitanti di 10 paesi del Lodigiano in isolamento. Scuole e negozi chiusi, attività sportive sospese, persino cerimonie religiose bandite. È l’inizio dell’incubo.

Coronavirus, le prime parole di Mattia, il «paziente 1»: «Mi trovo nell’ospedale di Lodi?» Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 da Corriere.it. Mattia, il «paziente 1» del virus Covid-19, il trentottenne ricercatore di Codogno, runner, giocatore di calcio, volontario del pronto soccorso e futuro padre, uscito pochi giorni fa dalla terapia intensiva, ha cominciato a parlare. Una delle prime cose che ha chiesto è se si trovasse all’ospedale di Lodi. Lui si era presentato una prima volta all’ospedale di Codogno nel pomeriggio dello scorso 18 febbraio, senza però avere i sintomi che avrebbero potuto portare ad identificarlo come caso sospetto, tant’è vero che dopo gli accertamenti e le terapie necessarie, nonostante la proposta di ricovero, decise di tornare a casa. Poche ore dopo la situazione precipitò al punto da richiedere, la mattina del 20 febbraio, l’intervento del rianimatore e un reparto di terapia intensiva. Fu quindi portato al San Matteo di Pavia, ma lui se ne è reso conto soltanto ora. Da lunedì scorso, il giorno nel quale è stato trasferito alla terapia sub intensiva, le condizioni del manager dell’Unilever sono in deciso miglioramento: respira in modo autonomo e quindi può parlare. Sua moglie, incinta di 8 mesi, è tornata a casa da qualche giorno dopo essere stata ricoverata al Sacco ed è in attesa di partorire una bimba. Mattia è diventato un simbolo per gli italiani, perché a partire dalla scoperta del suo caso e del focolaio nel Lodigiano è scoppiato l’allarme coronavirus nel nostro Paese. Era finito in Terapia intensiva in condizioni gravissime il 20 febbraio. Da lunedì 9 marzo, dopo 18 giorni, è fuori dalla Rianimazione e senza più nessun tubo per respirare. Il rianimatore Francesco Mojoli e l’infettivologo Raffaele Bruno, i due primari del San Matteo di Pavia che lo hanno curato, hanno spiegato al Corriere che cosa ci insegna il suo caso: il Covid-19 può colpire in maniera molto grave anche i giovani, che però hanno più armi per combattere il virus. Il trattamento in Rianimazione prevede delle terapie d’urto (con cocktail di farmaci antivirali, antibiotici e, in via sperimentale, anche quelli utilizzati per curare l’Hiv) più facili da sopportare per chi non ha un fisico già debilitato. Un contributo notevole alle probabilità di guarire lo dà l’assenza di altre patologie. In genere si nota che il peggioramento è rapido, c’è una lunga fase di stabilizzazione, poi l’inizio del miglioramento.

Il ritorno alla vita di Mattia, il «Paziente Uno»: «Vedrò nascere la mia bambina». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. Il ritorno alla vita dopo il coronavirus è nel nome di G., la bimba che nascerà tra poche settimane: «L’unico desiderio che ho è potere assistere alla nascita di mia figlia. I dottori mi assicurano che ce la farò». La voce è limpida, il tono pacato. Mattia, arrivato in condizioni disperate nella notte tra il 21 e il 22 febbraio al San Matteo di Pavia dall’ospedale di Codogno, ammalato a 38 anni di coronavirus quando ancora in Italia nessuno immagina la drammaticità dei giorni che avrebbero sconvolto le nostre vite, il maratoneta, il giocatore di calcio, il volontario alla Croce Rossa, il ricercatore dell’Unilever, non sa ancora che per tutti è il «Paziente Uno». Un’omissione dei medici per non turbarlo. È il simbolo che il dannato virus può essere sconfitto, ma lui si considera semplicemente un futuro papà desideroso di assistere al parto e tenere la mano alla moglie alla 37esima settimana di gravidanza. Dopo 28 lunghissimi giorni i loro sguardi si incrociano ieri per la prima volta attraverso un vetro. Le lacrime trattenute a fatica. La comunicazione può avvenire ancora solo con gli occhi e i gesti. Ordine dei medici per proteggere entrambi. Ma il peggio è passato. È un giorno speciale perché finalmente il 38enne è in reparto. Lì, al secondo piano del nuovo padiglione di Malattie infettive. Undici giorni fa, il 9 marzo, il trasferimento dalla terapia intensiva: via i tubi per l’ossigeno che gli hanno permesso di restare in vita. Il respiro che torna autonomo. Fuori pericolo dopo cure con un cocktail sperimentale di farmaci: antibiotici, antivirali e anti Hiv. Adesso anche l’uscita dalla subintensiva, dove i pazienti vengono svezzati, che fuori dal gergo medico vuol dire metterli in condizione di smaltire le terapie d’urto della Rianimazione. Così finalmente può esserci l’incontro con la moglie. Venti minuti densi di emozioni e commozione, con medici e infermieri che si fanno da parte partecipi di una felicità difficile da raccontare: chi vive in corsia con i malati di Covid-19 conosce la maledizione di questa malattia che aggiunge dolore al dolore separando i malati dai familiari. Il «Paziente Uno» e la moglie. Entrambi sono reduci da una battaglia. Quella di Mattia per la vita. Quella della futura mamma per portare avanti la gravidanza dopo essere rimasta contagiata anche lei. Uno al San Matteo di Pavia. L’altra al Sacco di Milano. La donna, già dimessa da qualche tempo, ieri arriva in ospedale verso le 10 di mattina accompagnata dal padre. Con sé i primi vestiti di casa (una tuta da ginnastica) che il marito potrà indossare al posto del camice. Per 28 giorni, tutti i giorni, la sua giornata ruota intorno a un orario ben preciso: le 6 di sera. È l’ora in cui l’infettivologo Raffaele Bruno, che fin dal primo giorno cura Mattia insieme con il rianimatore Francesco Mojoli, la chiama per aggiornarla sulle condizioni del marito: «Alzavo sempre la suoneria al massimo, gli occhi puntati sul telefono», confessa ieri a chi l’accoglie in reparto: «Vivevo in attesa di quel momento». In pochi quella notte tra il 21 e il 22 febbraio pensano che Mattia ce la possa fare. È una corsa contro il tempo per stabilizzare le sue condizioni. I rianimatori insistono, non mollano. Destini che si incrociano. Mattia condivide la camera d’ospedale proprio con un rianimatore che si è ammalato per aiutare quelli come lui. Capita di scambiarsi qualche parola. La curiosità del 38enne è su cosa sta succedendo fuori. Ma nessun racconto può trasferirgli il bollettino di guerra quotidiano, le ambulanze che rischiano di arrivare troppo tardi, le terapie intensive al collasso, le misure contro il contagio. Per Mattia adesso è giusto che la vita ricominci da G. Lunedì o martedì, salvo sorprese, il «Paziente Uno» potrà lasciare l’ospedale. E con i medici gli capita di scherzare: «Sono dimagrito e in forma». Sua moglie prima di congedarsi chiede di incontrare il direttore generale del San Matteo Carlo Nicora per dirgli grazie. Non sono ringraziamenti di rito. E sono di buon augurio per tutti i malati: «Per noi — insiste da giorni Bruno in ogni intervista che rilascia a quotidiani e tv — sono tutti “Pazienti Uno”».

Il dramma del Paziente 1. Sta per essere dimesso ma il virus uccide il padre. Mattia uscirà entro domani. Il padre, 62 anni, era di Castiglione d'Adda, paese tra i più colpiti. Andrea Cuomo, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. Poteva essere l'unico sorriso di una primavera così angosciante da spaventare anche le rondini. Ma il destino ha voluto mettere anche qui il suo fetido zampino. E la festa di Mattia, il paziente numero uno del coronavirus, è stata rovinata nel modo peggiore. Mattia è il trentottenne con la tessera numero uno del poco ambito club dei contagiati dal virus arrivato dalla Cina. Verrà dimesso in queste ore, oggi o «al più tardi lunedì», ovvero domani, come annuncia l'assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera. Avrebbe tutto il diritto di essere felice, sentendosi il sopravvissuto d'Italia, un simbolo della lotta che il nostro Paese sta combattendo ciascuno a suo modo - chi lottando con un respiratore che gli sequestra il volto, chi in corsia a sbattersi dodici ore al giorno, chi semplicemente restandosene sul divano resistendo alla tentazione di farsi una passeggiata al sole - ma ieri ha avuto la notizia che il padre Manolo invece è stato sconfitto dallo stesso nemico. È morto, una delle 62 vittime del paese di Castiglione d'Adda, uno dei dieci comuni della prima zona rossa d'Italia, quella del Lodigiano. Un paesino talmente falcidiato dal Covid-19 (è morto quasi l'1,5 per cento della popolazione composta da 4600 abitanti) che il sindaco Costantino Pesatori ha qualche giorno fa telefonato all'infettivologo del Sacco di Milano, Massimo Galli, suggerendo di condurre uno studio epidemiologico sul comune che amministra. E Galli avrebbe preso in considerazione la proposta. Quindi niente festa per Mattia, con cui il coronavirus ha fatto 1-1 ma senza gioia. I sorrisi, certamente un po' più stiracchiati, sono lasciati a quando nascerà la figlia, e dovrebbe essere anche questo a giorni. Mattia fu ricoverato lo scorso 20 febbraio all'ospedale di Codogno, e da cui ebbe inizio tutto questo. Querl giorno, poco dopo mezzogiorno, l'anestesista Annalisa Malara ebbe l'intuizione che quel paziente che si era già presentato al pronto soccorso due giorni prima con i sintomi di una polmonite ed era stato rimandato in casa, e che si era ripresentato qualche ora dopo in condizioni peggiorate ed era stato ricoverato nel reparto di Medicina, era forse stato contagiato dal coronavirus. Tragico bingo. A Mattia venne fatto il tampone e si scoprì che era stato effettivamente invaso dal coronavirus. I primi giorni li passò nel nosocomio di Codogno, poi venne trasferito al San Matteo di Pavia, molto più attrezzato. Da quel giorno Mattia è stato isolato e non ha potuto più vedere la moglie Valentina, all'ottavo mese di gravidanza, anche lei infettata ma guarita. «Ho tenuto duro perché sto per diventare papà - ha detto Mattia a un'infermiera quando scì dalla terapia intensiva e si capì che il peggio era passato -. Mentre avevo il tubo nella trachea ho pensato che se fossi stato solo, avrei mollato. È la vita degli altri a trascinarci avanti». Mattia è guarito per dare un seme di speranza per tutti coloro che si trovino a fronteggiare il coronavirus. Ma anche perché il giovane ricercatore dell'Unilever di Castalpusterlengo ha una tempra di maratoneta e di giocatore di calcio, un Superman quotidiano che anche in questo caso ha potuto sfruttare qualche superpotere. La lotta di Mattia sarà comunque utile a molti. «Abbiamo isolato - dice Fausto Baldanti, primario di virologia del San Matteo - gli anticorpi prodotti dai primi contagiati nel Lodigiano. Il loro plasma, come già in Cina, aiuterà a salvare molte vite». Le vite degli altri, appunto.

Parla il paziente 1. Mattia: “Nel mio coma sognavo l’anticamera della morte. Ora davanti vedo il sole". La Repubblica il 20 aprile 2020. "Sono svenuto a Codogno e mi sono risvegliato dopo 20 giorni. La pandemia mi ha trasformato in un simbolo in Europa". "Questi due mesi sono stati sconvolgenti, molto più che inimmaginabili, altro che un film. All'improvviso mi sono ammalato, sono arrivato ad un passo dalla morte e sono risorto. Sono rimaste contagiate e sono guarite mia moglie e mia mamma. Il virus sconosciuto ha ucciso mio padre. È nata infine Giulia, la nostra prima figlia. Ho imparato a resistere e a credere nella differenza tra fiducia e utopia, a considerare essenziale ogni istante di normalità....

Mattia, il paziente Uno: «Sarò sincero: io davanti vedo il sole». Vanity Fair il 21 aprile 2020. Senza di certo volerlo è diventato un simbolo. Mattia Maestri è per tutti il paziente Uno, il primo caso accertato in Italia di coronavirus. Era il 20 febbraio e il primo segno dell’epidemia veniva alla luce in Italia. «Questi due mesi», ha raccontato a Repubblica, «sono stati sconvolgenti, molto più che inimmaginabili, altro che un film. All’improvviso mi sono ammalato, sono arrivato ad un passo dalla morte e sono risorto». Mattia, 38enne ricercatore della multinazionale Unilever, racconta per la prima volta i giorni della malattia che ha colpito anche tutta la sua famiglia. Sono rimaste contagiate e sono guarite sua moglie e sua mamma. Il padre è morto. È nata, a inizio aprile, sua figlia Giulia. «Ho imparato a resistere e a credere nella differenza tra fiducia e utopia, a considerare essenziale ogni istante di normalità. La vita e la morte, senza offrirci l’opportunità di percepirlo, ogni giorno si sfiorano in silenzio attorno a noi». Il suo racconto parte dal pronto soccorso di Codogno. «Ho perso conoscenza pensando di avere una semplice polmonite e mi sono svegliato dopo venti giorni a Pavia, sopravvissuto a Covid-19. Ero anonimo, la pandemia mi ha trasformato in un simbolo in Europa. La mia esperienza resta incredibile, ma più ancora lo è la quantità di storie invisibili che costantemente ci scorrono accanto: solo il caso, adesso lo so, sceglie quale assegnare ad ogni persona». Parla perché il suo caso può essere di aiuto agli altri e racconta che ancora non si è completamente ripreso. Ha bisogno di riposo. Tutto è cominciato con una febbre che non passata e un inizio di polmonite che i medici hanno detto di curare con antibiotici. «La febbre è salita ancora di più. Martedì sono tornato in ospedale. Non c’era posto e ho aspettato in pronto soccorso. Appena possibile mi hanno rifatto le lastre e i medici hanno visto che i miei polmoni era già pieni. Questione di ore: prima stavo bene, dopo ero a un passo dalla morte». L’intuizione dell’anestesista Annalista Malara ha portato a fare il tampone e poi c’è stato il collegamento con l’amico tornato dalla Cina che però non aveva mai avuto il coronavirus. «Il 20 febbraio il Covid-19, ufficialmente, in Europa non aveva contagiato nessuno. Io sono ancora giovane e sportivo, eppure ero in fin di vita. Questa anomalia ha permesso di trovarlo e la scoperta non ha salvato solo me. Da quel momento ha permesso di diagnosticare il virus in migliaia di persone. C’è stato il tempo di curare un sacco di gente, di capire perché in tanti stavano già morendo». A Codogno è stato subito sedato. «Ero incosciente, a tratti sognavo ma non ricordo più cosa. Non soffrivo: avevo però netta la percezione che quella pace fosse l’anticamera della fine». Il risveglio all’ospedale San Matteo di Pavia quando lo hanno trasferito dalla terapia intensiva alla sub-intensiva. «Per due giorni i medici mi ripetevano le stesse domande per testare la mia ripresa mentale. Lì ho saputo dov’ero, anche se non sapevo che nel frattempo Covid-19 si era rivelato una devastante pandemia». Della morte del padre ha saputi quando non ha risposto alla chiamata per la festa del papà ed è certo che l’imminente arrivo di Giulia abbia moltiplicato le sue energie. «Io appena salvato e uscito da una rianimazione, Milano e il Lodigiano demoliti da migliaia di morti e questa bambina che invece apre gli occhi perché sente che la vita è comunque meravigliosa». Nessuna lezione morale o senso di colpa, «però è vero che una prova simile, non solo a me, chiarisce molti punti oscuri dell’esistenza». Ne racconta due. «Primo, la generosità degli altri: se sono qui, lo devo a medici e infermieri che ogni giorno fanno con naturalezza molto più del necessario. Secondo, la forza mentale delle donne: mia moglie e mia madre, costrette ad aspettare, hanno sopportato più di mio padre e di me. Questa generosità e questa forza, a epidemia finita, non possono tornare ignorate. Sarò sincero: io davanti vedo il sole».

Coronavirus, parla il paziente 1 Mattia: "Ero in un limbo, sognavo l'anticamera della morte". Today il 21 aprile 2020. Qualche giorno fa la gioia più grande, la nascita di Giulia, la prima figlia. Oggi il "paziente 1", Mattia, di Castiglione - manager della Unilever, sportivo, volontario del pronto soccorso -  diventato il primo italiano trovato positivo al coronavirus a Codogno (Lodi), racconta i due mesi più duri e intensi della sua vita: “Nel mio coma sognavo l’anticamera della morte", dice. Due mesi in cui lui e la sua famiglia hanno dovuto affrontare sfida dure, durissime. Sono rimaste contagiate la moglie e mia mamma, mentre il padre non ce l'ha fatta, è deceduto mentre il giovane era ricoverato. Mattia era stato male dal 14 febbraio. Febbre alta e tosse. Ritornato una seconda volta in ospedale a Codogno, grazie all'intuizione di una dottoressa anestesista, gli era stato fatto il tampone per il Covid-19. Era da poco passata la mezzanotte del 20 quando l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, dava la notizia di un 38enne positivo al Covid-19 ricoverato all'ospedale di Codogno. Nel corso della giornata saliranno a 15 i contagiati in Lombardia. Il giorno dopo il numero dei casi era già salito a 60. E' iniziato tutto così in Italia. Le sue condizioni erano molto gravi, è stato a lungo - ben 18 giorni - in terapia intensiva. Poi la lenta, lentissima ripresa verso la nuova normalità. "Questi due mesi sono stati sconvolgenti, molto più che inimmaginabili, altro che un film. All'improvviso mi sono ammalato, sono arrivato ad un passo dalla morte e sono risorto. Sono rimaste contagiate e sono guarite mia moglie e mia mamma. Il virus sconosciuto ha ucciso mio padre". Lo dice intervistato da Repubblica, a Codogno, Mattia, 38 anni il prossimo luglio, ricercatore dell'Unilever di Castelpusterlengo. 'È nata infine Giulia - racconta ancora - la nostra prima figlia. Ho imparato a resistere e a credere nella differenza tra fiducia e utopia, a considerare essenziale ogni istante di normalità". "La vita e la morte senza offrirci l'opportunità di percepirlo ogni giorno si sfiorano in silenzio". ''Ho perso conoscenza a Codogno - ricorda Mattia - pensando di avere una semplice polmonite e mi sono svegliato dopo 20 giorni a Pavia sopravvissuto a Covid-19. Ero anonimo, la pandemia mi ha trasformato in un simbolo d'Europa". Mattia parla poi delle due settimane trascorse in coma: "Appena sedato a Codogno - dice - sono entrato in un limbo. Ero incosciente, a tratti sognavo ma non ricordo più cosa. Non soffrivo, però avevo la netta percezione che quella pace fosse l'anticamera della morte''. Poi la vita l'ha avuta vinta. "Mia figlia è la nostra speranza" aveva detto qualche giorno fa in un videointervento alla trasmissione "Porta a Porta" Mattia.  "È difficile, dopo questa esperienza, fare un racconto di quello che mi è successo" aveva detto Mattia a L'aria che tira su La7, che non smetterò mai di ringraziare tutto il personale sanitario degli ospedali di Pavia e Codogno. Caro lettore, dall'inizio dell'emergenza sanitaria i giornalisti di Today ed i colleghi delle altre redazioni lavorano senza sosta, giorno e notte, per fornire aggiornamenti precisi ed affidabili sulla epidemia Covid-19. Se apprezzi il nostro lavoro, da sempre per te gratuito, e se ci leggi tutti i giorni, ti chiediamo un piccolo contributo per supportarci in questo momento straordinario. Grazie!

Quando al paziente 1 dissero: "Covid non sa nemmeno dov'è Codogno". Mattia Maestri, il ''paziente uno'' del focolaio di Codogno, racconta i giorni del suo calvario: "È stato come vivere un film ma non penso di essere il primo caso di Covid".Rosa Scognamiglio, Venerdì 05/06/2020 su Il Giornale. "Penso di non essere io il 'paziente uno'". A parlare è Mattia Maestri, noto alle cronache come "paziente uno" da quando, lo scorso 21 febbraio, è stato registrato come il primo caso accertato di Covid-19 all'ospedale di Codogno, in provincia di Lodi. "Ho scoperto di essere il 'paziente 1' solo una volta che ho preso in mano il mio smartphone. È lì che ho capito cosa fosse successo e cosa stesse ancora accadendo. Fino ad allora sapevo solo che ero stato ricoverato per una polmonite, era ciò che mi avevano detto. Ma confesso che non mi pesa essere chiamato così. Tuttavia, non penso proprio di essere stato il paziente numero 1". Comincia così la lunga intervista che il 38enne codognino, manager Unilever e podista per passione, ha rilasciato ai microfoni di Sky Tg 24. La sua vicenda personale è diventata di dominio pubblico durante le settimane più calde dell'emergenza sanitaria, tanto da tenere l'Italia intera col fiato sospeso. "Solo quando mi sono svegliato mi hanno raccontato cosa c'era in giro e ho capito la gravità di quanto stava accadendo - spiega -Mi sento fortunato. Ho pensato molto dove possa aver preso il virus ma non ho la benché minima idea di questo dove possa essere accaduto. Sia io che mia moglie, nelle nostre ricostruzioni, non siamo venuti a capo di un possibile punto d'inizio. E non c'entra nulla neppure il mio amico tornato dalla Cina". Tutto è cominciato una insospettabile sera di febbraio. Mattia manifesta uno stato febbrile preoccupante accompagnato da una severa sofferenza respiratoria. Il malessere perdura per circa una settimana fino a quando, nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, è costretto a rivolgersi al pronto soccorso dell'ospedale di Codogno per chiedere aiuto. I medici che lo assistono riscontrano una preoccupante quanto anomala infezione polmonare. Dopo un inziale momento di smarrimento, la dottoressa Annalisa Malara, anestetista presso la struttura, sospetta si tratti di una patologia virale. Così, sottopone il 38enne al tampone faringeo; l'esito del test fuga ogni dubbio: si tratta di coronavirus. Il podista viene trasferito immediatamente all'ospedale San Matteo di Pavia dove viene intubato e supportato con ventilazione assistita. Le sue condizioni sono disperate al punto che, per molti giorni, il bollettino medico non evidenzia segnali di recupero. Gli specialisti che si fanno carico del caso, Raffaele Bruno e Francesco Moioli, azzardano cure disperate: si tenta il tutto per tutto pur di salvargli la vita. E alla fine, un cocktail di antivirali e farmaci utilizzati per contrastare l'Hiv lentamente riescono a guarirlo. Il 10 marzo, l'equipe del presidio pavese, annuncia che Mattia ha ripreso a respirare autonomamente e presto sarà trasferito in reparto. Sono state settimane dure e impegnative quelle della malattia ma Mattia sdrammatizza con un aneddoto: "Se penso oggi a un episodio capitato durante il mio secondo ricovero sorrido. - racconta - Chiedo ad un operatore sanitario se potesse essere un caso di coronavirus e in dialetto mi risponde 'il coronavirus Cudogn Ensà nianche addu stà che significa "il Coronavirus non sa neanche dove sia di casa Codogno" e invece siamo stati l'inizio di tutto". "Penso che sia stato più di un film quello che ho vissuto, - racconta Mattia - però, con un lieto fine: la nascita di mia figlia Giulia. E tutto il resto l'ho voluto mettere in secondo piano". Oltre al calvario della malattia, il 38enne ha dovuto elaborare anche il lutto per la perdita del papà, Moreno Maestri, morto pochi giorni che il figlio fosse dimesso dall'ospedale. "Di mio padre non mi hanno detto subito. - continua -L'ho saputo poche ore prima che se ne andasse. Mio padre è stato ricoverato anche lui a Varese in terapia intensiva e, solo dopo aver avuto il telefono, parlando con mia madre, ho saputo che era grave. Dopo mezza giornata, il 19 marzo, nella giornata della festa del papà, lui se ne è andato". Nonostante sia difficile gettarsi il passato alle spalle, Mattia ora prova a guardare avanti. A suo fianco ci sono gli amici di sempre, la moglie Valentina e la piccola Giulia, venuto al mondo qualche settimana dopo le sue dimissioni. "Giulia è arrivata in anticipo, ma anche se non ero nel pieno delle forze, sono riuscito ad assistere al parto. Ancora oggi, che continuo ad essere a riposo, me la godo tutto il giorno. Mi sono addormentato con il pensiero che stesse per nascere appena prima che mi sedassero. - racconta - Proprio perchè non si sapeva fosse il Covid, ho avuto la possibilità di accarezzare il pancione di Valentina. Mi ricordo di averle detto che avrei fatto di tutto per tornare. E ce l'ho fatta". In conclusione dell'intervista, Mattia rivolge un ringraziamento sincero ai medici che gli hanno salvato la vita: "Ricorderò il dottor Bruno, il mio nuovo papà. - conclude - Io ho perso il mio per questa malattia ma Bruno che mi ha salvato lo considero così. E poi la dottoressa Malara. È stato grazie a lei, al suo intuito e al suo coraggio che è stato scoperto il coronavirus".

Coronavirus, la testimonianza di Mattia, il paziente 1 di Codogno. Sheila Khan il 05/06/2020 su Notizie.it. Mattia racconta la sua vicenda: dal ricovero fino alla guarigione, passando per il momento in cui ha scoperto di essere il paziente 1 di Codogno. Mattia Maestri, il paziente 1 di Codogno, racconta in una lunga intervista a Sky TG24 questi ultimi mesi. Tutto inizia a febbraio, con febbre e sintomi influenzali, trattati in quanto tali. Al pronto soccorso gli prescrivono un antibiotico e lo rimandano a casa. Ma le sue condizioni di salute peggiorano e Mattia decide di tornare in ospedale, dove questa volta ci resta, grazie all’intuizione di Annalisa Malara, medico anestesista insignita del premio Rosa Camuna. I medici decidono di trasferirlo in terapia. Si risveglierà dopo un mese, guarito, senza sapere che nel frattempo l’Italia stava affrontando una crisi sanitaria e socio economica. Adesso Mattia si sente fortunato, si gode sua figlia Giulia e sogna di tornare presto a fare sport. Mattia ha 37 anni ed è una persona attiva che pratica sport. Quando viene ricoverato in ospedale, il 17 febbraio, chiede all’infermiera, scherzosamente, se potesse essere coronavurs; e l’infermiera risponde in dialetto lodigiano: “Il coronavirus Cudogn Ensa nianche addu sta”, e cioè ‘il coronavirus non sa neanche dove sta Codogno’. Quello che è successo dopo, ormai, lo sappiamo: Codogno è stata la prima zona rossa d’Italia e focolaio del coronavirus. Mattia è stato ricoverato per polmonite, e solo una volta sveglio gli hanno spiegato che in realtà aveva preso il coronavirus. Solo al risveglio ha capito la gravità della situazione, e si è sentito fortunato. Sempre al risveglio ha scoperto che anche la madre, il padre e la moglie incinta avevano contratto il virus. Si sono salvati tutti, tranne il padre, che purtroppo non è riuscito a guarire. Il pensiero della figlia in arrivo, Giulia, è stato quello che l’ha tenuto in forze: “Mi sono addormentato con questo pensiero. E appena prima che mi addormentassero, proprio perché ancora non si sapeva che era Covid, ho avuto la possibilità di incontrare Valentina. Mi ricordo di aver accarezzato il suo pancione e di averle detto che avrei fatto di tutto per tornare. E ce l’ho fatta”. Mattia definisce questo periodo come un film, con un lieto fine: “La mia malattia, la mia guarigione, il fatto che sia mia madre che mio padre che Valentina si siano ammalati (mia madre e Valentina sono guarite, mio papà non ce l’ha fatta) e poi la nascita di Giulia, tutto concentrato in un mese e mezzo scarso, è una cosa da film, forse anche di più di un film. Però il lieto fine con la nascita di Giulia c’è. E tutto il resto l’ho voluto mettere in secondo piano”. L’insegnamento più grande di questa esperienza per Mattina è l’imprevedibilità della vita. Si sentiva invincibile: 37 anni, sportivo, sano, vita all’aria aperta, e invece ha preso il coronavirus, una malattia grave che ancora non si sa come curare. Questa esperienza gli ha lasciato ” la consapevolezza di quanto sia imprevedibile la vita: da avere una vita perfetta, lavoro casa famiglia sport amici, a poter perdere tutto in un istante. Per me ora è importante godere di tutto come se fosse l’ultimo giorno“. Adesso Mattia sogna di riprendere presto a fare sport. Il suo fisico adesso è debole per il lungo ricovero, ma i medici sono fiduciosi per la sua ripresa. Le conseguenze sul corpo si vedono e, oltre alla debolezza, restano le cicatrici: sulle ginocchia (per la posizione prona), sul viso e sul collo. Ma a Mattia non interessano: “Sono felicissimo, grazie soprattutto alla mia famiglia speciale e all’arrivo di Giulia. Per il domani voglio solo continuare così e tornare alla mia vita di prima, a quella di tutti i giorni, allo sport, al calcio. Vorrei che tornassimo a vivere come eravamo abituati prima”.

Francesco Gastaldi per il ''Corriere della Sera'' - Milano il 30 agosto 2020. «Noi che abbiamo avuto la forza di ripartire... voi clienti e amici che ci siete stati vicini in questi mesi. A voi il nostro grazie e... Viva l’Italia!». Firmato Mattia, Valentina e Giulia. Anche una foto può ridare speranza. Specie se i protagonisti sono Mattia Maestri, il primo paziente di Codogno colpito dal Covid, e la sua famiglia. La foto con dedica è apparsa sabato pomeriggio nella vetrina di Madre Natura, l’erboristeria che Valentina, moglie di Mattia, e la madre Mara gestiscono a Casalpusterlengo. Per la cittadina lodigiana — ex «zona rossa» — è tempo di festa patronale (San Bartolomeo, con cartellone ridotto per le restrizioni Covid) e il concorso delle vetrine indetto dalla Pro loco, dal Comune e da Confcommercio è uno degli eventi di punta. Anche l’erboristeria della famiglia Maestri si è iscritta fra i 17 partecipanti. E il messaggio di speranza, con foto inedita e «Viva l’Italia» (il tema scelto dalla giuria), non è passato inosservato. «Dopo tutto quello abbiamo passato, loro e anche noi — racconta il sindaco Elia Delmiglio — quello di Mattia, Valentina e Giulia è un meraviglioso inno alla speranza. Ho visto concittadini commossi davanti dal messaggio. Davvero un bel gesto». Tanti i curiosi che si sono fermati davanti alla vetrina o sono entrati in negozio per un saluto a Valentina e alla madre Mara che hanno tenuto aperto tutta la sera fino alle premiazioni (Mattia invece era a casa con la piccola Giulia, nata al Sacco il 7 aprile scorso). Nonostante il successo, la vetrina di Madre Natura non ha passato (con proteste) le selezioni della giuria popolare che, nonostante le frasi, la coccarda tricolore e tre linee dell’Erbolario disposte a tricolore ha preferito mandare sul podio altri candidati. Come una farmacia che ha esposto una Vespa, simbolo dell’Italia del rilancio, o l’edicola storica di Ivo Colombini (commerciante locale che ha sconfitto il Covid-19 dopo tre mesi attaccato al respiratore) che ha tappezzato le pareti con le prime pagine dei quotidiani dei trionfi mondiali dell’Italia a Spagna ‘82 e Germania 2006 finendo nella «top five». «Non conta il risultato ma il messaggio — ribatte Isacco Galuzzi, segretario generale di Confcommercio Lodi e presidente dei commercianti della Bassa Lodigiana — e quello lanciato da Valentina e Mattia è stato emozionante». Per i circa 500 commercianti della Bassa, zona rossa compresa, si profila un settembre molto difficile. «Meno di quanto accadrà nelle grandi città — obietta Galuzzi —: i nostri negozi vivono di più sul consumo interno, e se comunque la contrazione dei consumi si sta sentendo di pari passo con il calo della fiducia delle famiglie, un minimo di ripartenza c’è stato». Così come Casalpusterlengo, che mantenendo pur in edizione ridotta la sagra, ha dato un segnale che la vita va avanti. San Bartolomeo chiude i battenti omaggiando i morti della cittadina a causa del coronavirus: 150 persone. I loro nomi letti lunedì sera e scanditi a uno a uno, alle 21, in piazza del Popolo.

Carlo D’Elia per quotidiano.net il 30 agosto 2020. Tutta l'Italia lo ha conosciuto come il paziente 1, il primo caso di malato di Coronavirus nel nostro Paese. Era lo scorso febbraio, la malattia pareva relegata in Cina. Quando Mattia Maestri, 38enne di Codogno, venne ricoverato per Covid, l’Italia capì che il contagio era arrivato. Eppure questo manager lombardo amante dello sport non accetta di essere considerato il primo pezzo della lunga catena di contagi, ricoveri e dolore che ha scosso la penisola. "Non ho sensi di colpa", spiega lucido. Perché dopo mesi di terapia, cure e riflessioni ha una certezza granitica, supportata anche da pareri sanitari: il virus era già in circolazione da tempo, ben prima di quel 20 febbraio quando lui fu ricoverato all’ospedale di Codogno con una grave polmonite e uno stato sanitario inspiegabile per una persona così giovane, sana e in forma. Il ricordo ricorrente è lo choc per la morte del padre, deceduto il 19 marzo scorso proprio a causa del Coronavirus. Un lutto che è una ferita aperta ma che Maestri ha cercato di rielaborare da solo, con le sue forze.

Maestri, tutti la conoscono come il paziente 1. Quante le pesa questa definizione?

"Sinceramente non credo di essere io la persona che ha portato un virus così pericoloso in Italia. E confesso che non mi pesa essere chiamato paziente 1".

Molti l’hanno definita così però fin dall’inizio. E si parlò a lungo di come si era contagiato...

"La cosa sicura è che sono il paziente che è stato certificato per primo. Ma non penso proprio di essere il paziente numero 1, visto che la malattia era già in giro ben prima del mio ricovero".

Si è mai chiesto perché si sia ammalato? Se può avere contagiato altre persone?

"Quando sono stato ricoverato non sapevamo che il Covid potesse essere in giro anche in Italia. Nella mia testa non ho un ricordo particolare, non ho sensazioni di paura o sensi di colpa".

È stato difficile saltarci fuori?

"Sia al lavoro sia in ospedale mi hanno proposto un supporto psicologico per aiutarmi a superare questo choc. Ho detto di non averne bisogno".

Perché?

"L’importante è avercela fatta, aver superato questa terribile malattia ed essere qui con mia moglie e mia figlia".

Nel frattempo suo padre ha perso la vita per il Coronavirus.

"La cosa più dolorosa della mia terribile vicenda è proprio aver perso mio padre. Quando l’ho scoperto è stato terribile".

Ora lei come si sente?

"Molto bene. Pian piano ho recuperato la mia forma fisica. Dopo quasi cinque mesi dal mio risveglio al San Matteo ho ripreso tutti i venti chili che avevo perso dopo essere stato quasi un mese intubato. Ho ricominciato anche a correre, ma sento di non essere in grado di fare lunghi percorsi".

Sul volto ha ancora i segni del ricovero in terapia intensiva.

"Sì, è quello che rimane del tubo usato in terapia intensiva a Pavia. Il chirurgo plastico mi ha detto che potrei toglierlo con una piccola operazione, per ora però non ho ancora deciso se toglierlo o lasciarlo".

Qual è ora il suo sogno?

"Ne avrei uno sportivo: quello di partecipare a un Ironman (una gara di 3,8 km di nuoto, 180 km di ciclismo e 42,195 km di corsa, ndr). Avevo comprato la bici prima di tutto quello è accaduto. Forse un giorno riuscirò a farlo".

Nei giorni più difficili, quelli che l’hanno costretto a lottare per la vita nel reparto di terapia intensiva al San Matteo di Pavia, Maestri non ha mai mollato, come fanno i migliori maratoneti. Dimesso alla fine di marzo dopo una cura sperimentale con un cocktail di antivirali e farmaci utilizzati per contrastare l’Hiv, Maestri ha avuto sempre al suo fianco la moglie Valentina, la piccola Giulia, la figlia nata quattro mesi fa mentre lui lottava contro il Covid.

«Negativo a tutti i test, non è lui il paziente zero» che ha veicolato il virus in Lombardia. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Se il paziente zero fosse stato lui si sarebbero spiegate tante cose. Suo cognato risultato positivo al test, per esempio. L’amico con il quale è andato a cena, infettato e ora ricoverato in condizioni molto gravi. Il legame evidente con la Cina, dalla quale era tornato il 21 di gennaio. E poi l’epicentro del virus individuato nell’area del Lodigiano dove ha vissuto da quando è rientrato in Italia. Se il paziente zero fosse stato lui, appunto, ogni casella si sarebbe incastrata nel puzzle. E invece no. Tutto da cancellare. L’uomo che fino a ieri sera è stato il paziente zero, in realtà non lo è per niente. Non è lui il punto di partenza del coronavirus. Quell’ipotesi era un abbaglio, hanno fatto sapere dall’Istituto Superiore di Sanità. Lui, che ha 41 anni, non ha sviluppato gli anticorpi quindi non ha contratto l’infezione. Perciò non stava bene perché asintomatico e non era negativo al test perché guarito. Semplicemente era (ed è) sano, e non è stato lui a veicolare il virus in Lombardia. Non sapere chi è il paziente zero ovviamente complica tutto dal punto di vista della diffusione del contagio. Ma a casa sua, nel piccolo centro del Lodigiano dove vivono i suoi gentitori, la notizia ha sciolto la tensione. «Non può capire quanto sono felice di sapere che lui non c’entra niente» dice suo padre annunciando che «forse già domani (lunedì 24 febbraio, ndr) potrebbe rientrare a casa. Nel giro di due giorni siamo passati dalla più cupa preoccupazione a questo sollievo. Quando ha saputo di essere il presunto paziente zero e prima che lo portassero via con l’ambulanza, non voleva nemmeno più che ci avvicinassimo. Diceva: statemi lontani che magari infetto anche voi. Si sentiva in colpa con noi e con il suo amico che ora sta male». E il cognato risultato positivo al test? «Il marito di mia figlia viaggia spesso per lavoro in tutt’Italia. Ha il virus ma al momento sta bene. Chissà dove se l’è preso... Sta bene anche mia figlia che è risultata negativa al test. E comunque da quando mio figlio è rientrato dalla Cina, un mese fa, non ha mai incontrato suo cognato quindi non poteva in ogni caso essere lui ad averlo contagiato. Il pensiero di mio figlio e il nostro adesso va al suo amico...» . L’amico è il «paziente uno», l’uomo di 38 anni a partire dal quale si è diffuso l’allarme per il coronavirus. Lui e l’ormai ex paziente zero sono amici da quand’erano bambini. I loro genitori hanno casa nella stessa vietta, venti metri gli uni dagli altri. Hanno passato insieme l’infanzia, paziente zero e paziente uno. Ma poi, da adulti, le loro esistenze sono diventate punti lontanissimi. La vita del paziente uno è rimasta nel Lodigiano: si è sposato, aspetta un bambino e sua moglie, incinta all’ottavo mese, è positiva al coronavirus ma le sue condizioni non sono preoccupanti. Mentre lui è molto grave e ieri è stato trasferito dall’ospedale di Codogno al San Matteo di Pavia. L’ex paziente zero, invece, sette anni fa si è trasferito in Cina e torna in Italia soltanto pochi giorni all’anno. Quando rientra, fra i suoi impegni c’è sempre al primo posto vedere gli amici, passare assieme a loro qualche serata. Ed è una di quelle serate che ha creato l’equivoco: la moglie del paziente uno si è ricordata che suo marito aveva cenato con un amico manager arrivato dalla Cina ed è partito il caso . Ieri pomeriggio il padre del paziente uno aveva la febbre e per accertare l’eventuale positività al test è stato portato via in ambulanza assieme a sua moglie. Pochi metri più in là l’altro padre, quello del paziente zero, si è affacciato un minuto al balcone. Era il suo vecchio amico quello che vedeva salire sull’ambulanza.

Virus, chi ha contagiato chi? Mistero sui primi «diffusori». La pista degli 8 cinesi al bar. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. Nella mappa dei contagi in Lombardia, con i numeri in aggiornamento di ora in ora, c’è un prima e un dopo. Sono le 18.30 di ieri sera quando crolla ogni certezza. E dalla Lombardia al Veneto il mistero si infittisce perché in entrambe le regioni si apre la caccia ai «Pazienti zero» fondamentale per arginare i focolai. Fino alle 18.30 l’espansione del coronavirus in Lombardia, anche se con una velocità di diffusione che sorprende gli esperti stessi, è limitata a un raggio di 30 chilometri intorno a Codogno e al suo ospedale. Medici, infermieri, familiari e amici, tutti gli ammalati insomma, sono collegati tra loro. È nella cittadina da 16 mila abitanti nel Lodigiano in cui il «Paziente uno» va a cena con l’amico manager di ritorno da Shanghai il primo febbraio, beve una birra al pub di Casalpusterlengo il 4, si fa visitare dal medico di famiglia il 17 e soprattutto entra in pronto soccorso per ben due volte il 18 e il 19. Dopo le 18.30 lo scenario cambia drammaticamente. Il coronavirus arriva al San Raffaele di Milano, capitale della sanità italiana, mille posti letto per 15 mila persone ogni giorno che transitano compresi i cinquemila lavoratori. Qui è ricoverato da una settimana un uomo di Sesto San Giovanni. Per gli epidemiologi dell’Asl di Milano e dell’assessorato alla Sanità guidato da Giulio Gallera adesso la nuova sfida è capire l’evolversi della catena dei contagi, fondamentale per adottare le misure di contenimento del virus: «Non si trova alcun collegamento. È un anziano che non è mai stato a Codogno», è la voce che rimbalza a tarda sera dall’Unità di crisi in Regione dove praticamente nessuno sta dormendo da 36 ore. E spunta anche un contagio a Mediglia, alle porte sud di Milano: un 71enne i cui contatti sono ancora tutti da ricostruire. Ancora le 18.30 di ieri. È sempre intorno a quell’ora che crolla definitivamente anche la speranza di avere individuato il «Paziente zero», il 41 enne di ritorno da Shanghai: le analisi dell’Istituto superiore di sanità non riscontrano nessun anticorpo che possa lasciare pensare che l’uomo abbia contratto il virus anche senza nessuna manifestazione influenzale. Il mistero si infittisce. Sono passate solo poche ore dalla conferenza stampa con il governatore Attilio Fontana quando la ricostruzione della catena dei contagi appare chiara, eppure sembra un’epoca fa. S’interrompe la sequenza di casi collegati. La pensionata di Casalpusterlengo, 76 anni, morta il 20 febbraio, risultata positiva al test post mortem, è andata al pronto soccorso di Codogno per una crisi respiratoria, proprio nei giorni in cui si è fatto visitare anche il «Paziente uno», il 38 enne trovato per primo positivo al virus. Un incrocio con ogni probabilità risultato fatale alla pensionata. I due ricoverati all’ospedale di Cremona: la donna di 38 anni residente a Sesto ed Uniti frequenta un infermiere di Codogno. Lei, a sua volta, infetta un amico di Pizzighettone, sempre nel Cremonese, a 10 chilometri di distanza. La coppia di medici infettata di Pieve Porto Morone: lei pediatra, lui medico di famiglia con ambulatori a Guardamiglio e San Rocco al Porto tra il Basso Lodigiano e il Pavese. La donna va a fare una lastra all’ospedale di Codogno il 18 febbraio. Poi contagia il partner. Entrambi sono ricoverati nel reparto di Malattie infettive del San Matteo. Poi c’è il gruppo di giovani bloccato in Valtellina, un ragazzo risulta positivo al coronavirus: ma tutti provengono sempre da Codogno. Insomma per 45 contagiati — ribadiscono in Regione — il legame con il Lodigiano è accertato. Tra cui il cognato del «Paziente zero», anche lui comunque della zona. Ma, con il malato del San Raffaele, quello di Mediglia e l’improvvisa nuova caccia al «Paziente zero», la catena si interrompe. E torniamo alle 18.30 di ieri sera. Dalla Lombardia ai 17 casi del Veneto, la ricostruzione della catena dei contagi è sempre al centro del lavoro degli esperti e anche lì gli interrogativi sono molti. Chi ha contagiato Adriano Trevisan, il 78 enne di Mira, primo morto italiano da coronavirus? Il 9 febbraio l’uomo guarda il derby Inter-Milan alla Nuova locanda al sole di Vo’ Euganeo insieme con 8 cinesi, due rientrati di recente dalla Cina e tutti ora sottoposti al test del tampone. E il 68enne di Mira, in rianimazione, nessun contatto con cinesi e mai stato a Vo’ cosa c’entra? Ovvio, che senza l’origine dei contagi è anche più difficile decidere il da farsi per contenere il virus.

Andrea Nicastro per corriere.it il 22 febbraio 2020. Cameraman e fotoreporter sono scatenati a caccia di lodigiani con la mascherina sulla faccia, ma vallo a spiegare agli imbufaliti clienti del Bar Heaven di Castiglione d’Adda. «Vadi via», dice uno forte in grammatica. «Avvoltoio», infierisce un altro col cerchietto tra i capelli. «Appestato», è la diagnosi del terzo. L’unica signora dell’amichevole gruppo cerca di giustificarli: «Lei non è il primo giornalista che passa di qui, sa? E certe scene danno il voltastomaco. Dei suoi colleghi con la telecamera hanno visto la ragazza del Pizza Connection qui di fronte e le sono saltati addosso perché aveva la mascherina. Ha paura? Conosce qualche malato? E quella, come un’attrice, ha spalancato gli occhioni e ha mormorato qualcosa tipo: siamo nel centro dell’inferno. Appena smesso di filmare, però, la terrorizzata ha sollevato la mascherina e si è accesa una sigaretta. Ma dai! Il coronavirus non la faceva più tremare? Se questo è il clima che volete creare le fabbriche non riapriranno più» (ecco cos’ il Covid-19). Tre comuni sono al centro della zona di contagio: Codogno, Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda, ma, in tutto, sono almeno dieci i paesi coinvolti nell’allerta rossa: 50 mila persone. Bar e ristoranti chiusi per ordinanza di Comuni e Regione. L’invito è di restare in casa, limitare i contatti. Niente messe, niente sfilate di carnevale, niente partitella della domenica o concerto della banda. Qualche filiale di banca, a metà mattina, aveva già chiuso gli sportelli, così le fabbriche e i supermercati. Ma ora sarà una settimana di serrata per tutti: attività commerciali, produttive e scuole. Chi lavora fuori dalla zona rossa, è assente giustificato. Chi si sente male non vada in ospedale. Saranno i sanitari ad andare da lui, fare il tampone ed emettere il verdetto: contagiato da coronavirus sì/no. Nei paesotti attorno c’è chi accarezza l’idea di isolarli con la forza. Non si sa mai. Noa Spirito, 18 anni, racconta che nella sua chat c’è chi assicura che arriverà l’esercito a bloccare tutti, «come nel film “L’esercito delle 12 scimmie”». Loris di anni ne ha qualcuno in più e lavora per una ditta che gestisce le macchine automatiche delle merendine e dei caffè. «Niente nomi, per carità, se no mi licenziano davvero, però questa devo proprio raccontarla. Stamattina sono passato in sede che è nella provincia di Milano, a 30 chilometri da qui, per riempire il furgone, ma non mi hanno neanche fatto entrare. Vai a casa, mettiti in ferie, mi ha detto il capo tenendosi a distanza. Se i clienti sanno che sei di Codogno e qualcuno si ammala, come ci giustifichiamo?». In fondo hanno solo anticipato l’ordinanza regionale. Ma per la verità di mascherine ce ne sono in giro pochissime. «Abbiamo venduto vagoni di disinfettanti per le mani — spiega la dottoressa Martina Visigalli della Farmacia Navigli nel centro di Codogno — le protezioni per il viso invece le abbiamo finite da settimane. Lo vede il cartello? Esaurite». A Casalpusterlengo, un papà sale in auto con due bimbe: tutti con la loro brava mascherina di cartoncino rigido. Sa che quelle senza filtro non servono a nulla? Lo sguardo in risposta è di terrore. Nella scuola media di Castiglione d’Adda, la dirigente Tiziana Raino cerca di tenere i nervi saldi. «Seguiamo le indicazioni del ministero. Fino a giovedì dovevamo far lavare spesso le mani e segnalare chi, volontariamente, riferiva di viaggi in Cina negli ultimi 14 giorni. In poche ore tutto è cambiato. Appena sentito dei contagi nel Lodigiano almeno il dieci per cento delle mamme ha ritirato i bambini». Quando gli studenti «superstiti» escono alle 13 e 40 c’è chi respira nel gomito, chi si nasconde nella felpa, chi corre via. «Sono di Napoli e mio marito è calabrese. Da giù ci hanno tempestato di telefonate: siete in quarantena? Vi mandiamo da mangiare?», sorride nervosa la professoressa Lidia Romano. Non sa ancora che l’isolamento durerà almeno una settimana. Nella villetta di Castiglione d’Adda dove abitano i genitori del primo malato, mamma Francesca e papà Moreno, sono chiusi dietro le persiane. «Settimana scorsa era a cena da noi», inizia la mamma, ma il marito la interrompe. «Siamo in quarantena, non possiamo parlare, finiamo nei guai». Ma voi state bene? «Sì, per adesso sì». Lì vicino c’è la palestra Masterfit dove si allena, poco lontano il bar Picchio dove si incontra con i compagni della squadra di calcio, pochi chilometri ancora e c’è la sede della Croce Rossa dove ha frequentato un corso quando aveva già il coronavirus in corpo e altri 10 minuti di auto per arrivare all’Unilever dove lavora. Tutti luoghi, tutti compagni e colleghi che devono essere controllati e, se il caso, isolati. «Per il momento ne abbiamo individuati e contattati più di 250», dice il vicesindaco di Castiglione Stefano Priori, esausto. E il problema è che i malati sono già 14, ognuno con il suo circolo di amicizie e frequentazioni da controllare. Al Teo Bar, ristorante pizzeria all’angolo, ci si prepara a chiudere, tanto ordinanza o non ordinanza di clienti non c’è traccia. La cameriera è rassegnata, il pizzaiolo mostra nel telefonino la foto del ragazzo. «Che ragazzone sportivo. Speriamo ce la faccia». Tutt’e due sono cinesi. Nella patria d’origine non tornano da anni, ma il coronavirus è arrivato comunque alla porta del loro locale. «Dovremo chiudere per un po’, ma meglio evitare che il contagio si allarghi. Anche giù in Cina lo fanno».

Coronavirus: tour nei 10 paesi della zona rossa del Nord Italia. Le Iene News il 23 febbraio 2020. Su Iene.it vi mostriamo come sono oggi i paesi dell’epicentro del coronavirus in provincia di Lodi, in Lombardia. Daniela e Nicola ci portano in auto e con loro attraversiamo strade deserte e negozi chiusi. “Stiamo attraversando uno dei paesi interessati dall’ordinanza di isolamento”. Daniela e Nicola ci portano per le strade dei comuni del lodigiano inseriti nella zona rossa; 10 in tutto i paesi isolati tra Lombardia e Veneto. È qui l’epicentro del coronavirus dove si sono registrati i primi contagiati. Ed è da qui che sono scattati i primi protocolli di isolamento. Prima semplici inviti e appelli al senso civico, poi diventati ordinanze. “Non c’è in giro praticamente nessuno per Castelgerundo. Anche l’oratorio è interessato dalla chiusura assieme a negozi e attività”, ci dicono Daniela e Nicola mostrandoci le strade deserte. È come se fossimo in auto con loro. Il tour continua verso Castiglione d’Adda, lo raggiungono tramite la provinciale che è deserta. Nelle ultime ore sono stati attivati i posti di controllo. I 35 varchi di accesso alle zone offlimits sono presidiati 24 ore su 24. “I posti di blocco non sono fuori i paesi ma lungo quella che è stata definita zona rossa”, ci dicono Daniela e Nicola. Chi la supera rischia sanzioni penali. Chi vive all’interno dell’area può spostarsi a piedi o in auto, ma restando entro i confini della zona rossa. “Se il supermercato è a Codogno o a Casalpusterlengo possiamo raggiungerlo”. Proprio la grande distribuzione nelle ultime ore è stata letteralmente presa d’assalto. Qui su Iene.it vi abbiamo mostrato i video che alcuni di voi ci hanno inviato (clicca qui per l’articolo). Alcuni supermercati non hanno più scorte. Sono stati esauriti non solo i beni di prima necessità, ma anche le mascherine. “Nella zona rossa sono introvabili”, ci dice Daniela superando il confine del secondo paese. Entriamo a Castiglione D’Adda, durante il tragitto per le strade si nota solo una persona con la mascherina. Anche qui bar e negozi sono chiusi. In Lombardia da qualche ora è stata emessa un’ulteriore ordinanza che prevede per tutta la settimana la chiusura anticipata di tutti quei locali (a eccezione dei ristoranti) che prevedono assembramento di persone. Bar e discoteche dovranno restare chiusi dalle 18 alle 6. Il tour in cui ci accompagnano Daniela e Nicola prosegue verso Codogno. “Panifici e piccoli supermercati sono gli unici rimasti aperti”, spiegano mostrandoci le saracinesche abbassate. Tutti gli altri negozi che non distribuiscono beni di prima necessità hanno l’obbligo di rimanere chiusi. “Anche i commercianti subiscono un grosso crollo economico. Speriamo che ci saranno dei rimborsi come ha anticipato il premier Conte”, si augura Daniela. Intanto anche per la via del paese di 15mila abitanti del lodigiano non c’è nessuno. “Grazie a Le Iene per quest’opportunità di potervi parlare dei nostri problemi. Non dobbiamo avere paura, stateci vicini!”. Iene.it continua a seguire in diretta l'evolversi dell'emergenza coronavirus. E torneremo a parlarvene anche nelle puntate de Le Iene in onda martedì e giovedì della prossima settimana. 

Coronavirus in Lombardia, i racconti dalle città isolate: “Strade deserte e mascherine esaurite”. Le Iene News il 23 febbraio 2020. A Iene.it parlano i primi testimoni dalle città isolate per il coronavirus. Da ieri in una decina di Comuni tra Lombardia e Veneto c’è il divieto di tenere aperti i negozi. Abbiamo sentito la testimonianza di alcuni commercianti di Casalpusterlengo e Codogno in provincia di Lodi che ci raccontano la paura, le strade deserte e i rischi di panico, mentre tutte le attività sono bloccate. “Abbiamo dovuto chiudere l’attività da ieri e non sappiamo quando potremo riaprire. C’è chi dice che ci vorranno due settimane. Spero che lo Stato ci venga incontro”. Sono le prime testimonianze che arrivano a Iene.it dai paesi in isolamento per il coronavirus. Dal primo pomeriggio di ieri una decina di Comuni tra Lodi e Piacenza sono off limits. Nessuno può entrare e i loro abitanti sono invitati a rimanere a casa dopo che si sono registrati nelle ultime ore le prime vittime e decine di contagi con epicentro proprio in quest’area. È qui che viveva Giovanna Carminati, la seconda vittima di Coronavirus in Italia. Nei giorni scorsi era stata al pronto soccorso dell'ospedale di Codogno dove si era recato anche il  38enne da cui sarebbe partito il focolaio in provincia di Lodi. “Alle 4 del pomeriggio è arrivata l’ordinanza del sindaco e da allora siamo in attesa di novità. Intanto però devo fare i conti con la merce che va male”. A parlare è Roberto Zanoni che gestisce un bar enoteca nel centro di Casalpusterlengo. Siamo nell’epicentro del coronavirus a poco più di 50 chilometri dal centro di Milano. “Per strada non c’è nessuno. Fino a questa mattina c’era qualche supermercato aperto, ma ormai stanno chiudendo tutti”, racconta il commerciante a Iene.it. “Le poche persone che si vedono in giro sono anziani, i più esposti a questo virus”. Ma a quello che ci racconta circolano liberi senza mascherine né guanti: “Fuori dalle poche farmacie aperte sono comparsi i primi cartelli che dicono di avere esaurito le mascherine”. “Il sindaco ha invitato tutti a stare a casa. Ma rimanere chiusi dentro è difficile. E dobbiamo fare i conti anche le nostre attività e i danni economici per la chiusura”, aggiunge il commerciante. La stessa situazione la stanno vivendo anche gli abitanti di Codogno, il paese confinante dove vivono 15mila persone. Anche qui ci sono strade deserte e attività commerciali chiuse. “Da ieri mattina ha iniziato a circolare la voce e si è creato il panico. Poi quando sono arrivate le notizie più certe è iniziato il fuggi fuggi”, racconta Nuria che lavora per un ristorante nel centro del paese in provincia di Lodi. La struttura è anche un albergo con 9 camere. Da ieri pomeriggio i gestori hanno dovuto incrociare le braccia dopo l’ordinanza del sindaco. “Siamo stati costretti a rimandare a casa quattro clienti e ad annullare le prenotazioni”. Le strade assieme a scuole e negozi si sono svuotate. “Da stamattina la polizia locale controlla che tutte le attività siano realmente chiuse”.

Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 23 febbraio 2020. Ospedali in affanno, medici insufficienti e numero d’emergenza in tilt. Il coronavirus sta mettendo a dura prova il sistema sanitario italiano, complice anche la psicosi generalizzata che invaso il Paese. Business Insider Italia ha raccolto la storia di una giovane milanese con febbre e sintomi influenzali che inutilmente ha provato a mettersi in contatto con le strutture sanitarie. “Ho la febbre da tre giorni – dice – Non ho incontrato nessuno proveniente direttamente dalla Cina ma non posso essere sicura che le persone viste negli ultimi 14 giorni non abbiano avuto loro rapporti con gente tornata dalla Cina (o dal Lodigiano a questo punto)”. Per motivi professionali, infatti, la donna che lavora nel modo della comunicazione, incontra decine di persone ogni giorno. Motivo per cui mossa dal senso civico (“giusto per scrupolo” spiega lei) e poiché ha in programma di prendere “un paio di aerei la prossima settimana” decide di chiamare il 112 come suggerito a Milano: “Aspetto in linea, dopo 20 minuti mi risponde un operatore. Sono paziente perché immagino la mole di chiamate da filtrare, ma non faccio in tempo a dire qualcosa sulla mia influenza che mi dice di chiamare il 1500” istituito dal ministero. Lei prova a chiamare, ma il numero è intasato “poi casca la linea. Ho provato ininterrottamente per 24 ore, ma non c’è linea. Chiamo il medico di base, ma anche lui ha il telefono staccato. Ho dovuto rinunciare. Mi sono messa sul divano a guardare la televisione”. Prendere la linea con il numero ministeriale 1500 è semplicemente impossibile: Business Insider ha provato più volte, ma senza successo. Ma che la situazione sia complicata lo conferma anche un medico di un pronto soccorso emiliano: “Non siamo pronti a gestire l’emergenza. Il numero d’emergenza è inattivo o intasato, gli infettivologi non sono abbastanza (nonostante almeno una quarantena e diversi casi sospetti) e come se non bastasse l’ufficio igiene dice che fino a lunedì non è in grado di fare i tamponi indirizzando i casi sospetti al pronto soccorso”. Esattamente il contrario di quello che suggeriscono le linee guida del ministero.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 23 febbraio 2020. Da sabato 22 febbraio dieci comuni del basso Lodigiano considerati il più importante focolaio del Coronavirus in Italia sono ufficialmente chiusi in entrata e in uscita, con controlli serrati da parte delle forze dell’ordine e, se sarà necessario, dell’esercito. Si tratta dei comuni di Codogno, Casalpusterlengo, Fombio, San Fiorano, Castiglione D’Adda, Bertonico, Maleo, Somaglia, Castelgerundo e Terranova de’ Passerini. Ieri mattina, poco prima della decisione del Consiglio dei Ministri, sono andata a documentare la situazione nei comuni coinvolti. L’atmosfera è spettrale, le persone sono quasi tutte chiuse in casa, i treni non si fermano più nelle stazioni, in alcuni paesi non ci sono negozi alimentari aperti, alcuni sono riusciti a procurarsi mascherine professionali, altri non le trovano. Le testimonianze delle persone intervistate raccontano una realtà di paura e incertezza, in attesa di capire se il focolaio nel basso Lodigiano è sotto controllo o se ci saranno nuovi contagiati. Tutti I minimarket sono chiusi, i commercianti sono obbligati a tenere la mascherina (“E’ un delirio”), le persone escono solo per fare la spesa. A Fombio si doveva celebrare un funerale ma per disposizione del prefetto possono partecipare solo figli e nipoti. A codogno c’è il deserto. Le persone portano a spasso il cane, non fanno neanche la spesa. Il clima è di estrema cautela, i bimbi non escono, le scuole sono chiuse. Si lotta contro un nemico invisibile. Possiamo spostarci solo nei paesi che rientrano nella quarantena. Paura? Se deve capitare, capita…

Da fanpage.it il 23 febbraio 2020. La corsa ai rifornimenti era già scattata nei giorni scorsi, ma dopo la scoperta del focolaio di Coronavirus in provincia di Lodi e poi in Veneto l’Amuchina, il gel igienizzante per le mani, è diventato introvabile. Scaffali vuoti e scorte in esaurimento praticamente dovunque. E, come c’era da aspettarsi, qualcuno ha deciso di approfittarsene. Come era successo per i Nutella Biscuits: poche confezioni, rifornimenti lenti, e prezzi che salivano alle stelle: anche 50 euro alla confezione rispetto al prezzo consigliato di vendita di circa 3 euro. Lo stesso sta succedendo con l’Amuchina. I prezzi sono saliti in alcune farmacie, dove solitamente vengono venduti a tre euro, ma Fanpage.it ha constatato che gli aumenti possono arrivare ad un euro in più per confezione; il prezzo di acquisto per l’attività è di circa 2 euro, con prezzo massimo consigliato di 4.10 euro, e prezzo al pubblico di 3 euro.

Amuchina a prezzi altissimi su Amazon. Sul popolare sito di e-commerce Amazon si trovano delle offerte incredibili. Alcuni venditori privati che usano la piattaforma hanno messo in vendita l’Amuchina con rincari che superano il 700%. In uno degli annunci si legge, infatti, che 12 confezioni da 80ml di Amuchina Xgerm costano 200 euro, quindi circa 16.6 euro per ogni confezione. Quindi, ben 208 euro al litro. Un altro inserzionista è ancora più caro: 4 pezzi da 80ml di Amuchina Xgerm (totale 320ml) a 79 euro, quindi 19,75 euro per ogni confezione. Ovvero, 246,8 euro al litro. Al netto di eventuali spese di spedizione, s’intende.

Quanto costa l’Amuchina. In farmacia l’Amucina Xgerm viene solitamente venduta a circa 3 euro (prezzo massimo consigliato di 4.10). Online, il prezzo è molto simile: tra i tre e i quattro euro, sempre per la confezione da 80ml. Ma per capire la consistenza dei rincari si può fare un confronto anche con le taniche che si possono acquistare, anche online, da usare come ricarica per le confezioni portatili: una tanica da 5 litri di gel igienizzante per le mani Amuchina Xgerm si può trovare su Internet a 42 euro, quindi a 8,4 euro al litro.

Vane le parole di Ilaria Capua a Fanpage.it: Serve sforzo di responsabilità. Quanto sta accadendo a proposito dell'Amuchina sembra dimostrare che c'è gente pronta a speculare anche sulle emergenze. Esattamente il contrario di quanto aveva detto la virologa Ilaria Capua a Fanpage.it che aveva chiesto al nostro Paese di "fare il più grosso sforzo di responsabilità collettiva della nostra Storia" per fronteggiare l'emergenza sanitaria legata al Coronavirus.

Coronavirus, la lettera da Codogno: «Nella città blindata ci ritroviamo più amici di prima». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 da Corriere.it. Buongiorno dott. Severgnini, come prevedibile, Codogno - la città dove vivo - non è più in prima pagina. Un aneddoto: pensi che, quando il tutto è scoppiato, un mio ex alunno, che attualmente si trova in Perù in attesa di trasferirsi definitivamente a Miami, mi ha scritto: «Prof... tutto bene a Codogno?». Perfino in Sud America si era diffusa la fama della mia città. Ora di Codogno non si parla quasi più, se non con riferimento al ragazzo da cui il contagio sarebbe partito. Ormai noi abbiamo imparato a convivere con la situazione: le scene di isteria colletiva dei primi giorni sono quasi scomparse, mercoledì scorso abbiamo trovato il latte fresco (sembrerebbe una cosa scontata, ma ultimamente non lo era più), e ieri hanno riaperto le edicole... la piccola grande soddisfazione di un quotidiano di carta tra le mani. Ci sono ancora code davanti alle farmacie, ma in panificio e dal fruttivendolo si entra senza lunghe attese. Anche i supermercati stanno lentamente tornando alla quasi normalità. Certo, i disagi non mancano, penso soprattutto ai piccoli commercianti della centrale via Roma, per i quali quattordici giorni di chiusura potrebbero essere fatali. Lo storico pasticcere produce biscotti chiamati «Codogno»: chi li comprerà più? In alcune banche, ovviamente chiuse, non vengono più caricati i bancomat, e tanti piccoli negozi non accettano il pagamento elettronico. L’ufficio postale e gli uffici comunali sono ancora chiusi. In tutto questo, però, proviamo a trovare qualche risvolto positivo. Lungo il “viale”, uscendo a passeggio con i cani, incontriamo tantissime persone, ormai poche con la mascherina, e ci fermiamo a conversare con perfetti sconosciuti, che probabilmente diverranno amici. Le piste ciclabili dirette verso la campagna sono affollate come non mai. Cerchiamo di darci tutti una mano, dalla spesa alle piccole incombenze quotidiane. E, come ironizza qualcuno, tra nove mesi la popolazione di Codogno aumenterà sensibilmente. Prima o poi tutto questo finirà, e speriamo che tanti Italians vengano a Codogno, per accorgersi che forse non sarà una città turistica di prim’ordine ma merita comunque una visita. Vi inviterò volentieri per un gelato o un caffè. A proposito… quanto mi manca il caffè del mattino da Emiliano! Le auguro una buona giornata. Claudio Comel

Grazie Claudio, lettera intelligente e serena: ne abbiamo bisogno, di questi tempi. Mi fa piacere che abbiate trovato un equilibrio e stiate tornando verso la normalità. Per noi di Crema, come sai, Codogno - distante 24 km - è una sorta di sorellina piccola (come noi lo siamo per Bergamo, più o meno). Il posto di tanti ricordi, della strada per Piacenza, l’autostrada e il mare. Quello che è accaduto ha colpito tutti, qui nelle pianure lombarde del sud, e non ce lo dimenticheremo facilmente. Non credo che “Codogno” diventerà un nome temuto, ti dirò. Penso invece che verrà ricordata come il nome di una piccola città coraggiosa. Certo, alcuni più di altri (leggi l’ennesimo ottimo pezzo di Giusi Fasano, inviata del Corriere nella tua città.

Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 24 febbraio 2020. Alle cinque del pomeriggio compare il primo checkpoint. Una squadra di poliziotti blocca le auto dirette a Terranova dei Passerini, uno dei nomi nell' elenco della zona rossa. Quattro chilometri da Codogno, a uno e mezzo da Castiglione D' Adda, entrambi  omuni veicoli dell' infezione. Dal finestrino del sedile passeggero si fa fatica a sentire la voce dell' agente che indica la via più veloce per uscire dalla zona, ma di scendere per sentire meglio non se ne parla proprio. «No, signora. Rimanga pure in macchina». Obiezione sul merito: sto (dichiaratamente) arrivando da Codogno, focolaio dei focolai, e loro sostengono che non si può andare a Terranova, d' accordo. Ma si può andare a Milano. E quindi la domanda è: chiunque (persone infette comprese) potrebbe uscire da Codogno per raggiungere Milano? La risposta non arriva dalla pattuglia della polizia ma dai fatti: certo che può. Si va verso Lodi e si procede fino a Milano. Tutto questo per accendere i riflettori sui tempi. Nel giorno in cui cinque regioni chiudono scuole, cinema, musei, bar e qualsiasi altro luogo di aggregazione, il giorno dopo l' annunciato decreto per creare una cintura di sicurezza attorno ai Comuni-epicentro del coronavirus, quegli stessi Comuni sono accessibili in ingresso e in uscita almeno fino a pomeriggio inoltrato, alcuni fino alla prima serata. L' orologio segna le 19 quando si cominciano a notare i lampeggianti accesi delle auto delle forze dell' ordine schierate per controllare gli oltre 30 checkpoint che di fatto mettono in quarantena dieci Comuni del Lodigiano. A parte Codogno, Terranova e Castiglione la lista comprende anche Casalpusterlengo, Somaglia, San Fiorano, Bertonico, Maleo, Castelgerundo e Fombio, per un totale di circa 47 mila persone alle quali è stato consigliato di rimanere in casa ma che volendo possono uscire per le vie del proprio Comune o raggiungere gli altri Comuni della zona rossa. (…)

Da la Stampa il 24 febbraio 2020. Tutto è iniziato da qui. L' epicentro dell' epicentro dell' epidemia, chiamiamolo così, è una stradina del Comune di Castiglione d' Adda, provincia di Lodi, attualmente in una specie di quarantena con scuole chiuse, pubblici esercizi idem, negozi idem idem, molti inviti alla prudenza e a muoversi il meno possibile. La via è senza uscita: da una parte, i campi; dall' altra, un negozietto di abbigliamento, chiuso pure lui, che promette un «Super sbaracco invernale!» che, data la situazione, appare un po' jettatorio. Qui vivono i genitori del Paziente Uno, lo sportivo 38enne che è stato il primo contagiato italiano dal Coronavirus. A venti metri, stessa strada ma lato opposto, papà e mamma del Paziente Zero, il manager che, di ritorno dalla Cina, l' avrebbe contagiato. Però, a proposito dello Zero, ieri il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, ha smentito che sia lui il portatore sano del virus. «Dai test effettuati è emerso che non ha sviluppato gli anticorpi», ha spiegato Sileri. Dando quindi ragione al padre dell' ex Paziente Zero che dal balcone di casa sua spiegava ai giornalisti che suo figlio sta benissimo, che è ancora in ospedale per gli ultimi accertamenti ma presto tornerà a casa e, insomma, che l' untore non è lui. «Stava male all' idea di aver contagiato il suo amico». Fatto sta che ieri pomeriggio la stradina era presidiata da una coppia di carabinieri del Nas con guanti e mascherina e da una coppia di medico e infermiere con anche gli occhiali e le scarpe speciali. I vicini sono stati gentilmente pregati di non uscire. Poco dopo si è capito perché. È arrivata un' ambulanza e ha caricato i genitori del Paziente Uno, 78 anni lui e 70 lei. Sono usciti di casa, sono stati forniti di mascherina e poi portati all' ospedale di Cremona per controlli. In effetti prima il padre e poi la madre avevano iniziato ad avere la febbre. Tutt' intorno, c' è un paesino di 4.646 abitanti che oscillano fra la preoccupazione, l' irritazione e lo sbalordimento: mai visti tanti giornalisti, anzi mai visti dei giornalisti. I cittadini positivi ai test sono già quattro, e Castiglione fa parte di quella decina di comuni che sono diventati una specie di enorme lazzaretto con 50mila ospiti controvoglia. Nell' incertezza su cosa fare e se fare qualcosa, la gente resta tappata in casa. Già in condizioni normali, raccontano, la main street di Castiglione risulta assai meno affollata della Quinta Strada o di Piccadilly; alle tre del pomeriggio di ieri appariva addirittura spettrale, con poche persone in giro, molte con la mascherina, e in maggioranza rappresentanti dei media, anche stranieri. Una pattuglia della Polizia fermava tutti invitando alla prudenza. Doverosamente, nonostante fosse giorno di chiusura, i titolari della Farmacia Gandolfi hanno riaperto. Però basta ascoltarli per rendersi conto che la macchina organizzativa non è poi così sfavillante come si racconta. I farmacisti, Carlotta Felisi e Riccardo Comello, sono pacati ma chiari: «È evidente che ci si è mossi in ritardo, prima per bloccare gli ingressi in Italia e poi per farsi trovare pronti. Sono mesi che cerchiamo mascherine e ancora non ci sono. Idem i tamponi per il test». Loro l' hanno già fatto, «perché è sicuro che siamo entrati in contatto con qualche contagiato. Però non abbiamo ancora il risultato, cosa che ci fa ben sperare perché se è positivo informano prima». Per limitare i contatti, i clienti vengono serviti con maschera e guanti da una finestrina che si apre sulla strada. E qui veramente, con tutto che in mezzo ci sono quattro secoli e infiniti progressi della medicina, non si può fare a meno di pensare alla peste e al Manzoni: sbucasse all' angolo della strada un cerusico con la maschera dal lungo naso ripieno di essenze, non ci stupiremmo (peraltro qualcuno ha già aperto la stagione della caccia agli untori, perché le epidemie cambiano, gli uomini no). Qualche metro più in là, il negozio «Bella Sicilia» è uno dei pochi aperti, legittimamente: alimentari. Il titolare, che ne ha uno anche a Maleo, è egiziano, sposato a una siciliana, il che spiega l' insegna. Anche lui si lamenta: «Ho quasi finito le scorte, perché non è che se c' è il virus la gente smette di mangiare. Però io faccio rifornimento al mercato di Piacenza, e non so se posso andare e tornare. Dal 112 mi dicono di chiamare il 1500, ma il 1500 non risponde. Il vigile mi ha detto che se esco e rientro dal Comune devo fare il tampone, ma non so dove farlo e forse non ce ne sono più. Mi sa tanto che finirò per chiudere. Però lo scriva, che nonostante l' emergenza non ho alzato i prezzi». Insomma, non si sa bene come comportarsi. «No, io lo so: come al solito», chiosa la signora Rosanna dall' alto del suo secondo piano. D' accordo, però intanto lei resta in casa... «Solo perché al sabato faccio le pulizie. Più tardi uscirò in bicicletta o in macchina per andare a trovare mia madre come al solito». Senza maschera? «Senza. Basta stare a due metri dagli altri e non sputarsi addosso», e anche questo è vero. Oppure si può ricorrere a dei rimedi basici, tipo quello proposto dal signor Carlo Paganini, pensionato, 69 anni, uno dei pochi a sfidare il contagio per la strada: «Ma per uccidere il virus non basta fumarsi una bella sigaretta?». Eh, sciùr Carlo, forse no. Non ha paura? «Ma no. E poi, dovesse anche succedere, ormai la mia vita l' ho fatta, sono solo, pazienza». Ecco, su questo forse non saremmo troppo d' accordo.

Simona Ravizza per il Corriere della Sera il 23 febbraio 2020. Nella mappa dei 47 contagi in Lombardia, con i numeri in aggiornamento di ora in ora, c' è un prima e un dopo. Sono le 18.30 di ieri sera quando crolla ogni certezza. E dalla Lombardia al Veneto il mistero si infittisce perché in entrambe le regioni si apre la caccia ai «Pazienti zero» fondamentale per arginare i focolai. Fino alle 18.30 l' espansione del coronavirus in Lombardia, anche se con una velocità di diffusione che sorprende gli esperti stessi, è limitata a un raggio di 30 chilometri intorno a Codogno e al suo ospedale. Medici, infermieri, familiari e amici, tutti gli ammalati insomma, sono collegati tra loro. È nella cittadina da 16 mila abitanti nel Lodigiano in cui il «Paziente uno» va a cena con l' amico manager di ritorno da Shanghai il primo febbraio, beve una birra al pub di Casalpusterlengo il 4, si fa visitare dal medico di famiglia il 17 e soprattutto entra in pronto soccorso per ben due volte il 18 e il 19. Dopo le 18.30 lo scenario cambia drammaticamente. Il coronavirus arriva al San Raffaele di Milano, capitale della sanità italiana, mille posti letto per 15 mila persone ogni giorno che transitano compresi i cinquemila lavoratori. Qui è ricoverato da una settimana un uomo di Sesto San Giovanni. Per gli epidemiologi dell' Asl di Milano e dell' assessorato alla Sanità guidato da Giulio Gallera adesso la nuova sfida è capire l' evolversi della catena dei contagi, fondamentale per adottare le misure di contenimento del virus: «Non si trova alcun collegamento. È un anziano che non è mai stato a Codogno», è la voce che rimbalza a tarda sera dall' Unità di crisi in Regione dove praticamente nessuno sta dormendo da 36 ore. E spunta anche un contagio a Mediglia, alle porte sud di Milano: un 71enne i cui contatti sono ancora tutti da ricostruire. Ancora le 18.30 di ieri. È sempre intorno a quell' ora che crolla definitivamente anche la speranza di avere individuato il «Paziente zero», il 41 enne di ritorno da Shanghai: le analisi dell' Istituto superiore di sanità non riscontrano nessun anticorpo che possa lasciare pensare che l' uomo abbia contratto il virus anche senza nessuna manifestazione influenzale. Il mistero si infittisce. Sono passate solo poche ore dalla conferenza stampa con il governatore Attilio Fontana quando la ricostruzione della catena dei contagi appare chiara, eppure sembra un' epoca fa. S' interrompe la sequenza di casi collegati. La pensionata di Casalpusterlengo, 76 anni, morta il 20 febbraio, risultata positiva al test post mortem, è andata al pronto soccorso di Codogno per una crisi respiratoria, proprio nei giorni in cui si è fatto visitare anche il «Paziente uno», il 38 enne trovato per primo positivo al virus. Un incrocio con ogni probabilità risultato fatale alla pensionata. I due ricoverati all' ospedale di Cremona: la donna di 38 anni residente a Sesto ed Uniti frequenta un infermiere di Codogno. Lei, a sua volta, infetta un amico di Pizzighettone, sempre nel Cremonese, a 10 chilometri di distanza. La coppia di medici infettata di Pieve Porto Morone: lei pediatra, lui medico di famiglia con ambulatori a Guardamiglio e San Rocco al Porto tra il Basso Lodigiano e il Pavese. La donna va a fare una lastra all' ospedale di Codogno il 18 febbraio. Poi contagia il partner. Entrambi sono ricoverati nel reparto di Malattie infettive del San Matteo. Poi c' è il gruppo di giovani bloccato in Valtellina, un ragazzo risulta positivo al coronavirus: ma tutti provengono sempre da Codogno. Insomma per 45 contagiati - ribadiscono in Regione - il legame con il Lodigiano è accertato. Tra cui il cognato del «Paziente zero», anche lui comunque della zona. Ma, con il malato del San Raffaele, quello di Mediglia e l'improvvisa nuova caccia al «Paziente zero», la catena si interrompe. E torniamo alle 18.30 di ieri sera. Dalla Lombardia ai 17 casi del Veneto, la ricostruzione della catena dei contagi è sempre al centro del lavoro degli esperti e anche lì gli interrogativi sono molti. Chi ha contagiato Adriano Trevisan, il 78 enne di Mira, primo morto italiano da coronavirus? Il 9 febbraio l' uomo guarda il derby Inter-Milan alla Nuova locanda al sole di Vo' Euganeo insieme con 8 cinesi, due rientrati di recente dalla Cina e tutti ora sottoposti al test del tampone. E il 68enne di Mira, in rianimazione, nessun contatto con cinesi e mai stato a Vo' cosa c' entra? Ovvio, che senza l' origine dei contagi è anche più difficile decidere il da farsi per contenere il virus.

"Vi parlo dal paese fantasma di Codogno". Il racconto di uno dei residenti di Codogno che spiega come è cambiata la vita di un'intera comunità in queste ultime ore. Simone Savoia, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. È finita la pace a Codogno. 15mila abitanti, secondo comune più popoloso del lodigiano, è un po’ il “ground zero” della crisi italiana da COVID-19. Il terzo contagiato è proprio della cittadina fino a ieri conosciuta in particolare per la produzione storica di biscotti artigianali. Marito e moglie, gli altri due contagiati, sono invece di Castiglione d’Adda, 8 chilometri più a sud. “Ma lui lo conosco, credo. Si vede spesso qui in città”. A parlare è un’abitante di Codogno. La voce è preoccupata, affannata. “Sembra un film. Oggi è venerdì, c’è il sole, è giorno di mercato. In queste occasioni ci sono centinaia di persone, invece…”.

Strade deserte?

“Mentre rientravo a casa avrò visto al massimo una quindicina di persone. Alcuni hanno messo la mascherina. E anche il bar centrale, quello sul corso, è quasi deserto”.

La Regione Lombardia, per bocca dell’assessore alla sanità Giulio Gallera, ha invitato tutti gli abitanti di Castiglione d’Adda e di Codogno a restare in casa. Si è diffusa la disposizione? La gente l’ha saputo?

“Stamattina dovevo partecipare a un’iniziativa benefica per gli anziani dell’ospizio, mi è stato detto di non andare. Se non per disposizione delle autorità, c’è la paura. Ho sentito alcuni conoscenti che vorrebbero raggiungere case in montagna o andarsene altrove”.

Cosa sta succedendo a Codogno ora?

“L’ospedale è totalmente chiuso, sigillato. Ho sentito che a Castiglione d’Adda girino per strada gli operatori per distribuire le mascherine. Spero arrivino anche qui, vorrei darne una a mio suocero che non sta tanto bene. Inoltre voglio capire la situazione delle scuole del territorio, sono una mamma”.

Ha parlato con qualcuno mentre rientrava a casa?

“No, sono tornata abbastanza in fretta. Ma ho visto la paura in faccia alle persone che incrociavo per strada. Mio marito è rientrato dal lavoro qui in zona con un senso di desolazione. Ma la cosa che mi preoccupa è un’altra”. Quale? “Al di là dei due contagiati, domenica scorsa c’era il Carnevale a Codogno. La sfilata dei carri, le famiglie, i bambini in maschera. C’era tantissima gente!”.

Il medico guarito: “Come un’influenza, ammalarsi non è facile”. Asia Angaroni 27/02/2020 su Notizie.it. Aumentano i casi in Italia: sono 456 le persone contagiate, 131 in più in un solo giorno. Ma di fronte alla paura dilagante e alla psicosi Coronavirus che allerta gran parte della popolazione, Edmondo Vetrugno, il medico guarito, rassicura: “È come un’influenza e ammalarsi non è facile”. A calmare dal panico generale ormai diffuso in tutto il Paese, dalla paura che ha spinto in molti a fare razzie nei supermercati e nelle farmacie, ci ha pensato un medico che lavora presso l’Unità operativa di Medicina interna a Piacenza, a “meno di 15 chilometri dal paese focolaio d’infezione: Codogno”. Edmondo Vetrugno è un medio salentino, che con la moglie lavora all’ospedale di Piacenza. In quella stessa struttura era arrivata una donna positiva al Coronavirus. Anche lui è risultato infetto, ma probabilmente era stato contagiato a Codogno. Ora sta bene ed è praticamente guarito. Lui stesso ha rassicurato: “Sto bene, ho superato la malattia con pochissimi sintomi. Ora sono a casa in quarantena“. Poi il consiglio: “Quindi: niente panico!“. E ancora: “Sottoponetevi ai tamponi, soltanto se ci sono sintomi”. Sulla malattia, da esperto nel settore, ha dichiarato: “Si comporta esattamente come la banale influenza e nella stragrande maggioranza dei casi è paucisintomatica“. Inoltre, il contagio “non è così semplice per fortuna, “tanto che tutti i colleghi e gli amici (compresi mia moglie e mio figlio) venuti a contatto con me non hanno a distanza di cinque giorni sviluppato sintomi”. Quindi, sperando di calmare gli animi agitati di molti, ha aggiunto: “Pensate che io ho anche starnutito più volte nello studio in cui lavoro a stretto contatti con i miei colleghi”.

La testimonianza: «Io, medico di Novoli contagiato dal Coronavirus». Il salentino Edmondo Vetrugno lavora all’ospedale di Piacenza. Edmondo Vetrugno il 26 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiono. Edmondo Vetrugno, originario di Novoli (Lecce) e medico ospedaliero della Medicina Interna a Piacenza, è tra i sanitari risultati positivi al tampone del Coronavirus. Ecco stralci della sua testimonianza. La città in cui lavoro e risiedo dista meno di 15 km dal paese focolaio d’Infezione: Codogno. L’inizio della situazione apocalittica risale a mercoledì 19 febbraio data in cui un giovane paziente veniva ricoverato presso l’ospedale di Codogno in Medicina per polmonite e febbre alta e poi per l’aggravarsi della insufficienza respiratoria , trasferito in Terapia Intensiva. Tale paziente è risultato positivo al test per Coronavirus. Nei giorni successivi personale medico e sanitario ospedaliero ha accusato sintomi influenzali (faringite, rinite, tosse secca, febbre, lieve nausea), risultati alcuni di questi positivi sono subito scattate misure di contenimento ed isolamento. Essendo l’ospedale di Codogno al confine sud della provincia di Lodi, ed essendo stato interdetto l’accesso al pronto soccorso, molti pazienti (tra cui tanti potenziali infetti) si sono riversati sui più vicini ospedali, tra cui Piacenza. E da qui parte la mia personale esperienza: in data 21 febbraio veniva ricoverata nel mio reparto una paziente anziana residente a Codogno con febbre alta, polmonite grave, il medico di guardia (mia moglie) visita la malata con tutti i presidi di sicurezza, isola la paziente e successivamente la fa trasferire in reparto più idoneo, il tampone darà poi esito positivo! Conseguentemente sabato 22 tutto il personale venuto a contatto con l’ammalata veniva sottoposto a tampone, e anche io convivendo con una potenziale contagiata. L’esito del tampone dava negatività per tutti, tranne che per me! D’accordo coi colleghi delle Malattie Infettive si decide per un mio ricovero in ambiente isolato in Malattie Infettive. Nel frattempo altri sanitari del mio ospedale risultavano positivi, così come altri pazienti venivano scoperti positivi in Lombardia e regioni limitrofe. Questa in breve l’evoluzione della diffusione che sta portando la cittadinanza di questa tranquilla città in cui risiedo dal 2006 a scene da guerra, con paralisi completa di attività produttive, commerciali, sociali, assalto ai supermercati e farmacie: coprifuoco completo. Ma ora vorrei raccontare la mia vera storia clinica nella speranza che contribuisca a evitare la cosiddetta «psicosi da virus letale». Partiamo dai miei potenziali contatti: in data 15 febbraio mi ero recato con famiglia ed amici a Codogno per il carnevale, qui entravo in un affollato bar e dopo qualche ora rientravo a Piacenza. In data 20 e 21 febbraio ho avuto sintomi da raffreddore con rinite ma non febbre e nemmeno tosse, sono andato regolarmente a lavoro visitando , parlando ed incontrando gente e ovviamente ho condotto la mia normale vita sociale: stimo di aver incontrato decine di persone. Bene, tutti i colleghi e gli amici (compresa moglie e figlio) venuti a contatto con me non hanno a distanza di 5 giorni sviluppato sintomi, molti hanno già avuto esito del tampone negativo, altri in attesa ma molto probabilmente negativi (clinicamente stabili). L’amico di Codogno è febbrile in isolamento a casa in attesa di tampone. Io sto benissimo, non ho nemmeno più raffreddore o altri sintomi e probabilmente sarò dimesso e continuerò la cosiddetta quarantena (14 giorni) a casa da solo, mentre mia moglie starà col bambino dai suoi. Le conclusioni: 1) la malattia si comporta esattamente come la banale influenza e nella stragrande maggioranza dei casi è paucisintomatica, si risolve in 3-4 giorni senza esiti. 2) il contagio non è così semplice per fortuna e si verifica più che altro nei confronti di pazienti anziani o pluripatologici, e la gravità dei sintomi è correlata a questa tipologia di soggetti. 3) non tutti coloro che hanno sintomatologia influenzale banale devono fare il tampone, poiché è inutile sapere di essere positivi, se non si verifica dispnea, certamente però è utile indossare una mascherina di quelle semplici se si è a contatto con persone anziane o fragili. 4) l’imperativo categorico dev’essere tutelare gli anziani e seguire il vademecum diffuso dal Ministero della Salute. 5) probabilmente il mio contagio è avvenuto in quel bar di Codogno super affollato, tra l’altro io stavo prendendo terapia antibiotica per problemino al dente del giudizio, quindi forse le mie difese immunitarie erano un po’ ridotte.

Pierdante Piccioni, primario a Codogno: «Ho perso 12 anni di memoria. Ora aiuto chi esce dalla rianimazione». Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Candida Morvillo. Questa è la storia di un primario che è stato, parole sue, non un barone ma un «principe bastardo» delle corsie e che un giorno si ribalta in auto, va in coma, si sveglia e non ricorda gli ultimi 12 anni della sua vita. Si crede ancora un medico di provincia, non un luminare con cattedra a Pavia e incarichi al ministero della Salute. Però, si rimette a studiare, riconquista un posto da primario, al pronto soccorso di Codogno. E sì, siamo a qualche anno dopo e in zona coronavirus (qui lo speciale «La parola alla scienza). Però lui, intanto, è diventato un altro medico: ha scoperto l’empatia. «Ho fatto un master in Pazientologia — racconta Pierdante Piccioni — non c’è come provare, per capire com’è stare dall’altra parte». La sua missione diventa aiutare i malati usciti dalla fase acuta, per non farli sentire abbandonati come si era sentito lui. Perciò apre a Lodi un’unità nuova, di Integrazione Ospedale Territorio e Appropriatezza della Cronicità. Per destino, ora, segue i pazienti in remissione dal Covid-19. «È la mia squadra che decide chi può essere trasferito di reparto o ospedale o dimesso — spiega —, perché di Covid si guarisce e non è vero che lasciamo morire i più anziani né altri. A prescindere dal coronavirus, dalla sua storia è nata una fiction, Doc nelle tue mani, su Raiuno dal 26 marzo, prodotta da Lux Vide, protagonista Luca Argentero. «Il master in Pazientologia inizia il 31 maggio 2013 — racconta —, mi sveglio convinto che sia il 25 ottobre 2001 e di aver portato mio figlio di 8 anni a scuola. Meno 12 diventerà il titolo del mio primo libro, scritto per Mondadori con Pierangelo Sapegno. Da questo buco nero, nasce una vicenda così incredibile che spesso non sono stato creduto: prima che fossero evidenziate lesioni al cervello, c’era il dubbio che mentissi». Per la prima volta, Piccioni si ritrova paziente: «Da medico che guardava dall’alto in basso, ero il malato che guardava dal basso in alto. Imparare quello sguardo ha cambiato tutto». Ha dovuto reimparare tanto: ragionava in lire, non sapeva di avere una mail, non riconosceva i due figli ormai ventenni. E aveva dimenticato le nozioni mediche degli ultimi anni: «Mi è stato proposto il ritiro, ma sono tornato a studiare. Mi hanno messo a fare il bidello in un ufficio, il mio capo era un infermiere, ma a me bastava poter studiare e leggere le mie 60mila mail da primario per capire chi fossi stato».

Era stato un medico «di quelli che “comanda chi sa, cioè io”. Corretto, ma spietato. Un pirla». Un medico empatico, invece, spiega, sta zitto e ascolta: «Cura la persona, non la sua glicemia, e offre speranza». Col coronavirus, aggiunge, «al medico manca il senso del tatto, ma deve ascoltare, parlare, e i suoi occhi devono accogliere il paziente. Gli occhi sono tutto, se sei bardato con le tute antivirus». Ora Piccioni non ha tempo per scrivere, ma il 31 marzo uscirà Colpevole di amnesia, sempre Mondadori, sempre con Sapegno, «un legal thriller, su un tale accusato di un delitto commesso sotto amnesia». Intanto, il Covid-19 gli ha insegnato qualcosa: «È il momento dell’ubbidienza a chi ne sa di più. Sembra brutale, ma usare le parole adatte affinché la gente capisca fa parte dell’empatia».

«Le cure, i dolori, la paura. Vi racconto i miei 10 giorni passati in terapia intensiva». Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. «Sono ricoverata da dieci giorni. Le mie condizioni sono peggiorate: sono svenuta in due occasioni, sono a letto sotto ossigeno e assumo la terapia mattina e sera, oltre a quella endovenosa fissa. La febbre da due giorni non c’è più, ma i polmoni hanno bisogno di aiuto...». Ospedale di Cremona, reparto Malattie infettive. Alessandra ha 56 anni, lavora come operatrice socio sanitaria nella Rsa di Maleo. Viene da Codogno, ha due figli e una nipotina. Alessandra è attaccata notte e giorno all’ossigeno, non può parlare. Racconta la sua esperienza scrivendo dal cellulare: «L’unico collegamento che mi è rimasto con il mondo».

Quando ha scoperto di essere positiva al coronavirus?

«Mi è venuta la febbre dopo una notte al lavoro: mal di ossa, tosse leggera, curata come influenza, tachipirina e mucolitico».

Ma non è guarita...

«Ogni giorno peggioravo. Ho chiamato il 112, ma non avevo avuto contatti con persone infette. Dopo 9 giorni di febbre alta i miei figli hanno richiamato un po’ arrabbiati. È arrivata l’ambulanza, erano tutti con la tuta...».

Quel giorno Codogno era già zona rossa.

«Ho avuto un primo ricovero a Cremona in un poliambulatorio adibito ad ospedale da campo con brandine della Protezione civile. Ho fatto li i primi esami. Quando ho avuto il risultato mi hanno spedita negli infettivi».

Cosa ha pensato quando le hanno detto la diagnosi?

«Sembrava di stare in un girone dell’inferno. Te lo dicono ma non capisci cosa ti aspetta ed è meglio così. La cura ti ammazza. Piega il tuo corpo, il mal di stomaco con nausea e vomito è lancinante, la febbre ti fa bruciare».

E adesso come sta?

«Lunedì è stata la mia giornata peggiore. Impotente davanti al ricovero di mio marito, in terapia subintensiva a Lodi. Non vedevo via d’uscita. Mi sentivo soffocare. Avrei voluto urlare, perché a Lodi è già ricoverato anche mio papà...»

Per coronavirus?

«Polmonite, non ha ancora l’esito del tampone».

Si è chiesta come ha contratto il Covid-19?

«La bidella della scuola di mia nipote è risultata positiva. Le parlavo mattina e pomeriggio. Anche l’impiegata della Rsa dove lavoro è stata contagiata e ricoverata sempre qui a Cremona. Ma l’ho saputo dopo. Oppure l’ho preso altrove senza saperlo...».

In ospedale avete informazioni di quel che succede intorno?

«Non è ammessa alcuna visita. La stanza ha due letti, ma la tv è girata verso l’altro letto, solo lì c’è l’auricolare. Il tempo non passa mai».

E i medici?

«Entrano al mattino per la visita e sono gentili e disponibili. Il personale anche, ma ha disposizione di entrare il meno possibile. A volte bussano dal vetro...».

Chi c’è in stanza con lei?

«Una signora molto più giovane, è ricoverata da 12 giorni. Si è aggravata, non riusciamo a parlare. Anche il mangiare... tu vorresti finirlo, invece dopo due cucchiai hai già nausea».

A cosa si pensa per superare questo momento?

«Ai miei due figli, a mio marito. Ha 58 anni, con i suoi splendidi occhi azzurri ha rallegrato le nostre vite da quando ci siamo sposati. A maggio saranno 33 anni... A mia nipotina di 8 anni che mi ha mandato via telefono un disegno. Ha riprodotto la stanza e le terapie, tutto con l’immaginazione. Ora capisce?».

Cosa?

«Spero di essere stata chiara: questa non è una banale influenza».

Coronavirus in Lombardia: la notte del primo paziente, a Codogno arrivò un altro contagiato. Non solo Mattia, il 20 febbraio ricoverato in rianimazione anche un 44enne subito trasferito al Sacco di Milano. La Repubblica l'11 aprile 2020. Non c'era solo Mattia, il Paziente 1 dell'emergenza coronavirus in Italia, ricoverato il 20 febbraio in gravi condizioni all'ospedale di Codogno, in provincia di Lodi. A 50 giorni dall'inizio dell'epidemia spunta un Paziente 3, un uomo di Castiglione d'Adda di 44 anni ricoverato nella stessa struttura poche ore dopo Mattia, pure lui positivo al tampone e pure lui ricoverato in rianimazione per polmonite bilaterale e ora guarito. Nella serata di quello stesso giorno, quasi in contemporanea con l'esito di positività per il Paziente 1 e per la moglie asintomatica - nell'elenco ufficiale Paziente 2 - al pronto soccorso dell'ospedale della cittadina lodigiana si era presentato un 44enne con un quadro di polmonite bilaterale interstiziale. Immediatamente fu sottoposto al tampone che poche ore dopo, all'alba del 21 febbraio, diede esito positivo e poiché il suo stato era grave ma non come quello di Mattia, quel giorno stesso venne trasferito in terapia intensiva al Sacco di Milano da dove, è stato riferito, è stato dimesso da poco.

Virus, la strage silenziosa in Emilia: ​"Perché nessuno parla di noi?" Piacenza investita dal virus. La zona rossa mancata. L'indagine della procura. l sindaco: "Conte non mi ha mai risposto alle lettere". Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 13/04/2020 su Il Giornale. Ci siamo concentrati su quell'immagine, drammatica, dei camion dell'esercito carichi di bare che lasciano una Bergamo sopraffatta dal coronavirus. Ci siamo fissati a tal punto su Alzano Lombardo, Nembro e i paesi della Val Seriana che forse ci siamo dimenticati qualcosa. O qualcuno. "L'impressione che ho avuto è che per molto tempo Piacenza non venisse neppure menzionata. Nemmeno l'opinione pubblica aveva la percezione di quello che stava succedendo da noi". Patrizia Barbieri un mese fa ha contratto il virus maledetto. "Sono provata, ma sto meglio", sussurra con un filo di voce. È anche il sindaco di Piacenza, una delle prime città a trovarsi investita dall'emergenza contagi. Non urla, non fa polemica eccessiva. Ma porta su di sé il peso di una sfida enorme, di una "situazione che è peggio di un terremoto". Codogno, il paese da cui tutto è nato, dista poco più di 16 chilometri, troppo poco per un virus arrivato da un remoto mercato di Wuhan. Per uno scherzo del destino, Sar-Cov-2 potrebbe essersi diffuso a Piacenza proprio per colpa del mercato. "Qui il sabato si riversa tutta la bassa lodigiana", racconta Tommaso. Se, come probabile, l'infezione circolava già da qualche giorno, è difficile immaginare che la zona rossa disposta su Codogno possa averne fermato l'avanzata. Il sindaco ci tiene a precisarlo: "Sono convinta sia importante che tutti guardino a Piacenza, perché siamo la trincea di una guerra batteriologica". I numeri le danno ragione. Il Piacentino conta oltre 3mila contagi e più di 700 decessi certificati Covid-19. Sembrano numeri distanti da Bergamo, che piange 2.700 morti e oltre 10mila positivi. Ma se si osserva l'entità dell'epidemia in rapporto al numero di abitanti il quadro cambia colore. Qui abitano solo 287mila persone, nella Bergamasca oltre 1,1 milioni. In tutte le statistiche Piacenza supera i territori di Alzano e Nembro. La sua prevalenza (n° di casi ogni mille abitanti) è 10,7, la provincia di Bergamo si ferma a 9,3. Fuori dai freddi numeri significa che i piacentini hanno più probabilità di infettarsi, ammalarsi. Morire. I sindaci hanno sfogliato i registri dell'anagrafe per scoprire che se nel primo trimestre del 2019 erano spirate 1.126 persone, quest'anno i cimiteri hanno accolto 2.187 corpi. Il doppio. Solo a marzo se ne sono andati in 1.428, di cui almeno 502 senza una spiegazione. Nomi, non numeri. Tra le vittime ci sono Giovanni Malchiodi, sindaco di Ferriere; Nelio Pavesi, consigliere comunale leghista; don Paolo Camminati, solo 53 anni, uno dei sei parroci diocesani richiamati dal Padre. È un lungo corteo di funerali mai celebrati. Se non vi basta, sappiate che anche sui giornali locali piacentini ogni giorno si sfogliano sette pagine di necrologi fitti. Proprio come a Bergamo. Il paradosso è che qui, nonostante la poca attenzione mediatica concentrata a crocifiggere la sanità lombarda, si è ripetuto l'identico copione di Alzano Lombardo. Il 22 febbraio, lo stesso giorno in cui i medici dell'ospedale Pesenti Fenaroli scoprono che gli sta per arrivare addosso uno tsunami, il nosocomio di Piacenza riscontra il primo caso positivo. È una signora di 82 anni di Codogno. Quando il suo test risulta positivo, l'onda si è ormai abbattuta sulla città. Due giorni dopo, una domenica, i casi saranno già nove tra cui due medici e una infermiera. Nelle stesse ore nella Bergamasca, cuore del caos ospedaliero chiuso e poi riaperto, gli infetti erano ancora soltanto quattro. Se vi chiedete perché ad Alzano non hanno sbarrato il Pronto Soccorso, sappiate che nemmeno l'ospedale di Piacenza verrà mai chiuso. Come giusto che sia. Il racconto lo fa un'infermiera, che chiede di rimanere anonima: "Fino a lunedì 24 febbraio non era stato realizzato alcun triage sicché al Pronto soccorso affluivano indistintamente persone che denunciavano febbre e tosse sia altri con differenti tipi di disturbi". Sembra di vedere un film già noto. La procura, proprio come nella Bergamasca, ha già avviato accertamenti per far luce sull'epidemia, in particolare sulla carenza di dispositivi di protezione individuale per i sanitari. È stata la prima procura a muoversi, ma non ha fatto scalpore. "Fatalmente in molti casi si sono verificati contagi sia tra il personale medico ed infermieristico, sia tra coloro che erano stati al pronto soccorso - continua l'infermiera - Molti di questi ultimi, dimessi magari poche ore dopo, se ne sono andati a casa e qui hanno finito per contagiare oltre a se stessi anche i familiari. E da lì che è iniziata la catena di Sant'Antonio. Per di più alcuni malati venivano inviati nella fase iniziale dal pronto soccorso al reparto di medicina interna e solo successivamente, a risultato del tampone noto, si scopriva che erano affetti da coronavirus”. Anche Report ha messo il naso sulle vicende piacentine, ipotizzando che il "paziente zero" prima di Mattia venisse proprio da qui. Una ricostruzione smentita dall’Asl piacentina. Ma il punto non è capire su chi casca l'etichetta di untore originale. Quel che conta è ammettere che di fronte a un nemico sconosciuto e sbarcato all'improvviso nessuno era davvero pronto per reagire. Né nella azzurra Lombardia, né nella rossa Emilia. Basti pensare che la stessa domenica in cui divampa il fuoco, il commissario indicato dal governatore Bonaccini per guidare l'emergenza è ottimista: "Vorrei dire - afferma Sergio Venturi - che siamo di fronte ad un virus nuovo, ma non ci sono motivi per lanciare allarmi che possano ingenerare panico tra le persone". Chissà se migliaia di morti dopo ripeterebbe le stesse frasi. Vista la vicinanza a Codogno, molti cittadini si sono chiesti perché a Piacenza nessuno abbia pensato di creare una "zona rossa" come nel Lodigiano. "Lo avevo capito sin da subito che non aveva senso tenere loro chiusi e noi aperti", dice Rino Russotto, presidente uscente della sezione locale dell'Associazione dei carabinieri. "I confini regionali non fermano mica un virus minuscolo. E tra noi e Codogno ci sono pochi minuti di strada". Serviva una zona rossa? "Senza ombra di dubbio". Il sindaco Barbieri ripete più volte di aver fatto tutto quello che era in suo potere per contenere il contagio. Almeno finché il governo non le ha tolto la possibilità di emettere ordinanze: "Ho subito chiuso le scuole, i bar e i centri diurni per anziani e disabili. Ma in quel periodo non tutti lo accettavano. Si diceva: ma non sarà eccessiva? Si pensava che non fosse qui la fonte del contagio. Molti banalizzavano, spinti da chi andava dicendo che si trattava di poco più di una semplice influenza". Il 23 febbraio la Regione firma l'ordinanza per chiudere eventi e musei insieme a Piemonte, Friuli e Veneto. Il problema è che le disposizioni riguardano tutta l'Emilia, e non la sola Piacenza dove l'epidemia galoppa. Solo un mese dopo, quando ormai la provincia è in cima a tutte le classifiche, il governatore differenzia Piacenza dal resto della regione con misure restrittive ad hoc. Bonaccini avrebbe potuto istituire la zona rossa? Forse sì, almeno se diamo per scontato che Fontana avrebbe potuto fare lo stesso in Val Seriana. In realtà Conte in quei giorni rivendicava per sé quei poteri. Prova ne è il fatto che quando le Marche provano a chiudere le scuole in autonomia, il governo decide subito di impugnare l'ordinanza. In fondo governativa è anche la scelta di chiudere Codogno. Quando il premier Conte il 1 marzo crea le zone rosse a due passi dalla città, sceglie non includere Piacenza. Perché? I numeri sono preoccupanti, eppure il governo non fa nulla per i focolai che divampano nel piacentino proprio come accade ad Alzano e Nembro. Ci arriverà solo nella notte tra il 7 e l'8 marzo, ma ormai i contagi sono 528 (su 1.180 in regione) e già si contano 24 decessi. "Il governo avrebbe dovuto avere per noi un'attenzione diversa", ammette il sindaco Barbieri. Ma così non è stato. E pensare che l'esecutivo era stato informato: il 26 febbraio, in Parlamento, Tommaso Foti (Fdi) aveva avvertito che "i divieti a macchia di leopardo non servono a niente e a nessuno". "Avevo fatto presente che Piacenza e quelle che poi sono diventate le zone rosse erano così compenetrate da rendere necessario di estendere il lockdown anche alla città emiliana", spiega il deputato. "Perché nessuno ne parla? Se lo avessero fatto da subito, i contagi oggi sarebbero molti di meno. Ma il governo non ha voluto ascoltarci: i ministri Guerini e De Micheli dicevano che non ce n'era bisogno". Di richieste d'aiuto rimaste senza risposta ne sa qualcosa anche il sindaco Barbieri. Per ben due volte ha preso carta e penna per chiedere a Conte, Di Maio, Lamorgese, Patuanelli, De Micheli e Bonaccini quel minimo di attenzione in più non solo sanitaria, ma anche economica. "Abbiamo un problema di tenuta di industrie, imprese, Pmi, artigiani e professionisti", dice il primo cittadino che è diviso tra la speranza che il governo non allenti ora le misure restrittive ("anche oggi ho contato 13 vittime") e la consapevolezza di dover affrontare "la sfida della ripartenza". Da Piacenza partono tre missive dirette a Palazzo Chigi, le prime due il 26 e il 29 febbraio. "La nostra realtà vede un crescendo di contagi nonché di persone in isolamento", scrive Barbieri al premier chiedendo "misure di sostegno come quelle adottate per la zona rossa" altrimenti il "sistema piacentino avrà pesantissime ricadute che si ripercuoteranno sull'intero Paese". L’invito a valutare "correttamente ed adeguatamente" la posizione di Piacenza cade però nel vuoto. Il 3 marzo il sindaco ci riprova, insistendo "per un intervento urgente" a favore del tessuto economico provinciale. I toni stavolta sono più duri: "Ciò che trovo inaccettabile è che in altre regioni d'Italia, ma soprattutto all'estero, non venga più consentito ai nostri operatori di consegnare merci, inviare tecnici e portare a termine le consuete operazioni commerciali". Servirebbero "misure straordinarie", una zona rossa allargata. Lo chiede la città, l'economia, la situazione epidemiologica di un "territorio già duramente penalizzato sul piano sanitario". Ma Giuseppe Conte non terrà mai in considerazione le lettere del sindaco in prima linea. "No, non ho mai avuto risposta", confessa Barbieri. "Solo una videochiamata col presidente con l'impegno a tenere in considerazione le richieste”. Aspetta e spera. E intanto la morte dilaga.

·         La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Coronavirus, i circoli di bocce focolaio nascosto: morti e contagiati, i numeri impressionanti. Libero Quotidiano il 09 aprile 2020. La strage nascosta nelle bocciofile. I circoli frequetatissimi dagli anziani, ma anche dai protagonisti di questo sport "minore" eppure storico e popolarissimo, contano 250 morti di coronavirus, 35 solo a Bergamo, e potrebbero rappresentare uno dei focolai segreti e mai troppo considerati di questa epidemia. La testimonianza commossa al Corriere della Sera di Roberto Nespoli, presidente della sezione bergamasca della Federazione italiana bocce, è esemplare. "A un certo punto ho smesso di contare gli amici scomparsi perché ho dovuto lottare per la mia, di vita. Sono rimasto contagiato, ho passato 15 giorni che non augurerei al peggior nemico. Ne sono uscito e domani ho una radiografia di controllo ai polmoni: incrocio le dita". Un milione di appassionati, 90mila tesserati, 1.600 circoli con spesso annesso bar e tavolini per la convivialità: questo il bacino degli interessati. Le bocce in alcune aree della Lombardia "sono una religione", e questo fa capire la platea esposta al contagio (soprattutto di over 65 anni), quando tra gennaio e inizio marzo nessuno aveva ancora pensato di chiudere i circoli. "Centinaia di positivi e almeno 250 decessi - spiega al Corsera il presidente nazionale Marco Giunio De Santis - soprattutto tra Veneto, Friuli, Lombardia, Piemonte e Marche, regioni di grande tradizione".

Mirko Polisano per “il Messaggero” l'1 marzo 2020. C'è anche la partita Atalanta - Valencia, che si è svolta a Milano dieci giorni fa, nelle tappe tracciate dalla task force di Asl e Spallanzani che sta monitorando gli spostamenti di G.E, la donna di 38 anni di Fiumicino, risultata positiva al test del Coronavirus. Il match di Champions League ha trasformato San Siro in un focolaio di contagio che ha infettato almeno altre due persone: un reporter spagnolo e un cittadino croato. Entrambi erano allo stadio. È qui che è stata colpita dal virus la 38enne cameriera di Fiumicino? Probabile. Il team di professionisti ha iniziato a ricostruire tutti i movimenti della famiglia. A partire proprio dalla giovane mamma. Ci sono dieci giorni di buco a cui rimediare, nonostante la 38enne - prima a essere contagiata - abbia dichiarato di essere stata in auto-isolamento. Alcuni punti fermi.  La donna raggiunge il nord Italia (molto probabilmente Milano) in aereo il 19 febbraio scorso. Qui, la sera stessa assiste alla partita degli ottavi di finale di Champions, vinta dai bergamaschi per 4-1. Fino al 21 si sposta tra Milano e Alzano Lombardo, alle porte di Bergamo. In questo paesino di poco più di 13mila abitanti, si è recata all'ospedale del posto per assistere il padre malato. Altro allert per la task force al lavoro. Il presidio sanitario di Alzano è un focolaio: tra i positivi al Coronavirus c'è anche un primario. In quest'area, la crescita dell'epidemia è stata rapidissima, perché da zero casi della scorsa settimana nel giro di 5 giorni si è arrivati a 103 contagiati. La donna, poi, avrebbe dichiarato espressamente ai medici di essere entrata in contatto con persone infette. Il 22 mattina, poi, rientrerebbe a Fiumicino, nella sua abitazione dell'Isola Sacra dove iniziano a manifestarsi i primi sintomi. Il viaggio di ritorno è sempre in aereo. La squadra di tecnici ora infatti è sulle tracce degli altri passeggeri che erano a bordo di quel boeing. Secondo le autorità sanitarie dovranno essere sottoposti anche loro a profilassi. Non è escluso che la 38enne potrebbe aver contagiato anche loro. Nel mirino della squadra di specialisti, poi, gli spostamenti del marito L.S., idraulico di 39 anni, fino a ieri asintomantico, e anche lui - insieme alla loro bambina di 10 anni - colpito dall'infezione, mentre l'altro figlio di 5 risulta negativo al Covid-19. La preoccupazione è che il numero dei contagiati possa aumentare in modo esponenziale. «Non c'è un focolaio di Coronavirus a Fiumicino», ribadiscono le autorità sanitarie. Se da una parte arrivano queste rassicurazioni per i residenti del comune costiero alle porte di Roma, dall'altra una task force sta «tracciando» i movimenti della famiglia dell'Isola Sacra. A essere contattati saranno i clienti del 39ennne idraulico, così come i piccoli alunni compagni di classe della bambina che frequenta la quinta elementare all'istituto comprensivo Cristoforo Colombo. È stata ricostruita l'intera filiera dei contatti. Sono 40 i contatti posti sotto sorveglianza sanitaria domiciliare. Tra questi, 20 sono i compagni di classe della bimba e altri 20 bambini che con lei frequentavano il corso di inglese. Tutti dovranno seguire le modalità previste dai protocolli operativi della quarantena presso il loro domicilio sotto il controllo della Asl Roma 3. Mentre per una insegnante si è deciso, in via precauzionale, il ricovero presso l'istituto Spallanzani per problematiche croniche pneumologiche. Tutte le persone vicine alla famiglia dell'Isola Sacra saranno sotto sorveglianza attiva. Il piano di emergenza scatterà solo per i contatti stretti che presentano particolari sintomi. Ieri, altri tre tamponi hanno dato esito negativo. Tra questi anche il piccolo di cinque anni, l'unico della famiglia a non aver contratto il virus.

Da corrieredellosport.it il 17 marzo 2020. Nuovi casi di positività al Coronavirus nella rosa del Valencia. La società ha diramato una nuova nota specificando che “tutti sono asintomatici e sono in quarantena presso le proprie abitazioni”. Nel comunicato si fa anche riferimento alla partita di Champions contro l’Atalanta: “Nonostante le rigide misure adottate dal club dopo aver giocato una partita di UEFA Champions League a Milano il 19 febbraio 2020, un'area che giorni dopo è stata confermata ad alto rischio dalle autorità italiane, allontanando il personale dall'ambiente di lavoro e dal pubblico in generale, gli ultimi risultati mostrano che l'esposizione ha causato circa il 35% dei casi positivi”.

Coronavirus, il caso Valencia: «Da noi il 35 per cento di contagiati dopo la partita di Milano con l’Atalanta». Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. C’è grande paura al Valencia. Si percepisce, si tocca per mano. Il club spagnolo ha fatto sapere che il 35% del gruppo (non solo calciatori, ma anche membri dello staff) che il 19 febbraio scorso ha giocato a Milano contro l’Atalanta per l’andata degli ottavi di Champions finita 4-1 per i nerazzurri, è risultato positivo al test del coronavirus. «Nonostante le rigide misure adottate dal club — è scritto in una nota del club — dopo aver giocato una partita di Champions League a Milano, un’area confermata ad alto rischio dalle autorità italiane giorni dopo, gli ultimi risultati mostrano che l’esposizione legata alle partite ha causato circa il 35% dei casi positivi». La nota del Valencia — club della città dove è stato registrato il primo morto spagnolo per coronavirus il 13 febbraio — aggiungepoi: «».Sono tutti casi asintomatici e tutti i contagiati si trovano nei propri domicili con monitoraggio medico e misure di isolamento, e realizzano con tranquillità il piano di lavoro preparato per loro Nei giorni scorsi il club aveva annunciato i contagi dei giocatori Garay, Gaya e Mangala, del dottor Aliaga e del team manager Camarasa. Ora ci sono altri nove casi, anche se non sono più stati fatti i nomi. Quello che preoccupa, oltre naturalmente all’epidemia interna, è che il Valencia, poi, è andato a giocare a San Sebastian, ha giocato in casa col Betis,ha viaggiato a Vitoria (città con un alto numero di contagi) e poi ha affrontato di nuovo l’Atalanta a porte chiuse al Mestalla.

Paolo Berizzi e Paolo Griseri per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. Una concentrazione abnorme. Qual è stato il detonatore che ha fatto esplodere il caso Bergamo e l' aumento esponenziale dei contagi? E ancora: l' epidemia nel bergamasco e quella di Milano hanno avuto un punto di contatto? All' unità di crisi della Protezione civile, negli ultimi giorni, ha cominciato a farsi strada un' ipotesi. Qualcosa di più di una suggestione, qualcosa di meno di una certezza scientifica, del resto ormai impossibile da provare. E cioè che a spiegare l' anomalia di quel cluster possano essere una data e una partita. Atalanta-Valencia, 19 febbraio 2020, ottavi di Champions League, stadio San Siro, Milano. Per molto, troppo tempo, si è cercato il paziente 0, il primo positivo che avrebbe contagiato gli altri. Fatica sprecata. Per questo si è cominciato a rileggere a posteriori un mese di calvario lombardo provando a rispondere non più alla domanda «chi ha contagiato chi», ma a cercare che cosa possa aver aiutato la diffusione del contagio. Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive al Sacco di Milano: «Certamente - dice - quella partita può essere stata un importante veicolo di contagio. Penso che l' epidemia sia partita prima, nelle campagne, durante le fiere agricole e nei bar di paese. Ma il fatto di concentrare decine di migliaia di persone della stessa zona nello stesso luogo può essere stato un importante fattore di diffusione ».

19 febbraio, dunque. Lo stadio milanese, se l' ipotesi è corretta, diventa l' appuntamento di Samarcanda che trasforma una festa dello sport nell' incipit di una tragedia. Possibile? È una fatto che pochi giorni prima accada qualcosa. In un cimitero spagnolo e in una trattoria di Zogno, sulla sponda del Brembo. Il 13 febbraio, nella regione Valenciana muore un uomo, che soltanto il 3 marzo, quando ne verrà riesumato il cadavere, risulterà positivo al coronavirus. È il primo decesso accertato per Covid-19 in Spagna. Lo conferma il 3 marzo Ana Barcelo, responsabile della sanità della regione di Valencia: «Una persona morta il 13 febbraio nella nostra regione è risultata positiva al coronavirus». Il 13 febbraio, sei giorni prima della partita di San Siro, l' epidemia aveva dunque già colpito nel sud della Spagna. Quell' uomo era un caso isolato? O tra i 2.500 fan che arriveranno a Milano la settimana successiva c' è qualcuno già infetto? Il 14 febbraio, nella trattoria-pizzeria "Da Cecca" di Zogno si festeggia San Valentino. Il menù è eccellente come testimoniano i commenti dei clienti: «Uella, che atmosfera da sogno ». «Presente, tutto ottimo e grazie allo staff». Ma non è una serata da sogno. Il 23 febbraio, e sono ancora i post a confermarlo, i clienti di quella sera vengono contattati dall' Asl perché uno degli avventori è risultato positivo al coronavirus.

13 e 14 febbraio: il virus gira nella regione valenciana e a Zogno, venti chilometri da Alzano e Nembro, due degli epicentri del contagio. Mancano sei e cinque giorni a San Siro. Si dirà: un indizio. E a posteriori. È però un fatto che il giorno dell' andata degli ottavi l' esodo dei bergamaschi che raggiungono il Meazza coinvolge più di 45 mila tifosi (record di sempre per l' Atalanta). Arrivano da ogni dove: da Bergamo, dalla pianura, dalle valli. Vogliono esserci nel giorno in cui il calcio orobico scrive la storia. I pullman, censiti dal tifo organizzato, sono 28. Poco più di 1.500 persone. Gli altri, la maggior parte, arrivano in macchina.  Due ore per fare 50 chilometri. Ci sono tra loro anche quelli che abitano nei 38 comuni della val Seriana, uno dei focolai del contagio. Sono 540 persone secondo quanto Repubblica ha ricostruito in base ai dati forniti dal tifo organizzato. Molti raggiungono direttamente lo stadio e sostano sul piazzale Angelo Moratti, antistante agli ingressi. Altri consumano l' attesa passeggiando nel cuore della città, in piazza Duomo, dove fraternizzano con i tifosi del Valencia (nonostante il loro gemellaggio con i "nemici" dell' Inter) che non assomigliano neppure alla lontana agli ultrà neri della Dinamo Zagabria (incontrati a fine novembre). È una festa documentata dalla diretta di Bergamo Tv dove, tra gli altri, il giornalista Cesare Zapperi racconta: «Prima di venire qui mi sono fatto un giro in piazza Duomo. C' era un' atmosfera bellissima. Ho preso la metro. C' erano tifosi del Valencia e dell' Atalanta insieme. Una festa dello sport». Piazza Duomo, da lì la metro con un cambio per arrivare a San Siro. È un dettaglio che va annotato. Perché sulla metropolitana sale anche il giornalista spagnolo Kike Mateu (intervistato in questa pagina) risultato positivo al Covid-19 pochi giorni dopo. E lì è sicuro di aver contratto il virus. 45 mila tifosi - e davvero non importate quale fosse il loro passaporto, quanti fossero infetti, sintomatici o quanti asintomatici - sono l' evento che può aver creato l' innesco. È un fatto che il 4 marzo, 14 giorni esatti dopo la partita di San Siro, la curva dei contagi bergamasca subisce un' impennata. Sappiamo anche che cosa accade dopo. Il 9 marzo l' Atalanta parte per Valencia dove il giorno dopo giocherà il ritorno a porte chiuse. Nove giorni prima ha disputato una surreale partita di campionato a porte aperte a Lecce.  Proprio quel giorno si ammalerà di coronavirus un ristoratore locale. Il 16 marzo il Valencia rende ufficiale che «il 35 per cento del personale della società, giocatori e personale tecnico, risulta positivo al coronavirus». L' Atalanta cancella immediatamente il calendario di allenamenti previsto nei giorni successivi. Mette in quarantena precauzionale i suoi calciatori facendo sapere informalmente che non c' è nessun caso di contagio e annuncia che gli allenamenti riprenderanno il 24 marzo, il giorno in cui l' Italia dovrebbe uscire di casa. Sapendo che così non sarà.

Il Valencia sorpreso dalla confessione di Gasperini: "Al Mestalla con sintomi del Covid, ha messo a rischio tanta gente". Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it. L'allenatore dell'Atalanta ha svelato di avere avuto paura: "Il giorno prima del ritorno degli ottavi di Champions ero a pezzi. Non ho fatto il tampone, ma poi il test sierologico ha confermato che ho avuto il coronavirus". "Sorpresa per le frasi di Gasperini". L'intervista all'allenatore dell'Atalanta Gian Piero Gasperini alla Gazzetta dello Sport, in cui ha spiegato di essere stato affetto da sintomi da coronavirus già alla vigilia dell'ottavo di finale di ritorno di Champions League a Valencia, ha provocato la reazione del club spagnolo. "Viste le dichiarazioni dell'allenatore dell'Atalanta Gian Piero Gasperini - spiega il comunicato apparso sul sito del Valencia - che è apparsa sulla stampa italiana questa domenica, il Valencia CF desidera esprimere pubblicamente la sua sorpresa per il fatto che l'allenatore della squadra rivale negli ottavi di finale di Uefa Champions League riconosce che sia il giorno prima che il giorno della partita giocata il 10 marzo a Mestalla era a conoscenza, almeno riguardo a se stesso, di avere sintomi presumibilmente compatibili con il coronavirus senza prendere misure preventive, mettendo a rischio, se quello fosse stato il caso, numerose persone durante il loro viaggio e soggiorno a Valencia". "Va ricordato - scrive ancora il club spagnolo - che questa partita si è tenuta a porte chiuse, protetta da misure rigorose al riguardo, per l'obbligo delle autorità sanitarie spagnole di prevenire il rischio di contagio da parte di Covid 19, proprio in presenza di persone provenienti da un'area già in quella data valutata pubblicamente a rischio". "Sì, ho avuto paura - ha confessato Gasperini - Il giorno prima della partita di Valencia stavo male, il pomeriggio della partita peggio. In panchina non avevo una bella faccia. Era il 10 marzo. Le due notti successive a Zingonia ho dormito poco. Non avevo la febbre, ma mi sentivo a pezzi come se l'avessi avuta a 40. Ogni due minuti passava un'ambulanza. Lì vicino c'è un ospedale. Sembrava di essere in guerra. Di notte pensavo: se vado lì dentro, cosa mi succede? Non posso andarmene ora, ho tante cosa da fare... Lo dicevo scherzando, per esorcizzare. Ma lo pensavo davvero". Fortunatamente, l'ex mister di Genoa, Inter e Palermo ha superato in fretta il brutto momento: "Sabato 14 ho fatto un allenamento duro come non ricordavo da anni. Un'ora sul tapis-roulant, più di 10 chilometri di corsa. Mi sono sentito bene, forte. Il peggio era passato. Sono rimasto tre settimane a Zingonia. Poi a Torino ho sempre rispettato il distanziamento da moglie e figli. Senza febbre non ho mai fatto il tampone. Dieci giorni fa i test sierologici hanno confermato che ho avuto il Covid-19. Ho gli anticorpi, che non vuol dire che ora sono immune". Da capire se la Uefa riterrà il comportamento di Gasperini come una violazione della lealtà e probità sportiva: il comitato disciplinare potrebbe anche aprire un'indagine.

Gasperini: “Ho avuto il coronavirus. Mi sento ancora più bergamasco”. Redazione de Il Riformista il 31 Maggio 2020. “Oggi mi sento ancora più bergamasco”, confida Giampiero Gasperini, allenatore dell’Atalanta. Il tecnico ha raccontato alla Gazzetta dello Sport di aver avuto il coronavirus. Lo ha scoperto grazie al test sierologico. Una delle partite imputate di aver diffuso il contagio era stata infatti la sfida di Champions League, a Milano, contro il Valencia del 19 febbraio 2020. È alla vigilia del ritorno valido per gli ottavi del torneo continentale del 10 marzo che però l’allenatore comincia a soffrire alcuni sintomi. “Il giorno prima della partita di Valencia stavo male, il pomeriggio della partita peggio – racconta Gasperini – In panchina non avevo una bella faccia. Era il 10 marzo. Le due notti successive a Zingonia ho dormito poco. Non avevo la febbre, ma mi sentivo a pezzi come se l’avessi avuta a 40. Ogni due minuti passava un’ambulanza. Lì vicino c’è un ospedale. Sembrava di essere in guerra. Di notte pensavo: se vado lì dentro, cosa mi succede? Non posso andarmene ora, ho tante cosa da fare … Lo dicevo scherzando, per esorcizzare. Ma lo pensavo davvero”. Nei giorni successivi il tecnico si sente meglio e si allena. “Mi sono sentito bene, forte. Il peggio era passato. Il giorno dopo Vittorio, chef stellato tifoso della Dea, ci ha fatto arrivare 25 colombe e Dom Perignon del 2008, anno di grazia. Lo assaggio e dico: ‘Ma questa è acqua…’. Tullio (Gritti, allenatore in seconda dell’Atalanta, ndr) mi guarda storto: S’cherzi? È una delizia’. La colomba mi sembrava pane. Avevo perso il gusto. Così Tullio e Marcello, il nostro fisioterapista, si sono mangiati 25 colombe … Sono rimasto tre settimane a Zingonia. Poi a Torino ho sempre rispettato il distanziamento da moglie e figli. Senza febbre non ho mai fatto il tampone. Dieci giorni fa i test sierologici hanno confermato che ho avuto il Covid-19. Ho gli anticorpi, che non vuol dire che ora sono immune“. Bergamo è stata una delle province più colpite dal virus nella Regione più colpita dal virus, la Lombardia che si appresta a riaprire agli spostamenti in tutta Italia il 3 giugno. “Ci vorranno anni per capire veramente che cos’è successo, perché proprio qui è stato il centro del male”, ha commentato Gasperini. In Parlamento la proposta di istituire il 18 marzo come giorno della memoria dei morti a causa del covid-19 è scaturita proprio dalle immagini, che hanno fatto il giro del mondo, di quel giovedì sera quando un convoglio di mezzi militari trasportò fuori da Bergamo una sessantina di salme, perché erano pieni i forni crematori della città.

Da ilnapolista.it l'1 giugno 2020. Il 12 marzo scorso Gasperini – stando alle sue dichiarazioni rese alla Gazzetta dello Sport – aveva la Covid-19, tutti i sintomi dell’infezione da coronavirus in corso: fisico a pezzi, gusto e olfatto azzerati, persino paura di morire. Lo stesso giorno, il tecnico dell’Atalanta rilascia quest’intervista al Corriere dello Sport. Dice di aver guardato i valenciani come “fossero dei pazzi”, ricorda il velocissimo ritorno in patria, nella Bergamo già devastata dal contagio. E poi: “Per quel che ci riguarda, nel giro di poche ore siamo passati dalla gioia per aver realizzato una grande impresa alla consapevolezza di vivere qualcosa di inimmaginabile. Sento soltanto le sirene delle ambulanze. State a casa, state in famiglia, non uscite. E da queste parti, in Lombardia, siamo sufficientemente organizzati, pur se in difficoltà. Mi chiedo cosa potrebbe accadere a Roma, a Napoli”. Gasperini, che in quelle ore – a meno di clamorosi miracoli clinici – si sente male, non riesce a distinguere tra un ottimo champagne e un bicchiere d’acqua, ha – di nuovo – paura di morire, parla di “calcio come antidepressivo, come forma di sopravvivenza”. Lo considera “una parentesi di leggerezza, può risultare addirittura terapeutica. Hanno voluto dare un segnale forte, bah. Bisognava andare avanti con le porte chiuse, io la penso così”. Lui è andato avanti, senza dire nulla. Ha dato conferma ai suoi intimi sospetti solo col test sierologico effettuato a fine maggio. Confessando nel silenzio generale, solo a posteriori. C’è voluto un comunicato del Valencia per accendere la miccia: stava male e non ha detto niente a nessuno? Scrive Tony Damascelli sul Giornale: “La vicenda solleva una serie di interrogativi e si trascina un alone oscuro, anche perché non è chiaro se nel periodo subito successivo al trionfo di Valencia, l’allenatore dell’Atalanta abbia effettuato uno o più test del tampone. E’ un problema che non riguarda solo il tecnico torinese, ma tutto il mondo del calcio e i privilegi di cui gode, anche a livello sanitario“. Gasperini, sconvolto dalle ambulanze che imperversavano a Bergamo, con i chiari sintomi della malattia in corso, volava in Spagna a giocare una partita di Champions, a contatto con giocatori, staff, giornalisti, pubblico. Nel nome dello “sport terapeutico”. Ammoniva: “State a casa!”. E si preoccupava di cosa sarebbe accaduto se il virus fosse arrivato a Napoli…

Da gazzetta.it l'1 giugno 2020. Le parole di Gian Piero Gasperini, che oggi ha rivelato alla Gazzetta di aver avuto il coronavirus, non sono andate già al Valencia. “Siamo sorpresi dal fatto che l’allenatore sia il giorno prima che il giorno della partita del 10 marzo a Mestalla era a conoscenza di avere sintomi presumibilmente compatibili con il coronavirus e non abbia preso misure preventive, mettendo a rischio, se quello fosse stato il caso, molte persone durante il suo viaggio e soggiorno a Valencia” si legge nel comunicato della società eliminata dall’Atalanta negli ottavi di Champions. Gasperini ha rivelato di non essere stato bene il giorno prima della partita e “il pomeriggio della partita peggio. In panchina non avevo una bella faccia. Le due notti successive a Zingonia ho dormito poco. Non avevo la febbre, ma mi sentivo a pezzi come se l’avessi avuta a 40”. Il Valencia, che dopo la partita con l’Atalanta ha avuto 10 giocatori e 15 dipendenti positivi, puntualizza: “Questa partita è stata tenuta a porte chiuse, circondata da misure rigorose, dall’obbligo delle autorità sanitarie spagnole di prevenire il rischio di contagio, proprio in presenza di persone provenienti da un’area a rischio”. La sola positività dichiarata ufficialmente dall’Atalanta è stata quella di Sportiello, tornato negativo dopo oltre due mesi.

La partita "nera" del Mestalla: cosa rivela il volto di Gasperini. "Ho avuto il coronavirus", le parole pronunciate da Gasperini e che hanno lasciato il segno con il Valencia che ha risposto piccato al tecnico dell'Atalanta: "Siamo sorpresi dalle sue affermazioni". Marco Gentile Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale.  Gian Piero Gasperini ha scatenato l’inferno con le sue dichiarazioni rilasciate alla Gazzetta dello Sport: "Il giorno prima della partita di Valencia stavo male, il pomeriggio della partita peggio. In panchina non avevo una bella faccia. Era il 10 marzo. Le due notti successive a Zingonia ho dormito poco. Non avevo la febbre, ma mi sentivo a pezzi come se l’avessi avuta a 40”, queste le parole del tecnico dell’Atalanta che ha poi concluso:“Dieci giorni fa i test sierologici hanno confermato che ho avuto il Covid-19.

Valencia irritato. Il club spagnolo non ha preso affatto bene le parole dell’allenatore dell’Atalanta e ha risposto con un comunicato piccato: "Viste le dichiarazioni dell'allenatore dell'Atalanta Gian Piero Gasperini che è apparsa sulla stampa italiana questa domenica, il Valencia CF desidera esprimere pubblicamente la sua sorpresa per il fatto che l'allenatore della squadra rivale negli ottavi di finale di Uefa Champions League riconosce che sia il giorno prima che il giorno della partita giocata il 10 marzo a Mestalla era a conoscenza, almeno riguardo a se stesso, di avere sintomi presumibilmente compatibili con il coronavirus senza prendere misure preventive, mettendo a rischio, se quello fosse stato il caso, numerose persone durante il loro viaggio e soggiorno a Valencia". Il Valencia ha poi concluso con un affondo deciso: "Va ricordato che questa partita si è tenuta a porte chiuse, protetta da misure rigorose al riguardo, per l'obbligo delle autorità sanitarie spagnole di prevenire il rischio di contagio da parte di Covid-19, proprio in presenza di persone provenienti da un'area già in quella data valutata pubblicamente a rischio". A dire il vero la trasferta fu vietata giustamente dall’Uefa ai tifosi dell’Atalanta ma oltre 2000 tifosi spagnoli occuparono l’esterno dello stadio Mestalla per sostenere la squadra di Celades in una rimonta mai riuscita.

La bomba atomica. Bergamo è stata dopo Milano e Brescia la zona più colpita dalla pandemia da coronavirus e in molti pensano, addetti ai lavori e non, che la partita Atalanta-Valencia disputata il 19 febbraio allo stadio San Siro sia stata una vera bomba biologica per la diffusione di questo virus che ha fatto diverse vittime in tutta Italia e particolarmente a Bergamo. Il professor Fabiano Di Marco, responsabile Pneumologia dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, qualche settimana fa aveva dato la sua opinione in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera: "Atalanta-Valencia a San Siro è stata una bomba biologica, quarantamila bergamaschi che hanno viaggiato in pullman, auto, treno. E con la stessa passione stanno cercando di salvare la città, nonostante condizioni drammatiche". Lo scorso 16 marzo lo stesso Valencia aveva annunciato come il 35% della squadra e dello staff avessero contratto il covid-19: “Nonostante le rigide misure adottate dal Club dopo aver giocato una partita di UEFA Champions League a Milano il 19 febbraio 2020, un'area che giorni dopo è stata confermata ad alto rischio dalle autorità italiane, allontanando il personale dall'ambiente di lavoro e dal pubblico in generale, gli ultimi risultati mostrano che l'esposizione ha causato circa il 35% dei casi positivi", il club aveva poi spiegato come fossero tutti asintomatici. Secondo il Valencia, dunque, il contagio avvenne proprio nella sfida del 19 febbraio allo stadio San Siro quando oltre 45.000 tifosi bergamaschi e tanti supporter spagnoli avevano occupato gli spalti della Scala del calcio dando vita ad un match spettacolare che vide per la vittoria della Dea per 4-1. Le metro milanesi affollate, i fiumi di birra scorsi e il clima di festa di quella sera potrebbero aver di certo dato il via all'esplosione del virus. Tra l’altro il primo decesso in Spagna per coronavirus è avvenuto proprio a Valencia all'ospedale Arnau de Vilanova il 13 febbraio. Più di due settimane dopo, è diventato la prima vittima spagnola da coronavirus. A confermare ciò il ministro della Salute della Comunità Valenciana, Ana Barceló, ha infatti confermato in conferenza stampa che una seconda analisi ha rilevato la presenza di coronavirus in questo paziente, di esso maschile, deceduto con una polmonite inizialmente catalogata come di origine sconosciuta ma poi rivelatasi covid-19 dopo l’autopsia. Le date però non coincidono con il match Atalanta-Valencia del 19 febbraio ed è dunque da escludere che il primo decesso in terra spagnola sia collegato a quella partita.

Il ritorno avvelenato. La sfida di ritorno, come detto, si è poi giocata 20 giorni dopo, il 10 marzo in uno stadio Mestalla rigorosamente a porte chiuse ma con oltre 2000 tifosi del Valencia fuori dall’impianto a dare manforte ai loro calciatori. Nei giorni antecedenti alla partita, però, dalla Spagna avevano addirittura gettato ombre sul fatto che gli stessi calciatori nerazzurri potessero disputare la sfida di ritorno in quanto Bergamo era una delle città lombarde ed italiane più colpite. La vicedirettrice di Epidemiologia della Generalitat Valenciana, Hermenegilda Vanaclocha, si era sbilanciata dando la sua opinione in merito: "Non sappiamo sinceramente se i giocatori dell'Atalanta potranno muoversi e venire a Valencia. Bergamo è in Lombardia. Da qui al 10 marzo passeranno molti giorni, se me lo aveste chiesto la settimana scorsa avrei risposto molto diversamente. Ma non sappiamo sinceramente se potranno muoversi e venire qui", le sue parole ripresa da Marca. Il quotidiano spagnolo aveva anche parlato del contagio di un giornalista iberico di 44 anni che aveva contratto il coronavirus dopo la trasferta di Milano: “Sto bene, ho i sintomi dell'influenza, ma niente di più sono tranquillo, i sintomi non mi impedirebbero di lavorare, ho fatto il test per senso di responsabilità", le sue parole pronunciate a Las Provincias. I giornalisti iberici poi risultati positivi risultarono in tutto tre. Alla fine l’Atalanta volò senza problemi a Valencia per disputare il suo ritorno degli ottavi di finale di Champions League e in quell’occasione fu Marco Sportiello a difendere i pali della porta nerazzurra vista l’indisponibilità del portiere titolare Pierluigi Gollini. Qualche settimana dopo l’ex numero uno di Fiorentina e Frosinone è risultato positivo al coronavirus, l’unico giocatore in casa Atalanta. Gasperini, dunque, può essere considerato il secondo caso di covid-19 avvenuto in casa nerazzurra che ha comunque contenuto i danni vista la tragedia che ha dovuto subire Bergamo.

La dignità di Bergamo. Bergamo ha vissuto in silenzio e con grande dignità un vero e proprio dramma ma ora la città e la squadra nerazzurra sono pronti a ripartire, parole di Gasperini: "L’Atalanta può aiutare Bergamo a ripartire, nel rispetto del dolore e dei lutti. Ci vorrà tempo per la gioia in piazza e all’aeroporto, ma i bergamaschi sono brace sotto la cenere. Piano piano tornerà tutto. Non c’è un giocatore che si sia allontanato dalla città. Più di uno ha perso peso, che può anche essere la spia di un disagio psicologico. Difficile intuire il sommerso emozionale di tutti. Qualcuno aveva la famiglia lontana. Di sicuro la squadra è rimasta connessa con la sofferenza di Bergamo e la porterà in campo".

Tifosi nerazzurri in prima linea. La curva Nord dell'Atalanta si è fin da subito messa a disposizione della collettività in questa emergenza che ha travolto l'Italia e il mondo intero. La parte più calda del tifoso bergamasco si è adoperata alla costruzione in tempi da record dell’ospedale da campo trasformato in semi-permanente nell’area Fiera di Bergamo. Una struttura inaugurata ad aprile e messa in piedi in una settimanache ha permesso di ospitare 53 posti letto tra terapia intensiva e sub-intensiva. I tifosi dell'Atalanta ricevettero anche i complimenti da parte del sindaco Giorgio Gori: Pochi giorni e l’ospedale da campo di #Bergamo sarà pronto, con 140 posti letto di cui 72 di terapia intensiva. Si lavora h24. Alpini, protezione civile, artigiani volontari, tecnici di Emergency, ultrà della curva Nord. Sono grato ad ognuno di loro e fiero d’essere #bergamasco! "Non serve pubblicità. Abbiamo fatto quello per cui tutti i cittadini vengono chiamati in causa, che siano tifosi, che siano della bocciofila o artigiani comuni: abbiamo fatto quello che era giusto fare, perché ce n'era bisogno", le parole ai microfoni di AdnKronos di Claudio Bocia Galimberti, leader degli ultras dell'Atalanta: Le due partite incriminate: Atalanta-Valencia (19 febbraio 2020) Valencia-Atalanta 3-4 (10 marzo 2020)

Atalanta, Gasperini replica al Valencia: "Polemica offensiva". Pubblicato giovedì, 04 giugno 2020 da La Repubblica.it. Il tecnico risponde al club spagnolo che lo ha accusato di comportamento poco responsabile alla luce della positività al covid riferibile all'epoca del match di Champions. "E' una polemica veramente offensiva". Gian Piero Gasperini replica a muso duro alle accuse arrivate da Valencia. Tutto nasce dalle affermazioni dello stesso tecnico dell'Atalanta che, a proposito del ritorno di Champions in Spagna dello scorso 10 marzo, ha rivelato di essere stato male a ridosso della gara e che successivamente ha scoperto di aver contratto il coronavirus. Il Valencia lo ha accusato di aver messo a rischio diverse persone col suo comportamento ma Gasperini non ci sta. "So di aver rispettato tutti i protocolli - le sue parole a Sky Sport - Sono stato in quarantena come tutti. Non abbiamo mai fatto i tamponi e quando ci siamo sottoposti ai test sierologici a maggio ho scoperto di aver contratto il virus. Ripensando indietro, suppongo e deduco che sia stato quello il periodo in cui è successo, perché ho avuto dei malesseri ma mai febbre o problemi polmonari. Quando sono partito da Bergamo stavo bene. E' una polemica offensiva, brutta", commenta amareggiato Gasperini.

Le accuse da Valencia: "E' stato poco responsabile". Con il tecnico dell'Atalanta, in particolare, nei giorni scorsi se l'è presa Ana Barcelò, responsabile del dipartimento sanitario di Valencia, che ha giudicato 'poco responsabile' il comportamento del tecnico, giunto nella città spagnola malgrado nei giorni precedenti fosse stato male. Il club iberico si è accodato alla polemica sottolineando che "la partita si è tenuta a porte chiuse, protetta da misure rigorose al riguardo, per l'obbligo delle autorità sanitarie spagnole di prevenire il rischio di contagio da Covid-19, proprio in presenza di persone provenienti da un'area già in quella data valutata pubblicamente a rischio". Per questo ha chiesto che la Uefa e anche le autorità sanitarie italiane prendano provvedimenti contro Gasperini. 

Rodrigo: "Valencia-Atalanta non si sarebbe dovuta disputare". Oggi, intanto, di Valencia-Atalanta tornato a parlare anche Rodrigo: "Probabilmente non si sarebbe dovuta giocare con tutte le circostanze che abbiamo appreso a posteriori", le parole dell'attaccante. Molti suoi compagni sono poi risultati positivi al Covid-19 ma ora il peggio è alle spalle e ci si prepara alla ripresa. "Questa sosta condizionerà il campionato perché non è facile fermarsi e poi riprendere, allenarsi e giocare non sono la stessa cosa e orari e caldo avranno un peso importante. Ma il nostro obiettivo è chiudere fra le prime quattro e qualificarci per la Champions". 

Coronavirus, positivo il titolare di un locale: «Ha ospitato tifosi dell'Atalanta». Poli Bortone: «Il sindaco si dimetta». Il Quotidiano di Puglia Giovedì 12 Marzo 2020. «Nella pizzeria, prima della partita con il Lecce, c'erano tifosi dell'Atalanta»: lo sostiene l'emittente Sportitalia, che ha raccolto la testimonianza di alcuni supporter della squadra nerazzurra, in trasferta nel capoluogo salentino poche settimane fa. Quel match fu preceduto da molte polemiche e diverse critiche alle istituzioni, perché fino all'ultimo - nonostante i dubbi sollevati dalla stessa Us Lecce - non si sono ottenute indicazioni precise sul fatto che la partita dovesse essere giocata a porte chiuse o aperte alla luce della zona di provenienza dei tifosi dell'Atalanta, Bergamo appunto, fra le più colpite dal coronavirus. 

"Tifosi dell'Atalanta nella pizzeria, poi il contagio": la denuncia...All'indomani della notizia del contagio di un pizzaiolo di Lecce, la scoperta: i tifosi nerazzurri sarebbero stati proprio in quel locale, prima della partita. Inevitabile, dunque, oggi la polemica politica. «Se è vero - scrive la consigliera di minoranza, già senatrice, Adriana Poli Bortone - che ci sono stati tifosi dell'Atalanta nel locale di proprietà dell'uomo positivo al Covid 19, ancora una volta ci convinciamo della superficialità con cui il sindaco Carlo Salvemini ha affrontato il pericolo del coronavirus nella nostra città. Ricordiamo la totale incuranza in consiglio comunale quando, per tempo, ponemmo il problema della prevenzione preoccupati del messaggio di assoluta superficialità che proveniva dalla sorridente foto del sindaco e dell'intera giunta in un ristorante cinese, quasi a sottolineare una forma di scherno verso chi avvertiva una giusta e corretta preoccupazione».  «Fare adesso post categorici - prosegue Poli Bortone - è come mettersi l'anima in pace dopo essersi assolutamente spogliato delle sue prerogative di autorità sanitaria che al di là delle direttive nazionali e regionali avrebbe dovuto autonomamente mettere in atto in modo categorico e risoluto per la sicurezza dei cittadini e a tutela della loro salute. All'epoca, mi riferisco all'ingresso dei tifosi dell'Atalanta, avrebbe dovuto insistere in tutte le sedi opportune per evitare che venissero in città tifosi e persone provenienti da quelle che ormai erano zone rosse. Ma nessun cenno abbiamo avuto di questa sua importante competenza e funzione tant'è che tra le altre cose, non abbiamo notato nessun intervento di igienizzazione e sanificazione in città. Né precauzione alcuna, a partire dalla compresenza di almeno 30 persone in commissione, stampa compresa, in ambienti di pochi metri quadri. Insomma una superficialità totale di cui stiamo cominciando a pagare le conseguenze. Salvemini dovrebbe ammettere la sua incapacità, fare una doverosa ammissione e un unico proclama: dimissioni. Mentre il virus si diffondeva in città (anche sabato e domenica i locali erano pieni zeppi di gente senza controlli di alcun tipo) lui era impegnato a discutere una delibera di dubbia legittimità sulla costruzione di un impianto di rifiuti». Contattato per telefono, il sindaco Carlo Salvemini ha preferito non commentare. 

Il disastro in Val Seriana. Il Post l'1 aprile 2020. Come sfortuna, sottovalutazioni ed errori hanno contribuito a creare in provincia di Bergamo il peggior focolaio di coronavirus in Italia e forse nel mondo. Il 19 marzo l’Italia è diventata il paese al mondo col più alto numero di persone ufficialmente morte avendo contratto la COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus. In Italia la regione più colpita è stata la Lombardia, e in Lombardia nessuna provincia è stata più colpita di quella di Bergamo. Lungo la valle del fiume Serio, che dalle Alpi Orobie scende verso la città, è difficile trovare una famiglia che non registri almeno un lutto, e i morti sono così tanti che le autorità sanitarie non riescono a tenerne il conto. Mentre i reparti di terapia intensiva sono al collasso e la malattia svuota silenziosamente le case di riposo, le persone muoiono nelle loro abitazioni senza mai essere riuscite a vedere un medico e i convogli militari fanno la spola con i forni crematori di altre regioni. La newsletter del Post sul coronavirus arriva ogni sera e racconta molto di più di quello che trovi sui giornali: è gratuita e ci si iscrive qui. Il Post ha parlato con una dozzina di medici, operatori sanitari e abitanti della valle per ricostruire cosa è accaduto in Val Seriana, e come sia stato possibile che le cose siano arrivate sino a questo punto. Quello che è emerso è una catena di errori umani e sottovalutazioni che, uniti al caso e alla sfortuna, hanno contribuito a trasformare questo territorio nel cuore mondiale della pandemia.

La cronologia. Vista dall’alto, la Val Seriana somiglia a una propaggine della città di Bergamo incuneata tra le montagne. Dall’imboccatura della valle fino al comune di Albino, dieci chilometri più in su, le case e i capannoni industriali non si interrompono mai. Ai confini che separano i comuni non corrispondono nemmeno cinquanta metri di campagna. Da più di un secolo la valle è il cuore produttivo della provincia di Bergamo, un luogo di scambi e spostamenti continui verso il capoluogo e gli altri centri vicini.

L’epidemia qui è iniziata ufficialmente nel primo pomeriggio di domenica 23 febbraio, quando i tamponi eseguiti nei giorni precedenti su due pazienti ricoverati all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, il centro più importante della bassa valle, a pochi chilometri da Bergamo, si sono rivelati positivi. I pazienti erano due anziani provenienti da paesi vicini: Ernesto Ravelli, pensionato di 84 anni di Villa di Serio, ricoverato dal giorno precedente, e Franco Orlandi, un ex camionista di Nembro di 64 anni, in ospedale da più di una settimana.

Quando sono arrivati i risultati dei tamponi, i medici di Alzano sono entrati subito in allarme. Un ospedale è il luogo peggiore dove può scoppiare un’epidemia – un luogo pieno di persone già malate e fragili, e di operatori sanitari che devono prendersi cura di loro – e i due pazienti lo avevano attraversato in lungo e in largo prima che si scoprisse la loro malattia: Ravelli era passato dal pronto soccorso meno di 24 ore prima, Orlandi era ricoverato da giorni nel reparto di medicina generale. La direzione dell’ospedale aveva ordinato quindi l’immediata chiusura del pronto soccorso e l’isolamento dell’intera struttura. Nastri segnaletici erano stati stesi di traverso sugli ingressi, e messaggi di allarme erano stati diffusi sui pannelli informativi dell’ospedale.

Quelli di Alzano erano i primi casi di positivi alla COVID-19 scoperti nella provincia di Bergamo e tra i primi individuati in tutta Italia. Il “paziente uno”, il primo caso ufficiale di contagio nel nostro paese, individuato all’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, era stato accertato soltanto tre giorni prima. All’alba di domenica 23 febbraio, polizia ed esercito avevano circondato Codogno e altri 11 comuni imponendo una severa quarantena che sarebbe stata ribattezzata “zona rossa”. Ad Alzano però si era deciso di agire diversamente.

I due pazienti contagiati erano stati trasferiti al grande ospedale di Bergamo, il Giovanni XXIII, designato fin dall’inizio dell’emergenza come centro di raccolta per i pazienti infettati dal coronavirus. Circa un paio d’ore dopo, l’ospedale di Alzano era stato riaperto. Numerosi testimoni hanno raccontato che la struttura non era stata sottoposta a nessuna particolare misura di sanificazione, né erano state messe in atto procedure particolari per selezionare i pazienti in arrivo e isolare i casi sospetti.

Alla riapertura dell’ospedale, gli abitanti di Alzano avevano tirato un sospiro di sollievo. Anche se il comune raccomandava sul suo sito di non uscire senza ragioni, e se la casa di riposo locale rimaneva chiusa, sembrava che un’emergenza come quella di Codogno fosse stata scampata. Il giorno dopo, lunedì 24 febbraio, all’ospedale di Alzano si era lavorato normalmente e si era iniziato a fare tamponi a pazienti e personale sanitario, sintomatici e non, che avevano avuto a che fare con i due infetti da coronavirus.

Quel giorno la regione aveva dato notizia della prima morte avvenuta nella provincia di Bergamo. Ernesto Ravelli, il pensionato di Villa Serio, non era riuscito a sopravvivere alla notte trascorsa al Giovanni XXIII. I suoi tre figli non avevano avuto il tempo di salutarlo né di vedere il corpo, un’esperienza che presto sarebbe divenuta comune a migliaia di altre famiglie. Nel comunicare il decesso, le autorità sanitarie avevano specificato che Ravelli era “affetto da pregresse patologie”.

Per il resto della settimana, politici, esperti e amministratori locali e nazionali avevano ridimensionato l’emergenza e messo in guardia contro i pericoli del panico e dell’adozione di misure troppo severe. Il presidente della sezione locale di Confindustria aveva detto che era fondamentale non dare all’estero il messaggio che la regione fosse «chiusa per coronavirus». Pochi giorni dopo la sua associazione aveva diffuso un video intitolato “Bergamo is running/Bergamo non si ferma”.

Il video era stato ripreso dai sindaci di quasi tutta la provincia, alcuni dei quali si erano fatti fotografare per strada o a cena fuori, per incoraggiare i cittadini a continuare con la loro vita normale. La regione Lombardia aveva difeso sindaci e imprenditori, annunciando che non intendeva intervenire su Alzano Lombardo come era stato fatto per Codogno. Nel frattempo iniziavano ad arrivare i risultati dei test effettuati nel fine settimana del 23 febbraio. Il 26 febbraio i positivi nella provincia di Bergamo erano diventati 20. Tra loro c’erano anche diversi medici e operatori sanitari dell’ospedale di Alzano Lombardo, tra cui lo stesso primario.

Il 29 febbraio, una settimana dopo il ricovero del primo paziente ufficialmente positivo, iniziavano a serpeggiare i primi sospetti sulle reali dimensioni del contagio in Val Seriana. I medici dello Spallanzani di Roma avevano scoperto che una donna di Fiumicino che aveva contagiato la sua famiglia era stata ad Alzano Lombardo tra il 19 e il 21 febbraio. Se una persona rimasta in città soltanto per un paio di giorni era rimasta contagiata, era molto probabile che i 110 casi positivi rilevati quel giorno fossero solo la punta di un iceberg molto più profondo. Quel giorno l’assessore al Welfare della regione Lombardia, Giulio Gallera, aveva ripetuto che se anche Alzano aveva «un numero importante di casi» la regione non aveva «nessuna idea di costruire nuove zone rosse».

La situazione è esplosa pubblicamente il 2 marzo, con l’arrivo dei risultati di un grosso numero di test realizzati nei giorni precedenti. La provincia di Bergamo era balzata a 508 casi certificati di contagio, pochi meno della zona rossa di Lodi, dove i contagi erano 621. Quel giorno l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha inviato una nota scritta al comitato tecnico scientifico che si occupava di consigliare il governo in cui raccomandava l’apertura di una nuova zona rossa all’imboccatura della Val Seriana, che comprendesse almeno i comuni di Alzano Lombardo, circa 13 mila abitanti, e di Nembro, poco più di 11 mila. Martedì 3 marzo la provincia di Bergamo ha superato quella di Lodi per aumento giornaliero dei contagi. Nella conferenza stampa di quella sera Gallera aveva detto che la zona rossa non era più un’ipotesi esclusa a priori: «Abbiamo chiesto all’Istituto Superiore di Sanità di fare valutazioni e suggerire a noi e al governo le migliori strategie». Non è chiaro se Gallera fosse a conoscenza del fatto che già dal giorno precedente l’ISS aveva raccomandato l’apertura di una nuova zona rossa. Il Post ha provato a contattare Gallera diverse volte, senza avere risposte.

L’idea di una nuova zona rossa, comunque, non convinceva ancora tutti. Il 6 marzo Confindustria Bergamo ha diffuso alle agenzie e ai giornali locali una nota in cui elencava tutte le aziende che rischiavano la chiusura in caso di approvazione di nuove misure restrittive. In quei giorni un importante imprenditore della Valle scrisse una lettera al Sole 24 Ore, poi non pubblicata, per dire che in caso di misure di quarantena avrebbe disobbedito e avrebbe tenuto aperta la sua azienda. Nel corso della settimana i contagi avevano continuato ad aumentare sempre più rapidamente, minacciando di portare al collasso le terapie intensive dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Il 5 marzo l’ISS era tornato a suggerire l’apertura di una zona rossa, e i sindaci della provincia avevano iniziato a fare preparativi per essere pronti all’isolamento. Ad Alzano e Nembro erano stati preparati elenchi di volontari ed erano stati approntati i comitati straordinari per gestire l’emergenza. Circa 300 tra poliziotti e carabinieri erano arrivati nei due comuni, e nella notte tra il 7 e l’8 marzo alcune strade avevano iniziato a essere transennate.

Poi, alle 23 del 7 marzo, mentre il governo nazionale era ancora in riunione, il sindaco di Alzano aveva annunciato su Facebook che non ci sarebbe stata una nuova zona rossa. Il decreto del presidente del Consiglio approvato nella notte sanciva il definitivo abbandono da parte del governo della strategia delle zone rosse e la creazione delle cosiddette zone arancioni, un’area di quarantena più blanda della zona rossa, ma estesa all’intera Lombardia e ad altre 14 province. In sostanza, questa è la situazione che ancora oggi vige in città.

Le conseguenze. In Val Seriana l’epidemia ha raggiunto il picco circa una settimana dopo la mancata decisione di attuare la zona rossa, quando – secondo i dati ufficiali – i contagiati confermati a Nembro erano circa 200 e ad Alzano Lombardo quasi 100. Ma questi numeri significano poco. Le autorità sanitarie locali non riescono a testare non solo tutti i casi sospetti, ma persino i casi sintomatici e gravi. Soltanto il 18 marzo ad Alzano sono morte otto persone nelle loro abitazioni o in casa di riposo, senza aver ricevuto il tampone, lo stesso numero di decessi che normalmente si verifica in un mese.

Il 26 marzo il sindaco di Alzano ha detto che i morti in città dalla fine di febbraio sono stati 100, contro i 10 dello stesso periodo dell’anno precedente. A Nembro i morti sono stati 120 contro 14. È una mortalità dell’1 per cento dell’intera popolazione dei due comuni, più alta di quella riscontrata a Wuhan, in Cina, e più alta che in qualsiasi altra parte del mondo. In provincia di Bergamo le statistiche ufficiali parlano di duemila morti, ma confrontando le morti nel mese di marzo con quelle dell’anno precedente, la cifra reale sembra più vicina a cinquemila.

Amministratori locali, medici di famiglia e operatori di RSA (case di cura per persone non autosufficienti) e residenze per anziani sono tutti concordi nel dire che i numeri ufficiali oggi non rappresentano la realtà. Giorgio Tiraboschi, impiegato come medico in una RSA della Val Seriana, ha raccontato che nell’ultimo mese nella sua struttura sono morti 45 ospiti su 143. A nessuno è stato fatto il tampone e nessuno è stato ricoverato. Secondo le associazioni delle case di riposo, soltanto nella provincia di Bergamo i morti nelle strutture per anziani sarebbero oltre 600.

Non sono soltanto le case di riposo a sfuggire ai conteggi ufficiali. Tiraboschi, che lavora anche come guardia medica nella vicina Val Brembana, ha detto che in una sola domenica a metà marzo, durante il picco dell’epidemia, ha ricevuto 37 chiamate, almeno cinque volte il numero normale. Spesso erano persone spaventate che chiamavano per aver conforto. Tiraboschi racconta di aver parlato con una ragazza che nel giro di pochi giorni aveva perso mamma, papà e fratello. In altri casi erano persone con sintomi, ma in condizioni ancora non così gravi da far intervenire un’ambulanza. Il compito di assisterli spetta a medici di famiglia e guardie mediche che spesso non hanno possibilità di aiutarli senza ricorrere alle cure ospedaliere.

In tutta la provincia, per esempio, sono state a lungo introvabili le bombole d’ossigeno, necessarie per aiutare i pazienti che manifestano l’affaticamento respiratorio tipico della COVID-19. Senza ossigeno i pazienti si aggravano rapidamente, così in fretta che a volte non è più possibile trasportarli in ospedale. A quel punto l’unica cosa che resta da fare è prescrivere loro cure palliative.

Molti medici del territorio hanno denunciato in queste settimane l’impreparazione del sistema sanitario lombardo, da anni concentrato sulle cure ospedaliere e dotato di un sistema di assistenza locale poco sviluppato rispetto a quello di regioni vicine, come Veneto ed Emilia-Romagna. Nelle RSA e nelle case di riposo l’arrivo di istruzioni contraddittorie da parte di regione e autorità sanitarie locali e la mancanza di dispositivi di protezione personale, sostengono molti, ha aggravato la situazione.

Di fronte alla larghissima diffusione dell’epidemia, la popolazione ha reagito con rabbia. Domenica scorsa sulla facciata del municipio di Nembro è comparsa una scritta fatta con vernice nera: “Politici, calciatori, vi siete fatti fare il tampone? Quindi i nostri padri zii e nonni sono coglioni?”. La rabbia per quello che da molti è stato percepito come un fallimento del sistema sanitario nel fronteggiare l’epidemia si è diffusa sui social network, dove nei gruppi le persone raccontano le loro storie, spesso molto simili: un parente che si ammala e inizia ad avere problemi respiratori, la difficoltà a ottenere i tamponi e l’ossigeno, il peggioramento delle condizioni fino al trasporto in ospedale e poi una telefonata che avvisa del decesso.

«C’è tantissima rabbia sfogata in modo cieco», ha raccontato Stefano Fusco, un 31enne di Brusaporto, poco lontano dalla Val Seriana, che insieme a suo padre ha fondato uno di questi gruppi, che oggi conta più di 18 mila membri. Fusco, che dice di non conoscere nessuna famiglia che non abbia almeno un parente morto o ricoverato, ha perso suo nonno, morto per un collasso cardiaco appena tre giorni dopo essere stato trovato positivo alla COVID-19. La sua è stata una delle poche famiglie che sono riuscite a svolgere una breve funzione religiosa e vedere la bara, prima che venisse portata verso un crematorio meno intasato di quelli della provincia.

Fusco ha raccontato che a quel punto il recupero delle ceneri si è trasformato in una «epopea» durata giorni. Alla fine, ha aggiunto a mezza voce, lui e la sua famiglia non sono nemmeno sicuri che l’urna che gli è stata restituita contenga effettivamente le ceneri di suo nonno. Il gruppo su Facebook è un tentativo di dare un senso a queste frustrazioni. «L’obiettivo del nostro gruppo», racconta, «è convogliare la rabbia in qualcosa di costruttivo, raccogliere testimonianze e fare delle domande: è stato davvero fatto tutto il possibile per contrastare l’epidemia? Nel nostro gruppo ci sono 18 mila persone che chiedono di avere risposte».

Le cause. Non sono soltanto i gruppi nati sui social network a cercare risposte per spiegare il disastro della Val Seriana. Medici ed esperti hanno indicato tra le ragioni più probabili la modalità e il luogo in cui è esploso il contagio. L’epidemia ha iniziato a diffondersi in un ospedale, contagiando pazienti già indeboliti e personale sanitario, che ha contribuito a spargere il contagio fuori dalla struttura. La valli della bergamasca, densamente popolate e in continuo scambio con il territorio circostante, sono state un luogo ideale per la diffusione del virus.

Oltre alle circostanze, molti indicano anche i fattori umani che hanno caratterizzato questa vicenda, come la gestione dei primi contagi da parte dell’ospedale di Alzano Lombardo. Numerose testimonianze indicano che dopo il trasferimento dei primi due pazienti l’ospedale è stato riaperto senza che venissero adottate particolari precauzioni, causando il contagio di numerosi pazienti e del personale sanitario.

Ad Alzano, inoltre, il contagio è iniziato ufficialmente il 23 febbraio, ma diverse testimonianze di parenti di persone ricoverate ad Alzano e poi decedute sembrano indicare la presenza del virus già nei giorni precedenti. Il Post ha parlato con un operatore sanitario a cui è stato chiesto di entrare in quarantena il 23 febbraio, dopo che una dottoressa con cui era entrato in contatto alcuni giorni prima era risultata positiva al COVID-19.

La notizia del test positivo di una terza persona il 23 febbraio a oggi non è stata confermata. L’azienda sanitaria di Bergamo ha sempre rifiutato di commentare la vicenda di Alzano, e quasi tutti gli operatori sanitari della zona che hanno parlato con il Post lo hanno fatto a condizione di rimanere anonimi. Almeno un operatore sanitario che ha parlato con la stampa ha ricevuto una lettera di sanzione.

Un utilizzo estensivo dei test, come raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, avrebbe permesso di rendersi conto con più rapidità dell’estensione del contagio e di isolare medici e pazienti che invece sono stati liberi di infettare centinaia di persone. Ma il sistema sanitario italiano – soprattutto in Lombardia – non ha adottato integralmente le raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, e sui test ha adottato un approccio molto limitato.

Il 25 febbraio, per esempio, due giorni dopo la scoperta dei primi due casi, una persona definita “superesperto” che non voleva che il suo nome venisse citato, aveva detto a Repubblica che fare “test a casaccio” e a “ruota libera” avrebbero diffuso il panico e intasato il sistema sanitario. Due giorni dopo, il 27 febbraio, l’ISS aveva modificato il protocollo per effettuare test, stabilendo che venissero realizzati soltanto a pazienti plurisontomatici: non ai sospetti quindi, ma solo alla minoranza di casi che mostravano più di un sintomo. Poche settimane dopo Walter Ricciardi, principale consulente scientifico del governo, ripeteva che fare troppi test e farli anche ai sospetti che non mostravano sintomi aveva attirato sull’Italia l’immagine dello “untore” e continuava a sostenere l’importanza di fare test solo ai pazienti sintomatici. Ma in Lombardia non è successo nemmeno quello.

Le regioni hanno seguito queste indicazioni in ordine sparso e la Lombardia è stata tra quelle ad averle interpretate nella maniera più restrittiva, finendo per riuscire a testare soltanto i casi gravi abbastanza da richiedere un ricovero ospedaliero. In una lettera spedita alla fine di marzo ai sindaci della provincia di Bergamo, il presidente della regione Attilio Fontana aveva assicurato che «tutti i soggetti» sintomatici erano stati testati, ma il Post ha potuto confermare dozzine di casi in cui pazienti con vari sintomi da COVID-19, alcuni dei quali successivamente deceduti, non sono stati sottoposti al tampone. Ancora oggi, un mese dopo l’inizio dell’emergenza, la Lombardia ha la capacità di elaborare un massimo di 5 mila tamponi al giorno, una cifra che non cresce da settimane.

L’ultima spiegazione del disastro, e quella che ha attirato le maggiori attenzioni e critiche anche degli amministratori e delle comunità locali, è stata la mancata applicazione della zona rossa ai comuni di Nembro e Alzano Lombardo. L’applicazione di misure simili a quelle di Codogno avrebbe immediatamente bloccato tutte le attività all’imboccatura della valle. L’intera area sarebbe stata sottoposta a un blocco totale, il cibo sarebbe stato consegnato casa per casa e le imprese avrebbero sospeso ogni attività. A Codogno il blocco totale imposto a partire dalla mattina del 23 febbraio ha prodotto un abbattimento quasi immediato dei contagi, mentre nella Val Seriana gli infetti confermati sono continuati a crescere fino alla metà di marzo.

Il governo però ha scelto di attuare una strategia differente, allargando l’area arancione, caratterizzata da un regime di quarantena più blando, a tutta la regione. Così facendo, il focolaio di Alzano è rimasto attivo. Le persone hanno continuato a spostarsi lungo la valle e in città, e gli operai hanno continuato a recarsi al lavoro. Solo a metà di marzo, quando il picco dei contagi era oramai stato raggiunto, le principali manifatture dell’area hanno accettato spontaneamente di chiudere. La regione avrebbe avuto il potere di attuare misure più severe: la legge lo prevede esplicitamente e regioni come Lazio e Campania hanno imposto autonomamente zone rosse in diverse città, di fronte a numeri di contagi e di decessi nettamente inferiore. Il governo lombardo però in questo caso ha preferito adeguarsi alle decisioni del governo nazionale senza inasprirle, come invece ha fatto in altri casi.

«L’unica cosa certa è che in questa decisione la salute delle persone non è stata messa al primo posto: chi non ha deciso e perché non ha deciso spetta ad altri stabilirlo», ha detto al Post Nino Cartabellotta, medico e presidente della Fondazione Gimbe, tra i primi centri di ricerca ad aver comparato l’andamento del contagio nel focolaio di Lodi e in quello di Bergamo. L’imposizione di una zona rossa, secondo Cartebellotta, «a Codogno era inevitabile: i primi casi, la grande paura, la necessità di un intervento tempestivo del governo, nessuna resistenza in virtù di una limitata presenza industriale nella zona. Ad Alzano e Nembro, sapendo già cosa comportasse istituire una zona rossa, è stata un’altra storia».

Cartabellotta ricorda tra gli altri i numerosi interventi degli imprenditori locali, che con cifre e dati mettevano in guardia contro gli effetti negativi che avrebbe avuto l’introduzione di una nuova zona rossa. «I numeri che contano oggi invece neppure li conosciamo», prosegue, riferendosi alla scarsa affidabilità delle statistiche ufficiali: «È il numero dei morti, che sfilano via con l’esercito che porta altrove le bare perché i forni crematori locali non riescono più a bruciare le salme».

Coronavirus, il prezzo troppo alto che sta pagando la Val Seriana. Valseriananews.it il 28 marzo 2020. Il 23 febbraio i primi contagi all'ospedale di Alzano Lombardo. Ricostruiamo le 3 settimane che hanno messo in ginocchio la Val Seriana. Sirene di ambulanze che risuonano tutto il giorno, bacheche dei social diventate una lista di necrologi e una serie di morti, incessante. Quasi come sgranare la corona di un rosario infinto senza speranza. Svegliarsi e leggere “E’ morto questo…”, “Ciao papà, non doveva andare così…”, “Oggi ci ha lasciato…”. E’ davvero un prezzo troppo alto quello che sta pagando la Val Seriana. E non c’entra solo il Coronavirus. Qui bisogna fare i conti con gli errori commessi e con l’impreparazione a gestire quella che si è rivelata una catastrofe. Per rendere l’idea, il bilancio (destinato a salire) è di più di 70 morti a Nembro, quasi 50 ad Alzano Lombardo e via discorrendo. Un dato sei volte di più rispetto allo scorso anno. Fino ai paesi piccoli che registrano “solo” qualche decesso. Senza contare tutti i morti di “polmonite” (così riportano i referti ufficiali, ndr.) di questi giorni (come quelli nelle case di riposo) a cui non è stato fatto il tampone. Una Valle, quella che si sviluppa lungo il fiume Serio, in provincia di Bergamo, dove la gente è abituata a lavorare senza mettersi sotto i riflettori. Ma oggi non ce la facciamo più. E lo sdegno e il dolore emergono nei messaggi che riceviamo ogni giorno da parte di infermieri e medici impegnati in prima linea. Per non parlare dei lavoratori costretti a continuare a svolgere le loro mansioni senza essere muniti di dispositivi di protezione, così come tutti i parenti delle vittime che non hanno trovato una spiegazione a queste morti assurde.

Cos’è andato storto in Val Seriana?

Dunque ora, a tre settimane dall’inizio, una domanda è lecita: cos’è andato storto in Val Seriana? Perché si è verificata una crescita così esponenziale dei contagi senza che nessuno individuasse un altro focolaio (rispetto a Codogno e Vo Euganeo) e quindi chiudesse la zona limitando – per quello che era possibile – i danni?

A questo riguardo le forze politiche si rimbalzano le responsabilità: da una parte la Regione sottolinea come il Governo sia stato coinvolto per tempo (con la richiesta della valutazione della zona rossa presentata il 2 marzo scorso); dall’altra il premier Conte, da quando si è espresso sulla chiusura dell’intera Lombardia (con il Decreto dell’8 marzo) ha detto di non aver ritenuto la zona di Bergamo un focolaio.

Sta di fatto che ad oggi, il prezzo che la Val Seriana si trova a pagare, è davvero troppo alto.

Tre settimane fa i primi contagi con la chiusura del Pronto Soccorso di Alzano Lombardo. Risalgono a domenica 23 febbraio i primi casi accertati in Val Seriana. Sono passati solo 3 giorni dalla notizia del contagio del paziente 1, il 38enne positivo di Codogno, e il Coronavirus diventa una realtà anche in bergamasca. Nel pomeriggio di quella domenica viene chiuso il Pronto Soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo. E’ una doccia fredda. Le voci di corridoio si inseguono finché in serata arriva la certezza: sono stati riscontrati due casi positivi al nuovo virus cinese. Uno di loro – un 83enne di Villa di Serio – morirà presto e sarà il primo morto per Covid-19 della provincia. I due sono stati trasferiti al Papa Giovanni di Bergamo e il Pronto soccorso riaperto. Come nulla fosse. A tutti in quel momento (quando il Coronavirus era ancora considerato “poco più di una semplice influenza” e i giornalisti venivano additati per essere i “soliti allarmisti acchiappa click”) interessa solo allontanare il problema e tornare alla normalità.

L’avviso del 23 febbraio al Pronto Soccorso di Alzano Lombardo. Ma nessuno poteva immaginare che da quel giorno la normalità non ci sarebbe più stata. Così, il personale torna a casa senza nessuna disposizione, come ci racconta un’infermiera in servizio ad Alzano. Alla nostra domanda: “Quella domenica cos’è successo?” risponde “Noi stessi dopo 13 ore di servizio quella domenica, siamo stati rimandati a casa senza nessuna direttiva ne raccomandazione. Abbiamo fermato noi i colleghi dicendo di non entrare in Pronto soccorso, e solo il giorno dopo abbiamo saputo di 2 casi di positività in Medicina e Chirurgia. Poi è stato un crescendo esponenziale“. Una serie di errori e omissioni dunque fanno sì che in quelle ore determinati il contagio raggiunga un numero altissimo di persone, lo stesso primario di Alzano risulta infetto e, ricoverato a Legnano (dove risiede) guarirà solo giorni dopo. Medici, pazienti, parenti: tutti si ritrovano nel vortice del contagio senza esserne coscienti.

La crescita esponenziale del contagio. Nel frattempo i giorni passano e i contagi aumentano, la gente continua ad andare in giro perché non ci sono particolari restrizioni essendo istituita la zona gialla (e non rossa). Arriviamo così ai primi di marzo quando la bassa Val Seriana è evidentemente un focolaio ma nessuno lo riconosce seppure tutti, amministratori e gente comune, chiedano al Governo di chiudere tutto. Invece la Val Seriana si ferma “solo” una settimana fa, quando Conte chiude prima la Lombardia e poi il resto d’Italia. Ma ormai è troppo tardi. “Il Coronavirus è ovunque” dicono impauriti e stremati i medici negli audio di WhatsApp. “State a casa, state a casa, stata a casa”, si legge e si sente ovunque. Ma nel frattempo le aziende non chiudono, i bar non chiudono e la gente continua a spostarsi e a contagiarsi. Fino ad oggi quando i morti accertati in bergamasca sono arrivati a 261, la maggior parte dei quali in Val Seriana. E la provincia di Bergamo è la prima in Regione per contagi (2864) mentre a Lodi (primo focolaio) sono 1276.

Qui muoiono tutti. Nel frattempo, mentre siamo tutti presi a leggere Decreti e Faq che spiegano i Decreti, continuano a morire gli anziani, sì, quelli con “patologie pregresse” che però vale la pena di spiegarlo: non sono zombie che camminano ma nonni, padri e madri che fino alla settimana prima sono usciti a far la spesa o a prendere il caffè. E tra di loro muoiono esponenti della politica, come Giorgio Valoti sindaco di Cene, esponenti del volontariato e del mondo ecclesiastico. E poi cominciano a morire i non vecchi, come l’operatore del 118 Diego Bianco mancato sabato 14 marzo a soli 46 anni e senza patologie pregresse.

Una situazione fuori controllo. E così gli ospedali sono al collasso, i posti in Terapia intensiva non ci sono più posti, mancano le attrezzature e scarseggiano i medici – che nel frattempo si sono contagiati a decine. Ma la bergamasca ancora non è un caso su cui indagare. A ribadirlo è stato ieri sera in conferenza stampa da Roma Paolo d’Ancona dell’Istituto Superiore della Sanità che, incalzato da una giornalista che chiede: “Bergamo può essere considerato il terzo focolaio?”, risponde “Il perché sia avvenuto a Bergamo questo alto numero di contagi può essere un fatto temporale nel senso che i primi casi erano lì prima che nelle altre aree oppure potrebbero esserci dei problemi di trasmissione tra un maggiori numero di persone. Dobbiamo però aspettare i risultati dei 15 giorni di isolamento che nel frattempo non ancora sono passati”.

Tutto andrà bene, o forse no. Ci chiedono dunque di aspettare ancora. Tutto andrà bene, scrivono i bambini. Ma noi grandi sappiamo che non sarà così. Almeno non ora. E sappiamo anche che non basteranno 15 giorni. E mentre noi aspettiamo, diligenti e a testa bassa, i pronto soccorso si riempiono di 40enni e 50enni sempre più gravi. Le chiese si riempiono di bare che non trovano più posti nei cimiteri e gli occhi della gente della Val Seriana si riempiono di lacrime che non si riescono più a contenere. Perché il prezzo che stiamo pagando è davvero troppo alto e qualcuno un giorno, prima o poi, ce ne dovrà rendere conto.

La lettera denuncia sul caso ospedale di Alzano: “Chi poteva doveva decidere”. Valseriananews.it il 28 marzo 2020. Dall'ospedale di Alzano alla Valle, come si è diffuso il Coronavirus. La lettera denuncia di un'infermiera: "Chi poteva doveva decidere". Quello che è successo il 23 febbraio 2020 all’ospedale di Alzano Lombardo è ormai un caso. Qui in Val Seriana lo sappiamo bene e l’abbiamo raccontato diverse volte: ci sono stati i primi pazienti positivi accertati al Coronavirus, c’è stato l’ospedale chiuso e riaperto poche ore dopo e c’è stato un crescendo esponenziale di contagi che tutt’oggi non ha una fine. Dopo i primi dubbi sollevati in un nostro articolo del 15 marzo, quando la gente della Val Seriana iniziava ad interrogarsi su che cosa non fosse stato gestito in maniera corretta nell’ospedale dove sono stati contagiati medici, infermieri e parenti dei pazienti, anche la stampa nazionale ha cominciato a cercare risposte sul perché della riapertura della struttura senza particolari indicazioni, come riferito dallo stesso personale in servizio quella domenica. Alla nostra domanda: “Quella domenica cos’è successo?” un’infermiera in servizio ci aveva detto: “Noi stessi dopo 13 ore di servizio quella domenica, siamo stati rimandati a casa senza nessuna direttiva ne raccomandazione. Abbiamo fermato noi i colleghi dicendo di non entrare in Pronto soccorso, e solo il giorno dopo abbiamo saputo di 2 casi di positività in Medicina e Chirurgia. Poi è stato un crescendo esponenziale“. Negligenze dell’ospedale? Impreparazione o mancata comunicazione tra gli organi superiori e la struttura? Ricordiamo che il 31 gennaio scorso sulla Gazzetta ufficiale era stato proclamato lo Stato di Emergenza in seguito alla dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica del 30 gennaio 2020 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo stato di emergenza prevedeva tra l’altro azioni di prevenzione con il potenziamento delle strutture sanitarie.

Dunque, l’ospedale era stato messo in condizione di gestire l’emergenza visto che tre giorni prima era stato riscontrato a Codogno il paziente 1? A queste domande ha tentato di rispondere la trasmissione di RAI 3 “Chi l’ha visto” andata in onda giovedì 26 marzo con un lungo approfondimento dedicato alla Val Seriana e all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo.

Domenica 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: “Nessuno ci diceva cosa fare”. Nella puntata di giovedì, attraverso la testimonianza shock di un infermiere in servizio, si viene a conoscenza di quanto accaduto quella domenica di febbraio: “Nessuno ci diceva cosa fare. Io sono un RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza). E’ stato un macello. Alzano è rimasta aperta con ambulatori, centro prelievi, come se non fosse successo niente. Non so come hanno ragionato. Com’era possibile una cosa del genere? Ci diceva va bene così“. Quello di RAI 3 non è un atto di accusa contro il personale medico che si è trovato suo malgrado a combattere questa guerra senza le giuste armi e pagando anche il prezzo più caro, ovvero quello di perdere dei colleghi, ma è un tentativo di ricostruire gli errori commessi. Anche noi di Valseriana News abbiamo cercato di capirne di più dopo aver accolto appelli di parenti e operatori socio sanitari. Vi ricordiamo la lettera dell’uomo di Villa di Serio che ha perso entrambi i genitori e che ha denunciato il fatto di non essere stato fermato da nessuno e di essere diventato esso stesso un untore. Una Oss invece ci ha raccontato di aver vissuto tutta la tensione del 22 febbraio nel reparto di Medicina quando si iniziava a capire che quelle strane polmoniti in reparto da giorni non erano le solite. “Il paziente vicino di stanza del mio assistito si sentiva morire, non riusciva a respirare. Ma nessuno aveva capito cosa stesse accadendo”. Anche la nostra indagine dunque ha come obiettivo quello di fare luce sulla falla che ha permesso al virus di espandersi in maniera incontrollabile. A questo proposito pubblichiamo la lettera firmata di un’infermiera che denuncia tutte le anomalie vissute e chiede aiuto a gran voce perché i primi martiri di questa strage sono proprio loro, infermieri e medici ancora oggi impegnati in prima linea. Anche quello che è successo dopo quella domenica è a noi tristemente noto ed è stato ricostruito da altre testate nazionali, come ha fatto TPI.it in questo articolo che racconta di come una nota dell’Istituto Superiore Sanità datata 2 marzo aveva previsto la chiusura di Alzano Lombardo e Nembro. Il dato inconfutabile ancora ad oggi è infatti quello che, laddove sono state istituite subito le zone rosse, come nella provincia di Lodi o a Vo Euganeo in Veneto, i focolai sono rimasti contenuti.

I dati del 27 marzo mostrano la differente situazione tra la provincia di Bergamo e Lodi. Riguardo all’istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro (ad oggi ancora i due Comuni più colpiti) l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera parlava così nella conferenza stampa del 3 marzo: “Zona Rossa? Stiamo attendendo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità”. Questa è stata la risposta data per tutta quella lunga settimana di propagarsi del virus fino a domenica 8 marzo quando venne chiusa prima tutta la Lombardia, poi tutta l’Italia. Ma per la Val Seriana era già troppo tardi.

Virus, niente zona rossa per sei giorni: così ad Alzano e a Nembro c'è stata un'ecatombe. A inizio marzo, nella Bergamasca, si sono registrate le prime anomalie, tra pazienti deceduti, tamponi non fatti e mancate sanificazioni. Infine, la richiesta di una zona rossa che ha tardato ad arrivare potrebbe aver accellerato il processo di contagio. Giovanna Pavesi, Lunedì 06/04/2020 su Il Giornale. Il primo caso di morte per coronavirus nell'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo (anche se non ufficiale), in provincia di Bergamo, si è registrato tra il 21 e il 22 febbraio. La prima persona deceduta è una signora ricoverata nella struttura sanitaria per uno scompenso cardiaco, le cui condizioni non destavano particolare preoccupazione. Dopo essere rimasta sotto osservazione per circa dieci giorni, la donna accusa improvvisamente febbre a 39 e una polmonite. Dopo diverse crisi respiratorie se ne va alle due di notte del 22 febbraio. Alla donna (e ai suoi familiari) non è mai stato fatto alcun tampone.

La vicinanza tra pazienti. Il figlio della signora, Francesco Zambonelli, i tre pazienti affetti da Covid-19 della zona li ha visti tutti. E, in base a quanto ricostruisce un'inchiesta del Corriere della sera sulla diffusione della malattia in provincia di Bergamo e sulla mancata chiusura dei centri abitati più colpiti, in quella circostanza avrebbe avuto a che fare anche con i loro familiari: "Eravamo tutti insieme, nello stesso reparto di medicina, al terzo piano. E con i rispettivi familiari facevamo due chiacchiere nell'atrio di ingresso".

Le strane mascherine. Zambonelli è rimasto vicino alla madre fino al momento della sua morte e in quella circostanza si accorge di una "stranezza", cioè che gli infermieri indossano mascherine che non utilizzano sempre, cioè le FFP2 senza valvola. Nel frattempo, in un'altra provincia lombarda, a Lodi, vengono scoperti i primi casi a Codogno. Poi anche in Veneto, a Vo' Euganeo, in provincia di Padova. E nelle stesse ore, nell'ospedale dove è morta la madre di Zambonelli, si registrano i primi due pazienti positivi alla nuova malattia respiratoria.

I primi positivi. Si tratta di due cittadini di Nembro, altro comune molto colpito della Bergamasca: Franco Orlandi, ex camionista, e Samuele Acerbis, rappresentante di commercio. Entrambi sono ricoverati nella struttura ospedaliera di Alzano nello stesso reparto della madre di Zambonelli, ma ai due pazienti, i tamponi sarebbero stati fatti dopo circa una settimana di permanenza in ospedale. Intanto, il 23 febbraio, nel pomeriggio, il pronto soccorso dell'ospedale viene chiuso, ma dopo alcune ore tutto riapre e, secondo quanto riportato dal quotidiano, senza alcuni tipo di sanificazione e senza alcuna creazione di un triage differenziato.

"Hanno fatto un'ecatombe". "Dall'ospedale di Alzano, qualcuno avrebbe dovuto almeno avvisare dell'esistenza di un pericolo micidiale. Invece hanno lasciato che la gente andasse avanti e indietro ancora per un'altra settimana, dal pronto soccorso agli ambulatori. Era pieno di anziani che andavano a fare l'esame del sangue. Hanno fatto un'ecatombe", ha dichiarato Zambonelli. Anche il padre è deceduto di coronavirus, il 13 marzo, e sua zia Luciana, di 72 anni, che si alternava a lui nell'assistenza al genitore, è morta due giorni dopo. E anche i primi due pazienti risultati positivi nella struttura ospedaliera di Alzano, Orlandi e Acerbis, sono deceduti, esattamente come la donna che aveva il letto di fronte al loro e ad altri malati ricoverati.

Quali responsabilità? Il virus, nella zona, si sarebbe propagato anche dalla struttura ospedaliera di Alzano Lombardo, ma la responsabilità risulta oggi piuttosto difficile da individuare. Secondo i numeri citati dal quotidiano, a oggi, le persone contagiate nel comune in provincia di Bergamo sarebbero 177, mentre a Nembro 2017. In tutta la Bergamasca le vittime hanno raggiunto il numero di 2.378 e ora tutti pensano alla mancata serrata dei comuni. Le istituzioni che hanno potere di chiudere le aree sono l'Ats locale, alla quale spetterebbe un parere non vincolante , e la Regione, della quale ogni istituto di cura rappresenta un presidio territoriale.

Nessuna zona rossa. A oggi, in molti si chiedono come mai non sia stata istituita subito una zona rossa nella provincia di Bergamo, una delle aree che ha contato i numeri più alti di morti. Le ipotesi sono tante e alcune sono legate al lavoro. Il distretto industriale di Alzano-Nembro è uno dei primi cinque d'Italia per Comuni sotto i 300mila abitanti e secondo i dati di Confindustria Bergamo, un'eventuale zona rossa in quell'area avrebbe riguardato 376 aziende, con una forza lavoro che varia dai 120 agli 800 dipendenti, per circa 850milioni di euro all'anno di fatturato. Nessuno, però, dal 3 al 9 marzo, si sarebbe assunto la responsabilità di chiudere l'area (con una conseguente ricaduta economica).

La differenza tra Lodi e Bergamo. Come riportato dal quotidiano, la corrispondenza privata governo-Regione, avrebbe però consentito di ricostruire quanto avvenuto, chiarendo come mai per istituire la zona rossa intorno a Codogno ci sia voluto meno di un giorno, con un'ordinanza firmata dal presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, e dal ministro della Sanità, Roberto Speranza, che chiudeva dieci comuni in entrata e in uscita nel Lodigiano, con i posti di blocco, mentre per Bergamo, che presentava dati più allarmanti non sia bastata una settimana.

I dubbi e le carte. Il 2 marzo scorso, l'assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, avrebbe espresso dubbi e perplessità sull'utilità di una zona rossa in quell'area. Secondo quanto ricostruito dall'inchiesta, i primi cinque report quotidiani che, a partire dalla mattina del 21 febbraio la regione Lombardia inviava alla protezione civile, non avrebbero fatto alcun cenno alla situazione della provincia di Bergamo. Per quasi una settimana, nel documento, sarebbero stati segnalati soltanto i focolai identificati fino a quel momento: quattro e tutti nel Lodigiano. Ma già il 27 febbraio, in provincia di Bergamo, erano 72 i nuovi casi di positività: 19 di questi e tre decessi facevano di Nembro il quarto comune più colpito della regione (insieme a Casalpusterlengo che, però, era già zona rossa).

L'inferno a Bergamo. Intanto nella città lombarda i numeri aumentano e gli ospedali sembrano avere difficoltà. Il 29 febbraio a Nembro ci sono altre 25 persone contagiate e ad Alzano ne vengono segnalati altri 12 e l'intera provincia ormai supera i cento contagi. Nella stessa giornata, la Confindustria di Bergamo pubblicava il video "Bergamo is running", rilanciato anche dal sindaco del Partito democratico, Giorgio Gori. In diverse circostanze, però, al Nord la classe dirigente sembra orientata a "riaprire tutto" o a non fermarsi.

Il parere tecnico-scientifico. A quel punto, Regione Lombardia invocava misure più restrittive, ma non avrebbe mai chiesto, almeno in modo ufficiale, l'istituzione di una zona rossa in quella provincia. Il comune accordo per questa richiesta sarebbe arrivato il 3 marzo, con 423 contagiati nella provincia, 58 a Nembro e 26 ad Alzano, con una scelta comunque affidata al parere degli scienziati. Il Comitato tecnico scientifico, quel giorno, sul suo verbale scrive: "Nel tardo pomeriggio sono giunti all'Istituto superiore di Sanità i dati relativi ai due comuni sopramenzionati, poi esaminati dal Cts. Al proposito sono stati sentiti al telefono l'assessore Giulio Gallera e il direttore generale Luigi Cajazzo di Regione Lombardia che confermano i dati. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un'unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l'R0 è sicuramente superiore a uno, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito, il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa, al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi".

La chiusura. L'unità di crisi della Regione, con una mail a Silvio Brusaferro, direttore dell'Iss, a quel punto, invia una mappa dettagliata della diffusione del virus in tutta la Bergamasca. Nella stessa sera di inizio marzo, in Val Seriana, arriva l'esercito, ma ancora non si chiude nulla. Il 4 marzo, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, firma il primo nuovo decreto che impone la chiusura in tutto il Paese fino al 15 marzo per università, scuole, teatri, cinema. "Con specifico riferimento alla proposta avanzata dal Comitato tecnico scientifico ai due comuni della provincia di Bergamo", comunque già "assoggettati" a misure più restrittive di quelle applicate sul territorio nazionale con il decreto varato il 1° marzo, il capo dell'esecutivo giallo-rosso chiede ai suoi esperti di "approfondire" le ragioni della loro richiesta di una zona rossa per Alzano e per Nembro.

Una fase sempre più critica. Intanto, il 3 e il 4 marzo la Lombardia attraversava una fase critica: a Bergamo i casi erano 33, a Lodi 38, a Cremona 76, a Crema 27, nel comune di Zogno 23 e Soresina e Maleo 19. Ma per il governo "appariva necessario acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la 'zona rossa' a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso in buona parte della Lombardia, estendere il regime all'intera regione e alle altre aree interessate".

Le scelte di Conte. Brusaffero sceglie di rispondere il 5 marzo con una nota scritta e dichiara: "Pur riscontrandosi un trend simile ad altri comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l'adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa". Il 6 marzo, Conte si reca alla protezione civile e lì incontra i membri del Cts per una decisione definitiva, ma ancora non ci sono indicazioni certe e così si supera "la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa". Il 7 marzo, a notte fonda, viene annunciata la serrata del Paese intero e il decreto viene firmato la sera dell'8 marzo, entrando in vigore il giorno seguente (quando ad Alzano ci sono 55 contagiati, a Nembro 197 e in tutta la provincia di Bergamo 1.245). La Lombardia è zona rossa, come tutta l'Italia, ma dalle prime richiesta sono passati sei giorni.

Le responsabilità. Come riportato dall'inchiesta, una nota interna di palazzo Chigi, sembrerebbe fare riferimento a due possibili dispute sul mancato provvedimento: "Quanto alle competenze e ai poteri della Regione Lombardia, si fa presente che le regioni non sono mai state esautorate dal potere di adottare ordinanza contingibili e urgenti". Che, tradotto, potrebbe significare che se la Lombardia avesse ritenuto opportuno creare una zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano avrebbe potuto farlo in autonomia. 

Coronavirus Anno Zero, quel 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: così Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia. Quel pomeriggio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid19 all’ospedale “Pesenti Fenaroli”. La struttura viene immediatamente “chiusa”, per poi riaprire - inspiegabilmente - alcune ore dopo. Nei giorni successivi si apprende che diversi medici e infermieri risultano contagiati. Ecco come è partito il focolaio di Bergamo. Francesca Nava il 17 Marzo 2020 su TPI.

Coronavirus, quel 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: così Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia. Inutile girarci intorno: Bergamo, la città dove sono nata e cresciuta, è oggi l’epicentro italiano di questa nuova pandemia, con oltre oltre 4.000 casi positivi da Coronavirus, centinaia di nuovi contagi al giorno e quasi 400 morti dallo scoppio dell’epidemia. Nelle strade, ormai deserte, si sente solo il suono delle sirene delle ambulanze, una dietro l’altra, come se fosse scoppiata una guerra. I bergamaschi non hanno più nemmeno una bara su cui piangere i propri cari, le pompe funebri sono in tilt, i feretri sono stipati nella chiesa del cimitero o dentro alle tendopoli montate fuori dagli ospedali, in attesa di essere cremati o sepolti in fretta e lontano dagli affetti. Almeno cento i medici di famiglia contagiati, centinaia gli operatori sanitari in quarantena e con la febbre. Negli ospedali i pazienti vengono ammassati dove capita, nell’atrio del pronto soccorso, in sala parto, nei corridoi. Il 4 marzo Bergamo ha superato Lodi, con 817 contagi contro i 780 della zona rossa intorno a Codogno. E c’è solo una domanda che mi gira in testa: perché Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia? Che cosa non ha funzionato? Osservando la mappa del contagio a livello provinciale ci si accorge che il focolaio lombardo (il secondo dopo quello di Codogno) è divampato da una zona ben precisa in Val Seriana, da un piccolo comune che dista meno di sei chilometri da Città Alta. Si chiama Alzano Lombardo e insieme a Nembro detiene il triste record della più alta incidenza di contagi da coronavirus di tutta Europa. Ma andiamo per ordine. Domenica 23 febbraio, nel pomeriggio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid19 all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, almeno uno di loro passa dal pronto soccorso, un luogo angusto e affollato. L’ospedale viene immediatamente “chiuso”, per poi riaprire – inspiegabilmente – alcune ore dopo, senza che ci sia stato “nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione nel pronto soccorso di triage differenziati né di percorsi alternativi”, come denunciano due operatori sanitari che chiedono l’anonimato. “Nei giorni successivi – si legge nella loro lettera pubblicata da Avvenire – si apprende che diversi operatori, sia medici che infermieri, risultano positivi ai tamponi per Covid19, molti di loro sono sintomatici”. Ma le disposizioni cambiano velocemente e pochi giorni dopo “tutti i contatti stretti delle persone accertate positive non vengono più sottoposti a tampone se asintomatici”. Come pensare quindi di delimitare il contagio, isolando i possibili vettori? Si chiedono i due operatori sanitari dipendenti della struttura ospedaliera. La domanda ce la poniamo anche noi. Soprattutto perché la maggior parte delle persone transitate nell’ospedale e nel pronto soccorso quella domenica di fine febbraio, una volta uscite – senza essere né diagnosticate, né isolate e ignare dei casi positivi riscontrati – sono tornate a casa dalle proprie famiglie, il giorno dopo sono andate in ufficio, in fabbrica, a fare la spesa, in palestra, al parco, al bar a fare l’aperitivo, si sono mosse liberamente per il comune, per la provincia e la regione, altre sono anche andate a sciare, magari a Valbondione (località sciistica in provincia di Bergamo) dove, guarda caso, si sono registrate impennate di contagi da coronavirus nei giorni successivi. Le scuole sono già chiuse da alcuni giorni in tutta la Lombardia, ma la gente continua a lavorare e soprattutto a uscire. Intanto nell’ospedale di Alzano Lombardo si ammalano un po’ tutti: dal primario, ai medici, dagli infermieri ai portantini. Ci sono addirittura pazienti che entrano con una frattura ed escono morti positivi a Covid19. E con l’aumento dei casi, aumenta anche la voglia di denunciare. Un’altra infermiera si sfoga con il quotidiano locale Valseriana News: “noi stasera siamo di guardia al pronto soccorso con un medico positivo al tampone – racconta la donna con voce concitata al telefono – e nessuno lo allontana, gli hanno dato ordine di rimanere qui fino a domani mattina, indossando la mascherina. Rischio il posto di lavoro a dire queste cose, ma sono stanca di essere presa per i fondelli, ci sono mille raccomandazioni e poi mi metti di guardia un medico che sai che è positivo!”. Insomma, in barba al buon senso e a qualunque criterio logico di protezione, dall’ospedale di Alzano il contagio si allarga a macchia d’olio a tutta la provincia. “Anche noi siamo rimasti attoniti da quello che è successo quella domenica pomeriggio all’ospedale – mi dice il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi – consideri che la mattina stavamo decidendo se festeggiare o no il carnevale e il pomeriggio ci sono stati i primi due casi”. Ma la gravità della situazione emerge chiaramente una settimana dopo, quando si inizia a vedere un aumento esponenziale dei contagi, soprattutto nel vicino comune di Nembro e sono in molti nella valle a chiedere una zona rossa come quella di Codogno. “Abbiamo capito da subito che la situazione era seria – continua il sindaco Bertocchi – e infatti insieme ad altri sindaci abbiamo emesso immediatamente delle ordinanze urgenti per stringere le maglie di quella ministeriale. Non so se si ricorda ma nella stessa città di Bergamo si invitava la gente a tornare nelle strade a sostenere le attività, a prendere i mezzi pubblici, mentre noi consapevoli della criticità avevamo preteso fermezza. È stato un momento non semplice, perché i nostri operatori e commercianti si chiedevano perché la gente a Bergamo potesse fare ciò che voleva, mentre il sindaco di Alzano li costringeva a chiudere a una determinata ora. Per il semplice motivo che noi avevamo inteso la gravità e il principio era: regole rigide subito per uscirne il prima possibile”. E invece oggi Alzano Lombardo conta oltre 50 morti in tre settimane, sette volte la media. “Più che le fabbriche bisognava fermare tutto quello che succedeva intorno alle fabbriche, penso ai locali, ai ristoranti, la vita è continuata in maniera normale, supermercati pieni, assembramenti in piazza, questo tra il 23 febbraio e l’8 marzo. In Val Seriana la gente continuava a viver come prima. Quando è uscito il decreto ministeriale del primo marzo, nel quale si diceva che le società sportive potevano continuare a restare aperte – stigmatizza Bertocchi – noi lo abbiamo visto come una cosa folle, tant’è che abbiamo chiamato le società sportive e gli abbiamo detto: il decreto vi da la possibilità di restare aperte, ma noi vi invitiamo ad astenervi dal farlo. Qua giocano migliaia di ragazzi, abbiamo squadre di pallavolo, calcio, pallacanestro. La norma aveva introdotto una sorta di lassismo dicendo, va bene potete continuare a fare sport, e noi a ripetere: ma allora non avete capito la situazione! È grave, dal governo non ci date la possibilità di fare delle ordinanze e allora chiediamo un atto di responsabilità ai nostri cittadini”. I giorni antecedenti all’8 marzo – data di chiusura della Lombardia – sono stati tesissimi. “Abbiamo cercato risposte – mi spiega il sindaco di Alzano – e non le abbiamo avute: né dal governo, né dalla prefettura, non abbiamo capito perché si siano aspettati tutti quei giorni. In quei 4 giorni la gente era più interessata a capire se c’era o no la zona rossa e non era interessata a contenere i contagi. Non c’era la percezione del pericolo e questa incertezza non ha giovato alla nostra missione che era quella di contenere l’epidemia. Arriverà il momento in cui capiremo che cosa è successo”. E per capire davvero che cosa sia successo tra il 23 febbraio e l’8 marzo, per capire per quale motivo non si sia sigillata subito (come approvato anche dall’Istituto Superiore di Sanità) una zona infetta di soli 25 mila abitanti – evitando magari di chiuderne una da 11 milioni prima e da 60 milioni dopo – dovremmo considerare anche l’altro aspetto centrale di tutta questa storia, quello economico. Creare subito una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro avrebbe significato bloccare quasi quattromila lavoratori, 376 aziende, con un fatturato da 700 milioni l’anno. “Un danno incalcolabile per il nostro territorio, un enorme dramma per il nostro tessuto economico”, diceva il sindaco Bertocchi due settimane fa quando, invocando la zona rossa, chiedeva comunque ambiguamente di mantenere la circolazione delle merci. Il termometro della preoccupazione è rimasto altissimo per giorni in questa valle produttiva. Colossi come la Persico Group (nota per gli scafi di Luna Rossa per l’America’s Cup) o la Polini Motori si sono trincerate dietro un no comment. Eppure sono molti gli imprenditori che hanno palesato il timore che un isolamento forzato del loro territorio li avrebbe danneggiati irrimediabilmente. L’unica cosa che ci è data sapere oggi sono i numeri incontrovertibili di questa battaglia, messi lì a dimostrarci tutti i nostri errori. Quali siano lo capiremo, forse, a epidemia passata. Intanto la direzione sanitaria dell’ospedale di Alzano Lombardo mi ha comunicato di “non ritenere opportuno in questo momento rispondere” alle mie domande. Hanno altre emergenze da gestire e da una settimana lo fanno anche con l’ausilio dell’esercito.

ESCLUSIVO TPI: Una nota riservata dell’Iss rivela che il 2 marzo era stata chiesta la chiusura di Alzano Lombardo e Nembro. Cronaca di un’epidemia annunciata. Parte II dell’inchiesta di Francesca Nava dalla Bergamasca. Una nota riservata dell’Istituto Superiore di Sanità - che noi di TPI abbiamo potuto visionare - evidenziava, già lo scorso 2 marzo , “l’incidenza di contagi da Covid-19 nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro, e anche in quello bresciano di Orzinuovi, raccomandandone l’isolamento immediato e la chiusura, con la creazione di una zona rossa come quella di Codogno”. Ciò tuttavia non è mai avvenuto. E tutt’oggi quell’area è il focolaio principale che ha fatto diventare Bergamo il lazzaretto d’Italia. Francesca Nava il 26 Marzo 2020 su TPI.

ESCLUSIVO TPI, di Francesca Nava – Nel comune bergamasco di Nembro, in Val Seriana, le sirene delle ambulanze hanno smesso di suonare, per non infierire ulteriormente su una popolazione già provata da un bollettino di guerra quotidiano. Sia qui, sia ad Alzano Lombardo – i due comuni della provincia di Bergamo con la più alta incidenza di contagi da Covid19 – molte fabbriche hanno chiuso dopo il decreto ministeriale di sabato 21 marzo. Eppure, come ci raccontano alcuni sindacalisti della zona, diverse aziende si stanno preparando per ripartire già da lunedì. Altre, invece, non si sono proprio fermate, sfruttando la possibilità di andare in deroga al decreto nel caso in cui l’attività produttiva sia agganciata a quelle consentite. Ed è così che, paradossalmente, ci troviamo oggi davanti a situazioni come quella descritta da un operaio in una lettera aperta al premier Conte: “Buongiorno presidente – scrive Fabrizio – sono un sardo residente nella bergamasca e dopo il decreto sulla chiusura totale, che in realtà non ha chiuso niente, mi sono sentito come un figlio che viene pugnalato alle spalle. Io lavoro nel settore della gomma plastica, ma non facciamo beni primari, bensì giocattolini”. Come la sua, scrive l’operaio, c’è un elenco infinito di ditte – accanto a quella in cui lavora lui – che non fanno beni primari, ma che restano aperte. E’ il nord produttivo che non vuole fermarsi, nonostante tutto. Nonostante questa strage. Fabrizio si sente abbandonato e racconta nella lettera la sua atroce quotidianità: “Non sa che cosa vuol dire lavorare con la mascherina per otto ore. Con pensieri brutti, concentrazione bassa, guardando i colleghi con gli occhi lucidi. Non sa che cosa vuol dire paura. Di infettarsi. Di infettare. Tornare a casa dopo aver incrociato ancora tante ambulanze. Posti di blocco. Arrivare a casa e non abbracciare mia figlia di un anno e mezzo, che vuole le coccole che le davo sempre. Ora che siamo allo stremo e tutti gli ospedali sono al collasso, chiediamo solo di chiudere tutte le ditte, perché il contagio avviene anche in fabbrica. Aiutateci a esser più sereni a casa con i nostri cari. Chiuda tutto. A nome di tutta la bergamasca. Fabrizio, un umile cittadino”. Ancora una volta le fabbriche. Ancora una volta la produttività. Ancora una volta il dilemma tra salute ed economia. E’ questo il grande nodo su cui si è incagliata la macchina dello Stato nella gestione di questa emergenza e su cui ancora di più oggi – che si sono strette le maglie – si gioca la grande partita dell’Italia contro il coronavirus. A partire anche da zone come quelle di Nembro e Alzano, con 25 mila abitanti, 370 aziende, quattromila lavoratori e 680 milioni di fatturato all’anno. Una settimana fa su TPI abbiamo raccontato la storia di questi due comuni e del focolaio lombardo partito dall’ospedale “Pesenti Fenaroli”, mai messo in sicurezza. Una storia nella quale appare sempre più evidente come il combinato disposto di una mancanza di protocolli chiari e i forti interessi economici abbiano fatto passare in secondo piano la tutela della salute pubblica. Secondo quanto riportato recentemente dalla Fondazione Gimbe, organo indipendente di ricerca e informazione in ambito sanitario, “i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti in ambito medico, all’informazione alla popolazione”. Tutte queste attività, inclusa la predisposizione dei piani regionali, erano previste dal”Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006. “È inspiegabile – afferma il Presidente Gimbe, Nino Cartabellotta – che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio”. In fondo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sono sempre state chiare: trova il contagio, isolalo, testalo, traccia tutti i contatti. Modello Corea del Sud, dove il primo focolaio è stato localizzato il 2 febbraio ed è subito scattata la quarantena per tutto il paese, mettendo a disposizione una App per la tracciatura di tutti i cittadini. Risultato: dall’inizio del tracciamento in due settimane i contagi sono passati da 800 a 80 al giorno. Da noi, invece, si è andati avanti un po’ a tentoni, accumulando un errore dietro l’altro, come dimostra questa nuova testimonianza di un’assistente socio sanitaria, che si trovava dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo la notte tra il 22 e il 23 febbraio e che ci è stata segnalata dal giornale online “Valseriana News”. La donna stava seguendo un paziente di 80 anni ricoverato per un check up nel reparto di Medicina generale, in una stanza condivisa con un altro paziente di 60 anni affetto da una grave polmonite. “Il nostro vicino di letto aveva la febbre alta, non riusciva a respirare – racconta l’assistente sanitaria – e chiamava l’infermiera in continuazione, perché era evidente che stesse soffrendo molto, indossava il casco dell’ossigeno, che però continuava a cadere, era agitato, sudava e lo sentivo ripetere ‘non riuscite a capire che io sto morendo, sto morendo’. Queste parole mi sono rimaste impresse nel cervello. Gli infermieri, tra l’altro, avevano iniziato a indossare le mascherine con il filtro, quelle buone, mentre fino a qualche giorno prima li avevo visti solo con quelle chirurgiche e questo dettaglio mi aveva allarmato”. Il giorno dopo, nell’ospedale di Alzano Lombardo, che dista appena cinque chilometri da Bergamo, vengono diagnosticati due casi di Covid19, uno di loro è transitato dal pronto soccorso e un altro nel reparto di Medicina generale. L’assistente sanitaria viene a sapere che il paziente in camera con il suo assistito è morto e che l’ospedale è stato chiuso e riaperto alcune ore dopo la notizia delle infezioni da coronavirus. Nessuno, però, la contatta, né la sottopone a tampone, così come non vengono contattate le altre sue colleghe, che avevano prestato servizio nella struttura ospedaliera infetta e che nei giorni a seguire si sono spostate liberamente per tutta la provincia di Bergamo. Il paziente che la donna aveva in cura muore una decina di giorni dopo. Lei, invece, si ammala: febbre, raffreddore e tosse, e mentre la intervistiamo al telefono non riesce nemmeno a finire di parlare, a causa della forte tracheite che ancora la tormenta. “Ho cinque figli – dice – e nessuno in quell’ospedale ha pensato di proteggermi e di tutelarmi, ci ho pensato io a mandare i miei figli da un’altra parte per non contagiarli, perché sono sicura di aver contratto il coronavirus. Lo hanno preso tutti qui, se hai l’influenza è quasi sicuramente covid, ma ormai il tampone non lo fanno quasi più a nessuno”. Questa storia fa il paio con decine di testimonianze che stanno emergendo in questi giorni, come quella di un uomo di Villa di Serio, che nell’arco di due settimane, a febbraio, ha perso entrambi i genitori transitati per motivi diversi dall’ospedale di Alzano Lombardo. I sintomi prima di morire erano sempre gli stessi, tutti riconducibili al coronavirus. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo, perché sono morti senza che venisse fatto loro il tampone. Contagiati molto probabilmente dentro all’ospedale. Da altri pazienti o dagli stessi operatori sanitari. Un disastro insomma. Ce ne sono centinaia di storie così in questi comuni della bergamasca. Storie di abbandono, di disperazione, di rabbia e di solitudine. Non a caso sono molte le famiglie che stanno pensando di riunirsi in un comitato per chiedere verità e giustizia per le vittime del coronavirus. L’avvocato bergamasco Roberto Trussardi è già stato contattato da alcuni parenti per avere un parere legale e non nasconde lo stupore: “Non si capisce perché la Procura della Repubblica non abbia ancora annunciato l’apertura di un’inchiesta per il reato di epidemia colposa contro ignoti, perché sarebbe utile sapere qual è il magistrato che se ne occupa, in modo tale che i parenti delle vittime e le parti lese possano inviare materiale e fornire una collaborazione per lo sviluppo successivo di un’indagine, che faccia luce su quanto accaduto dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo. Il fatto che ancora non si sia mosso nulla mi sembra incomprensibile – aggiunge l’avvocato – così siamo in un vero e proprio limbo”. Intanto le denunce a mezzo stampa non si fermano. E non ci fermiamo neanche noi. Nel tentativo di fare luce su questa vicenda abbiamo scoperto che l’indicazione tecnico-scientifica di “chiudere” Alzano Lombardo e Nembro era stata messa per iscritto all’inizio di marzo. Per capire meglio facciamo una premessa. Il Governo ha sempre affermato di agire sulla base delle migliori evidenze scientifiche, elaborate anche attraverso una attenta sorveglianza epidemiologica della propagazione del virus su tutto il territorio italiano. Il Comitato tecnico scientifico (Cts), che dal 3 febbraio consiglia il premier Conte sull’emergenza coronavirus, è formato da esperti e dirigenti del settore già inseriti nella pubblica amministrazione per la loro attività in campo sanitario, come ad esempio il direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, un rappresentante della commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome, oltre a scienziati di fama internazionale, come ad esempio Walter Ricciardi. Le decisioni del Governo sono informate dal Comitato tecnico scientifico, ma le modalità con cui il Cts lavora, con cui informa il Governo e con cui il Governo prende le decisioni non sono chiare. La cosiddetta “evidence-based policy”, ovvero la politica basata sull’evidenza scientifica prende le decisioni basandosi sulla scienza, ma non solo. Se queste informazioni vengono date al Governo in via informale o vengono messe a verbale non è dato saperlo, quello che è certo è che se dei verbali esistono, non sono pubblici. Sono secretati. Fatta questa premessa, quello che abbiamo potuto verificare è che in data 2 marzo – una settimana dopo aver diagnosticato i primi pazienti infetti da Covid19 all’ospedale di Alzano Lombardo e mentre la maggior parte dei sindaci della Lombardia, con in testa Giuseppe Sala, sindaco di Milano, e Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, lanciavano gli slogan “Milano non si ferma” e “Bergamo non si ferma” – è stata messa per iscritto una nota tecnica dell’Istituto Superiore di Sanità, che evidenziava l’incidenza di contagi da Covid19 nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi, raccomandandone l’isolamento immediato e la chiusura, con la creazione di una zona rossa, come quella di Codogno. Per quanto riguarda i due comuni bergamaschi veniva sottolineato un ulteriore fattore di rischio, ovvero la pericolosa vicinanza a un grosso centro urbano, dal momento che Alzano Lombardo e Nembro distano solo una manciata di chilometri da Bergamo, divenuta oggi il lazzaretto d’Italia. Questa nota tecnica veniva successivamente dettagliata e arricchita di nuove informazioni in data 5 marzo. Purtroppo non ci è dato sapere, in qualità di cittadini e nemmeno di giornalisti, se questa nota sia mai stata messa a verbale e quindi firmata da tutti i membri del Comitato tecnico scientifico e sia mai arrivata sul tavolo di Conte. Quello che sappiamo con certezza oggi è che una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro non è mai stata decretata – nonostante le evidenze scientifiche, nonostante i contagi e i morti in aumento; sappiamo con certezza che qualcosa è andato storto all’ospedale “Pesenti-Fenaroli”, che la popolazione di quei comuni è stata disorientata e sollecitata da una comunicazione istituzionale a dir poco schizofrenica, che gran parte degli industriali della Val Seriana, alcuni dei quali con un intenso scambio con la Cina, hanno espresso contrarietà, anche a mezzo stampa, rispetto alla creazione di una zona rossa e che si è dovuto aspettare fino all’8 marzo per chiudere tutta la Lombardia e altre 14 province, mentre già da diversi giorni c’era un’indicazione tecnico-scientifica ben precisa che raccomandava l’isolamento di quei due comuni ormai infetti. Se il Governo ha tentennato ci chiediamo se la regione Lombardia, invece, avrebbe potuto chiudere quella zona o se semplicemente non ha avuto il coraggio di farlo, visti gli interessi in campo. Chi lo sa. Quello che è certo è che la mancata creazione di una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro è uno dei più gravi errori commessi nella gestione di questa epidemia. “La stragrande maggioranza dei contagi e dei morti che abbiamo oggi – afferma il presidente di Gimbe Nino Cartabellotta – sono il frutto delle azioni fatte e non fatte tra la fine di febbraio e il 10 di marzo. E’ evidente”.

Quelle migliaia di vittime che potevamo risparmiarci con la zona rossa ad Alzano e Nembro: i dati che certificano una tragedia. I numeri parlano chiaro: quel ritardo nella chiusura della Zona Rossa nella provincia di Bergamo ha portato a un esagerato incremento di decessi. Un disastro colposo che poteva essere evitato. Veronica Di Benedetto Montaccini il 6 Aprile 2020 su TPI. Una vertiginosa impennata. Un balzo imperdonabile in avanti nel numero di morti. La provincia di Bergamo, è la zona più colpita dal Coronavirus: a Nembro nei primi 21 giorni di marzo si è registrato il 1000 per cento in più di morti rispetto al 2019. Nella vicina Alzano Lombardo si è arrivati a + 1022 per cento. Con un picco massimo nel piccolo comune di San Pellegrino Terme, con un incremento del 2000 per cento. È una mortalità dell’1 per cento dell’intera popolazione di quei comuni, più alta di quella riscontrata a Wuhan, in Cina, e più alta che in qualsiasi altra parte del mondo. Fa paura  scorrere lo sguardo sui numeri dei decessi totali raccolti dall’Istat. E ci si rende conto che c’è un peccato originale, una falla nei primi giorni del contagio, quelli cruciali, quelli in cui era ancora possibile fermare, o almeno rallentare, il disastro in Lombardia.

Il peccato originale. Facciamo un passo indietro. L’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera, durante la conferenza pubblica del 6 marzo annuncia: “Tre giorni fa (il 3 marzo) l’Istituto Superiore di Sanità ha formulato una richiesta precisa al governo sull’istituzione di una zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo“. In effetti, il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità (Iss) aveva stilato una nota – che noi di TPI abbiamo rivelato in un’inchiesta esclusiva a firma di Francesca Nava – in cui proponeva la creazione di una “zona rossa” per isolare il “cluster” infettivo di Alzano e Nembro. La Regione, che avrebbe potuto deliberare subito, ha aspettato le decisioni del governo. Il governo decide però solo sei giorni dopo, l’8 marzo, con il decreto che dichiara tutta la Lombardia “zona arancione” e blocca 11 milioni di persone. Ma che cosa succede prima di quel 2 marzo? La crisi inizia domenica 23 febbraio. All’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, Val Seriana, 6 chilometri da Bergamo, dove vengono accertati due casi positivi di Covid-19. Nei giorni precedenti era scoppiato il primo focolaio a Codogno, in provincia di Lodi, che era però stato subito chiuso dal governo, d’intesa con la Regione, in una “zona rossa”. Ad Alzano non si chiude niente. L’ospedale viene fermato solo per poche ore. Nessuna sanificazione, nessun percorso differenziato per chi ha i sintomi del virus. Nessun tampone. L’idea dietro di far sembrare che “sia ancora tutto normale”. Mentre il contagio continua. È proprio qui il peccato originale. Perché la Regione non è intervenuta? I pazienti dimessi dall’ospedale, i loro famigliari, i medici, gli infermieri, i cittadini di Alzano sono lasciati andare in giro a diffondere il virus. Le fabbriche restano aperte. Aperti gli impianti sciistici della vicina Valbondione. L’ospedale diventa una bomba microbiologica. Si ammalano il primario, i medici, gli infermieri, fino ai portantini. Si ammalano i pazienti dimessi e tornati a casa, si ammala chi entra ricoverato per una frattura ed esce infetto. l presidente Attilio Fontana e l’assessore Gallera temporeggiano. Risultato: i malati crescono a dismisura e i morti sembrano quelli di una guerra.

I dati: le conseguenze di un disastro colposo. Per capire le conseguenze di questa grave mancanza, bisogna analizzare i dati. I numeri divisi per comune sottolineano come, tra i territori con più alta incidenza di contagi (cioè la provincia di Bergamo e quella di Lodi), quelli che hanno optato per l’isolamento completo siano riusciti a contenere i contagi. Ad Alzano Lombardo e Nembro i numeri sono impressionanti. Prima di tutto quelli utili sono i dati dell’Istat, ovvero quelli che considerano tutti i decessi. Quindi non solo quelli per Covid-19 annunciati dalla Protezione Civile nel bollettino quotidiano, ma ogni singola salma conteggiata in quel determinato paese. La differenza nel comune di Bergamo, come si vede dal grafico, è abissale. Dal 1 gennaio a fine marzo, nel comune di Nembro risultano per esempio solo 31 morti per Coronavirus, ma 158 morti totali. Amministratori locali, medici di famiglia e operatori di RSA (case di cura per persone non autosufficienti) e residenze per anziani sono tutti concordi nel dire che i numeri ufficiali oggi non rappresentano la realtà. Perché ci sono così tante morti sommerse? Questo dipende dai tamponi, che spesso non vengono fatti post-mortem. Le autorità sanitarie locali non solo non riescono a testare tutti i casi sospetti, ma persino i casi sintomatici e gravi. Soltanto il 18 marzo ad Alzano sono morte otto persone nelle loro abitazioni o in casa di riposo, senza aver ricevuto il tampone, lo stesso numero di decessi che normalmente si verifica in un mese. Addirittura, secondo l’analisi svolta da InTwig, società bergamasca di data management e comunicazione ripresa anche dal New York Times per i dati sulla pandemia, a Bergamo e provincia si può stimare che i morti per Covid19 siano stati 4.500  e i contagiati 288mila nel solo mese di marzo 2020, ovvero il 26 per cento degli abitanti (1 su 4) con punte non solo in Val Seriana (46 per cento) ma in Val Bremana (46 per cento), nei laghi (35 per cento) e nell’area urbana di Bergamo (30 per cento). Considerando quindi d’ora in poi i dati Istat, se si guardano le cifre divise per settimana da gennaio a fine marzo, si vede che ad Alzano Lombardo, paese di soli 13.855 abitanti,  ci sono stati dall’1 al 13 gennaio 7 morti, poi una media di 3 morti fino al 29 febbraio 2020. Poi il triste e incredibile incremento: dal 1 al 7 marzo 25 decessi, dall’8 al 14 marzo 27, dal 15 marzo al 21 marzo 31 morti. A Nembro a inizio gennaio le persone scomparse erano 8, poi 5, 4, 3, 2… Fino alla settimana dal 1 al 7 marzo con 34 morti, Poi 60 decessi dall’8 al 14 marzo e 29 dal 15 al 21 marzo. Mentre Alzano e Nembro continuavano a rimanere aperti, da sabato 22 febbraio dieci comuni del basso Lodigiano venivano ufficialmente chiusi in entrata e in uscita, con controlli serrati da parte delle forze dell’ordine e, quando necessario, anche dell’esercito. Si tratta dei comuni di Codogno, Casalpusterlengo, Fombio, San Fiorano, Castiglione D’Adda, Bertonico, Maleo, Somaglia, Castelgerundo e Terranova de’ Passerini. Prendendone due tra i più rappresentativi, cioè Codogno e Casalpusterlengo, dai dati dell’Istat si vede come l’incidenza dei morti dopo la chiusura a zona rossa abbia una curva discendente rispetto a quella di Alzano e Nembro. Visto che questi comuni non hanno lo stesso numero di abitanti (Alzano ne ha 13.855, Nembro 11.526, Codogno 15.991 e Casalpusterlengo 15.293) per dare un’unità di misura più veritiera, abbiamo calcolato i morti ogni 1000 abitanti. E dal grafico che ne viene fuori, si nota chiaramente che Alzano e Nembro sono gli unici due comuni dove dalla prima settimana di marzo in poi l’indice dei morti sale invece che scendere o diventare stabile.

Vediamo ora le differenze dal 2019. Ad Alzano tra 1 e 21 marzo 2020 si sono registrati 83 morti, mentre nello stesso periodo dello scorso anno ce n’erano stati solo 8: si tratta di un incremento del 1022 per cento. Nel piccolo comune di Nembro, di 11mila anime, a marzo 2020 sono decedute 121 persone, 110 in più rispetto allo stesso periodo nel 2019, 1000 per cento di incremento. A Codogno, per esempio, ci sono stati tra 1 e 21 marzo 87 morti ed erano 15 nel 2019, un aumento del 480 per cento. O ancora, Casalpusterlengo ha contato 32 morti nel 2020 e 14 morti nel 2019: un incremento del 128 per cento. Sempre alto certo, ma minore rispetto alla Val Seriana. Altro dato interessante: capire come Alzano e Nembro siano stati effettivamente l’epicentro della provincia di Bergamo. Le curve di Nembro e Alzano Lombardo schizzano con circa 14 giorni di anticipo rispetto a Bergamo. Il dato in esame sono il numero di morti totali (anche quelli non contagiati dal Covid-19) rispetto alla media dei morti negli ultimi 5 anni. Si tratta di variazioni percentuali e a Nembro arrivano nella seconda settimana di marzo a un +1775 per cento rispetto alla media dei 5 anni precedenti. I dati di Bergamo crescono con percentuali a tre cifre ma in ritardo di circa 14 giorni. Esattamente quelle due settimane di incubazione in cui migliaia di contagiati hanno continuato a circolare liberamente a causa della mancata chiusura dei due comuni.

Troppo tardi. In Val Seriana l’epidemia ha raggiunto il picco circa una settimana dopo la mancata decisione di attuare la zona rossa, quando nel bollettino ufficiale i contagiati confermati a Nembro erano circa 200 e ad Alzano Lombardo quasi 100. La Fondazione Gimbe, organo indipendente di ricerca e informazione in ambito sanitario,  scrive che “i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti in ambito medico, all’informazione alla popolazione”. Attività previste dal ”Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006 e indicazioni previste anche dall’Oms. Tutte attività ignorate. Al momento per le responsabilità di questa mancata chiusura è in corso un fervente scarica-barile tra comuni, Regione e governo. I sindaci dicono: “Noi eravamo pronti per chiudere. La decisione doveva essere di Governo e Regione. Dovevano dare maggior peso alle valutazioni tecniche-epidemiologiche dell’Iss (Istituto Superiore di Sanità) che dicevano che era opportuno fare anche qui una zona rossa”. Il governatore Fontana si rivolge a Conte e l’esecutivo a sua volta punta il dito contro la Regione Lombardia. Bastava chiudere – ma molto prima – un’area di soli 25 mila abitanti. Bastava chiudere in quei dieci giorni cruciali, tra il 23 febbraio, quando il contagio inizia a diffondersi nella Bergamasca, e il 2 marzo, quando l’Iss chiede la “zona rossa” ad Alzano. Non è stato fatto: per non fermare le fabbriche e le attività produttive della zona, per non bloccare quasi 4 mila lavoratori, 376 aziende, un fatturato di 680 milioni. Una scelta politica per la quale a rimetterci la vita sono state tante, troppe, persone. Hanno collaborato all’elaborazione dei dati Camille Aneris e Riccardo Appino.

ESCLUSIVO TPI – Parla un dipendente dell’ospedale di Alzano: “Ordini dall’alto per rimanere aperti coi pazienti Covid stipati nei corridoi”. Tutta la verità sull'ospedale di Alzano Lombardo: una video-testimonianza di TPI.it rivela in esclusiva ciò che è successo davvero tra il 23 e il 25 febbraio in quel Pronto Soccorso, chiuso e poi inspiegabilmente riaperto poche ore dopo che venissero accertati i primi due casi Covid-19. Per la prima volta un dipendente dell’Azienda socio sanitaria territoriale (ASST) Bergamo Est, che gestisce l’ospedale "Pesenti Fenaroli” e denuncia che, con ordini dall'alto, è stato imposto di lasciare aperta la struttura sanitaria, che la sanificazione non è mai avvenuta e che i pazienti Covid-19 venivano respinti e non accolti in altre strutture e lasciati nell'oblio più totale, ricoverati insieme agli altri pazienti dell'ospedale. La cronaca di un disastro sanitario annunciato, che ha fatto diventare Alzano il più grande focolaio d'Europa. Francesca Nava il 9 Aprile. 2020. 

ESCLUSIVO TPI, di Francesca Nava – Chi ha ordinato la chiusura e la riapertura del pronto soccorso dell’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo domenica 23 febbraio? Da chi è arrivato l’ordine di non sgomberare e sanificare immediatamente l’intera struttura ospedaliera? Chi ha lasciato che il personale medico, gli utenti e i loro famigliari tornassero a casa quel giorno stesso senza essere messi in quarantena e diagnosticati, dopo che i primi casi di Covid19 erano stati accertati? Da dove sono partiti gli ordini? E chi poteva opporsi a quelle richieste che oggi, possiamo dirlo, hanno messo a repentaglio la salute di migliaia di persone e causato migliaia di morti? Noi di TPI queste domande ce le facciamo caparbiamente da quasi un mese con un’inchiesta pubblicata in più parti. Da quasi un mese lavoriamo ininterrottamente per ricostruire pezzo per pezzo una catena di comando, che chiama in causa direzioni generali e sanitarie, aziende territoriali, uffici regionali e soprattutto la politica. Quando ormai sono stati certificati 4.500 decessi da Covid19 solo nel mese di marzo, solo nella provincia di Bergamo, ecco che il muro di omertà inizia a sgretolarsi e alcune importanti risposte iniziano ad arrivare. E arrivano da testimoni oculari, da dipendenti dell’ospedale “Pesenti Fenaroli” — struttura regionale oggi al centro di una delicata inchiesta giudiziaria – che hanno vissuto in prima persona quelle ore frenetiche a partire dalla mattina del 23 febbraio e che per la prima volta vuotano il sacco in esclusiva su TPI.

“Ordini dall’alto per rimanere aperti”. “La riapertura del pronto soccorso è avvenuta per ordini superiori, perché il direttore sanitario di Alzano (Giuseppe Marzulli ndr) era chiaramente contrario e si è espresso più volte in questo senso. Dal suo ufficio lo si sentiva urlare con la direzione generale, sanitaria, con la direzione strategica di Seriate (la ASST, l’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo est ndr), che poteva essere la figura del direttore sanitario (Roberto Cosentina ndr) piuttosto che del direttore generale (Francesco Locati ndr) che gli hanno imposto la riapertura”. Arriva come una spada nella roccia la testimonianza di questo dipendente dell’ASST di Bergamo Est, che il 24 febbraio, il giorno dopo quella drammatica domenica, si trovava negli uffici della direzione sanitaria di Alzano. “C’è stata sicuramente una situazione di conflitto – racconta in esclusiva a TPI in una video-intervista il dipendente –  il direttore, il dottor Marzulli, non era d’accordo con la riapertura del pronto soccorso, ma ha eseguito quelli che sono stati gli ordini superiori. Il pronto soccorso è stato riaperto senza che venissero predefiniti dei percorsi di sicurezza e senza nessuna sanificazione specifica. La riapertura è avvenuta semplicemente con la riapertura. Non ci è stata fatta nessuna comunicazione. Non è stata allestita immediatamente la tenda di prefiltraggio, ma solamente nei giorni successivi e il pronto soccorso è stato aperto accogliendo i pazienti presunti affetti da Coronavirus insieme agli altri”. La testimonianza di quest’uomo chiama in causa anche quel Roberto Cosentina, oggi direttore sanitario della ASST Bergamo est, condannato a gennaio in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione per favoreggiamento e omissione in atti di ufficio sul caso dei morti in corsia attribuite all’ex medico di Saronno Leonardo Cazzaniga, condannato all’ergastolo con una sentenza di primo grado. Cosentina è il vice di Locati e può fare le veci anche del direttore sanitario di Alzano Lombardo, Giuseppe Marzulli. Le parole che ci consegna questo dipendente del “Pesenti Fenaroli” inchiodano alle proprie responsabilità la direzione generale e sanitaria dell’ASST Bergamo est di Seriate – da cui dipende anche l’ospedale di Alzano Lombardo. Una azienda regionale. Il capo supremo di questa ASST si chiama Francesco Locati, nominato in quota Lega durante la giunta Maroni nel 2016. Noi di TPI lo abbiamo cercato telefonicamente al cellulare e via mail tramite posta certificata, a partire già dal 13 marzo, senza ricevere mai nessuna risposta. Che sulla discussa riapertura del pronto soccorso e sulla gestione di questa emergenza Covid al “Pesenti-Fenaroli” ci sia stata una evidente situazione di conflitto tra le due direzioni sanitarie, quella di Seriate e quella di Alzano, lo si capisce anche da un’altra testimonianza fondamentale, quella di un’infermiera del pronto soccorso che accetta di parlare in esclusiva con noi di TPI: “All’ospedale di Alzano Lombardo dopo quella maledetta domenica non doveva più entrare e uscire nessuno, fino a che non si fossero stabiliti dei percorsi precisi”. Qui di seguito l’audio-testimonianza dell’infermiera di Alzano: La donna aggiunge anche che “la sanificazione dell’ospedale è stata fatta quattro giorni dopo, per tutto quel tempo le attività hanno proseguito come se nulla fosse. La gente ha circolato in zone infette, senza saperlo. Il nostro direttore sanitario (Giuseppe Marzulli ndr) ha chiuso subito il pronto soccorso, ha avvisato i vertici, il 118 e l’utenza in sala d’attesa, che però fino a tarda sera non se ne è andata. È stato detto chiaro e tondo a tutti: abbiamo un caso di Coronavirus e dovete andarvene, ma molte persone sono rimaste lì fino a sera. Nel frattempo ci siamo messi a redigere una lista di pazienti transitati nel pronto soccorso, nei reparti, i ricoverati, i famigliari, il personale entrato in contatto, lo abbiamo fatto insieme con la capo sala, lo abbiamo fatto noi autonomamente, mentre i vertici si confrontavano sul da farsi. Ma di fatto tutto il personale medico è stato mandato a casa e il giorno dopo si è ripresentato al lavoro”.

La lettera del direttore Marzulli. I tamponi sono stati fatti in maniera disordinata, su un numero limitato di persone e soprattutto in ritardo. Ma l’informazione più sconvolgente che questa infermiera ci consegna riguarda la direttiva della ASST di Seriate di far stazionare i pazienti con sospetto Covid nel pronto soccorso di Alzano Lombardo, fino all’arrivo dell’esito del tampone. L’ordine, in pratica, è quello di non trasferire in nessun altro ospedale della provincia di Bergamo e nemmeno nei reparti del “Pesenti Fenaroli” nessun paziente fino all’arrivo della diagnosi accertata di Covid. Una diagnosi che sappiamo può tardare anche 48 ore prima di arrivare. Questa indicazione “assurda” e “contraria a qualunque protocollo” è sottolineata anche dallo stesso direttore sanitario Marzulli in una disperata lettera datata 25 febbraio in carta intestata  alla direzione di Seriate, che noi di TPI abbiamo pubblicato in esclusiva. Nella lettera su carta intestata si legge: “Presso il Pronto Soccorso stazionano tre pazienti senza che vengano accolti né dall’ospedale di Seriate né da altre strutture aziendali … È evidente che in queste condizioni il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo non può rimanere aperto”. Ad Alzano è stato chiesto in un primo momento di attendere l’esito del tampone sui 3 pazienti. “Tale indicazione” – continua la lettera del direttore dell’ospedale di Alzano – “è assurda (ed uso un eufemismo) in quanto come noto i tempi di refertazione sono mediamente intorno alle 48 ore e ciò vuol dire far stazionare tali pazienti per 48 ore presso il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo, cosa contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso”. La lettera si conclude con la richiesta di un intervento urgente dopo che, una volta sollevata l’assurdità della disposizione, in un secondo momento era stato comunicato che il problema era diventato “la mancata disponibilità di posti letto”.

Le domande senza risposta. “Siamo arrivati a una saturazione totale abbastanza in fretta, abbiamo dovuto mettere i pazienti nei corridoi, nella shock room, non sapevamo più dove sistemarli – racconta l’infermiera del pronto soccorso, che sulla catena di comando ha però un’idea ben precisa – qui ad Alzano è solo uno che può decidere ed è il direttore sanitario (Marzulli ndr). Se il direttore sanitario riceve degli ordini da gente che non è lì sul posto, ma che è dietro a una scrivania, può sempre decidere di non ubbidire. È come se un mio superiore mi chiedesse di dare del cianuro a un paziente, ecco io non lo faccio, perché altrimenti il paziente muore. Marzulli doveva rifiutarsi di eseguire gli ordini di Seriate, doveva prendere tempo e stabilire dei percorsi, isolare tutti, fare i tamponi e dire: quando avremo un percorso sicuro riapriremo”. A chi tocca l’ultima parola? Quanto era informata la Regione Lombardia di questa situazione? Da cinque giorni chiediamo una intervista al presidente Fontana, ma veniamo rimbalzati quotidianamente. Quello che è certo è che nessuno, tra direzioni generali, sanitarie e assessorato al welfare può considerarsi immune da responsabilità. La sanità è competenza regionale. L’ospedale di Alzano Lombardo andava chiuso e sanificato, i pazienti, i famigliari e il personale sanitario andavano isolati e diagnosticati. Lo doveva disporre la Regione Lombardia. Per chiudere l’ospedale di Codogno e cinturare tutta la zona attorno è bastato un solo paziente positivo. Si è chiuso tutto in un solo giorno. Idem nel Veneto, a Mira e a Padova. Ma mentre l’Italia era concentrata su Codogno, come ha detto anche il professor Rezza dell’ISS in un’intervista al nostro giornale, a pochi chilometri di distanza era già attivo un altro focolaio micidiale, quello di Alzano Lombardo. Nessuno si è preoccupato di fermarlo. Migliaia di persone sono morte. Il più giovane ieri nella bergamasca, un uomo di 36 anni. A poco a poco stiamo ricostruendo la catena di comando che ha portato a questa strage che, ci auguriamo, trovi presto i suoi responsabili.

[Riservato TPI] “Vi prego fateci chiudere”: la lettera disperata del 25 febbraio scritta dal direttore dell’ospedale di Alzano alla direzione generale. Ecco il documento esclusivo scritto il 25 febbraio dal direttore dell'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo Giuseppe Marzulli e diretto alla direzione sanitaria dell'ASST Bergamo Est. Di Francesca Nava il 10 Aprile 2020. Lettera direttore ospedale Alzano Lombardo dott. Giuseppe Marzulli.

ESCLUSIVO TPI – Domenica 23 febbraio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid19 all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo. L’ospedale viene “chiuso”, per poi riaprire – inspiegabilmente – alcune ore dopo, senza che ci sia stato “nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione nel pronto soccorso di triage differenziati né di percorsi alternativi”, come hanno denunciato a TPI due dipendenti dell’ospedale. In una lettera ufficiale riportata su carta intestata della struttura ospedaliera, datata martedì 25 febbraio e rivelata in esclusiva da TPI, ci sono le richieste disperate del direttore dell’ospedale Giuseppe Marzulli alla direzione sanitaria dell’ASST Bergamo Est. Nella lettera si legge che “presso il Pronto Soccorso stazionano tre pazienti senza che vengano accolti né dall’ospedale di Seriate né da altre strutture aziendali … È evidente che in queste condizioni il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo non può rimanere aperto”. Ad Alzano è stato chiesto in un primo momento di attendere l’esito del tampone sui 3 pazienti. “Tale indicazione” – continua la lettera del direttore dell’ospedale di Alzano – “è assurda (ed uso un eufemismo) in quanto come noto i tempi di refertazione sono mediamente intorno alle 48 ore e ciò vuol dire far stazionare tali pazienti per 48 ore presso il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo, cosa contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso”. La lettera si conclude con la richiesta di un intervento urgente dopo che, una volta sollevata l’assurdità della disposizione, in un secondo momento era stato comunicato che il problema era diventato “la mancata disponibilità di posti letto”.

Parla un dipendente dell’ospedale di Alzano. TPI ha anche raccolto una video-testimonianza esclusiva: per la prima volta un dipendente dell’Azienda socio sanitaria territoriale (ASST) Bergamo Est, che gestisce l’ospedale “Pesenti Fenaroli” e denuncia che, con ordini dall’alto, è stato imposto di lasciare aperta la struttura sanitaria, che la sanificazione non è mai avvenuta e che i pazienti presunti Covid-19 venivano respinti e non accolti in altre strutture e lasciati nell’oblio più totale, ricoverati insieme agli altri pazienti dell’ospedale. La cronaca di un disastro sanitario annunciato, che ha fatto diventare Alzano il più grande focolaio d’Europa.

Parla un’infermiera dell’ospedale di Alzano. Che sulla discussa riapertura del pronto soccorso e sulla gestione di questa emergenza Covid al “Pesenti-Fenaroli” ci sia stata una evidente situazione di conflitto tra le due direzioni sanitarie, quella di Seriate e quella di Alzano, lo si capisce anche da un’altra testimonianza fondamentale, quella di un’infermiera del pronto soccorso che accetta di parlare in esclusiva con noi di TPI: “All’ospedale di Alzano Lombardo dopo quella maledetta domenica non doveva più entrare e uscire nessuno, fino a che non si fossero stabiliti dei percorsi precisi”. 

La testimonianza esclusiva di un'infermiera presente quel 23 febbraio al pronto soccorso di Alzano Lombardo, lì dove è partito tutto il contagio da Coronavirus nella provincia di Bergamo. Di Francesca Nava Pubblicato su TPI il 10 Aprile 2020. ESCLUSIVO TPI – Un cosa ormai è certa: già dalla prima settimana di febbraio sono stati diagnosticati all’ospedale di Alzano Lombardo diversi casi sospetti di polmonite interstiziale. A nessuno però è stato fatto il tampone, non presentando le condizioni previste dal Ministero della Salute per la definizione di “caso sospetto”. Nessuna delle persone ricoverate nelle prime due settimane di febbraio ad Alzano, per intenderci, era stata in Cina o a contatto con pazienti Covid19, quindi non rientrava nella casistica da diagnosticare e isolare. I primi tamponi all’ospedale “Pesenti Fenaroli” si fanno sabato 22 febbraio. Quel giorno dal pronto soccorso entra un uomo di 84 anni – Ernesto Ravelli – che, come racconta una sua nipote al quotidiano online Valseriananews, aveva trascorso due settimane in quello stesso ospedale dal 5 al 19 febbraio, contraendo il virus proprio in quel frangente. La donna spiega il perché di questa affermazione alla giornalista Gessica Costanzo: “mio nonno non è stato il portatore del virus in Val Seriana, lui era ricoverato per un’emorragia interna da cui si stava riprendendo. Io stessa il 13 febbraio l’avevo visto in buone condizioni. E’ stato poi dimesso il 19 con una brutta tosse, in ospedale non si reggeva in piedi e vomitava schiuma bianca, ma è stato rimandato a casa. Si è ben presto aggravato. Il sabato 22 un’ambulanza l’ha riportato ad Alzano Lombardo. Di nuovo: pronto soccorso e questa volta reparto di Chirurgia, perché in Medicina non c’era posto. Quella sera gli fanno il tampone per il Covid19 a cui la domenica risulta positivo. Da lì alle 23 circa viene trasferito a Bergamo dove muore decretando il triste primato di essere la prima vittima da coronavirus nella provincia di Bergamo”. Questa ricostruzione viene confermata anche da un’infermiera, che già un mese fa al telefono con Valseriananews aveva denunciato la promiscuità di persone infette e non tra il personale sanitario di turno al pronto soccorso. La donna, che ha vissuto le prime drammatiche ore di quel 23 febbraio, accetta di raccontare tutto a TPI. Questa la sua testimonianza, che pubblichiamo integralmente: “Il 23 mattina viene comunicato un caso sospetto Covid al pronto soccorso, su cui era partito il tampone, si decide quindi di chiuderlo nel primo pomeriggio e si invita l’utenza che si trovava nella sala d’attesa ad allontanarsi. Alcune ore dopo vengono trovati altri due casi positivi in Medicina e Chirurgia, uno di loro è Ernesto Ravelli, il pensionato che era passato in pronto soccorso due giorni prima. I due casi Covid19 accertati erano ricoverati da alcuni giorni in ospedale, per questo bisognava svuotare subito i reparti e sanificare tutto. Ma questo non è stato fatto. Il 23 stesso abbiamo fermato tutti i colleghi, è stato transennato l’ingresso in entrata e anche in uscita, poi verso le dieci di sera, quando è arrivato l’ordine di andare, tutti sono tornati a casa, parenti compresi. È stato lì il casino. Lì non doveva uscire nessuno, né i parenti né i pazienti. Dovevano isolarci, farci i tamponi, senza lasciarci andare via. Il lunedì e il martedì tutto l’ospedale è andato avanti con le normali attività, perché non ci hanno proprio cagato di striscio. O non volevano fare allarmismo o non si capisce perché sia andata così. Come se nulla fosse si entrava e si usciva, hanno operato e fatto attività ambulatoriale. E’ stato questo il grosso errore. La mattina del 23 febbraio il nostro medico ha chiuso nell’immediato, ha avvisato i vertici, ha avvisato il 118 che non avrebbero accettato più nessun paziente e ha avvisato l’utenza che c’era in sala d’attesa. Tra l’altro l’utenza in sala d’attesa fino a sera tardi non se n’è andata, ed erano forse le persone che potevano andarsene immediatamente. Non hanno percepito la gravità della situazione, eppure è stato detto chiaramente: abbiamo qui un caso sospetto di coronavirus, il pronto soccorso in questo momento viene chiuso a tempo indeterminato. Poi però sono rimasti lì. Ai colleghi del pomeriggio abbiamo detto di non entrare neanche, di andarsene a casa e nel frattempo ci siamo messi a redigere delle liste con i nomi dei pazienti transitati, parenti dei pazienti, personale nostro che è stato a contatto con gli infetti, è scesa la nostra responsabile infermieristica di Alzano insieme alla capo sala della Medicina per compilare queste liste di tutte le persone che a nostro avviso dovevano essere avvisate di essere venute in contatto con casi Covid e andavano messe in quarantena. Queste liste le abbiamo fatte noi in autonomia, mentre il nostro direttore medico Marzulli si confrontava con i superiori. Queste liste erano in mano ai capo sala e non so che fine abbiano fatto. Il punto è che io per prima sarei dovuta essere messa in quarantena, invece quella sera io, come tutti, siamo tornati a casa. E ci è stato detto dal direttore e dal nostro responsabile di tornare il giorno dopo tranquillamente a lavorare. Il pronto soccorso so per certo che alle 22 era di nuovo aperto, me lo hanno detto i miei colleghi che iniziavano il turno di notte, quindi gli utenti potevano entrare e le ambulanze arrivavano. Il pronto soccorso, nonostante la chiusura di alcune ore, ha avuto dentro gente fino a tardi, nonostante l’allarme. Al caso sospetto del pronto soccorso è stato fatto il tampone, ma è stato isolato e trasferito a Bergamo prima che arrivasse il referto, mentre in Medicina e in Chirurgia c’erano già due persone positive. I giorni successivi a quella domenica 23 febbraio è arrivata una richiesta da parte dell’Asst Bergamo est di mantenere i casi sospetti fermi al pronto soccorso finché non fosse arrivato l’esito del tampone. All’inizio le indicazioni erano queste, tant’è che noi a un certo punto non avevamo più né attacchi d’ossigeno, né lettini dove mettere i pazienti. Alla fine tutto il pronto soccorso è diventato Covid. Abbiamo tenuto lì le persone anche 24-48 ore, aspettando i referti. Già dal lunedì 24 il pronto soccorso è stato diviso in due ed è stato creato un percorso dedicato, ma la sera del 23 non c’erano percorsi differenziati e abbiamo utilizzato quelli vecchi stabiliti per la Sars e per l’ebola. Da subito i pazienti Covid sono cresciuti a una velocità impressionante. Sin dai primi giorni abbiamo dovuto eseguire gli ordini dell’Asst di Seriate che ci obbligava a tenerli dentro al pronto soccorso, senza poterli trasferire nei reparti o in altri ospedali fino alla conferma della positività. Li abbiamo messi ovunque: nei corridoi, nella shock room. Non avevamo stanze di isolamento e alla fine anche nel triage sono stati messi dei posti letto. Da subito abbiamo chiesto che almeno uno dei reparti già infetti, tra Medicina e Chirurgia, fosse adibito solo ai casi Covid, perché il pronto soccorso si satura velocemente già con venti persone allettate, non si riesce più a fare niente. Avevamo pazienti dappertutto, non sapevamo più dove sistemarli, l’ordine era di tenerli lì, ma ad Alzano non abbiamo nemmeno una terapia intensa e quindi li mandavamo a Seriate, a Bergamo, dove c’era posto. Ma anche lì a un certo punto hanno iniziato a non prenderceli più, perché anche lì si stavano saturando. Infatti dopo alcuni giorni anche ad Alzano si sono creati dei reparti solo per Covid con la terapia sub-intensiva, la cosiddetta cpap. Noi in pronto soccorso abbiamo avuto una media di venti pazienti al giorno ricoverati, di più non potevamo tenerne. Non è molto lo spazio. L’osservazione breve ha quattro posti letto, poi ci sono i moduli con una barella, ne abbiamo istituiti due con due posti letto, il triage altri quattro posti e infine la shock room con due posti letto. Quattordici in tutto, ma ne abbiamo avuti anche di più in osservazione per giorni. Qui ad Alzano è solo uno che può decidere ed è il direttore medico (Giuseppe Marzulli ndr). Se il direttore riceve degli ordini da gente che non è lì sul posto, ma che è dietro a una scrivania, può sempre decidere di non ubbidire. È come se un mio superiore mi chiedesse di dare del cianuro a un paziente, ecco io non lo faccio, perché altrimenti il paziente muore e ne risponderò. Marzulli doveva rifiutarsi di eseguire gli ordini di Seriate, doveva prendere tempo, non aprire e stabilire dei percorsi, isolare tutti, fare i tamponi a pazienti, parenti, infermieri e medici e dire: quando avremo un percorso sicuro riapriremo. Tant’è vero che i reparti poi li hanno svuotati e sanificati, ma quattro giorni dopo. Il danno ormai era già stato fatto. Avrebbero dovuto fermare tutto almeno per 24-48, solo così si sarebbe limitato il contagio. Anche i sindaci se avessero voluto avrebbero potuto imporsi: “io Alzano lo chiudo”, “io Nembro lo chiudo”. Conte ha dato le direttive e nessuno avrebbe impedito a nessuno di fare zone rosse, l’esercito era in giro, chi l’ha chiamato? E chi gli ha detto di tornarsene indietro? Chi aveva il potere per farlo poteva fare una zona rossa, senza aspettare ordini superiori. Perché non si è fatta la zona rossa? Perché c’è la Persico, Radici….il sindaco di Alzano poteva chiuderlo il suo comune, hanno questo potere, sono lì apposta, è il loro lavoro, nessuno avrebbe chiesto loro di rispondere su un’epidemia del genere se avessero peccato in eccesso. Non si sono presi le responsabilità, non hanno avuto le palle di chiudere i loro paesi? Ora stessero zitti tutti quanti”. Qui di seguito la una seconda testimonianza esclusiva dall’ospedale di Alzano: “Ordini dall’alto per rimanere aperti coi pazienti Covid stipati nei corridoi”.

Report e la “zona grigia”: cosa non è stato fatto per evitare il disastro di Bergamo. Antonio Murzio il 7 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. I dati ufficiali sui decessi da Coronavirus? Andrebbero moltiplicati per dieci, dodici volte. Parola di Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, il paese della Bergamasca che ha il più alto tasso di contagiati in Europa. Pronunciate davanti alle telecamere della trasmissione Report di Raitre che ieri sera ha mandato in onda un servizio sulla “zona grigia”, termine col quale si è soliti indicare quelle situazioni in cui la commistione di interessi influenza la scelte della politica senza esporsi in prima linea, che ha portato la provincia di Bergamo, la Val Seriana, in particolare, ad essere la zona d’Italia più colpita dalla diffusione del Covid-19. La trasmissione di Sigfrido Ranucci ha ricostruito, nel suo stile di sempre, con testimonianze inedite, quello che è successo a Nembro, Alzano Lombardo, nella stessa Bergamo, dove, ad influire su scelte sbagliate di cui si paga ancora oggi il prezzo in termini di vite umane, sono stati gli errori della politica regionale e la pressione esercitata dagli industriali, che si sono opposti, fino a quando hanno potuto, alla dichiarazione di zona rossa per la Val Seriana per poter continuare la produzione negli stabilimenti di una delle aree più industrializzate del Paese. Tanto che il 28 febbraio, l’associazione di categoria, invita i propri iscritti a utilizzare i propri canali social per infondere ottimismo all’insegna dell’hashtag “Yeswework”, per tranquillizzare gli investitori stranieri e diffonde un video che trasuda ottimismo. Nella stessa data, il presidente locale di Confindustria Marco Bonometti, intervistato per radio su un canale Rai, dice che “la gente può tornare a vivere come prima”. Peccato che a smentirlo siano i contagi, passati in una settimana dai primi due registrati ad Alzano Lombardo, a 220. E che ad oggi, nella provincia di Bergamo, i positivi si stiano avvicinando a quota diecimila, tanto che oggi gli stessi industriali ammettano: “quel video è stato un errore”. Ma perché Bergamo e la sua provincia sono così flagellate dalla pandemia? Cosa è accaduto? E soprattutto cosa non è successo per evitare il disastro. Sempre Report ha ricostruito il percorso della catastrofe sanitaria partendo da dove si sono registrati i primi due casi di Coronavirus, l’ospedale di Alzano Lombardo. Era il 23 febbraio scorso, poche ore prima a Codogno una anestesista del pronto soccorso dell’ospedale locale aveva individuato nel 38 Mattia il “paziente 1”. Nel pronto soccorso dell’ospedale bergamasco, invece, l’attività è proseguita senza che nulla fosse fatto, secondo quanto dichiarato a Report da un infermiere che vi presta servizio, senza cioè che venissero suddivise “zone sporche e zone pulite”. Quarantotto ore di ritardo che si aggiungono al fatto che una paziente positiva al Coronavirus viene mandata in reparto. A raccontare la storia il figlio della signora deceduta, Francesco Zambonelli, che al programma di Raitre ha raccontato: “Mia madre si era recata in ospedale per uno scompenso cardiaco, ma durante gli altri ricoveri non aveva mai avuto febbre, invece questa volta ha avuto anche crisi respiratoria e dopo due giorni di agonia è morta”. Sempre l’infermiere del pronto soccorso di Alzano: “Ci sono stati così pazienti che sono stati gestiti senza la consapevolezza di quello che stava succedendo”. In altre parole, per giorni è stata prolungata la promiscuità, che è da sempre la migliore alleata del virus, con accessi al pronto soccorso di persone che magari vi si recavano per altre patologie e venivano a contatto con contagiati (consapevoli o meno). Il visir nella Bergamasca è stato poi favorito dalla mancata realizzazione della zona rossa. Per Andrea Agazzi, segretario dei metalmeccanici della Fiom Cgil di Bergamo, “Confindustria sicuramente ha giocato la sua partita”. E una conferma arriva anche da Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano: “Sono stato sommerso di telefonate per questa cosa”. La “cosa” era la dichiarazione di zona rossa che la Val Seriana si aspettava ma che non è mai arrivata perché confluita nell’arancione attribuito a tutta la Lombardia l’8 marzo. Dall’altro capo del telefono, e non solo con Bertocchi, ma anche con gli altri sindaci, compreso quello del capoluogo Giorgio Gori, spesso c’erano amministratori dei più grandi complessi industriali della zona, a partire da Piero Persico, titolare dell’omonima azienda, leader nella produzione di natanti (nei suoi cantieri nasce “Luna Rossa”). Ma nella zona insistono altri colossi, come la Brembo, 2,6 miliardi di euro di fatturato, che ha relazioni molto intense con la Cina, la Tenrais e la Abb. Per non parlare della miriade di piccole e medie aziende. Molte hanno perfino cambiato il codice Ateco (quello attribuito dalle Agenzie delle entrate ad ogni settore merceologico) per provare a rientrare tra quelle ritenute essenziali e quindi non interrompere la produzione. A Bergamo quindi, per gli industriali, o si produce o si muore. Fuori dal perimetro delle zone industriali, intanto, si muore soltanto, Soprattutto nelle residenze sanitarie assistite. Per Melania Cappuccio direttrice sanitaria di Casa Serena, gli ospiti delle usa bergamasche decedute a causa del Coronavirus sono almeno 500, il 10 per cento del totale delle 65 residenze. Ma in Lombardia è strage di anziani anche a Milano, al Pio Albergo Trivulzio (70 morti), a Lodi, all’rsa Santa Chiara (52 deceduti), a Mediglia, nel milanese (più di 60). Come è potuto accadere? Spiega la dottoressa Cappuccio: “Tutte le RSA avevano deciso di chiudere, poi la Regione Lombardia “consiglia” vivamente di tenere aperto per no seminare panico. Ma non arrivano né mascherine né tamponi, tanto che ad ammalarsi sono anche parenti e personale sanitario, io in un giorno ho avuto 102 addetti in malattia, un terzo di tutto il personale”. Ma come mai i tamponi non arrivano? Il presidente leghista della Regione Lombardia in una conferenza stampa del 26 marzo si giustifica: “La regione ha seguito tutti i protocolli dettati dall’Istituto superiore di sanità”. Ormai, si sa, che il gioco del rimpiattino è il preferito del Pirellone, che avrebbe potuto autonomamente dichiarare zona rossa la Val Seriana, come hanno fatto altre regioni, e far eseguire più tamponi, seguendo l’esempio del Veneto. 

La zona grigia. Report Rai PUNTATA DEL 06/04/2020 Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara e Simona Peluso, immagini di Davide Fonda e Fabio Martinelli, dall'Istituto Superiore di Sanità: Giulia Presutti. Le telecamere di Report sono andate a Bergamo, la provincia con il più alto numero di morti e di contagiati in Italia. Forse la pandemia poteva essere contenuta o anche solo rallentata. A inizio marzo si era deciso di chiudere la città e trasformare la provincia in una zona rossa. Come mai non è più accaduto? Chi ha influenzato le scelte del governo? Grazie a testimonianze inedite verrà raccontata la catena di errori fatta negli ospedali della provincia bergamasca. Report è stato anche in Veneto dove la strategia adottata in provincia di Padova ha fermato il contagio.

“LA ZONA GRIGIA” Di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara e Simona Peluso Immagini Davide Fonda – Fabio Martinelli Montaggio e grafica Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In queste ore c’è uno scarico di responsabilità e un tiro incrociato di accuse: il governatore della Lombardia Attilio Fontana accusa i sei sindaci della bergamasca, i quali però rispondono e rimandano la accuse al mittente. Ricordano che è la regione che accredita e rimborsa queste strutture. E ricorda al governatore sei tu che devi provvedere agli strumenti di protezione per gli operatori sanitari e anche per gli anziani ospiti di quelle cure. Insomma, siamo agli stracci in faccia. Sulla questione poi che è stata per anni il fiore all’occhiello di quella regione: la sanità. Ostentata come modello da seguire in tutto il paese. Però c’è una questione perché nella bergamasca pur contando la più alta percentuale rispetto alla popolazione di mortalità per il virus, non è stata dichiarata zona rossa. C’erano i sindaci che erano stati anche allertati dalla Prefettura, hanno detto fate attenzione perché questa sera alle 19 si chiude. Poi, non è avvenuto. Perché? Forse perché ha prevalso su quella rossa, una zona grigia, l’incubatore di interessi personali, di interessi economici che ha alimentato una sottovalutazione del fenomeno e ha generato una serie di errori. Uno, un peccato originale Report l’ha trovato e ha raccolto ll nostro Giorgio Mottola la testimonianza inedita di un infermiere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 23 febbraio è il giorno zero della pandemia in provincia di Bergamo. All’ospedale di Alzano Lombardo vengono scoperti i primi due casi positivi al Covid 19. Senza alcun preavviso o spiegazione la struttura sanitaria viene subito chiusa, sigillata.

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) Dopo due ore abbiamo saputo che erano diventati sette ricoverati all’ospedale di Bergamo e da lì poi tutta l’escalation.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’escalation parte da qui. Quello stesso 23 febbraio una volta chiuso, l’ospedale di Alzano Lombardo viene altrettanto misteriosamente riaperto dopo qualche ora.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa è successo nell’ospedale di Alzano Lombardo?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Eh, questo io non sono in grado di dirlo: noi sappiamo che inizialmente ci sono stati una serie di malati che poi sono risultati positivi, che sono stati gestiti evidentemente senza la consapevolezza di quello che stava succedendo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ricostruire la vicenda dell’ospedale di Alzano è fondamentale. La zona di Alzano è stato infatti il primo focolaio ufficiale della provincia di Bergamo. Dove in poco meno di un mese si passa da due a oltre novemila contagi ufficiali.

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Quel 23 febbraio io ero in turno e ad un certo punto è arrivata la notizia di due degenti positivi al Covid, degenti in medicina, che nei giorni prima erano transitati presso il nostro pronto soccorso e uno dei due aveva soggiornato prima nel reparto di chirurgia.

GIORGIO MOTTOLA Quindi nel momento in cui si scopre che sono positivi, scatta il panico.

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Scatta il panico fino a quando è arrivato appunto da parte della direzione sanitaria l’ordine di chiudere l’accesso all’ospedale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalla testimonianza inedita di questo infermiere del pronto soccorso emergono gravi responsabilità nella gestione dell’emergenza. Quel 23 febbraio, venuti a conoscenza che i pazienti erano entrati a contatto con altri malati, medici e infermieri, la dirigenza dell’ospedale chiude la struttura.

GIORGIO MOTTOLA Mentre era chiuso si è proceduto alla sanificazione del pronto soccorso dell’ospedale?

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) È stato fatto nei giorni successivi, ma non nell’immediato.

GIORGIO MOTTOLA Subito dopo il 23 è stato avviato un protocollo per cui c’era isolamento tra i vari reparti, tra i vari malati?

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Nei giorni successivi non c’è stato prontamente una suddivisione in zone pulite e in zone sporche.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ospedale viene dunque riaperto senza però essere sottoposto a una sanificazione e senza aver isolato i malati positivi al Covid.

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Questa sottovalutazione del problema ha permesso che questi contagi poi arrivassero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il contagio potrebbe essere iniziato all’interno dell’ospedale già prima del 23, come ci racconta dalla sua quarantena il figlio di una paziente.

FRANCESCO ZAMBONELLI Il 22 febbraio mi trovavo all'ospedale di Alzano Lombardo perché stavo vegliando mia mamma che era ricoverata da una decina di giorni, dodici giorni, e quella notte è venuta a mancare. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La madre di Francesco era andata in ospedale per uno scompenso cardiaco: prima del ricovero non mostrava sintomi da Coronavirus.

FRANCESCO ZAMBONELLI Durante gli altri ricoveri per questa patologia non ha mai avuto febbre. Questa volta dopo una settimana, otto giorni che era in ospedale, ha avuto febbre, una crisi respiratoria e poi dopo due giorni di agonia praticamente è morta. Il fatto che il giorno dopo che è deceduta han trovato il coronavirus, secondo me, il virus in reparto c’era.

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Abbiamo visto polmoniti arrivare in pronto soccorso, delle polmoniti strane.

GIORGIO MOTTOLA Quando hanno cominciato ad arrivare?

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Da febbraio, già da febbraio arrivavano queste polmoniti.

GIORGIO MOTTOLA Da inizio febbraio? INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Esatto. Non si è mai pensato potessero essere Covid. E non lo si è mai pensato neanche quando Codogno era già comunque in zona rossa. Codogno è alle nostre spalle.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E persino da prima di inizio febbraio sono stati notati sintomi anomali in molti malati anche da molti medici di base della Val Seriana, l’area della provincia di Bergamo epicentro della pandemia.

MARIO SORLINI - MEDICO DI BASE VAL SERIANA (BG) C’è stato un numero più elevato di pazienti anche quarantenni, cinquantenni, che avevano delle strane forme di polmonite che col senno di poi, sto parlando dal 10-15 gennaio in poi, teoricamente, potremmo ascrivere a Covid.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma il 23 febbraio quando è divenuto chiaro che l’epidemia era arrivata e il virus è stato riconosciuto, le prime misure di contenimento dell’ospedale di Alzano Lombardo sono arrivate con drammatico ritardo. GIORGIO MOTTOLA Dopo che si è scoperto che l’ospedale era diventato infetto, sono stati fatti i tamponi a tutto il personale medico-sanitario?

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) I tamponi sono partiti da giorno 25.

GIORGIO MOTTOLA Due giorni dopo.

INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Due giorni dopo.

GIORGIO MOTTOLA I tamponi sono stati fatti anche ai familiari e alle persone con cui sono entrati in contatto? INFERMIERE PRONTO SOCCORSO - ALZANO LOMBARDO (BG) Che io sappia no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal 23 febbraio, in una sola settimana, i positivi al Covid in provincia di Bergamo passano da 2 a 220, localizzati per lo più in Val Seriana. A Codogno ne erano bastati poco più di 50 per decidere di chiudere la città e trasformarla in zona rossa. Come mai non si è fatta lo stesso in Val Seriana? Per capire le ragioni di questa scelta, anzi di questa non scelta, bisogna riavvolgere il nastro e tornare ai primi giorni di marzo.

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO – 1/03/2020 Purtroppo, devo informarvi che oggi mi è stata comunicata la mia positività al virus.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Claudio Cancelli è stato tra i primi contagiati di Nembro, comune della Val Seriana di cui è sindaco. Il suo paese, poco più piccolo di Codogno, in proporzione agli abitanti, ha il triste primato di contagiati in Europa.

GIORGIO MOTTOLA Qui avete avuto numeri più alti che a Codogno, però Codogno è diventato zona rossa e Nembro non lo è mai diventata.

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Abbiamo sempre, mi sembra in questa vicenda, operato un po’ in ritardo e questo ha facilitato la diffusione, inevitabilmente anche nei comuni che inizialmente non erano colpiti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei primi giorni di marzo, l’Istituto Superiore di Sanità sembra prendere in seria considerazione l’ipotesi di chiudere in una zona rossa alcuni comuni del bergamasco.

GIORNALISTA C’è l’ipotesi di istituire nuove zone rosse oltre a quelle che già ci sono?

CONFERENZA STAMPA 3 MARZO 2020 SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Stiamo analizzando insieme alla Regione Lombardia con grande attenzione l’evoluzione dei nuovi casi nei comuni della cintura bergamasca.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quei giorni i vertici dell’Istituto Superiore di Sanità sono molto preoccupati per come si stanno mettendo le cose in Val Seriana e per questo a partire dal 3 marzo la zona rossa è molto più di un’ipotesi. Lo racconta per la prima volta davanti alle nostre telecamere il sindaco di Alzano Lombardo, il secondo comune della Val Seriana più colpito dalla pandemia.

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) Io sapevo esattamente che la zona rossa era pronta. C’erano i mille militari a Bergamo, il comandante aveva i turni per le guardie, io avevo preparato i decreti per la costituzione della COC, del centro operativo comunale, ho fatto montare, ripeto, la tenda, protezione civile allertata. Convocata l’unità di crisi.

GIORGIO MOTTOLA Chi l’aveva allertata che da lì a poco si sarebbe fatta?

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) La prefettura per due sere mi ha confermato questa cosa. Lo stesso maresciallo mi ha confermato la stessa cosa.

GIORGIO MOTTOLA Cioè, le hanno detto non si preoccupi, guardi che si sta per avviare la zona rossa, si sta per istituire. CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) Noi eravamo convinti che alle sette si dovesse chiudere. Tutte le sere alle sette io avevo questa convinzione. E invece poi non succedeva mai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il suo racconto ci viene confermato anche dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. GIORGIO MOTTOLA A lei è sono mai state date rassicurazioni sull’istituzione di una zona rossa?

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO I contatti che io avevo, mediati da amici che stanno a Roma, che lavorano più a contatto con il governo erano: “Ci stanno ragionando, stanno pensando, forse decidono domani, forse tra due ore”. E poi questa decisione non è arrivata; è arrivato l’esercito, che ha fatto sopralluoghi per vedere le vie d’uscita, per chiudere fisicamente…

GIORGIO MOTTOLA È arrivato anche l’esercito a organizzare la zona rossa.

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Sì, sì; e però poi insomma, la zona rossa non è mai nata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma quando Conte appare in tv l’8 marzo il provvedimento annunciato è completamente diverso da come tutti i sindaci della Val Seriana se lo aspettavano.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Per le parti della Lombardia e delle altre province del Nord che ho menzionato, ci sarà il vincolo di evitare ogni spostamento, vincolo per tutte le persone fisiche in entrata e in uscita dai territori, anche all’interno dei territori. Ci si muoverà quindi solo per comprovate esigenze lavorative.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi nessuna zona rossa ma solo zona arancione. La provincia di Bergamo si chiude agli ingressi e alle uscite, ma le fabbriche e tutti gli altri luoghi di lavoro restano aperti. Questo sebbene quell’8 marzo in una sola settimana i contagi fossero schizzati da 220 a 997.

GIORGIO MOTTOLA Ma come è possibile che non si sia proclamata a un certo punto la zona rossa?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Eh, io questo onestamente non sono in grado di valutarlo. Sicuramente abbiamo un tessuto produttivo molto ricco e quindi avrebbe avuto un impatto sul lavoro, sull’economia, sul benessere di questa zona importante. Sicuramente Confindustria, come altre associazioni, avranno rappresentato quelli che erano i bisogni e le esigenze del territorio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Confindustria di Bergamo la sua posizione l’aveva esposta in modo molto chiaro sin dal 28 febbraio, quando l’epidemia era agli inizi, ma aveva raggiunto già 110 positivi in meno di cinque giorni. Sui propri canali social Confindustria pubblica questo video per gli investitori stranieri.

VIDEO CONFINDUSTRIA BERGAMO In Italia è stato diagnosticato lo stesso numero di casi degli altri paesi. Gli attuali avvertimenti sanitari del governo italiano indicano che i rischi di infezioni sono bassi. Apprendiamo dai media un aumento della preoccupazione nei confronti della situazione italiana dove però si stanno facendo più test rispetto agli altri paesi e quindi si ha l’impressione sbagliata che ci siano più contagiati. Vogliamo confermarvi che le nostre imprese non sono state toccate, tutte andranno avanti con i loro affari come sempre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insomma, va tutto bene. Le fabbriche continueranno a lavorare e a produrre a pieno ritmo. D’altronde Bergamo deve correre, non può fermarsi. In Val Seriana sono concentrate alcune tra le più importanti e floride industrie italiane che producono il pil più alto del nostro paese.

ANDREA AGAZZI – SEGRETARIO GENERALE FIOM BERGAMO Quando siamo stati a un passo dall’istituzione della zona rossa sui comuni di Alzano e Nembro che era una roba che ormai tutti davano per scontato, si narra che alcune aziende importanti della zona abbiano fatto appunto pressioni per ritardare quanto meno la zona rossa. Confindustria ha giocato la sua partita e il governo secondo me a un certo punto ha scelto da che parte stare.

GIORGIO MOTTOLA Ci hanno parlato di forti pressioni da parte delle attività produttive, da parte degli imprenditori per evitare la zona rossa.

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) Tutti coloro che si rivolgevano a me era per capire come potevano svincolarsi da questi obblighi. GIORGIO MOTTOLA Cioè, le sono arrivate molte telefonate preoccupate per la zona rossa?

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO DI ALZANO LOMBARDO (BG) Son stato sommerso di telefonate per questa cosa. Perché ripeto, la preoccupazione più grossa era capire come evitarla. Per cui le stesse imprese dovrebbero farsi un esame di coscienza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli stessi giorni Confindustria Lombardia invita ad abbassare i toni ed evitare di dare la percezione di una situazione fuori controllo, fa un appello ai suoi iscritti a diffondere l’hashtag, “Yes we work”, sì, noi lavoriamo.

DA RAI RADIO 1 VIVAVOCE 28 FEBBRAIO 2020 MARCO BONOMETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA LOMBARDIA Rimediare cercando di abbassare i toni e far capire all’opinione pubblica che la situazione si sta normalizzando. Giustamente si son prese delle misure drastiche prima, ma oggi bisogna gestire la situazione in modo diverso. Bisogna far capire che la gente può ritornare a vivere come prima, salvaguardando sempre il problema della salute.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono i giorni in cui Confindustria Lombardia diffonde, divulga, invita i suoi iscritti a divulgare l’hashtag “Yes, we work”. E Confindustria Bergamo invece divulga un video dove denuncia come bassi i rischi di contagio, rassicura. Ecco, oggi ci scrive, visto col senno di poi, con gli occhi di oggi, quel video è stato un errore. Ce me scusiamo. E poi Confindustria nega anche di aver fatto pressione sui politici per evitare la zona rossa, la chiusura totale di tutte le attività. Però, su questo c’è un mistero perché di fatto non si spiega perché la Val Seriana della bergamasca, pur contando il più alto numero in percentuale di morti per il virus rispetto alla popolazione, non sia stata mai dichiarata zona rossa. Ecco i sindaci sono stati anche avvisati, come abbiamo detto, adesso si chiude tutto, erano tutti là pronti davanti alla televisione ad ascoltare le parole del premier Conte che annunciava la chiusura, e invece non c’è stata. Perché? La nostra Giulia Presutti l’ha chiesto all’Istituto Superiore di Sanità.

GIULIA PRESUTTI Perché la Val Seriana non è stata resa zona rossa? Ci sono state pressioni degli imprenditori della zona perché non si chiudesse e perché si continuasse a produrre?

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Allora su questa domanda credo abbia risposto anche il presidente del Consiglio, l’Istituto Superiore di Sanità è un organo tecnico-scientifico del servizio sanitario nazionale, quindi supporta il livello nazionale, supporta le regioni, con dati, con pareri, con analisi.

GIULIA PRESUTTI Però le fabbriche hanno continuato a lavorare. Cioè, la domanda è su questo, no? Chi prende le decisioni sulla salute delle persone, chi ha l’ultima parola, voi come tecnici, il Ministero come decisore politico o l’imprenditoria, che ovviamente è da salvaguardare ma che forse poteva passare in secondo piano in quel momento?

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Lei mi fa una domanda a cui per me è difficile rispondere. GIULIA PRESUTTI Andava chiusa Bergamo? per voi?

MIRELLA TARANTO - PORTAVOCE SILVIO BRUSAFERRO Però sono due domande perché se no gli altri…

GIULIA PRESUTTI Però non è stata data una risposta reale in questo momento quindi…

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Le ho dato una risposta molto chiara, le ho detto il Cts analizza i dati, propone dei pareri, questi pareri vengono trasferiti all’autorità politica.

GIULIA PRESUTTI Quindi c’era un vostro parere che diceva di chiudere… Magari il professor Rezza vuole aggiungere qualcosa…

GIOVANNI REZZA - DIRETTORE DIP. MALATTIE INFETTIVE ISS Allora, all’epoca c’è stata la proposta, c’era stata di fare zona rossa quei comuni vicino Bergamo, dopodiché è stata presa invece la decisione di rendere zona rossa tutta la Lombardia, a cui ha fatto seguito dopo diciamo zona arancione in Italia diciamo. Da allora non sono state più fatte zone rosse se non che siamo ripartiti ultimamente con ordinanze regionali diciamo, tant’è vero che non so il Lazio aveva fatto delle zone rosse, la Calabria non so quante fra Catanzaro e Vibo Valentia, la Campania l’altro giorno eravamo in collegamento con la Campania, cinque zone rosse a Salerno e una ad Avellino quindi è ripartito un meccanismo diciamo di zone rosse a livello di ordinanze regionali. Quindi certamente la proposta c’era stata, però venne fatta zona rossa la Lombardia. Dopo questo…

GIULIA PRESUTTI Zona arancione, la Lombardia.

GIOVANNI REZZA - DIRETTORE DIP. MALATTIE INFETTIVE ISS Arancione scuro diciamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Arancione scuro. Insomma, se andiamo su una questione cromatica, forse sul rosso ha prevalso il grigio. L’Istituto Superiore di Sanità dice noi abbiamo dato un parere tecnico, abbiamo detto chiudete, poi però le decisioni spettano alla politica. L’assessore alla salute lombardo Gallera ha detto io ho recepito le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, ma aspettavo le decisioni del governo. E dopo la mancata chiusura, l’8 marzo, il governatore Fontana ha detto io sarei stato un po’ più rigidino. Non si capisce perché non lo è stato lui, visto che i suoi colleghi di Emilia Romagna, i governatori dell’Emilia Romagna, Lazio e Campania hanno preso in maniera autonoma delle decisioni e hanno dichiarato alcune zone rosse. Ecco, anche il sindaco Gori di Bergamo che aveva twittato il primo marzo, aveva rilanciato lo slogan “Bergamo non si ferma” per riempire i centri storici, poi è andato più cauto e ci ha ripensato e ha invocato l’intervento del governo. Forse è semplicemente il gioco delle parti. La vera partita si è giocata ad un tavolo dove era anche seduto chi non aveva proprio interesse a chiudere quella zona. Va detto che in quell’area, in quella più contagiata, ci sono circa 95mila aziende. Tra Nembro ed Alzano 376 con circa 4 mila dipendenti. Poi è là che bisognava fare più attenzione perché appena conosciuta l’esplosione dell’epidemia in Cina, bisognava tenere gli occhi aperti. Perché quelle sono tutte aziende che hanno storicamente rapporti con la Cina. Come la Tenaris, sede legale in Lussemburgo. Leader mondiale nella produzione in tubi e servizi per l'esplorazione e la produzione di petrolio e gas. Ha un fatturato da 7,3 miliardi di dollari. Nel suo stabilimento di Dalmine, nel bergamasco, lavorano più di 1700 dipendenti. È della famiglia Rocca, Gianfelice ne è il presidente. Poi c’è Brembo. Da 20 anni fa affari in Cina. È della famiglia Bombassei, una potenza in Confindustria, ha tre stabilimenti nella bergamasca, ci lavorano 3mila dipendenti. E ha un fatturato di 2,6 miliardi di euro. Poi c’è la ABB, la multinazionale svizzero-svedese, leader nelle tecnologie per l’elettrificazione, la robotica, opera in più di 100 paesi, l’Italia conta 6 mila dipendenti, e un fatturato di 2 miliardi. Solo a Dalmine conta 850 lavoratori. Poi, c’è Persico, Persico che ha 400 dipendenti, 159 milioni di fatturato. Però lui più che alla zona rossa, ambisce, legittimante, alla Luna Rossa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Persico costruisce tra l’altro componenti per auto e scaffi per le barche come Luna Rossa facendo circa 130milioni di euro di fatturato all’anno. La sua sede è a Nembro, il comune flagellato dalla pandemia che doveva diventare zona rossa. Nei giorni in cui si discute, il patron della fabbrica, Pierino Persico è tra i più preoccupati al telefono.

GIORGIO MOTTOLA Immagino che Persico l’abbia chiamata per chiedere…

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Sì, sì, chiaramente. Persico mi ha chiamato come così ho sentito la preoccupazione di un altro paio di aziende.

GIORGIO MOTTOLA È vero che l’imprenditore locale Persico si sia opposto duramente all’istituzione della zona rossa nei primi giorni?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Pierino Persico era sicuramente fortemente preoccupato di quello che era l’aspetto produttivo, perché avendo rapporti con l’estero ed esportando, sicuramente una chiusura avrebbe determinato delle grosse difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA Qualcuno le ha manifestato la propria perplessità o contrarietà?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Chiaramente c’era chi diceva: “beh, la mia attività dal punto di vista di questo problema non presenta caratteristiche tali da dover essere interrotta”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in quei giorni il patron della Persico non ha espresso le proprie perplessità sulla zona rossa solo al sindaco di Nembro. GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Certamente, perché ci ho parlato anche io, alcuni imprenditori erano spaventati. L’idea di diventare zona rossa per loro significava la paralisi di tutte le loro attività produttive, per loro significava la perdita di commesse guadagnate col lavoro di anni.

GIORGIO MOTTOLA Quindi anche a lei sono arrivate telefonate di imprenditore che esprimevano forti dubbi…

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Ma li ho anche cercati io. Gli ho detto: “guarda che questa cosa serve, perché se non la facciamo adesso poi è peggio”.

GIORGIO MOTTOLA Tra questi imprenditori che le hanno telefonato c’è anche Persico?

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO A lui ho spiegato che invece alcune cose che la sua azienda fa probabilmente sarebbero state preservate e che comunque era necessario provvedere rapidamente.

GIOGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La zona rossa in Val Seriana non si è fatta né l’otto marzo né nei giorni successivi. Gli operai hanno continuato a lavorare nelle fabbriche tutti i giorni fino al 23 marzo, quando il governo ha deciso di chiudere le attività non essenziali. In quei 15 giorni di attesa a Bergamo i contagi passano da 997 a 64471.

PAOLA PEDRINI – MEDICO DI BASE VAL SERIANA (BG) Si dovevano prendere misure più importanti, dunque dichiarare la zona rossa a Bergamo da subito. Questo invece ha permesso questi numeri così impressionanti che ci sono nella provincia di Bergamo.

GIORGIO MOTTOLA Secondo lei i numeri non sono diventati così impressionanti perché non è stata dichiarata la zona rossa?

PAOLA PEDRINI – MEDICO DI BASE VAL SERIANA (BG) Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche nei giorni più neri, le fabbriche restano aperte in provincia di Bergamo. A partire dalle più grandi, come la Tenaris, colosso industriale specializzato nella produzione di tubi per le esplorazioni petrolifere. Sede in Lussemburgo ma proprietari italiani: Gianfelice e Paolo Rocca, all’ottavo posto nella classifica degli uomini più ricchi d’Italia.

GIORGIO MOTTOLA In Tenaris avete continuato a lavorare anche durante l’emergenza?

OPERAIO TENARIS Quasi a pieno ritmo, anche sotto organico.

GIORGIO MOTTOLA Tranquillamente, come se niente fosse?

OPERAIO TENARIS Come se niente fosse.

GIORGIO MOTTOLA C’erano delle forme di prevenzione per voi lavoratori?

OPERAIO TENARIS Allora... c’è sempre stato detto che non si poteva stare a meno di un metro di distanza, però col lavoro che facciamo sono impossibili da rispettare. In mensa non c’erano delle norme vere e proprie e ci si ammassava in mensa. Negli spogliatoi, abbiamo gli spogliatoi attaccati uno vicino all’altro.

GIORGIO MOTTOLA Vi hanno dato mascherine, vi hanno dato sanificante?

OPERAIO TENARIS No. Mascherine ci sono state i primi giorni poi son terminate. Sanificanti c’è stato dato il Vetril. GIORGIO MOTTOLA Il Vetril?

OPERAIO TENARIS Il Vetril.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con la pandemia che avanza a partire dalla metà di marzo l’attività in Tenaris comincia a rallentare e in seguito alle assenze di molti lavoratori, la produzione si concentra sulle bombole di ossigeno. La fabbrica, però, decide di andare avanti solo con i volontari.

GIORGIO MOTTOLA Ci sono stati morti fra gli operai della Tenaris?

OPERAIO TENARIS Sì, c’è stato un ragazzo, un nostro collega di 44 anni che è morto in questi giorni dichiarato di coronavirus. E ce ne sono altri tre che sono in terapia intensiva.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Eccolo Salvatore Occhineri, operaio di Tenaris, portato via dal Covid 19. Per lui, come per gli altri lavoratori morti durante l’epidemia, sarà impossibile capire come e dove è avvenuto il contagio. Solo pochi giorni fa e siamo al 23 marzo, ad un mese esatto dall’inizio della pandemia, il governo si assume finalmente la responsabilità di chiudere le fabbriche.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI CONFERENZA STAMPA DEL 21 MARZO 2020 Oggi abbiamo deciso di compiere un altro passo. La decisione assunta dal governo è quella di chiudere nell’intero territorio nazionale ogni attività produttiva che non sia strettamente necessaria, cruciale, indispensabile a garantirci beni, servizi essenziali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le attività essenziali che devono rimanere aperte vengono selezionate attraverso il codice Ateco, la classificazione assegnata ad ogni società dall’agenzia delle entrate in base al settore in cui operano. Ma il giorno successivo al decreto in provincia di Bergamo parte la corsa delle aziende per farsi riconoscere come essenziali, in alcuni casi a tutti i costi.

ANDREA AGAZZI – SEGRETARIO GENERALE FIOM BERGAMO Il più delle volte oggettivamente è una forzatura rispetto all’attività produttiva che viene fatta. Abbiamo anche traccia in questi giorni di qualcuno che addirittura ci ha detto che vogliono provare in rapporto con l’Agenzia delle entrate addirittura a modificare il codice Ateco per entrare direttamente ovviamente nell’allegato al decreto.

GIORGIO MOTTOLA Quindi si sta provando ad allargare il più possibile le maglie?

ANDREA AGAZZI – SEGRETARIO GENERALE FIOM BERGAMO Il tentativo anche fuori luogo di qualcuno oggettivamente c’è.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Una settimana dopo il decreto i contagi a Bergamo passano da 6.471 a 8.664 nonostante la chiusura del governo al 30 marzo risultavano ancora aperte in provincia 1800 aziende. Fra queste la multinazionale Svizzera ABB che a Dalmine costituisce quadri elettrici. Nei giorni dell’emergenza l’azienda propone agli operai un flash mob: “abbracciamo l’Italia”, scrivono in una e-mail mandata al personale, facciamo sentire agli italiani la nostra solidarietà. E dalla fabbrica solidale il 30 marzo, giorno in cui giriamo queste immagini, gli operai continuano ad entrare, uscire e lavorare.

GIORGIO MOTTOLA Come mai è a lavoro oggi?

OPERAIA ABB Eh, è così. GIORGIO MOTTOLA Non c’è scelta?

OPERAIA ABB No, però sono tutto a posto, tutto regolare qua e non c’è nessun problema.

GIORGIO MOTTOLA Come mai nonostante c’è l’emergenza coronavirus è qui a lavorare, è appena uscito dalla fabbrica?

OPERAIO ABB Sinceramente non sappiamo le disposizioni che ci sono state date. La produzione va avanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli imprenditori bergamaschi ci hanno scritto e rassicurato che non hanno mai fatto pressioni sulla politica per evitare la zona rossa. Ecco ci ha scritto l’imprenditore Persico che dice che addirittura loro hanno fermato l’azienda il 16 marzo, una settimana prima addirittura del DPCM del 22. Ci assicura di aver interloquito in quei giorni solo con il sindaco di Nembro, non per impedire la zona rossa, ma per parlare di questioni emergenziali. E poi abbiamo anche sentito invece il sindaco di Bergamo Gori che ci ha detto che pure con lui ha parlato Persico. Mentre invece Tenaris della famiglia Rocca, specifica, ci scrive che per i dispositivi di protezione per gli operai, si è sempre attenuta alle indicazioni delle autorità sanitarie e dell’Oms. In merito poi al Vetril, dice che i prodotti in precedenza utilizzati sono stati sostituiti con quelli sanificanti suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Insomma, il Vetril e viva Dio… passiamo adesso a quello che avrebbero potuto fare e non hanno fatto.

PAOLA PEDRINI – MEDICO DI BASE VAL SERIANA (BG) Tutti quelli che non fanno un tampone, ma che noi identifichiamo come casi estremamente sospetti per Coronavirus non hanno il tampone. Quindi io non posso dire alla moglie di questo paziente: lei deve stare a casa in quarantena. Quindi questo aumenta poi i contagi, e dopo pochi giorni comunque quando abbiamo un paziente positivo si ammala anche tutto il nucleo familiare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando i contagi sono schizzati verso l’alto, la regione Lombardia ha deciso di adottare un atteggiamento preciso sui tamponi.

PAOLA PEDRINI – MEDICO DI BASE VAL SERIANA (BG) I tamponi si fanno solo in ospedale, solo per i ricoveri. E siccome adesso i ricoverati sono solo persone che hanno un’insufficienza respiratoria grave, tutti gli altri malati, anche persone con polmoniti bilaterali che rimangono a domicilio non hanno il tampone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se non fai i tamponi non hai il numero reale dei contagiati. Che i dati della Regione Lombardia non tornassero, lo avevamo scoperto sin da metà marzo, mentre intervistavamo i sindaci della Val Seriana.

GIORGIO MOTTOLA Quanti contagiati ci sono?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Ma, numeri ufficiali siamo oltre i 200. A numeri reali credo che si debba moltiplicare per dieci, dodici volte.

GIORGIO MOTTOLA Dieci, dodici volte?

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Sì. Direi che partendo dai decessi si riesce a risalire probabilmente al numero dei contagiati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il numero ufficiale dei morti a causa della pandemia non torna per niente. Nella sola Nembro, dall’inizio dell’emergenza, sono venute a mancare 135 persone. L’anno scorso nello stesso periodo i decessi erano stati 14. Un aumento di oltre 750 per cento. Eppure, secondo i dati ufficiali della regione, i morti per Covid sarebbero a malapena la metà.

CLAUDIO CANCELLI - SINDACO DI NEMBRO (BG) Il numero dei decessi per Covid è sicuramente molto più alto di quello che viene certificato sempre ufficialmente. Credo questo sia ormai chiaro a tutti i sindaci.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo stesso fenomeno si registra infatti non solo a Nembro. Sull’Eco di Bergamo il data journalist Isaia Invernizzi ha raccolto i dati di 90 comuni. Ad Alzano Lombardo ci sono stati 101 morti nell’ultimo mese, di cui per Covid, secondo le statistiche ufficiali, 54. Ma l’anno scorso, nello stesso periodo, i morti erano stati nove. Scanzo Rosciate, 72 morti. Ufficialmente 16 per Covid. Nel marzo del 2019 i decessi erano stati 14. Gorle, 29 morti di cui dieci per Covid. L’anno scorso erano morti in tre. Ponteramica, 26 morti, 8 per covid. Lo scorso marzo erano decedute due persone. E il dato è ancor più macroscopico a Bergamo città. I morti sono stati sinora 553, di cui 201 ufficialmente per Covid. L’anno scorso a metà marzo i decessi erano stati 125.

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO È come se noi vedessimo solo la punta dell’iceberg.

GIORGIO MOTTOLA Quindi i numeri che ci stanno fornendo oggi su Bergamo non sono quelli reali.

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Tutti coloro a cui il tampone non viene fatto e muoiono, e sono la grande parte, non entrano in questo conteggio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i morti invisibili, ce ne sono alcuni ancora più invisibili. Sono gli ospiti delle case di riposo della Val Seriana. Anziani, disabili, malati di Alzheimer e pazienti terminali.

GIORGIO MOTTOLA Per questi pazienti non c’è nessun tampone disponibile.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA No, assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Melania Cappuccio è la direttrice sanitaria di una delle più importanti case di riposo della Val Seriana. Qui, come in tutte le altre strutture della zona, i pazienti anche quando si sono aggravati con chiari sintomi da coronavirus, non sono mai stati sottoposti a tampone.

GIORGIO MOTTOLA Queste tre settimane sono molto aumentati i decessi nelle rsa bergamasche?

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Sì, assolutamente sì. Sono tanti, credo fino anche a 500.

GIORGIO MOTTOLA Cinquecento.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Su cinquemila utenti, quindi un 10 per cento.

GIORGIO MOTTOLA A queste persone morte è stato fatto il tampone?

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA No.

GIORGIO MOTTOLA La potremmo definire un’ecatombe silenziosa.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Sicuramente queste morti non risultano da nessuna parte.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’ecatombe silenziosa degli anziani forse si poteva contenere o anche solo rallentare. Quando il 23 febbraio scoppia l’epidemia di Alzano, per tutelare la fragilità dei propri residenti, tutte le case di riposo della valle avevano deciso infatti di sigillare le strutture e chiudere l’accesso al pubblico.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Tutte le rsa, soprattutto della valle, hanno chiuso proprio quel giorno, il 24. E però c’è stato un po’ un qui pro quo, nel senso che la regione Lombardia non voleva chiudere i centri diurni che noi abbiamo e quindi ci ha un po’ consigliato vivamente di riaprirli.

GIORGIO MOTTOLA Perché? Con quali motivazioni?

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Non lo so, magari non volevano creare il panico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quindi per non creare il panico la regione consiglia vivamente alle case di riposo di rimanere aperte. E anche quando il consiglio si rivela sbagliato, dalla regione non arriva altro. Non arrivano mascherine e soprattutto non arrivano tamponi nemmeno per il personale sanitario delle rsa. Medici e infermieri delle case di riposo iniziano così ad ammalarsi, senza nemmeno sapere se la causa è il coronavirus.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA Un giorno ho avuto 102 malattie, quindi vuol dire il 30 per cento in meno del personale, a dover fare non le stesse cose di prima, molte di più.

GIORGIO MOTTOLA Ma non le è stato fornito nessun tampone, niente.

MELANIA CAPPUCCIO – DIRETTRICE SANITARIA RSA CASA SERENA No. Io mi sono fatta tre giorni di febbre a casa e sono rientrata. Volutamente non ho voluto fare il tampone, perché se facevo il tampone rischiavo di stare a casa 15 giorni. Impossibile. C’è stato un giorno in cui mi sono detta veramente: ma io che cosa faccio? Questo tsunami non riesco a fermarlo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è una domanda che si fanno in tantissimi fin dall’inizio dell’emergenza. Come mai in Lombardia è stata adottata questa politica sui tamponi.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONFERENZA STAMPA DEL 26 MARZO 2020 Intendo fare riferimento ancora una volta alla questione dei cosiddetti tamponi sui quali si stanno facendo delle speculazioni, ripeto, vergognose non per me ma per i nostri cittadini. La regione Lombardia – e oggi il ministro Speranza in una dichiarazione lo ha ribadito – ha rigorosamente seguito i protocolli che sono stati dettati dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’organismo scientifico che collabora con il Ministero.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non si capisce perché hanno seguito le indicazione dell’’Istituto Superiore di Sanità sui tamponi e non l’abbia fatto invece per istituire la zona rossa. Poi non è così vero eh? Perché Oms e Istituto Superiore di Sanità suggerivano di fare i tamponi ai sintomatici, e lui non è che li abbia fatti proprio a tutti coloro che avevano i sintomi. Come del resto è successo in tutte le altre regioni. Tranne una, dove c’è stato un medico che he deciso invece di andare oltre i protocolli.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insieme a Codogno, Vo Euganeo in Veneto è stato il primo focolaio ufficiale d'Italia. Ma quando sono spuntati gli infetti la strategia è stata opposta da quella adottata in Lombardia. Tutti i tremila abitanti di Vo sono stati immediatamente sottoposti a tampone. E si è realizzata una mappa precisa dei contagiati.

ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Se si fosse adottata la strategia che è stata impiegata a Vo subito, al giorno zero, avremmo visto un'altra storia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Andrea Crisanti dirige il laboratorio di virologia dell'Università di Padova. È sua l'intuizione di fare il tampone a tutti gli abitanti di Vo' Euganeo decisione che ha consentito di scoprire che il coronavirus si presentava anche senza i classici sintomi.

ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Il dato di Vo ci dice che per ogni persona che per ogni persona che c'ha sintomi ce ne stanno per lo meno altre tre asintomatiche.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è per questo che Crisanti ha avviato in tutto il Veneto tamponi non solo per i malati con sintomi da Coronavirus ma anche per i familiari e per tutte le persone con cui sono entrate in contatto i soggetti positivi al test. In questo modo però Andrea Crisanti però è contravvenuto alle indicazioni dell'Oms l'Organizzazione Mondiale della Sanità e alle direttive del Ministero della Salute.

GIORGIO MOTTOLA Si rende conto che la situazione è un po' paradossale per cui il suo metodo in questo momento contravviene a quelle che sono le direttive del Ministero.

ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Secondo le direttive del ministero la prima persona che è andata in ospedale e che poi purtroppo è morta non aveva nessun contatto con la Cina e non era mai entrata in contatto con nessun infetto. Quindi noi la diagnosi l'abbiamo fatta contraddicendo questa direttiva che era fondamentalmente sbagliata come i fatti hanno poi dimostrato.

GIORGIO MOTTOLA Cioé lei è stato fuorilegge sin dall'inizio praticamente?

ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Sì sicuramente, da questo punto di vista sicuramente. Io ho imparato una cosa che nella scienza bisogna sfidare lo status quo se si vuole andare avanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccolo qual è stato l’andamento dei contagi in Veneto dall’inizio dell’epidemia.

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE OSPEDALE DI PADOVA In questo momento eravamo tutti con un numero di casi molto basso. Eravamo con qualche centinaio o anche meno di casi. Veneto è questa che vediamo crescere abbastanza lentamente. Il picco che va veloce, veloce, veloce è la Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi il 26 febbraio Lombardia e Veneto avevano lo stesso numero di positivi al Covid. Ma nei giorni successivi la curva dei contagi in Veneto sale lentamente e in Lombardia schizza verso l'alto. Non è l'unica differenza, contrariamente a quanto si è verificato a Bergamo all'ospedale di Padova non si registra infatti nessun infermiere o medico contagiato all'interno della struttura sanitaria.

GIORGIO MOTTOLA È stato un gran colpo di fortuna?

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE OSPEDALE DI PADOVA No, eh questo direi di no. Noi ci siamo preoccupati di far sì che l’epidemia corresse al fianco dell'ospedale e non dentro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l'inizio dell'epidemia l'ospedale di Padova ha chiesto alla protezione civile di installare delle tende dotate anche di una tac esterna in cui tutti i potenziali infetti hanno dovuto transitare prima di essere ricoverati e di poter entrare nei reparti.

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE OSPEDALE DI PADOVA Tamponiamo praticamente tutti nel senso che tutti quelli che si presentano rileviamo accanto ai dati clinici anche lo stato di positività o negatività al test. Non serve impegnativa tu qui accedi direttamente e hai tutto quello che oggi il servizio sanitario è in grado di garantire ad un cittadino di Padova, della provincia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per il personale sanitario sin dai primi giorni dell'epidemia sono state adottate ulteriori misure di prevenzione.

DANIELE DONATO – DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE DI PADOVA Abbiamo reso obbligatoria la misurazione della temperatura corporea a tutte le persone che entrano in ospedale. E se queste avevano o risultano avere una temperatura superiore ai 37,5 gradi vengono inviate alle malattie infettive laddove ci sono le tende per essere curate.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutt'altra storia rispetto alla Lombardia. Lo scorso 22 marzo in piena emergenza la Regione ha acconsentito agli ospedali che i propri dipendenti si autocertificassero la temperatura, misurandosela da soli a casa. Come mai questa enorme differenza fra Veneto e Lombardia nell'affrontare l'emergenza? Eppure, entrambe le regioni da più di vent'anni son governate dalla stessa coalizione di centro-destra.

MARIA LUISA SARTOR – PROFESSORESSA A CONTRATTO DI ORGANIZZAZIONE SANITARIA UNIMI Il Veneto è più pubblico di quanto non sia pubblico il sistema sanitario lombardo. Quindi ospedali pubblici all’interno di Asl pubbliche che hanno però anche una struttura territoriale che eroga dei servizi a livello territoriale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Lombardia la riforma di Roberto Formigoni ha stravolto le regole del mondo sanitario, introducendo una parificazione tra sanità pubblica e privata. Gli ospedali dello Stato si trovano di fatto a essere in competizione con le cliniche private per accaparrarsi i pazienti, per mantenere il budget e ottenere fondi.

MARIA LUISA SARTOR – PROFESSORESSA A CONTRATTO DI ORGANIZZAZIONE SANITARIA UNIMI Sono stati proprio gli interventi di realizzazione della strategia di Formigoni che era quella di fare spazio al privato e quindi di costruire il quasi mercato. Come l’ha costruito? Deprivando, snaturando, ibridando il sistema pubblico. Più che dimezzamento di posti letto pubblici e questo in contemporanea all’aumento dei posti letto privati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In provincia di Bergamo, la sanità privata è potentissima, copre infatti il 50 per cento dell’intero comparto sanitario. Le due cliniche private più importanti con oltre 15 milioni di euro di fatturato ciascuna, sono il gruppo San Donato, oggi presieduto dall’ex vice-premier Angelino Alfano; l’altro è il gruppo Humanitas, il cui presidente è Gianfelice Rocca. Gli stessi Rocca proprietari di Tenaris, la fabbrica bergamasca che non ha mai chiuso. Per l’emergenza coronavirus, gli ospedali privati di Bergamo hanno cominciato a darsi un gran da fare, ma solo a partire da un certo momento.

ROBERTO ROSSI – SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO La sanità privata a Bergamo si è data da fare dopo che è arrivata la delibera dell’8 di marzo.

GIORGIO MOTTOLA Che diceva questa delibera?

ROBERTO ROSSI – SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO La delibera imponeva la chiusura di tutte le prestazioni non urgenti, per cui tutto quello che si poteva rinviare doveva essere rinviato. Per cui solo in quel momento la sanità privata Ha svuotato i reparti dei casi non Covid.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed esattamente tre giorni dopo che le cliniche private hanno iniziato a lavorare a pieno ritmo per l’emergenza coronavirus, la loro associazione di categoria, l’Aiop, si è affrettata a chiedere una deroga dei rigidi tetti spesa sui rimborsi della sanità privata.

ROBERTO ROSSI – SEGRETARIO GENERALE FUNZIONE PUBBLICA CGIL BERGAMO Ce lo ha detto la presidente di Aiop, tre giorni dopo. Noi ci siamo però vi ricordiamo che dovete pagarci. Più chiaro di così non poteva essere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se grazie alla riforma Formigoni la sanità pubblica in Lombardia è stata costretta a competere per il budget con quella privata, nel 2017 è arrivata la riforma Maroni, che ha tagliato i fondi alla medicina territoriale e di fatto ha abolito la figura del medico di base, sostituendola con quella del gestore.

GIANCARLO GIORGETTI – LEGA SALVINI PREMIER È vero, mancheranno 45 mila medici di base nei prossimi cinque anni ma chi va più dal medico di base? Senza offesa per i medici di base anche qui presenti in sala. Nel mio piccolo paese vanno ovviamente per fare le ricette mediche, ma quelli che hanno meno di cinquant’ anni vanno su internet si fanno fare autoprescrizioni su internet… cercano lo specialista… Tutto questo mondo qui, questo mondo del medico di cui poi ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Hanno depotenziando un filtro importante della sanità pubblica per far ingrassare quella privata, che è un’eccellenza per carità. Ma l’intreccio è tale che alla fine che chi ha interessi a mantenere un’azienda aperta è lo stesso che ha interessi nell’ospedale convenzionato. Quando tutto questo finirà, dovremo cominciare a guardare il benessere con occhi diversi. E il torto più grande sarà quello di accorgersi che all’appello mancherà qualcuno di cui non ci siamo mai accorti. Gli invisibili, i lavoratori precari che abbiamo reso più fragili e più deboli, esponendoli anche maggiormente al contagio, sono in mano spesso a cooperative fittizie che li passano da cooperativa che nasce a quella che muore, e ad ogni passaggio perdono in diritti e in busta paga. Ecco, il benessere economico non può essere considerato solo come un frutto di indice di borsa o quello del prodotto interno lordo. Perché il pil in questi giorni conta anche gli incassi dei forni crematori stracolmi o quello delle aziende che stanno producendo mascherine, ventilatori, respiratori a prezzi gonfiati. O quello delle ambulanze che vanno a raccogliere i malati o i morti. Il pil calcola anche gli investimenti pubblicitari su quelle televisioni che stanno parlando di un virus che uccide. Il pil calcola gli investimenti della mafia o quelli dei corrotti e dei corruttori che hanno reso un disastro la sanità. Gli investimenti che provengono dai paradisi fiscali o quelli degli evasori che hanno sottratto risorse al welfare e che oggi hanno i capitali per acquistare le macerie di aziende e asset strategici. Di un paese il pil calcola le serrature blindate, le grate messe alle finestre delle nostre case, le prigioni dentro le quali ci sono coloro che hanno tentato di forzarle quelle grate. Ecco, cos’è che non calcola il pil? Non calcola la qualità della salute della nostra famiglia, la qualità dell’istruzione dei nostri figli, lo svago dei nostri figli nei momenti di gioia, di libertà, non calcola la poesia. O la bellezza o il valore della comunità che si sta formando in questo momento. Non si calcola soprattutto la dedizione, l’abnegazione e l’estremo sacrificio di medici e infermieri. In sostanza, cos’è che non calcola il pil? Tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta. È una mia rivisitazione del discorso di Kennedy alla Kansas University del 18 marzo del 1968.

Giuseppe Conte ha mentito sulla zona rossa, vittoria di Attilio Fontana: spunta la "circolare del Viminale". Libero Quotidiano l'11 aprile 2020. La Regione Lombardia, nella polemica con Giuseppe Conte sulla mancata chiusura di Alzano e Nembro, ne esce vittoriosa. Alcuni interventi "rimangono di esclusiva competenza statale". Questo il sunto di una direttiva ministeriale che non lascia spazio ai dubbi: Attilio Fontana aveva ragione. A riportarlo è Il Giornale che parla di un provvedimento del ministro dell'Interno, nel quale è il governo nazionale a rivendicare come sua prerogativa la chiusura delle aree territoriali e lo stop agli spostamenti. Il provvedimento è una direttiva con cui il ministro Luciana Lamorgese dà indicazioni ai prefetti sul decreto firmato l'8 marzo dal presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte. Lo stesso decreto che provocò la fuga notturna da Milano al Sud. "Ferma restando la piena autonomia nelle materie di competenza regionale, come individuate dalle disposizioni vigenti - si legge - va rilevata l'esigenza che in ogni caso, e soprattutto in questo delicato momento, non vi siano sovrapposizioni di direttive aventi incidenza in materia di ordine e sicurezza pubblica, che rimangono di esclusiva competenza statale e che vengono adottate esclusivamente dalle Autorità nazionale e provinciali di pubblica sicurezza". Insomma, a fermare il contagio da coronavirus nella Bergamasca poteva esserci solo l'esecutivo che ora, in qualche modo, dovrà ricredersi su quanto finora detto contro il governatore lombardo.

Coronavirus, Conte a Fontana: “Poteva creare zona rossa Alzano-Nembro”. Laura Pellegrini il 07/04/2020 su Notizie.it.  Conte replica alle accuse di Fontana sull'istituzione della zona rossa nella bergamasca: si potevano evitare le stragi di Alzano e Nembro? Giuseppe Conte replica alle accuse di Attilio Fontana mosse rispetto alla mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca: ad Alzano e Nembro il coronavirus ha contato diversi morti. Si poteva evitare questa strage? Purtroppo non lo sapremo mai, ma in una lettera il premier intende chiarire la situazione. “Se la Lombardia – scrive Conte – avesse voluto, avrebbe potuto fare di Alzano e Nembro zona rossa in piena autonomia” prima dell’esplosione dell’epidemia. Inoltre, sono molti gli esempi di Regioni che hanno agito in via preventiva. Conte ricorda il Lazio, la Calabria e la Basilicata e di fronte a queste argomentazioni replica che “non vi è argomento da parte della Regione Lombardia per muovere contestazioni al governo nazionale o ad altre autorità locali”. Ma Fontana scende in campo con un affondo: “Se c’è colpa è di entrambi”. Continua lo scontro a distanza tra il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana e il premier Giuseppe Conte sulla situazione coronavirus in Val Seriana. Il premier aveva inviato una nota nella quale chiariva che “non vi è argomento da parte della Regione Lombardia per muovere contestazioni al governo nazionale o ad altre Autorità locali”. Infatti, prosegue la nota, “se la Regione Lombardia ritiene che la creazione di nuove zone rosse andasse disposta prima, con riguardo all’intero territorio regionale o a singoli comuni, avrebbe potuto tranquillamente creare “zone rosse”, in piena autonomia“. “Al pari di quanto hanno fatto altre Regioni – conclude quindi Conte – come il Lazio, la Basilicata e la Calabria, nei cui territori, con ordinanza, sono state create “zone rosse” limitatamente al territorio di specifici comuni”. ma Attilio Fontana risponde a sua volta al premier dicendo: qualora vi sia, “la colpa eventualmente è di entrambi“, ma “io non ritengo che ci siano delle colpe in questa situazione”. “Forse – ha ammesso ancora Fontana – su Alzano si sarebbe potuto fare qualcosa di più rigoroso ma dopo che era stata istituita una zona rossa” in tutta la Lombardia. In serata, lunedì 6 aprile, il premier è stato interpellato sulla questione da una giornalista. Conte ha voluto sottolineare in conferenza stampa nella quale ha annunciato le misure di liquidità per le imprese: “Non polemizzo e non scarico colpe su Fontana“.

Conte risponde a TPI e scarica Fontana: “Se la Lombardia avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente fare la Zona Rossa ad Alzano e Nembro”. La risposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo l'inchiesta di TPI.it sulla mancata chiusura dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro per l'emergenza Coronavirus. Francesca Nava il 6 Aprile 2020 su tpi.it. Dal 17 marzo a oggi su TPI.it abbiamo pubblicato un’inchiesta in più parti sulla mancata Zona Rossa, e conseguente chiusura, dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, in provincia di Bergamo. La decisione di non dichiarare una Zona Rossa, che era stata fortemente raccomandata da una nota dell’Istituto superiore di sanità (ISS) già lo scorso due marzo (nota che noi di TPI abbiamo reso pubblica in esclusiva), ha causato un incremento considerevole di decessi in quel territorio, come certificato dai dati Istat incrementati fino al 2.000 per cento proprio in concomitanza della mancata chiusura. Questo ritardo è avvenuto nonostante il governo il 23 febbraio abbia varato un decreto (il n.6) in cui si dichiarava che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19 nei comuni dove risulta positiva almeno una persona le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento”. Quella domenica 23 febbraio, come documentato dalla prima parte della nostra inchiesta, nell’ospedale di Alzano Lombardo “Pesenti Fenaroli” erano già stati accertati due casi di Coronavirus, focolaio dal quale è partita una vera e propria strage silenziosa di migliaia di morti. Senza considerare poi che fino al 9 marzo non è stato istituito alcun blocco e addirittura fino al 23 marzo le aziende sono rimaste aperte nella Val Seriana, polo industriale fondamentale per l’export italiano, con circa 400 imprese presenti sul territorio, e uno scambio di persone e merce di livello incredibile. Ma di chi era la responsabilità, chi doveva agire: il governo o la Regione Lombardia? E perché non si è deciso di chiudere? A una nostra richiesta di chiarimento avanzata il 27 marzo scorso in seguito alla pubblicazione della nostra inchiesta, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha oggi inviato una nota formale di risposta a TPI: “Non vi è argomento da parte della Regione Lombardia per muovere contestazioni al Governo nazionale o ad altre Autorità locali. Se la Regione Lombardia ritiene che la creazione di nuove zone rosse andava disposta prima, con riguardo all’intero territorio regionale o a singoli comuni, avrebbe potuto tranquillamente creare “zone rosse”, in piena autonomia”. “A conferma di questo assunto – continua Conte a TPI –  si rileva che la Regione Lombardia ha adottato – nel corso di queste settimane – varie ordinanze recanti misure ulteriormente restrittive, le ultime delle quali il 21, il 22 e il 23 marzo 2020″. In merito alla nota del’ISS, pubblicata in esclusiva da TPI lo scorso 26 marzo, dopo la conferma che quel documento era stato recepito e valutato dalla Protezione Civile, ora arriva anche la conferma di Palazzo Chigi: “Nella tarda serata di giovedì 5 marzo, il presidente dell’ISS rispondeva con una nota scritta, nella quale segnalava che, pur riscontrandosi un trend simile ad altri comuni della Regione, i dati in possesso (l’incidenza di nuovi casi e il loro incremento, nonché la stretta vicinanza a una città) rendevano opportuna l’adozione di un provvedimento volto a inserire i comuni di Alzano Lombardo e di Nembro nella cosiddetta “zona rossa””. “Il giorno successivo, il 6 marzo – continua il Presidente del Consiglio – maturava l’orientamento di superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedesse la distinzione del territorio nazionale in due sole aree: la Lombardia e province focolaio di altre regioni e il resto d’Italia”. Continua così la ricostruzione a TPI del presidente del Consiglio in merito alla mancata chiusura di Alzano e Nembro: “La notte stessa del 7 marzo, sentite le Regioni e i Ministri interessati, veniva dunque adottato il decreto del Presidente del Consiglio, che reca la data di domenica 8 marzo, in quanto firmato nelle primissime ore del mattino, con il quale l’intera regione lombarda diventava “zona rossa”, in quanto l’intero territorio regionale veniva sottoposto a un regime uniforme di misure particolarmente restrittive”. Poi, la stoccata finale al governatore della Lombardia Attilio Fontana, circa la responsabilità nella competenza territoriale per la decisione sulla Zona Rossa: “Quanto invece alle competenze e ai poteri della Regione Lombardia, si fa presente che le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti”. “Al pari di quanto hanno fatto altre Regioni – conclude Conte – come il Lazio, la Basilicata e la Calabria, nei cui territori, con ordinanza, sono state create “zone rosse” limitatamente al territorio di specifici comuni”. Qui la ricostruzione completa dell’inchiesta di TPI sulla mancata Zona Rossa ad Alzano Lombardo e Nembro.

Da Dagospia il 14 aprile 2020. “GUAI A FERMARSI. LA VITA VA AVANTI, NON SIAMO IN GUERRA”: COSÌ PARLAVA IL SINDACO DI BERGAMO GIORGIO GORI IL 5 MARZO. CIOÈ 3 GIORNI DOPO LA RICHIESTA DELLA REGIONE LOMBARDIA DI ISTITUIRE UNA ZONA ROSSA NELLA BERGAMASCA. “LA CATENA DI COMANDO FUNZIONA. ADESSO SI RIPARTE” – IL TESTO DELL’ORDINANZA DEL 23 FEBBRAIO CONTRO CUI ANDAVANO LUI SALA, ZINGARETTI, RENZI E PURE SALVINI (LA PALOMBA HA RICOSTRUITO TUTTO A “STASERA ITALIA”)

GIORGIO GORI FESTEGGIA IL COMPLEANNO CON UNA VIDEOCHIAMATA.GORI: BERGAMO È FORTE, SAPRÀ RIPARTIRE. «NERVI SALDI, NON C’È MOTIVO DI NON USCIRE». Dino Nikpalj per “L'Eco di Bergamo” del 5 marzo 2020. Dubbi zero. «Certo che ce la faremo. Dobbiamo reagire e trovare quello stesso spirito di ricostruire che hanno avuto i nostri nonni in un momento difficile come il dopoguerra. E lo faremo, Bergamo è forte e lo dimostrerà anche stavolta». Il sindaco Giorgio Gori passa e ripassa tra le mani l’ennesimo foglio carico di numeri e dati.

Facciamo il punto su Bergamo?

«Quarantadue positivi e purtroppo due deceduti nei giorni scorsi».

Il sentimento della città è però mutato. Prima il coronavirus era poco più di un’influenza, ora invece...

«È una reazione normale. All’inizio l’abbiamo vissuto quasi come qualcosa di esotico, poi ce lo siamo trovato praticamente in casa. Fortunatamente la stragrande maggioranza delle persone assume questa malattia in modo quasi trascurabile».

Però la psicosi aumenta.

«Credo che riuscire a tenere i nervi saldi sia fondamentale. Così come il raccordo istituzionale, la catena di comando che va dal governo fino agli enti locali attraverso Regione, Comuni, Ats, prefetto, ospedali. Più continuiamo a presentarci uniti e più riusciremo a tranquillizzare tutti. Siamo nel cuore della Lombardia, abbiamo probabilmente il miglior servizio sanitario d’Europa e tutti si stanno facendo in quattro: è una grande prova, ma ritengo non si debba eccedere nella preoccupazione».

Niente panico, insomma?

«Direi nervi saldi. Ci sono state date indicazioni sanitarie molto chiare, seguiamole e andrà tutto bene. Vero, le persone anziane devono essere prudenti e limitare spostamenti e relazioni, e lo ripeterò ancora. Ma per tutte le altre non c’è motivo per non uscire, andare al ristorante con la moglie o farsi una passeggiata in centro».

Quindi l’hashtag #bergamononsiferma lo ritiene ancora valido?

«Assolutamente, guai a fermarsi. Questo weekend media e grande distribuzione sono chiuse? Andiamo nei negozi di vicinato che lavoreranno di più. Giusto comportarsi per ridurre il contagio, ma dobbiamo anche infondere quella condizione di fiducia per vivere la città. La vita va avanti, non siamo in guerra».

D’accordo, ma da una parte si dice di stare a distanza di sicurezza, dall’altra di uscire come se niente fosse...

«Vero, non è facile. Ma tocca a noi sindaci trovare il giusto tono di voce per far passare il messaggio. E io dico che, per esempio, la Carrara e i musei aperti sono un bellissimo segnale: cogliamolo».

Come si riparte?

«Con il riconoscimento da parte del governo come zona di intervento prioritario, per cominciare. Ma è solo un pezzo, l’altro è farsi trovare pronti quando ci saranno le giuste condizioni per comunicare la nostra ripartenza all’esterno e tornare ad attrarre i turisti, più forti di prima. Ho appena incontrato gli operatori e le associazioni del settore per definire le strategie. Appena la situazione si stabilizza dobbiamo tornare a correre».

E quando potrebbe accadere?

«Non lo so. Beppe Sala (sindaco di Milano - ndr) dice 2 mesi, ma chissà. La mia speranza è meno, il timore è purtroppo di più. Ed è questo l’aspetto che rende difficile tutto, il non sapere: a volte sei di fronte a problemi gravi ma con contorni chiari, qui non è così. Se arriva un’alluvione ti rimbocchi le maniche, asciughi tutto e riparti: qui non capisci ancora quando, e questo a volte ci manda un po’ in crisi».

Da sindaco, come ha reagito Bergamo?

«Benissimo. Questa è gente tosta, non è una città depressa o spaventata. Ha reagito da Bergamo, insomma: chiudendosi un attimo nelle spalle per fare appello alle proprie risorse emotive e poi via. Si tiene botta e si stringono i denti con l’idea che si deve ripartire».

Beh, qualcuno non gliel’ha mandata a dire...

«Vero, qualche insulto l’ho preso, ma spesso non è stato capito il fatto che certe misure restrittive, penso a bar e ristoranti, non le abbiamo prese noi. Ma li capisco, davanti a momenti così difficili, quando rischi di chiudere, non sempre si reagisce con lucidità. È assolutamente umano».

Che timori ha di una zona rossa in qualche paese poco distante?

«Innanzitutto siamo vicini agli abitanti che dovranno vivere questa condizione di isolamento, se così sarà. Vicini e pronti a fornire ogni aiuto necessario, come ho ripetuto in una telefonata al sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, colpito tra l’altro dal virus e al quale vanno tutti i miei auguri di pronta guarigione. Il sindaco del capoluogo sente come una sorta di responsabilità per tutti i comuni, soprattutto quelli più vicini: non stiamo pensando solo a noi».

Ma...

«Ma il paradosso è che la città rischia di pagare un prezzo molto più elevato del reale, perché all’esterno tutti parlano di Bergamo. Invece siamo aperti, i musei sono visitabili, Città Alta è meravigliosa come sempre e anche il centro piacentiniano. Tutto funziona, ma questa situazione ci sta danneggiando più del necessario».

Come ha reagito la Regione in questo frangente, a suo parere?

«Bisogna essere obiettivi: siamo di fronte a una cosa difficilissima che nessuno aveva mai affrontato. Ecco, in Lombardia la catena di comando funziona e c’è una forte coesione, ed è questa la cosa importante: stiamo trasferendo un’idea di istituzioni unite ed efficienti e mi pare fondamentale in un momento del genere. In più dobbiamo riconoscere che abbiamo un sistema sanitario formidabile: la reazione e flessibilità dimostrata è davvero qualcosa di unico. Nessuno è perfetto, si può sempre fare meglio, ma il mio giudizio è positivo».

E adesso?

«Adesso si riparte e vediamo di recuperare tutto. Bergamo è fatta così».

FAQ: CHIARIMENTI RELATIVI ALL’APPLICAZIONE DELL’ORDINANZA DEL MINISTERO DELLA SALUTE DI INTESA CON IL PRESIDENTE DI REGIONE LOMBARDIA DEL 23 FEBBRAIO 2020. L’obiettivo dell’ordinanza che regola le prescrizioni per il contenimento del Coronavirus nelle aree regionali classificate come gialle (ovvero valide su tutto il territorio regionale ad eccezione della zona cosiddetta rossa) è quello di limitare le situazioni di affollamento di più persone in un unico luogo. L’amministrazione sulla base delle valutazioni di ogni specifica situazione può dettagliare ulteriormente l’ordinanza in coerenza con l’obiettivo della stessa.

I COMUNI E GLI UFFICI PUBBLICI SONO APERTI? Le istituzioni (ad es. Comuni, Catasto, Inps, Inail, CAF, Poste, Camere di Commercio… etc) e i relativi uffici sono aperti al pubblico rispettando le norme di igiene adottate dal Ministero della Salute (link al decalogo). L’amministrazione sulla base delle valutazioni di ogni specifica situazione può valutare modalità organizzative di riduzione dell’afflusso e dello stazionamento di utenti fino ad arrivare alla sospensione dei servizi che valuta differibili.

COME SI DEVONO COMPORTARE I COMUNI RISPETTO AI MERCATI RIONALI E COMUNALI ALL’APERTO? Per i mercati rionali e comunali all’aperto sono previste le restrizioni indicate per i centri commerciali. Pertanto, i mercati comunali e rionali sono aperti dal lunedì al venerdì. Restano chiusi il sabato e la domenica ad eccezione dei commercianti che esercitano la vendita di generi alimentari. Il sindaco, qualora ritenga che possano esserci casi in cui si favoriscono assembramenti a rischio, può valutare ulteriori restrizioni a livello territoriale.

MANIFESTAZIONI FIERISTICHE, SAGRE E FIERE POSSONO ESSERE REGOLARMENTE SVOLTE? Per le manifestazioni fieristiche, le sagre e le fiere ed ogni evento che preveda assembramento di persone si dispone la chiusura.

I CONSIGLI E LE GIUNTE COMUNALI POSSONO SVOLGERSI REGOLARMENTE? Si, si possono svolgere Giunte e Consigli Comunali (questi ultimi purché a porte chiuse) garantendo la pubblicità attraverso canali di comunicazione differiti quali ad esempio le dirette streaming. E’ comunque fatta salva la facoltà del sindaco di disporre diversamente.

CHE RESTRIZIONI DEVONO ADOTTARE GLI ESERCIZI COMMERCIALI CHE SVOLGONO PIU’ TIPOLOGIE DI ATTIVITA’ NELLA STESSA SEDE? I gestori di esercizi commerciali che prevedono al proprio interno più attività (ad esempio hotel con bar, ristorante con bar, locali da ballo con ristorante etc…) devono seguire le regole previste per le singole attività commerciali ovvero, bar, locali notturni e qualsiasi altro esercizio di intrattenimento aperto al pubblico sono chiusi tutti i giorni dalla ore 18 alle ore 6. E’ fatta eccezione per i bar all’interno di hotel che restano comunque aperti per garantire il servizio ai soli ospiti della struttura. Altresì i bar dei ristoranti restano attivi per il solo servizio di supporto alla ristorazione. In linea generale si invitano i gestori delle attività commerciali a mettere in atto tutte le misure necessarie per evitare nei propri locali gli assembramenti a rischio. Gli autogrill non sono soggetti alle restrizioni attualmente disposte dall’Ordinanza del 23 febbraio 2020.

CI SONO DELLE RESTRIZIONI PER I RISTORANTI? Per lo svolgimento delle attività dei ristoranti non sono previste restrizioni fino ad eventuali nuove disposizioni. I gestori sono comunque invitati a mettere in atto tutte le misure necessarie per evitare nei propri locali gli assembramenti a rischio.

LE CASE DI RIPOSO/RSA RESTANO APERTE A VISITE DI PARENTI? Si, i parenti dei pazienti ricoverati devono attenersi alla regola di accesso alla struttura in numero non superiore ad 1 visitatore per paziente.

CHI PUO’ CHIUDERE IL PRONTO SOCCORSO E LE STRUTTURE SANITARIE E SOCIOSANITARIE TERRITORIALI? L’autorità preposta è Regione Lombardia.

COSA E’ PREVISTO PER LE ATTIVITA’ LUDICO-SPORTIVE? Tutti gli eventi, le riunioni e le attività ludico-sportive sono da ritenersi sospesi in base all’ordinanza lettera C “la sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico”. Sono compresi fra questi luoghi quali palestre, centri sportivi, piscine e centri natatori, centri benessere, centri termali. Le attività all’aperto possono essere svolte ad eccezione dell’utilizzo degli spogliatoi. È consentito l’accesso e l’utilizzo delle strutture sportive ai soli atleti professionisti. Si conferma inoltre che le attività di centri culturali, centri sociali, circoli ricreativi, restano chiuse.

COSA E’ PREVISTO PER LE CERIMONIE CIVILI E RELIGIOSE? Per le cerimonie religiose, i matrimoni civili, le unioni civili non rinviabili è previsto lo svolgimento in forma privata e con un numero di partecipanti limitato. Per quanto riguarda le cerimonie funebri devono svolgersi in forma privata e con un numero di partecipanti limitato.

LE SCUOLE SI INTENDONO CHIUSE ANCHE PER IL PERSONALE AMMINISTRATIVO E TECNICO? Si.

QUALI SONO GLI ISTITUTI E I LUOGHI DELLA CULTURA DI CUI ALL’ART.101 DEL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO? All’interno di questa categoria sono ricompresi anche i musei, le biblioteche, gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali. Sono inoltre compresi i parchi divertimento.

Lettera di Gianluigi Spata e dei presidenti degli Ordini provinciali dei medici della Regione Lombardia (FROMCeO) al “Fatto quotidiano” il 7 aprile 2020. Non è questo il momento dell' analisi delle responsabilità, ma la presa d' atto degli errori occorsi nella prima fase dell' epidemia può risultare utile alle autorità competenti per un aggiustamento dell' impostazione strategica (). Ricordiamo in generale come, a fronte di un ottimo intervento sul potenziamento delle terapie intensive e semi intensive, per altro in larga misura reso possibile dall' impegno e dal sacrificio dei medici e degli altri professionisti sanitari, sia risultata evidente l' assenza di strategie relative alla gestione del territorio ().

1) La mancanza di dati sull' esatta diffusione dell' epidemia, legata all' esecuzione di tamponi solo ai pazienti ricoverati e alla diagnosi di morte attribuita solo ai deceduti in ospedale. I dati sono sempre stati presentati come "numero degli infetti" e come "numero dei deceduti" (), mentre il mondo si chiede le ragioni dell' alta mortalità registrata in Italia, senza rendersi conto che si tratta solo dell' errata impostazione della raccolta dati ();

2) L' incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio;

3) La gestione confusa della realtà delle Rsa e dei centri diurni per anziani, che ha prodotto diffusione del contagio e un triste bilancio in termini di vite umane (nella sola provincia di Bergamo 600 morti su 6000 ospiti in un mese);

4) La mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio e al restante personale sanitario. Questo ha determinato la morte di numerosi colleghi, la malattia di numerosissimi di essi e la probabile e involontaria diffusione del contagio ();

5) La pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati e contatti, ecc);

6) La mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari ();

7) Il mancato governo del territorio ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri ().

La situazione disastrosa in cui si è venuta a trovare la nostra Regione, anche rispetto a realtà regionali viciniori, può essere in larga parte attribuita all' interpretazione della situazione solo nel senso di un' emergenza intensivologica, quando in realtà si trattava di un' emergenza di sanità pubblica. La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate (). La situazione al momento risulta difficile da recuperare () . Per quanto riguarda gli operatori sanitari la proposta è di sottoporre tutti a test rapido immunologico, una volta ufficialmente validato, e, in caso di riscontro di presenza anticorpale (IgG e/o IgM), sottoporre il soggetto a tampone diagnostico. In caso di positività in assenza di sintomi () valutare la possibilità () di un' attività solo in ambiente Covid, sempre con protezioni individuali. (). Per quanto riguarda le attività non sanitarie sembra raccomandabile un' estesa effettuazione di test rapidi immunologici per discriminare i soggetti che non hanno avuto contatto con il virus, soggetti che si possono riavviare al lavoro. Per i soggetti nei quali si rileva la presenza di immunoglobuline (IgG o IgM) sembra indicata l' esecuzione del tampone diagnostico. () La ripresa del lavoro dovrebbe essere subordinata all' effettuazione del test immunologico rapido di screening, non risultando in letteratura alcun termine temporale valido per la quarantena (). È evidente come tale procedura comporti un rilevante impiego di risorse, soprattutto umane, ed è altresì evidente come la stessa, al momento, sia l' unica atta a consentire la ripresa dell' attività lavorativa in relativa sicurezza. A tale scopo Regione Lombardia dovrà mettere in campo tutte le risorse umane ed economiche disponibili. Naturalmente quanto sopra dovrà essere accompagnato dall' uso costante, per tutta la popolazione e in particolare nei luoghi di lavoro, di idonei comportamenti e protezioni. La ripresa potrà quindi essere solo graduale (). È superfluo segnalare come qualsiasi imprudenza potrebbe determinare un disastro () FROMCeO raccomanda ai colleghi di non affidarsi a protocolli estemporanei non validati e ad attenersi alle indicazioni di AIFA e di Regione, utilizzando la massima cautela. Nell' esprimere le considerazioni di cui sopra, FROMCeO ritiene di svolgere le proprie funzioni di organo sussidiario dello Stato ed esprime disponibilità ad un confronto costante con le Istituzioni preposte alla gestione dell' emergenza. Spiace rimarcare come tale collaborazione, più volte offerta, non sia ad oggi stata presa in considerazione. Cordiali saluti.

Veronica Di Benedetto Montaccini per tpi.it l'8 aprile 2020. La Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per epidemia colposa sulla gestione dell’emergenza Coronavirus – a partire dalle ultime due settimane di febbraio – presso l’ospedale “Pesenti Fenaroli”di Alzano Lombardo. Inchiesta partita grazie alle numerose denunce di operatori sanitari e cittadini raccolte anche da Francesca Nava su TPI, che ha portato avanti un’inchiesta giornalistica in più parti sul caos presso il pronto soccorso di Alzano (e sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro). Lì dove tutto iniziò: quel 23 febbraio, come abbiamo denunciato tre settimane fa, al Pesente Fenaroli succede un po’ di tutto: nonostante fossero stati accertati due casi Covid-19, il pronto soccorso chiude e riapre inspiegabilmente dopo 3 ore, senza essere sanificato. Restano ignoti i motivi della differenza di gestione tra l’ospedale di Codogno, chiuso totalmente e sanificato, e quello di Alzano Lombardo. Due sono i punti sui quali si concentreranno le indagini: il trattamento dei primi pazienti che si erano rivelati positivi al Covid-19 ed erano ricoverati da più giorni vicino ad altri degenti, e la particolare decisione, scattata il 23 febbraio, di chiudere e poi riaprire il pronto soccorso. Fu la Regione Lombardia che, dopo cinque ore di stop totale dell’attività, tra le 15 e le 20 di quella domenica, chiese una riapertura. L’avvocato bergamasco Roberto Trussardi, che segue da vicino il caso di Alzano Lombardo commenta così a TPI: “Finalmente il caso è finito nelle mani competenti del procuratore aggiunto Maria Cristina Rota. Adesso ci sarà un’indagine preliminare – che purtroppo sarà lunga – poi verranno iscritti i nominativi nel registro degli indagati. E a quel punto si potranno costituire le parti offese: tutte le famiglie delle vittime di Alzano. È un momento molto importante perché finalmente chi ha materiali probatori specifici, almeno sa a chi inviarli. Adesso questo scandalo ha un nome”. Per il momento, i carabinieri del Nucleo antisofisticazione e sanità di Brescia, competenti anche sul territorio bergamasco, hanno acquisito una serie di atti proprio al Pesenti-Fenaroli, gestito dall’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est, con sede a Seriate e diretta da Francesco Locati, nominato a capo della ASST nel gennaio 2016 in quota Lega. Il suo vice, il direttore sanitario Roberto Cosentina, ha ricevuto a gennaio una condanna a due anni e sei mesi per omessa denuncia e favoreggiamento personale dell’ex medico Leonardo Cazzaniga, condannato in primo grado all’ergastolo per 12 morti in corsia al presidio ospedaliero di Saronno. Cosentina era tra i medici della commissione nominata dall’ospedale per verificare l’operato del vice primario Cazzaniga. Tra i documenti che sicuramente gli investigatori analizzeranno c’è la cartella clinica di Ernesto Ravelli, 84 anni, di Villa di Serio, il primo paziente deceduto in provincia di Bergamo: era arrivato al pronto soccorso il 21 febbraio, venerdì, ed era morto il 23, poco dopo il trasporto al Papa Giovanni XXIII. Ci sarà anche la cartella di Franco Orlandi, 83 anni, di Nembro, in ospedale fin dal 15 febbraio ma con tampone positivo ricevuto solo domenica 23 febbraio, due giorni prima di morire. Ma anche quella dell’agente di commercio Samuele Acerbis, 62 anni, che aveva insistito per giorni per ottenere un tampone e è morto una settimana fa. Verranno insomma cercate le prove per giudicare chi ha orchestrato la riapertura e la non sanificazione dell’ospedale di Alzano. L’avvocato Trussardi sottolinea i rischi per le prossime tappe dell’inchiesta: “Adesso è fondamentale che non passi l’emendamento sullo Scudo Penale in Parlamento nel frattempo, che altrimenti insabbierebbe tutte le responsabilità”. L’ emendamento al decreto ‘Cura Italia’ a prima firma di Marcucci del Partito Democratico voleva ridefinire, per il periodo di emergenza da Covid19, il perimetro della responsabilità penali, civili e politiche per medici e operatori del settore e anche per gli amministratori. Ma, al momento, si è trasformato da emendamento a un ordine del giorno. Nella nostra inchiesta in più parti, noi di TPI ci siamo chiesti perché i ricoverati con sintomi sospetti furono ricoverati insieme agli altri pazienti? Perché quel 23 febbraio l’ospedale è stato brutalmente riaperto? Perché una serie di tamponi furono trasportati da Alzano al Policlinico San Matteo di Pavia per le analisi? Perché la direzione sanitaria si è lasciata scappare di mano la situazione, portando così i contagi a moltiplicarsi a dismisura? Adesso sarà la Procura di Bergamo a verificare le responsabilità di questo disastro colposo che poteva essere evitato e che invece ha portato alla morte di 4500 persone.

Coronavirus, la denuncia dell’infermiera di Alzano Lombardo. Federico Dedori il 10/04/2020 su La Notizia.it. Un'infermiera del pronto soccorso di Alzano Lombardo ha spiegato che i pazienti Covid-19 positivi sono stati tenuti insieme agli altri ricoverati. “Abbiamo tenuto i pazienti Covid insieme agli altri ricoverati” la testimonianza di un’infermiera del pronto soccorso di Alzano Lombardo. Sul 23 febbraio: “Il problema è che non sono stati isolati i reparti”. Per quanto riguarda la sanificazione dei reparti in cui sono stati riscontrati Covid-19 positivi in un’intervista a TPI l’infermiera ha spiegato che: “Questo non lo so dire, io posso parlare del pronto soccorso, non dei reparti. Non so proprio. Ma a quel punto lì era inutile, bisognava svuotare i reparti e sanificare tutto. Il problema è che non sono stati isolati i reparti. Quel giorno lì, il 23 stesso, che abbiamo fermato tutti i colleghi noi dei reparti nel parcheggio, è stato transennato l’ingresso in entrata e anche in uscita, poi alle 10 di sera, 10 e mezza, quando è arrivato l’ordine di andare, tutti sono andati, parenti compresi”. Ma proprio nel momento in cui tutti sono stati mandati a casa è iniziato il problema: ” Eh. È stato lì il casino. Lì non doveva uscire nessuno, né i parenti né i pazienti. Dovevano isolarci, secondo la mia idea, farci i tamponi e, nell’attesa di avere il risultato, a quel punto, ci si poteva lasciare andare oppure no. È stato lì il casino”. Secondo l’infermiera potevano: “Trovare qualsiasi locale, ci mettevano lì tutti “insieme”, o comunque stavamo lì. I posti potevano benissimo trovarli, anche il locale mensa, che poi è stato chiuso. Nei giorni successivi sono stati chiusi tutti i servizi, a parte il lunedì e il martedì che comunque sono andati avanti con le normali attività, perché non ci hanno proprio cag**o di striscio. O non volevano fare allarmismo o non si capisce bene. Lì non doveva più entrare o uscire nessuno, finché non si fossero stabiliti dei percorsi ben precisi”. Il problema sono state le 48-72 ore dalle 15 del 23 febbraio in cui tutti hanno circolato: “Esatto. Come se nulla fosse sono entrati e usciti, hanno operato e fatto attività ambulatoriale. Lì è stato il grosso errore“. L’infermiera ha poi confermato che dall’Asst Bergamo Est all’ospedale di Alzano era arriva la comunicazione di mantenere i sospetti casi Covid al pronto soccorso finché non fosse arrivato l’esito del tampone “tant’è che noi a un certo punto non avevamo più né attacchi d’ossigeno né lettini dove mettere pazienti. Alla fine è diventato solo Covid”. I pazienti da quanto emerge dall’intervista di TPI sono stati tenuti in attesa dell’esito del tampone anche 24-48 ore sistemando anche “dove si riusciva, nei corridoi e nella shock room”.

Chi sono i responsabili della strage da coronavirus a Bergamo. È quello che vogliono sapere migliaia di persone che chiedono giustizia sui social. La mancanza di mascherine, i troppi morti nelle case di riposo, le informazioni sbagliate agli ospedali. Nella provincia che sta pagando di più, al lutto segue la rabbia. Fabrizio Gatti l'8 aprile 2020 su L'Espresso. Le case ovviamente sono in piedi. Non ci sono macerie, non si vedono deserti di fango. Ma il silenzio immobile che avvolge oggi i paesi della Val Seriana, da Bergamo su fino a Gromo e Ardesio, ricorda la gola del Piave dopo il disastro della diga del Vajont. L’epidemia di covid-19 supera ormai l’immaginario storico italiano: 1.910 morti nella strage di cinquantasette anni fa tra Veneto e Friuli, già oltre duemila in tutta la provincia nel bollettino ufficiale, mentre restano ancora da contare decine e decine di bare. Un dolore presente ovunque. E così, come allora, la montagna restituisce la protesta. Contro le autorità che non hanno dichiarato la zona rossa. Contro le decisioni della Protezione civile nazionale che hanno fatto perdere tempo, lasciando sguarnita di mascherine la prima linea di medici, infermieri, ospedali e case di riposo. Contro i politici del partito trasversale Lega-Pd: quelli che all’inizio della catastrofe invitavano i cittadini a uscire come sempre, in nome dell’economia e dell’industria. Quando si svuoteranno le terapie intensive, toccherà al ministero della Giustizia rinforzare i propri uffici: perché gli esposti che arriveranno da tutta la Lombardia saranno probabilmente migliaia.

Fino a oggi non c’era tempo per pensare. Chi ha già seppellito i suoi cari, però, ora si guarda intorno e si chiede il perché dell’ecatombe. Allora toccò a una giornalista veneta e coraggiosa, Tina Merlin, raccontare sull’Unità l’altra versione del Vajoint. Oggi la testimonianza è collettiva e parte su Facebook dalla pagina pubblica “Noi denunceremo”. Davanti a un’Italia obbligata a stare in casa, Luca Fusco, 59 anni, uno dei tanti bergamaschi che stanno vivendo nel lutto, ha aperto una piazza digitale dove raccontare, segnalare, ricordare i propri cari: «Questo gruppo», spiega Fusco, «nasce per un bisogno di giustizia e di verità, per dare pace ai nostri morti che non hanno potuto avere nemmeno una degna sepoltura. Quando tutto sarà finito, chi ha sbagliato e girato la testa dall’altra parte dovrà pagare. Denunceremo e chiederemo giustizia. In memoria di mio padre e di tutti quelli che, insieme a lui, sono morti (e moriranno)». Ventimila iscritti in pochi giorni. E una regola: non si fa propaganda, soprattutto quella banale dei videoselfie politici che, puntualmente, vengono cancellati. Anche lo slogan che inizialmente apriva la pagina, “dovranno pagare”, è stato poi tolto. Così lo spazio rimasto bianco potrebbe contenere le parole che Tina Merlin ha dedicato alla gente del Vajont: «Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa». Ecco, Matteo Renzi potrebbe fare un giro qui e vedere cosa accadrebbe se questo virus Sars-Cov-19 venisse lasciato correre per l’Italia con la sua proposta di riaprire prima del tempo fabbriche, scuole e la vita di sempre. Perché qui, tra Bergamo, Nembro , Albino e tutt’intorno il coronavirus ha avuto davvero la libertà di correre. E per questo continua a uccidere: ora è dentro le case di riposo e nei paesi delle valli fin giù nelle campagne della pianura, dove la conta della strage ogni giorno aggiunge numeri. Davanti a 1969 morti al mese e chissà quanti altri ancora sfuggiti alla versione ufficiale, come potrebbe funzionare l’economia fingendo che non sia successo nulla?

Il bibliotecario, l’ostetrica, l’alpino. Il ferramenta e il signore che faceva attraversare i bambini. Il racconto di un paese di diecimila anime nella bergamasca sconvolto da quasi cento lutti. Lo stesso killer silenzioso lascia tracce del passaggio anche verso Brescia e le sue montagne. «Qualche timido segnale di minor pressione sul pronto soccorso lo vediamo», racconta un medico che lavora nell’epicentro bresciano degli Spedali Civili, «ma l’impressione è che l’infezione sia diffusa sul territorio. E lì penso che durerà ancora molto». Torniamo così alla prima questione: stare chiusi in casa è l’unico rimedio, ma quando si è costretti a uscire per la spesa e altre necessità urgenti, come si può garantire la protezione propria e altrui senza quel banalissimo ma fondamentale accessorio dell’abbigliamento antivirus che è la mascherina? La Svizzera si è preparata al peggio con una scorta nazionale di diciassette milioni di pezzi. La Francia, alle prese con la stessa penuria italiana, ha annunciato l’importazione di un miliardo di maschere protettive dalla Cina. Da noi, nel mese di vantaggio che avevamo, dalla delibera del premier Giuseppe Conte che dichiarava lo stato di emergenza il 31 gennaio, non si è ancora capito cosa sia successo. Scoppiato il focolaio di Codogno, la Regione Lombardia è intervenuta tempestivamente. Ma poi in provincia di Bergamo ha lasciato le porte aperte all’infezione. Mentre a inizio epidemia il dipartimento nazionale della Protezione civile firmava provvedimenti che hanno fatto perdere giorni e contatti preziosi: come la scelta, scoperta e raccontata dal sito dell’Espresso la settimana scorsa, di incaricare per il pagamento dei fornitori all’estero una società a responsabilità limitata specializzata nell’importazione di gadget , come tapiri in plastica, statuine di Batman, ombrelli e cavatappi. Una decisione voluta dall’Ufficio VI-Amministrazione e bilancio. Così il rapporto privilegiato che lo Stato italiano stava avviando direttamente con importanti produttori cinesi si è interrotto. Provate a ribaltare le posizioni: voi vi fidereste di una sconosciuta srl cinese? Il premier Conte ha poi chiamato Domenico Arcuri, il secondo commissario dopo Angelo Borrelli . E il caos è scoppiato nelle dogane. Prima il blocco anti speculatori e il sequestro di tutte le forniture sanitarie perché fossero affidate alla Protezione civile. Poi il via libera parziale di quanto è destinato a ospedali e aziende. Così perfino le grosse donazioni della comunità cinese in Italia vengono requisite. E all’estero nessuno ci fa più credito: grazie al rischio della confisca della merce, ora si importa solo con pagamento anticipato. La Guardia di finanza non potrebbe colpire gli speculatori partendo dalla loro rete di vendita? Molti comandi, dopo la chiusura di aziende e negozi, hanno invece messo il personale in ferie. Il risultato lo si vede lungo la prima linea: decine di medici morti, novemila colleghi e infermieri contagiati. Anche la strage di nonni nei reparti e nelle case di riposo sarebbe stata favorita dalla mancanza di protezioni per il personale sanitario. E a volte dalle loro scelte. Come ad Alzano Lombardo, proprio in bassa Val Seriana, dove l’ospedale è stato chiuso e riaperto in poche ore, mentre a Codogno scattava la zona rossa: «Nessuno ci ha avvertito che nei reparti c’erano pazienti positivi», racconta alle cronache locali Francesco Zambonelli, 55 anni, di Villa Serio, che in pochi giorni ha perso il padre, la madre e una zia. Decine di persone rivelano storie identiche. Solo la reiterata minaccia della Regione Lombardia di licenziare chiunque parli, mantiene il tappo sulla protesta che monta tra medici e infermieri. Il sindacato Nursind sta ricevendo decine di segnalazioni. Questo è quanto accade in uno dei più importanti ospedali di Milano: agli infermieri viene chiesto di riutilizzare camici e protezioni monouso, il loro impiego è comunque prolungato a dodici ore quando i filtri sono garantiti per otto, i pazienti non-Covid non vengono riforniti nemmeno di mascherina chirurgica, per non spogliarsi e dover sostituire la tuta il personale delle aree infettive rinuncia ai pasti e ai bisogni fisiologici per tutte le dodici ore del turno. «Da noi», dice un’infermiera di un altro grande ospedale milanese, «anche se hai i sintomi dell’infezione, puoi lasciare il reparto solo se la febbre sale sopra i 37,6. E il tampone comunque non ce lo fanno, lo eseguono solo al rientro dalla malattia. Con il rischio di infettare tutta la famiglia. Alla nostra richiesta di avere a disposizione le corrette protezioni previste, la risposta dell’azienda è stata pressoché negativa. Il risultato è che in psichiatria, dove secondo la direzione non esisteva alcun rischio, a oggi si contano dieci pazienti positivi su diciotto e dieci infermieri contagiati: di loro, quattro sono stati ricoverati. Siamo professionisti laureati, che prestano il proprio servizio al bene della comunità. Non dobbiamo essere per forza eroi».

«Dal 15 febbraio si è diffuso tra i reparti». Così iniziò il contagio ad Alzano e Nembro. Marco Imarisio, Simona Ravizza e Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2020. Il rapporto della direzione dell’ospedale Pesenti: «I malati ricoverati tra gli altri pazienti per giorni». «Come espressamente previsto dalle indicazioni regionali», oppure «concordemente con gli uffici regionali». Il rapporto della direzione dell’Azienda sociosanitaria territoriale di Bergamo Est su quel che è accaduto nei primi giorni dell’epidemia all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo è piena di rimandi che suggeriscono una spartizione delle eventuali responsabilità. Ma contiene anche dettagli inediti. Il più importante è la scoperta di un focolaio. Un focolaio, e non importa se dentro o fuori il nosocomio dal quale è partito il contagio nella provincia di Bergamo, che si è sviluppato ben prima del 23 febbraio, quando furono rivelati due casi di positività, senza che nessuno pensasse di agire. Fino al rimpallo di responsabilità sulla mancata chiusura dell’ospedale. Il rapporto è datato 3 aprile. Ne segue un altro, una «relazione temporale sulla prima fase dell’emergenza» che invece è di ieri, 8 aprile. Sono passati 47 giorni, un mese e mezzo, dal primo decesso e dall’inizio della strage in provincia di Bergamo.

Così è cominciata. «Nel periodo compreso fra il 13 febbraio e il 22 febbraio sono giunti presso il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano alcuni pazienti che venivano successivamente ricoverati presso il reparto di medicina generale con diagnosi di accettazione polmonite/insufficienza respiratoria acuta». Erano anziani con patologie pregresse e invalidanti che «in larga prevalenza» provenivano da Nembro e da comuni limitrofi. L’azienda ospedaliera giustifica il fatto che non siano stati sottoposti a tampone durante la degenza, perché «nessuno dei pazienti ricoverati in tale periodo presentava le condizioni previste dal ministero della Salute per la definizione di caso sospetto». Nessuno dei pensionati di Nembro, a farla breve, aveva visitato o aveva lavorato al mercato di animali vivi di Wuhan, era stato ricoverato in ospedali con pazienti Covid-19, o era stato a contatto con casi confermati di infezione. «In data 22 febbraio, in seguito all’evidenza del focolaio nel lodigiano, veniva acquisita la consapevolezza da parte dei clinici che tale criterio epidemiologico non era più da ritenersi totalmente attendibile, sebbene ancora non modificato».

L’epidemia e la sicurezza. Ad Alzano lombardo i primi tamponi vengono fatti nella notte di sabato 22 febbraio. Nei due giorni precedenti, dopo la rivelazione del caso di Codogno, la direzione sanitaria si limita a effettuare uno screening dei pazienti. Fonti interne all’ospedale hanno raccontato di aver segnalato più volte casi sospetti di polmonite interstiziale a partire dal 10 febbraio. La direzione dell’ospedale riconosce che il tempo trascorso tra l’ingresso e la diagnosi è all’origine della propagazione dell’epidemia. «Dal momento del ricovero al momento del sospetto, erano trascorsi alcuni giorni in cui si suppone possa essersi verificata la diffusione del coronavirus all’interno del reparto interessato». Ma garantisce che a partire dal 23 febbraio sono state prese tutte le misure necessarie alla tutela di personale sanitario, pazienti e visitatori dell’ospedale. Molti familiari degli anziani deceduti prima e dopo il 23 febbraio raccontano, invece, di aver avuto libero accesso alla salma del defunto e di essersi radunati intorno a lui, vegliando la bara aperta. All’inizio la direzione del Pesenti Fenaroli aveva dato disposizioni per proibire contatti tra vivi e morti. Ma dopo le proteste presso la Regione di alcuni parenti ha fatto marcia indietro. Ancora il 2 marzo «sulla scorta delle richieste pervenute dal territorio», una nota del governo regionale riteneva sufficienti «precauzioni standard». La circolare della Lombardia che vieta ogni contatto con i defunti di Covid-19 «prima e durante l’attività funebre» arriverà il 12 marzo.

Doppio binario. Tra il 21 e il 25 febbraio, diventa evidente l’esistenza del focolaio di Alzano-Nembro: entrano in pronto soccorso, con patologie riconducibili al Covid-19 e subito positivi al tampone, sei persone provenienti da quei due comuni. «Riteniamo possibile, vista la provenienza dei pazienti, residenti in larga prevalenza nel comune di Nembro, che in realtà non ci sia stato all’interno dell’ospedale un paziente indice, ma che la maggior parte di loro presentasse già al momento del ricovero un’infezione in atto da Covid-19 non riconosciuta immediatamente, perché nessuno rispondeva ai criteri epidemiologici previsti». Anche le persone decedute fino a quel momento vengono dalla stessa zona, compresi i tre anziani che vivevano a Villa di Serio, che confina con Alzano e Nembro. Che il focolaio nasca nell’ospedale, oppure fuori, come sostiene la relazione della Asst di Bergamo Est, ciò che stava accadendo avrebbe dovuto essere chiaro a chiunque fosse stato in possesso di questi dati. Eppure non è stato fatto nulla. Certo, con il senno di poi è tutto più facile. Ma per chiudere l’ospedale di Codogno e isolare la zona ci sono voluti un solo giorno e un solo paziente positivo. In quelle stesse ore, cresceva indisturbato il focolaio-zero, che a breve sarebbe diventato il più letale d’Europa.

La chiusura che non c’è stata. Domenica 23 febbraio è il giorno che segna più di ogni altro questa vicenda. Quando arrivano gli esiti dei tamponi, scatta finalmente l’allarme. Viene decisa la chiusura e l’evacuazione del pronto soccorso di Alzano, poi subito revocata. Nella relazione si sostiene che non fosse una vera serrata. «Abbiamo provveduto a concertare i provvedimenti con i competenti uffici regionali. Mentre si valutavano le misure opportune, si contattava telefonicamente la centrale Areu e si concordava di limitare i trasporti presso il Ps di Alzano. Tale “blocco” durava circa due ore. Veniva infine collegialmente deciso, con gli Uffici regionali, di garantire l’operatività del pronto soccorso alla luce della riflessione che l’epidemia si sarebbe manifestata in misura tale da non poter consentire di rinunciare a tale punto assistenziale». Alla centrale Areu, responsabile degli interventi in ambulanza per le provincie di Bergamo, Brescia e Sondrio, risulta invece una comunicazione dal tono più perentorio. Si chiude, a tempo indeterminato. Sul sito della Croce verde appare un messaggio urgente, oggi non più disponibile. «Pronto soccorso di Alzano chiuso e in isolamento. Non recatevi e in caso di bisogno chiamare il 112». L’isolamento invece dura solo due ore. Nonostante la «collegialità», la riapertura risulta una decisione unilaterale della Regione. Ma almeno c’è stata la sanificazione del pronto soccorso? «Le procedure sono state attuate secondo i protocolli esistenti... appare fuori luogo giudicarli inappropriati in una situazione nella quale non esistono certezze ineccepibili». La sanificazione del pronto soccorso di Codogno è stata affidata a una azienda esterna, ed è durata tre giorni. Quella dell’ospedale di Alzano, appena due ore. Al 3 aprile, sono risultati positivi 1.895 pazienti e 479 operatori.

Alzano Lombardo e Nembro, il diario di un errore fatale. Barbara Massaro su Panorama il 7 aprile 2020. Giorno per giorno, dal primo caso di contagio ad oggi cos'è successo nell'area dove il Coronavirus ha fatto una vera e propria strage. Nembro, Alzano Lombardo, città che fino ad un mese fa in pochi conoscevano, ma che sono diventate l'epicentro dell'epidemia di Coronavirus in Italia. Città che hanno pagato con la vita di centinaia di loro abitanti le lentezze e gli errori commessi da istituzioni, Governo, esperti, medici. Errori che sono al centro di una polemica e dello scarica barile tra Regione Lombardia sui ritardi nell'istituzione di una seconda zona rossa come quella che era attiva a fine febbraio a Codogno e nel lodigiano. Ecco il diario di quanto successo giorno per giorno dal primo caso di contagio alla chiusura di tutta l'Italia, l'8 marzo.

22 febbraio: ad Alzano Lombardo, Bergamo, viene a mancare la Signora Angiolina Zambonelli. Ricoverata presso l'ospedale Pesenti Fenaroli da 10 giorni per uno scompenso cardiaco muore per aver contratto in ospedale il Coronavirus. Lo stesso giorno vengono trovati positivi al virus altri 2 pazienti del nosocomio: Franco Orlandi e SamueleAcerbis, entrambi provengono da Nembro, nel bergamasco. I due uomini erano ricoverati da una settimana nel reparto di medicina generale insieme a tutti gli altri pazienti: non era stato loro diagnosticato il Covid 19. Sono i primi casi accertati di Coronavirus nel polo Nembro-Alzano Lombardo.

23 febbraio: il pronto soccorso dell'ospedale di Alzano Lombardo viene transennato, l'ospedale chiude per qualche ora. Il nosocomio, però, in breve riapre senza, per altro, che venga disposta alcuna sanificazione delle strutture o che vengano istituiti percorsi differenziati tra i degenti e gli arrivi al pronto soccorso. L'ordine di chiusura era stato dato dal direttore sanitario di Alzano, mentre l'ordine di riapertura d'ufficio era arrivato dall'Ats di Bergamo Est...Il Covid, quindi, il 23 febbraio si trovava all'interno delle corsie dell'ospedale, struttura impreparata ad affrontare l'emergenza. Pazienti, personale sanitario, medici, parenti: tutti potenzialmente avrebbero potuto contrarre il virus visto che non era stata presa nessuna precauzione e non era stata data nessuna informazione.

24-27 febbraio: nei report giornalieri inviati dalla Regione alla Protezione Civile per identificare i focolai di contagio in Lombardia la provincia di Bergamo non appare mai eppure in quella settimana nella zona si erano registrati 72 nuovi casi di positività, dei quali 19 a Nembro (più tre decessi), lo stesso numero di Casalpusterlengo che dal 24 febbraio rientrava nella zona rossa.

27-29 febbraio: il numero di casi di Covid 19 a Nembro aumenta di 25 unità in 48 ore, di 12 a Alzano Lombardo.

29 febbraio: Confindustria di Bergamo pubblica il video "Bergamo is running" facendo intendere la classe il nord produttivo non vuole fermarsi. Regione Lombardia invoca misure più restrittive, ma non chiede mai formalmente che venga istituita una zona rossa.

2 marzo: l'assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera esprime ancora forti dubbi sull'utilità di una zona rossa.

3 marzo: si inizia a parlare della possibilità di estendere la zona rossa all'intera regione Lombardia provvedimento che però non viene mai approvato. Intanto il Comitato tecnico e scientifico che segue per il governo l'emergenza Covid-19 a proposito della situazione a Nembro e Alzano Lombardo afferma che "Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un'unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della "Zona Rossa" al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi". Nulla però viene fatto e in provincia di Bergamo si arriva a 423 contagi, 58 a Nembro e 26 ad Alzano.

4 marzo: il Governo firma il decreto per chiudere le scuole e le università e impedire le aggregazioni pubbliche. A proposito di Nembro e Alzano il Presidente del Consiglio chiede al Comitato Tecnico e scientifico di "approfondire" lo studio, ma decide di non varare nessun provvedimento specifico per inserire all'interno della zona rossa i due comuni del bergamasco. A Palazzo Chigi arrivano i numeri del contagio in tutta Lombardia (33 decessi a Bergamo, 38 a Lodi, 76 a Cremona, 27 a Crema, 23 nel comune di Zogno e 19 a Soresina e Maleo) e il Governo punta a varare provvedimenti che coprano tutta l'aerea lombarda e non solo specifici comuni. Intanto il tempo passa e il virus si diffonde sempre di più.

5 marzo: Il Professor Brusaferro, direttore dell'istituto superiore di Sanità , conferma quanto riportato dal Comitato Scientifico e in una nota scritta insiste: "Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l'adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa".

6 marzo: il Presidente del Consiglio Conte si reca di persona a parlare con la Protezione Civile e incontra i membri del Comitato scientifico per prendere la decisione definitiva, ma la riunione finisce con un nulla di fatto.

7 marzo: Il Governo decide di superare la distinzione tra zona rossa e zona arancione, di non chiudere solo la Lombardia ma tutta Italia.

8 marzo: Conte firma il decreto. L'Italia entra in quarantena.

9 marzo: alle 8 del mattino il decreto entra in vigore. Nembro conta 107 contagiati, Alzano Lombardo 55. In provincia di Bergamo le persone affette da Coronavirus al 9 marzo sono 1245. Sono passati sei giorni da quando il comitato tecnico e scientifico ha evidenziato la necessità di chiudere Nembro e Alzano Lombardo.

Da quel giorno la conta dei morti diventa inarrestabile nelle due città ed in tutta la Val Seriana. E' una vera e propria strage, soprattutto di anziani.

Marco Imarisio e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2020. «Qui è il delirio, e nessuno sa bene cosa fare». A mezzogiorno di domenica 23 febbraio la notizia dei primi casi sospetti di Covid-19 all’ospedale di Alzano lombardo piomba sulla riunione cominciata due ore prima all’unità di crisi dell’Azienda sociosanitaria territoriale Bergamo Est, a Seriate. Sono presenti almeno 20 persone, primari, dirigenti amministrativi, membri del Collegio di direzione che comprende anche le altre cinque strutture dell’Asst locale. Il direttore sanitario, Roberto Cosentina, riconosce che la situazione è di una gravità mai affrontata prima. Nessuno ha idea di nulla, si accettano proposte.

Chiudere il Pronto soccorso. I medici ne hanno una sola, all’unanimità. La permanenza di tanti degenti con polmoniti sospette mai sottoposti a tampone fino alla sera di sabato, impongono un’unica scelta. Bisogna chiudere il Pronto soccorso, e impedire l’ingresso negli altri reparti. «Trasformiamo il Pesenti-Fenaroli in un lazzaretto», è la frase che viene utilizzata. Un presidio interamente Covid-19. Per evitare che l’ospedale faccia da cassa di risonanza al contagio che da lì a poco travolgerà la provincia di Bergamo.

I mancati controlli. Anche per questo, quando alle 15 diventeranno ufficiali gli esiti del tampone, i nomi dei due pazienti positivi vengono subito inseriti «in modalità immediata», nel Mainf, un programma «gestionale regionale». È la banca dati lombarda delle malattie infettive. Dopo la segnalazione, il Mainf dovrebbe subito attivare l’ufficio di prevenzione e sorveglianza malattie infettive dell’Azienda di tutela della Salute della provincia di Bergamo, diretta da Massimo Giupponi, che sulla carta dispone di una guardia medica sempre attiva e in grado di avviare l’indagine epidemiologica. Ma dal 23 al 27 febbraio sono molte le segnalazioni dei familiari di persone ricoverate ad Alzano, alcune anche da due settimane, e risultate positive, che ancora oggi affermano di non essere mai state contattate, tantomeno sottoposte a tampone o messe in quarantena.

Lo scontro. Cosentina si dice d’accordo con i suoi medici. Chiudiamo, e cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Anche perché ad Alzano Lombardo non esiste il reparto di Malattie infettive. Il suo superiore, il direttore generale della Asst Francesco Locati, avvisa Luigi Cajazzo, direttore dell’assessorato alla Sanità, che a sua volta riferisce subito dello scarso entusiasmo della Regione per questo provvedimento. Alle 14 intanto il cambio turno degli infermieri viene bloccato. Restano in servizio quelli che sono dentro. I medici chiedono anche l’isolamento dei malati di polmonite, ospitati fino a quel momento nei reparti di medicina insieme a pazienti con patologie diverse. Ma il Pesenti Fenaroli non è attrezzato per farlo. Alle 18 il direttore sanitario viene chiamato dal suo superiore Locati, che ha appena sentito Cajazzo. L’ordine è di riaprire, subito. La Regione non vuole lasciare sguarnito un presidio sul territorio, questa la spiegazione ufficiale. L’ospedale di Codogno è stato chiuso subito dopo un solo caso di contagio, e dista 24 chilometri da quello di Lodi. Tra il Pesenti-Fenaroli e l’ospedale Bolognini di Seriate ci sono appena 7 chilometri di distanza. Perché questa decisione? Perché questa differenza di trattamento? Il Corriere ha chiesto di porre questi e altri interrogativi al dottor Locati. La Regione ha concesso l'autorizzazione, ma solo a patto che fossero domande e risposte scritte. «Premesso che una emergenza di questa portata non è data a conoscersi nei nostri sistemi sanitari, nello specifico si è ragionato con i Capi Dipartimento e ci si è confrontati con la Direzione generale Welfare di Regione Lombardia. Non si poteva togliere una possibile risposta ai cittadini. Per noi, la saturazione dei posti letto non avrebbe consentito la chiusura di nessun punto assistenziale. Non esistono solo pazienti Covid».

La sanificazione. Gli infermieri chiedono di essere almeno sottoposti al test prima di rientrare in ospedale. «Non è possibile». Ci sono solo 76 tamponi per tutta la Asst. È stata fatta istanza alla Regione, che ha già risposto di non riuscire a trovarli sul mercato. Due giorni dopo, Giuseppe Marzulli, primario del Pronto soccorso di Alzano, scrive alla direzione sanitaria e generale. Nel suo reparto «stazionano» tre pazienti giunti in mattinata. Nella lettera, pubblicata ieri dal Corriere di Bergamo, il medico sostiene che «in queste condizioni» il Pronto soccorso non può rimanere aperto, perché, data l’indicazione di non accettare i pazienti fino all’esito del tampone, con tempi di referto intorno alle 48 ore, significa un’attesa «contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso». Fonti interne alla Regione affermano che la richiesta di Marzulli venne giudicata tardiva, in quanto ormai c’erano presunti casi Covid anche nei Ps di Seriate, Piario e Lovere.

«L’abbiamo fatta passando asciugamani e stracci». Ma per Alzano lombardo c’era un problema in più. E non piccolo. La sanificazione, che dovrebbe essere avvenuta quel 23 febbraio in sole due ore. Nel carteggio interno all’Asst si legge che venne effettuata «in accordo con documenti pubblici che attengono alle regole generali», oppure «secondo le procedure standard». La Regione non ne ha mai chiesto conto alla direzione sanitaria e generale, che ha fornito le indicazioni abituali. «L’abbiamo fatta passando asciugamani e stracci», sostengono alcuni infermieri dell’ospedale che chiedono di restare anonimi. A Codogno è stata invece affidata a una ditta esterna, che ha utilizzato un robot. Possibile che l’attenzione e le risorse di tutti fossero concentrate sul lodigiano? A domanda, Locati risponde. «La normale procedura standard è quella a tutt’oggi prevista dai protocolli operativi. La ditta esterna specializzata ha le stesse competenze del nostro personale e tutt’al più strumenti differenti. Stiamo tutti imparando da un avvenimento epocale e il metodo di crescita delle conoscenze scientifiche è la raccolta dei dati e l'analisi dei medesimi. Ora è troppo presto per trarre conclusioni».

Alzano e Nembro, sei giorni di rinvii. L’inchiesta sull’ecatombe da coronavirus nella Bergamasca. Le carte: I VERBALI, LE MAIL. Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini il 6 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. I primi pazienti «anomali», i mancati interventi, il via vai di persone in ospedale mai interrotto. Nelle mail e nei verbali delle riunioni il rimpallo di responsabilità tra governo e Regione. Il Comitato tecnico-scientifico propose la «zona rossa» ma non fu ascoltato. Francesco Zambonelli ha visto il paziente uno, ma anche il numero 2, e il tre. «Eravamo tutti insieme, nello stesso reparto di medicina, al terzo piano. E con i rispettivi familiari facevamo due chiacchiere nell’atrio d’ingresso». Sua madre, la signora Angiolina, viene ricoverata il 12 febbraio nell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo. Ha avuto uno scompenso cardiaco, ma non è in cattive condizioni. Una decina di giorni sotto osservazione, qualche flebo, e poi sarebbe tornata a casa, come sempre. Invece dopo una settimana arriva una febbre a 39, e poi la polmonite, le crisi respiratorie, la sensazione di avere un peso che schiaccia sul petto. Muore alle due della notte tra venerdì 21 e sabato 22 febbraio. Il figlio, 55 anni, disegnatore grafico, la veglia fino all’ultimo. E si accorge che quella notte non è come tutte le altre. Tutte le infermiere infatti portano sul volto delle mascherine, cosa inusuale. Ma non le solite, «di colore azzurro che si usano dal dentista». Sono quelle professionali, le FFP2 senza valvola. È appena cominciato tutto, con la scoperta dei focolai di Codogno e di Vo’ Euganeo. Al Pesenti Fenaroli, intanto, sono stati appena scoperti i primi due pazienti positivi al Covid-19. Franco Orlandi, ex camionista di Nembro, e Samuele Acerbis, rappresentante di commercio di Nembro, sono entrambi ricoverati da almeno una settimana nello stesso reparto della signora Angiolina, ma solo nelle ultime ore sono stati sottoposti al tampone. È domenica. Nel pomeriggio il Pronto soccorso viene chiuso. Ma dopo alcune ore tutto riapre, senza alcuna sanificazione, neppure al Pronto soccorso. Senza la creazione di alcun triage differenziato, di alcun percorso alternativo tra i pazienti. E senza alcuna spiegazione. «Dall’ospedale di Alzano qualcuno avrebbe dovuto almeno avvisare dell’esistenza di un pericolo micidiale. Invece hanno lasciato che la gente andasse avanti e indietro ancora per un’altra settimana, dal Pronto soccorso agli ambulatori. Era pieno di anziani che andavano a fare l’esame del sangue. Hanno fatto una ecatombe». Zambonelli usa parole tanto semplici quanto essenziali. Suo padre Gianfranco è deceduto di coronavirus il 13 marzo. Sua zia Luciana, 72 anni, che in quei giorni si alternava con lui in ospedale, lo ha seguito due giorni dopo. Orlandi e Acerbis sono entrambi morti. Come la donna che aveva il letto di fronte, come quasi tutti gli altri.

Il primo ritardo sull’ospedale. Nessuno vuole intestarsi la colpa della mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, da cui si è propagato il virus che ha fatto strage in quel paese, e in tutta la Val Seriana. A oggi, Alzano Lombardo ha 177 contagi, Nembro 207. In tutta la provincia di Bergamo i morti sono 2.378. Non esiste un vero e proprio protocollo che preveda un evento così estremo. Ma sono due le istituzioni che hanno l’autorità per decidere la serrata. La prima è l’Ats locale, alla quale spetta un parere non vincolante, la seconda, superiore per autorità, è la Regione, della quale ogni istituto di cura rappresenta un presidio territoriale e come tale viene classificato. A quella vicenda è legata un’altra decisione mancata, forse ancora più importante, almeno come peso politico. Perché non è mai stata istituita una zona rossa nella provincia di Bergamo? Le uniche risposte finora sono state molto generiche. Il distretto industriale di Alzano-Nembro è uno dei primi cinque d’Italia per Comuni sotto i trecentomila abitanti. Secondo i dati di Confindustria Bergamo, una eventuale zona rossa avrebbe riguardato 376 aziende, con una forza lavoro che varia dai 120 agli ottocento dipendenti, per complessivi 850 milioni di euro annuali di fatturato. Ma l’ultima parola spetta sempre alla politica. Al governo regionale, a quello nazionale. Avevano entrambi la possibilità di intervenire. Ma per sei giorni, dal 3 al nove marzo, nessuno si è assunto l’onere di farlo.

Una decisione che spettava alla politica. La corrispondenza privata governo-Regione, e una nota interna a Palazzo Chigi, consentono di ricostruire quanto è avvenuto. E aiutano a capire come mai per istituire la zona rossa intorno a Codogno ci siano volute meno di 24 ore, con l’ordinanza firmata dal presidente della Lombardia Attilio Fontana e dal ministro dalla Sanità Roberto Speranza che blindava in entrata e in uscita dieci paesi del lodigiano, mentre per la provincia di Bergamo non sia bastata una settimana, a fronte di dati molto più allarmanti. A questo ritardo non è estraneo lo spirito di quel breve lasso di tempo. Ancora lo scorso 2 marzo l’assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera, esprimeva forti dubbi sull’utilità di una zona rossa. Ma sono molti i casi di esponenti politici che hanno adottato un doppio registro. Lo stesso Fontana mette la sua firma su richieste molto prudenti, mentre in pubblico usa spesso toni più interventisti. Meglio stare alle carte, quindi. I primi cinque report quotidiani che a partire dalla mattina del 21 febbraio la Regione Lombardia invia alla Protezione civile non fanno alcun cenno alla situazione della provincia di Bergamo. Per quasi una settimana, in calce al documento verranno indicati i focolai identificati fino a quel momento. Ne sono sempre citati quattro, tutti nel lodigiano. Eppure già il 27 febbraio appare evidente che in provincia di Bergamo qualcosa sta andando come peggio non potrebbe. Settantadue nuovi casi di positività, diciannove dei quali, e tre decessi, fanno di Nembro il quarto Comune più colpito di Lombardia, alla pari con Casalpusterlengo, che insieme agli altri tre è nella zona rossa.

Il verbale e le richieste del Comitato. La progressione sembra inarrestabile. Le denunce pubbliche e le richieste di aiuto dagli ospedali bergamaschi si moltiplicano. Il 29 febbraio Nembro conta 25 nuovi casi, Alzano altri dodici, l’intera provincia sfonda quota cento. Quel giorno, la Confindustria di Bergamo pubblica il video «Bergamo is running», rilanciato dal sindaco Giorgio Gori. Ma è l’intera classe dirigente del Nord, con poche eccezioni, a essere in modalità «riapriamo tutto, o quasi». La Regione Lombardia invoca misure più restrittive, ma non giunge mai a chiedere in modo ufficiale l’istituzione di una zona rossa. Sembra che ci si arrivi di comune accordo il 3 marzo, 423 contagiati nella provincia, 58 a Nembro e 26 ad Alzano, con una scelta affidata comunque al parere degli scienziati. Dal verbale di quel giorno del Comitato tecnico scientifico (Cts) che segue per il governo l’emergenza Covid-19: «Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto superiore di Sanità i dati relativi ai due Comuni sopramenzionati, poi esaminati dal Cts. Al proposito sono stati sentiti al telefono l’assessore Giulio Gallera e il direttore generale Luigi Cajazzo di Regione Lombardia che confermano i dati (…) Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “Zona Rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». L’Unità di crisi della Lombardia invia una mail a Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di Sanità, con una mappa dettagliata della diffusione del virus in tutta la provincia di Bergamo. Quella sera, appaiono in Val Seriana alcune camionette dell’esercito. Sembra il preludio alla chiusura totale. Invece non succede niente. Il 4 marzo, quando le vittime in Italia superano quota cento, il premier Giuseppe Conte firma un nuovo decreto che prevede in tutto il Paese lo stop fino al 15 marzo per università, scuole, teatri, cinema. «Con specifico riferimento alla proposta avanzata dal Comitato tecnico-scientifico relativa ai due Comuni della Provincia di Bergamo», comunque già «assoggettati» a misure più restrittive di quelle applicate sul territorio nazionale con il decreto varato il primo marzo, il presidente del Consiglio chiede ai suoi esperti «di approfondire» le ragioni della loro richiesta di una zona rossa per Alzano e Nembro. Cosa è accaduto di nuovo? Che in Lombardia sta andando tutto male: «Il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della regione». A Bergamo 33 casi, a Lodi 38, a Cremona già 76, a Crema 27, nel comune di Zogno altri 23, a Soresina e Maleo diciannove. Eppure a Palazzo Chigi «appariva necessario acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la “zona rossa” a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso in buona parte della Lombardia, estendere il regime all’intera Regione Lombardia e alle altre aree interessate».

L’ultima riunione per il decreto. Brusaferro risponde nella serata del 5 marzo, con una nota scritta. E insiste. «Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa». Venerdì 6 marzo Conte va di persona alla Protezione civile, dove incontra i membri del Comitato scientifico per la decisione definitiva. Non se ne fa nulla. Passa infatti la linea di «superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa». Si arriva così al 7 marzo, con l’annuncio alle due di notte della chiusura dell’Italia intera, e il decreto firmato la sera dell’8 marzo ed entrato in vigore il giorno seguente, quando Alzano conta 55 contagiati, Nembro 107, la provincia di Bergamo 1245, per tacere dei morti. La Lombardia è zona rossa, come il resto del Paese. Da quella prima richiesta sono passati ormai sei giorni. Un’altra nota interna di palazzo Chigi sembra fare riferimento proprio a possibili dispute sul mancato provvedimento. «Quanto alle competenze e ai poteri della Regione Lombardia, si fa presente che le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti». E di seguito si citano i provvedimenti con misure ancora più restrittive varati di recente dalla giunta di Fontana. Un modo per dire che se la Lombardia pensava davvero che la zona rossa di Alzano e Nembro andasse creata prima, avrebbe potuto farlo in piena autonomia, così come l’hanno fatto Lazio, Basilicata, Emilia-Romagna, con ordinanze limitate al territorio di specifici comuni. A Zambonelli e alla sua famiglia non è mai stato fatto alcun tampone. La Regione e la Ats locale non hanno ancora risposto alle domande rivolte dal Corriere di Bergamo sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo.

Il primo focolaio, poi l'epidemia. Così Bergamo è entrata all'inferno. Il supermarket preso d'assalto. La partita dell'Atalanta. Le industrie. Cosa c'è dietro il boom del coronavirus nella Bergamasca. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. L'inferno di Bergamo è fatto di immagini e storie. Ci sono le bare trasportate dall'esercito lontano dalla città. I forni crematori incapaci di sostenere il ritmo. Gli obitori pieni, le chiese che non possono celebrare i funerali, ma si aprono per raccogliere i defunti in attesa di destinazione. La crisi della Bergamasca sono i ventitre parroci ammazzati dal virus invisibile, i suoi cinquanta morti in media al giorno, il primo posto nella tetra classifica dei casi da coronavirus (7.072 dall'inizio dell'epidemia). Più che istantanee, sono pugni nello stomaco per una provincia ormai allo stremo. Fino a ieri fiera vena produttiva del Paese, e ora in piena carenza di ossigeno. Sindaci, cittadini, analisti si chiedono: perché proprio Bergamo? Alcuni hanno ipotizzato che la diffusione del contagio sia dovuta all'inquinamento prodotto dalle tante industrie della zona. Difficile dirlo, appare anzi un'ipotesi improbabile. Certo è che la Bergamasca ha nel suo dna economico lo scambio con gli altri Paesi, Cina compresa, e questo potrebbe essere uno dei motivi per cui qui il Covid-19 ha colpito più che altrove. "Non necessariamente il primo soggetto a portare il virus in Italia potrebbe essere stato un cinese", ha spiegato l'Ats a Bergamo News. “Potrebbe essere stato anche un uomo d’affari italiano, o di altra nazionalità, di ritorno da quel Paese". Per assurdo il virus potrebbe aver colpito chi più lavora, si muove, produce. Insomma: chi tiene in piedi il Paese. Magra consolazione, se mai se ne può trovare una quando i medici di base parlano di 1.800 giovani bloccati a casa con la polmonite e un aumento dei decessi rispetto agli anni passati da far accapponare la pelle. Nel 2019 dal 9 all'11 marzo erano andate al Creatore 23 persone. Nel 2020, nello stesso periodo, i defunti sono stati 128. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, stima che per ogni morto da Coronavirus diagnosticato, ce ne siano almeno “altre tre per le quali questo non è accertato ma che muoiono di polmonite”. Una strage, oltre mille morti solo in città, che ancora non ha una spiegazione certa. Di ipotesi, però, ne sono state fatte a decine. La più rumorosa è quella sulla "partita zero" di Champions League tra Atalanta e Valencia. Il 19 febbraio 45mila bergamaschi si riversano su Milano arrivando da tutta la provincia. “Credo che quella partita abbia giocato un ruolo importante. Un terzo della popolazione di Bergamo si è concentrata in un stadio e poi ha festeggiato”, ha detto il consulente del ministero della Salute, Walter Ricciardi. "Non è un caso che quella di Bergamo sia la zona più colpita e non caso che Valencia, cioè i cittadini che sono passati dall’Italia alla Spagna, abbiano fatto da trasmettitore nel loro Paese". La penisola iberica sta infatti conoscendo una epidemia all’italiana, il 35% dei calciatori del Valencia è risultato infetto così come un giornalista arrivato nel Belpaese per seguire la partita. Sarà perché i tifosi della Dea e quelli spagnoli (2.500 quel giorno) si sono scambiati boccali di birra, hanno festeggiato in piazza Duomo, sono saliti insieme in metro? È “difficile da analizzare”, sostiene Brusaferro. Ma in ogni caso si tratta di una possibile bomba. Quel che non è chiaro è se il Sars-Cov2 era già nella Bergamasca o ci è arrivato dopo le quattro reti magiche della Dea. Probabilmente la prima ipotesi, visto che sugli spalti c’erano almeno 540 tifosi della Val Seriana arrivati a Milano tutti appiccicati su auto e bus organizzati. Ad Alzano Lombardo e Nembro, focolaio della Bergamasca, i primi due contagi vengono registrati il 23 febbraio. Ovvero due giorni dopo il “paziente 1” di Codogno e a quattro tramonti dalla partita Atalanta-Valencia. Troppo poco per l’incubazione di un virus arrivato da fuori. Ma abbastanza per trasformare quella partita in un veicolo per l’accelerazione dell’epidemia in Lombardia: non è un caso se gli epidemiologi registrano l’esplosione dei contagi esattamente 14 giorni dopo quella maledetta serata di Champions. Eppure il match non è l’unico indicatore in grado di spiegare la peculiarità della Bergamasca. "Perché proprio a noi?", si chiedono i cittadini. Per il sindaco Cencelli la risposta alla domanda "chiama in causa i molti eventi pubblici, l’abitudine a frequentare le ville e le piazze". Troppa socialità, per un virus che ama passare di mano in mano, abbraccio dopo abbraccio. Cencelli, ad esempio, potrebbe essersi infettato dopo luna cena sociale degli Artiglieri del 23 febbraio. Alla trattoria di Zogno, invece, il 14 febbraio si è tenuta una cena e dieci giorni dopo gli avventori sono stati contattati dall'Asl perché uno di loro era risultato positivo al coronavirus. A Treviglio, una delle cittadine più colpite, il giorno prima della serrata finale disposta dalla regione Lombardia per il 23 febbraio, bambini e famiglie hanno festeggiato normalmente il carnevale in piazza. Qualcuno avrebbe pure voluto si corresse comunque la Maratonina, poi per fortuna saltata. Intanto oggi Treviglio conta 123 contagi. Ci sono poi anche gli errori. Umani, certo. Forse comprensibili. Ma potenzialmente tragici. L'Espresso racconta che nel penultimo sabato di febbraio l’Esselunga di Nembro, uno dei focolai, sia stata presa di assalto subito dopo il decreto annunciato in tv dal premier Conte sulla prima parziale chiusura dell’Italia. Le foto mostrano la ressa di persone, e si dice che il negozio abbia incassato 800mila euro in un solo giorno. La vicinanza tra gli scaffali potrebbe aver accelerato il contagio. Ma non vanno dimenticate le tante persone che nei primi giorni dell’emergenza continuavano a girare in piazza, le piste da sci a Orobie e in Val Seriana prese di assalto nonostante l’invito a rimanere a casa. Oppure le chat degli automobilisti che si passano informazioni su come aggirare i posti di blocco. Infine, le pressioni economiche. Confindustria era contraria a chiudere tutto, convinta che la serrata delle industrie potesse bloccare l’interscambio: un indotto di 370 imprese per un fatturato di oltre 650 milioni di euro all’anno. Ed è forse anche per questo che Nembro e Alzano, nonostante avessero numeri simili a Codogno, non sono mai state dichiarate zone rosse. Il 28 febbraio gli industriali hanno lanciato la campagna video "Bergamo is running/Bergamo non si ferma" allo scopo di tranquillizzare i partner internazionali. Un errore di valutazione può esserci stato. O forse l'eccessivo desiderio di resistere. Mentre Gori andava al ristorante per mantenere un po' di normalità, l'infettivologo dell'ospedale già faceva notare che i reparti si stavano saturando. Oggi al Papa Giovanni XXIII l'epidemia è fuori controllo, come denunciato dai medici del nosocomio, eppure fino alla fine i comuni della Bergamasca sembra quasi abbiano provato a scansare il nemico. Lo dimostrano gli annunci pubblicati sull'edizione online dell'Eco di Bergamo: molti degli eventi risultano confermati fino al 23 febbraio. Poi il giorno dopo iniziano a essere cancellati uno dietro l'altro. La provincia alla fine si è fermata, sopraffatta dal virus. Treviglio ha sospeso pure la novena alla Madonna delle Lacrime. Non successe neppure sotto le bombe della Seconda Guerra Mondiale.

Il farmacista in prima linea nel focolaio del virus: «Mi prendevano per pazzo, ora piangiamo di nascosto. Ci hanno lasciati soli». Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it. La farmacia «San Martino» ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, si trova proprio di fronte l’ospedale Pesenti - Fenaroli. Quello che il 23 febbraio è stato chiuso e poi misteriosamente riaperto dopo aver riscontrato i primi casi di coronavirus. Era una domenica, ossia il giorno in cui tutti i parenti dei pazienti vanno a far visita. C’erano già due contagiati ma non fu adottata nessuna precauzione particolare. A restare aperta, però, fu proprio la farmacia di Andrea Raciti, la San Martino, dove si riversarono le persone che correvano in pronto soccorso con febbre alta e congiuntivite. «Venivano tutti da Nembro, il focolaio del virus, erano una quarantina - racconta Raciti connesso via Skype dalla sua farmacia, imbardato con tuta, mascherina e guanti -. Eravamo i soli a essere dotati di protezioni e forse questo ci ha salvati perché ad oggi ci sono tre farmacie nel comprensorio chiuse perché tutto il personale è stato trovato positivo al virus». Oggi Alzano Lombardo è uno dei comuni lombardi con il più alto numero di vittime da coronavirus. E’ un racconto straziante quello che fa Raciti, soprattutto quando spiega il dramma di dover rifiutare un aiuto a chi chiama per un’emergenza: quasi tutti amici e parenti visto che Alzano Lombardo conta poco più di 13mila abitanti. «Domenica 8 marzo ho fatto il turno di notte e ho avuto 42 chiamate per bombole di ossigeno e io avevo zero bombole. Non mi vergogno a dirlo ma ho pianto 42 volte. Imploravano “Come faccio con mio marito, mio nonno, mio padre… ti prego, aiutami”, non sapevo cosa rispondere, cosa fare, non avevo modo di aiutarli». Una situazione che è degenerata perché, come sottolinea anche il farmacista in prima linea, «quando il 23 febbraio è stato raccomandato di stare chiusi in casa le persone erano in giro a mangiare gelati. E non li biasimo visto che ricordo ancora l’annuncio del sindaco di Bergamo che prometteva biglietti gratis per visitare il centro città. Mi dissero che ero un pazzo, che stavo sopravvalutando una normale influenza». Qualcuno in paese aveva anche ironizzato sul fatto che fu tra i primi ad aver imposto mascherine, guanti e ingressi controllati nella sua attività. Le farmacie, intanto, sono rimaste le uniche attività aperte insieme a supermercati, parafarmacie e tabaccai; lamentano di non avere gli strumenti adatti per combattere questa battaglia. «Siamo stati i primi a essere schierati in prima linea e gli ultimi a essere considerati. Abbiamo vissuto l’immediata chiusura degli ambulatori di base per mancanza di mascherine e guanti, lo stesso per le guardie mediche. Ancora lunedi sera il presidente Conte ha chiuso tutto ma ha lasciato le farmacie con orari invariati se non prolungati. Il risultato è che stiamo facendo la conta dei colleghi contagiati e morti». Lo dice senza nessuna polemica, dall’alto dei suoi diciott’anni di esperienza nella Croce Rossa e con le lacrime agli occhi quando pensa alla sua famiglia, a sua figlia che non vede da tre settimane. «Faccio turni che iniziano alle 7 del mattino e finiscono la sera tardi, vedo mia figlia solo tramite whatsapp, lo stesso vale per i miei genitori; ho l’incubo di essere veicolo del virus verso qualche altro. Qui dove lavoro io piangiamo tutti di nascosto, ogni giorno, la mattina quando apriamo e la sera quando andiamo a casa. Cerchiamo di non farci vedere l’uno con l’altro per tenere il morale alto ma la situazione è davvero difficile e la gente non ha ancora capito che deve rinchiudersi in casa».

«Primi casi il 23 febbraio. Oggi usiamo ogni minuto 8.600 litri di ossigeno». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. «In fondo al corridoio c’è la stanza del capo dipartimento. Da una settimana è a casa con il coronavirus. La stanza accanto alla mia è di una collega che ha il cognato ricoverato in terapia intensiva. In quella di fronte c’è una cardiologa. Anche sua madre è qui. A Bergamo ogni famiglia piangerà i suoi cari. Non sono io a dirlo, sono i numeri». Mezzanotte e mezza. Quarto piano della quarta torre del Papa Giovanni XXIII. Il professor Fabiano Di Marco usa i numeri per mantenere una rotta in questo marasma. Ogni frase, una cifra. Nato in Svizzera, cresciuto a Milano, 46 anni, moglie, tre figli. Docente universitario, primario di pneumologia, nell’ospedale diventato un avamposto di questa resistenza al male. Ormai è passato un mese. «Ai miei avevo detto che li avrei raggiunti in montagna. C’erano le feste di Carnevale».

Se lo ricorda quel venerdì 21 febbraio?

«Come fosse ieri. Ma anche come fosse un’altra vita. Fino alle 12, un giorno normale. Poi mi chiama da Milano il professor Stefano Centanni, il mio maestro: guarda che a Lodi è un disastro. Così, inizio a parlare con i colleghi rianimatori. Sapevamo che le polmoniti da Covid-19 sarebbero toccate a noi».

E dopo?

«Alle 20 ricevo messaggi allarmati dalla direzione. Dobbiamo liberare infettivologia, per essere pronti ad accettare tutti i malati di Covid-19 della provincia. Eseguo. Prendiamo tutti gli altri pazienti e li mandiamo nelle chirurgie, che hanno posti liberi».

Avevate già casi sospetti?

«Molti ricoverati con la febbre, tra i quali un uomo che era entrato in contatto con Mattia, il paziente 1 di Codogno. Domenica pomeriggio il reparto di infettivologia si riempie. Ma è solo tanta gente con tampone positivo».

Quando capisce che è un disastro?

«Precipita tutto domenica primo marzo. Al mattino presto entro al Pronto soccorso. Non dimenticherò mai. La guerra. Non trovo altra definizione. Pazienti ovunque con polmoniti gravi, che rantolavano. Sulle barelle, nei corridoi. Avevano aperto la sala maxi-afflusso, e anche quella era strapiena. Mentre l’Italia voleva riaprire le sue città, in 24 ore abbiamo consumato 5.000 mascherine filtranti. C’era un panico generale».

Lei come reagisce?

«Alle 8.30 mando un sms sul nostro gruppo, infermieri e medici. Chi può venga qui di corsa. Alle nove abbiamo portato su il primo paziente. La mia caposala era stravolta. Nessuno di noi ha mangiato. Quel giorno è cambiato qualcosa anche nelle nostre vite».

Quando il primo morto?

«Due giorni dopo. Molto anziano, malato. Ma non dovrebbe significare niente».

Eravate già in emergenza?

«La rianimazione Covid-19 che avevamo creato si era riempita. Ma quelle di altre città prendevano pazienti. Solo che chiedevano la positività del tampone. E il San Matteo di Pavia, uno dei tre centri lombardi autorizzati a esaminarli, era sommerso dal lavoro. Così si è creato l’ingorgo».

Come ne siete usciti?

«C’era una parte del blocco centrale dell’ospedale mai aperta e adibita a magazzino. Non chieda a me come hanno fatto. Alle 13 c’erano ancora i pallet e i pannelli abbandonati. Alle 19.20 ho portato giù il primo paziente da intubare. I bergamaschi, gente tostissima e coraggiosa».

Quanti posti avete creato?

«Martedì scorso i pazienti Covid-19 hanno superato quelli con altre patologie. Sono oltre cinquecento, ormai».

Per i caschi respiratori come avete fatto?

«All’inizio ne avevamo 20. Abbiamo cominciato a cercare. Niente, finito tutto. Sabato 7 marzo mi ricordo che 15 anni fa avevo conosciuto il titolare di una piccola azienda familiare di Levate, che faceva impianti ad ossigeno. Gli telefono: siamo disperati».

Risposta?

«Ne ho dieci, li sistemo e ve li porto lunedì. Lunedì è tardi, lo supplico. Mi faccia chiamare i miei ragazzi, li monto e arriviamo subito, dice. Vergognandomi, gli dico che me ne servono ancora. Lui: mi dia tre ore e gliene faccio altri nove».

E oggi?

«Ne abbiamo 139, siamo l’ospedale più fornito d’Europa. Grazie a lui. Dice che fa solo quel che gli hanno insegnato i suoi genitori. Gente così».

Quanti decessi al giorno?

«Ormai tra 15 e 20. Venerdì 13 marzo il peggiore, finora».

Come è potuto accadere?

«Ne sento tante, dico la mia. Diciannove febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. In pullman, auto, treno. Una bomba biologica, purtroppo».

Ce la fate a reggere?

«All’inizio di questa settimana è venuto l’ingegnere. Ragazzi l’impianto a ossigeno non ce la fa. È progettato per consumare massimo 8.000 litri al minuto. Voi con le terapie intensive ne fate fuori 8.600. Al minuto, ripeto».

Avete trovato la soluzione?

«Lavorando di notte hanno costruito un altro silos che ci fa arrivare a 10.000 litri».

C’è abbastanza personale?

«Abbiamo fatto corsi di formazione. Tremila operatori. Un’ora per spiegare la malattia, un’altra sul casco di rianimazione. E poi in corsia».

La riconversione umana funziona?

«Mi rendo conto che non è facile. Tu sei anatomopatologo oppure un chirurgo, e da un momento all’altro ti viene detto che devi gestire pazienti con una infettività altissima».

Quanti contagi tra voi?

«Siamo a 400 su 1.600».

È così difficile far capire la situazione?

«Sì, anche in ospedale. Ogni reparto è un mondo a sé. Pochi giorni fa mi telefona un medico, caro amico. Sono qui al “tuo” Pronto soccorso con mio padre che ha 88 anni. Ha il coronavirus. Lo raggiungo, tra barelle e confusione. Mi guarda con le lacrime agli occhi: non avevo capito, dice».

Come sta il padre del suo collega?

«È morto».

Chiara Baldi per “la Stampa” il 20 marzo 2020. Quella mattina del 23 febbraio - «sembra passato un secolo, e invece è solo un mese fa» - Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano, piccolo paesino della bergamasca, non se la dimenticherà più. I dati che ogni giorno il bollettino di Regione Lombardia riporta sono drammatici: ieri nella bergamasca altri 340 positivi, per un totale di 4665. È la provincia in cui il virus fa più vittime. I morti ormai non si contano neanche più: qui tutti sanno che sono molti di più di quanto dicano i numeri ufficiali e non c' è famiglia che non abbia provato da vicino gli effetti del coronavirus. Ma quella mattina, Bertocchi, era ancora inconsapevole di quello che sarebbe successo nelle settimane successive. «Mi alzai alle 6. 30 - racconta - e come prima cosa creai un gruppo su Whatsapp con tutti i colleghi della Media Val Seriana. Dovevamo decidere se far svolgere il Carnevale. Scrissi l' ordinanza per tutti e bloccammo i festeggiamenti». Quel giorno, quando da poco più di 48 ore la Lombardia aveva scoperto di esser stata infettata, Alzano Lombardo, comune di 13 mila abitanti della Val Seriana, scopriva di avere il coronavirus in casa. Anzi, in ospedale. Le ricerche degli epidemiologi dimostrerebbero che al "Pesenti Fenaroli" quel pomeriggio vennero accertati due casi positivi. Tanto che la struttura fu chiusa per qualche ora perché almeno uno dei due era passato dal pronto soccorso. Poi, senza che ancora oggi nessuno sappia spiegarselo, nell' arco di poche ore venne riaperta. «Cosa sia successo lì dentro quel giorno per me resta un mistero», confessa Bertocchi, che in questo mese di Covid19 ha provato più e più volte a entrare in contatto con i vertici del nosocomio, ma senza successo: «Nessuno ci ha degnati di una spiegazione. L' unica cosa che ci fu detta, quando venimmo convocati in Regione, è che c' erano questi due contagi». Due giorni dopo anche il primario del "Pesenti Fenaroli" risultò positivo. Ieri invece in città hanno festeggiato le dimissioni del neonato di 22 giorni che era stato ricoverato. Che all' ospedale di Alzano qualcosa sia andato storto lo conferma anche Marco Rizzi, direttore dell' unità di Malattie Infettive dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Sappiamo per certo che una delle principali cause della situazione bergamasca è da cercare dentro l' ospedale di Alzano, che dai primissimi giorni ha avuto un numero elevato di operatori e pazienti contagiati. Molti si sono spostati e hanno fatto sì che il virus rimbalzasse dalla Val Seriana alla Val Brembana. E poi in tutta la provincia», spiega Rizzi. Che avverte: «Le ricerche dicono che il coronavirus girava già a inizio anno. Ma nessuno all' epoca pensava al Covid19, per tutti era una questione solo della Cina. Ma così non è andata». Giorgio Gori, da sei anni sindaco di Bergamo, ha ancora negli occhi l'immagine drammatica delle camionette dell' Esercito che portano fuori le salme di 70 persone. «Quella foto scuote in primis noi bergamaschi, perché se ci guardassimo allo specchio e ci vedessimo così, rimarremmo scioccati». Al ventottesimo giorno di epidemia, con un numero di morti che ormai non si riesce neanche più a quantificare, la città è stremata. «Certo», commenta Gori amaro, che ieri ha ricevuto anche una telefonata di conforto del presidente Mattarella «se si fosse fatta una zona rossa anche qua le cose forse sarebbero andate diversamente. Io l'avevo chiesta con altri sindaci, era persino venuto l'Esercito a fare i sopralluoghi, ma poi non se n'è fatto niente. Ora Fontana chiede al governo di chiudere di più le attività produttive, ma perché non lo fa lui? » .

·         Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Il numero dei positivi a Milano ed in tutta la Lombardia è costante o in aumento rispetto al resto d’Italia. Questo perché la mobilità dei lombardi è alta. Pochi i controlli e per lo più risultano regolari. Il fatto che tra indisciplinati, aziende che non hanno chiuso, o riaperto con escamotage, e operatori di servizi pubblici o di pubblico servizio: c’è troppa gente in giro che si infetta ed infetta gli altri.

La strana anomalia del Sud: perché il coronavirus si è fermato a Eboli? Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 16 aprile 2020. Pochi contagi e pochissimi decessi nel Mezzogiorno: epidemia contenuta per «motivi endemici», spiegano gli esperti. In Sicilia, dall’inizio dell’epidemia di Coronavirus, 2458 persone hanno contratto il Sars- CoV- 2. Di questi, 171 sono deceduti, con una media di 3- 4 al giorno; ci sono 51 ricoverati in terapia intensiva e ? 1.445 in isolamento domiciliare. Il tasso dei contagiati sulla popolazione è dello 0,0004%. Fra i siciliani rientrati nell’isola nel corso dell’emergenza, uno su cento è risultato contagiato: sono stati acquisiti circa 6mila campioni, di questi ne sono stati elaborati oltre 4mila e tra questi son stati rilevati 39 positivi, ovvero uno su cento. Tutti in quarantena. Non mi pare si registrino decessi fra i siciliani rientrati. Che su questi numeri abbia potuto incidere il gran parlare di “chiusura” – il governatore Musumeci voleva l’esercito per le strade e ha chiesto di poter fare uso dell’articolo 31 dello Statuto siciliano che delega al governatore l’uso delle forze di polizia in casi eccezionali – è abbastanza da verificare. I dati sono che il grande esodo da Milano e dal nord ( il primo, ce ne sono stati almeno tre, a distanza di circa una settimana l’uno dall’altra) è iniziato l’ 8 marzo proprio quando filtrò la notizia che si stava per dichiarare la Lombardia “zona rossa”. Si parla, solo per la Sicilia, di qualcosa che va fino alle quarantamila persone – nei fatti si è registrata per la tracciabilità circa una ventina di migliaia ( ottomila provenienti solo dalla Lombardia, di cui seimila solo dalla provincia di Milano). Dall’ 8 marzo al 5 aprile ( quindi circa un mese dopo) quando il sindaco di Messina scatena l’indignazione per il continuo transito ai traghetti e, con l’ordinanza contingibile e urgente n. 105, introduce il sistema di prenotazione on line, altrimenti non si passava, e fino a oggi questa orda di rientri, che era già sfuggita alla chiusura, avrebbe dovuto provocare “dentro” le mura di un’isola isolata un contagio terribile, anche perché venivano da zone a alto rischio. Non è accaduto. In Calabria, ci sono stati a ora 67 morti. Finora il totale di casi accertati dall’inizio dell’epidemia è salito a 928, su 17.151 tamponi. Sugli ultimi 385 tamponi eseguiti nei giorni scorsi si sono registrati solo 5 nuovi casi, ovvero l’ 1,2 percento dei controllati, a fronte di un 98,8 percento di negativi. Tra gli ammalati, la stragrande maggioranza ( 619) si trova in isolamento domiciliare perché si tratta di persone che non hanno sintomi, gli altri in ospedale ma il numero dei ricoverati è di appena 12. Negli ospedali l’attuale capienza dei posti letto di rianimazione è ferma al 7 percento rispetto a tutti i posti disponibili nella Regione: i reparti di rianimazione sono praticamente vuoti. Le persone giunte in Calabria dal Nord che si sono registrate sono 14.277 ( e si presume siano molte di più), e fra questi sono calcolati anche due pazienti di Bergamo che sono stati accettati nei reparti calabresi, visto che lì non c’erano più posti. Anche qui, pare abbastanza discutibile se l’attivismo del governatore Jole Santelli, che ha deciso con ordinanza di “chiudere i confini” della regione, abbia avuto un qualche peso: l’ordinanza è del 22 marzo, giorni dopo la terza delle ondate di rientro dal Nord – ma di “appestamento” provocato da questi rientri non c’è ombra. In Basilicata i casi di contagio confermati in tutta la regione sono 306 con 18 morti. Sono risultati positivi in 255 su un totale di 2931 tamponi analizzati. Attualmente, i pazienti ricoverati presso le strutture ospedaliere di Potenza e Matera sono 64. I contagi in Puglia hanno superato il 24 marzo quota mille ( erano 1005) e quel giorno furono effettuati 594 test, e solo 99 di questi risultarono positivi al Covid- 19. A quella data, poco più del 10 percento dei letti in terapia intensiva, tarato su 300 posti, era occupato. La somma totale dei casi positivi presenti al Sud e nelle Isole, il 9 aprile, era di 10.002. Nella sola Lombardia c’erano il triplo degli infetti: 29.530. Estendendo il confronto tra l’intero Nord e il Sud, il rapporto tra le persone positive al Sars- CoV2- 19 nelle differenti aree è di 8 a 1. Un divario che si fa ancora più ampio considerando il numero dei decessi: il rapporto tra Sud e Nord è di circa uno a 18. Secondo i ricercatori dei dipartimenti di Economia e impresa, Ingegneria elettrica, Fisica e astronomia, Medicina clinica sperimentale, Matematica e informatica, Ingegneria civile e architettura dell’università di Catania che hanno condotto uno studio ( Strategies to mitigate the Covid- 19 pandemic risk) su dati Istat, Istituto superiore della Sanità e altre agenzie europee «l’impatto di questa pandemia e di possibili altre ondate future sarà sempre più lieve al centro- sud in termini di casi gravi e decessi a causa del minor rischio epidemico legato ai fattori strutturali trovati». I fattori strutturali sono: inquinamento atmosferico da Pm10 ( Materia Particolata), temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, densità di strutture ospedaliere e densità abitativa. E aggiungono: «Il nostro indice di rischio epidemico mostra forti correlazioni con i dati ufficiali disponibili dell’epidemia Covid- 19 in Italia e spiega in particolare perché regioni come Lombardia, Emilia- Romagna, Piemonte e Veneto stiano soffrendo molto di più rispetto al centro- sud. D’altra parte queste sono anche le stesse regioni che solitamente subiscono il maggiore impatto ( in termini di casi gravi e decessi) anche per le influenze stagionali, come rivelano i dati dell’Iss. Riteniamo quindi che non sia un caso che la pandemia di Covid- 19 si sia diffusa più rapidamente proprio in quelle regioni con un più alto rischio epidemico come Lombardia, Emilia- Romagna, Piemonte e Veneto».

La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.

Chi rispetta la quarantena: Roma più di Milano, l'Italia più della Germania. Vincenzo Damiani il 16 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Roma meglio di Milano, l’Italia meglio del nord Europa. Apple, dopo google e facebook, ha analizzato la mobilità dei cittadini nel periodo di “quarantena” da coronavirus e dai dati emerge che gli italiani sono stati più responsabili di inglesi e tedeschi. E i romani dei milanesi. Scorrendo il grafico reso disponibile da Apple, al 12 aprile in Italia gli spostamenti dei cittadini sono crollati dell’87%, in Gran Bretagna del 76%, negli Stati Uniti del 63%, Francia 82%, in Germania appena del 54%. In particolare, nel nostro Paese, gli spostamenti con i mezzi pubblici hanno registrato un crollo del 91%, quelli a piedi dell’89% e con la macchina dell’87%. La diminuzione della mobilità è confermata anche a Milano (-88% in macchina; -91% a piedi) ma, nonostante l’emergenza e la crisi lombarda, Roma fa decisamente meglio (-90% in auto; -94% a piedi; -95% con i mezzi pubblici). La variazione negativa degli spostamenti in Italia è molto simile a quella della Spagna, altro Paese del Sud Europa particolarmente colpito dalla diffusione del Coronavirus: i dati, infatti, mostrano in discesa gli spostamenti in auto (-85%), a piedi (-90%) e con i mezzi pubblici (-90%). Confrontando le capitali, si scopre, però, che tra Roma e Madrid c’è un distacco di ben 7 punti percentuali per quanto riguarda gli spostamenti in auto, da -90% a -83%. Simili, invece, i dati sulla mobilità a piedi e con i mezzi pubblici, anche se di poco favorevoli ai cittadini romani: -91% e -93%. La Francia, invece, alle voci spostamenti in auto, a piedi e con i mezzi pubblici, fa registrare rispettivamente -78%, -86%, -88% che, a Parigi, diventano -86%, -91%, -92%. Al 13 aprile, quindi, i dati italiani mostrano una variazione negativa maggiore, soprattutto, a livello nazionale, si nota la diminuzione dell’85% degli spostamenti in auto se confrontata con il -78% francese. Nel Regno Unito, invece, i grafici dimostrano che gli spostamenti in auto sono diminuiti del 70%, a cui si aggiungono quelli a piedi (-63%) e con i mezzi pubblici (-85%): in particolare, a Londra si registrano rispettivamente -73%, -77%, e -87%. Mettendo, invece, a fianco le informazioni sulla mobilità in Italia e in Germania la differenza è ancora più netta: -85% contro -46% per gli spostamenti in auto; -88% contro -46% per gli spostamenti a piedi; -90% contro -61% per gli spostamenti con i mezzi pubblici. «Il sistema – spiega Apple – non associa i dati di mobilità all’ID Apple degli utenti, né registra la cronologia dei loro spostamenti. Il nuovo sito analizza i dati aggregati raccolti durante l’utilizzo dell’app Mappe per fornire i trend di mobilità per le principali città del mondo e di 63 Paesi e territori. Tali informazioni vengono generate contando il numero di richieste di indicazioni stradali ricevute dall’app Mappe. I set di dati sono poi messi a confronto per riflettere la variazione del volume di persone che si spostano in auto, a piedi o con i mezzi pubblici nelle varie parti del mondo. La disponibilità dei dati per una particolare città o un dato Paese dipende da diversi fattori, fra cui un limite minimo di richieste giornaliere», conclude Apple. 

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 17 aprile 2020. La Lombardia ha poco meno dei morti per coronavirus di tutto il Regno Unito, Milano ha più positivi dell'Austria, la sola provincia di Brescia ha oltre il doppio degli infetti dell'intero Lazio, Roma compresa. La Lombardia è una regione che per densità di casi positivi e, purtroppo, di morti è unica al mondo, paragonabile solo a New York. E lo stesso governo regionale un giorno dice che nel fine settimana c'erano troppe persone per strada, tre giorni dopo sostiene che bisogna ripartire, riaprire le aziende, ridurre il lockdown. Il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell'Università di Pisa che sta seguendo l'emergenza coronavirus per la Regione Puglia, è sempre molto moderato nei toni, però scuote la testa: «Ripartire oggi in queste condizioni non ha molto senso già di per sé; che poi faccia un salto in avanti proprio la Lombardia appare, quanto meno, imprudente. Io sono dell'opinione che tutte le regioni dovrebbero aprire contemporaneamente, ma di certo se qualcuno deve anticipare non può essere la Lombardia. E non è un problema solo di numeri: un territorio deve dimostrare di avere l'epidemia sotto controllo, di sapere tracciare i positivi e isolare i focolai. In Lombardia vi sembra che tutto questo stia succedendo?». Ranieri Guerra, direttore vicario dell'Oms: «Bisogna avere chiari i numeri dell'andamento del contagio. Inoltre, in Lombardia sono stati commessi errori: è mancata la sanità di territorio e continua a mancare. Ha messo in campo 37 su 200 unità speciali di continuità assistenziale, le altre regioni hanno organizzato le Usca da settimane». Come è possibile che la Lombardia, che ieri ha dovuto registrare altri 941 casi positivi, più del giorno prima e molti di più di tutte le altre regioni sommate insieme se si escludono Piemonte ed Emilia-Romagna, si senta pronta a ripartire? Se nel centro-sud l'R0, la velocità del contagio, è ormai sotto il valore di 1, anche allo 0,6-0,7 (obiettivo necessario per pensare di alleggerire il lockdown), in alcune province della Lombardia, come mostrano i dati di ieri, è tra l'1 e l'1,5, troppo alto. La Lombardia ha pagato il modello di sanità: poco presente sul territorio, molto concentrata sugli ospedali, i pazienti di Covid-19 non sono stati intercettati, hanno affollato pronto soccorso e reparti che, insieme alla Rsa e alle case di riposo, sono divenuti moltiplicatori del contagio. Non c'è stata la capacità di isolare i singoli focolai, di tracciare i contatti dei positivi, ed è solo una parziale scusante che tutto sia esploso in una volta, perché c'è l'esempio virtuoso del Veneto. Il fatto di avere riaperto, ad esempio, l'ospedale di Alzano Lombardo poche ore dopo il passaggio del primo paziente Covid-19, è stato un errore doloroso. La Lombardia all'inizio ha scelto di fare pochi tamponi (o comunque non in numero proporzionato alle dimensioni del fenomeno), più di una volta dalla Regione hanno detto «non importa verificare se uno è positivo, l'importante è che resti isolato a casa». Ma così la valanga è stata inarrestabile, alimentata anche dal fatto che solo per il 40 per cento la sanità è pubblica, il resto pesa sul privato che fino al 15 marzo continuava a fare gli interventi di elezione. Mentre nel Lazio, che pure ha meno di un decimo dei casi della Lombardia, si aprivano uno dopo l'altro dei Covid hospital (oggi sono 6), nella regione governata da Fontana si sono usate energie e investite donazioni milionarie sul famoso ospedale della Fiera di Milano, oggi di fatto semivuoto. E restano i messaggi altalenanti. 13 aprile, Fontana: «In Lombardia librerie chiuse perché sono luoghi dove il contagio è facile»; Fontana, 15 aprile: «Vogliamo riaprire il 4 maggio».

Covid-19, Milano preoccupa: i contagi salgono ancora. A Milano e provincia casi di Covid-19 aumentano più che nel resto della Lombardia. Dal 21 aprile al via i test sierologici in alcune città lombarde. Francesca Bernasconi, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Il nuovo coronavirus sembra rallentare la sua corsa, ma non si ferma. Soprattutto a Milano, dove i numeri sui contagi continuano ad oscillare. In questi giorni, il capoluogo lombardo è in testa alla classifica dei rialzi di contagi nella Regione. A preoccupare è anche la provincia di Milano, dove il Sars-CoV-2 non sembra voler rallentare. I dati forniti ieri dall'assessore al Welfar Giulio Gallera non rassicurano: in provincia, infatti, si contano 14.161 casi, con un aumento di 481 contagi nelle 24 ore precedenti, mentre la sola città ne ha 5.857 (+296). "Il dato è stabile- ha precisato Gallera- ma non scende con quella determinazione con cui dovrebbe soprattutto a Milano città. Bisogna essere ancora più incisivi anche per rispetto di chi la quarantena la rispetta". Una crescita che, secondo i calcoli del Corriere della Sera, si aggira sul 3,5% in tutta l'area metropolitana e sul 5,3% nella sola Milano, contro un +2% del resto della Lombardia. Bisogna considerare che il numero di positivi del capoluogo lombardo (ad oggi, 14.161 in totale e 5.857 nella sola città) va riferito a una popolazione di 3,2 milioni di abitanti. Intorno al 20 marzo, le percentuali arrivavano quasi al 20% giornaliero, poi il flusso è sceso al 10%, fino ad arrivare al 5%: un rallentamento, quindi, c'è stato, ma non pari a quello dell'intera Regione, arrivata al 2%. Il motivo di questo comportamento della curva milanese non è ancora chiaro. Si tratta di un panorama fatto da una curva che "un giorno scende, e un giorno sale" e, secondo Giulio Gallera, "non siamo ancora davanti ad una decisa riduzione contagi". Per questo, è fondamentale "rimanere in casa. Non è finita, dobbiamo ancora resistere anche in vista dei ponti che ci separano dal 3 maggio: li passeremo a casa". L'aumento dei casi positivi, in realtà, potrebbe essere legato anche ai maggiori tamponi effettuati, ma in ogni caso la situazione fa riflettere. "A Milano c’è troppa gente che si muove- ha detto ancora l'assessore al Welfare- i controlli li fanno forze dell’ordine e polizia locale. Noi interloquiamo costantemente con gli amministratori locali e le prefetture. Bisogna essere più incisivi". Stamattina, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha risposto: "Più del 95% delle persone fermate a Milano è in regola, questa è la realtà, per cui io mi dissocio da questa retorica del milanese indisciplinato che si fa gli affari suoi. Non è così". E incalza: "Se qualcuno pensa che c'è troppa gente in giro, è semplice, faccia una nuova ordinanza e tenga più gente a casa, è tutto qui". La fotografia di Milano, come di tutta l'Italia, non è comunque completamente attendibile, dato che è possibile che i dati siano pari a 5-6 volte più di quelli registrati, come ha precisato l'infettivologo del Sacco, Massimo Galli. Intanto, la Regione Lombardia ha annunciato che dal 21 aprile partiranno i test sierologici. Saranno 20mila al giorno, a cominciare dagli operatori sanitari e socio sanitari e dai cittadini che devono tornare al lavoro. In particolare saranno interessate le "province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi". I test, ha spiegato la Regione, "certificheranno l'immunità al virus e permetteranno di gestire in modo consapevole la cosiddetta fase 2". Infine, la Regione ha cambiato anche la strategia sulla quarantena, non più da 14 ma da 28 giorni.

Coronavirus, Sala: «Dati dimostrano che la maggioranza dei cittadini si sposta per lavoro». Il sindaco di Milano nel consueto appuntamento sui social - Ansa /CorriereTv 13 aprile 2020. «I dati in nostro possesso, dimostrano che la grandissima maggioranza dei cittadini che sono in giro per la città, sono in giro per lavoro. Io vorrei che questo fosse chiaro. Al contempo deve essere anche chiaro che i piccoli assembramenti non sono consentiti ma soprattutto sono un danno per tutti noi». Così il sindaco di Milano, Beppe Sala, nel consueto appuntamento video, sui social.

Coronavirus, la Lombardia vuole ripartire il 4 maggio: ecco il piano delle “quattro D”. Redazione de Il Riformista il 15 Aprile 2020. La Regione Lombardia ha pubblicato in una nota un piano per la ripartenza delle attività dal prossimo 4 maggio. Un piano per una “‘nuova normalità all’insegna della prevenzione, della cura e della programmazione“. La Lombardia, che ricordiamo essere la Regione più colpita dal coronavirus in Italia, chiederà dunque al governo di dare il via libera alle attività produttive dal prossimo 4 maggio. Una ripartenza che il presidente Attilio Fontana ha definito “la via lombarda alla libertà“. E che si baserà su “quattro D“. Nella nota si spiega il significato delle “quattro D”: la distanza, che riguarda il metro di sicurezza precauzionale tra le perone; i dispositivi, sull’obbligo di mascherina per tutti; la digitalizzazione, sta per l’obbligo di continuare con le attività di smart-working ove possibile; la diagnosi, nella campagna di test sierologici che dal 21 aprile partiranno in collaborazione con l’Ospedale San Matteo di Pavia. In questa fase, stando alla nota, giocherà un ruolo fondamentale l’Ospedale Fiera di Milano, “costato zero euro pubblici, diventerà il presidio che veglierà sulla salute dei lombardi come una vera e propria assicurazione contro il sovraffollamento delle altre strutture regionali”. Il piano prevede anche dei bonus economici: “Cassa integrazione con garanzia della Regione, piano di sostegno per piccole e medie imprese (sul tavolo c’è un pacchetto di facilitazioni per l’accesso al credito, con la possibilità di mobilitare risorse fino a un miliardo), provvedimenti a beneficio del personale sanitario”. Questi ultimi consistono in una “stabilizzazione e bonus economico con almeno 80 milioni di Regione Lombardia in aggiunta ai fondi del governo”. Il piano per la “nuova normalità” prevede il coinvolgimento “di tutte le università lombarde, dei soggetti rappresentativi del “Patto per lo sviluppo”, del terzo settore e degli stessi gruppi consiliari regionali“. Inoltre la Regione “utilizzerà la sua piattaforma Open innovation per raccogliere ulteriori stimoli e idee a livello internazionale sulle proposte che questo lavoro di confronto elaborerà. Il tutto – chiosa la comunicazione – sarà raccolto dalla giunta che intende riscrivere i documenti di programmazione della Regione per tradurre concretamente le proposte condivise”. La Lombardia è stata la Regione italiana più colpita dal coronavirus. I positivi al Covid-19 risultano essere 62.153, mentre calano ancora a 1.074 i ricoverati terapia intensiva a 1.074. I decessi sono 11.377, più della metà dei totali italiani, 21.645.

La quinta D. Da Tutto Travaglio di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 17 aprile 2020. L’altra sera il sempre simpatico Beppe Severgnini sosteneva a Otto e mezzo che tutte queste critiche alla Regione Lombardia dipendono non dai disastri combinati dai suoi sgovenatori e sgovernanti, ma dall’astio del resto d’Italia verso i “primi della classe”. Certo, dev’essere imbarazzante – dopo una vita passata a esaltare le magnifiche sorti e progressive delle classi dirigenti lombarde, orgoglio e vanto della Nazione, ma che dico della Nazione, dell’Europa e del mondo, dal fascismo a Craxi, da Berlusconi a Salvini – scoprire che sono un branco di bauscia incompetenti e ultimissimi della classe, dai sindaci riformisti Sala&Gori ai pir(el)loni centrodestri Fontana&Gallera al duo confindustriale Bonomi&Bonometti. Poi il sempre acuto Alessandro Sallusti argomentava che la curva dei contagi cala dappertutto fuorché in Lombardia perché la Lombardia ha i migliori governanti, ma purtroppo ha avuto “la sfiga del Coronavirus, come L’Aquila ebbe quella del terremoto”, neppure sfiorato dall’idea che il terremoto del 2009 colpì mezzo Abruzzo, mentre il Coronavirus ha contagiato il mondo intero. Certo, dev’essere imbarazzante, per chi è abituato a eseguire ordini, smettere improvvisamente di riceverne perché il padrone è fuggito in Costa Azzurra come il re e Badoglio a Brindisi dopo l’8 settembre 1943. Quella fuga gettò le truppe italiane nel caos più totale, che fece dire ad Alberto Sordi in Tutti a casa: “Signor colonnello, accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!”. Ma conseguenze non meno incredibili ha avuto la fuga di B. sul povero Sallusti. Avremmo pagato oro per vedere la sua faccia mentre il padrone, senza dirgli nulla, telefonava dall’esilio a Floris per allearsi col Pd sul Mes, spargere latte e miele su Conte e dichiarare guerra ai suoi alleati Salvini e Meloni, la cui linea forsennatamente antigovernativa Sallusti aveva sin qui seguito, credendo di far cosa gradita. Noi, che in fondo ad Alessandro vogliamo bene, vorremmo pregare il fu Caimano di evitargli ulteriori sorprese, fra l’altro nocive alle coronarie, di non fargli mancare gli ordini e soprattutto di non esagerare con i contrordini. Come quelli che stanno costando la faccia, ove mai ne avesse una, ad Attilio Fontana, il noto cabarettista costretto ogni giorno a riportare fedelmente l’osso che gli lancia Salvini. Il mestiere di governatore da riporto è già abbastanza umiliante, senza bisogno che il Cazzaro Verde ci metta del suo con ordini schizofrenici. Nei giorni pari vuole chiudere tutto, in quelli dispari riaprire tutto. Solo che lui, non avendo un mestiere, può dare fiato alla bocca senza conseguenza alcuna. Invece Fontana è un pubblico ufficiale, responsabile della sanità regionale in tandem con la sua spalla, al secolo Giulio Gallera. L’altro giorno i due attribuivano il record mondiale di morti e i numeri altissimi di contagi alla “troppa gente in giro”. E quando Conte ha riaperto le librerie, si sono affrettati a tenerle chiuse in tutta la Lombardia (invece le migliaia di fabbriche aperte in deroga ai divieti vanno benone). Poi l’altroieri, essendo giorno dispari (il 15), Salvini s’è svegliato riaperturista: “Gli italiani sono stufi di stare a casa”. E Fontana è scattato sull’attenti, annunciando che “dal 4 maggio la Lombardia riapre tutto” (incluse, pare, le librerie). Il sindaco Sala ha espresso stupore: “Ma come, meno di una settimana fa mi aveva chiesto un’ulteriore stretta su Milano!”. Beata ingenuità: quel giorno era il 10, pari, dunque Salvini era chiusurista. Come del resto ieri, giorno 16, infatti Fontana ha fatto retromarcia: la Lombardia non riapre più, al massimo socchiude. Oggi è di nuovo dispari, aspettiamoci novità. Il guaio supplementare è che Salvini può sparare a salve senza argomentare (nessuno si aspetta da lui un minimo di logica). Invece un governatore, specie se ha la Finanza in casa e i pm all’uscio, qualche spiegazione deve darla. L’altroieri il povero tapino precisava che “il lavoro sarà scaglionato non su 5 giorni, ma magari su 7” (ma solo perché 8 non si può, altrimenti che settimana sarebbe). E “con orari di inizio diversi per evitare l’utilizzo eccessivo dei mezzi pubblici in determinate fasce” (soluzione avvincente: ogni negozio apre e chiude quando vuole e gli eventuali clienti indovinano). Poi una precisazione superflua: “Lo dico senza valenza scientifica (strano, per un premio Nobel, ndr), ma mi auguro, e spero di non sbagliare, che il caldo rallenterà il contagio e renderà il virus meno aggressivo (non è un amore? ndr). Mi auguro che chi dice questo abbia ragione (e, se poi ha torto, pazienza, ndr)”. Quanto alla strage nelle residenze per anziani, “non ho nulla contro le polemiche e le indagini. Ma forse sono state intempestive, si poteva aspettare di risolvere il problema” (lo dice pure Salvini, “È di cattivo gusto indagare proprio adesso”: meglio aspettare che i vecchietti siano tutti morti). E poi tenetevi forte: “Abbiamo posto alla base della ripresa le 4 D: distanza, dispositivi di sicurezza, diagnosi e digitalizzazione”. Ma allora è vero che è il primo della classe. Però è più forte di noi: mentre parlava delle 4 D, ce n’è subito venuta in mente una quinta… Sì, proprio quella: indovinato!

Fontana sfida Conte sulla riapertura, ma dietro c’è Salvini. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. Prima l’accelerazione, il tentativo di sorpasso a destra. Poi la frenata. La strategia messa in campo ieri dal governatore della Lombardia Attilio Fontana, ha generato qualche sospetto a Palazzo Chigi. Il presidente della Regione ha prima chiesto la riapertura di tutte le attività produttive allo scoccare del 4 maggi salvo poi aggiustare il tiro in serata, precisando: “Non parliamo di attività produttive, di competenza del governo centrale, ma delle attività ordinarie. Una graduale ripresa che dovrà essere concordata con il governo”. In poco più di 24 ore l’amministrazione della Regione più colpita è passata dalla linea intransigente del “no alla riapertura di cartolerie e librerie” voluta dal governo, al piano per il riavvio della Lombardia con la strategia delle 4D (distanza, dispositivi, digitalizzazione, diagnosi). Un cambio di passo dietro il quale il governo vede la regia del partito del governatore Fontana, la Lega, e del suo segretario, Matteo Salvini. L’obiettivo sarebbe duplice: da un lato creare un nuovo caso Lombardia, che distolga l’attenzione dalle vicende giudiziarie legate al Pio Albergo Trivulzio e alle Rsa, dall’altro restituire l’immagine di una Regione impegnata a “chiuderla con le chiusure“, come ha detto l’ex ministro dell’Interno in diretta Facebook. E così, il presidente del Consiglio non risponde direttamente ma affida la reazione prima al viceministro dello Sviluppo Economico Buffagni, che bolla la proposta lombarda come  “Un errore”, poi al ministro degli Affari regionali Boccia che getta acqua sul fuoco.” Il presidente Fontana – dice – fa parte della cabina di regia nazionale con le Regioni e i comuni, il luogo istituzionale in cui ci si confronta è quello».

Coronavirus, "Se la Lombardia riaprirà ci sarà un danno incommensurabile". Affari Italiani, Giovedì, 16 aprile 2020. Il virologo Lopalco considera la decisione della Regione di ripartire il 4 maggio "un grosso rischio per tutta l'Italia".  L'emergenza Coronavirus continua in tutta Italia, in particolare in Lombardia, dove i numeri dei contagiati e dei morti restano allarmanti. Ma nonostante questo la Regione sta pensando ad una riapertura a partire dal prossimo 4 maggio. Oltre ad aver provocato l'ira del governo, questa decisione ha messo in allarme anche medici e scienziati. "La Lombardia mette tutti a rischio", spiega al Fatto Quotidiano Pier Luigi Lopalco, l’epidemiologo, professore di Igiene dell’Università di Pisa. “Se le aziende riaperte provocassero l’insorgere di nuovi focolai sarebbe un disastro incommensurabile”. Lopalco, nominato dal governatore Michele Emiliano responsabile delle emergenze epidemiologiche in Puglia, teme che tutti gli sforzi sinora compiuti “possano essere vanificati da scelte dettate da logiche che non tengano conto della gravità della pandemia”. Secondo l'esperto, “i dati che ancora leggiamo rispetto alla situazione della Lombardia sono tutt’altro che confortanti” tant’è che “la circolazione del nuovo coronavirus è ancora importante e riaprire di più in quella zona industriale vorrebbe dire sovraccaricare Milano che ne è il fulcro”. Lopalco pertanto si chiede se “coloro che decidono si rendano ben conto di che cosa questo significhi” e dei rischi che ciò comporti, perché – spiega ancora il medico – “aumentare questa percentuale di movimenti è molto rischioso” in quanto “i conseguenti contatti sociali potrebbero generare altri focolai”. Anche perché “la Lombardia è la regione che ha avuto la fase di proliferazione più importante della pandemia in Italia”.

Altro che lockdown, più della metà degli italiani si sposta per lavoro. Carmine Di Niro de Il Riformista il 15 Aprile 2020. La ripartenza? È già parzialmente iniziata. Il lockdown? Di fatto non esiste, nonostante le misure restrittive anti-Coronavirus . A dirlo è l’Istat in un report in cui traccia la mappa delle attività industriali o  di servizi sospese e attive, calcolando il ‘peso’ dei lavoratori per ogni ambito nel mese di marzo. Il risultato è che il 55,7% si reca in fabbrica o in ufficio, con un mezzo pubblico o privato, senza traccia di smart working. È l’effetto del silenzio-assenso voluto dal governo per dare il via libera alle aziende che vogliono continuare a produrre, anche se in categorie non inserite nel cosiddetto Codice Ateco, quelle “essenziali”. Si tratta di una semplice comunicazione alle prefetture che consente di operare in tutta tranquillità, e i numeri lo certificano: nella sola Lombardia sono 21mila le aziende che hanno comunicato alle Prefetture la loro ripartenza, sono 110mila invece le ‘autocertificazioni’ a livello nazionale. Ad ammetterlo è stato anche il governatore del Veneto Luca Zaia: “La chiusura non c’è, non esiste più, è finita da quando il governo ha delegato le prefetture all’approvazione delle deroghe per le aziende che decidevano di rimanere aperte. E grazie al silenzio-assenso, molte hanno riaperto”, ha spiegato al Corriere della Sera. Così nasce il dato dell’Istat, che vede soprattutto le grandi città subire i movimenti più grandi. Milano (67,1%), Roma (68,5%), Bologna (676,7%), Palermo (66,6%), Genova (69,6%), Bari (68,7%) superano tutte il 65%, ben oltre la media nazionale. Anche due città duramente colpite dai decessi da Covid-19 come Lodi e Crema rientrano nel top, con la prima al 73,1% e la seconda al 69,2%. I dati dell’Istat evidenziano un paese spaccato, perchè “in molte Regioni del Mezzogiorno oltre la metà dei comuni fanno registrare una quota di addetti appartenenti ai settori aperti superiore al valore medio nazionale”. 

Valentina Errante per “il Messaggero” il 16 aprile 2020. Accelerare le verifiche e accendere un faro sulle migliaia di autocertificazioni delle aziende che hanno riaperto sostenendo di rientrare nel ciclo produttivo della filiera alimentare o di materiale sanitari, o comunque tra quei servizi essenziali esclusi dalle misure anticontagio previste dal governo con l'ultimo decreto del 10 aprile. La pioggia di autocertificazioni trasmesse alle prefetture nella maggior parte dei casi non è stata esaminata. Secondo i dati, aggiornati all'8 aprile, soltanto per 38.524 comunicazioni su 105.727 inviate dalle aziende che hanno riaperto è in corso l'istruttoria, mentre sono soltanto 2.296 i provvedimenti di sospensione che le Prefetture sono riuscite a perfezionare. Il che significa che sono 64.897 le aziende attualmente aperte senza nessun controllo. Ma ci sono casi di gran lunga peggiori, conme in Veneto per esempio. Per questo il Viminale chiama la Guardia di Finanza e sollecita i prefetti ad avvalersi del supporto delle Camere di commercio, delle rappresentanze di categoria «ricorrendo, ove ritenuto opportuno, alla stipula di appositi protocolli operativi». Del resto i margini per eludere i divieti sono molto ampi.

MODALITÀ APPLICATIVE. La nuova circolare, firmata da Matteo Piantedosi, capo di Gabinetto del ministro Luciana Lamorgese, definisce le modalità di applicazione del nuovo Dpcm in materia di contenimento del contagio. Si ribadisce il sistema del silenzio-assenso, dopo tre giorni dall'autocertificazione, che adesso riguarderà anche le librerie, le cartolerie e i negozi di abbigliamento e tutta la filiera che questi settori si portano dietro. È dunque in arrivo una nuova ondata di dichiarazioni da verificare, dal momento che l'ultimo decreto prevede l'obbligo di comunicazione per le attività sospese, «in caso di accesso ai locali aziendali di personale dipendente o terzi delegati per lo svolgimento di attività di vigilanza, conservativa e di manutenzione, gestione dei pagamenti nonché attività di pulizia e sanificazione, come anche per la spedizione verso terzi di merci in magazzino e la ricezione in magazzino di beni e forniture».

TEMPI STRETTI. La circolare si rivolge direttamente anche ai prefetti. Si legge nel documento: «Per quanto concerne le richieste di autorizzazione (presentate sotto la vigenza della precedente regolamentazione) non ancora definite o decise negativamente, i prefetti vorranno imprimere un'accelerazione d'istruttoria, al fine di verificare se le stesse possano considerarsi come comunicazioni legittimamente presentate ai sensi delle nuove disposizioni, più ampliative, previste dal decreto. Infatti, poiché le imprese che hanno in precedenza presentato tali richieste potranno ora beneficiare di un immediato avvio dell'attività, in attesa degli esiti delle verifiche sottese all'eventuale sospensione, appare evidente che dovranno dedicare una particolare attenzione all'esigenza di una celere definizione delle relative istruttorie». É prevista ovviamente l'interlocuzione con le amministrazioni regionali. «Ulteriore elemento di novità - si legge nel documento è rappresentato dalla previsione che, in sede di valutazione delle condizioni richieste dalla norma, per la prosecuzione delle attività, il Prefetto possa adottare il provvedimento di sospensione, sentito il Presidente della Regione interessata». La circolare specifica: «Al personale del Corpo della Gdf, in linea con le funzioni proprie di polizia economico-finanziaria, potrà essere demandato lo svolgimento di specifici controlli e riscontri circa la veridicità del contenuto delle comunicazioni prodotte dalle aziende, avuto riguardo all'inclusione nelle categorie autorizzate ovvero all'esistenza della relazione economico-commerciale tra le attività d'impresa appartenenti alle varie filiere consentite».

MOLE ENORME. L'enorme mole di pratiche e verifiche non consente di rispondere a tutti. La circolare chiarisce: «Al fine del progressivo miglioramento dell'efficacia delle attività poste in essere, è stato rilevato un notevole divario tra il dato delle comunicazioni trasmesse alle Prefetture e quello delle relative attività istruttorie intraprese, che tuttavia - come noto - non debbono necessariamente concludersi con un provvedimento espresso, che invece si impone, nella forma della sospensione prefettizia, soltanto qualora le risultanze istruttorie abbiano fatto emergere l'insussistenza dei presupposti legittimanti».

Nel Paese delle deroghe, aziende che non chiudono, operai che muoiono. Emanuele Di Nicola il 31 marzo 2020 su rassegna.it. In tutta Italia migliaia di imprese chiedono ai prefetti autorizzazioni per restare aperte. Ma è così essenziale oggi costruire un elicottero? Solo a Bergamo 1.800 domande. E intanto a Milano altri due metalmeccanici hanno perso la vita. L'Italia che sta combattendo l'epidemia di Covid-19 è il Paese "con un grande senso civico ammirato nel mondo", come ha detto il presidente Mattarella. Quello in cui i cittadini, tra mille difficoltà, resistono alla tragedia collettiva restando chiusi in casa e sostenendo la perdita di parenti e amici, al Nord ma non solo. A perdere la vita anche tanti lavoratori, come Andrea Cuomo, 50 anni, addetto del settore manutenzioni di Engie, e Massimo Dominici, anche lui cinquantenne, commerciale della Rcs Thales Italia, morti a causa del Covid-19. Ne dà notizia Roberta Turi, segretaria generale Fiom Milano. Dall'altra parte però è anche il Paese delle deroghe. Dopo l'ultimo decreto del governo, sempre più aziende in tutte le regioni si rivolgono ai prefetti per riprendere l'attività produttiva. Le imprese chiedono il permesso di far tornare le persone al lavoro  - non in smart working, ma proprio nelle fabbriche - appunto "in deroga" al decreto del 25 marzo che stabiliva la cosiddetta "chiusura totale". Si tratta soprattutto di operai, naturalmente, ma molte categorie sono investite da questa tendenza in modo trasversale. Il requisito per la deroga dovrebbe essere il carattere essenziale di una determinata produzione, di cui non si può fare a meno: ma, solo un esempio, oggi è così essenziale costruire un elicottero? Eppure migliaia e migliaia di imprese fanno richiesta ogni giorno, tanto che il numero complessivo è in continua evoluzione. I prefetti tenderanno a concedere molte deroghe, e comunque in attesa del vaglio delle domande si resta al lavoro. Com'è possibile? Ci risponde fuori dai denti un Rsu dallo stabilimento di un importante gruppo italiano che resta aperto: "I prefetti mica sono esperti di lavoro, dicono sì a tutti".

Boom di richieste proprio in Lombardia. Noi allora siamo andati a vedere cosa succede nelle regioni: abbiamo studiato le deroghe, parlato con le persone che ancora lavorano, riportato le loro voci. Il quadro che emerge non è confortante. Ci sono storie virtuose, in cui gli addetti e l'azienda concordano insieme i passi da fare, insieme a realtà più problematiche, che richiamano alla responsabilità di una classe imprenditoriale non sempre irreprensibile. Così in Lombardia le deroghe sembrano essere la normalità: solo a Bergamo ci sono 1.800 richieste, un numero che fa impressione perché arriva proprio dalla città più colpita. Eppure le aziende non vogliono chiudere. Brescia lo supera: le richieste sul tavolo del prefetto sono 2.980, come riportano i dati sul Fatto Quotidiano. C'è chi rispetta i lavoratori e chi invece non lo fa: raccontiamo i casi di Mantova e Lecco. In Veneto sono quasi 12.000 le aziende che hanno chiesto di andare avanti. Le prefetture risultano sommerse dalle comunicazioni, ma nel frattempo le produzioni non si fermano. Tra le tante realtà c'è il caso della Evco. Azienda fiore all'occhiello dell'innovazione, produce sistemi elettronici di controllo per la temperatura di frigoriferi e forni industriali: il suo prodotto di punta è un tablet che controlla i dispositivi da remoto. A proposito della deroga, il sindacato fa notare: "È vero che costruiamo qualche strumento di controllo per l'agroalimentare (che è una produzione essenziale, ndr), ma parliamo di poche decine di pezzi, basterebbero quattro persone nel reparto per ottemperare a queste richieste e invece la fabbrica va a pieno regime”.

In Emilia-Romagna oltre 10.000 domande. Anche in Emilia-Romagna si registra un boom delle richieste: sono oltre 10.000. Le motivazioni sono varie, i settori diversi, le informazioni fornite non sempre complete. L’unico dato che accomuna tutte le situazioni riguarda i numeri e i tempi delle deroghe richieste dalle aziende che cominciano a scalpitare e che cercano di “portarsi avanti con il lavoro”. Tra le molte preoccupazioni, il timore della Cgil è che il protocollo sulla sicurezza firmato da governo e parti sociali possa diventare carta straccia (leggi tutto). In Toscana le domande sono 7.000. Questo il conteggio, ancora non definitivo, fornito dalle Camere del Lavoro in tutta la regione. Molte aziende sostengono che la loro produzione sia - tutta o in parte - collegata a settori essenziali, insomma si "autocertificano". Sulla questione interviene direttamente il segretario generale della Cgil regionale, Dalida Angelini: "Sono troppe le aziende che fanno finta di non capire che il virus si combatte riducendo le occasioni di contatto al limite del possibile". E ancora: "Sono troppi gli imprenditori che, per non perdere un vantaggio competitivo, passano sopra alla sicurezza dei lavoratori, dei familiari e di tutti, loro compresi". La Cgil ha messo a disposizione delle prefetture la propria conoscenza dei settori, per aiutare a capire se le ragioni delle imprese "sono oggettive o, al contrario, sono solo un modo per aggirare il blocco".

I sindacati in Toscana e Lazio: “Non fate i furbi”. Una valanga di richieste è arrivata in Friuli Venezia Giulia. Secondo Il Piccolo, sono quasi 2.500 le domande di deroga alla chiusura sui tavoli dei quattro prefetti provinciali. A Trieste i fascicoli sono 326, a Gorizia circa un centinaio. I sindacati territoriali faranno sentire la loro voce: analizzeranno le carte messe a disposizione dalle prefetture per dare una valutazione sulla regolarità del percorso. Anche nel Lazio si stanno moltiplicando le richieste. Per questo Cgil, Cisl e Uil hanno lanciato un appello comune: "Siamo in contatto con i prefetti per segnalare le situazioni illegittime. Questo non è il momento delle furbizie".

Lombardia. Si fa presto a dire deroga. Simona Ciaramitaro il 31 marzo 2020 su rassegna.it. Le aziende chiedono di continuare a produrre nonostante il blocco produttivo, ma c’è chi rispetta i lavoratori e chi invece non lo fa. I casi di Mantova e Lecco. Alla Belelli di Mantova, attiva nel settore della meccanica per reattori, raffinerie, impianti chimici e petrolchimici, centrali elettriche e nucleari, la direzione non rende noto i motivi della richiesta di deroga. “Ci piacerebbe sapere il perché, ma non ci è stato detto - racconta Alessandro Dian, rsu Fiom - . Nell’ultimo incontro dopo l’ultimo decreto ci avevano detto che si stavano preparando alla chiusura, in realtà hanno fatto domanda di deroga via mail al prefetto, ma a noi non hanno fatto sapere nulla e non sappiamo come siamo collegati a una delle filiere che devono rimanere aperte”. Sul fronte sicurezza, le mascherine sono state distribuite, ma con parsimonia perché di difficile reperibilità, il protocollo è stato applicato e sono stati scaglionati i turni mensa e quelli di lavoro, negli uffici sono state fatte le sanificazioni, meno nei reparti perché la struttura lo rende difficile, il livello di attenzione è aumentato, ma Dian fa sapere che il sindacato ritiene che “si sarebbe potuto fare di più e che comunque si sarebbe dovuta interrompere la produzione, per il numero di persone presenti negli uffici, nello stabilimento, nelle mense, negli spogliatoi durante le docce”. “Sarebbe poi stato un buon gesto - prosegue - consegnare all’ospedale di Mantova le nostre mascherine, perché lì scarseggiano, ma per l’azienda c’è solamente l’interesse ad andare avanti e dimostrare all’opinione pubblica che loro comunque non si fermano e consegnano pezzi. La gente è preoccupata e soprattutto i giovani, anche non sindacalizzati, ci chiedono perché non ci sia stato lo stop, ma noi non lo sappiamo”. Alla Belelli non ci sono casi conclamati di contagio, ma nella provincia di Mantova stanno aumentando: “Siamo abbastanza arrabbiati - conclude Dian -, perché, anche se collegati al settore farmaceutico (anche se io ho qualche dubbio), gli apparecchi che produciamo, per la loro tipologia, sono destinati ad entrare in funzione tra un anno, non subito. Quindi non si capisce quale nostro ramo possa rientrare nella deroga”. Diverso è il caso di un’altra azienda del settore metalmeccanico, la Gilardoni, in provincia di Lecco. Anche qui i lavoratori hanno paura, ma sanno che quanto producono, vale a dire strumentazioni biomediche (come le macchine per effettuare le radiografie ai polmoni) e impianti di sicurezza, sono necessarie soprattutto in questo momento emergenziale. Sergio Carugno, delegato Fiom, spiega che sono state applicate tutte le misure previste dal protocollo di sicurezza per contrastare il Covid-19: “Ci sono state le affissioni, la distribuzione dei depliant, limitati gli accessi di personale esterno per garantire solo attività utili e la direzione ci ha comunicato che negli ultimi quattordici giorni non ci sono sati contatti con soggetti positivi. E in azienda non ci sono stati casi di contagio e che ai lavoratori che hanno avvisato di avere alcuni sintomi influenzali è stato consigliato di stare a casa. C’è un medico aziendale specialista che è sempre in contatto con noi e con l’azienda”. L’assistenza all’esterno degli stabilimenti è limitata alle emergenze, ad esempio negli ospedali, e agli operatori sono fornite mascherine ffp3, guanti adeguati, mascherine, occhiali e tute integrali. Per i trasporti verso e dal lavoro, non sono necessarie precauzioni perché la zona è periferica alla città, è raggiunta solamente dalla ferrovia e i lavoratori si recano negli stabilimenti a piedi o con la propria auto. E poi c’è il senso civico dei lavoratori. “All’inizio eravamo scettici sul proseguire la produzione - dice Carugno -, c’era paura da parte di tutti, poi però l’azienda si è mossa subito con le azioni previste: ha diviso il lavoro in due turni (115 persone alla volta presenti in fabbrica, per evitare assembramenti) oltre un metro di distanziamento tra i dipendenti e, quando la tipologia di lavoro richiede la compresenza di due persone, le misure sono le stesse di quelle predisposte per i lavoratori esterni. E poi è disponibile il disinfettante dove è necessario, la mensa è stata quasi abolita e, per chi vuole, viene fornito un ‘pranzo al sacco’. Gli impiegati sono quasi tutti in smart working, alcuni hanno preso le ferie arretrate. Cerchiamo di andare avanti il più possibile, vediamo come si evolve la situazione. Noi facciamo prodotti di pubblica utilità e il nostro datore di lavoro non vuole chiudere e ci fornisce tutte le informazioni che noi chiediamo”.

Veneto, «in fila» dai Prefetti per le deroghe. Stefano Iucci il 31 marzo 2020 su rassegna.it. Sono quasi 12.000 le aziende che hanno chiesto di andare avanti. Le Prefetture sono sommerse dalle comunicazioni ma nel frattempo le produzioni vanno avanti. In molti casi solo l'azione del sindacato riesce a fermarle. I casi della Evco e della Psm. L’Evco è uno dei fiori all’occhiello dell’industria innovativa di Belluno. Produce sofisticati strumenti elettronici di controllo per la temperatura di frigoriferi e forni industriali: il suo prodotto di punta è un tablet che, appunto, controlla i dispositivi da remoto. Tutto bene se non fosse che, con un’interpretazione “elastica” delle deroghe previste dalle disposizioni con cui il governo ha deciso di fermare tutte le produzioni non essenziali a causa del coronavirus, l’azienda non ne vuol sentire di chiudere temporaneamente i battenti. “La giustificazione di questa decisione secondo – spiega Carlo Fiori, rsu Fiom della Evco – starebbe nel fatto che le produzioni sarebbero collegate alle filiere dell’agroalimentare e dell’elettromedicale che, come noto, sono autorizzate ad andare avanti”. Ma è una giustificazione sorprendente, perché con l’agroalimentare l’Evco ha sicuramente assai poco a che fare: non basta certo lavorare per forni e frigo industriali per farne parte. Quanto all’elettromediale, attacca Fiori, “è vero che costruiamo qualche strumento di controllo per apparecchi di questo tipo, ma parliamo di poche decine di pezzi, basterebbero quattro persone nel reparto produttivo per ottemperare a queste richieste e invece la fabbrica va a pieno regime”. L’azienda impiega poco più di 100 lavoratori e tutti, ci assicura il delegato sindacale “sono spaventati, hanno paura di andare al lavoro, molti a casa hanno bambini, o sono a contatto con persone anziane. Io e alcuni altri stiamo utilizzando giorni di permessi arretrati. Personalmente mi alterno a casa insieme ai figli con mia moglie che lavora come me alla Evco: ma quanto può durare”? Tra l’altro, la metà del fatturato dell’azienda proviene da commesse estere, in particolare Russia e Cina: di quale portata può essere, dunque, il suo contributo alla produzione di beni essenziali per il nostro paese? Il rammarico per il comportamento dell’azienda, aggiunge il sindacalista (che è anche Rls), “è che fino all’ultimo decreto la direzione ha fatto tutto ciò che era possibile per garantire sicurezza: ha aumento le distanze tra i lavoratori portandole a oltre due metri, ha acquistato disinfettanti, gel e le mascherine reperibili sul mercato. Poi, però, è arrivata la decisione di andare avanti e la richiesta di deroga”.

Il problema delle deroghe. Questo delle deroghe alla chiusura previsto nel Dpcm del 22 marzo è un nodo di non semplice soluzione che in alcuni casi diventa un cavallo di Troia utilizzato dalle aziende per poter continuare a produrre indisturbate. Secondo il dispositivo la deroga può essere accordata per due ragioni: quando le attività “sono funzionali ad assicurare la continuità della filiera” che produce beni o servizi essenziali, oppure nel caso di produzioni a ciclo continuo tali che la loro interruzione potrebbe danneggiare gli impianti o mettere a rischio la salute e la sicurezza. Le richieste vanno inviate al Prefetto che, si legge sempre nel decreto “può sospendere le predette attività qualora non sussistano le condizioni”. Il problema sta nel fatto le Prefetture sono letteralmente invase da comunicazioni di questo tipo, ed è difficile pensare che possano evaderle nel breve periodo: intanto però le fabbriche vanno avanti esponendo al rischio i propri lavoratori. Si rischia, insomma, che il meccanismo produca una sorta di silenzio assenso viste le numerose sono grigie che sussistono tra codice Ateco e filiere. Nelle Prefetture del solo Veneto, ad esempio, è arrivato lo stesso numero di richieste di deroga della Lombardia, pur in presenza di un apparato produttivo che è la metà di quello lombardo. Parliamo di ben 11.970 comunicazioni: 2.100 imprese hanno chiesto la deroga nel veneziano; 2.300 nel padovano; 2.700 nel vicentino; 2.200 nel veronese; 2.100 nel trevigiano; 400 nel bellunese; 170 nel rodigino. È chiaro che a questo punto, viste le difficoltà, il ruolo del sindacato come sentinella sul territorio risulta essenziale. “Insieme a Cisl e Uil abbiamo attivato il confronto con tutte le Prefetture, registrando un atteggiamento diffuso di disponibilità – commenta Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto –. Le organizzazioni dei lavoratori sono nelle condizioni di collaborare fattivamente con gli organismi che devono vagliare le domande, segnalando – dopo attente verifiche – le attività ritenute non essenziali”. Diverso invece l'atteggiamento delle organizzazioni datoriali, che non nascondono affatto l'insofferenza, anzi, attacca Ferrari, “una evidente contrarietà rispetto ai provvedimenti del Governo e, in particolare, al ruolo che le organizzazioni hanno saputo conquistarsi, grazie all'interlocuzione con l'Esecutivo e – soprattutto – per merito delle mobilitazioni e degli scioperi dei lavoratori. È molto improbabile che questo tsunami di domande sia dovuto allo spontaneismo delle singole aziende. Siamo con ogni probabilità di fronte a un input ‘organizzato’, a una direttiva precisa delle associazioni di categoria”.

Veneto: una mappa delle chiusure. Allo stato attuale, questa la situazione regionale così come mappata dalla Cgil Veneto. Ci sono una serie di aziende del comparto metalmeccanico che hanno continuato a lavorare al di fuori delle filiere indispensabili, particolarmente nelle zone di Belluno e di Treviso. Cosa che le strutture sindacali hanno prontamente segnalato, ottenendo il fermo da parte delle prefetture. In Safilo, una delle realtà più importanti a livello regionale, è stato necessario proclamare lo sciopero per fermare una produzione che non aveva ragione di continuare, anche alla luce di scelte opposte degli altri big del settore occhialeria che hanno sospeso l'attività. Anche a Vicenza sono state registrate forzature da parte di qualche azienda chimica e metalmeccanica, che hanno preteso di andare avanti per alimentare gli ultimi canali di export rimasti attivi o per fare magazzino. A Verona i problemi riguardano alcune acciaierie e altre aziende “sedicenti” fornitrici della filiera aerospazio e sanitaria. Il più delle volte l’asserito collegamento con le attività essenziali è pretestuoso: una quota assolutamente marginale della produzione viene utilizzata come pretesto per mantenere i pieni livelli. “Complessivamente – commenta Ferrari – l’azione di controllo, vigilanza e segnalazione dei sindacati sta contenendo la spinta dell'apparato produttivo a proseguire come nulla fosse. Gran parte della produzione veneta, a partire dalle grandi imprese, è ferma. Il problema, come sempre, è per le piccole imprese in cui il sindacato non c'è. In questo caso la funzione dei Prefetti è decisiva”.

Un caso di successo: la Psm di Treviso. Tra i casi di successo dell’azione sindacale va segnalato quello della Psm di Treviso, azienda del gruppo Soimec che occupa 50 lavoratori e produce trivelle per ispezioni geotermiche. Qui il successo è doppio perché, come racconta Massimo Baggio, della Fiom di Treviso, “l’azienda non è sindacalizzata, ma fortunatamente siamo stati contattati dai lavoratori che ci hanno segnalato la situazione a loro giudizio non in regola e una forte preoccupazione per la propria sicurezza”. Psm, infatti, pretendeva di continuare a lavorare perché, a suo dire, legata alla filiera dell’ingegneria civile, “ma tutte le aziende concorrenti sul territorio avevano deciso lo stop – ci dice Baggio –, quindi era evidente che si cercava anche di sfruttare questo aspetto. Per fronteggiare questa situazione lo sciopero non era ipotizzabile: avremmo messo pesantemente a rischio i lavoratori e dunque abbiamo chiesto al Prefetto di verificare la legittimità dell’impresa ad andare avanti nella produzione. In un paio di giorni Psm è stata costretta a fermarsi e ora bisognerà naturalmente fare in modo che i lavoratori abbiamo la copertura degli ammortizzatori sociali”. In conclusione Baggio tiene a specificare un aspetto: “Noi non vogliamo accanirci con le aziende per farle chiudere. Pretendiamo il rispetto della sicurezza dei lavoratori. Come sindacato, quando ci saranno le condizioni per poter riprendere le attività saremo i primi a festeggiare”.

Emilia Romagna. Una deroga tira l'altra. Paolo Andruccioli il 30 marzo 2020 su rassegna.it. È boom di domande: oltre 10 mila. Le aziende premono per riaprire anche se verrà prorogata la scadenza del 3 aprile. Il Protocollo sulla sicurezza diventa, così, carta straccia. Le motivazioni sono varie, i settori sono diversi, le informazioni fornite non sempre complete. L’unico dato che accomuna tutte le situazioni riguarda i numeri e i tempi delle deroghe richieste dalle aziende che cominciano a scalpitare e che cercano di “portarsi avanti con il lavoro”. Siccome pare sia ormai scontato il rinvio della data inizialmente prevista dal governo per il 3 aprile, molte aziende presentano le loro domande per poter ricominciare le attività comunque dalla prossima settimana. Naturalmente in deroga dall’accordo governo sindacati e dal decreto. Anche in Emilia Romagna si ripete dunque la situazione che caratterizza i principali distretti industriali del Paese. Le aziende mordono il freno. Non ci vogliono stare a fermarsi perdendo terreno sulla concorrenza. In alcuni casi informano e trattano con il sindacato. In altri cercano di aggirare il più possibile ogni forma di contrattazione premendo sul responso positivo della Prefettura di turno. In Emilia Romagna, secondo i dati delle Prefetture (a cui il decreto del governo ha affidato appunto il compito di decidere sulle riaperture), solo a Piacenza sono state presentate 1100 domande di deroga. A Parma 600, a Modena 2000. A Bologna le domande hanno raggiunto quota 2500. A Ferrara 1000. A Ravenna siamo sulle 1000 domande, mentre nel distretto Forlì-Cesena ci si attesta sulle 600 domande. Mancano ancora i dati di Reggio Emilia (si sapranno domani) e di Rimini. E mancano soprattutto all’appello i dati della miriade di piccole e piccolissime imprese dove il sindacato non è presente. I dati macro che ci ha fornito il segretario generale della Cgil Emilia Romagna, Luigi Giove, riguardano infatti solo le grandi e medie aziende dove il sindacato e presente e dove sono attivi quindi le Rsu e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Il lavoro di cernita da fare è enorme. Perché ovviamente si tratta di capire se le motivazioni (o giustificazioni) addotte dalle imprese sono oggettive o sono al contrario solo un modo per aggirare l’ostacolo. Per il sindacato il lavoro è doppio perché da una parte vanno verificate (laddove è possibile) le informazioni e dall’altro vanno verificate le condizioni di sicurezza e il rispetto del Protocollo generale firmato con il governo. In molti casi sono le Prefetture stesse che chiedono anche il parere del sindacato prima di dare il via libera alla riapertura. In altri casi le Prefetture fanno finta di niente e procedono autonomamente forti della “lettera” di incarico ricevuta da Roma. “Questa settimana è relativamente tranquilla - ci dice Samuele Lodi, segretario regionale della Fiom - il bello ci sarà la prossima settimana perché molte aziende si preparano già alla forzatura. Su 2800 industrie metalmeccaniche in Emilia Romagna 1800 questa settimana sono chiuse, siamo quindi nell’ordine del 70%. Duecento industrie, che sono state inserite negli elenchi dei lavori essenziali, vanno invece avanti. Ma dalla prossima settimana cambierà tutto e si apriranno sicuramente dei contenziosi con aziende che non solo vogliono forzare il blocco ma che non avranno neppure tutte le misure di sicurezza necessarie a garantire la salute dei lavoratori. Ci attende un confronto faticoso”. Nel frattempo procedono le verifiche che in alcuni casi vengono affidate direttamente alla Guardia di Finanza o ai Vigili del Fuoco. Secondo il sindacato sarebbe necessario poi, oltre alle Prefetture, coinvolgere anche le Camere di Commercio soprattutto nella verifica del pulviscolo diffuso delle microimprese. In ballo non ci sono ovviamente solo le fabbriche metalmeccaniche. Ci sono anche altri settori industriali in cui si sta per preparare un braccio di ferro tra management e sindacato. Uno di questi settori è la ceramica molto sviluppato in questa Regione. Il distretto della ceramica di Modena e Reggio Emilia, per esempio, è uno dei più forti nel Paese. “Le pressioni che riceviamo dalle aziende - spiega Maritria Coi, della Filctem regionale - le direzioni aziendali utilizzano il pretesto dei controlli dei forni per riaprire, ma è appunto un pretesto perché questo tipo di controlli si possono fare anche da remoto come si fa d’estate quando tutti i forni sono spenti per le ferie”. Anche nel settore della ceramica le aziende stanno insomma cominciando a prendere la rincorsa. “Se un’azienda forzasse - dice Maritria Coi – anche le altre si accoderanno”. Diverso il discorso per un altro settore industriale: il tessile e la moda. In questo caso si assiste a processi “virtuosi” anche se dovuto all’onda del momento. Molte aziende, ci racconta ancora la sindacalista della Filctem, stanno riconvertendo parte delle loro produzioni per fare mascherine e camici. In questo modo producono cose che servono come il pane in questo momento e nello stesso tempo aggirano il divieto di produrre. Se continuassero a produrre semplice abbigliamento dovrebbero rimanere chiuse perché non essenziali. Per quanto riguarda nello specifico la situazione generale di Bologna, Maurizio Lunghi, segretario della Camera del lavoro, fa il punto sulle molte iniziative di protesta e di sciopero già realizzate dai lavoratori. Il sindacato ha cercato di resistere alla minaccia delle aziende di voler rimanere aperte nonostante le indicazioni e alla faccia delle misure di sicurezza. Ma tutto questo avveniva prima del varo del decreto che ha sancito la distinzione tra lavori essenziali e non essenziali. Ora la situazione si è apparentemente tranquillizzata, ma il fuoco continua a bruciare sotto la cenere. Molte aziende sono pronte alla forzatura anche se, come dice Lunghi, hanno i magazzini di stoccaggio pieni perché anche la logistica è ferma.

Furbetti e pochi controlli: 110mila aziende già riaperte. Con l’autocertificazione in tanti non hanno chiuso. Il Viminale: la Finanza in aiuto dei prefetti, servono verifiche più rapide. Valeria Pacelli il 16 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano. I pochi controlli, i tanti escamotage consentiti dalle norme e pure qualche furbizia: tutto è stato utile per riaprire imprese non ammesse dal decreto del governo del 22 marzo. É così che molte aziende hanno rialzato i battenti. Fino all’8 aprile erano 2.296 le attività sospese a seguito delle verifiche dei prefetti di tutta Italia.

Scattano i controlli della Finanza. Fase 2, oltre 65mila aziende già a lavoro senza autorizzazione. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. Mentre il governo discute su modalità e tempi della fase due, il mondo produttivo italiano è già tornato a lavoro. Almeno in parte. Secondo il dato ufficiale diffuso dal Viminale, infatti, in tutta Italia sono 65mila le aziende che hanno già ripreso la produzione senza autorizzazione. Molti imprenditori, infatti, hanno inviato la documentazione con i motivi della riapertura ai prefetti ma, come riporta il Corriere della Sera, non avendo ricevuto risposta entro 30 giorni e hanno deciso di alzare la serranda. Il governo già nei prossimi giorni potrebbe autorizzare la riapertura di alcuni settori produttivi ma, nel frattempo, ha deciso di rafforzare i controlli da parte della Guardia di finanza per verificare chi, tra le filiere a lavoro, ha riaperto rispettando i decreti emanati dal governo. Chi non sarà in regola potrebbe anche subire la sospensione della licenza. Il timore, infatti, è che in tanti abbiano dichiarato di far parte della filiera alimentare o farmaceutica a torto. E, soprattutto, si teme che non si stiano rispettando a pieno le norme sul distanziamento e sulla tutela della salute dei lavoratori. Un caso, ad esempio, sono le aziende coinvolte nella produzione e distribuzione di attrezzi per l’attività sportiva. Nelle richieste arrivate sulle scrivanie dei prefetti, nel campo delle motivazioni si legge la necessità di assicurare alle case di cura e di riposo gli strumenti necessari alla riabilitazione. E ci sono anche quelli che, pur di legittimare la riapertura, hanno tentato riconversioni della produzione all’ultimo minuto.

Milano: situazione critica, poco rispetto del lock down #iorestoacasa. Dablogdilifestyle.it il 15 Aprile 2020. #iorestoacasa è diventato uno slogan ormai comune eppure non tutti se ne fanno una ragione. A Milano il problema è sempre più evidente. Ci sono troppe persone in giro senza valida motivazione.

#iorestoacasa: Beppe Sala e le dichiarazioni su Milano. “In molti mi state scrivendo che c’è troppa gente in giro, obiettivamente c’è più gente in giro. Stamattina ho convocato il capo della polizia locale, gli ho chiesto di fare più controlli. La stessa richiesta l’ho fatta al prefetto” ha dichiarato Beppe Sala. Il problema è sempre più evidente: nonostante la richiesta di stare a casa per uscirne il prima possibile ci sono tante persone in giro. Se da un lato c’è più richiesta di controlli dall’altro il sindaco dichiara che “Le guardie non sono sufficienti per controllare i comportamenti di più di un milione e 400mila persone: quindi ognuno deve fare più che mai il suo dovere. Il mio è di stare qui a lavorare, ma se in questo momento il vostro dovere è stare a casa, dovete stare a casa”.

Solo il giorno di Pasqua sono state fermate e multate 14.000 persone. “Nel ringraziare gli agenti e gli ufficiali della Polizia locale di Milano per il grande lavoro che stanno svolgendo al servizio della cittadinanza, ribadiamo che il dispositivo dinamico che abbiamo messo in campo si adegua ogni settimana alle diverse esigenze che la città presenta. La bella stagione non deve indurre le persone ad uscire di più, dunque noi controlleremo ancora di più” ha ribadito il comandante della Polizia locale Marco Ciacci.

#iorestoacasa soprattutto a Milano. Noi ci rivolgiamo direttamente ai milanesi: restate a casa. A tutti noi manca la vita di prima e tutti noi vorremmo tornarci il più in fretta possibile ma non avverrà se non rispettiamo le regole. Continuando ad uscire senza motivo mettete a rischio voi stessi e gli altri ed i tempi di quarantena si allungheranno. Restate a casa e riusciremo a trascorrere una buona estate.

Coronavirus Lombardia: celle telefoniche confermano il 40% di mobilità. Affari Italiani Giovedì, 9 aprile 2020. La mobilità in Regione Lombardia continua a crescere nonostante le restrizioni e con l'avvicinarsi delle festività pasquali i numeri tendono ad aumentare giorno. La mobilità in Regione Lombardia continua a crescere nonostante le restrizioni e con l'avvicinarsi delle festività pasquali i numeri tendono ad aumentare giorno dopo giorno. "Il dato della mobilità in Lombardia di ieri è "al 40%, purtroppo è un dato molto alto, ben quattro punti sopra alla percentuale di una settimana fa".Lo ha detto il vicepresidente di Regione Lombardia Fabrizio Sala illustrando l'analisi degli ultimi dati rilevati dai cambi di celle telefoniche alle quali si agganciano gli smartphone dei cittadini che si spostano. I flussi sono rilevati dalle compagnie che gestiscono la telefonia mobile in Lombardia. "Questa settimana siamo partiti male - ha rimarcato Fabrizio Sala -, è un dato che ci allarma, andremo ad approfondirlo ancora di più. Abbiamo intenzione di rilevare gli spostamenti a livello provinciale per vedere dove ci si muove di più e metteremo i dati a disposizione dei Prefetti per aiutare le Forze dell'ordine a capire dove servono più controlli". Il trend è in aumento da qualche giorno e se è vero che alcune aziende hanno ricominciato a lavorare, restano alcuni picchi in fasce orarie anomale come ha evidenziato lo stesso vicepresidente Sala: "Gli spostamenti sono giustificati negli orari lavorativi, ma resta da capire come mai alle 23 il flusso dei movimenti aumenti così tanto rispetto alle 22. Anche attorno alle 16 c'è un aumento della mobilità e voglio ribadire con forza la necessità di restare in casa, evitando passeggiate o giri in bicicletta". Con le festività pasquali in arrivo, il rischio è quello di vedere troppa gente in giro con il rischio di alimentare una nuova e più ampia diffusione del contagio. Ecco perchè "le vacanze di Pasqua - ribadisce Sala - vanno trascorse assolutamente in casa. Non è possibile fare week end o grigliate al parco tra amici, perchè si rischierebbe di diffondere il virus e tra 10-15 giorni avere un rebound, cioè un nuovo aumento dei contagiati".

Coronavirus: Sala, maggioranza dei milanesi in giro per lavoro. Milano, 13 aprile 11:43 - (Agenzia Nova) - La maggioranza dei milanesi che sono in giro in questi giorni di festa hanno validi motivi per spostarsi, per lo più dettati da esigenze lavorative. Lo hanno spiegato in un video pubblicato sui social il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il comandante della Polizia locale Marco Ciacci. “I dati in nostro possesso come Polizia locale, ma anche i dati in possesso della Prefettura e relativi alle altre forze di polizia, dimostrano che la grandissima maggioranza dei cittadini che sono in giro per la città sono in giro per lavoro. Io vorrei che questo fosse chiaro”, ha detto Sala. “Della gente in giro c’è, ma i controlli ci dimostrano che le persone che fermiamo sono quasi tutte in regola. La percentuale di quelle che non sono in regola è veramente bassa, intorno al 5 per cento. Sono persone autorizzate per lavoro o per altre esigenze, principalmente per lavoro, che si muovono per dare servizi alla città e per far funzionare tutti i servizi essenziali”, ha confermato il comandante Ciacci. (Rem)

Coronavirus, a Milano aumentano i contagiati: colpa solo dei cittadini? Violetta Silvestri il  14 Aprile 2020 su  money.it. A Milano ci sono ancora contagiati in aumento. L’allerta resta alta in città e in tutta la regione Lombardia. Ma la colpa è davvero dei cittadini, ancora troppo in giro secondo Gallera?

Pasqua amara per Milano e per tutta la regione Lombardia. Qui, infatti, i dati su contagi e decessi da coronavirus restano preoccupanti. La curva dei positivi mostra oscillazioni non rassicuranti, a dimostrazione di come l’Italia sia ancora in piena emergenza. Nei giorni delle festività pasquali, la situazione milanese è tornata ad aggravarsi per il diffondersi dei casi positivi accertati. L’assessore regionale al Welfare Gallera ha avanzato critiche verso i cittadini del capoluogo, secondo lui ancora troppo indisciplinati. Il clima è visibilmente teso nella regione lombarda, tanto che le ultime dichiarazioni hanno scatenato la risposta polemica anche del sindaco di Milano Sala. Davvero la responsabilità della situazione è soltanto dei cittadini?

A Milano e in Lombardia ancora allerta coronavirus: cosa succede? Già il bollettino di sabato 11 aprile non era stato buono per Milano: 520 positivi in più rispetto al giorno prima nella città metropolitana e un aumento di 262 casi di contagiati solo nella cittadina milanese in confronto a venerdì.

La città ha registrato + 296 positivi il 13 aprile, mentre a livello provinciale i contagiati sono saliti di 481 unità.

Nella città capoluogo, il tasso di mortalità in confronto con lo stesso periodo del 2019 è aumentato dell’87%.

I numeri confermati ieri, 13 aprile, hanno ribadito lo stesso trend negativo in tutta la Lombardia: 280 morti in 24 ore nella regione, più del doppio rispetto al giorno prima. In più, occorre sempre tenere presente le parole di esperti e medici, come l’infettivologo Galli, il quale ha ricordato come “I casi veri nella città di Milano sono forse 5-6 volte quelli accertati, in Lombardia i casi veri sono dieci volte quelli accertati.” L’appello dell’assessore alla Sanità lombarda era stato chiaro già prima di Pasqua: “Non c’è un calo netto e deciso nei contagi, quindi non rilassiamoci, restiamo a casa. Per quanto possibile limitiamo al minimo anche le uscite per andare a fare la spesa.” Nella conferenza stampa di lunedì, Gallera, ammettendo la non soddisfazione per i dati regionali, è tornato sull’argomento, non risparmiando critiche ai milanesi: “Ho sentito sui social che c’è rabbia, si dice che a Milano c’e troppa gente che si muove, avete perfettamente ragione ma i controlli, come ben sappiamo tutti, li fanno la polizia locale e le forze dell’ordine.”

La maggiore “colpa” dei dati lombardi e milanesi, quindi, ricade davvero sul comportamento dei cittadini? E le responsabilità della Lombardia al riguardo? Lombardia in emergenza: quali responsabilità? Polemica con Sala. L’emergenza coronavirus ancora così marcata in Lombardia sta creando parecchio nervosismo. Le ultime esternazioni di Gallera su Milano, infatti, hanno scatenato la reazione indignata e critica del sindaco del capoluogo Giuseppe Sala. Queste le sue parole: “Mi dissocio da questa retorica del milanese indisciplinato che si fa i fatti suoi. Se qualcuno pensa che ci sia troppa gente in giro, faccia una nuova ordinanza e tenga più persone a casa. Pensiamo ad altro, ovvero a prenderci cura dei cittadini. Che ci diano le mascherine, che ci diano i tamponi, molti più tamponi, che ci diano i test sierologici.” Proprio su questo ultimo punto, il sindaco ha parlato duramente, ricordando che la Regione Lombardia ha promesso di mettere a disposizione 2.000 test al giorno dal 21 aprile. Ma non per la provincia di Milano. Lo sfogo di Sala riaccende una polemica in realtà mai sopita nella regione lombarda. Nel mirino delle critiche ci sono diverse questione controverse, nelle quali la responsabilità della regione del Nord Italia entra pienamente, seppure rimpallata spesso con quella del Governo. Tra queste: la gestione delle RSA e delle visite consentite ai familiari (una critica che il sindaco di Bergamo Gori ha appena lanciato contro la regione); la vicenda della zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro, per la quale Gallera stesso ha ammesso che l’intervento poteva essere regionale e poi la crisi sanitaria territoriale a livello generale.

I massimi vertici continuano a difendersi, come è emerso da alcune dichiarazioni di Attilio Fontana: “Noi abbiamo seguito tutti i protocolli e abbiamo fatto le scelte in accordo con l’Iss, abbiamo dovuto ricorrere all’ospedalizzazione, perché da noi se la gente non veniva ospedalizzata non riusciva a sopravvivere. vVorrei capire quali sono le contestazioni sugli errori commessi”. Quel che è certo è che la situazione emergenziale lombarda e milanese non può ricadere tutta sul comportamento dei cittadini.

Lockdown rigido in Lombardia e a Milano. Il rischio di una nuova ondata è sentito in Lombardia con grande preoccupazione. Se in alcune città e parti d’Italia l’andamento è in costante discesa, infatti, qui le incertezze sui contagi sono ancora troppe. Per questo, un’ordinanza regionale ha mantenuto il più severo blocco nell’intero territorio lombardo. Qui, dunque, gli allentamenti decisi dall’ultimo DPCM di Conte non saranno adottati. Librerie e cartolerie resteranno chiuse. In più, le persone positive dovranno restare in quarantena per un periodo raddoppiato rispetto a quello attuale. Il coronavirus fa ancora molta paura in Lombardia e a Milano.

Coronavirus, a Milano dati stabili. Polemica Sala-Gallera su “troppa gente in giro”. Il nodo delle carenze su assistenza domiciliare e isolamento contagiati. Al netto delle diverse posizioni e dell'ennesimo capitolo del botta e risposta tra i possibili avversari alle elezioni comunali del 2021, l'unica certezza è che nel capoluogo lombardo i numeri del contagio non migliorano come si sperava, al netto delle oscillazioni che possono verificarsi nell'arco delle singole giornate. Il Fatto Quotidiano il 14 aprile 2020. Per l’assessore regionale Gallera la colpa è dei troppi cittadini che escono di casa, per il sindaco Beppe Sala i dati sui controlli dicono il contrario e “se qualcuno pensa che c’è troppa gente in giro, deve fare una una nuova ordinanza” per obbligare le persone a non uscire. Al netto delle diverse posizioni e dell’ennesimo capitolo del botta e risposta tra i possibili avversari alle elezioni comunali del 2021, l’unica certezza è che a Milano e provincia i numeri del contagio non migliorano come si sperava, al netto delle oscillazioni che possono verificarsi nell’arco delle singole giornate. Qualcosa, quindi, continua a non funzionare come dovrebbe. E mentre tra Regione e Comune continua il rimpallo di responsabilità, sul tavolo restano le falle del sistema sanitario e d’assistenza emerse nell’emergenza Covid-19: si va dal mancato isolamento delle persone positive al virus alla inadeguata assistenza domiciliare per le fasce più deboli della popolazione, fino all’enorme problema dei contagi interni alle famiglie.

Gallera: “Troppa gente in giro”. Sala: “Allora facciano una nuova ordinanza” – La polemica tra amministrazione comunale e Regione, tuttavia, segue altre strade. Ieri, commentando i dati relativi all’andamento del virus a Milano e nella provincia, l’assessore al Welfare Giulio Gallera ha fatto presente di ricevere molte lamentele “perché c’è ancora troppa gente in giro”, ricordando e ribadendo che i controlli non spettano al Pirellone. “Il dato è stabile, ma non scende con quella determinazione con cui dovrebbe soprattutto a Milano città. Bisogna essere ancora più incisivi anche per rispetto di chi la quarantena la rispetta” ha detto il braccio destro di Fontana. Un riferimento, quello all’eccessiva circolazione di persone, che non è piaciuto al sindaco Beppe Sala. Che a distanza di 24 ore ha replicato con il consueto video sulle sue pagine social: “Se qualcuno pensa che c’è troppa gente in giro, deve fare una cosa molto semplice: facciano una nuova ordinanza che tenga più persone a casa, tutto qui” ha detto il primo cittadino, che poi ha utilizzato i dati per confutare le parole di Gallera. “Ieri mattina sono stato in giro per la città con la Polizia locale a vedere come vengono fatti i controlli – ha spiegato – e il pomeriggio mi sono messo in casa a guardare i dati dei controlli di ieri e dei giorni precedenti: più del 95% delle persone fermate sono in regola – ha sottolineato – questa è la realtà. Mi dissocio da questa retorica del milanese indisciplinato che si fa gli affari suoi, non è così”. Sala poi ha avanzato una richiesta: più mascherine, “molti più tamponi” e i test sierologici. “Leggo che Regione Lombardia dichiara che dal 21 di aprile si faranno 20 mila test al giorno. Bene, dove? – ha chiesto Sala – In altre province ma non Milano. Ma come, il problema non è Milano? Rendiamoci conto, il nostro compito, il nostro credo deve essere quello relativo al prendersi cura, a partire dai più poveri, da chi sta in periferia o vive in una casa popolare, a partire dai nostri vecchietti nelle Rsa – ha concluso – Questo è quello che bisogna fare”.

Le mancanze: isolamento dei positivi e assistenza domiciliare – Per chi vive la realtà milanese e lombarda, però, sono anche e soprattutto altre le cose che “bisogna fare”. Al momento, infatti, non è stato predisposto un piano di isolamento e assistenza delle persone positive al Covid, il che comporta una serie di conseguenze. Se una persona è contagiata, infatti, rimarrà in quarantena per i 28 giorni prescritti dalle direttive regionali, ma in qualche modo dovrà anche nutrirsi. E qui si aprono due strade. Se vive con altre persone (la sua famiglia o altri tipi di conviventi) si affiderà a loro per la spesa e queste andranno al supermercato, in farmacia, faranno code, il tutto dopo essere state a contatto con il convivente positivo al Covid, il che fa aumentare a dismisura la possibilità che anche loro siano positive. E se la persona contagiata vive da sola? Dovrà provare a farsi consegnare la spesa a domicilio (ma i servizi dei vari supermercati sono stati sospesi o sono ingolfati dalle migliaia di richieste) oppure sarà costretto a scendere di casa per acquistare i beni di prima necessità, con tutto quello che comporta in termini di diffusione del contagio. Terza via: tenterà di rivolgersi a una rete di assistenza domiciliare. Che a Milano è affidata a volontari, alla solidarietà dei condomini e ad altre forme di umanità, non essendoci un sistema in grado di aiutare realmente le persone che vivono da sole. E che per questo motivo – specie se anziani o con altre patologie – rischiano di non nutrirsi a dovere, di restare disidratati e di non seguire i dettami dei protocolli sanitari, anche perché la figura del medico di base negli anni è stata caricata di troppi pazienti e poca libertà di movimento (per non parlare della mancanza di dispositivi di protezione individuale). Altra questione è quella dell’isolamento dei positivi. In Corea del Sud, paese all’avanguardia nella cura e nel contenimento del Covid, il vero argine al diffondersi del contagio è stato proprio il controllo capillare e la messa in sicurezza delle persone contagiate. In Lombardia, invece, i contagiati – per sintomi, perché i tamponi non vengono fatti ai pazienti a domicilio – come detto restano in casa, senza un protocollo di trattamento che vada oltre l’uso del paracetamolo, la possibilità di telefonare ai numeri di emergenza e col rischio di contagiare familiari e conviventi, anche perché non tutti hanno la possibilità di avere una camera e un bagno ad uso esclusivo.

Coronavirus Milano, troppa gente in giro: in aumento chi cerca di violare le regole. Gli esperti sono stati chiari: così si rischia una seconda ondata di contagi. Ma le persone continuano a uscire, soprattutto nelle ore serali. Negli ultimi due giorni oltre mille multati. Giorgia Baroncini, Giovedì 09/04/2020, su Il Giornale.  Nonostante i continui inviti da parte delle autorità, c'è chi continua a uscire di casa senza un valido motivo. Le strade si riempiono ogni giorno di più di persone poco responsabili che non si fanno problemi a violare tutti i divieti. Secondo il monitoraggio delle celle telefoniche agganciate dai telefonini, martedì, come comunicato dalla Regione Lombardia, la mobilità è salita al 40 per cento. Un dato, ha spiegato il vicepresidente Fabrizio Sala, "superiore di oltre il dieci per cento rispetto allo stesso giorno della scorsa settimana". Troppe persone in giro che credono di poter sfuggire ai controlli. Escono soprattutto nelle ore serali e il fatto "che alle 23 ci sia lo stesso dato dalle 19 oppure delle 20 lascia perplessi. Dobbiamo indagare, abbiamo intenzione di rilevare gli spostamenti in provincia e fornire i numeri ai prefetti". I furbetti non rispettano le regole e mettono tutti in pericolo. Se per le strade continua ad esserci un via vai di automobili e le persone affollano i marciapiedi si rischia seriamente una seconda ondata di contagi. Lo continuano a ripetere i medici che da settimane combattono il virus in prima linea negli ospedali. E, come riporta il Corriere, nei cicli delle epidemie la seconda ondata è più che devastante. I dati sulla mobilità a Milano riportano una situazione preoccupante. Prendendo come esempio sempre la giornata di martedì scorso, sui 14mila fermati e controllati delle forze dell'ordine, 547 sono stati multati. E il numero è salito il giorno dopo con altre 613 sanzioni a persone che non dovevano uscire di casa. Senza un motivo serio o un'urgenza, i cittadini devono restare nelle loro abitazioni. Questa è la regola base, ma c'è ancora chi non l'ha capita. Le forze dell'ordine sono impegnate senza sosta ma dalla città arrivano anche altri problemi. Uno è rappresentato dalle occupazioni delle case popolari. Famiglie che si impossessano di abitazioni altrui mentre i proprietari sono ricoverati in ospedale o, peggio, deceduti. Solo ieri mattina, la polizia ha denunciato una coppia italo-marocchina, entrata in un appartamento al Corvetto dopo la morte dei due anziani padroni di casa. Un altro problema riguarda i posti di lavoro. Su 3mila aziende aperte e controllate dalla Guardia di finanza, 40 sono state sanzionate per ammanchi nella procedura. La fase 2 sembra così ancora più lontana. Il rispetto delle regole è quanto mai fondamentale per evitare una seconda ondata di contagi. Finché però ci sono persone ammassate in casa a festeggiare le cose non cambieranno. Sono sette i 20enni scoperti in un'abitazione a brindare. Tutti sono stati denunciati.

Il tenero Gallera e quei cattivoni che stanno sempre in giro a Milano. Alessandro D'Amato il 14 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. “Molti ci dicono che c’è ancora troppa gente in giro. Avete perfettamente ragione. I controlli li fanno le forze dell’ordine e la polizia locale. Sono loro che devono garantire il fatto che le quarantene vengano rispettate e la gente non esca di casa. Noi interloquiamo costantemente sia con gli amministratori locali sia con le prefetture affinché siano molto capillari e rigidi nel fare tutto questo”: nella consueta diretta-televendita su Facebook ieri l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera ha continuato nella consueta arte di dare la colpa a qualcun altro quando le cose vanno male (la legge di Jones) in cui si è specializzata da più di un mese la Regione guidata da Attilio Fontana. Se quindi i numeri del Coronavirus SARS-COV-2 e di COVID-19 a Milano sono fuori controllo, questo dipende dai cattivoni che bighellonano sotto la Madunina senza soluzione di continuità: “Quello che spetta alla Regione è lavorare sul sistema sanitario, dare indicazioni, tenere i rapporti. Il controllo del territorio e la garanzia del rispetto della quarantena spetta alle forze dell’ordine e le polizie locali”. “Noi siamo consapevoli di quello che sta succedendo e richiamiamo tutti a stare in casa – ha aggiunto -. C’è un grande sforzo di tutti gli apparati ma come dicono i cittadini, bisogna essere ancora più incisivi perché c’è ancora troppa gente, e questo crea esasperazione per chi la quarantena la rispetta”. Eppure boh, i numeri non sembrano per niente confermare quello che sostiene Gallera. O meglio, sembrano dire l’esatto contrario. Quelli sulla mobilità nella regione dicono che sempre più persone rimangono a casa sempre per più tempo. Eppure i contagi in Lombardia non si fermano. Perché? Già, perché? Qualche elemento lo fornisce il direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità Giovanni Rezza: «Il distanziamento sociale ha attenuato gli effetti — dice Rezza — ma la situazione non è del tutto sotto controllo perché possono esserci diverse catene di trasmissione del contagio e luoghi dove le misure non vengono completamente rispettate. Famiglie? Condomini? Questi punti di domanda vanno sommati al fatto che stiano facendo più tamponi».

Coronavirus: perché i contagi in Lombardia non si fermano. Il direttore del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco, Massimo Galli, la spiega così: «A Milano sono state chiuse in casa moltissime persone già contagiate e tra le mura domestiche si sta creando il problema di ulteriori infezioni. Può darsi che alcune abbiano fatto capolino fuori, nelle sortite consentite per lavoro, ma tanti sono rimasti in quarantena senza tenere a distanza i familiari». Carlo La Vecchia, epidemiologo della Statale, ragiona sulla stessa linea: «Milano è stata chiusa un mese fa. Il fatto che ci siano ancora così tanti contagi riflette una serie di contatti in famiglia e un gran numero di infettati, magari con sintomi lievi, che esplode adesso». Il caso Milano preoccupa ancora il professor Galli «perché se hai tanta gente infettata in casa ti puoi aspettare ancora un flusso non trascurabile di persone che avrà bisogno di assistenza».

Coronavirus, l’indice di miglioramento (La Repubblica, 14 aprile 2020). Ma se non bastano gli esperti allora si possono ascoltare i malati. Repubblica ha sentito Camilla Invernizzi, 53 anni, amministratore delegato di ArtsFor, società di progetti di comunicazione:

Come vi siete regolati per la quarantena?

«Il numero verde della Regione aveva detto di lasciar passare 14 giorni dagli ultimi sintomi. Un amico medico ha consigliato al mio compagno di aspettare tre settimane prima di vedere i suoi figli: cosa che lui ha fatto. Anche io dopo tre settimane sono uscita di casa: sono andata a comprare le mascherine dal giornalaio a 4 euro l’una. Ho fatto la spesa. Adesso se ne vengono fuori dicendo che ci vogliono 28 giorni di quarantena. Chissà se nel frattempo abbiamo contagiato altri senza saperlo».

Siete ancora preoccupati?

«Siamo amareggiati per come è stata gestita questa epidemia. Le famiglie sono state lasciate sole e senza tamponi, sono arrivate informazioni poco chiare e contraddittorie, i rischi di contagio inconsapevole così si sono moltiplicati».

Oppure si potrebbero ascoltare i medici di famiglia, come ha fatto Gad Lerner: E allora, per capirci di più, bisogna ascoltare la voce dei medici di base lasciati per settimane senza strumenti di protezione e senza protocolli farmacologici adeguati. Quando li ho incontrati che facevano la fila in un hub di periferia per ritirare finalmente tre mascherine e tre flaconi a testa distribuiti dal Comune, i loro racconti spiegavano molto: malati rimasti a casa che contagiano i familiari. E in assenza di consegna di pacchi alimentari a domicilio, tante madri di famiglia che vanno a fare la spesa portandosi dietro il virus invisibile. Basta conoscere i cortili interni dei casermoni di periferia, dove si affolla una popolazione di ragazzi rimasti senza scuola e di adulti disoccupati, per intuire quali siano i veicoli inconsapevoli del contagio. Se ci aggiungete gli spostamenti di centinaia di migliaia di persone che continuano a spostarsi per lavorare, diventa più facile comprendere su quali gambe incede l’epidemia. Troppo comodo scaricare la responsabilità sui milanesi indisciplinati che vanno ancora in giro, o addirittura sulla presunta indulgenza delle forze dell’ordine, come fa l’assessore regionale Gallera. Smettiamola di dare la colpa ai runner o ai proprietari di cani. Non ci crede più nessuno. Il contagio avanza nelle case, si trasmette nelle famiglie numerose e nei luoghi di lavoro. Tutto questo serve per capire che se Milano e la Lombardia sono i grandi malati d’Italia, è il medico pietoso che fa la ferita infetta. 

Milano, basta accanirsi sulla “troppa gente in giro”: solo il 2,6 per cento non è in regola. Dagli ultimi controlli delle forze dell’ordine sul rispetto delle misure di contenimento per l’emergenza Coronavirus emerge un dato inconfutabile: a Milano solo il 2,6 per cento delle persone controllate non è in regola. Basta dunque accanirsi contro la “troppa gente in giro” per giustificare il mancato calo dei contagi: il problema sono semmai le troppe aziende che hanno riaperto, o quelle che non hanno mai chiuso. Francesco Loiacono su milano.fanpage.it il 15 aprile 2020. "C'è troppa gente in giro" a Milano. Una frase che avrete sentito ripetere spesso, negli scorsi giorni, talvolta utilizzata anche per cercare di giustificare il fatto che i casi di Coronavirus in città non sembrano rallentare come altrove in Lombardia. Ultimamente l'argomento è stato anche fonte di una polemica a distanza tra l'assessore al Welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera, e il sindaco di Milano Beppe Sala, che aveva respinto al mittente l'accusa invitando nel caso la Regione a fare una nuova ordinanza per contenere ulteriormente gli spostamenti dei milanesi. Ma lo stesso sindaco, non troppo tempo fa, aveva chiesto alla polizia locale e alla prefettura più controlli perché "c'è oggettivamente troppa gente in giro".

Dai controlli emerge un dato inconfutabile: pochissimi quelli non in regola. Eppure, proprio dai controlli chiesti a gran voce contro i "furbetti della quarantena", tra runner incalliti e irriducibili delle passeggiate, si evince come siano pochissimi quelli che non rispettano le regole. Il dato fornito dallo stesso sindaco Sala (che evidentemente ha cambiato idea sull'argomento, visto che oggi ha anche condiviso una classifica stilata dall'Economist che pone Milano in cima alle città più rispettose dei divieti in tutto il mondo) era di un 5 per cento di irregolari. Ma l'ultimo dato diffuso dalla prefettura e relativo alla giornata di ieri, martedì 14 aprile, è ancora più basso: su 25.003 persone controllate, solo 666 sono state multate con una sanzione da 400 e 3000 euro per il mancato rispetto delle misure di contenimento. In termini percentuali, si tratta del 2,6 per cento delle persone controllate. Ancora meno, appena 4 persone, quelle che sono state denunciate per una violazione però più grave, ossia non aver rispettato la quarantena anche se positivi.

Se la gente in giro è troppa è perché poche aziende sono chiuse. In un mondo ideale, certo, sarebbe bello se tutti rispettassero la legge e restassero a casa. Ma in ogni caso il dato, bassissimo, relativo a chi non rispetta le misure di contenimento dimostra come il problema dell'incremento dei contagi non risieda (solo) in chi, anziché restare a casa, va in giro senza motivo. Ma quindi, direte voi, in giro a Milano non c'è nessuno? Qui la questione si fa diversa, e per certi versi interessante. Perché la percezione che ci sia "troppa gente in giro" può anche essere dovuta al fatto che, effettivamente, a Milano sono troppe le persone che non sono a casa, ma per un giustificato motivo. Per lavoro, sostanzialmente. Da ieri, con la parziale riapertura del lockdown (che ha interessato anche la Lombardia, nonostante l'ordinanza regionale sia in apparenza più rigorosa), secondo una stima della Cgil circa 60mila persone in più sono tornate al lavoro in tutta l'Area metropolitana. In totale sono circa 580mila i lavoratori dipendenti al lavoro, a cui si aggiungono 80mila lavoratori impegnati nel settore dei lavori domestici. Purtroppo non si sa con certezza (dalla Regione non arrivano risposte in tal senso) se anche parte di questo esercito di lavoratori finisca tra i nuovi contagi, oppure se gli stessi riguardino operatori sanitari, persone che si contagiano in casa, anziani ospiti delle Rsa. Quel che è certo è che non ci si può accanire contro la troppa gente in giro, per giustificare la mancata decrescita dei casi (e i morti che aumentano in maniera drammatica). Perché si tratta di gente "costretta" ad andare a lavorare da qualcun altro. Magari gli stessi che li accusano di essere i nuovi untori. Francesco Loiacono

Strade affollate e tutto aperto: quel 7 marzo a Bergamo, video-reportage alla vigilia dell’inferno (di S. Lucarelli). Tredici giorni fa, in piena emergenza, la città appariva così. In provincia, invece, c'era già la paura del contagio. Selvaggia Lucarelli il 20 Marzo 2020 su TPI. Quando ci si chiede come sia stato possibile che a Bergamo si sia arrivati a 11 pagine di necrologi, come sia stato possibile che l’esercito abbia dovuto portare via le salme perché non si riuscivano più a cremare i corpi, come sia stato possibile che la Lombardia tutta sia diventata un lazzaretto, non bisogna partire da lontano. Bisogna partire da vicino. Da 13 giorni fa, per esempio. Cosa accadeva nel più grande focolaio d’Italia con quello del Basso Lodigiano, ovvero Bergamo e la Val Seriana quando ormai il Coronavirus era un’emergenza nazionale? Nulla che si possa neppure paragonare a quello che è accaduto a Codogno e i comuni limitrofi, comprese le più grandi Lodi e Crema. Se infatti il basso lodigiano è diventato immediatamente zona rossa così come Vo’ Euganeo in Veneto, il 7 marzo, a poche ore dal decreto del governo che avrebbe reso zona rossa tutta la Lombardia, tra i comuni di Alzano, Nembro, Albino in cui era scoppiato un micidiale focolaio e la città di Bergamo, c’era una differenza impressionante. Nei primi si respirava l’aria del coprifuoco imminente, del lutto che era già entrato nelle case, della paura di uscire e di ammalarsi. A Bergamo Alta, a 10 minuti di macchina da quei comuni e quel focolaio, sembrava un giorno qualunque: negozi aperti, bar e ristoranti con gente che pranzava all’aperto, persone sedute sui gradini. Una Bergamo che non voleva fermarsi, distratta, forse inconsapevole. Viene da chiedersi come sia stato possibile che quello che già accadeva negli ospedali della città e dei comuni limitrofi non fosse già abbastanza per chiudere tutto e chiedere con forza ai cittadini di rimanere in casa. Quando l’emergenza Coronavirus finirà qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di tante scelte sciagurate e chiarire i perché, fermo restando che con ogni probabilità quei perché si trovano tutti nell’intervista al signore di Nembro, quello che nel video dice senza esitazione: “Finchè è aperto il cantiere di Luna Rossa, qui noi sappiamo che questi comuni zona rossa non lo diventeranno mai”. E così è stato.

·         Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Secessione, la previsione di Vittorio Feltri: senza fretta ma prima o poi il Nord lascerà l'Italia. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 aprile 2020. Stupefacente il titolo de la Repubblica di ieri: "Italia, quanta fretta". Dopo due mesi di detenzioni, cosa mai successa a memoria di vivente, mi sembra normale che i reclusi ne abbiano piene le scatole, non tanto di stare barricati tra le mura domestiche, quanto di non poter lavorare e guadagnarsi il pane che inizia a scarseggiare. Qui al Nord in particolare la gente è impaziente: non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi. Tra l' altro, in vari Paesi flagellati quanto il nostro dal virus si è ricominciato o si sta ricominciando a produrre sotto la spinta della necessità.  Non si capisce per quale motivo i compatrioti debbano essere accusati di avere le fregole, cioè ansia di ripartire per la libidine di recarsi in cantiere o in ufficio. Queste sono fandonie spacciate per analisi sociologiche, mentre la realtà è che un popolo operoso e generoso quale quello settentrionale desidera soltanto rimpadronirsi delle proprie redini e continuare nella propria esistenza di persone perbene, non di gregari. La mentalità corrente specialmente al Sud è nota: il Meridione è una terra affascinante e ricca di umanità, invece la Pianura padana e le Prealpi sono abitate da uomini e donne che puntano solo al denaro, fregandosene degli stornellatori. Il loro Dio sono profitto e fatturato. Luoghi comuni, pregiudizi che rivelano una preoccupante mancanza di informazioni esatte oltre che di cultura autentica. I "nemici" nostri però non devono esagerare, perché prima o poi i bollenti spiriti bossiani rischierebbero una nuova edizione. Monta a Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso eccetera la ribellione alla dittatura romanfoggiana. Nelle succitate zone è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni, prende corpo la minaccia di non fornire più un euro agli spreconi che amministrano male lo Stato. Il primo ad aver lanciato l' allarme è Fedriga, governatore leghista del Friuli, il quale ha dichiarato di tagliare l' invio nella Città eterna di qualsiasi contributo. Ha talmente ragione che a lui si sono uniti subito, nel nobile intento di fottersene del governo, il Trentino e l' Alto Adige. Manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico. Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata.

Feltri e Senaldi: “Al nord si vuole lavorare, non si suona il mandolino”. Salernonotizie.it il 19 Aprile 2020. “Le parole diffuse pubblicamente da Feltri in un editoriale e Senaldi in Tv fanno rabbrividire. Hanno dichiarato che il Nord “vuole riaprire per lavorare, non suonare il mandolino” e che “il Sud non si pone il problema perché non ha aziende”. Affermazioni di una gravità inaudita, che denotano un razzismo e cialtronismo estremo, oltre ad essere insensate e prive di alcun fondamento. Gente come loro camminerebbe sui cadaveri pur di far soldi. Solo la Lombardia ha il 94% dei nuovi malati da Covid in Italia, hanno infettato una nazione a causa di politiche irresponsabili. E questa gente, invece di chiedere scusa, si sente in diritto di dare lezioni a chi, come le regioni del sud, ha impedito il dilagare del virus e dei morti. Pensassero alle loro colpe, agli errori fatti, prendessero esempio dalla Campania, che sta svolgendo un lavoro egregio, piuttosto che diffamare gratuitamente il mezzogiorno d’Italia come fanno da settimane per nascondere la propria incapacità”. E’ quanto dichiarato da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi e il conduttore radiofonico Gianni Simioli in merito alle ennesime affermazioni discriminatorie di Feltri e Senaldi.

Forgione travolge Feltri: "Minacce da Bergamo. Nonno Vittorio ha fretta di riaprire la Lombardia". Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato il recente articolo di Vittorio Feltri su Libero. Areanapoli.it il 19 aprile 2020. "Minacce da Bergamo", Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato con un post sui social il recente artico di Vittorio Feltri su Libero nel quale si augura una presta ripartenza della Lombardia. Ecco le parole di Forgione: "Dalla sua scrivania orobica, il giornalista infeltrito scrive per il suo giornale di fretta di riaprire la Lombardia, la regione che ha fatto danni perché non aveva alcuna fretta di chiudere, anzi, alcuna voglia. Bisogna riaprire in fretta, magari procurando altri problemi, e poi, senza fretta, lasciare l'Italia. Ci racconta, nonno Vittorio, che la gente è impaziente per riprendere a guadagnare, "in particolare al Nord", come se altrove si campi d'aria, e la pensa esattamente così chi scrive che "non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica". Dice che l'umanità dell'affascinante Meridione e la bramosia di denaro della Pianura Padana e delle Prealpi sono solo luoghi comuni, lui che per i luoghi comuni sui meridionali ha reso noto se stesso e il suo giornale". Forgione prosegue: "Avverte che lassù, tra le valli lombarde e venete, monta "la ribellione alla dittatura romanfoggiana"; insomma, una ritorno agli slogan della Lega Nord riposti per convenienza nel cassetto dal furbacchion Salvini. Informa che "manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico". E conclude minacciando il Sud, che senza il Nord andrebbe "a ramengo" e farebbe "una brutta fine, per altro meritata". Echi che arrivano da Bergamo, una delle città che più soffrono e che merita la solidarietà di tutti a prescindere, anche per la sfortuna di essere rappresentata da qualche incompetente che ha scherzato con il virus e pure da certe penne, capaci di condizionare l'opinione delle persone meno libere di pensiero, di dividere e alimentare la debolezza del Paese. Ma che, non va dimenticato, resta pur sempre "la Città dei Mille", il centro italiano che più di tutti ha contribuito ad armare Garibaldi affinché invadesse il Sud. Prima hanno voluto che si facesse quest'Italia di colonizzatori e colonizzati e ora, una volta spremuto il limone, minacciano di dividerla. Senza fretta, però, non sia mai che il Sud smette di comprare merci e servizi del Nord. Finisce che il Nord va "a ramengo" appresso al Sud. Senza fretta, nonno Vittorio".

L’originale editoriale di Feltri: “Al Nord non si suona il mandolino, bensì si torna in fabbrica”. La risposta di Troisi: “A Napoli tutte queste chitarre e mandolini che camminano in strada sono pericolose”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Abbiamo capito da tempo. Il Quotidiano Libero per tentare di vendere qualche copia in più e motivare le truppe secessioniste, evidentemente, legate alla prima Lega quella dell’ideologo Gianfranco Miglio ogni tanto – ormai è un classico decadente – affida a Vittorio Feltri, il solito editoriale aterosclerotico domenicale. Questa volta il direttore – sul cui capo pendono diversi provvedimenti disciplinari – allieta i suoi lettori con l’articolo: “Senza fretta, ma il Nord se ne andrà”. La minestra è riscaldata, l’approssimazione tanta e la trama è maliconicamente sempre la stessa: Un Nord operoso ed efficiente, un Sud che non vuole fare un emerito cazzo. “Qui al Nord in particolare la gente è impaziente, non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza – scrive Feltri – Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi”. Soliti luoghi comuni, frasi fatte, rappresentazione retorica di un Sud e un Meridione nullafacente. Quel “suonare il mandolino” porta dritto a Napoli, uno strumento musicale che, non tutti sono in grado di suonare, della grande tradizione partenopea. Vittorio Feltri non lo sa, ma il napoletano prova simpatia per un tipo come lui : quei capelli canuti, l’essere un po’ burbero, con la puzza sotto al naso, antipatico al punto giusto e che guarda dall’alto verso il basso con la parlata da profondo "Norde". Un personaggio perfetto per mettere in atto qualche consiglio del saggio Don Ersilio (Eduardo De Filippo) dell’Oro di Napoli. La faccenda si chiuderebbe con un ‘pernacchio’ di cuore e di testa che tradotto suona : “Tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schiefezza ‘ra schifezza ‘e l’uommn. Mi spiego?”. Ma sembra una risposta troppo scortese allora meglio prendere in prestito una riflessione di Massimo Troisi che ospite di Pippo Baudo a metà degli anni Ottanta – parliamo di 35 anni fa – risponde alla sua maniera agli obsoleti luoghi comuni. “A Napoli la gente continumante suonano e cantano infatti in mezzo alla strada tutti quanti camminano con i mandolini e le chitarre. Vanno avanti e indietro eppure questo è difficoltoso: immagina nei pullman, negli uffici con queste chitarre e mandolini diventa pericoloso. Il manico della chitarra è pericoloso per i bambini principalmente perchè urta e gli danno il manico sempre dietro la testa”. Arn.Capez.

La controffensiva del Nord continua: “Il Sud cosa deve riaprire? Non ha aziende”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Una controffensiva contro il Sud d’Italia. Il livore si sta trasformando in un odio cieco, c’è una strategia ben orchestrata per mettere pezzi d’Italia dilaniati dal virus uno contro l’altro. Pietro Senaldi, direttore del Quotidiano Libero, degno alunno ma senza talento del suo maestro Vittorio Feltri, ospite della trasmissione ‘Stasera Italia’ in onda su Retequattro ha spiegato perchè le regioni del Nord scalpitano e vogliono la fine del lockdown a differenza, invece, del Mezzogiorno d’Italia. “La Lombardia che paga il 25% di tasse è la regione economicamente più attiva si ponga questo problema”. “Il Sud mi sembra normale che non si ponga il problema ormai non ha più aziende, aveva l’Ilva e gliel’hanno levata. Che cosa deve riaprire?” La controffensiva contro le regione del Mezzogiorno d’Italia continua e qualche manina vorrebbe scippare anche la quota del 34% di investimenti pubblici riservati al meridione per finanziare la ripresa economica del dopo Covid19 al Nord, epicentro della pandemia da Coronavirus. Arn.Capez.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2020. Barbara Lezzi è una signora di Lecce, la più bella città pugliese, dotata di un barocco talmente affascinante da togliere il fiato. Ma Barbara, ex ministro per il Sud nel primo governo Conte, opportunamente trombata dal premier, si è appunto rivelata indegna di presiedere un dicastero e ora passeggia nell' area parlamentare priva di un compito fisso. Tuttavia ella continua a far parte della banda grillina, ridotta ai minimi termini, dai cui seggi conferma di rendersi inutile, anzi dannosa. Senza contare le sue apparizioni televisive durante le quali sputa sentenze sprovviste di qualsiasi logica politica. Poveraccia, va capita. Come tutti coloro che non hanno una adeguata preparazione culturale, Lezzi riempie i suoi discorsi di banalità, quando va bene, e di minchiate solenni quando va male. A suo tempo la pugliese si impegnò a occuparsi di Ilva e ci risulta che non sia riuscita a combinare niente poiché niente sa fare, tranne che straparlare. D'altronde, pure sabato sera la meridionale, che non è una colpa ma un dato di fatto, si è lanciata in una serie di sproloqui sconditi di sugo eppure zeppi di livore gratuito. Ha aggredito il direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, dicendogli che il suo giornale è letto da quattro gatti, quando invece trattasi di uno dei pochi quotidiani in grado di guadagnare copie nonostante il mercato della stampa sia da anni in crisi. La donna è disinformata, il che non stupisce, considerato il suo livello di istruzione, ed è normale che ignori i temi dei quali discetta a ruota libera, come se anziché in uno studio televisivo fosse seduta sulla poltrona della propria parrucchiera. Misera, immaginando di suscitare uno scandalo, ha affermato che l' editore del foglio che leggete sia Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, mentre, viceversa, la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola. Allorché la sprovveduta Lezzi ha poi incautamente sottolineato, rivolgendosi a Senaldi, che Libero incassa le provvidenze pubbliche, ha pestato una cacca gigantesca, in quanto se ce n' è una che riceve mensilmente l' indennità elargita dallo Stato, questa è proprio lei. Siamo al bue che dà del cornuto all' asino. L' inettitudine dell' onorevole grillina è talmente crassa da lasciare allibiti. Barbara è inconsapevole che la stampa di tutta Europa è sostenuta dai governi di ciascun Paese, non per generosità, bensì perché non esiste democrazia se si uccide la libertà di pensiero espresso dai giornali. Senta, Lezzi della malora, prima di aprire bocca se la sciacqui. Quanto alla conduttrice del programma andato in onda su Rete 4, tale Veronica Gentili, quella che mi ha definito ubriacone tempo fa, pur essendo lei balorda e incapace, ha tentennato di fronte alle scorrettezze della parlamentare e si è limitata a bofonchiare. Dio le crea e il diavolo le appaia. Mi auguro che la rete berlusconiana possa rimediare.

Dagospia il 20 aprile 2020:

Vittorio Feltri, Twitter 2:29 PM - Apr 20, 2020: Tagadà non è una brutta trasmissione: è una boiata pazzesca. Tiziana Panella è bravissima nel distillilare banalità impressionanti.

Vittorio Feltri, Twitter 2:13 PM - Apr 20, 2020: La vita in diretta fa più schifo di quella registrata.

Vittorio Feltri, Twitter 2:09 PM - Apr 20, 2020: Diario di casa è un programma tv in onda ogni giorno alla ore 14 condotto da un uomo e una donna. È dedicato ai bambini chiusi in casa. Trasmette idiozie raccapriccianti che rompono i coglioni più del virus.

Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.

Caro Feltri, non proverai mai l’onore di essere del Sud. Anna Rita Leonardi de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Caro Feltri, sono calabrese e fiera di esserlo. La famiglia di mia madre è calabrese, quella di mio padre è per metà sicula e per metà pugliese. Vivo in provincia di Salerno da 3 anni, con mio marito. In gioventù ho abitato 5 anni a Napoli, mentre studiavo e lavoravo. I miei due bimbi piccoli sono nati a Napoli. Io e mio marito abbiamo scelto di farli nascere lì perché volevamo che il loro primo respiro fosse nella città più bella del mondo. Volevamo sapere che, ovunque li porterà la vita, potranno sempre dire con orgoglio “sono nato/a a Napoli!“. Napoli è arte, storia, cultura, forza, bellezza. Ma non solo Napoli. Nelle loro vene scorre sangue calabrese, pugliese, siciliano, campano. Ed è un sangue meraviglioso. Uno di quelli che la gente come te non potrà mai capire. A te, quindi, che auguri a noi meridionali di fare “una brutta fine” dico: ti compatisco e provo pena per te. Perché tu, l’onore di essere DEL SUD, non lo proverai mai!

Feltri shock contro il Sud: «Ciucciate quattrini ai lavoratori del Nord, farete una brutta fine». Leggo.it Martedì 21 Aprile 2020. Il direttore di Libero Vittorio Feltri non è nuovo a provocazioni pungenti, ma stavolta le sue parole non sono passate inosservate: in un editoriale scritto due giorni fa sul suo giornale infatti, Feltri parla di una nuova divisione tra Nord e Sud dopo questa pandemia di coronavirus. Una pandemia che ha visto il Nord contare a migliaia contagi e vittime, mentre il Sud, fortunatamente, è riuscito a contenere i numeri anche grazie al lockdown. «Qui al nord la gente è impaziente - scrive Feltri - non riscuote più lo stipendio, i risparmi si sono esauriti. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, ma di tornare in fabbrica». «Un popolo operoso e generoso come quello settentrionale desidera solo rimpadronirsi delle proprie redini e continuare la propria esistenza di persone perbene», aggiunge Feltri. Poi l’attacco al Sud: «La mentalità corrente è nota, il Meridione è terra affascinante e ricca di umanità mentre la Pianura Padana e le Prealpi sono abitate da uomini che puntano solo al denaro». «Luoghi comuni» e «pregiudizi», secondo Feltri. «A Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso, scrive, è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni». «Attenzione, manutengoli ingordi - conclude riferendosi alle regioni del Sud - a non tirare troppo la corda, poiché correte il pericolo di rompere il giochino che finora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata».

Vittorio Feltri: "Coronavirus o no, l'Italia non cambia". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 aprile 2020. Leggo vari interventi sui giornali e apprendo che il virus in ogni caso cambierà il nostro modo di essere e vivere. Saremmo di fronte a una sorta di rivoluzione, che fa rima con mutazione. Gli italiani si starebbero preparando ad avere rapporti sociali del tutto nuovi, non più quelli di una volta. Può darsi, tutto è possibile, tuttavia al momento scorgo segnali opposti: i vizi nazionali negli ultimi due mesi si sono confermati e addirittura consolidati. L' Italia era ed è rimasta un insieme di genti e non dispone di un popolo omogeneo e solidale. Non è una nazione bensì un agglomerato di comuni che faticano a riconoscersi in una patria e perfino in una regione. Il Sud gioisce e fa pernacchie al Nord, felice che i settentrionali siano stati massacrati dal virus assassino. I meridionali interpretano questa congiuntura come un giudizio universale. Pensano - scrivono e cantano - con gaudio che la giustizia divina ha regolato conti in sospeso da secoli. «Che meraviglia vedere i polentoni che annaspano nelle sale della terapia intensiva. Quanti morti ieri a Milano? 800? Buona notizia. A Napoli solo 200. Ovvio, noi partenopei siamo migliori, moralmente più saldi, non adoriamo dio Soldo ma, al massimo, San Gennaro». Altro che unità Nazionale. Godiamoci la vendetta e suoniamo il mandolino a festa. Vincenzo De Luca proclama di voler sigillare i confini della Campania. Fa bene. Li chiuda per sempre, però non solamente in entrata, piuttosto anche in uscita, così la smettiamo con le polemiche sterili. Il governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga, annuncia di bloccare il trasferimento dei proventi fiscali a Roma. Se li tiene per sé e i suoi corregionali. Ottima idea. Se la sposano pure il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, i signori del Mezzogiorno cesseranno di festeggiare i trionfi del Covid. Come si vede i costumi sono immutabili. Ci sarà un perché. Si sostiene che ai primi di maggio ci sarà una ripartenza economica in tutta la Penisola. Non ci credo. Ogni regione ha le proprie peculiarità e i propri problemi non solo sanitari, ciascuna di esse merita una considerazione particolare. Perché le nostre caratteristiche sono diverse dalle Alpi a Palermo. Il governo non si illuda che uno valga uno, a volte uno vale 5 oppure zero. Giuseppe Conte gira il mondo, si è recato dappertutto meno che a Bergamo e Brescia, convinto forse che queste due città siano bavaresi, dato il loro reddito. Egli se ne frega del Settentrione, crede che sia Centocelle, una periferia indegna di attenzione. Oggi quanto ieri e dieci anni fa, la locomotiva finanziaria italiana è importante solamente allorché si tratta di delapidarla. Da queste parti si è svolto un referendum a favore dell' autonomia, che ha stravinto, eppure Roma ha fatto spallucce per non mortificare sé medesima e i meridionali in bolletta e quindi bisognosi degli oboli di Milano e vasti dintorni. Ma andate a morire ammazzati.

Trapani: "Coronavirus, sintesi su Napoli e i napoletani visti da Feltri, Sgarbi, Merlino, Mentana e...". Il giornalista e scrittore ha fatto una sintesi su quanto detto da alcuni personaggi tra politici e giornalisti sulla città di Napoli in relazione all'emergenza. Areanapoli.it il 21 aprile 2020. Paolo Trapani, giornalista e scrittore napoletano, attraverso la propria bacheca di facebook, ha fatto un riassunto su quanto accaduto fin qui da quando è iniziata ufficialmente l'emergenza coronavirus in relazione all'approccio avuto dagli organi di stampa nei riguardi della città di Napoli. Ecco quanto si legge: "Marzo/aprile 2020, breve sintesi su Napoli e sui Napoletani secondo la visione di alcuni 'autorevolissimi' scienziati. Napoli abitata da fannulloni che suonano il mandolino (Feltri). Napoli che non pensa a lavorare perché non ha aziende da riaprire (Senaldi). Napoli amministrata con rigore altrimenti i napoletani non rispetterebbero le regole (Sgarbi)". E poi: "Napoli senza eccellenze, perché in fondo il ''Tocilizumab di Ascierto'' già lo conoscevano ma non lo usavano (Galli). Napoli affollata che si svuota, sfortunatamente, all'arrivo delle telecamere (Biggioggero). Napoli che deve ringraziare la Lombardia se il virus non ha raso tutto al suolo, mica il senso civico e i sacrifici dei suoi cittadini (Gallera). E se a Napoli nasce il primo Covid-center da campo, il primo protocollo sperimentale e vi è il primo ospedale pubblico a contagio zero tra medici ed operatori sanitari è una casualità, ovviamente, perché a Napoli ogni tanto c'è ''anche'' una ''sorprendente'' eccellenza (Mentana e Merlino)".

Articoli Feltri, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti scrive a de Magistris: "Chiedo io scusa". La lettera di Carlo Verna al Sindaco di Napoli alla luce degli ultimi articoli del giornalista di Libero. Redazione napolitoday.it il 21 aprile 2020. Il presidente del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti Carlo Verna ha scritto al sindaco di Napoli Luigi de Magistris in merito alle recenti polemiche innescate dagli articoli di Vittorio Feltri e Libero. "Sono nato in uno storico palazzo nel cuore di Napoli - scrive Verna - in via Foria dove Luciano De Crescenzo girò diverse scene del suo famoso 'Così parlò Bellavista'. In quell’edificio dove campeggia uno stemma in cui si legge 'numquam retrorsum', giammai indietreggeremo, non ci sono ascensori. Ma il Professore ne simulò scenograficamente l’esistenza per una scena sublime. La coesistenza obbligata nel buio e nel silenzio del napoletano e del milanese (interpretato dall’impareggiabile attore meneghino Renato Scarpa) che si guardavano con sospetto e che all’improvviso incontrandosi scoprirono reciprocamente un filo  umano che li univa molto più resistente degli stereotipi divisivi, facendo scoccare la scintilla dell’amicizia. Un sentimento che deve estendersi in questi giorni di una prova difficilissima. Napoli è Milano, Milano è Napoli, Italia, Europa (nonostante le spine), mondo, umanità. Quei tanti morti lombardi per lo spirito di Bellavista sono i nostri morti. De Crescenzo è stato Napoli, Feltri non è Milano, non lasciamoci trascinare fuori da quell’ascensore. Se non si sale si scende così come Papa Francesco sottolinea che chi non progredisce regredisce". "Perché scrivo, perché me ne occupo a costo di apparire sdolcinato? Cambio subito tono, assumendo le vesti di presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, che si ritrova tra gli iscritti questo nome (Vittorio Feltri, ndr) noto anche per la sua capacità di essere urticante, in passato pure in maniera brillante ma negli ultimi tempi fuori dalle righe e meritevole di ampie reprimende come seminatore d’odio. In tanti scrivono per sollecitare di metterlo fuori della nostra comunità professionale. Si può fare attraverso un regolare procedimento guidato da un autonomo consiglio di disciplina. È competente quello del luogo dove il giornalista è iscritto, ovvero nel caso specifico quello della Lombardia, che naturalmente deve essere attento sempre nelle sue pronunce alle libertà garantite dall’art. 21 della Costituzione, anche se sottolineo il principio di non discriminazione insito nell’art.3 noto per sancire l’uguaglianza, e ai giuristi indicherei la strada della valutazione della cosiddetta legge Mancino. È lo stato diritto che dal 2012 ha voluto la separazione dei poteri anche nell’ambito degli ordini professionali. Con chi giudica nessuno può interferire. Sarebbe come chiedere conto a un Presidente del consiglio dell’azione, dell’omissione o della fondatezza della pronuncia di un magistrato. Non si può fare. Posso solo chiedere scusa a mio nome e a quello della stragrande maggioranza di colleghi che hanno lo stesso tesserino di Feltri, per il reiterato atteggiamento di vacua ostilità. Lo trovo indegno ma mi adeguo e amo Milano come Napoli, di cui sono sempre rimasto orgoglioso cittadino. Con Luciano e Renato accendiamo le due candeline nel silenzio dell’ascensore, come nel film, distanti dal rumore di Vittorio", conclude Verna.

Feltri e Sgarbi, sui "mandolini" di Napoli rispose già Massimo Troisi. La stilettata di Dario Sarnataro. Dopo le polemiche per le parole di Feltri e Sgarbi nei riguardi dei napoletani, il collega del quotidiano Il Mattino ha ricordato le perle di Troisi. Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 aprile 2020. "C’è chi ha (aveva) classe e ironia e chi invece continua ad alimentare odio e divisioni (anche in questo momento drammatico), vomitando parole infeltrite nel disprezzo e negli stereotipi più banali. L’uomo non cambierà mai...". Questo il commento di Dario Sarnataro, giornalista del quotidiano Il Mattino e speaker di Radio Marte. Una stilettata - evidentemente - nei confronti di Vittorio Feltri, direttore di Libero il quale nelle scorse ore ha dichiarato: "Il Nord vuole riaprire per lavorare, non per suonare il mandolino". Vittorio Sgarbi, invece, dopo aver sostenuto in diretta che "i napoletani non rispettano le regole", ha chiarito che intendeva dire "regole insensate, non è un attacco a Napoli". Dario Sarnataro ha anche ricordato, a corredo delle sue parole, la maestria con cui il grande Massimo Troisi smontò i luoghi comuni su Napoli nel noto film "No grazie, il caffè mi rende nervoso", ma anche in una storica intervista rilasciata a Pippo Baudo. Insomma, passano gli anni, ma gli stereotipi sono ancora somari di battaglia (non ce ne voglia il povero ciuco, che non ha la classe del cavallo) cavalcati da pseudo intellettuali patentati. Non ce ne voglia Troisi - che ci ha lasciati nel lontano 1994 - se il suo nome lo accostiamo a personaggi discutibili. Purtroppo passa il tempo e alcuni ancora insistono alzando muri di ignoranza mirabilmente demoliti con ironia dal fuoriclasse Sangiorgese più di 30 anni fa.

Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud: Vergogna! Su rete 4 continua la campagna infamante verso la Campania. di Carolina D'Avino il 22 Aprile 2020 su 21secolo.news. In prima serata il direttore di Libero, Feltri, si esibisce in una serie di offese verso il Sud e nello specifico contro la Campania. Il pretesto usato stavolta è la dichiarazione del governatore della regione Campania De Luca, il quale aveva annunciato, nei giorni scorsi, di trincerare la Campania se le regioni del Nord riaprissero prima della fine dell’emergenza sanitaria. A “Fuori dal Coro” intervistato dal collega Mario Giordano, il Direttore Feltri, già tristemente noto per la sua ideologia verso i meridionali, si lancia senza pietà contro la Campania. La canzone è dalle strofe conosciute, perchè cantate già dallo stesso governatore della Lombardia Fontana: bisognerà chiudere le porte a chi si reca in Lombardia per farsi curare. Nessun accenno ai tanti meridionali che sono la forza lavoro delle imprese del Nord, né ai tanti precari della scuola che ogni anno si recano in Lombardia, Piemonte, Veneto ecc., perchè vi è penuria di insegnanti. Feltri, però, rincara la dose e dopo aver detto senza giri di parole, che mai si recherebbe in Campania, aggiunge che non avrebbe motivo di farlo perchè vorrebbe dire poter fare solo il posteggiatore abusivo. Se anche questo non bastasse, chiude la sua invettiva affermando che i Campani sono a suo avviso inferiori. Disinteressato al parere di chi ascolta, quando Giordano gli fa notare che le sue parole potrebbero offendere chi ascolta, risponde di essere abituato a querele e denunce. Il presentatore si dissocia ma ormai il dado è tratto. Visto il passato del direttore di Libero la cosa potrebbe anche passare inosservata, se non fosse che episodi di questo genere si verificano ormai tutti i giorni e su tutte le reti, dalla Rai a Mediaset passando per La7. Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud, altro che belle speranze che questo virus apocalittico ci renderà migliori. Uniti sui balconi, cantiamo un Inno Nazionale di cui ignoriamo il testo, che si riporta testualmente:

“Noi fummo da secoli

Calpesti, derisi,

Perchè non siam popoli,

Perche’ siam divisi“

e nel frattempo continuiamo a diffamare quel Sud raccontato come fanalino di coda di un Nord industriale, quando invece spesso è la mente di quel motore, senza il quale il braccio non potrebbe funzionare. Una pagina, l’ennesima, che fa vergogna all’Italia. Inconcepibile che nel 2020 si debba ancora ascoltare in Tv, in prima serata, un racconto vecchio e incompleto.

De Crescenzo: "Qualcuno fermi Feltri, è istigazione all'odio razziale. Denuncia e mail agli sponsor". Il noto professore ha replicato alle dichiarazioni del direttore di Libero che ha definito i "meridionali inferiori nella maggior parte dei casi". Redazione di areanapoli.it il 21 aprile 2020. Gennaro De Crescenzo, napoletano, laurea in lettere, docente di italiano e storia, giornalista, saggista, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e fondatore nel 1993 del Movimento Neoborbonico, ha attaccato duramente il direttore di Libero, il giornalista Vittorio Feltri il quale ai microfoni di Rete 4, pochi minuti fa, ha dichiarato: "I meridionali sono inferiori in molti casi. Si arrabbiano? Chissenefrega". Ecco quanto scritto da De Crescenzo: "BASTA CON FELTRI: QUALCUNO FERMI QUESTO PERSONAGGIO. È ISTIGAZIONE ALL'ODIO RAZZIALE. SERVONO MIGLIAIA DI MAIL AGLI SPONSOR DI RETEQUATTRO ("Fuori dal coro" 21/4/20) e una denuncia penale, visto che l'Ordine dei Giornalisti non fa nulla". Poi ha aggiunto: "Feltri ha poi detto: "Cosa andremmo a fare in Campania? I posteggiatori abusivi? È invidia contro la Lombardia, sono complessi di inferiorità anche se IN GRAN PARTE DEI CASI I MERIDIONALI SONO INFERIORI". Il tutto tra battutine e risatine del conduttore Mario Giordano e dell'ospite. Riusciamo a far arrivare agli sponsor migliaia di lettere? Io gli ho scritto. "Fino a quando sponsorizzerete programmi come Fuori dal Coro con ospiti razzisti come Feltri che sputa fango sui meridionali "che in gran parte dei casi sono inferiori" io non posso più acquistare i vostri prodotti. Saluti rammaricati dal Sud". 

Feltri e i meridionali inferiori. Dipocheparole il 22 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. In questo simpatico spezzone di Fuori dal Coro di Mario Giordano possiamo ammirare (si fa per dire) Vittorio Feltri mentre tenta per l’ennesima volta di scatenare contro di sé una shitstorm prendendosela con uno dei suoi bersagli preferiti: i meridionali: “Molta gente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché ha un complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, credo semplicemente che i meridionali in molti casi siano inferiori”. Subito dopo potete ammirare come Giordano finga alla grandissima un po’ di indignazione come da copione dopo la frase di Feltri mentre in realtà nella sua testa sta esultando come Tardelli dopo il goal alla Germania nel 1982 perché Feltri ha fatto il suo solito spettacolino che farà arrabbiare metà del suo pubblico e divertire l’altra metà. Poi addirittura dice: “Ma se cambiano canale è un guaio!”.

Feltri attacca i meridionali, Ziliani: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha commentato le parole di Feltri sui suoi profili ufficiali social. Redazione areanapoli.it il 22 aprile 2020. Vittorio Feltri è intervenuto nel corso della trasmissione "Fuori dal Coro" utilizzando delle discutibili parole contro i meridionali. Il direttore di Libero è un fiume in piena e continua a non digerire la possibile scelta di De Luca di chiudere i confini della Campania. "Al Sud stanno gioendo per le disgrazie del Nord. Non dovrebbero odiarci così tanto, visto che ben 14mila meridionali ogni anno si curano nelle strutture lombarde. Hanno un sentimento di rabbia e invidia nei nostri confronti perché subiscono una sorta di complesso d'inferiorità. Io però non credo ai complessi d'inferiorità, credo che in molti casi i meridionali siano inferiori". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha risposto così a Vittorio Feltri sui suoi profili ufficiali social: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti. Oltre che esseri umani". Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano, ha commentato così il pensiero di Feltri: "L'ODG capisca che quella di #Feltri, da tempo, non è libertà di opinione ma istigazione all'odio che non può essere più tollerata. Le trasmissioni deputate a creare scompiglio si nascondono dietro il suo sfacciato razzismo e lo strumentalizzano per compiere sinistri disegni".

Vittorio Feltri a Fuori dal coro: “Meridionali inferiori, subiscono il complesso”. Antonio Scali il 22 Aprile 2020 su TPI. Ieri, 21 aprile 2020 il direttore di Libero Vittorio Feltri è stato ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano. Che Feltri non sia uno che le mandi a dire e che ami le polemiche non è certo una novità, ma stavolta forse ha fatto un passo oltre, suscitando critiche unanimi. Ripercorriamo cosa è accaduto. Giordano gli ha chiesto se nei confronti della drammatica situazione in Lombardia a causa del Coronavirus ci sia stato “un po’ di accanimento“, una sorta di “godimento per i primi della classe che stanno male”. Una domanda provocatoria alla quale Feltri ha risposto senza tanti giri di parole: secondo il direttore di Libero, infatti, è evidente che ci siano persone che stanno godendo per la situazione della Lombardia. “Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità“, ha spiegato Feltri. Il giornalista ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori“. Ecco il video tratto dalla puntata di ieri di Fuori dal coro: Una frase che ha messo in imbarazzo persino Giordano, conduttore della trasmissione, che ha bonariamente rimproverato il collega: “Adesso me li fa arrabbiare davvero”. Feltri ha poi risposto: “E chi se ne frega se si arrabbiano, secondo me si arrabbiano tutti i giorni. Mi insultano e mi augurano di morire ma io dico quello che penso”. La vera preoccupazione di Giordano però non sembra essere l’indignazione per le parole appena ascoltate contro i meridionali quanto l’auditel: “Se mi cambiano canale è un guaio”. A quel punto il direttore di Libero lo ha rassicurato dicendo: “Non preoccuparti, per queste cose non cambiano canale. Stanno lì di più per odiarmi maggiormente”. Feltri purtroppo non è nuovo ad uscite del genere nei confronti del Sud. Parlando sempre del Coronavirus, infatti, il giornalista in un recente articolo su Libero aveva parlato di “brutta fine meritata” per i meridionali. Le parole di ieri a Fuori dal coro hanno indignato molte persone, che adesso chiedono la sua definitiva radiazione dall’albo dei giornalisti.

Coronavirus e mass media: Perché torna di moda l’odio contro il Sud? Amedeo Zeni su Ladomenicasettimanale.it il 20 Aprile 2020. Il razzismo, soprattutto in sociologia, è facilmente spiegabile con definizioni accurate sulla disuguaglianza, teorie basate sul pregiudizio che esistano razze superiori e razze inferiori. Una propensione dunque, a ritenere usi e costumi migliori rispetto ad altre comunità. Una fobia che può avere cause storiche come il dominio coloniale, atto a giustificare lo sfruttamento di territori, motivi economici che “autorizzano” il pensiero frustrante che un’altra collettività è la causa del proprio malessere (Hitler vi ricorda qualcosa?), cause culturali con pregiudizi connessi all’integralismo religioso o politico che tendono a non accogliere differenze e a ghettizzare di conseguenza ogni forma di diversità e mille altre definizioni ognuna utile e importante. Insomma, se vogliamo tradurre il concetto di razzismo in spiegazioni accessibili, potremmo parlare da qui a domani. Può addirittura esistere, e perché no, una spiegazione in termini sessuali. Apriti cielo. L’idea anch’essa implicitamente culturale e radicata nel nostro inconscio (senza scomodare psicoanalisi freudiane) che l’altro sia più dotato di noi. Avete letto bene, dotato. Ammettiamo che possa apparire semplicistica come spiegazione, ma è davvero così impensabile, in un’analisi di natura quasi antropologica, ritenere che non ci sia un file rouge tra invidia sociale e vigore sessuale in alcune determinate forme di razzismo? Una persona di colore scura è ancestralmente immaginata come sessualmente più dotata di una persona bianca; che sia vero o meno al momento non importa, il punto del ragionamento sta nell’immaginare una definizione che vede il razzismo come forma di ignoranza generata dall’insicurezza e dal depotenziamento della propria virilità se confrontato con le dotazioni fisiche degli altrui apparati muscolari. Vi assicuro che non siamo impazziti, non ancora, è in realtà la cultura moderna che porta a immaginare anche scenari mentali di questo tipo. In una era così globalizzata in cui le informazioni sono accessibili davvero a tutti, il pensare ancora in modo insofferente nei confronti di altri non sempre può avere radici storiche ma talvolta può anche manifestarsi, semplicemente, in una forma di sudditanza psicologica (o meglio, complesso di inferiorità) verso chi, nonostante eventuali arretratezze in termini di risorse economiche e sociali, è esteticamente più piacevole, più radioso e più capace di far proseguire la specie godendo di una forma fisica e mentale predisposta alla solarità, alla condivisione del piacere, e semplificando, alla sessualità. In uno stato di precarietà delle opportunità intese come incapacità di godersi la vita liberamente, ora per stacanovismo, ora per condizionamenti da climi ostili, ora per rivalità in senso generico, accade quindi che attori sociali, seppure talvolta dotati di lauree, siano sprovvisti di quelle astratte competenze che garantiscano loro (e nessun libro questo lo insegna) di essere più predisposti alla bellezza con tutti i suoi sottoinsiemi. Se in modo quasi farsesco abbiamo pensato che un uomo di colore viene invidiato e quindi odiato perché ha genitali più importanti, stessa cosa accade, in un paradosso quasi metafisico, per alcuni del nord Italia che, nel 2020, ancora cercano di evidenziare gli stereotipi sul sud, nello specifico su Napoli e su napoletani. Sia ben chiaro, diciamolo per i polemici, Napoli ha i suoi difetti, le sue tracotanze, le sue violenze e bla bla bla, ma questo coronavirus sta mettendo in atto con le mille sfaccettature della comunicazione, una possibile spiegazione di questo costante tentativo di infangare la città di Napoli. E se fosse invidia sociale? Se fosse invidia sessuale? Se fosse quella interna e quasi inspiegabile rabbia dovuta al fatto che lì, in quella “terra del malaffare” c’è la bellezza in senso lato, ci sono le bellissime ragazze e i bellissimi ragazzi che sanno come vivere (e come sopravvivere) mentre i taluni idioti nordici (più pochi forse di quanto si creda) non riescono a ottenere queste gratifiche (ora per motivi fisici ora semplicemente per mancanza di apertura mentale). La provocazione è ovvia, ma nemmeno poi tanto lontana da una possibile verità. L’invidia della bellezza, che essa sia sensualità estetica, letteraria, paesaggistica, sessuale, è di sicuro presente in chi ancora prova ad odiare Napoli, per il semplice motivo che ritiene (pur senza saperlo consciamente) di non avere le stesse opportunità. Un pensiero sbagliato perché l’Italia è bella ovunque a sud come a nord, e questo lo sanno bene le persone intelligenti che abitano nel settentrione dello stivale italico, e che non si fanno il problema di odiare, perché sanno godersi la propria esistenza senza alimentare un odio interiore così profondo. Sono quelli dall’accento nordico che, seduti a tavola con chi ha l’accento napoletano, non pensano a decifrare correttamente le proprie sintassi dialettiche, né, sicuri di sé, spendono il tempo a misurazioni subliminali dei propri apparati ma pensano a mangiare e godersi la giornata di sole. Tutto il resto, convinciamocene, è invidia. Amedeo Zeni

Coronavirus, Zaia: "È Sud contro Nord. Dal 4 maggio solo riaperture". Il governatore del Veneto: "Se alcuni presidenti chiudono i confini regionali, fanno loro l'autonomia". E sulla riapertura: "Se c'è supporto scientifico, giusto aprire". Giorgia Baroncini, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. "È una prima forma di autonomia, il Sud ha deciso di sposare il nostro progetto autonomista, lo dico come battuta. Voglio fare una appello: finitela di dire Nord contro Sud. Se il Sud dice di chiudere le frontiere, è Sud contro Nord", ha tuonato il presidente del Veneto Luca Zaia commentando l'annuncio del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che si è detto pronto a chiudere i confini regionali. "Se dovessimo avere corse in avanti in regioni dove c'è il contagio così forte, la Campania chiuderà i suoi confini. Faremo un'ordinanza per vietare l'ingresso dei cittadini provenienti da quelle regioni", aveva infatti dichiarato De Luca. "Sarebbe difficile bloccare lo spostamento fuori regione se le imprese sono aperte - ha commentato Zaia in diretta Facebook -. Mettevi nei panni di un cittadino che sale in treno: vuol dire che tutti i treni saranno soppressi, che tutti i treni che escono dai confini regionali non hanno più senso. Ma che proposta è, come fanno a mettere in piedi queste misure? Noi abbiamo sempre ospitato e accettato tutti, non ho mai fatto un'ordinanza per mandare via la gente dalle seconde case''. Il governatore del Veneto ha poi ribadito la sua posizione sulla ripartenza del Paese: ''Se c'è il supporto scientifico, è giusto che si apra. Sancita la messa in sicurezza dei cittadini e che si andrà avanti con un trend di attenuazione del contagio, ritengo che il tema della riapertura si possa affrontare agevolmente. Tempi? Speravo e spero che qualche segnale arrivi anche prima, ma immagino che il 4 maggio sia la dead line, oltre la quale ci saranno solo provvedimenti per le riaperture'', ha spiegato. Da giorni il Veneto spinge per la riapertura tanto che Zaia aveva anche auspicato ad un allentamento delle misure "da subito, in modo razionale, prudente e ragionato". Ma il premier Conte è stato chiaro: non intende accelerare i tempi e dare il via alle riaperture prima del 3 maggio. Nel piano di "ritorno alla normalità" di Zaia "la mascherina è una conditio sine qua non. Stiamo lavorando per una soluzione sostenibile e rispettosa della libertà. Ribadisco, se tutti indossano mascherina, guanti e disinfettanti abbiamo risolto oltre il 90 per cento dei problemi". Poi l'attacco: "È deplorevole chi esce senza mascherina, non ha coscienza che mette in pericolo la salute degli altri. Chi esce senza mascherina è irresponsabile".

·         Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

Lucia Landoni per repubblica.it il 17 novembre 2020. Il primo consulto da remoto - video o telefonico - costa 90 euro e poi, nel caso in cui il medico ritenga opportuni degli esami per valutare meglio le condizioni di salute del paziente, si può acquistare il pacchetto "diagnostica domiciliare" (che comprende prelievo del sangue, radiografia toracica, misurazione della saturazione e referto finale) a 450 euro: è il tariffario dell'ospedale San Raffaele di Milano per l'assistenza a domicilio dei positivi al Covid-19 e sta suscitando un'accesa polemica. "Chi non può pagare può crepare, questa è la filosofia che domina nella nostra regione. Le Usca non funzionano? Nessun problema, ci pensano i privati" ha scritto su Facebook Vittorio Agnoletto, medico e responsabile dell'Osservatorio Coronavirus che insegna Globalizzazione e politiche della salute alla Statale di Milano, citando appunto il caso del San Raffaele e sottolineando che "il disastro della medicina territoriale è l'ennesimo regalo della Regione Lombardia ai privati, che infatti moltiplicano i profitti". Uno dei primi a sollevare la questione è stato il consigliere regionale del Pd Matteo Piloni: "Il pubblico arranca e il privato ingrassa, ma il vero problema è a monte. Il privato risponde a una mancanza inaccettabile, ovvero alle carenze dell'assistenza domiciliare - spiega - Regione Lombardia deve necessariamente potenziare la medicina territoriale, altrimenti la gente si sente abbandonata a casa e i possibili esiti sono due. Chi può permetterselo ricorre al privato, accettando tariffe che a mio giudizio gridano vendetta, e chi non può si presenta nei Pronto soccorso, intasandoli ulteriormente". Piloni pone l'accento soprattutto sulla mancanza delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale), che in Lombardia non sono abbastanza: "La Regione deve fare di più, reclutando neolaureati e specializzandi per garantire questo servizio, recuperando medici e lavorando sulla telemedicina - continua il consigliere regionale - Stiamo insistendo molto su questo, anche perché abbiamo di fronte almeno altri tre mesi molto difficili prima della primavera e questi interventi non sono più rimandabili. È già stato perso troppo tempo". Contro i costi dell'assistenza domiciliare offerta dal San Raffaele si è scagliato sui social anche Attilio Galmozzi, medico dell'ospedale di Crema: "Il business sul Covid no, vi prego - ha scritto in un post che è stato condiviso decine di volte - Risparmiate almeno quello", definendo poi il tariffario dell'ospedale milanese "un indecoroso affronto".

San Raffaele: "Costo inferiore a normale visita in ospedale". La replica alle critiche è arrivata con una nota in cui si spiega che "il servizio di telemedicina dell'Irccs Ospedale San Raffaele è stato implementato ben prima dell'emergenza sanitaria per Covid-19 e nasce con l'obiettivo di portare l'ospedale a casa dei pazienti". Il servizio, "che mette a disposizione specialisti per 43 specialità cliniche", lo scorso ottobre è stato esteso anche all'emergenza Covid. In sostanza, si legge ancora nella nota, "con un costo inferiore rispetto a una normale visita a pagamento in ospedale, il paziente può richiedere una video visita con un medico specialista in Covid e in base alla valutazione, se lo ritiene, richiedere al proprio domicilio l'esecuzione degli esami diagnostici. Poi, se le sue condizioni necessitano un approfondimento clinico, il paziente viene indirizzato all'ambulatorio pauci sintomatici con il Servizio Sanitario Nazionale. Se invece il paziente è ritenuto in condizioni severe si avvisa il servizio 118. Nato come servizio dedicato inizialmente all'attività di solvenza, oggi la telemedicina è in fase di test per quanto riguarda l'integrazione con il Servizio Sanitario Nazionale".

Da liberoquotidiano.it il 18 marzo 2020. Ilaria Capua, ospite martedì 17 marzo di Giovanni Floris a DiMartedì, fa il punto della situazione sull'emergenza coronavirus: "Un virus è un personaggio piccolo che fa un gioco di squadra con i suoi amici gemelli: il loro obiettivo è perpetuare il loro genoma. I virus se sono molto aggressivi sono anche poco trasmissibile. Il nostro corpo sviluppa barriere contro il virus nel momento in cui lo incontro. È importante sapere il numero degli infetti, perché se l’ospite non ha difese il virus incontra solo semafori verdi e continua ad infettare. Nel momento in cui si producono anticorpi, il virus si ferma. La nota virologa commenta poi l'efficacia delle misure di contenimento: “La forza di una catena dipende dall'anello più debole" e poi cerca di trovare una spiegazione ai tanti decessi in Lombardia: "Perché si muore più Lombardia che nel resto d'Europa? È possibile che gli ospedali che gestiscono questi focolai abbiano degli impianti di aerazione che non garantiscono la sicurezza di persone immunodepresse?"

Coronavirus, allarme Sud: "Ospedali poco attrezzati per l'emergenza". Tende della Protezione civile allestite all'esterno dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Il Tribunale di Napoli chiuso per un giudice positivo. Casi in crescita in Puglia e Sicilia. Paolo G. Brera il 06 marzo 2020 su La Repubblica. Il Tribunale di Napoli si è arreso: da stamattina, tutti a casa per epidemia. Il Covid-19 è arrivato pure lì, a bordo di un giudice che era stato in Lombardia. In tutta la Campania i positivi sono 45, più 14 in un solo giorno. Il virus pianta la corona pure al Sud, e corrergli dietro tra ospedali colmi e medici introvabili è un’impresa. Siamo a 3.858 positivi totali in Italia ma “solo” 97 sotto il 42esimo parallelo, dove gli ospedali modello sono un miraggio e il personale nelle terapie intensive una rarità. Dal Molise alla Campania fino a Puglia e Calabria, isole comprese, il coronavirus s’è affacciato da poco. Ma sotto la linea gotica del buongoverno sanitario avanza giorno dopo giorno. Più 21 martedì, più 16 mercoledì, più 24 ieri. Le autorità sanitarie rincorrono i possibili contatti di ognuno, fanno tamponi, impongono quarantene. La vera trincea è lì. Se il virus sfonda, metterà il Paese in ginocchio insieme ai suoi mali endemici, ai bilanci senza fondo e ai tagli senza senno che costringono ogni anno migliaia di persone a farsi visitare e operare altrove. «Se arranca la Lombardia, che non ha fatto tagli nei posti letto e ha il rapporto tra popolazione e ospedali maggiore d’Italia, figuriamoci cosa può succedere al Sud, dove abbiamo enormi svantaggi in termini di attrezzature e di personale», dice Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. «In Puglia e Campania forse potremmo farcela - dice Aneli - e anche in Sicilia potremmo riuscire a reggere come in Lombardia; ma in Calabria non credo proprio. E non parliamo del Molise, dove la situazione in termini di personale e strutture è drammatica: serviranno ospedali da campo, dobbiamo utilizzare la sanità militare oltre a quella convenzionata». Prima del coronavirus c’erano 1.582 posti in terapia intensiva negli ospedali pubblici delle sette regioni del Sud. In tutta Italia sono 5.395. Certo, i 24 nuovi contagiati di ieri sono un’inezia, rispetto ai 769 dell’intero Paese; ma la progressione e la diffusione fanno paura. Oltre ai 45 positivi campani siamo a 18 in Sicilia, a 14 in Puglia. «La situazione in Puglia è sotto controllo», ha detto ieri il capo della Protezione civile cercando di spegnere la miccia su quel funerale sciagurato, contagioso, su cui ora indaga persino la magistratura. «Diffusione di epidemia colposa», hanno scritto i giudici. In Molise, dove la mancanza di medici è un tale disastro che è raro persino riuscire a nascerci, siamo a sette contagiati: quattro in più, da ieri. Per fortuna non ci sono focolai, al Sud, e speriamo tutti che si chiuda la porta in tempo. Ma alcune decisioni drastiche, come chiudere le scuole e le università, paradossalmente nel Mezzogiorno rischiano di accelerare la corsa del coronavirus riportando a casa tanti ragazzi e docenti che studiano e lavorano al Nord. E come i nostri soldati in Russia con le suole di cartone, ai medici al fronte «mancano mascherine, camici e visiere. Il ministro - dice Anelli - mi ha assicurato stamattina che la distribuzione alle Regioni è avvenuta, ma io continuo a ricevere segnalazioni da medici in tutta Italia». Ma si può combattere così la guerra a un nemico che «ha già spedito un centinaio di medici generici in quarantena?». 

Ilaria Capua “I divieti sono giusti. Rischiamo il collasso del sistema sanitario”. La virologa: “Tutelando gli anziani possiamo frenare la diffusione. I malati potrebbero essere cento volte di più di quelli dichiarati”. Gabriele Beccaria il 4 marzo 2020 su La Stampa. «Sono misure ragionevoli - dice Ilaria Capua - e, per favore, aiutatemi a evitare un pericoloso fraintendimento». Parola della virologa che dirige l’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida.

Qual è il punto?

«Qualche anziano si è sentito tirato in ballo e c’è chi, giustamente, ha detto: “Scusate se esistiamo!”. Ma non è così. Gli anziani fanno parte delle categorie a rischio, come i pazienti di alcune patologie croniche, e che potrebbero soffrire le complicanze più gravi a causa del virus».

Sono loro i più in pericolo?

«Tutelando quelle persone, le persone fragili, stiamo aiutando tutti noi: solo così possiamo prevenire un picco di ammalati e un possibile collasso del Sistema Sanitario. Quegli individui sono altrettanti semafori verdi che possono favorire la diffusione del virus».

Siamo un Paese di anziani e l’allarme diventa globale.

«Dobbiamo scongiurare un effetto domino: non tutta la Sanità italiana, infatti, è efficiente e preparata come quella Lombarda». 

Coronavirus, Cacciari: “Il timore è che dilaghi nel Mezzogiorno dove le strutture non sono preparate”. La7 05/03/2020. Massimo Cacciari sullo stato della sanità al Sud: “La colpa della inadeguatezza delle strutture è di una politica sanitaria che è andata avanti a tagli”. 

Tensione governo-Regioni. Conte: "Focolaio perché un ospedale non ha seguito i protocolli. Pronti a intervenire sui poteri dei governatori". Ma Fontana, presidente Lombardia: "Idea irricevibile e offensiva". Dalla Lega: "Il premier dice cose da fascista". Sospeso il pagamento delle tasse nelle zone rosse. La Repubblica il 24 febbraio 2020. Se il coordinamento tra i sistemi sanitari nazionali non riuscisse a contenere il coronavirus, il governo "è pronto a misure che contraggono le prerogative dei governatori". Lo ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in una intervista a Frontiere che andrà in onda su Rai1. "Il sistema sanitario - ha osservato Conte - in Italia è di competenza regionale e non è predisposto per una emergenza nazionale. Per questo un coordinamento è necessario. Se non siamo coordinati non riusciremo a contenere il virus in modo efficace. Per questo domani mattina parlerò con tutti i governatori in videoconferenza, anche quelli delle Regioni che non sono coinvolti. Tutti dobbiamo perseguire un coordinamento. Se non ci riuscissimo saremmo pronti a misure che contraggano le prerogative dei governatori. Ma non dobbiamo arrivare a questo. Anche perché per ora la collaborazione è accentuata. il coordinamento funziona Ci aspettiamo un impatto sul contenimento. Ma se fosse necessario occorreranno misure centralizzate efficaci. Misure straordinarie", ha concluso Conte. È tensione tra governo e Regioni sul diffondersi del contagio e sulle misure da adottare: "Sono ingiustificate azioni autonome" da parte dei governatori, aveva già detto Conte in serata arrivando nella sede della Protezione civile: "Non è possibile che tutte le regioni vadano in ordine sparso perché le misure rischiano di risultare dannose", ha aggiunto, annunciando che domani incontrerà tutti i governatori. E poi: "Non prendiamo nulla sotto gamba altrimenti non avremmo adottato misure di estremo rigore. Non possiamo prevedere l'andamento del virus: c'è stato un focolaio e di lì si è diffusa anche per una gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi, e questo ha contribuito alla diffusione. Noi proseguiamo con massima cautela e rigore". Ma è il presidente della Regione  Lombardia, Attilio Fontana, a replicare subito al premier bollando le sue parole come "irricevibili e, per certi versi, offensive". Fontana giudica così l'ipotesi tracciata, seppure come extrema ratio, da Conte di avocare a sé e quindi al governo i poteri in materia sanitaria. "Parole in libertà - aggiunge Fontana in una nota - che mi auguro siano dettate dalla stanchezza e dalla tensione di questa emergenza. Domani riferirò al presidente Conte che la Lombardia sta dimostrando di essere all'altezza della situazione e sta gestendo con competenza ciò che sta accadendo. E tutto ciò - conclude il governatore - alla faccia dell'autonomia e dei pieni poteri".

L'attacco della Lega: "Dice cose da fascista". "Sarà meglio che il presidente del Consiglio si riposi un po'. Troppo stress gli fa dire cose inconcepibili, forse quasi da fascista, direi. Togliere competenze alle Regioni? È irricevibile. Siamo per l'autonomia e per la libertà. Pensare di tornare all'anno zero, ai pieni poteri con l'alibi della crisi è una strada impercorribile. Sarà meglio che Conte se ne faccia una ragione. Può sempre dimettersi, che sarebbe la cosa migliore per tutto il paese". Lo dichiara il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari.

Sospeso il pagamento dei contributi. Il governo prepara le misure per imprese e famiglie necessarie ad affrontare l'emergenza del coronavirus. Verso lo stop a versamenti e adempimenti tributari negli 11 Comuni della "zona rossa". Allo studio indennizzi alle imprese. Rinvio per le bollette di luce e gas. Moratoria per gli scioperi fino al 31 marzo, rinviata ad aprile l'astensione di domani per il traffico aereo. Si ferma lo sport, verso un decreto per consentire lo svolgimento a porte chiuse delle partite di calcio. Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri ha firmato il decreto ministeriale per la "sospensione degli adempimenti e i pagamenti dei tributi e delle ritenute fiscali per cittadini e imprese della cosiddetta zona rossa che stanno subendo conseguenze più pesanti" dell'emergenza coronavirus. Una misura, ha detto al Tg1, "doverosa per cittadini ai quali siamo tutti vicini". Gualtieri ha annunciato anche di avere "già concordato con Abi la sospensione delle rate dei mutui per i residenti della zona rossa". In particolare, vengono sospesi i versamenti delle imposte e delle ritenute e gli adempimenti tributari per i contribuenti e le imprese residenti o che operano negli undici comuni interessati dalle misure di contenimento del contagio da Coronavirus. La sospensione riguarda anche le cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione e quelli conseguenti ad accertamenti esecutivi. Il decreto, in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, riguarda i versamenti e gli adempimenti scadenti nel periodo compreso fra il 21 febbraio e il 31 marzo 2020.  I Comuni interessati sono: in Lombardia Bertonico (Lodi) Casalpusterlengo (Lodi) Castelgerundo (Lodi) Castiglione D'Adda (Lodi) Codogno (Lodi) Fombio (Lodi) Maleo (Lodi) San Fiorano (Lodi) Somaglia (Lodi) Terranova dei Passerini (Lodi); in Veneto Vò (Padova).

Coronavirus, la Lombardia attacca Conte: Governo incapace. Non conosce i protocolli". La Repubblica il 25 febbraio 2020. "Una dichiarazione inaccettabile da una persona ignorante, perchè ignora assolutamente quali erano e sono i protocolli definiti dall'Istituto superiore di sanità". Non accenna a placarsi la polemica fra le Regioni  e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla gestione del coronavirus.  L'ultimo attacco a Palazzo Chigi arriva da Giulio Gallera, assessore al Welfare della regione Lombardia, Intervistato ad Agorà, su Rai Tre, Gallera replica duramente alle dichiarazioni di Conte di ieri che aveva prospettato una sorta di commissariamento delle Regioni per combattere in maniera unitaria la malattia. "Noi abbiamo seguito pedissequamente ciò che era stato determinato dall'Iss e le linee guide del ministero",  insiste l'assessore lombardo. Per Gallera "il problema è che il presidente del Consiglio non conosce i protocolli e getta la palla in tribuna per coprire delle falle gigantesche di un sistema di protezione civile nazionale che non sta dando alcun tipo di risposte ai problemi organizzativi e gestionali che avrebbero dovuto prevedere e predisporre". Noi insiste Gallera, "!

Coronavirus, la Lombardia attacca Conte: «Un ignorante che non sa di cosa parla». Il Dubbio il 25 Febbraio 2020. L’assessore al welfare Giulio Gallera accusa il Presidente del Consiglio di scaricare sulla regione la responsabilità dei contagi: «Da lui attacchi ignobili». Il Coronavirus sta stressando anche la politica, con un balletto incrociato di accuse tra gli schieramenti. Al premier Conte, che aveva attribuito l’esplosione di contagi nel nord Italia a una falla di un ospedale lombardo, rispondono duramente i vertici della regione amministrata dal centrodestra:  «Noi veniamo in maniera ignobile attaccati da un presidente del Consiglio che, non sapendo di cosa parla, dice che noi non seguiamo i protocolli, quando Regione Lombardia i protocolli non solo contribuisce a livello nazionale a realizzarli, ma li segue in maniera puntuale». Queste le dichiarazioni di fuoco di Giulio Gallera, assessore al Welfare della Regione Lombardia che è intervenuto nel programma Agorà di Rai Tre. Gallera, sempre nella sintesi dell’intervista diffusa dalla trasmissione Rai, parla di «una dichiarazione inaccettabile, da una persona ignorante, perchè ignora assolutamente quali erano e sono i protocolli definiti dall’Istituto superiore di sanità. Noi abbiamo seguito pedissequamente ciò che era stato determinato dall’Iss e le linee guide del ministero». «Ormai sta emergendo la totale incapacità del governo di gestire qualcosa che loro dovevano prevedere – aggiunge l’assessore lombardo – il problema è che il presidente del Consiglio non conosce i protocolli e getta la palla in tribuna per coprire delle falle gigantesche di un sistema di Protezione civile nazionale che non sta dando alcun tipo di risposte ai problemi organizzativi e gestionali che avrebbero dovuto prevedere e predisporre». Quanto al rapporto con il ministro Speranza, Gallera assicura: è «eccellente, eccezionale ed è per questo che sono stupito. Il ministrosi è messo a disposizione, ci è stato vicino e non ci ha davvero mai criticato. Anzi. E poi siamo in rapporto con tutte le regioni del nord colpite, Emilia compresa. Non capisco perché qualcuno voglia soffiare sul fuoco».

Alberto Giannoni per ''il Giornale'' il 6 marzo 2020. «Giulio? Ha il fisico e la tenuta per gestire un momento simile». L' emergenza sanitaria infuria, l' economia sembra sull' orlo del collasso, la tensione istituzionale è alle stelle, ma in tutta la Lombardia non si trova nessuno in grado di criticarlo. L' assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera da due settimane è diventato un volto familiare per milioni di persone. Addetti ai lavori e normali cittadini. Lo citano nelle chat, aspettano i suoi numeri, cercano di carpire dalla sua voce le vibrazioni di questa crisi che assedia la regione più forte e oggi più esposta d' Italia. E «Giulio» - che dorme 4 ore per notte - risponde, ascolta, e decide. Quadrato, serio, calmo, mai una parola di troppo, mai un' ambiguità. Chi ha assistito alla prima drammatica conferenza stampa che ha aperto questo incubo, non ha avuto dubbi: l' emergenza Coronavirus ha consegnato alla politica un nuovo protagonista. E qualcuno ha notato che in quella sala stampa, fra il pubblico e in abito «borghesi», faceva capolino un interessatissimo Matteo Salvini, che lo conosce bene, e da tempo, fin da quando entrambi frequentavano il Comune di Milano, quel Palazzo Marino che li ha visti fare due corse parallele. Avvocato, liberale, milanese, 50 anni, runner instancabile, Gallera è un maratoneta della politica, un passista arrivato alla tappa decisiva. «Quando l' ho visto - racconta Bruno Dapei, ex presidente del Consiglio provinciale - mi sono detto questo: per fortuna c' è Giulio, che ha il fisico e la tenuta per un momento come questo. E vedendolo, credo che gli sia servita molto la sua lunga esperienza e la sua tenuta psicofisica». Dapei e Gallera vengono dalla stessa nidiata politica, anche se 30 anni fa nel Pli militavano in due correnti «avversarie». «Ha fatto politica al liceo, poi all' università, nel '92 era segretario dei giovani liberali milanesi, anche se lui stava più a sinistra - sorride Dapei - con Renato Altissimo, io con Egidio Sterpa». Scuola di alto livello, proprio col Pli è stato eletto per la prima volta in Comune, anzi nel Consiglio di zona 19, anno 1990, poi rieletto nel 1993, quando liberali e Pri candidarono Adriano Teso (e Salvini, ovviamente, sosteneva Marco Formentini). Venne il fatidico 1994, che lo vide in prima fila fra i fondatori di Forza Italia a Milano. Fu con gli azzurri che Gallera entrò in Consiglio quattro anni dopo, nel 1997, per fare il vicecapogruppo e presidente di commissione. E poi fu confermato nel 2001, anno del trionfo di Gabriele Albertini, che lo nominò assessore, con deleghe non pesantissime. «Lì si capì che era un cavallo di razza - racconta Dapei - aveva decentramento e servizi cimiteriali e il Monumentale divenne con lui un museo a cielo aperto». Gallera è un politico incassatore. Nel 2006, era Moratti, per qualche malumore periferico, fu «dirottato» a guidare il gruppo consiliare di Fi, ma non si è fermato, e nel 2012 vinse una vera battaglia congressuale nel Pdl, diventando coordinatore cittadino. Da segretario, ha messo in piedi un coordinamento vero, e molti dei componenti di quel dipartimento oggi sono nella sua squadra. E la squadra è la sua forza. Alla piccola battuta d' arresto delle prime regionali, segue poi l' ascesa al Pirellone, di anno in anno. Entra in corsa nel 2012, viene confermato nel 2013, un anno dopo è sottosegretario, un anno dopo ancora Roberto Maroni lo nomina assessore al Reddito di autonomia - e fa vedere ai grillini come si fa - poi nel 2016 diventa assessore al Welfare, confermato nel 2018 a furor di preferenze (quasi 12mila). «Grande lavoratore, studia, si applica - spiega Alessandro De Chirico, consigliere comunale -, in tutti gli incarichi mette la stessa dedizione. E ascolta i suoi collaboratori, che alla fine - sorride - lo convincono a fare quel che lui aveva già deciso di fare. Per noi un grande esempio, e non l' ho mai visto arrabbiarsi. Secondo me, a Milano, sarebbe un osso duro per chiunque, anche per Sala, che sta brillando per la mancanza di peso specifico. Tutto il centrodestra dovrà fare una riflessione sulla sua figura». Gli apprezzamenti arrivano, da più parti. «Per me - ricorda Dapei - l' unica macchia è stata la piccola sbandata per Giovanni Toti, ma nel 2014 io ho candidato Gallera a sindaco e penso di averci visto giusto». Salvini il numero dovrebbe averlo.

Da la Stampa il 26 febbraio 2020. Visto dal Colle, lo spettacolo non è stato piacevole. Un vero e proprio scontro istituzionale tra il premier e il presidente della Regione Lombardia e che è sfociato scenograficamente in rissa di fronte a ministri, governatori collegati in videoconferenza, collaboratori, tecnici, e che ha costretto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a intervenire per fare da paciere e riportare tutti all' unità necessaria ad affrontare con la massima lucidità la guerra al virus Covid19. Mentre il bollettino continua ad aggiornarsi con il numero delle vittime e dei contagiati, tra i palazzi della politica romana non si parla di altro che del violento duello verbale tra Giuseppe Conte e il governatore lombardo Attilio Fontana. È mattina, quando nella sede della Protezione civile si riuniscono attorno al tavolo il premier, i ministri, tecnici e scienziati coinvolti nell' emergenza. Su un grande televisore, moltiplicati in tanti piccoli schermi, sono collegati i presidenti delle Regioni. La tensione è alta. Conte non vuole atti unilaterali e chiede ai governatori di attenersi al coordinamento nazionale, pur comprendendo come al Centro e al Sud siano spaventati dal ritorno in massa degli studenti per le università chiuse o perché terrorizzati dal virus. Restano, poi, le scorie della sera prima, gli effetti delle parole di Conte che hanno segnato un primo strappo nei rapporti. Fontana è ancora furioso. E non tanto per la minaccia del premier, poi parzialmente rettificata, di avocare a sé i poteri della Sanità, proprie delle Regioni, se i governatori non si fossero attenuti al piano. Quanto per l' attacco rivolto alla sanità lombarda, dove Conte avrebbe individuato la falla nei mancati controlli all' ospedale di Codogno. Con i nervi che vibrano, basta poco a far precipitare la discussione. Prima si inciampa su un' incomprensione. I governatori del Nord temono di non avere abbastanza mascherine a disposizione e chiedono il blocco delle esportazioni. Si riferiscono a quelle per il personale medico ma uno dei tecnici a Roma equivoca e mette in dubbio l' efficacia delle mascherine di garza per la gente comune che non ha particolari patologie. Fontana la vive come un' ennesima critica. È la prima colluttazione verbale. Passa qualche minuto, e questa volta è il presidente della Puglia Michele Emiliano ad agganciarsi alle parole di Conte della sera prima, puntando il dito contro la gestione lombarda dei protocolli. È qui che Fontana esplode: «Come vi permettete di attaccare medici e infermieri». A questo punto le versioni divergono. Palazzo Chigi smentisce alcune ricostruzioni, le stesse che ha raccolto la Stampa da tre fonti diverse. Fontana, rivolto a Conte, si sarebbe prima sfogato così: «Mentre medici e infermieri stanno a lavorare tu te ne vai in televisione dalla D' Urso». Poi avrebbe interrotto la telefonata urlando «vaffa... cialtrone» (una delle fonti ricorda «ciarlatano»). Solo l' intervento del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, avrebbe convinto Fontana a tornare al tavolo. Nel frattempo Conte avrebbe chiesto ai tecnici di uscire dalla stanza, per chiarire e riportare la calma. Questo succede prima di pranzo. Qualche ora dopo il leader della Lega Matteo Salvini fa sapere di aver telefonato a Conte e di avergli offerto le proprie idee per affrontare i contraccolpi sull' economia dell' emergenza sanitaria. Telefonata molto formale, rivela Salvini che aggiunge: «Mi risulta che dopo le parole sgradevoli del premier siano arrivate rimostranze, non solo da sindaci e governatori, ma anche un segnale di maggior cautela da piani ben superiori». Un riferimento al Quirinale subito smentito da Palazzo Chigi. Quel che è certo è che Fontana ha avuto un colloquio con Mattarella, nel quale il Capo dello Stato ha ribadito la necessità di evitare polemiche politiche e di marciare uniti nella lotta al coronavirus. Un appello che ha un immediato effetto balsamico. La tregua è conseguente. Per Fontana « l' ospedale di Codogno ha rispettato ogni protocollo, apprezzo che Conte si sia reso conto delle sue affermazioni e le abbia rettificate». Ma quello che racconta questa lacerazione istituzionale è uno sfibramento che, agli occhi di avversari interni alla maggioranza come Matteo Renzi , è il segno che il governo Conte traballa sempre di più.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 24 febbraio 2020. Se non ci fosse un' emergenza da contrastare, bisognerebbe dire a Giuseppe Conte di fare in fretta le valigie, perché il pressappochismo con cui ha affrontato l' epidemia che rischia di cambiare il mondo, mandando in pensione la globalizzazione e modificando i rapporti economici mondiali, dimostra che non ci si improvvisa capo del governo. Non basta avere una laurea in giurisprudenza, essere stato nominato docente in una commissione in cui c' è anche il vicino di studio e sostenere di avere vinto in tribunale il 99 per cento delle cause. La differenza fra un professore e un politico vero la si coglie nell' ora più buia, quando servono l' intuito, il coraggio e soprattutto la capacità di decidere, anche quando la decisione è impopolare o avversata dal calcolo politico immediato. Sì, la diversità tra uno statista e uno statale, nel senso di funzionario dello Stato come un insegnante d' università è a tutti gli effetti, sta proprio in questo, nella capacità di affrontare situazioni complesse e di difficile soluzione. Cioè proprio ciò che noi oggi abbiamo davanti. Il governo, invece, ha affrontato l' emergenza del coronavirus con totale incapacità e una faciloneria raramente riscontrata. Conte e compagni si sono beati di essere stati i primi a chiudere i collegamenti diretti Roma-Pechino, ma poi, spaventati dalle reazioni della Cina e sollecitati dalle pressioni del Quirinale, hanno aperto su tutto il resto, controlli e quarantena compresi. Ho parlato ieri con un docente universitario che opera nel campo sanitario in uno dei centri di eccellenza del Paese, il quale senza giri di parole ha ammesso che la situazione è sfuggita di mano. Per giorni abbiamo sentito dire che l' Italia aveva adottato le misure più rigorose e dunque non c' era da preoccuparsi, evitando inutili allarmismi. In realtà il messaggio che veniva dato a chiunque rientrasse dalla Cina, e dunque fosse potenzialmente stato esposto al contagio, era di regolarsi come meglio credeva. Per giorni si è spacciata come sensata la misura dell' auto quarantena, quasi che fosse sufficiente rinchiudersi per qualche giorno in casa, lasciando liberi di circolare i famigliari del possibile contagiato. Nessuno ha controllato gli arrivi e le frequentazioni di chi poteva essere stato a contatto con persone malate. Il risultato è che oggi l' Italia è il Paese occidentale con il maggior numero di malati da coronavirus, il terzo nel mondo, in pochi giorni l' aumento dei contagiati sta crescendo a ritmi esponenziali (siamo oltre 150) e il nostro premier, mentre nessuno ancora sa spiegare come il virus sia arrivato, chi sia il paziente zero, se il focolaio sia partito dal lodigiano o dal Veneto, riconosce di essere «sorpreso». Grazie all' impreparazione dell' avvocato (pentito) del popolo, non sappiamo niente. E grazie al fatto che il commissario all' emergenza sia un signore con un curriculum da revisore dei conti, non conosciamo neppure di quali mezzi sanitari disponiamo per fronteggiare l' allarme. Abbiamo un numero sufficiente di mascherine per proteggerci? C' è un' adeguata produzione di disinfettanti? I guanti che devono impedire di contagiarsi sono disponibili? E se si decidesse di chiudere i luoghi pubblici, supermercati compresi, come sarebbe possibile alimentare le persone in quarantena? Quanti sono i posti letto disponibili per gli infettati? E di medici in grado di combattere il virus, quanti ne abbiamo? Sì, grazie all' impreparazione di questo governo oggi, quasi tutte le domande che le persone si fanno nel chiuso delle loro case cadono nel vuoto, perché nessuno è in grado di rispondere. Dicevamo che non è il momento di mandare a quel Paese Conte e compagni perché in emergenza non ci si può permettere un Paese senza un governo, con una campagna elettorale e le elezioni alle porte. Ora serve impegnarsi per evitare il peggio e dunque è necessario mettere da parte ogni polemica su chi ci guida e sugli errori e la sicumera mostrata nei giorni passati di fronte al virus. Ci auguriamo che questo momento venga superato in fretta e senza danni, anche se temiamo che così non sarà. Passato tutto, però, sarà il caso di riflettere su una classe politica improvvisata e cialtrona, che in due anni ha saputo solo precipitarci di emergenza in emergenza, da quella del lavoro a quella della salute. Delle chiacchiere con la pochette e dei rottami di una stagione da rottamare che ci tengono in ostaggio francamente ne abbiamo fin sopra la testa. E prima o poi sarà il momento di cominciare la disinfestazione.

Coronavirus, altro che ospedale focolaio: le circolari smentiscono Conte. Nella lite furibonda tra il premier e la Regione Lombardia parlano le carte pubblicate sul sito del ministero della Salute. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale.  Giuseppe Conte non l'ha mai nominato direttamente. Ma appare evidente si riferisse all'ospedale di Codogno quando ha denunciato la "gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi". In sostanza, per Palazzo Chigi i medici non avrebbero seguito le regole provocando la diffusione del Coronavirus. Le accuse del premier hanno infastidito la Regione a guida leghista, com'era ovvio. L'assessore Giulio Gallera e il governatore Attilio Fontana hanno definito "ignobile" l'attacco di Conte e rivendicato di aver seguito alla lettera le indicazioni fornite dal governo nelle circolari ministeriali. "Chi ha ragione?", si chiedono i più. Carte alla mano, la Lombardia. In quello che appare un enorme scivolone del premier. Il fulcro della polemica, e anche dell'emergenza Coronavirus, ruota attorno alla storia clinica di M.Y.M., il "paziente uno" risultato positivo al test del Covid-19. Il 38enne, secondo quanto raccontato dai familiari, soffre i primi sintomi influenzali intorno al 14 febbraio. Il 18 si presenta in pronto soccorso, si fa visitare, non è grave e quindi viene rimandato a casa. Solo il giorno successivo, il 19, a causa del peggioramento delle condizioni scatta il ricovero. I test daranno esito positivo: Mattia è positivo al Coronavirus e Codogno si trasforma nel centro dell'epidemia italiana. L'inizio di tutto. Il viavai dal nosocomio ha sicuramente favorito l'amplificazione dell’epidemia (come spiegato da Massimo Galli, primario del Sacco di Milano), ma non è l’ospedale di Codogno il "focolaio" contro cui accanirsi. In molti si sono chiesti: perché i medici hanno dimesso Mattia prima di fargli un tampone? Perché non appena si è presentato in ospedale con la febbre non è stato isolato? Semplice: perché le leggi (e le indicazioni del Iss) non lo prevedono. A dimostrare che i medici della struttura sanitaria lodigiana non sono da crocifiggere, ci sono le circolari e le ordinanze prodotte dal governo e dal ministero della Salute. Documenti che, in teoria, il premier Conte dovrebbe conoscere. La prima circolare da tenere a mente è la numero 1997 emessa il 22 gennaio dal ministero. "I casi sospetti di nCoV - si legge - vanno visitati in un'area separata dagli altri pazienti e ospedalizzati in isolamento in un reparto di malattie infettive, possibilmente in una stanza singola, facendo loro indossare la mascherina chirurgica". Indicazioni logiche, ovviamente. Cui si aggiungono quelle per la protezione degli operatori sanitari. Il "problema" è che Mattia nei primi giorni non rientrava tra i casi di "paziente sospetto", almeno non secondo la definizione scritta dallo stesso ministero (aggiornata con la circolare del 27 gennaio). Le ipotesi previste dal documento sono due: 1) è da considerarsi un "caso sospetto" la persona che evidenzi una "infezione respiratoria acuta grave" con "febbre e tosse che ha richiesto il ricovero in ospedale" e che abbia una "storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia", oppure sia "un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta"; 2) è inoltre "sospetta" una persona "con malattia respiratoria acuta" che abbia avuto un "contatto stretto con un caso probabile o confermato da nCoV", che abbia "visitato o lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan" oppure "lavorato o frequentato una struttura sanitaria" dove "sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov". Nessuno di questi era il caso di Mattia, che all’inizio sembrava avere solo una normale influenza e non necessitava di ricovero. Alle prime domande dei medici, peraltro, il "paziente uno" aveva raccontato solo di "un viaggio a New York" e non ricordava contatti con soggetti rientrati dalla Cina. Solo al momento del ricovero, dunque il 19 febbraio, la moglie - e non lui direttamente - ricorderà della cena tra il marito e un amico tornato dalla Paese del Dragone (peraltro poi risultato negativo al test). È a quel punto che è scattata la procedura: il paziente è stato sottoposto a test, il pronto soccorso chiuso e il personale ospedaliero messo in quarantena. Prima non si poteva fare altrimenti. Paradossalmente, se la moglie di Mattia non avesse rivelato la (falsa) pista del collega imprenditore, forse al 38enne nessuno avrebbe fatto il tampone. Nessuna "falla" nel sistema lombardo, dunque. Checché ne dica Conte.

Coronavirus, Massimo Galli a Stasera Italia difende i medici di Codogno. Legnata indiretta a Giuseppe Conte. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Il professore Massimo Galli, in collegamento con Barbara Palombelli a Stasera Italia, su Rete 4, spiega come è dilagato il coronavirus nella zona del lodigiano e difende quindi i medici dell'ospedale di Codogno dove si è presentato quello che conosciamo come paziente uno: "Purtroppo i medici di Codogno sono stati presi di sorpresa, da un paziente del tutto inconsapevole, poveretto, che aveva contratto l'infezione alcuni giorni prima e che si è presentato senza riportare alcun dato riconducibile all'epidemia cinese". Il risultato, ovviamente, continua Galli, "è stato l'amplificazione dell'infezione in ospedale, ma l'infezione è nata e cresciuta fuori dall'ospedale prima che il primo caso si presentasse in ospedale. Vorrei che fosse chiaro, altrimenti confonde le idee questo concetto". 

Codogno, i medici dell’ospedale in trincea: "Quelle accuse del premier fanno più male della malattia". Conte aveva tuonato: "Focolaio causato dagli errori dell'ospedale". I medici sono risentiti: "Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell'emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante". Giampaolo Visetti il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. "Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell'emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante. Alcuni di noi, tra medici e infermieri, sono infetti e lottano adesso contro il morbo. Non siamo eroi e non pretendiamo gratitudine per il nostro lavoro: ma ascoltare dalle massime cariche dello Stato certe parole, che moralmente uccidono più del virus, fa male e ci umilia". Giorgio Scanzi, primario di Medicina dell'ospedale di Codogno, non vuole rispondere alle accuse, pur ritrattate, del premier Conte. Assieme ai colleghi, da cinque giorni in quarantena e in servizio nell'epicentro del contagio, non riesce però a nascondere l'amarezza. "Nessun ospedale d'Italia - dicono i medici del pronto soccorso diretto da Stefano Paglia - una settimana fa si sarebbe comportato in modo diverso. Abbiamo applicato protocolli e direttive di Istituto superiore di sanità, Oms e ministero della Salute. Nessuno di loro avrebbe suggerito tampone e isolamento per un italiano con i sintomi classici dell'influenza, non reduce dalla Cina e che non dichiara contatti con persone provenienti da là. Appena il quadro è cambiato, il protocollo è stato seguito. Il contagio purtroppo era già esploso da giorni, al punto da costringerci a chiudere il reparto". L'ospedale di Codogno resta l'incubatrice perfetta del Covid-19 in Italia. Qui ha rischiato di morire Mattia, 38 anni, dirigente dell'Unilever di Casalpusterlengo, "paziente uno" dell'epidemia che paralizza il Nord. Ricoverato a Pavia, resta grave. Chi lo ha curato per primo rifiuta però "un processo politico aperto in totale assenza di riscontri". Gli ordini ufficiali vietano dichiarazioni. Medici e infermieri schierati sul fronte del focolaio tengono invece "alla verità su quanto accaduto". "La cartella clinica riporta che il "paziente uno" - ricostruisce un aiuto del pronto soccorso - si è sentito poco bene venerdì 14 febbraio. Da Codogno è andato a farsi visitare a Castiglione d'Adda. Il suo medico Luca Pellegrini, positivo e ora ricoverato, gli ha prescritto farmaci contro una sindrome influenzale. Domenica 16 gli è salita la febbre e si è presentato in ospedale qui a Codogno. Non ha indicato collegamenti, nemmeno indiretti, con la Cina. La moglie, incinta, era asintomatica e stava bene. Lui era in codice verde: abbiamo aggiustato la terapia e l'abbiamo dimesso. Si è ripresentato mercoledì 18, la febbre non scendeva e precauzionalmente è stato ricoverato in osservazione in medicina. Solo giovedì 19, quando sono esplosi i problemi respiratori, la moglie si è ricordata degli incontri con un amico italiano (poi negativo ai test, ndr ) rientrato dalla Cina il 21 gennaio. Il protocollo coronavirus, tampone più isolamento, è scattato immediatamente ". Troppo tardi. Difficile però condannare i medici. "Per un paio di settimane - dice Scanzi - quel ragazzo già infetto ha girato liberamente dentro e fuori il Lodigiano. Ha incontrato più persone lui in quei giorni, tra lavoro e sport, di me in sei mesi. Nessun ospedale poteva più contenere l'epidemia". Questo primario, prima dell'emergenza, era in ferie. Bergamasco di 65 anni, il 29 febbraio sarebbe stato il suo primo giorno di pensione. Nell'attesa, smaltiva gli arretrati. Avvisato del primo allarme, è corso a Codogno e non si è più mosso dal reparto, pronto a continuare a curare i malati "finché servirà ". I colleghi infetti sono sei, tra pronto soccorso, medicina e terapia intensiva. Il crollo di sanitari per curare i pazienti in quarantena è ora "l'emergenza dopo l'emergenza". "Una falla - dice un altro medico di Codogno - forse si è aperta dopo la prima diagnosi. Tra giovedì pomeriggio e venerdì l'ospedale infettato non è stata chiuso. A personale e degenti non sono state fornite mascherine. Gli ambienti non sono stati disinfettati. Non erano disponibili tamponi per tutti. L'epidemia ha potuto moltiplicarsi. Simili interventi non sono però compito di chi cura i malati". Il rilievo, respinto, viene recapitato ai vertici della sanità lodigiana e della Lombardia, nel mirino del premier. Chiamato ora a sua volta in causa da sindaci e residenti della zona rossa. "È inaccettabile - accusa a nome di tutti Costantino Pesatori, sindaco di Castiglione - dover elemosinare mascherine e disinfettanti per sopravvivere, dopo essere stati reclusi sine die per solidarietà nazionale. Nel cuore del focolaio la gente, oltre che sacrificata, è abbandonata. Una mascherina costa 8 euro, se si trova. Non abbiamo più un pronto soccorso. Gli anziani stanno ore in coda al freddo per fare la spesa, prima di scoprire che gli alimenti sono finiti". A centinaia raggiungono così gli accessi sigillati alla zona rossa. Qui parenti e amici, dall'esterno, lasciano sulla strada generi di prima necessità.

Il premier Conte contro i medici, ormai intoccabili solo giornalisti e magistrati. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. Un presidente del Consiglio che si scaglia contro un intero ospedale e minaccia le Regioni di sottrarre loro le competenze sulla salute dei cittadini, e il presidente della regione Lombardia che risponde per le rime e difende i suoi camici bianchi, l’eccellenza della sanità del nord Italia. È bastata questa scaramuccia, da cui il premier Conte ha dovuto fare una rapida retromarcia per non mettere in imbarazzo il ministro della Salute, Roberto Speranza, per disvelare quanto in basso nella classifica di quelli che contano sia scesa la categoria dei medici, penultima solo rispetto a quella degli insegnanti. Un sanitario o un docente, nel mondo di “uno vale uno”, può essere sbeffeggiato, vilipeso, insultato e persino picchiato, senza che questi fatti non vengano considerati poco più gravi di una pacata critica. Ma provi qualcuno a tirare le orecchie a un pubblico ministero che abusi del proprio potere di manette o a presentare una proposta di legge che sanzioni i giornalisti se per esempio sputtanano la vita personale di chicchesia. Provi, quel signor qualcuno, e mal gliene incoglierà. Perché nella gerarchia del potere, quella di “fasci e corporazioni” si sarebbe detto negli anni più bui e tristi, le vere Caste sono solo due, quella dei magistrati e quella dei giornalisti. Soprattutto quando e se tra le due categorie c’è complicità. Chi ha il potere di toglierti la libertà e chi ha quello di toglierti la reputazione, hanno nelle mani la tua vita. Non ti regalano niente, e devi anche ringraziarli se non ti hanno fatto troppo male. Li temi e li ammiri perché sanno farti paura. Ma dall’ostetrica che fa nascere il tuo bambino, dall’oncologo che ti aiuta a difenderti dal tumore, come dal maestro che ti fa uscire dall’analfabetismo o dal docente che ti dà formazione e cultura, tu ti aspetti tutto come dovuto. E ti innervosisci se non riesci ad avere da loro tutto e subito. Perché loro sono ai tuoi occhi le pezze da piedi al tuo servizio, sono i corpi da umiliare, strattonare, picchiare. Violentare, se sono donne. È successo e succede. Un’indagine presentata un anno fa dalla Federazione nazionale dei medici e degli odontoiatri aveva rilevato, sulla base di un questionario cui avevano risposto oltre cinquemila operatori sanitari, che un medico su due viene insultato e che il 46% teme di essere aggredito, cosa che nel 4% dei casi è già successa, con 1.500 lesioni all’anno sul lavoro, secondo i dati Inail. C’è poi un’altra indagine, condotta tra operatori sanitari del Pronto soccorso e del 118, che fa schizzare fino al 34% le aggressioni fisiche e al 66% quelle verbali. Al medico vengono imputati ritardi e disfunzioni del sistema. E, soprattutto in determinate regioni, il nervosismo dei pazienti ha anche qualche fondamento. Tanto che gli stessi medici non sempre denunciano, rassegnati a subire la violenza e gli insulti quasi come facessero parte dei rischi professionali. Ma il fenomeno è in crescita, soprattutto nei confronti delle dottoresse, quando sono da sole a svolgere i turni di notte nei presidi ospedalieri, dove si sono verificati anche casi di violenza sessuale. Si cercano soluzioni, ma c’è un problema culturale di fondo, che si è manifestato anche in questi giorni, dopo la comparsa in Italia del contagio dal coronavirus. C’è una sottile sfiducia sottopelle nei confronti di chi ha il compito di curarci, che provoca anche nella civilissima Milano, comportamenti dissociati incomprensibili. Il medico dice che la mascherina non serve (se non al malato che con generosità la indossa per non contagiare gli altri)? Tutti assaltano le farmacie e vanno in giro con la mascherina, perché non si fidano. Forse se glielo dicesse un magistrato, vien da pensare, risulterebbe più autorevole. I virologi si sgolano a spiegare come avviene il contagio (la famosa gocciolina dello starnuto o del colpo di tosse, efficace solo se siete a distanza ravvicinata, ma depotenziata quando plana sugli oggetti)? Non ci crede quasi nessuno, come se la verità fosse tenuta nascosta e si aggirasse per le città e i paesi un mostro che sputacchia virus che tutto infettano, gli oggetti, le case, le strade. Che sono infatti deserte, con l’esclusione dei supermercati, che subiscono un vero “assalto ai forni” quale non si è visto neppure in tempo di guerra. La bulimia del tutto e subito e abbondante a compensazione della paura e dell’insicurezza. Rese ancora più forti dalle dichiarazioni irresponsabili e ingrate del presidente del Consiglio. Il quale dovrebbe almeno ricordare che c’è stato un medico che l’ha fatto nascere e qualche altro che l’ha curato quando ne ha avuto bisogno. E che ce ne sono tanti che in questi giorni stanno saltando le ore di riposo anche per far fare bella figura a uno che continua a pensare che “uno vale uno”.

Ma davvero il focolaio di Coronavirus è colpa dell’ospedale di Codogno? Alessandro D'Amato il 25 Febbraio 2020 su nextquotidiano.it. «Non prendiamo nulla sotto gamba altrimenti non avremmo adottato misure di estremo rigore. Non possiamo prevedere l’andamento del virus: c’è stato un focolaio e di lì si è diffusa anche per una gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi, e questo ha contribuito alla diffusione. Noi proseguiamo con massima cautela e rigore»: Giuseppe Conte ieri ha puntato il dito contro l’ospedale di Codogno e sulla sua gestione del Coronavirus per spiegare l’epidemia in Lombardia. Conte, a Frontiere su Raiuno, ha spiegato che all’origine di uno dei focolai c’è stata la gestione «di un ospedale» non in linea con i protocolli. E ovviamente si tratta di un ospedale di una regione del Nord. Il riferimento è a come è stato gestito il paziente uno, ovvero Mattia, che si è presentato una prima volta a Codogno quando già era malato senza però dire di aver frequentato il cognato di Fiorenzuola di ritorno dalla Cina – va anche detto che nel frattempo il cognato è risultato negativo a tutti i test su COVID-19 – e lì non sono stati attivati per la prima volta tutti i protocolli di sicurezza: cinque medici e tre pazienti dell’ospedale infatti sono già risultati contagiati.

Il paziente 1 in Lombardia (La Repubblica, 22 febbraio 2020) Per questo ieri, scatenando polemiche, Conte ha chiesto anche ai presidenti delle Regioni fuori dall’area del contagio di non agire da soli, senza indicazioni da Roma. Le sue parole hanno scatenato lo scontro con Matteo Salvini (che ieri è stato accusato dal premier di non aver risposto su Whatsapp e alle sue telefonate). «Conte usa parole quasi fasciste, evoca i pieni poteri, si dimetta», dice Riccardo Molinari a nome della Lega lamentandosi per la stessa cosa che aveva fatto Salvini all’epoca della crisi del Papeete. Anche Fontana non ci sta: «Sono state proprio le Regioni a indirizzare verso certe decisioni, a essere state proattivee ad adeguarsi alle difficoltà del momento dando una risposta di efficienza superiore», rimarca. E rinfaccia al premier: «Bisognerebbe dire anche che non sono state tanto ascoltate quando abbiamo detto qualche tempo fa, circa un mese fa, che forse bisognava assumere un po’ più di attenzione al fatto che il virus potesse arrivare anche nel nostro Paese».

Ma davvero il focolaio di coronavirus è colpa dell’ospedale di Codogno? C’è da dire che l’accusa di Conte ha scatenato risposte veementi. L’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera: «Sono accuse ingiuste, difendo i medici dell’ospedale di Codogno, hanno fatto il loro dovere e seguito i protocolli inviati dal Ministero della Salute e dall’Oms, che dicevano di fare i test solo a chi tornava dalla Cina, addirittura all’inizio si diceva solo da Wuhan. Piuttosto Conte ci deve spiegare perché la Protezione civile si è fatta trovare sguarnita di strumenti in questa emergenza, non ha mascherine, non ha i tamponi, non ha nulla. E chiedono a noi di reperirle in pochi giorni. Conte lasci stare i medici di Codogno». «In pronto soccorso siamo stati perfino fortunati», dicono gli esperti di indagine epidemiologica: senza la falsa pista dell’altrettanto falso paziente zero tornato dalla Cina, forse la scoperta del contagio sarebbe avvenuta ancora più tardi, con il numero degli infettati moltiplicato per due o per tre.

Il Coronavirus in Italia regione per regione (Corriere della Sera, 25 febbraio 2020) Intanto ieri è emersa la positività di un dipendente dell’anagrafe del Comune di Lodi, che, secondo quanto racconta Il Cittadino, era andato al pronto soccorso per un problema cardiaco proprio quando c’era il paziente uno. I dipendenti dell’ospedale resistono, tra chi parla con i giornalisti c’è chi racconta: «Non ci hanno ancora spedito dotazioni adeguate». I tamponi per i test cominciano a scarseggiare, quelli che si fanno a domicilio nelle case di Codogno vengono garantiti solo a coloro che hanno i sintomi della malattia.

Il virus all’ospedale di Codogno. Massimo Galli, professore ordinario di Malattie infettive all’Università di Milano e primario al Sacco, ha spiegato ieri in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera perché ci sono tanti casi di coronavirus in Italia: «Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione».

Coronavirus: infezioni, sintomi e test del tampone (La Repubblica, 24 febbraio 2020). Galli oggi sul Corriere ha parzialmente rettificato la sua posizione: «L’attribuzione di una responsabilità diretta e di un comportamento scorretto ai colleghi e all’ospedale di Codogno —chiarisce l’infettivologo — va comunque assolutamente al di là delle mie intenzioni e delle mie convinzioni». E ancora: «È verosimile che l’epidemia non sia, nella sua origine, recentissima nell’area del Lodigiano ed è certo che la persona che si è rivolta all’ospedale di Codogno per assistenza non è colui che ha importato il virus in Italia (il cosiddetto paziente «zero», ndr). È quindi probabile che il virus sia circolato per diversi giorni prima che il caso grave numero uno si rivolgesse ai sanitari di Codogno. È altrettanto evidente che i colleghi di tale ospedale non avevano  alcun elemento che li aiutasse a sospettare le cause delle manifestazioni cliniche del paziente, che non poteva essere considerato sospetto per coronavirus in base alle definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità».

Performance Sanitaria, migliori al Sud: Puglia, Abruzzo e Basilicata. Gelormini su Affari Italiani Giovedì, 29 marzo 2018. Sanità. Sul podio Emilia Romagna, Marche e Veneto. Giù Sicilia e Molise. Puglia, Abruzzo e Basilicata migliori al Sud. Emiliano soddisfatto. Nel 2017 ben 13 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi per motivi economici, per le lunghe liste di attesa o perché non si fidano del sistema sanitario della loro regione. Oltre 320 mila “viaggi della speranza” dal Sud con bilanci in rosso per ben 1,2 miliardi di euro. Cresce la “democrazia sanitaria”: 357 milioni di euro pari ad un incremento del 15% rispetto al 2016. Litigare nel comparto sanitario è costato quasi 500 mila euro al giorno. Il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio: "Razionalizzare la mobilità senza prima valorizzare le strutture sanitarie al Sud minerebbe il diritto alla salute principalmente dei cittadini meridionali". é quanto emerge dall’IPS, l’Indice di Performance Sanitaria realizzato dall’Istituto Demoskopika. E' l’Emilia Romagna, la regione in testa per efficienza del sistema sanitario italiano, strappando la prima posizione al Piemonte, mentre Sicilia e Molise si collocano in coda tra le realtà “più malate” del paese. In totale sono sei le realtà territoriali definite “sane”, nove le aree “influenzate” e cinque le regioni “malate”. Crolla il Piemonte che precipita di ben 10 posizioni rispetto all’anno precedente, collocandosi nell’area delle regioni “influenzate”. Entrano, inoltre, nell’area delle realtà sanitarie d’eccellenza, Marche, Veneto, Toscana e Umbria. Al Sud la migliore perfomance spetta alla Puglia, all’Abruzzo e alla Basilicata che migliorano la loro “condizione”, rispetto all’anno precedente, lasciando l’area dei sistemi sanitari locali più sofferenti. La Calabria abbandona, per la prima volta, l’ultima posizione tra le realtà “malate” collocandosi immediatamente al di sopra di Sicilia e Molise. Nel 2017, inoltre, ben 13,5 milioni di italiani, pari al 22,3%, hanno rinunciato a curarsi per motivi economici, per le lunghe liste di attesa e perché, non fidandosi del sistema sanitario della regione di residenza, non hanno potuto affrontare i costi della migrazione sanitaria ritenuti troppo esosi. Un comportamento ancora significativamente preoccupante nonostante una rilevante contrazione rispetto al 2016 pari all’11,8%. Lo confermano i dati dell'IPS, l’Indice di Performance Sanitaria realizzato dall’Istituto Demoskopika sulla base di otto indicatori: soddisfazione sui servizi sanitari, mobilità attiva, mobilità passiva, risultato d’esercizio, disagio economico delle famiglie per spese sanitarie out of pocket, spese legali per liti da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, costi della politica e speranza di vita. "Lo studio - commenta il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio - conferma alcune dicotomie persistenti nell’analisi dei sistemi sanitari locali. Da un lato il permanere di una divario tra Nord e Sud, nonostante qualche miglioramento rilevato in alcune realtà meridionali e, dall’altro, la difficoltà evidente di erogare un’offerta sanitaria appropriata nel rispetto dei vincoli dell’efficienza condizionata dalle risorse scarse disponibili. Non va sottovalutato, inoltre, il recente orientamento della Conferenza delle Regioni di contenere la mobilità sanitaria che potrebbe alimentare il divario esistente tra le diverse offerte sanitarie locali". "Ulteriori tagli alla mobilità sanitaria, infatti - precisa Raffaele Rio -  immolati alla causa della razionalizzazione delle risorse e a interventi di riequilibrio, principalmente in alcune specifiche situazioni territoriali, potrebbero ripercuotersi sul diritto di scelta del luogo di cura, penalizzando fortemente le realtà del Mezzogiorno e minando al cuore il diritto alla salute dei cittadini residenti in quelle aree". "In questo quadro - aggiunge Rio - la nostra analisi punta a misurare efficienza, efficacia e soddisfazione quali dimensioni della perfomance sanitaria per misurare l’andamento del comparto a livello locale prioritariamente nell’ottica dell’equità del sistema, della qualità dell’offerta erogata ai cittadini e dei miglioramenti allo stato di salute attribuibili alle azioni prodotte. Un tentativo senza alcuna pretesa di esaustività considerata l’assoluta esigenza di realizzare un attento e costante monitoraggio dei sistemi regionali, assolutamente diversi da realtà a realtà. In questa direzione - conclude Raffaele Rio - l’analisi di Demoskopika, giunta al sua terza edizione, punta ad offrire agli amministratori un indice sintetico di confronto tra sistemi e ai cittadini uno strumento agevole per valutare se e in che modo la programmazione sanitaria locale riesce a  rispondere ai bisogni di salute della popolazione nelle singole realtà regionali". “Lo avevo detto che le cose della sanità pugliese erano in leggero ma evidente miglioramento", ha commentato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sottolineando i dati che fanno della Puglia la regione del Sud con la migliore perfomance, "La Puglia ha migliorato la sua "condizione" rispetto all'anno precedente, lasciando l'area dei sistemi sanitari locali più sofferenti". "Bene così, continuiamo ad andare avanti nel percorso di costruzione della buona sanità che abbiamo intrapreso sin dal 2015 - ha aggiunto il Governatore - l'obiettivo resta quello di potenziare ancora i nostri sistemi sanitari, rendendoli sempre più efficaci e migliorando le prestazioni". "Siamo insomma sulla buona strada anche se c’è ancora molto da fare. Essere usciti dalla zona retrocessione e riuscire a collocarci a metà classifica è davvero uno straordinario risultato". "Ma per portare la Puglia ad essere tra le migliori regioni del Paese per quanto riguarda la sanità, dobbiamo impegnarci tutti. Io vi assicuro - ha concluso Emiliano - che la cura verso i cittadini pugliesi è e continuerà ad essere una delle priorità politiche del nostro mandato insieme con il lavoro che dobbiamo fare affinché i risultati ottenuti siano percepiti in maniera tangibile da tutti i pugliesi”.  Comportamenti: oltre 13 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per motivi economici, lunghe liste d’attesa e sfiducia nel sistema sanitario.  Una famiglia su tre (34,3%) in Italia ha rinunciato a curarsi nel 2017. È quanto emerso dal sondaggio realizzato annualmente dall’Istituto Demoskopika ad un campione rappresentativo di cittadini. Tra i fattori principali figurano i “motivi economici” e le “lunghe liste di attesa” rispettivamente nel 10,9% e nel 9,8% dei casi. E, ancora, l’8,9% del campione intervistato ha dichiarato di non curarsi “in attesa di una risoluzione spontanea del problema” o, addirittura, per “paura delle cure” come nel 2,9% dei comportamenti rilevati. L’impossibilità ad occuparsi della propria salute o di quella di qualche suo familiare perché “curarsi fuori costa troppo, non fidandosi del sistema sanitario della regione in cui vive”, inoltre, ha rappresentato un valido deterrente per l’1,6% dei cittadini, con un picco nelle realtà regionali del Sud pari al doppio (3,1%). La paura delle cure, infine, con il 2,9% dei casi rilevati, chiude le motivazioni della rinuncia a curarsi nel 2017. Classifica “IPS 2018”: sei i sistemi sanitari più “sani”. Sud si conferma “malato” ma con qualche miglioramento. è un testa a testa tra realtà del Nord e del Centro, la competizione sulla migliore perfomance dei sistemi sanitari regionali. A “condizionare” i cambiamenti nell’area “sana” della classifica dell’Indice di perfomance sanitaria dell’Istituto Demoskopika per il 2017 rispetto all’anno precedente, i miglioramenti rilevanti prioritariamente di Veneto, Marche, Umbria, Emilia Romagna e Toscana.  A guidare la graduatoria, in particolare, l’Emilia Romagna che con un punteggio pari a 646,6 conquista la vetta, spodestando il Piemonte che, con 497,4 punti, ha registrato una retrocessione di ben 10 posizioni rispetto all’anno precedente collocandosi nell’area delle regioni con un sistema sanitario “influenzato”. Seguono, tra i migliori sistemi sanitari locali, le Marche (624 punti) che, con un saldo in avanti di 5 posizioni rispetto al 2016, ottiene la seconda posizione immediatamente seguita sul podio dal Veneto con 601,9 che con un rilevante balzo in avanti di ben 7 posizioni lascia l’area delle realtà sanitaria “influenzate” conquistando l’obiettivo di sistema “sano”. Nel cluster delle migliori, ci sono anche Toscana con 591 punti, Umbria con 581,7 punti e Lombardia con 580,4 punti. Nel gruppo, ben più consistente, delle regioni “influenzate” si collocano ben nove realtà: Friuli Venezia Giulia (552,7 punti), Trentino Alto Adige (527,4 punti), Lazio (519,8 punti), Liguria (504,6 punti), Piemonte (497,4 punti), Puglia (494,8 punti), Valle d’Aosta (467,9 punti), Abruzzo (431,3 punti) e Basilicata (405,8 punti). Sono tutte del Sud, infine, le rimanenti regioni che contraddistinguono l’area dell’inefficienza sanitaria, dei sistemi sanitari etichettati “malati” nel ranking di Demoskopika: Campania (395,5 punti), Sardegna (384,4 punti), Calabria (348,7 punti), Sicilia (332,7 punti) e Molise (309,9 punti). Soddisfazione: i sistemi più apprezzati in Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Veneto.  Circa 4  italiani su 10 (36,7%) dichiarano di essere soddisfatti dei servizi sanitari legati ai vari aspetti del ricovero: assistenza medica, assistenza infermieristica e servizi igienici. Un andamento in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente. L’indicatore conferma un divario più che significativo tra le diverse realtà regionali. I più “appagati” vivono in Valle d’Aosta che ha ottenuto il massimo del risultato (100 punti) immediatamente seguito dal Trentino Alto Adige (90,8 punti). A seguire con una distanza significativa, Veneto (70,9 punti), Emilia Romagna (66,5 punti), Umbria (64,6 punti), Piemonte (58,5 punti), Liguria (54,4 punti), Friuli Venezia Giulia (45,4 punti), Marche (43 punti), Lazio (34, 7 punti), Toscana (33 punti) e Sardegna (32,5 punti), realtà in cui il livello medio di soddisfazione per i servizi ospedalieri, rilevata dall’Istat tra coloro che hanno subìto almeno un ricovero nei tre mesi precedenti l’intervista, oscilla tra il 50% ed il 30%. In coda alla graduatoria per il minor livello di soddisfazione, pari mediamente al 20%, si collocano le rimanete sette realtà regionali: Campania, Abruzzo, Molise, Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata.

Mobilità sanitaria attiva: Molise in testa, Sardegna in coda. Per Molise e Sardegna confermati i primati positivo e negativo relativi alla mobilità sanitaria attiva in Italia. In particolare, analizzando gli ultimi dati disponibili relativi al 2016, è il Molise, con 100 punti, a mantenere la prima posizione della graduatoria parziale relativa alla mobilità attiva, l’indice di “attrazione” che indica la percentuale, in una determinata regione, dei ricoveri di pazienti residenti in altre regioni sul totale dei ricoveri registrati nella regione stessa, e che in Molise, per l’appunto, è pari al 28%. Sul versante opposto, si colloca la Sardegna con un rapporto tra i ricoveri in regione dei non residenti sul totale dei ricoveri erogati pari all’1,5%. In valori assoluti, sono principalmente cinque le regioni che attraggono il maggior numero di pazienti non residenti: Lombardia (163 mila ricoveri extraregionali), Emilia Romagna (109 mila ricoveri extraregionali), Lazio (78 mila ricoveri extraregionali), Toscana (69 mila ricoveri extraregionali) e Veneto (61 mila ricoveri extraregionali).

Mobilità sanitaria passiva: oltre 320 mila “viaggi della speranza” dal Sud. I meridionali confermano la loro diffidenza a curarsi nelle loro realtà di regionali. In particolare, con un indice medio di “fuga”, pari al 10,4%, che misura, in una determinata regione, la percentuale dei residenti ricoverati presso strutture sanitarie di altre regioni sul totale dei ricoveri sia intra che extra regionali, il Sud si colloca in fondo per attrattività sanitaria dopo le realtà regionali del Centro con un indice di fuga pari all’8,9% e del Nord (6,8%). Ciò significa che, nei 12 mesi del 2016, la migrazione sanitaria dalle realtà regionali del meridione può essere quantificabile in oltre 321 mila ricoveri. Come per la mobilità attiva, anche per la mobilità passiva, lo studio di Demoskopika ha generato una classifica parziale che vede collocate, nelle “posizioni estreme”, il Molise in cima per “diffidenza” con un indice di mobilità passiva pari 27,2%; sul versante opposto, i più “fedeli” al loro sistema sanitario si confermano i lombardi. La Lombardia, infatti, con appena il 4,7%, registra il rapporto minore di ricoveri fuori regione dei residenti sul totale dei ricoveri totalizzando il massimo del punteggio (100 punti). Un quadro del “turismo sanitario” che alimenta crediti per alcuni sistemi sanitari penalizzando, in termini di debiti maturati, tutto il meridione ad eccezione del Molise. E, analizzando la situazione nel dettaglio, si parte dalla Lombardia, quale sistema più virtuoso che, nel 2017, ha attratto circa 163 mila ricoveri generando un credito, al netto dei debiti, pari a 808 milioni di euro  per finire alla Calabria, quale sistema più penalizzato, che a fronte di poco meno di 60 mila ricoveri fuori regione, ha maturato un debito pari a oltre 319 milioni di euro. Spese legali: “litigare” costa 480 mila euro al giorno. Nel solo 2017, le spese legali per liti, da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, sostenute dal comparto sanitario italiano ammontano a 175 milioni di euro, circa 480 mila euro al giorno. Sono le strutture sanitarie meridionali ad essere più litigiose concentrando oltre il 60% delle spese legali complessive, pari a ben 104 milioni di euro, seguire da quelle del Centro con 45,4 milioni di euro (26%) e del Nord con una spesa generata per 25,3 milioni di euro (14,5%). Sono Molise e Calabria a guidare la graduatoria dei sistemi sanitari pubblico più “avezzi” a contenziosi e sentenze sfavorevoli rispettivamente con una spesa pro-capite di 28,4 euro e 7,7 euro determinando esborsi in valore rispettivamente pari a 8,8 milioni di euro e 15,2 milioni di euro. Un dato ancora più rilevante se si considera che la spesa pro-capite italiana è di poco inferiore ai 3 euro. A seguire, nella parte più bassa della classifica dei più “litigiosi”, la Toscana con 6,8 euro di spesa pro-capite (25,4 milioni di euro), la Basilicata con 6,3 euro pro-capite (3,6 milioni di euro) e la Sicilia con 5,4 euro pro-capite (27,4 milioni di euro). Sul versante opposto, i meno litigiosi si sono rilevati i sistemi sanitari di Piemonte e Trentino Alto Adige con appena 0,5 euro di spesa pro-capite rispettivamente con 2 milioni di euro e 572 mila euro di spese legali.

Efficienza sanitaria: Marche, Umbria e Basilicata le più virtuose. Sono 9 su 20, i sistemi sanitari regionali capaci di ottimizzare le risorse finanziarie disponibili per garantire l’efficienza del comparto. In particolare, accanto ad un risultato d’esercizio in rosso complessivamente per oltre 1 miliardo di euro nel 2017, le realtà più “sane” si sono contraddistinte, al contrario, per un attivo pari a poco più di 52 milioni di euro. Una perfomance più evidente se si concentra l’attenzione sui singoli sistemi sanitari. E, infatti, spostando l’analisi a livello territoriale, si palesa maggiormente lo squilibrio economico strutturale in alcuni contesti regionali, nonostante lo strumento del piano di rientro.  E così, nel 2016 il risultato d’esercizio desumibile dal conto economico degli enti sanitari locali premia prioritariamente le Marche con un avanzo pari a 9,3 euro pro capite (14,4 milioni di euro), l’Umbria con un avanzo pari a 6,2 euro pro capite (5,5 milioni di euro) mentre relega nelle posizioni “meno virtuose” il Trentino Alto Adige con un disavanzo del sistema sanitario pari a 216,8 euro pro capite (230 milioni di euro, di cui è bene precisare solo 1,8 milioni di euro ascrivibili alla Provincia autonoma di Trento e la quota rimanente rilevante pari a 227,8 milioni di euro alla Provincia autonoma di Bolzano ), la Sardegna con un disavanzo del sistema sanitario pari a 193,5 euro pro capite (21,6 milioni di euro), la Valle d’Aosta con un disavanzo del sistema sanitario pari a 169,6 euro pro capite (321 milioni di euro) e il Molise con un disavanzo del sistema sanitario pari a 134,6 euro pro capite (42 milioni di euro).

Efficacia sanitaria: in Trentino Alto Adige si vive più a lungo.  Lo studio di Demoskopika utilizza la speranza di vita, data dal numero medio di anni che una persona può aspettarsi di vivere al momento della sua nascita, quale indicatore per misurare l’efficacia dei sistemi sanitari regionali: più alta è la speranza di vita in una regione, maggiore è il contributo al miglioramento delle condizioni di salute dei cittadini prodotto dall’erogazione dei servizi sanitari in quel determinato territorio. Nel dettaglio, a guadagnare il podio della classifica parziale della speranza di vita, quale dimensione della perfomance sanitaria individuata da Demoskopika, si collocano il Trentino Alto Adige che con una speranza di vita media più elevata rispetto al resto d’Italia pari a 83,6 anni ottiene il punteggio massimo. Seguono Marche (91,6 punti), Umbria e Veneto a pari merito con 89,2 punti. Quattro le realtà regionali, infine, ad essere caratterizzate da una vita media più bassa: la Campania con una speranza di vita pari a 81,1 anni produce la perfomance peggiore, seguono Sicilia (30,4 punti), Valle d’Aosta (32 punti) e Calabria (49,2 punti).

Costi politica: spesi oltre 357 milioni di euro per la “democrazia sanitaria”, +14,8% rispetto al 2016. Mantenere il management delle aziende ospedaliere, delle aziende sanitarie e delle strutture sanitarie, più in generale, è costato oltre 357 milioni di euro nel 2017 con un incremento significativo, pari al 14,8% rispetto all’anno precedente (311 milioni di euro). A livello locale, a emettere più mandati di pagamento, in termini pro-capite, per indennità, rimborsi, ritenute erariali e contributi previdenziali per gli organi istituzionali sono state le strutture sanitarie della Sicilia con 11,6 euro di spesa pro-capite pari a complessivi 58,4 milioni di euro. Seguono a distanza le “democrazie sanitarie” della Lombardia con 9,5 euro di spesa pro-capite (94,7 milioni di euro) e del Trentino Alto Adige con 8,5 euro di spesa pro-capite (9 milioni di euro). Al contrario, a spiccare per maggiore “parsimonia” nell’impiego del management sanitario, le Marche con 1,4 euro di spesa pro-capite (2,1 milioni di euro), il Molise con 1,8 euro di spesa pro-capite (560 mila euro) e la Campania con 2 euro di spesa pro-capite (11,4 milioni di euro). Disagio economico: colpite oltre 1,5 milioni di famiglie italiane. L’indicatore “famiglie impoverite” esprime, in termini percentuali, la quota di famiglie in condizioni di disagio economico per le spese sanitarie out of pocket (farmaci, case di cura, visite specialistiche, cure odontoiatriche, etc.). Esso aggrega sia i fenomeni dell’impoverimento sia quello delle nuove rinunce alle spese sanitarie. A finire nell’area del disagio economico, a causa delle spese sanitarie out of pocket, sono soprattutto le famiglie in Molise con una quota del 10% quantificabile in circa 13 mila nuclei familiari. Seguono la Campania con una quota del 9,9% pari a ben 225 mila famiglie,  la Calabria e la Sardegna entrambe con una quota del 9,2% coinvolgendo nel processo di impoverimento rispettivamente 67 mila e 74 mila nuclei familiari. Capovolgendo la classifica, sono Marche e Trentino Alto Adige a meritare il ranking migliore in questa graduatoria parziale dell’Indice di Performance Sanitaria (IPS 2017) di Demoskopika, con una quota percentuale, per entrambe le realtà, di appena il 2,7% di nuclei familiari in condizioni di disagio economico per le spese sanitarie out of pocket che ha coinvolto rispettivamente 17 mila e 12 mila nuclei familiari.

NON SOLO MALASANITÀ AL SUD. 5 ECCELLENZE CHE FUNZIONANO.  Dario Portaccio il 20 Giugno 2019 su buonenotizie.it. Molto spesso si sente parlare di malasanità al Sud. Così tanto spesso da renderla un ovvio (e dannoso) modus pensandi. Certo, vero è che casi di questo genere ve ne sono. Basti pensare alle 570 denunce nel periodo 2009-2012 contro il personale ospedaliero e sanitario, la maggior parte delle quali riguardanti la Calabria e la Sicilia. Per non parlare delle statistiche, che evidenziano che chi vive al Sud ha un’aspettativa di vita di 4 anni inferiore rispetto al Nord Italia a causa delle scarse cure e dell’altrettanta scarsa prevenzione. A questo si aggiunge l’elevata migrazione dei pazienti dal Sud al Nord (i cosiddetti “viaggi della speranza”) per curarsi in cliniche (forse) un po’ più all’avanguardia rispetto a quelle del Meridione. E, ancora, la corruzione diffusa negli ospedali pubblici del Sud, oltre ai tagli della spesa pubblica ospedaliera in vista del riordino degli stessi.

Puglia. Il Sud che stupisce. Eppure, ci sono tanti casi di cui non siamo a conoscenza. Casi (che non sono un “caso”) che prendono il nome di buona sanità. Quello che si scopre è che le eccellenze in campo sanitario provengono anche da quei luoghi e da quelle regioni che spesso sono additate come classici esempi di malasanità, come la Puglia, prima tappa di questo nostro viaggio. Secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2017 i malati pugliesi si sono curati in loco, riducendo così i viaggi fuori regione; almeno questo accade nell’ambito della rete oncologica. Ne abbiamo parlato qui.

Campania: in viaggio fra centri di eccellenza. Il nostro viaggio prevede una sosta a Napoli: l’Istituto Nazionale Tumori di Napoli IRCCS “Fondazione G. Pascale” è stato infatti insignito del titolo di Centro di eccellenza da parte della società europea ENETs, acronimo di European Neuroendocrine Tumor Society, per via degli elevati standard di qualità conseguiti e per l’ampia casistica trattata di tumori neuroendocrini. Inoltre, presso tale centro sono previsti due incontri mensili multidisciplinari, volti a mettere in comunicazione le conoscenze e le competenze di una molteplicità di specialisti di ambiti eterogenei e curare così la patologia da cui è affetto il paziente sotto più punti di vista, fino ad arrivare ad adottare cure personalizzate. Leggi qui altri casi di buona sanità in Campania.

Calabria. Il 24 novembre 2018 la sala operatoria dell’Ospedale “Santissima Annunziata” di Cosenza diretta dal Dottor Ninni Urso è stata coprotagonista – insieme alle maggiori eccellenze mondiali – del 28° Congresso Internazionale di Chirurgia dell’apparato digerente tenutosi a Roma. L’equipe, infatti, ha realizzato due interventi di chirurgia bariatrica trasmessi in videoconferenza a Roma, volti a ridurre il livello di grasso corporeo nei soggetti obesi.

Sicilia. E ora raggiungiamo la Sicilia, l’isola di Montalbano e delle terapie sperimentali, che interessano il Presidio Ospedaliero “Villa Sofia-Cervello”. A seguito di un severo percorso di valutazione, il Bureau Veritas, infatti, ha concesso l’ambita certificazione ISO 9001 per le sperimentazioni cliniche riconoscendo l’efficacia delle procedure di sperimentazione relative al trattamento delle neoplasie.

La penultima tappa del viaggio ha come luogo privilegiato Taormina, dove è stato impiantato il pacemaker più piccolo al mondo. Sempre a Taormina e, più precisamente, presso l’Ospedale “San Vincenzo” l’Unità Operativa Complessa (U.O.C) di Otorinolaringoiatria e Chirurgia cervico-facciale guidata dal Primario Prof. Antonio Politi è stata annoverata nel team costituito da 120 medici specialisti di fama internazionale. L’equipe mondiale ha come obiettivo lo studio di un innovativo metodo di trattamento dei tumori testa/collo e si è riunita a Israele nel mese di marzo. Per via dell’eccellenza costituita da questo reparto si verificano addirittura dei ricoveri di pazienti provenienti da altre regioni italiane, invertendo il turismo sanitario Nord vs Sud. In questo ospedale, inoltre, si è deciso di istituire ogni mese un giorno dedicato allo svolgimento gratuito di esami e privo di vincoli burocratici.

Migrazioni “atipiche”. Accanto a questo nostro viaggio nel Sud vi sono storie di migrazioni al contrario di persone che dal Nord si recano nel Meridione per curarsi. È il caso di una paziente,Manuela Manenti, che da Milano ha deciso di curarsi presso l’ospedale “Sant’Anna” di Catanzaro. Dove, oltre ad aver trovato la cura al suo problema cardiaco, ha trovato una qualità tanto preziosa quanto rara, soprattutto in ambito medico: umanità. Ed eccoci arrivati alla fine (per il momento) di questo breve viaggio. Insieme all’immancabile leggerezza di Perseo, planando sulle cose dall’alto, parafrasando Calvino, senza avere macigni sul cuore. Per non essere sommersi dall’insostenibile peso delle cattive notizie.

Sanità: al Nord il 42% del fondo nazionale, al Sud il 23%. Dove vogliamo arrivare?  Calabria News 20 Gennaio 2020. Il tema della qualità, efficacia ed effiecienza del sistema sanitario nazionale anima da sempre il dibattito e, ovviamente, non solo quello politico. Oggi vi proponiamo l’editoriale del direttore de “Il Quotidiano del Sud”, Roberto Napoletano che da molti mesi, ormai, sta conducendo un’operazione “verità” circa le risorse economiche che lo Stato impegna per garantire i servizi sanitari essenziali, scoprendo e, quindi, svelando le differenze marcate che insistono nella ripartizione delle somme che l’apposito fondo nazionale della sanità destina alle diverse aree del nostro Paese. Dati che, come ben sanno gli addetti ai lavori del Meridione, spazzano il campo dalle “bufale” e dai luoghi comuni (spesso utilizzati per interessi politici) che vorrebbero una sanità del Sud sprecona ed inefficiente. Ma è davvero così? Ecco come Roberto Napoletano smonta questa macroscopica balla. “Che cosa può consentire che un cittadino campano riceva per la sanità pubblica 1.729 euro, un cittadino ligure 2.062 e uno trentino 2.206 per non parlare di Bolzano dove gli euro sono 2.363? Quale ragione divina, terrena, logico-deduttiva può stabilire che al Nord vada il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità e all’intero Mezzogiorno poco più della metà e, cioè, il 23%? Perché l’Emilia-Romagna ha ricevuto in tredici anni 3 miliardi in più, a sostanziale parità di popolazione, rispetto alla Puglia? È vero o no che, pur partendo da una situazione di vantaggio tanto indubbia quanto ingiustificata, sei Regioni del Nord hanno visto aumentare in cinque anni la loro quota di finanziamenti pubblici mediamente del 2,36% con un ritmo di crescita di due/terzi di punto in più delle Regioni meridionali? Abbiate pazienza: ma che Paese è quello che abolisce di fatto il servizio sanitario nazionale, adotta criteri di ripartizione dei trasferimenti che aiutano smaccatamente le Regioni in partenza più ricche e meno bisognose? Che arriva, addirittura, a concepire che questo indebito privilegio iniziale cresca automaticamente negli anni aumentando lo squilibrio tra territori “fabbricando” cittadini di serie A e cittadini di serie B e facendo tutto ciò, per di più, in debito? Per capirci: caricando, cioè, sulle spalle di tutti gli italiani anche quelli sacrificati il “magna magna” del finanziamento pubblico ai privati della sanità dei ricchi elargito con criteri di comodo e fuori da ogni regola di equità e di efficienza. Come si spiegherebbe, altrimenti, che a peggiorare i conti, aumentando il “rosso” nei bilanci della sanità italiana, sono proprio le Regioni del Nord? Il “Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica” approvato lo scorso maggio dalla Corte dei conti è inequivoco: l’aggravamento “va ricondotto soprattutto alle Regioni a statuto ordinario del Nord, che passano da un avanzo di 38,1 milioni del 2017 a un disavanzo di circa 89 milioni”. I numeri sono sotto gli occhi di tutti: il Piemonte ha avuto un risultato negativo di 51,7 milioni; la Liguria ha coperto il disavanzo di 56,1 milioni con risorse iscritte nel bilancio 2019 per 60 milioni e perfino la Toscana, il cui sistema sanitario viene elogiato come esempio virtuoso, nel 2018 ha prodotto un passivo di 32 milioni circa. Al Nord, ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti sempre ogni mille abitanti. Con punte di squilibrio che fanno accapponare la pelle come nel caso del Veneto, la Regione del “doge” Zaia che non fa altro che lamentarsi, dove i dipendenti sanitari non medici sono 16mila in più di quelli della Campania nonostante un milione di abitanti in meno. Tutto ciò, sia chiaro, delinea una responsabilità enorme della classe dirigente meridionale che non ha saputo difendere i suoi diritti e che ha reagito a volte tardi e male all’esigenza di riorganizzarsi, ma qualsiasi valutazione presente e futura deve partire da questi numeri-verità e dalla straordinaria forza delle tante eccellenze sanitarie meridionali costrette a fare le nozze con i fichi secchi. Nulla può più consentire che ci siano territori meridionali sempre più vasti e diffusi in cui è pericoloso ammalarsi perché hanno chiuso gli ospedali e non sono state date le risorse minime per avviare una riorganizzazione dei servizi e alternative all’altezza. Sono vergogne italiane non più tollerabili. Soprattutto, se si pensa che quelle stesse risorse negate al Sud sono state regalate al Nord per fare nuovi debiti e nuovi buchi. Disgustoso”.

Pochissime risorse, ma tante eccellenze: così le regioni meridionali contengono il Coronavirus. Carlo Porcaro il 29 febbraio 2020 su Quotidiano del sud. La sanità del Sud modello da ammirare. Per la capacità di gestire i casi di Coronavirus sospetti nonché per la maggiore propensione a organizzarsi velocemente in occasione di emergenze. Si chiama “resistenza”, frutto del mix di eccellenze mediche e capacità di adattamento di un sistema non messo nelle pari condizioni dei concittadini oltre il Po. Si contano sulle dita di una mano i contagiati da Coronavirus nelle regioni meridionali, e sono tutti- ricostruendo le tappe dei singoli viaggi – provenienti dalle zone rosse del Nord. Insomma, sembra brutto dirlo, ma è colpa del Settentrione ricco di risorse e meno efficiente, alla prova dei fatti, se il Sud si ritrova a dover assumere provvedimenti urgenti per limitare il contagio.

I NUMERI. Sono quattro, per esempio, le persone affette da Covid-19 in Campania. L’Istituto superiore di sanità ha confermato ieri sera i nuovi tre casi campani di coronavirus: una ragazza di Caserta, una ragazza ucraina che proveniva dall’ospedale di Vallo e il napoletano 50enne dell’area di San Carlo all’Arena; il quarto è un militare di Benevento che aveva viaggiato con la ragazza di Caserta in auto. Però – ecco la notizia importante che fa capire come la gestione sia stata impeccabile sul piano della profilassi – i tamponi sui contatti dei primi tre hanno dato esito negativo. Quindi nessun rischio per le persone venute in contatto con i contagiati. Probabilmente in linea con le disposizioni nazionali si cercherà di limitare il numero di tamponi eseguiti, possibilmente limitandoli alle persone che presentano sintomi e che abbiano soggiornato nelle aree di focolai epidemici. A differenza del Veneto, che ha effettuato un eccessivo uso di tamponi. In alcuni Comuni i sindaci hanno dovuto informare la cittadinanza via web.

IL TRASFERIMENTO. C’è un nuovo primato per la sanità campana. «In questo periodo particolarmente complesso per la presenza di diversi casi di coronavirus nella regione Veneto abbiamo provveduto al trasferimento di un paziente sottoposto a trapianto polmonare da Padova all’ospedale Monaldi», hanno fatto sapere Maurizio di Mauro, direttore generale dell’Azienda ospedaliera dei Colli, e Antonio Corcione, direttore del Centro regionale trapianti della Campania. «La richiesta di trasferimento – hanno aggiunto – è arrivata al Crt dall’Azienda ospedaliera Padova e riguarda un paziente campano sottoposto a trapianto di polmone tre mesi fa ed è stata possibile grazie all’attivazione, presso l’ospedale Monaldi, del percorso di follow up per pazienti sottoposti a trapianto polmonare. L’obiettivo era quello di trasferire il paziente in una struttura adeguata per il prosieguo delle terapie». Insomma, in nome della collaborazione istituzionale senza frontiere è stato il Sud ad aiutare il Nord mettendo a disposizione strutture di eccellenza.

I GOVERNATORI. La giornata di ieri è stata tutta all’insegna della “tranquillizzazione”. Se a Napoli, per esempio, lunedì riapriranno regolarmente le scuole, in altre Regioni si è fatto il punto della situazione alla ricerca della serenità. Il governatore lucano Vito Bardi ha detto spiegato che tutto procede con normalità «ma siamo comunque pronti a intervenire in caso di emergenze». Nei prossimi giorni sono previsti altri incontri per affrontare le ricadute dell’emergenza sanitaria sull’economia e sul turismo. Le scuole per ora resteranno aperte «ma monitoreremo la situazione giorno per giorno: è il momento di lavorare tutti insieme, uniti e compatti per tutelare la nostra terra e i cittadini», ha aggiunto.

Michele Emiliano ha sottolineato l’impegno della Regione Puglia, chiedendo però di essere supportata sul fronte economico: «Per questo abbiamo inviato oggi una lettera al ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo Franceschini, per chiedere provvedimenti straordinari e urgentissimi a tutela delle imprese del settore e dei lavoratori, per fronteggiare l’emergenza almeno nei prossimi 60 giorni».

Polemico, infine, il presidente siciliano Nello Musumeci. «Non ci sono stati controlli sanitari obbligatori dello Stato sui passeggeri in arrivo tra aeroporti, porti e Stretto di Messina. Eppure, qualche idiota specula sul mio invito alla prudenza, rivolto ieri ai cittadini delle zone gialle a grave rischio di contagio, a rimandare di qualche settimana il loro arrivo in Sicilia, per la latitanza di misure preventive del governo centrale», ha detto attaccando ancora una volta Roma dopo il caso della nave di migranti lasciata sbarcare. 

DEMOCRISTIANI. L'editoriale di Roberto Napoletano il 4 marzo 2020 su quotidianodelsud.it. Nessuno fa niente per il suo Paese. Tutti stanno a guardare quello che fanno gli altri. Lo sport nazionale è giudicare o porre veti. Il motore dei comportamenti dei singoli sono il proprio interesse e l’invidia sociale. Una moltitudine ripetitiva di comportamenti individuali di questo tipo produce una collettività che riconosce le “capitali” dei loro egoismi e smarrisce l’identità comune di una nazione. Ne viene fuori una comunità in stato confusionale capace di fabbricare con le sue parole inutili una recessione in casa. Moro e Fanfani facevano lezione all’università e poi nel resto della giornata facevano politica. Molti della classe dirigente di governo di oggi – centrale e, soprattutto, regionale/locale – non potrebbero nemmeno seguire i corsi dei grandi professori democristiani. Ho pensato a Moro e Fanfani leggendo le dichiarazioni di Bruno Tabacci, politico di lungo corso e ex presidente della Regione Lombardia, al nostro Claudio Marincola: “Eravamo democristiani. E finché ci siamo stati noi la sanità pubblica non è mai stata messa in discussione. Poi è successo qualcosa, non mi chieda però cosa. So solo che ci fu un grande cambiamento, famiglie importanti già attive in altri settori iniziarono a investire nella sanità cifre notevoli e poco dopo arrivarono i tagli. Meno medici, meno infermieri, meno ospedali, meno posti-letto”. In queste parole c’è la chiave di quello che è avvenuto a Milano e, a catena, nell’intero Paese. Dietro la perdita di valore della sanità pubblica e di ciò che rappresenta in termini di sicurezza, di igiene e di prevenzione, c’è quello che l’attuale sindaco di Milano, Beppe Sala, ha definito “l’ecosistema sanitario” lombardo. Qualcosa che coniuga tagli lineari alla sanità pubblica e business dei privati. Si passa dalla chimica petrolifera alle cliniche, ma soprattutto si prenotano quote ingenti di risorse pubbliche con il moltiplicatore della Spesa Storica che favorisce il ricco a discapito del povero. Nessuno vuole discutere le eccellenze private, ma è sotto gli occhi di tutti come prevenzione e organizzazione dell’accoglienza pubblica abbiano sofferto con l’emergenza coronavirus. La sanità privata lombarda ha fatto incetta di finanziamenti sottratti alle Regioni del Sud – la sanità ospedaliera meridionale è finita sotto processo per clientele a volte vere ma di più per una moda funzionale agli interessi privati nordisti – e se ne guarda bene oggi da restituire qualcosa. Il virus che i focolai di Lodi e della bergamasca portano in superficie è la perdita del primato della cultura del servizio sanitario nazionale e della sanità pubblica. Quegli stessi micro-interessi degli azionisti-clienti di Banca Ubi che si oppongono per ragioni di bottega al disegno da sistema Paese di Intesa Sanpaolo si possono riscontrare nella cultura della fatturazione pubblica e dei super-rimborsi che appartiene alle famiglie private dell’ecosistema sanitario lombardo. Se la politica non dà una spallata a questi micro-interessi, l’Italia non potrà mai rialzare la testa.

La grande balla, il nuovo libro di Roberto Napoletano: «Il Nord vive sulle spalle del Sud». Redazione de ilgolfo24.it il 6 Marzo 2020. Si intitola “La grande balla” ed è il nuovo libro di Roberto Napoletano, frequentatore di Ischia, “Giornalista dell’Anno” nel 1990 al Premio Internazionale di Giornalismo, già direttore de Il Sole 24 ore. Con dati e statistiche ufficiali alla mano, l’autore racconta lo scippo di 61 miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato. Un’inchiesta esplosiva sulle vere cause, e le vere responsabilità, di un’Italia divisa in due, che si fa la guerra invece di unire le forze. La questione meridionale come non l’avete mai vista. È quanto assicura Roberto Napoletano, che torna in libreria con un saggio rigoroso e inedito sul divario tra Nord e Sud. Il titolo “La grande balla”, edito dalla Nave di Teseo. Secondo la ricostruzione dell’autore, «la regione Veneto fa pagare allo stato italiano non ai contribuenti veneti, per la sua sanità, lo stipendio a sedicimila dipendenti in più, non medici, di quanti ne fa pagare la sempre vituperata regione Campania che ha un milione di abitanti in più». «Sapete che l’Emilia Romagna e la Puglia, a quasi parità di popolazione, ricevono la prima tre miliardi in più e la seconda tre miliardi in meno per la sanità? Che a fare il deficit sanitario – si legge in un estratto del libro –  sono tre regioni a statuto ordinario del Nord non del Sud, per la precisione Piemonte, Liguria, Toscana, parola della corte dei conti?». «Vi siete mai chiesti chi ha il primato dei dipendenti pubblici in Italia? Penserete in automatico ai mille carrozzoni comunali e regionali dei mille Sud italiani, vero? No, sbagliato! – scrive Napoletano – Il Nordest, che comprende Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli, vince alla grande: ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti contro i 4,4 del solito diffamato Mezzogiorno e, addirittura, alla pari con Roma, senza avere neppure uno dei ministeri, delle authority, delle ambasciate che ‘popolano’ la Capitale di una nazione. Se dubitate dei numeri o il confronto non vi aggrada prendetevela con l’ISTAT che è la firma statistica dell’Italia nel mondo». Domande articolate, per certi versi con risposte sorprendenti e del tutto inedite, quelle che vengono fuori nel volume, appena edito da La nave di Teseo: quanti cittadini sanno che 61 miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Per Napoletano «si tratta del più grande furto di stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. I numeri di questa operazione verità fanno tremare vene e polsi, e permettono legittimamente di chiedersi se l’Italia esista ancora». Nord assistito, Sud dimenticato “La grande balla” di Roberto Napoletano intende portare il lettore a intraprendere un lungo viaggio nelle piccole grandi patrie dell’assistenzialismo, che – secondo l’autore – non sono al Sud, ma tutte al Nord. «La politica si è abituata da vent’anni a togliere investimenti al Sud per soddisfare le pretese dei questuanti di turno, sistemare gli amici degli amici nel coacervo di enti pubblici proliferati con la spesa facile. Tutti collocati nelle ricche regioni del Nord». Non dimentichiamo che il giornalista, per anni è stato direttore del Sole 24 Ore e, quindi, ha avuto modo di conoscere il sistema economico italiano dall’ interno.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio. Silvia Siniscalchi il 21 Agosto 2017 su iconfronti.it. In considerazione della disastrosa situazione della sanità campana, si ripropone qui uno studio sui fondamenti filosofico-giuridici e socio-sanitari del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, che suscitarono un profondo interesse già presso i contemporanei (come il Luppoli, il D’Onofri, il Galdi e il Cuoco, tanto per accennare a dei nomi di intellettuali di valore). Senza volere accogliere le ragioni del revanscismo borbonico e senza entrare nella questione dell’autentica paternità del Codice, ci si limita a constatare l’assoluta modernità di una legislazione sanitaria che rappresenta uno degli esempi in tema più avanzati del XIX secolo e attuato nel Meridione d’Italia.

Sul colle detto di S. Leucio, adiacente alla famosa reggia vanvitelliana, nel sito di una diruta chiesetta longobarda dedicata a quel santo, Ferdinando IV di Borbone, dopo aver murato l’intero bosco circostante, aveva fatto costruire un piccolo casino di caccia (1773-74), che poco dopo abbandonò perché vi era morto il suo primogenito Carlo Tito, trasferendo la propria residenza nell’attigua località detta Belvedere (da allora chiamata estensivamente, ma a torto, S. Leucio), di bella vista, ottima aria e fertilità del terreno per ogni tipo di produzione, vite in particolare. «Vi fece perciò subito costruire – soccorre qui uno stralcio della sintetica “voce” di un quasi coevo Dizionario – delle nuove fabbriche, ed un’antico salone lo convertì in chiesa nel 1775, che eresse benanche in parrocchia per la popolazione, che vi fece radunare al numero di circa 350 individui addetti non solo alla custodia del bosco, che alla coltivazione de’ terreni, che sono in quei contorni. Nel 1776 ampliò maggiormente le fabbriche, e vi stabilì una casa di educazione, e quindi da tempo in tempo vieppiù rese il luogo abitabile e popolato con istabilirvi una colonia di artefici a formare ottime manifatture di seta, cioè stoffe, fettucce, veli, calze, da non farci affatto invidiare le decantate manifatture forestiere. Il numero di questi artefici è oggi [fine ‘700] giunto a circa 800. Nel 1789 il suddivisato nostro Clementissimo Sovrano con molta saviezza scrisse le leggi per questa sua nuova Colonia, da far veramente in tutti i tempi avvenire gloria all’Augusto Suo Nome»

L’ultimo riferimento è ovviamente al famoso Statuto della real Colonia, che sarà analizzato nei paragrafi seguenti, specie per la normativa socio-sanitaria, ma del quale occorre subito anticipare, in estrema sintesi, una finalità altamente etica, quella di prevedere una “città degli uguali”, dove appunto vigesse «l’assoluta uguaglianza tra donne e uomini, il diritto all’istruzione, alla successione e alla proprietà, alla casa e all’equo salario, alla tutela in caso di bisogno, all’assistenza sanitaria, alla prevenzione del vaiolo, alla formazione e al lavoro».

Se questi sono, assai scarnificati, i fatti incontestabili della nascita e vita primiera della colonia e del suo contenuto statutario, assai più discutibili e discussi sono i valori e i significati ad essi attribuiti, a partire dalla paternità dell’idea e fino al processo normativo, progettuale ed effettuale. Poiché il merito maggiore si riconosce alla stesura dello statuto, gli studiosi si sono accapigliati sul nome del vero artefice, dando per scontato che – data l’ignoranza, l’indolenza intellettuale, la rozzezza di comportamenti del re “nasone” o “lazzarone” (come spregiativamente veniva e verrà chiamato) – non poteva esser stato lui l’estensore: dopo aver di massima condiviso che l’autore del codice fosse il massone Antonio Planelli, con varie sfumature al sovrano si è accreditato al massimo un contributo maldestro ed episodico, riscontrabile nella scarsa organicità della normativa, come riconoscimento di un’indole sostanzialmente buona e benevola verso il popolo, con cui “si trovava bene” e nel quale spesso si identificava nelle sue note stranezze quotidiane (vari travestimenti, scherzi, ecc.). In questa farragine di titubanti ipotesi è intervenuta di recente la ricerca, seria e documentata, di una giovane studiosa, a risolvere forse definitivamente il dilemma. Mi riferisco ai lavori, impostati anche in utile chiave collegiale e didattica, di Nadia Verdile, in particolare a quello portato avanti col progetto “Carolinopoli: l’utopia di una regina”, svolto nell’anno scol. 2003-2004 presso l’ist. Statale d’Arte “San Leucio”, e concretizzato in un volume intitolato Carolina (2004). Senza disattribuire l’autoralità materiale al Planelli, la Verdile sostiene che quella spirituale e filosofica vada riconosciuta alla regina Carolina, cui andrebbe altresì il merito di tutte le riforme realizzate nel Regno di Napoli prima della rivoluzione francese. Oltre che sulla bibliografia più accreditata (Coniglio,1981; Tescione,1932, in testa a decine di altri autori), la ricercatrice si basa sull’analisi e la parziale stampa delle lettere, custodite all’archivio di Stato di Napoli e mai prima edite, che da S. Leucio il re inviò alla regina tra il 1788 e il 1799, nonché di quelle di Carolina al marito (Verdile, 2008), la cui lettura «ha consentito una lucida definizione delle personalità dei due sovrani e degli interessi degli stessi» (Verdile, 2004, p.11). Quanto alla sovrana, emerge il ritratto di una donna che, lungi dall’essere solo crudele e sanguinaria (come vuole il cliché appostole dopo la repressione della rivoluzione del 1799), attiva i “malfamati” intrighi di corte solo nel desiderio alto e nobile di sconfiggere il partito filospagnolo (incarnato prima dal “tardo” Tanucci e poi dal Sambuca) a favore di quello filoasburgico, capitanato dall’ammiraglio Francesco Acton e di poi da Domenico Caracciolo, con il seguito di tutti gli intellettuali, i nobili e i borghesi progressisti, facenti spesso capo alle logge massoniche, cui stava a cuore il risollevamento delle sorti del Regno. Di più: Carolina, degna figlia della più progressista tra le personalità dei principi illuminati (l’imperatrice Maria Teresa d’Austria), appare come una sovrana coltissima, che legge e scrive quattro lingue (francese, tedesco, italiano e spagnolo) oltre a saper tradurre il latino, che, fin dal suo arrivo a Napoli, cura l’incremento della sua biblioteca (formata da 6443 volumi, oltre a molti periodici) e se la fa trasportare al seguito nelle parentesi di fuga in Sicilia, che è istruita in letteratura, storia, botanica, musica, canto e – fatto assai indiziario – filosofia, etica, diritto, pedagogia, economia e botanica. Dall’altro lato, troviamo un sovrano meno zotico e tartufesco di come si è voluto far credere, ma “giustamente” insofferente della etichetta e degli squallidi personaggi di corte, come della partecipazione al Consiglio di Stato (in cui ben presto sedé autorevolmente Carolina), in nome di una vita sana, all’aperto, dedita alla caccia, alla pesca, al nuoto e a varie attività ginniche, nel contatto “diretto” dei suoi sudditi (spesso al femminile, come si malignava…): un re che ben volentieri cedette “lo scettro” alla sua metà, con la quale in certo senso caratteriologicamente si compensava, comunque fungendo da elemento equilibratore tra i poteri. Sulla base di tali valutazioni, la conclusione della Verdile appare abbastanza plausibile, anche alla luce della stima che a Carolina manifestarono personaggi del calibro di Pietro Colletta, Vincenzo Cuoco e altri.

Accantonato, con sufficiente persuasività, il problema dell’attribuzione autorale, non meno interessante sarà soffermarsi, sia pur in breve, sulle fonti ispiratrici (teoriche e pratiche) della legislazione e delle esperienze effettive realizzate dalla colonia reale, compreso il progetto “utopico” di «Ferdinandopoli». Sapere che l’ideazione fu di Carolina non semplifica la soluzione e, a parer di chi scrive, la stessa regina avrebbe trovato difficoltà a rintracciare precisamente i suoi “modelli” ispiratori, in una temperie storica illuminata da tanta letteratura utopistico-socialistico-riformistica e da innumerevoli esperimenti pratici, realizzati in varie parti del mondo, di comunità autogestite. Di antecedenti, infatti, ce ne sarebbero molti e anche molto remoti nel tempo. Scrive a riguardo il Tescione: «Se si dovesse risalire ai primi germi delle idee, delle dottrine e dei progetti di costituzioni politiche a cui potrebbe ricollegarsi la costituzione di S, Leucio, occorrerebbe fare un ardito volo oltre gli orizzonti del mondo moderno e medioevale e di là dalle vie battute da Cicerone e da Aristotele, per raggiungere le pure scaturigini del pensiero platonico. Non sarebbe fuor di luogo allora ricordare il piano di quella Platonopoli di cui fin dal terzo secolo dopo Cristo il filosofo Plotino proponeva l’attuazione ad un tiranno della decadenza romana, il Galieno, chiedendo per lo scopo appunto un distretto della Campania, o la concezione di quella fantastica repubblica aristocratica e monastica ch’è la Città del Sole, con cui il Campanella, nel XVI secolo, perfezionando il sistema comunista di Tommaso Moro, precorreva, in un certo modo, le utopie del secolo XVIII» (Tescione, 1932, p.’’’..; in proposito cfr. Dematteis, 1963). Quanto ai precorrimenti teorici più prossimi, il Battaglini crede di dover citare: Francesco Saverio Salfi nel suo Elogio del Filangieri; il Dumas, che trova affinità col socialismo e richiama Fourier e il suo falansterio; lo Stefani che parla di colonia socialistica borbonica e chiama in causa il pensiero e i tentativi storici di Robert Owen; Francesco Longano, un riformatore napoletano che distingueva tra il politico che dà lavoro ai bisognosi, e l’uomo superstizioso che gli fa l’elemosina; il Mercier per un suo romanzo fantapolitico e la creazione di una città fantastica; il Gori che parla di impronta comunista; infine il Croce e seguaci, fermi sull’errata interpretazione del “capriccio” del sovrano.

Circa la posizione ideale e fattuale dell’Owen in confronto a quella borbonica, intanto, registriamo uno studio specifico condotto dalla più recente studiosa leuciana, che, al di là delle forti differenze, trova anche delle collimanze, in questi termini: «Eppure i telai uniscono le due utopie anche se da San Leucio la seta va verso le grandi residenze del potere mentre da New Lanark le tele di cotone vengono distribuite ai mercati della nazione. E da ultimo, ma prima riflessione da fare, l’utopia leuciana e quella newlarkiana sono nate dalla forza ideologica e culturale di due personalità profondamente diverse: da una parte il pensiero illuminato di Maria Carolina d’Asburgo, colta, amica e sostenitrice della massoneria progressista, sovrana, e dall’altra il pensiero illuminato di Robert Owen, operaio, poi imprenditore, economista. E dunque è nell’etica dell’Illuminismo che si fonda l’incontro di due grandi progetti utopici che hanno avuto il merito di dimostrare che una società degli uguali può e deve essere perseguita» (Verdile, 2006, p. 28). Molto più ricco, profondo e articolato è il contributo che il Tescione, il maggiore studioso in materia, aveva offerto in proposito nel suo monumentale volume del 1932, poi riedito nel 1961 senza sostanziali aggiunte e in forma più agile (senza note a piè di pagina). Dei più importanti autori richiamati, infatti, egli ricostruiva articolatamente la storia individuale e il pensiero. In questa sede si possono solo ricordare i nomi degli esponenti, attivi nel Napoletano già prima dell’ascesa al trono di Carlo III di «quel progredito movimento intellettuale mercé il quale lo spirito dell’Europa civile e laica era penetrato nel regno di Napoli, destandovi scintille di fecondi dibattiti, forza e luce alla lotta per svincolare lo stato e l’organismo sociale dalle pastoie feudali».

In definitiva, sulla scorta del Tescione (1932, passim) si può affermare, per un verso, che l’ispirazione più profonda e più prossima delle leggi di S. Leucio proviene dalla Scienza della legislazione del Filangieri, che in precedenza aveva dettato i principi anche alla politica del Tanucci contro la mendicità e per l’educazione del popolo alle arti e ai mestieri (specie con l’editto del 1769), per l’altro – accogliendo la Verdile e in riferimento alle ricezione etico-politica da parte di Carolina – dalle «riforme messe in pratica […] nell’impero austriaco da sua madre prima e da suo fratello, l’imperatore Giuseppe II in seguito, e nel Granducato di Toscana dal fratello Pietro Leopoldo» (Verdile, 2004, p. 25). Meglio chiarisce la questione il Kruft, sostenendo che lo statuto in parole «è una sintesi delle concezioni giusnaturaliste-istituzionali e delle teorie economiche formulate a Napoli da Vico a Filangieri. In questa idea dello Stato è insita una impostazione paternalistico-monarchica. Il re si pone al vertice di una rivoluzione sociale fondata sul diritto naturale: è una “rivoluzione dall’alto”. Segno tangibile del vincolo tra il re e la colonia è il collegamento tra il palazzo e la fabbrica. L’esperimento filantropico del 1789 diventa involontariamente un’alternativa in piccolo alla Rivoluzione francese».

Si può infine condividere con il maggior studioso della materia l’idea che, all’atto pratico, l’istituzione leuciana dava a Carolina «la possibilità di conciliare, su di un terreno particolarmente favorevole, le sue tendenze romantiche con i capricci del re» (Tescione, 1932, p. 136): che vale a riconoscere come l’intrapresa complessiva della colonia fosse l’unica maniera per la regina di far impegnare un sovrano tendenzialmente refrattario alle cose di governo verso un obiettivo serio e fruttuoso per la corona e il popolo, in un sito prediletto perché dava sfogo alle sue passioni e, sul versante aziendale, gli consentiva inoltre di applicare la sua particolare competenza in fatto di macchinari e anche di agrimensura.

Ciò ci induce a non sottovalutare il contributo ferdinandeo alla formulazione pratica (al di là della difettosa conoscenza della lingua italiana), specie nel settore dell’organizzazione della giornata lavorativa, della massimizzazione nell’uso ottimale delle macchine e dei risultati produttivi (e simili), degli articoli del Codice e soprattutto del più analitico Regolamento di gestione interna della fabbrica, stilato da Domenico Cosmi. Lo stesso valga rispetto al progetto solo parzialmente realizzato di «Ferdinandopoli», che – come tra breve diremo – essendo un riflesso degli statuti leuciani (Schiavo, 1986), conserva sì la sua matrice nella spinta ideale della regina, ma dovette avere nel “praticone” Ferdinando una sicura e consapevole guida per l’architetto progettista Collecini. In realtà, da tempo è maturata in alcuni studiosi la convinzione che il discorso locale di S. Leucio si inquadrasse in una più ampia strategia politico-territoriale, che – alla luce dell’intuizione della Verdile – non poteva che maturare nella fervida mente di Carolina, in accordo col generico “populismo” ferdinandeo. Innanzitutto, l’esperimento leuciano era la prova che si potesse fare a meno della componente più retriva della feudalità e si dovesse invece puntare su un rapporto diretto tra dinastia e popolo, in funzione accentratrice e antibaronale. Inoltre, si trattava di un tentativo non isolato di diversificazione funzionale dei “siti reali” (da riserva di caccia a villaggio operaio, azienda agricola o caserma) per organizzare e valorizzare il territorio tra intorno di Napoli e Caserta (Alisio, 1976; Caputo, 1977; Battaglini, 1983, p. 25). In tale programma rientrava infatti anche l’esigenza di trasformare Napoli da parassitaria metropoli di consumo a centro di produzione, decentrando però nei centri limitrofi le attività industriali, per decongestionare la capitale e alleggerirne la pressione demografica (Caputo, 1977; Battaglini, 1983,  p. 25). Del resto nella città partenopea era evidente da tempo la crisi della sericoltura, per cause complesse che vanno dal peso enorme delle tasse alla carenza di manodopera specializzata e di strumenti e macchine più moderne: questo spiega perché l’esperimento delle seterie fosse fatto proprio a S. Leucio, dove quella industria poteva diventare sicuramente competitiva, grazie alle caratteristiche geografico-naturali e geoantropiche del sito: come riconoscerà in una relazione del 1826 il De Welz, appaltatore della ormai ex-colonia, il clima e suolo amici del gelso (nota pianta di supporto alla coltivazione del baco) e di tante produzioni agroalimentari (da cui l’abbondanza di viveri a basso prezzo), la «bassezza della mano d’opera, i prezzi leggieri delle materie prime, […], il motor d’acqua instancabile e gratuito [azionato dallo stesso acquedotto della Reggia], operai destri, artefici intelligenti» (citato da Battaglini, 1983, p. 14) costituivano fattori positivi della conduzione aziendale. Al fondo dell’operazione non poteva non celarsi la battaglia contro la miseria, la mendicità, l’accattonaggio e la degradazione fisica e morale di tanta parte della popolazione urbana e rurale (che era la causa di temute turbative all’ordine pubblico), per cui tutto l’apparato economico-manifatturiero e urbanistico aveva una destinazione prevalentemente sociale: non a caso, per quanto riguarda gli oziosi, lo Statuto prevedeva che i “Seniori del popolo”, addetti al controllo della colonia, hanno il dovere di vigilare «rigidamente sul costume degli individui della Società, sull’assidua applicazione al lavoro, e sull’esatto adempimento del proprio dovere di ciascuno. E trovando, che in ess’alligni qualche scostumato, qualche ozioso, o sfaticato, dopo averlo due volte seriamente ammonito, ne posseranno a me l’avviso, acciò possa mandarsi o in casa di correzione, o espellersi dalla società, secondo le circostanze». Stessa sorte è riservata ai giovani che, giunti ai sedici anni di età, si rifiutino di lavorare o di apprendere il mestiere (Ferdinando IV, 1789, paragrafo XIV). Siamo dunque di fronte a una utopia laica e paternalistica, a parere dei Eugenio Battisti (cit. in Battaglini, 1983, p. 25), alla quale è lecito aggiungere anche l’aggettivo «religioso», sia pur nella particolare accezione dei regnanti borbonici che, pur avendo in precedenza osteggiato l’ideologia “indipendentista” espressa nelle colonie paraguayane dai Gesuiti (tanto da espellerli dal regno), dopo la parentesi rivoluzionaria si accostarono all’”altare” in quanto utile garante del “trono”.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio.  Silvia Siniscalchi l'8 Marzo 2018  su iconfronti.it. In Campania − regione dei maggiori ritardi e disguidi nella politica sanitaria, che tanto pesano su tutti i cittadini − vi fu un periodo, alla fine del XVIII secolo, di grandi conquiste civili e sociali proprio in questo settore. Ci riferiamo ad alcuni interessanti aspetti del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, con particolare riguardo alla straordinario stadio di avanzamento proprio dei suoi aspetti sanitari. Analizzare gli aspetti assistenziali e socio-sanitari, quali emergono dallo Statuto della Real Colonia borbonica dei lavoratori della seta, costituisce un’impresa alquanto problematica; alla complessità intrinseca dell’indagine (dove entrano in gioco storia, diritto, medicina e urbanistica), si aggiunge infatti la scarsità di studi in materia disponibili (soprattutto per il Mezzogiorno), che si sono dovuti misurare  con la multiforme situazione assistenziale dell’Italia pre-unitaria. Ciò nonostante, gli studi dedicati al settore si sono notevolmente accresciuti negli ultimi vent’anni, ponendo l’attenzione sullo sviluppo delle modalità diagnostiche e curative della medicina nelle varie epoche, sulla sua contaminazione con pratiche magiche, religiose e credenze popolari, sulla sua attenzione per le malattie legate al lavoro e, particolarmente, sul processo che da scienza a carattere individuale l’ha trasformata in sistema di assistenza, cura e prevenzione collettiva controllato dallo stato. A tal proposito, eventi e riforme del XVIII secolo sono apparsi determinanti per l’ammodernamento della sanità e la sua trasformazione in sistema statale, sebbene, secondo alcuni studiosi, solo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese i presupposti sociopolitici, istituzionali, ideologici ed epistemologici di tale epocale mutamento sarebbero giunti a maturazione (Keel, 2007). Perciò, in tale prospettiva, il Decennio napoleonico è stato ritenuto molto significativo, soprattutto per il Mezzogiorno dell’Italia: grazie ai processi di centralizzazione burocratica avviati dai napoleonidi, infatti, «l’avocazione degli arrendamenti[3] e l’abolizione di altre entrate richiesero profonde trasformazioni nelle strutture amministrative dell’assistenza e della beneficenza e resero necessario un più diretto impegno finanziario da parte dello stato» (Lepre, 1985, p. 10).

Se il 1789 rappresenta uno spartiacque della storia moderna europea anche dal punto di vista sanitario, appare sorprendente il tempismo con cui, proprio nel novembre di questo stesso anno, come già evidenziato, il Re di Napoli in persona avesse autorizzato la stampa del Codice di S. Leucio, il cui carattere etico-egualitario (ispirato a un programma di rinnovamento sociale di stampo illuministico redatto vent’anni prima dall’allora ministro Bernardo Tanucci) appariva molto aggiornato e moderno anche nella cura degli aspetti socio-assistenziali. Tale circostanza era del tutto coerente rispetto alle finalità complessive della colonia leuciana – ispirata al concetto, tipicamente settecentesco, di “pubblica felicità” (ossia di benessere psico-fisico della collettività, come ribadito da illuministi del calibro di L. A. Muratori) e, quindi, di salute pubblica – ma rifletteva, al contempo, un obiettivo politico primario dei governi “illuminati”, che nella seconda metà del XVIII secolo vi avevano dato ampio spazio nei loro programmi, ponendo mano a una profonda riorganizzazione del sistema ospedaliero (Garbellotti, 2003, p. 124). Il Real Albergo de' Poveri di Napol (stampa di Gatti e Duca). Secondo le sue originarie finalità doveva essere un luogo di carità e assistenza per bisognosi e indigenti. L’interesse dei monarchi nei confronti della salute pubblica, d’altra parte, non era semplicemente un atteggiamento di tipo filantropico, ma espressione della necessità di controllare globalmente il corpo sociale su cui esercitavano la propria legislazione nonché «garanzia di efficienza, di produttività, di ricchezza», che li spingeva altresì a «interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione attiva» (Cosmacini, 1988, p. 253). Alla luce delle precedenti considerazioni, è logico supporre che anche sotto questo aspetto il re Ferdinando dovesse essere stato non poco influenzato dalla cultura e dalle idee progressiste di sua moglie, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nonché dal confronto con il cognato Pietro Leopoldo, esempio emblematico di riformismo illuminato nella gestione sanitaria della Toscana. La regolamentazione della sanità pubblica nella Real Colonia di S. Leucio, organicamente correlata ad altri tipi di forme assistenziali contemplate dall’intero corpus normativo, non si limitava tuttavia a emulare le tendenze ideologiche ad essa contemporanee: lo Statuto, infatti, si ispirava concretamente ai più avanzati criteri sanitari del XVIII secolo, che si sarebbero affermati in Europa e nel resto della penisola italiana solo nel corso della prima metà dell’800. Pertanto, diviene possibile rilevarne e apprezzarne il pregnante significato solo ponendoli in correlazione con i principi di regolamentazione sociale, istituzionale ed etica che caratterizzano il documento nel suo insieme, nonché analizzandoli alla luce del contesto utopistico-pianificatorio e, almeno in parte, della coeva situazione storica della medicina e della sanità in Italia. Lo studio del medico (tratto da Paul Lacroix, "L'école et la science jusqu'à la Renaissance", Paris, Firmin-Didot, 1887) Rispetto a quest’ultima, la concezione sanitaria del Codice è senza dubbio all’avanguardia, recependo i dettami di «nuova impostazione del problema salute, sia sul piano individuale che sul piano sociale», alla cui luce medici e non medici, «nel clima di razionalità e fervore creato a Milano come a Firenze dalle riforme teresiane-giuseppine-leopoldine, nutrono interessi di medicina razionale, di salubrità ambientale, di sanità, di scientificità, fortemente ravvivati dalla circolazione d’idee che muove dall’Inghilterra e dalla Francia» (Cosmacini, 1988, p. 251). È insomma evidente l’influenza dell’Austria sull’orientamento ideologico dell’autore dello Statuto, che, a prescindere dalla sua identità, dà prova di avere ben compreso l’importanza di alcuni risultati scientifici della scienza medica dell’epoca (spesso contestati e rifiutati dalla popolazione per ignoranza e sulla base di insensati pregiudizi), considerando la salute pubblica come un bene da preservare e curare, sia dal punto di vista materiale che spirituale, sulla base di procedure controllate e in luoghi deputati allo scopo. Di qui, contrariamente alla prassi diffusa del tempo, la concezione statutaria dell’ospedale come luogo destinato esclusivamente alla cura dei malati, dotato di una classe medica fornita direttamente dal re (al servizio dello stato e quindi qualificata) e monitorato quotidianamente per il rispetto delle più elementari nozioni igienico-sanitarie (Ferdinando IV, 1789, pp. 37-38). Il riformismo dello Statuto contribuisce a dare così avvio al processo formativo dell’ospedale così come oggi concepito, basandosi su una concezione medico-sanitaria lontana dalle finalità genericamente assistenziali, curative ma anche formative, rieducative e repressive degli istituti ospedalieri d’età moderna. Questi ultimi costituivano infatti dei veri e propri centri di accoglienza, controllo e rieducazione per malati, mendicanti, indigenti e disadattati in generale, generalmente considerati (a eccezione dei casi di oggettiva inabilità al lavoro) dei fannulloni e dei parassiti sociali. Pertanto l’istruzione, a partire dalla seconda metà del Settecento, «cominciò ad essere considerata anche come una sorta di arma per sconfiggere l’ignoranza che stava alla base dei comportamenti devianti», per educare i poveri al lavoro, alla disciplina e ottenerne il recupero sociale. Tali erano i presupposti ideologici dello stesso Albergo dei Poveri di Napoli, conformemente al programma di Tanucci («che moveva dalla premessa etica fondamentale del Genovesi» della necessità di educare il popolo, sollevandolo dallo stato di ignoranza e abiezione in cui versava: Tescione, 1932, p. 126). Il Codice di S. Leucio, pur accogliendo tali istanze, le affronta con criteri moderni, predisponendo per ciascuna di esse una differente e peculiare destinazione istituzionale: la “Cassa della Carità”, per il sostegno materiale ed economico di quanti fossero divenuti inabili al lavoro per causa di forza maggiore (nonché, in caso di morte, per il pagamento delle spese necessarie all’esequie); la “Casa degli Infermi” (ossia l’ospedale), con funzioni curative e assistenziali di tipo sanitario; la “Scuola normale”, per la formazione scolastica e lavorativa dei fanciulli di entrambi i sessi, obbligatoria a partire dai sei anni di età. Tra questi istituti, la “Cassa della Carità” è dunque delegata a sostenere le spese di assistenza socio-sanitaria ai coloni in difficoltà. La sua denominazione, tuttavia, risulta ingannevole, lasciando immaginare che si fondi su principi generici di associazione e di solidarietà umana (che pure ne costituiscono un presupposto). Al contrario, la “Cassa della Carità” non rappresenta un istituto di elemosina collettiva, ma una sorta di “fondo malattie”, con finalità analoghe a quelle degli attuali enti di previdenza sociale, «nei quali direttamente o indirettamente si attua l’attività dei gruppi o dello Stato volta ad eliminare negli individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza, a prevenire la miseria mediante il concorso di cloro stessi che sono destinati a beneficiarne» (Dal Pane, 1958, p. 317). Pertanto, la “Cassa della carità”, fondata sul risparmio degli interessati (i contributi mensili e proporzionali al reddito dei lavoratori della colonia) rappresenta un esempio di ente previdenziale ante litteram. I leuciani caduti in miseria «o per vecchiaia, o per infermità, o per altra fatal disgrazia, ma non mai per pigrizia, ovvero infingardaggine» hanno maturato il diritto di essere assistititi in virtù del loro pregresso e costante contributo “previdenziale”. Non a caso, i coloni morosi a oltranza perdono il diritto all’assistenza, sia in caso di disgrazia che di morte, mentre i maleducati, gli oziosi e gli sfaticati recidivi sono espulsi dalla colonia. La concezione della previdenza socio-sanitaria dello Statuto di S. Leucio s’inserisce quindi a pieno titolo nel moderno sistema di norme e istituti fondati sul diritto dei lavoratori all’assistenza, «compiuta a mezzo di fondi costituiti dai risparmi dei lavoratori stessi». A tale proposito, risultano molto interessanti anche le norme sull’orario di lavoro (tanto più perché quasi sconosciute in quest’epoca), che lo fissavano in due turni, di durata analoga a quella della luce solare, con il solo intervallo del pranzo. Assistenzialismo, economia e politica, dunque, nello Statuto s’intrecciano indissolubilmente, a partire da un’idea di pubblica assistenza, cura e prevenzione molto più ampia di quella strettamente medica, essendo inteso il benessere della persona nel suo significato complessivo, fisiologico, morale, psicologico e giuridico (come emerge anche dal nesso individuato da Ferdinando IV tra il rapido aumento degli abitanti della colonia e la bontà dell’aria, la tranquillità e la pace domestica in cui vivevano).

La modernità degli aspetti sanitari del Codice è ulteriormente confermata se comparata con le disposizioni sanitarie relative all’amministrazione del Regno di Napoli emanate nel 1808 da Gioacchino Murat (con la separazione delle istituzioni medico-ospedaliere da quelle filantropiche, la nascita di nuovi ospedali e il controllo statale dell’assistenza sanitaria), le cui disposizioni sarebbero state ampiamente recepite dalla legge del ripristinato regno borbonico del 20 ottobre 1819 «sulla pubblica salute ne’ domini di qua e di là del Faro». Non a caso, negli anni Venti, data organica e definitiva sistemazione a tutta la decretazione in materia sanitaria, la legislazione del Regno delle Due Sicilie si rivela «una delle più analitiche e dettagliate degli stati preunitari» (Botti, 1988, pp. 1222-1223). Se tale circostanza può essere attribuita all’influenza francese sulla presa di coscienza borbonica dell’importanza della salute pubblica per il buon governo del Regno (Botti, 1988, p. 1222), non si può tuttavia dimenticare che il Codice dimostri come, almeno sul piano ideologico e “laboratoriale”, i Borbone avessero impostato in chiave moderna la gestione del problema sanitario ben prima della conquista francese del Regno di Napoli. Gli aspetti innovativi in campo sanitario del Codice, d’altra parte, rientrano nelle finalità sociali insite nell’esperimento di S. Leucio e nel piano di iniziative organicamente coordinate promosse da Ferdinando IV, basate su un consolidato corpus legislativo: gli articoli richiamano infatti elementi di diritto privato, pubblico, civile e penale e, per alcuni versi, riflettono atteggiamenti culturali caratteristici della cultura del XVIII secolo (tra cui la condanna senza appello dei fannulloni e dei renitenti al lavoro). L’ispirazione giuridica del Codice coesiste inoltre con quella religiosa, subito affermata nella pagina iniziale del testo, con il richiamo all’obbligo di osservare la Legge divina dell’amore verso Dio e verso il prossimo (prima regola che Ferdinando impone ai suoi coloni: Ferdinando IV, 1789, p. 11), seguito dall’elencazione dei “Doveri negativi” (Cap. I) e dei “Doveri Positivi” (Cap. II: cfr. nota 2). Nell’ambito di questi ultimi rientrano le regole sanitarie, con preliminari e importanti richiami alle norme igieniche fondamentali per il vivere civile. Ai coloni-lavoratori, infatti, è innanzitutto ordinato «che estrema sia la nettezza, e la polizia sopra le vostre persone […]: che questa polizia sia anche esattamente osservata nelle vostre case, acciò possa godersi di quella perfetta sanità, ch’è tanto necessaria nelle persone, che vivono con l’industria delle braccia». L’osservanza della norma è oggetto di verifica e controllo quotidiano da parte dei magistrati civili (detti “Seniori del popolo”), vigilanti della colonia con funzioni di giudici di pace, i cui rapporti sono consegnati direttamente al re (Ferdinando IV, 1789, pp. 23-24 e p. 44). Se il richiamo alla scrupolosa cura della pulizia personale e delle abitazioni può oggi sembrare quasi superfluo, se ne comprenderà appieno la ragione in considerazione della sua estrema importanza non solo per il decoro personale e il rispetto della convivenza sociale, ma anche per la prevenzione delle malattie infettive ed epidemiche, a fronte dell’esistenza tra la popolazione del XVIII secolo di abitudini e convincimenti arcaici e pseudo-religiosi, spesso sostenuti dagli stessi medici, tra cui quello di lavarsi poco o di non lavarsi affatto, soprattutto in caso di malattia (Cosmacini, 1988, pp. 214-215). D’altra parte le condizioni materiali dei lavoratori del tempo erano decisamente miserrime: nei primi stabilimenti manifatturieri, tra cui quelli dei fabbricanti di seta, le testimonianze storiche sottolineano come «gli imprenditori non si preoccupassero dell’igiene del lavoro»: i procedimenti tecnici in uso, spesso pregiudizievoli alla salute degli operai, «non erano accompagnati dalle misure igieniche necessarie a prevenire le dannose esalazioni delle materie lavorate, le attive condizioni dell’ambiente di lavoro, le malattie professionali […] Del resto lo stato di fatto si rivela in tutto rispondente alla modesta cultura igienica del tempo alle scarse preoccupazioni governative per questo ordine di pubblici interessi, per la stessa igiene generale». Nel secolo successivo la situazione non era migliore. La “Statistica” del Regno di Napoli (redatta nel 1811 per volere di G. Murat) offre, per bocca del redattore canonico Francesco Perrini, ampie testimonianze delle infelici condizioni di vita della popolazione delle provincie del Regno: colpisce l’abituale uso di acqua poco pulita, l’alimentazione scadente, le condizioni igieniche disastrose (la vita quotidiana si svolgeva in case piccole, male areate, umide e fatiscenti, in promiscua coabitazione con gli animali da cortile e/o da allevamento), la diffusione della malaria (Demarco, 1988, pp. 209-254). Aggiunta alla denutrizione e alla fatica eccessiva dei lavoratori, tale situazione favoriva il proliferare dei contagi, drammaticamente diffusi in questo periodo: se a metà Settecento la peste era scomparsa dall’Europa (con l’eccezione in Italia dell’epidemia di Marsiglia del 1720 e di quella di Messina e Reggio nel 1743), «un altro flagello, il vaiolo, ha preso il suo posto nel determinare la morbosità-mortalità catastrofica della popolazione europea. Ciò vale ancor di più per la popolazione italiana, risparmiata dalla peste con alcuni decenni d’anticipo rispetto alla popolazione di altri paesi e flagellata invece dal vaiolo con grande frequenza e intensità» (Cosmacini, 1988, p. 238). Di qui il richiamo del Codice all’ordine e alla massima pulizia possibili, con particolare riguardo alla “Casa degli Infermi”, il centro di accoglienza e di cura per i malati, amministrato da specifici regolamenti interni, e anch’esso quotidianamente ispezionato dai “Seniori del Popolo”, aventi il compito di verificarne le condizioni igieniche e l’esatta e scrupolosa assistenza materiale e spirituale offerta ai malati[18]. La “Casa degli Infermi” è dunque progettata in ossequio ai principi di salubrità e disinfezione richiesti dalle sue finalità specifiche. Nel passaggio dalla cosiddetta medicina ‘al letto del malato’ (ossia a domicilio) a quella clinica ‘ospedaliera’ (secondo la definizione del Keel, 2007), nonché alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche del tempo, il Codice si allinea in tal modo alle informative mediche del Settecento, che richiedevano la creazione di ambienti spaziosi, riscaldati e ben ventilati (Scotti, 1984, citato da Garbellotti, p. 126), progettando la costruzione di questa Casa come «separata totalmente dall’altre in luogo d’aria buona, e ventilata», per la cura di tutti gli ammalati, cronici e non (Ferdinando IV, 1789, p. 47). Questo semplice progetto, pur rimasto tale, appare in tutta la sua importanza se si considera l’abituale stato di disordine, sporcizia e cattivo odore degli ospedali settecenteschi (eclatante, a riguardo, la diffusa e inumana pratica di risparmiare spazio sistemando due malati in uno stesso letto), progressivamente superato solo nel corso del XIX secolo. Ciò premesso, la funzione prioritaria assegnata dal Codice alla “Casa degli Infermi” è innanzitutto di tipo preventivo: ogni anno, infatti, nei periodi precedenti le grandi epidemie (primavera e autunno), per tutti i ragazzi e ragazze della colonia leuciana è «prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’genitori» (Colletta, 1856, tomo I, p. 138), al fine di scongiurare i pericoli derivanti da una loro eventuale esposizione al contagio della terribile malattia. Il richiamo all’obbligatorietà dell’innesto del vaiolo si richiamava a un dispaccio reale che prescriveva tale pratica in tutto il Regno è uno dei principali elementi di modernità del Codice, che si inserisce in tal modo nel dibattito su una delle più accese questioni scientifiche e culturali dell’Italia del Settecento. Il metodo dell’innesto, detto «della variolizzazione, cioè della inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano (la cui forma più grave, o variola maior, prevale nel Settecento sulla forma più lieve, o variola minor), nasce da una pratica che circassi e cinesi, esperti del male […], attuavano da secoli in Oriente», volta a provocare una manifestazione della malattia in forma lieve, che immunizzava la persona dal contagio. Il dibattito tra fautori e oppositori dell’innesto, tuttavia, a cui presero parte anche intellettuali del calibro di Pietro Verri, non si riduceva schematicamente a una lotta tra progressisti e conservatori, essendo controversi i risultati dell’inoculazione: quest’ultima, di fatto, era priva di un sicuro metodo applicativo e, dunque, se praticata in modo erroneo, diventava rischiosa, in alcuni casi, addirittura letale.

Ciò nonostante, la pratica produceva senza dubbio più benefici che danni; nel 1756, infatti, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria (la cui stessa famiglia era stata decimata dal male), sentiti i pareri favorevoli di vari consulenti, dava l’assenso affinché venisse impiegata in Toscana, colpita da una violenta epidemia di vaiolo. Di qui il «”primato della Toscana nella battaglia per l’innesto”, sullo sfondo del temperato riformismo della Reggenza lorenese e poi del riformismo progressista del granduca Pietro Leopoldo» e ancora di qui la convinta adesione alla pratica dell’innesto da parte di Ferdinando IV di Borbone, che, dopo aver perduto due figli nel 1788 a causa del contagio, vi avrebbe sottoposto il resto della prole.

·         La Caduta degli Dei.

Modello lombardo: L’abbiamo visto!!

La polemica per gli annunci sugli autobus. “Vieni a Milano a curarti”, la pubblicità che fa imbestialire De Luca: “È il Pascale il migliore in Italia”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. “Abbiamo registrato una campagna pubblicitaria dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano sugli autobus di Napoli con cui pubblicizzano l’ospedale e invitano i nostri concittadini ad andare a Milano a farsi le diagnosi. Siamo davanti all’ennesimo atto di speculazione sulla pelle dei malati”. Così Vincenzo De Luca si è scagliato contro l’iniziativa dell’Istituto milanese di sponsorizzare sui mezzi pubblici le loro cure. Per De Luca si è trattato di una vera e propria speculazione sulla pelle dei cittadini del Sud. Il governatore non ci sta e rivendica sul tema dei tumori la superiorità della qualità delle cure in Campania. “È giusto ricordare che abbiamo a Napoli il principale Istituto di cura dei tumori di Italia che è l’Istituto Pascale che è un’eccellenza nazionale, europea e mondiale. Non abbiamo bisogno di andare da nessuna parte di Italia”, ha continuato. “Ci sono molti ospedali dell’area milanese che vivono speculando sui nostri concittadini – accusa De Luca –  Cioè speculando sui viaggi della speranza che sono assolutamente inutili e oggi anche pericolosi per il tasso di contagio che abbiamo in ogni parte d’Italia. Siate consapevoli che siamo davanti ad atti di pura speculazione. Abbiamo oggi a Napoli e in Campania le eccellenze sanitarie nazionali”. E mette a confronto anche il numero dei ricoveri per la pandemia. “D’altra parte se abbiamo a Napoli 140 ricoveri in terapia intensiva e a Milano ce ne sono 700 e in altre regioni del centro e del nord, il doppio dei ricoveri in terapia intensiva qualcosa vorrà pur dire dal punto di vista della qualità delle nostre strutture sanitarie”. “Se abbiamo questo dato così limitato è anche e soprattutto per la nostra sanità e per i nostri ospedali di eccellenza – continua De Luca –  Siate consapevoli che dobbiamo resistere anche a questi fenomeni speculativi sulla pelle dei nostri pazienti e delle nostre famiglie. Anni fa ci poteva essere qualche ombra di motivazione, oggi ci sono pazienti che vengono dal Nord a curarsi al Sud in Campania, a Caserta, Salerno, Avellino e Benevento. Abbiamo professionisti di valore mondiale al Pascale così come abbiamo dei primati nazionali per quanto riguarda la cardiochirurgia a Salerno, professionalità di eccellenza in oncologia e ovunque in tutta la regione. Guardate con un po’ di disprezzo a queste campagne di speculazione sulla pelle dei nostri concittadini”.

“ABBIAMO VISTO COS’È VERAMENTE MILANO E COM’È GESTITA LA TANTO INVIDIATA LOMBARDIA”. Dagospia il 21 novembre 2020. Comunicato stampa. “Come saremo dopo la pandemia? Purtroppo ho una visione un po’ cinica adesso. Saremo solo un po’ più amplificati: chi era empatico prima sarà più empatico, chi era ansioso prima sarà molto ansioso. Ma soprattutto, chi era stronzo prima, sarà centomila volte più stronzo”. Lo ha annunciato oggi J-Ax nel collegamento in diretta di Sorrisi Live nel corso di Focus Live, il festival della divulgazione scientifica di Focus ospitato al Museo Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano dal 19 al 22 novembre. “Abbiamo visto e vediamo tuttora – ha detto J-Ax – gente che parla di ambulanze che viaggiano vuote, che sta sputando continuamente sui morti che ci sono stati, sulle famiglie che hanno avuto un lutto. Non rispettano neanche la vita altrui oltre che la propria, perché assumono comportamenti che danneggiano chi rispetta le regole”. “Questo virus – ha continuato J-Ax, intervistato da Francesco Chignola di Tv Sorrisi e Canzoni - ha reso chiare le cose: ha tirato fuori quello che veramente siamo, ha mostrato l’Italia per quella che veramente è. Milano, per esempio, era un fiore all’occhiello e ogni volta che sentivo parlare di questa Milano che dava l’esempio io, che ci sono nato e cresciuto pensavo: "ci sarebbero tantissime cose da dire che non vanno di Milano e dello stereotipo che si vuole portare avanti". E abbiamo visto chi ci gestisce e come la Milano così attiva in realtà si sia poi buttata in apericene del tutto evitabili appena finito il primo lockdown. Abbiamo visto cos’è veramente Milano, com’è gestita la tanto invidiata Lombardia. Ma soprattutto quanto è amata Milano da chi è stato accolto ma poi non ci impiega neanche tre secondi ad andarsene e a lasciare Milano al suo destino. Abbiamo visto veramente quello che siamo”.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. «Pazzesco! Domani gli parlo io...», prometteva il responsabile dell' ufficio acquisti del gruppo ospedaliero San Donato, Massimo Stefanato, a chi il 9 luglio 2017 gli riferiva cosa a un primario di cardiologia fosse saltato in mente di andare a dire in una riunione del Comitato Etico del San Raffaele: «Il professor Antonio Colombo ha detto che l' ospedale San Raffaele fa la cresta sulle valvole aortiche per via delle note di credito, non si spiega perché tale importo non venga girato alla Regione. Bisognerebbe dire al professore che queste cose qua» (sottinteso tra le risate: non) «che deve andare in giro a dire, soprattutto in un Comitato Etico, dove ci sono anche degli esterni...». «Queste cose qua» ieri diventano una somma: 34,7 milioni che la Procura di Milano sequestra a 8 ospedali del gruppo San Donato: indagati per truffa alla Regione Lombardia perché dal 2013 al 2018, nel farsi legittimamente rimborsare dalla Regione il prezzo di protesi dell' anca e di stent cardiaci, le avrebbero però taciuto che i produttori delle protesi avessero intanto emesso note di credito con cui a posteriori riconoscevano agli ospedali uno sconto sul prezzo, in funzione di precedenti accordi commerciali sul raggiungimento di determinati volumi di acquisti. Meccanismo sbarrato dalla Regione a partire dal 2018. E analogo, secondo GdF e Procura, a quello che nel 2019, costato già l' arresto di Stefanato sulle forniture di farmaci, aveva indotto il gruppo San Donato a restituire alla Regione 10 milioni «per ricostituire un rapporto di correttezza con l' istituzione», e recuperato altri 5,5 milioni da tre case farmaceutiche. Ma stavolta non ci sarà ramo d' ulivo dal gruppo San Donato, che definisce «incomprensibile» il sequestro del pm Paolo Storari (con il visto dell' aggiunto Maurizio Romanelli) perché «nessun parallelismo può esistere» tra il sistema di rimborso dei farmaci e quello «palesemente differente» delle protesi. Il gruppo dei Rotelli afferma cioè di «aver sempre operato nel rispetto della legge», con «nessun vantaggio» ma «esclusivamente un profilo amministrativo per il quale pende già un ricorso del gruppo al Tar». Per la difesa degli 8 ospedali (assistiti dai legali De Luca, Cigna, Varraso e Lucibello), le «vicende riguardano soggetti da tempo estranei al gruppo», che «si batterà per accertare la verità di cui non ha timore». Alcune mail sequestrate, tuttavia, sembrano collegare l' utilizzo clinico di questa o quella protesi alla programmazione di «obiettivi annuali» da parte degli ospedali. Il 25 luglio 2017, ad esempio, il capo ufficio acquisti avverte il cardiologo che sugli stent di una certa marca si è «estremamente al di sotto del programma annuale», e perciò chiede al primario di sospendere l' uso di valvole di altri produttori per concentrarsi invece su queste, «altrimenti non riusciamo per fine anno a raggiungere l' obiettivo». Stesso schema (ma all' inverso) nelle mail del 18 e 19 settembre 2017, quando il capo ufficio acquisti segnala al primario che «sono stati raggiunti ed ampiamente superati gli obiettivi» commerciali di una certa valvola, e dunque lo invita a smettere di usarla e a incentivare invece l' impianto delle valvole di un altro produttore, il cui target doveva ancora essere centrato. 

Articolo del “The New York Times” dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 30 novembre 2020. Un'inchiesta del  New York Times ha rilevato che una guida carente e ritardi burocratici nella provincia italiana hanno reso il bilancio dei morti molto peggiore del dovuto. Quando, a metà febbraio, Franco Orlandi, un ex camionista, è arrivato con tosse e febbre al pronto soccorso della provincia di Bergamo, i medici hanno stabilito che aveva l'influenza e l'hanno mandato a casa. Due giorni dopo, un'ambulanza ha riportato l'83enne. Non riusciva a respirare. L'Italia non aveva registrato un solo caso di coronavirus domestico, ma i sintomi del signor Orlandi lasciavano perplessi Monica Avogadri, l'anestesista cinquantacinquenne che lo aveva curato all'ospedale Pesenti Fenaroli. Non gli ha fatto il test per il virus perché i protocolli italiani, adottati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, raccomandavano di testare solo persone con un legame con la Cina, dove l'epidemia aveva avuto origine. Quando ha chiesto se il signor Orlandi aveva un legame con la Cina, sua moglie sembrava confusa. Non si sono quasi mai avventurati oltre il loro caffè locale, il Patty's Bar.  La Cina? Il dottor Avogadri ha ricordato la risposta della moglie del signor Orlandi. "Non sapeva nemmeno dove fosse." Quello che la dottoressa Avogadri non sapeva era che il Covid-19 era già arrivato nella sua regione, in Lombardia, una scoperta fatta cinque giorni dopo da un altro medico della vicina Lodi che aveva infranto il protocollo nazionale di sperimentazione. A quel punto la dottoressa Avogadri, costretta da quegli stessi protocolli, si era già ammalata dopo giorni di cura per il signor Orlandi e per altri pazienti. Il suo ospedale, invece di identificare e curare la malattia, ne accelerava la diffusione nel cuore dell'economia italiana. Bergamo divenne uno dei campi di battaglia più mortali per il virus nel mondo occidentale, un luogo segnato da una sofferenza inconcepibile e da una spaventosa colonna sonora di sirene di ambulanze mentre gli operatori sanitari strappavano i genitori ai figli, i mariti alle mogli, i nonni alle loro famiglie. Gli ospedali divennero obitori di fortuna e produssero sfilate di bare e scene di devastazione che divennero un avvertimento per i funzionari di altri paesi occidentali su come il virus potesse rapidamente travolgere i sistemi sanitari e trasformare le infermerie in incubatrici. I funzionari hanno confermato che più di 3.300 persone sono morte con il virus a Bergamo, anche se hanno detto che il pedaggio effettivo è probabilmente il doppio. La città di Orlandi, Nembro, è diventata forse la più colpita in Italia, con un aumento dell'850 per cento dei decessi a marzo. Così tanti che il prete  ha ordinato di fermare l'incessante rintocco delle campane per i morti. La questione di come si sia potuta verificare una simile tragedia a Bergamo, una provincia ricca e ben istruita di poco più di un milione di abitanti, con ospedali di altissimo livello, è rimasta un inquietante mistero, una macchia di sangue che il governo preferisce evitare perché indica con orgoglio il successo dell'Italia nell'appiattimento della prima ondata di infezioni. Le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sui test hanno generato un senso di sicurezza fuori luogo e hanno aiutato i medici ciechi a diffondere il virus. Ma i passi falsi e l'inazione dopo l'esplosione di Covid-19 hanno aggravato la situazione e sono costati a Bergamo - e all'Italia - tempo prezioso quando i minuti erano più importanti. Il direttore dell'ospedale Pesenti Fenaroli ha chiuso i battenti quasi appena si è reso conto di avere un'epidemia. Ma i funzionari regionali hanno ordinato l'apertura ore dopo. Gli operai dell'ospedale, i visitatori e i pazienti dimessi sono stati esposti al virus e poi trasferiti in provincia. Per giorni, c'era l'aspettativa che il governo nazionale chiudesse le città di Bergamo, come aveva già fatto subito e con decisione a Lodi. Alcuni sindaci di Bergamo hanno aspettato con ansia che le forze dell'ordine sigillassero le frontiere, anche se molti imprenditori e dirigenti locali si sono mostrati riluttanti. Il primo ministro italiano, Giuseppe Conte, si rivolse pubblicamente a un comitato di consulenti scientifici, che gli propose formalmente di seguire l'esempio di Lodi e di chiudere le città di Bergamo appena contagiate. Privatamente, però, le lobby economiche nazionali lo esortarono a non chiudere gli stabilimenti della zona. Alla fine, dopo giorni critici pieni di reticenze burocratiche e di battibecchi tra Roma e le autorità regionali, il governo ha deciso che il tempo di salvare Bergamo era passato. Con il virus fuori controllo nella provincia e i grappoli che si sono formati intorno ad essa, il governo ha aspettato più a lungo ma poi si è ingrandito. Due settimane dopo che il signor Orlandi era risultato positivo, l'Italia ha bloccato l'intera regione. Poi il Paese. Ma Bergamo era perduta. Ora che il coronavirus, nel profondo della sua seconda ondata, si è diffuso in tutto il mondo e non ha lasciato praticamente nessuna nazione intatta, è facile dimenticare quanto l'Italia fosse sola tra le democrazie occidentali nel mese di febbraio, di fronte a una minaccia per la quale non disponeva di un piano. Durante la stagione dell'influenza, alcuni medici di famiglia lombardi avevano notato strani casi di polmonite e prescrivevano più ecografie del solito. La regione ha legami commerciali con la Cina e i medici locali che si occupano di malattie infettive hanno tenuto d'occhio l'epidemia di coronavirus nella città di Wuhan. Si sono anche fidati dei nuovi e più stretti protocolli italiani, adottati dall'OMS alla fine di gennaio, che sostanzialmente limitavano i test alle persone legate alla Cina. Ma quasi nessuno dei pazienti affetti da polmonite aveva un tale legame, il che significava che le poche persone sottoposte ai test erano per lo più viaggiatori aerei. Tutti i risultati erano negativi. Poi, il 20 febbraio, Annalisa Malara, medico del comune di Codogno, in provincia di Lodi, ha deciso di rompere il protocollo e di sottoporre al test un uomo di 38 anni affetto da polmonite grave che non rispondeva ai trattamenti standard. Il test dell'uomo è risultato positivo la sera stessa ed è diventato il primo caso di Covid-19 trasmesso localmente in Italia. Due giorni dopo, a Roma, si è tenuta una riunione d'emergenza presso l'Agenzia della Protezione Civile italiana, l'organismo nazionale di soccorso in caso di calamità. Conte, stipato in una piccola sala conferenze, si è seduto a capo di un tavolo ovale, circondato dai suoi ministri, mentre il ministro della Salute italiano, Roberto Speranza, propose un drammatico blocco delle città della zona di Lodi. I ministri, scambiandosi sguardi nervosi, si sono trovati d'accordo all'unanimità e il governo ha inviato la polizia e l'esercito italiano a sigillare le frontiere il 23 febbraio - decisione che cita ancora oggi come metrica della sua audacia e della sua volontà di mettere la salute pubblica italiana al di sopra dell'economia. Speranza ha soppesato attentamente la decisione epocale, decidendo che era meglio sbagliare dalla parte della prudenza. “Stavo giocando con la vita delle persone", ha detto, aggiungendo che nella storia della pandemia, "è stata la prima volta nella storia dei Paesi occidentali che abbiamo chiuso e portato via la libertà della gente". La scoperta del virus a Lodi, a soli 60 miglia da Bergamo, ha colpito il dottor Avogadri, malato a letto a casa, con la forza di una rivelazione. Ha preso il telefono il 21 febbraio e ha chiamato i colleghi di Pesenti Fenaroli, nel comune di Alzano Lombardo, nella valle industriale e densamente popolata del fiume Serio di Bergamo. Li esortò a fare il test al suo paziente, il signor Orlandi. All'inizio la ridicolizzarono, notando che non era mai stato in Cina. Ma altri pazienti dello stesso piano stavano peggiorando, e un altro uomo con sintomi sospetti arrivò presto al pronto soccorso. I funzionari dell'ospedale decisero di fare un tampone a lui e a uno dei compagni di stanza del signor Orlandi. A mezzogiorno del 23 febbraio, i risultati furono portati al dottor Giuseppe Marzulli, il direttore dell'ospedale. Entrambi gli esami sono risultati positivi. Il dottor Marzulli interrogò il medico referente per sapere se il personale aveva indagato adeguatamente sui collegamenti con la Cina. L'hanno fatto. Non ce n'erano. Il virus era già in circolazione tra di loro. "Fu in quel momento che capii che eravamo fregati", disse il dottor Marzulli. "Avevamo cercato chi era stato in Cina, e questo è stato il tragico errore". Quel giorno hanno prelevato un tampone al signor Orlandi, mentre i membri della sua famiglia si muovevano attraverso i corridoi affollati del terzo piano. Alcuni visitatori notarono che i membri del personale tossivano. Data la rapida azione del governo a Lodi, il dottor Marzulli cominciò a prepararsi per un isolamento. Annullava i cambi di turno per non far entrare nuovo personale e chiudeva il pronto soccorso, ricordando che l'ospedale aveva solo una dozzina di tamponi per eseguire i test del coronavirus. "Non avevamo tamponi. Era il problema più grande che avevamo", ha detto. Ore dopo, la regione e la rete ospedaliera bergamasca di Pesenti Fenaroli hanno deciso insieme di riaprire il pronto soccorso, con le obiezioni del dottor Marzulli. Aida Andreassi, alto funzionario della sanità lombarda, ha detto che il pronto soccorso era stato igienizzato e che l'ospedale rappresentava un "presidio indispensabile" per una regione che aveva bisogno di tutte le sue strutture sanitarie. Ma senza tamponi sufficienti, ha detto la dott.ssa Marzulli, l'ospedale era indifeso. Il 24 febbraio sono arrivati i risultati degli esami del signor Orlandi. Anche lui era positivo. A quel punto, circa altri 50 pazienti erano arrivati al pronto soccorso con i sintomi, bruciando rapidamente le scorte di tamponi dell'ospedale, ha detto il dottor Marzulli. Un medico, che ha testato il dottor Avogadri con uno dei tamponi disponibili, ha fatto pressione sui funzionari dell'ospedale per ulteriori esami, ricordando loro in una frenetica e-mail che avevano "colleghi sintomatici che non sono stati sottoposti a tamponi". I suoi superiori hanno supplicato un altro ospedale della regione per avere 100 tamponi, secondo la corrispondenza via e-mail vista dal New York Times. Ma il dottor Marzulli ha detto che solo la metà di loro è arrivata a Pesenti Fenaroli, il 26 febbraio. Ha forzato, separando i pazienti con sintomi da quelli senza, e mandando a casa personale visibilmente malato. Ma molti pazienti che sono venuti a contatto con il virus sono rimasti fermi, mentre i loro infermieri e medici continuavano a circolare. Il 27 febbraio, come dimostrano i documenti forniti dalla Lombardia, la regione ha inviato altre centinaia di tamponi agli ospedali bergamaschi. Ma non sono arrivati subito a Pesenti Fenaroli, ha detto il dottor Marzulli. Fu costretto a razionare un paio di dozzine di tamponi al giorno fino al 1° marzo, quando lui stesso svenne per la stanchezza per il virus. "Se dobbiamo identificare una scintilla - ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, quando le infezioni hanno devastato la sua città - è stato l'ospedale".

DIECI GIORNI DI INDECISIONE. Le piccole città intorno all'ospedale diventano sempre più protagoniste di un dramma che si svolge tra Bergamo e Roma. Il 25 febbraio la provincia di Bergamo ha registrato solo 18 casi contro i 125 di Lodi. Il massimo responsabile sanitario lombardo ha espresso preoccupazione per il contagio all'ospedale Pesenti Fenaroli, ma ha detto: "È presto per dire se si tratta di un altro cluster". A Roma, Conte ha scoraggiato l'espansione dei test, argomentando che i funzionari sanitari dovevano seguire i protocolli internazionali, "altrimenti avremmo finito per drammatizzare" l'emergenza. Il 26 febbraio, con 20 casi segnalati a Bergamo, il comitato scientifico di Roma ha dichiarato di non aver visto alcuno scoppio che richiedesse un blocco. Il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, ha detto che i funzionari sanitari di Bergamo hanno minacciato di tagliare i fondi ai 18 sindaci della zona se chiudessero i centri per anziani o disabili. Il giorno dopo, ha detto, hanno assicurato i sindaci: "Non preoccupatevi. Non è prevista una zona rossa". Ma il 28 febbraio, il carico di lavoro di Bergamo era salito a 103, contro i 182 di Lodi. In una conferenza stampa regionale lombarda, i medici di punta hanno identificato l'ospedale Pesenti Fenaroli come la fonte dell'epidemia. Confindustria Bergamo, l'associazione industriale della provincia, ha risposto lo stesso giorno pubblicando un video dal titolo "Bergamo corre". "Gli attuali avvertimenti sanitari da parte dei funzionari del governo italiano sono che il rischio di infezione è basso", ha dichiarato il narratore. Le immagini mostravano le fabbriche che lavoravano. Il messaggio risuonava in Simona Ghilardi, che gestiva un'azienda nazionale di trasporti e logistica a Nembro, a circa un chilometro e mezzo dall'ospedale Pesenti Fenaroli. I colleghi di Lodi, in isolamento, le avevano raccontato di aver perso clienti. Per lei era impensabile fermare l'industria a Bergamo. "Quando nasci qui la prima cosa che ti dicono è che devi lavorare", diceva. Mentre si continuava a parlare di chiusura, si è affacciata al suo vasto magazzino pieno di pile di circolari di alimentari, sacchetti di prodotti chimici e casse di detersivi da spedire in Cina. "Anche la fabbrica deve sopravvivere", ha detto. I dirigenti d'azienda, e anche il sindaco di Alzano Lombardo, hanno resistito alla chiusura, dicendo al giornale locale che sarebbe stata una tragedia per l'economia e contattando le loro associazioni commerciali con influenza a Roma. Nella capitale, Conte ha sottolineato che si sarebbe fatto guidare dalla sola scienza. Ha rifiutato le richieste di intervista per questo articolo, ma ha negato di aver mai ricevuto richieste da Confindustria, visto che il suo governo ha valutato cosa fare a Bergamo. I rappresentanti del potente gruppo industriale hanno detto di aver chiarito le loro richieste. "C'era una linea diretta tra Confindustria e il governo di allora", ha detto Licia Mattioli, allora vicepresidente del gruppo. La dirigenza ha sostenuto direttamente a Conte che la rapida chiusura delle fabbriche di Lodi costava inutilmente posti di lavoro e che nelle fabbriche bergamasche sarebbero stati sufficienti passi come l'allontanamento sociale. "Quello che dicevano era che fermare tutta l'industria, anche locale, è davvero molto, molto pericoloso", ricordava. "Non so se hanno capito", ha detto di Conte e dei suoi ministri. "Ma almeno hanno ascoltato". Le fabbriche sono rimaste aperte fino a fine marzo, e molte non hanno mai chiuso. "Posso assicurarvi che non abbiamo mai, mai, mai, mai fatto considerazioni su questo", disse il ministro della Salute Speranza. "Abbiamo deciso fin dall'inizio che il primo punto è la salute, tutto il resto viene dopo". Il 3 marzo il comitato scientifico del governo ha proposto una zona rossa intorno a Nembro e Alzano Lombardo. Le autorità lombarde l'hanno considerata un affare fatto. Così come il sindaco di Nembro, il signor Cancelli, che era infetto e lavorava in isolamento. "Questo posto avrebbe dovuto essere chiuso a febbraio, quando fu chiaro che c'erano casi ufficialmente dichiarati nell'ospedale, che sicuramente erano in contatto con gli operatori sanitari, i parenti, gli altri pazienti", ha detto il signor Cancelli. Il 3 marzo abbiamo pensato: "Ora chiuderanno stasera". Ma Conte, che doveva approvare la decisione, ha detto di non aver sentito parlare del piano per altri due giorni. Nel frattempo, ha detto l'onorevole Speranza, ha fatto pressione sul comitato scientifico per una relazione sulla loro logica per la chiusura delle città. "Hanno detto solo Chiudere", ha detto il signor Speranza. Non si può dire: "Io tolgo la libertà alle persone", per due parole. Il Ministero dell'Interno ha comunicato alla polizia  di Bergamo di iniziare i preparativi per la chiusura, secondo il colonnello Paolo Storoni, allora capo dei carabinieri della zona. Carmen Arzuffi, proprietaria dell'Hotel Continental, ha detto che il prefetto della polizia locale ha chiamato il 4 marzo per prenotare 50 camere per 100 agenti in arrivo. Il 5 marzo il comitato scientifico ha nuovamente sollecitato il governo a chiudere le città. Speranza ha detto di aver inviato a Conte il rapporto quella notte. Un parlamentare bergamasco ha fatto pressione sull'ufficio di Conte in privato, sostenendo che si stava verificando una catastrofe umana. L'ufficio di Conte ha risposto, secondo la corrispondenza vista dal Times, che ci sarebbe stata una riunione a livello ministeriale il sabato, due giorni dopo, e che nessuna decisione sarebbe arrivata prima di allora. Entro il 6 marzo, le forze dell'ordine avevano iniziato ad insediarsi nell'albergo. La polizia riempì le ore ispezionando i percorsi che avrebbero dovuto chiudere e tenendo briefing nei sotterranei, con i comandanti che disegnavano le mappe delle città e delle loro strade su un cavalletto. "Sapevano tutto a memoria", ha detto la signora Arzuffi, la proprietaria dell'albergo. Mentre facevano le esercitazioni, il 6 marzo Conte si è incontrato ancora una volta a Roma con il comitato scientifico. Secondo Speranza, il comitato ha detto a Conte che la chiusura di Bergamo non era più un problema. Tutta la Lombardia, Milano compresa, doveva essere chiusa. Due giorni dopo, l'8 marzo, Conte ha fatto proprio questo. Più tardi, quel giorno, gli agenti di polizia dell'Hotel Continental hanno fatto le valigie e se ne sono andati. "Non è successo niente", disse il signor Cancelli. Mentre le autorità decidevano cosa fare, il virus sembrava diffondersi ovunque e toccare tutti. Le infezioni hanno devastato case e appartamenti. La gente ha iniziato a morire. Il signor Orlandi, il corpulento camionista che una volta aveva deliziato i bambini della sua famiglia lottando con le sue mani spalancate, è morto il giorno dopo che la sua famiglia ha saputo di aver contratto il virus. Alcuni dei suoi familiari si infettarono e morirono. Giuseppa Nembrini, 82 anni, e Giovanni Morotti, 85 anni, una coppia di coniugi in due stanze separate in fondo al corridoio dal signor Orlandi, sono morti entrambi. Anche Angiolina Cavalli, 84 anni, paziente dell'altro lato del corridoio, è morta. Anche il marito, Gianfranco Zambonelli, 85 anni, che aveva visitato l'ospedale, è morto a causa del virus. "Non ci hanno mai detto niente", diceva dell'ospedale Francesco Zambonelli, il figlio, che aveva contratto il virus. "Credo che senza saperlo siamo diventati un veicolo di contagio per gli altri". Tra i malati c'erano anche i tifosi del calcio bergamasco, 40.000 dei quali erano andati a Milano il 19 febbraio a fare il tifo per la loro squadra locale, l'Atalanta, in una partita di Champions League contro la spagnola Valencia. "Siamo rimasti bloccati uno accanto all'altro", ricorda Matteo Doneda, 49 anni, tifoso rabbioso dell'Atalanta, che cantava alla partita: "Lo saprete quando faremo danni! Siamo Bergamaschi e non conosciamo limiti". Il 26 febbraio, il signor Doneda ha detto che i biscotti hanno iniziato a "sapere di sabbia" e la moglie lo ha portato in ospedale. Riusciva a malapena a camminare e ben presto si ritrovò a respirare dall'interno di un casco ad ossigeno, circondato da persone anziane che ansimavano per l'aria. Disse che alcuni di loro avevano le mascelle rotte sotto la maschera, per svenimento e caduta in reparto. La dott.ssa Avogadri è declinata e ha perso conoscenza, finendo alla deriva in uno stato semicomatoso in un reparto di terapia intensiva, mentre aveva perso metà dei suoi capelli. "Volevo morire", disse. Quando finalmente fu dimessa, scoprì che il medico che era riuscito a trovarle un tampone all'ospedale Pesenti Fenaroli era morto e che la sorella maggiore, che viveva nelle vicinanze, giaceva in un reparto di terapia intensiva, con un tubo di respirazione in gola.

NESSUNO DA BIASIMARE. Tutte le autorità coinvolte riconoscono ormai la perdita di Bergamo come una tragedia. Ma invariabilmente ne danno la colpa altrove. L'Organizzazione Mondiale della Sanità dice di aver limitato le sue definizioni dei casi per ragioni pratiche, soprattutto per non sprecare risorse all'inizio di un contagio incerto. La logica, ha detto la dott.ssa Margaret Harris, portavoce dell'organizzazione, era "limitare i test a una specifica popolazione a rischio". Si tratta di una posizione che i funzionari dell'O.N.A.U. in passato consideravano ragionevole. Ma la dottoressa Harris ha anche sostenuto che quando l'agenzia ha aggiornato le linee guida alla fine di gennaio, ha chiarito "che il medico del paziente è quello che, in ultima analisi, decide chi sottoporre al test". I medici di Bergamo lo consideravano un comodo avvertimento. La guida era "la cosa che ha generato l'enorme problema della diffusione della pandemia", ha detto il dottor Avogadri. "Era un grosso limite". L'O.M.S. "ha fatto un errore", ha detto Giuseppe Ruocco, medico capo dell'Italia e alto funzionario del ministero della Sanità, aggiungendo che se l'Italia non avesse seguito automaticamente la guida dell'organizzazione "avrebbe certamente potuto evitare i casi e l'infezione del personale medico". A giugno l'Italia ha conferito il titolo di cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana al dottor Malara, il medico che ha affrontato l'epidemia non rispettando il protocollo. I funzionari locali e le famiglie in lutto di Nembro e Alzano Lombardo sostengono che la chiusura delle città a febbraio avrebbe rallentato la diffusione. Un procuratore locale sta indagando su quello che è successo e su quello che non è successo e perché. Ma il governo preferirebbe concentrarsi sulla chiusura di Lodi e poi della regione. "Sono due piccole città che tutti ormai conoscono", ha detto il ministro della Salute Speranza, quando gli è stato chiesto come sia possibile che il primo ministro non abbia saputo per tre giorni della proposta di chiusura di Bergamo. "Ma sono due piccoli centri". E Conte ha respinto le domande sull'audacia della sua decisione. "Non ci sono stati ritardi", ha insistito.

UNA PROVINCIA SVENTRATA. Oggi Bergamo è una provincia sventrata dalla perdita. All'inizio di questo mese il reverendo Matteo Cella, che ha eseguito molti riti funebri abbreviati per le famiglie che conosceva, ha salutato vedove e vedovi, figli e figlie, nipoti e nipoti nel giorno dei morti. Indossando maschere chirurgiche blu, si appoggiavano alle lapidi dei loro cari, o accanto alle croci di legno delle tombe incompiute delle vittime del coronavirus. Padre Cella e altri prelati hanno letto i nomi delle 231 persone morte a Nembro dal novembre precedente. Almeno 188 avevano ceduto a Covid-19. Hanno letto il nome del signor Orlandi, e degli altri pazienti e dei medici e visitatori con cui ha condiviso il terzo piano dell'ospedale durante i suoi ultimi giorni. Mentre i piangenti seguivano i sacerdoti in preghiera, alcuni si aggiravano verso il muro del mausoleo sul retro del cimitero. Nomi familiari riempivano il muro.

"Franco Orlandi", “1-3-1936 – 25-2-2020.” "È ancora sorprendente", diceva Luigia Provese, 81 anni, che beveva il caffè nello stesso bar del signor Orlandi e diceva che tre delle quattro persone con cui giocava a carte erano morte a causa del virus. "Sono tutte persone che conosco". Mentre il virus è esploso di nuovo in tutta Italia, il massiccio tasso di infezione di Bergamo durante la prima ondata, dicono i medici, gli ha dato una misura di immunità. I suoi ospedali, un tempo esportatori di infezioni e di malati, stanno accogliendo i pazienti dalle zone circostanti. Il 2 novembre il quartiere fieristico di Bergamo ha debuttato come reparto di terapia intensiva appena convertito. Decine di letti sono stati irradiati con fili elettrici. I ventilatori erano in stand-by. Un'equipe di infermieri in equipaggiamento protettivo si è radunata per un briefing sulle bombole di ossigeno di riserva. La loro coordinatrice, Lauretta Rota, 56 anni, guardava con incredulità. "Ci è voluto un po' di tempo per credere che stesse succedendo di nuovo", ha detto. "C'è un esaurimento emotivo e fisico che deriva da quella conoscenza di ciò che dobbiamo affrontare". Il suo cellulare squilla. "OK", disse, scusandosi. "Il primo paziente sta arrivando".

Da “Libero Quotidiano” il 10 novembre 2020. Leonardo Coen non ha resistito. E il giornalista del Fatto Quotidiano ha espresso il suo rammarico, non appena appresa la notizia della positività al Coronavirus di Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, che non fosse Luciano, bensì Attilio, il presidente della Regione Lombardia, il "Fontana" costretto a fare i conti con il virus. Sul suo profilo Facebook, Coen ha pubblicato a caratteri cubitali un post con queste semplici parole: «Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, positivo. Il Fontana sbagliato...». Quale fosse il "Fontana" giusto è presto detto: Attilio, il governatore leghista al quale Il Fatto ha già dedicato una campagna martellante, salvo fare una brutta figura una volta arrivata la seconda ondata del virus, sull'ospedale in Fiera.

Caso Fontana: giustizia “a orologeria” o visione patrimonialistica della cosa pubblica? Luciano M. Fasano il 29 dicembre 2020 su Il Giornale. Lunedì il Presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, è intervenuto nell’Aula del Consiglio regionale con una lunga comunicazione volta a informare sulle vicende riguardanti le indagini in corso su di lui. In realtà, Fontana non ha affrontato solo questo argomento, ma ha fornito una ricostruzione puntuale di quanto accaduto nei mesi scorsi, nel pieno dell’emergenza da Covid-19 che ha colpito la regione da lui governata più di ogni altra realtà del nostro paese. La Lombardia è nell’occhio del ciclone per la gestione della pandemia e l’inchiesta sui camici e il materiale sanitario prodotto per la Regione dalla ditta di proprietà del cognato e della moglie del Governatore rappresenta soltanto l’ultima di una serie di indagini che stanno interessando la Giunta lombarda.

Ma veniamo ai fatti. In piena emergenza la Regione Lombardia, alla disperata ricerca di dispositivi di sicurezza individuale (camici, mascherine ecc.) si rivolge alle imprese della regione. All’appello risponde, fra le altre, l’azienda del cognato e della moglie di Fontana, il quale non si capisce bene se e quando venga informato di questa cosa (si dice che il 10 maggio ne sia informata la sua segreteria, anche se trattandosi di una domenica è piuttosto improbabile, quindi il Governatore ne sarà stato informato lunedì 11 o martedì 12; è inoltre alquanto singolare che debba venire a conoscenza del fatto dall’Assessore Cattaneo e non dalla moglie con cui vive … ma ciò non ci riguarda!). Si tratta di una fornitura di qualche decina di migliaia di camici per poco più di mezzo milione di euro. Un’inchiesta giornalistica di Report mette sotto la lente di ingrandimento su quel contratto, negli stessi giorni in cui Fontana decide di parlarne con il cognato. Gli articoli della stampa riportano che l’iniziativa di Fontana segue e non precede l’avvio dell’inchiesta di Report; anche in questo caso ballano due o tre giorni (fra il 12 e il 15 maggio), ma non è che con i pressanti impegni che in quei giorni il Governatore si trovava ad affrontare per fronteggiare la pandemia dovesse proprio correre ad incontrare il cognato … quindi possiamo in buona fede immaginare che, al di là dell’inchiesta giornalistica, lo avrebbe comunque fatto. Ad ogni modo sentito il cognato, lo convince su due piedi a trasformare la commessa in donazione. Probabilmente il cognato non avrà reagito molto bene, quel che però conta è che chiama e scrive un’email in Regione per comunicare lo storno della fattura (peraltro, già emessa … che straordinaria rapidità!), e lo fa talmente di corsa che la Regione ha finora soltanto accusato ricevuta di quella e-mail, senza aver ancora proceduto alla formalizzazione della donazione secondo le consuete procedure (tra l’altro, non si capisce nemmeno se abbia formalmente risposto alla proposta di donazione, perché – e dobbiamo saperlo – in Italia anche una donazione, se riguarda la Pubblica amministrazione, non è una cosa che si può fare su due piedi!). Infine, a parziale risarcimento della perdita procurata, Fontana decide motu proprio di bonificare alla società del cognato 250 mila euro (circa la metà del compenso perso) da un conto di cui è intestatario in Svizzera. Un conto sul quale sono depositati più di cinque milioni di euro, risparmi di una vita della madre e del padre arrivati dalle Bahamas, dove erano originariamente collocati in due trust (un meccanismo di origini anglosassone, non proprio trasparente, per la gestione di fondi in rapporto strutturato con diversi beneficiari), successivamente sanati con voluntary disclosure per il fisco italiano. Valore e causale del bonifico (“camici”) sono così singolari da allertare Banca d’Italia rispetto alle ordinarie procedure di inchiesta per riciclaggio. Dell’attività di Banca d’Italia vengono informati i magistrati che già stavano indagando sul caso dei camici per altre ragioni. E Fontana finisce nell’occhio del ciclone con un’indagine che si fa sempre più articolata e complessa.

La vicenda, di per sé, sembrerebbe degna di un feuilleton, o di una telenovelas di quelle che ancora oggi vanno per la maggiore nelle serate del fine settimana delle reti Mediaset. Ed è in parte anche alimentata da dichiarazioni alquanto stravaganti del diretto interessato, che non ricorda esattamente quando fosse venuto a conoscenza della fornitura onerosa di camici da parte del cognato, si dice sorpreso del passaggio dei soldi dalle Bahamas (avendo sempre pensato fossero depositati a Lugano), afferma di non avere operato almeno dagli inizi degli anni ottanta sul conto svizzero dove si trovavano quei soldi (anche se poi si scopre che di movimenti, e pure per cifre consistenti, su quel conto in anni recenti ci sono stati), e non ricorda neppure di aver pagato all’Anac una multa di mille euro, per aver omesso di dichiararli nel suo stato patrimoniale del 2015, l’anno in cui i cinque milioni di euro depositati a Lugano vennero sanati. Insomma, visto il modo maldestro in cui risponde ai rilievi che gli vengono mossi, c’è proprio da ritenere che Fontana si sia sempre comportato in perfetta buona fede. Anche perchè è poco plausibile pensare che un amministratore pubblico di esperienza e un professionista navigato come quale il Governatore della Lombardia è, con un passato ricco di importanti incarichi societari (Missoni, Fiera di Milano, Macchi, SIAE SpA ecc.) e di governo (Sindaco di Induno Olona e Varese, Presidente del consiglio regionale lombardo e infine Presidente di Regione Lombardia), possa essere vittima di svarioni così eclatanti. Non dobbiamo però dimenticare che – piccolo particolare non del tutto indifferente – stiamo parlando del Governatore della Lombardia, mica del Sindaco di Capracotta (con tutto il rispetto per il Primo cittadino e i circa 800 abitanti di quell’ameno comune del Molise). L’indagine giudiziaria farà il suo corso e potrebbe anche non sorprendere (come già accaduto in altre occasioni) che alla fine Attilio Fontana risulterà non aver commesso nessun reato. 

Ma il problema politico resta ed è grande come una casa. Non si tratta tanto dell’opportunità o meno, per un Presidente di regione, di lasciare via libera a propri congiunti in una cospicua commessa dell’amministrazione di cui si è a capo. In circostanze di emergenza, come quelle in cui si trovava la Lombardia qualche mese fa, potrebbe essere del tutto trascurabile se a rispondere all’appello per risolvere un problema di scarsità di camici fosse anche un’azienda che ha legami familiari con il capo dell’esecutivo. Ciò che è grave sta nel fatto che un amministratore pubblico di lungo corso, nonché un avvocato professionista con tanto di studio affermato, come appunto è Fontana, non abbia deciso di rispettare alcune regole minime di condotta che riguardano chi riveste una carica pubblica. Tenere un comportamento ispirato a principi di trasparenza, evitare improvvisazioni del tutto incompatibili con la gestione della cosa pubblica, non accertarsi – come avrebbe dovuto fare, una volta a conoscenza del fatto – della correttezza delle procedure amministrative seguite dai propri congiunti. Sono aspetti fondamentali che devono ispirare e contraddistinguere l’azione di chi esercita una funzione pubblica di governo come Fontana. E quel che sorprende, nella sua comunicazione di ieri al consiglio regionale lombardo, così come nella difesa della sua condotta esercitata dai suoi colleghi di partito, Matteo Salvini in testa, è che non si intraveda il benché minimo straccio di cultura delle istituzioni e della loro terzietà. Fontana, così come la Lega e Salvini, trattano la cosa pubblica adducendo ragioni di natura privata. Come nel più retrogrado e tradizionale patrimonialismo, nel senso weberiano del termine, il rispetto di principi di trasparenza, correttezza procedurale e separatezza della pubblica funzione dal propria sfera privata, come stile distintivo dell’amministratore pubblico, viene derubricato e messo in un cantone, in virtù di un pratico richiamo alla sostanza delle cose. Una persona non può essere indagata per una donazione. Sì, ma questa donazione non è un semplice affare di famiglia (ciò che, peraltro, per la legge italiana, richiederebbe comunque un atto di certificazione da parte di un notaio). È qualcosa che riguarda un’ente pubblico come Regione Lombardia, così come riguarda Attilio Fontana in quanto Presidente della Giunta di quella regione. Se Fontana e la sua Giunta, la Lega e il centro-destra lombardo, Matteo Salvini non se ne rendono conto è un problema. Pretendere di parlare in nome del “popolo” (italiano o lombardo che sia, poco conta!) non può significare trattare come casa propria le istituzioni della Repubblica. E su questo non del tutto trascurabile aspetto, la magistratura politicizzata, la giustizia ad orologeria e il garantismo non c’entrano assolutamente nulla!!!

Bergamo, inchiesta Covid. "Il Comune è parte civile". Atto formale del sindaco Gori nell'indagine sulle colpe dell'epidemia: "Verità per i nostri cittadini". Cristina Bassi, Martedì, 29/12/2020 su Il Giornale. Il Comune di Bergamo entra formalmente nel procedimento penale avviato dalla Procura sugli effetti particolarmente violenti della pandemia da coronavirus in città e in provincia. Ieri il sindaco Giorgio Gori ha annunciato che «la giunta ha deliberato di dichiarare il Comune persona offesa» nell'indagine in corso per epidemia colposa. La Procura in questi mesi ha ascoltato come persone informate sui fatti, tra gli altri, vertici della Regione, esponenti del governo e ha tentato di sentire funzionari dell'Oms. Risultano indagati, nel filone d'inchiesta sulla riapertura del pronto soccorso di Alzano Lombardo nonostante i contagi, alcuni dirigenti del Pirellone e degli enti sanitari bergamaschi. Gori ha spiegato: «Se la Procura deciderà di promuovere l'azione penale, con il rinvio a giudizio, allora il Comune si costituirà parte civile». Nella fase attuale infatti, quella delle indagini preliminari, una parte può farsi avanti presso il pm dichiarando di considerarsi danneggiata dalla vicenda oggetto dell'inchiesta. Solo successivamente, se e quando ci sarà un rinvio a giudizio, presenterà istanza di costituzione di parte civile. Durante le indagini il Comune, che si è affidato all'avvocato Mauro Angarano, ha facoltà di presentare memorie, indicare elementi di prova, partecipare alle perizie. Ha inoltre diritto a essere informato di una eventuale richiesta di archiviazione, cui può opporsi. La decisione, ha aggiunto il primo cittadino, è «un passo, nell'interesse dei cittadini, giustificato e necessario, visto l'eccezionale impatto della pandemia a Bergamo, con un numero di vittime e un tasso di letalità molto al di sopra degli indicatori nazionali». Gori ha precisato di essersi confrontato con il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, il quale «sta valutando una analoga decisione. A sua volta Cancelli credo abbia parlato con il sindaco di Alzano per condividere l'iniziativa». Il sindaco ha anche sottolineato un aspetto politico: «La decisione della giunta non contiene alcun pre-giudizio. Non è quindi leggibile come un'accusa rivolta contro il governo, la Regione, l'Oms o chicchessia. Spetta infatti alla Procura individuare gli eventuali imputati, confermando o meno il capo di imputazione, e ai Tribunali determinare se vi siano dei responsabili». Ancora sulle motivazioni della decisione: «È un atto che esercitiamo consapevolmente in nome di un'intera comunità duramente colpita che vuole innanzitutto conoscere le ragioni di ciò che è accaduto». Infine: «Il Comune vuole dire ai suoi cittadini, e in primo luogo a chi ha sofferto la perdita di familiari o di persone care, che intende rappresentarne il diritto a conoscere l'effettivo svolgimento dei fatti e offrire se necessario il proprio contributo all'accertamento della verità e, qualora emergessero delle responsabilità penali, a rappresentarne gli interessi per ottenere il giusto risarcimento».

Lega, il potere di Fontana e quelle carriere decise ai tavolini di un bar di Varese. La Repubblica il 20/10/2020. Un sistema di relazioni e affari nato nel cuore del leghismo, la città di Varese, e cresciuto fino a conquistare il governo della regione più ricca d'Italia. Di quel potere, Attilio Fontana è oggi il volto e la rappresentazione, e ieri sera la puntata di Report su Rai 3 ne ha raccontato la trama. Intessuta di conflitti di interessi, regie occulte dietro le nomine, carriere decise non nei luoghi istituzionali della politica ma ai tavolini di un bar.  

Caianiello decide, Fontana nomina. Sono quelli dell'Haus Garden Cafè, un pub di Gallarate diventato nel tempo l'ufficio di Nino Caianiello e il centro della politica del centrodestra in Lombardia. Caianiello, detto il "mullah", il "ras delle nomine", ma anche "mister dieci per cento" per la "decima" che pretendeva dai politici che piazzava nelle amministrazioni locali e nelle municipalizzate, viene arrestato per corruzione il 7 maggio 2019 nell'inchiesta "Mensa dei poveri". Report lo ha intervistato sui suoi rapporti con Attilio Fontana e sulla genesi di alcune nomine nella giunta che oggi governa la Lombardia. Sollecitato dal giornalista Giorgio Mottola, Caianiello definisce Fontana un "front office", un politico che mette la faccia su decisioni di altri. "Hai visto che i tuoi.. i tuoi consigli li hi seguiti quasi tutti.." dice Fontana a Caianiello, intercettato, dopo aver definito la lista dei suoi assessori. "Non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.." risponde Ninuzzo, come lo chiamava il governatore. "Non è male, non è male la giunta secondo me" dice ancora Fontana. "Assolutamente.. no.. no è messa bene..", asseconda Caianiello che - nonostante una precedente condanna per concussione nel 2016 - per vent'anni è rimasto il padrone del centrodestra in Lombardia. "Io ho vissuto più la gestione politica del partito - spiega Caianiello a Report -. Mentre Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così". Il "mullah" spiega come sono nate le nomine di due tra gli assessori più influenti in Regione, Raffaele Cattaneo (all'Ambiente) e Giulio Gallera (alla Sanità), confermando quanto emerso dalle intercettazioni di "Mensa dei poveri". "Attilio disse: "vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l'incarico all'ambiente"". E su Gallera: "Sapevo che c'era questa legittima aspettativa da parte di Gallera. Io dico: per me Gallera va bene". "Risponde un po' agli ordini Fontana?" chiede Mottola. "Non ordini, agli accordi". "Attilio Fontana è un po' un front office?". "E' un front office".  

Il sindaco Fontana e il terreno della figlia. Lo scandalo dei camici in piena pandemia, con l'affare da 250mila euro affidato alla società della moglie e del cognato Andrea Dini, è ancora lontano. Report racconta come molti anni prima la giunta comunale di Varese, guidata da Attilio Fontana, abbia modificato la destinazione d'uso - da area a verde a edificabile - di un terreno di 4000 metri quadrati ereditato nel 2012 dalla figlia del sindaco, Maria Cristina Fontana. La trasmissione riporta la testimonianza di un ex dirigente del comune di Varese e del consigliere comunale del Pd Andrea Civati. "All'epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde - dice il funzionario -. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili". "Dai verbali del consiglio comunale - aggiunge Civati - non risulta una dichiarazione sul conflitto d'interessi del sindaco Fontana".   

Le consulenze dagli ospedali della Regione. Molti anni dopo, l'avvocato Maria Cristina Fontana risulta beneficiaria di alcuni incarichi legali dalle azienda sanitarie lombarde, i cui vertici sono stati nominati dalla Regione Lombardia e in alcuni casi sono di esplicita fede leghista. Tre incarichi nel 2017 arrivano dall'Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, cinque arrivano nel 2018 e altri tre nel 2019, mentre un'altra consulenza arriva dall'ospedale Sacco di Milano. Per i contratti del 2019, l'azienda ospedaliera introduce una voce sui conflitti d'interessi. Ma in relazione all'avvocato Fontana non ne vengono indicati. E poi nell'aprile 2020, in piena pandemia, l'Asst Nord Milano aggiorna l'elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali. Tra i professionisti c'è sempre Maria Chiara Fontana.

Il maneggio abusivo alla moglie di Giorgetti. Un'altra storia, tutta varesina e tutta leghista, riguarda la moglie di Giancarlo Giorgetti e un maneggio all'interno dell'ippodromo della città. A parlare è sempre un ex dirigente del comune di Varese. "In questo ippodromo c'era effettivamente un maneggio abusivo - dice il funzionario -. Vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti". Si tratta di Laura Ferrari, che nel 2008 ha patteggiato una condanna per truffa. Appassionata di equitazione, riceve mezzo milione di euro da Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. Ma i corsi non sono mai stati fatti. A difendere la moglie di Giorgetti, l'avvocato Attilio Fontana. Durante la sua giunta, nel 2014, le sorelle Ferrari ottengono dalla società che gestisce l'ippodromo la gestione del centro della pista con il loro maneggio. Il contratto è un comodato d'uso gratuito: la moglie e la cognata di Giorgetti non pagano nulla. Poi nel 2018 cambia l'amministrazione e al maneggio arrivano i vigili. Chiedono le autorizzazioni comunali, ma i documenti non si trovano. "Quell'attività non era autorizzata - ha ricostruito  Civati - ed è stata elevata una sanzione". Per quattro anni, moglie e cognata di Giorgetti utilizzano lo spazio all'interno dell'ippodromo di Varese, trasferiscono le loro stalle private, organizzano corsi di equitazione, vengono sponsorizzate dal Comune. Ma grazie al contratto di comodato d'uso, non pagano un euro.  

Daniele Capezzone per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Attilio Fontana, il presidente leghista della Regione Lombardia, è di nuovo in trincea. Per un verso, per la nuova ondata Covid; per altro verso, per gli attacchi mediatici che lo mettono nel mirino con accuse sempre più gravi e - parrebbe - fantasiose, addirittura con evocazioni di influenze dalla 'ndrangheta. Ma è la recrudescenza del coronavirus a preoccuparlo: «Avevo iniziato a girare la Lombardia per presentare il nostro piano di rilancio, e avevo trovato ovunque, anche nelle categorie più colpite dalle difficoltà economiche, una gran voglia di reagire e di ripartire, di rimettersi in gioco. La cosa mi entusiasmava, avevo il morale a mille. E invece è arrivata questa seconda botta, un' accelerazione fortissima in appena due o tre giorni». Il governatore lombardo, a partire da qui, ha accettato una conversazione a tutto campo con La Verità.

Allora presidente, davvero si sarebbe fatto condizionare nientemeno che dalla 'ndrangheta per le sue scelte in materia di sanità? Stasera una trasmissione Rai lancerà questa accusa, secondo le indiscrezioni già circolate nei giorni scorsi...

«Queste sono illazioni vergognose fatte per suggestioni incomprensibili ed inaccettabili. Mi riservo comunque di agire sia in sede penale che in sede civile».

Ma, a maggior ragione se fossimo alla rimasticatura di materiale giudiziario già esaminato e da cui non è venuto fuori nulla su di lei, secondo lei come nascono accuse mediatiche di questa pesantezza nei suoi confronti dalla trasmissione Report? Siamo a una campagna con un livello di gravità con pochi precedenti...

«Ah non so, forse perché hanno già cavalcato il cosiddetto caso dei camici. Per citare Stalin, pensano di affondare il coltello nel ventre. Ma non trovano un ventre molle, trovano l' acciaio».

E allora parliamo dei camici. Ci aiuti a fare chiarezza. Alla fine l' azienda di suo cognato ha fatto una donazione alla Regione, i lombardi non hanno pagato un euro, e lei aveva dato disponibilità a mettere dei soldi di tasca sua. La cosa può piacere o no, ma è materia penale?

«Mio cognato aveva fatto altre donazioni in quel periodo. Quando ho capito che la fornitura era onerosa, gli ho chiesto di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e ho cercato di corrispondergli il 50 per cento del mancato incasso. Il prezzo era il più basso fra quelli in quel momento pagati. Mio cognato ha accettato e quindi la Regione non ha pagato nulla. Ed è proprio lui che ad oggi ci ha rimesso».

Proseguiamo con le accuse. Da ultimo, sono state evocate consulenze per sua figlia. Di che si tratta?

«Di questo non parlo: parla mia figlia, che ha già inviato delle risposte che per ora la trasmissione non ha preso in considerazione... Aveva degli incarichi assolutamente trasparenti da un' assicurazione che poi era anche un' assicurazione di un' Asst».

Possibile che per colpire lei e la Lega si tenti una specie di assalto alla Lombardia?

«Lei capisce che l' operazione prevede due obiettivi appetitosi: provare a mettere nel mirino la Lega e tentare di prendere la Lombardia. Anche perché con il voto democratico in Lombardia non riescono a vincere, e allora tentano altre strade».

Al di là delle cose giudiziarie, lei vede un accanimento particolare verso la sua regione? Lo dico in modo ancora più esplicito: quando a marzo e ad aprile la prima regione italiana era in difficoltà, ha percepito qualche compiacimento di troppo da parte di alcuni a Roma e non solo? Lo dico in termini calcistici: se il più forte giocatore della squadra sta male, gli altri compagni dovrebbero preoccuparsi, non le pare?

«Non è che si sia solo percepito. Alcuni, giornalisti e politici, lo hanno proprio esplicitato, pronunciando parole pesanti».

Senta, hanno crocifisso lei e Bertolaso per l' ospedale in Fiera. Dicevano che non serviva più, che era una cattedrale nel deserto. Qualcuno l' ha chiamata per scusarsi e dire che avevano torto?

«Assolutamente no, non mi ha chiamato nessuno. Né per scusarsi per avermi dato del razzista quando chiedevo semplicemente di sottoporre a controlli chiunque fosse di ritorno dalla Cina. Né per avermi attaccato in modo assurdo perché in un video indossai una mascherina. Né per la storia dell' ospedale in Fiera. Devo anche dirle che se alcuni chiamassero, li riterrei in malafede, dopo tutto quello che hanno detto. La cosa più giusta l' ha detta uno dei finanziatori privati che hanno reso possibile quella realizzazione: siamo orgogliosi di aver preparato un' opera che speriamo non debba essere utilizzata per un' emergenza».

Quanti cittadini non lombardi vengono ogni anno a curarsi in Lombardia per motivi ordinari, Covid a parte?

«Prima del Covid erano 165-170.000».

Lei è pronto, se altre regioni saranno nei guai a causa del coronavirus, a ospitare i loro pazienti?

«Sì, se ce ne sarà bisogno e se saremo in condizione di farlo, cioè se non saremo a nostra volta sotto pressione».

Nel weekend il commissario Domenico Arcuri e il ministro Francesco Boccia hanno attaccato le regioni, sostenendo che molti ritardi siano colpa dei governatori. Scaricabarile o c' è del vero?

«Peggio che scaricabarile. Noi abbiamo sempre fornito in tempo i nostri dati. Sento anche che ci viene rimproverato di avere respiratori inutilizzati. Noi non ne abbiamo nessuno inutilizzato, tranne venti, ma solo perché non hanno la certificazione. Li teniamo da parte e li utilizzeremo solo se ci sarà un' urgenza drammatica».

Perché il governo ha atteso ottobre per far partire il nuovo bando sulle terapie intensive?

«Non lo so proprio. Bisognerebbe chiederlo a loro».

Vi hanno dato risorse in più per il trasporto pubblico locale?

«La risposta è semplice: no».

Su questo piano, come ve la caverete per potenziare il numero dei mezzi in circolazione?

«Noi stiamo cercando comunque di dare una risposta.

Però voglio dire, anche a difesa dei sindaci, che se hai una metro, non è possibile aumentare le corse oltre una certa misura. E quanto agli accordi con i bus privati, servono risorse per farli. Non solo il governo non ha dato soldi in più, ma a livello locale ci si ritrova con soldi in meno dalla bigliettazione per evidenti ragioni».

Non le pare che il governo, da maggio a oggi, abbia perso tempo? Anziché colpevolizzare i ragazzi o le famiglie che si sono fatte tra luglio e agosto una settimana di vacanza, non potevano pensare a tutte queste cose? Che hanno fatto questa estate, oltre che predicare? Dicevano che poteva arrivare una seconda ondata, ma non hanno fatto nulla per prepararsi, mi pare.

(Sorride). «Se mi chiede che hanno fatto, le dico: non lo so Non mi faccia dire altro, non voglio alcun tipo di polemica. Ho promesso di essere collaborativo».

Come siete messi con i vaccini influenzali?

«Mi permetta di fare chiarezza, perché ho letto tante polemiche urlate, insensate e strumentali. Come Regione, abbiamo acquistato 2.9 milioni di dosi, di cui solo 100.000 sub iudice, perché attendono la certificazione Aifa. Sono numeri più che doppi rispetto all' anno scorso: anche in considerazione del fatto che quest' anno molte più persone vogliono vaccinarsi. Segnalo che altre regioni confinanti, dall' Emilia Romagna al Veneto, hanno acquistato percentualmente gli stessi numeri».

Ci spiega la ratio delle restrizioni che scatteranno in Lombardia? Non teme di avere esagerato?

«Guardi che, con l' accelerazione e la crescita esponenziale dei casi che c' è stata negli ultimi giorni, semmai ho dovuto fare una mediazione rispetto alle richieste ancora più dure che venivano dal Comitato tecnico scientifico».

Non teme il colpo di grazia a bar, ristoranti e commercio? Chi li risarcisce questi imprenditori? Anche prima delle ultime misure nazionali, Confcommercio già stimava in tutta Italia un rischio di chiusura di 270-000 esercizi da qui a fine anno, un' ecatombe. Darete battaglia su questo punto rispetto al governo?

«Noi come Regione, in ogni occasione, ad ogni Dpcm governativo, presentando le nostre richieste o le nostre subordinate, abbiamo sempre chiesto un ristoro economico per le imprese dei settori oggetto delle misure restrittive. Ma vedo che non c' è stata risposta adeguata. Per questo continueremo a chiederlo in ogni occasione».

Consulenze negli ospedali della Regione alla figlia di Fontana, un altro conflitto di interessi per il governatore. Sono tre incarichi di consulenza per attività giudiziaria, ottenuti tra il 2018 e il 2019 presso le asst di Milano. Maria Cristina Fontana le ha avute da quando è subentrata al posto del padre nello studio legale di famiglia, a Varese. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Una serie di consulenze legali incassate dalla figlia di Attilio Fontana dalle aziende sanitarie della Lombardia, i cui vertici sono stati nominati proprio dalla giunta regionale guidata dal governatore lombardo. Un nuovo conflitto di interessi per Fontana, dopo il caso della fornitura di camici da parte del cognato Andrea Dini (Fontana è indagato per frode in pubbliche forniture), e la nomina dell'ex socio di studio Luca Marsico nel Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del Pirellone, che era costata al governatore un'indagine per abuso d'ufficio, poi archiviata. A imbarazzare ora il numero uno della Regione Lombardia sono tre incarichi assegnati a Maria Cristina Fontana, primogenita del governatore, subentrata al posto del padre alla guida dello studio legale di famiglia, uno dei più noti a Varese. La prima consulenza è stata assegnata con la delibera numero 526 del 6 settembre 2018 dall'Azienda socio sanitaria Nord Milano per un importo di 6.383,65 euro. Un secondo incarico parte il 20 settembre dello stesso anno: una consulenza di cui non si conosce il costo perché la spesa è coperta dall'assicurazione dell'ente sanitario. Una terza consulenza viene assegnata con una delibera del 31 gennaio 2019 dall'ospedale Sacco: 5.836,48 euro per occuparsi della "costituzione nel giudizio promosso davanti al tribunale di Milano" per la difesa dell'ente in una causa di lavoro. Ma c'è di più. Il rapporto con l'Azienda socio sanitaria Nord Milano diventa ancora più stretto, anche per il 2020, visto che il 29 aprile la stessa Asst, guidata dal direttore generale Elisabetta Fabbrini, delibera l'elenco dei professionisti legali cui affidarsi. Anche qui Maria Cristina Fontana risulta presente in due elenchi, quello degli avvocati da chiamare in caso di "medical malpractice" (ovvero casi di negligenze mediche) e quello dei legali esperti in "diritto fallimentare e procedure concorsuali". A rendere più delicata la faccenda, il fatto che le nomine dei dirigenti della sanità sono fatte proprio dalla giunta regionale: nel caso del Sacco Alessandro Visconti, nominato al vertice dell'azienda ospedaliera in quota Lega, mentre Fabbrini alla guida della Asst nord è stata nominata in quota Forza Italia. "Non si tratta di consulenze, ma di incarichi in procedimenti giudiziari - ha detto all'Ansa Maria Cristina Fontana - Inoltre, dal 2015 (in epoca ben antecedente all'elezione di mio padre) sono fiduciaria di una compagnia di assicurazione privata che fra i suoi assicurati ha anche Asst Nord Milano. Nell'ambito del rapporto lavorativo con la compagnia assicurativa, ho svolto degli incarichi di difesa della Asst a spese della stessa compagnia". Il nome di Visconti compare negli atti dell'inchiesta "Mensa dei poveri" sugli appalti pilotati nella sanità lombarda dal "burattinaio" delle nomine di Forza Italia Nino Caianiello. Ne parla proprio Attilio Fontana nel suo esame, da testimone, di fronte ai magistrati. I pm chiedono se la nomina di Alessandro Visconti alla guida del Sacco-Fatebenefratelli sia in quota Lega. "All'inizio del mio mandato - risponde Fontana - l'unico criterio seguito per la nomina dei dg delle Ats e delle Asst è stato esclusivamente quello delle professionalità e non di appartenenza politica", per il dottor Visconti, "non escludo che sia un simpatizzante della Lega". Ma qualche anno prima, dopo le nomine del 2014, è stato proprio Visconti ad ammettere la sua militanza leghista. " "Dal 1995 dono alla Lega il mio tempo, il mio impegno e in certi casi dei contributi in denaro: per tredici anni sono stato assessore a Sumirago, ho passato le domeniche nei gazebo, alle feste della Lega ho aiutato in cucina. Ho sempre sostenuto che i partiti più che sui soldi pubblici debbano contare sui finanziamenti della gente".  

Mogli, camici e cavalli dei paesi tuoi. Report Rai PUNTATA DEL 19/10/2020 Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara, Federico Marconi, Giovanni De Faveri. Dietro allo scandalo dei camici del cognato di Fontana Report ha scoperto un sistema di potere che da anni avvolgerebbe la Regione Lombardia: appalti truccati, nomine pilotate e infiltrazione della ‘ndrangheta. Con interviste e documenti esclusivi l’inchiesta fa luce su nuovi e inediti conflitti di interesse del governatore Fontana. Viene ricostruita inoltre la presunta rete di corruzione messa in piedi tra Varese e Milano da una delle eminenze grigie più potenti della Lombardia: un politico di altissimo profilo, detto il Mullah, legato a Marcello Dell’Utri e consigliere di Attilio Fontana nella formazione della giunta regionale. In questo scenario la ‘ndrangheta avrebbe trovato terreno fertile. Deciderebbe giunte comunali, nomina sindaci e non sente più alcun bisogno di nascondersi.

MOGLI, CAMICI E CAVALLI DEI PAESI TUOI di Giorgio Mottola collaborazione Giovanni De Faveri - Norma Ferrara – Federico Marconi Immagini di Alfredo Farina – Davide Fonda – Andrea Lilli – Fabio Martinelli Montaggio e Grafica Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Intorno a questo grano si sta consumando un’insensata guerra, che rischia di comprometterne il recupero, ed è un peccato, perché è un grano tutto italiano e ha anche delle proprietà benefiche. Questo è quello che emergerebbe da uno studio che vi mostreremo in via del tutto esclusiva questa sera. Però, dopo esser tornati sui nostri passi. Nell’aprile scorso, in piena emergenza virus, Report ha scoperto che la Regione Lombardia aveva affidato senza gara, attraverso una procedura negoziata, una fornitura di camici, 75 mila, del valore di mezzo milione di euro alla Dama, una società che faceva riferimento alla moglie del governatore Fontana e a suo cognato. Incalzato dalle domande del nostro Giorgio Mottola, Dini aveva risposto “È avvenuto tutto a mia insaputa. Appena ne sono venuto a conoscenza, ho trasformato quel contratto in donazione”. Stessa versione del governatore Fontana. Insomma, a sua insaputa da governatore e anche da marito. Tuttavia, i magistrati, invece, sospettano che quel contratto di fornitura si è trasformato in donazione solo dopo che Report aveva cominciato a fare domande in Regione. Per questo ha indagato il governatore Fontana, per frode nella pubblica fornitura, perché non ha informato chi di dovere del conflitto di interessi. Indagato anche il suo manager, Filippo Bongiovanni, che è il direttore della stazione appaltante, Area. Perché è indagato? Per turbata libera scelta del contraente, perché ha assegnato la fornitura pur sapendo del conflitto di interessi. È indagato anche il cognato, Dini, per frode nell'adempimento della pubblica fornitura, perché, rispetto a quanto stabilito dal contratto mancano all’appello oltre 25 mila camici. In un sms, poi, anche la moglie di Fontana scrive al fratello e dice: cerca di recuperare più camici possibili. A svelare il velo dell’ipocrisia è stato chi beneficenza la fa sul serio: Emanuela Crivellaro. È la presidente di un’associazione, una Onlus che assiste bambini malati. Lei si presenta nell’ufficio di Dini proprio mentre sta chiudendo il contratto con la Regione. E gli dice: “Mi presti un po’ di camici? Mi dai un po' di camici, me li regali, che li distribuisco negli ospedali che hanno bisogno?”. Cosa ha risposto Dini? Lo sentiremo dalla sua voce, quella che è diventata la super testimone della procura di Milano ha deciso di raccontarci la sua storia dopo che il governatore Fontana ha cercato di chiarire la sua posizione in un infuocato consiglio regionale di mezza estate. Il nostro Giorgio Mottola.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 A seguito di una inchiesta di “Report” annunciata con toni scandalistici si è molto parlato della vicenda fornitura camici, divulgata dalla più faziosa informazione con il refrain ripetuto all’inverosimile: “Dama l’azienda del cognato del presidente cui partecipa al 10 per cento sua moglie Roberta”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Attilio Fontana era stato chiamato a dar conto della fornitura di camici da mezzo milione di euro assegnata al cognato ma il governatore piuttosto che dare chiarimenti ha preferito attaccare duramente “Report”. E molti punti della vicenda sono quindi rimasti oscuri.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA No, guardi, no no è una donazione, ci sono tutti i documenti.

GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, in realtà, leggendo le carte, sembra in realtà una… Non è una donazione. È un appalto, in realtà. Cioè, lei ha venduto dei camici.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Effettivamente, i miei quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se n’è occupato ha male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione.

GIORGIO MOTTOLA L’hanno fatto a sua insaputa, insomma…

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Sì. Appena l’ho saputo ho detto no, no, in Lombardia assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche Attilio Fontana con un post assicura che fin dall’inizio si trattava di una donazione. Ma a smentire la loro versione c’è un importante testimone. Mentre stava chiudendo l’affare con la Regione il cognato del governatore incontra Emanuela Crivellaro, presidente della fondazione benefica “Il Ponte del Sorriso” in quei giorni era alla ricerca di mascherine e camici da donare agli ospedali lombardi e per questo si era rivolta anche ad Andrea Dini.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” Me ne ha dati 300 e mi ha detto poi vedrò di dartene altri. Poi non ne sono arrivati più neanche uno. Io più volte l’ho sollecitato e lui mi ha risposto non posso perché sono sotto contratto con la Regione. Cioè, contratto esclusivo. Ho detto: guarda che anche l’ospedale è disposto a comprarli ma, non… lui ha detto che non poteva venderceli perché aveva un contratto con la Regione. Quindi…

GIORGIO MOTTOLA E qui siamo a metà aprile.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E qui siamo… no. Al 10 aprile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque contratto e non donazione. Ma come faceva Andrea Dini a sapere che avrebbe avuto un contratto con la Regione già il 10 aprile? L’esito della procedura negoziata è stato reso noto infatti solo sei giorni dopo, il 16 aprile. Come faceva a saperlo? Alla Crivellaro Andrea Dini racconta di avere un gancio diretto in Regione Lombardia.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E lui mi ha detto che era in trattativa con la Regione. E io gli ho detto: ah, sì tra l’altro so che è Cattaneo… insomma, o ce lo siamo detti a vicenda, a me pare di averlo tirato fuori io: è Cattaneo? E lui mi ha risposto sì, è proprio il mio riferimento.

GIORGIO MOTTOLA In Regione?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” In Regione, è proprio il mio riferimento in Regione.

GIORGIO MOTTOLA Cattaneo, l’assessore?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” L’assessore Cattaneo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raffaele Cattaneo è uno degli uomini più fedeli del presidente della Lombardia. Esponente di Comunione e liberazione, a sorpresa due anni fa è stato nominato da Fontana assessore all’Ambiente sebbene alle regionali non avesse ottenuto preferenze sufficienti a farsi eleggere consigliere.

GIORGIO MOTTOLA Come mai lei ha fatto da intermediario tra il cognato di Fontana e la Regione Lombardia?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma perché io sono stato incaricato di far fronte all’emergenza di dispositivi di protezione individuali, quindi mascherine, camici.

GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva che Dini fosse il cognato di Fontana?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sapevo che Dini fosse il cognato di Fontana, sì. Non lo conoscevo, non lo conosco di persona, lo conoscevo di fama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi l’assessore Cattaneo era a conoscenza del conflitto, ma non lo denuncia.

GIORGIO MOTTOLA Bastava segnalare che fosse il cognato del presidente Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì, certo. Certo.

GIORGIO MOTTOLA Questa segnalazione non è mai stata fatta.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma non è vero, non è vero. Cosa dove essere fatto. Quale, insomma, quale…

GIORGIO MOTTOLA Ci sono delle leggi sui conflitti di interessi.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì appunto, ma questi…

GIORGIO MOTTOLA Cioè la società non è solo del cognato, ma anche della moglie di Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Però vede, in una istituzione, come lei ben sa ci sono responsabilità diverse. La mia responsabilità è stata quella di coordinare una task force che si occupava di garantire la disponibilità di Dpi (Dispositivi di protezione individuale ndr).

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come ha fatto Dini a entrare in contatto con un assessore della Giunta regionale? La risposta l’hanno trovata gli investigatori nel suo telefono. Esattamente tre settimane prima della procedura negoziata, il 27 marzo Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, e proprietaria del 10 percento di Dama spa, scrive al fratello: “Prova a chiamare assessore Cattaneo di Varese. Sembra siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini”, che sarebbe Davide Caparini, assessore al Bilancio nella giunta regionale presieduta da Fontana. Poi Roberta Dini aggiunge: “Ho avvisato la moglie di Cattaneo, che conosco un po’, vuol dare una mano”. Di tutto questo Attilio Fontana assicura di non averne saputo nulla, almeno fino a una certa data.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Dei rapporti negoziali Aria-Dama nulla ho saputo fino al 12 maggio scorso, data in cui mi si riferiva che era stata concordata una rilevante fornitura di camici a titolo oneroso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 12 maggio è la data cruciale di tutta la vicenda. Il giorno prima, l’11 maggio, dalla redazione di Report abbiamo mandato alla segreteria di Fontana questa richiesta di intervista con alcune domande che facevano genericamente riferimento al ruolo dei privati nell’emergenza sanitaria. Secondo quanto ritengono i pm, sarebbe questa nostra mail a far scattare il campanello d’allarme nell’ufficio del presidente Fontana, che ordina al cognato di restituire i soldi e trasformare la commessa in una donazione.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Ma poiché il male, così come il bene è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e strumentalizzazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, a differenza di quello che Fontana e il cognato ci hanno raccontato all’inizio, l’idea della donazione è venuta solo in un secondo momento. E tra l’altro, l’idea non sembra entusiasmare troppo né Dini, né la moglie di Fontana. Scrive, infatti, Roberta Dini al fratello: “Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può”. E suggerisce di farsi restituire una parte dei camici già donati: “Stamattina consegnati 6mila camici. Almeno quelli possono essere resi”. Ed è forse per questa ragione che Attilio Fontana prova a rimborsare di tasca sua il cognato con un bonifico da 250 mila euro.

ATTILIO FONTANA Si è trattata di una decisione spontanea e volontaria, e dovuta al rammarico nel constatare che il mio legame di affinità aveva solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia. E così quel gesto è diventato sospetto, se non addirittura losco. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A sospettare in realtà sarebbe stata la sua stessa banca, che ha bloccato il bonifico da 250 mila euro segnalandolo come operazione sospetta. Quei soldi infatti vengono da un conto svizzero di Fontana che porta direttamente nei Caraibi, alle Bahamas, dove la famiglia del presidente ha avuto per anni un trust anonimo da 5 milioni di euro, la Montmellon Valley.

GIORGIO MOTTOLA Ma chi c’è dietro Montmellon Valley?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Uno studio di avvocati di Panama che si chiama “Morgan y Morgan”, antagonista di Mossak Fonseca, famoso per i Panama Papers, che operano proprio per creare, gestire strutture offshore. Quindi strutture che garantiscono gli anonimati bancari e societari dentro i quali ci sono un sacco di soldi.

GIORGIO MOTTOLA E che tipo di reputazione ha “Morgan y Morgan”?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO È come Mossak Fonseca, che reputazione devono avere? Cioè gestore di strutture offshore che servono per riciclare. Insomma, questo è.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attilio Fontana, che aveva una delega per gestire il trust, sostiene che i 5 milioni di euro fossero i risparmi della madre dentista e del padre dipendente della mutua. La società anonima alle Bahamas viene chiusa dopo la morte della signora Fontana nel 2015. GIORGIO MOTTOLA Dopo il 2015 Fontana chiude il trust alle Bahamas.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Proprio nel 2015 entra in vigore in Italia la normativa per la cosiddetta voluntary disclosure che consentiva a chi occultava denaro all’estero di poterlo regolarizzare pagando, come sempre succede, imposte pari a due cocomeri e un peperone. Era l’ultima spiaggia. Perché poi entravano in vigore delle normative penali che rendevano impossibile detenere denaro proveniente da delitto anche in Svizzera.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come mai tutte queste bugie? Che cosa nasconde questa vicenda?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi quello che nasconde lo nascondete voi nella vostra testa.

GIORGIO MOTTOLA Però lei nascondeva anche dei soldi all’estero in paradisi fiscali, presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io nascondevo?! Stia attento a quello che dice, stia molto attento. Io ho dichiarato. Io ho dichiarato, quindi lei deve stare attento a quello che dice perché io per questa cosa io la querelerò.

GIORGIO MOTTOLA Però come mai?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, non c’è come mai. Non c’è nessun come mai.

GIORGIO MOTTOLA No, però le chiedo. No, perché lei ha anche mentito sui conti offshore, eh Presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ma che offshore. Lei dovrebbe conoscere meglio...

GIORGIO MOTTOLA Però lei che le conosce bene, ce lo spieghi meglio lei.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No no. Ve lo spiegherà il magistrato. Ci vediamo… Ci vediamo…

GIORGIO MOTTOLA Anche sui conti offshore ha detto delle bugie, perché ha detto che non erano movimentati, ha detto che non c’erano state movimentazioni, invece nel 2005.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Lei non conosce niente e continua parlare.

GIORGIO MOTTOLA E ci aiuti a capire, come ha fatto sua madre e suo padre, un dentista e un dipendente della mutua…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando la società alle Bahamas viene chiusa, i cinque milioni di euro finiscono, almeno in parte, su un conto svizzero dell’Ubs. Il conto è di proprietà di Fontana ma intestato all’ “Unione Fiduciaria”. È da qui che sarebbe dovuto partire il bonifico da 250mila euro per il cognato.

GIORGIO MOTTOLA Presidente non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle…

 ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, lei mi sta assalendo. E quindi, eh…

GIORGIO MOTTOLA Non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle come mai ha fatto partire questo bonifico da 250mila euro da un conto schermato in Svizzera. Risponda solo a questa domanda. Cioè perché ha provato a partire i soldi da un conto schermato per suo cognato, perché non lo ha fatto partire da un conto italiano?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Perché non ne avevo 250 mila sul conto italiano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il gruzzoletto l’ha tenuto in Svizzera, cinque milioni di euro che emergono solo nel 2015, quando Fontana decide di aderire alla Voluntary Disclosure. Dice: “Sono i risparmi di una vita dei miei genitori”. Madre dentista, padre dipendente della mutua. Però, insomma, noi di Report abbiamo avuto modo di leggere la relazione che ha accompagnato la sua adesione alla Voluntary Disclosure. Intanto emerge che lui autodenuncia il fatto di non aver denunciato alcuni dei suoi investimenti, dal 2009 al 2013, sui conti all’estero, e poi sono stati sanati - come ha detto il nostro Gian Gaetano Bellavia - con un cocomero e due peperoni, se uno li confronta con i cinque milioni di euro. Ma lo spirito della Voluntary Disclosure era anche quello di far emergere le attività con cui erano stati accumulati i capitali occultati all’estero. Nella relazione che ha potuto leggere Report, nella casella che riguarda la relazione di accompagnamento di adesione alla Voluntary fatta dal governatore Fontana, quella casella è vuota. Non si sa, almeno se è l’unico modello, perché non sappiamo se quello è l’unico modello, se qualcuno dell’Agenzia delle Entrate nel tempo abbia poi chiesto al governatore: da dove vengono, da quali attività provengono quei soldi? È una domanda che è rimasta senza risposta, per quello che ci riguarda. Mentre invece è chiaro che il governatore Fontana proviene da Varese. Da Varese proviene anche il suo predecessore, Roberto Maroni. E anche Bossi, e anche i dirigenti più importanti della Lega. Perché Varese è la roccaforte del potere leghista. Un potere che intimorisce al punto che, se un funzionario pubblico vuole denunciare un semplice conflitto di interessi, è costretto a farlo con la faccia mascherata. Andando a ritroso, alle origini di quel potere, si scopre che il conflitto di interesse non è tanto inteso come la violazione di una norma, ma una predisposizione dell’animo umano.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Ho notato in alcune circostanze un uso improprio dei beni della collettività, dei soldi pubblici e dell’incarico pubblico.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono le vicende che lei ha riscontrato?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Noi abbiamo verificato l’esistenza di un cambio di destinazione d’uso per un terreno di famiglia, se non ricordo male intestato alla figlia, che poi è diventato qualche mese prima, terreno edificabile. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed ecco il terreno dei Fontana: 4000 metri quadrati in una delle zone più pregiate di Varese. La figlia del governatore, Maria Cristina Fontana, lo ha ereditato nel 2012 insieme alla villa di famiglia da 15 vani immersa nel verde. All’epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca Attilio Fontana ha dichiarato che aveva un conflitto di interessi su quei terreni?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Dai verbali del consiglio comunale non risulta una dichiarazione in questo senso del sindaco Fontana.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, in consiglio comunale nessuno sapeva che quello fosse il terreno della figlia?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD No, no, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie al cambio di destinazione d’uso il valore del terreno si modifica di quasi dieci volte. E dai documenti che abbiamo ritrovato, il giorno in cui il consiglio comunale approva le modifiche al piano regolatore, Attilio Fontana risulta presente e partecipa al voto senza segnalare il suo conflitto d’interesse. Il copione si ripete identico anche quando un consigliere di minoranza presenta un emendamento per bloccare i permessi a costruire sul terreno della figlia.

GIORGIO MOTTOLA Lei presenta quell’emendamento per bloccare il cambio di destinazione d’uso?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Esattamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Fontana non dichiara il suo conflitto di interesse neppure quando con il suo voto contribuisce a bocciare l’emendamento della minoranza ad hoc sul terreno. L’area della figlia diventa ufficialmente edificabile.

GIORGIO MOTTOLA E lei questo lo ha segnalato?

EX DIRIGENTE COMUNE DI VARESE Questa come tante altre cose sono state segnalate in Procura, in due esposti. Uno a Varese, e l’altro a Milano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A distanza di anni, la Procura di Varese ha aperto un’indagine a carico di Attilio Fontana per abuso di ufficio. Ma le accuse sono state subito archiviate, come annuncia lo stesso Fontana con una conferenza stampa.

ATTILIO FONTANA – Da TGR55 - intervista di Matteo Inzaghi del 10/10/2017 Sono molto contento anche perché l’unica cosa che ho avuto sempre come riferimento è stata la legalità e il rispetto delle norme. Sono perfettamente cosciente di chi sia l’autore della lettera anonima e lui sa che io lo so.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Intanto Maria Cristina Fontana ha iniziato a seguire le orme paterne. Avvocato in carriera, ha ereditato le quote dello studio legale del padre e iniziato ad assumere incarichi legali anche per la Regione Lombardia. In particolare, per l’Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo.

GIORGIO MOTTOLA Queste sue consulenze si intensificano proprio nel momento in cui suo padre diventa presidente della Regione Lombardia dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questa è un’affermazione molto grave e molto falsa, per cui se la ripete assumerà le responsabilità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma i documenti che abbiamo trovato sembrano smentirla. Per conto dell’Azienda sanitaria Nord Milano, Maria Cristina Fontana svolge tre incarichi nel 2017 e poi a partire dal settembre 2018, vale a dire poco dopo la nomina del padre, ne fa cinque. E altri tre nel 2019, a cui va aggiunto un altro incarico legale da 5800 euro all’ospedale Sacco. GIORGIO MOTTOLA Guardi noi abbiamo controllato e si intensificano dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questo non è assolutamente vero. Comunque lei non si deve permettere di telefonare così, anche perché sto lavorando.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei documenti inediti del 2019, le tabelle dell’Asst Nord Milano aggiungono una voce sui conflitti di interesse dei consulenti legali. E in corrispondenza del nome di Maria Cristina Fontana, viene specificato che non c’è nessun conflitto di interesse da segnalare. Nell’aprile 2020, invece, in piena emergenza Covid, la dirigenza dell’ospedale trova il tempo di riunirsi ed estendere l’elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali per l’Asst Nord Milano. Il provvedimento riguarda anche Maria Cristina Fontana, che grazie a quella deliberazione, sembra allargare il campo di azione in cui può effettuare incarichi legali. A firmare il documento sono massimi dirigenti dell’Asst Nord Milano, nominati dalla giunta Fontana appena un anno prima.

GIORGIO MOTTOLA Ma come mai proprio nel pieno dell’emergenza Covid le è stato ampliato l’ambito in cui può fare consulenze per L’Asst Nord Milano.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Senta, lei non ha nessuna autorità, quindi non le devo nessuna spiegazione. Cortesemente se mi lascia lavorare. Ripeto cosa che magari lei non sa cosa voglia dire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a Varese, durante l’amministrazione Fontana, c’è un’altra “questione di famiglia”. Stavolta però riguarda i familiari di un altro altissimo dirigente nazionale della Lega. Un conflitto di interessi pubblico e sotto gli occhi di tutti, di cui però finora nessuno ha mai parlato. È andato avanti per quattro anni e ha avuto come teatro l’ippodromo comunale di Varese.

EX DIRIGENTE – COMUNE VARESE In questo ippodromo c’era effettivamente un maneggio abusivo. Questo maneggio, cosa strana, vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie di Giorgetti si chiama Laura Ferrari e insieme alla sorella si occupa da anni di equitazione. Passione che già qualche anno le fu fatale. Laura Ferrari nel 2008 ha infatti patteggiato una condanna per truffa: aveva ricevuto mezzo milione di euro dalla Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. I soldi sono arrivati, ma i corsi non sono mai stati fatti. L’avvocato scelto all’epoca dalla moglie di Giorgetti fu il principe del foro di Varese, Attilio Fontana. E proprio durante l’amministrazione Fontana, Laura Ferrari e sua sorella ottengono dalla società privata che ha in concessione l’ippodromo comunale di occupare il centro della pista con il loro maneggio.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 PRESENTATRICE Partiamo da Laura, e così, raccontaci un po’ che cosa accade, che cosa succede all’interno del vostro centro ippico.

LAURA FERRARI Allora la nostra è una scuola di equitazione e quindi è rivolta principalmente a bambini e abbiamo anche adulti.

GIORGIO MOTTOLA Con la loro associazione “Pony Club Le Bettole” impiantano nell’ippodromo box per i cavalli, un tendone per svolgere le attività anche d’inverno e organizzano corsi a pagamento, sponsorizzati dentro le scuole con brochure ufficiali del Comune di Varese.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 LAURA FERRARI Questo ci consente di avere anche una buona pubblicità in tutto il comune di Varese, diciamo che è un bacino abbastanza, grande, importante.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, dai documenti ufficiali che abbiamo ritrovato non siamo riusciti a comprendere quanto la moglie di Giorgetti pagasse di affitto. Per usare l’ippodromo come stalla per i loro cavalli e per i corsi di equitazione a pagamento. GIORGIO MOTTOLA La moglie di Giorgetti per quell’ippodromo quanto pagava d’affitto?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Noi non lo sappiamo perché l’amministrazione comunale semplicemente dà in concessione a una società la gestione di tutto l’ippodromo, che è appunto il concessionario, che poi gestisce le sue attività, i suoi ricavi autonomamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo chiesto alla società concessionaria dell’ippodromo e ci ha spiegato che il rapporto con l’associazione “Pony Club le Bettole” era regolato da un contratto di comodato d’uso gratuito. Vale a dire che la moglie e la cognata di Giorgetti, per tutti gli anni in cui hanno occupato l’ippodromo, non hanno pagato nemmeno un euro. Le attività della loro associazione vanno avanti fino al 2018. Solo due anni fa, quando l’amministrazione non è più in mano alla Lega, scatta un controllo dei vigili. Chiedono alla cognata di Giorgetti di presentare la Scia, vale a dire le autorizzazioni comunali per il maneggio, ma la presidente dell’associazione risponde di non essere in grado di esibirla.

GIORGIO MOTTOLA Quell’attività di maneggio dell’associazione della moglie di Giorgetti era abusiva?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Secondo la ricostruzione dell’amministrazione, quell’attività non era autorizzata, e per questo è stata elevata una sanzione.

GIORGIO MOTTOLA Pronto Laura Ferrari?

LAURA FERRARI – PONY CLUB LE BETTOLE Si?

GIORGIO MOTTOLA Salve, sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE No, adesso io non posso parlare grazie.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sulla sua associazione.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE Grazie. Non posso, non posso, salve. Salve, salve.

GIORGIO MOTTOLA Perché c’è arrivata notizia che occupaste abusivamente l’ippodromo di Varese. Pronto?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie e la cognata di Giorgetti hanno presentato un ricorso contro la sanzione inflitta dal Comune. E ora la questione pende davanti al giudice di Pace. Ma che qualcosa non andasse forse non era un segreto di Stato.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla, compreso il comandante dei vigili, compreso il prefetto, compreso il Comune.

GIORGIO MOTTOLA Come fa a sapere che gli altri erano al corrente?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Perché ho parlato con il prefetto, dottor Zanzi, lo stesso Prefetto su diversi argomenti ma anche su questo, mi ha detto che era già a conoscenza. Io ho detto testuali parole al prefetto: “dottor Zanzi, secondo lei cosa avremmo dovuto fare, cosa avrei dovuto fare, girare la faccia dall’altra parte”?

GIORGIO MOTTOLA Salve senatore sono Giorgio Mottola di Report Rai3.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Però i giornalisti li facciamo tutti dopo.

GIORGIO MOTTOLA Però vorremmo farle soltanto una domanda perché ci risulta che sua moglie e sua cognata abbiano occupato abusivamente l’ippodromo di Varese per diversi anni mentre Fontana era sindaco.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma figurati, dai su.

GIORGIO MOTTOLA C’è stata anche una denuncia in procura, una denuncia in prefettura. E alla persona che la ha denunciato questa cosa è stato risposto che tutti sapevano tutto.

VOCE ALTRO SOGGETTO Andiamo di là un attimo a parlare?

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma che… è tutto regolare…

GIORGIO MOTTOLA Eh no, sembra abusivo…Non mi spinga però!

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma perché la devi chiedere a me questa roba qua?

GIORGIO MOTTOLA Perché si tratta di sua moglie e sua… Che sta facendo? Con la pancia? SICUREZZA? Mi sta spingendo!

GIORGIO MOTTOLA È lei che mi sta spingendo con la pancia. Facciamo pancia contro pancia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pancia contro pancia. Per fortuna che il nostro Giorgio è attrezzato. Però è stato bravo a ricostruire la mappa di un potere che si muove a proprio agio nell’ambito del conflitto d’interessi. A partire da quel voto che, in consiglio comunale, ha cambiato la destinazione di alcuni terreni e che hanno di fatto moltiplicato il valore dei beni immobiliari delle proprietà di famiglia. Su quei fatti sono stati presentati due esposti. Uno presso il tribunale di Varese che si è concluso con una archiviazione. Abbiamo letto, noi di Report, le motivazioni ed emerge un particolare singolare: i magistrati hanno preso in considerazione il primo voto, quello che era sulla modifica dell’intero piano regolatore della città e hanno chiesto l’archiviazione perché “Il consiglio comunale” compreso Fontana “si è espresso cumulativamente”. Mentre le indagini, però, in maniera singolare, non hanno preso in considerazione il secondo voto, quello che riguarda un emendamento specifico, presentato dal consigliere di opposizione Civati, che avrebbe di fatto bloccato i permessi a costruire sui terreni della figlia. Lì Fontana ha partecipato al voto nei duplici panni di padre e sindaco della città e ha contribuito a bocciare l’emendamento. Questo, non si sa perché, non è stato preso in considerazione. Non sappiamo neanche che fine poi abbia fatto l’altro esposto, quello presentato presso la procura di Milano. Mentre, invece, sull’ipotetico conflitto di interessi che riguarda i rapporti dell’avvocato figlia del governatore con l’Azienda Sanitaria Milano Nord, ci scrive, ci fa sapere che i suoi sono stati “incarichi a spese della compagnia assicuratrice della quale è fiduciaria dal 2015”. Scrive anche che le sue aree di competenza “non sono aumentate ma sono state” – in qualche modo – “rimodulate”. Però né lei né i responsabili dell’azienda sanitaria milanese hanno detto nulla su un ipotetico, possibile conflitto di interessi che riguarda la parentela fra lei e il governatore, cioè con colui che di fatto nomina i dirigenti che le affidano gli incarichi. Per quello che riguarda, invece, l’altro conflitto scoperto da Report, quello di casa Giorgetti, che cosa è successo? È successo che nel 2014 moglie e cognata di Giorgetti, con una associazione, si infilano nell’ippodromo comunale di Varese. Gli spalanca le porte un privato, sostanzialmente. Loro lì che cosa fanno? Infilano le loro stalle private, fanno dei corsi di equitazione, a pagamento, che vengono anche sponsorizzati da brochure del Comune. Tutto questo possono farlo senza pagare un euro, questo perché il concessionario privato ha firmato con loro un contratto di comodato gratuito. Tutto regolare. Fino a quando, dopo un po’ di anni, cambiata la giunta, il colore della giunta, arriva un’ispezione dei vigili. E secondo i vigili c’è un’irregolarità. Quel maneggio non aveva l’autorizzazione per svolgere le attività. L’associazione che fa riferimento alla moglie di Giorgetti ci scrive “Noi però siamo una Onlus, non abbiamo bisogno di autorizzazioni”. Vedremo. Vorrei vedere se al suo posto ci fosse stata un’altra associazione, di un’altra signora, se avrebbe potuto godere di 4 anni dell’ippodromo gratuitamente. Pare che fosse il segreto di Pulcinella, come ha detto il funzionario pubblico che ha denunciato tutto questo. Però il prefetto Zanzi che, tirato in ballo lui stesso, ha detto: no, a me nessuno ha mai detto niente. Comunque si ha la percezione che probabilmente la rete avrebbe continuato a coprire se fosse rimasto lo stesso colore politico. Come anche nel caso, per esempio, della moglie di Fontana, che non ha avuto bisogno di chi parlare direttamente con il marito per la fornitura dei camici, lo ha fatto con la moglie dell’assessore Cattaneo. Chi è che ha scelto l’assessore Cattaneo? E Gallera, per esempio, che è assessore della Sanità in un momento così delicato, chi l’ha scelto? Chi vota pensa che chi viene eletto vada in assemblea a rappresentarlo. In realtà è più facile che sia il terminale di una ragnatela. Chi è il consigliere occulto di Fontana? L’uomo che tesse la ragnatela? Lo vedremo. È uno che… “Non si muove foglia senza che Nino non voglia”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Del sistema di potere che governa la Regione Lombardia riusciamo a vedere solo la facciata esterna. Ma nel chiuso delle stanze e nella quiete delle telefonate riservate si affollano figure oscure e consiglieri occulti in grado di condizionare alcune delle scelte più importanti di Attilio Fontana. Ricostruzione intercettazione

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Presidente, volevo farti gli auguri di buona Pasqua.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Auguri anche a te caro Ninuzzo, tutto bene?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ninuzzo, come lo chiama Fontana, è Nino Caianiello, per quasi vent’anni capo occulto di Forza Italia a Varese ed eminenza grigia del centrodestra Lombardo. Sebbene non ricopra alcun incarico ufficiale è stato per anni molto vicino all’attuale governatore.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ho avuto tante occasioni di incontrare, di lavorare e di confrontarmi con Nino che anche nei momenti di difficoltà Nino ha saputo sempre trovare una soluzione ed è sempre stato assolutamente coerente con quello che ha detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome di Nino Caianiello ai più non dice nulla. Ma per vent’anni è stato uno degli uomini più potenti della Lombardia. Molto legato a Marcello Dell’Utri, non c’è nomina o incarico pubblico tra la Provincia di Varese e la Regione che non sia stato discusso prima con lui. Per la sua fama di tagliatore di teste si è conquistato il soprannome di Mullah.

ANTONIO RAZZI IN VIDEO Caro Clerici, vedi che sono con Nino e ti do un bel consiglio da amico, fatti li cazzi tuoi.

NINO CAIANIELLO Hai capito o no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nino Caianiello è circonfuso da una misteriosa aura di potere. Nel 2016 ha subito una condanna definitiva per concussione e da allora è scomparso dai radar. Assente nelle foto ufficiali della politica, ha continuato tuttavia a partecipare a tutti i tavoli che contano compreso quello per la composizione della giunta nel 2018. Sulla scelta degli assessori regionali, Caianiello sembra aver avuto una grossa voce in capitolo. Ricostruzione Intercettazione

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Hai visto che i tuoi… i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti, nel senso che….

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Non te ne… non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non è male, non è male la giunta secondo me.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Assolutamente… no… no è messa bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per capire quali siano stati i consigli dati a Fontana, siamo andati a chiederlo direttamente al Mullah.

GIORGIO MOTTOLA Pronto salve Nino Caianiello?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo fare una chiacchierata con lei.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Eccomi qua. Ultimo piano.

GIORGIO MOTTOLA Ok, d’accordo, grazie.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la prima volta, dopo il suo arresto, Nino Caianiello accetta di parlare davanti a una telecamera.

GIORGIO MOTTOLA Leggendo le telefonate fra lei e Fontana, sembra che il presidente sia lei, che i ruoli siano in qualche modo invertiti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Per motivi diversi, perché io ho vissuto più la gestione politica del partito. Mentre invece Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così.

GIORGIO MOTTOLA Risponde un po’ agli ordini, Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non ordini, agli accordi.

GIORGIO MOTTOLA Attilio Fontana è un po’ un front office?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È un front office.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dalle telefonate sembra che i consigli di Caianiello a Fontana abbiano riguardato in particolare la nomina ad assessore di Raffaele Cattaneo, l’assessore chiave per far ottenere il contratto dei camici alla ditta del cognato e della moglie. Ma soprattutto Caianiello sembra ispirare la nomina di Giulio Gallera, a cui il presidente Fontana darà il delicato assessorato alla sanità.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Attilio disse vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l’incarico all’ambiente.

GIORGIO MOTTOLA Lei con Fontana parla anche di Gallera.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì, parlo di Gallera perché sapevo che c’era questa legittima aspettativa da parte di Gallera.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei dà in qualche modo lei dà il suo benestare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io dico per me Gallera va bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella tra Fontana e Caianiello non era soltanto un rapporto tra alleati di coalizione. Quando il futuro governatore nel 2018 deve mettere in piedi per le regionali la sua lista personale è al Mullah che si rivolge.

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato uno degli organizzatori della lista civica di Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io diedi una mano.

GIORGIO MOTTOLA Lei era un po’ il deus ex macchina di questa…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io fui coinvolto da Matteo Bianchi e gli diedi una mano. Tant’è che alcune persone…

GIORGIO MOTTOLA Matteo Bianchi è il segretario provinciale della Lega.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Segretario provinciale della Lega. Gli demmo una mano nell’organizzare la lista.

GIORGIO MOTTOLA La lista. La lista per il presidente.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA La lista per trovare i candidati. La lista del presidente Fontana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se da una parte dispensava consigli a Fontana su nomine e incarichi, dall’altra Caianiello tesseva anche un’altra ragnatela occulta di potere in cui finivano mazzette e corruzione. La sua tela avviluppava molti comuni della provincia di Varese e avvolgeva persino il cuore della regione Lombardia. La procura di Milano ha individuato il Mullah come il regista della nuova Tangentopoli lombarda.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Non si muove foglia che Nino non voglia o che Nino non sappia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E nella sua ragnatela c’era anche l’ex sindaco e dirigente di Forza Italia, Danilo Rivolta, per anni uno degli uomini più fedeli di Nino Caianiello. Trascorreva le giornate con il Mullah nel suo quartier generale, l’Hausgarden. Un bar di Gallarate, ribattezzato l’ambulatorio per la fila di gente che ogni giorno si formava nel locale per parlare, omaggiare e chiedere favori a Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Da me arrivava di tutto lì. Io ho ricevuto dal Pd alla Lega a… c’è stato di tutto e di più lì quindi. Poliziotti, carabinieri, guardia di finanza. Io ho ricevuto di tutto.

GIORGIO MOTTOLA Poliziotti, finanzieri veniva a chiederle favori?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA E mica li chiedevo io a loro.

GIORGIO MOTTOLA Chi veniva all’ambulatorio?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ah veniva di tutto. Io ho visto passare di tutto, guardi, dall’operaio al dirigente sanitario.

GIORGIO MOTTOLA Per chiedere che cosa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Le più svariate cose. Chi un posto di lavoro, chi una sistemazione, chi la sorella, chi un posto in giunta, chi un appalto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ambulatorio, per favorire un appalto, piazzare un incarico o sollecitare una variante urbanistica, Caianiello intascava anche le mazzette. Intercettazione ambientale Manca solo il,uno , mille e son quelli del... dell’ultimo giro… m’ha combinato un casino quel deficiente.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO L’ho sempre saputo io. Sempre.

GIORGIO MOTTOLA Tutti pagavano la mazzetta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO La decima. Le percentuali non le conoscevo. Però io politicamente lo ammiravo.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo ammirava nonostante sapeva che prendesse le mazzette?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si, perché, comunque aveva messo in piedi un sistema, gliel’ho detto, che funzionava. Non era tanto legittimo però diciamo che l’hanno lasciato andare avanti per tanti anni questo sistema.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Le cifre delle cosiddette tangenti che si sono sentite e viste nel ‘92… oggi queste cose non esistono.

GIORGIO MOTTOLA Sono cifre molto più basse.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non esiste assolutamente. Gli stessi professionisti fanno fatica. A…

GIORGIO MOTTOLA A sborsare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA A tirare fuori i soldi e tutto il resto. E tanti, per esempio, si giustificavano a fronte dì dicendo, noi non riusciamo a muoverci in un modo o nell’altro.

GIORGIO MOTTOLA E quindi davano di meno rispetto a quello pattuito.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Uno diceva noi il sette percento non riusciamo a darlo, diamo il quattro percento, dicevamo vabbè fai se tu dici che è cosi è così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Caianiello ammette di aver preso mazzette, tuttavia li chiama contributi e giura che servivano solo a finanziare la macchina del partito e le campagne elettorali.

GIORGIO MOTTOLA Lei li chiama contributi, i magistrati le hanno chiamate tangenti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È per quello che sono le tangenti io pagherò nelle sedi opportune. Per fare una manifestazione politica devi pagare la sala, devi fare i manifesti, devi pagare il microfono, se prendi i fiori perché arriva Maria Stella Gelmini anziché un deputato per fare un omaggio, queste cose costano. GIORGIO MOTTOLA Si però lì il giro dei soldi sembrava molto più ampio rispetto alla sala, i fiori……

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA No! GIORGIO MOTTOLA …non era soltanto per le spese minime.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Noi abbiamo fatto le campagne elettorali e le campagne elettorali sono costate. E la campagna elettorale era per il partito e per il candidato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tanto il candidato lo decide lui. E gli sarà anche riconoscente. Perché Nino Caianiello, che per la prima volta ha svelato il suo ruolo di consigliere occulto nella formazione della giunta Fontana, rappresenta la cruna di quell’ago del potere dove devi passare, devi infilarti se vuoi candidarti o semplicemente se vuoi un favore. Davanti al bar dove lui accoglieva la gente, si formavano lunghe file, per questo si chiamava, veniva definito “l’ambulatorio”, anche perché Caianiello si prendeva cura di tutti quelli che bussavano alla sua porta, a partire dagli uomini delle forze dell’ordine, lo abbiamo sentito, anche a chi voleva candidarsi. E anche Fontana gli ha chiesto consigli. Non solo ha piazzato l’assessore Cattaneo e l’assessore Gallera, ma ha seguito quasi tutti i consigli nella formazione della giunta. È per questo che Caianiello si sente autorizzato a dire: guardate che Fontana è un semplice gestore della politica, non la fa lui. La politica si fa altrove da quel palazzo di vetro che è la Regione. Che di trasparente ha ben poco, ormai, se è vero che Caianiello, come dice la magistratura, è il regista della nuova tangentopoli lombarda. Lui si lamenta un po’ perché le percentuali sono passate dal 7 al 4 per cento, tempi magri anche per chi riceve le mazzette. Ma lui le chiama “contributi alla politica”. Sembra di ascoltare un vecchio refrain. Ma si può definire politica, questa, quando c’è chi paga per ottenere in cambio un favore che quasi mai coincide con l’interesse pubblico? È l’erosione lenta della legalità, e di questo passo poi è scontato che alla porta di Caianiello possa arrivare a bussare anche il diavolo senza aver bisogno di mascherarsi.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha fatto un patto con il diavolo a Lonate?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Diciamo di sì.

GIORGIO MOTTOLA Per farsi eleggere sindaco di Lonate ha accettato un accordo con la ‘ndrangheta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO È vero. Si finisce in questa nuvola in cui si perdono un po’ le dimensioni. Ti sembra di salire in alto, in alto, in alto e si accettano certe cose.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2014 Danilo Rivolta è stato eletto sindaco di Lonate Pozzolo, comune di 11 mila abitanti che sorge a ridosso dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Qui, nel cuore della provincia di Varese da tempo spadroneggia una delle locali di ‘ndrangheta più potenti e sanguinose di tutta la Lombardia. Negli ultimi 20 anni, gli abitanti di Lonate hanno assistito a incendi, esecuzioni per strada e cadaveri carbonizzati.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non ho alcun timore a definirlo, una sorta di laboratorio, laboratorio di ‘ndrangheta al Nord.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ombra dell’aeroporto di Malpensa la ‘ndrangheta fa affari d’oro con il business dei parcheggi e dell’edilizia. Non controlla solo politici, professionisti e imprenditori. Negli anni ha infiltrato il tessuto sociale.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non mi è mai capitato, Presidente, e come è noto ho lavorato per anni in Calabria, che in un processo noi abbiamo avuto 17 testimoni, su 17 testimoni 12 sono falsi. Ecco neanche in Calabria succede questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L ‘ndrangheta qui come nel resto della Lombardia, gestisce un consistente pacchetto di voti che a ogni elezione porta in dote al candidato che è più in grado di soddisfare le loro esigenze.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha incontrato esponenti di famiglie calabresi di Lonate per fare questo accordo? DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Prima viene un rappresentante della famiglia De Novara che chiede di potersi candidare. Io gli dissi Franco pensaci bene forse meglio magari mettere un rappresentante giovane, sai…

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei sapeva che Franco De Novara fosse vicino agli ambienti della ‘ndrangheta insomma.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Sì lo avevo letto. Concordammo poi alla fine di mettere la figlia Francesca in lista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Franco De Novara, all’anagrafe Salvatore, è un imprenditore attivo nel settore del movimento terra e dell’edilizia. Risulta imparentato con i boss della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Alle elezioni la figlia Francesca è tra le più votate e grazie alle sue preferenze Rivolta riesce a vincere di misura.

GIORGIO MOTTOLA Per la sua elezione a sindaco i voti della ‘ndrangheta si rivelano alla fine decisivi. DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si rivelano decisivi sì.

GIORGIO MOTTOLA E quando scopre di aver vinto grazie ai voti dei calabresi, che cosa pensa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Cominciano i problemi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il suo primo atto da sindaco è la nomina ad assessore di Francesca De Novara, sposata con Cataldo Malena, braccio destro dell’allora capo della cosca di Lonate Pozzolo.

GIORGIO MOTTOLA Lei subisce pressioni mentre è sindaco dalle famiglie calabresi?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ho avuto delle richieste strane. Loro chiedevano in un certo senso legittimamente per quello che avevano fatto però non potevo garantire spudoratamente così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Lonate le famiglie originarie della Calabria occupano un intero quartiere con le loro villette. È qui che incontriamo Franco De Novara.

GIORGIO MOTTOLA Diciamo che il suo nome è un po’ chiacchierato.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Il mio nome? A me non mi risulta.

GIORGIO MOTTOLA Nella vicenda anche del sindaco Danilo Rivolta. Mi ha detto insomma degli accordi che avete fatto nel 2014.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Noi abbiamo fatto accordi?

GIORGIO MOTTOLA Eh. Lui dice che all’epoca faceste un accordo per portare i voti dei calabresi.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma lascia stare…dai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Accanto a De Novara, notiamo un volto che ci sembra subito familiare.

GIORGIO MOTTOLA Lei è Francesca, giusto?

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io sono Francesca.

GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, l’assessore.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Eh…

GIORGIO MOTTOLA Lei si è candidata in lista? Francesca.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io mi sono candidata in lista perché Danilo Rivolta mi ha rotto i coglioni fino a casa per farmi candidare perché aveva bisogno delle quote rosa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque stando ai De Novara, si sarebbero ritrovati nella giunta comunale di Lonate Pozzolo non perché l’avrebbero chiesto ma perché pregati da Danilo Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Inizialmente era lei Franco che voleva candidarsi con lui?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Io sono 40 anni che lavoro, io sono venuto in Lombardia con la valigia di cartone. Vedi come sono nero? Diglielo a Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Ma si parla anche di rapporti. FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma quali rapporti?

GIORGIO MOTTOLA Con le cosche della ‘ndrangheta qui a Lonate.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Quali rapporti? Qua si lavora, qua sei vuoi mangiare, devi lavorare.

GIORGIO MOTTOLA Alfonso Murano era suo parente, no?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Se c’era Alfonso Murano mo’ ti… ti picchiava.

GIORGIO MOTTOLA No, non mi dica così. Perché mi dovrebbe picchiare.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Non dire ‘ste minchiate. GIORGIO MOTTOLA Anche suo marito Francesca è in carcere per ndrangheta.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma dico io come cazzo ti permetti tu di andare in giro per le case a suonare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfonso Murano è lo zio di Francesca De Novara, ma particolare non trascurabile, era anche uno dei massimi capi della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Una sera di febbraio del 2006 è stato ucciso in un agguato. Sarebbe stato senz’altro orgoglioso di vedere otto anni dopo sua nipote Francesca occupare un posto in giunta nel comune che controllava. Ma nell’ascesa politica dei calabresi, avrebbe avuto un ruolo importante anche un altro politico sconosciuto ai più.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Non li ho incontrati direttamente, è stato fatto il tramite.

GIORGIO MOTTOLA Chi è stato questo tramite?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Corrisponde al nome di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo in Lombardia è conosciuto come il re dei Caf di Milano e provincia. È stato il coordinatore regionale dei Cristiano Popolari, il partito meteora fondato da Mario Baccini, ma nel momento del bisogno è corso in sostegno elettorale a tutto il centrodestra, da Forza Italia a più recentemente la Lega di Salvini.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Peppino se decideva di portare “X” persone a una manifestazione ci metteva il battito di una farfalla, ecco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le doti di Peppino nel riempire di sue claque le assemblee politiche sono di dominio pubblico. Il capolavoro lo compie nella prima convention dei Cristiano Popolari. Quando Falvo riempie la sala di gente che non aveva idea di dove si trovasse.

INTERVISTE DI MARCO BILLECI – 03/12/2012

UOMO M’hanno portato qua, non so cosa dobbiamo fare.

MARCO BILLECI Chi lo ha portato, scusi?

UOMO Siamo venuti con un pullman.

MARCO BILLECI Un pullman da dove?

UOMO Da Lonate Pozzolo.

MARCO BILLECI Perché ha deciso di essere qua oggi?

DONNA Non lo so.

MARCO BILLECI Come non lo sa, è arrivata in pullman?

DONNA Sì, in pullman.

MARCO BILLECI Da?

DONNA Da Lonate.

UOMO 2 Io sono un carissimo amico di Falvo.

MARCO BILLECI Chi è, scusi?

UOMO 2 Falvo.

MARCO BILLECI Eh, mi dica chi è Falvo.

UOMO 2 È un calabrese che, è un mio carissimo amico.

GIORGIO MOTTOLA Falvo era l’intermediario fra le famiglie calabresi, gli ambienti di ‘ndrangheta e la politica?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Diciamo che era un collegamento, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo ruolo opaco di cerniera tra politica e ‘ndrangheta, Peppino Falvo è finito sotto indagine a Milano. Incontriamo il re dei Caf proprio davanti a uno dei suoi sportelli.

GIORGIO MOTTOLA Lei sembra lì l’intermediario tra la politica e la ‘ndrangheta.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente, lo decideranno i magistrati, tranquillo.

GIORGIO MOTTOLA Rivolta dice che nel 2014 lei si è presentato a casa sua con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti stretti con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Non può negare. PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Ci sarà la magistratura, tranquillo, non ci sono problemi. GIORGIO MOTTOLA Però lei nega di avere avuto anche rapporti con i De Novara?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No assolutamente, li conosco.

GIORGIO MOTTOLA E sa anche che Francesca era la nipote del boss che è stato ucciso?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No, questo non lo sapevo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo nega tutto, ma l’accordo tra Rivolta e le famiglie calabresi sarebbe stato suggellato anche da un livello politico superiore: Nino Caianiello, l’uomo che non si muove foglia a Varese che lui non voglia.

GIORGIO MOTTOLA Nino Caianiello, cosa sapeva del suo accordo con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ogni accordo lui lo avallava, ogni lista lui doveva controllarla. Ogni lista doveva convalidarla.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato i De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, li ho incontrati nell’ufficio a Gallarate di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA Falvo fece da intermediario fra lei e De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E Falvo mi rappresentò la necessità di poter dare delle garanzie che a livello locale i rappresentanti di Forza Italia non riuscivano a dare ai De Novara sul fatto che non sarebbero stati trattati male ma che comunque c’era una continuità del rapporto con Rivolta. GIORGIO MOTTOLA Però lei, diciamo, immaginava che fossero vicini agli ambienti di ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Che erano sul filo sì, questo sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lonate non è solo un microcosmo. È lo specchio di quello che accade anche a Milano e nel resto della Lombardia. Quanto la presenza della ‘ndrangheta sia pervasiva lo spiega un boss di Lonate in un’intercettazione. Intercettazione

CATALDO CASOPPERO La ‘ndrnangheta, ogni paese c’è una ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA Se si fa politica si può non avere rapporti con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ritengo che siano pochi i comuni che non hanno questo tipo di influenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così quando Danilo Rivolta viene arrestato ed è costretto a dimettersi, il copione rimane lo stesso. Alle ultime elezioni comunali di Lonate, nel 2019, la ‘ndrangheta si è limitata a cambiare cavallo, puntando su Enzo Misiano, il capo locale di Fratelli d’Italia che prova a minare il monopolio politico di Nino Caianiello. Intercettazione

ENZO MISIANO – EX SEGRETARIO FRATELLI D’ITALIA LONATE POZZOLOFERNO Cioè qualunque cosa fa, devo chiamare Caianiello. Ed io gli ho detto guarda chiama chi vuoi cioè non è un problema mio, non è il mio referente. Io non devo chiamare nessuno. Se tu devi chiamare Caianiello, chiama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al suo arresto Enzo Misiano è stato il referente locale di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Ma il suo primo lavoro era autista e tuttofare del boss della cosca Giuseppe Spagnolo. Alle comunali di Lonate del 2019, Enzo Misiano convoglia i voti della ‘ndrangheta sulla lista di Ausilia Angelino, candidata sindaco del centrodestra e della Lega.

GIORGIO MOTTOLA Da quello che risulta, la ‘ndrangheta ha sostenuto dei candidati nella sua lista?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, se ha sostenuto me io su queste cose qui assolutamente non condivido. Perché io non sapevo nulla e di conseguenza ognuno si prenda la responsabilità personale.

GIORGIO MOTTOLA Ma Enzo Misiano però lo conosceva?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Enzo Misiano certo lo conoscevo, come lo conoscevano tutti.

GIORGIO MOTTOLA E lo frequentava quindi.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Lavora in Comune. Lo conosce anche l’attuale sindaco.

GIORGIO MOTTOLA Prende le distanze da Enzo Misiano?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Ma stiamo scherzando. Adesso che sono saltati fuori i fatti prendo le distanze non solo da Misiano, ma da tutti. Mi dispiace. Perché io non li conosco, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Forse doveva fare più attenzione nella composizione della lista, probabilmente, no?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Innanzitutto, io su questo non desidero, glielo dico sinceramente, che venga messa in onda perché a me non interessa…

GIORGIO MOTTOLA Perché no? Lei era candidata sindaco mi scusi, non è che è un fatto privato è un fatto pubblico.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, perché lei sta… allora poi… basta…

GIORGIO MOTTOLA E’ normale che un politico incontri figure border line, vicine alla ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Questa gente vota. Allora o stabiliamo che chi è in odore o è fra virgolette di…non votano e quindi non li contattiamo. Questi vanno, votano.

GIORGIO MOTTOLA Cioè lei dice votano, quindi anche se sono ‘ndranghetisti ma votano qualcuno deve andarli a prendere poi quei voti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, e come si fa? Si vince anche per un voto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E poco importa se quel voto rischia di essere puzzolente. Lo ammette candidamente Nino Caianiello. D’altra parte, se lo smentisse, sarebbe come sminuire un po’ quel ruolo di playmaker della politica del centro destra in Lombardia. Alla corte del consigliere occulto di Fontana si sono presentati il candidato sindaco, i familiari di ‘ndranghetisti, tutti a braccetto con il facilitatore, l’uomo, il re dei Caf in Lombardia, l’uomo che riusciva a riempire, in caso di necessità, le sale per un convegno politico e portare consenso: Peppino Falvo. Poi, poco importa se chi si trascinava dietro non sapesse neppure che cosa stesse facendo lì dentro. L’importante è intercettare il loro voto, meglio ancora, anzi, se è un voto inconsapevole. Nella distrazione si riesce meglio magari a far eleggere i familiari di ‘ndranghetisti o, addirittura, l’ex autista di un boss. E tutti benedetti dalla politica. La ‘ndrangheta è in tutte le città, l’abbiamo sentito da chi ci vive dentro. E si presenta anche senza più bisogno di mascherarsi, di travestirsi. Questo da una parte. Dall’altra, invece, abbiamo funzionari dello Stato che per denunciare un semplice conflitto di interessi sono costretti a farlo a volto coperto. C’è migliore rappresentazione del degrado della politica? Chissà come Franca Valeri avrebbe oggi descritto la sua Milano. 

Per i lombardi: "Al Sud i nuovi casi in crescita velocissima. Gli ospedali lombardi ora senza problemi".

Roberto Battiston, fisico di fama mondiale, studia l'andamento del contagio "In Lazio e Campania i ricoveri supereranno quelli della prima ondata". Enza Cusmai, Domenica 11/10/2020, su Il Giornale. L'epidemia che fa tremare i polsi alla Sanità si è trasferita al Centro-Sud. Roberto Battiston, fisico di fama internazionale e autore del libro La matematica del virus, legge i suoi grafici e spiega che, per misurare la nuova ondata epidemica, zeppa di asintomatici, bisogna concentrarsi sulla gente che finisce in ospedale. E snocciola numeri che rivelano come Campania e Lazio siano già ai limiti della sofferenza. Nella terra del governatore Vincenzo De Luca le terapie intensive sono già la metà di quelle registrate nel periodo buio della prima ondata. E la situazione è in continua crescita. «In un mega-festeggiamento calcistico a Napoli a fine giugno sono state violate tutte le regole di distanziamento spiega Battiston. È possibile che questa sia la causa prima di una serie di focolai incontrollabili i cui effetti esponenziali si vedono dopo mesi». Nel Lazio, invece, le persone in terapia intensiva sono a quota 57, un terzo di quelle della prima ondata che avevano raggiunto il picco a 190. «Qui la pandemia supererà la prima a livello di ospedalizzazione commenta l'esperto . Il numero degli infetti è alto, il ritmo di crescita è velocissimo e per ora non c'è alcuna traccia di un possibile rallentamento». Non è messa meglio la Sardegna dove i ricoveri sono pari a quelli raggiunti al massimo della prima fase (150) e si contano già 30 intensive. In Sicilia sono circa 600 in ospedale e 40 casi gravi. Ma non è stato ancora raggiunto il picco. Altro scenario è quello del Nord, dove, dice l'esperto « il Covid oggi è meno pericoloso, nove persone su dieci si fanno la malattia a casa». I numeri in crescita degli infetti hanno di fatto rivelato una realtà che era rimasta sommersa nella prima ondata dove i tamponi erano per lo più riservati a chi veniva ricoverato. Oggi invece lo screening rileva i casi lievi che vengono gestiti con il confinamento a casa. «Per la società, i tanti in quarantena sono un grande problema aggiunge il fisico - ma dal punto di vista sanitario è un enorme vantaggio: il tracciamento dei focolai ha reso inoffensivi anche molti degli asintomatici. Questo è un segno di una seria gestione della pandemia». Certo, se i numeri diventano grandissimi allora il problema può diventare drammatico. «È necessario limitare una crescita eccessiva dei contagi. Occorre dare una stretta sul rispetto delle regole». Intanto però, quei circa mille nuovi contagi rilevati in Lombardia non sono confrontabili con i mille positivi registrati a marzo scorso, quando i tamponi si facevano principalmente a chi finiva in ospedale. Oggi, infatti circa 900 sono paucisintomatici, solo 30-40 sono ricoverati e 4-5 in intensiva. «In generale spiega il fisico - l'aumento in Lombardia di chi finisce in ospedale è particolarmente lento, le intensive sono limitate al 10 per cento. In generale i ricoveri sono circa 500 contro i 15mila del periodo terribile. E per ora gli ospedali lombardi non hanno problemi. Più duro è l'impegno per il tracciamento e l'isolamento domiciliare che pesa per le interruzioni delle attività professionali ed economiche». Anche in Veneto la crescita di ospedalizzazione è almeno dieci volte più lenta del passato: oggi le intensive sono intorno al 10 per cento mentre in passato hanno raggiunto anche il 40 per cento dei ricoveri. L'intensità dell'epidemia è sotto controllo: crescono i ricoveri e la situazione al momento è impegnativa ma gestibile. Stessa condizione per l'Emilia-Romagna. In Toscana, invece, nella fase 1 i ricoveri erano circa 1350 e le intensive circa 270: oggi i numeri sono rispettivamente circa 200 e 20.

Invece: Due le vittime: una a Napoli, l'altra a Caserta. Campania, 664 casi: stabili le terapie intensive. Lockdown, De Luca: “Weekend decisivo”. Redazione su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Sono 664 i nuovi casi di coronavirus registrati in Campania, in leggero calo rispetto ai dati degli ultimi due giorni che hanno fatto registrare oltre 700 nuovi contagi. Il dato emerge dal bollettino di sabato 10 ottobre diramato dall’Unità di Crisi della regione. I tamponi analizzati sono 9.031, circa mille in meno rispetto al giorno precedente. Le vittime accertate sono due per un totale di 477 dall’inizio della pandemia. Si tratta di un uomo di 75 anni residente a Napoli e di un uomo di 51 anni residente a San Felice a Cancello (Caserta). Il numero dei guariti è di 68 pazienti (totale 7.229). Negli ospedali campani la situazione è la seguente: restano stabili le terapie intensive con 63 pazienti ricoverati su un totale di 110 posti letto al momento disponibili. Nei reparti di degenza ordinaria ci sono 636 pazienti (60 più di ieri) su 820 posti letto al momento disponibili. “Se vogliamo evitare nuove chiusure, la ricetta è semplice: rispettare le regole” ribadisce Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca a margine dell’inaugurazione del Salerno Boat Show. Sulle misure restrittive adottate da quasi una settimana, il Governatore ritiene questo week-end fondamentale: “Sarà una prova della responsabilità che hanno tutti i nostri concittadini e i giovani, in particolare. Avevamo un problema che riguardava la movida, abbiamo registrato comportamenti irresponsabili, centinaia di ragazzi che si ammucchiavano. Cose che non potevamo tollerare, se vogliamo contenere il contagio”. De Luca ricorda poi che la Regione è “impegnata a garantire i posti letto per eventuali contagiati, a moltiplicare il numero dei tamponi”. Proprio sulle file registrate al Frullone a Chiaiano (quartiere a nord di Napoli), sede dell’Asl Napoli 1 Centro, De Luca chiarisce: “Dobbiamo evitare quello che è successo a Napoli. Se centinaia di persone si presentano una mattina davanti a un’Asl e pretendono di fare immediatamente il tampone, danno solo fastidio. E compiono atti scorretti. Perché la prescrizione del tampone la deve fare il medico di famiglia che ti inserisce nella piattaforma regionale. Quindi, tu ti registri e in massimo 24 ore ti fai il tampone”.

Pietro Senaldi difende la Lombardia: "Polemiche per i vaccini? Accuse vigliacche e insulti ai morti da sinistra". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'8 ottobre 2020. È ripartito il tiro al bersaglio da parte della sinistra nei confronti della Lombardia. Il pretesto è la pandemia, l'obiettivo è mettere le mani su una Regione, la più ricca d'Italia, che ha sempre respinto al mittente i candidati progressisti. Poiché tuttavia, a questo giro, dalle parti di Bergamo e sui Navigli se la stanno cavando meglio che nelle regioni centromeridionali governate dai dem, l'operazione è ardua. La terra amministrata dal vituperato Fontana infatti ha il doppio degli abitanti del Lazio del santificato Zingaretti, ma negli ospedali capitolini attualmente sono ricoverati ottocento pazienti Covid, di cui cinquanta in terapia intensiva, mentre i degenti lombardi sono trecentotrenta, solo quaranta dei quali ospitati nei reparti d'emergenza. Peggio ancora va nel regno di De Luca, con oltre cinquanta campani nelle sale di rianimazione su poco meno di seicento ricoverati. Una situazione che a Milano non desterebbe allarme ma che a Napoli è ai limiti della sostenibilità, tanto che la Lombardia ha offerto ai partenopei i letti vuoti dell'ospedale in Fiera, realizzato con donazioni dei privati in tutta fretta ai tempi del picco dell'epidemia, in primavera, e criticatissimo dalla sinistra e dai suoi menestrelli. Nell'impossibilità di crocifiggere Fontana e il suo assessore Gallera sul Covid, la sinistra non demorde e attacca da un altro fronte. L'allarme in Lombardia non sarebbe più il Corona, bensì l'influenza. Il Domani, la nuova creatura di De Benedetti, ci fa sapere che Milano è al collasso, senza difese né medici. Il Fatto si preoccupa dei vaccini, che la Regione avrebbe pagato cinque volte più delle altre. Il Messaggero, quotidiano romano impegnato in una campagna campanilista che, a latitudini invertite, sarebbe già stata tacciata di razzismo, anziché far le pulci a Raggi e Zingaretti, si preoccupa della reperibilità del composto anti-contagio nelle farmacie sotto la Madonnina. L'angoscia numero uno della stampa non lombarda è che i lombardi non abbiano sufficienti dosi di vaccino antinfluenzale o letti in terapia intensiva, pur disponendo in quantità maggiori sia delle prime che dei secondi.

AGGRESSIONE MEDIATICA. Siamo in presenza di un caso di scuola di mistificazione mediatica. La Lombardia ha dieci milioni di abitanti e ha opzionato due milioni e 400mila dosi di profilassi contro il milione e 200mila di Veneto ed Emilia-Romagna, che hanno la metà della popolazione. Cionondimeno, Fontana è stato, unico in Italia, accusato di avere i magazzini vuoti. Per eccesso di prudenza, il presidente ha allora comprato altri 500mila flaconi, in tutta fretta, pagandoli il doppio di quelli prenotati per tempo, così che adesso la Regione può contare su quasi tre milioni di dosi. Anziché ricevere il plauso degli allarmisti in servizio permanente alla corte di Conte, la giunta di centrodestra è stata accusata di gettare via il denaro dei contribuenti lombardi, cosa che lo Stato centrale fa abitualmente, sprecando i 63 miliardi di residuo fiscale che la Regione a trazione leghista ogni anno versa nelle casse pubbliche senza ricevere alcunché in cambio.

L'assalto alla fortezza lombarda, ritenuta culla del salvinismo e ritratta come tale anche se la realtà del centrodestra sotto il vecchio Pirellone è ben più complessa e radicata, rasenta il ridicolo. I vaccini antinfluenzali saranno disponibili dopo il 20 ottobre, come verrà annunciato oggi in conferenza stampa, ma da tutta Italia si racconta che sotto il Duomo sarebbe in corso una disperata caccia al tesoro per procurarsi le dosi. La realtà dei fatti però è del tutto diversa. Poiché il cocktail anti-influenza ha una efficacia protettiva di tre mesi, chi lo prende a inizio ottobre si trova scoperto in pieno inverno, quando il contagio esplode in tutta la sua forza. La Lombardia pertanto non è in ritardo nella sua somministrazione, come dimostrato dal fatto che essa non è partita neppure nelle altre regioni.

ALLARME INESISTENTE. Gli attacchi a Salvini per interposta giunta Fontana danno la misura della bassezza della narrazione anti-leghista, che non solo strumentalizza i morti per infamare il leader dell'opposizione, come accaduto in marzo e aprile, ma si inventa pure allarmi inesistenti in tempi in cui la chiarezza e la correttezza dell'informazione sarebbero più che mai importanti. È auspicabile, questa volta, che il governo non soffi dietro i fomentatori di odio e gli spargitori di fango, come ahinoi accadde a febbraio, quando il presidente Fontana fu accusato di screditare l'immagine dell'Italia all'estero per aver invitato, con anticipo su tutti, i cittadini a mettersi la mascherina, cosa che è poi diventata obbligo nazionale. La Lombardia venne criminalizzata per essere stata la prima terra colpita dal virus, circostanza casuale ma piuttosto probabile, visto che è la Regione con maggiori rapporti d'affari internazionali, specie con la Cina e per aver avuto la sfortuna che due ospedali si trasformassero in focolai nonché che il premier esitasse nel concederle la zona rossa nella Bergamasca, come richiesto dai vertici locali e dal ministro della Salute, Speranza. Abbiamo già dato, la riproposizione di questa gragnuola di accuse vigliacche e strumentali sarebbe un insulto ai morti e ai malati di Covid. Nonché un inspiegabile autogol in un momento in cui sotto il Bosco Verticale e i grattacieli di City-Life si sta meglio che davanti al Colosseo o a Castel dell'Ovo. 

(ANSA l'11 ottobre 2020) - La Lombardia "ha 3 milioni di vaccini, tutti quelli che servono e parte con una campagna esattamente nei tempi giusti". Ad assicurarlo in mattinata è l"assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, ma di dosi a disposizione contro l'influenza ce ne saranno 100mila in meno. Una delle ditte che si è aggiudicata parte dell'ultima gara, la cinese Life'On, non ha infatti l'autorizzazione dell'Aifa, l'Agenzia nazionale del farmaco, e quindi non potrà vendere i suoi vaccini né in Lombardia, né in nessun'altra regione italiana. C'è quindi un altro problema per l'ultima gara bandita da Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia: non solo la Procura di Milano ha aperto un'indagine conoscitiva sul prezzo superiore rispetto a quello di mercato, con un fascicolo al momento senza indagati né titolo di reato, ma quella commessa arriverà in ogni caso con un numero minore di test antinfluenzali visto che, dei 500mila acquistati, i 100mila prodotti dalla Life'On non potranno arrivare. L'assessore Gallera respinge al mittente le critiche relative sia all'inchiesta ("Noi siamo una casa di vetro: vengano, guardino le carte, va benissimo tutto") sia alla campagna anti influenza che partirà il 19 ottobre: "Siamo assolutamente in orario, copriamo tutte le categorie, non solo quelle ritenute obbligatorie ma anche quelle raccomandate in maniera molto ampia", ha detto. Ma l'ultimo acquisto contestato di Aria ha scatenato le opposizioni che, a partire dal Pd, da tempo ritengono la questione dei vaccini un altro fallimento della Regione sul tema sanità: l'acquisto di vaccini da un'azienda senza l'autorizzazione dell'Aifa è "l'ennesimo fatto grave in una vicenda in cui la Regione Lombardia ha dato il peggio di sé", spiega il capodelegazione del Pd in commissione sanità del Consiglio regionale Samuele Astuti, mentre per Marco Fumagalli, capogruppo del M5S in Regione, "è la conferma che Aria non funziona e che in Regione la mano destra non sa cosa fa quella sinistra". Non solo in Lombardia, l'organizzazione della campagna antinfluenzale è tutt'altro che semplice anche in altre regioni. In Calabria, per esempio, il Consiglio direttivo della Federazione medici di famiglia (Fimmg) di Catanzaro ha deciso all'unanimità di non ritirare i vaccini presso i servizi farmaceutici territoriali perchè "le dotazioni assegnate dall'Azienda sanitaria provinciale non sono coerenti con le reali necessità dell'utenza, sia in termini quantitativi che qualitativi". D'accordo su tutti i fronti con i camici bianchi calabresi il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli: "La protesta è corretta, finalizzata a mettere tutte le persone nella stessa situazione senza discriminazioni. È normale che questo crei proteste anche da parte della gente. I vaccini hanno indicazioni diverse e vanno usati su soggetti diversi".

Regione Lombardia: appaltati vaccini antinfluenzali non registrati all'Aifa. Le Iene News il 10 ottobre 2020. Gaetano Pecoraro, nel servizio in onda martedì a Le Iene su Italia 1, indaga sulle gare d’appalto di Regione Lombardia, che avrebbe acquistato vaccini antinfluenzali a prezzi “gonfiati”. La Iena ha scoperto che la Regione si sarebbe aggiudicata con una procedura d’urgenza anche un altro lotto di un vaccino che però non sarebbe neanche ancora registrato all’Aifa. Martedì vi mostreremo in esclusiva le carte di quella fornitura. La Regione Lombardia ha appaltato vaccini antinfluenzali con procedura d’urgenza e senza registrazione da parte dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. Gaetano Pecoraro, nel servizio in onda martedì a Le Iene su Italia 1, ci mostrerà in esclusiva la documentazione di queste gare d’appalto, che non solo racconterebbero di vaccini comprati a prezzi fuori mercato, ma addirittura dell’aggiudicazione di un altro lotto di vaccini, con dosi non ancora registrati all’Aifa. Qualche giorno fa era emersa la notizia che Regione Lombardia aveva acquistato 400mila dosi di vaccino antinfluenzale - sempre tramite lo stesso bando - indetto dall'agenzia per gli acquisti regionale Aria, da un’azienda che non aveva il “bollino” anti-corruzione richiesto da Anac (l’Agenzia nazionale anti-corruzione). Ora Gaetano Pecoraro ha scoperto che sempre all'interno della stessa gara, aggiudicata con “procedura negoziata d’urgenza”, per la fornitura di 100mila dosi, per un importo di 1,19 milioni di euro, è stata vinta da un'azienda, la Life’On, non registrata all'Aifa. E anche questi vaccini non sono registrati nell'elenco  dell’Agenzia del farmaco e quindi non possono essere somministrati in Italia. La notizia è stata confermata dalla stessa Aifa. Intanto la Procura di Milano su questa vicenda ha appena aperto un’indagine conoscitiva, che al momento non avrebbe alcuna ipotesi di reato né indagati. Non perdetevi il servizio di Gaetano Pecoraro sul caso dell’acquisto dei vaccini da parte di Regione Lombardia, in onda martedì a Le Iene su Italia 1, dalle 21.10.

Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 10 ottobre 2020. Ora c'è anche un'inchiesta sull'acquisto di vaccini antinfluenzali da parte di Regione Lombardia a prezzo superiore rispetto a quello di mercato. Dopo il fallimento del decimo bando indetto da Aria spa, controllata dal Pirellone, la Procura di Milano vuole fare chiarezza sulle gare indette, sul numero di dosi e sui prezzi. Decisamente fuori mercato, considerato che il costo medio di una dose comprata è di 14 euro, più del doppio rispetto al Veneto e all'Emilia Romagna dove i prezzi vanno dai 5,22 euro ai 5,77 a dose, a seconda dei bandi.

GARE DESERTE. Il fascicolo, al momento conoscitivo senza indagati né titolo di reato, è coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli che si occupa di illeciti contro la pubblica amministrazione. L'indagine si concentra sul ritardo nelle procedure di acquisto, sulla scarsità di vaccini antinfluenzali a disposizione e sull'esborso da parte della Regione. Ma anche sul ruolo delle società fornitrici, che potrebbero aver speculato in una situazione di emergenza. Il primo bando è del 26 febbraio, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno, l'ultimo risale al 7 settembre. In mezzo, una serie di gare deserte, prezzi ritoccati al rialzo e una campagna vaccinale alle porte in allarmante ritardo, con dotazioni insufficienti per le categorie a rischio. «Di solito ad agosto la Regione ci comunica l'obiettivo della copertura vaccinale e dà indicazioni e tempi alle Ats, le agenzie di tutela della salute sul territorio. Ma quest' anno niente, silenzio», dice Federica Trapletti, segretaria regionale del sindacato dei pensionati della Cgil. Causa di tanto tergiversare è che la Regione tramite Aria spa, la centrale acquisti al centro dell'inchiesta sui camici nella quale è indagato il governatore Attilio Fontana, non ha reperito dosi a sufficienza. E il milione e mezzo di vaccini che il Pirellone ha cercato di aggiudicarsi in extremis con pagamento anticipato non arriverà perché la gara non è stata aggiudicata. Nel documento del 30 settembre Aria scrive che «l'unica offerta pervenuta è risultata inappropriata in quanto rispetto alle prescrizioni del disciplinare non prevedeva un unico prezzo di offerta e contemplava consegne di fornitura in data successiva al 21 novembre 2020 posto come termine massimo di consegna», dunque in tempi non compatibili con la campagna antinfluenzale la cui partenza, su indicazioni del Ministero della Salute, avrebbe dovuto essere anticipata a inizio ottobre. A essere rifiutata è stata l'unica azienda partecipante, la cinese LifèOn, che offre i vaccini al prezzo di 22 milioni 687 mila euro, 7,6 milioni in più rispetto al bando, e che comunque non riuscirebbe a fornire le dosi prima di 80-90 giorni.

PAGAMENTO ANTICIPATO. La gara appena saltata era stata indetta il 7 settembre con la richiesta di 1,5 milioni di dosi al prezzo di 10 euro ciascuna, il doppio di quanto offerto dalla Regione nella gare precedenti, e rettificata quattro giorni dopo accettando il pagamento anticipato di 15 milioni. Era la nona gara indetta da Aria da marzo per l'antinfluenzale: tre non sono state aggiudicate, una è stata sospesa e un'altra è andata deserta. Con le quattro andate a buon fine la Lombardia ha ottenuto 1,868 milioni di vaccini per adulti e 430 mila pediatrici, ma gli over 60 che dovrebbero vaccinarsi sono 2,2 milioni. Una situazione critica che ricade direttamente sui medici di base, primo avamposto territoriale. «Parecchi non hanno aderito alla campagna vaccinale - rileva Federica Trapletti - Avranno meno dosi rispetto alle richieste e non dispongono di spazi adeguati. E allora chi li allestisce, i comuni? Servono lettini, frigoriferi per conservare le dosi, disinfettanti. Lunedì scorso abbiamo chiesto un incontro urgente alla Regione. Non abbiamo ottenuto risposta». Claudia Guasco

Dal ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. «Se noi abbiamo questa ripresa del Covid-19 è anche per effetto di una propaganda scriteriata di alcune forze politiche del Nord che doveva dire che il virus non esiste e che quindi potevamo tornare a curarci nelle cliniche del Nord perché sono sicure». L' affondo di Pier Luigi Lopalco, già coordinatore della task force pugliese per l' emergenza Covid, è pesante. Un vero e proprio attacco politico che si può spiegare con il fatto che il virologo sia stato arruolato tra i candidati a sostegno del governatore uscente Michele Emiliano. Proprio il suo ingresso in politica, infatti, aveva destato nelle scorse settimane pesanti polemiche da parte del centrodestra che ha accusato il professore di mescolare i ruoli a proprio vantaggio. Ma a Lopalco il ruolo del candidato piace e non si tira indietro. E dopo il primo attacco, alza ancora di più il tiro. Secondo lui la fine della pandemia è «una bugia che hanno provato a venderci nelle televisioni dicendo che il virus fosse clinicamente morto o si era indebolito: avevano bisogno di far ripartire un mercato che è importantissimo, il mercato della sanità». Il bersaglio è chiaro, il virologo alza lo sguardo verso il Nord e spara le sue cannonate: «Per alcune regioni del Nord la sanità non è servizio sanitario, ma mercato sanitario. In Lombardia la sanità è una macchina da prestazione. Entri, ti curo e te ne vai velocemente perché... avanti un altro. In questo modo la Puglia, verso le regioni del Nord, spende 250 milioni e 100 milioni sono per il privato».

Dagospia il 9 ottobre 2020. LEVATE IL FIASCO ALLA REDAZIONE DI “AFFARITALIANI”! - VA ONLINE UN DELIRANTE ARTICOLO, A FIRMA DI FABIO MASSA, CHE DEFINISCE DE LUCA “UOMO DI MERDA” - E' LO SFOGO DEL MILANESE TIPO CHE, AVENDO ROSICATO PER LE CRITICHE AL FALLIMENTARE "MODELLO LOMBARDIA", NON VEDEVA L'ORA CHE IL CONTAGIO ARRIVASSE AL SUD PER DIRE "E ORA CAZZI VOSTRI": “ACCOGLIERE QUI UN CAMPANO AMMALATO? ANDATE A FANCULO, L'OSPEDALE IN FIERA L'ABBIAMO FATTO CON I NOSTRI SOLDI" - LA PRECISAZIONE DI FABIO MASSA: "NON HO MAI DETTO CHE NON BISOGNA CURARE I CAMPANI. CHE NON PASSI IL CONCETTO CHE HO DEL RAZZISMO..."

Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, mi pare che la sintesi che hai fatto del mio articolo per Affaritaliani.it Milano sia stata un po' troppo..."stringente". Io non ho mai detto che non bisogna curare i campani: anzi dico per ben due volte che ha fatto bene Fontana a mettere a disposizione l'ospedale in Fiera. Dico però che irrazionalmente, da lombardo, mi è venuta in mente quella frase che fece dire a un consigliere del Movimento 5 Stelle (post pubblico su Facebook) che De Luca è un uomo di merda. Tuttavia di De Luca mi interessa relativamente. Mi interessa solo che non passi il concetto che io ho del razzismo evidente o recondito verso i campani. Per il semplice motivo che non è vero. Fabio Massa

Fabio Massa per affaritaliani.it l'8 ottobre 2020. A me Vincenzo De Luca mi è sempre stato simpatico. Questo suo eccedere, e divertire con quel tono di voce basso, questo suo non essere politically correct, quella sua faccia furba. Chiedo ammenda, per questo. Mi piaceva De Luca e sbagliavo. Sbagliavo, e molto. L'ho capito quando il governatore, rieletto in Campania, disse la famosa frase della vergogna: "Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche: Milano non si ferma, Bergamo non si ferma, Brescia non si ferma. Poi si sono fermati a contare migliaia di morti", pronunciava, tronfio. Lui, il modello De Luca, la Campania che non aveva avuto praticamente contagi e decessi. Oggi vediamo se c'è un modello De Luca. No, non c'è. Punto. La Campania è il nuovo focolaio d'Italia, la regione infetta. E il Lazio segue a ruota. Non siamo contenti per nulla, per niente. Non godiamo, noi lombardi. Ieri De Luca è andato a piangere a Roma perché aiuti la Campania, o sarà una nuova "Lombardia". Sbagliando, ancora una volta, perché la Lombardia ha fatto da sola. Ha comprato da sola le mascherine e tutto il resto. Ha fatto da sola un sacco di errori, intendiamoci. Ha chiesto ai propri cittadini di donare per l'ospedale in Fiera, e i cittadini hanno donato.  Le interviste contro l'ospedale in Fiera le hanno fatte solo avvocati con studi di 200 persone che hanno donato 10mila euro (50 a testa, non ci sprechiamo eh), e gente che non ci ha messo un euro. Gli altri, che hanno donato davvero, sono stati zitti. Perché un ospedale in più è sempre un ospedale in più. E con la seconda ondata speriamo che rimanga ancora vuoto. Invece in Campania gli ospedali Covid sono vuoti perché non hanno ricevuto il collaudo. Metodo De Luca e coglione io che mi stava simpatico. Che ho postato su Facebook i meme con lui sul carroarmato. Oggi dichiara, il De Luca: "Il momento difficile del covid19 non è alle spalle, è ancora davanti a noi. Prepariamoci ad avere mesi, se le tendenze in corso si confermano, ancora più pesanti di quelli da gennaio a maggio". Lo ha detto oggi, alle 11.46. E sbaglia ancora, perché la verità vera e finale è che il Covid, sotto al Po, non è mai davvero sceso: altro che mesi pesanti da gennaio a maggio. Non hanno fatto i conti con la violenza vera del virus, con le terapie intensive piene, con le bare. Avevo torto io, a ridere con De Luca, e aveva ragione il mio amico, il consigliere regionale pentastellato Dario Violi a definirlo "uomo di merda", perché lui, Violi, da casa sua a Bergamo sentiva passare una ambulanza ogni sette minuti e ha pianto a vedere i camion militari con i carri funebri dentro e gli amici che non sanno ancora oggi dove è finito il papà, perché pure i resti sono andati perduti nella furia del virus. Ora Attilio Fontana ha detto a De Luca che se vuole l'ospedale in Fiera è pronto ad accogliere i malati della Campania. La mia parte razionale dice che ha fatto bene, perché questo è un Paese solo, è l'Italia, e il Campano ammalato va curato come un fratello, come un Lombardo, come un milanese. Ma la mia parte irrazionale mi dice che no, è un errore, perché non si deve permettere che il modello chiagni e fotti, e fotti me mentre ridi dei miei morti, sia validato. La mia parte irrazionale dice che se l'avete votato, ve lo siete meritato, e questo vale anche per Sala, e Fontana, e la Appendino a Torino, e la Raggi a Roma, e Salvini in Senato e Zingaretti nel Lazio. La mia parte irrazionale dice: andate a fanculo, l'ospedale in Fiera l'abbiamo fatto con i nostri soldi, e ci avete pure preso in giro, irrisi. Ci avete fatto passare per pirla. E adesso però andate a Roma a frignare che non ce la farete, che finirete come la Lombardia, dopo averci riso dietro. Però la Lombardia ha quasi tremila terapie intensive, e voi niente, nisba, quattro posti manco agibili. Ma questa è la parte irrazionale, e la devo sopprimere. Quindi ha fatto bene Fontana a dirvi che se volete qui c'è posto, venite. Perché la Lombardia è accogliente. Anche se De Luca rimane un uomo di merda.

Libero e Feltri difendono la Lombardia e attaccano il Sud: “Offese sanguinose sparate sui lombardi”. Da Chiara Di Tommaso il 9 giugno 2020 su vesuviolive.it. Fa discutere il nuovo titolo di apertura di ‘Libero’ e il relativo editoriale in prima pagina firmato da Vittorio Feltri. Questa volta il giornale mette direttamente a confronto il Nord e il Sud alimentando odio come si evince del titolo che recita: “Tutti odiano la Lombardia, nessuno odia il Mezzogiorno”, con tanto di foto di Attilio Fontana. Una difesa a spada tratta del governatore contro le accuse fatte da ‘Report’ e da ‘Il fatto quotidiano’ sulla gestione della sanità lombarda: “Giù le mani da Fontana”, “Attacco al potere economico”. Peccato che a parlare siano i dati e le varie inchieste aperte contro Fontana per indagare sulla gestione dell’emergenza. Ma per ‘Libero’ e Vittorio Feltri gli attacchi a Fontana vengono esclusivamente dai ‘meridionali invidiosi’ della Lombardia. Guai a sottolineare qualcosa che non va, subito arriva l’editoriale in difesa del Nord e contro il Sud troppo permaloso: “Se nomini il Sud ti massacrano, se insulti il Nord…”. Feltri ricorda una sua frase quella sull’inferiorità dei meridionali e la spiega meglio, sottolineando come non sia solo economica. “Un paio di mesi orsono, forse meno, ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall’ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile“. Ed ecco la sua difesa della Lombardia: “Contro questa regione pilota, provenienti dal meridione, sono stati lanciati strali velenosi. Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c’è stata e non c’è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta, se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo“. In democrazia vi è libertà di parola ma un conto è raccontare i fatti, altro difendere l’indifendibile accusando il Sud. Forse sono in tanti che dovrebbero chiudere la bocca.

Libero e il “Sud infettato”. Next Quotidiano l'11 ottobre 2020. La prima pagina del quotidiano “Libero” di oggi, nella solita difesa della Lombardia e della sua disastrosa gestione dell’epidemia, regala un’altra delle sue chicche di razzismo: “Altro che Lombardia, il Sud è infettato”, ci avvisa. E nell’occhiello si legge quasi una nota di compiacimento quando scrive: “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno”, per poi scrivere nel sommario che “sono bastati pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt”. Evidentemente il quotidiano diretto da Feltri (che preferisce dedicarsi alla crociata contro i monopattini nel suo editoriale) e da Pietro Senaldi, non dispone di calcolatrice. Basta andare, per esempio, ai dati di ieri, per constatare che la Lombardia, da sola, contava 1140 su 5724 casi di nuovi contagi (circa il del 20% di quelli registrati in tutta Italia). E il Sud “infetto”? Sommando quelli di Abruzzo (94), Molise (28), Puglia (184), Campania (664), Basilicata (42), Calabria (68) e Sicilia (285), il totale di nuovi casi registrato ieri è stato di 1365 (225 in più della sola Lombardia che “Libero” indica quasi come una eccellenza). Anche volendo fare un confronto con la popolazione residente e l’incidenza su questa dei contagi (uno dei refrain a difesa della Lombardia è di essere la regione più popolosa d’ Italia, con oltre dieci milioni di abitanti), il titolo di “Libero” si rivela la solita bufala. A fronte di quei dieci milioni, le regioni del Sud contano quasi il doppio dei residenti lombardi. E’ vero che i contagi stanno aumentando soprattutto in Campania, ma questo non vuol dire che “il Sud è infetto”. Ma tanto, si sa, a lavare la testa agli asini di “Libero” ci si rimette solo acqua e sapone…

Il tempismo di Libero che dice che il sud è infettato, quando la Lombardia supera i 1000 casi in 24 ore. La prima pagina di Libero di oggi, alla luce dei dati Covid di ieri, non può che risultare fuori luogo. Ilaria Roncone su Giornalettismo l'11/10/2020. “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato”: questo il titolo da prima pagina dell’edizione di Libero oggi. Non mancano le puntualizzazioni su quanto siano bastati “pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt“. Che Libero non faccia titoli lusinghieri nei confronti del sud Italia lo sappiamo da sempre, ma oggi possiamo sottolineare quanto risulti ironica la prima pagina in virtù dei numeri coronavirus della giornata di ieri in Lombardia, in Campania e nel sud in generale.

Dati coronavirus Lombardia: solo ieri 1.140 nuovi contagi. Continua la crescita esponenziale dei nuovi contagi in Italia. Nella giornata di ieri sono stati registrati 5.724 nuovi casi positivi di Covid con 133.084 tamponi effettuati e 29 morti. Una crescita generalizzata dei contagi, certo, ma ieri la regione che ha pagato il prezzo più alto è stata proprio quella Lombardia che Libero contrappone al sud: 1.140 nuovi positivi con Milano città che ha fatto registrare oltre 300 nuovi casi.

Perché la prima pagina Libero sul sud infettato non ha senso. Anche il sud è in salita per quanto riguarda i dati coronavirus, con la Campania – in particolare – che vede il governatore De Luca iniziare a parlare della possibilità di lockdown Campania qualora il rapporto tra nuovi contagi e guariti dovesse diventare eccessivamente sbilanciato. I nuovi contagi in Campania ieri? 664, dato leggermente in calo rispetto ai giorni precedenti, seppure comunque alto. Chiariamolo: i contagi salgono ovunque, nessuna regione risulta da un po’ di tempo ormai a contagi zero; la crescita della curva è visibile ovunque e in ogni regione crea preoccupazione. Andando però a guardare ai numeri è evidente come il paragone fatto da Libero tra il sud e la Lombardia non sia propriamente corretto.

Coronavirus, Vittorio Feltri su Napoli: "La città va aiutata a non farsi del male, si rischia una catastrofe". Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. Quanto succede a Napoli preoccupa tutti, anche il sindaco De Magistris, il quale chiede invano che la Campania sia dichiarata zona rossa. In effetti la città è fuori controllo, come provano le immagini televisive e le varie fotografie giunte nelle redazioni dei giornali. Gli affollamenti sono impressionanti, il lungomare scoppia a causa della quantità mostruosa di persone che ivi si accalcano. Poi sussiste l'aspetto sanitario: gli ospedali sono pieni zeppi di gente che abbisogna di soccorso ed è noto che le strutture a disposizione dei medici non sono le più efficienti del mondo. Appare imprescindibile che il governo ci metta una pezza. Difficile pensare che Conte e il ministro Speranza non si accorgano della urgenza di intervenire allo scopo di impedire danni gravi. Napoli è una metropoli complessa e delicata, non può essere mollata allo spontaneismo dei propri abitanti che spesso non vivono bensì sopravvivono tra mille difficoltà. De Magistris ha ragione allorché si straccia le vesti in attesa che il premier si decida ad assumere provvedimenti adeguati. Il rischio è che la situazione sfugga di mano alle autorità, ammesso non sia già sfuggita loro. Sarebbero guai seri e ardui da affrontare. Indubbiamente il tessuto sociale e produttivo dei partenopei non è dei migliori e occorre stare attenti a non inibirlo con divieti ferrei riguardanti le attività alle soglie del lecito, altrimenti la popolazione finirebbe in ginocchio, addirittura farebbe la fame. Eppure qualche misura restrittiva risulta essenziale al fine di tutelare la salute pubblica. I napoletani vanno aiutati a non farsi del male. Abbandonarli alle loro intemperanze sarebbe una catastrofe. Purché non si esageri con i divieti che già hanno danneggiato varie Regioni abbastanza disciplinate. In sostanza, l'avvocato del popolo, i cui consensi sono in caduta libera, come dimostrano i sondaggi, o si affretta a raddrizzare la baracca o non durerà molto a Palazzo Chigi, travolto come è dai numeri dei contagiati e dei morti, da nessuno controllati con esattezza ma in base ai quali il presidente del Consiglio ha pedestremente stabilito la colorazione delle Regioni. Egli, se desidera durare ancora un po', non può esimersi dal darsi una calmata e una regolata.  

Filippo Facci sul mancato lockdown in Campania: "Tutti temono reazioni, guai trattarli come cittadini normali". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 12 novembre 2020. La Campania dovevano farla rossa scarlatta, da subito, o viola funerario: l'avevano già capito tutti da un pezzo, l'aveva detto persino il sindaco Luigi De Magistris (più che altro per inimicizia col presidente della Regione Vincenzo De Luca) e però no, guai: mica si può trattare la Campania come se fosse una regione normale, mica puoi trattare i suoi cittadini come se fossero cittadini normali con un senso civico normale: bisognava aspettare un po', fare una riunione a parte, mandare i tecnici del Ministero per controllare, accorgersi del segreto appunto di Pulcinella (cioè che i dati erano farlocchi, nella miglior tradizione contraffattoria partenopea) e magari, adesso, occorre pure colorare altre regioni per mimetizzare il progressivo arrossamento di una Campania che, nel novembre 2020, toh guarda, ha scoperto il Covid. I napoletani, di mascherine ed assembramenti, se ne sono sempre bellamente fottuti - non tutti i napoletani: e che noia doverlo sempre precisare - ma bastava passare a Napoli nell'estate e nel primo autunno per percepire il solito mondo a parte, dove davanti a Borgo Marinari si vedevano ragazzi in tre in motorino senza casco - anche adesso De Magistris ha dimenticato di chiudere il lungomare - e tu figurati a dirgli di mettere la mascherina. Cioè: le regole anti-assembramento, in Italia, ci sono praticamente da marzo: ora le hanno scoperte per esempio anche a Giugliano (125mila abitanti, comune non capoluogo di provincia più popoloso d'Italia) dove le ordinanze contro gli assembramenti le hanno firmate soltanto l'altro ieri perché il neo sindaco ha scoperto che «gli ospedali sono in grande sofferenza perché ormai totalmente saturi, e il personale medico ed infermieristico è piegato da turni massacranti». Chi l'avrebbe immaginato: cosicché ora i minori, dopo le 18, potranno circolare solo accompagnati, e le piazze saranno chiuse per l'intero weekend, sarà vietato fumare in pubblico (chissà che c'entra) e niente spiagge di sabato e domenica. Poi ci sono i sindaci dell'orrido casertano, zona dove le mascherine servirebbero da decenni per la puzza dei mucchi di spazzatura che ti fa deragliare per strada: ecco, nel casertano, per far rispettare le regole, i sindaci chiedono l'intervento dell'esercito.

PARACULATE. Ovviamente i paraculi ondeggiano e se ne lavano le mani (senza disinfettante) e dicono anche: «Comprendiamo la volontà di voler evitare assolutamente un nuovo lockdown generalizzato e lasciare che siano le autorità locali a scegliere quali restrizioni aggiungere ma se noi sindaci variamo ordinanze abbiamo bisogno dell'esercito e di più forze dell'ordine affinché queste regole siano fatte rispettare». Se per «queste» regole serve l'esercito, per altre forse servirebbero i Marines. «È impensabile credere che le Polizie Municipali possano da sole realizzare un capillare controllo ci ritroviamo bersagliati di critiche, a volte anche dileggiati, e questo ci ferisce». Traduzione: la possibilità che nel casertano la cittadinanza comprenda e rispetti le regole, senza il monito di gente armata, non viene contemplata. «Le aziende sanitarie locali sono sotto stress e hanno pesanti carenze di organico, ma riteniamo inaccettabile che le comunicazioni di nuove positività vengano effettuate dopo giorni, visto che questo ritardo si ripercuote sull'attivazione dei servizi di assistenza; ciò che non può essere più tollerato è il ritardo nell'esecuzione dei tamponi, soprattutto di guarigione, cui spesso bisogna aggiungere giorni e giorni di attesa per la comunicazione dell'esito. Abbiamo registrato segnalazioni di mancate risposte del 118, lunghe attese in ambulanza e auto in attesa di un posto in ospedale». Echi da una presunta zona gialla: sono sempre i sindaci a parlare, i parvenu del Covid-19. Ma non basta che nel casertano (se preferite lo chiamiamo agro-aversano) si registri oltre il 40% dei casi dell'intera provincia, ossia 5.301 positivi su 12.320: per disciplinare la cittadinanza occorre spianare le mitragliette dell'esercito. E non basta, in Campania, chiedere i dati: occorre inviare i tecnici del ministero per una ricognizione sui dati reali. Neanche davanti all'ufficio immigrazione di Napoli (la Questura, cioè) sono capaci di far rispettare un minimo i distanziamenti: lo denuncia il sindacato di Polizia. E poi? Poi arriva il drammatizzatore per eccellenza, Luigi De Magistris, un altro che pare sia arrivato ieri: «La situazione è sottostimata con i dati formali i vertici della Asl dicevano che il tempo medio di arrivo di un'ambulanza è intorno ai 20 minuti, un tempo non drammatico: io ho relazioni delle forze di polizia secondo cui l'ambulanza per un incidente non arriva prima di 40-60 minuti. I laboratori che fanno i tamponi dicono che i dati da loro elaborati non risultano nei dati ufficiali, dove si parla di 600 terapie intensive di cui 186 occupate, ma poi ci scrivono i medici e dicono che non riescono a trovare terapie intensive per i pazienti. Quindi c'è qualcosa che non va, i conti non tornano». I conti non tornano a tutta l'Italia, ma è di adesso anche la lagna degli esercenti napoletani che al pari degli altri hanno vissuto e vivono in un altro pianeta, dove i negozi erano già pronti per il Natale: addobbi esposti in piazza Mercato coi commercianti a frignare, ora, come se stessero sbarcando gli alieni: «Se ci chiudono rischiamo il fallimento», «siamo in questa piazza da quasi un secolo», «già la chiusura alle 18,30 ci aveva danneggiato», «se la merce pagata resterà invenduta non so come faremo».

«UN'ECONOMIA PARTICOLARE». Non sapevano di essere in Italia, dove il problema sussiste da marzo: Napoli non è Italia, lo sanno anche loro. Sono abituati a cavarsela sempre. Quindici giorni fa il presidente della Regione, Vincenzo De Luca, annunciava un imminente lockdown perché gli ospedali erano al collasso: poi ha smesso di annunciare. La scena se l'è presa tutta De Magistris, nemico politico di De Luca ed eterno elemosinatore di denari anche per l'ignobile causa del lavoro nero: «Napoli ha un'economia particolare, anche circolare, fatta di sommerso, di lavoro ad ore, di una serie di attività che sfuggono alle statistiche ordinarie in tema di lavoro e di produzione». Sfuggono. Come i dati reali sul Covid. Ieri il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro, ha detto una frase da rileggere dieci volte: «Riteniamo validi i dati della Campania ma approfondimenti sono in atto per cogliere aspetti che potrebbero completare una analisi che è in corso». Che cazzo vuol dire? Forse che i dati non contemplavano che tra i medici di famiglia di Napoli e provincia risultano 6 morti per Covid (da settembre) oltre a 20 contagiati e due appena dimessi. Forse che i dati sono vecchi e parziali mentre i numeri veri galoppano, come ha ammesso la Federazione dei Medici dove ogni medico di famiglia segue almeno 7 pazienti in sorveglianza domiciliare, e sono assediati nei loro studi dove non hanno la minima protezione. Loro, la zona rossa, la invocano: «Bisogna bloccare tutto per frenare il contagio». In sostanza, va tutto al contrario come al solito. La Lombardia è zona rossa, ma si vive. La Campania è zona gialla, ma non si vive. Non più.

Filippo Facci provoca i napoletani: “Sono stato a Napoli, sono sopravvissuto”. Da Claudia Ausilio il 5 settembre 2020 su vesuviolive.it. Filippo Facci colpisce ancora, ma questa volta con un post provocatorio sui social. Il giornalista lombardo ha trascorso tre giorni a Napoli ed ha postato su Facebook le sue foto in giro. “Sono stato a Napoli tre giorni. E soprattutto sono sopravvissuto. Non è stato sempre facile“, ha scritto. Le foto scattate hanno mostrato tutta la bellezza e le eccellenze di Napoli, in giro per la città, in barca e anche in un caseificio. Ma altre immagini raccontano un’altra faccia del territorio, con zone degradate ed abbandonate. I commenti al post sono quasi tutti ironici, i napoletani hanno colto il senso simpatico e “provocatorio” delle parole di Facci, non sempre dalla parte dei meridionali.

Il giallo della Campania gialla: vince De Luca, perde Ricciardi. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Piaccia o meno, Vincenzo De Luca ha vinto anche stavolta. Il fatto che la Campania sia stata inserita in zona gialla, cioè in quella a rischio moderato di contagio, già rappresentava una promozione per il modello di gestione della pandemia adottato dal governatore. La conferma della regione tra le località soggette a misure anti-Covid meno restrittive, certificata martedì sera, è un’ulteriore medaglia. E a dimostrare il contrario non vale la tesi sostenuta da Filippo Facci su Libero, secondo il quale la Campania avrebbe trasmesso «dati farlocchi» alla cabina di regia chiamata a valutare la situazione epidemiologica. Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ha infatti chiarito come i numeri forniti da Palazzo Santa Lucia siano «validi», nonostante gli approfondimenti condotti dagli esperti. La zona gialla assegnata alla Campania rappresenta invece una bocciatura per Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Sanità che da settimane invoca il lockdown totale. Prima l’ha fatto per Napoli e per Milano, dove a suo parere c’è il rischio di contrarre il Covid persino al bar e sugli autobus, poi per l’intero Paese, come ha ribadito ieri mattina davanti alle telecamere di Rai 3. Ricciardi è ormai «la voce di colui che grida nel deserto», scavalcato e smentito dai 21 parametri sulla base dei quali il Ministero della Salute ordina che un territorio venga inserito in zona gialla, arancione oppure rossa. Mentre il consigliere del ministro Roberto Speranza s’indigna per la troppa gente in strada e preconizza il collasso del sistema sanitario, i numeri dimostrano il contrario in molti casi. E cioè che la rete di ospedali, medici di base e cliniche private sta reggendo i colpi della pandemia anche dove nessuno se lo sarebbe aspettato. A cominciare, ovviamente, dalla Campania. I moniti e gli appelli di Ricciardi sembrano puntualmente ignorati dal ministro Roberto Speranza, sempre più “accucciato” dietro il meccanismo di valutazione adottato dal governo Conte per mettersi al riparo dalle conseguenze di scelte impopolari come il lockdown. Nello stesso tempo, però, i moniti e gli appelli inascoltati di Ricciardi mettono in evidenza il rimpallo di responsabilità in atto da alcuni giorni in Campania. Il consulente del ministro ha individuato la principale criticità nelle aree metropolitane, dove la gente in strada sarebbe troppa, e ha invitato le Regioni a disporre la chiusura delle grandi città come Milano, Genova, Torino e Napoli. Il paradosso sta nel fatto che questo potere spetta senz’altro ai governatori che, come sappiamo, possono adottare misure più restrittive di quelle varate dal Governo. Nello stesso tempo, però, gli ultimi provvedimenti firmati dal premier Giuseppe Conte riconoscono ai sindaci la facoltà di rendere off-limits una città o una parte di essa. In Campania che succede? Il governatore De Luca, che pure avrebbe il potere di ordinare il lockdown per Napoli, attende che siano altri ad adottare questo provvedimento e nel frattempo chiede alla Prefettura un piano di controlli anti-assembramenti. E lo stesso fa il sindaco partenopeo, Luigi de Magistris, che parla di «situazione drammatica» ma si guarda bene dal chiudere zone come il lungomare, preso d’assalto da migliaia di persone nel fine settimana. È di questi “balletti” che Napoli e la Campania non hanno bisogno: senza una strategia unitaria ed efficace, la doppia vittoria di De Luca rischia di trasformarsi nella classica vittoria di Pirro.

Vittorio Feltri a L'aria che tira: "In Campania lavoro prevalentemente nero. Chiudere tutto per coronavirus significa far morire la gente". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. Coronavirus. Sempre coronavirus. Il tema tiene ovviamente banco a L'aria che tira, il programma di approfondimento del mattino in onda su La7. Ospite in collegamento il direttore di Libero, Vittorio Feltri, che si presta ad alcune considerazioni sul Covid e, soprattutto, sul caso-Campania e la peculiare "zona gialla" ancora assegnata alla regione (mentre la Lombardia è zona rossa ormai da giorni). "Non sono né medico né infermiere, non mi intendo di questa materia - premette il direttore -. Sono riuscito a non prendere io il virus e già questo mi dà una certa soddisfazione: spero di riuscire ancora a combatterlo". Dunque, il focus del discorso si sposta sulla politica: "Però è evidente che in alcune regioni sta accadendo d tutto. Napoli e tutta la Campania sono delle zone particolari, c'è un lavoro prevalentemente nero, che diventa quindi una risorsa e non una violazione della legge. Fermare tutto significa far morire di fame molta gente. Allora la scelta è: o morire di fame o morire di virus. Tertium non datur: non è semplice prendere delle decisioni. Ma fa abbastanza sorridere, amaramente, il fatto che la Lombardia sia zona rossa mentre la Campania, che sta vivendo un momento drammatico, sia zona gialla. Come se fosse una festa continua", conclude Vittorio Feltri.

Vittorio Feltri e l'anziano morto al Cardarelli: "Solo a Napoli si crepa nel cesso di una corsia. In un angolo, come uno straccio". Libero Quotidiano il 14 novembre 2020. Non ho visto né voglio vedere il filmato messo in rete da mano ignota che mostra le immagini agghiaccianti di un vecchio morto in un cesso dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Il quale anziano, che soffriva per il Covid, si trovava in attesa di cure al Pronto soccorso, gettato in un angolo come uno straccio. Egli a un certo punto si è alzato dal proprio giaciglio e si è recato nella toilette, da cui è uscito defunto. Non intendo avviare la caccia a chi ha trascurato il povero individuo, di cui non conosco la storia: mi limito a riferire l'accaduto, che dimostra in modo drammatico la situazione napoletana in particolare e campana in generale. È evidente che le strutture sanitarie partenopee non sono in grado di fronteggiare l'emergenza, significa che qualcuno non ha provveduto negli ultimi sei mesi a dotare i nosocomi delle attrezzature necessarie per combattere un virus in libera uscita da parecchio tempo. Forse Napoli non si aspettava che il morbo la aggredisse nella misura in cui ha attaccato la Lombardia, si era illusa di farla franca pensando che il Nord, dato il suo stile di vita, pagasse per colpe ataviche. Invece il Covid non è razzista e colpisce chiunque gli arrivi a tiro, senza distinguere le sue vittime. Ma il governo ha dormito. Doveva prevedere che il Golfo non sarebbe stato risparmiato, viceversa si è dedicato alla distruzione di Attilio Fontana, quasi fosse l'untore per eccellenza, e lo ha fatto con un impegno degno di miglior causa. Cosicché oggi la ex capitale della cultura europea trema di paura, teme di crepare di polmonite bilaterale oppure di fame. Tertium non datur. Nonostante lo sfacelo in atto l'esecutivo tarda a dichiarare la regione in questione zona rossa, perché ha paura di una rivolta dei cittadini già provati da un assetto sociale precario, dalla mancanza di lavoro e di risorse. Comprendiamo la titubanza del premier, ma gli ricordiamo che l'incertezza è la strada più veloce per giungere al fallimento. E la dipartita del vecchio avvenuta nel cesso è un segnale di arretratezza da non sottovalutare. Una cosa simile poteva accadere soltanto a Napoli che non sta a cuore dei governanti. 

Cardarelli, il linguaggio sprezzante di Feltri: “Il vecchio morto nel cesso è un segnale di arretratezza”. Veronica Ronza il 13 novembre 2020 su vesuviolive.it. Vittorio Feltri, del quotidiano “Libero”, torna all’attacco e dedica un articolo alla vicenda dell’uomo morto al Cardarelli. Parla di “cose turche” e titola “Solamente a Napoli si può crepare nel cesso in corsia”. Inutile dire che il collegamento “Napoli” e “morire in bagno” non regge. Si è trattato di uno spiacevole episodio che avrebbe potuto coinvolgere qualsiasi città. Tra l’altro non è ancora stata fatta chiarezza sulla vicenda, essendo in contrasto le versioni date da familiari, presenti e direttore generale del nosocomio. Eppure, Feltri sentenzia: “Non ho visto né voglio vedere il filmato messo in rete da mano ignota che mostra le immagini agghiaccianti di un vecchio morto in un cesso al Cardarelli. Il quale anziano, soffriva per il Covid, si trovava in attesa di cure al Pronto Soccorso, gettato in un angolo come uno straccio.” In realtà, l’autore del video non è nemmeno “ignoto”, al contrario si è palesato ed anche scusato con i familiari della vittima. Ma il giornalista continua: “Egli a un certo punto si è alzato dal proprio giaciglio e si è recato nella toilette da cui è uscito defunto.” “Non intendo avviare la caccia a chi ha trascurato il povero individuo, di cui non conosco la storia. Mi limito a riferire l’accaduto che dimostra in modo drammatico la situazione napoletana in particolare e campana generale. Significa che qualcuno non ha provveduto a dotare i nosocomi delle attrezzature necessarie per combattere un virus in circolo da parecchio tempo.” Una situazione che realmente è critica ma, del resto, in questo periodo di piena pandemia, lo è anche nel resto d’Italia. Ma, ancora una volta, il quotidiano “Libero” e il direttore Vittorio Feltri marciano sulle situazioni drammatiche legate alla nostra Regione, come il tragico episodio del Cardarelli. Sul Governo, scrive: “Nonostante lo sfacelo in atto l’esecutivo tarda a dichiarare la Campania zona rossa. Ha paura di una rivolta dei cittadini già provati da un assetto sociale precario. Dalla mancanza di lavoro e risorse. Comprendiamo la titubanza del premier ma ricordiamo che l’incertezza è la strada più veloce per giungere al fallimento. E la dipartita del vecchio avvenuta nel cesso è un segnale di arretratezza.” “Il Governo ha dormito. Doveva prevedere che il Golfo non sarebbe stato risparmiato. Viceversa si è accanito su Fontana, quasi fosse l’untore per eccellenza. E lo ha fatto con un impegno degno di miglior causa. Cosicché oggi la ex capitale della cultura europea trema di paura, trema di crepare di polmonite bilaterale oppure di fame.”

Veronica Ronza. Laureata in comunicazione presso l'Università degli studi di Salerno. Divoratrice di libri e appassionata di scrittura.

La Pagliuzza e la Trave negli occhi dei razzisti.

Paola Fucilieri per ilgiornale.it il 10 novembre 2020. «Serve l'intervento dell'Esercito e della Protezione civile, servono forze esterne, l'ho chiesto alla Regione: adesso l'epicentro della pandemia siamo noi». In caduta libera. Ieri, nel giorno in cui l'Ordine nazionale dei medici ha chiesto al Governo il lockdown totale per tutto il Paese per contrastare la diffusione di questa seconda ondata di coronavirus, il caso dell'ospedale San Gerardo di Monza e della sanità brianzola in genere assurge al ruolo di «nuova Codogno» o «nuova Bergamo». E proprio per ciò che la cittadina lodigiana e il capoluogo orobico avevano rappresentato all'inizio della pandemia: quello monzese senza dubbio in questo momento rappresenta il presidio medico dell'area italiana più massacrata dalla pandemia. «La capacità di mantenere attivo un ospedale dipende dall'equilibrio tra entrate e uscite di pazienti. Questo equilibrio da circa una settimana è stato progressivamente compromesso» ha spiegato ieri senza mezzi termini il direttore generale dell'Azienda ospedaliera di Monza, Mario Alparone, lanciando l'allarme sulla situazione in cui versa il San Gerardo di Monza, insieme a quello di Desio, sotto pressione da settimane per i ricoveri di malati di Covid19. Il motivo del «collasso» secondo la lucida analisi di Alparone sarebbe duplice: «Il primo - spiega - dipende dal fatto che i trasferimenti di pazienti che prima venivano assorbiti dagli altri ospedali della Brianza ora è venuto meno e diventa urgente che si attivino anche verso ospedali meno colpiti dal nostro. Inoltre - aggiunge - nel frattempo abbiamo sì acquisito 40 medici, 45 infermieri di comunità e 34 infermieri a tempo determinato, ma abbiamo anche 340 operatori sanitari positivi a casa: un numero straordinario. Il personale era sufficiente in tempo di pace, non lo è più invece adesso in una situazione che non esito a definire eccezionale». Il direttore generale si aspetta «di essere supportato come noi abbiamo supportato gli altri in fase uno». Infatti al culmine dell'emergenza Covid-19 la stragrande maggioranza dei malati che vennero accolti dal San Gerardo di Monza provenivano da tante altre zone della Lombardia. E furono davvero tantissimi, sintomo di grande «generosità» da parte della struttura sanitaria brianzola. Anche per questa ragione adesso che i posti letto per i malati di coronavirus al San Gerardo sono esauriti, diventa improrogabile l'intervento in soccorso da parte di quegli altri presidi ospedalieri lombardi che possono dare il loro contributo in questa direzione. Al momento nell'ospedale sarebbero 450 i malati dei quali 43 ricoverati in terapia intensiva, le barelle dei malati sono sparse in tutti i reparti, le ambulanze vanno e vengono e se i «nuovi arrivi» di contagiati sono al ritmo di una quarantina al giorno si parla, seppure non ufficialmente, di una quarantina di morti nel giro dell'ultima settimana. Inoltre tutti i codici verdi da alcuni giorni vengono automaticamente dirottati verso altre strutture.

Dagospia il 9 novembre 2020. Selvaggia Lucarelli su Facebook: Temo non sia ben chiaro a tutti- o forse sì- cosa sta succedendo a Milano: qui ci sono talmente tanti positivi in giro che ormai chiunque ha contatti con positivi. Vi giuro: siamo impestati. Io non so quanta gente positiva conosco o so che s'è presa il Covid. E onestamente penso che presto o tardi toccherà anche a me. Si è deciso che il tracciamento non esiste più e tutti o quasi fanno finta di nulla perché parliamoci chiaramente: che fai? Ti chiudi 14 giorni in casa, poi esci, entri in contatto con un altro positivo e ti richiudi? Pure se stai bene? Ma va. Anche la persona più rigorosa non può gestire questa situazione con il buonsenso che si adotterebbe in altre situazioni. Intendiamoci: per me può anche essere una decisone presa a tavolino per andare avanti, ma deve essere chiaro che sono saltati tutti i protocolli, anche in buona parte dei posti di lavoro. Si fa finta di nulla. Al massimo un tampone rapido, che per giunta ha un'alta percentuale di fallibilità, e tutto come prima. Ma proprio al massimo. Dunque la domanda è: se abbiamo deciso che si convive così col virus, che senso ha questo finto lockdown che penalizza solo ristoranti e pochi altri se tanto ci infettiamo tutti al lavoro, in famiglia, a scuola? Davvero pensate che i milanesi (e non solo i milanesi) possano vivere in perenne auto-quarantena perché entrano più volte a settimana in contatto con un positivo? E poi, se chiedo il tampone e devi aspettare 10 giorni per farlo, sono positivo e nessuno mi fa più il tampone di controllo allo scadere dei 14 giorni, che faccio, sto un mese a casa? Davvero è così pieno di kamikaze magari asintomatici che entrano in questa giungla di sciatta burocrazia? Ve lo dico io: no. Dunque lo dico chiaro: tutto questo non può funzionare. E se lo scopo era renderci liberi e belli a Natale, beh, il rischio è che a Natale staremo peggio. O al massimo in questo limbo di autogestione sanitaria in cui ognuno pensa per sé, e ormai pure legittimamente. Spero di sbagliarmi.

 In viaggio sulla metro di Milano: assembramenti e indicazioni ignorate, all’ora di punta è il caos.  Simone Gorla il 7 ottobre 2020 su Fanpage. Pubblicato da Davide Arcuri. A Milano è polemica sulla sicurezza dei mezzi pubblici dopo le denunce sugli assembramenti nelle stazioni e a bordo dei treni della metropolitana. Fanpage.it ha documentato la situazione all’ora di punta: tra vagoni pieni, passeggeri ammassati, indicazioni ignorate, sembra di essere tornati alla normalità pre-covid. Treni della metropolitana affollati all'ora di punta. Banchine con decine di passeggeri in attesa dove il distanziamento diventa impossibile. A Milano si torna a discutere della sicurezza sul mezzi pubblici dopo la denuncia del consigliere comunale Alessandro De Chirico, di Forza Italia, ha postato due foto sul suo profilo Facebook che mostrano i viaggiatori ammassati sulla banchina della stazione di Milano Cadorna e sulla M1 diretta a Sesto San Giovanni. Atm ha affermato che non si può più parlare di affollamento, perché non è più previsto l'obbligo di distanza di un metro, e assicurato che la capienza dell'80 per cento è rispettata. Per verificare la situazione, siamo andati a fare un giro nella metro di Milano, all'ora di punta, per documentare la situazione. Prendiamo la prima metro alle ore 8 dalla stazione Lotto in direzione Sesto San Giovanni. La banchina è vuota e anche all'interno del vagone ci sono poche persone. Qualche posto è disponibile e lo spazio è abbondante. Anche nel convoglio successivo la situazione è simile, qualche persona in più, ma spazio e distanziamento ancora accettabili. Arriviamo alla stazione di Cadorna, protagonista della foto che ha scatenato le polemiche. Sulla banchina c'è ancora poco traffico, anche se i flussi di entrata e uscita non sono per niente regolati. La maggior parte dei passeggeri infatti non rispetta la segnaletica posizionata a terra. Attorno alle 8.20, mentre l'ora di punta si avvicina, il traffico inizia a farsi più intenso. All'arrivo del treno, sulla banchina, i passeggeri in partenza si mischiano con quelli in arrivo senza una separazione chiara e senza distanziamento. Sulla metro M2 in direzione Gessate ci spostiamo verso Milano Centrale. Anche in questo caso la capienza sembra rispettata e una volta arrivati in stazione la troviamo semivuota. Forse, complice anche la bella giornata, molti hanno deciso di muoversi in bicicletta e monopattino ed evitare la metropolitana. Si sono intanto fatte le 8.45 e torniamo alla stazione Cadorna. È l'ora più temuta per tutti i pendolari, ed effettivamente la situazione cambia. Fermata dopo fermata il vagone si riempie, creando un vero e proprio assembramento. Arrivati alla stazione Garibaldi, il treno si svuota e torna a riempirsi in pochi secondi. Non solo non viene rispettato il distanziamento, ma ci si ritrova completamente ammassati, in questo caso, sicuramente, la famosa "capienza massima dell'80%" non viene rispettata. Classiche scene da metropolitana "pre-Covid", sembrano essere di nuovo la normalità. (ha collaborato Davide Arcuri)

La Pagliuzza e la Trave negli occhi dei razzisti.

Piazze e parchi ancora invasi dalla gente Zampa: "Controlli o interviene l'esercito". Il sottosegretario chiede a tutti i sindaci di usare il pugno di ferro. Tiziana Paolocci, Martedì 10/11/2020 su Il Giornale. Il «lockdown leggero» serve a poco, al pari dei «controlli morbidi», che non funzionano come deterrente. Strade, piazze e parchi di Milano, Roma, Firenze, Napoli e Bari nello scorso weekend sono state prese d'assalto da centinaia di persone. Scene tristemente note, che ci si augurava di non vedere più in queste ore in cui si rincorrono gli appelli dei medici, che chiedono maggiore responsabilità. «Non dimentichiamoci di chi muore, serve senso etico da parte di tutti - dice Flavia Petrini, presidente Siaarti -. Come cittadino non credo che alcune cose siano sopportabili». Sabato e domenica a Milano, in piena zona rossa, sembra una giornata pre-Covid, con assembramenti ovunque, code davanti ai negozi e parchi gremiti. Identica fotografia nella capitale, mentre sul lungomare laziale sembrava luglio, con i ristoranti pieni e gente in giro senza mascherina. «Nel weekend abbiamo assistito a scene di affollamento assurde, sembra che troppi non abbiano piena consapevolezza della tragedia che stiamo rischiando» ammette il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Furioso il governatore del Veneto Luca Zaia: «Ogni struttura organizzata ha un punto di non ritorno, abbiamo un sistema sanitario che tiene ma oltre un certo limite non va e guardando le foto del fine settimana penso ai prossimi dieci giorni». «Tra ieri e oggi abbiamo avuto nella provincia di Firenze 1500 nuove persone contagiate, ma a giudicare dalla folla di ieri nelle piazze di Firenze c'è ancora qualcuno che sottovaluta questa terribile pandemia», fa eco il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Via Sparano, a Bari, era invasa dal popolo dello shopping. «Queste immagini sono uno schiaffo alle persone ammalate e agli imprenditori, ma poi tutti corriamo a casa a indignarci del mancato rispetto delle regole o delle restrizioni», commenta il sindaco di Bari Antonio Decaro. Il primo cittadino di Benevento, Clemente Nastella, invece, punta il dito contro il collega di Napoli, Luigi de Magistris, che non vuole sentirne tra l'altro di chiudere il lungomare, chiedendo di muoversi per limitare la movida nella sua città e adottare provvedimenti nell'interesse di tutti. I controlli messi in atto non bastano a convincere gli italiani a uscire responsabilmente. Le Forze di Polizia nella scorsa settimana hanno controllato 484.524 persone (134.357 nel weekend) e di queste 3.942 hanno ricevuto sanzioni amministrative per il mancato rispetto delle misure di prevenzione, mentre 82 sono state denunciate per non aver violato la quarantena. Tra venerdì e sabato passate al setaccio anche 21.816 attività ed esercizi commerciali: quasi 2mila sanzionate e per 64 sono scattati i provvedimenti di chiusura. Ma non basta ancora. «I dati parlano chiaro - avverte il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa -. I sindaci devono mandare controlli massicci e se non ce la fanno chiedano aiuto all'esercito. Appare chiaro che servono più controlli. Stanno per arrivare misure più dure, ma alla fine resta solo il lockdown».

Campania in prima pagina su “Libero”: “La ruota gira. Canta Napoli e si infetta, ora il lanciafiamme fa cilecca”. Veronica Ronza il 9 ottobre 2020 su vesuviolive.it. Il quotidiano “Libero”, negli ultimi giorni, ha posto particolare attenzione alla questione Covid in Campania. Ormai è risaputo che la Regione è una delle più colpite in fatto di Covid-19. Situazione che desta dispiacere ai più ma, probabilmente, non ai giornalisti della testata in questione. Già Angelo Forgione, nella giornata di ieri, ha utilizzato il suo account Facebook per evidenziare le parole poco carine di Renato Farina, co-fondatore della testata insieme a Vittorio Feltri. Il suo pezzo, infatti, ha come titolo “La Campania colpita dal virus adesso ricorda la Lombardia” e come occhiello “La ruota gira”. Inoltre, si legge: “Quando il Covid infuriava al Nord, molti al Sud infierirono su milanesi e bergamaschi. Ora che l’emergenza tocca a loro, il Pirellone apre ai napoletani l’ospedale in Fiera. Il gesto dei lombardi alla Prima Crociata anti-Covid è una magnifica offerta di fraternità. La piccola vendetta lombarda è il far del bene. A questo punto, dopo esserci presi la soddisfazione della memoria, pace.” A rincarare la dose, la prima pagina del numero di oggi in cui sovrasta il seguente titolo: “Canta Napoli e si infetta. Ora il lanciafiamme di De Luca fa cilecca.” E ancora si descrive in maniera distorta ciò che sta accadendo, infierendo ancor di più su una popolazione già provata: “Per le vie del capoluogo campano la gente si accalca come se nulla fosse, le terapie intensive della Regione si riempiono e lo ‘sceriffo’ è impotente.” Del resto, è parte della linea editoriale del quotidiano “Libero” la critica al Sud, dunque non poteva non essere rimarcato il peggioramento della situazione Covid in Campania. Proprio nel pieno della pandemia, il direttore editoriale Vittorio Feltri, nonostante l’emergenza che ha colpito e messo in ginocchio tutta l’Italia, si impegnava ad accusare di inferiorità i meridionali nei salotti televisivi.

Quei pagliacci di Libero che deridono il Sud infetto. Da thewam.net il 10 ottobre 2020. Un altro attacco gratuito da giornali del nord al meridione. Dopo «De Luca uomo di merda, a fanculo i campani», scritto su Affari Italiani, questa mattina Libero titola: «Il Covid dilaga al Sud. Altro che Lombardia, il Sud è infetto». Con un tono dispregiativo e proprio il giorno in cui la Lombardia fa il doppio dei contagi della Campania...

Il quotidiano Libero deve avere un problema patologico con il Sud e i Meridionali. Articolisti e titolisti fanno a gara a chi è più becero, alimentando spaccature in un Paese che è in bilico, travolto da una emergenza sanitaria senza precedenti. Un po’ come il tipo di Affari Italiani che oltre a definire De Luca “un uomo di merda” (vero giornalismo d’altri tempi…), si è sentito in dovere di mandare “a fanculo” i campani. Una volta certe gente non avrebbe avuto diritto di parola neppure al bancone di un bar. Ora scrive sui giornali.

Il Sud è infetto, altro che la Lombardia. Ma torniamo a Libero, la perla quotidiana è questa: «Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato». Ora, che il Covid dilaga al Sud è vero, purtroppo: ma perché questo paragone con la Lombardia, oltretutto proprio nel giorno in cui proprio la Lombardia fa registrate 1.100 casi, ovvero 500 contagi in più della Campania, che è seconda.

Una informazione che fa schifo. Come fosse una gara, una competizione tra Regioni. Una specie di Giochi senza frontiere del coronavirus e Libero il quotidiano di riferimento degli ultrà settentrionali. In tutta franchezza: siamo schifati da questi atteggiamenti. Siamo schifati da questa informazione. Siamo schifati da chi continua a contrapporre, in modo anacronistico, il Nord contro il Sud. La presunta efficienza contro il presunto fannullonismo para mafioso. Basta.

Solo per dire che la nostra sanità non è come quella lombarda. Libero ha fatto quel titolo per poter dire, con esibita soddisfazione: «Sono bastati pochi contagi per mandare in tilt la sanità da Roma in giù». E ribadire come invece il sistema lombardo è sì stato messo in crisi in primavera, ma a fronte di una vera emergenza. Embè, lo sappiamo, lo sanno tutti che la sanità lombarda è più efficiente di quella al Sud. E allora? Si vince un premio, ci si sollazza su un giornale a osservare le difficoltà meridionali nell’intima speranza di assistere a una tragedia? Per fare cosa, dire a tutti che il “sud piagnone” si è piegato davanti al Covid? Libero, così come il Giornale, non sono nuovi a uscite di questo tipo. Il tiro al meridionale viene subito dopo il tiro all’immigrato, ma sta guadagnando terreno. Evidentemente l’immigrato invasore non interessa più.

Ancora una risposta a De Luca. Forse bruciano ancora, e dopo mesi, quelle dichiarazioni di De Luca («al nord non hanno chiuso e ora contano i morti»), o l’aver assistito impotenti al crollo di tante certezze, come l’efficientismo settentrionale, messo in ginocchio da un microscopico virus, o ancora fa male quel pezzo di El Pais sulla «fine del modello lombardo», proprio a causa della risposta alla pandemia. A dire il vero capire le ragioni di tanta beceraggine, di questa ignobile volgarità che imbratta i giornali, non ci interessa per nulla. Restano lì, titolacci e pezzacci scritti per spaccare il Paese, magari ci scappa anche una ospitata in un talk show di terza serie. Nel frattempo l’Italia, tutta intera, soffre dello stesso male, della stessa emergenza sanitaria e della stessa crisi economica. Solo qualche pagliaccio dell’informazione può pensare ad altro.

Berlusconi positivo, la bomba di Bruno Vespa: Coronavirus, Pierluigi Lopalco spara: "Politica e tv hanno favorito il nuovo contagio per aiutare le cliniche del Nord". Libero Quotidiano il 06 settembre 2020. "Se noi abbiamo questa ripresa del Covid-19 è anche per effetto di una propaganda scriteriata di alcune forze politiche del nord che doveva dire che il coronavirus non esiste e che quindi potevamo tornare a curarci nelle cliniche del nord perché sono sicure". Ma non è finita: "Ci troviamo di fronte a una bugia che hanno provato a venderci nelle televisioni dicendo che il virus fosse clinicamente morto o si era indebolito: avevano bisogno di far ripartire un mercato che è importantissimo, il mercato della sanità". Queste le farneticanti dichiarazioni di Pierluigi Lopalco, epidemiologo assurto a star tv all'epoca del coronavirus e oggi candidato in Puglia con il Pd di Michele Emiliano. Bene, secondo Lopalco chi sostiene che il coronavirus sia meno aggressivo, calato o addirittura - come lui afferma - "sparito" lo avrebbe fatto per favorire il nord e le sue cliniche. Un piano perfetto ordito da politica e televisione. Come se le terapie intensive, per esempio, non fossero sostanzialmente vuote rispetto a quanto accadeva tra febbraio e marzo. Parole sconcertanti, quelle di Lopalco. Un chiaro attacco politico, completamente sgangherato. Nessuno ovviamente sostiene che il coronavirus non esista, forse neppure i bislacchi "no-mask", ma non si può neppure negare che la situazione attuale sia differente rispetto al picco dell'emergenza. Eppure per il candidato democratico tanto basta per affermare ciò che ha affermato. Lopalco poi aggiunge: "Per alcune regioni del nord la sanità non è servizio sanitario, ma mercato sanitario. In Lombardia la sanità è una macchina da prestazione. Entri, ti curo e te ne vai velocemente perché,... avanti un altro. In questo modo la Puglia, verso le regioni del nord, spende 250 milioni e 100 milioni sono per il privato". Altre frasi con cui rilancia il teorema del "coronavirus sparito per favorire il Nord". Agghiacciante.

Il Fallimento della Sanità Lombarda. Gli altezzosi, arroganti e presuntuosi padani ed i loro media amici non possono nascondere la verità. Un sistema di sanità privata promossa e pubblicizzata come "Eccellenza" dalla padana Mediaset, ma toccato da scandali e finanziato dalle Regioni meridionali per pagare i servizi resi ai loro malati con la valigia. Quei meridionali illusi che al nord Italia vi sia un'eccellenza che al Sud manca. Ma oggi con l'emergenza della pandemia si notano tutti i limiti di una menzogna. E' un ecatombe addebitabile, sì, al Coronavirus, ma causata da inefficienze strutturali. Basti pensare che le prime vittime ed i primi carnefici sono stati proprio gli operatori sanitari.

Da ansa.it il 23 luglio 2020. "Abbiamo preso decisioni in anticipo di 20 giorni rispetto ad altre regioni. Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche, si diceva “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”, “Brescia non si ferma”, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, migliaia non centinaia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, parlando dell'emergenza Covid19 nel corso della sua visita di oggi all'ospedale di Sapri (Salerno). De Luca ha duramente attaccato la gestione dell'emergenza covid19 nelle regioni del Nord Italia. "Solo nella provincia di Bergamo - ha detto - ci sono stati 2.000 morti fra gli anziani delle residenze assistenziali. In tutta la Campania i morti nelle Rsa sono stati 14. E' stato difficile mettere in quarantena il Vallo di Diano. A Milano discutono ancora se la zona rossa doveva farla Governo o Regione. Noi intanto abbiamo chiuso e salvato la vita di centinaia di persone. Abbiamo dato una prova importante, ovviamente parte essenziale del risultato è rappresentato dalla tenuta del nostro personale, qui abbiamo ospedali di assoluta eccellenza, non c'è bisogno di andare a Milano, Bologna, Verona, Pavia".

Guai, però, a dire che l’arroganza e la presunzione non paga.

Trivulzio non è stata strage, fango montato da Repubblica e Fatto Quotidiano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Nessuna strage, nessuno scandalo, nessuna epidemia insabbiata, né poveri morti nascosti, né divieto ai dipendenti di indossare mascherine, né percentuali di contagi alle stelle. Nessuna “strage di nonni” al Pio Albergo Trivulzio dunque, ma disfunzioni legate solo all’eccezionalità dell’arrivo del Coronavirus, ai ritardi della Protezione civile e all’enorme assenteismo dei lavoratori, che si è spinto fino al 65%. Il resto è fango, panna montata dagli strombazzamenti di due quotidiani, La Repubblica e il Fatto, insieme a qualche sindacalista da sempre loquace e vanitoso e a qualche “Comitato vittime” di troppo. Parole di realtà e di verità sono finalmente arrivate dalla Commissione che ha indagato per tre mesi sul Pio Albergo Trivulzio, la più importante e prestigiosa Casa di riposo italiana, assunta nei mesi scorsi da untori della comunicazione come capro espiatorio e luogo di sterminio di poveri vecchi innocenti. Se qualcuno ci ha creduto, tanto da riempire la procura della repubblica di esposti per epidemia e omicidio colposi, oggi dovrà ricredersi. Il lavoro dei commissari, nominati da Regione Lombardia e Comune di Milano, si è svolto in modo accurato con 23 riunioni, 16 audizioni e la produzione di 1.400 documenti. Il tutto è stato poi inviato alla Procura della Repubblica dove sono aperti i fascicoli prodotti dagli esposti. Anche se, dice Vittorio Demicheli, il direttore sanitario della Ats di Milano che ha presieduto la commissione, «se avessimo visto reati avremmo avuto il dovere di segnalarli, ma non ne abbiamo visti». Il che è tranquillizzante, vista anche la presenza nella commissione di due magistrati piuttosto autorevoli e conosciuti come Giovanni Canzio, già primo presidente della corte di cassazione, nominato dalla Regione Lombardia, e Gherardo Colombo, ex pubblico ministero di Milano, indicato dal Comune del capoluogo lombardo. Con pignoleria e un certo puntiglio la commissione demolisce uno a uno i titoli scandalistici (inaugurati da Gad Lerner su Repubblica, prima di passare al quotidiano a lui più congeniale, il Fatto) insieme a quei fari delle riprese televisive puntati ogni giorno per tre mesi sulla Baggina come ai bei tempi di Di Pietro e Mani Pulite. Ecco i risultati, punto per punto.

Punto uno: i numeri. È falso che al Trivulzio ci siano stati più contagi o più morti che altrove. Anzi, “l’impatto è stato leggermente inferiore”, infatti il rapporto tra decessi osservati e decessi attesi nel primo quadrimestre è stato pari a 1.7, mentre nelle altre Rsa dell’area coperta da Ats Milano è stato del 2,2. E i “poveri morti nascosti” di cui si strillava davanti alle telecamere mentre scorrevano le immagini dell’arresto di Mario Chiesa del 1992? Fango.

Secondo punto: il virus sarebbe entrato al Pat dopo la richiesta della Regione del 9 marzo perché si accogliessero nelle Rsa malati o convalescenti provenienti da ospedali. Falso. Non solo per quel che già si sapeva, perché nessun malato Covid è mai stato accolto al Trivulzio, ma soprattutto perché il morbo era entrato, portato da parenti o da personale esterno, già a febbraio, tanto è che già in quei giorni la direzione aveva ridotto le visite, che saranno poche settimane dopo del tutto abolite.

Punto terzo: le mascherine. Due sono state le accuse. La direzione non avrebbe fornito i dipendenti di tutti i sistemi protettivi in presenza del virus, ma soprattutto avrebbe loro impedito di indossare le mascherine “per non spaventare gli ospiti”. È vero che al Pat c’era scarsità di dispositivi di protezione, essendoci solo un quantitativo utile per una situazione ordinaria ma insufficiente per un’emergenza come quella che si è poi verificata. Ma è stata la Protezione civile, ricordano i commissari, ad aver centralizzato gli acquisti il 25 febbraio, salvo poi cominciare a distribuire il materiale solo il 23 marzo. Quanto poi all’accusa rivolta da alcuni dipendenti di esser stati dissuasi a indossare mascherine per non spaventare gli anziani, proprio non risulta. Fango.

Quarto punto: la gestione dell’emergenza ha mostrato incapacità della dirigenza del Pat ad affrontare la presenza del virus. Falso. «La gestione dell’emergenza – obietta la relazione della commissione – è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell’Oms e dell’Istituto superiore di sanità». Quale è stato dunque il problema del Pat? L’unica vera anomalia, che ha distinto questa Rsa da qualunque altra, lombarda ma non solo, è stato lo spropositato tasso di assenteismo dei lavoratori, con una media del 57% ( ma in qualche reparto ha raggiunto il 65%) di persone che si sono allontanate dal lavoro per vari motivi, essendo i dipendenti malati di Covid-19 non più del 9%.

Problema antico, in un Ente molto sindacalizzato in cui si sono alternati diversi medici del lavoro perché a ogni ricambio di amministrazione interna il problema dell’assenteismo, in tempi normali al 30%, viene posto. Insieme a un’altra criticità dell’istituto, quella dei lavoratori “demansionati”, i quali sulla base di certificati medici, non possono svolgere determinati compiti. Così spesso tocca ai parenti o a badanti mandate dalle famiglie, accudire l’anziano, sollevarlo e imboccarlo. E teniamo presente il fatto che nelle Rsa da tempo, oltre ai casi di demenza senile o di alzheimer, quando si parla di anziani, si intende alludere a grandi vecchi, più novantenni e centenari che ottantenni. Il che spiega anche perché ogni giorno ci sono decessi, che si sono moltiplicati e accelerati con la presenza del virus che si è accompagnato alle altre patologie legate all’età. Sono problemi sociali che purtroppo finiranno nell’imbuto delle inchieste giudiziarie, perché in Italia ormai tutto è giurisdizione, tutto finisce in una sorta di epidemia giudiziaria che rende felici solo quelli che sono sempre con la bava alla bocca, quelli che hanno bisogno costante di ammanettare qualcuno per mostrare se stessi come i migliori. Con il Trivulzio per ora gli è andata male. Se speravano che Gherardo Colombo si sarebbe rituffato nei fasti di Mani Pulite non hanno capito l’uomo e neanche i tempi. 

L'odio contro la Lombardia ​per attaccare il centrodestra. Sinistra e Cinque Stelle montano una campagna contro i lombardi. Dietro c'è un preciso disegno politico per attaccare la Regione guidata dal centrodestra. Andrea Indini, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. È un odio violento, atavico, a lungo taciuto e in questi mesi, complice l'epidemia di coronavirus che ha piegato il Nord Italia, esploso con una virulenza senza precedenti. Un odio che ha investito in particolar modo i lombardi e la Lombardia, non solo in quanto tali, ma per quello che rappresenta: da sempre fortino del centrodestra e, negli ultimi anni, capitanata da governatori leghisti. Nonostante i morti, che contiamo a migliaia, e nonostante la fatica a combattere un nemico tanto piccolo quanto letale, la sinistra e i Cinque Stelle si sono scagliati (senza alcun rispetto) per biechi fini politici. Se, all'inizio, quando l'Italia si è ritrovata - con il fiato sospeso - nella morsa della quarantena, i colpi bassi erano più radi, non appena è scattata la "fase 2" l'odio è esploso con un vigore senza precedenti, fino a immaginare cimiteri pieni di morti con il centrodestra al governo. L'odio è iniziato in sordina. Sembravano semplici scaramucce politiche. Come quando il 26 febbraio, meno di una settimana dopo la scoperta del "paziente 1" a Codogno, il governatore Attilio Fontana pubblica su Facebook un video in cui annuncia il contagio di una collaboratrice. Il suo viso è coperto da una mascherina chirurgica, verde. In quei giorni non se ne vedono tante in giro. È probabilmente il primo politico italiano a indossarne una in pubblico. È un messaggio, certo. Un messaggio a tutti i lombardi affinché prendano le precauzioni necessarie per evitare il più possibile occasioni di contagio. "Da oggi qualcosa cambierà perchè pure io mi atterrò a quelle che sono le disposizioni dell'Istituto Superiore di Sanità per cui per due settimane vivrò in una sorta di auto quarantena - spiega - oggi ho già passato la giornata indossando la mascherina e continuerò a farlo nei prossimi giorni". Gli sono subito saltati tutti al collo. I primi ad attaccare sono stati quelli del Partito democratico. Da Matteo Orfini, che arriva addirittura a negare l'utilità di metterla in Aula alla Camera ("È un gesto inutile e dannoso per il messaggio che diffonde"), a Maurizio Martina che lo accusa addirittura di "alimentare il panico" e di "danneggiare i cittadini e il Paese". I grillini (ovviamente) non sono da meno. "Sono immagini che non aiutano perché spaventano ed espongono l'Italia al rischio di un isolamento economico che non ha alcuna giustificazione", tuona Danilo Toninelli. "Il panico deve essere assolutamente arginato, non alimentato in alcun modo - conclude - serve una corretta informazione, che non faccia inutili allarmismi, un linguaggio equilibrato e altrettanto deve valere per i gesti". Sin dai primi giorni il Prirellone si trova in forte contrasto con Palazzo Chigi. In Regione Lombardia si accorgono sin da subito che a Roma non stanno capendo la gravità della situazione. E così, mentre i vari Nicola Zingaretti, Beppe Sala e Giorgio Gori fanno campagne per tenere aperto, sono costretti a rimboccarsi le mani e fare da soli. Non solo. Devono pure "parare" le apre critiche del premier Giuseppe Conte, che prova ad addossare all'ospedale di Codogno le colpe del focolaio nel Lodigiano, e ingaggiare un estenuante braccio di ferro sempre con la presidenza del Consiglio per allargare al più presto la "zona rossa" alla Val Seriana e al Bresciano, dove già il 2 marzo - dati alla mano - appare chiaro che la situazione è ormai sfuggita di mano. Non ci riuscirà. La chiusura della regione arriverà troppo tardi e Fontana & Co. dovranno pure sorbirsi le critiche per non essersela fatta da soli, quando anche il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha messo in chiaro ai microfoni del Tg3 che tale decisione spettava all'esecutivo. Se non è la polemica sulle "zone rosse" mancate, sono le critiche al sistema sanitario regionale che fatica a reggere l'urto del Covid-19. Il 15 aprile, in un articolo apparso su Le Monde, Roberto Saviano non perde occasione per tirare in ballo "il territorio di Silvio Berlusconi" e si erge sul piedistallo per impartire ai lombardi "la debolezza insita nel credersi invincibili". A sinistra è un sentimento diffuso. Sono molti, infatti, quelli che credono che il coronavirus abbia dato una lezione al Pirellone e che soprattutto il centrodestra non sia stato all'altezza di gestirlo. Per dimostrarlo vengono montati ad arte teoremi sulla gestione del sistema sanitario, vengono scomodati (senza nemmeno leggere le ordinanze della Regione che sono identiche, in tutto e per tutto, a quelle emanate da altri governatori iscritti al Pd) gli anziani morti nelle Rsa, viene screditata la costruzione dell'ospedale in Fiera (quando è stato il governo Conte a chiedere alle Regioni di aumentare del 50 per cento il numero dei posti letto). Il 21 maggio, durante l'informativa del premier sulla "fase 2" alla Camera, si viene quasi alle mani quando il grillino Riccardo Ricciardi se ne esce con accuse senza precedenti (guarda il video). "Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il culo sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no", sbotta Giancarlo Giorgetti invitando il ministro della Salute Roberto Speranza a tenere a bada i Cinque Stelle. "Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati. Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti". Il punto è che anche all'interno di Liberi e Uguali, partito a cui è iscritto Speranza, la pensano allo stesso modo. Qualche settimana più avanti Pierluigi Bersani se ne andrà in televisione a dire che "se avesse governato questa gente qua (il centrodestra, ndr) non sarebbero bastati i cimiteri". E non ci si deve, poi, stupire se ci ritroviamo i muri di Milano lordati dagli antagonisti con la scritta choc "Fontana assassino". Lo stesso slogan urlato dai sindacati scesi in piazza ai primi di giugno. La campagna (mediatica) di denigrazione tocca probabilmente il suo apice con il falso scoop di Report, poi ripreso dal Fatto Quotidiano, in cui si fa passare una donazione di materiale sanitario per un conflitto di interessi. Un "attacco politico vergognoso", come lo ha definito lo stesso Fontana, che ora finirà in aula di tribunale. L'odio politico, però, si mischia all'odio regionale. E così sono troppi quelli che stanno portando avanti una vera e propria campagna contro i lombardi. Lo fa persino chi, come lo scrittore Massimo Mantellini, dovrebbe preservare il Paese dalla violenza verbale. Conte lo ha, infatti, voluto nella task force governativa (una delle tante) per epurare il web dall'odio dilagante. Nei giorni scorsi se ne è uscito con un post a dir poco delirante: "La dico piano: chiudiamo i lombardi in Lombardia. Almeno per questa estate". Lo stesso che vorrebbero fare alcuni governatori di sinistra per sminuire gli sforzi che dal 20 febbraio il Pirellone sta compiendo per vincere la partita contro il coronavirus. Sicuramente Regione Lombardia, come anche il governo, ha fatto errori. Li ha fatti perché si è trovata a dover combattere una battaglia senza precedenti. Usarli, ingigantirli e distorcerli per fini politici è una bieca campagna di disinformazione che non rende giustizia a tutti quei morti che stiamo ancora piangendo.

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it l'8 giugno 2020. Il conto si paga con la vergogna: “Ancora oggi mi sento un po’ appestato. Non esco da Milano. Rimango a casa il più possibile. Ascolto racconti di amici che sono andati fuori dalla Lombardia e sono stati accolti da battutine, insinuazioni, cattiverie. Alcuni hanno dovuto subire anche un cartellone che diceva: “Torna a casa tua”. Sono cose che mettono a disagio e feriscono le persone. Uno spirito anti lombardo è emerso nel Paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta”. Nato a Milano nel 1953, Ferruccio De Bortoli – giornalista, saggista, per due volte direttore del Corriere della Sera, di cui oggi è uno dei principali editorialisti – non aveva mai considerato l’ipotesi che il luogo di nascita riportato sulla sua carta d’identità potesse diventare un marchio, se non d’infamia, almeno di diffidenza: “Il razzismo al contrario, cioè l’idea che ora i cittadini italiani discriminati siano quelli del Nord, mentre prima erano quelli del Sud, è un concetto che trovo esagerato. Io credo che si tratti più precisamente di un pregiudizio radicato, che ha moventi sociali, politici, economici. Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il Paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove”.

La Lombardia non ha sbagliato niente?

«Anche la Lombardia ha commesso degli errori. Soprattutto, di comunicazione. La Giunta farebbe bene a riconoscerli e spiegare perché li ha commessi. Io però – da lombardo – mi faccio anche un’altra domanda. Mi chiedo: "Perché siamo diventati antipatici?"»

Ha una risposta?

«Credo che, a volte, siamo stati troppo orgogliosi dei nostri primati, esaltando le nostre virtù fino a sfiorare l’arroganza. Forse, abbiamo avuto anche un atteggiamento semi-colonialista, proiettando un’immagine di noi stessi che chiedeva un adeguamento ai nostri numeri. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi».

Però?

«Però la Lombardia è stata investita dal contagio con una violenza inusitata. Si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e, all’inizio, tutti abbiamo sottovalutato, incluso io. La giustizia deve andare sino in fondo, perché i familiari delle vittime e il Paese devono conoscere la verità. Non si può però accettare la criminalizzazione preventiva che è stata fatta. Stiamo parlando di una terra che è stata martoriata, con decine di migliaia di morti. Dobbiamo avere rispetto. Un conto è capire cosa non ha funzionato. Un altro conto è alimentare processi sommari. Che sono inaccettabili».

Da dove è venuta fuori questa pulsione?

«Le posizioni sbrigative e sprezzanti contro Milano e la Lombardia nascondono un’invidia sociale nei confronti di chi è stato sempre ritenuto migliore. Sta succedendo in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, ed è all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità».

Perché non scatta, invece, l’emulazione?

«Perché bisognerebbe partire dal riconoscere le proprie mancanze, dandosi come obiettivo quello di colmarle. L’Italia, invece, è un Paese di continui e incessanti dualismi. Quello tra Nord e Sud è uno dei più longevi. Negli ultimi anni, il dislivello si è tradotto in un risentimento del Sud verso il Nord. Infatti, già prima della pandemia, il ministro Provenzano aveva detto che Milano non restituisce nulla. Ora, questo rancore si è manifestato più platealmente».

Che cosa ci vede dentro?

«Un disprezzo dell’impresa, una diffidenza nei confronti dell’industria, una rivincita della statalizzazione contro il mercato. Sottilmente, il liberismo viene ritenuto responsabile di quello che è successo. Non ci sono prove che sia così. Però lasciarlo intendere serve a proporre un ritorno al ruolo dello Stato, il cui luogo d’elezione naturale è Roma».

La sanità privata ha funzionato bene?

«Gli ospedali privati, in Lombardia, si sono dati da fare, come si sono dati da fare tutti. La solidarietà con il pubblico è scattata. Forse si può rimproverare un ritardo, ma non si può attaccare il privato in quanto privato, il modello lombardo in quanto lombardo. Dimenticando che ogni anno 165 mila persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. In Italia, la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda?»

È un attacco politico?

«Il pregiudizio anti lombardo è radicato in una parte della sinistra italiana. Politicamente, Milano è percepita come la città di Craxi, di Berlusconi, di Bossi, ora di Salvini. È qualcosa di estraneo, che la sinistra non è mai riuscita ad afferrare fino in fondo. Anche Sala, che oggi è sindaco della città, è come se venisse da fuori, non facendo parte della tradizione Pd».

Basta a fondare un preconcetto?

«C’è anche il fatto che la sinistra non ha mai parlato la lingua delle imprese piccole e grandi che costituiscono l’economia del Nord. Però, anziché interrogarsi sul perché, cercando di rimediare, oggi imbocca la scorciatoia della diffidenza. Ma non si può risollevare il Paese coltivando un sentimento anti industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si metterà mai in piedi?»

Cosa propone?

«Una tregua. Sospendiamo le polemiche. Rimettiamo insieme il Paese. Cerchiamo di comprendere cosa è successo, non per colpire l’uno o l’altro, ma per riparare gli errori e farci trovare pronti in autunno, se ce ne sarà bisogno. Nel frattempo, la giustizia farà il suo dovere».

Quante probabilità ci sono che accada?

«Non le so calcolare. Quel che so – e che mi addolora – è che ci stiamo lasciando andare alle piccinerie. Alla volgarità di frasi come ‘Milano da bare’. Alla grettezza regionalistica. Tanti piccoli noi contro voi. Ma veramente vogliamo tornare ai pregiudizi? Al milanese bauscia, al ligure tirchio, al calabrese scansafatiche? C’è davvero qualcuno che crede che si possa uscire dall’angolo così?»

Stefano Filippi per ''la Verità'' il 22 giugno 2020. Il governatore lombardo Attilio Fontana è da poco rientrato dal Vaticano, dove sabato ha incontrato Papa Francesco insieme con rappresentanti di medici, infermieri, volontari, Protezione civile, alpini. Mentre la Regione era dal pontefice, a Milano la sinistra è scesa in piazza con tre manifestazioni di protesta contro la gestione dell'emergenza. «Dissentire è legittimo», replica calmo Fontana. Che poi però si toglie qualche sassolino dalle scarpe: «L'ospedale in Fiera è stato costruito perché il governo ci ha chiesto di raddoppiare il numero di letti di terapia intensiva. Contro di me è stata ordita una campagna di false notizie, il tempo sarà galantuomo. E altro che Stati generali: la Lombardia ha già stanziato 3 miliardi di soldi veri perché i Comuni possano avviare le loro opere pubbliche».

In piazza a Milano c'erano cartelli che definivano «assassini» lei e l'assessore Giulio Gallera. Che cosa risponde?

«Ognuno è legittimato a protestare e a dire quello che ritiene. La cosa importante è che il Papa ha dimostrato vicinanza e ha ringraziato tutti per il grande lavoro che è stato fatto. Se qualcuno ritiene che le cose non siano state fatte bene, è libero di contestare. Noi però andiamo avanti per la nostra strada e continuiamo a impegnarci per difendere la nostra gente da quello che è stato un evento imprevisto, imprevedibile e incredibile, che abbiamo contrastato in maniera molto buona».

C'è una campagna contro la Lombardia?

«Sicuramente. La campagna nasce da valutazioni politiche di una parte che ha creato bugie e false notizie. La gente ci è caduta in buona fede, ma io non condanno le persone, quanto chi ha strumentalizzato la cosa in malafede».

Quali notizie sono state inventate?

«Tutto. Dicono che è colpa della Regione se non sono arrivati mascherine e presìdi ai medici di base, ma non è nostro compito perché il rapporto contrattuale è con il ministero e non con noi. È stato detto che era compito mio fare le zone rosse, è stata detta quella falsissima cosa sulle case di riposo. Tutta una certa narrazione è costruita ad arte. Ciò che lascia più perplessi è che, man mano che certe fake news vengono documentalmente smentite, allora si cambia e si cerca un altro filone di racconto che per alcuni giorni o alcune settimane diventa il mantra. Poi anche quello viene smentito e se ne cerca uno nuovo. È un attacco fatto in modo parascientifico».

A Roma la sinistra chiede al centrodestra coesione e collaborazione, a Milano fa l'opposto.

«Mi sembra che la coesione chiesta a Roma sia una presa in giro. Se così non fosse ci sarebbe un rapporto di costruttività anche qui da noi, dove invece assisto soltanto ad attacchi fuori luogo».

Hanno scelto di protestare sabato per rubarvi la scena mentre eravate in Vaticano?

«Può darsi, ma penso che tra il Papa e le proteste in piazza non c'è confronto».

Com' è stato l'incontro con Francesco?

«Molto cordiale. Mi ha commosso per le parole ma ancora di più per la disponibilità che ha dimostrato verso tutti i presenti. Ha voluto avere una parola con ciascuno. Credo che mai come ieri i presenti all'udienza siano usciti pieni di entusiasmo, di speranza e di voglia di ricominciare a combattere».

Com' è la situazione dei contagi?

«Le cose stanno andando nella direzione giusta. Sono convinto che stiamo risolvendo ogni problema e che non dobbiamo farci prendere troppo dai numeri dei contagi. Il professor Remuzzi ha spiegato che c'è una differenza tra i malati e gli scarsamente infetti. Come aveva detto anche il professor Zangrillo, ciò che conta è constatare che diminuiscono i ricoveri e si riducono i malati in terapia intensiva, al di là del numero dei contagiati».

C'è meno preoccupazione?

«Siamo preoccupati nella giusta misura. Noi continuiamo a raccomandare il rispetto di tutte le precauzioni che abbiamo indicato: usare le mascherine, evitare gli assembramenti, lavarci spesso le mani. Non dobbiamo convincerci che sia finito tutto, noi stiamo vincendo una battaglia che però è ancora in corso».

A proposito di assembramenti: che cosa sarebbe accaduto se la coppa Italia l'avesse vinta l'Inter o il Milan?

«Beh, devo dire una battutaccia: meno male che Inter e Milan in questo periodo non festeggiano tanto... Quelle sono occasioni nelle quali qualche rischio ancora si corre».

I suoi consulenti temono una seconda ondata in autunno?

«Le persone serie con le quali parlo dicono che nessuno può prevedere se ci sarà o no. Dato che non c'è la certezza né che ci sarà, né che non ci sarà, dobbiamo seriamente preoccuparci come se ci fosse e attuare tutte le misure necessarie come se la cosa dovesse verificarsi. Poi spero che siano tutte misure inutili, ma meglio avere qualche letto in terapia intensiva in più che farci trovare impreparati».

Si riferisce all'ospedale in Fiera?

«Certo. Quell'ospedale è entrato nel progetto che abbiamo mandato al governo. Il governo ci ha chiesto di portare il numero dei letti di terapia intensiva da poco più di 700 che avevamo prima del Covid a 1.456. Molti di questi letti sono quelli previsti nell'ospedale della Fiera e altri nella nuova struttura di Bergamo».

Si può dire che avete costruito l'ospedale per obbedire alle richieste del governo?

«Assolutamente. Certo, ora si potrebbe smantellare tutto spendendo altri milioni per fare altri posti letto, ma dato che ci sono mi sembra una follia».

La Regione ha cambiato alcuni dirigenti della sanità: c'è qualche riforma in cantiere?

«Approfondiremo la cosa con attenzione. Nei prossimi giorni istituiremo un comitato di saggi per studiare la medicina di territorio e verificare se è opportuno cambiare qualcosa nella sanità regionale. Le persone sagge e serie devono avere il coraggio di modificare qualcosa se c'è qualcosa da migliorare».

È stato scritto di incomprensioni tra lei e Gallera.

«Mai avuto nessuna incomprensione con Gallera né con altri della struttura della sanità. I rapporti sono sempre stati costruttivi: ci siamo confrontati, molte volte abbiamo avuto idee diverse ma siamo sempre riusciti a trovare la soluzione più giusta. Gallera è assolutamente tranquillo».

Per i prossimi mesi quali misure di rilancio avete preso?

«Prima di parlare, noi abbiamo fatto. Siamo l'unico ente territoriale che ha destinato 3 miliardi di soldi veri per investimenti nei prossimi due anni. Da subito sono a disposizione 400 milioni. Già 1.200 sui 1.500 Comuni lombardi hanno mandato i loro progetti ed entro la fine dell'anno apriranno altrettanti nuovi cantieri. Sono certo che anche gli altri a breve faranno avere i rispettivi progetti e che quindi entro sei mesi i cantieri saranno 1.500».

Sono cantieri edili?

«Noi abbiamo detto ai Comuni: con questi soldi voi potete fare quello che volete, a condizione che entro la fine di ottobre l'opera sia cantierabile. Possono essere investimenti nella digitalizzazione, nello sviluppo delle reti, scuole, strade, ponti, asfaltature: ogni intervento ritenuto utile. Da un lato, i Comuni possano realizzare iniziative magari ferme da anni, dall'altro diamo una possibilità concreta di lavorare a oltre 1.000 aziende del territorio».

Quindi niente assistenzialismo.

«Questo è un intervento produttivo, soldi veri che fanno lavorare persone e aziende e che speriamo possano contribuire a far girare nuovamente l'economia. Si dice che se riparte l'edilizia riparte tutto: la Regione Lombardia dà il suo contributo».

Che altri interventi avete promosso?

«Bandi, progetti, iniziative per piccole e medie aziende per sostenere l'efficientamento, la digitalizzazione, gli ampliamenti. Molti bandi sono stati bruciati in poche ore e cercheremo di rifinanziarli per fare in modo che altre aziende possano beneficiarne. E poi cerchiamo di sburocratizzare, cioè di semplificare il rapporto tra la pubblica amministrazione e i cittadini. Su questo ci stiamo impegnando molto».

Gli imprenditori che cosa vi chiedono?

«Investimenti, risorse e la possibilità di accedere al credito in modo semplice ed effettivo, non finto come alcuni provvedimenti nazionali stanno dimostrando di essere».

Voi non avete dovuto fare gli Stati generali per stanziare questi soldi ai settori produttivi.

«Con industriali, parti sociali, sindacati, cooperative ci sentiamo mensilmente, non abbiamo bisogno di fare grandi manifestazioni. Ci sentiamo, ci parliamo, ci ascoltiamo regolarmente. E devo dire che alla fine andiamo d'accordo».

Il caso Patrizia Baffi, presidente Pd della commissione d'inchiesta regionale sul Covid che ha dato le dimissioni tra le polemiche: quali saranno le prossime tappe?

«È una cosa di competenza del Consiglio regionale e credo che non ci debbano essere sovrapposizioni con la giunta. Ho piena fiducia che capigruppo e consiglieri sapranno affrontare al meglio la questione».

Lei non ha mai voluto commentare l'inchiesta di Bergamo.

«Ho il massimo rispetto nei confronti della magistratura. Devo dire che ho avuto un interrogatorio molto bello, non mi sento di contestare nulla. Va benissimo così. Sono profondamente convinto che su come la Regione Lombardia ha gestito l'emergenza sanitaria il tempo sarà galantuomo».

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2020. «Io ho vissuto la vicenda Covid con un'angoscia personale grandissima. Terribile. Quello che mi ha aiutato a non fermarmi, è stato proprio il cercare tutte le soluzioni per uscirne. Immaginare una strada anche per le fasi di ripartenza che abbiamo di fronte».

Attilio Fontana è nel suo ufficio, provato dopo mesi a ritmi serrati. Ma quale lezione ha tratto da questa vicenda?

«Quello che mi porto dentro è stato il vedere centinaia di persone che non si sono date tregua, con dedizione assoluta, per aiutare gli altri».

Lei quali errori si imputa?

«Noi, ma credo quasi tutti, siamo stati colti di sorpresa da un'emergenza bestiale, di errori ne abbiamo commessi fin che ne vuole. Però, a marzo prendere decisioni era durissima. Per questo ora io sto studiando, cercando di vedere in quello che è accaduto le indicazioni per fare meglio in futuro».

Per esempio?

«Inutile che anticipi adesso. Sto per nominare un mio gruppo di lavoro che entro la metà di agosto indicherà le cose da fare e quelle da evitare, proprio sulla base di questi mesi. La competenza viene prima di tutto, e la Lombardia, me lo lasci dire, sulle competenze è fortissima».

Ferruccio de Bortoli ha detto che prendersela con la Lombardia e Milano, che riescono a competere nel mondo, «alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto».

«Guardi, io di Ferruccio de Bortoli ho la massima stima, e certo non lo si può accusare di simpatie leghiste. Io penso che Milano e la Lombardia sono e resteranno la locomotiva della Nazione, e a breve ricominceranno a tirare con tutta la loro forza. Certo, se poi qualcuno cerca di usare la vicenda Covid per fini politici, significa che non solo ha del tempo da perdere, ma che ha anche l'animo dello sciacallo. Chi si gingilla con questa politichetta, ha capito male il nostro Paese».

A proposito, quali i rapporti con il sindaco Beppe Sala? Anche con lui avete avuto momenti complicati.

«Mi creda, la mia non è una risposta di stile. Ma devo dire che io ho una grande stima di Sala. Certo, non sempre sono d'accordo con lui. Ma quando c'è da collaborare, l'ho sempre fatto. Peraltro, la sinergia è indispensabile, perché la Lombardia non può fare a meno di Milano e Milano non può fare a meno della Lombardia».

Perdoni, presidente. Ma dell'ospedale nell'ex Fiera non è pentito? Di fatto, ha ospitato pochissimi pazienti.

«Lei vuole scherzare... Anche quello è nato sotto una pressione terribile, l'ho deciso quando un medico, con le lacrime agli occhi, mi ha detto che non voleva più scegliere chi far vivere. Detto questo, di strutture simili ne sono state create ovunque nel mondo, 19 nei soli Stati Uniti. Ma di queste, 13 non sono mai entrate in funzione. L'ospedale in Fiera è stato uno straordinario regalo alla città da parte di più di 5.000 donatori nel momento più drammatico della pandemia. Per costruirlo in tempi da record, grazie a Fondazione Fiera Milano, non è stato speso un euro di soldi pubblici».

Ma adesso che ne fate?

«Lo teniamo pronto, sperando di non usarlo, per fronteggiare un'eventuale seconda ondata. E dopo, nulla sarà disperso: con il coordinamento del Policlinico entrerà nella rete ospedaliera lombarda. Un piano, le anticipo, che prevede 1.446 posti letto di terapia intensiva e ulteriori 704 letti di terapia semi intensiva, almeno metà dei quali devono poter essere tempestivamente convertiti in intensivi. Come peraltro chiede il governo».

Presidente, dica la verità: la sanità lombarda è uscita molto ammaccata da questa vicenda. O no?

«Di nuovo: non scherziamo. Qui viene gente a curarsi da tutto il mondo. E c'è un perché: abbiamo strutture pubbliche formidabili che vanno potenziate, sostenute, arricchite. E abbiamo un settore privato forte in grado di consentire ai cittadini di scegliere. Mi chiedeva un mea culpa? Probabilmente, negli ultimi anni abbiamo trascurato i medici di famiglia. Le anticipo che a settembre lanceremo un importante piano d'azione a loro dedicato. Sono il primo presidio sanitario delle nostre comunità e lo renderemo più forte».

Il Tar ha appena bocciato l'acquisto dei test sierologici senza procedure di evidenza pubblica della Diasorin dal San Matteo di Pavia.

«Guardi che però io non sono parte attiva in questa vicenda».

Molto criticata anche la decisione di ricoverare pazienti Covid nelle Rsa, su cui è in corso anche un'indagine. Qui nessun mea culpa?

«I pazienti sono stati ospitati in 18 case di riposo su 709. Il problema non viene da quello, ma dire il contrario è una finta verità facile da smerciare. Del resto, il 17 aprile l'Iss ha proprio previsto che siano realizzate unità Covid dentro le Rsa».

E poi c'è la vicenda dei camici forniti da un'azienda di cui è socia sua moglie.

«A parte il fatto che mia moglie è socia al 10% e non controlla nulla, vuole sapere la verità? In quei giorni la Regione ha chiesto camici e mascherine da chiunque li avesse. Il punto è questo».

C’è anche il cellulare della moglie di Attilio Fontana fra gli altri undici sequestrati per il caso camici. Luigi Ferrarella il 25/9/2020 su Il Corriere della Sera. Blitz della Procura di Milano che indaga sulle forniture. Sotto la lente pure le carte della «voluntary disclosure». A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell’inchiesta sull’accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l’intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell’assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, giovedì la Procura di Milano (nell’inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l’ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e — contemporaneamente — di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all’Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati. Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell’ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell’indagato cognato di Fontana, Andrea Dini. Diverso l’approccio dell’acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati. Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all’Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.

Coronavirus, esami “pungidito” e caso Diasorin: acquisita copia del traffico telefonico di Fontana. Le Iene News il 24 settembre 2020. Gaetano Pecoraro indaga in questo servizio del 12 maggio sulle scelte della Regione Lombardia, che al tempo ai più veloci ed economici test "pungidito" aveva preferito quelli a prelievo. Il 22 luglio è stata aperta un’inchiesta a Pavia su questo caso, ora la Finanza acquisisce copia del traffico telefonico del governatore Fontana e dell’assessore Gallera. Novità con un blitz della Finanza sul fronte del caso Diasorin e test sierologici in Lombardia di cui vi abbiamo parlato in onda il 12 maggio con Gaetano Pecoraro nel servizio che vedete qui sopra. Il 22 luglio si era saputo da una nota della procura di Pavia dell’esistenza di un’inchiesta nei confronti dei vertici della fondazione Irccs San Matteo e della società Diasorin per le ipotesi di peculato e turbata libertà di scelta del contraente. L’ipotesi della procura è che l’azienda farmaceutica Diasorin possa essere stata favorita nella scelta del policlinico di Pavia dei test sierologici a prelievo e non “pungidito” a discapito di altri potenziali concorrenti. Il 23 settembre i militari della Guardia di Finanza sono andati a casa del governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, della responsabile della sua segreteria Giulia Martinelli, ex compagna del leader leghista Matteo Salvini, e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera per acquisire una copia forense del traffico e dei messaggi dei loro cellulari. Nessuno dei tre risulta indagato. "È grave il fatto che la perquisizione sia avvenuta con modalità non pertinenti alle finalità dell'operazione con un decreto non circostanziato ma applicabile a chiunque”, ha dichiarato l’avvocato di Fontana, Jacopo Pensa, “con evidenti criticità di carattere costituzionale vista la ovvia presenza di conversazioni di carattere istituzionale nel cellulare del presidente Fontana. Sarebbe stato sufficiente un invito a fornire i dati telefonici per raggiungere il medesimo risultato investigativo. Valuteremo se impugnare il provvedimento per una verifica giurisdizionale sulla correttezza formale e sostanziale dell'atto disposto”.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 25 settembre 2020. Non solo l'indagine sui 513mila euro incassati dal cognato di Fontana, Andrea Dini, per la fornitura di 75mila camici durante l'emergenza Covid. Ieri la Finanza si è recata dal commercialista di Varese che ha curato per il governatore lombardo la "voluntary disclosure" dei 5,3 milioni di euro che Fontana custodiva in due trust alle Bahamas e che ha regolarizzato nel 2015, depositandoli in Svizzera. I pm Carlo Scalas, Paolo Filippini e Luigi Furno, coordinati dall'aggiunto Maurizio Romanelli, intendono chiarire la provenienza di quel denaro. Se - come ha sempre sostenuto Fontana sia interamente proveniente dall'eredità della madre, o se invece vi siano redditi non dichiarati relativi alla sua attività di avvocato. Per questo il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Milano ha acquisito le dichiarazioni dei redditi 2015 e 2016 e tutti gli allegati relativi alla pratica sul rientro dei capitali. Di quel denaro si viene a sapere quando emerge il conflitto di interessi tra Dama (srl di Andrea Dini) e l'ente regionale Aria (la centrale unica degli acquisti della Regione) che ha pubblicato l'appalto dei camici. (…)

Inchiesta camici in Lombardia: pm, "Diffuso coinvolgimento Fontana". Gdf acquisisce contenuto dei cellulari della moglie e di alcuni indagati. Pubblicato giovedì, 24 settembre 2020 da Sandro De Riccardis su La Repubblica.it. Il cognato a moglie governatore, "Ordine arrivato, non scrivo a lui". I militari hanno fatto una acquisizione selettiva con parole chiave sui cellulari anche degli assessori Caparini e Cattaneo e di Giulia Martinelli, dell'ex dg della centrale acquisti della Regione e di altri funzionari, ma non su quello del governatore Fontana. C'è "il diffuso coinvolgimento di Fontana in ordine alla vicenda relativa alle mascherine e ai camici accompagnato dalla parimenti evidente volontà di evitare di lasciare traccia del suo coinvolgimento mediante messaggi scritti". Lo si legge nella richiesta di consegna dei cellulari ai principali protagonisti del 'caso camici', firmata dalla Procura di Milano, e nella quale viene riportato anche un testo del 16 febbraio in cui Andrea Dini, cognato del governatore, informa la sorella Roberta Dini, moglie del presidente lombardo, in questo modo: "Ordine camici arrivato. Ho preferito non scriverlo da Atti". Lei risponde: "Giusto bene così". Le indagini. Il Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf di Milano sta effettuando acquisizioni di contenuti, mirate e sulla base di parole 'chiave', dei telefoni di indagati e persone coinvolte nella vicenda con al centro la fornitura a Dama spa, società di Andrea Dini, cognato del governatore Attilio Fontana, di 75 mila camici e altri dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Tra i cellulari in questione ci sono quelli di Roberta Dini, moglie di Fontana e titolare del 10% della Dama spa, degli assessori lombardi Davide Caparini, Raffaele Cattaneo e di Giulia Martinelli, capo della segreteria del presidente della Lombardia nonché ex compagna del leader della Lega Matteo Salvini. L'acquisizione è presso terzi, il che vuol dire che i quattro non sono indagati. L'operazione non riguarda il telefono del presidente della Lombardia, ma dell'ex dg di Aria Filippo Bongiovanni e della dirigente della centrale di acquisti regionale (entrambi sono indagati) e si sarebbe resa necessaria alla luce delle testimonianze messe a verbale da testi sentiti nei mesi scorsi. E poi dalle prove documentali raccolte dalle Fiamme Gialle, tra cui i messaggi e le chat scaricati dal telefono di Andrea Dini, il cognato di Fontana (anche loro due sono indagati) e titolare della Dama spa, l'azienda al centro dell'indagine per un affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura trasformata in donazione quando è venuto a galla il conflitto di interessi e quindi mai completata. La Gdf ha acquisito il contenuto anche dei telefonini di alcuni tra il personale dello staff di Fontana e di altri personaggi secondari. Oggi pomeriggio verrà dato l'incarico a un consulente della Procura  per selezionare il contenuto in base a parole chiave, conferimento a cui possono partecipare gli indagati, i difensori ed eventuali loro esperti nominati per le operazioni.  Il materiale contenuto nei telefoni verrà, poi, selezionato con le garanzie dovute. Le acquisizioni mirate e per parole chiave dei contenuti dei telefoni di alcuni 'protagonisti' e indagati del cosiddetto 'caso camici' stanno riguardando in particolare funzionari e dirigenti della Regione e di Aria spa, la centrale acquisti regionale. Nei mesi scorsi gli investigatori, coordinati nell'inchiesta dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, avevano sequestrato il telefono di Andrea Dini, patron della Dama, società di cui la sorella di quest'ultimo e moglie di Fontana, Roberta Dini, detiene il 10%. Nell'inchiesta figurano quattro indagati. Per frode in pubbliche forniture Fontana, oltre a Dini, Filippo Bongiovanni, ex dg di Aria (entrambi accusati anche di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente) e a una funzionaria di Aria. L'inchiesta verte sul caso dell'affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura basata su un contratto tra Aria, la centrale acquisti regionale, e Dama. Un affidamento poi trasformato in donazione quando venne a galla il conflitto di interessi della società dei familiari del governatore e quando 'Report' iniziò ad interessarsi alla vicenda.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell'inchiesta sull'accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l'intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell'assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, ieri la Procura di Milano (nell'inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l'ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e - contemporaneamente - di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all'Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati. Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell'ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell'indagato cognato di Fontana, Andrea Dini. Diverso l'approccio dell'acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato oggi una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati. Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all'Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.

Il cognato già il 6 aprile al fornitore di tessuti: «È stato il governatore a dirmi di contattarti». Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. Non è vero - come sinora ha sempre detto - che il presidente Attilio Fontana abbia scoperto soltanto l'11 maggio (dal proprio staff per caso) e poi in giugno (dalle interviste di Report) che la centrale acquisti della sua Regione Lombardia, Aria spa, aveva affidato il 16 aprile senza gara alla società Dama spa di suo cognato Andrea Dini (al 90%) e di sua moglie Roberta Dini (al 10%) una fornitura di 75.000 camici e 7.000 set da 513.000 euro. Il telefonino di Dini, infatti, mostra che già quel 16 aprile alle 15.22 l'imprenditore informa subito via sms la sorella Roberta (moglie di Fontana) che «ordine camici arrivato», ma «ho preferito non scriverlo ad Atti», e la moglie di Fontana concorda: «Giusto, bene così». Se ne ricava appunto che il presidente della Regione, salvo ora intenda dire che la moglie quella sera a casa non gli parlò di quanto il cognato aveva fatto attenzione a non scrivergli, seppe subito del conflitto di interessi innescatosi. E per i pm è anche indice della «volontà di evitare di lasciare traccia del suo diffuso coinvolgimento mediante messaggi scritti». Ma un altro sms di Dini sembra retrodatare la consapevolezza di Fontana addirittura a prima del contratto (non 16 ma 6 aprile), e persino rivelarne un aiuto diretto a favore del cognato. I pm, infatti, nello spiegare che l'assessore Raffaele Cattaneo (responsabile della task force regionale) ebbe «un ruolo decisivo per consentire a Dama spa di riconvertirsi e poter formulare una offerta», additano gli sms da cui traspare la sua «intermediazione nel trovare nell'interesse di Dini i tessuti da utilizzare per confezionare i camici» da proporre poi alla Regione, «anche intervenendo sui fornitori». Uno di essi, Paolo Maria Rossin di Indutex spa, il 6 aprile alle 9.50 si scusa con Dini perché ha già venduto ad altri tutti i tessuti che Dini cercava. «Non capisco - reagisce male Dini -. È stato Cattaneo e mio cognato il governatore Fontana a dirmi di contattarLa. Dirò che si sono sbagliati». Dini avvisa Cattaneo. Cattaneo chiama Rossin. Che alle 13.32, «facendo seguito al colloquio odierno con l'assessore Cattaneo», comunica a Dini che si sono liberati 50mila mq di tessuto. Fontana avrebbe dunque finto meraviglia ancora l'11 o 12 maggio (secondo le versioni contrastanti tra il direttore di Aria spa, Filippo Bongiovanni, e il capo segreteria di presidenza Giulia Martinelli): cioè il giorno in cui, stando alla versione ufficiale riportata da Martinelli alle indagini difensive del legale di Fontana, il presidente apprese dal proprio staff l'incresciosa scoperta. «Fontana mi chiese: "Ma non è una donazione?". Io risposi: "No". Fontana ebbe una reazione attonita. Rimase in silenzio per un paio di minuti, poi mi disse: "Mia moglie ha il 10% di questa società". Prese le sue cose e se ne andò». Moglie e cognato appaiono talmente consapevoli del conflitto di interessi che Dini il 21 aprile (5 giorni dopo il contratto regionale) giunge a prospettare a Paolo Zanetta, procuratore della sua Dama spa, di precostituirsi una sorta di alibi (donazioni di mascherine anti Covid a vari ospedali) da opporre a chi in futuro avesse arricciato il naso sulla fornitura di camici: «Dobbiamo donare molte più mascherine ed averne però prova certa. Se ci rompono per le forniture di camici causa cognato, noi rispondiamo così». La molla dei Dini fratello e sorella è per i pm la «grave tensione patrimoniale» della società di abbigliamento (con in pancia il marchio Paul & Shark) causata dalla cancellazione per il Covid di tutti gli ordini, tanto che il 29 febbraio lui profetizza cosa rischierà: «Che per la prima volta in tre generazioni parlerò con i sindacati per ridurre il personale, minimo 50 ma anche 100. Poi si chiudono se possibile (i negozi di, ndr ) New York e Montenapoleone». Dopo due giorni è la moglie di Fontana a suggerire il salvagente: «Bisogna cercare di riconvertirsi in mascherine». Ed è sempre lei a dare a Dini il 25 maggio (5 giorni dopo la rinuncia del fratello al pagamento dei primi 49.000 camici consegnati alla Regione) la notizia che Fontana, per ristorare il cognato della perdita, ha bonificato alla Dama spa 250.000 euro, poi respinti dalla fiduciaria come operazione sospetta: «Mi chiama Attilio (già ti dice il cervello) per chiedermi numero fattura perché ti ha fatto bonifico ma manca il numero della fattura». Notizia che, per la sua improponibilità, getta nello sconforto il pur teorico beneficiario cognato: «Non va bene un bonifico tra privati. Digli di non farlo. Fa più danni». «Spero non l'abbia già fatto», risponde la moglie, «aspetto stasera cerco di capire», e Dini concorda: «Importante è che almeno a casa abbia degli amici», altrimenti «così è anche peggio, mica posso fatturarglieli. Mette l'azienda nei casini». Come è accaduto.

Caso camici, il cognato di Fontana: «La donazione? Devo, motivi familiari». Luigi Ferrarella il 26/9/2020 su Il Corriere della Sera. Il racconto dell’assessore regionale Raffaele Cattaneo, responsabile della task force lombarda contro il Covid-19, al pubblico ministero: «Così mi spiego la scelta». Conclusa l’estrazione dei dati dal telefono sequestrato alla moglie del presidente. Altro che beneficenza. Tutt’altra — e sono proprio i messaggi sequestrati nel suo telefonino a dirlo — è la molla che il 20 maggio spinge il cognato del governatore lombardo Attilio Fontana, l’imprenditore della «Dama spa» Andrea Dini, a comunicare alla centrale acquisti regionale «Aria spa» la trasformazione in donazione (con annessa rinuncia ai pagamenti regionali già fatturati) della fornitura da 513.000 euro che «Dama spa» il 16 aprile aveva ottenuto in affidamento diretto per 75.000 camici e 7.000 set sanitari. Infatti la sera del 16 maggio, presa la decisione, l’imprenditore anche del marchio «Paul & Shark» recrimina in chat con Paolo Zanetta, procuratore della sua società: «Ovviamente tutti, dico tutti, sono nella lista dei fornitori di camici. Armani, Hermo, Moncler. Gli unici co... siamo noi». «Ma lo mandi a c... e fatturiamo lo stesso», lo arringa Zanetta, solo che Dini tronca il discorso: «Non posso». E la vera ragione di questo non potere più farsi pagare il dovuto dalla Regione —- e cioè la donazione come toppa al conflitto di interessi nel triangolo tra Dini (90% di Dama spa), la sorella Roberta (10% di Dama spa, moglie di Fontana) e il presidente leghista della Regione — viene esplicitata proprio da Dini tre giorni dopo, alle 11.28 del 19 maggio, quando chiede «due minuti per spiegare di persona alcune cose» all’assessore regionale Raffaele Cattaneo, responsabile della task force regionale, che già l’aveva aiutato sin da marzo a recuperare i tessuti che Dini non aveva e senza i quali Dini si era comunque proposto alla Regione come fornitore di camici. Due minuti per dirgli cosa? Cattaneo, interrogato l’8 luglio, spiega ai pm: «Dini mi comunicò di aver deciso di trasformare la commessa in donazione per ragioni di carattere familiare». Obtorto collo, insomma. Al punto che con la sorella accarezza l’idea di recuperare un po’ dei mancati incassi riprendendosi l’ultima parte dei 49.000 camici già consegnati in Regione: «Stamattina consegnati 6.000 camici. Almeno quelli possono essere resi». Proposito condiviso con energia dalla moglie di Fontana, che sprona il fratello: «Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può». Non accadrà. Ma dei restanti 25.000 camici (sui quali la Regione contava) non verrà completata dalla società la consegna né come fornitura né come donazione: da qui l’ipotesi di reato contestata dai pm a Dini in concorso anche con Fontana, e cioè «frode in pubbliche forniture». Sempre dalle chat di Dini si intuisce la catena di interessamenti politici attivata all’inizio dalla moglie di Fontana. Ai pm, infatti, l’assessore Cattaneo dice di «non ricordare il nome della persona da cui ricevetti una telefonata con la quale mi veniva manifestato l’interesse di Dini a rendersi disponibile. L’ho contattato in marzo e mi sono reso conto che non era immediatamente in grado di fornire i camici del tipo che interessavano a noi, anche per la difficoltà a reperire il materiale idoneo; ma, avendo una impresa valida, gli ho indicato le imprese fornitrici». Qualcosa di più si capisce però dagli sms che la moglie di Fontana inoltra al fratello il 27 marzo: «Prova a chiamare assessore (Cattaneo di Varese amico di Orrigoni)», cioè del patron dei supermercati Tigros, nel 2016 candidato leghista battuto al ballottaggio nelle elezioni per succedere a Fontana sindaco a Varese, nel 2019 arrestato e ora in attesa di giudizio nell’inchiesta «Mensa dei poveri». «Sembra che siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini», aggiunge la moglie di Fontana, «ho avvisato la moglie di Cattaneo (che conosco un po’) che vuol dare una mano. Dice che lui sa il tessuto». La moglie di Fontana e i due assessori regionali sono fra le persone non indagate sui cui telefonini (sequestrati giovedì) ieri il perito dei pm ha estratto, nel contraddittorio con i legali degli indagati, solo le informazioni pertinenti all’indagine, selezionate con 50 parole-chiave come camici, moglie, fratello, cognato, donazione, tessuti, certificazioni, restituzione, consegna, bonifico, Svizzera. Quest’ultimo riferimento si sposa con le carte, che i pm si sono fatti esibire dai professionisti che nel 2015 curarono per Fontana lo scudo fiscale, sulla coerenza tra le dichiarazioni dei redditi e l’eredità materna di 5,3 milioni illecitamente detenuti appunto in Svizzera nel 2009-2013.

Attilio Fontana, altro agguato dei pm: "Torna nel tritacarne, gli pubblicheranno le telefonate del cellulare clonato". Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Anzitutto una domandina. Che fine faranno le conversazioni via chat, i messaggi, le telefonate fatte e ricevute, contenute nel telefonino di Attilio Fontana, governatore della Lombardia che l'altro ieri si è visto estrarre dal suo cellulare tutti i dati ivi contenuti, con provvedimento coattivo dei pm di Pavia? Un'idea ce l'avremmo. C'è una famosa gag di Fiorello, dei tempi in cui non era ancora vietato fumare negli alberghi. Il comico raccontò che i portaceneri si incamminavano da soli deponendosi nella valigia del cliente appena arrivato in camera: avevano interiorizzato l'abitudine a diventare bottino dell'ospite. Lo stesso capita alle intercettazioni segrete e segretissime. Esse si spostano per questioni genetiche direttamente dagli uffici della Procura alle scrivanie di giornalisti predestinati. E non ci si può far nulla da decenni. Andrà così, anche stavolta? Lasciate ogni speranza o voi che siete intercettati, come scrisse Dante in altro contesto. Com' è andata la faccenda fontanesca? Drinn... Toc toc... Chi è? Aprite, è la guardia di finanza. Si sono i presentati all'uscio della casa di Varese alle 7 del mattino in cinque tra ufficiali e agenti. Una invasione da operazione antimafia. Una retata di camorristi? Ma no, tranquilli. Dovevano ricopiare il telefonino, come fanno nei negozietti cinesi per riportarli su un altro apparecchio. Bastava - ammesso e non concesso sia stato congruo - un agente solo, alle nove, in ufficio, senza mimare l'orda di Genghis Khan.

ATTO INTIMIDATORIO. Insomma. Quello subito dal governatore Attilio Fontana all'alba di mercoledì 23 settembre è un atto intimidatorio, una maniera con cui il potere giudiziario mette il suo calcagno sul collo dell'autorità politica democraticamente eletta, senza nessun rispetto e tutela sia della persona sia della istituzione che rappresenta? Si vuole marcare facendo sentire i rumori degli zoccoli della propria cavalleria pesante, la gerarchia dei poteri in Italia? Qui si mette per puro scrupolo il punto di domanda. Ma quando si apprendono certe modalità di esecuzione di questo provvedimento giudiziario il segno ortografico interrogativo casca giù sotto i tacchi insieme ad un paio di ghiandole che non riescono ad abituarsi al fatto che siamo nell'Italia del (non) processo a Palamara. Il fatto, al di là del particolare (?) inedito, era noto nei suoi elementi essenziali. Già quelli riferiti nelle cronache - e minimizzati come fisime da garantisti - urtano contro lo Stato di diritto, in perfetta consonanza con la ratio - forse - un tantino persecutoria e un pelino anticostituzionale dell'irruzione mattutina. Come si giustifica? Si giustifica molto poco. Il governatore non è indagato e non esistono indizi che portino a lui o al suo telefono come luogo del crimine, perché in quel caso ci sarebbe stato un avviso di garanzia.

DIRITTI VIOLATI. Chiaro che scoprire la verità su un ipotetico reato impone di indagare senza riguardi per nessuno, ma si tratta di non abusare degli strumenti di cui i pm dispongono sulla base della legge, la quale impone che si resti nel suo alveo. Chi non è neppure indagato e dunque non può neppure difendersi può essere privato di diritti fondamentali quali «la libertà e la segretezza» della corrispondenza (art. 15 della Costituzione) sulla base di una supposizione? E chi è in rapporto con lui per ragioni di qualunque tipo, privatissime o istituzionali, non ha il diritto a sua volta che quel che dice e scrive non sia posto alla mercé di chi non era destinato a leggere e udire. Certo, il medesimo articolo della Costituzione prevede che la segretezza sia sospesa sulla base di disposizioni dell'autorità giudiziaria. Questa lacerazione del diritto alla propria sfera di inviolabilità ha una base di pasta frolla: siccome Fontana è presidente della Regione Lombardia in tempo di Covid, e l'indagine in corso riguarda rapporti ipoteticamente criminali tra la dirigenza ospedaliera dell'ospedale San Matteo di Pavia e una ditta farmaceutica a proposito di Covid, forse qualcuno di costoro gli ha telefonato o mandato un messaggio. Magari lo hanno mandato anche al ministro Speranza, visto che si occupa di Covid e contende alle Regioni il loro territorio di decisioni, oppure al commissario straordinario Arcuri, o - perché no - a Conte. Perché non spedire a costoro a i Ros all'alba per ricopiare i telefonini? Ci sarebbe anche l'art. 68 della Costituzione che tutela in modo assoluto le comunicazioni di parlamentari. E' ovvio che ce ne siano un mucchio dentro il telefonino della Regione più grande d'Italia. Esiste o no un limite all'onnipotenza dei magistrati?

Inchiesta sui camici, il messaggio della moglie di Fontana al fratello. Notizie.it il 25/09/2020. Nell'inchiesta sui camici acquistati dalla Regione Lombardia per mezzo milione di euro spuntano nuovi messaggi della moglie e del cognati di Fontana. Emergono nuovi dettagli dall’inchiesta sulla fornitura di camici e dpi costata mezzo milione di euro alla Regione Lombardia e assegnata lo scorso 16 aprile ala società Dama Spa, di proprietà del cognato del presidente Attilio Fontana e nella quale la moglie dello stesso Fontana detiene il 10% delle quote. Nelle ultime ore sono infatti spuntati nuovi messaggi sia della consorte che del cognato del presidente che potrebbero confermare l’impianto accusatorio secondo cui vi fosse “piena consapevolezza” da parte degli indagati sulla situazione di conflitto d’interesse. In sei messaggi inviati alla fine del mese di marzo, la moglie di Fontana Roberta Dini sembrerebbe illustrare al fratello Andrea la possibilità di poter aggiudicarsi l’ordine per la partita di camici richiesta da Aria, l’azienda regionale per gli acquisti della Regione Lombardia. Nei messaggi la signora Dini riporta infatti il probabile interessamento ai camici dell’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo: “Sembra sia [Cattaneo ndr] molto attivo nell’approvvigionamento (…) ho avvisato la moglie di Cattaneo (che conosco un po’) che vuoi dare una mano. Lei dice che lui sa il tessuto. Le ho dato il tuo numero”. In un ulteriore messaggio del successivo 6 aprile è inoltre lo stesso Andrea Dini a menzionare direttamente l’assessore Cattaneo e il presidente Fontana, mentre esprime il suo disappunto nei confronti di un’azienda che si è mostrata impossibilitata a rifornirlo dei materiali di cui avevano precedentemente concordato: “Buongiorno non capisco. È stato Cattaneo e mio cognato il governatore Fontana a dirmi di contattarLa. Dirò che si sono sbagliati”. Secondo quanto espresso dai pubblici ministeri dunque, da tali messaggi e dalla testimonianza di un rappresentante dell’azienda tessile di cui sopra emergerebbe come l’assessore Cattaneo sia intervenuto in prima persona per facilitare il recupero del materiale, necessario al cognato del presidente Fontana per la produzione dei camici. I pm arrivano inoltre ad affermare come appaia: “Indiscutibile che anche Cattaneo fosse a conoscenza dell’evolversi della vicenda, quanto meno nella fase genetica”. 

La nuova moda. Clonazione del cellulare: altro che trojan, ecco cosa prevede la nuova moda dell’inquisizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Dal trojan alla clonazione. Da Perugia contro Palamara a Pavia contro Fontana, tempi duri per i telefonini. Su quello di Attilio Fontana si sono buttati con il lanciafiamme alle sette di mattina nella sua abitazione i pubblici ministeri che indagano sulla multinazionale Diasorin e il Policlinico San Matteo di Pavia per l’assegnazione di test sierologici. Avrebbero potuto mandare gli uomini della Guardia di finanza a Palazzo Lombardia a chiedere la consultazione del cellulare del Presidente. Insieme a quello della sua capo segreteria Giulia Martinelli e dell’assessore Giulio Gallera e di qualche Presidente ospedaliero sparso per la città. Pare che addirittura il presidente del Policlinico di Pavia ogni tanto conversasse con il Presidente del Policlinico di Milano, Marco Giachetti, per esempio. Molto sospetto. Avrebbero potuto limitarsi a controllare usando parole-chiave relative all’inchiesta, come stanno facendo nelle stesse ore nei confronti di altri (compresa la moglie di Fontana, Roberta Dini) nell’indagine sulla donazione di camici, gli uomini della procura della repubblica di Milano. Cioè selezionare notizie e nominativi che possano servire alle indagini, non buttarsi a capofitto sulla vita intera di persone che non sono neppure indagate. Sulla vita loro e su quella di tutte le persone di loro conoscenza, parenti, amici, rapporti politici e istituzionali. Dalla mamma al Presidente della Repubblica, insomma. Evidentemente a Pavia si usa diversamente da Milano, si preferisce la procedura che si chiama “copia forense”, il che significa duplicazione di tutte le zone del disco, con recupero anche di eventuali file cancellati. Cioè la resurrezione di tutto e tutti, compresi magari i numeri di rompiscatole che cercavi di toglierti di torno. Ed è questo che i pm di Pavia stanno cercando, con mentalità e procedura da inquisizione: non quello che appare, non quello che è, ma quello che non si vede, il famoso “lato oscuro” delle persone. Mettendo insieme telefonate e messaggi che riguardano relazioni istituzionali di un Presidente di Regione, con rapporti politici e anche quelli più personali. Presente e passato. Il tutto dato in pasto agli uomini della guardia di finanza e magari (siamo maliziosi o solo realisti?) direttamente in edicola. Cioè nel luogo che ha ormai scalzato le cancellerie, visto che è lì dove vengono depositati gli atti delle inchieste più delicate e appetibili per il popolo dei voyeurs. Lo si intuisce dalle loro azioni e dalle loro parole. Si sono accorti che il Presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, indagato per peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente per aver affidato senza gara alla Diasorin l’incarico di sviluppare i test sierologici per Covid-19, ai primi di luglio aveva dato una bella ripulita al proprio cellulare. In particolare, scrivono nei decreti di perquisizione, “ha proceduto alla cancellazione massiva dal telefono cellulare di tutte le chat whatsapp”. E questo -fatto considerato particolarmente sospetto-, prima di essere indagato. Sono stati quindi ricostruiti i nomi delle persone che facevano parte dei gruppi, ma non il contenuto delle conversazioni. Per recuperare le quali è necessario il ricorso al napalm, a quanto pare. Poca professionalità o incazzatura feroce? Difficile entrare nella mentalità (e negli stati d’animo, fatto non secondario) dei pubblici ministeri. I quali garantiscono che l’esame dei contenuti sarà limitata “all’alveo dei fatti oggetto di contestazione penale”. Mah. Leggeremo su giornali e social nel prossimi giorni.

L’avvocato Jacopo Pensa, difensore di Attilio Fontana, più che arrabbiato pare sbalordito. Alle sette del mattino di solito si va ad arrestare la gente, ragiona. Il mio assistito non è indagato e si è visto entrare in casa cinque o sei persone mandate a copiargli il telefonino, dice con una certa ironia. Ma osserva con serietà che potrebbe ricorrere al tribunale del riesame, a causa delle modalità procedurali e anche dei profili di incostituzionalità per l’ovvia presenza di conversazioni istituzionali nel telefonino del Governatore. Certo che il Presidente della Regione Lombardia è proprio preso di mira. Difficile attribuirgli esplicitamente la commissione di reati. Però. I pubblici ministeri di Pavia non si accontentano evidentemente di quel che hanno già portato a casa, cioè le indagini sui due contraenti della vicenda dei test sierologici, l’ospedale San Matteo di Pavia e la multinazionale Diasorin, in seguito alla denuncia di un concorrente, la Technogentics. Vogliono arrivare più in alto, al boccone prelibato dell’assessore Gallera e a quello grosso del Presidente della Regione. Le indagini sono ferme, e tra l’altro il Consiglio di Stato, dopo un primo verdetto contrario del Tar, ha dato piena ragione a Diasorin. Così il contratto è anche pienamente in atto. Qualcosa di simile sta accadendo alla procura di Milano. Qui la situazione è ancora più delicata, perché lo stesso Fontana si è infilato in un pasticcio economico-familiare che non dovrebbe proprio stare nelle mani della magistratura. E’ la famosa storia dei camici e altri presidi sanitari che la società del cognato e in piccola parte della moglie avrebbe dovuto prima vendere e poi donare alla Regione Lombardia. Vicenda complicata dallo stesso Fontana, che ha cercato in modo goffo di “risarcire” il cognato facendo tornare dalla Svizzera soldi “scudati”, cosa che non è passata inosservata. Ma anche qui, e proprio ieri, abbiamo assistito al balletto dei telefonini. Che cosa cercano i pm in quello della moglie, forse le chiamate sospette del marito? Siamo sempre lì: trojan, clonazioni, copiature. E sempre il buco della serratura. Ci toccherà tornare agli apparecchi a gettone. Ma sappiamo per certo (esperienza di vicinato) che un tempo intercettavano anche quelli.

La parabola di Fontana, il leghista borghese inciampato nel virus. Brunella Giovara su La Repubblica il 25 settembre 2020. Il governatore della Lombardia è stato tra i primi ad avvicinarsi a Bossi ma in doppiopetto e senza riti padani. Con la pandemia iniziano i guai. E si accendono i riflettori sugli affari di famiglia. Si stava così bene in provincia, tra casa e studio, la Porsche in garage, e molti varesini ancora si domandano: ma chi glielo ha fatto fare, ad Atti, di mettersi in politica, poteva restare con noi, la “nostra gent”, invece di andare a Milano a fare il governatore. Che sante parole, a ripensarci oggi, con quei magistrati che scrutano nei telefoni, la famiglia sottosopra, i conti correnti scoperchiati, che fatica, Atti, che fatica. La gloria, probabilmente. Govern...

D.Pir. per ''Il Messaggero'' l'8 luglio 2020. «L'esperienza appena trascorsa ha messo in luce la capacità delle Regioni di rispondere con prontezza ed efficacia alle mutate esigenze dei cittadini, sempre nel rispetto della leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. L'emergenza sanitaria ha reso più evidente il bisogno di prossimità in un momento in cui il dialogo con il territorio era urgente e indispensabile». E' uno dei passaggi più importanti del discorso tenuto ieri dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, nell'ambito delle celebrazioni dei 50 anni della nascita dell'istituzione. Per molti osservatori si è trattato di un'occasione persa. Lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando a giugno si era recato a Codogno e poi a Bergamo, pur riconoscendo l'importanza dell'autonomia delle istituzioni locali, aveva lanciato un monito per chiedere di individuare i meccanismi che non avevano funzionato nell'assistenza sanitaria lombarda per evitare di ripetere di commettere errori. Quegli errori che stanno portando le associazioni dei parenti delle vittime a protestare e a denunciare all'autorità giudiziaria mancanze e contraddizioni nelle direttive della stessa Regione Lombardia. Di indicazioni di riforma e di autocritica non formale però nel discorso di Fontana non si trova traccia. Il presidente della Lombardia ha riconosciuto la «necessità di fare ancora meglio» ma non è entrato nel dettaglio e non ha affrontato nessuno dei nodi venuti al pettine con una pandemia che ha scosso dal profondo i 10 milioni di lombardi. Una della ragioni che hanno inciso profondamente sulla stessa popolarità di Fontana sceso, secondo la classifica compilata dal Sole 24 Ore, dal terzo al tredicesimo posto nella popolarità fra i presidenti della Regione con una quota del 45,3% di consensi contro il 49,7% ottenuto lo scorso anno. Una classifica che vede al primo posto il veneto Luca Zaia seguito dal presidente del Friuli, Massimiliano Fedriga e dalla presidentessa dell'Umbria, Donatella Tesei. «L'amministrazione regionale - ha detto ieri Fontana - è cresciuta insieme alla società lombarda, splendida sintesi di anime diversificate che arricchiscono il territorio con visione e concretezza. Il dialogo tra l'istituzione e i suoi cittadini rappresenta l'elemento determinante perché siano soddisfatti i bisogni di benessere e di sicurezza di chi qui abita ed opera». Quindi ha aggiunto: «Le celebrazioni di anniversari acquistano forza e significato quando sono lo spunto per approfondire e riflettere sui traguardi raggiunti e sugli obiettivi futuri. Il complesso momento storico che stiamo vivendo può rappresentare una valida occasione per dare nuovi impulso alla istituzione regionale e immaginare scenari sui quali impegnare energie culturali e politiche». Un preambolo che è sfociato però in considerazioni generiche. «Dopo l'emergenza sanitaria - ha sottolineato Fontana - ora è il tempo di guardare avanti con pragmatismo e coraggio. Due sono gli imperativi categorici cui non possiamo sottrarci: il primo riguarda il nostro sistema sanitario regionale, che intendiamo rafforzare ulteriormente». «La Lombardia - ha continuato il presidente - è sempre stata un modello per tutto il Paese in questo ambito: tuttavia, l'esperienza della pandemia ci insegna che possiamo, che dobbiamo, fare ancora meglio». Per Fontana «è fondamentale mettere il nostro territorio nelle condizioni di affrontare con immediatezza la possibilità di eventuali rigurgiti pandemici», mentre «il secondo aspetto da non tralasciare riguarda le conseguenze economiche e sociali che l'emergenza sanitaria ha prodotto, con il rischio di nuove marginalità e povertà».

Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 17 giugno 2020. In Lombardia intenti a scaricare colpe sui “figli” ci si dimentica di quelle dei “padri fondatori” della sanità. Sembra insomma che tutto si spieghi con le scelte dell’attuale  Governatore Attilio Fontana e, al più, ricicciando  quelle di Roberto Formigoni.

Vero. Ma solo in parte. Il convitato di pietra in questa storiaccia sulla pelle dei malati è Roberto – Bobo – Maroni che scrisse propio come  sulla pietra le sue intenzioni di trasformazione (forse intendeva trasformismo) del sistema sanitario lombardo targato Comunione e Liberazione nel famoso “Libro bianco”.

Cosa ne è stato? O meglio a cosa è servito nella quotidianità nella cura e tutela della salute dei cittadini della cosiddetta “locomotiva d’Italia”? In questi tempi abbiamo ri-scoperto  come tutti i peccati della sanità lombarda abbiano inizio con il “celeste” Formigoni  di Cl e finiscano con l’attuale governatore leghista. Ma quali sono state invece quelli del “traghettatore” Maroni che all’indomani della chiusura forzata o no dell’epoca formigoniana aveva promesso “miracoli” dotando la regione di questo strumento  infallibile di cui è interessante riprendere anche solo alcuni punti analizzandoli. Se il trasformismo in politica è abitudine consolidata di tutti gli schieramenti  la cosa triste è che quando ci si occupa di sanità certe scelte, certi indirizzi  piuttosto che altri,  possono portare ai morti. Tanti. Come sono stati, purtroppo,  quelli della pandemia 2020.

Nel Libro bianco  del 2014 Maroni conferma la libertà di scelta come cardine del sistema lombardo dichiarando: “I cittadini continueranno a poter decidere liberamente da chi farsi assistere” sottolineando che ciò è possibile solo garantendo  “una competizione virtuosa tra erogatori pubblici e privati”. Sanità lombarda 2020: come si può essere liberi di scegliere se esistono liste d’attesa lunghe mesi e ticket  spesso sono così alti da superare il prezzo della stessa prestazione resa a pagamento?

Risponde, con una domanda, Alessandro Cè, già assessore alla Sanità  nella III giunta Formigoni: “Chiedo  a  Fontana e Maroni se ricordano che ogni cittadino lombardo sborsa, di tasca propria, oltre alle tasse, circa mille euro all’anno per pagarsi direttamente  le prestazioni sociosanitarie”.

Come può un cittadino scegliere liberamente, cioè consapevolmente, da chi farsi curare, se non riceve la minima informazione istituzionale sulla qualità e l’appropriatezza delle prestazioni e dei servizi erogati da ospedali, cliniche e ambulatori visto che Regione Lombardia non comunica i dati e non li rende accessibili. Il Libro bianco parlava di un potenziamento della sanità territoriale, testualmente: “Della cura al prendersi cura”, ovvero la presa in carico  del paziente mediante misure di “accompagnamento della persona anche attraverso la prevenzione, la valutazione delle necessità del singolo e dell’ambiente famigliare e una migliore e maggiore integrazione sul territorio delle strutture sanitarie con i servizi alla persona”. Sanità 2020 nel dettaglio Alessandro Cè focalizza  un particolare: “ Per i pazienti cronici – coloro che proprio in questa pandemia sono stati l’anello debole – l’attuazione della riforma riguardante i soggetti deputati a gestire la cronicità,  i cosiddetti Gestori e co-Gestori, ha generato solo confusione, disorientamento e complicazioni in tutti gli attori coinvolti. Inoltre – assicura – il mancato rafforzamento dell’assistenza sul territorio si è rivelato la causa primaria della debacle lombarda nella gestione dell’emergenza Covid 19”. Nel 2014 Roberto Maroni si impegna ad introdurre, nel sistema sociosanitario lombardo, la valutazione della qualità delle prestazioni, dei servizi e del merito delle strutture erogatrici ( ospedali, cliniche private, ambulatori), il superamento del criterio di finanziamento basato sulla spesa storica e l’ obbligo di trasparenza dei dati di funzionamento del sistema a beneficio di operatori e pazienti. Anno 2020, Fontana presidente,  Cè chiarisce: “I dati aggregati sulla qualità delle prestazioni erogate e sui risultati dei controlli effettuati nonché i dati relativi ai reali bisogni dei cittadini lombardi, custoditi dall’ Osservatorio epidemiologico regionale, sono ancora secretati. Inoltre: “La valutazione del merito ( ” vendor rating ” del Libro bianco  ) delle strutture erogatrici di servizi e prestazioni sociosanitarie non è disponibile per i cittadini e non ha alcuna incidenza sulla fissazione dei budget di finanziamento annuale assegnati agli erogatori pubblici e privati, budget che vengono riconfermati sulla base della spesa storica”. La ciliegina sulla torta: nel  2014 la promessa di trattare tutti gli erogatori allo stesso modo richiedendo a ciascuno “la quantità e il mix delle specifiche tipologie di prestazioni come contributo al soddisfacimento del fabbisogno complessivo”.

Il risultato? Nel 2020 nulla di questo è avvenuto: gran parte della sanità privata prolifera nelle nicchie delle specialità più remunerative e il pubblico si sobbarca i settori più onerosi e sottofinanziati. Dovevano essere luoghi di programmazione, acquisto e controllo “delle prestazioni e dei servizi relativi ai bisogni dei singoli territori”. Nel 2020 invece accade che la Regione controlla la programmazione e ogni altra funzione delle ATS attraverso le nomine politiche di tutti i dirigenti apicali. Questo crea uno stridente conflitto di interessi fra programmazione e controllo, entrambi in mano saldamente al governo politico regionale. Nei fatti la Regione controlla se stessa.

Con quali ripercussioni? “In una spesa sociosanitaria dettata da un eccesso di offerta nei settori più remunerativi – spiega l’ex assessore regionale alla Sanità Cè –  rispetto ai reali bisogni, sottraendo risorse ad altri comparti in grande sofferenza come per esempio la prevenzione, l’emergenza-urgenza la cronicità e psichiatria”. Tutto cambia per non cambiare quindi ma l’aggravante per i cittadini che hanno creduto nella “rivoluzione dal sistema Cl a quello verde padano leghista” è che nel passaggio da Formigoni a Maroni/Fontana nulla è stato modificato nel sistema sociosanitario lombardo. “La gattopardesca riforma targata Maroni-Galli, non solo non ha migliorato il sistema ma addirittura lo ha reso più disfunzionale e vessatorio nei confronti dei cittadini-pazienti” precisa Cè. “Quello che oggi, però, non è più accettabile – conclude –  è la mancanza di assunzione di responsabilità del governo lombardo a guida Lega che, peccando di ignavia, continua a nascondere le proprie scelte, incolpando, al fine di occultare i propri evidenti fallimenti, l’ eredità negativa ricevuta dai precedenti governi Formigoni. Il perché è presto spiegato dal fatto che solamente la condivisione di questo modello, consolida l’ormai incancrenito potere in Lombardia”.

Gallera: “Ospedali privati da ringraziare per aver aperto stanze di lusso a pazienti ordinari”. Buffagni: “Vergogna, pazienti tutti uguali”. La frase dell'assessore al Welfare della Regione Lombardia scatena polemiche da parte di diversi esponenti di Pd e M5s. Il viceministro del Mise: "Non esistono pazienti di Serie A e di Serie B. Non dovrebbe neanche pensare certe cose". Scandella (Pd): "Quei letti sono stati pagati dal Sistema sanitario, non regalati". Il Fatto Quotidiano il 24 giugno 2020. Lombardia, per la campagna elettorale dell’assessore Gallera anche i finanziamenti dei rappresentanti della sanità privata. “Gli ospedali privati vanno ringraziati perché hanno aperto le loro terapie intensive e le loro stanze lussuose ai pazienti ordinari”. La frase dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, scatena polemiche da parte di diversi esponenti di Pd e M5s. Durante un talk online organizzato da Rcs Academy, l’esponente della giunta leghista guidata da Attilio Fontana ha parlato in questi termini della collaborazione offerta dalle strutture private della Lombardia durante la pandemia di coronavirus. La definizione di “pazienti ordinari” e quel ringraziamento per le “stanze lussuose” aperte, ha provocato la reazione del viceministro del ministero dello Sviluppo Economico, Stefano Buffagni: “Ma Gallera non si vergogna? Cosa significa “pazienti ordinari”? Queste non sono solo cose che un assessore al Welfare non dovrebbe dire… Non dovrebbe proprio pensarle. I cittadini sono tutti uguali. Non esistono pazienti di serie A e di serie B!”, ha scritto sul suo profilo Facebook. Tra i primi a replicare a Gallera c’era stato Jacopo Scandella del Pd, che aveva ricordato come “quei letti sono stati pagati dal Sistema sanitario, non regalati”. “Che il privato abbia un tetto massimo di spesa ma nessun vincolo o programmazione regionale sul tipo di prestazioni da erogare, più o meno remunerative, più o meno utili al territorio, è la prima cosa da cambiare – aveva aggiunto Scandella – Che poi pochi abbiano stanze lussuose e troppi liste d’attesa infinite, è la seconda”.

Gallera, intervenuto al dibattito La nuova sanità organizzato da Rcs, aveva anche parlato dell’alto numero di presidi ospedalieri in Lombardia come di “una ricchezza che ci ha aiutato” durante la pandemia “Ogni ospedale e ogni presidio deve continuare con la propria vocazione, anche in termini di posti letto che sono solo 3 ogni 100 abitanti – aveva detto ancora – L’insieme dei presidi ospedalieri della Lombardia ha tenuto, ma dobbiamo rallentare i tagli ai posti letto”.

Gallera straparla ma la sintesi è sincera: l’unica sanità buona in Lombardia è quella ceduta ai privati. Purtroppo. Marco Brando, Giornalista e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2020. “Il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le sue stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico”. Sembra una battuta tratta da un film di Paolo Villaggio. Potrebbe averla fatta il conte Piermatteo Barambani Megalom, direttore della mitica Megaditta. Lo stesso che dice a Fantozzi e Filini: “La mia famiglia siete voi poveracci. I miei cari inferiori! Sarebbero disposti a essere ospiti nella mia barchetta? (uno yacht su cui finiranno schiavizzati, ndr)”. Invece, no: l’affermazione è stata pronunciata da Giulio Gallera (Forza Italia), assessore lombardo alla Sanità. Certo, un po’ fa sorridere, amaramente. Eppure, al di là dell’ennesima frase infelice, gli va riconosciuta una sintesi sincera: l’unica sanità buona è quella ceduta ai privati, seppur foraggiata con soldi della comunità; con tanti saluti a quella pubblica, che dovrebbe essere garantita con efficienza a tutti i cittadini, a prescindere dalla loro presunta “ordinarietà”. L’assessore – braccio destro del presidente della Giunta regionale Attilio Fontana (Lega) sul fronte Covid-19 – ha pronunciato quelle parole il 24 giugno, durante la conferenza online intitolata “La nuova sanità: investimenti, spesa sanitaria e contributo alla Digital Health”. Ha detto: “Il sistema lombardo è un sistema unico e di grande eccellenza: ha messo pubblico e privato in un sistema di competizione e collaborazione. Vogliamo continuare su questa strada perché nella fase dell’epidemia il privato si è messo immediatamente a disposizione e con una grandissima capacità: è una grande forza perché il privato stimola il pubblico e questo ci rende più forti e attrattivi”. Poi, dopo aver sottolineato l’effetto taumaturgico e stimolante degli imprenditori privati, ha citato i “pazienti ordinari” generosamente ammessi nel lusso, allorché “gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid”. A parte il lato tragicomico delle affermazioni – fatte in una regione in cui il coronavirus ha provocato una strage ((alla data di oggi si contano quasi 17.000 vittime) su cui sta indagando la magistratura – l’intervento di Gallera conferma che la Giunta lombarda, guidata da decenni da berlusconiani e leghisti, non ha alcuna intenzione di cambiare linea. Eppure quel sistema (che risponde a un quadro legislativo in base al quale le Regioni programmano e gestiscono la sanità autonomamente) ha provocato un effetto palese: l’area più ricca e industrializzata d’Italia è stata la più tartassata dal virus in Europa. Nessuno, ovviamente, può sottovalutare lo straordinario impegno dimostrato da chi si è battuto contro la Covid-19 nelle strutture sanitarie, pubbliche e private, anche a rischio della propria vita. Tanto è vero che sono stati gli Ordini dei medici e la Federazione italiana del medici di Medicina generale (di famiglia) a sottolineare che c’è stato un baratro tra chi gestisce politicamente la sanità regionale e chi lavora negli ospedali, negli studi medici, nell’assistenza diretta e negli ambulatori. Il fatto è che il sistema sanitario lombarda, osannato per le prestazioni specialistiche, si è ingrippato al cospetto di un’epidemia: straordinaria, ma prevista, come eventualità, dagli esperti in Epidemiologia. Perché è successo? Proprio perché la sanità lombarda è stata impostata da anni nel modo di cui Gallera si vanta. In effetti, sono tantissime in Lombardia le strutture ospedaliere di alto livello: private, convenzionate con la Regione, o pubbliche. Però il virus ha messo in evidenza che non esiste più una valida organizzazione sanitaria di base e preventiva: quella che riduce i ricoveri ospedalieri. Si paga dunque il fatto che da più di vent’anni, cioè dall’ascesa ai vertici, nel 1995, di Roberto Formigoni (berlusconiano e ciellino, in sella fino al 2013) a oggi, in Lombardia più che altrove si è fatto di tutto per favorire la cura delle malattie molto redditizie (care ai fan della privatizzazione), trascurando o addirittura tralasciando la sorveglianza epidemiologica. Col risultato che nelle prime fasi della pandemia, e almeno fino al 2 marzo (altro che disponibilità immediata dei privati, è arrivata loro una richiesta…), le uniche strutture in prima linea sono state quelle pubbliche. Perché nessuna delle strutture private convenzionate col Sistema sociosanitario lombardo (SSL), finanziate con soldi pubblici, era pronta, malgrado esse rappresentino più della metà più degli ospedali in Lombardia (fino al 1997 erano in netta minoranza)? Maria Elisa Sartor, professoressa a contratto nel Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano, in un’intervista a Strisciarossa ha detto: “Tutto ciò è accaduto nella regione italiana che ha concepito la cosiddetta ‘partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia’ come fulcro ed elemento portante del suo modello. Invece per garantire la salute della collettività serve una vera sanità pubblica, ovviamente ben governata. Ma questa impostazione è proprio il contrario di quella sostenuta e varata dal 1997 in poi. Dobbiamo davvero augurarci che, dopo questa esperienza, venga cambiata drasticamente la rotta del sistema sanitario regionale lombardo”. Peccato che secondo l’assessore Gallera, e anche per il presidente Attilio Fontana e la sua giunta, tutto vada bene così com’è, con il sostegno dei vertici di Forza Italia e della Lega salviniana. Nell’attesa, un interrogativo sorge spontaneo: sarà casuale il fatto che nell’ultimo ventennio non ci sia stata una legislatura regionale risparmiata da inchieste su varie “mazzette sanitarie” e che Formigoni, “padre” del modello aziendalista, sia stato condannato definitivamente a 5 anni e 10 mesi proprio per un caso di questo genere? Forse, la risposta è “No”.

Coronavirus, il sindaco di Segrate pubblica i nomi dei morti in paese e attacca Fontana: "Davvero non avete fatto errori?" Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da La Repubblica.it Il sindaco di Segrate, Paolo Micheli, pubblica nella sua paginale Facebook i nomi della 218 vittime del coronavirus nel comune in provincia di Milano. Micheli, che sembra prendere spunto dalla pagina pubblicata dal New York Times di domenica, si rivolge così al presidente della Regione Attilio Fontana: "Ha dichiarato che “La Regione Lombardia non ha fatto errori” nella gestione dell'emergenza sanitaria. Con tutto il rispetto, signor Presidente, e anche comprensione, perchè si è trovato a gestire un periodo terribile, qui a Segrate siamo passati da 98 decessi di marzo-aprile 2019 ai 218 dello stesso periodo del 2020. Quante campane a morto abbiamo sentito, quante sirene delle ambulanze, signor Presidente". Micheli pubblica quindi l'elenco con il nome e l'iniziale del cognome di tutte le persone morte a Segrate in due mesi, specificando poi nei commenti che 31 sono i morti ufficiali per coronavirus, ovvero i decessi di persone a cui era stato fatto il tampone ed erano risultate positive, gli altri sono un aumento di decessi insolito per la media degli ultimi anni. E scrive: "Questo qui sotto non è solo un elenco, non sono solo numeri, sono parenti, amici e vicini di casa che sono morti". Da qui l'elenco dei nomi.

Coronavirus, il manifesto con i nomi dei 289 morti del paese: "Non vi abbiamo potuto dire addio, ma non vi dimentichiamo".  Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Lucia Landoni su La Repubblica.it A Busto Arsizio il sindaco lo ha fatto affiggere per strada: ci sono i nomi di tutte le persone morte da marzo a metà maggio anche non per il Covid ma che non hanno potuto avere un funerale. "Ve ne siete andati in silenzio e in solitudine. Non vi abbiamo potuto dire addio, ma non vi abbiamo dimenticato. Siete sempre con noi": è la frase che appare sui manifesti con cui l'amministrazione comunale di Busto Arsizio (nel Varesotto) ha voluto ricordare i 289 cittadini defunti durante il periodo del lockdown, per Covid-19 e per altre cause. "Per la nostra cultura è anomalo non poter salutare i propri cari partecipando al loro funerale - sottolinea il sindaco Emanuele Antonelli - Dal 1° marzo al 18 maggio sono scomparse quasi 300 persone a Busto. Io ho partecipato, da solo e a nome della cittadinanza, ad alcune cerimonie di commemorazione durante il lockdown ed è stata per quanto mi riguarda l'esperienza più straziante di questo periodo di per sé orribile". Da qui la decisione di affiggere per le strade della città manifesti che elencano i nomi di "chi non c'è più, non ha avuto un ultimo saluto e in molti casi se n'è andato in solitudine a causa del coronavirus - continua il primo cittadino - Per le famiglie che hanno perso una persona cara nelle scorse settimane il dolore è stato ulteriormente amplificato dall'impossibilità di partecipare al funerale. Così abbiamo voluto dimostrare loro la vicinanza dell'intera amministrazione comunale e sensibilizzare la cittadinanza". Per lo sfondo del manifesto è stata scelta un'immagine della Madonna dell'Aiuto, molto venerata dai bustocchi nel santuario cittadino di Santa Maria di Piazza: "Secondo la tradizione, già una volta fermò un'epidemia che aveva colpito la città, la peste del 1630" conclude Antonelli.

Rivendicato il murale contro Fontana: «Noi del “Carc” ne faremo altri». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it. «Le scritte murarie sono i nostri strumenti rivendicativi da sempre, ne faremo altre, noi faremo altre scritte contro Fontana, ma non solo quelle». Così due rappresentanti del «Partito dei comitati di appoggio alla resistenza - per il Comunismo» (Carc), Pablo Bonuccelli e Claudia Marcolini, hanno rivendicato, in una videoconferenza stampa, il murale con la scritta «Fontana assassino» comparso nei giorni scorsi lungo il Naviglio, in zona Crescenzago, a Milano. E hanno detto di essere pronti ad altre azioni di questo genere. Sulla scritta la Procura ha aperto un’inchiesta per minacce e diffamazione. Indagine che, a detta dei due rappresentanti del Carc, è un «modo per terrorizzare, per ridurre al silenzio e alla paura dell’autorità, è una rappresaglia». Bonuccelli e Marcolini nella conferenza stampa hanno ribadito le affermazioni già diffuse in un precedente comunicato, parlando di «gestione criminale dell’emergenza sanitaria, di cui sono responsabili il governo centrale e le giunte regionali, con picchi di malagestione in Lombardia». E ancora: «La scritta “Fontana assassino” è firmata dal Carc, ma non è la scritta del Carc, è la scritta di tutti». In caso di condanna, hanno detto ancora, «ci consegneremo in carcere, prima affronteremo il processo da accusatori e non da accusati, per ora non abbiamo ricevuto alcun avviso di garanzia».

Attilio Fontana "assassino", il virologo Pregliasco "complottista venduto": Lombardia sotto choc, insulti e minacce da sinistra. Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. Il governatore Attilio Fontana "assassino", il virologo Fabrizio Pregliasco "complottista e venduto". Entrambi insultati da quella Lombardia "civile e democratica" che protesta sempre e comunque contro la giunta regionale di centrodestra. Un nuovo vergognoso murales è comparso nelle scorse ore contro il politico leghista, a Crescenzago lungo il naviglio della Martesana. La firma, con tanto di falce e martello, è ancora una volta quella degli antagonisti, che le scorse settimane avevano realizzato un altro "capolavoro" simile (rivendicato dai marxisti-leninisti dei Carc) e che avevano peraltro annunciato: "Lo faremo di nuovo e meglio". Ogni promessa è debito, evidentemente. Ma nel mirino, stavolta di qualche testa calda, ci è finito anche il virologo Pregliasco che aveva criticato i giovani per le eccessive libertà della movida in Fase 2. La sua colpa, è la difesa di Fontana, è solo quello di "dare una corretta informazione" su quanto sta avvenendo in Lombardia.

Monica Serra per “la Stampa” il 5 giugno 2020. “Ci sono tanti modi per morire». Una minaccia violenta. Una delle tante scagliate contro Attilio Fontana in queste settimane. Parole feroci, messe nero su bianco in una lettera piena di errori di ortografia e priva di punteggiatura che un anonimo ha inviato all' indirizzo del governatore della Regione Lombardia. In un passaggio della lunga missiva, scritta a penna in un italiano sgrammaticato, si legge: «Non si muore solo per il virus ma poco importa un omicidio vale l' altro. Ci sono tanti modi per morire». Accuse di ogni genere, intimidazioni cariche di odio raccolte dal legale del governatore, l' avvocato Jacopo Pensa, in un dossier depositato ieri mattina in procura. Le trenta pagine, con altrettanti allegati, intitolate "Clima di odio", che raccontano il crescendo di violenza, cavalcata dalle opposizioni politiche, sono finite sulla scrivania del pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo della procura di Milano, che da tempo ha aperto un fascicolo per minacce aggravate e diffamazione. Tutte queste intimidazioni hanno reso necessaria la tutela per il presidente della Regione, che da dieci giorni vive sotto scorta, con un agente di polizia che gli guarda le spalle, su decisione della prefettura di Varese, città in cui risiede e di cui è stato sindaco. Nel dossier ci sono decine e decine di minacce comparse nelle ultime settimane sui social, che non risparmiano neanche alla famiglia del governatore, oltre alle lettere anonime e ai murales, almeno due, con la scritta: «Fontana Assassino» spuntati nelle periferie milanesi e rivendicati dai Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo, nel corso di una conferenza stampa. In un' altra lettera anonima depositata dal legale si paventa «un incidente stradale occasionale» per Fontana. Questa atmosfera, sostiene l' avvocato Pensa, «è stata creata da chi aveva interesse a fomentare un' ostilità feroce contro Fontana» per la gestione dell' emergenza coronavirus. Un «clima di odio che ha portato anche ad altre scritte sui muri con epiteti feroci». Tra i messaggi, molti scritti dai profili Facebook, non mancano intimidazioni esplicite: «Devi morire, devi morire come loro», ossia i morti nelle case di riposo. Il presidente lombardo, ha concluso il legale, per il suo ruolo, soprattutto in questo periodo, «è consapevole di poter essere oggetto di critiche politiche e le accetta. Ma quando gli si dà dell' assassino le cose cambiano». Tutto il materiale è ora nelle mani dei carabinieri del Nucleo Informativo e della Digos che da tempo indagano per identificare gli autori delle minacce.

CRISTINA BASSI per il Giornale il 16 giugno 2020. Sono stati iscritti sul registro degli indagati i sei antagonisti che la Procura di Milano ritiene essere gli autori delle frasi sui muri comparse nelle scorse settimane contro Attilio Fontana e poi anche contro Giuseppe Sala. Si tratta di due esponenti dei Carc e quattro membri del centro sociale Zam. Il pool anti terrorismo, guidato dal pm Alberto Nobili, ha aperto un fascicolo per diffamazione e minacce aggravate. In particolare i due esponenti dei Carc (Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo) sono accusati nelle indagini condotte dalla Digos di aver realizzato il murale con la scritta «Fontana assassino» sul Naviglio della Martesana. I presunti autori sono stati inoltre denunciati per imbrattamento dal proprietario del muro. Il graffito era firmato con la sigla di estrema sinistra e successivamente è stato rivendicato in una conferenza stampa in video da due rappresentanti dei Comitati. Altre scritte simili sono comparse nei giorni seguenti. Le minacce e gli insulti sono stati replicati, in forma anonima e firmati, in post sui social e lettere inviate al governatore della Lombardia e alla sua famiglia. Tanto che il legale di Fontana, l'avvocato Jacopo Pensa, nei giorni scorsi ha consegnato in Procura un dossier intitolato «Clima d'odio» in cui ha raccolto tutti i messaggi di questo tipo, molti dei quali fanno riferimento alla gestione della Regione dell'emergenza Coronavirus. Ancora, nella notte tra il 5 e il 6 giugno in un sottopassaggio in zona Chiesa Rossa è spuntata la scritta «Fontana assassino, Sala zerbino». Anche il sindaco quindi è parte offesa nell'inchiesta. Per questo ulteriore murale, lungo una decina di metri e subito cancellato, sono considerati responsabili quattro giovani che frequentano lo Zam, bloccati da una Volante la notte stessa poco lontano dal muro imbrattato. Sono stati appunto identificati e sono indagati. Le verifiche sono ancora in corso, sarebbero stati infatti una quindicina gli antagonisti presenti nel sottopassaggio quella sera. «Apprendo - ha scritto ieri Fontana su Facebook - che la Procura della Repubblica di Milano, sezione antiterrorismo, ha iscritto nel registro degli indagati i primi responsabili del clima di odio che sta turbando le nostre vite. Le regole costituzionali della democrazia e del dialogo non possono essere violate da pochi fanatici che ignorano la verità, fomentando la violenza nelle nostre strade». Il governatore lombardo ha poi citato le parole del poeta Carlo Porta, di cui ieri ricorreva l'anniversario della nascita. «Le parole di un linguaggio, sono una tavolozza di colori, che possono fare il quadro brutto, e lo possono fare bello secondo la maestria del pittore. Le parole di odio sono sempre un pessimo quadro, da non esporre mai. Noi in Lombardia dobbiamo dipingere un futuro di crescita e lavoro». Intanto ieri si è saputo, l'anticipazione è dell'Agi, che la Procura di Bergamo procede per omicidio colposo a carico di ignoti in relazione alle denunce presentate il 10 giugno dai familiari delle vittime riuniti nel comitato «Noi denunceremo» e guidati da Consuelo Locati e Luca Fusco. Negli esposti si fa riferimento, tra l'altro, alla mancata Zona rossa in Val Seriana, alla mancata chiusura dell'ospedale di Alzano Lombardo e agli errori nel non prevenire il disastro in queste aree della regione. Si accusano la Regione e il governo. Le indagini valuteranno comunque ogni decesso in modo autonomo, sebbene i casi presentino molte analogie, e non è detto che si arrivi a esiti uguali fra loro. Epidemia colposa è invece l'ipotesi di reato su cui indagano i pm di Bergamo coordinati dall'aggiunto Maria Cristina Rota a proposito della scelta di non istituire la Zona rossa per cui sono stati interrogati i vertici regionali e dell'esecutivo. I due filoni sono distinti e l'ipotesi di omicidio colposo (articolo 589 del Codice penale), a differenza dell'epidemia colposa (articolo 452), permette di procedere anche per condotte «omissive».

Minacce ad Attilio Fontana: presidente Lombardia messo sotto scorta. Sheila Khan il 27/05/2020 su Notizie.it. La prefettura di Varese ha deciso di assegnare una scorta al governatore lombardo Attilio Fontana in seguito alla minacce ricevute sul web e non solo. Il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, è stato messo sotto scorta, dopo aver ricevuto numerose minacce. L’ha deciso la prefettura di Varese, in seguito ai numerosi messaggi ricevuti sui social e alle scritte apparse sui muri contro il governatore lombardo. Fontana è accusato di aver gestito male l’emergenza sanitaria legata al coronavirus in Lombardia. La paura della prefettura è che dalle minacce si possa passare a gesti violenti nei suoi confronti. Il presidente Fontana ha ricevuto nelle ultime settimane minacce sui social e non solo. Nella città di Milano, zona Crescenzago, è comparso un murales con la scritta “Fontana assassino”, rivendicato poi dai Carc (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo). Intorno alla figura del governatore lombardo si è creato un clima di tensione, che ha portato la Digos e l’antiterrorismo ad avviare un’indagine sugli autori delle minacce. La prefettura di Varese, nel frattempo, ha deciso di affidare una scorta al governatore Fontana, per il timore che dalle minacce si possa passare ai fatti o ad atti violenti nei suoi confronti. Da circa due giorni un’auto con un agente segue il governatore lombardo, come prevede il provvedimento “di quarto livello”. Dimostrazioni di solidarietà al governatore sono arrivate da diversi esponenti politici, tra cui Giuseppe Sala, sindaco di Milano. Lo stesso Fontana ha parlato di un clima “avvelenato e anti-lombardo”, che si concentra sulla sua figura. La rabbia e lo scontento delle persone vengono dalla gestione dell’emergenza sanitaria in Lombardia, considerata fallimentare e confusionaria.

P.C. per “la Stampa” il 28 maggio 2020. La scorta al governatore della Lombardia raccontata ieri dal nostro giornale è il termometro di un livello di tensione sociale che inquieta probabilmente più le Prefetture che lo stesso Attilio Fontana, uomo mite e ragionevole. Il quale anche ieri ostentava tranquillità: «Non pensavo di finire sotto scorta ma per me non cambia nulla, il mio lavoro continua». Ma dietro la calma apparente dell' uomo più importante del Pirellone, che ieri ha incassato una solidarietà bipartisan e anche quella del Presidente della Repubblica che gli ha telefonato annunciandogli l' arrivo a Codogno per il 2 giugno, si nasconde il timore di un diffuso sentimento «di odio». E non soltanto spontaneo o dovuto a gruppuscoli di estremisti come i Carc, autori delle scritte comparse sui muri di Milano e ieri presenti alla manifestazione, non di rado assai tesa, organizzata proprio sotto il palazzo della Regione. «Nelle ultime settimane - spiega Fontana - è stato sparso tanto veleno per scopi politici». Che, secondo il suo entourage, sarebbero stati ispirati direttamente da Roma. Alla quale non si perdona di «aver deciso di mettere sotto stress la Lombardia quando ancora era in piena emergenza virus». E dove si continuerebbe tutt' ora a soffiare sul fuoco, con articoli di stampa ultra critici e una regia ben orchestrata di denigrazione sub governativa diffusa. E del resto, le parole del segretario della Lega in Lombardia, Paolo Grimoldi sono esplicite. Gli attacchi a Fontana sarebbero il frutto di una «campagna diffamatoria di esponenti del M5S e del Pd», sono cioè i «partiti che rappresentano il governo nazionale ad aver gettato benzina sul fuoco delle polemiche e delle tensioni, come certi organi di stampa a loro vicini». Insomma, più che l' odio "social" si teme l' eterno complottone romano. D' altronde il racconto del disastro sanitario lombardo ai piani alti della regione si tramuta nella narrazione di uno "tsunami" che avrebbe travolto qualunque tipo di organizzazione sanitaria al mondo. E che la Lombardia sia stata la regione tra le più colpite del pianeta è un dato di fatto, così come è vero però che diverse cose non abbiano funzionato, a partire dalla medicina di base per finire con i test sierologici. Il mantra ripetuto è «non abbiamo sbagliato niente». Concetto che di fronte ai 15 mila 954 morti contati fino a ieri per coronavirus, suscita non poche perplessità anche tra i più benevoli sostenitori. Ma da qui alle minacce fisiche passa però un insuperabile barriera di civiltà.

Dagoaspia il 28 maggio 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Abbiamo rivendicato la scritta Fontana assassino, certo. Incita all’odio? Ma quindicimila morti cosa sono? Incitamento a cosa?”. Così Pablo Bonuccelli, uno dei leader dei Carc, il partito dei comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo, a La Zanzara su Radio 24 giovedì scorso. Poi qualche giorno fa la decisione di dare la scorta al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana.

Ma non li ha uccisi lui, dicono i conduttori: “Ma chi è che ha fatto la delibera che ha mandato i malati di Covid nelle Rsa?”. “Non vi piace la falce e martello – dice Bonuccelli -  vi inquieta un pochino, eh? Voi la radio dei padroni di Confindustria? Eh, ci credo che voi altri non capite sta roba. Vi faccio la domanda contraria. Perché non assassino?”. Vuoi dire che è un criminale?: “Si, certo”.

Qualcuno potrebbe pensare: questo ha fatto fuori 15.000 perone, facciamolo fuori?: “Anche voi dite un sacco di stronzate, ma mica siete responsabili di quello che fanno gli altri ascoltando la vostra trasmissione”. Pensa alle stronzate che dici tu: “Io mica ho ammazzato nessuno. Mica l’ho firmata io l’ordinanza delle rsa. Voi che siete la radio dei padroni sembrate una radio di inetti. E’ semplice da capire. Qualcuno ha la responsabilità di aver mandato dei malati di Covid nelle rsa. In questa regione sono morte complessivamente più di  15.000 persone. E’ il 5% dei morti mondiali. Di che cazzo state parlando?”.

Stai dando dell’assassino a un presidente di una regione: “Sto dicendo che qua ci siamo rotti il cazzo di pagare delle persone che hanno smantellato il servizio sanitario pubblico, che dimenticano 15.000 morti dicendo non ho sbagliato niente, che campano su milioni di persone che pagano le tasse, cioè i loro stipendi, pensano che sia tutto una grande barzelletta”.

Ma tu ti dichiari comunista, il comunismo ha ammazzato un sacco di persone: “No, non ti ammazziamo, Cruciani, ti mandiamo a lavorare che per te forse è la stessa cosa perchè ti fa cagare lavorare. Esattamente come Fontana e sta cricca di parassiti, che non si alza la mattina per lavorare. In un paese normale, non dico nella Russia sovietica dove ci sono stati livelli di civiltà mai raggiunti, lo sviluppo dell’umanità, oggi sarebbe alle misure cautelari.  Formigoni che è fascista come Fontana, ha fatto tre settimane di galera. Eppure lui è andato in galera per corruzione nella sanità”.

Ma parli tu che non credi nella democrazia, da comunista: “Io non credo nella democrazia? Costituzione alla mano io dico quel cazzo che voglio”. Uno che scrive Fontana assassino con la falce ed il martello è soltanto un coglione: “Scusa, ma tu mi hai chiamato per darmi del coglione?”. Esatto, anche. Ti sto soltanto facendo capire che sei un coglione. E legittimi qualcuno a  colpire Fontana:  “No. Se io scrivo assassino, sollecito la magistratura a fare il suo lavoro”.

Tu vorresti  Fontana al muro e non hai il coraggio di dirlo? E elogi l’Unione Sovietica: “L’Unione Sovietica era un grande paese, una grande cosa. Tu parli di vergogna dell’Unione Sovietica, ma tu non sei niente. Era un paese dove governavano i lavoratori. Questa cosa ti terrorizza, e lo capisco. Ci vuole la giustizia di classe, cioè giustizia di tutte quelle persone che vanno a lavorare e non vengono pagate per il lavoro che fanno che devono mantenere una cricca di parassiti maiali come Confindustria che ti paga per dire queste stronzate. Tu sei pagato con il lavoro di migliaia di operai che vengono pagati 1400,00 euro al mese. Ti pagano per fare sta scenetta telefonando a chi si fa i cazzi propri?”. Dovresti solo scusarti della cazzata che hai scritto: “Non ci scusiamo di un cazzo di niente. Ma tu pensi che io chieda scusa in una trasmissione di beoti che non sanno neanche di che cosa parlano?”

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 Maggio 2020. Caro Dago, quel “comunista” da operetta del terzo millennio che il mio amico Peppino Cruciani ha giustamente squadernato nella sua galleria radiofonica dedicata ai mostri contemporanei, di per sé non meriterebbe neppure una pernacchia, un commento troppo elevato rispetto al suo standard intellettuale. E’ un cretino e basta, uno capace di esibizioni di serie C di cui il governatore Fontana Attilio non ha neppure da lustrarsi le scarpe. (Di cretini come lui era zeppa la mia generazione e ne vennero gli assassini delle Brigate rosse e gruppi similari, a cominciare da quei due Cretini Massimi che uccisero alle spalle il nostro Walter Tobagi pur di fare carriera nel terrorismo rosso e che si “pentirono” trenta secondi dopo essere stati catturati). C’è però un’osservazione da fare. Se tali porcate, mutato quel che è da mutare, le avesse pronunciate uno di destra, un neo-nazi o qualcosa del genere, di certo si sarebbero levate alte le proteste dell’Anpi, qualche antifascista a tutto tondo avrebbe invocato all’allarme e alla pugna contro il pericolo di destra, eccetera eccetera. Ci sarebbero stati appelli, dichiarazioni, post frementi di indignazione. Nessuno avrebbe detto quel che sto dicendo io del prode Pablo Bonuccelli, che è solo un cretino e che deve essere disperante la solitudine di un tale cretino.

Sanità lombarda, comincia la cura Trivelli. In terapia intensiva c’è finito il Pirellone. Il nuovo direttore generale al Welfare punta sul rapporto tra medici di base e specialisti. Irene Panighetti su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2020. Guarda al futuro Marco Trivelli, che da quest’oggi è formalmente nuovo direttore generale al Welfare in Lombardia, in sostituzione di Luigi Cajazzo che è stato designato invece come vicesegretario della Regione con delega all’integrazione sociosanitaria. Guarda al futuro sebbene sia un uomo del vecchio sistema: come abbiamo già ricordato Trivelli, di Comunione Liberazione da quando ha 13 anni (come lui stesso ha rivendicato al Corriere della Sera) è cresciuto alla scuola del direttore generale Carlo Lucchina, nella lunga epoca di Roberto Formigoni. Ma lui garantisce, sempre al Corriere, di aver incontrato il Celeste solo una volta e di non aver «mai frequentato i Big Boss della politica né mai ricevuto pressioni di nessun tipo»; Trivelli preferisce definirsi come «un uomo del popolo e un contabile della sanità pubblica che deve e può cambiare». Ma cosa significa in concreto, in quale direzione cambiare? Le parole d’ordine, nelle sue intenzioni, sono: territori e collaborazione. Quindi rilancio delle attività ambulatoriali e della figura del medico di base poiché per tre mesi le prestazioni e le cure di routine e quelle della cronicità sono state sospese e ora si deve riprogrammare tutto con modalità nuove che sperimentano possibili mezzi e piani per evitare il contagio da Covid-19. In questa riorganizzazione dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale il rapporto tra medici di base e specialisti, che è stato uno dei grandi nodi, mai sciolti, della riforma della sanità lanciata ormai anni fa e che puntava sull’integrazione ospedale-territorio. Un piano quinquennale che ad agosto arriva alla prima verifica e difficilmente ne uscirà senza pesanti critiche. Perché l’emergenza sanitaria caduta tra capo e collo da fine febbraio ha dimostrato proprio questo: l’organizzazione della medicina territoriale non ha funzionato, alla faccia della riforma Maroni che l’aveva messa tra i propri obiettivi principali. I medici di base si sono trovati soli nella gestione dei pazienti, denunciando spesso di esser stati abbandonati dal sistema, lasciati in balia di scelte drammatiche di fronte a mezzi del tutto inadeguati per salvare vite. Trivelli se ne rende conto e quindi dichiara pubblicamente di voler impegnarsi a fondo per la gestione dei guariti da Covid-19 ma che necessitano ancora di assistenza; così come per la ricerca e lo sviluppo della prevenzione di una malattia che, come lui stesso ha ammesso, ancora non conosciamo: «dobbiamo capire qual è l’evoluzione, se ci possono essere conseguenze permanenti. Dobbiamo monitorarli, uno a uno». Come? È proprio qui sta una delle grosse incognite, perché il passato molto prossimo (anzi, ancora quasi presente) del sistema lombardo non offre certo modelli cui ispirarsi. La presunta eccellenza della sanità lombarda ormai è stata messa a nudo, per questo è difficile avere fede. Non ne hanno affatto i componenti né i simpatizzanti del comitato “Noi denunceremo”, realtà che mercoledì scorso ha organizzato un “denuncia day” a Bergamo, in occasione della consegna delle prime 50 denunce alla Procura che sta indagando sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano il 23 febbraio (si accertarono due contagi ma per la struttura venne deciso un arresto per sole due ore) nonché sulla non istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro; un’indagine che, secondo alcune indiscrezioni trapelate, ci sarebbero due iscritti nel registro degli indagati. Il Comitato è sul piede di guerra e non si ferma, anzi: entro fine mese ha annunciato il deposito di altri 100 fascicoli in Procura, e l’avvocata Consuelo Locati, che segue la vicenda, ha dichiarato alla pagina locale de “Il Giorno”: «a livello politico, stiamo assistendo ad un rimpallo delle responsabilità. La zona rossa ad Alzano e Nembro poteva essere istituita anche dalla Regione Lombardia e dai sindaci, lo stabilisce la legge 833 del 1978, articolo 31, comma 3: la legge in questione conferisce alle Regioni questo potere decisionale e prima ancora ai sindaci. Non si tratta di un’opinione, ma di una legge dello Stato. Siamo convinti che se si fosse intervenuti in tempo, si sarebbe evitata questa strage». Le accuse e le ipotesi di reato del Comitato sono pesantissime e le richieste nette: «chi ha sbagliato deve pagare». Pagare dal punto di vista giudiziario ma anche da quello politico: questa necessità arriva ormai da ampi settori dell’opinione pubblica e della società civile lombarda, sui social ma, ora che è possibile, anche nelle piazze. Sabato a Milano è prevista una mobilitazione massiccia e le iniziative che si stanno organizzando sono ben due: da un lato il presidio in piazza Duomo promosso dalla rete Milano 2030, inserito nella campagna dei fiocchetti neri sulle mascherine a simbolo della richiesta di commissariamento della Lombardia e le conseguenti dimissioni del suo governo. Dall’altro, soggetti più legati al movimento milanese, da sindacati di base a centri sociali, hanno indetto una mobilitazione sotto il Pirellone, per chiedere sì verità ma anche, se non soprattutto, giustizia sociale nel modello sanitario, sia in quanto sistema sia in quanto mondo del lavoro.

I migranti abbandonati dalla sanità lombarda, salvati dagli ambulatori dei volontari. Hanno il permesso di soggiorno scaduto o una richiesta d’asilo respinta. Non possono né rientrare in patria né restare in Italia. Hanno il diritto alle cure ma alcune regioni si rifiutano. E a loro pensa solo l’associazionismo. Marialaura Iazzetti il 17 giugno 2020 su L'Espresso. Nome: Abdul. Cognome: Kemal. Numero STP02011104. Che il nome sia vero non importa. Il codice significa: accesso alle cure, chiunque tu sia. La Costituzione lo garantisce, ma in molti non lo ricevono. Invisibili. Senza una casa, un lavoro, un’assistenza sanitaria. Per lo Stato non esistono. Sono sudafricani, iraniani, latinoamericani a cui è scaduto il permesso di soggiorno o a cui è stata respinta la richiesta di asilo. Irregolari, fantasmi. Prima, durante e dopo l’emergenza Covid-19. Non possono ammalarsi. In Italia sono più di 600 mila i migranti che non hanno nessuna forma di protezione internazionale. Solo Milano ne accoglie 49 mila. Legalmente non possono avere le tutele che spettano ai cittadini. E spesso chi non ha il permesso di soggiorno si cura autonomamente, affidandosi ad associazioni di medici volontari. A Milano ne esistono una quindicina. In via dei Transiti c’è l’Ambulatorio medico popolare. «Quando abbiamo aperto nel 1993, pensavamo di mettere su una struttura temporanea. Credevamo che prima o poi la sanità pubblica si sarebbe impegnata ad assicurare le cure anche a chi non ha una tessera sanitaria, come prevede la legge. Dopo 25 anni invece siamo ancora qui», spiega Sandra, operatrice dell’Ambulatorio popolare. Teoricamente gli irregolari hanno diritto a essere visitati e presi in carico dagli ospedali. Non hanno un medico di base, ma possono accedere all’assistenza medica tramite il pronto soccorso. La legge Turco-Napolitano del 1998 (inserita poi nel Testo Unico sull’immigrazione) stabilisce che gli debbano essere garantite «le cure urgenti, essenziali e continuative». Una definizione generica che permette di far rientrare in questa casistica praticamente qualsiasi malattia: dal raffreddore alla polmonite. «Al paziente viene assegnato un codice fiscale fittizio, chiamato Stp (Stranieri temporaneamente presenti), per registrare la prestazione medica. Poi viene visitato gratuitamente», aggiunge Sandra. Il codice dura sei mesi e può essere rinnovato all’infinito. Ogni regione ha un protocollo diverso. Il governo ha soltanto indicato delle linee guida da seguire. «Il problema è che molti ospedali qui in Lombardia non garantiscono l’erogazione dell’Stp e rimandano gli stranieri dai volontari», continua Sandra. Come ha potuto verificare l’Espresso, all’accettazione del pronto soccorso, invece di compilare i moduli per il codice fiscale temporaneo, il personale scrive su un’impegnativa l’indirizzo dell’ambulatorio a cui recarsi, consegna il foglio e suggerisce al paziente di andare lì, se vuole ottenere una visita. La questione a volte è politica: ogni regione ha un suo indirizzo. Ma altre volte è soprattutto economica. Gli ospedali hanno paura di non ottenere i rimborsi statali per le prestazioni fornite gratuitamente agli irregolari. Una situazione che esiste da anni, ma che nell’ultimo periodo si è aggravata, da quando il governo Gentiloni ha predisposto che i risarcimenti fossero di competenza regionale, e non più del ministero degli Interni. Senza documenti, senza medico di base, chi arriva al pronto soccorso viene spedito alle associazioni di volontari. Il problema non è legato soltanto alla sporadicità con cui viene applicata la procedura Stp: questo sistema, nella realtà dei fatti, non funziona anche perché è efficace solo per le pratiche ambulatoriali di emergenza, quando ci si rompe un braccio ad esempio. Chi deve essere seguito in modo costante non può far altro che rivolgersi altrove. L’Ambulatorio medico popolare è aperto il lunedì e il giovedì. Fuori dal portone rosso c’è sempre coda. «A venire da noi sono soprattutto malati cronici, che devono avere cure continuative e non una visita sporadica al pronto soccorso. Sono diabetici, cardiopatici, che altrimenti non saprebbero come eseguire i controlli e ricevere i farmaci di cui hanno bisogno», dice Giulia, una specializzanda in medicina interna che lavora come medico volontario. Da anni i dottori dell’Ambulatorio popolare seguono chi si sente abbandonato, solo. Salvaguardano la dignità umana. L’hanno fatto anche durante l’epidemia da Covid-19.«Quando è iniziato il lockdown ci siamo chiesti: rimanere aperti o chiudere? Abbiamo deciso di andare avanti», racconta Andrea, volto storico dell’Ambulatorio popolare. È lui a organizzare le visite con i pazienti. Mai come durante questi ultimi mesi i migranti irregolari dovevano avere un punto di riferimento a cui rivolgersi se ne avessero avuto bisogno. Ammette: «Ci aspettavamo di avere un’affluenza maggiore, ma non è stato così». Chi risiede illegalmente in Italia si è rifugiato dove poteva per paura di venire fermato dalle forze dell’ordine ed espulso. Anche chi accusava sintomi legati al coronavirus ha preferito rimanere nascosto. «Alcuni sono finiti in ospedale quando era già troppo tardi», aggiunge Giulia. Come tanti specializzandi, dall’inizio dell’epidemia è stata spostata nei reparti di pneumologia. Lì ha visto ammalarsi tutti, uno dopo l’altro. Anziani, giovani, italiani, stranieri. Non è difficile ipotizzare che chi vive in condizioni precarie sia stato un veicolo di diffusione del virus. Non c’è stato nessun monitoraggio, nessuno sforzo da parte delle istituzioni per spiegare a queste persone che cosa stesse accadendo. «Sono stati abbandonati, di nuovo. Ho visitato persone che avevano tosse, febbre. Gli ho detto di limitare i contatti con gli altri», ricorda Andrea. Mentre parla abbozza un sorriso, quasi per sconforto, e aggiunge: «Come si fa a dire a queste persone di non stare vicino a nessun altro?». Chi non ha permesso di soggiorno abita in case fatiscenti con altri sette o otto compagni. Mangia male, si ammala più facilmente. A differenza di quanto si possa pensare, la maggior parte dei migranti irregolari prima di arrivare in Italia gode di un’ottima salute. Peggiora qui lavorando e vivendo in condizioni precarie. Avrebbero bisogno di un medico di base, ma la legge non lo permette. Sono reclusi, esclusi. Cercano farmaci, ma se non ci fossero le associazioni di volontari non saprebbero dove reperirli. «Alcune farmacie li consegnano gratuitamente», racconta Andrea. In altre regioni sono gli enti pubblici a occuparsene. Non in Lombardia, dove l’assistenza è del tutto insufficiente. Il governo nel 2013 ha siglato un accordo con alcune regioni per migliorare l’accesso alle cure di chi è senza permesso di soggiorno e ha proposto di creare sui territori ambulatori pubblici dedicati alla sola assistenza degli irregolari. L’intento di Palazzo Chigi era alleggerire il pronto soccorso facendo in modo che fossero queste nuove strutture a erogare il codice fiscale fittizio, fondamentale per ottenere visite gratuite. In Campania ne esistono 50, in Piemonte 13, in Emilia Romagna 15. La Lombardia ha deciso di non recepire totalmente l’accordo e di non costruire altri ambulatori pubblici, oltre a quello dell’ospedale San Paolo nato qualche anno prima. «Qui l’amministrazione ha demandato tutto alle organizzazioni di volontari, chiedendo loro di fornire l’Stp. Noi ci siamo rifiutati: vogliamo che la giunta si prenda le sue responsabilità», accusa Sandra, i suoi occhi sono stanchi. L’Ambulatorio medico popolare sta combattendo da anni. Deve essere la sanità pubblica a occuparsi di chi non ha nulla: la regione dovrebbe garantire i risarcimenti e gli ospedali non dovrebbero rifiutarsi di applicare le procedure. Sono tante le associazioni che seguendo l’esempio di Sandra, Andrea, Giulia hanno deciso di non farsi carico della compilazione dell’Stp. Una scelta politica, scomoda. Legata alla tutela del diritto alla salute. Queste strutture sanno di non poter dare un’assistenza a 360 gradi: mancano i macchinari per effettuare gli esami diagnostici, i farmaci sono pochi, le difficoltà tante. «Spesso sono proprio i medici di queste realtà a mandarmi i pazienti. Un circolo vizioso: le persone vanno al pronto soccorso, poi vengono mandate alle associazioni di volontari e alla fine arrivano qui», racconta il dottor Livio Colombo, che da anni gestisce il centro dedicato alle visite per stranieri irregolari dell’ospedale San Paolo. L’unica organizzazione pubblica, insieme al Niguarda, a garantire a chi non ha la tessera sanitaria ciò che gli spetta. Il modello è quello che l’accordo Stato-Regioni del 2013 voleva diffondere su tutto il territorio nazionale e che la Lombardia non ha intensificato. Appoggiandosi a un ospedale, l’ambulatorio del San Paolo riesce a garantire visite specialistiche, prescrizioni e sostegno continuo. Da quando ha aperto nel 2007, ogni settimana ci sono una cinquantina di persone. Colombo conosce i suoi pazienti per nome. Dice: «Dovrebbero esserci più luoghi come questo». Durante l’emergenza Covid-19 la sua struttura ha dovuto chiudere. «La possibilità di contagio era troppo alta. Non sapevamo come fare». Ancora una volta è stato il mondo del volontariato a prendersi cura degli irregolari. Il rischio è che, con le riaperture, queste zone d’ombra diventino luoghi di diffusione del contagio. Anche per questo motivo, il governo ha approvato la regolarizzazione proposta dalla ministra dell’agricoltura, Teresa Bellanova. Bisognerà vedere quanto sarà efficace. Dal 1986 fino al 2012 sono 1 milione e 600 mila gli stranieri senza permesso di soggiorno che hanno beneficiato delle sanatorie. I numeri potrebbero continuare a crescere: se non cambierà il sistema di accoglienza, ci sarà sempre bisogno di regolarizzazioni forzate. Al Naga, uno degli ambulatori milanesi, nella sala d’attesa c’è una grande cartina. Alcuni Paesi sono più sbiaditi di altri. L’Africa subsahariana e il Marocco quasi non si riconoscono. I pazienti li indicano quando raccontano agli altri da dove arrivano. In questi mesi quella sala è stata praticamente vuota. Adesso, con l’allentamento delle restrizioni, si ricomincerà ad affollare. Ecco: il ritorno alla normalità.

La sterzata di Fontana dopo il disastro nella gestione del Covid: stop alla votazione sul Piano Sociosanitario. E Gallera è in bilico. Andrea Sparaciari per businessinsider.com il 15 giugno 2020. Il Sistema sanitario regionale lombardo non funziona e ora, forse, anche i vertici di Regione Lombardia ne hanno preso atto. E tentano di cambiare rotta. Mercoledì infatti la Commissione Sanità del Pirellone, per volontà della maggioranza, ha sospeso la votazione sul Piano Socio Sanitario Regionale, un documento atteso dal 2015 e che il Presidente Fontana aveva approvato in Giunta ben sei mesi fa. Secondo il presidente della commissione, Emanuele Monti, una sospensione arrivata: “a causa del mutato cambiamento di contesto dovuto all’emergenza Covid-19”.  Di fatto, si tratta di qualcosa di molto più profondo. Lo stop, infatti, riguarda lo scheletro sul quale il Pirellone avrebbe dovuto modellare il sistema sanitario della Regione nei prossimi anni. Nei piani di Fontana e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera, una riproposizione pedissequa del sistema vigente: ospedalizzazione estrema; grande fetta delle prestazioni più remunerative affidate al privato (la Lombardia da sola ha più cardiologia di tutta la Francia); smantellamento definitivo della medicina di prossimità. Uno schema – sbandierato per anni come “il Modello” da seguire, il migliore del mondo, il vanto della prima regione italiana – che la pandemia ha fatto miseramente crollare. Tanto che i lombardi travolti dallo tsunami Covid-19 si sono ritrovati senza medicina territoriale; i medici di famiglia sono caduti come mosche, privi dei dispositivi di prevenzione individuale (il tasso di infezione tra i sanitari lombardi è stato del 12%, un’enormità); gli ospedali – unici presidi rimasti sul territorio – sono divenuti centri di propagazione dell’infezione; le ex Asl, ora Ats, hanno dimostrato di essere ciò che le riforme di Maroni e Gallera hanno deciso che fossero: puri centri di controllo amministrativo, senza alcun reale impatto nella gestione delle emergenze. Per tacere poi del disastro delle Rsa, una strage sulla quale farà luce la magistratura e sull’attuale incapacità del sistema regionale di fornire test e tamponi per tracciare i positivi. Al quale si aggiunge poi l’inesistenza di strategie per il tracciamento dei contatti stretti, nonché la mancanza di idee chiare per garantire in maniera efficace la sicurezza sui luoghi di lavoro. Insomma, una debacle che la diga di propaganda innalzata da Fontana e dalla Lega non riesce più a contenere. E infatti si vedono le prime crepe. Già l’annunciato rimpasto – previsto per luglio – che dovrebbe portare alla sostituzione dell’assessore Gallera – oggi “commissariato” dall’ufficio stampa di Matteo Salvini, ma sempre più difficile da difendere – era stato un assaggio. Ora, il ritiro del Piano Sanitario, che è molto più che una conferma. È una sterzata. «Votare questo piano sarebbe stato uno schiaffo a tutte le vittime lombarde del Covid-19, non votarlo significa prendere atto dei problemi che ci sono stati e chiedere a Fontana e alla giunta di riscriverlo – spiega il capodelegazione Pd in commissione sanità della Regione Gian Antonio Girelli -. È un fatto politico, non tecnico, perché per la prima volta, finalmente, la maggioranza leghista della Regione dà un segnale di ripensamento sul sistema sanitario lombardo. Per la prima volta ammette che qualcosa va cambiato. Sia chiaro, per noi il piano era inadeguato anche sei mesi fa, ma la pandemia è stata come un faro puntato sugli squilibri e sulle mancanze della sanità lombarda, oltre che sulle mancanze di chi la guida e governa. Ora il Piano socio-sanitario regionale dovrà essere riscritto e cambiato nel profondo e, insistiamo, andrà rivista la legge quadro della sanità lombarda». Sulla stessa linea il Movimento Cinque Stelle: «Prendiamo atto della decisione della maggioranza di non votare il Piano Socio Sanitario. Restano però molti interrogativi su come verranno recepite le disposizioni Nazionali che riformano la medicina territoriale e il rapporto tra medicina ospedaliera e medicina territoriale«, commenta il consigliere Gregorio Mammì, «Il piano sociosanitario che ci veniva proposto risultava privo dei contenuti minimi per una revisione globale dell’assetto sanitario di Regione Lombardia. Non parlerei quindi di un rinvio ma di una ufficiale  abdicazione: il piano è formalmente collegato alla legge sanitaria Lombarda e deve essere totalmente ridiscusso insieme alla sua legge di riferimento.  Il Consiglio Regionale attraverso la Commissione competente dovrebbe finalmente intraprendere il percorso di revisione della Legge sanitaria lombarda, e successivamente ampliare l’offerta di servizi sanitari pubblici e medicina territoriale ridimensionando il rapporto tra pubblico e privato. Lo dobbiamo ai cittadini lombardi».

Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 17 giugno 2020. In Lombardia intenti a scaricare colpe sui “figli” ci si dimentica di quelle dei “padri fondatori” della sanità. Sembra insomma che tutto si spieghi con le scelte dell’attuale  Governatore Attilio Fontana e, al più, ricicciando  quelle di Roberto Formigoni. Vero. Ma solo in parte. Il convitato di pietra in questa storiaccia sulla pelle dei malati è Roberto – Bobo – Maroni che scrisse proprio come  sulla pietra le sue intenzioni di trasformazione (forse intendeva trasformismo) del sistema sanitario lombardo targato Comunione e Liberazione nel famoso “Libro bianco”. Cosa ne è stato? O meglio a cosa è servito nella quotidianità nella cura e tutela della salute dei cittadini della cosiddetta “locomotiva d’Italia”? In questi tempi abbiamo ri-scoperto  come tutti i peccati della sanità lombarda abbiano inizio con il “celeste” Formigoni  di Cl e finiscano con l’attuale governatore leghista. Ma quali sono state invece quelli del “traghettatore” Maroni che all’indomani della chiusura forzata o no dell’epoca formigoniana aveva promesso “miracoli” dotando la regione di questo strumento  infallibile di cui è interessante riprendere anche solo alcuni punti analizzandoli. Se il trasformismo in politica è abitudine consolidata di tutti gli schieramenti  la cosa triste è che quando ci si occupa di sanità certe scelte, certi indirizzi  piuttosto che altri,  possono portare ai morti. Tanti. Come sono stati, purtroppo,  quelli della pandemia 2020. Nel Libro bianco  del 2014 Maroni conferma la libertà di scelta come cardine del sistema lombardo dichiarando: “I cittadini continueranno a poter decidere liberamente da chi farsi assistere” sottolineando che ciò è possibile solo garantendo  “una competizione virtuosa tra erogatori pubblici e privati”. Sanità lombarda 2020: come si può essere liberi di scegliere se esistono liste d’attesa lunghe mesi e ticket  spesso sono così alti da superare il prezzo della stessa prestazione resa a pagamento? Risponde, con una domanda, Alessandro Cè, già assessore alla Sanità  nella III giunta Formigoni: “Chiedo  a  Fontana e Maroni se ricordano che ogni cittadino lombardo sborsa, di tasca propria, oltre alle tasse, circa mille euro all’anno per pagarsi direttamente  le prestazioni sociosanitarie”. Come può un cittadino scegliere liberamente, cioè consapevolmente, da chi farsi curare, se non riceve la minima informazione istituzionale sulla qualità e l’appropriatezza delle prestazioni e dei servizi erogati da ospedali, cliniche e ambulatori visto che Regione Lombardia non comunica i dati e non li rende accessibili. Il Libro bianco parlava di un potenziamento della sanità territoriale, testualmente: “Della cura al prendersi cura”, ovvero la presa in carico  del paziente mediante misure di “accompagnamento della persona anche attraverso la prevenzione, la valutazione delle necessità del singolo e dell’ambiente famigliare e una migliore e maggiore integrazione sul territorio delle strutture sanitarie con i servizi alla persona”. Sanità 2020 nel dettaglio Alessandro Cè focalizza  un particolare: “ Per i pazienti cronici – coloro che proprio in questa pandemia sono stati l’anello debole – l’attuazione della riforma riguardante i soggetti deputati a gestire la cronicità,  i cosiddetti Gestori e co-Gestori, ha generato solo confusione, disorientamento e complicazioni in tutti gli attori coinvolti. Inoltre – assicura – il mancato rafforzamento dell’assistenza sul territorio si è rivelato la causa primaria della debacle lombarda nella gestione dell’emergenza Covid 19”. Nel 2014 Roberto Maroni si impegna ad introdurre, nel sistema sociosanitario lombardo, la valutazione della qualità delle prestazioni, dei servizi e del merito delle strutture erogatrici ( ospedali, cliniche private, ambulatori), il superamento del criterio di finanziamento basato sulla spesa storica e l’ obbligo di trasparenza dei dati di funzionamento del sistema a beneficio di operatori e pazienti. Anno 2020, Fontana presidente,  Cè chiarisce: “I dati aggregati sulla qualità delle prestazioni erogate e sui risultati dei controlli effettuati nonché i dati relativi ai reali bisogni dei cittadini lombardi, custoditi dall’ Osservatorio epidemiologico regionale, sono ancora secretati. Inoltre: “La valutazione del merito ("vendor rating" del Libro bianco  ) delle strutture erogatrici di servizi e prestazioni sociosanitarie non è disponibile per i cittadini e non ha alcuna incidenza sulla fissazione dei budget di finanziamento annuale assegnati agli erogatori pubblici e privati, budget che vengono riconfermati sulla base della spesa storica”. La ciliegina sulla torta: nel  2014 la promessa di trattare tutti gli erogatori allo stesso modo richiedendo a ciascuno “la quantità e il mix delle specifiche tipologie di prestazioni come contributo al soddisfacimento del fabbisogno complessivo”. Il risultato? Nel 2020 nulla di questo è avvenuto: gran parte della sanità privata prolifera nelle nicchie delle specialità più remunerative e il pubblico si sobbarca i settori più onerosi e sottofinanziati. Dovevano essere luoghi di programmazione, acquisto e controllo “delle prestazioni e dei servizi relativi ai bisogni dei singoli territori”. Nel 2020 invece accade che la Regione controlla la programmazione e ogni altra funzione delle ATS attraverso le nomine politiche di tutti i dirigenti apicali. Questo crea uno stridente conflitto di interessi fra programmazione e controllo, entrambi in mano saldamente al governo politico regionale. Nei fatti la Regione controlla se stessa. Con quali ripercussioni? “In una spesa sociosanitaria dettata da un eccesso di offerta nei settori più remunerativi – spiega l’ex assessore regionale alla Sanità Cè –  rispetto ai reali bisogni, sottraendo risorse ad altri comparti in grande sofferenza come per esempio la prevenzione, l’emergenza-urgenza la cronicità e psichiatria”. Tutto cambia per non cambiare quindi ma l’aggravante per i cittadini che hanno creduto nella “rivoluzione dal sistema Cl a quello verde padano leghista” è che nel passaggio da Formigoni a Maroni/Fontana nulla è stato modificato nel sistema sociosanitario lombardo. “La gattopardesca riforma targata Maroni-Galli, non solo non ha migliorato il sistema ma addirittura lo ha reso più disfunzionale e vessatorio nei confronti dei cittadini-pazienti” precisa Cè. “Quello che oggi, però, non è più accettabile – conclude –  è la mancanza di assunzione di responsabilità del governo lombardo a guida Lega che, peccando di ignavia, continua a nascondere le proprie scelte, incolpando, al fine di occultare i propri evidenti fallimenti, l’ eredità negativa ricevuta dai precedenti governi Formigoni. Il perché è presto spiegato dal fatto che solamente la condivisione di questo modello, consolida l’ormai incancrenito potere in Lombardia”.

Così Lega e Forza Italia si sono spartite la sanità lombarda. I verbali del faccendiere Caianiello: “Gallera e Comazzi erano emanazione della Gelmini. Esclusi dagli ospedali, ci hanno dato delle poltrone in Aler”. Alessandro D'Amato il 9 giugno 2020 su Next Quotidiano. Ricordate? Qualche tempo fa Matteo Salvini e la Lega avevano presentato un emendamento al Decreto Cura Italia con il quale volevano garantire l’immunità ai dirigenti delle strutture sanitarie lombardi scaricando la colpa di eventuali contagi su medici e infermieri. L’emendamento è stato ritirato mentre circolava l’infografica che vedete qui sopra che segnalava la spartizione delle nomine tra Lega e Forza Italia in Lombardia: cambiavano 30 direttori generali su 40, di cui 24 erano appannaggio del Carroccio e 14 di Forza Italia, mentre due andavano a Fratelli d’Italia. Oggi Repubblica Milano pubblica invece i verbali degli interrogatori di Gioacchino Caianiello, ex di Forza Italia, considerato il “ras” delle nomine e degli appalti pilotati, arrestato nell’inchiesta “Mensa dei poveri” un anno fa ed è interessante leggerli per comprendere come funziona il sistema delle nomine della sanità e capire perché ogni volta che si presenta un problema tutti si difendono tra di loro: «Nella provincia di Varese Forza Italia ha avuto difficoltà a esprimere dei candidati espressione del territorio, essendo i direttori generali indicati in quota Forza Italia scelti a livello regionale». Dopo aver indicato alcune nomine durante la giunta Maroni, Caianiello, assistito dall’avvocato Tiberio Massironi, parla degli ultimi anni. «Per quanto concerne le nomine verificatesi dopo l’insediamento della giunta Fontana, la relativa scelta in quota Forza Italia è stata effettuata dal capogruppo di Forza Italia Gianluca Comazzi, dall’assessore alla Sanità Giulio Gallera, dal vicepresidente regionale Fabrizio Sala e da Fabio Altitonante», consigliere forzista arrestato nell’inchiesta. «Faccio presente — spiega — che Comazzi e Gallera sono i principali uomini di riferimento della Gelmini in consiglio regionale». Secondo il “burattinaio delle nomine” «è stata Gelmini a sostenere le candidature di Comazzi e Gallera in Regione e poi ha ottenuto in favore di Gallera la riconferma nell’assessorato alla Sanità». Caianiello spiega poi che di fronte alla «assenza di riconoscimenti di Forza Italia varesina di direttori generali di strutture ospedaliere, più volte ho rappresentato a Gelmini e Comazzi la necessità di una compensazione in nostro favore presso altri enti». Sarebbero nate così le proposte per nomine in altri organismi, come per esempio Aler. «La nomina in quota Forza Italia dei dg nelle province di Bergamo e Brescia sono state invece ad appannaggio della Gelmini». Al governatore Fontana, Caianiello riconduce anche la nomina di Giuseppe Bonomi «all’interno della Cittadella della Salute» a Sesto, «essendo Bonomi una persona particolarmente vicina al presidente, avendo anche fatto parte dello studio legale Fontana — Marsico».

Coronavirus, gaffe di Gallera: “Servono due positivi per contagiarmi”. Jacopo Bongini il 24/05/2020 su Notizie.it Ha suscitato polemiche la gaffe dell'assessore lombardo Gallera, secondo cui con l'indice Rt a 0,51 servono due infetti per contagiare una persona. L’ultima conferenza stampa di Regione Lombardia sull’andamento della pandemia di coronavirus ha suscitato forti polemiche per una gaffe dell’assessore al Welfare Giulio Gallera, che ha cercato di spiegare in maniera forse troppo semplicistica il nuovo livello dell’indice di contagio Rt, finendo per cadere in errore. Nel suo intervento, l’assessore Gallera ha infatti erroneamente affermato che con l’indice Rt a 0,51 servono due persone positive al coronavirus per poter contagiare una persona sana. Nel corso del consueto appuntamento in diretta con la regione, Gallera ha spiegato in questi termini il recente calo dell’indice Rt a 0,51: “0,51 cosa vuol dire? Che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette. Questo vuol dire che non è così semplice trovare due persone infette nello stesso momento per infettare me. Quando è a 1 vuol dire che basta che incontri una persona infetta che mi infetto anch’io”. Una spiegazione ovviamente errata, dato che con l’indice Rt sotto il valore di 1 non vuol dire che servono più persone positive per contagiare una persona sana, ma che in media ogni dieci persone positive si registrano cinque nuovi infetti. L’indice Rt misura infatti la potenziale trasmissione di un virus in via statistica e quando questo scende sotto l’1 significa che le misure di distanziamento sociale di utilizzo dei dispositivi di protezione individuale stanno dando i loro frutti.

La replica dell’assessore. In risposta alle accuse, Giulio Gallera ha però negato di essere caduto in fallo: “Sono allibito. Ho solo cercato di spiegare in maniera molto semplice quello che sta succedendo. Abbiamo cercato di spiegare cos’è l’indice di contagio R0 in modo semplice. […] Quando l’indice di contagio a 0,5 vuol dire che una persona può infettare un’altra persona, quando è a due vuol dire che una persona ne infetta due. Quando è 0,5 i testi scientifici dicono che in una comunità di 100 persone ne infettano 50. Quindi ho evidenziato il rallentamento del contagio”.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2020. Il rinomato Sistema sanitario lombardo, di cui lei, Roberto Formigoni, si è sempre vantato, ha rischiato il tracollo con il coronavirus. Un modello inadeguato?

«Non è lo stesso modello» risponde Formigoni (autorizzato dal magistrato di sorveglianza, perché sta scontando ai domiciliar i la condanna per corruzione a 5 anni 10 mesi per vicende legate proprio alla sanità ndr ).

Cioè?

«Premesso che la Lombardia è stata colpita da una bomba atomica e che tutti hanno fatto errori, a partire dal governo, il modello è stato profondamente cambiato dalla giunta successiva».

Scarica su Maroni?

«Non faccio polemica, riporto i fatti. Durante le giunte che ho presieduto tra il '95 e il 2012 la sanità lombarda nelle statistiche è sempre stata al primo posto, tranne due anni quando si è classificata al secondo. Dopo la riforma Maroni finì al settimo. Oggi è tornata al quinto. Quando Maroni sottopose la sua riforma ai medici di medicina generale il 77% gli disse no».

Quali differenze c' erano?

«Noi rafforzavamo il ruolo dei medici sul territorio, firmando numerosi accordi con loro e favorendone l' associazionismo soprattutto nelle grandi città, perché dieci medici che lavorano insieme e hanno migliaia di assistiti si accorgono molto prima dell' insorgenza di una pandemia. La nostra riforma fu varata nel 2012 con una delibera di giunta votata anche dalla Lega, ma poi fu ignorata dalla giunta a guida leghista che, invece, prevedeva un forte indebolimento della medicina territoriale. Maroni ruppe con i suoi collaboratori, alcuni assessori si dimisero, e quando presentò il testo definitivo ci fu un coro di no tanto che non fu votata dal Consiglio regionale, ma varata come atto di giunta».

La accusano di aver tagliato posti letto negli ospedali pubblici per favorire i privati, che prosperano.

«La Lombardia di Formigoni è descritta come il bengodi della sanità privata. Chi dice questo, come quell' ignorante di Ricciardi (il deputato M5S che ha attaccato la sanità lombarda alla Camera ndr ), ignora che il taglio fu deciso dallo Stato che a partire dal 1992 ha ridotto i posti letto pubblici fino a scendere a 3,7 ogni mille abitanti. Sono state tagliate anche le terapie intensive».

L' hanno condannata per aver favorito la sanità privata con centinaia di milioni andati alla Maugeri e al San Raffaele in cambio di soldi e utilità per 6,8 milioni.

«Non parlo dei processi perché non mi è consentito dal giudice e per prudenza».

L' emergenza si è scaricata in massima parte sugli ospedali pubblici. Puntare sui privati è stato un errore?

«Era il taglio dei fondi statali che ci impediva di investire di più sul pubblico. Fontana non ha fatto gli errori che gli imputano, forse ha un po' tardato a chiedere l' aiuto dei privati che poi, però, hanno fatto il loro dovere».

Pensa che la «sua» sanità avrebbe retto al Covid-19?

«Bisognerà capire quello che è successo. Non so se avrebbe resistito, ma se la causa dei problemi è la mancanza della medicina territoriale, la nostra sarebbe stata molto più adatta».

La sua giunta varò due piani pandemici, nel 2006 e nel 2009. Erano solo un adempimento burocratico?

«No. Prevedevano indicazioni precise agli ospedali e ai medici di famiglia. Noi scrivemmo quello che doveva essere fatto, ma alcune cose furono poi dimenticate».

Dalla giunta successiva?

«Sì. Stabilimmo, per esempio, di evitare l' eccessiva ospedalizzazione coinvolgendo i medici di base che, infatti, in questa pandemia si sono accorti che c' erano strane polmoniti ma non sapevano cosa fare. Firmammo accordi con le Rsa per l' aumento di assistenza e prevedemmo lo stoccaggio di dispositivi di protezione individuale».

L'affaire Covid. Report Rai PUNTATA DEL 25/05/2020 di Paolo Mondani, Giorgio Mottola. Quanto ha guadagnato con l’emergenza Covid-19 la sanità privata nel nostro paese? Nel Lazio gli ospedali accreditati mangiano oramai la fetta maggioritaria dei fondi stanziati dalla Regione per la sanità: ai privati infatti lo scorso anno è andato il 54 per cento delle risorse. E con il coronavirus si sono proposti per gestire l'emergenza. Come il gruppo Angelucci. Report ha intervistato in esclusiva il capo del gruppo sanitario privato, Antonio Angelucci, parlamentare di Forza Italia. In Lombardia invece l’inchiesta fa i conti in tasca ai principali gruppi privati, scoprendo che parte dei loro notevoli guadagni, senza essere tassata in Italia, finisce nei Paesi Bassi, dove il premier Mark Rutte è uno degli acerrimi nemici dell’Italia quando si parla di flessibilità sui conti. Il cantante e influencer Fedez rivela invece il retroscena inedito dietro alla donazione da 4 milioni e mezzo di euro fatta al San Raffaele di Milano.

“AFFAIRE COVID” Di Giorgio Mottola e Paolo Mondani Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara e Simona Peluso Immagini Dario D’India-Davide Fonda-Tommaso Javidi Montaggio Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È ovvio che quella regione, la Lombardia che ha avuto più morti, che ha avuto più diffusione del virus, forse rappresenta un laboratorio dove cominciare a fare una riflessione sul ruolo della sanità pubblica e su quella privata. Ma per farlo bisogna riavvolgere il nastro. Tornare a quei momenti in cui gli ospedali erano pieni, le sale della terapia intensiva erano piene e i medici dovevano fare una scelta dolorosa. Cioè scegliere a chi staccare l’ossigeno. E a favore di chi. E all’improvviso dal profondo dei social spuntano due che hanno la faccia dell’angelo, simile un po’ a quella che è sulla cupola dell’ospedale più noto. San Raffele che in ebraico significa colui che guarisce. I due raccolgono in pochissimo tempo 4 milioni di euro di donazioni. Aderiscono uomini, persone, privati da 52 paesi, e poi voglio donare questi soldi a un ospedale pubblico. Ma “Houston, we have a problem”. Qual è il problema? Lo vediamo.

CHIARA FERRAGNI Ciao ragazzi, oggi siamo qui perché vogliamo dare il nostro contributo anche noi e usare la forza divulgativa che abbiamo per condividere un messaggio molto importante ma soprattutto per cercare di contrastare insieme questa emergenza che è in atto in Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’appello di Fedez e Ferragni rispondono subito tante persone comuni e soprattutto molti personaggi del mondo dello spettacolo.

EMMA MARRONE Voglio sostenere anche io la bellissima iniziativa di Chiara e di Fedez.

FABIO ROVAZZI Di fronte a cose così importanti, dove ne va la salute di tutti noi, è doveroso contribuire, quindi vi lascio il link e fate swipe up e donate quello che potete.

ALESSANDRA AMOROSO Ciao Chiara, ciao Fedez, anche io e la mia big siamo pronti a sostenere questa bellissima iniziativa, lascio il link qui, fate swipe up per poter donare o comunque mandate in giro questo messaggio bellissimo.

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE C’è stata una partecipazione che non ci saremmo mai aspettati, le donazioni sono arrivate da 52 paesi in tutto il mondo, al momento è la campagna di crowdfunding più grossa che si sia mai registrata in Europa su Go fund me. E secondo me è un grande messaggio di unione e di coesione.

FEDEZ – IMPRENDITORE- CANTANTE La nostra prima intenzione era quella di destinare tutto al Sacco perché dalle comunicazioni che ci arrivavano ci sembrava l’ospedale lombardo, milanese più in prima linea in quel momento. Guarda ti faccio anche vedere che avevamo già preparato le grafiche per il Sacco. Noi eravamo già pronti e addirittura, inizialmente, vedi c’erano le foto dell’ospedale, avevamo fatto fare sta cosa fantastica con il virus…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo Fedez contatta il primario dell’ospedale Sacco, il virologo Massimo Galli per capire in che modo far arrivare i soldi. Ma la conversazione con il primario va in un modo completamente diverso da come se l’aspettava.

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE Cioè a me quello che è stato detto da Galli e spero di aver compreso bene è in sostanza noi, il grande tema per aiutarci in questo momento non è offrirci del denaro ma è darci della forza lavoro. Cioè, a noi servono infermieri e dottori, cosa in cui io non potevo assolutamente intervenire. Nonostante mi sentivo un po’ di troppo insomma, gli dissi comunque che i soldi non fanno mai male, non so come dire. Quindi scrivo un messaggio la domenica a Galli e gli chiedo… lo sollecito, lui legge il messaggio ma purtroppo non mi risponde penso perché preso da questa emergenza.

GIORGIO MOTTOLA E non ha mai più risposto?

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE Non mi ha mai più risposto. No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così l’Ospedale Sacco perde i 4 milioni e mezzo di euro che Fedez voleva donare. Dopo aver aspettato inutilmente la risposta di Galli, Fedez e Chiara Ferragni si rivolgono infatti al San Raffaele.

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE Io conosco personalmente il presidente, penso sia, il presidente del San Raffaele. L’ho chiamato io di persona e gli ho detto: guarda, io voglio entro lunedì fare la raccolta fondi. Se mi metti in piedi una cosa, un programma, un piano che funziona e mi attivi tutto e mi mandi i documenti entro domenica, la faccio con te.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così in favore del San Raffaele, ospedale privato, fiore all’occhiello del Gruppo San Donato, si raggiunge la cifra record di 4 milioni e mezzo di euro.

GIORGIO MOTTOLA In un batter d’occhio il San Raffaele ha accettato…

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE In mezz’ora.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie a quei soldi il San Raffaele ha costruito un nuovo padiglione di terapia intensiva con 24 posti letto.

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE Il mio auspicio è che siano quei posti di terapia intensiva destinati alla collettività e che laddove ci fosse l’ipotesi di non crearne profitto sarebbe francamente una bella cosa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E sperando che il San Raffaele accolga il suo invito a non fare profitto sui 24 nuovi posti di terapia intensiva creati con i soldi della collettività, dopo la donazione record, a Fedez non è arrivata ancora la telefonata di Galli, ma inaspettatamente è giunta la chiamata del miliardario Elon Musk, patron di Tesla, che gli annuncia l’intenzione di donare all’Italia ventilatori e altre attrezzature sanitarie.

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE In quel momento quindi mi sono trovato a gestire, a fare da intermediario tra strutture pubbliche ed Elon Musk, fa abbastanza ridere perché il tema era: Elon Musk sta decidendo a quale paese donare. Quindi era una sorta di concorso per chi fosse più meritevole di quelle attrezzature. E il mio obiettivo era portarli a casa per il nostro paese.

GIORGIO MOTTOLA E come è andata?

FEDEZ – IMPRENDITORE - CANTANTE Non credo si sia concluso niente. Ho trovato difficoltà nell’ottenere delle risposte. La sensazione che ho avuto vivendo delle dinamiche interne in questa emergenza, è che le strutture pubbliche siano veramente ingolfate da una burocrazia che le annienta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La burocrazia! Ma nominiamolo subito commissario per l’emergenza Covid, Fedez. Ha raccolto in pochi giorni 4 milioni di euro, e poi la proposta anche di avere dei ventilatori, dei respiratori per le sale di terapie intensive offerti dal miliardario, visionario Elon Musk. Poi quando ha provato ad offrirgli all’ospedale pubblico Sacco di Milano, che è il presidio antivirus al Nord e che anche altre donazioni aveva ricevuto: aveva ottenuto un milione dal Gruppo Campari, un milione e mezzo dalla Banca Mediolanum dei Doris, 658 mila euro dall’Inter che ha la proprietà cinese, ma quando Fedez ha provato ad offrire i soldi al Sacco di Milano, il professor Galli ha detto no, grazie. Questa è una bella notizia perché evidentemente il pubblico non ha bisogno di soldi. La brutta notizia invece è che Galli avrebbe detto: a me più che i soldi servirebbero medici e infermieri perché mancano. Ecco insomma, l’avevamo intuito. E lo sapevano anche quei politici che si sono irritati, che si irritano adesso, quando uno va a ficcare il naso nelle regioni di loro competenza perché l’hanno scritto nelle carte dell’ufficio parlamentare di bilancio. Negli ultimi dieci anni c’è scritto che sono stati tagliati 42mila e 800 tra medici e infermieri. Ora sono stati costretti a richiamare anche i riservisti. E nel Partito Democratico c’è chi batte i pugni sul petto e chiede scusa per la riforma del titolo V della Costituzione. Ecco, c’era all’epoca nel 2001 da disinnescare le pressioni della Lega di Bossi che chiedeva più autonomia per le Regioni. Sta di fatto che quella riforma ha tolto dalle mani dello Stato la sanità e l’ha consegnata alle Regioni. E non ne hanno neppure beneficiato. Intanto sotto periodo di pandemia hanno dimostrato che da sole non possono e non sono in grado di agire, ma neppure è servita a sanare le loro casse perché molte sono commissariate alle prese con i piani di rientro. Questo perché hanno dirottato le risorse verso la sanità privata che è potuta crescere perché ha potuto anche scegliere le prestazioni che venivano più retribuite, più pagate. È come consentire a un goloso di poter scegliere le ciliegie migliori. Ecco, si sono gonfiati la pancia a punto tale che alcuni hanno potuto portare indisturbati i dividenti fuori nei paradisi fiscali. La nostra inchiesta a firma di Giorgio Mottola e il nostro Paolo Mondani parte dalla Sicilia dove è stato arrestato il responsabile dell’emergenza Covid per tangenti; poi arriva in Lombardia, Veneto, passando per il Lazio, dove c’è chi ha scelto le ciliegie migliori. Un ex portantino è diventato ras delle cliniche private, anche lui si fregia dell’angelo, il San Raffaele, si è proposto da subito come il risolutore dei problemi perché ha capito che dai problemi trae beneficio. Ora dal Covid si è proposto come il risolutore dei problemi alle famiglie: hai un anziano in casa, non ti preoccupare, me ne prendo cura io. Poi come l’abbia fatto, quella è un’altra storia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Basta risalire il biondo Tevere da San Pietro per incontrare l’Isola Tiberina, consacrata ai Frati di San Giovanni di Dio, che alla fine del ‘500 aprirono l’ospedale Fatebenefratelli divenuto famoso perché le donne romane ci vengono a partorire. Passò di qui l’epidemia di peste nel 1656, il colera nel 1832, e la seconda guerra mondiale. La struttura resse bene. Poi sono arrivati la Tbc e il Covid. Nonostante gli 83 milioni l’anno che gli versa la regione Lazio.

PAOLO MONDANI Dal 2018 al Fatebenefratelli ci sono stati circa trenta casi di tubercolosi.

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA I casi dovrebbero essere all’incirca 70. E poi ci sono stati un grande numero di dipendenti superiore a duecento che sono finiti in profilassi.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’anno scorso la Asl RM1 ha definito l’ospedale in condizioni gravi e inaccettabili e la Procura di Roma ha da poco rinviato a giudizio tre dirigenti per lesioni colpose.

PAOLO MONDANI Da cosa è nata questa situazione?

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA È nata dal fatto che come sta succedendo adesso per l’epidemia di Covid non sono stati testati i dipendenti.

PAOLO MONDANI Lo scorso marzo poi succede che il direttore amministrativo De Lillo rimane contagiato dal Covid. Come accade?

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA Cioè in pratica quasi tutta la...i manager..

PAOLO MONDANI Vengono contagiati..

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA I mega direttori galattici, come avrebbe detto Fantozzi, vengono contagiati. Il problema è che De Lillo fa il pendolare con la Puglia, a fine settimana torna in Puglia, si sente male…

PAOLO MONDANI Quindi lui si presenta al pronto soccorso di Roma…

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA Quando arriva al pronto soccorso non vengono attuate tutte le procedure che sono previste in questi casi di pazienti sospetti…

PAOLO MONDANI Sì, ma lui aveva fatto delle riunioni…

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA Aveva fatto delle riunioni fino al giorno prima. PAOLO MONDANI Perché l’ospedale da quattro anni sta in concordato preventivo, no?

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA Sì, ma l’ospedale prima non aveva un bilancio.

 PAOLO MONDANI Come non aveva l’obbligo del bilancio?

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA Tutti i pagamenti venivano effettuati cash e grazie al Concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa, gli organi religiosi non hanno l’obbligo di bilancio.

PAOLO MONDANI La Regione non ha mai esercitato qualche forma di controllo?

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA La Regione come tutta la politica cerca di piazzare qualcuno che gli interessa, soprattutto primari o dirigenti.

PAOLO MONDANI Che cos’è il Fatebenefratelli? Detta così sembra come dire un circo…

ERMANNO PANNUNZIO - EX MEDICO FATEBENEFRATELLI - ROMA È lo specchio di Roma. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La sanità del Lazio costa ai contribuenti, ultimo dato del 2018, 10 miliardi e 744 milioni. Di questi al privato con i beni e i servizi vanno 5 miliardi e 878 milioni. Il 54 per cento.

PAOLO MONDANI Negli ultimi due anni sono stati tagliati quanti posti di lavoro nella sanità del Lazio… pubblici?

FRANCESCO PALMEGGIANI - SEGRETARIO FP CGIL MEDICI ROMA E LAZIO Nel 2017 e nel 2018, 3800 dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale hanno abbandonato il lavoro.

PAOLO MONDANI Coperta dai debiti, la Regione Lazio nel 2005 entra nella procedura del Piano di rientro. E cosa accade?

GIUSEPPE GRAZIANO - EX DIRETTORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I ROMA Taglio lineare dei posti letto, blocco del turn over fino a dimensioni incredibili, portando l’età media dei medici degli ospedali a oltre 56 anni.

FRANCESCO PALMEGGIANI - SEGRETARIO FP CGIL MEDICI ROMA E LAZIO I posti letto per acuti nel Lazio sono 9.683 per il pubblico e 6.447 per il privato accreditato. Ossia il 60 per centro dei posti letto per acuti nel Lazio sono pubblici e 40 per cento privati. La situazione è veramente incredibile per il post-acuzie dove i posti letto pubblici per il post-acuzie sono 203 nel Lazio e i posti letto del privato accreditato sono 3.647. Quindi il 95 per cento della post-acuzie in cui rientrano le Rsa, l’hospice, la riabilitazione e la lungodegenza, il 95 per cento è in mano al privato accreditato.

PAOLO MONDANI Nelle Rsa che cosa accade?

FRANCESCO PALMEGGIANI SEGRETARIO FP CGIL MEDICI ROMA E LAZIO A fronte di 20 letti pubblici di Rsa per pazienti Covid aperti a Genzano abbiamo 200 posti di pazienti Covid positivi nelle Rsa del privato accreditato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Durante l’emergenza la Regione ha creato Covid Hospital soprattutto coi privati. Salvando l’Ospedale Columbus, già economicamente fallito. Impegnando il Policlinico Gemelli, l’Istituto clinico di Casalpalocco del gruppo GVM dell’imprenditore Ettore Sansavini, Villa Primavera dei padri Camilliani. E il Campus Biomedico dell’Opus Dei per gli ambulatori.

PAOLO MONDANI Chi ha portato a questa situazione?

GIUSEPPE GRAZIANO - EX DIRETTORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I - ROMA Le giunte di destra e di sinistra. Tutti hanno portato qua. Qui ci sono delle lobby e degli interessi enormi. Enormi, enormi. Questi sono… Angelucci, Angelucci era un portantino, il vecchio era un portantino del… ma che stiamo? PAOLO MONDANI Continua.

GIUSEPPE GRAZIANO - EX DIRETTORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I ROMA Ma stiamo registrando?

PAOLO MONDANI Sì. Certo che stiamo registrando.

GIUSEPPE GRAZIANO - EX DIRETTORE SANITARIO POLICLINICO UMBERTO I ROMA No, no, no, no…

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Difficile parlare di Antonio Angelucci. Il patron di una rete di cliniche e Rsa nel Lazio e in Puglia. Parlamentare di Forza Italia. Proprietario del Tempo, Libero e altri piccoli quotidiani. Dalla Regione Lazio incassa 111 milioni di euro l’anno per i suoi vari centri San Raffaele. Poi ad aprile scoppia il Covid dentro la sua struttura di Rocca di Papa. I Nas parlano di 161 casi, la ASL di 17 decessi. Le insufficienze nella sorveglianza sanitaria spingono la procura di Velletri ad aprire un’inchiesta e la Regione Lazio ad avviare la revoca dell’accreditamento.

PAOLO MONDANI La Asl 6, nella relazione firmata da un dirigente che si chiama Fabio Canini, parla di mancata separazione dei reparti tra Covid e non Covid, nei giorni successivi. È così?

OPERATORE SANITARIO – CASA DI CURA SAN RAFFAELE ROCCA DI PAPA Non era semplicemente una struttura adatta ad ospitare pazienti Covid.

PAOLO MONDANI Gli operatori sanitari, dice la relazione, si cambiavano spesso nello stesso luogo. Cioè quelli che si occupavano dei pazienti Covid e quelli che si occupavano dei pazienti non Covid poi alla fine si cambiavano nello stesso luogo.

OPERATORE SANITARIO – CASA DI CURA SAN RAFFAELE ROCCA DI PAPA Probabilmente sì.

PAOLO MONDANI E i pazienti in entrata come sono stati trattati?

OPERATORE SANITARIO – CASA DI CURA SAN RAFFAELE ROCCA DI PAPA Molti pazienti sono entrati con tampone negativo, altri sono entrati senza tampone eseguito.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo è il San Raffaele di Velletri, chiuso da dieci anni perché senza l’abitabilità. Un ospedale per 450 pazienti che Antonio Angelucci ora mette a disposizione della Regione come Centro Covid. E improvvisamente spunta lui.

PAOLO MONDANI Buongiorno, ma lei è Antonio Angelucci?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Sì.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Su Rocca di Papa Angelucci dice di sentirsi nel giusto. La Regione che vuole revocargli l’accreditamento è avvertita.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Sono 70 anni che lavoro, avevo cinque anni. Mi ricordo mio padre che mi svegliava alle 4 di mattina per andare ai Mercati Generali. Cinque anni. PAOLO MONDANI Ma quella storia che…

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Mi dica.

PAOLO MONDANI …portantino al San Camillo è vera?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE È vera, è verissima.

PAOLO MONDANI Quanti anni ha fatto il portantino al San Camillo lei?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Forse nove mesi. Un anno.

PAOLO MONDANI Si racconta che le sue fortune sono venute perché lei incontra Cesare Geronzi che era il capo di Banca di Roma-Capitalia che le comincia a fare prestiti e il famoso Santarelli, Presidente della Regione socialista, che è suo amico e che in qualche modo convenzionò rapidamente le sue strutture.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE No. Non è vero assolutamente. Queste sono favole. In ordine al Presidente Geronzi, nulla di eccezionale. Cioè io ho un rapporto di correntista normale. Ho avuto la facoltà di conoscerlo in quanto che lui è di Marino ma non c’è stato un rapporto particolare col Presidente, assolutamente no.

PAOLO MONDANI Ascolti, ma l’amicizia con il Presidente socialista Santarelli, Presidente della Regione, le ha dato una mano oppure no?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE No, Giulio Santarelli ha fatto il suo. Non m’ha dato una mano, perché l’accreditamento che ha dato a me l’ha dato anche agli altri. Niente di eccezionale.

PAOLO MONDANI Lei è stato assolto a ottobre in primo grado per la truffa, ipotetica truffa, proprio a partire da questa storia dell’ospedale di Velletri, no?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Quello che dicevamo prima. Io quello che so, non mi interesso delle cose legali. Però so che, diciamo così, l’assoluzione è stata per non aver commesso il fatto. Così?

PAOLO MONDANI Assoluzione piena.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Adesso non lo so.

PAOLO MONDANI Però, accidenti, il pubblico ministero aveva chiesto quindici anni per una truffa di 163 milioni. Cos’era successo dal suo punto di osservazione?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Vuole che le dica quello che penso io?

PAOLO MONDANI Altroché.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Ma come si può dire che in effetti lei viene qui, fa un controllo e dice: c’è un paziente che non lo trova regolare, che poi… è la dimostrazione che non era vero. Lei fa allora: per questo paziente, per i malati che ci sono, per 450, per un mese, per un anno e da quando sono accreditato, per vent’anni?

PAOLO MONDANI Lei ha le sue controllanti in Lussemburgo e financo a Cipro. Perché?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Non so di queste cose. Non me ne occupo di queste cose. Assolutamente no.

PAOLO MONDANI Ma lei è il numero uno.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE E che vuol dire che sono il numero uno. Però non mi occupo di queste cose. Lei mi sta parlando di giornali, di questo e quest’altro: sì è vero che a capo di questa macchina ci sto io. Non so di queste cose…

PAOLO MONDANI Ho capito…

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Ci sono vari amministratori… PAOLO MONDANI È un problema legato al fisco, immagino…

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE No. Perché?

PAOLO MONDANI Non capisce che se uno va in Lussemburgo e a Cipro dà la sensazione di voler nascondere qualcosa?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Ma che devo nasconde io…

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La Finanziaria Tosinvest e la San Raffaele Spa della famiglia Angelucci sono controllate dalla società anonima lussemburghese Three, a sua volta controllata dalle lussemburghesi Lantigos e Spa di Lantigos. Fino al 2014 la società cipriota Fantasia Trading possedeva molte quote delle controllanti. E spulciando i bilanci troviamo opere d’arte per un valore di 41 milioni di euro.

PAOLO MONDANI L’ultima volta che è stato in Parlamento quand’è?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Boh! Può darsi una settimana fa, dieci giorni fa.

PAOLO MONDANI Quindi ci va in parlamento.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Ma non vado a votare, perché non voto.

PAOLO MONDANI E perché?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE E perché… fare numero non mi interessa. Tanto non cambiamo niente.

PAOLO MONDANI In che Commissione sta lei?

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE (Alza le spalle) PAOLO MONDANI Manco lo sa.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Finanze.

PAOLO MONDANI Ah beh. Insomma, di finanza ne sa qualcosa.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Oh, se non ci vado come faccio a sapere.

PAOLO MONDANI Lei non mi vuol dire perché sta in Lussemburgo e a Cipro e poi sta in Commissione Finanze in Parlamento.

ANTONIO ANGELUCCI - DEPUTATO FI - IMPRENDITORE - EDITORE Embè? E qual è il problema?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un genio Angelucci o qualcuno gli ha lasciato una prateria dove poter scorrazzare liberamente? Sta di fatto che lui è uno di quei privati che da 30 anni detta legge all’interno della Regione. Questo indipendentemente dal governatore e dal colore politico del governatore. Ecco, il Lazio ancora oggi ha 9,5 miliardi di debiti pregressi ed è ancora in piano di rientro. Se vai a fare, a chiedere di fare una risonanza magnetica presso una struttura pubblica puoi aspettare un mese e mezzo, se ti dice bene. E questo nonostante siano passati anni in cui i cittadini e anziani hanno pagato super ticket e un addizionale Irpef super. Dall’altra parte sono stati invece sforbiciati i pronto soccorso, soprattutto quelli dei piccoli centri, alcuni ospedali nei piccoli centri sono stati chiusi, sono stati tagliati 3 mila e 600 posti letto. A loro posto invece sono cresciuti i privati. Nel 2018 Zingaretti chiama il capezzale dell’assessorato alla salute laziale, Renato Botti. Nato a Caracas, ma considerato l’esperto milanese. Quali sono le sue qualità: basta leggere il suo curriculum. Botti è stato il direttore dell’assessorato di Roberto Formigoni, poi era passato al San Raffaele, in qualità di direttore generale della fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Ha lavorato a stretto contatto con Don Verzè. Il mitico Don che ha lasciato la sua creatura con un miliardo di debiti, e poi prima di morire ha svenduto il San Raffaele di Roma all’ex portantino Angelucci. Ecco, Botti quando nel 2012 Formigoni viene coinvolto con il faccendiere Daccò nell’accusa di corruzione, ha rilasciato ai magistrati una testimonianza al fulmicotone, ha detto è vero, ho avuto pressioni per favorire la sanità privata. Tuttavia nel 2013 viene nominato sub-commissario della sanità nel Lazio. È lui che prende in mano i bilanci, è lui che prende in mano la gestione del piano di rientro, decide cosa tagliare. Nel 2014 passa al ministero della Sanità con la Lorenzin. È là che lui fa il piano nazionale della sanità. È lui che gestisce le risorse da dare alle Regioni, è lui che stabilisce i livelli essenziali delle prestazioni. Poi dopo un passaggio alla regione Piemonte, torna nel Lazio. Insomma, se uno deve capire perché la politica ha consegnato la sanità nelle mani dei privati, basta… non è che deve fare tante analisi, basta che legge attentamente un curriculum. C’è chi ancora oggi deve fare i conti con questo sbilanciamento: la regione Lombardia che in vent’anni ha tagliato posti letto negli ospedali pubblici, e d’altra parte invece i privati che li hanno aumentati. Questo grazie anche al loro rapporto drogato con la politica. Uno dei gruppi più importanti, l’Humanitas oggi ha tra i suoi manager Ivan Colombo, uomo vicino a Roberto Formigoni, considerato anche uno dei membri dei Memores Domini, gruppo adulto di Comunione e Liberazione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I proprietari di Humanitas sono i fratelli Paolo e Gianfelice Rocca, ottavi nella classifica degli uomini più ricchi d’Italia. Un piede nella sanità privata e l’altro nell’acciaio. La famiglia possiede infatti anche il gruppo Techint, che è a capo di una delle più grandi acciaierie d’Europa, la Tenaris di Dalmine, in provincia di Bergamo, la fabbrica rimasta aperta anche durante il blocco totale per il coronavirus.

INFERMIERE HUMANITAS Da un punto di vista lavorativo siamo assimilabili al lavoro che avviene all’interno di una fabbrica. L’obiettivo finale è produrre.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono le condizioni di lavoro in Humanitas?

INFERMIERE HUMANITAS Si lavora con organici ridotti. I ritmi negli anni aumentano.

GIORGIO MOTTOLA E lei copre contemporaneamente più reparti?

INFERMIERE HUMANITAS Si lavora su più reparti, sì sì, certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’infermiere che ha scelto di parlarci a volto coperto, lo fa a nome di un gruppo di dieci dipendenti di Humanitas. Per loro la conseguenza immediata della carenza di personale si traduce in turni massacranti.

INFERMIERE HUMANITAS Quando uno fa la notte ovunque è previsto che tu smonti alle 8 di mattina, riposi la giornata e riposi anche il giorno dopo. Da noi non è così in quasi la totalità dei casi. Smonti alle 8, riattacchi alle 13 del pomeriggio stesso.

GIORGIO MOTTOLA Non c’è il giorno di riposo dopo che hai fatto la notte.

INFERMIERE HUMANITAS No, non c’è il giorno di riposo, questo penso ti dico nel 90, per quello che conosco io il 100 per cento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Si tratta di una pratica vietata negli ospedali pubblici. Ma stando alla testimonianza dei dipendenti in Humanitas avviene soprattutto perché a mandare avanti i reparti c’è anche un piccolo esercito di partite iva, lavoratori sulla carta liberi professionisti ma trattati di fatto come dipendenti.

INFERMIERE HUMANITAS La famosa falsa partita iva. Cosa vuol dire? Lavorano al 100 per cento per Humanitas, full time. Hanno gli stessi obblighi del dipendente e non hanno nessun diritto.

GIORGIO MOTTOLA Questo esercito di partite iva a quanto ammonta dentro Humanitas?

INFERMIERE HUMANITAS In alcuni reparti può arrivare anche a occupare la metà dell’organico. Quasi la metà, il 40 per cento.

GIORGIO MOTTOLA Quanto guadagna un infermiere?

INFERMIERE HUMANITAS Mediamente siamo sui 1.200, 1.300 euro e non abbiamo nessuno scatto qua. E quindi è frustrante anche questo perché i soldi io penso che non è che mancano. Credo che si macinino utili su utili. Milioni, milioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il gruppo Humanitas è arrivato a fatturare lo scorso anno 1 miliardo di euro. Entrate che dipendono quasi interamente dai soldi pubblici elargiti dalla regione Lombardia e che rendono Humanitas il secondo gruppo privato più ricco della Lombardia.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTI RICICLAGGIO Lo vediamo anche dai ricavi che passano dai 438 milioni consolidati del 2009 ai 780 del 2016.

GIORGIO MOTTOLA Quasi raddoppiati.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTI RICICLAGGIO Raddoppiati perché nel 2018 andiamo a 921 cioè non è una roba da poco.

GIORGIO MOTTOLA Una crescita esponenziale.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTI RICICLAGGIO Sì, nel momento di crisi più nera del sistema industriale italiano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Humanitas è riuscito in dieci anni a raddoppiare i ricavi in controtendenza anche rispetto alle altre attività finanziarie dei Rocca. L’altra società del gruppo, Techint, che raggruppa le acciaierie e le attività industriali della famiglia è passato dal guadagnare 104 milioni di euro nel 2008 a perderne 33 nel 2018. Poco male: le perdite dei Rocca sono state ampiamente ripianate dagli ospedali che hanno iniettato nei conti bancari del gruppo un’enorme quantità di denaro.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTI RICICLAGGIO Nel 2009 avevano 17 milioni liquidi sui conti, nel 2016, 128 milioni.

GIORGIO MOTTOLA È un aumento del mille per mille, praticamente.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Beh, insomma, si guadagna. Complessivamente il gruppo in Italia ha 500 milioni liquidi. 500 milioni liquidi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mezzo miliardo di euro pronto all’utilizzo sui conti correnti e, negli ultimi dieci anni, oltre 80 milioni di euro distribuiti come dividendi agli azionisti, quindi alla famiglia Rocca. Capire però chi poi passa all’incasso è davvero complicato. Gli ospedali di Humanitas appartengono infatti a una società che si chiama Teur Spa. Teur a sua volta è di proprietà di una società olandese la Arotec Investments, che però appartiene a una società lussemburghese, la Techint Holding, la quale a sua volta è di proprietà di un’altra lussemburghese, San Faustin. Ma non finisce qui, perché San Faustin è controllata da un’olandese, la Stichting Rocca and Partners, che formalmente è una fondazione caritatevole. Quindi dove finiscono i guadagni degli ospedali di Humanitas, generati dai soldi pubblici della Regione Lombardia?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Vanno tutti in Olanda. L’Olanda consente o con le Stichting o con le Antille olandesi un anonimato perfetto e consente una tassazione praticamente a zero sui dividendi.

GIORGIO MOTTOLA Si arriva in Olanda perché l’obiettivo è pagare meno tasse sui profitti, sui dividendi?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTI RICICLAGGIO Si certo, non pagano niente. Non è pagare meno. Di là non si paga.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi, senza che i dividendi siano tassati in Italia, i guadagni dei Rocca approdano in Olanda. Dove però c’è un premier, Mark Rutte, che in Europa è uno dei più rigorosi avversari dell’Italia quando si tratta di fare sconti sui conti pubblici.

MARK RUTTE – PREMIER OLANDA Non abbiamo bisogno di maggiori strumenti e iniezioni di liquidità per migliorare l’economia europea. Il miglior strumento è che ogni nazione si conservi ricca da sola. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche per l’emergenza coronavirus, ecco come ha risposto Rutte a un cittadino olandese che gli chiedeva di non dare nemmeno un euro agli italiani.

NETTURBINO Per favore! Non date quei soldi agli italiani e agli spagnoli!

MARK RUTTE – PREMIER OLANDA Oh no, no, no… Lo tengo a mente!

GIORGIO MOTTOLA Lei che cosa pensa di Rutte, del premier olandese?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non penso.

GIORGIO MOTTOLA Ha visto il video in cui deride un po’ noi italiani?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Purtroppo, in Europa ci sono troppe persone che ingiustamente ci deridono. Il brutto è che noi ci lasciamo deridere.

GIORGIO MOTTOLA Se le dicessi che una parte dei soldi della sanità lombarda finisce in Olanda?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Della sanità pubblica sicuramente non finiscono…

GIORGIO MOTTOLA Di quella privata.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Beh i privati poi il soldi li spendono come vogliono.

GIORGIO MOTTOLA Parlo nello specifico del gruppo Humanitas che negli ultimi dieci anni si è distribuito 80 milioni di euro di dividendi e i soldi finiscono attraverso un giro di società a delle Stichting olandesi.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io penso a gestire la sanità della regione Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I margini di profitto degli ospedali privati in Lombardia, paragonati a quelli pubblici, sono fantasmagorici. Le più efficienti ed eccellenti strutture pubbliche in regione riescono a chiudere al massimo in pareggio il bilancio, il gruppo Humanitas, invece, raggiunge un utile che arriva al 10 per cento del fatturato. E il gruppo San Donato, proprietario anche del San Raffaele, arriva addirittura al 15 per cento.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Se sono bravi, sono molto contento per loro.

GIORGIO MOTTOLA Ma il margine di profitto del gruppo Humanitas è del 10 per cento di utile sul fatturato.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi, o partiamo dal presupposto che uno possa fare l’imprenditore e guadagnare oppure no. Io credo che se uno rende le prestazioni bene al prezzo giusto, rende il servizio che si era impegnato a rendere, se poi è bravo e guadagna è merito suo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, la sanità privata incassa utili, registra utili dal 10 al 15 per cento. È un’enormità, gli stessi patron dell’Humanitas, i Rocca, quegli utili se li sognano con le acciaierie, anzi perdono. Comunque Humanitas ci scrive che le partite Iva sono solo il 7 per cento del personale, ma non specifica in quale campo. Ecco, non fa distinzione se sono tra gli infermieri, gli operatori sanitari o nel personale amministrativo. Poi sostiene che non è vero che chi fa la notte, non faccia la pausa di un giorno prima di tornare al lavoro, ma i lavoratori che abbiamo ascoltato sostengono il contrario. Humanitas poi scrive che loro pagano le tasse in Italia, ma non ci dice nulla per quello che riguardano i dividendi. Noi abbiamo visto che una parte dei dividendi negli ultimi dieci anni, invece ammontanti a 80 milioni, almeno una parte di questi poi finisce in Olanda, nel paese di quel Premier Rutte al quale non siamo poi così simpatici. Ecco. Vorremmo sapere se anche le percentuali che incasseranno, gli utili che incasseranno per l’emergenza Covid finiranno in quel paese. Ma come mai i privati registrano utili così importanti quando le prestazioni sanitarie gli vengono retribuite come per il pubblico? Perché scelgono insomma? È tutta colpa delle ciliegie.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E i privati sono così bravi che sebbene sulla carta prendano dalla regione le medesime tariffe degli ospedali pubblici, riescono comunque a guadagnare molto di più. Basta guardare ai dati dei ricoveri, raccolti dalla professoressa Sartor della Statale di Milano rispetto all’anno 2017. In Lombardia il pubblico ricovera il 65 per cento dei pazienti, ma ottiene soltanto il 60 per cento del budget garantito dalla Regione. Il privato invece fa il 35 per cento dei ricoveri, ma gli basta per aggiudicarsi il 40 per cento delle risorse. Per i privati i ricoveri sono dunque molto più redditizi che negli ospedali pubblici. Com’è possibile?

MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO È quello che gli inglesi chiamano il cherry picking, vai a sceglierti dal cestino le ciliegie più buone, quelle più mature, quelle più rosse. GIORGIO MOTTOLA Ed è quello che fa il privato in Lombardia?

MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO È chiaro che l’obiettivo è quello di avere il tipo di servizio che ti viene remunerato di più e che magari tu riesci anche, come dire, ad erogare con una complessità organizzativa minore che altri.

GIORGIO MOTTOLA Si scelgono le prestazioni che costano a loro di meno ma che gli vengono remunerate meglio.

MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO Certo. La cardiochirurgia, ma anche gli stroke, per gli infarti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra le prestazioni pagate dalla Regione, ce ne sono alcune che rendono di più ed è su quelle che si sono tuffati i privati, i quali evitano invece le prestazioni che hanno costi così alti da non consentire profitti.

MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO Pronto Soccorso, per esempio, che è un tipo di servizio che costa.

MARIO RICCIO – PRIMARIO TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE CASALMAGGIORE CREMONA Della bistecca mangia la carne e l’osso dove c’è un po’ di carne intorno lo lascia ovviamente al pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il dottor Riccio è il primario del reparto di Terapia intensiva dell’ospedale pubblico di Casalmaggiore, in provincia di Cremona. In piena emergenza, a corto di ventilatori e di posti in terapia intensiva, è stato costretto a fare scelte dolorose.

MARIO RICCIO – PRIMARIO TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE CASALMAGGIORE CREMONA C’erano dei pazienti che ormai avevamo individuato che comunque non avrebbero risposto alla ventilazione per condizioni cliniche, per anamnesi, per malattie, per come erano arrivati. Ma quando non ci sono le risorse, ovviamente, si applicano dei criteri clinici e lo abbiamo fatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Applicare criteri clinici vuol dire che il dottor Riccio come altri colleghi delle rianimazioni lombarde, è stato costretto a decidere chi intubare e chi no, in base alle maggiori aspettative di vita del paziente.

GIORGIO MOTTOLA Questa emergenza quanto è dipesa dal modello lombardo di sanità pubblica e sanità convenzionata?

MARIO RICCIO – PRIMARIO TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE CASALMAGGIORE CREMONA Il problema della Lombardia è che ha mostrato tutta la debolezza di questo gigante dai piedi di argilla perché la Regione Lombardia ha dato una grossa fetta di sanità al convenzionato e però questo convenzionato non ha obblighi di rispondere in queste situazioni di urgenza-emergenza. Voi vi ricordate che durante l’emergenza si parlava di trasformazione delle sale operatorie, lo abbiamo fatto tutti, in terapie intensive? GIORGIO MOTTOLA E non lo hanno fatto?

MARIO RICCIO – PRIMARIO TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE CASALMAGGIORE CREMONA Non lo hanno fatto, probabilmente perché il contratto della Regione Lombardia con il convenzionato non lo prevede.

GIORGIO MOTTOLA Si sarebbero potute salvare più vite insomma.

MARIO RICCIO – PRIMARIO TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE CASALMAGGIORE CREMONA Se avessero accolto 5 o 6 pazienti ciascuna sarebbero quasi 300 posti.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Se poi c’è qualcuno che non ha voluto collaborare, valuteremo il perché.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se le strutture private medio piccole – stando alla denuncia del dottor Riccio - non hanno aperto le sale operatorie, i grandi gruppi privati come Humanitas e San Donato invece hanno dato in Lombardia un grande contributo. E per rivendicarlo pubblicamente, hanno acquistato sui principali giornali italiani una pagina pubblicitaria, dove compare anche il logo della Regione.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io direi che questa emergenza è stato il momento in cui si è data la dimostrazione di come questo rapporto pubblico-privato funzioni. Se mi consente, leggo semplicemente due dati, perché non me li ricordo. Ma vede, per esempio, noi, per quanto riguarda il totale dei letti che sono accreditati, sono 8.620 letti complessivamente, e di questi 4.975 sono stati destinati all’emergenza Covid, a curare soltanto malati Covid.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma mentre il presidente Fontana ci fornisce i numeri, ci accorgiamo che il foglio da cui legge i dati, è la stessa pagina pubblicitaria pagata dalle cliniche private lombarde.

GIORGIO MOTTOLA I dati che lei mi leggeva sono presi dalla pagina pubblicitaria che le associazioni della sanità privata hanno comprato sui giornali. La pagina mi sembra esattamente quella.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA O lei mi dice che i dati sono falsi e allora andrò subito a far fare una ricerca per vedere se sono falsi i dati. Se non sono falsi, credo che debbano essere presi in considerazione.

GIORGIO MOTTOLA Su quella pagina c’è anche lo stemma della Regione Lombardia. Ed è una pagina pubblicitaria di auto elogio da parte della sanità privata. Non è stato un errore, secondo lei, concedere il marchio della Regione?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non abbiamo concesso il marchio. Loro, in quanto…

GIORGIO MOTTOLA Ah, lo hanno preso senza chiederlo?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Loro, in quanto accreditati fanno parte del sistema della sanità quindi possono utilizzarlo.

MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO Questo modello misto pubblico-privato ha evidenziato il fatto che non è vero che la sanità privata è il sistema. Il privato ha scelto l’ambito in cui intervenire, per cui se si ricorda la prima disponibilità è stata data nella cessione di personale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E infatti nella prima delibera del 4 marzo, i privati si accordano con la Regione per mettere a disposizione degli ospedali pubblici una parte del loro personale. Ma, come avevamo già raccontato qualche settimana fa, solo a partire dall’8 marzo cominciano a muoversi a pieno regime, rinunciando a tutte le prestazioni non urgenti.

ROBERTO ROSSI – SEGRETARIO GENERALE CGIL FUNZIONE PUBBLICA - BERGAMO Per cui, solo in quel momento la sanità privata è entrata, come dire, completamente, in campo. Ha svuotato i reparti, come dire, dei casi non Covid.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la puntata del 6 aprile Humanitas ha acquistato una pagina dell’Eco di Bergamo, firmata da medici e infermieri, in cui si accusava Report di aver detto il falso.

GIORGIO MOTTOLA Sono stati i lavoratori a comprare quella pagina?

INFERMIERE HUMANITAS No, ovviamente. È stata comprata dalla direzione. A me non è stato chiesto di firmare quel documento, ma a qualcuno è stato chiesto.

GIORGIO MOTTOLA È vero o no che anche dopo che è iniziata l’emergenza, quindi fino all’8 marzo in Humanitas si è continuato a fare prestazioni non urgenti?

INFERMIERE HUMANITAS Sì, si è continuato assolutamente. È chiaro che un’azienda che non ha come unico fine la salute ma anche deve guardare anche alle casse ha cercato di tenere aperto quello che poteva tenere aperto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che i privati si siano mossi in ritardo rispetto agli ospedali pubblici emerge chiaramente anche dai numeri. Il 4 marzo, quando in tutta la Regione c’erano già oltre 1.000 ricoverati per Covid e gli ospedali pubblici erano stracolmi di contagiati, il Gruppo San Donato in provincia di Bergamo ospitava 40 malati Covid su quasi 295 posti letto nel Policlinico San Pietro, e 26 Covid su 319 posti letto disponibili nell’ospedale San Marco.

GIORGIO MOTTOLA La sanità privata per intervenire è stato necessario chiederglielo.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non abbiamo chiesto…

GIORGIO MOTTOLA Avete fatto una delibera l’8 marzo che ha bloccato le prestazioni non urgenti altrimenti…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, no.

GIORGIO MOTTOLA Nel senso che ha scelto da quando cominciare a pieno regime…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Questo lo dice lei. Ma le dico anche che dal 23 noi ci siamo trovati qui e abbiamo iniziato subito la collaborazione. A pieno regime sono arrivati dopo l’8? È probabile. È possibile che ci voglia un po’ di tempo. Quindi sul fatto che a pieno regime dopo l’8 penso che lei abbia ragione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In modo molto diverso sono andate le cose in Veneto, dove il sistema sanitario è in assoluta prevalenza pubblico e il privato rappresenta una parte nettamente minoritaria. Veneto e Lombardia hanno avuto lo stesso giorno i primi due focolai Covid d’Italia. Ma mentre in Lombardia la curva dei contagi è schizzata verso l’alto, in Veneto è andata subito stabilizzandosi.

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UNIVERSITARIO - PADOVA Io credo che in questo caso la logica del servizio pubblico ci abbia concesso un atteggiamento e un’organizzazione che magari un modello privato non avrebbe potuto affrontare.

GIORGIO MOTTOLA Essendo un sistema pubblico Lei può pianificare tutto?

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UNIVERSITARIO - PADOVA è una gestione diretta. Nel sistema pubblico ogni direttore generale gestisce i suoi ospedali. Non ha dovuto confrontarsi con un altro interlocutore.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi 10 anni, il Veneto ha fatto una scelta diametralmente opposta rispetto alla Lombardia. La spesa nel settore della sanità è infatti aumentata, ma si è ridotta la fetta di soldi che va ai privati. Passando dal 27 al 16 per cento.

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Di certo la scelta fondamentale è stata sempre quella di difendere il pubblico. Ho fatto la scelta di avere i privati, di bloccare e quindi mummificare la parte di privati che ho trovato. Le dico anche di più, se c’è qualche privato in Veneto che vuole vendere noi siamo disposti a comprarlo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Perché lei ha fatto questa scelta: investire sulla sanità pubblica in Veneto?

 LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Perché io l’ho sempre definito un segno di civiltà. Qui da noi si cura, in Veneto in particolar modo non si guarda il colore della pelle, non si guarda il censo, non si guardano le scelte politiche, religiose, sentimentali. Si curano tutti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A differenza della Lombardia, qui in Veneto i privati ricevono soldi solo se rispettano rigorosamente gli indirizzi e le richieste della Regione. Quindi non possono scegliersi le ciliegie migliori.

GIORGIO MOTTOLA Qui in Veneto i privati non hanno scelto quali patologie curare.

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Non lo scelgono, assolutamente no, perché c’è un piano, ci sono delle schede ospedaliere e a loro viene attribuito un ruolo che è fondamentale. Ma il privato è giusto che si integri assolutamente con il progetto che la Regione decide, peraltro è previsto dalla nostra legge. GIORGIO MOTTOLA Lui dice che la sanità pubblica deve essere centrale e che il privato se esiste deve fare quello che dice il pubblico e basta.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA La direzione verso la quale io sto andando è proprio quella. Che comunque la programmazione, la individuazione delle finalità delle scelte debbono rimanere tutte nelle mani del pubblico.

GIORGIO MOTTOLA Perché oggi la situazione è un po’ che la polpa va ai privati e l’osso rimane…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Questo è un vecchio discorso… GIORGIO MOTTOLA L’osso rimane al pubblico…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA E infatti stiamo andando anche nella direzione di dare delle linee che impongano di svolgere attività sulle quali magari abbiamo qualche, in questo momento, difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA Pianificazione.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Bravo.

GIORGIO MOTTOLA Quindi un cambio di passo rispetto al passato, presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Questo lo dice lei, non lo so. GIORGIO MOTTOLA Possiamo dire ai telespettatori che dopo questa emergenza la sanità lombarda sarà un po’ più pubblica di prima, ecco.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, possiamo dire che la sanità lombarda già nell’ultimo anno ha dato delle dimostrazioni che vuole essere il pubblico il vero direttore d’orchestra della sanità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se cambia il direttore d’orchestra, cambia anche la musica, almeno così dovrebbe. Insomma, il governatore Fontana alla fine lo ha ammesso, qualcuno ha stonato in passato. Lo ha ammesso un po’ a denti stretti perché c’è anche qualcuno del suo partito, o qualcuno alleato al partito. Roberto Maroni da governatore ha in qualche modo depotenziato, ha distrutto la rete di medicina territoriale, e Formigoni l’ha consegnata la sanità ai privati. E il rapporto è talmente promiscuo, ormai è consolidato, che il governatore Fontana non si rende conto di leggere i dati della sanità privata che sono stati pubblicati su una pagina a pagamento di un giornale con il logo della Regione. Questo giusto per dire quanto sia stretto il rapporto tra gruppi privati e politica. Il gruppo San Donato che è il numero 1 del campo della sanità privata ha come presidente Angelino Alfano, ecco. Angelino Alfano ex ministro dell’Interno, ex ministro della Giustizia, ex ministro degli Affari Esteri. Lui può vantare i vecchi rapporti con l’assessore attuale alla sanità Giulio Gallera perché erano compagni di partito e può anche far valere i rapporti tessuti quando era ministro degli Esteri nell’espansione del Gruppo San Donato all’estero e pensiamo a Dubai o in Russia. Mentre Humanitas è sbarcata a Catania e qui entrano in ballo i livelli essenziali di assistenza. Ecco sono quelle prestazioni che lo Stato garantisce sulla sanità ai cittadini. Devono essere rilasciate gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. Poi ogni Regione le fa proprie e determina gli standard di queste prestazioni, di questa assistenza. Ecco può essere più o meno bassa: cioè può pagare più o meno il pubblico o il privato che fornisce quel tipo di assistenza. La Sicilia e il Lazio hanno scelto il livello più basso. Tuttavia, il gruppo Humanitas sceglie di andare in Sicilia e la regione Sicilia di riconoscergli le prestazioni nel campo dell’oncologia, dove invece c’è già a Catania, è presente un’eccellenza del pubblico, l’ospedale Garibaldi. Perché lo fa e poi chi è che ha portato il gruppo Humanitas giù a Catania? Neanche a dirlo, un politico. L’ immarcescibile famiglia di Luca Sammartino.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Anche a Catania è arrivata l’Humanitas, holding milanese del gruppo Rocca, che ha fatto sorgere questo nuovo gigante per le cure oncologiche. 158 posti letto spostati qui dalla sanità pubblica e 23,6 milioni di euro l’anno accreditati dalla Regione. Eppure, a poca distanza, c’è l’Ospedale pubblico Garibaldi Nesima, polo oncologico di eccellenza in Sicilia.

MASSIMO RUSSO - EX ASSESSORE SANITÀ REGIONE SICILIANA- GOVERNO LOMBARDO L'Humanitas ha avuto dei posti letto che non rientravano nella programmazione. Ma questo è avvenuto dopo il mio mandato e ha avuto anche degli strascichi giudiziari quantomeno sul piano amministrativo.

PAOLO MONDANI Non siete stati voi ad autorizzarlo.

MASSIMO RUSSO - EX ASSESSORE SANITÀ REGIONE SICILIANA- GOVERNO LOMBARDO Avevamo detto all'Humanitas che poteva essere autorizzata ad aprire dei reparti con dei posti letto ma non convenzionati con il pubblico.

PAOLO MONDANI Quindi il governo Crocetta l'ha fatto, insomma.

MASSIMO RUSSO - EX ASSESSORE SANITÀ REGIONE SICILIANA- GOVERNO LOMBARDO Il governo Crocetta. Il governo dei proclami e dei pochi fatti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’Humanitas è tutta politica. Domina la famiglia del deputato regionale Luca Sammartino, recordman di preferenze alle regionali del 2017. La madre di Luca è direttore sanitario all’Humanitas, lo zio è l’amministratore delegato. Luca inizia col centrodestra, poi passa all’Udc, poi si fa un movimento, poi passa al Pd, poi va con Renzi. E ha solo 35 anni. Ha la stoffa: è già indagato per corruzione elettorale. Intanto l’Humanitas entra nella previsione della Regione per il Covid. Per capire il perché, parliamo di dialisi.

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO-MESSINA Noi abbiamo un totale di 117 centri dialisi di cui 36 pubblici e 81 privati. E la cosa interessante che è accaduta proprio in questi giorni è che è stata emanata una nota da parte dell'assessorato in cui si dice che se dovessero esserci pazienti dializzati con...

PAOLO MONDANI …Covid.

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO-MESSINA …Covid, questi vanno ricoverati nelle strutture pubbliche. Ancora una volta c'è un meccanismo in cui tutti gli oneri sono a carico del pubblico, tutti i guadagni e i profitti sono del privato. Ma la cosa interessante è un'altra. A emanare questa nota è la direzione dell'assessorato che è in mano al dottor La Rocca, la cui famiglia è titolare di una struttura privata di dialisi.

PAOLO MONDANI Lei lo sapeva che la famiglia del direttore generale del suo assessorato Mario La Rocca possiede un centro di nefrologia e dialisi qui a Palermo, convenzionato con l'Asp e l'anno scorso ha preso tre milioni di euro?

RUGGERO RAZZA - ASSESSORE ALLA SALUTE REGIONE SICILIANA Infatti, siccome il mio assessorato ha due dipartimenti, tutte le decisioni che sono assunte sulla materia che riguarda l'interesse in conflitto sono decise con decreto del Presidente della Regione che ne affida la responsabilità all'altro direttore generale.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi per fare un direttore generale ce ne vogliono due? Ma no. Le decisioni che contano è sempre Mario La Rocca a prenderle. Il 30 marzo scorso per esempio il nostro direttore firma a nome della Regione un accordo quadro con l’Aiop, l’associazione che raccoglie l’ospedalità privata. Si realizzeranno posti letto Covid in subintensiva a 700 euro giorno cada uno e in intensiva a 1.100 euro al giorno. Si prevede così di sfondare il budget annuale della Regione. Ora Humanitas dice di non aver mai offerto disponibilità di posti Covid, ma la Regione conferma di averla coinvolta. Il dottor Mario La Rocca risolverà questo mistero.

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO-MESSINA In Sicilia non è cambiato nulla dagli anni in cui le logge massoniche di via Roma c'era una presenza di medici straordinaria e di rappresentanti delle istituzioni anche del mondo della sanità.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E non è cambiato nemmeno sul versante degli appalti, dove la Guardia di finanza parla di corruzione sistemica della sanità siciliana per via dei dirigenti pubblici che consentono alle aziende private di vincere gare per milioni di euro in cambio di mazzette. Di questo è accusato Antonino Candela, coordinatore per l’emergenza Coronavirus della regione, finito ai domiciliari pochi giorni fa. Ai suoi interlocutori Candela descriveva così il suo ruolo: Intercettazione

ANTONINO CANDELA Ricordati che la sanità è un condominio, quindi io sempre capo condomino rimango.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E i soldi che girano sono tanti. L’ultimo dato disponibile, quello del 2018, dice che in Sicilia lo Stato impegna 9,2 miliardi di euro in sanità. Quanto c’è di privato in tutto questo?

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO MESSINA Di privato ci sono ben 2 miliardi e 140 milioni di euro. Ed è una cifra considerevole che incide per il 23 per cento sul bilancio complessivo. Ed è una cifra che si è incrementata in maniera notevolissima nell'arco degli ultimi 15 anni.

PAOLO MONDANI L'assistenza domiciliare c'è in Sicilia?

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO MESSINA A differenza della Lombardia dove l'assistenza domiciliare è stata smantellata, in Sicilia non c'è mai stata.

PAOLO MONDANI E quali sono i grandi nomi della sanità privata in Sicilia?

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO MESSINA Beh, quelli che hanno ricoperto degli incarichi politici direttamente nel governo della Regione e in particolare nella gestione dei problemi legati alla sanità sono: Cittadini che è stato assessore ed è proprietario della clinica Candela, nonché rappresentante dell'Aiop, che è l'associazione di rappresentanza delle case di cura private. L'onorevole Pagano che è stato assessore alla Sanità e la cui famiglia, la moglie, è titolare di una casa di cura, la Regina Pacis. C’è anche poi il senatore Giardina, che ha una casa di cura a Siracusa, C’è il senatore Mancuso che ha una dialisi privata, argomento particolare che va strettamente osservato nella zona di Messina.

PAOLO MONDANI E la mafia come entra nel grande affare della sanità privata?

MICHELE VULLO - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE PAPARDO MESSINA A Castelvetrano dove c'è una dialisi privata molto, come dire, da un punto di vista organizzativo di grande impatto, a dirigere questa struttura c'era un parente di Matteo Messina Denaro

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ad aprile al Maria Eleonora Hospital di Palermo scoppiano i contagi. Proprietario della struttura è Ettore Sansavini, il re della sanità privata in Emilia Romagna, che ha cliniche in Russia, Polonia, Ucraina, Francia e in tutta Italia. Sansavini arrivò qui nel ’91, la clinica si chiamava Arcobaleno, allora sotto scacco per vicende di mafia. Oggi è un piccolo polo della cardiochirurgia. Accreditato per 24 milioni di euro l’anno. Poi è arrivato il Covid, 37 casi dice la GVM, 52 dice l’azienda sanitaria.

ENZO MUNAFÒ - SEGRETARIO FIALS PALERMO Una sera mi arriva una telefonata per dire che c'era un focolaio all'interno di Villa Maria Eleonora. E i lavoratori erano stressati e non si permetteva a nessuno, né di entrare né di uscire.

PAOLO MONDANI E quand'è che cominciano a dire che le cose stanno così, quante ore passano?

ENZO MUNAFÒ - SEGRETARIO FIALS PALERMO I lavoratori sono rimasti fino a 72 ore all'interno della struttura e da lì poi è cominciata l'evacuazione.

PAOLO MONDANI Mi scusi ma se io e lei incontrassimo un problema di questo tipo, la prima cosa che facciamo…

ENZO MUNAFÒ - SEGRETARIO FIALS PALERMO Chiediamo aiuto.

PAOLO MONDANI Chiediamo aiuto.

ENZO MUNAFÒ - SEGRETARIO FIALS PALERMO La mia impressione è che quando siamo di fronte alle strutture private c'è l'immagine da difendere.

PAOLO MONDANI AL TELEFONO Il dottor Panci, che è il direttore della clinica, che cosa ha fatto immediatamente dopo il primo caso di contagio?

OPERATORE SANITARIO MARIA ELEONORA HOSPITAL PALERMO Il dotto Panci credo che informi la Asp.

PAOLO MONDANI AL TELEFONO Quindi è l'Asp che vi ha detto di barricarvi per 72 ore?

OPERATORE SANITARIO MARIA ELEONORA HOSPITAL PALERMO Certo. E invece di organizzare una unità di crisi con Protezione Civile, con ricambio di personale medico e infermieristico ci ha solo barricato dentro.

PAOLO MONDANI Dopo l'accertamento del primo caso, operatori e medici sono stati bloccati nella struttura per 72 ore. Il dottor Panci che dirige la struttura, sarebbe stato indotto a farlo dopo aver parlato con l'Asp di Palermo: è andata così, assessore?

RUGGERO RAZZA - ASSESSORE ALLA SALUTE REGIONE SICILIANA Guardi, quello che io ho fatto immediatamente è stato nominare una commissione di inchiesta su Villa Maria Eleonora. Se ci sono state delle interlocuzioni con l'Azienda sanitaria provinciale non le saprei dire.

PAOLO MONDANI Il Presidente Musumeci, il 20 marzo scorso, disse che tutti i medici e gli infermieri siciliani avrebbero dovuto fare un tampone. L'intervento è cominciato con un po' di ritardo. In alcuni luoghi si è fatto, in altri meno. Ad esempio al Biancavilla a Catania e al Civico a Palermo ancora gli operatori sanitari aspettano di essere sottoposti a tampone, come mai?

RUGGERO RAZZA - ASSESSORE ALLA SALUTE REGIONE SICILIANA Noi oggi abbiamo una capacità di analizzare un numero significativo di tamponi. All'inizio di questa emergenza così non era.

PAOLO MONDANI Perché a medici e infermieri e a tutti coloro che sono rientrati dal nord un ritardo così grande sul primo tampone, ma poi non è stato fatto un secondo tampone quando tutti gli esperti dicono che ne occorrono almeno due.

RUGGERO RAZZA - ASSESSORE ALLA SALUTE REGIONE SICILIANA Per quale ragione ne occorrono due? Per verificare se il tampone… la guarigione.

PAOLO MONDANI Perché il primo tampone non è detto che, diciamo così…

RUGGERO RAZZA - ASSESSORE ALLA SALUTE REGIONE SICILIANA Non è scritto nelle linee guida dell'ISS. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, poi alla fine abbiamo capito che le linee guida ognuno, ogni Regione le interpreta un po’ a modo suo. Ecco, però abbiamo capito anche che senza la strategia delle tre T: testare, tracciare, trattare, difficilmente la bestia verrà sconfitta e rischieremo di pagare in termini di vite umane e anche di perdita enorme di risorse, se non attuiamo subito questa strategia. Per esempio, in Germania cosa hanno fatto di così diverso da poter contare poi alla fine un terzo delle morti rispetto a noi?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A 1.800 chilometri da Palermo, Monaco di Baviera è uscita dal lockdown. Questa è la clinica privata del gruppo Helios. Proprio come il Maria Eleonora Hospital di Palermo, a causa del Covid-19 è stata chiusa ma poi riaperta dopo una settimana. Come hanno affrontato loro il coronavirus?

REZA GHOTBI - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE HELIOS MONACO DI BAVIERA Improvvisamente 14 pazienti e 2 membri dello staff dell’ospedale sono risultati positivi. Abbiamo isolato i contagiati, fermato i ricoveri e testato tutti, ordinando la quarantena per i dipendenti. Da allora tutti facciamo un tampone a settimana. E tutti hanno già fatto il test sierologico.

PAOLO MONDANI Professor Janssens. Mi spiega perché così pochi morti in Germania?

UWE JANSSENS - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE TEDESCA MEDICINA INTENSIVA Perché abbiamo fatto 350.000 tamponi alla settimana. In Italia in misura più limitata i tamponi si sono fatti solo quando i pazienti hanno cominciato a morire in gran numero.

PAOLO MONDANI Onorevole Lauterbach, Voi spendete 400 miliardi di euro l’anno, noi 118. Per ogni cittadino investite in sanità il doppio di noi. Perché?

KARL LAUTERBACH - PARLAMENTARE SPD MEDICO EPIDEMIOLOGO Perché la sanità crea lavoro. Il numero altissimo di tamponi è possibile grazie agli ambulatori e ai medici esterni agli ospedali. Abbiamo circa 200.000 medici nel settore ambulatoriale, di cui 80.000 sono medici di famiglia. Li paghiamo bene, circa 200 mila euro lordi l’anno. Sono loro ad aver tenuto lontano il virus dagli ospedali.

PAOLO MONDANI Dottor Bobrowski, in Germania voi medici di laboratorio siete i protagonisti della strategia dei tamponi di massa…

ANDREAS BOBROWSKI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE TEDESCA MEDICI DI LABORATORIO Pensi che lavoriamo con turni di 24 ore. Ci sono 161 laboratori attivi in Germania e già oggi siamo in grado di fornire i risultati di 110 mila test al giorno.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E ci sono anche i tamponi drive-in. Chiami il 116.117, prendi un appuntamento, arrivi in auto, il medico fa il tampone e se è positivo, l’ufficio d’igiene traccia tutti i contatti e li mette in quarantena. Tutto in 48 ore.

PAOLO MONDANI Dottor Ghotbi, in Italia ci sono molti ospedali privati che hanno risparmiato sulla terapia intensiva concentrandosi su settori più redditizi come l’oncologia. È possibile una cosa del genere in Germania?

 REZA GHOTBI - DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE HELIOS MONACO DI BAVIERA No, è assolutamente impossibile. Qui le cliniche private fanno parte di una pianificazione sanitaria, non decidono da sole.

PAOLO MONDANI Dottor GaSS, lei rappresenta gli ospedali pubblici in Germania. Come funziona il rapporto tra i Länder, le vostre regioni, e le strutture private?

GERALD GASS - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE TEDESCA DEGLI OSPEDALI Abbiamo quasi 2.000 ospedali in Germania: un terzo è privato, un terzo è pubblico, un altro terzo organizzato dalle chiese. Sono tutti in gran parte finanziati dai Länder e dalla fiscalità generale.

PAOLO MONDANI In Lombardia abbiamo ospedali privati che totalizzano fino al 10 per cento di utili sul fatturato e poi qualcosa va a finire nei paradisi fiscali…lì da voi che cosa accade?

GERALD GASS - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE TEDESCA DEGLI OSPEDALI I privati guadagnano meno. Arrivano a una media del 7 per cento di utili e devono investire obbligatoriamente in qualità. Se non riescono a stare al passo dei piani sanitari stabiliti dai Länder perdono la possibilità di fatturare le loro prestazioni. Non conviene mai fare i furbi.

PAOLO MONDANI Dottor Reichenbach, come si sono comportati i Länder nei confronti del governo federale in questa fase di pandemia? In Italia, come sa, le Regioni hanno fatto a spallate col governo Conte.

GEROLD REICHENBACH – EX PARLAMENTARE SPD PROTEZIONE CIVILE TEDESCA Länder e governo federale hanno litigato all’inizio della pandemia. Poi il ministro della Sanità Jens Spahn ha detto: la linea dell’emergenza si decide a Berlino. Punto. Quindi si è ripreso a litigare sulle norme della fase 2. Ma alla fine si è fissato un paletto comune: se in un Land emergeranno 50 nuovi contagi per 100mila abitanti in sette giorni, si torna obbligatoriamente al lockdown. Questa è la norma. Perché non illudiamoci. Covid 19 è ancora tra noi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Da noi hanno riaperto, ma i paletti ancora non li hanno fissati. I governatori delle Regioni litigano tra loro e con il governo. Mentre in Germania è chiaro chi ha il pallino in questa fase: il governo. Ma quale è stata la politica sanitaria che hanno adottato in Germania? Il cancelliere Schroeder nel 2000 ha cominciato a rendere molto più flessibile il lavoro. Sono stati tolti alcuni diritti per i lavoratori, abbassati i salari, abbassate anche le pensioni per alcune fasce di lavoratori. Ma hanno investito di più in sanità. Parliamo dell’11 per cento del Pil e noi siamo appena al 6,6 per cento. Poi hanno puntato sulla medicina territoriale, sugli ambulatori, i medici di famiglia li pagano, li pagano anche lautamente. Noi li abbiamo tagliati: 42.800 con gli infermieri. Abbiamo sforbiciato con la spending review dal governo Monti e con il ministro della Salute dell’epoca, Renato Balduzzi, abbiamo cominciato a tagliare posti letto, oggi siamo sotto la media europea. E poi tutto questo mentre da noi cresce il privato. Anche in Germania c’è il privato, ma lì il pallino continua ad averlo lo Stato. Sono i lander, il pubblico che decidono i piani ospedalieri, decidono su quante terapie intensive devono investire i privati e devono investire anche nei pronto soccorso, cosa che da noi non avviene. E poi insomma alla fine in Germania non possono scegliersi le prestazioni, non possono scegliersi le ciliegie più buone. Se hanno in Germania il 7 per cento di utili, da noi hanno il 10 e il 15 per cento. Forse sarebbe il caso di rivedere anche quei margini. Visto che poi i soldi alla fine li danno i Land e lo Stato, lo Stato decide anche il numero di medici e il tipo di prestazioni che devono essere stabilite. E poi soprattutto hanno adeguato il piano contro le pandemie al 2016, l’hanno anche rivisitato nel 2017. A differenza di noi che abbiamo fatto un vergognoso copia incolla di quello del 2006 e del quale vanno ancora ricercate, stabilite, individuate le responsabilità. Poi, uno si chiede, ma perché la Germania ha avuto molti meno morti di noi?

CORONAVIRUS, GLI ERRORI DELLA LOMBARDIA SALTANO AGLI OCCHI DI TUTTI. Per Crimi dei Cinque Stelle si tratta di un fallimento epocale della coppia Fontana-Gallera. Irene Panighetti il 23 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non solo in Italia, in Parlamento, e non solo in Lombardia, in primis negli ospedali e nelle Rsa: no, per citare le parole del vice ministro dell’interno e capo politico dei Cinquestelle, Vito Crimi “tutto il mondo ha potuto constatare con i propri occhi la gestione politica fallimentare dell’emergenza ad opera della coppia Fontana-Gallera. Un fallimento epocale”. Il post di Crimi è arrivato poche ore dopo la rissa in Aula di giovedì mattina, quando è stato messo a nudo il modello lombardo di sanità che “che parte da lontano, da quella sanità pubblica con una rete territoriale di prossimità svuotata per favorire i grandi centri della salute e passa dagli arresti e le condanne per tangenti in sanità, fino ad arrivare all’ospedale in Fiera a Milano. Un disastro”, conclude Crimi. Con toni diversi ma con sostanza immutata la lettera indirizzata a Giuseppe Conte e scritta da un nutrito gruppo di avvocati e magistrati (ancora o non più in carica), con primi firmatari da Elena Paciotti (già presidentessa Associazione nazionale magistrati) e Giuliano Turone (giudice emerito in Cassazione che per anni ha condotto inchieste sulla criminalità organizzata). I firmatari individuano “una serie di errori, di scelte incongrue e di omissioni che hanno portato la nostra Regione ad essere quella con il maggior numero di malati di Covid19 in Italia – ed elencano le – gravi disfunzioni e le carenze denunciate con riguardo alla Regione Lombardia che sono sotto gli occhi di tutti”. Proprio in seguito a tutti gli episodi che riportano e “al fine di impedire che la situazione possa peggiorare ulteriormente, i sottoscritti chiedono dunque che siano adottate con la massima urgenza tutte le misure necessarie per far sì che la gestione della emergenza sanitaria si svolga finalmente secondo criteri di razionalità, adeguatezza e competenza, anche occorrendo, ad esito delle opportune verifiche ispettive, con la sostituzione di quanti si sono resi responsabili di scelte incongrue ed erronee”. Un po’ meno pacata la nuova richiesta della campagna “#oraacasarestatecivoi” che sulla sua pagina facebook ha riportato l’intervento del presidente della fondazione Gimbe Nino Cartabellotta il quale avverte dei grandi rischi che si stanno correndo dopo le riaperture di questi ultimi giorni e in seguito lamenta il fatto che sia stata “demandata interamente alle Regioni la responsabilità del monitoraggio epidemiologico e delle conseguenti azioni, con il ministero della Salute che rimane spettatore passivo: la gestione e il monitoraggio dell’epidemia sono affidati a 21 diversi sistemi sanitari che decideranno in totale autonomia ampliamenti e restrizioni delle misure in base ad una situazione epidemiologica autocertificata. La storia insegna che non è sano quando controllore e controllato coincidono”. Quindi, aggiunge “#oraacasarestatecivoi”, “ha prevalso la cosiddetta autonomia, che in Lombardia visto com’è andata la Fase 1 si traduce in una totale assenza di intervento e nell’abbandono del territorio. Ora più che mai è necessario vigilare sull’operato della Regione”. Una necessità civica che il governo lombardo sta cercando di evitare in tutti i modi: mercoledì ancora fumata nera per l’elezione del presidente della commissione regionale d’inchiesta sull’emergenza sanitaria voluta dalle opposizioni alle quali, come da prassi, spetta la presidenza. Ma per la seconda volta la votazione non ha portato ad una nomina, poiché la maggioranza a guida leghista, con i suoi 49 consiglieri, continua a far valere la forza dei numeri facendo mancare il quorum. La prossima settimana la terza prova. Nel frattempo però proseguono le azioni concrete su singole vicende scandalose, prima fra tutte quella dell’ospedale in Fiera a Milano, costruito spendendo oltre 21 milioni di euro per una ventina di pazienti e in probabile chiusura. Per esempio c’è l’invito ad agire arrivato dall’avvocato Giuseppe La Scala, a capo di un noto e ampio studio legale milanese, che ha donato 10mila euro per la raccolta fondi per l’Ospedale e che adesso ha intenzione di vederci chiaro nella gestione dei soldi, iniziando con l’accesso agli atti per poi eventualmente proseguire nei tribunali.

In tema di azioni legali il sindacato Adl Cobas ha presentato un esposto alla Procura milanese chiedendo accertamenti per “per valutare l’esistenza di profili di responsabilità sulla costruzione dell’ospedale alla Fiera di Milano City e della sua gestione”. Il portavoce del sindacato di base Riccardo Germani fautore dell’esposto, definisce l’operazione di mera propaganda e lo denuncia come uno “spreco enorme di risorse quando, proprio nel momento di maggiore criticità, tali fondi sarebbero potuti essere impiegati diversamente – e prosegue elencando esempi di uso migliore dei soldi – con pochi soldi e lo stesso personale si potevano attivare posti letto nei padiglioni dell’ex ospedale di Legnano, oppure allo Stomatologico di Milano o nella Rsa a Pogliano Milanese, con 280 posti letto da inaugurare”.

Da repubblica.it il 21 maggio 2020. Il deputato M5s Giovanni Currò ha pubblicato sul proprio profilo Twitter un video che mostra i momenti successivi alla sospensione della seduta decisa dal presidente Fico. Come mostra la clip, numerosi deputati della Lega hanno creato un fitto assembramento in Aula, dopo l'intervento di Riccardo Ricciardi (M5s) in cui il collega attaccava il 'modello Lombardia'. "Rissa alla Camera: si parla di sanità e Lombardia e i deputati della Lega se ne infischiano delle regole e del distanziamento. Incapaci nel gestire l'emergenza sanitaria, incuranti delle misure di tutela. Non è un gioco. Dobbiamo dare l'esempio", ha scritto Currò a corredo del video.

Da liberoquotidiano.it il 21 maggio 2020. Una cannonata. Parole durissime. Da un insospettabile come Enrico Mentana. Insospettabile perché è tutto tranne che un leghista o un fan di Matteo Salvini. Ma il direttore del TgLa7, questa volta, di fatto prende le parti del Carroccio. E, soprattutto, attacca in modo durissimo il grillino Riccardo Ricciardi, protagonista del vergognoso intervento alla Camera che ha scatenato il caos e ha costretto ad interrompere i lavori. Su Facebook, Mentana scrive: "A nome di tanti che non voterebbero mai Lega, né hanno mai votato per Berlusconi o Formigoni, vorrei dire all'onorevole Ricciardi che mai avevo ascoltato in un'aula parlamentare un intervento così squallido e vergognoso, che per colpire i suoi avversari identifica una regione martire con chi la amministra e bolla entrambi, arbitrariamente e con aperta soddisfazione, per il numero di morti. Se non fosse un eletto le direi che è un coglione, ma temo di essere querelato, dagli incolpevoli testicoli", conclude il direttore del TgLa7. Semplicemente mai così duro.

Enrico Mentana contro il deputato 5S Ricciardi: «Mai visto un intervento così squallido e vergognoso». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Alice Scaglioni. Parole molto dure, quelle che ha usato il direttore del TgLa7 Enrico Mentana per commentare l’intervento del deputato pentastellato Riccardo Ricciardi (qui un suo ritratto) questa mattina alla Camera, dopo l’informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «A nome di tanti che non voterebbero mai Lega, né hanno mai votato per Berlusconi o Formigoni, vorrei dire all'onorevole Ricciardi che mai avevo ascoltato in un'aula parlamentare un intervento così squallido e vergognoso». Così il giornalista, con un post sulla sua pagina Facebook, ha commentato l’intervento dell’esponente grillino, che già aveva provocato bagarre in aula, tanto da costringere il presidente della Camera Roberto Fico a sospendere la seduta. Per Mentana Ricciardi, pur di colpire i suoi avversari, ha voluto identificare la Lombardia con i suoi amministratori, bollandoli entrambi «arbitrariamente e con aperta soddisfazione per il numero di morti». Il deputato 5Stelle ha infatti attaccato il sistema sanitario della Lombardia, scatenando gli insulti e l’ira dei leghisti, ed è stato allora che Fico ha deciso di sospendere la seduta. «Se non fosse un eletto le direi che è un coglione – conclude Mentana nel suo post Facebook – ma temo di essere querelato, dagli incolpevoli testicoli». Un post che è diventato virale, scatenando oltre 3 mila commenti in appena un’ora e oltre 12 mila reactions sulla pagina social. L’intervento di Ricciardi è stato il primo dopo il discorso del premier Conte, che in mattinata ha parlato alla Camera (e poi al Senato), presentando una informativa sulla nuova fase della lotta al coronavirus, dopo il Decreto Rilancio e il decreto con cui delega alle Regioni sulle riaperture. Qui la diretta del suo intervento; qui la diretta video.

Monica Guerzoni per corriere.it il 21 maggio 2020. È una furia Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega si volta sulla porta dell’aula di Montecitorio e si calca la mascherina sul viso: «Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il c... sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no». Mancano cinque minuti alle 11, la seduta è appena ripresa dopo la lunga interruzione decisa dal presidente Roberto Fico subito dopo l’informativa di Giuseppe Conte sull’emergenza Covid19. La Lega reagisce con cori di «buffone» e «vergogna» all’intervento di Riccardo Ricciardi (M5S) (qui chi è l’esponente dei 5 Stelle) contro la gestione lombarda della sanità. Il presidente del Copasir Raffaele Volpi si alza e corre verso la presidenza, poi assesta una sonora manata sullo scranno di Fico: «Presidente così non si può!». Seduta sospesa, tutti fuori in Transatlantico. Giorgetti incrocia Roberto Speranza e si sfoga: «Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati...». Il ministro della Salute comprende la tensione dell’ex sottosegretario a Palazzo Chigi: «Hai ragione Giancarlo, che ti devo dire? Hai ragione». E lo stesso ammetterà due minuti dopo Nico Stumpo di Leu. La scena si sposta in cortile, con Fico attorniato dai leghisti in cortile. C’è Volpi che si scusa con il presidente per la manata sul banco («Io di solito sono istituzionale...») e racconta con le lacrime agli occhi: «Io sono di Brescia e ho perso tre amici». E c’è Giorgetti che ripete il suo avviso: «Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti».

Covid-19, il M5S attacca la sanità lombarda. Giorgetti contro il Pd: «Metteteli in riga o finisce male». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. È una furia Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega si volta sulla porta dell’aula di Montecitorio e si calca la mascherina sul viso: «Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il c... sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no». Mancano cinque minuti alle 11, la seduta è appena ripresa dopo la luna interruzione decisa dal presidente Roberto Fico subito dopo l’informativa di Giuseppe Conte sull’emergenza Covid19. La Lega reagisce con cori di «buffone» e «vergogna» all’intervento di Riccardo Ricciardi (M5S) contro la gestione lombarda della sanità. Il presidente del Copasir Riccardo Volpi si alza e corre verso la presidenza, poi assesta una sonora manata sullo scranno di Fico: «Presidente così non si può!». Seduta sospesa, tutti fuori in Transatlantico. Giorgetti incrocia Roberto Speranza e si sfoga: «Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati...». Il ministro della Salute comprende la tensione dell’ex sottosegretario a Palazzo Chigi: «Hai ragione Giancarlo, che ti devo dire? Hai ragione». E lo stesso ammetterà due minuti dopo Nico Stumpo di Leu. La scena si sposta in cortile, con Fico attorniato dai leghisti in cortile. C’è Volpi che si scusa con il presidente per la manata sul banco («Io di solito sono istituzionale...») e racconta con le lacrime agli occhi: «Io sono di Brescia e ho perso tre amici». E c’è Giorgetti che ripete il suo avviso: «Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti».

Lo sfogo di Giorgetti:«Chiedono collaborazione e provocano sui morti». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. «Ma chi è questo Riccardo Ricciardi? Perché mi tira in ballo? E come si permette di parlare della Lombardia? Poi dici che uno gli mette le mani addosso». Giancarlo Giorgetti sbuca dall’aula della Camera alle dieci del mattino, mascherina sul viso e nuovo look con barba e capelli lunghi. È una furia, grida che «così non si può fare», vede Roberto Speranza che parla con il collega di Leu Nico Stumpo nel mezzo del Transatlantico di Montecitorio e va loro incontro, come a chiedere aiuto: «Tira male, io ve lo dico. Qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga questi dei Cinque Stelle, perché una roba del genere è inconcepibile. Coi morti che ci sono stati...». Il ministro della Salute ascolta lo sfogo dell’ex sottosegretario leghista a Palazzo Chigi («Hai ragione Giancarlo, che ti devo dire?»), poi Giorgetti esce in cortile. Dove i leghisti attorniano il presidente Roberto Fico e dove Raffaele Volpi si è appena scusato per il pugno sullo scranno della presidenza. «Io sono di Brescia e per colpa del virus ho perso tre amici», ha le lacrime agli occhi il presidente del Copasir. Giorgetti conforta il collega, poi di nuovo attacca: «Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire qui a provocarci sui morti». La seduta, sospesa per rissa, riprende. Prima di entrare in aula Giorgetti si blocca sulla porta: «Prendere per il c... sui morti, anche no». Alle quattro del pomeriggio il numero due della Lega sta per infilarsi in macchina alle spalle di Palazzo Madama, dove il presidente Conte è appena andato via dopo l’informativa al Senato.

Onorevole Giorgetti, in aula gliene ha gridate di tutti i colori a Ricciardi. Anche parole non molto eleganti... Com’è finita? Ha fatto pace con i Cinque Stelle?

«Io mi sono chiarito con il capogruppo Davide Crippa».

E con Luigi Di Maio in cortile cosa vi siete detti? Gli ha chiesto di richiamare all’ordine Ricciardi?

«Con Di Maio io vado sempre d’accordo».

Sta scherzando o dice sul serio?

«No, non sto scherzando».

Il ministro degli Esteri ha compreso perché vi siete infuriati tanto con Ricciardi?

«Tutti han capito. Questi ragazzi qua li bombano... A quello gli parlavi, ma era come se non sentisse. Andava per conto suo».

Salvini lasciando il Senato ha detto che «era tutto organizzato per coprire il fallimento delle misure del governo». E Meloni ha accusato il premier di aver concordato quelle parole con il deputato M5S. Condivide?

«Non so se era tutto organizzato. So che in questo momento qua uno può fare tutte le critiche che vuole, ma è il modo che non va bene».

Teme che possano accendersi tensioni sociali?

«Io dico che questi attacchi non aiutano nessuno. Io sono uno che si è speso e non voglio fare processi al governo regionale (della Lombardia, ndr), perché tutti possono sbagliare. Però farlo in quel modo, in una situazione di questo tipo, proprio non ha senso».

Che ne sarà adesso della richiesta di collaborazione tra governo e opposizione, che tanto sta a cuore al presidente Mattarella?

«Appunto, non è tanto l’attacco alla Regione Lombardia. È che un intervento come quello è contro chi gli ha chiesto di avere un altro tipo di atteggiamento».

Contro il Quirinale e anche contro Conte?

«Di Conte non lo so, non lo so».

Ricciardi in aula se l’è presa anche con lei. Al premier ha detto «lei ha avuto la fortuna di lavorare con l’ex sottosegretario Giorgetti, che la ricetta per la sanità gliel’aveva data». Ovviamente era ironico, per quello si è arrabbiato tanto?

«Boh, forse Ricciardi si era preso qualcosa».

Il presidente Fico vi ha dato ragione?

«A occhio e croce mi sembrava abbastanza in imbarazzo».

Lei a novembre sparigliò le carte proponendo al governo giallorosso di aprire un tavolo sulle riforme, quasi una costituente per cambiare insieme le regole del gioco. Dopo questo scontro con il Movimento esiste ancora un canale per un dialogo di legislatura?

«In questo momento secondo me c’è da dare da mangiare alla gente, poi si vedrà. Però dico anche che se uno si sforza di portare la discussione su un tono civile e l’esito è questo qua... Io non capisco davvero a che pro, a che cosa serva».

«Si sono fatti degli errori. Ma c’è stata una reazione a testa alta». Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. «Degli errori sono stati fatti. Ma io non mi dimenticherò mai la sera del 7 marzo: davanti ai miei occhi ho visto il rischio di collasso del sistema ospedaliero. Centinaia di pazienti in fame di ossigeno che avevano bisogno di essere ventilati e i letti che non bastavano mai». Antonio Pesenti, 68 anni, primario del Policlinico di Milano, ha coordinato tutte le Terapie intensive lombarde: «Abbiamo creato — non si stanca di ripetere — letti di Rianimazione nei corridoi, nelle sale operatorie, nelle stanze di risveglio. Abbiamo sventrato interi reparti per fare posto ai malati gravi. Davanti alla catastrofe la Lombardia ha reagito a testa alta». Il «modello lombardo» di Sanità, però, è sotto accusa. I tagli ai posti letto, compresi quelli delle Rianimazioni, sono un dato di fatto. In compenso — viene ricordato a più riprese — ci sono molti ospedali privati accreditati. «Bisogna chiarire che i tagli avvengono in seguito a indicazioni ministeriali. Dopodiché, ai primi di marzo la Sanità privata è stata convocata e invitata a dare il proprio apporto. Da quel momento in poi l’ha dato. Certo, è difficile pensare che l’abbia fatto senza un rimborso. Ovvio. Ma in ogni caso il contributo c’è stato».

Il monitoraggio e la sorveglianza sul territorio, però, almeno all’inizio dell’epidemia è mancato.

«Forse è vero. Ma come puoi pensare al tracciamento dei contatti, con gli ospedali che straripano di gente in fin di vita? Cosa vuoi tracciare? C’è una questione innanzitutto di numeri».

E medici di famiglia dimenticati?

«Io più che dimenticati, direi che sono liberi professionisti difficili da organizzare».

Sono mancati i dispositivi di sicurezza, a partire dalle mascherine: molti di loro hanno affrontato il virus a mani nude.

«Ma i Dpi erano introvabili. Dovevano esserci delle scorte che invece non c’erano. Ma in tutta Italia, non solo in Lombardia».

Non sono stati fatti abbastanza tamponi.

«Li abbiamo elemosinati ovunque. All’inizio c’erano pochi laboratori che potevano farli».

Insomma, qual è stata allora la causa del putiferio che è successo?

«L’enorme quantità di casi. Prima del 21 febbraio verosimilmente in Lombardia c’erano già 300 mila persone che giravano con il virus. E il “Paziente 1” di Codogno è stato trovato grazie a un tampone che, se fossero state seguite le indicazioni dell’Oms, non avremmo mai eseguito».

Ma può essere una giustificazione sufficiente? Siccome la Lombardia ha dovuto affrontare uno tsunami le deve essere perdonato tutto?

«Ribadisco: degli errori forse sono stati fatti. Ma la lezione deve servirci: la Sanità pubblica, cioè quella branca della medicina che si occupa della salute della comunità, deve essere valorizzata. Deve sempre prevalere l’interesse comune rispetto a quello dei singolo individuo».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 22 maggio 2020. Guido Marinoni, presidente dell'Ordine dei medici di Bergamo, paragona l'epidemia di Covid-19 in Lombardia «a un disastro aereo: non si può tornare indietro, ma recuperare la scatola nera è indispensabile per implementare la sicurezza. Mi rendo conto che in questa fase di acceso scontro politico sia difficile, non è però un motivo sufficiente per non analizzare gli errori ed evitare di ripeterli». E in Lombardia, dicono i medici che dal 20 febbraio hanno affrontato l'epidemia basandosi su protocolli contrastanti, interventi inadeguati e senza mascherine, di sbagli ne sono stati commessi tanti. La causa di tutto, secondo il medico del lavoro già consulente dell'Iss Vittorio Agnoletto, va ricercata «nell'abbandono dell'assistenza territoriale e nella privatizzazione della sanità lombarda», il cosiddetto modello Formigoni, l'ex governatore condannato. Nel 1981 in Lombardia c'erano 530 mila posti letto, oggi sono meno di 215 mila, le Usl erano 642 e nel 2017 solo 97. Questo depauperamento spiega la catena di errori che ha portato al disastro Covid-19. Il primo avviene all'ospedale di Codogno, dove domenica 16 febbraio il paziente 1, il trentottenne Mattia, arriva «senza presentare alcun criterio che avrebbe potuto identificarlo come caso sospetto d'infezione da coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020», dichiara Massimo Lombardo, direttore dell'Azienda sanitaria di Lodi. Mattia torna il 19 febbraio, già grave, il tampone gli viene fatto alle 21.20 di giovedì 20 febbraio: dal momento dell'ingresso in ospedale a quello del test trascorrono 36 ore, periodo in cui è entrato in contatto con medici, infermieri e un intero padiglione di pazienti. A questo punto esplode il caos: in attesa di direttive regionali il personale presente va a casa per autoisolarsi, salvo poi rientrare in servizio per carenza di operatori. «Diciamo che nel caso di Codogno la Regione Lombardia può essere stata travolta dall'effetto sorpresa - commenta un operatore sanitario - Tutto quello che è successo dopo però non ha giustificazioni». Lo schema infatti si ripete al ponto soccorso di Alzano Lombardo, il 23 febbraio: ci sono i primi due tamponi positivi, l'unità di crisi della Regione chiude l'ospedale alle tre del pomeriggio salvo riaprilo in serata senza fornire direttive. Soprattutto, lasciando andare a casa il personale e i parenti in visita senza alcuna operazione di tracciamento, isolamento né tampone. «Chiudere Alzano avrebbe significato dover chiudere nei giorni precedenti gli ospedali di Lodi, Crema, Cremona e Pavia e in quelli successivi tutti gli ospedali della Lombardia, negando l'assistenza a tanti pazienti che invece abbiamo curato», la replica del direttore generale al Welfare Luigi Cajazzo. Così è collassato il sistema sanitario lombardo, che non è riuscito ad arginare la pandemia. «Perché la rete territoriale che avrebbe dovuto farsi carico dei pazienti è stata smantellata, i pronto soccorso sono diventati luoghi di contagio anziché di prevenzione e gli ospedali travolti dall'arrivo di malati già gravi», riassume il capodelegazione del Pd in commissione sanità della Regione Gian Antonio Girelli. Questo in una regione con un budget per la salute di 19.867,3 milioni nel 2020, in aumento di 34 milioni. Ma la riorganizzazione delle Asl in Agenzie di tutela della salute non ha funzionato: laddove avrebbe dovuto esserci assistenza sul territorio sono rimasi solo i medici di medicina generale, «un prima fila e disarmati, senza mascherine, in una sorta di abbandono», dice Marinoni. Ciò che ha funzionato in Veneto, in Lombardia è rimasto sulla carta: la creazione di distretti sanitari e di poliambulatori in stretto contatto con i medici di base, che avrebbero evitato il disastro negli ospedali. «Sullo sfondo - rileva Girelli, resta il rapporto pubblico-privato. Nessuno vuole demonizzare la sanità privata, ma tocca al pubblico dettare le regole, che non devono essere a discrezionalità dei privati». La mancanza di controllo sul territorio sembra anche all'origine delle stragi nelle Rsa, con centinaia di anziani morti. «In queste strutture non c'è stata alcuna valutazione dei rischi - sottolineano gli esperti - Nessuna direttiva precisa sui comportamenti da tenere né monitoraggio del personale sanitario, pochissimi i tamponi eseguiti». Una superficialità che ha portato alla famigerata direttiva dell'8 marzo, nella quale i pazienti positivi sono stati trasferiti agli ospedali al Trivulzio e in altre case per anziani. E se il virus dovesse tornare? «Ora abbiamo solo otto Unità speciali di continuità assistenziale contro le 65 previste per Milano e Lodi», denunciano i sindaci. E anche nelle zone più colpite come la bergamasca, avverte Marinoni, «siamo ben lontani dall'immunità di gregge». Arriverà novembre e la gente avrà la febbre. «E allora che si fa? Il tampone, se riusciremo a rendere il sistema efficiente. Oppure mettiamo di nuovo tutti in quarantena».

Da ilgiorno.it il 21 maggio 2020. Non accenna a spegnersi la polemica sull'ospedale covid realizzato in Fiera a Milano. Dopo la diatriba sulla possibile chiusura, ora alcuni benefattori chiedono trasparenza sulla gestione dei soldi donati. A dire la sua oggi è uno dei protagonisti di questa scommessa, Guido Bertolaso, ex capo della Protezione Civile, intervenuto alla trasmissione Agorà su Rai 3. "Ieri sera - precisa Bertolaso - il presidente Fontana mi ha detto non lo chiuderemo mai". Bertolaso racconta di aver detto a Fontana: "Allora facciamone un Covid hospital completo, come gli ho detto fin dal primo giorno" a fronte della crisi sanitaria. Adesso, continua Bertolaso, "per la seconda fase dell'epidemia che verrà il prossimo inverno dovete completare l'ospedale, ci deve essere un ospedale Covid, dove c'è la rianimazione, che era cosa più difficile da fare, ma anche il pronto soccorso e il triage e i letti di bassa intensità". Questo, conclude, "è quello che si deve fare, spero verrà fatto in Lombardia". Infine, in merito alla trasparenza delle donazioni, Bertolaso fa sapere: "Con il presidente Fontana siamo già d'accordo che lui e anche l'ente Fiera, in tempi  rapidissimi, renderanno pubblici sul loro sito tutti i soldi che hanno ricevuto e da chi li hanno ricevuti e come li stanno spendendo". 

Andrea Sparaciari per businessinsider.com il 21 maggio 2020. “Oggi, dopo l’uscita del vostro articolo, mi ha chiamato Guido Bertolaso per ringraziarmi di aver sollevato il “caso Ospedale in Fiera”. Mi ha inoltre autorizzato a diffondere pubblicamente la notizia che il dottor Bertolaso ha “diffidato Regione Lombardia e Fondazione Milano, dal chiudere la struttura””. A parlare è un esterrefatto avvocato Giuseppe La Scala, il donatore che mercoledì a Business Insider Italia aveva annunciato alcuni accessi agli atti per capire che fine avessero  fatto i soldi donati dai milanesi per quella struttura costata oltre 21 milioni, che ha curato solo una ventina di pazienti e che adesso sarebbe prossima alla chiusura. Più che comprensibile quindi il suo smarrimento, soprattutto quando Bertolaso lo ha “autorizzato a diffondere la notizia ai giornalisti, perché lui non è presente sui social”, aggiunge La Scala: “Mi ha anche detto che quell’ospedale non è ciò ce lui aveva concepito e che, a causa della sua malattia (Bertolaso era stato ricoverato perché colpito dal Covid, ndr), sarebbe stato di fatto esautorato dall’operazione”. Da quanto riferito da La Scala, quindi, quel fronte granitico che aveva portato avanti l’operazione Ospedale Covid in Fiera, tanto granitico oggi non è più. Raggiunto da Business Insider Italia nelle Marche, dove è alle prese col cantiere ancora aperto dell’ospedale gemello della Fiera, Bertolaso ha rifiutato ogni intervista, ma ha dichiarato via Sms: “Grazie ma sono molto occupato con l’astronave nelle Marche pronta e con tutti i medici e gli infermieri che si stanno organizzando per aprire la struttura nei prossimi giorni (…) giusto per sua informazione ho “sollecitato” la Regione (Lombardia, ndr) a dare notizie chiare sul futuro del Covid Hospital e ovviamente richiesto alla Fiera di pubblicare tutti i rendiconti dei soldi donati, così come ho già fatto qui nelle Marche. Entro una settimana spero di vedere il tutto confermato grazie e buon lavoro gb”. Nella ricostruzione di Bertolaso, quindi, non una diffida, ma una “sollecitazione”. Di sicuro una presa di posizione nei confronti di Regione Lombardia e di Attilio Fontana. Giovedì 21 Bertolaso sarà ospite della trasmissione “Agorà” e forse chiarirà meglio la questione. Anche Fontana ha detto la sua, senza però chiarire che destino avrà la struttura: “L’ospedale della Fiera ha già una sua definizione e destinazione, prevista dal programma che è stato mandato dal governo. Il quale – ha aggiunto – ci ha detto che non possiamo ridurre il numero di letti in terapia intensiva. Dato che oggi come oggi molti erano letti ricavati in sale operatorie o con altre destinazioni, e che quindi dovranno essere smantellati, è fuor di dubbio che avremo bisogno di far diventare questo ospedale in Fiera, ma anche l’ospedale a Bergamo e il nuovo che verrà realizzato a Brescia, nuovi ospedali covid con letti di rianimazione che siano pronti per ogni emergenza”. Intanto, dopo la pubblicazione dell’articolo di Business Insider Italia, è stato convocato un Consiglio di amministrazione straordinario di Fondazione Milano, originariamente previsto per luglio. Nelle intenzioni dei consiglieri in quota Comune di Milano, sarà l’occasione per chiedere la massima trasparenza e per richiedere una data certa per avere la tanto attesa rendicontazione delle spese. Un primo esito probabile è che quel cda anticipato delibererà l’allargamento del numero dei membri del Comitato dei Garanti del Fondo, che era stato creato da Fondazione Fiera presso Fondazione Milano e sul quale sono confluite le donazioni dei milanesi. Una decisione attesa, visto che allo stato attuale, gli unici autorizzati a controllare le spese effettuate da Fondazione Fiera e Fondazione Milano sono Fondazione Fiera e Fondazione Milano. Con un enorme conflitto di interesse.

Divieto di verità - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 22 Maggio: Le immonde gazzarre degli ultimi due giorni, prima al Senato contro il ministro Bonafede e poi alla Camera contro il deputato M5S Riccardo Ricciardi, proseguite sui social e sui giornaloni, dimostrano che in Parlamento tutto si può dire fuorché la verità. Chi la dice viene lapidato e crocifisso, mentre chi mente passa per un gran fico e la fa franca. L’altro ieri, tentando di spiegare la loro scombiccherata mozione di sfiducia e il loro voto favorevole a quella opposta della Bonino, i forzisti accusavano il ministro di aver detto: “In carcere non ci sono innocenti”. Ma Bonafede non l’ha mai detto. Una sera, a Otto e mezzo, una giornalista di Repubblica gli contestò la legge blocca-prescrizione per via degli “innocenti che finiscono in carcere”. Lui, stupefatto, rispose: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere…”. Sottinteso: “…con la blocca-prescrizione”. Com’è noto, in carcere si può finire per espiare una condanna definitiva, da sicuri colpevoli; o in custodia cautelare durante le indagini e/o il dibattimento, da “presunti non colpevoli”. E bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado non modifica di un millimetro né la custodia cautelare né l’espiazione della pena. Questo disse Bonafede: la pura verità. Intanto la Bonino e l’Innominabile, smanettando su Google, han trovato un’intervista del 2016 rilasciata da Bonafede (all’epoca soltanto deputato M5S) a Repubblica e han pensato bene di non leggerne il testo, ma solo il titolo: “Se c’è un sospetto anche chi è pulito si dimetta”. L’Innominabile l’ha associato ai ministri-martiri dei governi Pd costretti alle dimissioni o destinatari di mozioni di sfiducia. Quelli che fu lui stesso a spingere o ad accompagnare alla porta. In ogni caso, in quell’intervista, Bonafede non parlava di ministri Pd, ma di una sindaca M5S a cui Grillo e Casaleggio avevano chiesto le dimissioni: Rosa Capuozzo di Quarto (Napoli), che non era indagata, ma non aveva denunciato le pressioni di un consigliere M5S eletto con i voti di un presunto boss locale (ed espulso). Bonafede, in tutta l’intervista, non diceva mai la frase inventata nel titolo di Repubblica e citata dal duo Bonino-Innominabile (“Se c’è un sospetto anche chi è pulito si dimetta”). Diceva invece che “per il M5S i voti della camorra, anche se non determinanti…, sono irricevibili. Abbiamo … mandato via per tempo il consigliere indagato, ora chiediamo un passo ulteriore… Ci sono forti ombre sui voti dati a un nostro consigliere. Contro il voto di scambio noi ci battiamo quotidianamente senza se e senza ma. Facessero gli altri quel che abbiamo fatto noi”. Ormai funziona così: si inventano frasi mai dette, poi si chiama chi non le ha dette a discolparsi e, se quello esprime il suo vero pensiero, lo si accusa di incoerenza.

Ieri, alla Camera, Ricciardi ha messo in fila fatti e dati incontestabili sulla Caporetto della Regione Lombardia e della sua “sanità modello”, record mondiali di contagi e morti da Covid-19:

lo smantellamento della medicina territoriale;

i tagli di 25 mila posti letto in 20 anni;

il dirottamento del 40% dei fondi pubblici alla sanità privata;

gli scandali di Formigoni;

le scemenze di Giorgetti al Meeting di Cl 2019 (“Chi ci va più dal medico di base? È finita quella roba lì”);

la farsa del Bertolaso Hospital in Fiera ormai rinnegato dallo stesso padre e indagato dai pm;

la famigerata delibera di Fontana&Gallera per trasferire i malati nelle Rsa, con strage di anziani incorporata.

Parole confermate dagli Ordini dei Medici lombardi, a cui si sarebbe potuto aggiungere che dalla riapertura di lunedì i medici di base hanno segnalato 3.157 casi sospetti di contagio alle Ats della Lombardia, che hanno effettuato appena 25 tamponi (a Milano 9 su 603 casi).

Ma quelle parole, essendo vere, hanno scatenato l’ira funesta dei forzaleghisti e di insigni commentatori. Salvini le spacciava per “infamie contro cittadini e medici lombardi” (mai citati). Giorgetti per un’offesa “ai nostri morti” (uccisi anche dalle politiche del centrodestra) e pretendeva che qualcuno (il Duce?) “metta in riga i grillini” (se no?).

E il ministro Speranza, incredibilmente, gli dava ragione.

Si dirà: per fortuna poi ci sono i giornali che mettono le cose a posto. Infatti su Repubblica Stefano Cappellini ha scritto un pezzo che sarebbe parso un tantino eccessivo anche sul Giornale. Dopo aver squalificato 44 anni di battaglie del suo fu giornale sulla questione morale come “giustizialismo”, “cultura del sospetto”, non “compatibile con una vera sinistra dei diritti” e tipica dei 5Stelle, ha smascherato “il pm filosofo della teoria e guru dell’abbecedario M5S”: Davigo. Il quale, a suo dire, avrebbe dichiarato che “non esistono innocenti, solo colpevoli che l’hanno fatta franca”.

Peccato che Davigo non l’abbia mai detto.

Poi ha attribuito a Bonafede le frasi “Non ci sono innocenti in galera” e “Anche uno pulito deve dimettersi se è sospettato”. Peccato che Bonafede non le abbia mai pronunciate.

Ma, senza le tre fake news, il bel tomo non avrebbe potuto imbastire il suo temino dal titolo “Bonafede salvo, le sue idee no”. Dove “le sue idee”, naturalmente, sono quelle inventate da Cappellini. Poi tutti a denunciare le fake news dalla Russia con furore.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 22 maggio 2020. La testa è calda. E lo confermano anche i colleghi di Montecitorio, infastiditi dalla piazzata di Riccardo Ricciardi contro la Lombardia. «Sicuramente è un tipo focoso, anche se non ci aspettavamo una sfuriata del genere, ma ormai è andata come è andata...», sospira un deputato vicino a Luigi Di Maio. Ma Ricciardi, vice capogruppo grillino alla Camera, ci tiene ad apparire come un duro e puro. A partire dall' orecchino e dalla barba folta. Sicuramente uno di quelli che, almeno a parole e nello stile, non vuole farsi addomesticare con le pose vellutate del Palazzo. Uno dei pochi. In un M5s dove abbondano le grisaglie, i visi puliti e le acconciature da bravo ragazzo modello Di Maio. È uno degli uomini più vicini al presidente della Camera Roberto Fico e come lui ha la pretesa di essere uno dei «custodi» di un' ortodossia stellata che non esiste più, assorbita in toto dai riti della politica. Una presunta purezza ormai ridotta a dettaglio estetico. La biografia di Ricciardi è più eloquente del suo discorso pronunciato in Aula. Giustizialista, ambientalista, se vogliamo idealista. Di professione prolifico regista e autore teatrale e cinematografico. Scorrendo il curriculum presente sul sito dell' associazione anti-corruzione Riparte il Futuro troviamo decine di produzioni e spettacoli a partire dal 2003, tre anni prima della laurea in Cinema, Musica e Teatro all' Università di Pisa. Tra i tanti titoli balza all' occhio «Black Bloc», monologo scritto nel 2015 dal futuro deputato grillino. Questa la scheda dell' opera: «un lungo lavoro di ricerca sui modi e i metodi di lotta che esistono nel mondo della contestazione ai giorni nostri». E ancora: «un tentativo per capire quali possono essere i pensieri e le spinte che portano un ragazzo a compiere quelle azioni, cercando di uscire dalla semplificazione che i media, troppo spesso, tendono a fare, etichettando con un marchio quello che fondamentalmente è sempre e semplicemente un essere umano». Quindi la chiosa: «Ed ogni essere umano, dal più stimabile al più spregevole, racchiude in sé un mondo, che ci piaccia o no». Importante l' esperienza di direttore artistico di tre edizioni (2015, 2016 e 2017) del festival culturale Memofest di Seravezza, in provincia di Lucca. Tra gli ospiti di quegli anni Sandro Ruotolo, Piercamillo Davigo, Ilaria Cucchi, Piergiorgio Odifreddi e Francesco De Gregori. Il da poco 38enne Ricciardi (ha compiuto gli anni l' 8 maggio) in gioventù si è sempre dato da fare. Mentre frequentava l' università ha lavorato come gelataio al Pub Wolfy di Massa, operaio in un campeggio sul litorale grossetano e «Assistente pizzaiolo» alla pizzeria Missy di Montignoso in provincia di Massa e Carrara. Prima dell' elezione alla Camera, arrivata nel 2018, è stato consigliere comunale a Massa, la sua città. Nel 2013, da candidato sindaco del M5s, ottenne il 12% dei voti e in campagna elettorale promise: «Se vinco io farò venire la Guardia di Finanza a ispezionare i conti in Comune». Già allora era fissato con l' idea di un M5s senza leader. All' epoca non ce la fece a indossare la fascia tricolore, ma nel giro di cinque anni ha staccato il biglietto per Montecitorio. Dove ha cercato sempre di controllarsi, almeno fino a ieri.

Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2020. Fin dal liceo lo chiamano «il Guevara di Massa», soprannome che porta sulle spalle ancora oggi che ha 38 anni. Ma chi è Riccardo Ricciardi, il deputato M5S che ha scatenato la bagarre a Montecitorio, attaccando la sanità lombarda? Toscano, di professione regista teatrale, nel 2018 Ricciardi si è trovato catapultato alla Camera, scelto online. Il deputato, nella mappa del potere grillino, è collocato tra gli «ortodossi», la corrente dei parlamentari che fanno riferimento al presidente della Camera Roberto Fico. Al primo mandato a Montecitorio, Ricciardi è stato eletto nel collegio plurinominale di Massa. Qui, città in cui è cresciuto, nel 2013, da candidato sindaco si lanciò così: «Se vinco io farò venire la guardia di Finanza a ispezionare i conti in Comune». Ma il salto nella politica che conta era solo rimandato. Nel 2018, eletto grazie al boom pentastellato, Ricciardi si congedò così dal consiglio comunale: «Entrerò a Montecitorio pensando al partigiano Pegollo», che di nome faceva Matteo e fu ucciso nell' aprile del 1945. Sbarcato a Roma, dove siede nella commissione Ambiente, durante l' ultimo scontro tra i grillini per i posti di comando aveva sfiorato la poltrona di capogruppo: oggi è vice. Lentamente, dopo lo sbarco in Parlamento, alcuni suoi amici raccontano che Ricciardi aveva cambiato piglio politico, moderando assai i toni rispetto al passato. L'ultimo intervento alla Camera alla vigilia del 25 aprile, prima della bufera di ieri, gli valse anche una standing ovation dal Pd: «Ricordo che combatterono insieme monarchici e repubblicani, comunisti e cattolici, anarchici e liberali. Prima hanno vinto insieme e poi hanno ricostruito l' Italia».

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2020. Torna il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in Parlamento, ma ad accendere lo scontro sono le parole di fuoco del 5 Stelle Riccardo Ricciardi. Un attacco violento contro la gestione lombarda (e quindi leghista) del virus che provoca la reazione furibonda delle opposizioni, tanto che il presidente della Camera Roberto Fico è costretto a interrompere la seduta per venti minuti, mentre volano insulti e pugni sui banchi, con tanto di microfoni rotti. Ricciardi, piglio sarcastico e barba luciferina, inizia il suo intervento con un attacco paradossale al presidente del Consiglio, che in realtà è una difesa, che si conclude con un gancio per la seconda parte del discorso: «Conte è arrivato in ritardo di venti minuti alle conferenze stampa. L' assessore lombardo Gallera, invece era sempre puntuale. Lui che ha costruito un ospedale in Fiera con 21 milioni di euro per 25 pazienti. Ecco il modello lombardo, ecco come sono stati spesi i soldi dei cittadini». E ancora, cita le parole di Giancarlo Giorgetti: «Chi ci va più dai medici di base?». Dai banchi della Lega si comincia a rumoreggiare pesantemente, ma Ricciardi non desiste anzi lancia occhiate come dardi ai deputati del centrodestra e non manca di ricordare «il famigerato modello lombardo iniziato con Formigoni che ha tagliato 25 mila posti di letti pubblici, regalando soldi a la sanità privata». E chiude: «Non accettiamo lezioni da voi. Mentre i nostri i più sentiti ringraziamenti vanno ai cittadini lombardi e ai medici, agli operatori sanitari, agli infermieri che in queste settimane hanno salvato vite umane e contrastato il diffondersi del virus». L'intervento ha una sua efficacia retorica, che forse anche per questo provoca il finimondo tra i banchi della Lega. Alcuni deputati scendono dall' emiciclo e si dirigono verso Ricciardi. Un deputato fracassa un microfono con un pugno, volano le sedie. Fico sospende la seduta. Alla ripresa Riccardo Molinari, capogruppo della Lega, spiega che quello è stato «uno dei momenti più bassi della storia repubblicana» e che «non si specula sui morti». Sono in molti, compresi Mariastella Gelmini (FI) e Giorgia Meloni (FdI) a chiedere al premier di dissociarsi. Matteo Salvini, dal Senato, parla di «insulto ai lombardi» e definisce Ricciardi un «ominicchio»: «Si sciacqui la bocca prima di parlare della sanità lombarda e dei cittadini lombardi». Deputati lombardi della Lega fanno un comunicato per definire «sciacallo» il collega dei 5 Stelle. Daniele Belotti ammette: «Gli ho urlato contro frasi irripetibili. È un estremista dei centri sociali».Dal centrosinistra non si gradiscono molto i toni dei 5 Stelle. Il ministro dem Roberto Speranza, interpellato da un furibondo Giancarlo Giorgetti (Lega), replica: «Hai ragione, cosa ti devo dire». Federico Fornaro di Leu spiega che «non si specula sui morti», anche se poi aggiunge che bisogna indagare sulla gestione delle regioni. Andrea Orlando, Pd, scrive: «Risultato dell' intervento incendiario del collega del M5S alla Camera: peggiorare il clima in vista della conversione di decreti fondamentali per il Paese, ricompattare le opposizioni e rafforzare le opposizioni più estreme della destra. Ne valeva la pena?». Anche Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, interviene sui social, modificando poi il post: «Vorrei dire all' onorevole Ricciardi che mai avevo ascoltato in un' aula un intervento così squallido e vergognoso. Ho cancellato un giudizio molto duro solo perché ho deciso di parlargli di persona». Cosa che fa, alla Camera prima e poi invitandolo al Tg. Conte spiega ai cronisti, replicando a Giorgia Meloni: «Si è insinuato che io condividessi quell' intervento di Ricciardi. Ma sono opinioni personali, io non ho aizzato nulla». Prima della bagarre, il premier aveva fatto il punto delle misure, non nascondendo le difficoltà, ammettendo i ritardi della burocrazia e attaccando le banche «che devono fare di più». Conte invita gli italiani a «fare vacanze in Italia», spiega che «non è ancora tempo di movide e party». Poi tende la mano a Matteo Renzi, accogliendo le sue proposte sullo «sblocca cantieri». Maria Elena Boschi, capogruppo di Iv, apprezza le aperture del premier e in Senato attacca Meloni per le critiche al ministro Bellanova.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2020.

Onorevole Ricciardi, l' ha chiamata qualcuno dopo la baraonda in Aula?

«Sì, mia mamma, era un po' preoccupata».

E a parte congiunti e affetti stabili? Conte? Di Maio?

«Ma no, io poi parlo con tutti, sono vicecapogruppo».

Riccardo Ricciardi è il deputato dei 5 Stelle che ha scagliato il suo j' accuse contro la Lega, dopo l' informativa del presidente Giuseppe Conte.

Ha scatenato il finimondo. Era l'obiettivo?

«No, l' obiettivo, sembrerà banale e enfatico, è quello di dire la verità ai cittadini».

Un po' enfatico, sì. Le hanno dato dell'«estremista da centri sociali».

«Mai frequentati. Anche volendo, a Massa non c' è mica il Leoncavallo».

Votava a sinistra almeno?

«No, mai votato prima dei 5 Stelle. Solo ai referendum».

Lei è regista teatrale. In Aula ha messo in scena uno spettacolo d' impatto: sembrava un oratore futurista, con barba luciferina e occhi dardeggianti.

«Sì? In effetti ho fatto anche l' attore».

Un po' fuori parte, visto che il premier Conte aveva appena teso la mano all' opposizione.

«Conte fa benissimo ad aprire, abbiamo tutti uno spirito di collaborazione. Ma i leghisti avevano appena finito di definirlo dittatore e di invocare la resistenza antifascista. Che dialogo è?».

Si coglie un accenno di acrimonia tra Lega e M5S. E pensare che fino a un attimo fa eravate al governo.

«Io però non ho mai nascosto le mie critiche ai provvedimenti della Lega».

Vero, però siete rimasti insieme, fino al dietrofront di Salvini.

«E m' inorgoglisce essere stato in un governo che ha portato a casa la legge contro la corruzione e il reddito di cittadinanza».

Conte sapeva del suo intervento? Chi l' ha letto?

«No. Nessuno. Ne ho discusso con i miei, naturalmente, ma il testo è mio».

Ha «speculato» sui morti lombardi?

«Ma figuriamoci, medici e infermieri lombardi sono eroi. Ho solo criticato la gestione della Regione Lombardia. Mi chiedo perché, se la Lega attacca il governo non è una critica all' Italia, mentre se io critico la giunta regionale è un attacco ai lombardi».

Dal Pd non hanno apprezzato. Speranza ha dato ragione a Giorgetti.

«Lei dice? Non so, non mi fido dei retroscena».

Orlando però l' ha detto in tv che lei ha fatto un favore alla Lega.

«Lo ringrazio di aver espresso stima, che è reciproca. Ci sta che lo consideri un passo falso. Ognuno fa le sue valutazioni».

Molto diplomatico. Ma perché attaccare a testa bassa la Regione Lombardia?

«Perché Fontana ha fatto due errori gravi: la lettera all' Rsa dell' 8 marzo e l' inutile ospedale in Fiera».

Il governo non ha commesso errori?

«Non mi pare ne abbia fatti, sulla gestione sanitaria. Vedremo più avanti, sia per le Regioni sia per il governo».

Sulla Lombardia non ha aspettato molto tempo.

«Perché è l' unica che ha fatto errori marchiani. Ci serve dirlo, per cambiare rotta. Vogliamo costruire un nuovo modello di sanità e dobbiamo capire gli errori del sistema ospedalocentrico e delle troppe concessioni ai privati. Le mie critiche non erano nello spirito della gogna. E dico tranquillamente che Zaia ha fatto meglio».

Il governo andrà avanti, nonostante Renzi?

«Credo proprio di sì, ne abbiamo bisogno. E Conte è un grande presidente».

Ricciardi (M5s) a Fanpage.it: “La Lombardia ha fatto un disastro, è giusto parlarne”. Annalisa Girardi il 21 maggio 2020. su Fanpage.it. Dopo la bagarre di questa mattina alla Camera, che ha visto al centro l’ira dei deputati del centrodestra contro l’intervento del grillino Riccardo Ricciardi, Fanpage.it ha fatto il punto della situazione con il parlamentare a Cinque Stelle. Ricciardi ha difeso l’operato del governo e accusato la gestione dell’emergenza coronavirus da parte della Regione Lombardia: “Non è uno speculare sulle vittime, ma è un dire che ci sono stati dei problemi gestiti in maniera assolutamente negativa e sicuramente queste cose hanno aumentato l’impatto del virus”. Forti tensioni oggi alla Camera, tra cori e pugni sui banchi da parte dei deputati del centrodestra che si sono scagliati contro l'intervento del grillino Riccardo Ricciardi. Prendendo la parola dopo l'informativa di Giuseppe Conte, l'esponente del Movimento Cinque Stelle ha difeso l'operato del governo, e in particolare del presidente del Consiglio, nella gestione dell'emergenza coronavirus, puntando allo stesso tempo il dito contro quanto fatto (e non fatto) in Lombardia per contenere la pandemia. La Regione, guidata dal leghista Attilio Fontana, è stato il territorio più colpito dall'infezione nel nostro Paese: Ricciardi ha condannato il modello sanitario lombardo chiamando in causa il governatore, ma anche l’ex presidente della Regione Roberto Formigoni e l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ricordando anni di tagli alla sanità pubblica ed episodi di mala gestione. Le parole di Ricciardi hanno scatenato l'ira dei parlamentari del Carroccio, che l'hanno definito uno "sciacallo che infanga una Regione e le sue vittime". Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha sospeso la seduta. Fanpage.it ha fatto il punto su quanto successo questa mattina a Montecitorio, ma anche su quello che è accaduto negli ultimi due mesi in Lombardia, con il deputato a Cinque Stelle.

Lei ha attaccato duramente la gestione dell'emergenza coronavirus in Lombardia nel suo intervento di oggi alla Camera. Cosa è andato storto nella Regione?

«Tutti i presidenti di Regione, così come il governo, sono stati scioccati da un'emergenza incredibile e infatti il presidente Conte si è scusato per i ritardi. Noi non critichiamo i presidenti di Regione, che sicuramente presi dal problema enorme che ha investito questo Paese, come tutto il mondo, hanno fatto valutazioni più o meno giusto, ma sicuramente della norma di una situazione del genere. Ma in Regione Lombardia è successo qualcosa di diverso, e non possiamo non dire che ci sia stata una gestione disastrosa. Anzi, lo diciamo proprio per parlare delle responsabilità politiche che ci sono. I medici lombardi hanno fatto un lavoro incredibile, ci mancherebbe altro. La popolazione ha vissuto una catastrofe. Ma non si può non dire che il presidente di un'associazione che racchiude 400 case di riposo in Lombardia ha detto che la delibera dell'8 marzo, che invitava a mandare pazienti Covid non gravi nelle Rsa, l'hanno dovuta leggere due volte perché era una follia, testuali parole».

Lei ha parlato anche dei tagli alla sanità pubblica…

«La medicina territoriale in Lombardia è molto lacunosa. Il 40% dei fondi destinati alla sanità privata sono un fatto. Così come lo è il fatto che sono siano tagliati 25mila posti letto pubblici negli ultimi vent'anni. Se mi avessero fatto andare avanti con il mio intervento avrei anche detto che Luca Zaia in Veneto, che non è certo amico nostro visto che anche lui è della Lega, ha gestito con razionalità e attenzione un modello sanitario che è diverso da quello lombardo e che ha retto un urto in maniera molto migliore».

Nel suo intervento ha anche menzionato l'ospedale in Fiera a Milano. Quali sono stati i problemi in quel caso?

«Nella Regione, che molte volte ha anche scaricato responsabilità sul governo,  un assessore in pompa magna ha inaugurato questo ospedale che è costato 21 milioni di euro di donazioni di persone e in cui alla fine sono finiti solo 25 pazienti. Oggi è stato aperto anche un fascicolo dai pm di Milano sull'ospedale in Fiera. Insomma, tutte queste cose sono accadute o no? È una critica al sistema che è governato dal centrodestra e che negli anni ha scelto di fare una politica che sicuramente ha dato dei risultati per altri tipi di servizi, però nel campo della medicina territoriale quando si è dovuto affrontare una cosa di questo tipo, la risposta è stata quella che è stata. Sono numeri e fatti facilmente riscontrabili».

Il capogruppo della Lega, Riccardo Molinari, l'ha accusata di speculare sui migliaia di morti che ci sono stati in Lombardia. Che cosa risponde?

«Io ho ricevuto messaggi di parenti delle vittime che dicono che finalmente qualcuno dice come sono andate le cose. Non è uno speculare sulle vittime, ma è un dire che ci sono stati dei problemi gestiti in maniera assolutamente negativa e sicuramente queste cose hanno aumentato l'impatto del virus. Se uno unisce lo smantellamento della sanità pubblica a casi come quello emblematico della delibera dell'8 marzo, vedrà come il problema è stato amplificato».

Il governo sarebbe dovuto quindi intervenire di più, ad esempio commissariando la Regione?

«Il governo ovviamente, come ha detto anche Conte qualche tempo fa, è stato travolto da una situazione che da un giorno all'altro mutava, e non era immaginabile proprio da un punto di vista concreto poter fare un'azione così forte come commissariare una Regione, nel momento in cui queste dovevano ovviamente lavorare. Non potevi in quel momento lì pensare di fare un atto del genere, perché sarebbe stato più il danno che il vantaggio. Quando aumentavano i contagi fino 400 al giorno ovviamente si devono allestire i reparti e pensare a tutte quelle cose che sappiamo essere successe tra febbraio e marzo: questa cosa è di competenza regionale da anni, in quei momenti lì non si poteva andare a intervenire in quel modo».

Ora, invece, i tempi sono maturi per esaminare le responsabilità?

«Io le responsabilità politiche che ha la Regione le ho dichiarate. Sul discorso del commissariamento c'è un governo con le sue competenze, ci sono dei ministri con le loro competenze che hanno precisamente chiari tutti gli iter e le interlocuzioni che ci sono state tra governo e Regione. Hanno loro gli elementi per eventualmente pensare se si possa fare una cosa del genere. Io rilevo politicamente dei problemi che sono evidenti. Rilevo cose che sono sotto gli occhi di tutti, ma in questa dialettica non entro».

Camera, M5s attacca la sanità lombarda: “Dall’ospedale in Fiera per 25 pazienti ai tagli iniziati con Formigoni. Non accettiamo lezioni”. Bagarre in Aula, Salvini: “Si devono sciacquare la bocca”. Tensione tra Carroccio e 5 stelle dopo l'intervento in Aula del grillino Ricciardi che ha difeso il governo e messo sotto accusa il sistema Lombardia nella gestione dell'emergenza. Secondo i leghisti lombardi non ha avuto rispetto dei morti. Il premier ha respinto le accuse della Meloni secondo la quale era "un attacco concordato". Intanto anche nella maggioranza non mancano i malumori per i toni. Il dem Orlando: "Ne valeva la pena?" Il Fatto Quotidiano il 21 maggio 2020. Il dibattito sull’informativa di Giuseppe Conte alle Camere si è trasformato in uno scontro aperto tra 5 stelle e Lega. E nell’ennesima rissa sfiorata sui banchi del Parlamento. Al centro: la sanità lombarda e la gestione dell’emergenza al Nord. Un duello a distanza tra gli ex alleati di governo che si è trascinato tra Camera e Senato, aprendo ad accuse incrociate da una parte e dell’altra e creando una lunga scia di reazioni e malumori. Tutto è cominciato con l’intervento a Montecitorio del deputato M5s Riccardo Ricciardi che, in difesa di quanto fatto dall’esecutivo, ha messo sotto accusa il modello Lombardia: è partito dall’ospedale della Fiera di Milano “usato da 25 pazienti”, fino ad arrivare ai “tagli della gestione dell’ex presidente Roberto Formigoni“. Un intervento interrotto dalle grida dei leghisti, tra urla e pugni sui banchi (anche un microfono è stato rotto) e che ha portato alla sospensione dei lavori dell’Aula. “Se non si fosse fermato”, ha commentato con toni minacciosi il deputato della Lega Edoardo Rixi, “sarebbe finita male. Ci aspettavamo delle scuse”. Secondo i racconti in Trasatlantico, era proprio lui tra i più “scatenati” tra spinte ai commessi e minacce ai colleghi del tipo “ti aspetto fuori”. Lo scontro però, non si è esaurito a Montecitorio, ma si è trasferito poco dopo al Senato. “Devono sciacquarsi la bocca prima di parlare della sanità lombarda”, ha detto Matteo Salvini entrando a Palazzo Madama. Una frase che lasciava presagire un secondo round a Palazzo Madama, ma il leader del Carroccio ha preferito dedicare il suo intervento alle critiche al premier. Solo ad un certo punto, a metà del suo discorso, si è fermato per rivolgersi a un senatore grillino: “Ma cosa c’ha da ridere? Chiedo rispetto della maggioranza non per me ma per i 30mila morti e per chi non ha i soldi per vivere…”. Ha chiuso: “Non mi stupisce che chi ha ironizzato sulla sanità lombarda continui a ridere…”. Mentre M5s e Lega si fronteggiavano pubblicamente, non tutti nella maggioranza hanno appoggiato il discorso di Ricciardi. Mentre i 5 stelle rilanciavano su Facebook l’intervento video e Nicola Morra in Senato rilanciava le sue parole, le agenzie di stampa riferivano di perplessità tra Pd e Leu, alleati di governo dei 5 stelle, per le modalità dell’intervento. Chi si è esposto è stato il vicesegretario Pd Andrea Orlando: “Risultato dell’intervento incendiario del collega del M5s alla Camera: peggiorare il clima in vista della conversione di decreti fondamentali per il Paese, ricompattare le opposizioni e rafforzare le opposizioni più estreme della destra. Ne valeva la pena?”. Proprio l’imminente discussione parlamentare su decreti Rilancio e Liquidità, sui quali il Colle stesso ha chiesto collaborazione di tutti i partiti, preoccupano il governo. Che teme il vedersi aprire troppo presto la fase delle contestazioni. Non a caso, secondo il Corriere della Sera, in Transatlantico ci sarebbe stato un faccia a faccia tra il leghista Giancarlo Giorgetti e il ministro della Salute Roberto Speranza: “Chiedete collaborazione e poi venite qui a prendere in giro sui morti? Così finisce male”, avrebbe detto l’ex sottosegretario del Carroccio. Parole a cui il ministro ha replicato: “Hai ragione, cosa ti devo dire”. Un tentativo di ricucire per evitare la guerra aperta. E, non da ultimo, dopo che in Aula la leader Fdi Giorgia Meloni ha insinuato che dietro l’intervento di Ricciardi ci fosse una strategia condivisa con il premier, Conte ha subito respinto ogni accusa cercando di calmare le acque: “Ciascun parlamentare esprime le proprie opinioni. Non è mai accaduto che a me fosse consegnato un intervento, ma dire che io abbia condiviso o istigato, è una cosa che si commenta da sé”.

Ma cosa ha detto veramente il deputato? L’intervento è durato solo pochi minuti, prima che l’Aula fosse sospesa a causa dei disordini. Neanche il tempo di aprire il dibattito alla Camera che le parole del deputato M5s Riccardo Ricciardi davano il via alle polemiche. “Chi oggi attacca il governo”, ha dichiarato dopo aver messo in evidenza la buona gestione dell’Italia e del premier Conte, “propone come modello sanitario e amministrativo la Lombardia. La Regione che ha come assessore alla sanità Giulio Gallera, colui che in conferenza stampa dichiarava trionfante che la Lombardia era meglio della Cina perché in grado di costruire un ospedale in 6 giorni, mentre a Pechino ce n’erano voluti 10. Peccato che parliamo di un ospedale per cui hanno speso 21 milioni di donazioni per soli 5 pazienti!”. Qui sono iniziate le grida dei leghisti: “Buffone”, “vergogna”. Alcuni hanno tirato pugni sui banchi, fino a rompere un microfono. Ma Ricciardi, prima di essere interrotto da Fico, ha insistito: “Così sono stati sperperati i soldi dei cittadini lombardi, con le loro tasse, altro che Roma ladrona. Abbiamo visto com’è andato il famigerato modello della sanità lombarda iniziato con Formigoni: in questi anni hanno tagliato 25mila posti letti negli ospedali pubblici regalando soldi alle cliniche private. Non accettiamo lezioni da voi. Mentre i nostri più sentiti ringraziamenti vanno ai cittadini lombardi e ai medici, agli operatori sanitari, agli infermieri che in queste settimane, con grande spirito di sacrificio, hanno salvato vite umane e contrastato il diffondersi del virus”. Ricciardi non è riuscito a finire il discorso, perché i leghisti hanno cominciato a scendere dagli scranni e ad avvicinarsi al centro dell’emiciclo, fino a che il presidente Fico ha deciso di sospendere i lavori per alcuni minuti e riportare l’ordine.

Chi ha spiegato un po’ meglio la dinamica, naturalmente dal suo punto di vista, è stato il deputato leghista Edoardo Rixi: “Avevamo chiesto al presidente Fico di intervenire e, siccome non ha fatto nulla, abbiamo aspettato qualche minuto per poi occupare la parte bassa dell’Aula. Non ho idea chi abbia divelto il microfono. Noi siamo scesi tutti giù. Anche Giorgetti. Oggi finiva male se Ricciardi andava avanti e non si fermava. Poi ha smesso di parlare. Il presidente Fico non è intervenuto, non ha fatto nulla”. E ha chiuso: “Ci aspettavamo che in chiusura Ricciardi chiedesse scusa per la strumentalizzazione dei morti e della pandemia in Nord Italia, e, invece nulla, ha ripreso a parlare tranquillamente… Una roba surreale”. Se Salvini si è limitato a poche battute, chi ha attaccato direttamente il deputato sono stati i colleghi lombardi del Carroccio. “C’è chi fa politica e chi lo sciacallo”, hanno scritto in una nota. “Ricciardi appartiene alla seconda categoria. Infangare una Regione, le sue vittime, le famiglie che hanno sofferto e tutti i medici e gli operatori che hanno combattuto in prima linea il virus, solamente per difendere il proprio orticello e coprire le nefandezze di questo governo, è da sciacalli“. In difesa di se stesso, è intervenuto anche l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, già condannato per corruzione: “Mi ha accusato di aver tagliato in 20 anni 25.000 letti pubblici in Lombardia. E’ ignorante o in malafede: lo informo che in Italia il numero di posti letto non viene deciso dai governatori, ma dal governo nazionale. E così il governo impose nel 1992 di ridurre i posti letto a 6 ogni 1000 abitanti, e così via in numerose occasioni fino ai 4 posti letto del 2010 e ai 3,7 del 2012, sempre ogni 1000 abitanti. Le Regioni, ovviamente, hanno dovuto allinearsi, salvo perdere ogni finanziamento”.

Scontro tra M5s e Lega sulla sanità lombarda. Caos in Aula. Urla e pugni per l'intervento del 5 stelle Ricciardi. Fico costretto a interrompere la seduta. Salvini: "È un ominicchio, si sciacqui la bocca prima di parlare". Conte prende le distanze: "Sue opinioni, non le ha condivise con me". Serenella Ronda su Agi il 21 maggio 2020. È di nuovo caos alla Camera. Ma la tensione, altissima, si sposta anche al Senato. E volano parole grosse. A fronteggiarsi in un duello a distanza che rischia di sfociare in una vera e propria rissa sono gli ex alleati di governo: da una parte il Movimento 5 stelle, che boccia senza appello la sanità lombarda nella gestione dell'emergenza coronavirus. Dall'altra la Lega, che insorge e accusa i pentastellati di "speculare sui morti". Durissimo Matteo Salvini, che invita i grillini a "sciacquarsi la bocca prima di insultare la Lombardia". Nel ring salgono anche le altre forze politiche, con Giorgia Meloni convinta che tutto rientri in una precisa "strategia", in base alla quale il premier Giuseppe Conte ricopre il ruolo di colui che "vola alto, parla di collaborazione", mentre ai 5 stelle è affidato il compito di attaccare a testa bassa. Con l'unico scopo del governo di non coinvolgere le opposizioni e andare dritto per la sua strada. Lettura fermamente smentita dal presidente del Consiglio: "Non istigo nessuno", taglia corto Conte. Insomma, ancora una volta il premier si presenta davanti al Parlamento e il clima tra maggioranza e opposizione si fa subito rovente. Sin dalla prima mattina, quando Conte parla alla Camera per illustrare la Fase 2 e il decreto rilancio, la tensione è palpabile. Le opposizioni rumoreggiano su alcuni passaggi del discorso del premier, in particolare sulla regolarizzazione dei migranti e sulle banche. Ma la situazione esplode solo dopo, non appena inizia il primo intervento che apre il dibattito: a parlare è il pentastellato Riccardo Ricciardi che rivendica le scelte dell'esecutivo nella gestione dell'emergenza, puntando invece il dito contro la gestione lombarda. La Lega non ci sta, e iniziano i cori "buffone, buffone", ma anche "vergognati", sostenuti dai colleghi del centrodestra. Ricciardi prosegue, cita l'assessore Gallera, cita Giorgetti (che poi, raccontano, si sfogherà contro i 5 stelle in Transatlantico con il ministro Speranza), cita le amministrazioni precedenti sempre di centrodestra. È a questo punto che diversi deputati leghisti lasciano i propri banchi per dirigersi verso il centro dell'emiciclo, da dove sta parlando il pentastellato. Interviene il presidente Fico, costretto a richiamare tutti più volte all'ordine e, alla fine, nel timore che la situazione degenerasse fino all'uso delle mani (c'è chi racconta di un microfono divelto e rotto e sedie buttate a terra), sospende la seduta. Sospensione che dura parecchio, si fatica a ripristinare la calma. Interpellato sull'accaduto, Conte sembra prendere le distanze dalle parole di Ricciardi: "Sono sue opinioni personali, non le ha condivise con me". "È inaccettabile speculare sui morti", tuona il capogruppo della Lega Riccardo Molinari alla ripresa dei lavori. La presidente dei deputati di Forza Italia, Mariastella Gelmini, chiede a Conte di prendere pubblicamente le distanze dalle parole di Ricciardi che per i leghisti lombardi altro non è se non uno "sciacallo". Interviene il Pd che, con Emanuele Fiano, mette in chiaro: "Noi rispettiamo tutti i morti, i malati, i lavoratori, i medici" che hanno subito l'epidemia da Covid-19 "in qualsiasi regione di Italia, noi rispettiamo i nostri colleghi dell'opposizione ma non smetteremo mai di dirvi la verità". Anche il capogruppo di Leu, Federico Fornaro, torna sulla questione, e dice: "Le immagini dei camion che trasportavano le bare eèuna ferita aperta che non potrà mai essere cicatrizzata e non si può né deve mai fare propaganda o strumentalizzare tutti i morti del Covid-19, ma allo stesso modo con rispetto credo si possa e debba discutere su come hanno funzionato i diversi sistemi sanitari regionali, che non vuole dire colpevolizzare nessuno ma io inviterei ad avere più cultura del dubbio. È lecito che la politica si interroghi sulle differenze sui numeri di morti e contagi? Io credo di si'". Su twitter, però, il vicesegretario dem chiede se "valeva la pena l'intervento incendiario" di Ricciardi, scrive Andrea Orlando. Mentre i 5 stelle difendono il collega: la ministra Fabiana Dadone ritiene che nelle parole di Ricciardi "non vi è nulla di atipico, è legittimo che maggioranza e opposizione dicano quello che pensano". Lo scontro si sposta al Senato, dove Conte replica l'informativa. Quando Salvini prende la parola la tensione è di nuovo palpabile: "Qui c'è gente che ride. Lei - dice rivolgendosi alla maggioranza e in particolare a una senatrice - prima di ridere porti rispetto a chi sta a casa. Lei se ha tanto da ridere vada al bar per rispetto di chi a casa sta soffrendo. Se ha da ridere, vada a Villa Borghese per rispetto degli italiani". Nuovo round quando interviene il 5 stelle Nicola Morra: altre critiche alla sanità della Lombardia che, sostiene, durante l'emergenza coronavirus "ha dimostrato di non saper affrontare una pandemia perché erano state fatte delle politiche sanitarie" sbagliate. Dai banchi della Lega sono arrivate pesanti critiche, ma il presidente Casellati è riuscita a riportare l'ordine dopo alcuni minuti.

Coronavirus, ospedale Fiera: sono spariti i 10 milioni donati da Berlusconi. Affari Italiani Venerdì, 22 maggio 2020. Per i 221 posti letto del Portello, sono stati spesi 17,25 milioni. La procura indaga sui costi e sulle donazioni. Mentre il Coronavirus in Italia continua a farla da padrone, nonostante ci sia stata una lenta ripartenza di quasi tutte le attività, il numero di malati e morti resta alto. Ma gli ospedali adesso hanno un numero di pazienti nettamente inferiore e anche le persone che necessitano di terapia intensiva è in diminuzione costante. Resta però avvolto nel mistero - come riporta il Fatto Quotidiano - il progetto dell'ospedale della Fiera di Milano, e che ha ospitato fin qui solo 25 pazienti, su una capienza massima di 221 posti letto. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ha aperto un fascicolo, per il momento senza indagati, in seguito ad un esposto del Cobas, che ha chiesto di far chiarezza sui versamenti: 21,6 milioni e sulle spese per i posti letto: attualmente ogni letto occupato è costato 840 mila euro. La prima parziale rendicontazione fornita, indica una spesa di 17,25 milioni, ive esclusa, ma mancano parecchi dettagli sui nomi dei benefattori e le esatte voci di spesa. Si apprende - come riporta il Fatto - che non c'è più traccia dei 10 milioni donati da Silvio Berlusconi. Fondazione Milano, che gestisce il fondo sul quale sono affluiti i soldi dei donatori, ha smentito seccamente di aver ricevuto l'assegno. I soldi sarebbero stati versati direttamente sul conto di Regione Lombardia, ma nonostante la conferma della donazione da parte di Gianluca Comazzi, capogruppo di Forza Italia al Pirellone, evidenze di quel versamento ad oggi non ce ne sono. Tra i contrari all'opera c'era - come riporta il Fatto Quotidiano - il professor Zangrillo, primario di anestesia e rianimazione al San Raffaele di Milano. "Un'operazione inutile" - disse sbattendo la porta ad una delle prime riunioni sull'ospedale. La sua previsione, infatti, era che quando la struttura sarebbe stata pronta la curva di ricoveri in terapia intensiva sarebbe stata in calo, inoltre diceva "credo che non si possa assemblare un reparto di terapia intensiva senza fondarlo su un gruppo di medici infermieri abituati a lavorare insieme". Ma non gli hanno dato retta.

Ospedale in Fiera, l'ira dei donatori: "Ci sentiamo beffati, fateci vedere i conti". Aperta un'inchiesta. La rabbia di uno studio di avvocati che avvia l'accesso agli atti. Il sindacato Adl Cobas Lombardia presenta un esposto alla procura di Milano. Bertolaso chiarisce: "La struttura non chiuderà". Antonella Loi su notizie.tiscali.it il 21 maggio 2020. Ad alimentare la polemica sulla gestione dell'emergenza in Lombardia e, in particolare, sulla realizzazione dell'Ospedale in Fiera a Milano, alla Camera, è stato il deputato pentastellato Ricciradi che, durante il suo intervento dopo l'audizione del premier Conte, ha attaccato l'operato della giunta leghista guidata da Attilio Fontana. Toni alti dai banchi leghisti, un microfono rotto, i commessi a sedare gli animi e infine il presidente Fico costretto a interrompere la seduta quando l'esponente M5S parla proprio dell'ospedale anti-Covid, costato 21 milioni di euro frutto di donazioni private: un'opera inaugurata in pompa magna ma che a poco è servita e che, nell'arco di qualche settimana, potrebbe venire smantellata. Eppure, al di là delle ovvie proteste leghiste, la questione del reparto con circa 200 posti di terapia intensiva realizzato in due padiglioni dismessi della Fiera di Milano, nato fra le polemiche e già (quasi) morto, non fa infuriare solo gli oppositori politici, ma anche chi nel progetto ha creduto e contribuito con una donazione. "Di quei 21 milioni, 10.000 euro li ha donati il mio Studio, avendo io insistito perché fossero destinati proprio lì e non ad altre iniziative anti-Covid19. Sono un pirla", è il tweet scritto il 13 maggio dall'avvocato Giuseppe La Scala. Il legale è noto negli ambienti milanesi perché dirige uno studio associato di 200 avvocati ma anche in quanto rappresentante di una fetta sostanziosa di piccoli azionisti del Milan. 

"Il re è nudo". La realtà è che parole del primario di Anestesia del Policlinico di Milano, dirigente del reparto realizzato alla Fiera, hanno gelato tutti. "Se continua così - ha detto qualche giorno fa parlando con Fanpage - entro due settimane chiuderemo l'ospedale in Fiera Milano". Toni che stridono con le parole di allora del consulente speciale Guido Bertolaso che, poco prima di ammalarsi di Covid, ha ideato il progetto per conto della Regione Lombardia, definendolo "un'astronave", e gli entusiasmi del governatore Attilio Fontana che continua a decantare la bontà dell'opera. Il 18 maggio a SkyTg24 diceva che l'ospedale "rimarrà sempre pronto, sarà sempre allestito e sarà uno dei presidi più importanti", aggiungendo che "è talmente importante che nonostante le strumentali polemiche che si sono fatte è stato preso ad esempio da tante altre Regioni e anche da una nazione importante come la Germania, che a Berlino ha realizzato una cosa assolutamente identica alla nostra. Se si vuole fare polemica, si può fare polemica su tutto". 

"C'è qualcosa che non va". Eppure "l'ospedale" sembra destinato allo smantellamento: costi di gestione troppo alti, soprattutto se rapportati alla risibile utenza servita fino ad oggi. L'avvocato La Scala sembra intenzionato a vederci chiaro e a Business insider Italia confida: "Abbiamo capito tutti che c’è qualcosa che non va in quell’operazione. Per questo come donatori faremo una serie di accessi agli atti per vedere i conti: alla Fondazione di Comunità Milano (che ha in pancia il fondo sul quale sono affluiti i soldi dei donatori, ndr), alla Fondazione Fiera (che aveva avviato il fondo, ndr) e alla Prefettura di Milano, per capire che tipo di sorveglianza ha effettuato sugli atti delle due fondazioni. E anzi, colgo l’occasione per lanciare un appello a tutti quelli che vogliono vederci chiaro, unitevi a noi!". La Scala spiega che la rabbia per quanto sta accadendo deriva anche dall'amarezza per aver creduto lui stesso nel progetto. "Quei 10 mila euro li hanno tirati fuori tutti quelli che lavorano nel mio studio, autotassandosi. Nonostante la “rella” (i tempi di vacche magre, in milanese, ndr) avevo insistito io affinché andassero proprio lì, nonostante i soci a causa del Covid si siano diminuiti lo stipendio del 30%, gli avvocati del 20% e gli impiegati siano andati in cassa integrazione al 50%. Abbiamo raccolto i soldi perché quella struttura ci era stata venduta come una necessità assoluta e risolutiva. E invece ora mi viene da piangere, siamo stati vittime della propaganda!", ha detto ancora. 

La rassicurazione di Bertolaso. La denuncia degli avvocati guarda quindi alla mancata trasparenza sulla raccolta dei fondi e su come sia avvenuta la loro spendita, in assenza di rendicontazione. Una cortina fumosa ispessita dalle parole ultime di Bertolaso che parlando dell'Ospedale in Fiera ammette al Fatto quotidiano che "il progetto era un altro". Intervenendo poi ad Agorà il consulente speciale rivela di aver ricevuto da Fontana l'assicurazione che l'ospedale non chiuderà. Nella conversazione avuta con il governatore, Bertolaso spiega di aver ribadito la necessità di completare l'opera e fare da un reparto di Rianimazione "un vero ospedale anti-Covid". Poi tocca la questione bilanci: "Con il presidente siamo già d'accordo che lui e anche l'ente Fiera, in tempi rapidissimi, renderanno pubblici sul loro sito tutti i soldi che hanno ricevuto e da chi li hanno ricevuti e come li stanno spendendo". 

Aperto un fascicolo in procura. Gli avvocati donatori, intanto, non saranno i soli a cercare di far chiarezza sulla vicenda. Giunge notizia dell'apertura di un fascicolo conoscitivo presso la procura di Milano, a seguito di un esposto dell'Adl Cobas Lombardia. Al momento nessuna ipotesi di reato sulla realizzazione dell'ospedale anti-Covid. Secondo l'esposto "l'ospedale in Fiera, nonostante sia stato costruito con i fondi privati, a detta del sindacato che ha sempre sostenuto la possibilità di utilizzare una parte dei padiglioni dismessi e "con gli impianti funzionanti" dell'ospedale di Legnano, si è rivelato "uno spreco di risorse". E questo in quanto "proprio nel momento di maggiore criticità, tali fondi sarebbero potuti essere impiegati diversamente ad esempio facendo i tamponi ai medici, ai pazienti e al personale delle Rsa, investendo sulle strutture per la quarantena dei pazienti positivi ma non guariti per evitare focolai domestici - si legge ancora nella denuncia - creando squadre di medici per intervenire ai primi sintomi a domicilio per evitare l'ospedalizzazione". Quello che chiede il sindacato è quindi di verificare se "la tutela degli interessi privati abbia avuto prevalenza rispetto alla prioritaria tutela della salute pubblica" nella costruzione dell'ospedale "astronave" atterrata troppo presto.

Da ilmessaggero.it il 16 aprile 2020. "Colerosi", così venivano chiamati i napoletani perché l'epidemia del colera si era scatenata al sud. Lo ricorda su twitter Vladimir Luxuria, che aggiunge: per fortuna nessuno usa il coronavirus per insultare veneti e lumbard. «Molti, tra cui Salvini, insultavano i napoletani di essere colerosi perché l'epidemia di colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è segno che possiamo essere ottimisti sul futuro». Lo scrive su Twitter Vladimir Luxuria. L'epidemia di colera di Italia scoppiò in Italia nel 1973, nelle aree costiere delle regioni Campania, Puglia e Sardegna tra il 20 agosto e il 12 ottobre. L'improvvisa epidemia, forse causata dal consumo di cozze crude o altri frutti di mare contaminati dal vibrione causò un grande allarme: all'ospedale Cotugno di Napoli vennero ricoverate 911 persone in dieci giorni.

Luxuria a Salvini: "No offese al Nord, ma insultavi i napoletani". L'attivista per i diritti Lgbt all'attacco del segretario della Lega: "Chiamava i partenopei colerosi…" Alberto Giorgi, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Attacco, via social network, a Matteo Salvini. L'affondo contro il capo politico del Carroccio arriva dalla piattaforma onine di Twitter e per l'esattezza dal profilo ufficiale di Vladimir Luxuria. Sì, perché quella che è stata la prima parlamentare transgender a essere eletta nel Parlamento di un Paese del Vecchio Continente si è scagliata contro l'ex ministro dell'Interno. Il motivo della questione? Non sono tematiche legate al cosiddetto mondo Lgbt – sigla che va a indicare le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender – di cui la Luxuria è attivista, bensì in materia di coronavirus. E così il personaggio televisivo ha voluto prendersela con il segretario della Lega, rinfacciandogli di aver insultato in passato i napoletani, dandogli dei "colerosi". L'uscita dell'ex deputata dal Partito della Rifondazione Comunista è assai critica nei confronti dell'ex titolare del Viminale, al quale prega di ricordare come in queste settimane difficili causa pandemia di coronavirus, nessuno – e dice “per fortuna” – si sia messo a insultare pesantemente le popolazioni del Nord, messo in ginocchio dal Covid-19. Per la precisione, Vladimir Luxuria, twitta così: "Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere 'colerosi' purché l'epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro". L'epidemia di colera a cui si riferisce la scrittrice è quella che scoppiò in Campania, Puglia e Sardegna nell'estate del 1973, per via – a quanto stabilito all'ora – dal massiccio consumo di cozze e frutti di mare crudi contaminati dal batterio vibrione. L'epidemia provocò 278 casi e 24 vittime. Il pubblico di Twitter si divide e non tutti apprezzano il post dell'autore. Tra questi, c'è chi scrive il seguente appunto: "Mi spiace dissentire, ma, è capitato di trovare messaggi di gente che quasi esultava del fatto che la regione più colpita fosse la Lombardia. Continuo a non augurarmi che al Sud scoppi un focolaio come il nostro! Sarebbe una strage". Alla considerazione, la Luxuria risponde così: "Spero tu abbia segnalato, mostrato e denunciato... io non ho visto nulla". Un altro, invece, scrive: "Un napoletano mi ha detto che augurava a me e alla mia famiglia il coronavirus…".

La bordata di Luxuria a Salvini: “Napoletani chiamati colerosi, oggi nessuno insulta il nord”. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. La showgirl, attivista ed ex deputata Vladimir Luxuria ha postato un tweet che è allo stesso tempo un attacco al leader della Lega Matteo Salvini e una riflessione sull’Italia post coronavirus. Secondo Luxuria il fatto che non si siano levati dei commenti razzisti verso le popolazioni del nord, e in particolare verso la Lombardia, la regione più colpita dal virus, è “un segno che possiamo essere ottimisti sul futuro”. Il tweet ha subito raccolto centinaia di reazioni social. Al contrario il post fa notare come, a causa della epidemia di colera che nel 1973 colpì in particolare la città di Napoli, la popolazione partenopea sia stata spesso additata come “colerosa”. Con insulti ed epiteti razzisti. Un coro da stadio, in particolare, era stato cantato (come documentato da un video) anche dall’oggi segretario della Lega Matteo Salvini, il leader che ha portato il Carroccio a essere primo partito d’Italia e a sfondare anche nelle regioni del Sud. Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere “colerosi” purché l’epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio… nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro. Il tweet di Luxuria non è passato inosservato. E fra commenti scettici e concordi, c’è chi ha ricordato le ultime manifestazioni di razzismo, ispirate dal coronavirus e apparse proprio negli stadi, contro i napoletani. In occasione della partita degli azzurri a Brescia, del 21 febbraio scorso, gli ultras della curva di casa avevano infatti intonato il coro incommentabile: “Napoletano coronavirus”. Altri commenti hanno ricordato come durante la partita del Napoli contro il Torino al San Paolo, dello scorso 29 febbraio, i tifosi partenopei avessero invece esposto uno striscione che recitava: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il Covid-19“.

Diceva Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi uno, gridano tutti.

Fontana: “Contagio? Rispetto ad altre regioni Lombardia ha contenuto bene”. E la rete insorge. Giuseppe Mauro  de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha sottolineato come la sanità lombarda “abbia fatto bene rispetto ad altre regioni” nel contrasto alla pandemia di Coronavirus. A dimostrarlo, tra le altre cose – ha spiegato Fontana nel corso della presentazione dell’iniziativa “RipartiLombardia“, voluta dal Consiglio regionale – sono i dati relativi all’indice del contagio. “I dati bisogna leggerli con attenzione, che purtroppo in questi ultimi tempi è venuta un po’ meno. Il dato importante è l’indice di contagio e noi siamo tra le migliori regioni, al pari del Veneto e poco sotto la Valle d’Aosta. Non dobbiamo farci spaventare dai numeri, perché noi siamo 10 milioni e i numeri sono molto diversi“, ha sottolineato Fontana, aggiungendo: “Il dato dell’indice di contagio dimostra che le scelte fatte sul contenimento del virus hanno dato risultati positivi. Siamo partiti da una situazione di gran lunga peggiore come numeri, violenza e aggressività di questo virus e siamo riusciti a contenerlo talmente bene che oggi siamo tra le 3 o 4 regioni che hanno il migliore indice di diffusione del virus, che è 0,53, rispetto a una media nazionale che è intorno allo 0,70“.

LE REAZIONI DELLA RETE – Immediatamente sono scattate le reazioni di scherno della rete. “Tso per il governatore” scrive Antonio, mentre Aldo dice “Forse pensa che chi ne ha di più vince…“. Per Marina “Forse stava raccontando una barzelletta che non fa ridere?“. Andrea è arrabbiato: “Ma sta scherzando? Quando parla di altre regioni si riferisce a New York?“, Luca aggiunge “O alla Castiglia“. Insomma le parole del governatore hanno sorpreso un po’ tutti…

Il gestaccio del leghista Belotti alla Camera. NeXt quotidiano il 14 Maggio 2020. Bagarre in aula alla Camera, dopo che alcuni deputati di Fdi e della Lega si sono tolti la mascherina per inveire contro il deputato di M5s Currò, intervenuto durante la discussione degli ordini del giorno sul decreto Covid. Gli animi erano già surriscaldati nel dibattito sui problemi dei frontalieri, con accuse della Lega all’operato del governo, quando è intervenuto Currò che ha invece ribaltato le accuse al centrodestra per la gestione della pandemia nelle regioni che governa. A quel punto diversi deputati di Lega e Fdi per strillare si sono tolti o abbassati la mascherina, subito richiamati dal vicepresidente Fabio Rampelli, che li ha ripetuti invitati a avere “un comportamento che sia consono all’istituzione parlamentare e sia di esempio ai concittadini”. E’ quindi intervenuto Nicola Fratoianni che, con tono alterato, ha ricordato che la pandemia “non è uno scherzo”; “è una vergogna che deputati della destra – ha aggiunto – si tolgano la mascherina per urlare, insultare e sputacchiare”. Francesco Lollobrigida (Fdi) ha a sua volta ricordato che il suo gruppo già a febbraio aveva sollecitato l’uso della mascherina in Parlamento, all’epoca contrastato dalla maggioranza, e parole analoghe le ha pronunciate Matteo Dall’Osso (Fi). Alla fine Rampelli è riuscito a ricondurre l’aula alla calma e a riprendere la discussione dell’ordine del giorno sui frontalieri con la Svizzera. Tra gli interventi che più hanno animato lo scontro tra maggioranza e opposizione c’è quello del deputato M5s Giovanni Currò, che prende la parola e, rivolgendosi al presidente di turno, chiede di richiamare i colleghi a “mettere la mascherina perché non è uno scherzo ma una pandemia mondiale”. Insorgono i leghisti che si trovano nelle tribune. nel frattempo dalle immagini dell’Aula si vede il deputato Fratoianni che si dirige verso i banchi della presidenza e segnala quanto sta avvenendo proprio nelle tribune, da cui provengono le proteste più accese. Currò prosegue l’intervento e attacca la “Regione Lombardia che”, a suo dire, “si e’ resa responsabile del più grande fallimento sanitario della storia della Repubblica”. Si sentono urla dalla Lega (“vai in un ospedale a vedere”). Subito dopo prende la parola Fratoianni: “E’ molto grave quanto sta avvenendo, e’ una indecenza di minacce ripetute in gesti e parole e ricordo che per la sicurezza di tutti noi e’ obbligatorio l’uso delle mascherine. Non intendo continuare a lavorare in un’Aula in cui per urlare e minacciare e sputacchiare colleghi della destra continuano a togliersi la mascherina, e’ una vergogna”. Da FdI e FI ricordano pero’ di essere stati i primi a chiedere l’uso della mascherina per la sicurezza. E il deputato Andrea Romano segnala anche i gestacci di Belotti: “Tipico gesto distensivo e di alto valore istituzionale di tipico deputato leghista (Belotti), poco fa nell’aula di Montecitorio. Ovviamente nell’interesse del paese e della più rapida ripartenza economica”.

Da adnkronos.com il 14 maggio 2020. "Non sono certo uno da salotto, e stare lì, nella tribuna ospiti dell'Aula di Montecitorio, mi ha dato l'impressione di trovarmi al terzo anello di San Siro, ci stava anche per questo, quel mio gesto con le mani, il 'ti faccio un culo così', una cosa che a freddo non fai, ma siamo anche uomini". Lo dice all'AdnKronos Daniele Belotti, deputato leghista, parlando del suo gesto rivolto al 5Stelle Currò. "Dai - minimizza il leghista, noto ultrà atalantino - è stata solo una reazione istintiva, di fronte all'ennesima strumentalizzazione sui morti in Lombardia". "Sono stati cinque minuti un po' caldi - spiega ancora - poi per me è finita lì". Belotti a marzo, intervenendo in Aula si era commosso, ricordando i morti della sua città, di Bergamo. Immagini che occuparono le prime pagine di giornali e televisioni. Poi, pochi giorni dopo, indignato dalle parole del presidente del Comitato sanitario di New York, Mark Levine ("Nella Grande Mela non deve succedere come in Lombardia, con l'esercito costretto a raccogliere i corpi dalle chiese e a nelle strade"), aveva preso carta e penna per protestare, scrivendo all'ambasciatore statunitense in Italia, Lewis N. Eisenberg. "Mi hanno telefonato dalla Farnesina - spiega - dicendomi che si trattava di una uscita fuori luogo", ricordando che si era rivolto anche al nostro console nella città Usa. "Mi hanno scritto - aggiunge - anche dei bergamaschi che vivono lì, dicendo che Levine non capisce nulla". Belotti torna alle polemiche seguite al match di Champions, dello scorso 19 febbraio, quando l'Atalanta ha giocato a Milano contro il Valencia. Partita finita nel mirino, perché considerata una delle cause scatenanti del contagio in Lombardia, e poi a Bergamo. "Il caso di Codogno, il paziente zero, è del 22, 3 giorni dopo, nessuno ancora sapeva niente". "Certo - aggiunge, tornando al 19 febbraio - quel giorno eravamo in 42 mila bergamaschi allo stadio, e quello può essere stato un problema, visto che alcuni dicono che il virus circolava già da dicembre, ma non ne sapevamo nulla". "L'esplosione di casi a Bergamo? C'è una fitta rete di rapporti con la Cina, la Val Seriana è sede storica del tessile, c'è uno scambio continuo con i cinesi", dice ancora buttando la palla dall'altra parte. "Il calcio - avverte - è comunque fondamentale, come sistema di alimentazione economica di tutto lo sport italiano, se fermi la Serie A fallisce tutto". "Ripartiamo con il campionato per salvare tutto lo sport, perché ci sono 30mila società che rischiano di chiudere", chiede il deputato di Salvini. "Non lo dico per mio interesse - scherza - noi giochiamo la Champions, che pare riprenda ad agosto, e l'Atalanta la vince la coppa".

L'armata di burocrati raccomandati dalla Lega che controlla la sanità in Lombardia. I fedelissimi di Salvini. E i protetti del governatore Fontana, dell'assessore Galli e perfino di politici condannati per corruzione. Un documento dell'antimafia svela le obbedienze politiche dei manager nella Regione travolta dall'emergenza. Paolo Biondani e Andrea Tornago l'08 maggio 2020 su L'Espresso. Bravissimi, capacissimi, veri tecnici preparati e indipendenti? Grandi medici, ottimi manager o magari scienziati impermeabili alle pressioni politiche? No: fedelissimi della Lega. Anzi, dei capi-partito nazionali e regionali: Matteo Salvini, il governatore Attilio Fontana e il suo assessore Stefano Galli. La Lombardia ha affrontato l’emergenza coronavirus con una classe dirigente sanitaria totalmente lottizzata dalla politica. La regione più colpita dall’epidemia rappresenta un caso da manuale di spartizione degli ospedali tra i partiti al potere. Medici, infermieri e operatori sanitari, gli eroi dei nostri giorni stremati dai sacrifici e falcidiati dal virus, sono lavoratori dipendenti e devono obbedire a loro: i direttori di nomina politica da oltre 10 mila euro netti al mese. E in Lombardia li comanda la Lega, che da anni controlla 24 delle 40 poltrone di vertice di un sistema sanitario regionale che ai cittadini costa 20 miliardi all’anno. Tutti i particolari sulla lottizzazione degli ospedali sono scritti nero su bianco in un documento riservato, sequestrato dai magistrati antimafia di Milano cinque anni fa, recuperato dall’Espresso e finora mai pubblicato integralmente: la lista riservata dei direttori della sanità lombarda con la targa della Lega. Una specie di manuale Cencelli applicato agli ospedali e alle Asl, con nomi, cariche e sponsor politici. Rispetto alle normali mappe dei manager lottizzati, ricostruite in questi anni dai cronisti lombardi dopo ogni tornata di nomine, l’elenco confiscato ha diverse particolarità: è un documento interno alla Lega, scritto a mano per non lasciare tracce nei computer, e non si limita a indicare che il dirigente sanitario è stato scelto dal partito, ma specifica anche il suo padrino politico. La lista è ancora attualissima: la sanità lombarda è tuttora in mano a decine di questi direttori etichettati da anni come fedelissimi di Salvini o di altri big della Lega.

Meno scorte a ospedali, più soldi a manager: così la giunta ha bloccato i laboratori lombardi. Una delibera del governo regionale ha tagliato i rifornimenti a Lodi e previsto meno spese per 300mila euro a Brescia. Così Fontana e Gallera hanno tolto risorse alla sanità per pagare gli incentivi ai direttori. E la Regione è rimasta senza reagenti contro il coronavirus. Fabrizio Gatti l'08 maggio 2020 su L'Espresso. Nudi davanti al coronavirus. Anche la Fase 2 dell’epidemia è cominciata senza sufficienti protezioni, secondo il timore di molti scienziati e l’esperienza degli italiani apparentemente guariti e da giorni in attesa dei test tampone per poter uscire. Al nuovo caos nazionale sulle mascherine, dovuto al prezzo imposto di 50 centesimi, si aggiunge il ritardo o la lentezza con cui lo Stato e le Regioni più esposte, a parte Veneto e Toscana, hanno avviato sulla popolazione le indagini molecolari (ricerca del genoma del virus nelle vie respiratorie) e sierologiche (ricerca degli anticorpi nel sangue). L’Espresso ha scoperto che in Lombardia, l’area finora più colpita al mondo con decessi che in provincia di Bergamo sono aumentati a marzo del 568 per cento rispetto agli anni precedenti, l’insufficienza di scorte nei laboratori degli ospedali è il risultato di una delibera votata da tutta la giunta regionale, compresi il governatore leghista Attilio Fontana, il vicepresidente Fabrizio Sala e l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, per aumentare gli incentivi economici ai direttori generali, generalmente di nomina politica.

Fontana: la Lombardia chiederà i danni alla Cina per 20 miliardi. E basta sciacallaggio contro di noi. Redazione del Secolo d'Italia domenica 3 maggio 2020. Alla vigilia della fase 2 il governatore della Lombardia Attilio Fontana annuncia che la regione chiederà alla Cina un risarcimento danni da 20 miliardi. La notizia arriva contemporaneamente alle accuse lanciate nuovamente da Mike Pompeo sulle responsabilità cinesi nella diffusione del virus. “Ci sono enormi indizi del fatto che è lì che è iniziato”. Così il segretario di stato americano ha risposto ad una domanda sulla presunta origine all’interno del laboratorio di Wuhan del virus che ha causato la pandemia mondiale. “Abbiamo detto fin dall’inizio che questo virus ha avuto origine a Wuhan, in Cina”, ha dichiarato intervenendo su AbcNews. “Ricordate che la Cina ha una storia di infezioni propagate nel mondo e ha una storia di laboratori al di sotto degli standard. Questa non è la prima volta che abbiamo avuto il mondo esposto a virus come risultato di errori in un laboratorio cinese”. Quanto alla possibilità che sia stato diffuso intenzionalmente, Pompeo afferma di non avere “nulla da dire su questo”. “Credo che vi sia ancora molto da sapere. Ma posso dire questo: abbiamo fatto del nostro meglio per cercare di rispondere a queste domande. Abbiamo cercato di inviare un team, l’Oms ha cercato di inviare un team. Ma nessuno è stato autorizzato ad entrare in quel laboratorio o in altri, ce ne sono molti in Cina. Il rischio rimane”. “Non posso rispondere alla sua domanda. Perché il partito comunista cinese si è rifiutato di collaborare con gli esperti mondiali”.

Fontana: basta sciacallaggio contro di noi. Tornando alla Lombardia, Fontana ha esortato il governo a porre fine agli screzi e più in generale a far terminare lo sciacallaggio verso la regione. ”Il governo deve destinare più attenzioni e risorse certe alla Lombardia, se vuole davvero rilanciare l’economia del paese  la maggioranza deve smetterla di fare guerra alla Regione solo perché di colore politico diverso”. Fontana si è detto poi amareggiato per gli attacchi delle opposizioni che definisce ”sciacallaggio” e invita l’esecutivo a dialogare maggiormente per ”risolvere i problemi” di una ripartenza che come studiata ”rischia di creare situazioni fuori controllo e contenziosi a non finire”. E’ quindi ”sciacallaggio politico chiedere la mozione di sfiducia nei confronti dell’assessore Giulio Gallera”, così come appare incomprensibile non aver ascoltato meglio le proposte sulla ripartenza. ”Una delle tante questioni che mi sono permesso di sottoporre al governo in previsione del 4 maggio – ha detto Fontana- è stata quella della possibilità di riaprire i centri estivi, gli oratori, così come avevo proposto al governo di consentire a uno dei genitori di stare a casa per accudire i figli, sono tutte cose che credo debbano essere prese in considerazione. C’è anche la disponibilità di Anci e di tutti i comuni nel fare un ragionamento in questa direzione e credo che ci siano due settimane durante le quali sicuramente si dovrà arrivare a una risposta”.

I lombardi hanno mostrato grande dignità. Per il resto la Regione non lascerà nulla di intentato per sostenere gli abitanti. Compresa la volontà di avanzare una richiesta danni di 20 miliardi alla Cina. ”una richiesta avanzata dal consiglio regionale; credo valga la pena di fare un approfondimento per cercare di capire se vi sono delle mancanze da parte della Cina o no”. Quanti ai giorni più bui ”mai temuto di non farcela, ma sono stati giorni angoscianti. Vedere i letti di rianimazione che drammaticamente si riducevano nonostante i miracoli quotidiani per rimpolparli . E ai lombardi do un voto ottimo, hanno saputo dimostrare grande dignità nel momento delle sofferenze, con un grande rispetto di regole difficili da rispettare in un momento in cui si sono posti limiti alla libertà e credo di poter dire che lo dimostreranno con grande determinazione anche nella ripartenza”.

Giulio Gallera a Libero, sul coronavirus la risposta a Boccia e De Luca: "Il Sud l'abbiamo salvato noi a Milano". Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 20 aprile 2020.

«Tante persone hanno la memoria corta. Se non avessimo sbattuto i pugni sul tavolo nei vertici con il governo il virus si sarebbe diffuso in tutta Italia, sarebbe stata un disastro». Prima amato, poi contestato. Giulio Gallera è uno dei volti della crisi che ha colpito l' Italia in queste settimane. Si è trovato nell' occhio del ciclone e ora provano a usarlo come parafulmine. «Ma noi non potevamo fare molto più di quello che abbiamo fatto», dice l' assessore lombardo al Welfare, «e chi ora si è dato alle polemiche non ha capito una cosa: la battaglia non è affatto finita, a ottobre sicuramente il virus tornerà. Dobbiamo farci trovare preparati».

Assessore, gli attacchi a Regione Lombardia iniziano quando lei in un' intervista apre alla possibilità di candidarsi sindaco a Milano, ha disturbato qualcuno? 

«Ma non è un attacco a me, vogliono colpire la Regione. Una Regione che ha dimostrato di saper resistere in uno scenario di guerra che ha travolto soprattutto le categorie più fragili».

Qualche problema però ci dev' essere stato. Partiamo dall' inizio, oggi alcuni quotidiani l' accusano di aver ignorato gli allarmi del governo sul Coronavirus, a partire da una riunione del 22 gennaio. 

«Deformazioni della realtà vergognose. Il 22 gennaio il governo segnalava ancora che il rischio di contagio era moderato e diffondeva una circolare per adottare una serie di misure preventive. Noi abbiamo girato immediatamente tutte le istruzioni alle nostre Ats (le vecchie Asl, ndr) e a tutti i medici. E per un po' ha funzionato, fino a fine febbraio abbiamo gestito più di 100 casi di persone arrivate da viaggi in Asia in zone a rischio, andandole a prendere con mezzi e tute speciali, tenendole in isolamento nei nostri reparti per infettivi. In queste cose siamo molto bravi».

Però poi scoppia la bomba, evidentemente perché le misure di contenimento non erano adeguate. 

«La bomba scoppia perché una persona entra in Italia dalla Germania con il virus ma senza mostrare patologie apparenti, se non un banale raffreddore. Così per 20 giorni il Covid è circolato senza controlli, prima che potessimo fare qualcosa».

Si è parlato molto dei tamponi, forse l' errore è stato non continuare a farne a tappeto da subito? 

«No, il problema è stato la progressione pazzesca del numero di positivi dovuta al tempo passato prima di sapere del primo caso. Noi all' inizio siamo stati bravi a tracciare tutti i contatti dei pazienti, esattamente come hanno fatto in Germania. Per esempio abbiamo scoperto un nuovo focolaio nato da una balera di Codogno frequentata da cremonesi. Nonostante ciò i casi raddoppiavano ogni 3 giorni. In due settimane avevamo più di 300 posti in terapia intensiva occupati».

E a quel punto, a parte chiuderci in casa, cosa si poteva fare? 

«Nulla, purtroppo ci siamo trovati in una situazione in cui ormai era impossibile seguire i contagi. Quel che si poteva fare andava fatto prima».

Cioè? 

«Si poteva imporre in tutto il territorio europeo una quarantena per chiunque arrivasse dalla Cina. Questo ci avrebbe consentito di bloccare il virus. Fontana questa cosa l' ha detta ed è stato trattato da razzista. Invece un' operazione del genere avrebbe bloccato la possibilità di diffusione dell' infezione».

Con Roma ci sono ancora questioni da chiarire? 

«Beh, noi abbiamo affrontato questa guerra a mani nude. Noi avevamo risorse adeguate alla gestione ordinaria, anche con i magazzini pieni in una settimana abbiamo esaurito le scorte di un anno di tute, camici, mascherine e così via. Bisognava prevedere un piano straordinario per i rifornimenti. Il problema è che il 31 gennaio il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e incaricato la protezione civile di preparare quanto necessario per affrontare un' emergenza. E invece negli ospedali, tra i medici e nelle Rsa è mancato tutto, dai respiratori in poi...».

Però accusano voi di aver gestito male la crisi, tanto che tutti dicono che il Sud ha retto meglio della Lombardia. Si parla anche di commissariamento. 

«Ma siamo alla totale deformazione della realtà. Non si può paragonare la Lombardia ad altre regioni dove non ci sono stati focolai come i nostri. Peraltro sembra che qualcuno abbia completamente perso la memoria. Possibile non ricordare che ai primi di marzo i sindaci e gli scienziati dicevano che le città non si dovevano fermare, che il Covid era un' influenza, che tutto si sarebbe risolto velocemente? Siamo stati gli unici a chiedere misure più incisive al governo. Se gli spostamenti in Italia sono stati sospesi il 7 marzo è perché l' abbiamo chiesto noi, esponendoci anche con i nostri scienziati e con una lettera accorata da parte dei nostri medici. Ricordate? "Qua la gente muore, non abbiamo tubi da mettere in gola ai pazienti"».

Ora però c' è chi chiede di processarvi per omicidio volontario per le morti nelle case di riposo. 

«Certo, col senno di poi tante cose si potevano migliorare, ma ricordiamo alcune cose. Noi abbiamo provato a chiudere le Rsa, limitando all' inizio l' accesso dei parenti. Il 3 di marzo abbiamo dato possibilità di chiudersi completamente. Io ricevevo telefonate di figli infuriati perché non potevano vedere i genitori. Altro punto: noi abbiamo sempre fatto scelte per cercare di salvare il maggior numero di persone possibile. Se fossimo stati a pensare a renderci inattaccabili rispetto a posteriori letture malevole, non avremmo salvato la vita a tanti lombardi».

Ora De Luca minaccia di sospendere i collegamenti con il Nord se deciderete di far ripartire le attività produttive. 

«In realtà le misure che abbiamo previsto hanno prodotto un grande risultato, noi avevamo di fronte proiezioni agghiaccianti fatte dai nostri analisti, per questo abbiamo messo in campo misure di contenimento per evitare di avere centinaia di migliaia di contagiati in più. Senza le misure adottate grazie alle nostre insistenze sarebbe stato un disastro».

In pratica mi dice che il Sud l' avete salvato voi? 

«Certo, assolutamente. Se noi non ci fossimo opposti con rigidità al governo il Sud il 7 marzo non sarebbe stato chiuso. Invece abbiamo sbattuto i pugni sul tavolo chiedendo misure restrittive. Grazie a questo le altre Regioni ci hanno seguito e abbiamo ridotto il contagio. Ora tutto deve ripartire, ma nella garanzia della massima sicurezza sanitaria». 

A proposito, i test sierologici iniziano questa settimana. Sono così utili? 

«I cittadini si aggrappano a qualunque ipotesi di speranza, ma se qualcuno pensa di poter tornare a bere lo spritz perché ha fatto il test sbaglia. Oggi non ci sono kit che ci danno questa garanzia. Certi esami dicono solo se hai anticorpi, ma in ogni caso non escludono che il soggetto sia ancora contagioso. Gli altri esami, quelli sui quali ci stiamo orientando, sono più efficaci, ma non sono stati validati e non sono certi al 100%».

Secondo l' Oms è praticamente certo che a ottobre l' epidemia riparta. 

«Sì, ci stiamo già preparando al fatto che le pandemie vanno ad ondate. Anche per questo i processi mediatici sarebbero da posticipare, siamo ancora in trincea. Dobbiamo prepararci a una vita e a un sistema sanitario diversi. Anche perché le persone che hanno contratto il virus si trascineranno a lungo malattie croniche».

I sindaci lombardi continuano a lanciarvi accuse sulla gestione dell' emergenza. 

«Abbiamo bisogno di loro in questo momento, ma da qualche settimana quelli di centrosinistra sono diventati il braccio armato di un attacco alla Regione. Speriamo che la cosa finisca».

Il primato malato della Lombardia: qui un decimo dei morti da coronavirus del pianeta. La regione che è sempre stata orgogliosa della propria differente efficienza oggi scopre di essere una terra piagata. Giuseppe Genna il 20 aprile 2020. Il 22 febbraio, a Casalpusterlengo, nel Lodigiano, nel camposanto dai muri sbrecciati, sotto il cielo della Lombardia così brutto quando è brutto, tra le lapidi storiche con i fiori avvizziti e mielosi, la bara infetta viene calata con le corde, brevemente ha celebrato l’addio sotto il sole latteo il parroco della chiesa dei santi Bartolomeo Apostolo e Martino. Accanto a lui, una sagoma rattrappita nella luce, modulava il suo dolore il parente stretto della deceduta, la prima vittima di coronavirus in Lombardia, la seconda in Italia, a un giorno dalla scoperta del focolaio di Codogno. Le avevano fatto il tampone quando già era morta, spentasi nella notte accanto al marito, bisogna proprio immaginare ogni atto empio e pietoso in questo tempo virale e vile. Hanno decretato il contagio, hanno disposto d’urgenza l’inumazione. Si doveva ancora fare esperienza della frenesia da apocalisse in atto, che avrebbe portato la Lombardia dove è adesso: a sessantamila contagiati. Un decimo dei morti totali del pianeta si è consumato qui, nella regione differenziale, che è sempre stata orgogliosa della differenza: il cromosoma tedesco del genio italico, il suo calvinismo ai limiti dell’intollerabile, il lavoro come culto del pudore. L’avanguardia della nazione elabora da decenni i numeri della propria supremazia materiale, senza proporre un contraltare spirituale, nell’idea malata che l’efficienza sia una morale e che dalle opere si misuri una predestinazione.

Tsunami, incendio, onda d'urto, bomba atomica, eroismo. Con il suo linguaggio fra il film catastrofico e il Cinegiornale Luce, l'assessore più popolare d'Italia racconta ogni sera il fronte lombardo dell'epidemia. Ecco come il forzista è arrivato a gestire un budget da 20 miliardi di euro nonostante il declino di Silvio Berlusconi. Questo sistema accelerato e secolare, questa ruralità ammodernata, dominata da un capoluogo che si pensa verticale, ha elaborato l’eccezione definitiva: il primato del virus. Che pure tenta di cancellare, di scotomizzare, scoprendo che l’efficienza era inefficiente e che la prova di realtà è un fatto di anima e non di finzione empatica o di resilienza produttiva. Un silenzio di censura, di numeri equivoci, di cancellazione della morte vera. Un silenzio rotto dalle conferenze stampa dell’assessore lombardo alla Sanità, il suo volto lucido e lacustre, lo strano dettato con l’inflessione comasca, nonostante sia milanese e, da milanese, emetta non una nota di lutto, ma numeri: il bilancio irrituale dei morti, delle sepsi, degli ascessi polmonari. Perché questo è sembrata e sembra la Lombardia in quelle trasmissioni serali dell’orrore, in cui si snocciolano cifre in luogo di persone, senza prendersi la responsabilità della tristezza più fonda o di una benché minima reazione emotiva: un luogo in cui la pietà la si disbriga di passaggio, mentre si consuma il miraggio confindustriale del dopo, l’idea di una ripresa che riporti nei binari dello sviluppo sperequato, ignorando il cielo cromato sopra quella fossa a Casalpusterlengo. Su quella fossa, su tutte le fosse, l’idea dell’efficienza cieca infartua e il cuore deve provare un pubblico trasalimento - non per retorica del dolore e nemmeno per automatica ritualità. In quei morti, istantaneamente astratti in cifra, appare enorme e indifferibile il momento di senso, di cura, di pietà, di passaggio che questa tragedia infligge al fenomeno umano su tutto il pianeta e in primis qui, in Lombardia, che di colpo appare ciò che è: una terra piagata, costretta a meditare sulle infinite salme, ma incapace di dirsi che questa è un’ecatombe, è una catastrofe, è l’indimenticabile che avviene in tempo reale davanti agli occhi secchi dell’ipotesi di uno sviluppo infinito. Si vive un allontanamento dalla morte carnale, pari soltanto al distanziamento sociale dall’amore. Implode su se stesso l’auspicio che l’amore sia il fatto che uno sia per l’altro il coltello col quale fruga dentro se stesso. La giusta comprensione di una cosa e l’incomprensione della stessa cosa non si escludono, come dimostra il caso delle immagini storiche che proliferano qui, nel cuore lombardo del virus. La produzione lombarda di immagini oggettive deve pretendere lo spazio d’anima e l’articolazione delle parole, per esprimersi all’altezza di una lezione inevitabile, che questo tempo impartisce al tempo precedente: noi di adesso, tutti intorno a quella fossa a Casalpusterlengo, contro i noi di prima, quando la realtà ci sembrava un diritto e la trenodia funebre o la danse macabre ci parevano modalità remote o estinte. È quello che vogliono sapere migliaia di persone che chiedono giustizia sui social. La mancanza di mascherine, i troppi morti nelle case di riposo, le informazioni sbagliate agli ospedali. Nella provincia che sta pagando di più, al lutto segue la rabbia. Tra le immagini lombarde della tragedia che si consuma di ora in ora in queste ore, gli estremi dell’arco del lutto sono due persone eterogenee, un sindaco e un’infermiera, figure stremate, al contempo distanti e unitarie, che sottintendono tutto il peso delle bare accatastate negli obitori e sui pavimenti delle chiese, nell’ipotesi non teorica della fossa comune, della morte bacillare, dell’impossibilità di baciare il padre, la madre, i figli, i parenti, gli amici morti. Quelle due figure, il sindaco e l’infermiera, rovesciano il paradigma lombardo, si fanno carico di portare i segni della tragedia agli spettatori, che ancora devono accomodarsi nell’anfiteatro e non comprendono che la mitologia è dura ed è ora e non può che parlare di morte. Di morte, non di economia. Non il lavoro è il dramma, ma sempre la morte, lo zero a cui l’umano va incontrando le folate dello spirito, gli incroci del divino. E anche quando sarà la questione economica a prevalere, si tratterà di una tragedia del panico, dell’ansia, del sisma emotivo, che tutta l’umanità lombardizzata avrà da elaborare. I canti funebri sono una verità che ci accompagna dagli esordi della specie: li avevamo dimenticati, l’economia è la disciplina che cancella il canto funebre...Se c’è un rappresentante istituzionale di questo rovesciamento tra sviluppo economico e morte, che lascia attoniti e senza fiato, è il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: il volto gli si è crepato in rughe di dolore, si è piegato alla forza di gravità a cui costringe la sofferenza. Un uomo positivo, saturo dello spettacolo che egli stesso ha diretto per decenni, incastonato in un’esistenza glam, un campione della sussidiarietà, una mente incline all’astrazione econometrica, un profeta del blairismo più radicale. A cui la vita presenta il conto, segnandolo, marchiandolo, facendolo deragliare, chiamandolo fuori da se stesso. Il suo sembiante pare costellato improvvisamente di cicatrici, i camion militari di notte portano via le salme da Bergamo incidendogli i battistrada sulla pelle, lo sguardo gli si approfondisce in un lutto nitido e irrevocabile, la dialettica gli si affina e diviene implacabile nell’allerta che deve comunicare a una regione inconsultamente distratta, a una nazione che non si accorge. Accanto al vescovo sta, il sindaco tragico, la mascherina che gli lascia in vista quello sguardo azzurro intensificato, davanti a decine di urne cinerarie, i resti ritornati nella terra natale. È l’unica istituzione che ho visto piegarsi fisicamente sui morti...E l’altra immagine: l’infermiera a Cremona, esausta, fotografata di spalle seduta mentre dorme stremata, chinato il capo sulla scrivania contro la tastiera del computer, in un bianco e nero drammatico. Il pianeta ha scrutato la salvezza implicita in questa icona, l’immagine ha scalato le homepage di tutto il mondo. È molto piaciuta la grana innocente, l’eroismo angelico di un sonno pubere e confortante: l’infermiera non è un cadavere. Eleggere a simbolo un cadavere è un’operazione spirituale proibitiva per il contemporaneo. Eppure l’infermiera è sì viva, però ha toccato i morti e ha assistito i morenti, che non si vedono, ma pressano da fuori quell’immagine, nelle corsie fuori dall’obbiettivo, dove immensamente gli anziani e i giovani collassano, nella Lombardia che muore. E che non smette di morire, una terra insanguinata di plasma infetto, dove vivo, dove viviamo tutti, dove si deve alzare esile come un comignolo di fumo nero almeno un canto, per la patria mia, di cui vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e le torri abbandonate dei nostri avi, ma la gloria non vedo, non vedo allori, non vedo i metalli, che caricavano le spalle ai nostri padri antichi, terra resa inerme che mostra nuda la fronte, nudo il petto: dove è il tuo cuore?

Coronavirus: l'ospedale dimenticato di Legnano. Fontana: "Non lo sapevo". Le Iene News il 20 aprile 2020. Luigi Pelazza, nel servizio in onda martedì sera a Le Iene, dalle 21.10 su Italia 1, ci racconta della strage degli anziani morti nelle case di riposo lombarde e di un ospedale che forse avrebbe potuto salvare la vita a molti. Ne parla anche con il governatore lombardo Attilio Fontana. Che risponde: "Non sapevo di questi ambienti". In Lombardia nell'emergenza coronavirus sarebbero almeno un migliaio gli anziani deceduti nelle rsa, le residenze sanitarie assistite, per essere entrati in contatto con pazienti che erano stati trasferiti lì per alleggerire i reparti ospedalieri dopo la delibera regionale dell'8 marzo. Le inchieste in corso, che ipotizzano i reati di omicidio colposo plurimo ed epidemia colposa, stabiliranno le eventuali responsabilità. Una domanda però sorge spontanea: sarebbe stato possibile trovare altre strutture più idonee delle rsa? Esistono infatti strutture addirittura vuote e pressoché pronte - con i dovuti interventi - a ospitare i pazienti infetti. Strutture come l’ex ospedale civile di Legnano, di cui ci racconta Luigi Pelazza nel servizio in onda martedì 21 aprile a Le Iene dalle 21.10  e che potete anche vedere nell'anticipazione qui sopra. Parliamo di un ospedale dismesso dieci anni fa, a meno di 15 minuti dalla nuovissima struttura di terapia intensiva voluta da Regione Lombardia in Fiera. Se molti dei pazienti che uscivano dagli ospedali fossero stati portati subito a Legnano invece che nelle case di riposo, si sarebbero potute risparmiare vite umane? Luigi Pelazza visita la struttura che secondo l’assessore al Welfare della regione Lombardia Giulio Gallera non sarebbe stata pronta prima di 6-12 mesi. Peccato però che, a quanto avrebbe scoperto Luigi Pelazza, la relazione ricevuta da Gallera facesse riferimento solo a una parte dell’ex ospedale di Legnano dimenticandone un'altra già in parte o del tutto agibile, potenzialmente idonea e pronta dopo i dovuti interventi. La Iena decide allora di andare a chiedere spiegazioni al governatore lombardo Attilio Fontana, che risponde: "Non sapevo di questi ambienti. Quelle trenta camere che lei mi ha fatto vedere, mi era stato detto che non era possibile utilizzarle. Forse avrei usato soltanto quelle”.

La strage di anziani nelle rsa lombarde e quell'ospedale dimenticato. Le Iene News il 29 aprile 2020. Luigi Pelazza indaga in Lombardia sull’assurda vicenda di un ospedale “dimenticato” dalle istituzioni, quello di Legnano, che forse avrebbe potuto salvare qualcuno delle migliaia di anziani morti nelle residenze sanitarie assistenziali della regione. Nelle ultime settimane, nella sola Lombardia, almeno un migliaio di anziani sono morti nelle rsa. Colpa forse, ma lo stabiliranno le indagini della magistratura, della vicinanza con alcuni pazienti malati di Covid-19 o non Covid-19 ma comunque che non avevano fatto alcun tampone, che sono stati trasferiti nelle residenze sanitarie assistenziali dopo una delibera regionale dell’8 marzo? Una delibera fortemente criticata dalle associazioni di categoria delle case di cura, che avevano descritto quella scelta con un paragone inquietante: “È come mettere un cerino in un pagliaio”. Luigi Pelazza indaga sulla vicenda dell’ex Ospedale civile di Legnano, vicino Milano. Un ospedale dismesso dieci anni fa, distante meno di 15 minuti dalla nuovissima struttura Covid che avrebbe dovuto ospitare 500 pazienti, voluta da Regione Lombardia in Fiera, inaugurata però solo il 31 marzo scorso. Un ospedale, quello di Legnano, che l’assessore al Welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera, aveva definito inadeguato perché “inutilizzabile, non pronto prima di 6-12 mesi”. Luigi Pelazza visita quelle tre palazzine abbandonate e fa una scoperta: le carte sottoposte all’assessore Gallera non sarebbero riferite alle tre palazzine visitate dalla Iena e quasi pronte, ma al corpo principale, il “monoblocco”, effettivamente in stato di totale abbandono. Una domanda ce la poniamo: si sarebbe potuto utilizzare Legnano per trasferire lì alcuni malati che poi, forse, hanno fatto strage nelle rsa lombarde? L’ispezione solitaria di Luigi Pelazza, effettuata nel pieno dell’emergenza, mostra locali sicuramente da risistemare, ma non così abbandonati come indicato da Regione Lombardia, con reparti praticamente pronti a ospitare i pazienti. Le stanze sembrano dotate delle attrezzature necessarie, anche se sicuramente pulizia e sterilizzazione profonda andrebbero effettuate. In un’altra palazzina scopriamo una cosa che ci lascia letteralmente a bocca aperta: è tutto nuovo e perfettamente funzionante, anche le luci e il riscaldamento, mancano solo macchinari e arredamento. Chiamiamo per telefono l’ingegnere della Regione che ha scritto quella relazione per l’assessore Gallera, e l’uomo conferma che la sua analisi si riferiva solamente al “monoblocco”, il corpo principale, quello abbandonato da 10 anni. Chi ha deciso allora che le altre palazzine di Legnano che abbiamo visitato non fossero idonee alla cura dei pazienti Covid? Incontriamo l’assessore Gallera proprio davanti all’ex ospedale civile di Legnano e con lui facciamo una nuova “ispezione” dei locali. "L’8 di marzo la strategia era svuotare gli ospedali. Certo che Legnano è uscito fuori, ma non aveva la possibilità di essere usato. Nei giorni successivi, il 9 aprile, è stata fatta un’altra relazione, su altri due luoghi”. Un’affermazione quindi che conferma la mancata conoscenza di regione Lombardia, all’8 marzo, dello stato in cui versavano gli altri edifici del complesso, oltre al monoblocco. Gallera prosegue: "Il problema era avere realtà con il personale, il problema era il tempo e il personale...” Ma siamo davvero sicuri che, nelle due settimane usate per creare l’ospedale in Fiera, non si sarebbe potuta attrezzare l’area di Legnano con il personale, magari spostato da altra sede? Luigi Pelazza porta l’assessore Gallera in uno dei corpi dell’edificio, in fase di ristrutturazione. “Questo edificio è della Soprintendenza delle Belle Arti, gli sarebbero venuti i capelli così...”. Gli mostriamo poi le camere più “belle”, quelle praticamente pronte e Gallera ribadisce che il problema, sostanzialmente, era quello del personale mancante. Visitiamo anche un’altra palazzina, adibita a uffici, che ospitava oltre 80 persone suddivise in 40 camere. “Non ha più i collegamenti, i tubi, etc”, spiega ancora Gallera. Davvero queste stanze non si sarebbero potute usare per quei pazienti che necessitavano solo di essere collegati a una bombola? “L’elemento personale era fondamentale”, ribadisce ancora una volta l’Assessore Gallera. “Se potesse ritornare indietro, prenderebbe le stesse decisioni?”, gli chiede Luigi Pelazza. “In quei momenti sì, abbiamo fatto tutto il meglio”.

La sanità privata finisce sotto accusa (ma ha raddoppiato le terapie intensive). Bufera sulle cliniche convenzionate lombarde A marzo hanno creato 214 letti di rianimazione. Maria Sorbi, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Un medico è un medico. Sia che lavori in un ospedale pubblico sia che lavori in un ospedale privato. E in queste settimane di emergenza, gli sguardi stanchi dietro a camici e occhiali protettivi erano gli stessi ovunque, a prescindere dal contratto. La voglia di darsi da fare anche. Eppure la sanità privata è stata accusata «di aver fatto la schizzinosa» nella gestione dei malati Covid. Di aver potuto scegliere come e se collaborare. Tanto che - si alza il coro di quelli bravi a criticare a posteriori - la Regione ha dovuto contrattare l'attivazione dei posti letto in terapia intensiva con i privati (che hanno il 30% di quelli lombardi). Un'accusa che equivale a dire: se la sanità privata si fosse mossa prima, non ci sarebbero stati tutti questi morti. «I privati - annuncia lo stesso presidente del Consiglio Conte a inizio marzo - dovranno mettere a disposizione personale, immobili e macchinari». In realtà i privati si muovono, senza farsi corteggiare, ben prima dell'appello di Conte e della delibera regionale dell'4 marzo con cui la Regione decide di affiancare i medici degli ospedali privati a quelli degli ospedali pubblici Covid. Un esempio per tutti: il primo marzo 15 medici intensivisti si trasferiscono dagli ospedali del gruppo San Donato alle corsie della zona rossa del lodigiano e all'ospedale di Cremona. E già il 21 febbraio, quando scatta l'allarme, i direttori delle strutture private partecipano al primo vertice sul coronavirus con i colleghi del pubblico per condividere i protocolli e cominciare la disperata ricerca di posti letto. Le strutture Aiop, associazioni ospedali privati, alla metà di marzo hanno già messo a disposizione 270 letti di terapia intensiva (che oggi sono raddoppiati) e 2.621 posti letto per i ricoveri ordinari extra Covid. Fornendo una «stampella» fondamentale alla gestione dell'emergenza. Che è stata comunque drammatica, e lo è tuttora, ma che è stata affrontata, questo sì, senza campanilismi. Almeno fino ad ora. Adesso, a quanto pare, si è risvegliata la voglia di criticare quel modello di sanità formigoniano che ha sempre ammiccato ai privati in Lombardia più che altrove. E che ha causato la stessa caduta di Roberto Formigomi, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione nell'inchiesta Maugeri, la clinica che avrebbe ricevuto rimborsi superiori a quelli che le sarebbero spettati. Se c'è qualcosa su cui ha senso riflettere oggi è quell'eccesso di ospedalizzazione - tutto lombardo e ereditato dall'era formigoniana - che ha portato il numero delle strutture sanitarie private da 55 nel 1997 a 73 nel 2006. Perché è proprio quell'essere figli di una rete ospedaliera così capillare, sia pubblica sia privata, che ha spinto ad affrontare la primissima emergenza «solo» costruendo ospedali. Col senno di poi, sarebbe stato utile lavorare a monte del problema, puntando fin da subito (e non un mese dopo) sull'assistenza territoriale per evitare che le persone positive diventassero casi gravi da terapia intensiva. Ma da qui a parlare del «business degli ospedali» ne corre. Tra le accuse ai privati lombardi anche quelle sul numero di letti in terapia intensiva. Anche questo si può considerare un difetto di fabbricazione, implicito: è ovvio che il privato sia più interessato, per questione di rimborsi, ai ricoveri meno lunghi anziché alle degenze di settimane, ma è altrettanto vero che, nella normalità, aiuta a coprire, in tutta Italia, un quarto dei ricoveri. E che il San Raffaele si è costruito un reparto di terapia intensiva con soldi privati in una settimana o poco più. Seppur con vari errori, forse in Lombardia è stato proprio il connubio pubblico-privato a mettere in piedi una rete di emergenza che in altre regioni non sarebbe stata possibile.

La Regione Lombardia pubblicizza i successi della sua sanità privata. Davanti a 11mila morti. Di Giulio Cavalli su TPI il 15 Aprile 2020. Quindi la Lombardia si vanta del disastro. La regione che da sola conta più della metà dei morti in tutto il Paese, la regione in cui fioccano le testimonianze di persone che sono mancate senza avere nessun tipo di assistenza sole nelle proprie abitazioni, la regione in cui nessuno sa esattamente se ha o se ha avuto o se è guarito dal Covid-19, la regione che è arrivata in ritardo sull’incendio di vite umane che è scoppiato in Val Seriana, la regione in cui i contagi non sembrano rallentare, la regione in cui le case di riposo sono state usate come parcheggio per i malati di Covid creando un disastro, la regione in cui (lo dice Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano) c’è stato “un clamoroso fallimento della medicina territoriale e della diagnostica”, la regione che in tutto il mondo viene osservata come caso-scuola di quello che non bisogna fare insiste nel vantarsi. Tutti i giorni l’assessore Gallera, in una conferenza stampa che ha il sapore di un comizio infarcito di qualche numeretto, ci racconta che sono stati bravissimi, che sono i migliori, che non hanno sbagliato nemmeno una mossa e nei giorni scorsi addirittura ha comprato pagine dei quotidiani per vantarsi delle vite salvate con il suo sistema pubblico-privato con una scritta a tutta pagina che recita “28.224 vite salvate in Lombardia” e con la precisazione che è tutto merito della “sanità privata insieme alla sanità pubblica” e anche un bel hashtag #unasolasanità. Siamo all’apoteosi: ieri l’assessore Gallera ha addirittura dichiarato di essere contento che l’ospedale Covid in zona Fiera “non sia servito” (21 milioni di euro spesi per qualche manciata di pazienti in una struttura che non ha medici e infermieri a disposizione) dimenticando che il ruolo della politica dovrebbe essere quello di fortificare le realtà ospedaliere esistenti: quanti tamponi vengono fuori da 21 milioni di euro? Quanti investimenti si sarebbero potuti fare sulla telemedicina con quei soldi? Niente. Nessuna autocritica, nessuna risposta. La sistematica privatizzazione della sanità, la riduzione dei posti letto, lo sgretolamento del ruolo dei medici di famiglia sono tra le cause che hanno reso la Lombardia così debole. È il fallimento politico e culturale di una stagione che in Lombardia dura da vent’anni, eppure nessuno si permette nemmeno di aprire una riflessione. Se chiedete a Gallera perché la Lombardia è stata straziata dalle morti vi risponderà sardonico che c’è troppa gente che si sposta, nonostante i dati dicano tutt’altro. Dimentica anche di dirci che in Lombardia ci si sposta perché molte fabbriche in deroga (circa 15mila) sono rimaste aperte. Ma non sentono, non vedono, non parlano. Eppure i numeri raccontano, ed è un’ecatombe. E loro si vantano del disastro.

Lombardia, 11mila morti e la Regione spende soldi per vantarsi della gestione dell’emergenza. Da business.it il 15 aprile 2020. Vantarsi di un disastro. Anzi, spendere soldi per vantarsene. Non ci sono parole per commentare quanto sta accadendo in Lombardia dove, davanti a 11 mila morti, la giunta Fontana compra pagine di giornali per vantarsi della gestione dell’emergenza. Sì, avete capito bene. Un tentativo grottesco di superare errori, polemiche, accuse con un trionfale “abbiamo salvato 28.224 vite”. Il tutto mentre i dati, terrificanti, evidenziano come nella Regione le vittime siano pari al 9% di quelle registrate in tutto il mondo (non in Italia, nel mondo!). Si festeggia ignorando le grida di dolore di pazienti che lamentano di essere stati abbandonati a sé stessi, degli ospedali che si sono ritrovati senza letti liberi né personale, dei medici che hanno accusato la Regione di una gestione che ha fatto acqua da quasi tutte le parti. Fontana, in tutto questo, gonfia il petto e si vanta. Una follia, di fronte alla quale non resta che una strada: commissariare, per rispetto di chi in questa emergenza soffre e continua a soffrire. Perché l’indecenza deve pur avere un limite. Come riassume bene TPI la Lombardia di Fontana è “la Regione che da sola conta più della metà dei morti in tutto il Paese, la regione in cui fioccano le testimonianze di persone che sono mancate senza avere nessun tipo di assistenza sole nelle proprie abitazioni, la regione in cui nessuno sa esattamente se ha o se ha avuto o se è guarito dal Covid-19, la regione che è arrivata in ritardo sull’incendio di vite umane che è scoppiato in Val Seriana, la regione in cui i contagi non sembrano rallentare, la regione in cui le case di riposo sono state usate come parcheggio per i malati di Covid creando un disastro, la regione in cui (lo dice Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano) c’è stato “un clamoroso fallimento della medicina territoriale e della diagnostica”, la regione che in tutto il mondo viene osservata come caso-scuola di quello che NON bisogna fare insiste nel vantarsi”. Nessuna autocritica, nessuna risposta. Scrive Giulio Cavalli su TPI: “La sistematica privatizzazione della sanità, la riduzione dei posti letto, lo sgretolamento del ruolo dei medici di famiglia sono tra le cause che hanno reso la Lombardia così debole. È il fallimento politico e culturale di una stagione che in Lombardia dura da vent’anni, eppure nessuno si permette nemmeno di aprire una riflessione. Se chiedete a Gallera perché la Lombardia è stata straziata dalle morti vi risponderà sardonico che c’è troppa gente che si sposta, nonostante i dati dicano tutt’altro. I numeri raccontano, ed è un’ecatombe. E loro si vantano del disastro”.

Roberto Formigoni a Pietro Senaldi: "La verità sulla super sanità in Lombardia, il Pd attacca Fontana per prendersi la torta". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. «Che vuole che le dica, io agli arresti domiciliari ho fatto l'abitudine, mi dispiace per voi, rinchiusi da sei settimane». Tutta colpa sua, presidente «Anche questa? Suvvia». Massì, il sistema lombardo della sanità: la sinistra l' ha messo sul banco degli imputati, spara a palle incatenate, i giornali compiacenti dicono fra le righe che lei ha messo su una macchina mortale, per questo in Lombardia ci sono stati tanti morti «La vedo disinformato. Ora le spiego cos' era il modello Formigoni. Nel '97 facemmo la rivoluzione. Inserimmo nel sistema sanitario pubblico lombardo alcune aziende private di grandissimo prestigio - parlo dell' Istituto Oncologico di Veronesi, dell' Humanitas, del San Raffaele -, strutture che erano delle eccellenze internazionali. Prima erano aperte solo a chi si poteva permettere le loro rette, oggi sono accessibili a tutti». Dicono che questo sistema ha impoverito gli ospedali pubblici.  «Al contrario ha fatto nascere una concorrenza benefica che ha fatto schizzare la qualità della sanità lombarda ai massimi livelli. Tant' è vero che hanno cominciato a venire a curarsi qui centinaia di migliaia di persone l' anno, da tutta Italia ma anche da Francia, Germania e Gran Bretagna. E sceglievano anche ospedali pubblici. Grazie alla nostra rivoluzione il San Matteo di Pavia, gli Spedali Riuniti di Brescia, i milanesi Niguarda e Policlinico, il Papa Giovanni di Bergamo: sono saliti tutti nelle classifiche di qualità». Per diciassette anni presidente della Lombardia, fino all' autunno del 2012, Roberto Formigoni decide di rompere il silenzio sulla sanità e sul modello da lui creato, oggetto di pesanti accuse dalla sinistra. Lo fa con Libero, in esclusiva. L' intento è porre fine alle speculazioni politiche sulle vittime di Covid-19. La tragedia lombarda, dovuta al fatto che la Regione è quella con più relazioni internazionali, densità abitativa e popolazione, viene sfruttata dalla sinistra per mettere in croce un sistema. «E non se ne capisce il motivo» precisa l' ex presidente, «visto che paghiamo oltre il 20% delle tasse del Paese».

Dicono che le liste d' attesa si sono allungate in Lombardia rispetto alle altre Regioni.

«Un' altra menzogna: allargando l' offerta ospedaliera, i tempi d' attesa si sono accorciati, anche perché grazie alla nostra rivoluzione, le strutture sanitarie sono aumentate. La Lombardia è diventata un polo d' eccellenza mondiale e medici eccellenti, i cosiddetti cervelli in fuga, sono tornati, attratti dal sistema. Quanto al paragone con le altre Regioni: ha idea di quante persone vogliono farsi curare qui e quante altrove?».

Un' altra accusa è che le strutture private hanno puntato tutto su patologie e cure ad alto rendimento, per guadagnare di più, trascurando per esempio le terapie intensive.

«Un' altra balla. Nel 2011 il governo ha iniziato a ridurre i finanziamenti alla Sanità. Ci hanno imposto di passare dai sei posti letto ogni mille abitanti del '92 agli attuali tre. Poi, come tutti sanno, dai vari governi sono stati tagliati 37 miliardi in otto anni».

La sanità però è in mano alle Regioni, sbaglio? 

«La gestione ordinaria, ma non la cassa. Nel 2015 il governo Renzi obbligò le Regioni a tagliare in modo massiccio i posti letto. Per decreto vennero posti vincoli ai numeri dei reparti di terapia intensiva e ai letti relativi. Alla Lombardia vennero assegnati 134 padiglioni e 700 posti. Quando è arrivato il Covid, c' erano 800 letti e 140 reparti di terapia intensiva. La Regione non rispettò la legge, ma per un eccesso di cura. Prima, il 23 dicembre del 2014, in concomitanza con il famoso varo degli 80 euro di Renzi, c' era stato un altro taglio».

Però è vero che gli ospedali privati preferiscono orientarsi su terapie redditizie.

«Guardi. Prima i rimborsi alle cliniche private avvenivano sulla base dei giorni di degenza. Quindi si tendeva a prolungare le ospedalizzazioni, anche non necessarie, per capitalizzare. Noi li abbiamo legati alle operazioni fatte, il che ha velocizzato anche l' assistenza. Però la Lombardia ha più strutture e posti del massimo consentito dalle legge, come le ho dimostrato».

Perché allora tutti ce l' hanno con la Lombardia? 

«È in corso una lotta ideologica contro di noi. Siamo vittime della rabbia furiosa di chi per vent' anni ha mangiato polvere, roso dall' invidia, perché non poteva non ammettere che eravamo i numeri uno in Italia».

L' invidia per il primo della classe? 

«Dopo l' Expo, che è stata una vittoria del centrodestra, lo voglio ricordare, Milano è diventata anche la capitale del turismo, oltre a esserlo già dell' economia, del commercio e della sanità. Queste dita puntate da Roma contro di noi mi fanno insorgere brutti sospetti».

Vogliono prendersi la torta? 

«Esatto. Attaccano il sistema lombardo per mettere le mani sul giocattolo. È una cosa schifosa. Il vice del Pd, Orlando, l' ha detto chiaramente, parlando della necessità di commissariare la nostra sanità, e non solo. Ma portare la sanità lombarda sotto lo Stato significa livellarla all' altezza di quella calabrese o sarda».

La sanità lombarda però costa.

«Un' altra fake-news. Noi siamo diventati i numeri uno pur essendo agli ultimi posti come quota capitaria ricevuta dallo Stato. E poi, mi lasci dire, il commissariamento sarebbe proprio la negazione di tutta la nostra filosofia, che mette al centro il malato, non il governo».

La solita lotta destra contro sinistra? 

«Prima del modello Lombardia, era la Regione a dirti in quale ospedale dovevi curarti. Ora è il paziente, di qualunque città sia, a decidere la struttura e il medico. Il tutto gratis: le sembra poco? Noi abbiamo dato una fiducia totale al cittadino, ligi al detto per cui ciascuno è il miglior medico di se stesso».

Qualcosa però in Lombardia non ha funzionato. La famosa zona rossa nella Bergamasca? 

«Ma quello non è un errore lombardo. Il presidente Fontana, scelta che condivido, ha deciso all' inizio di gestire l' emergenza con il governo. Mi sembra che non abbia ricevuto una risposta decisa alla richiesta di zona rossa. Hanno perso tempo tutti. Vorrei però dire che è il momento della collaborazione. Anche per questo non capisco i muri che vengono fatti alle richieste della Lombardia».

Le sembrano mosse dal revanscismo anti-lombardo di cui sopra? 

«Penso che sia giusto porre il tema della riapertura, seppure in massima sicurezza e differenziata a seconda delle attività. Abbiamo già perso il 9% del Pil, non vorrei arrivare al 25. I muri non li capisco».

Si dice che non abbiano funzionato i medici del territorio, quelli che dovevano curare i malati a casa.

«Questo ha un fondamento, ma io non c' entro niente. Nella mia riforma i medici di famiglia avevano un ruolo centrale, sia nella prevenzione che nella convalescenza, e il loro lavoro era adeguatamente remunerato. Maroni, che è arrivato dopo di me, in nome della discontinuità, ha affidato medicina territoriale e ospedaliera alle Asst, istituendo un fondo unico, sui cui stanziamenti ovviamente le cliniche hanno fatto la parte del leone, e la medicina del territorio è stata mortificata».

Adesso i pm indagano sulle morti al Pio Albergo Trivulzio.

«Io non governo dal 2012, so poco. Penso che la spropositata rilevanza mediatica che si dà alle indagini rientri nella logica politica di demolire il governo del centrodestra. Mi risulta che in tutte le Regioni siano nate indagine sui decessi nelle case di riposo. Perché si parla solo dell' inchiesta milanese? E poi, in Spagna, Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, in percentuale sono morti più anziani ricoverati che da noi. Sono tutti criminali?».

La Lombardia e la debolezza di credersi invincibili. Gli errori della regione ex feudo di Formigoni e Berlusconi. Questo territorio - scrive Saviano - "ha pagato a caro prezzo le mancanze del suo sistema sanitario misto pubblico-privato". Ecco l'intervento dello scrittore (pubblicato su Le Monde) che ha provocato l'ira di Salvini. Roberto Saviano il 15 aprile 2020 su La Repubblica. È accaduto in Italia che proprio la regione ritenuta più forte, la più efficiente, la più ricca fosse quella meno pronta a fronteggiare la pandemia portando avanti scelte di cui presto i suoi dirigenti  saranno chiamati a rispondere. Nel sistema italiano, le regioni hanno competenza esclusiva in materia sanitaria e la regione Lombardia è capofila, sia per la ricchezza del territorio, che per il connubio pubblico-privato creato dalle amministrazioni di centro-destra, che hanno occupato il potere ininterrottamente negli ultimi due decenni. La Lombardia è il territorio di Silvio Berlusconi e la Regione era il feudo di Roberto Formigoni, definitivamente condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere per gravi episodi di corruzione, innestatisi proprio sul rapporto tra potere regionale e sanità privata. Ma fino a un mese fa si credeva che quella corruzione fosse solo un incidente di percorso. Ma le cose non stavano così. Dal mio osservatorio di studioso delle dinamiche criminali, e in particolare del potere delle mafie, ho negli anni osservato come per un settentrionale sia più accettabile pensare che il marcio sia comunque proveniente "da fuori". Eppure, solo dieci anni fa, per aver raccontato nel corso di una trasmissione televisiva quello che era un'ovvietà per ogni investigatore - e cioè che la camorra napoletana e la 'ndrangheta calabrese, seguendo le orme della mafia siciliana, che lo aveva fatto, almeno dagli anni '70, avevano infiltrato l'economia legale del nord - fui attaccato al punto di dover ospitare, coattivamente, alla puntata successiva un monologo dell'allora Ministro degli Interni, Roberto Maroni (predecessore di Matteo Salvini alla guida della Lega Nord), ora fuori dalla politica per vicissitudini giudiziarie. Dopo poco arrivarono anche le condanne e oggi è un dato assodato che in molte parti del Nord le mafie la facciano da padrone. Qui racconto ciò che so, ciò che accade. Ma con una premessa necessaria: non c'è un sistema sanitario al mondo che si è dimostrato in grado di fronteggiare con prontezza l'emergenza Coronavirus, ad eccezione, forse, per i dati che si conoscono oggi, della Corea del Sud. Per quanto possa apparire paradossale, il punto debole della Lombardia è rappresentato dalla sua dinamicità economica e dal volume di scambi e relazioni con l'estero e, in particolare, con la Cina. Nelle valli bergamasche falcidiate dal virus (alcuni già adesso parlano di un'intera generazione cancellata) esiste una miriade (migliaia) di piccole aziende, spesso con meno di dieci dipendenti, che però rappresentano un'eccellenza tale da fare di quei distretti industriali una vera locomotiva, non solo per la Regione Lombardia. A un certo punto, però, mentre i media parlavano delle scelte drammatiche che erano rimesse ai medici delle terapie intensive, tra chi intubare e chi lasciar morire, altre scelte venivano fatte e il tema del contendere è stato: chiudere le produzioni, con il rischio di un collasso economico, o mantenere aperto tutto il possibile, sacrificando vite umane? Va da sé che non c'è stato un dibattito pubblico sulla questione, e ci mancherebbe. La cosa grave è che la Regione Lombardia e il governo centrale si sono passati, nel corso di molte settimane, la patata bollente della decisione di chiudere tutto. Oggi sappiamo che, nel frattempo, per non confinare in casa operai che erano utili alla catena di montaggio e che, soprattutto nel caso di piccole imprese, dovevano e devono decidere tra la vita e il lavoro, si è favorita una massiccia diffusione del contagio, che al di là della parzialità dei dati, restituisce una mortalità, in termini assoluti, spaventosa. Oggi questa realtà è venuta fuori in tutta la sua gravità, restituendo l'immagine di un territorio nel quale le classi dirigenti hanno deciso a tavolino di "non fermarsi", probabilmente mettendo in conto l'ecatombe, magari puntando sulla sorte. Quanto sta emergendo sui ritardi nel disporre la zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro, nella Bergamasca, e sui ricoveri nelle residenze sanitarie in cui si prestano cure agli anziani (RSA) sono questioni sconvolgenti, che non possono non essere messe in connessione con un tasso di letalità del virus che, in quelle zone, è altissima e miete centinaia di vittime ogni giorno.  Da molte parti si sta invocando, proprio a causa della crisi lombarda, un passaggio della gestione sanitaria dalle regioni al governo centrale. Per certi versi, è intuitivo pensare che quanto è accaduto, quindi le "indecisioni", il "rischiare" siano stati frutto di un'eccessiva dipendenza del potere politico regionale rispetto a quello economico-produttivo. Ora che le cose sono andate malissimo, il rischio concreto è che chi ha deciso queste "strategie" criminali possa avere interesse a occultare le proprie responsabilità. Il tasso di letalità del virus in Lombardia è frutto soprattutto delle scelte fallimentari compiute da una classe dirigente mediocre, che andrebbe esautorata immediatamente se non ci fosse un'emergenza drammatica in corso.  Ma mentre oggi le sirene delle ambulanze coprono ancora le voci dei familiari delle persone lasciate morire a causa di una sequela di errori che hanno aggravato l'effetto dirompente del contagio, tra poco sarà il tempo di processare chi è venuto meno ai suoi doveri. Il caso lombardo assume peraltro una connotazione ancora più oscura se raffrontato a quello della regione confinante, il Veneto, che pure a fronte di una popolazione assai inferiore (circa la metà), ma caratterizzato da una simile vivacità sul piano economico, ha affrontato la crisi in maniera completamente differente e, ad oggi, più efficace. Per quello che ora sappiamo, tra Lombardia e Veneto (entrambe governate dalla Lega) esiste una differenza di approccio all'epidemia che è quantificabile nel numero di persone che hanno perso la vita - 10mila in Lombardia vs meno di 1.000 in Veneto - a fronte di un numero di tamponi eseguiti pressappoco identico (quasi 170mila). Il Veneto, a differenza della Lombardia, ha puntato molto sul tracciamento degli asintomatici per individuare ogni focolaio, per poi agire con prontezza sigillando i territori per impedire l'espansione del contagio. A differenza della Lombardia - dove il virus (come in molte altre parti del mondo, ma non con una tale intensità) ha visto crescere il contagio anche a causa della impreparazione al fenomeno dei piccoli ospedali sul territorio - il Veneto ha provato a ridurre l'ospedalizzazione dei malati (salve, ovviamente, le ipotesi gravi), privilegiando l'assistenza domiciliare. La Lombardia, di fronte a una crisi senz'altro non prevedibile nella sua velocità di diffusione, ha pagato soprattutto per i deficit organizzativi che il sistema misto pubblico-privato - fino ad allora considerato, anche a ragione, dato che ogni anno migliaia di persone da altre regioni vi si recavano per cure, il meglio possibile - ha mostrato: a fronte di grandi eccellenze, un livello medio piuttosto basso sul piano organizzativo (fondamentale, a tal proposito, leggere la lettera che la FROMCeO Lombardia e cioè la Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Lombardia ha inviato ai vertici della Regione stigmatizzando l'incertezza nella chiusura di alcune zone, la mancanza di mascherine e dispositivi di protezione e i pochi tamponi effettuati) e un dominio incontrastato della politica e dei gruppi di potere. Un esempio per comprendere questa dinamica è quello di Comunione e Liberazione, un'associazione cattolica della quale, fino alla condanna definitiva, il corrotto Roberto Formigoni era uomo di punta. Comunione e Liberazione è potentissima in Lombardia e detta legge; basti pensare alla percentuale maggioritaria, nelle strutture pubbliche, di medici antiabortisti e della difficoltà che la maggior parte delle donne trova a farsi prescrivere la pillola abortiva, nonostante sia previsto dalla legge: la "tecnica" elusiva è semplice. I medici obiettori di coscienza hanno molte più possibilità di fare carriera rispetto a quelli non obiettori. Come si potesse, anche ieri, ascrivere questa dinamica mafiosa al concetto di efficienza è stato per me sempre un mistero. E dispiace che i lombardi debbano rendersi conto oggi, sulla pelle loro e dei loro cari, dell'anomalia di certe dinamiche, che lungi dal rappresentare eccezione gettano una luce sinistra sulla regola seguita in generale. Vedete, nascere e crescere al Sud Italia, uno dei territori viceversa più poveri d'Europa (con un pil in molte parti inferiore a quello della Grecia), ti dà gli strumenti per capire oggi cosa accadrà domani. E quello che è accaduto in Lombardia e in Veneto, che sono state le prime zone in Europa colpite dal Covid-19, è di vitale importanza per il resto del continente perché mostra due approcci differenti e indica esattamente, nel caso della Lombardia, cosa non fare, come non agire, come non comunicare. Ma le colpe non sono solo del centro-destra al potere, poiché viceversa le città di Bergamo e Milano sono amministrate dal centro-sinistra. Ma il virus è arrivato a scoprire l'assoluta inadeguatezza di un approccio economicista e manageriale della cosa pubblica che caratterizza un territorio ricchissimo, nel quale il lavoro è un imperativo e la dimensione individualistica è accentuata fino al parossismo. Le biografie stesse dei sindaci di centro-sinistra di Milano e di Bergamo aiutano a comprendere le falle nella gestione delle prime fasi dell'emergenza. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala è un uomo di estrazione di centro-destra assurto alle cronache per la gestione dell'evento EXPO 2015, mentre quello di Bergamo, Giorgio Gori, è stato per lunghissimo tempo un uomo di punta dell'azienda televisiva di proprietà di Silvio Berlusconi. Entrambi hanno sottovalutato al principio l'emergenza sanitaria, preoccupandosi solo delle possibili ricadute economiche. Non solo hanno provato in tutti i modi a non "fermare le macchine", ma hanno addirittura invitato i cittadini, nonostante l'epidemia in corso, a prendere parte alla vita di comunità, assecondando in tutto i desiderata del comparto produttivo, che non riusciva a vedere nel lockdown una alternativa di vita praticabile e che, a questo punto, dobbiamo ritenere sia l'unico riferimento nella loro azione amministrativa. Il paradosso di questa crisi sembra quasi delineare un insegnamento filosofico. Proprio i politici a capo della regione che si è sempre vantata di aver fatto tutto da sé e che negli ultimi trent'anni ha chiesto sempre maggiore autonomia - il partito più forte del Nord, la Lega, prima di essere sovranista era, fino a pochissimi anni fa, secessionista - lamentando il peso dell'improduttivo meridione (però formidabile serbatoio di "risorse umane", come direbbe un manager), che ha sempre deprecato ogni accentramento e ogni decisione presa dalla inconcludente e disorganizzata Roma, in questa emergenza hanno finito per dare la responsabilità delle proprie indecisioni, e delle conseguenti omissioni, al governo centrale. Che avrebbe dovuto decidere al posto loro, levandogli le castagne dal fuoco: davvero disonorevole, oltre che criminale. L'Europa - e il resto del mondo - sta affrontando un momento estremamente delicato in cui si deciderà davvero del suo futuro. È stato detto molte volte, ma questa è quella definitiva, perché oggi in Europa non si decide solo il destino del continente e dei paesi che ne fanno parte, ma si decide soprattutto del destino di tutte le persone che ci vivono e ci vivranno, anche di chi non è ancora nato. Perché è bene dirlo: oggi si sta decidendo di condannare le future generazioni di buona parte dell'Europa a pagare i debiti contratti dai propri genitori a causa di una forza maggiore. E anche questo è assai poco onorevole, soprattutto per quei piccoli paesi che sottraggono risorse ad altri attraverso il dumping fiscale. Un mondo che è risorto dalle macerie della seconda guerra mondiale, del nazismo e del fascismo, dei campi di sterminio, dei totalitarismi comunisti per giungere alla sublimazione del contabile al posto del politico. Che disonore: non oso immaginare quale trattamento riserverebbero i padri dell'Europa a questi mediocri che credono che gli Stati siano delle aziende e le persone dei numeri da inserire in un bilancio. Penso a Helmut Kohl e al coraggio che ebbe a riunire la Germania per condurla in un'Europa libera e solidale e al sostegno che trovò nei partner europei. Ma Kohl è morto e con lui, probabilmente, l'ultima idea nobile di Europa. Se penso alla Germania, non posso non pensare alla nostra Lombardia. Non posso non pensare che l'operosa Germania, in qualche modo, stia all'Europa come l'operosa Lombardia sta all'Italia. E mi torna in mente Scurati che ha descritto il milanese al tempo del Covid-19 come un animale spaventato, atterrito dalle sicurezze perse nel giro di poche, pochissime settimane: la debolezza insita nel credersi invincibili.  Che senso ha l'efficienza senza la solidarietà: forse è lì, ancora, la differenza tra l'uomo e la macchina. I vertici della Regione Lombardia hanno sbagliato ad aver assecondato Confindustria lombarda, il cui presidente, Marco Bonometti in un'intervista ha difeso la scelta di non aver chiuso fabbriche dicendo: "Però ora non farei il processo alle intenzioni, bisogna salvare il salvabile, altrimenti saremo morti prima e saremo morti dopo". Argomento da industriale, senz'altro; ma la Politica, quella con la P maiuscola, è altro e certo non possono farla gli industriali. Ma essere arrivati al dilemma: se morire prima, fisicamente, e morire poi, economicamente, fa capire bene la sfida posta dal virus alla politica europea, prima che italiana. Forse, ma non ne sono certo, c'è ancora spazio per uscire dalla pandemia per seguire un'utopia: riscoprire che produttività e conti correnti valgono meno delle persone, riscoprire che allargare diritti, espanderli, significa salvarci tutti. Riscoprire ora che una politica che decide solo seguendo l'odore del denaro è una politica che genera morte e non ricchezza. E che dice a chiare lettere: "l'Europa non esiste più e oggi è un nuovo 1945". Io spero che gli uomini di buona volontà non lo permetteranno.

Rozza: «La colpa di quei morti di Covid è mia, non ho saputo fermare Gallera e Fontana». Claudio Marincola il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Maria Carmela Rozza è finora l’unico esponente politico italiano che si è dichiarata pubblicamente responsabile per gli oltre undicimila morti della Lombardia. Lo ha fatto parlando alla giunta regionale da infermiera qual è, anche se il suo ruolo adesso è quello di consigliere regionale del partito democratico.

Lo sa che lei è la prima finora ad assumersi la responsabilità di quello che è successo?

«Lo so. E so anche che il presidente Fontana e l’assessore Gallera hanno detto che rifarebbero tutto quello che hanno fatto in questi ultimi due mesi per filo e per segno. Sentirglielo dire per me e per molti infermieri e medici che mi hanno scritto è stata una pugnalata al cuore. Ci sono stati errori gravi, anzi gravissimi. Noi li avevamo avvertiti, in una lettera scritta il 3 marzo chiedevamo che i pazienti positivi non venissero inviati subito negli ospedali e che le Rsa in cui c’erano già stati casi di Coronavirus venissero trasformati in centro Covid. Non ci hanno dato ascolto. Erano i giorni in cui in regione c’erano stati alcuni contagi. Con questa scusa si sono chiusi dentro e hanno fatto tutto da soli».

In quel video postato su Facebook, diventato subito virale, lei dice di sentirsi responsabile per tutte quelle morti. Perché?

«Perché non siamo riusciti a evitarlo. Se stai in una istituzione, anche se fai parte dell’opposizione, devi sentirti responsabile di quel che succede. Il quadro ci era chiaro sin dall’inizio, io sono un’infermiera professionale, presi il mio bel diploma nell’ 83 a Ragusa, dove sono nata, e mi trasferii a Milano, dove sono stata assessore ai Lavori pubblici con Pisapia e assessore alla Sicurezza con Sala. Mettere quei pazienti dentro le Rsa è stato assurdo. Quella delibera dell’8 marzo, che voi per primi avete pubblicato, è stato un disastro. Non bisogna essere scienziati per capire il concetto basico di contenimento. Se sei positivo ti contengo. Tutti avevano visto in tv le immagini di quel ragazzo italiano tornato dalla Cina sotto una bolla di vetro. Com’è stato possibile, mi chiedo, infettare gli ospedali lasciando i pazienti in corsia con la sola mascherina chirurgica. Uno avrei potuto anche capirlo, ma ne sono arrivati centinaia e tutti insieme. Altri sono morti a casa, da soli soffocati. Le ambulanze andavano e venivano. Si sono messi a ribaltare interi reparti. Chi indossa un camice sa cosa vuol dire. Sa anche che quando ci sono tutti questi spostamenti c’è una grande possibilità di fuoriuscita del virus».

Chi li ha consigliati, Fontana e Gallera? Lei lo sa?

«Glielo abbiamo chiesto tante volte. Hanno sempre risposto allo stesso modo: abbiamo fatto quel che ci dicono gli scienziati».

Si, ma chi?

«Buh…».

Il 4 maggio si riapre.

«Non so cosa potrà succedere. Fermi non possiamo stare, rischiamo il default ma, in realtà, qui, da quando è scoppiata l’epidemia non è cambiato molto».

Lo avete un piano di riorganizzazione degli ospedali?

«Che mi risulti ancora no. Tutto come prima».

È un piano di sorveglianza sanitaria?

«Nemmeno, neanche a parlarne. E non sappiamo ancora che assetto ci vogliamo dare tra Covid e no-Covid».

La situazione nelle Rsa però è cambiata?

«La buona notizia è che in alcune Rsa hanno iniziato a fare tamponi ma c’è ancora carenza di dispositivi e di personale. Come si sa, molti infermieri si sono licenziati, sono passati dal privato al pubblico. Il contratto è migliore, si guadagna meglio. Senza dire che il futuro delle Residenze sanitarie va ripensato. In tutto quello che è successo c’è un paradigma sociale. La considerazione che questa maggioranza ha degli anziani. La loro fragilità non era un problema della Regione. Nella successiva delibera, quella del 30 marzo, (in cui si chiedeva alle Rsa di non trasferire negli ospedali gli ultra 75enni, n.d.r.) c’è una aperta violazione della Costituzione, il diritto di essere curati. Si è deciso di lasciar morire gli anziani».

È successo anche in altre regioni e in altri Paesi europei.

«Nessuno, però, come in Lombardia ha commesso errori così gravi e calpestato in questo modo i diritti delle persone. Quello che è successo, il dramma che abbiamo vissuto, deve indurci a una profonda riflessione. Chi ha agito in questo modo probabilmente non sapeva neanche cosa fosse una Rsa, distinguere tra chi sta bene e chi invece è in lungodegenza. Si è pensato che le strutture dovessero farsi carico anche della loro salute, c’è stato uno scaricabarile».

Quindi?

«Quindi sono molto preoccupata, lo confesso. Spero che il governo ci ripensi e si orienti verso aperture diversificate. Per ripartire bisogna capire che economia e salute sono due cose che non si possono separare. Si può ripartire se si fa lo screening, se si fanno i tamponi, se ci sono posti per l’isolamento e per la terapia intensiva».

Dopo quel video in molti le hanno scritto. Per dirle cosa?

«Qui ho molti amici, mi conoscono in tanti. Per anni mi sono occupata di case popolari, in centro posso perdermi, in periferia conosco anche le stradine. Mi hanno scritto e anche quando m’incontrano mi dicono che ho fatto bene».

A prendersi lei tutta la colpa?

«Non ci crederà, ma è la cosa che hanno apprezzato di più. Non essere riuscita a correggere gli errori, a fermarli, per me è un peso. Lo penso davvero. E mi dicono anche una seconda cosa: hanno apprezzato il ricordo di tutti quei morti, quelle bare in fila, quelle immagini che tutti abbiamo sotto gli occhi e chissà per quanto ancora ci resteranno».

Milano ha perso: così la città è stata travolta dall’onda lunga del virus. Selvaggia Lucarelli il 15 Aprile 2020 su TPI. Un anno fa, ad aprile, Milano era il Salone del mobile, la mostra di fiori sui Navigli, le maratone che tagliavano la città, lo Yogafestival a Citylife, il Gran Ballo di Primavera alla Balera dell’Ortica. C’erano il Rum Festival, il Miart, Tommaso Paradiso che cantava “Felicità puttana” al Forum. Era la Milano dell’immaginario comune, la città in cui le cose succedono, l’Europa è più vicina, il nuovo arriva prima. Era “la città in cui si vive meglio” secondo una classifica di quei giornali che misurano il benessere coi numeri. Beppe Sala, sindaco moderno e benvoluto, posava su una copertina di Style con il Duomo sullo sfondo e il titolo “Città aperta”. Una profezia sbagliata. Del resto, perfino gli scienziati, neanche un anno dopo, si sono rivelati indovini fallibili. Milano, poi, non è la città delle Cassandre. Qui il domani è un grattacielo nuovo, il quartiere riqualificato, le Olimpiadi invernali. Un anno dopo, Milano è una città che si guarda sulle pareti specchiate del Palazzo Unicredit e non sa più chi è. Malconcia e incredula, la città che mastica il futuro, che farà, che sarà, che non si ferma, si trova per la prima volta a maneggiare ciò che non conosce: il presente. In una narrazione capovolta, per giunta, in cui restano le fotografie di chi dalla “città delle occasioni” è scappato sul primo treno. O sul primo jet. La narrazione capovolta della città che trainava il resto dell’Italia e che ora ne è la zavorra. Roccaforte del virus, Milano è la città che per ultima uscirà dalla paura dei contagi. E non è detto che gli altri, quelli che ormai i contagi li hanno azzerati o quasi, la aspetteranno. Cosa è successo? Cosa succede a Milano? Succede che la coda dei contagi è lunga perché Milano – almeno un po’ – poteva farcela. Il virus le è girato intorno per settimane, ha aggredito prima il basso lodigiano, la Val Seriana, Brescia, Bergamo. Era chiaro che Milano non potesse godere di una immunità miracolosa, ma era altrettanto chiaro che con un contenimento efficace, si sarebbero potuti limitare i danni. Si poteva giocare con un anticipo di quasi un mese, e invece no. Anziché dall’onda anomala che si frange senza lasciare scampo, Milano è rimasta sommersa dall’onda lunga. Il sorpasso dei contagi rispetto alla città di Bergamo con le sue bare portate via dall’esercito è avvenuto il 30 marzo. Un mese e 8 giorni dopo il paziente 1 di Codogno. Una vita, durante un’epidemia. Vuol dire che in quei 40 giorni, per tirare su il ponte levatoio, ci si è messo troppo. Vuol dire che di Milano non si sono comprese le fragilità, forse distratti dalle narrazioni sulla città performante (aggettivo osceno, molto milanese, che non a caso arriva dal linguaggio finanziario), dall’idea radicata che la sanità nel capoluogo lombardo fosse il meglio che si potesse chiedere. A Milano, del resto, ci sono i grandi ospedali pubblici, i gruppi privati più stimati, con all’interno Facoltà di Medicina e poli didattici di università. Ci sono le eccellenze, i luminari, gli esperti, i reparti. Ci sono decine e decine di Rsa, alcune delle quali, come gli ospedali, sono una sorta di città nelle città. Migliaia di pazienti, di dipendenti, di operatori sanitari, di addetti alle pulizie e di parenti che da lì entrano ed escono tutti i giorni. E poi le case di riposo. Piene e numerose, perché qui a Milano i figli sono pochi, gli anziani sono tanti e gli stipendi sono alti. Non esiste neppure un censimento attendibile delle case di riposo e delle Rsa a Milano. Una specie di giungla urbana invisibile, in cui il Coronavirus ha trovato il suo parco giochi. Qui stava la fragilità di Milano. Qui andavano alzate le barricate. È l’ultima flebo, più che l’ultimo aperitivo, ad aver esposto mortalmente la città. Mentre noi fotografavamo gli ultimi irresponsabili sui Navigli o in Sempione nel weekend del 6 marzo, il virus passava di letto in letto e poi dallo stetoscopio del medico giovane al vecchietto della stanza 5, dal laccio emostatico sul braccio della ragazza immunodepressa all’infermiera del piano terra, dal pigiama della signora in cardiologia allo sfigmomanometro della dottoressa che quest’anno se ne va in pensione. E che, prima di dimettere il ragazzino del reparto all’ultimo piano, ha stretto la mano a quei genitori simpatici, che la chiamavano a tutte le ore. Il virus entrava nelle case di riposo con i figli delle domenica, viaggiava tra coperte, vassoi di paste, baci e termometri. E poi, con loro, tornava a casa. I parenti e il personale ospedaliero, chi amava e chi curava, è stato l’inconsapevole traghettatore della malattia. Andava difesa, Milano, con quel prezioso anticipo che ha avuto. Bisognava iniziare a usarli con serietà, quei numeri snocciolati a caso nei bollettini di Gallera. Contare pazienti, dipendenti di ospedali, Rsa, case di riposo e avere paura. Prevedere. Schivare il più possibile. Pretendere report dettagliati, trasparenti da tutti. È anche l’assenza di paura che ha fregato questa città. È la sfrontatezza fessa, perennemente stampata sulla faccia di Gallera. È l’arrogante debolezza di chi non convive con l’idea che si possa perdere. Quella paura che forse ha salvato il Sud. E poi gli interessi. Tante, troppe Rsa hanno taciuto, perché se avessero parlato avrebbero dovuto chiudere. Idem troppe case di riposo, che hanno privato figli e nipoti di informazioni importanti, che hanno atteso settimane prima di ammettere il disastro. I tamponi al personale si sono fatti poco o per niente ovunque, perché va detta una verità semplice, impronunciabile: meglio un medico, un infermiere malato che un reparto senza più personale. Non si sono tamponati i cittadini, ma si è tamponato il disastro con la propaganda, con l’ospedale di plastica dorata da inaugurare a favore di telecamera, con le colpe da attribuire ai milanesi a giorni alterni. Quelli in cui i numeri erano pessimi “i milanesi vanno troppo in giro, la app dice che ci sono troppi movimenti sospetti dopo le 23”, quelli in cui erano migliori “bravi i milanesi, i vostri sacrifici sono premiati”. Nessuno, intanto, che dica la verità: a Milano si muore ancora tanto perché il virus è entrato dove ha trovato i bersagli più fragili. Tant’è che le terapie intensive, nonostante i morti siano sempre tanti, si stanno svuotando: è perché il novantenne in casa di riposo non lo intuba nessuno. Muore lì. Non è stato il runner, il colpevole. È nell’abbandono a cui è stata destinata questa città, la colpa di questa dolorosa coda finale. Una città che oggi, 15 aprile, conta 15.000 contagiati contro gli 11.000 di Brescia e i 10.000 di Bergamo, e lo dico sapendo quanto poco valgano i numeri in questa farsa tragicomica di bollettini inaffidabili. Saremo gli ultimi, qui a Milano, ad uscirne. E ne usciremo più tardi, senza aver sfruttato il tempo e l’esperienza maturata nelle settimane che hanno preceduto l’onda lunga. Ne usciremo perché siamo stati in casa. Perché i virus, senza essere portati in giro dall’ospite, non vanno da nessuna parte. Ne usciremo perché abbiamo avuto rispetto e abbiamo avuto paura. Ne usciremo in un cimitero di morti e di morti viventi. Di sopravvissuti che sono stati abbandonati, di malati in casa che si sono auto-imposti quarantene e hanno messo un piede fuori senza sapere se erano ancora positivi. Di famiglie intere che si sono infettate perché “a Milano requisiremo hotel e strutture per isolare gli infetti” e invece balle. Ne usciremo per ultimi, sfiniti e affranti, con la sensazione che qualcosa – almeno qualcosa- qui si sarebbe potuto salvare. Si poteva proteggere. Si poteva risparmiare. Ne usciremo con una narrazione nuova, da inventare. O forse, per un po’, finalmente senza narrazioni. E no, non basta comprare pagine di giornale per riscrivere la storia di questa primavera. Dovremo rinunciare agli slogan fighetti, all’utilizzo compulsivo di quel verbo insopportabile, “ripartire”, perché non partiremo, non correremo. Dovremo, come prima cosa, imparare a usare di nuovo le gambe. Dovremo coprirci gli occhi perché il sole ci farà male. Dovremo fare i conti con i nostri debiti e con le nostre paure, andare a trovare i nostri morti, tornare a sorridere, sotto la mascherina, ai vicini che torneranno dalle case al sud e dalle ville in montagna. Lavoreremo in un modo nuovo, stupendoci – forse – di quanto Milano possa offrire a se stessa, prima ancora che agli altri. E quando torneremo a votare, dovremo ricordare tutto, dovremo conservare la memoria primitiva del dolore del fuoco che brucia il dito, la prima volta. Ci racconteranno, tra un po’, che abbiamo vinto. Non abbiamo vinto nulla, qui a Milano. E non dovremo permettere a nessuno di costruire carri del vincitore in dieci giorni, con le immagini in time-laps da pubblicare sui social. Dovremo tornare ad imparare e a correggere, perché forse avevamo smesso. Dovremo tornare al presente e a guardare ciò che è davanti a noi, perché prima di “ripartire” c’è da sistemare. Non dovremo tornare quelli di prima. Dovremo tornare migliori. Perché Milano ha perso. E dovremo prenderci cura di lei. Mi piacerebbe che si ricominciasse, in questa meravigliosa città, con il tono lucido, rigoroso, sobrio di chi tornò, appunto, sapendo che c’era un cimitero troppo affollato, alle sue spalle, per concedersi sbavature gioviali. Mi piacerebbe che si ricominciasse con un: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. Niente di più.

Il cielo di Lombardia, di Michele Serra il 15 aprile 2020 su La Repubblica. Nell’ecatombe lombarda ci sono sicuramente responsabilità politiche. Che precedono di un bel po’ la gestione attuale, molto modesta e però tributaria di vent’anni (almeno) della precedente dittatura aziendalista, che per dirla come va detta ha trasformato il Welfare in un business, affossandolo: perché il Welfare non è un business, un ospedale non è un’azienda, la salute non è una merce, eccetera eccetera. La Lega è solo la protagonista, tardiva, dei titoli di coda, la trama era stata già decisa da altri, ben più motivati, ben più potenti, ben più ricchi.

Vittorio Feltri: "Secondo Michele Serra noi lombardi siamo dei coglioni perché lavoriamo". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 16 aprile 2020. Secondo Michele Serra, giornalista ex comunista (lavorò all' Unità, organo del Pci), noi lombardi siamo tradizionalmente dei coglioni, poiché abbiamo la cattiva abitudine di sgobbare, peggio, di pensare soltanto al lavoro trascurando tutto il resto, soprattutto l' ambiente. Egli citando uno scrittore inglese, Ian McEwan, afferma: «Quanto è brutto il cielo di Lombardia quando è brutto». L' aria come una discarica, l' acqua come una discarica, la terra come una discarica, la vita intera immolata, come un capretto sull' altare del fatturato. «I lombardi - puntualizza Serra - si sono dati i governi che volevano: li hanno votati, hanno sempre ignorato ogni correzione alla religione del profitto. I conti devono farli loro, e tra loro». Scusa, Michele, ma quando mai abbiamo chiesto aiuti ad altri per aggiustare le nostre finanze? Non siamo noi ad aver bisogno di voi, semmai è il contrario. Quanto ai governi, ovvio, li abbiamo designati, mancava solamente che ce li selezionassi tu. Se non erro, in democrazia le regole sono queste. Che bei pensierini ha espresso Michele! Peccato che non appaiano aderenti alla realtà. Tanto per cominciare, faccio presente che questa disprezzata regione, inquinata quale immondezzaio, detiene un record nazionale: in essa si campa più a lungo. Segno che lo smog è un toccasana? Oppure che McEwan e chi lo prende ad esempio sono spesso preda di allucinazioni? Propendo per la seconda ipotesi in quanto suffragata da dati statistici inequivocabili. Ritengo che la longevità dei milanesi, dei bergamaschi e dei bresciani sia dovuta non certo a questioni antropologiche, bensì al fatto che da queste parti la sanità sia più efficiente che altrove. Si vede che i cittadini non perseguono solamente il guadagno, piuttosto si consacrano più di altri italiani al buon funzionamento del Welfare. Innegabile che nella regione sotto accusa si sfacchini parecchio, come del resto in Veneto. Tuttavia il popolo non è monoculturale. Tant' è che Leonardo tra l' Arno e i Navigli preferì questi ultimi, e Manzoni non nacque né visse a Canicattì. Consiglio a Serra di aggiornare le sue opinioni inesatte compiendo un salto alla Bocconi e al Politecnico oppure all' Università di Bergamo, i cui frequentatori non sono magutt bensì studenti provenienti dall' intera penisola. Mi rifiuto di credere che tanti giovani raggiungano la Lombardia per respirare aria sporca; ho il sospetto che immigrino allo scopo di ricevere una istruzione di alto livello la quale consenta loro di campare meglio. Mi sembra un' idiozia attribuire il dilagare del virus ai muratori orobici, agli operai e ai piccoli industriali brianzoli. Mi risulta che la micidiale infezione abbia colpito la Spagna, la Germania, l' Inghilterra, gli Usa e la Cina, cioè mezzo mondo. Improbabile che gli untori siano abitanti dell' area Bovisa. Le malattie sono come le mestruazioni: quando arrivano te le tieni senza incolpare Tizio o Caio. E veniamo al dio Soldo, che fa schifo alla sinistra - per esempio al ministro Boccia - allorché si tratta di porre mano al portafogli per sganciare denaro, però senza il quale non si ordina neanche una pizza. Non solo, questo esecutivo che odia il valsente sta studiando di infliggerci una sorta di patrimoniale. Da ciò si evince che a Palazzo Chigi trionfa l' ipocrisia. I progressisti provano avversione per i quattrini che sono chiamati a versare e amano quelli che possono prelevare a noi: ci vuol poco a derubarci, basta una leggina approvata di notte nello stile dei ladri di Pisa. Ultima annotazione dedicata al collega Serra di Repubblica. Senza le monete che i lombardi regalano a Roma sotto forma di tasse inique l' Italia del sole, del mare e dei mandolini cadrebbe in malora a prescindere da Corona. Sia fatta la volontà di dio, Soldo.

Alzano, Salvini: “Medaglie e non un’inchiesta per chi è in trincea”. Francesco Ferrigno l'08/04/2020 su Notizie.it. Salvini si schiera contro l'inchiesta per epidemia colposa sui fatti di Alzano Lombardo: "Non è il momento delle indagini". Medaglie e non inchieste per chi lotta contro il coronavirus, parola di Matteo Salvini. L’ex Ministro degli Interni ha commentato la notizia dell’avvio di un’inchiesta sull’ospedale di Alzano Lombardo. Il nosocomio, così com’è avvenuto per la struttura di Codogno, è al centro di un’attività coordinata dalla Procura della Repubblica di Bergamo.

Coronavirus, Salvini: “Onore a chi è in trincea”. “Se posso fare un appello – ha detto il leader della Lega Matteo Salvini – non è il momento di mandare inchieste sugli ospedali lombardi, lasciamo che medici e dirigenti lavorino. Anzi onore a chi è in trincea, io più che un’inchiesta dei Nas o un fascicolo della procura avrei mandato medaglie”. L’obiettivo della Procura è quello di approfondire le denunce pervenute riguardanti condotte poco chiare all’ospedale di Alzano Lombardo. Sull’emergenza coronavirus, però, Salvini ha le idee chiare: gli operatori sanitari adesso devono lavorare con tranquillità. “Un pool di pubblici ministeri si occuperà di tutta l’attività di indagine che riguarda l’epidemia di coronavirus nella Bergamasca. – ha detto il procuratore di Bergamo Maria Cristina Rota – Tutte le denunce, esposti con notizie di reato saranno affidati allo stesso team. È una indagine estremamente delicata e abbiamo bisogno di lavorare con la massima serenità e massima riservatezza. L’inchiesta sarà condotta nel massimo rispetto, da un lato delle vittime e dei loro familiari e dall’altro degli operatori sanitari, medici e paramedici, che in questo momento stano dando il massimo di loro stessi e con operatori che hanno perso la vita tra le loro file”.

Carabinieri del Nas al lavoro. I magistrati hanno aperto un fascicolo d’inchiesta per epidemia colposa a carico di ignoti. Bisogna ricordare che il 23 febbraio scorso il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo è stato chiuso e poi riaperto dopo poche ore. All’interno si stava procedendo con la gestione dei primi malati risultati positivi al coronavirus. I carabinieri del Nas hanno già effettuato alcune perquisizioni acquisendo documenti utili alle indagini.

Gli intelligentoni senza macchia. "Disastro infinito", titolava ieri Il Fatto Quotidiano, giornale che - avendo sposato in pieno la causa del premier Conte e del governo Pd-Cinque Stelle - ha trovato nel governo della Lombardia il nemico su cui scaricare tutte le colpe possibili e immaginabili. Alessandro Sallusti, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. «Disastro infinito», titolava ieri Il Fatto Quotidiano, giornale che - avendo sposato in pieno la causa del premier Conte (vista la fine dei precedenti benedetti, auguri presidente...) e del governo Pd-Cinque Stelle (auguri anche a voi...) - ha trovato nel governo della Lombardia il nemico su cui scaricare tutte le colpe possibili e immaginabili. In quel titolo, ammetto, c'è del vero: da queste parti abbiamo vissuto e in parte ancora viviamo un disastro sanitario. Disastro che avrebbe potuto essere più contenuto se da subito avessimo ascoltato l'accorato allarme del governo lombardo invece di seguire le stupide - oggi potremmo dire a ragion veduta criminali - sirene dei saccentoni sponsorizzati dal medesimo quotidiano. Eccone un rapido e incompleto elenco. La prima firma scientifica del Fatto Quotidiano - ogni giorno delizia i suoi lettori con le sue intuizioni - si chiama Maria Rita Gismondo, direttrice della clinica virologica dell'ospedale Sacco di Milano. La dottoressa, non più tardi di quattro settimane fa, in piena emergenza sanitaria, ebbe a dire: «Succede che noi stiamo facendo uno screening a tappeto. È logico perciò che andiamo a intercettare numerose positività, ma la maggior parte di queste persone ha banali sintomi influenzali. Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale». Avete letto bene: per la musa del Fatto la Regione Lombardia aveva scambiato una banale influenza per una pandemia. Non contenta, ai suoi colleghi che la diffidavano dal sostenere tesi assurde rispondeva piccata: «Chi mi attacca è pietoso, non torno indietro sulle mie dichiarazioni». Si sa che se scrivi sul Fatto hai uno scudo penale tombale, ma se parliamo di sanità forse prima di chiedere la testa dell'assessore Gallera - che quanto meno aveva ben capito il rischio che si stava correndo - i colleghi del Fatto dovrebbero chiedersi come sia possibile continuare a fare scrivere una così incompetente (questi sono affari loro), ma soprattutto come sia possibile lasciarla ai vertici di un ospedale pubblico (questo è un affare nostro). Andiamo avanti. Ieri il Pd regionale, spalleggiato dai Cinque Stelle, ha chiesto di commissariare la sanità lombarda e istituire una commissione di inchiesta. Buona idea. Il primo a essere ascoltato dovrebbe essere il segretario Pd Nicola Zingaretti, che a fine febbraio salì a Milano per ridicolizzare la linea dura della Regione e disse pubblicamente: «Non perdiamo le nostre abitudini, non possiamo fermare Milano e l'Italia. La nostra economia è più forte della paura: usciamo a bere un aperitivo, un caffè o per mangiare una pizza». La prima domanda che i commissari dovrebbero porgli mi sembra semplice: scusi Zingaretti, com'è possibile che un partito di governo abbia un segretario così stupido da non avere visto arrivare una pandemia? E per chiudere, la stranota perla che riguarda lo statista nei cuori sia del Fatto sia del Pd. La riscriviamo perché andrebbe imparata a memoria. È il 31 gennaio, studio di Lilli Gruber, parla Conte: «Siamo prontissimi, continuiamo costantemente ad aggiornarci con il ministro Speranza. L'Italia in questo momento è il Paese che ha adottato misure cautelative all'avanguardia rispetto agli altri, ancora più incisive. Abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». E questi sono gli intelligentoni che vorrebbero decapitare la Regione Lombardia e prenderne il controllo? Dio salvi i lombardi dal virus, quello della sinistra. La cui protervia è ben più dura a morire del Corona.

Sciacalli sulla Lombardia. I sette sindaci del Pd che governano i capoluoghi lombardi hanno rotto la tregua politica e in una lettera accusano la Regione di una serie di presunte mancanze nella gestione dell'emergenza Coronavirus. Alessandro Sallusti, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. I sette sindaci del Pd che governano i capoluoghi lombardi (Milano, Bergamo, Brescia, Lecco, Cremona, Varese e Mantova) hanno rotto la tregua politica e in una lettera accusano la Regione - a guida centrodestra - di una serie di presunte mancanze nella gestione dell'emergenza Coronavirus. Lasciamo stare che molti di questi primi cittadini erano stati, a gennaio (e ancora a febbraio), in prima linea a minimizzare i rischi del virus e ad accusare la Regione - che già allora chiedeva misure restrittive - di allarmismo e razzismo nei confronti della comunità cinese. Non è questo il problema, anche se ciò è stato indubbiamente un problema. E non chiediamoci neppure come mai tanti dubbi non siano altrettanto platealmente rivolti all'operato sgangherato e imbarazzante del governo centrale (cuore e motore dell'emergenza), che se non sbaglio è nelle mani del loro partito. No, il problema di questa rivolta dei sindaci Pd - nobilitata e amplificata dai grandi giornali della sinistra (dal Corriere a Repubblica) è evidentemente tesa solo a screditare il lavoro della Regione per coprire gli errori e le incapacità loro e dei loro amici di partito. Oggi il problema non è essere di destra o di sinistra, ma essere o no all'altezza della situazione. Nel caso di cui parliamo, è essere lombardi (intendo all'altezza delle tradizioni amministrative e imprenditoriali di questo territorio) oppure piangina che affidano il loro destino allo Stato salvatore, cosa che andrebbe anche bene se questo Stato fosse in grado di salvarci. A scanso di equivoci: non penso che la Regione Lombardia (lo stesso vale per Veneto e Piemonte) non abbia commesso errori, né che Attilio Fontana e Giulio Gallera siano angeli discesi dal cielo. Ma credo che in confronto al confuso spettacolo che offre il governo centrale siano comunque due giganti che andrebbero aiutati e rispettati da tutti. Cari sindaci, io che non sono mai stato secessionista o iper-autonomista, ve lo dico: se gli sciacalli di Roma mettono le mani sulla Lombardia, sulla sua eccellente sanità pubblica e privata, voi salverete forse le vostre, oggi traballanti, poltrone, non i lombardi. La vostra rielezione oggi non passa dal Pd, ma dall'essere oggi lombardi, cioè gente che fa e non protesta, che detta la linea e non la segue, che non aspetta elemosina ma si rimbocca le maniche. E che all'occorrenza urla forte un «vaffa», se è il caso anche ai propri compagni di partito che si augurano di salvare la ghirba e fare fortuna sulle nostre macerie. 

Datevi uno scudo dal virus dei giudici. La coesione nazionale è già bella che finita. Come il virus ha allentato la sua morsa sugli uomini riparte la bagarre, e i magistrati non vogliono perdere la ghiotta occasione di tornare protagonisti dopo essere stati a cuccia per un paio di mesi. Alessandro Sallusti, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. La coesione nazionale è già bella che finita. Come il virus ha allentato la sua morsa sugli uomini riparte la bagarre, e i magistrati non vogliono perdere la ghiotta occasione di tornare protagonisti dopo essere stati a cuccia per un paio di mesi. Già partono le prime inchieste, già qualcuno sogna teste rotolare sotto la scure dei pm che si reinventano esperti in medicina con specialità in virologia, sostenuti da giornalisti patetici e ormai anziani reduci della stagione di Mani Pulite, la solita compagnia di giro che vede in prima linea La Repubblica guidata da due comunisti mai pentiti, il direttore Carlo Verdelli e il tuttologo Gad Lerner, il primo a caccia di copie, il secondo di un ritorno di notorietà dopo una serie infinita di flop. Noto che la classe politica tutta è impaurita all'idea di un ritorno della stagione delle manette e così - pensando di non irritare i magistrati già all'uscio con la bava alla bocca - tentenna a tutelarsi, rischiando di fare la stessa fine che fece nel 1992 quando rinunciò all'immunità parlamentare e fu l'inizio della sua fine. Solo che allora parlavamo di presunti corrotti, oggi la questione è ben diversa. Oggi c'è stata - ed è in corso - una guerra non dichiarata che ha preso tutti alla sprovvista. Noi non abbiamo risparmiato critiche, segnalato ritardi ed errori e così continueremo a fare. Ma parliamo di una guerra, non di una rapina, che stiamo certo combattendo anche con generali non all'altezza, colonnelli titubanti e pure qualche imboscato, ma questo era quello che democraticamente passava il convento. Pensare di consegnare tutti - dal premier all'ultimo consigliere comunale o amministratore di un ospizio - al plotone di esecuzione della giustizia può accontentare la frustrazione senile di qualche giornalista, ma non riporterà nessuno in vita né renderà onore allo sforzo enorme che il Paese ha fatto in buona fede. Per cui, cari politici, il consiglio non richiesto è di varare fino a che siete in tempo per voi e per chiunque sia stato al fronte, soprattutto per i medici e gli infermieri, uno scudo penale e civile a prova di Davigo. Non sarà per salvare le vostre persone ma il Paese dalla furia giustizialista che aggiungerebbe solo nuovi danni a quelli provocati dal virus. Chiedete scusa degli errori certamente commessi, non per dolo, e fatevi giudicare dagli elettori invece che da improvvisati esperti di epidemie non in camice bianco ma in toga nera (la stessa categoria che spalleggiata dall'Espresso - guarda caso settimanale di Repubblica - nel 2014 mise sotto processo Ilaria Capua, la virologa che tutto il mondo ci invidia, salvo poi scoprire che si trattava di un'enorme bufala giornalistica e giudiziaria).

Il virus sanitario si sta trasformando in giudiziario, con inchieste e speculazioni politiche. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 10 Aprile 2020. Il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana e il sindaco di Milano Beppe Sala farebbero bene, uno di questi giorni, ma al più presto, ad andare al Palazzo di giustizia a trovare il Procuratore della repubblica e fare con lui due chiacchiere. Intanto perché Francesco Greco è molto simpatico. Poi perché è accorto e sensato, tanto da aver suggerito nei giorni scorsi ai suoi sostituti di evitare di contribuire ad affollare le carceri italiane, che sono già tra le più stipate del mondo, con nuovi arresti. Limitate la custodia cautelare, ha scritto ai suoi pm, ai “reati con modalità violente” o di “eccezionale gravità e/o codice rosso”. Un provvedimento di cui dovrebbero essergli grati tutti i cittadini, perché sarebbe un’ecatombe di proporzioni eccezionali se il coronavirus, che si è già affacciato in qualche istituto ma ancora con numeri contenuti, facesse esplodere il contagio anche nelle carceri. E visto che su un reale svuotamento, come è stato già fatto in diverse parti del mondo, non si può contare fino a che avremo un ministro guardasigilli sordo come Bonafede, è opportuno evitare il più possibile gli ingressi di chi, da fuori, potrebbe portare inconsapevolmente il virus all’interno. Ma, finiti i convenevoli e i complimenti per la sensibilità mostrata dal Procuratore nei confronti dei reclusi, c’è un altro motivo per cui il presidente della Regione e il sindaco di Milano farebbero bene a sentire l’aria che tira in tribunale. Come ampiamente previsto, e come noi stessi avevamo denunciato già da parecchi giorni, il virus da sanitario si sta già trasformando in giudiziario. Al tribunale di Bergamo fioccano le denunce ed è stata aperta un’inchiesta che va a coprire addirittura i fatti che riguardano tutta l’epidemia fin dal primo contagiato di cui si sia avuta notizia. C’è stato un dettagliato esposto di un giornalista e ci sono denunce. Si prospettano indagini per omissioni, ma si comincia a parlare anche di diffusione colposa del contagio. Sotto la lente d’ingrandimento l’incapacità (o l’impossibilità), nelle situazioni territoriali, di diagnosticare con sicurezza la differenza tra polmoniti e contagi da coronavirus. E qui entrano nell’occhio del tifone anche i medici. E si teme una catena di S. Antonio, che parte dai parenti delle persone decedute per arrivare ai sanitari e infine alle Asl, alle strutture ospedaliere e su su fino ai vertici regionali. Ma le denunce ci sono anche a Milano, già una decina, e sono nelle mani del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che fino a ora non pare aver assunto alcuna iniziativa. Ma siamo all’impazzimento generale, che trasforma il dolore in rabbia e una parte dell’informazione che soffia sul fuoco e si butta su uno scandalismo che non vedevamo a Milano dai tempi di Mani Pulite. Non è un caso che sia La Repubblica (tallonata dallo scodinzolante Fatto Quotidiano) a buttarsi come un lupo affamato proprio sul Pio Albergo Trivulzio, il più grande Istituto geriatrico assistenziale italiano, ingaggiando una gara di numeri di morti e di bare, tanto da guadagnarsi una diffida tanto dalla Presidenza quanto dalla Direzione generale dell’Ente. Non è secondario il fatto che la diffida porti le due firme, quella del presidente dottor Ferrara e quella del Dg dottor Calicchia. Perché uno è stato nominato da Giuliano Pisapia e l’altro da un accordo Regione-Comune di Milano. E perché la maggioranza del Consiglio di indirizzo dell’Ente (quattro a tre) è nominata dal Comune di Milano, cioè dalla sinistra. Se problemi politici dovessero esserci in futuro quindi, si deve sapere che riguardano una gestione congiunta tra la giunta comunale di centrosinistra e quella regionale di centrodestra. Nelle Case di riposo lombarde ( e anche di altre Regioni) sono morte moltissime persone, nello scorso mese di marzo. Il che in tempi normali non sarebbe neanche una notizia, dal momento che nelle Rsa ormai sono ospitati solo malati gravi di alzheimer e demenza senile o persone molto anziane. Ci sono più novantenni che settantenni. Sono numeri che possono fare impressione, se si sente dire per esempio che al Pat o al Golgi Redaelli, che sono le due grandi strutture assistenziali milanesi, nel marzo dell’anno scorso è mancata una settantina di persone. Ma è la triste normalità. Ma nel marzo di quest’anno ne sono morti di più, al Trivulzio come in tutte le settecento case di riposo lombarde: bronchiti e polmoniti, o coronavirus? Non si conoscono con precisione le diagnosi, pur in presenza nei due istituti di personale medico e paramedico specializzato e molto preparato. E non si conoscono neppure bene i numeri. Anche perché, in seguito a una delibera regionale dell’8 marzo alcune Rsa ( in genere le più piccole, private) hanno accolto pazienti in via di guarigione dimessi dall’ospedale o persone in quarantena. Pazienti che difficilmente possono aver contagiato gli anziani, visto che erano stati alloggiati in settori separati, ma di cui non si conoscono bene l’entità e i numeri. Ora ci sono ispezioni del Ministero e indagini amministrative della Regione. Nella Commissione di indagine sul Pat il sindaco Sala, che non è ancora riuscito a farsi perdonare, pur essendosi in seguito scusato, gli aperitivi sui Navigli e la campagna “Milano non si ferma” mentre già era grave il contagio, chissà perché ha inserito l’ex magistrato Gherardo Colombo. E’ evidente che sarebbe stato preferibile metterci un bravo medico, anche per non creare imbarazzi con la Procura della repubblica. Ma l’ex Pm di mani Pulite è oggi una persona diversa dal 1992 e saprà partecipare all’inchiesta con equilibrio. Ma la sua presenza vale sempre qualche curiosità e qualche titolo di giornale in più. Con rammarico del Fatto Quotidiano: “nuovi delitti, ancora da provare, per antichi castighi, che a Gherardo Colombo oggi non piacciono più”, scrive Gianni Barbacetto. Per tutto questo il sindaco di Milano e il governatore della Lombardia farebbero bene ad andare a trovare il procuratore Francesco Greco. Perché un conto sono le indagini amministrative, che separeranno il grano dal loglio, al Trivulzio come nelle altre Rsa, e diranno se ci sono state confusioni nelle diagnosi, se i parenti dei degenti, che giustamente erano stati tenuti lontani per timore dei contagi, non siano stati tenuti informati. E anche se qualcuno non abbia avuto le cure necessarie e se il personale non sia stato tutelato. Ma quando i dubbi o gli errori o le responsabilità arrivano in tribunale, allora prendono subito una coloritura diversa. E vanno trattati con cura. E con delicatezza. Un giornale da tempo più scandalistico che rigoroso come La Repubblica può anche titolare senza vergogna “Poveri morti nascosti”, come se qualcuno avesse avviato un traffico di salme, o anche “Mani pulite sul Trivulzio”, istigando ad aprire un’inchiesta giudiziaria di carattere politico. Un giornale lo può fare, per quanto sia discutibile. Ma un magistrato deve parlare un linguaggio diverso. E siamo sicuri che il procuratore Francesco Greco non seguirà la scia dello scandalismo. Ma intanto, così per sentire l’aria che tira, Sala e Fontana, andate al quarto piano del Palazzo di giustizia a trovare il procuratore capo.

Repubblica e la nostalgia per i Pm di Mani Pulite, saggi e ben orientati…Frank Cimini de Il Riformista il 9 Aprile 2020. “Mani pulite sul Trivulzio” recita il titolo cubitale di Repubblica in prima pagina. E a evocare quella stagione completa il quadro la presenza nella commissione di inchiesta indicato dal Comune di Gherardo Colombo che fece parte del mitico pool. Anche se si tratta di un Gherardo Colombo profondamente diverso dal magistrato di allora tutto preso dalla funzione vicaria della sua categoria avendo maturato ormai da tempo posizioni molto critiche sulla giustizia e soprattutto sull’utilità del carcere. Nella stessa commissione indicato dalla Regione c’è Giovanni Canzio ex presidente della corte di appello di Milano e poi al vertice della Cassazione prima di andare in pensione. 28 anni sembrano trascorsi invano. È intatto il fascino che quella stagione continua a esercitare su Repubblica e poi c’è di mezzo il Pio Albergo Trivulzio dove la finta rivoluzione prese il via con la tangente da 7 milioni di lire incassata da Mario Chiesa improvvidamente definito da Bettino Craxi “solo un mariuolo”. Non solo i tempi sono cambiati ma questa del coronavirus è tutt’altra storia, anche sembra far parte dell’infinita emergenza italiana che a ogni tappa finisce per togliere ai cittadini diritti sociali e civili. Ma Repubblica è orfana di Mani pulite perché quella fu una grande farsa anche per gli editori tutti imprenditori in altri settori “miracolati” in cambio degli appoggi mediatici all’inchiesta: un do tu des nell’ambito di un rapporto di corruzione organica col pool. Tra i miracolati c’era l’editore di Repubblica. I grandi imprenditori salvati a scapito dei politici. I grandi tranne uno, quello entrato in politica con una “discesa in campo” sul quale si scatenò la forza dell’intero apparato investigativo della procura e l’uso dei codici come carta igienica. Per cui quasi trent’anni dopo Repubblica sente la nostalgia anche se adesso risponde a un altro editore: il nipote di un’altra dinastia miracolata con indagini a un certo punto interrotte per quel senso di responsabilità istituzionale invocato nella vicenda Expo, una moratoria in stile Mani pulite perché la magistratura è capace di accrescere il suo potere sia facendo le indagini che non facendole. Un potere incontrollato e incontrollabile. Oggi come allora.

La Lombardia fa schifo. Quindi rinunciate ai suoi soldi? Giovanni Sallusti, 10 aprile 2020 su Nocolaporro.it. Ho un’idea risolutiva per quelli che la Lombardia è la sentina di ogni vizio (compreso quello di lavorare), una cancrena di malaffare da snidare a suon di inchiestone mediatiche e giudiziarie (da sempre due facce della stessa medaglia, nel circo italico), un mostro di inefficienza che manda a morte gli sventurati che cadono sotto la sua giurisdizione. Avete ragione, la Lombardia è la sacca di arretratezza dentro una nazione viceversa prospera, produttiva, all’avanguardia. Dunque, fatene a meno. Non andateci (tantopiù nei suoi ospedali da Terzo Mondo, dove inspiegabilmente l’anno scorso 165mila pazzi sono venuti a farsi curare da altre, più evolute lande d’Italia), non seguite il Salone del Mobile o la Settimana della Moda (ché a trainare lo stivale ci pensa il reddito di cittadinanza), non cercate fortuna a Milano dal paesello, ci penseranno Giuseppi e il fido Casalino a rendere ricco il paesello. Soprattutto, ma so che lo farete, perché voi indignados anti-polenta siete coerenti con voi stessi, non accettate i soldi della Lombardia. Sporchi, edificati su un sistema inefficiente, frutto di subdoli giri tangentari ciellin-leghisti. Voi puri di cuore e di portafogli, voi che avete la fortuna di non vivere in un postaccio che annovera scalcinati presidi sanitari come il San Raffaele o il Policlinico, da oggi rinuncerete senz’altro a quei demoniaci 54 miliardi di euro l’anno. Tale è il residuo fiscale di questa regione sotto-sviluppata, ovvero i quattrini che ogni anno essa regala allo Stato centrale, esempio di virtuosità e di parsimonia, per mantenere altri e più fortunati territori. Pensate, non esiste un esempio analogo nel mondo, non esiste “contributo territoriale” (leggasi rapina) che neanche vagamenente si avvicina a quello che la ridente Italia drena ogni anno dalle arterie produttive della scalcagnata Lombardia (per fare due esempi, la Catalogna ha un residuo di circa 11 miliardi nei confronti di Madrid, la Baviera di 3 verso Berlino). Un fiume di soldi generato dalla storica mafia bresciana e bergamasca, da cui a Roma si sono sempre abbeverati volentieri, per alimentare le proprie clientele, pagare i propri burocrati di Stato (sì, magistrati compresi), distribuire fondi ai giornali sempre e comunque filogovernativi (sì, anche molti di quelli che oggi guidano la crociata contro la corruzione lombarda), pagare le proprie consulenze (sì, anche quelli a certi scienziati che oggi invocano contro la Lombardia la statalizzazione integrale della sanità). Ma oggi, nell’era dell’efficientissimo governo giallorosso, un caso di scuola per tutto il mondo su come (non) gestire la pandemia, degli equilibratissimi Giornale Unico e Talk Show Unico che gli fanno da zelante grancassa, di tutta questa compagnia del buon governo e del buon giornalismo che ha finalmente scoperchiato il problema, la palla al piede dell’Italia, ovvero la Regione Lombardia, assisteremo certamente a un atto minimo di onestà intellettuale, di pulizia pubblica e civile. La rinuncia a quei 54 miliardi sporchi, infetti, banditeschi. Ci credete anche voi, vero?

Gogna mediatica per calcoli politici. C'è chi balla e specula sui morti. Quelli che ci sono già stati e quelli che, purtroppo, verranno. Politici, giornali e opinionisti di sinistra, uniti come fossero un sol uomo, sono partiti a spron battuto contro un nuovo nemico: il Nord. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 08/04/2020 su Il Giornale. C'è chi balla e specula sui morti. Quelli che ci sono già stati e quelli che, purtroppo, verranno. Politici, giornali e opinionisti di sinistra, uniti come fossero un sol uomo, sono partiti a spron battuto contro un nuovo nemico: il Nord. Il Nord che risponde ai nomi di Attilio Fontana, Luca Zaia e Giulio Gallera. Le accuse sono quelle di non aver arginato il contagio nei focolai di Nembro e Alzano e al Pio Albergo Trivulzio, la storica residenza per gli anziani di Milano. Da lì partì, nel 1992, lo scandalo di Tangentopoli e probabilmente il ricordo di quel lontano tintinnìo di manette risveglia lo spirito giacobino di quei giustizialisti a ogni costo, che non perdono occasione, nemmeno durante una pandemia, per far polemica e portare a casa un'elemosina di consensi. E il discrimine è proprio questo: lo tsunami che si è catapultato, senza preavviso, sulle due regioni più produttive del Nord. Uno tsunami, non una leggera pioggerellina primaverile. Una situazione di emergenza che richiede misure emergenziali. La più grande catastrofe dal Dopoguerra ad oggi, che i maestrini dalla penna rossa si ostinano a valutare con gli occhiali della speculazione politica. Passato il peggio chi, e se, ha commesso dei reati pagherà. Ma questo è il momento degli ospedali e dei medici, poi toccherà ai tribunali e ai giudici. Gli ispettori sono stati mandati appena due giorni fa dal ministro della Salute, ma il giornale unico progressista ha già emesso la sua sentenza: è colpa del centrodestra. Perché il gioco è questo: lucrare su una tragedia per averne un vantaggio politico. La Repubblica, con un giro funambolico, riesce addirittura ad arrivare al leader della Lega: «Giuseppe Calicchia è il direttore operativo, voluto dalla Regione, legatissimo a Stefano Bolognini, assessore alle Politiche sociali, legatissimo a Matteo Salvini». Tutto chiaro. Il presunto amico dell'amico diventa immediatamente un colpevole certo. Gad Lerner, sempre sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, rincara la dose: «Come è noto, la responsabilità operativa del Pat è di pertinenza della Regione, che vi ha collocato il filosofo considerato di area leghista; mentre il presidente, Maurizio Carrara, indicato dal Comune di Milano per svolgere funzioni di rappresentanza non operativa, è considerato di area di centrosinistra». Capito? I colpevoli sono ovviamente gli altri, quelli brutti, sporchi e cattivi. Poi Lerner si sfila la toga e si lancia in una excusatio non petita: «Repubblica è un giornale, non un tribunale che emette sentenze». Surreale. Michele Serra ne fa prima una questione estetica: «Magari è un caso, ma non vedo mai in tivù Bonaccini e Rossi, e vedo sempre i governatori Fontana e Zaia. Se la discrezione fosse una virtù, e se mantenere, in una situazione drammatica, un basso profilo fosse una prova di serietà, la sinistra batterebbe la Lega due a zero». Invece, per Serra, è di altissimo profilo trasformare in una discussione da bar sport un dramma nazionale. Il Fatto quotidiano, che in quanto a caccia alle streghe è sempre un passo avanti, ha già smaltito la sbornia di condanne ed è passato direttamente all'insulto: «Gallera spara cazzate» e «Fontana è come Fantozzi». È una caccia all'uomo selettiva, che colpisce solo chi è di centrodestra: non abbiamo visto paginate di accuse contro Giorgio Gori e Giuseppe Sala. Eppure a Bergamo le cose non sono andate bene e a Milano Sala è il primo cittadino, non un passante distratto. Tutto come se non esistesse un governo centrale, come se non ci fosse un presidente del Consiglio che si affaccia a reti unificate ogni tre giorni per dare disposizioni al Paese, come se non ci fosse un ministro competente, quello della Salute, che su ospedali e residenze per anziani ha voce in capitolo. Hanno gli onori, ma scansano gli oneri. E le responsabilità. Sono intoccabili, immuni alla gogna mediatico-giudiziaria. Come cantava Fabrizio De André: «Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti».

Coronavirus, assaltano Fontana per gli anziani morti e nascondono quelli di Bonaccini. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. L'informazione in Italia è ufficialmente entrata nella "Fase due" della lotta al Coronavirus, quella che prevede denunce, veleni e coltellate alla schiena nelle retrovie. La dottrina di Giuseppe Conte, quella del "tutti uniti contro l'emergenza", al primo accenno di flessione dei contagi è stata rapidamente messa da parte per tornare ai consueti gavettoni di fango in faccia. Ministri e parlamentari dell'attuale maggioranza Pd-M5S stanno provando a scaricare tutto il loro fardello di responsabilità su due avversari: il governatore Attilio Fontana e il suo assessore Giulio Gallera, che presto saranno accusati pure di aver inventato la ricetta del pipistrello all'acqua pazza e di averla servita sulle tavole di Wuhan. Al centro del dibattito nelle ultime ore c'è in particolare la gestione delle Rsa e degli ospizi della Lombardia, travolti dal Coronavirus. La tesi dei detrattori: tutta colpa della Regione se gli anziani muoiono come mosche. Specialmente al Trivulzio, dove secondo un'inchiesta di Repubblica la gestione della crisi sarebbe stata disastrosa. E la Procura di Milano s' è mossa aprendo un'indagine su quella e sulle altre case di cura, con capi di imputazione pesanti: "diffusione di epidemie e omicidio colposo". Roba da decine d'anni di galera. Così è scoppiato il caso. Tutto, però, si ferma al confine dell'amministrazione lombarda, come se il Coronavirus esistesse solo lì. I morti e gli errori commessi oltre il confine, come quelli dell'Emilia di Bonaccini (seconda regione più colpita con oltre 2000 vittime), non fanno tanto parlare. MATTANZA Eppure, anche a Bologna si parla di 50 decessi nei centri per anziani tra positività riconosciute e morti con sintomi sospetti, circa 170 ospiti sicuramente contagiati (la metà ricoverati in ospedale), altri 240 a letto con tosse e febbre in attesa di conoscere i risultati del tampone e più di 200 operatori a casa in malattia. Altri casi simili sono stati registrati, in tutta Italia, dal Lazio alla Sardegna. Nelle Marche le Rsa sono stracolme di infetti. L'altro giorno il vicesindaco di Cingoli (Macerata), ha lanciato un appello in tv: «Qui c'è una casa di riposo che è diventata un lazzaretto». Per non parlare delle proteste dei medici. A Piacenza la procura indaga per capire le ragioni per le quali i sanitari non sono stati dotati delle adeguate protezioni. Forse è stato Fontana a rubare le mascherine a tutti? A far discutere però sono solo la Lombardia e il Trivulzio, azienda che peraltro fa capo anche al Comune di Milano e quindi al sindaco dem Giuseppe Sala. Nessuno sembra ricordarlo, ma Palazzo Marino nomina ben 3 membri su 5 del Consiglio d'amministrazione. Così si scatena la furia di Danilo Toninelli, che ieri ha tuonato contro la «gestione disastrosa delle case di riposo in Lombardia». Con lui il ministro Teresa Bellanova, che è arrivato a invocare «una commissione d'inchiesta» su chi ha seguito la pratica. Curioso da parte del membro di un governo che, con i suoi discorsi alla nazione trasmessi alle due del mattino, ha di fatto innescato un esodo verso il meridione che ha portato l'infezione in città fino ad allora quasi del tutto immuni. Quanti morti sarà costato questo errorino? IL CALCOLO Per quanto riguarda la cosiddetta Baggina, l'articolo da cui parte tutta la querelle, pubblicato da Repubblica, parla di 70 decessi, la gran parte dei quali sarebbero stati archiviati come conseguenza di altre malattie. Ma c'è una svista. In realtà quella è la somma del totale dei trapassi di tutto il mese. Lo scorso anno, nello stesso periodo, erano stati 52 i morti. Lo scostamento è di 19. E 9 di questi sono stati regolarmente denunciati come vittime del nuovo morbo. Di sicuro sarebbe stato giusto fare il tampone anche agli altri, ma va detto che in Italia i casi di questo genere sono migliaia, purtroppo. C'è un'epidemia in corso. Le vittime accertate sono 16mila e quelle non tracciate sono molte altre migliaia. Nel caos generato dall'arrivo del Coronavirus è evidente che saranno stati fatti anche molti errori. Tra questi senza dubbio c'è anche la mancata creazione di una "zona rossa" nella provincia di Bergamo. Ieri sera Conte è tornato sull'argomento. La sua idea: «La Regione avrebbe potuto istituirla in autonomia». E invece ha scelto di agire in cordata con il governo e di chiedere - inutilmente - a Palazzo Chigi di intervenire. In effetti un errore fatale: Fontana impari dalla lezione e non cerchi più l'aiuto del premier, è semplicemente inutile.

Pm a caccia dell’untore del Pio Albergo Trivulzio: il vero obiettivo è Attilio Fontana. Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Aprile 2020. Perquisizioni a tappeto al Pio Albergo Trivulzio, a Cesano Boscone e in altri tre centri di assistenza agli anziani della Lombardia. Sono arrivate le auto della Finanza, mandate dai Pm, e hanno sequestrato tutto. Si cercano gli untori. Chiamiamoli così, per semplicità, visto che il reato che viene loro contestato è molto simile a quello per il quale, nel Seicento – ce lo racconta Manzoni – furono passati alla ruota della tortura e poi uccisi e poi esposti al ludibrio pubblico diversi chimici, e farmacisti e calzolai che erano stati beccati mentre diffondevano la peste.

Il reato, oggi, si chiama “epidemia colposa”, non si sa bene da quanto tempo esista nel nostro codice penale e perché nessuno abbia mai pensato a cancellarlo. È un reato che potrebbe essere accostato a quello di jattura. E non escluderei che, adoperando la dottrina Caselli-Ingroia, e associando il reato di epidemia all’articolo 110 del codice penale, possa nascere il reato di concorso esterno in epidemia colposa. È molto probabile che succederà. Ormai stiamo diventando un Paese nel quale non esiste problema, piccolo o gigantesco, che non venga affidato, per la soluzione, alla magistratura. La quale non si lascia pregare, fa la faccia seria e interviene immediatamente anche dove non ci capisce niente di niente. Stavolta nemmeno glielo puoi far pesare di non capirci niente, perché nessuno ci capisce niente. Nessuno sa niente di questo virus. E il reato è quello: non ne sai niente, quindi hai diffuso il contagio. Poi dietro c’è come sempre un obiettivo politico. Stavolta l’obiettivo, al momento, è il presidente della Lombardia, Fontana. Vogliono la sua pelle. Poi si muoveranno altri magistrati e troveranno altri obiettivi politici. Anche opposti. Voi vi stupite? Non vi ricordate che per il terremoto dell’Aquila furono mandati sotto processo fior di scienziati colpevoli di non averlo previsto? Dagli, dagli, dagli all’untore. Prèndilo, scànnalo. Oh povero Manzoni, inutile scrittore.

"Troppi casi", "Pensi ai suoi di sindaci": è lite Salvini-Mastella. Il sindaco di Benevento rispedisce al mittente le accuse chiedendo al leader della Lega di occuparsi della Lombardia. Ignazio Riccio, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. “Anche se il sindaco Clemente Mastella e il governatore Vincenzo De Luca si offendono ho il dovere di segnalare i problemi di Benevento e di tutta la Campania tra case di riposo con record di infettati, personale senza protezione, medici e infermieri stremati”. Parte di nuovo all’attacco il leader della Lega Matteo Salvini, che già nei giorni scorsi si era scontrato con il primo cittadino della città sannita. Adesso, l’ex ministro dell’Interno punta l’indice su due ospedali vuoti e chiusi, quelli di Cerreto sannita e San Bartolomeo in Galdo, oltre al nosocomio di Sant’Agata de’ Goti, che “potrebbe funzionare meglio”. Salvini non fa sconti e critica la gestione sanitaria campana in piena emergenza Coronavirus. In precedenza il litigio con il sindaco Mastella era avvenuto sui casi dei centri di cura per gli anziani Villa Margherita di Benevento e Centro Minerva di Ariano Irpino, diventati focolai di Covid-19. Il primo cittadino aveva risposto in maniera stizzita. “È davvero incredibile – aveva detto Mastella – quasi inconcepibile, che Salvini si occupi delle vicende della Casa di Cura Villa Margherita di Benevento e di quelle del Centro Minerva di Ariano Irpino, mentre, invece, trascuri, assieme ai suoi responsabili regionali. E questo mentre avviene un attacco al sistema della Sanità regionale da parte di molti sindaci della Lombardia". Insomma, un duello a distanza che non ha una fine. D’altronde ad attaccare era stato anche il sindaco Mastella quando il leader della Lega era in strada a Roma. Nonostante Salvini si era giustificato asserendo che era fuori per la spesa, il primo cittadino aveva bollato l’atto come “irresponsabile. 

Coronavirus in Lombardia, Pregliasco: "12 giorni di ritardo per le chiusure, ma la responsabilità è del governo". Libero Quotidiano il 3 aprile 2020. Fabrizio Pregliasco ci tiene a dire che se in Lombardia l'emergenza Coronavirus è esplosa non è per colpa della Regione, semmai del governo. "Vorrei spiegare davvero all'opinione pubblica perché la Lombardia è stata travolta da uno tsunami di casi di Covid-19", dice il virologo, ricercatore dell'Università Statale di Milano e direttore sanitario dell' ospedale Galeazzi, in una intervista a Il Corriere della Sera. "Si sta diffondendo un po' l'idea che il Veneto abbia gestito meglio l'epidemia (poco più di 10 mila casi e 500 decessi). Io non voglio sminuire il lavoro prezioso dei colleghi veneti, ma bisogna capire che la situazione non è paragonabile. Così come è sbagliato pensare di adottare in Lombardia le stesse soluzioni". Premette Pregliasco: "Il 25 febbraio, a ridosso del 'Paziente Uno' di Codogno, la Lombardia ha 231 casi; il Veneto 42. Da quel momento in avanti la crescita è esponenziale: il 3 marzo i lombardi positivi sono 1.346, i veneti 297". Da subito si sa che "l'unica arma per bloccare la diffusione è l'isolamento sociale". La zona rossa però non viene mai fatta a Bergamo. "La Lombardia sconta almeno 12 giorni di ritardo nelle chiusure. E non per colpa sua", sottolinea il virologo. Che svela: "A me risulta che dalla Lombardia fosse stato subito chiesto di bloccare tutto, ma Roma ha temporeggiato. Lo dico con rammarico". Di conseguenza i casi sono aumentati. Ora c'è un altro rischio: "Il virus può progredire in modo grave da un momento all' altro: il rischio è che i malati possano arrivare già gravi in ospedale, il posto migliore per curare il Covid-19. Non è una malattia domestica". 

Coronavirus, Matteo Salvini e la lezione a Giuseppe Conte: tasse e mascherine, così governano i sindaci leghisti. Libero Quotidiano il 4 aprile 2020. Il premier Giuseppe Conte e la sua raffazzonata maggioranza giallorossa prendano appunti dai sindaci leghisti in materia di gestione dell’emergenza coronavirus. I primi cittadini appartenenti al Carroccio sono circa 800 in tutta Italia: quasi 200 provengono dalla Lombardia, dove il governatore Attilio Fontana continua a puntare il dito contro le “briciole” spacciate per aiuti da parte del governo. Matteo Salvini rende il giusto omaggio all'ottimo lavoro dei sindaci della Lega maggiormente interessati dal Covid-19. Stop alle imposte, consegne a domicilio, mascherine in omaggio, psicologi per le famiglie, fiabe online per i bimbi: sono queste le principali misure adottate in una cinquantina di comuni che fanno riferimento alla Lega. “Sono orgoglioso dei nostri sindaci, da Nord a Sud. In queste settimane di emergenza - ha dichiarato Salvini - stanno dimostrando con i fatti come si governa nell’interesse dei cittadini. In Lombardia ci sono amministratori che preferiscono polemiche e insinuazioni - mi riferisco a chi passava il tempo tra aperitivi e ristoranti cinesi - e chi sceglie di lavorare”.

Coronavirus, Saviano critica il modello Lombardia su Le Monde. Salvini lo attacca: "Senza vergogna". Il leader della Lega contro lo scrittore: "Lascia che i medici lavorino e poi dici le tue cose". La Repubblica il 14 aprile 2020. "Leggevo che Saviano ha fatto un'intervista per un giornale straniero in cui racconta che la colpa di quello che accade in Lombardia è mia sostanzialmente, ma risparmiati 'ste cazzate". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato a TeleLombardia l'intervento di Roberto Saviano su Le Monde. "Aspetta, lascia che i medici lavorino e che si liberino i posti in terapia intensiva e poi tra un mese dici le tue cose", ha concluso. Un attacco poi proseguito sui social: "Senza vergogna". Così Salvini su Facebook, postando una grafica con la foto dello scrittore. Nell'immagine postata si legge: "Per Saviano le vittime del coronavirus sono colpa di Salvini". Nell'articolo scritto per il quotidiano francese, Roberto Saviano ha analizzato il caso Lombardia: "La regione più forte, di maggior successo e più ricca che si è dimostrata la meno preparata ad affrontare la pandemia, con scelte a cui i suoi leader dovranno rispondere prima o poi. Questa regione è il territorio di Silvio Berlusconi e la roccaforte di Roberto Formigoni, recentemente condannato a cinque anni e dieci mesi di carcere per gravi atti di corruzione riguardanti, precisamente, i legami tra potere regionale e settore sanitario privato". Poi la denuncia delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema lombardo: "Dieci anni fa, durante un programma televisivo, ho esposto ciò che era già ovvio per qualsiasi investigatore, vale a dire che la camorra napoletana e la 'ndrangheta calabrese si erano infiltrate nell'economia legale nel Nord, a seguito della mafia siciliana che, negli anni '70, fu la prima a investire in questi territori".  Ancora: "Il mio intervento aveva causato una tale controversia che il programma fu allora costretto ad accogliere il ministro degli interni, Roberto Maroni (predecessore di Matteo Salvini a capo della Lega Nord), così che lui potesse rispondere alle mie accuse. Le condanne giudiziarie caddero poco dopo, e oggi è un dato di fatto: in molte aree del nord Italia, le mafie adottano la loro legge".

Coronavirus, Saviano risponde a Salvini: “Soubrette televisiva”. Jacopo Bongini il 15/04/2020 su Notizie.it. Matteo Salvini attacca frontalmente Roberto Saviano, reo di aver criticato il sistema sanitario lombardo in merito all'emergenza coronavirus. È scontro aperto tra Matteo Salvini e Roberto Saviano, con lo scrittore napoletano finito nel mirino del leader leghista per un’intervista al quotidiano francese Le Monde in cui criticava il sistema sanitario lombardo alla luce dell’emergenza coronavirus. L’ex ministro dell’Interno non ci è andato giù leggero con l’autore di Gomorra, facendo però credere che Saviano abbia addossato le responsabilità dell’attuale emergenza sanitaria su Salvini stesso, cosa che in realtà è ben diversa. Lo scrittore si è difeso in un lungo post pubblicato su Instagram in cui accusa l’ex ministro dell’Interno di essersi ridotto a una “soubrette televisiva” e lo apostrofa con l’ormai consueto epiteto di “Capitan Codardo”. “A dire il vero, l’articolo che ho scritto per Le Monde – non è un’intervista, quindi, come sempre, parli senza aver letto – è una analisi comparata delle reazioni al diffondersi della pandemia nelle regioni più colpite del Nord” esordisce Saviano nella sua replica social a Matteo Salvini. Nell’articolo, continua lo scrittore, ha voluto fare un “immediato e impietoso è quello tra Fontana e Zaia. Da un lato il fallimento totale, dall’altro, fino a ora, una serie di scelte azzeccate, che hanno salvato migliaia di vite”. La difesa della Lombardia da parte del leader della Lega è dettata non da un giudizio obiettivo dell’operato dei due governatori, bensì dal fatto che “Zaia, pur essendo un compagno di partito, è oramai il tuo più acerrimo concorrente: uno che fa fatti da un lato e uno che si è ridotto a fare la soubrette televisiva, dall’altro. Detto ciò, se arrivi a intestarti anche le critiche che non ti riguardano personalmente, al paese mio significa che stai alle cozze“. Il post si conclude con una previsione di ciò che accadrà alla fine dell’epidemia, “non appena in Lombardia inizierà la resa dei conti, quando i vertici regionali dovranno rispondere delle migliaia di contagi (e di morti) che si potevano e si dovevano evitare”. A quel punto “il primo a buttare a mare Fontana, Gallera e tutti i leghisti coinvolti sarai tu, Capitan Codardo”.

Pietro Senaldi sul coronavirus: "Al via il Far West degli avvisi di garanzia, ma solo gli italiani possono giudicare".  Pietro Senaldi su  Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Il segnale più significativo che la condizione epidemiologica del Paese sta migliorando non è nei dati che da dieci giorni registrano meno morti e meno ricoveri in terapia intensiva, bensì nel fatto che iniziano a fioccare indagini nei confronti di chiunque abbia avuto a che fare con il virus. Stiamo tornando alla normalità, perché è evidente che le Procure riprenderanno a lavorare a pieno ritmo prima dell' industria e molto prima delle scuole. In Emilia-Romagna è stata aperta un' inchiesta sulle mancate forniture agli ospedali da parte delle istituzioni. In Liguria si sono specializzati negli esposti contro i medici. In Toscana si sta procedendo contro una residenza per anziani perché il virus ha fatto troppi morti, mentre si prevedono incriminazioni per epidemia colposa a Bergamo ma perfino a Sassari. E poi ci sarà la madre di tutte le inchieste, quella sul Pio Albergo Trivulzio, il cronicario milanese dove a marzo sono morti 45 ospiti in meno dell' anno precedente nello stesso mese ma che la stampa di sinistra ha già messo al centro del tritacarne mediatico-giudiziario. Il motivo? Benché il presidente e 3 membri del consiglio d' amministrazione su 5 siano di nomina piddina, vicini ai sindaci Sala e Gori, il direttore generale è un leghista doc. Insomma, si salvi chi può, perché sul virus stanno piombando i pm, e ciò che il Corona non è riuscito a uccidere, lo finiranno loro, con particolare riferimento a tessuto produttivo e classe politica locale del Paese. Ma anche i medici, oggi celebrati come eroi, ne faranno le spese.

CHI SBAGLIA PAGA, MA...La premessa è d' obbligo. È evidente che i reati vanno puniti. Se qualcuno dolosamente ha speculato sull' epidemia, se si sospetta che un medico si sia fatto pagare per attaccare al respiratore o ricoverare una persona piuttosto che un' altra, o che un politico, approfittando delle procedure d' emergenza, abbia preso una stecca per privilegiare un' azienda nelle commesse, va processato. Come quel disgraziato di imprenditore sedicente sull' orlo della rovina arrestato ieri per aver cercato di vendere allo Stato 24 milioni di mascherine inesistenti. Tuttavia bisogna stare attenti a non farsi prendere la mano, come capitato all' avvocato Taormina, che ha annunciato di voler denunciare Conte per strage per i ripetuti errori del governo. Al premier non ne abbiamo fatta passare una, però dal processarlo politicamente all' incriminarlo penalmente, ne passa. Senza dubbio le mancanze del premier e del suo governo, come anche quelle dei presidenti di Regione e dei sindaci, di qualsiasi partito, o dei direttori sanitari e dei medici hanno causato danni. Alcune decisioni, o indecisioni, possono avere anche avuto conseguenze mortali, ma sono state prese in un contesto di emergenza, totale incertezza e mancata conoscenza del virus, in merito al quale fior di professori, virologi e farmacologi hanno detto tutto e il suo esatto contrario. La buona fede e l' intenzione della classe politica, amministrativa e medica di sconfiggere il virus con il minor danno possibile è presunta e per mettere alla sbarra qualcuno in una situazione così drammatica bisogna avere prove certe. L' incapacità, e perfino l' idiozia, non sono un reato. Esiste un' immunità di funzione legata a chi si trova ad agire in condizioni particolari. Nella battaglia contro il Covid-19 il più bravo è quello che ha sbagliato meno. E siccome tutti hanno fatto degli errori, spesso gravi, se parte il far west degli avvisi di garanzia, il gioco diventa inevitabilmente sporco. Potendo incriminare tutti, ciascuno manderà a processo chi gli sta sul gozzo e chiuderà un occhio nei confronti degli amici. Un pm di destra potrebbe incriminare gli aperitivi di Sala, Zingaretti e Gori per tentata strage, mentre uno di sinistra potrebbe processare Fontana e Gallera per non aver fatto la zona rossa, ma non Conte a cui pure è stata chiesta e l' ha rifiutata. Il capo della Protezione Civile potrebbe essere accusato per aver mandato mascherine sbagliate in tutta Italia, mentre il ministero della Salute potrebbe essere incriminato per aver detto che non servivano; ma questa era pure l' opinione iniziale dell' Organizzazione Mondiale della Sanità, e allora perché non accusare Ricciardi, l' italiano che ne fa parte? Potremmo continuare per tutto il giornale a elencare presunti colpevoli che si sono trovati ad affrontare un problema più grande di loro.

VECCHIA STORIA. È un film già visto. Mai il vero comportamento criminale sarebbe usare la pandemia per eliminare per via giudiziale una classe dirigente approfittando della rabbia popolare per far cadere qualche testa. Salvo poi arrivare a concludere anni dopo, a carriere e vite distrutte, che non ci sono prove per condannare. Esito piuttosto prevedibile, vista la complessità della situazione. Per rispetto della democrazia, quando tutto sarà finito, dovranno essere per una volta gli italiani, e non i magistrati, a stabilire chi ha sbagliato e chi ha fatto bene. Anche perché, se salta il tappo del giustizialismo, nessuno si salva più. Avremo le file di parenti delle vittime davanti ai tribunali a denunciare medici che non hanno fatto ricoverare madri, padri e consorti. Ieri ho ricevuto una dozzina di messaggini da una donna che conosco da 35 anni e che non mi aveva mai degnato di un saluto. Voleva denunciare un ospedale reo di aver dimesso una persona positiva ordinandole di andare a casa, dove attualmente si cura l' 80% dei malati di Covid-19. Lutti e quarantena hanno messo a dura prova i nervi di tutti. Ci manca solo che facciamo regolare i nostri conti dai magistrati.

E alle cinque della sera arrivò Giulio Gallera. Gianfranco Turano il 10/4/2020 su L'Espresso. Premesso che può finire solo con l’autoassoluzione plenaria della classe dirigente secondo il principio “tutti colpevoli tutti innocenti”, il balzo più ardito è costruire sul Covid-19 un successo politico. In Lombardia sfida il destino avverso Giulio Gallera, avvocato e assessore al Welfare, classe 1969, forzista capace di prendersi il piatto più ricco della giunta (19,2 miliardi di fondo sanitario 2020, prima del virus) e di conservarlo a dispetto del crollo di Silvio Berlusconi, contro gli appetiti leghisti e contro l’ancora potente lobby di Cl nostalgica di Roberto Formigoni. Sindaco di Milano nel 2021 o prossimo leader di Forza Italia, nessun sogno è vietato. Ma il sogno può trasformarsi in incubo, visto che lo scudo penale per i politici non accenna ad andare in porto. L’assessore rimane ottimista, lo è per natura. Solo un ottimista poteva iniziare la carriera politica nel Partito liberale a fine anni Ottanta, quando il partito di Valerio Zanone ed Egidio Sterpa a Milano valeva il 2 per cento e la discesa in campo del Cavaliere era di là da venire. Così Gallera ci prova ogni sera. Lo fa nella sua conferenza stampa pomeridiana in diretta Facebook e ripresa da diverse tv, tra cui Sky. Il gentiluomo del papa, l'ex segretario Udc, l'imprenditore amico: uniti dalla società che gestisce l'Auditorium del Vaticano. Il capo Borrelli si è affidato all'intermediazione di piccole aziende a responsabilità limitata. E ora dice: ditte segnalate da Confindustria. Il format da 300 mila visualizzazioni si è evoluto in un mese e mezzo. Ultimamente l’assessore si fa precedere da un filmato in stile cinegiornale Luce dove giovani volontari in mascherina esaltano i successi strepitosi del governatore Attilio Fontana e della sua giunta. Finita l’introduzione, la star si toglie la mascherina - unico a farlo - e inizia un resoconto dove la tragedia si alterna all’eroismo, il dramma all’abnegazione, la speranza alla denuncia dei critici, degli speculatori, in breve dei cronisti che ficcano il naso nella strage degli anziani nelle Rsa a Mediglia, al Pio Albergo Trivulzio, dove martedì 7 aprile la Regione ha dovuto aprire un’inchiesta per le decine di decessi anomali in pochi giorni di aprile affidando la ricognizione all’Ats di Milano. Quanto ai morti del mese di marzo, Gallera ha sminuito il problema e ha ricordato che in fondo al Trivulzio c’è l’ala “hospice”, dove nonostante l’addolcimento dell’inglese si va per morire. Ancora a Milano ci sono i 27 morti di virus al Don Gnocchi e poi c’è l’ospedale di Alzano Lombardo, chiuso domenica 23 febbraio con due morti al Covid-19 e riaperto lunedì 24 con una sanificazione insufficiente. E per le 15 Rsa lombarde sulle 708 totali che hanno accolto pazienti Covid la Regione ha varato una seconda commissione. Il termometro delle critiche, insomma, è in netto rialzo. Strano sia successo così tardi, dopo 10 mila morti e un indice di letalità che viaggia verso il 20 per cento, record mondiale. Gli speculatori speculano sempre di più. Come ha detto Gallera, «osano attaccare» l’ordinanza dell’8 marzo che ammetteva il ricovero dei positivi al Corona virus negli ospizi, quando i Dpi non li aveva quasi nessuno ed erano comunque a carico dei gestori privati delle cliniche. Anche i 3,3 milioni di mascherine gratuite promessi ai lombardi per lunedì 6 aprile sono arrivati con giorni di ritardo, lasciando la gente in fila davanti alle farmacie. I medici di base sono stati obbligati alle visite a domicilio senza Dpi come ha fatto l’Ats Montagna il 26 febbraio: «Resta il fatto che responsabilmente, soprattutto in questo momento critico, il medico non si possa sottrarre a un suo preciso obbligo assistenziale». La sintesi del glorioso sistema lombardo è: mi ammalo, mi dicono stai a casa con la tachipirina e lo Zitromax, i dottori non possono visitarmi perché non hanno i dispositivi e quando arrivano a ricoverarmi è troppo tardi. Ha contribuito anche la decretistica di Stato, così trasmessa dal dg al Welfare Luigi Cajazzo l’11 marzo: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19 senza che siano stati usati gli adeguati Dpi per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, NON è indicata l’effettuazione del tampone ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Lo scaricabarile a puntate fra regione e governo sulle mancate zone rosse in Val Seriana, ad Alzano e a Nembro è stato il primo dramma di Gallera. Lo ha raccontato lui stesso in diretta all’inizio del lockdown, quando ha ricordato le pressioni feroci degli amici imprenditori che lo minacciavano, lo pregavano, lo volevano persuadere a non chiudere. La battaglia è stata tanto più dura in quanto l’assessore viene da quel mondo. Il padre Eugenio, 79 anni, è cavaliere del lavoro e proprietario della Ferriera di Caronno Pertusella, un comune del varesotto appena oltre il confine di Milano cresciuto al servizio del boom economico. A pochi passi dalla fabbrica dei Gallera c’è lo storico stabilimento Riva acciaio. Poi la ferriera è stata dismessa come il suo principale cliente, l’Alfa Romeo di Arese. L’area è abbandonata e, in attesa di essere ceduta, serve da rifugio ai senza tetto. È una famiglia tradizionale quella del cavaliere Gallera, con un gusto per la partecipazione e l’associazionismo che ha portato l’imprenditore a governare il distretto 108 ib 4 (Grande Milano) dei Lions. L’attività del figlio in Comune rispecchia le tradizioni liberali del padre. Dopo due esperienze al consiglio della zona 19 (San Siro) e l’adesione a Forza Italia, il primo salto di carriera avviene nel 1997, quando il giovane conquista un seggio come ottavo degli eletti con la giunta di Gabriele Albertini. Un anno dopo diventa avvocato dopo la pratica nello studio di Marco Rocchini, sindaco forzista di Arcore. A palazzo Marino Gallera incontra un altro giovane di prospettiva, suo minore di quattro anni ma già con una consiliatura in più alle spalle. È grossolano, provocatore, si veste con orrendi maglioni verdi e non pratica la corsa. L’opposto delle buone maniere borghesi, dei completi sartoriali del giovane avvocato e del suo amore per il running. Il ragazzo in verde è Matteo Salvini e fra i due è antipatia a prima vista. Piazzato con la destra liberal guidata dall’ex Servire il popolo Aldo Brandirali, Gallera non vuole la recinzione in piazza Vetra in nome della sicurezza, ritiene ingiusto proibire il burqa in città e vietare il concerto di Marilyn Manson. Accusa il futuro leader leghista di individualismo e quando nel 2009 Salvini suggerisce l’apartheid per le etnie inferiori in metropolitana, Gallera lo azzera: «È una proposta razzista che non merita commento». Incidenti di percorso, pochi. Un presunto appoggio elettorale dalla ‘ndrangheta emerso nell’inchiesta Crimine-Infinito (2010) che non ha trovato conferma. Un appartamento in Porta Romana dove aveva lo studio legale il fratello Massimo citato nell’Affittopoli del Pio Albergo Trivulzio (2011). Dopo l’assessorato al decentramento e ai servizi cimiteriali, a ottobre 2012 entra al Pirellone. Gallera sostituisce come primo dei non eletti Domenico Zambetti, dirigente sanitario arrestato per voto di scambio con la mafia calabrese. Alle elezioni del 2013 diventa consigliere regionale a pieno titolo (undicesimo nelle preferenze). Ci vorranno oltre tre anni per raggiungere l’assessorato. Accade il 24 giugno 2016, otto mesi dopo le dimissioni del ras della sanità Mario Mantovani, finito sotto indagine e arrestato nell’ottobre 2015. Con Mantovani fuori gioco, il settore che rappresenta tre quarti del budget regionale rimane ad interim a Roberto Maroni. Ma le pressioni degli alleati forzisti sono insostenibili per un governatore a sua volta indebolito dalle inchieste. «È stata una scelta sofferta», si limita a commentare Maroni con spirito di understatement dopo gli scontri con i fautori di Gallera, che sono in primis Mariastella Gelmini e l’allora consigliere economico di Berlusconi, Giovanni Toti. La successione a Mantovani è una di quelle faide del centrodestra lombardo che passano sotto traccia, soprattutto quando si toccano i tralicci ad alta tensione della sanità. Ne sa qualcosa il leghista bresciano Alessandro Cè, assessore-meteora nel 2005 che si era permesso di «stigmatizzare lo strapotere della sanità privata in Lombardia e le inappropriatezze diffuse di questo sistema». Da capogruppo leghista al Senato a paria, per il medico Cè il passo è stato brevissimo. Gallera garantisce continuità con il potere di Mantovani: berlusconiano ma non ciellino. È il 24 giugno 2016 e, oltre alla sanità, l’esponente forzista riceve anche le deleghe al sociale al sociosanitario. Un superassessorato, quindi. In Lombardia la sanità fa male a chi non ce l’ha e alle regionali del marzo 2018 Gallera è primo assoluto delle liste con 11722 preferenze, a dispetto degli screzi con il candidato di centrosinistra, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che accusa alcuni medici di base di avere fatto propaganda per l’avversario con i pazienti. Il nuovo governatore Attilio Fontana è una vecchia conoscenza per Gallera che è stato il suo vice nell’Anci lombarda (l’associazione dei Comuni). Fontana è grato al sostegno di Gallera, che ha del miracoloso in una fase di declino forzista. Ma Salvini gli pone il tema di limitare il potere dell’assessore al Welfare. L’ingrato compito tocca al gruppo dell’Università statale con Walter Bergamaschi messo all’Ats Milano e l’ex rettore Gianluca Vago, anatomopatologo. La manovra fallisce. Il 7 maggio 2018 Gallera prende come direttore generale Cajazzo, ex dg dell’Istituto nazionale tumori con un passato alla squadra mobile di Lecco. A uscire è il maroniano Giovanni Daverio, ex dg dell’Asl di Varese. Il trionfo sembra assicurato. Gallera si dedica alle inaugurazioni, come quella del reparto cardiologia di Codogno il 20 dicembre, due mesi prima che la bomba Corona esploda proprio nella cittadina del lodigiano. Il 15 febbraio l’assessore posta la foto della sua corsa a Parco delle cave: 23 km in 2h19’04”. La maratona è iniziata lì.

Filippo Facci contro Marco Travaglio, il re dello sbaglio: "A differenza sua, noi non facciamo schifo". Libero Quotidiano l'8 aprile 2020. Bertolaso però no. La sanità lombarda però no, dài. Ma occuparsi di Marco Travaglio è inutile: da una parte perché sbugiardarlo regolarmente necessiterebbe di un impiego a tempo pieno, dall' altra perché la sua specialità sono soprattutto le sapienti omissioni: i suoi sillogismi di norma sono più brevi e superficiali della verità, che spesso ha il difetto di essere articolata: ma è ciò che interessa i suoi lettori medi. Ai suoi lettori interessa incolpare qualcuno: l' adrenalina e il divertimento gli si accende come per i film di Boldi e De Sica: basta una flatulenza. Quando Travaglio monologava da Michele Santoro poteva essere un problema, perché lo guardava un sacco di gente: ora è conchiuso nel suo Fatto Quotidiano che è tracollato nelle edicole: l' anno scorso si è quotato all' Aim (la Borsina dei piccoli) e ha portato a casa miseri risultati; nell' estate 2018 preventivavano di vendere 10 milioni di azioni e ne portarono a casa circa 2, con il prezzo per azione ridotto a 0,72 per azione; l' amministratrice Cinzia Monteverdi ammise: «Il mercato non era quello che ci aspettavamo». Chissà che cosa pensavano che fosse, il loro Fatto Quotidiano: soprattutto considerando che chiuse in rosso il bilancio 2019 per due milioni di euro. Cose che succedono (quasi a tutti: ma a noi, in questo periodo, no) e comunque, al di là di questo, gli «editoriali» di Travaglio nel tempo perdevano peso: da anni non venivano più propriamente letti bensì al limite «sorvegliati» dagli opinion maker, la gente che conta: tipo una riga sì e dieci no, tanto per capire con chi se l' era presa.

SCELTE ERRATE. La sua naturale vocazione al fallimento in compenso si è sempre rivelata interessante essendo lui un marker negativo: chiunque egli sponsorizzi, cioè, sappiamo già che finirà male. Travaglio passò dal Giornale alla Voce: la Voce ha chiuso. Passò al Borghese: il Borghese ha chiuso. Andò in Rai da Luttazzi: gli chiusero il programma. Promosse Raiot della Guzzanti: non è mai andato in onda, e lo stesso vale per i programmi di Oliviero Beha e Massimo Fini. Quando sostenne Caselli all' Antimafia, fecero una legge apposta per non farcelo andare. Ha sostenuto Woodcock: plof. Ha sostenuto la Forleo e De Magistris: la prima cadde in un cono d' ombra, il secondo si dimise dalla magistratura e i suoi processi si rivelarono fuffa. Travaglio sostenne tutti i movimenti poi svaporati e candidati a importanti cariche giudiziarie: sempre trombati. E Di Pietro, il simbolo? Abbiamo visto. Ci eravamo dimenticati della campagna per Ingroia, prima da magistrato e poi da meteora politica con parentesi guatemalteca: dissoluzione. Poi la svolta: Travaglio partecipò al V-day e protestò contro i fondi pubblici elargiti anche al giornale dove scriveva, l' Unità: che infatti chiuse. Pazienza: comunque si era scavato un mestiere (parlar male del prossimo) e la tendenza dei colleghi è stata considerarlo come un ordinario mercante che vendeva prodotti commisurati a un target: che sarà pure composto da idioti, ma era e resta un target. Col tempo e la popolarità, tuttavia, qualche prezzo occorreva pagarlo. Certe incoerenze erano lì, bastava notarle. Lui, antiberlusconiano, si scoprì che aveva pubblicato i suoi primi due libri con la Mondadori del Berlusconi che intanto era già sceso in politica.

IL TU AI POLITICI. La sua ostentata rettitudine si fece grottesca. Citava Montanelli: «Non frequento i politici, non bisogna dare del tu ai politici né andarci a pranzo». A parte che ci andò (una volta ero presente anch' io) non fu chiaro perché coi politici no e coi magistrati sì: come se non fossero entrambi uomini di potere e soprattutto di parte. Anche il suo linguaggio peggiorò. Descrisse i giornalisti che celebravano Giorgio Napolitano, per dire, parlando di «lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati», continuando a sfottere il prossimo per i difetti fisici: Giuliano Ferrara «donna cannone», «donna barbuta», il suo ex amico Mario Giordano «la vocina del padrone», poi Brunetta eccetera. Se uno non aveva difetti evidenti, li inventava: continua a chiamare me «biondo mechato» anche se è biondo tutto il mio albero genealogico.

AI PIEDI DEL QUERELANTE. Le incoerenze si fecero lampanti quando fu evidente che il signorino in definitiva lucrava su un «regime» che lo mandava in onda in prima serata, e che di condanne per diffamazione ne aveva prese eccome, e che proponeva l' abolizione dell' Appello ma poi ricorreva in Appello, e che tuonava contro la prescrizione ma poi non la rifiutava, e che non esitava, lui, l' inflessibile, a prostrarsi ai piedi del querelante Antonio Socci (febbraio 2008) affinché ritirasse una denuncia: «Riconosco di aver ecceduto usando toni e affermazioni ingiuste rispetto alla sua serietà e competenza professionale, e di ciò mi scuso anche pubblicamente». Ma avevamo cominciato con Bertolaso: perché è contro di lui e contro la sanità Lombarda che il Fatto Quotidiano, dopo anni di routine da pagliacci del circo mediatico, si sono riguadagnati la ribalta dell' infamia. Editoriali titolati «Bertoléso», altri dove gli si dà dell' untore o che relegano i resoconti dell' assessore Giulio Gallera a «televendite» per fini elettorali, o profonde analisi della competette Selvaggia Lucarelli in cui si esorta la Lombardia - che fatto comunque miracoli e ha probabilmente la migliore sanità pubblica di questo Pianeta - a «chiedere scusa». Non c' è neanche da parlarne. Però ricordo bene un' altra volta in cui Travaglio ad Annozero parlò di Bertolaso e delle sue «cattive frequentazioni»; ricordo che Nicola Porro del Giornale gli fece notare che delle frequentazioni discutibili potevano essere capitate anche a lui, a Travaglio, il quale diede di matto e diede a Porro e Maurizio Belpietro di «liberale dei miei stivali», poi scrisse che «non sono giornalisti», «se non si abbassano a sufficienza vengono redarguiti o scaricati dal padrone», «non hanno alcun obbligo di verità» e «sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda».

IL PROCESSO A FORMIGONI. Ora però, con tutto il rispetto, l' unica merda giornalistica che ci viene in mente è il giornalismo del Fatto Quotidiano di questi giorni, che, pur di screditare la sanità lombarda, giunge a pubblicare i verbali del processo al benemerito Roberto Formigoni: come se noi, adesso, ricordassimo appunto le «frequentazioni» di Travaglio - che sono quelle a cui accennavano Porro e Belpietro - quando il direttore del Fatto andò in vacanza con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un mafioso, già prestanome di Provenzano; quando telefonò a un siciliano, uno che faceva la spia per un prestanome di Provenzano, e gli chiese uno sconto sulla villeggiatura in Sicilia; quando la sua famiglia e quella di Pippo Ciuro, poi condannato per aver favorito le cosche, si frequentavano in un residence consigliato da questo Ciuro e si scambiavano generi di conforto; quando il procuratore di Palermo Pietro Grasso, sul Corriere, scrisse che Travaglio faceva «disinformazione scientificamente organizzata». E questi sono tutti «fatti», come li definirebbe Travaglio, «fatti» a loro modo ineccepibili, non querelabili. Forse andrebbero spiegati, perché la verità sempre più complessa. Beh, è Travaglio a non farlo mai, a non spiegare mai e a scrivere barzellette sui malati a cui dovrebbe banalmente baciare il culo. Travaglio ha scritto che Bertolaso, «più che trovare posti letto, ne ha occupato uno». Poi è passato oltre, per il risolino demente di quei pagliacci e cialtroni che ancora lo leggono. Ha una sola fortuna, il direttore del Fatto: che non c' è in giro un Travaglio che certe infamie gliele ripeta di continuo, in libri e articoli e comparsate televisive. Oddio, potremmo anche farlo noi. È questa la differenza: noi non vogliamo farlo, perché, a differenza sua, non facciamo schifo.

Otto e Mezzo tutto contro la Lombardia? Vittorio Feltri attacca Lilli Gruber: "Altro che il punto di Pagliaro...". Libero Quotidiano il 15 aprile 2020. L'ossessione malsana e vergognosa di Marco Travaglio contro la Lombardia nell'ambito dell'emergenza coronavirus è sbarcata (così come sbarca almeno una volta a settimana) a Otto e Mezzo, il programma di Lilli Gruber in onda su La7 nella puntata di martedì 14 aprile. E nel salottino radical-chic, pur zittito a più riprese da Alessandro Sallusti, impazzava il direttore del Fatto Quotidiano, che schizzava fango su Pirellone, Attilio Fontana, Lega, Giulio Gallera, Guido Bertolaso ed eccetera eccetera. Il tutto mentre, va da sé, la Gruber annuiva, come a sposarne ogni virgola del ragionamento. Circostanza che ha fatto sbottare Vittorio Feltri, il quale su Twitter ha detto la sua, mettendo in luce in poche righe le balle di Travaglio e la faziosità della conduttrice. "Travaglio se la prende con la Lombardia per il virus e dimentica che questa regione ha 10 milioni di abitanti, mentre le altre regioni ne hanno molti di meno", premette il direttore di Libero, e tanto potrebbe bastare per spiegare molte delle cronache legate al coronavirus. Infine, Feltri aggiunge: "Ha ragione Sallusti cara Gruber, altro che il punto di Pagliaro".

Otto e Mezzo, Marco Travaglio esalta Luca Zaia: "Lo vorrei governatore unico di Piemonte, Lombardia e Veneto". Libero Quotidiano il 14 aprile 2020. L’eccellente lavoro di Luca Zaia nella gestione dell’emergenza coronavirus in Veneto costringe persino Marco Travaglio ad applaudire. In collegamento con Lilli Gruber ad Otto e mezzo su La7, il direttore de Il Fatto Quotidiano ha fatto quasi a denti stretti un gran complimento al governatore leghista: “Se Piemonte, Lombardia e Veneto si unissero con Zaia governatore unico, sarei contento pur non provando alcuna simpatia per lui”. Un’investitura davvero inattesa per il presidente della Regione, ma è sotto gli occhi di tutti l’azione efficace adottata nel contrasto della diffusione del contagio. Tra l’altro proprio in questi giorni Zaia ha sottolineato che in Veneto il lockdown è ormai superato, nonostante il decreto del premier Conte lo abbia confermato: la Regione è già nella fase 2, quella della riapertura graduale e della convivenza con il virus. 

Commissariateli di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 14 aprile 2020 (da Tutto Travaglio Facebook). Sarebbe bello uscirne tutti insieme, ma più passano i giorni e più si comprende che sarà impossibile: non uscirne, ma farlo tutti contemporaneamente. È sempre più difficile convincere un cittadino del Molise o del Veneto che deve restare ai domiciliari chissà fino a quando perché in Lombardia e in Piemonte i contagi e i morti, anziché scendere, salgono. O meglio, si potrebbe convincerlo se, dopo i disastri fatti nei primi due mesi, le giunte lombarda e piemontese mostrassero uno straccio di strategia per aggredire il virus. Invece continuano a subirlo, inerti e in balia degli eventi, senza un orizzonte né una linea d’azione chiara. Passano il tempo a chiacchierare, a lodarsi, imbrodarsi e scaricare barile su “Roma”. Esemplare l’assessore forzista lombardo Mattinzoli che, mentre le destre accusano Conte di rompere l’unità nazionale, lo insulta dandogli del “pezzo di merda”, minacciandolo di “riempirlo di botte”: ed è ancora al suo posto. Indimenticabile l’assessore forzista Gallera, così garrulo fino all’altroieri malgrado il record mondiale di morti nella sua regione, e ora silente dopo la scoperta dello scandalo di Alzano (i suoi fedelissimi che vietano la chiusura dell’ospedale dopo i primi focolai) e dell’ordinanza che riversa nelle Rsa i malati Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora infetti. Leggendario lo sgovernatore leghista Fontana, che accusa il governo di negare la cassa integrazione a 1 milione di lombardi senz’averla mai chiesta. Poi si dice stupito perché “ero convinto che la curva rallentasse più velocemente”, ma fa poco o nulla per frenarla: scarsa mappatura dei contagi, nessuna campagna aggressiva di tamponi, niente sorveglianza attiva sui contagiati, nessun piano di test sierologici, ignorata la medicina territoriale, isolamento tutto da dimostrare nelle Rsa fra reparti con sani e con malati Covid. Nulla di ciò che fa il Veneto di Zaia, leghista anche lui, ma con la testa sul collo. Solo chiacchiere e propaganda, incluso il Bertolaso Hospital che doveva creare alla Fiera “600 posti letto” e, a due settimane dall’inaugurazione e a una dall’apertura, ospita 10-12 malati con 50 medici e infermieri rubati agli ospedali pubblici. Per questo gli Ordini dei medici di tutta la Lombardia hanno lanciato un j’accuse che fa a pezzi la politica sanitaria per il passato remoto, per il passato prossimo e per il presente. E denunce simili fanno, anche in sede penale, i medici piemontesi contro le analoghe politiche (su Rsa e zero strategie) della giunta gemella del forzista Cirio, con un comitato di crisi (vedi pag. 2) che definire imbarazzante è un eufemismo.

Provate per un attimo a immaginare se la Lombardia e il Piemonte, o Milano e Bergamo, maglie nere dell’emergenza Coronavirus in Italia, fossero governate non dai “competenti” di destra&Pd, ma da “incompetenti” dei 5Stelle, tipo Appendino e Raggi. In tv e sui giornali non si parlerebbe d’altro e tutti invocherebbero le dimissioni delle due grilline, fino alla loro impiccagione sulla Mole Antonelliana e sulla Madunina. Invece non solo nessuno chiede la testa di Fontana, Cirio, Gallera, Mattinzoli, Sala, Gori e di tutta la fallimentare classe politica lombardo-piemontese. Ma i giornaloni continuano a menarla con l’“incompetenza” dei 5Stelle, che almeno stavolta non c’entrano. Su Repubblica, Francesco Merlo arriva a sostenere che la task force nominata dal premier, con “Vittorio Colao, 17 manager e professori, prima del Covid sarebbe stata derisa e calunniata dagli asini saputi che, cacciando i competenti dalla politica e dalle professioni, hanno instaurato la Cretinocrazia”: primi della lista “Grillo e Casaleggio” (che ospitano da sempre sul blog e ai V-Day premi Nobel come Stiglitz e Krugman, scienziati, esperti di nuove tecnologie ecc.). E così, mentre tutti parlano d’altro per fare propaganda e/o non doversi smentire, si perdono di vista due Regioni totalmente fuori controllo che, non certo per colpa dei cittadini, rischiano di prolungare il lockdown di tutt’Italia anche dopo il 4 maggio. È vero, il virus nei primi giorni è stato sottovalutato in tutto il mondo. Ma sono trascorsi quasi due mesi e non si può più accettare che Fontana si trinceri ancora dietro “il virus particolarmente violento in Lombardia”, perché la sua violenza è stata direttamente proporzionale a vari fattori, in primis gli errori dei vertici sanitari della sua Regione: all’inizio (sull’ospedale di Alzano e la mancata zona rossa in Bassa Val Seriana), in seguito (con le Rsa e la rincorsa all’ospedalizzazione selvaggia) e oggi (zero strategie per aggredire l’emergenza). Né si può lasciare il Piemonte in balìa di una giunta di inetti che si ispirano all’unico modello da non seguire: quello lombardo. Non lo diciamo noi: lo dicono i medici, con denunce documentate a cui nessuno ha neppure tentato di replicare (se non col decisivo argomento che gli Ordini dei medici sono “al servizio del Pd”). La politica non c’entra nulla: c’entra la pelle dei lombardi e dei piemontesi e anche la sorte di un intero Paese ancora bloccato per i numeri spaventosi di quelle due regioni. Il governo, se può, pensi seriamente a commissariare le due Regioni, o almeno le loro Sanità allo sbando. Per il bene di tutti.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 24.03.2020. Più passano i giorni, più vien da domandarsi come abbia potuto la regione più prospera d' Europa mettersi nelle mani di un Attilio Fontana. Bravo travet, per carità, ma totalmente inadeguato a compiti che non siano quello degli umarell in visita ai cantieri. Nulla di paragonabile al leghista veneto Luca Zaia che, anche quando dice o fa fesserie, dimostra di avere la situazione sotto controllo. Infatti, nella lotta al virus, ha sfoderato una strategia, giusta o sbagliata: tamponi a tappeto per censire tutti i positivi, i quali sono infinitamente più di quelli ufficiali perché includono gli asintomatici che, proprio perché asintomatici, sono più pericolosi dei sintomatici perché contagiano gli altri senza saperlo. In Lombardia, invece, il tampone non lo fanno neppure ai sintomatici. Ma non per scelta, che sarebbe almeno degna di valutazione: perché sono nel marasma totale e non sanno che pesci pigliare. Il che ci fa benedire una volta di più Salvini per l'unica cosa buona fatta in vita sua: rovesciare il Salvimaio e levarsi dai piedi, sennò oggi avremmo una Lombardia ancor più autonoma di quanto già non sia, cioè libera di fare ancor più cazzate di quante già non ne faccia. Dopo aver detto tutto e il contrario di tutto, a rimorchio del presunto leader nazionale, sabato sera Fontana ha partorito un' ordinanza che doveva "chiudere tutto". Ma in realtà, ancora una volta, non chiude quasi nulla: non per esempio le fabbriche, che a parole (sui media, ma mai con atti ufficiali) lo sgovernatore pretendeva fossero chiuse dal governo (pur avendo tutti i poteri per chiuderle lui) perché non voleva contrariare Confindustria. In compenso chiudeva gli studi professionali, compresi quelli legali, che un avvocato come lui dovrebbe sapere di non poter chiudere: la giustizia non è stata ancora abolita e i processi più urgenti (per direttissima e con imputati detenuti, anche per i divieti di passeggiata e corsetta da lui introdotti) si continuano a fare. E, siccome non è stata ancora abolita neppure la Costituzione, chi viene arrestato o processato in Lombardia necessita di un difensore: ma dove lo trova se tutti gli studi legali della Lombardia sono chiusi? Va a cercarselo in Puglia, sperando che lì il governatore sia un po' più lucido del suo? Nessuno lo sa perché nessuno lo dice, ma lo scaricabarile di Fontana&C. ha creato il grosso del casino di sabato. Siccome Fontana fingeva di chiedere ciò che non chiedeva, l'odiato governo di Roma ha dovuto provvedere, previa trattativa Skype fra premier, ministri, Confindustria e sindacati su quali filiere produttive chiudere e quali tener aperte. Distinzione piuttosto ardua, con buona pace di chi pensa che i decreti siano fiaschi che si abboffano e che, per chiudere tutto, basti scrivere "chiudiamo tutto" e annunciarlo in conferenza stampa all' ora del tè (se no Renzi, Salvini, Meloni e il giro Berlusconi-Stampubblica se ne ha a male). Infatti tutte le filiere produttive sono intrecciate: se lasci aperta l' ortofrutta, ma chiudi chi produce imballaggi, etichette e pellicole di cellophane, la frutta e la verdura non partono e non arrivano più a destinazione. Di questo si è discusso per tutto sabato pomeriggio. Poi Conte ha dovuto informare i 20 presidenti di Regione, ciascuno con le sue pretese confliggenti con quelle degli altri 19. Così l’appuntamento fra lui e Fontana, in videoconferenza, fissato per le 19.30, è slittato alle 20.15. Ma cinque minuti prima, alle 20.10, il governatore umarell se n'è uscito con la sua ordinanziella Chiudo-Nonchiudo senz' avvertire nessuno. E in aperto contrasto con le regole del decreto che lui sapeva essere in arrivo da Roma per tutta Italia (Lombardia inclusa). Come se fosse il dittatore dello Stato libero di Bananas. E ora, dopo avere scatenato questo casino, Fontana fa pure l' offeso sui giornali amici (tutti) perché il dpcm "è un po' riduttivo rispetto alle misure che avevamo predisposto noi" e "non ha il nostro consenso". Cioè crede che il governo debba prendere ordini da un "governatore" che fra l' altro non sa neppure quali ordini impartire, visto che da giorni chiede per finta ad altri di fare ciò che potrebbe fare lui, e poi lo fa (malissimo) cinque minuti prima che il premier gli dica cos' ha deciso il governo. E intanto continua a non far nulla per le migliaia di sintomatici con tosse e febbre, contagiosissimi per i familiari e i passanti, scaricati dalla "sanità modello" che non dice loro null' altro che "prendi un' aspirina". Dopodiché, mentre i media raccontano di centinaia di anziani infetti che muoiono soli come cani, abbandonati nelle case, negli ospizi e nelle cliniche private (pagate da noi) dalla sanità lombarda al collasso, mente spudoratamente al Corriere : "Noi curiamo tutti e non lasceremo mai indietro nessuno" (resta da spiegare perché in Lombardia 9 morti su 10 col coronavirus non abbiano mai visto un ospedale). E ri-mente sul Bertolaso Hospital in Fiera, che "servirà a tutta l' Italia", quando sa benissimo che i 300 posti letto si riempiranno in mezz' ora, e di pazienti lombardi. Ma, curiosamente, chi crocifigge Conte anche quando non sbaglia tace sugli errori di Fontana che ne infila almeno due al giorno. A riprova del fatto che, per quante disgrazie si abbattano sull' Italia, la peggiore resterà sempre la cosiddetta informazione. A proposito. Casomai qualcuno volesse la verità sulla scandalosa "diretta Facebook di Conte" sabato, quella non era una diretta Facebook. Il discorso del premier è stato diffuso, come quelli di tutti gli altri premier in passato, dal segnale audio-video della sala-regìa della Presidenza del Consiglio, a cui si sono connesse le tv che volevano trasmetterlo, il canale YouTube di Palazzo Chigi e la pagina Fb di Conte. Cioè: sono due giorni che si parla del nulla. 

Alessandro Corica per “la Repubblica” il 16 aprile 2020. Un presidio «pronto a fronteggiare eventuali nuove necessità e nuove emergenze, dando una mano agli altri ospedali della Regione», lo loda il leader della Lega Matteo Salvini. E un ospedale «che veglierà sulla salute dei lombardi come una vera e propria assicurazione contro il sovraffollamento delle altre strutture regionali», ribadiscono dalla Regione guidata da Attilio Fontana. Eppure. Nell' ospedale della Fiera di Milano, 25 mila metri quadrati presentati in pompa magna durante una conferenza stampa tanto affollata da far cadere sulla Regione l' accusa di aver favorito l' assembramento di troppe persone, al momento ci sono 53 letti pronti. Ma solo otto occupati da altrettanti pazienti. Erano dieci fino a ieri mattina, due li hanno dimessi in giornata: altri 104 letti sono pronti e in fase di collaudo, da lunedì prossimo potranno accogliere nuovi malati. Che però, se l' epidemia continuerà la sua (lenta) discesa, non arriveranno. E allora è quasi surreale addentrarsi nell' ospedale realizzato in una decina di giorni e costato circa 26 milioni, anche se «zero euro al contribuente », come sottolineano tanto Salvini quanto il Pirellone. Lo spazio è enorme, semivuoto ma in grado di assolvere già così la sua prima funzione: dare alla sanità lombarda guidata dal governatore leghista Fontana e dal forzista Giulio Gallera la possibilità di avere qualcosa su cui puntare in un momento in cui i dubbi sulla gestione dell' emergenza, nella Lombardia dove la mortalità per Covid- 19 ha un tasso superiore al 18%, iniziano a essere diversi. A partire dalla debolezza del sistema territoriale, con i medici di famiglia che più volte hanno denunciato «di essere stati lasciati soli». Fino al contributo parziale dato dalla sanità privata: le cliniche lombarde sul piatto hanno messo una parte delle loro risorse ma non tutte, 480 letti di intensiva a fronte degli oltre 1.200 degli ospedali pubblici, dove ormai il 90% dei pazienti ricoverati ha il Covid-19. L' ospedale in Fiera, per Palazzo Lombardia, è diventata allora una punta di diamante: la realizzazione è stata affidata a Guido Bertolaso, che aveva chiesto aiuto anche a una delle figure di maggior spicco della sanità privata milanese. Che però dalla partita si è sfilato, non condividendone l' impostazione. L' ospedale è stato allestito comunque, l' esecuzione è costata intorno ai venti milioni di euro, più altri sei per gli allestimenti dei 157 posti di intensiva: una cifra coperta da donazioni private ma che all' inizio doveva essere almeno doppia, considerando che in origine la struttura doveva contare 500 letti di intensiva. Quasi tutti i medici al Portello sono del Policlinico di Milano, a cui il Pirellone ha affidato la struttura, «che è una scialuppa di salvataggio. Fino a poche settimane fa non avevamo più letti di intensiva dove ricoverare i malati, creare un polmone di riserva come questo era fondamentale. E lo è ancora, l' emergenza non è finita », ribadisce Antonio Pesenti, professore della Statale di Milano, primario del Policlinico e a capo del progetto in Fiera. Le perplessità, però, ci sono. Dal punto di vista politico, «perché mi chiedo se, a conti fatti, quella straordinaria raccolta di fondi privati non potesse essere orientata altrove, per esempio in parte a sostenere la medicina territoriale », ragiona l' eurodeputato dem Pierfrancesco Majorino. E dal punto di vista dei medici, perché «realizzare una terapia intensiva senza un ospedale alle spalle, temo equivalga a fare una sorta di cattedrale nel deserto », dice Roberto Carlo Rossi, presidente dell' Ordine dei medici di Milano. «Un paziente ricoverato in terapia intensiva viene seguito dagli anestesisti, certo. Ma se ha uno scompenso cardiaco ha bisogno del cardiologo, se ha un' insufficienza renale del nefrologo - aggiunge Carlo Montaperto a capo dell' Associazione primari ospedalieri lombardi -Un ospedale è fatto di apparecchiature e strutture, ma anche di esseri umani e conoscenza: una terapia intensiva da sola rischia di essere una testa senza un corpo».

Travaglio contro Regione Lombardia: "Bertolaso hospital baracconata per nascondere morti". Marco Travaglio attacca Bertolaso, Fontana e Gallera. Marco Travaglio attacca i vertici leghisti della Regione Lombardia, Attilio Fontana e Giulio Gallera, ma non risparmia frecciate a Guido Bertolaso. Domenico Camodeca l'8 aprile 2020 su it.blastingnews.com. Marco Travaglio scatenato contro i vertici politici della Regione Lombardia e ancora con il dente avvelenato nei confronti di Guido Bertolaso. Il direttore del Fatto Quotidiano verga un lungo editoriale sul suo giornale per puntare il dito contro il Presidente in quota Lega Attilio Fontana, l'Assessore al Welfare, sempre del Carroccio, Giulio Gallera, i loro collaboratori e, dulcis in fundo, contro il commissario all'emergenza sanitaria Bertolaso, abituale bersaglio delle critiche feroci del giornalista che in suo "onore" ha coniato persino l'appellativo di "Bertoleso". Ebbene, Travaglio imputa alla gestione lombarda della sanità diverse carenze che avrebbero contribuito a provocare le migliaia di morti con cui ora l'Italia deve fare i conti. Marco Travaglio non ha dubbi: il duo formato da Attilio Fontana e Giulio Gallera, invece di governare la Lombardia, la "sgovernerebbe". Quando l'emergenza sarà finita i due, ironizza il giornalista, dovranno certamente "cambiare mestiere", ma avranno comunque un "futuro assicurato" nel mondo del "cabaret". Travaglio punta subito il dito contro la quotidiana conferenza stampa presieduta dall'Assessore al Welfare, bollata come "Casa Gallera" in ricordo della sit-com "Casa Vianello". Gallera non sarebbe altro che un "capocomico" che punta a diventare Sindaco di Milano e che avrebbe sul groppone la responsabilità della "nota catastrofe chiamata sanità modello". Insomma, quella messa in scena da Gallera tutti i giorni, secondo Travaglio, non sarebbe altro che una "baracconata" utile a nascondere "i disastri e i morti da record mondiale" frutto della gestione della sanità lombarda. Esattamente come il "Bertolaso hospital", costruito all'interno dei padiglioni della Fiera di Milano e che, secondo i suoi sponsor, avrebbe dovuto ospitare 600 pazienti, mentre fino a questo momento i letti occupati risulterebbero solo tre. Ma Marco Travaglio non è pago. La sua lente inquisitrice si sposta sull'ex Governatore Roberto Formigoni (condannato in via definitiva per corruzione, ndr) la cui faccia, afferma, doveva far capire chiaramente che il cosiddetto modello lombardo sia in realtà una "truffa da magliari". Per non parlare delle presunte colpe di Gallera, accortosi solo ora che le Regioni hanno il potere di istituire zone rosse, come quella che si sarebbe dovuta fare in provincia di Bergamo. Ma l'Assessore al Welfare "tra una televendita e l'altra" se ne sarebbe scordato. Insomma, una vera e propria "Caporetto" della Lombardia, conclude Travaglio, che dovrebbe indurre i vertici regionali leghisti ad "uscire dal nuovo Pirellone con le mani alzate".

Cabaret Pir(el)lone – Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 10/04/2020. Milano e la Lombardia tutta sono da sempre terra di grandi comici, dai maestri Fo, Gaber, Jannacci, Viola, Funari e i Gufi, agli allievi Cochi e Renato, Paolo Rossi, Abatantuono, Teocoli, Iacchetti, Boldi, Bisio &C.. Ora purtroppo, ridotti come siamo, dobbiamo accontentarci dei sindaci Beppe Sala “Milanononsiferma” e Giorgio Gori “TuttiacenadaMimmo”, ma nel ruolo di comparse perché, fortunatamente, non hanno voce in capitolo nella sanità che, disgraziatamente, è tutta roba delle Regioni. E lì il capocomico è il leghista Attilio Fontana, in arte “Umarell”, con l’inseparabile spalla Giulio Gallera, detto anche “Compro-una-consonante”. Ma da ieri una nuova stella brilla nel cast del Nuovo Cabaret Pir(el)lone: il leghista Emanuele Monti, presidente della Commissione Sanità e Politiche Sociali. In pratica, se non bastano i fratelli De Rege a fare danni, arriva Monti. Ieri il giovanotto ha pensato bene di commentare in un video la replica di Gallera alle accuse dei presidenti di tutti gli Ordini dei medici lombardi. Era difficile peggiorarla, perché le scempiaggini di Gallera contro i medici parevano insuperabili (specie in bocca a chi accusava Conte di delegittimarli con le critiche all’ospedale di Codogno), ma Rizzo è riuscito nell’ardua impresa. Sentite che genio: “L’Ordine dei medici dimostra di essere diventato un sindacato a servizio del Pd e non un organo indipendente e autonomo”; fa “polemiche ingiuste” che “sono un’offesa a tutti i Lombardi abbandonati dallo Stato centrale”; e “proprio quando è ancora più difficile andare avanti perché, oltre all’emergenza che continua, subentra la stanchezza di tutte le settimane passate senza riposo, arriva questa (sic) vero e proprio atto d’accusa contro la nostra Regione”. Tralasciamo il seguito del delirio, perché già in queste cinque righe si concentra una densità di minchiate da Guinness dei primati. 1) L’Ordine dei medici non è un “sindacato”, tantomeno “a servizio del Pd”, ma l’albo professionale di tutti i medici, che in Lombardia si suppone votino in maggioranza Lega o comunque centrodestra. Ma ora esistono ottime probabilità che, dopo le parole di Gallera e Rizzo sul loro asservimento al Pd (che in Lombardia non tocca palla da ben prima di esistere), molti di loro si abbandonino a gesti inconsulti, tipo votare Pd. 2) L’idea che un ordine professionale, per essere un “organo indipendente e autonomo”, debba leccare il culo a Fontana, Gallera e Rizzo, può scaturire soltanto da una mente molto malata, e non di coronavirus. 3) Non si vede perché “tutti i Lombardi” dovrebbero sentirsi “offesi” dall’Ordine dei medici. Questo infatti muove rilievi tecnici, non politici, agli incapaci che sgovernano la Lombardia: infatti nulla dice contro la giunta Zaia. Semmai i lombardi si sentono offesi da chi non ha fatto nulla di serio e di utile contro il Covid-19, a parte gettare donazioni milionarie nel celebre Bertolaso Hospital con ben tre pazienti e conquistare il record mondiale di morti. 4) Che i lombardi siano stati “abbandonati dallo Stato centrale” è una tesi come un’altra; ma purtroppo non attacca, visto che i lombardi medesimi sono abituati a sentir vantare la loro “sanità modello” come “fiore all’occhiello che il mondo ci invidia” dai politici forzaleghisti, frutto della mitica “autonomia regionale” che costoro volevano addirittura ampliare con secessioni, devolution o autonomie differenziate. Se la sanità è regionale e la Lombardia è autonoma perché “meglio fare da sé”, vale non solo quando fioccano gli applausi (peraltro immeritati), ma anche quando piovono fischi, denunce, accuse e avvisi di garanzia. 5) Se le “polemiche” arrivano “proprio in questa fase delicata, quando subentra la stanchezza di tutte le settimane passate senza riposo”, è perché i medici piangono già oltre 100 morti, quasi tutti lombardi e vedono una Regione in balìa degli eventi, senza l’ombra di una strategia, e sperano in un’inversione di rotta subito. Ma sarebbero ben lieti se i fratelli De Rege e il Monti si prendessero un po’ di riposo: già il fatto di saperli lontani dalle stanze dei bottoni potrebbe rincuorare il personale sanitario, oltre a evitare danni ulteriori. Se i tre cabarettisti si fossero riposati fin dall’inizio, la Lombardia si sarebbe risparmiata l’ordinanza che spediva nelle residenze per anziani i degenti Covid dimessi dagli ospedali ma ancora contagiosi. E anche il pappa-e-ciccia Regione-Confindustria che ha bloccato la zona rossa ad Alzano e Nembro dal 22 febbraio (primo contagio accertato) all’8 marzo (dl Chiudi-Italia). E magari Fontana&Gallera avrebbero scoperto con 40 giorni d’anticipo la famosa legge 833 del 1978 che, in materia di “igiene e sanità pubblica” (art. 2 comma 3), recita: “Sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contenibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”. Quindi, se è vero (e non lo è) che lo sgovernatore &C. volevano la zona rossa in Val Seriana, dovevano procedere in autonomia anziché aspettare il governo: come l’Emilia-Romagna, il Lazio, la Campania, la Calabria e la Sicilia, che si son fatte le proprie zone rosse senza scaricare barile su Roma. Con un adeguato periodo di relax, poi, il povero Gallera avrebbe scoperto un dettaglio ancor più sconvolgente: la legge in questione, che dice di aver “avuto modo di approfondire” solo tre giorni fa, non è una legge come un’altra. Si intitola “Istituzione del servizio sanitario nazionale”. Cioè è la legge che regola i poteri degli assessori regionali alla Sanità. Cioè i suoi. Sempreché, si capisce, qualcuno l’abbia avvertito che, per quanto bizzarra possa apparirgli la circostanza, l’assessore alla Sanità è lui.

Marco Gervasoni per “il Giornale” il 14 aprile 2020. Per i democratici, dei morti Usa sarebbe colpevole Trump e non certo il loro governatore Cuomo, nonostante il suo Stato, quello di New York, mieta il maggior numero di vittime. Ci aspetteremmo che la stessa logica funzionasse in Italia. E invece qui no, la responsabilità maggiore delle morti per i piddini non è del governo centrale, di cui fanno parte, ma delle Regioni. Non tutte. Emilia Romagna, seconda per numero di decessi, no. Lombardia sì. E non hanno ritegno, i democratici, a mandare avanti anche quelli che, da sindaci, invitavano a #riaprire Milano o a #riaprire Bergamo. Come da antica tradizione comunista, a coronare l' operazione di manipolazione non può mancare l' intellettuale, quello che, secondo Elio Vittorini, suona il piffero della rivoluzione. E lo fa anche fuori Italia: anzi, andare a sputtanare il Paese è sempre stato uno dei suoi sport preferiti, non a caso Machiavelli parlava delle «armate mercenarie» e di «cacciarsi» nelle «mani d' uno forestiere». Il forestiere in questo caso è la Francia, il giornale è Le Monde, la Bibbia dell' intellettuale de gauche, chic e globalista, e il denigratore non poteva che essere lui, Savianò. Il quale vi pubblica la solita articolessa per dire che i responsabili dei morti sono Fontana e Gallera. Ma, essendo intellettuale, non è che può limitarsi a ripetere gli argomenti di quegli illetterati di Sala e di Gori. No, la prende lunga, dalla camorra e dalla 'ndrangheta, che avrebbero da decenni colonizzato la Regione Lombardia, e ovviamente da Silvio Berlusconi, reo di avere lanciato, assieme all' anti abortista (?) Comunione e Liberazione, Roberto Formigoni. Sono loro, in combutta con Umberto Bossi e Roberto Maroni, ad avere creato l' orrido sistema lombardo fondato sull' intreccio pubblico-privato, sugli affari, sulla corruzione. Il quale, inefficiente e gestito da una «classe dirigente mediocre» oltre che corrotta e collusa con la mafia, ha prodotto l' ecatombe che ha prodotto. Salvini non è sfiorato? Ma certo che sì, avendo il segretario ereditato il blocco di potere di cui è garante. E va bene, siamo ai soliti discorsi di Saviano, anche se, scodellati a un giornale straniero, in un momento in cui il Paese è sotto scacco non solo del virus ma anche dei «fratelli europei», suona particolarmente ributtante. Solo che Saviano, preso dalla foga di essere più realista del re, e di inoltrare una tirata di ultra sinistra contro il capitalismo, il guadagno e pro sanità statale, fa finire nel calderone anche Sala e Gori che, ricorda egli perfidamente ma con ragione, sono stati berlusconiani fin che il Cavaliere era in auge. E qui la faccia di Zingaretti, arrivato alla fine dell' articolo, che fino a quel momento l' avrà fatto godere, si sarà increspata. Anche perché qualcuno potrebbe sospettare che, dietro l' attacco di Saviano, vi siano coloro che vedono nei due sindaci una minaccia per la leadership deboluccia del presidente (per mancanza di prove) della Regione Lazio. Resta l' amarezza, anche se non la sorpresa, per la condotta di un ceto intellettuale che, sempre più privo di idee nuove (oltre che di opere artistiche create) come ai tempi di Machiavelli e di Guicciardini, non fa che affidarsi alle cure di un principe straniero, allora il francese Francesco I, oggi Macron o Merkel. Se gli scrittori del Risorgimento fossero stati come Saviano, oggi in Lombardia dominerebbero ancora gli austriaci. Che Saviano sicuramente ama più degli italiani.

Antonio Padellaro per “il Fatto quotidiano” il 9 aprile 2020. A Matteo Renzi che invoca commissioni parlamentari d' inchiesta su tutti quelli che gli stanno sulle scatole, ma insiste (lo faceva già in piena epidemia) sulla riapertura delle fabbriche ("chi le tiene chiuse fa perdere quote di mercato e questo significa licenziamenti") suggeriamo caldamente la visione della puntata di Report (Rai3) di lunedì 6 aprile. Che andrebbe studiata nelle scuole di giornalismo per spiegare quale importanza può avere il servizio pubblico radiotelevisivo, quando è servizio pubblico. Perché nell' inchiesta di Giorgio Mottola sulla "zona grigia" del Bergamasco - dove si conta la più alta percentuale di ammalati e di morti in assoluto - lascia sconcertati, per non dire peggio, la campagna di "persuasione" condotta già a fine febbraio da Confindustria Lombardia. Culminata nell' hashtag #noilavoriamo, nel video trionfalistico yes, we work e nelle dichiarazioni rassicuranti del presidente, Marco Bonometti, sulla necessità di "abbassare i toni". Vero è che ora l' associazione ammette che "visto con gli occhi di oggi quel video è stato un errore e ce ne scusiamo". Ok, ma troppo tardi verrebbe da dire alla luce dei numeri, e dei lutti, che certo vanno soprattutto attribuiti a chi (Regione Lombardia) aveva il dovere di proclamare subito la zona rossa nella Val Seriana, e non quando il contagio si era fatto inarrestabile. "Una sottovalutazione - come ha detto il conduttore Sigfrido Ranucci - frutto di interessi personali ed economici". Del resto, è lo stesso sindaco di Alzano Lombardo (con Nembro il comune più devastato dal virus) a raccontarci dell' assedio di imprenditori che volevano a tutti i costi "svincolarsi dalla zona rossa". Nessuno nega la necessità di riaprire presto tutte le fabbriche. Purtroppo temiamo che per troppi imprenditori, da tutelare, al primo posto, non ci sarà la salute dei lavoratori.

Gianni Barbacetto per ''il Fatto Quotidiano'' il 9 aprile 2020. Il mio orgoglio nordista sta subendo duri colpi. Non abbiamo mai creduto alla narrazione trionfalistica della Milano-place-to-be, unica metropoli europea in una Italia disfatta: conosciamo i campioni della città, da Roberto Formigoni a Silvio Berlusconi, da Matteo Salvini a Giuseppe Sala. Ma certo non abbiamo mai negato che a Milano si vive bene, che i trasporti funzionano, che la sanità è un’eccellenza, che gli aperitivi sono buoni. Poi è arrivata la pandemia e ci viene voglia di fare la ola a Vincenzo De Luca, il governatore-sceriffo di Salerno e della Campania intera, altro che o mia bela Madunina. Qui a Milano gli ultimi aperitivi sono stati quelli di Sala con Cattelan e Zingaretti, instagrammati #milanononsiferma, hashtag subito contraddetto da #iorestoacasa. Quanto alla sanità d’eccellenza, stiamo assistendo alla più colossale disfatta italiana dopo Caporetto, al più bruciante disastro dopo il terremoto di Messina. Diecimila morti in Lombardia; il cluster infettivo di Alzano Lombardo lasciato aperto; gli ospedali trasformati in luoghi per infettare i pazienti, i parenti, i medici e il personale sanitario; le case di riposo diventate luoghi per morire come mosche; i positivi al virus trasferiti dagli ospedali sovraccarichi alle residenze per anziani (come mandare i vampiri a rieducarsi nelle sedi dell’Avis); il personale sanitario abbandonato senza protezioni; i piani antipandemici inesistenti; il tracciamento dei contagi neppure tentato; i medici di famiglia lasciati senza strumenti e senza indicazioni; le mascherine (rese obbligatorie) promesse ma non consegnate; i ventilatori polmonari mancanti; i tamponi più rari del fluido magico di Harry Potter. Tutto questo in un sistema in cui alla sanità pubblica sono stati sottratti negli anni milioni di euro, con un dimezzamento dei posti letto. I Badoglio della situazione – Attilio Fontana e Giulio Gallera – invece di chiedere scusa e tentare di raddrizzare la barra, stanno in diretta tv a pavoneggiarsi per un ospedale in Fiera che ha promesso 600 posti e ha accolto finora tre (3) pazienti. Invece d’intervenire per tempo a monte, Fontana e i suoi prodi hanno sbandierato come risolutivo un prodigioso intervento a valle, con il progetto (comunque non realizzato) di fermare la palla di neve quando è ormai diventata valanga. E Gallera accarezza perfino il sogno di candidarsi sindaco di Milano, al prossimo giro, per fare concorrenza agli aperitivi sui Navigli di Sala. E allora viva De Luca. Invece di dedicarsi alle fritture di pesce, questa volta ha fatto quello che Fontana e Gallera e Sala non hanno saputo fare. Certo, è pittoresco. Ma ha fatto restare a casa i cittadini che amministra, invece di postare foto di aperitivi al Gambrinus o di passeggiate al Crescent. Ha fatto chiudere in zona rossa, con tre successive ordinanze, Ariano Irpino, quattro Comuni del Vallo di Diano e Lauro (mentre Fontana stava per giorni a rimpallarsi con il governo la responsabilità di scontentare Confindustria di Bergamo per chiudere il cluster infettivo più devastante d’Italia, quello di Alzano Lombardo). Certo, i numeri dell’attacco virale in Lombardia sono imparagonabili a quelli della Campania. Ma resta il fatto che, questa volta, il Pittoresco ha fatto le cose giuste, l’Eccellente non ne ha imbroccata una. E mentre molti ospedali lombardi diventavano focolai d’infezione, il Cotugno di Napoli – ci ha raccontato Sky News Uk – si è organizzato in modo da non infettare neppure uno dei suoi medici, con l’utilizzo di tute e maschere da fantascienza, e ha cominciato a sperimentare contro il Covid-19 (pare con successo) l’uso di un farmaco contro l’artrite.

Le 6 domande inevitabili sulla Lombardia. Perché così tante vittime? Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 15/4/2020 su Il Corriere della Sera. Le 6 domande inevitabili  sulla Lombardia Perché così tante vittime? Sarebbe ragionevole che il governatore Attilio Fontana e il suo assessore alla Sanità Giulio Gallera spiegassero onestamente perché in Lombardia c’è stato, e continua ad esserci, un numero di decessi così alto rispetto al Veneto e all’Emilia-Romagna, dove l’epidemia è partita quasi contemporaneamente. Non lo giustifica il fatto che il 25 febbraio ci fossero 231 contagiati contro i 42 in casa Zaia e i 26 in casa Bonaccini. L’epidemia si è allargata alla velocità della luce e a oggi sono morti 11 lombardi ogni 10 mila abitanti, contro i 6 dell’Emilia Romagna e i 2 del Veneto. Dai dati dell’Istat e del ministero della Salute, emerge che a Milano stanno morendo quotidianamente 90 residenti contro i 30 dell’anno scorso, a Bergamo 21 contro 4, a Brescia 20 invece di 5. (Qui tutti i bollettini della Protezione civile).

Le Rianimazioni in crisi. Il sistema ospedaliero, dove pubblico e privato sono stati nel corso degli anni messi sullo stesso piano, va subito in crisi. A ridosso del 21 febbraio, con i posti letto delle Terapie intensive sottodimensionati (8,5 su 100 mila abitanti contro i 10 dell’Emilia e del Veneto) e il 30% in gestione alla Sanità privata convenzionata, la Regione deve contrattare la loro attivazione con gli ospedali privati in un momento in cui il fattore tempo è determinante. Mentre tutti gli sforzi si concentrano nel potenziare il sistema ospedaliero davanti all’ondata di pazienti in gravi condizioni, ai primari non arrivano disposizioni chiare e al personale medico mancano i dispositivi di protezione (qui lo speciale «La parola alla scienza»).

La sorveglianza territoriale. Intanto la Regione Lombardia abdica al ruolo di sorveglianza dei contagi sul territorio, dove è cruciale rintracciare e accertare un’eventuale positività dei cittadini a rischio, perché vicini a colleghi di lavoro e familiari ammalati. Per loro non è sempre previsto il tampone, e i contatti stretti troppo spesso non sono neppure chiamati dalle Asl (ora Ats) per il monitoraggio della quarantena. La rete dei medici di base e dei distretti, cruciale nell’intercettare un paziente all’esordio dei sintomi ed evitare che degenerino, è stata smontata nel corso degli anni. L’arrivo in ospedale di casi già troppo gravi scandisce i racconti delle cronache lombarde degli ultimi 50 giorni. I medici di base sono lasciati andare allo sbaraglio per settimane intere: chi segue scrupolosamente i pazienti lo fa rischiando la vita (e spesso rimettendocela), gli altri lasciano i malati a loro stessi, con il consiglio dei virologi di prendere la tachipirina e restare a casa. La delibera che dà indicazioni precise sulla gestione territoriale del Covid-19 è del 23 marzo, un mese dopo il focolaio di Codogno. Per le visite domiciliari vengono costituite le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale): una squadra di medici ogni 50 mila abitanti. Duecento per la Lombardia: ancora oggi quelle attive sono solo 37.

Poca autonomia decisionale. La strage delle case di riposo (Rsa) paga il prezzo del ritardo nella chiusura delle visite dei familiari (dal 4 marzo), la decisione di mandarci i pazienti positivi meno gravi per liberare i posti in ospedale (delibera regionale dell’8 marzo), il mancato sostegno nell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione, oltre alla scarsa formazione del personale di queste strutture in difficoltà a gestire un’emergenza simile. La Lombardia, che più di ogni altra invoca da sempre l’autonomia, è la Regione che dall’inizio dell’epidemia la esercita meno. Tra fine febbraio e l’inizio di marzo vengono spese intere giornate a convincere il governo di Giuseppe Conte a prendere provvedimenti per blindare l’Italia ma, pur sapendo l’urgenza di chiudere Nembro e Alzano nella Bergamasca, il governatore Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera aspettano il decreto della Presidenza del Consiglio del 7-8 marzo. Certo i sindaci, a partire da Giorgio Gori, e le aziende erano contrarie ai provvedimenti restrittivi, ma il governatore e il suo assessore sapevano a quali rischi stavano esponendo la popolazione e quindi potevano e dovevano decidere diversamente.

Le giravolte sui tamponi. La Regione non prende una posizione decisa nemmeno sui tamponi: la scelta di eseguirli solo ai plurisintomatici arriva dalle disposizioni ministeriali, così come la scelta degli ultimi dieci giorni di aumentarli è frutto dei provvedimenti del governo. Non c’è una linea politica autonoma come in Veneto e in Emilia, soprattutto sui test a medici e infermieri. La Regione punta tutto sulla costruzione dell’ospedale nella ex Fiera di Milano in meno di due settimane: inaugurata il 31 marzo, oggi la Terapia intensiva inizialmente presentata come in grado di ospitare 600 posti letto, conta solo 10 malati.

La conferenza stampa serale. La Regione Lombardia dovrebbe avere il coraggio di correggere la rotta della sua politica sanitaria che mostra tutti i propri limiti. Ed è cruciale farlo adesso, per non trovarci a ottobre in una situazione peggiore. Governatore, assessore, direttore generale si consultano con i virologi di fiducia, molto occupati a raccontare le loro opinioni in tv. Ci hanno spiegato che le mascherine non servono, che i tamponi bisogna farli solo agli acuti, che era meglio curarsi a casa con la tachipirina. Poi hanno detto il contrario. Solo i medici di base e gli ospedalieri hanno avuto il coraggio di sperimentare cure che alla fine hanno permesso a tanti pazienti di guarire. A Milano c’è l’Istituto Mario Negri, da tempo chiede i dati dei contagiati: fra questi c’è chi ha fatto il vaccino antinfluenzale, chi contro la polmonite. Sono importanti per capire come si comporta la malattia. Ma la Regione non glieli dà. Il motivo è ignoto. La preoccupazione sembra essere una sola: la conferenza stampa serale con la quale si comunica il numero dei morti, dei contagiati (che è solo il numero di coloro a cui sono stati fatti i test), e quello dei guariti (anche questo falso, basandosi solo sui dimessi dal pronto soccorso).

Lo sguardo verso la «Fase 2». Si riapre, forse, il 3 maggio. Se i ricoveri in Terapia Intensiva continuano a scendere così lentamente rispetto al resto del Paese sarà un problema. Sarà importante anche capire «come» si riapre. Chi ha chiuso l’attività si presume che abbia messo in atto un piano di distanziamento sociale e riorganizzato gli spazi nelle mense, ma chi non ha mai chiuso, che piani di sicurezza ha? L’assessore alle Attività produttive ha deciso il da farsi o attende indicazioni da Roma? Anche la mobilità andrà completamente riorganizzata in città dove ci si sposta sui mezzi pubblici. Intanto oggi tutto sembra morto: tutti chiusi in casa ad aspettare, davanti ad un computer o una tv. Pure il sindaco Giuseppe Sala sta giocando solo nelle retrovie. Ricordiamo che la Lombardia è la regione più ricca d’Europa e che Milano è piena di eccellenze: il Politecnico, la Bocconi, Istituti di ricerca e analisi, imprenditori inarrendevoli, qualche banchiere illuminato, Fondazioni, e una grande rete di volontariato. Chiamate a raccolta le menti migliori, ma solo tre o quattro non una ventina, e fatevi aiutare a elaborare una strategia di uscita. Cominciate a scommettere su qualcosa. Bisogna fare i test sierologici, e subito. E quelli validati arriveranno a ore. Non è una situazione nella quale ci si può permettere di fare gli schizzinosi al solo fine di rivendicare poteri personali. Chi è morto in corsia, sacrificato per colpe non sue, non pensava né alla propria sedia né alla propria carriera.

Coronavirus, perché la Lombardia è stata travolta da uno tsunami di casi? Laura Pellegrini il 03/04/2020 su Notizie.it. La Lombardia è stata travolta da moltissimi casi di coronavirus che potrebbero derivare da scelte sbagliate a livello nazionale. Perché la Lombardia è stata travolta da uno tsunami di casi di Covid-19? In un’intervista al Corriere della Sera, il direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi Fabrizio Pregliasco rivela che il paragone tra la Lombardia e il Veneto non è possibile. “Il 25 febbraio – sostiene l’esperto -, a ridosso del paziente uno di Codogno, la Lombardia ha 231 casi; il Veneto 42”. La crescita dei casi, da quel momento, è stata esponenziale: “Il 3 marzo – prosegue Pregliasco – i lombardi positivi sono 1.346, i veneti 297”. Dunque, stando ai dati, “sicuramente la Lombardia sconta almeno 12 giorni di ritardo nelle chiusure. E non per colpa sua”. L’attacco pare quindi alle autorità statali: già Fontana si era scontato con Conte per la mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca. “A me risulta – conclude l’epidemiologo – che dalla Lombardia fosse stato subito chiesto di bloccare tutto, ma Roma ha temporeggiato. “Si sta diffondendo un po’ l’idea che il Veneto abbia gestito meglio l’epidemia” rispetto alla Lombardia – ha osservato Pregliasco. In un’intervista, dunque, l’epidemiologo ha voluto chiarire perché la Lombardia è stata travolta da uno tsunami di casi di coronavirus che, almeno sembra, potrebbero derivare da scelte politiche nazionali inopportune e tardive. “Io non voglio sminuire il lavoro prezioso dei colleghi veneti – ha aggiunto ancora -, ma bisogna capire che la situazione non è paragonabile. Così come è sbagliato pensare di adottare in Lombardia le stesse soluzioni”. Puntando sul fatto che i numeri delle due Regioni sono nettamente differenti, il vero motivo dell’esplosione dei contagi in Lombardia potrebbe derivare dalle mancate precauzioni e dalle poche chiusure. “A me risulta – ha detto infatti Pregliasco – che dalla Lombardia fosse stato subito chiesto di bloccare tutto, ma Roma ha temporeggiato. Lo dico con rammarico”. Infine, ha voluto ricordare di nuovo come Lombardia e Veneto “non sono minimamente paragonabili per gravità della situazione di partenza”.

Lo studio: «Non esiste un caso Lombardia». su Il Dubbio il 18 aprile 2020. Il Lancet Public Health: l’andamento della mortalità nei primi 30 giorni «nettamente inferiore (circa la metà) rispetto a quanto osservato a New York e a Madrid». «Non esiste un caso Lombardia». Ad affermarlo uno studio eseguito da undici studiosi italiani, appena accettato dal prestigioso Lancet Public Health, secondo il quale l’andamento della mortalità nei primi 30 giorni dell’epidemia in Lombardia è stato «nettamente inferiore (circa la metà) rispetto a quanto osservato a New York e a Madrid». Lo studio analizza la diffusione dell’epidemia in sei ambiti metropolitani con simili caratteristiche demografiche, di movimenti di persone e di attività commerciali: l’ambito metropolitano di New York, la Regione Il-de-France (Parigi), la Greater London, Bruxelles-Capital, la Comunidad autonoma di Madrid e la Regione Lombardia. «I tassi cumulativi di mortalità più alti a 30 giorni dall’inizio dell’epidemia sono stati registrati a New York (81,2 x 100.000) e Madrid (77,1 x 100.000) mentre la Regione Lombardia (41,4 per 100.000) è sotto la media ed è l’unico caso in cui il capoluogo (Milano) non è stato fin qui investito, in modo rilevante, dall’onda epidemica – si legge nel documento -. Lo studio ne analizza le ragioni attraverso le misure di contenimento adottate e il ruolo positivo rivestito dalla rete di assistenza ospedaliera». Le grandi epidemie con trasmissione per via aerea, spiegano gli studiosi, «tendono a diffondersi lungo le vie commerciali e a manifestare i più drammatici effetti in termini di contagi, incidenza e mortalità nei grandi centri urbani». Così come accaduto con la peste nera, dunque, anche con la pandemia da Covid-19 la storia si è ripetuta, portando, al 14 aprile, al superamento di 2 milioni di casi notificati – «dato largamente sottostimato rispetto a quello reale» e 120.000 decessi accertati, la maggior parte dei quali nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ed è per questo motivo, dunque, che gli effetti maggiori della diffusione del virus si sono visti attorno alle grande città industrializzate: Londra, Parigi, New York, Madrid, Bruxelles, Milano e altri. «Realtà con caratteristiche simili e consolidati interscambi commerciali con la Cina, paese da dove il virus si è diffuso tra la fine dell’anno 2019 e il gennaio del 2020», scrivono gli studiosi. Che individuano negli ospedali, oltre che «un potente mezzo per salvare vite umane», anche «un potenziale moltiplicatore di infezioni, come avvenuto nel caso della Sars e, almeno all’inizio, anche per l’epidemia di Covid-19: i contagi di pazienti e personale sanitario negli ospedali di Codogno e Casalpusterlengo – primi luoghi dove è stata accertata la presenza di casi autoctoni italiani – sono una testimonianza di come Covid-19 abbia i connotati di un’infezione ad alta capacità diffusiva in ambienti sanitari (ospedali) e parasanitari (Rsa e case di riposo) dove sono peraltro presenti soggetti fragili a più alto rischio (anziani e malati cronici)». In Lombardia, il tasso di mortalità – ovvero il numero di morti rapportati alla popolazione dell’area studiata – mostra come, «al di là del numero assoluto più alto e dello sfalsamento temporale, il trend della Lombardia sia notevolmente inferiore alle tre aree a più alta mortalità (New York, Madrid e Bruxelles) ed in linea con Parigi e Londra, anche se qui le aree di riferimento hanno una superficie inferiore». Questo nonostante sia stata investita prima dall’epidemia. Un dato ascrivibile, secondo gli autori dello studio, «al mancato interessamento dell’area metropolitana di Milano». Area in cui, infatti, «gli ospedali non hanno svolto la funzione di moltiplicatore di casi come invece avvenuto altrove in realtà ospedaliere di piccole dimensioni e a bassa densità di cura (ospedali di Lodi e Codogno)». Se si fosse considerata la sola provincia metropolitana di Milano (3,2 milioni di abitanti) «il dato di mortalità sarebbe stato inferiore del 50% circa mentre se fosse stata considerata un’area vasta comprendente le province limitrofe a Milano (5,5 milioni) il dato di mortalità sarebbe stato sovrapponibile a quello regionale». Nonostante, dunque, la Regione Lombardia sia stata la prima area occidentale ad essere interessata dall’epidemia e quindi potenzialmente meno preparata, «ha mostrato dati complessivi di mortalità alti in termini di casi (oltre 10.000), ma inferiori, in proporzione alla popolazione residente, a tre delle sei altre regioni metropolitane considerate e con un tasso di mortalità cumulativa al 30° giorno inferiore di circa il 50% rispetto a New York e alla Comunidad autonoma di Madrid. A tale dato positivo può avere contribuito, come già detto, il fatto che l’epidemia non ha investito il capoluogo metropolitano di Milano ma solo alcune città minori limitrofe tra cui Bergamo, provincia con oltre 1 milione di abitanti. Due possono essere stati i fattori che hanno contribuito positivamente a “difendere” l’area metropolitana a più alta concentrazione di popolazione e con i maggiori interscambi commerciali: da un lato l’efficacia e la tempestività dei provvedimenti di contenimento e mitigazione delle autorità pubbliche che hanno ridotto gli assembramenti e quindi il rischio di contagio tra persone; dall’altro l’efficacia e la sicurezza delle cure erogate dalle strutture ospedaliere che hanno ricoverato i pazienti Covid-19 – conclude lo studio -, giacché in tutto il mondo gli ambiti sanitari sono stati i maggiori propulsori di questa epidemia. Un’ulteriore notazione riguarda l’incremento generalizzato, in breve tempo, di posti letto anche di terapia intensiva verificatasi in tutte le aree considerate, e che ha consentito di far fronte all’emergenza; spicca il fatto che la Lombardia (come la Regione autonoma di Madrid e a Il-de-France) ha più che raddoppiato sia il posti letto ordinari che quelli di terapia intensiva. E che infine le due realtà con sistemi sanitari a base pubblica (Italia e Regno Unito) abbiamo da un lato avuto tassi di mortalità sotto la media, intrapreso accordi formali e riportati nei rapporti ufficiali con la componente ospedaliera privatistica che risulta aver quindi dato un apporto importante alla gestione dell’emergenza». In conclusione, affermano gli studiosi, «non esiste un caso “Lombardia” quanto ad eccesso di mortalità e che il rapido adeguamento della rete di offerta ospedaliera ha saputo far fronte a una rilevante onda epidemica riuscendo fino ad oggi a limitarne la diffusione nell’area a più alta densità abitativa».

Ritardi Lombardia, Gallera contro i medici di base: “Accuse vergognose e prive di fondamento”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. “Le carte non mentono: la Regione Lombardia ha dato piena e pronta attuazione alle linee guida del Ministero della Salute del 22 gennaio che avevano per oggetto le modalità di presa in carico dei cittadini al rientro dalla Cina e i loro contatti che presentavano sintomi riferibili al Covid, trasmettendole a tutti i rappresentanti del sistema socio-sanitario il 23 gennaio Ogni altra ricostruzione su ritardi e omissioni è priva di fondamento, vergognosa e strumentale“. Arriva nel pomeriggio la smentita dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera in relazione alla denuncia dei medici di base, apparsa su alcuni quotidiani, che lamentavano si non aver ricevuto da subito linee guida dalla Regione sull’emergenza coronavirus. “La segnalazione – continua Gallera – era stata diffusa alle Aziende Socio Sanitarie Territoriali e alle Agenzie di Tutela della Salute, alle Case di Cura accreditate, ai direttori di U.O. e di Dipartimento Malattie infettive e laboratori. Le ATS avevano immediatamente informato tutti i Medici di Base e i Pediatri di Libera Scelta. La circolare trasmessa indicava già le procedure di Diagnosi di caso sospetto, le procedure di Segnalazione alle autorità sanitarie”. Secondo la ricostruzione fornita dall’assessore lombardo, il 27 gennaio la Regione Lombardia diramava una nuova comunicazione indicando anche i 17 reparti di malattie infettive che avrebbero preso in carico i pazienti, distribuiti su tutto il territorio regionale. Tale informativa venne trasmessa anche al Presidente degli Ordini dei Medici lombardi. Tant’è’ che pochi giorni dopo, il 20 febbraio, prosegue Gallera, proprio l’Ordine dei Medici di Milano organizzò un convegno specifico su questo argomento, invitando come relatore un rappresentante del Dipartimento di Prevenzione dell’ATS di Milano”. “Prima del caso di Codogno – conclude l’assessore – sono stati eseguiti 100 tamponi a cittadini con i requisiti indicati dalle prescrizioni ministeriali (provenienti dalla Cina, o loro contatti) secondo le procedure stabilite. Le analisi, fino ad allora, avevano sempre dato esito negativo”.

Strage coronavirus in Lombardia, medici contro la Regione: “Sapevano da gennaio”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Il lasso di tempo che va dal 23 gennaio al 21 febbraio, potrebbe essere una delle chiavi per capire perché l’epidemia è stata, ed è, così devastante in Lombardia. In un retroscena, pubblicato su La Stampa, vengono analizzate le azioni intraprese dall’amministrazione regionale e dall’assessore alla Sanità Giulio Gallera a partire dal primo avviso partito dal governo centrale sul rischio di epidemia, datato proprio 23 gennaio, e fino alla prima circolare diramata ai medici base, arrivata un mese dopo e quando il primo caso di Codogno era ormai già stato accertato. Quel giovedì di fine gennaio è il  giorno in cui l’assessore Gallera, convoca la prima riunione della task force della Sanità lombarda per mettere a punto il piano contro il coronavirus. Sulla sua scrivania era appena arrivata una circolare del ministero che lo informava del rischio di un’epidemia. Sui verbali redatti in quell’occasione oggi lavora la Procura per capire se fu fatto abbastanza per tutelare la salute dei cittadini. Dopo quella riunione sarebbero state attivate tutte le realtà sanitarie del territorio, spiegò l’assessore: “I medici di Asst, Irccs, case di cura accreditate, ospedali classificati, medici di famiglia, etc – informò Gallera – devono segnalare i casi sospetti all’Ats di competenza, attraverso procedure informatiche specifiche, gestendo il paziente in stretto raccordo con i referenti delle malattie infettive”. E aggiunse: “Abbiamo nelle scorse ore emanato alcune indicazioni procedurali importanti per i medici di base e per gli specialisti ospedalieri”. Ma quelle indicazioni non arrivarono. “Non abbiamo mai avuto notizia del lavori della task force – dice a La Stampa Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine di Milano – Peccato, abbiamo perso un mese per prepararci all’emergenza”. Una circolare ai medici arriverà, ma solo il 23 febbraio, due giorni dopo lo scoppio del focolaio di Codogno e senza indicazioni sui sintomi della malattia. E in quella data la Lombardia, che un mese prima aveva annunciato di essere pronta ad affrontare l’emergenza, si ritrovò impreparata.

Monica Serra per “la Stampa” il 18 aprile 2020. Un mese prima di Codogno. Per capire davvero quello che è successo in Lombardia in questi quasi sessanta giorni di emergenza bisogna partire da una data: giovedì 23 gennaio. È il giorno in cui l' assessore Giulio Gallera, dopo aver ricevuto una circolare del ministero che informa del rischio di un' emergenza per epidemia, convoca la prima riunione della task force della Sanità lombarda per elaborare il piano preventivo contro il coronavirus. È anche su questo incontro, 28 giorni prima del primo caso nel Lodigiano, che si sta concentrando di chi indaga sulla gestione lombarda dell' emergenza. La documentazione relativa a quella riunione potrebbe essere decisiva infatti nelle inchieste aperte dalla procura di Milano sul caso delle morti sospette nelle residenze per anziani. Durante i lavori della task force, come comunicato dalla stessa Regione, insieme ai responsabili dell' Ats, e di Malattie infettive degli ospedali, sarebbero state attivate tutte o quasi le realtà del territorio. «I medici di Asst, Irccs, case di cura accreditate, ospedali classificati, medici di famiglia, etc - dichiarò all' epoca l' assessore Gallera - devono segnalare i casi sospetti all' Ats di competenza, attraverso procedure informatiche specifiche, gestendo il paziente in stretto raccordo con i referenti delle malattie infettive». Dunque, la Regione, un mese prima dell' esplosione della pandemia sa che esiste un rischio concreto per il coronavirus. Ma che cosa fa? Annuncia l' elaborazione di un «raccordo operativo» con medici di base e pediatri del territorio. «Abbiamo nelle scorse ore - dice sempre Gallera - emanato alcune indicazioni procedurali importanti per i medici di base e per gli specialisti ospedalieri, in costante raccordo con il Ministero della Salute». Quelle "linee guida" però, come dichiara il presidente dell' Ordine di Milano, Roberto Carlo Rossi, «ai medici di base non sono mai arrivate. E non abbiamo mai avuto notizia del lavori della task force. Peccato, abbiamo perso un mese per prepararci all' emergenza». Quindi, l' assessore Gallera sostiene in gennaio di aver lavorato «in raccordo» con i medici di base che però dicono di non saperne nulla. Vengono acquistate mascherine? Gel sanificatori? Altri dispositivi di protezione sanitaria? Non se ne ha notizia e comunque quando il primo caso di coronavirus si manifesta a Codogno, si scopre che la Lombardia non è pronta e va nel panico: ci vogliono giorni prima che vengano attrezzati i reparti negli ospedali, i corridoi di ricevimento e, soprattutto, venga distribuito al personale sanitario, medici di base compresi, l' attrezzatura idonea per mettersi al riparo dal virus. Perché se quindi c' era stata una riunione che aveva stabilito delle «linee guida» queste non vengono applicate? Oppure: che linee guida erano? Mistero. Ieri la Regione, pur interpellata, non ha dato risposte. Certo è che se gli interventi fossero stati pianificati il giorno in cui venne fatta la riunione, ovvero il mese prima che la Lombardia venisse travolta, forse si sarebbero potuti evitare i provvedimenti urgenti nel pieno della crisi sanitaria. Come, ad esempio, l' ormai famosa delibera dell' 8 marzo che chiedeva alle rsa di accogliere pazienti Covid «a bassa intensità» per liberare posti letto negli ospedali ormai allo stremo. Decisione ora sotto al lente d' ingrandimento dell' inchiesta della Procura sui morti nei centri per anziani. Anche il governo per altro era ben consapevole del rischi che poteva correre il Paese, visto che Il 22 gennaio, mentre da Wuhan rimbalzavano le immagini del lockdown, il ministero della Salute convocava il primo vertice con Direzione generale per la prevenzione, dalle altre direzioni competenti, Istituto superiore di Sanità, Nas dei carabinieri. Da quel tavolo era partita una circolare a tutte le regioni italiane per predisporre piani sul territorio contro il Covid19. Il 31 gennaio Gallera annuncia che «i lavori della task force sono al completo e la macchina è pronta. Attende indicazione dal Ministero». Ma la prima circolare ai medici di base è solo del 23 febbraio, due giorni dopo Codogno, e non contiene indicazione suoi sintomi della malattia.

Tutto Travaglio. Lombardia. Fontana scarica uffici e Rsa. Ma per i Covid pagava triplo. Il governatore difende la delibera che chiedeva posti nelle case di riposo per i pazienti positivi: “Toccava a loro e alle Ast decidere”. Natascia Ronchetti Il Fatto Quotidiano il 18 aprile 2020. L’operazione scaricabarile sulla famosa delibera dell’8 marzo, con la quale la Regione Lombardia ha disposto il trasferimento dei pazienti Covid in via di miglioramento nella case di riposo, è iniziata. “La delibera è stata proposta dai nostri tecnici – ha detto ieri il presidente della Regione, Attilio Fontana –. I nostri esperti ci hanno riferito che a determinate condizioni, e cioè che esistessero dei reparti assolutamente isolati dal resto della struttura e addetti dedicati esclusivamente ai malati Covid, la cosa si poteva fare”. I tecnici sono i dirigenti del settore Welfare della Regione, a partire da Luigi Cajazzo, direttore generale: e infatti la proposta di delibera è stata messa sul tavolo della giunta direttamente dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Poi c’è la questione relativa ai controlli, cioè alla verifica che effettivamente le Rsa che hanno aperto le porte ai malati Covid avessero i requisiti richiesti: tutto in capo alle aziende sanitarie – dice adesso Fontana –, vale a dire alle Ats. In Regione spiegano che il percorso è stato limpido, trasparente, regolare; che la delibera è arrivata, come sempre avviene, dopo una istruttoria tecnica: anche se con l’approvazione scatta contemporaneamente anche un’altra responsabilità, quella tutta politica. Ma tant’è. Così, mentre procede l’indagine della magistratura, il cerino viene dato in mano ai cosiddetti tecnici, alle aziende sanitarie e, per ultime, alle stesse case di riposo. Sulle quali la Regione indaga con due sue commissioni: una sul Pio Albergo Trivulzio, l’altra sulle stesse Rsa. Alle aziende sanitarie è già stata chiesta una relazione, qualcuna l’ha già inoltrata. Lo hanno fatto quelle che hanno competenza sulle aree dove sono presenti le case di riposo che hanno effettivamente accolto pazienti Covid. Si sa, sono solo 15 su oltre 700 (dati diffusi dalla stessa Regione), delle quali sei nel Bergamasco, tre in provincia di Mantova, due nel Lodigiano, una in provincia di Brescia, una a Milano. Poi ci sono Sondrio, Pavia…Proprio nel Bergamasco, una delle zone più colpite dal contagio, c’è chi ha aggiornato puntigliosamente i conti della mattanza dei nonni. È la Cgil. “Dal primo marzo alla prima metà di aprile, 1.326 decessi, il 24% del totale degli anziani ospiti”, dice il segretario provinciale Gianni Perecchi –. Abbiamo fatto una ricognizione noi, perché l’Ats di Bergamo i numeri non ce li fornisce”. E dire che fino a pochi giorni fa, ufficialmente, gli anziani morti erano meno della metà: 600. Perecchi è tra quelli che non ci stanno al gioco del rimpallo. Perché se è vero che le case di riposo sono strutture private, come sottolinea la Regione, è anche vero che operano su accreditamento, con un contratto di budget, condizione che le mette anche, inevitabilmente, in una posizione di subalternità. “La Regione ha una funzione di controllo, di sorveglianza e di supporto – prosegue Perecchi –. E ricordo che alle Rsa che a fine febbraio avevano chiuso agli accessi per prudenza, ordinò la riapertura, mandando degli ispettori attraverso l’Ats. Nella nostra provincia le case di riposo di pazienti Covid ne hanno accolti una settantina. L’operazione, voluta per alleggerire gli ospedali, non ha dimostrato nemmeno efficacia”. Al gioco si sottraggono anche le associazioni delle Rsa, come Uneba, a cui ne fanno capo in Lombardia circa quattrocento: “Fino al 30 marzo la Protezione civile requisiva le mascherine destinate alle case di riposo – dice il presidente Luca Degani -, solo adesso che il dramma è esploso le cose sono cambiate. La verità che si doveva porre fin dall’inizio grande attenzione a queste strutture perché hanno in carico le persone più fragili”. È ancora Degani a ricordare che l’accreditamento da parte della Regione può essere sospeso o revocato. “È già successo”, dice. E quando questo avviene viene meno quel contributo pubblico, da parte del sistema sanitario regionale, che per ogni anziano oscilla tra i 29 e i 49 euro al giorno, a seconda delle patologie. Questione non irrilevante, visto che sullo sfondo resta il tema del rimborso previsto dalla Regione come retta giornaliera per ogni paziente Covid degente: 150 euro, più del triplo della tariffa massima prevista. Quanto alle commissioni di indagine, tutte le associazioni hanno chiesto di essere ascoltate. “Una cosa è certa – dice Degani –. C’è stata difficoltà a cogliere il rilievo di luoghi di rischio come le nostre strutture”. L’operazione scaricabarile sulla famosa delibera dell’8 marzo, con la quale la Regione Lombardia ha disposto il trasferimento dei pazienti Covid in via di miglioramento nella case di riposo, è iniziata. “La delibera è stata proposta dai nostri tecnici – ha detto ieri il presidente della Re...

Coronavirus: Veneto e Lombardia, due modelli di sanità e un dibattito da aprire. Cristiano Puglisi il 7 aprile 2020 su Il Giornale. A ormai un mese dall’inizio del “lockdown” italiano per il Coronavirus, mentre il leader della Lega Matteo Salvini invoca la riapertura delle chiese, il governatore lombardo Attilio Fontana, pure lui del Carroccio, impone ai cittadini della sua regione, la più colpita dal Covid-19 con oltre 9mila morti, l’uscita di casa muniti di mascherina protettiva d’ordinanza. C’è chi ha giustamente elogiato questa scelta, così come la costruzione in tempi record dell’ospedale situato in Fiera Milano, ennesimo e strabiliante successo da annoverare per un territorio che ha sempre fatto dell’eccellenza sanitaria la propria bandiera. Tuttavia, relativamente alla gestione della pandemia, c’è chi è stato meno generoso con la regione simbolo dell’Italia produttiva. Si tratta della prestigiosa rivista Harvard Business Review, edita dall’omonima università americana, che in un articolo dal titolo “Lessons from Italy’s Response to Coronavirus”, ha comparato le scelte adottate dalla Giunta regionale lombarda con quelle di un’altra regione governata dal medesimo schieramento politico: il Veneto del “doge” leghista Luca Zaia. “La Lombardia – dice l’articolo in questione  - una delle aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato da Covid-19. Al 26 marzo (data di stesura dell’articolo, nda), detiene il triste record di quasi 35.000 nuovi casi di coronavirus e 5.000 morti in una popolazione di 10 milioni. Il Veneto, al contrario, è andato molto meglio, con 7000 casi e 287 decessi in una popolazione di 5 milioni, nonostante all’inizio avesse assistito a una rapida diffusione del contagio nella comunità locale. I percorsi di queste due regioni sono stati indirizzati da una moltitudine di fattori al di fuori del controllo dei responsabili politici, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e il maggior numero di casi quando è scoppiata la crisi. Ma sta diventando sempre più evidente che anche le diverse scelte di salute pubblica fatte all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto un impatto. In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili al distanziamento sociale e alle chiusure al dettaglio, il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus. La strategia veneta era articolata su più fronti: test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci; tracciamento proattivo di potenziali positivi. Se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti nella casa di quel paziente e anche i suoi vicini. Se i kit di test non erano disponibili, tutti sono stati messi in quarantena; una forte enfasi sulla diagnosi e l’assistenza domiciliare. Ove possibile, i campioni sono stati raccolti direttamente dalla casa di un paziente e quindi elaborati nei laboratori universitari regionali e locali; sforzi specifici per monitorare e proteggere l’assistenza sanitaria e altri lavoratori essenziali, inclusi i professionisti del settore medico, quelli in contatto con popolazioni a rischio (ad es. operatori sanitari nelle case di cura) e lavoratori esposti al pubblico (ad es. cassieri di supermercati, farmacisti e personale dei servizi di protezione). Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale, la Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo riguardo ai test. Su base pro capite, finora ha eseguito la metà dei tamponi condotti in Veneto e si è concentrata molto più solo sui casi sintomatici(…). Si ritiene che l’insieme delle politiche attuate in Veneto abbia notevolmente ridotto l’onere per gli ospedali e ridotto al minimo il rischio di diffusione di Covid-19 nelle strutture mediche, un problema che ha avuto un forte impatto sugli ospedali lombardi”. Un’analisi, quella della rivista dell’università di Harvard, condivisa anche da Giorgio Palù, virologo e consulente proprio del governatore del Veneto, Luca Zaia. “La Lombardia -ha detto Palù – ha toccato un tasso di letalità del 14% mentre il Veneto è sotto il 5%. Questi sono numeri, ma sono anche due realtà diverse da studiare sotto il profilo demografico, come assetto sociale urbanistico e dimensione iniziale del contagio. Il Veneto ha ancora una cultura e una tradizione della Sanità pubblica, con presidi diffusi sul territorio. La Lombardia, molto meno”. In Lombardia, ha detto ancora Palù, “hanno ricoverato tutti, esaurendo ben presto i posti letto. Il 60% dei casi confermati. In Veneto, i medici di base e i Servizi d’igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato l’affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio”. E anche negli ambienti culturali della destra e filo-leghisti si iniziano a fare i paragoni, senza peli sulla lingua. Un caso, per esempio, è quello di Fabrizio Fratus, sociologo e fondatore, con l’europarlamentare Vincenzo Sofo, del think tank Il Talebano. “È incredibile – ha scritto il sociologo sul proprio profilo Facebook – come Fontana continui a fare la guerra con il Governo quando il disastro sanitario è stato creato in Lombardia con sbagli che ormai sono verificabili, da Codogno i malati furono portati negli ospedali delle province vicine senza gli opportuni accorgimenti. Vogliamo in Lombardia un presidente come Zaia. La sanità aziendale lombarda ha fallito…”. Due modelli di gestione della sanità d’eccellenza a confronto dunque, quello veneto e quello lombardo. Due regioni governate dal centrodestra, dalla Lega. Chi avrà avuto ragione? Per dare una risposta è necessario che il dibattito sulla questione non si esaurisca con l’emergenza, ma continui anche in seguito. Perché la salute, come gli italiani hanno purtroppo appreso in queste ultime e folli settimane, è davvero il bene più prezioso.

Coronavirus, i limiti del sistema lombardo nel confronto con Emilia e Veneto. Laura Pellegrini il 3/04/2020 su Notizie.it. Le diverse risposte all'emergenza coronavirus hanno messo in luce i limiti del sistema sanitario lombardo: il confronto con Emilia e Veneto. Se il Veneto, di fronte all’emergenza coronavirus, ha optato per i tamponi estesi a tutti i casi sospetti e l’isolamento tempestivo delle zone rosse, il sistema sanitario lombardo posto a confronto mostra limiti evidenti. Infatti, i primi casi di Covid-19 sono stati registrati tra il 20 e il 23 febbraio. Dapprima erano coinvolti soltanto Codogno, in provincia di Lodi, Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, e Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. Le due Regioni focolaio erano appunto il Veneto e la Lombardia. Tuttavia, dopo mesi dall’inizio dell’epidemia, in Lombardia si registrano 46mila casi positivi e quasi 8mila morti, mentre in Veneto i contagiati sono 10mila e 532 le vittime. Che cosa ha sbagliato la Regione di Attilio Fontana? Risposte diverse a un problema comune: Veneto, Emilia Romagna e Lombardia hanno fronteggiato l’emergenza utilizzando modelli di contenimento differenti. Quello che emerge dal confronto delle strategie di contenimento del coronavirus, però, sono i limiti del sistema sanitario lombardo. Infatti, la Lombardia conta molti più casi positivi rispetto alle altre Regioni e questo potrebbe derivare da una gestione dell’emergenza in modo poco efficace. Fontana, comunque, aveva denunciato che dal governo aveva ricevuto “solo briciole”, e anche che Bergamo doveva diventare zona rossa. La mancata risposta tempestiva delle istituzioni, sommata alla strategia regionale, potrebbe aver portato il sistema al collasso. Aver conglobato tutti i malati all’interno degli ospedali e non aver disposto la chiusura immediata di Alzano e Nembro, potrebbe aver fatto la differenza. Occorre sottolineare, però, che rispetto a Vo’ Euganeo, che conta circa 4.000 abitanti, la gestione dell’emergenza su una popolazione più estesa è difficile. Tuttavia, anche Piacenza, più popolosa, è riuscita a contenere i casi. “In Lombardia c’è stato anche il fattore sfortuna – dicono gli esperti -, il contagio è entrato negli ospedali cogliendo tutti di sorpresa”. Il tasso di letalità attuale in Lombardia è uno dei più alti al mondo: il 7%. Anche l’Emilia Romagna, seppur in modo minore rispetto alla Lombardia, ha registrato gravi perdite soprattutto nella provincia di Piacenza. “Con grandi difficoltà – ha detto l’assessore alla Sanità dell’Emilia-Romagna, Raffaele Donini – però utilizzando una politica dei vasi comunicanti siamo riusciti a reggere per quanto riguarda i posti di terapia intensiva”. Non appena terminati i posti a Piacenza, i pazienti venivano trasferiti a Parma e poi a Bologna. Non appena venivano identificati nuovi focolai, inoltre, si provvedeva alla delimitazione e alla chiusura degli stessi. Sono in totale 1.811 i morti registrati in Regione, mentre i positivi sono 11.859, la grande maggioranza dei quali è a casa, il 65%. In Lombardia la percentuale è invece del 49%. Anche a Torino e in Piemonte c’è stato un grave scoppio dell’epidemia, forse pagando il prezzo della vicinanza alla Lombardia. Cosa non ha funzionato? Forse il numero di tamponi effettuati: mentre in Veneto sono 120mila, in Piemonte sono appena 32mila.

Da rainews.it il 2 aprile 2020. "E' passato ormai quasi un mese e mezzo dall'inizio dell'epidemia e sostanzialmente da Roma stiamo ricevendo delle briciole. Se noi non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni". Lo ha detto il governatore lombardo Attilio Fontana, intervistato da Radio Padania. "Il numero di mascherine che ci arrivavano dalla Protezione Civile non ci avrebbe consentito di aprire gli ospedali. E' una vergogna questa, non ci è arrivata se non una piccola parte di ciò che avevamo richiesto".  Fontana ha sottolineato che l'assessore regionale al Bilancio Davide Caparini si è dato da fare "dalla mattina alla sera a cercare nei mercati di tutto il mondo mascherine, camici e tutto questo necessario per dotare nostri medici di una protezione". "Noi ce la siamo cavata con i nostri mezzi, senza alcun tipo di aiuto se non in minima parte" ha detto Fontana, spiegando che la Regione come sanità ha "una competenza concorrente ma che si riferisce alla gestione ordinaria. Tanto è vero che non abbiamo neppure fondi per la gestione straordinaria".  Quindi all'inizio dell'emergenza "non abbiamo potuto fare altro che aspettare che da Roma arrivassero istruzioni, risorse e materiali, che stiamo ancora aspettando", ha concluso.

Andrea Senesi per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. Il redde rationem arriva a emergenza ancora in corso e rappresenta il primo vero strappo istituzionale tra la Regione Lombardia governata dal centrodestra e tanti Comuni capoluogo retti da amministrazioni di centrosinistra. Quelle che fino a pochi giorni fa erano accuse sparse e frammentate contro la gestione dell' emergenza da parte della Regione guidata dal leghista Attilio Fontana si sono trasformate in un documento ufficiale, unitario, in cui 7 primi cittadini vicini al Pd chiedono conto di una lunga serie di presunte inadempienze e di ritardi in materia sanitaria. Tra i firmatari, oltre ai sindaci di Bergamo, Brescia e Cremona, le città più colpite dalla pandemia, c' è anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, che fino a oggi aveva evitato scontri frontali con Fontana, riservandosi semmai una critica al modello sanitario lombardo che avrebbe «privilegiato reti ospedaliere, spesso private, rispetto alle reti territoriali». La replica del governatore Fontana non si è fatta attendere: «Il documento è una bieca speculazione politica». Eccole, quelle che eufemisticamente i sindaci chiamano domande ma che sono in realtà precise accuse. «Quando saranno disponibili le mascherine, il cui arrivo è stato promesso da tempo?». Ancora: «Cosa sta facendo la Regione per proteggere il personale sanitario e gli ospiti delle Rsa» colpite duramente come a Mediglia? «Si stanno facendo i tamponi per i plurisintomatici e i monosintomatici come ha annunciato il governatore?». Altra domanda: «Perché la Regione non segue le direttive del ministero e dell' Istituto superiore di sanità che prescrivono di sottoporre a tampone i sintomatici e, qualora questi siano positivi, i loro familiari e i contatti recenti?». Ultimo quesito: «Perché la Regione non ha ancora autorizzato l' avvio della sperimentazione dei test sierologici che altre regioni come il Veneto e l' Emilia-Romagna hanno attivato?». L' esito di tali test - in abbinamento a un' indagine continua attraverso tamponi - «è ritenuto decisivo per certificare l' evoluzione dell' epidemia e l' immunità di chi abbia contratto il virus anche in forma asintomatica». Seguono le firme di 7 sindaci: per Bergamo Giorgio Gori, per Brescia Emilio Del Bono, per Cremona Gianluca Galimberti, per Lecco Virginio Brivio, per Mantova Mattia Palazzi, per Varese Davide Galimberti e per Milano Beppe Sala. Sette su dodici. Manca chiaramente la firma dei sindaci di Como, Sondrio, Monza, Pavia e Lodi, città in mano al centrodestra. Un attacco sotto la cintura per Fontana: «Non c' è peggior sordo di chi non vuole ascoltare. Se poi la "lezioncina" arriva da chi non ha competenze scientifiche dirette, la cosa diventa, per pura e bieca speculazione politica, ancora più inopportuna e per certi versi triste. Un modo di comportarsi irresponsabile per chi ricopre un ruolo istituzionale». Quello dei sindaci è «un atteggiamento sconsiderato, proprio nel giorno in cui ho ricevuto una telefonata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di plauso per tutto quello che stiamo facendo - continua Fontana - e anche per condividere l' opportunità di mantenere solido il fronte istituzionale». Speculazione politica per il governatore leghista. Concordata e premeditata. «L' obiettivo - conclude Fontana - è tenere alta la polemica contro la Regione, impegnata invece 24 ore su 24 a contrastare il virus». «Nessuna speculazione e nessuna polemica -replica Sala -. Il punto è se le nostre domande sono vere».

Lombardia. Gianfrancesco Turano il 30 marzo 2020 su L'Espresso. Venerdì 27 marzo sul far della sera ricevo e volentieri non pubblico la foto che mi manda una mia cara amica, medico di base in Valtellina (Ast Montagna). Il contenuto non sono i flaconi ma le mascherine che la Regione Lombardia ha finalmente inviato. Il kit, oltre a tre mascherine Ffp2, contiene qualche camice monouso, calzari e un centinaio di maschere usa e getta metà delle quali definite “di carta velina”. Fino a tre giorni fa il sostegno al lavoro di un medico che ha in cura i vecchietti non autosufficienti isolati nei paesini e nelle frazioni è stato zero. Zero dalla Regione, dallo Stato, dalla Protezione civile, dall'Organizzazione mondiale della sanità e chi più ne ha più ne metta. La mia amica ha provveduto con mezzi propri acquistando le mitiche Ffp2-Ffp3 su Amazon al prezzo eccezionale di 27 euro cada. Per una quarantina di giorni dalla scoperta del paziente 1 a Codogno, non è arrivato nulla incluso lunedì 23 marzo quando il commissario straordinario Domenico Arcuri aveva promesso che tutto il personale sanitario italiano sarebbe stato dotato dell'indispensabile. Di storie come queste i giornali sono pieni e, in fondo, la Valtellina con i suoi 200 mila abitanti spesso sparsi in paesi e paesini ha ancora numeri ridotti (422 positivi il 29 marzo). Niente a paragone degli 8587 casi di Bergamo, degli 8329 di Milano e degli 8013 di Brescia. Per quanto lontana dall'epicentro, in Valtellina i morti sono oltre 50 con un tasso di letalità in linea rispetto alla media regionale. A fronte di questo disastro generalizzato, sembra difficile insistere sulla litania dell'eccellenza sanitaria lombarda, soprattutto rispetto ai numeri più contenuti delle regioni confinanti (Piemonte, Emilia, Veneto). Eppure la coppia Fontana-Gallera non se ne dà per intesa e ogni giorno snocciola i miracoli che gli operatori compiono non grazie a loro ma nonostante loro. È triste contraddire i reggitori della Regione ma la gestione del Covid-19 Lombardia è un manuale di tutto quello che non si deve fare condito di affermazioni stravaganti in diretta tv come quella che i medici di base possono fare i tamponi mentre non riescono a ottenerli nemmeno per se stessi finché la loro salute non è molto vicina al punto di non ritorno (23 su 209 medici di base nella provincia di Sondrio sono a casa malati). Provvedimenti come la chiusura di enoteche e ristoranti alle 18 – il virus è fotolabile come i vampiri – o l'aperitivo servito al tavolo ma non al banco entreranno nella storia insieme alla Fiera del fieno di Nembro che è stata un volano di contagio insieme a una certa balera di Codogno frequentata da gente di Orzinuovi e da cremaschi, secondo quanto Gallera ha scoperto con l'aiuto della sua task force investigativa. Il lodato modello lombardo è da decenni un caposaldo della lottizzazione politica. Gli uffici amministrativi delle aziende sanitarie sono pieni di manager cresciuti nella cultura dei tagli a ogni costo, quella che ha chiuso i cosiddetti “ospedalini” o li ha ridotti in condizioni di non nuocere (al virus), come a Lodi o a Codogno, quando non li ha trasformati in amplificatori, come l'ospedale di Alzano in Val Seriana. Lo schema è ormai noto: tagliare sul pubblico per girare i fondi alle strutture private in convenzione. È noto anche il risultato: a ieri 41007 casi di Covid-19, forse un quinto del reale, 6360 morti (più altre centinaia non contabilizzati) e un tasso di letalità da record mondiale (15,5%) in costante salita (era il 9% il 13 marzo). Ieri Gallera ha affermato che «l'ultimo dato che migliorerà saranno i deceduti». Non ha spiegato perché. Appunto per la cronaca, la serie settimanale dei morti andando indietro dai 416 di ieri è la seguente: 542, 541, 387, 296, 402, 320. Questo numero di decessi non vorrà dire che il sistema è ingorgato e che moltissimi malati vengono ricoverati quando c'è poco o nulla da fare? Lo chiederemmo volentieri ma le conferenze stampa del pomeriggio in Regione avvengono senza contraddittorio con i cronisti, come invece accade in Protezione civile. La situazione disastrosa potrebbe essere peggiore se l'Italia intera non fosse venuta in soccorso della regione più colpita. Com'è giusto, la massa dei dispositivi di terapia e prevenzione è stata spostata da sud a nord, sguarnendo regioni molto meno attrezzate ma più solidali. Il momento è forse inopportuno però il ricordo corre a decenni di egoismo economico-fiscale perseguito in massima parte dalla politica leghista e berlusconiana con il sostegno di qualche utile idiota impegnato a mostrare che il federalismo è di sinistra, basta leggere Cattaneo. Non c'è bisogno di appartenere alla bizzarra setta dei neoborbonici per raffigurarsi che cosa sarebbe accaduto se il Covid-19 fosse partito qualche centinaio di chilometri più a sud. Non serve nemmeno l'indovino. La base leghista locale, dai governatori ai sindaci, avrebbe detto “arrangiatevi” mentre il Degustatore Salvini avrebbe prodotto quel minimo di controcanto necessario a non giocarsi il pur modesto consenso elettorale costruito a fatica dopo tre decenni di razzismo a spron battuto. Oggi, nel momento del bisogno, il contrappasso mostra l'utilità dei soggetti un tempo non graditi, meridionali, albanesi, comunisti assortiti da Cuba e dalla Cina, che sono corsi ad aiutare. La risposta al virus è nel coordinamento, nella centralizzazione strategica. In breve, nell'Unità d'Italia. Se lo capisse anche l'Unione europea, eviterebbe un imminente suicidio.

PS. A proposito di ricordi, da giorni mi ronza in testa un frammento del discorso di Conte alla Camera del 25 marzo. A un certo punto, Giuseppi dice che non avevamo a disposizione una normativa sull'emergenza sanitaria e che il suo governo l'ha dovuta costruire in corso d'opera a colpi di decreti. È una mia impressione o è gravissimo che nel paese emergenziale per eccellenza manchino le norme e le linee guida sull'emergenza? È casuale? A chi giova mettere in piedi un marchingegno legislativo in fretta e furia dopo il cataclisma anziché prima? Infine come mai la Lombardia non ha mai messo in pratica (implementato, si dice in managerese lumbard) il sistema di risposta all'emergenza “suina” (virus H1N1) abbozzato nel 2009, come documenta Gianni Santucci nella cronaca di Milano del Corsera del 29 marzo? Grazie delle risposte.

Lombardia imprese. Suscita scandalo un video motivazionale di Urbano Cairo, alessandrino di nascita ma milanese adottivo al punto di poter essere confuso con il suo mentore, e Nostro Caro Leader, quando parla. Molti hanno parlato di cinismo. A me ha colpito la telefonata che dice di avere fatto in Polinesia al commendator Zanetti di Segafredo. Mi è apparso Alberto Sordi del Vedovo: “uèla, Zanètti, cuza fai chì a Tahiti con sto caldo”.

Lombardia cronaca cittadina. Il prefetto del capoluogo di regione, Renato Saccone, dichiara alla stampa che i vecchi di Milano stanno ancora troppo in giro e fanno la spesa per futili motivi due volte al giorno. L'allarme sull'ordine pubblico è reale. Li vedo anch'io questi criminali. Stanno lì con le loro sporte su ruote. Mentre aspettano fuori stanno subdolamente in fila indiana ma appena entrati nel supermercato ti aggrediscono con le loro secrezioni, allungano le mani sul tuo stesso cavolfiore, ti scippano l'ultima confezione di Orasiv, ti sfilano dal carrello il flacone di Grecian 2000 NoGray. Sanno di delinquere ma se ne fregano. Son pronti a morire nel corridoio degli snack purché crepi Sansone con tutti i filistei. Altro che 'ndrangheta, anarco-insurrezionalisti e rivolte nelle carceri. I vecchi.

Vicesindaco della bergamasca: “Mio padre morto di coronavirus, per 9 giorni senza tampone”. Le Iene il 30 marzo 2020. Il vicesindaco di Valbondione (Bergamo) racconta il mancato test per il papà, dimesso dopo 9 giorni, ricoverato dopo 5 ore e trovato solo allora positivo. E denuncia: “Pressioni di grandi imprenditori per evitare la zona rossa tra Alzano e Nembo: ha vinto il fattore economico su quello umano”. Parla di questo “maledetto virus” e all’inizio si dice al massimo “innervosito” in video, Walter Semperboni, mentre denuncia “un fatto grave”. Era il 21 febbraio, il giorno in cui l’epidemia di coronavirus stava esplodendo in tutta Italia: “A mio padre di 80 anni appena ricoverato per polmonite nessuno ha pensato di fare un tampone per nove lunghi giorni. Non solo, il 1° marzo è stato pure dimesso, salvo poi dover tornare d’urgenza dopo 5 ore in ospedale. Dopo 16 ore in pronto soccorso si scopre che ha il coronavirus, di cui è morto poi dopo 13 giorni di agonia”. Walter Semperboni racconta la storia di papà Antonio Luigi con la compostezza dell’uomo di montagna, aggiunta al rispetto per il suo ruolo istituzionale di vicesindaco di Valbondione, in mezzo alla Val Seriana e a quelle terre del Bergamasco devastate dalla pandemia. “Finora né a me né a mia madre è stato fatto il tampone, come a tutti i familiari delle vittime e qui nella Val Seriana purtroppo ne contiamo a centinaia”, ci dice al telefono tra commozione e rabbia. “Le nostre valli sono piene di gente operosa e rispettosa delle istituzioni che da queste si è sentita derisa e abbandonata. Si è parlato e si parla ancora di una zona rossa qui tra Alzano e Nembro: non è stata istituita per le pressioni di grandi imprenditori e di grandi marchi. Si è deciso di prediligere il fattore economico a quello umano, mandando a morte sicura i nostri anziani, la nostra storia, che qualcuno continua a definire solo vecchi”. “Chiedo con un grido rispetto per noi montanari, chiedo che i nostri ospedali vengano potenziati con strumenti adatti, qui mancano le mascherine, manca l’ossigeno”. Ora è la commozione a vincere: “Perché altri figli non debbano sentire l’ultimo appello telefonico del padre che racconta come è stato parcheggiato in un letto d’ospedale e lasciato lì a morire. Senza nemmeno poi il diritto a un ultimo abbraccio, a un ultimo saluto, a una degna sepoltura”.

Coronavirus: padre in ospedale e fratello malato, ma niente tampone. Cecilia Lidya Casadei il 26/03/2020 Notizie.it. Il padre di Manuela è in ospedale, positivo al Coronavirus. Suo fratello invece è a casa, malato: non gli fanno il tampone. Manuela vive a Brescia, suo padre è ricoverato in ospedale col Coronavirus e suo fratello è malato, ma di tampone non se ne parla. La sua famiglia si trova in quarantena domiciliare, con quello che potrebbe essere un altro caso positivo: senza test o finché la situazione non dovesse peggiorare, non lo sapranno mai. Il fratello di Manuela presenta tutti i sintomi del Coronavirus ma, alla richiesta di test per accertarlo, si è sentito rispondere che viene fatto solo agli ospedalizzati. “Ci hanno detto che se c’è un peggioramento dobbiamo contattare il medico di base o andare in ospedale”, spiega la donna, “quando probabilmente il virus ti ha già compromesso i polmoni, senza la possibilità di potersi sottoporre ad alcun accertamento”. Il padre è stato ricoverato presso la Fondazione Poliambulanza di Brescia il 15 marzo, per poi essere spostato in terapia intensiva. Manuela e la sua famiglia si trovano in quarantena presso il loro domicilio dal 29 marzo. Lei e suo fratello hanno richiesto un tampone per poter curare il Coronavirus sin dalla prima fase. “È come se ci stessero praticamente condannando a morte. Lo sapete che c’è gente che muore a casa?”, dice la donna. Una situazione similare la stanno vivendo gli anziani e il personale sanitario nelle case di riposo di tutta Italia. Ci sono strutture in cui gli ospiti muoiono ogni giorno, registrando numeri spaventosi, eppure non si parla di tamponi né avviene ospedalizzazione. Uno dei casi più conclamati è quello della Residenza Fondazione Santa Chiara di Lodi, dove in un solo mese ci sono stati 43 decessi. 

L'allarme dei sindaci lombardi: "Sui morti i conti non tornano". I sindaci delle città lombarde colpite da Covid fanno i conti con i lunghi elenchi dei morti: ecco cosa non torna in questi numeri. I dati più eclatanti riguardano le case di riposo. Francesca Bernasconi,  Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. "Il numero reale delle vittime è di oltre due volte e mezzo quello certificato ufficialmente". A lanciare l'allarme era stato Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo, tra le città più colpite dalla pandemia di coronavirus. E ora, la stessa situazione sembra emergere in altri Comuni lombardi, secondo quanto denunciato da alcuni sindaci, sentiti da Agi. "Lo scorso anno, dal 23 febbraio al 27 marzo erano morte 24 persone, quest'anno sono 145- ha spiegato il sindaco di Albino, in provincia di Bergamo- tra i deceduti, quelli con coronavirus certificati sono 30. È chiaro che i conti non tornano". Sempre nella stessa provincia, registra record di vittime anche San Pellegrino Terme, dove "dal primo marzo si sono contati 45 morti di cui 11 con coronavirus accertato da tampone. Lo scorso anno, erano mancate solo due persone". E a Scanzorosciate, dall'inizio dell'emergenza sono 135 i morti, 90 in più rispetto allo scorso anno. Secondo quanto ha sottolineato il sindaco, Diego Vairani, "i dati reali di positivi e deceduti nel Comune, discordanti rispetto a quelli della Regione che arrivano dopo, vengono ricavati grazie alla rete di medici e farmacisti di buona volontà che operano sul territorio". E tra i decessi, "quelli Covid sono non più di 20, una minima parte- spiega il primo cittadino- in linea con quello che sostiene Gori. Da tenere conti che di quei 135, 80 sono deceduti nella casa di riposo, di cui solo alcuni residenti nel mio paese". E proprio nelle case di riposo sembra risiedere una buona parte dei possibili casi sommersi. A Soresina, infatti, "sono mancati 18 residenti con Covid, qualche unità in più rispetto allo scorso anno. Il dato più eclatante riguarda la casa di riposo dove nel 2019 ne morirono 2, quest'anno oltre la decina. Di questi ipotizziamo, ma non c'è il tampone, che molti siano deceduti col virus". Situazione simili si registra anche a Mediglia, nel Milanese: "Non ho una stima precisa - ha rivelato il sindaco del paese- ma posso affermare che i morti sono più del triplo dello scorso anno dall'inizio dell'emergenza. Sono 61 i deceduti nella casa di riposo più altre 8 persone. Quanti di Covid? Non lo so, sono i famosi dati 'disallineati' che ci arrivano sempre in ritardo e senza referti medici da parte di Ats Città Metropolitana". Situazioni drammatiche anche a San Giovanni Bianco (Bergamo), dove sono morte 42 persone, quasi tutte certificati come decessi Covid-19, e a Castelleone (Cremona), dove dal primo marzo sono decedute 25 persone. In Lombardia c'è anche il caso di Codogno, primo Comune in cui è emerso il virus. Qui i morti sono stati 125, contro io 51 dello stesso periodo dello scorso anno: "Quanti siano morti col virus non si sa- spiega il sindaco-quelli in caso di riposo non sono sottoposti al test. Ma non sono convinto che questo sia un errore perchè, a quanto mi dice Ats, la contagiosità va analizzata nelle prime 24 ore dal decesso, dopo la vitalità quasi sicuramente scompare. Quindi molto dipende dalla tempistica". Anche nel Comasco, una delle province meno colpite, i dati sui decessi si discostano da quelli dello scorso anno: a marzo, infatti, "ci sono stato 51 morti, nel 2019 erano 24". Va tenuto presente però, che in uno degli ospedali della città hanno perso la vita i residenti in altri comuni. Tra le vittime, quelle "certificate" come casi di coronavirus sono 5.

Il disastro coronavirus in Lombardia era già scritto in un audit del 2010, mai applicato. Anzi: una delle colonne su cui si basava (Asl) è stata smantellata. Andrea Sparaciari su it.businessinsider.com il 6 aprile 2020. Un piano che si era già dimostrato ampiamente inefficiente e che non è mai stato “sanato”. Oltretutto basato su un architrave non più esistente, a seguito di una riforma strutturale del sistema sanitario regionale che ha smantellato le Asl e il ruolo dei medici di famiglia (cioè la medicina di prossimità) a favore della centralità degli ospedali. È l’arma che Regione Lombardia teneva nel cassetto, pronta a sfoderare in caso di pandemia. Una pistola a salve che infatti ha fatto cilecca quando è esploso il Covid-19. Sia perché non si erano mai sanati gli errori e le disfunzioni palesatesi durante la pandemia di H1N1 del 2011 – allora appena, conclusa senza le devastanti conseguenze del Corona virus, ma, pur sempre una pandemia –, sia perché il vuoto lasciato dalla medicina di prossimità non è stato occupato da nessuno. Una lacuna incomprensibile, perché si suppone che se rivoluzioni un sistema, ti preoccupi di modificare tutto ciò che su quel sistema si basa. In Lombardia sembra che invece non sia stato così. Lo si evince dalla lettura della “Valutazione Piano Pandemico Regionale e attività realizzate durante le fasi 3-4-5-6 della Pandemia da Virus Influenzale A/California/7/2009 H1N1”, datato 22 dicembre 2010. Il documento licenziato ancora sotto Roberto Formigoni “si impone come una attenta riflessione ed analisi per procedere ad una eventuale “manutenzione” del Piano Pandemico Regionale, affinché si faccia tesoro delle criticità insorte e delle soluzioni individuate nel corso d’opera e ritenute più adeguate all’evento rispetto a quelle programmate nel piano”. In parole povere, si tratta di una sorta di audit che analizzava i successi e gli insuccessi dell’allora Piano Pandemico Regionale esistente rispetto alla pandemia di H1N1, datato 2009. Così il documento riporta e confronta “le azioni previste, quelle realmente attuate nel corso dell’influenza, le motivazioni dello scostamento”. E di “scostamenti” se ne erano registrati parecchi. Per esempio il piano (sulla carta) prevedeva di “definire modalità di rilevazione campionaria di: accessi al pronto soccorso e ricoveri; mortalità, assenteismo lavorativo e scolastico”, insomma il modo per dare alla cabina di regia regionale il quadro generale della situazione sanitaria. Peccato che nella colonna delle disfunzioni si legga: “Non fornite indicazioni specifiche. Non identificato il campione rappresentativo. Non avviata la sorveglianza su assenteismo lavorativo. Non avviato un sistema di rilevazione degli accessi di mortalità”. E ancora, alla voce “Censire e monitorare i posti letto U.O. (unità operative, ndr) malattie infettive e reparti di medicina”, si annota “I piani ASL/strutture sanitarie non erano aggiornati; in alcuni casi non presenti o poco operativi i piani ospedalieri”. Peggio va per la “definizione delle modalità di incremento dell’assistenza domiciliare integrata” (cioè quella che tutt’oggi la Lombardia non fa, ma che tutti indicano come fondamentale per contenere il contagio e non intasare gli ospedali), che già allora registrava “un’assenza di azioni specifiche”. Così come si era fallito nell’aggiornamento e nella comunicazione capillare a ospedali e Asl delle indicazioni nazionali e internazionali dei Piani di Terapia (“i tempi di realizzazione non sono stati coerenti con la domanda legata alla situazione di emergenza”). Pesanti carenze riguardavano anche i rapporti con le Residenze sanitarie assistenziali, le tristemente note Rsa, le case di riposo dove oggi si stanno registrando decine di decessi, dopo che accanto a pazienti già gravemente segnati da patologie pregresse sono stati affiancati pazienti Covid positivi, con l’effetto di aver fatto esplodere il contagio tra gli anziani e il personale. Già nel 2011 il piano prevedeva di “Definire accordo-quadro gestori RSA per aumento assistenza medica ed infermieristica finalizzata al contenimento dei ricoveri”. Tuttavia si era registrata un’“assenza di azioni specifiche”. Ma il documento è prezioso anche per dirimere una delle polemiche più infuocate che nell’ultimo mese e mezzo ha accesso il dibattito nella regione più colpita dal Corona virus: a chi spettasse l’onere di provvedere ai dispositivi di sicurezza individuali, ovvero mascherine, camici, guanti ecc…, se alla Regione o al Governo centrale. Al riguardo il documento è molto chiaro, stabilendo chi dovesse fare cosa. Nella sezione “Misure Generali” si legge infatti che a “Regione Lombardia” spettava di:

“Definire in base ai differenti livelli di allarme ed in coerenza con le indicazioni nazionali l’adozione di misure generali come:

utilizzo mascherine in ambito sanitario;

Limitazione raduni o accesso a strutture sanitarie e socio-sanitarie da parte di visitatori;

Interruzione della frequenza scolastica.

Le Asl, invece, avevano il compito di definire:

Il fabbisogno dei presidi di protezione,

Le modalità di approvvigionamento, stoccaggio, distribuzione,

Le dotazioni di un quantitativo adeguato di scorta per la distribuzione ai MMG (Medici di Medicina generale) e PLS (Pediatri di libera scelta).

Nb: per l’ambiente ospedaliero ciascuna struttura di ricovero dovrà provvedere in proprio.

Non solo, Regione Lombardia doveva anche provvedere all’“individuazione dei siti di immagazzinamento e del piano di distribuzione per il conferimento entro 4 ore nei siti di richiesta” dei farmaci antivirali, mentre le Asl dovevano “definire un piano di stoccaggio e distribuzione (dei farmaci, ndr), comprensivo di accordi con farmacie e distributori intermedi per il conferimento celere dei farmaci”.

Un’annotazione che oggi assume forte importanza perché la linea distributiva dei farmaci di allora è la stessa delle mascherine – le 3 milioni promesse dal presidente Attilio Fontana domenica 5 aprile – di oggi. Tuttavia neanche quel compito era stato svolto senza intoppi: “Il Piano prevedeva che questi strumenti fossero già disponibili al verificarsi del passaggio 4 (cioè nelle prime fasi di emergenza, ndr): sono stati creati strada facendo con grande dispendio di energie/risorse”. Inoltre, aggiungono gli autori, “non è stata utilizzata la rete delle farmacie e dei distributori intermedi per il conferimento ai punti del territorio”. Non certo un buon viatico per la distribuzione dei presidi annunciata a partire da lunedì 6 aprile ma fatta slittare al 13. Ma, a parte i singoli punti, a colpire è che il Piano pandemico regionale del 2 ottobre 2006, aggiornato il 16 settembre 2009 e rivisto nel 2011 e da allora mai più toccato, si basava su due soggetti: i vertici regionali con un ruolo direttivo e le Asl come braccio operativo. Ma, con la riforma della sanità varata da Regione Lombardia nel 2015, le Asl sono sparite, divenendo Ats (Agenzie di tutela della salute), si sono cioè trasformate da braccio attivo della politica sanitaria ad agenzie di mero controllo burocratico e amministrativo (da qui il temine “agenzia”) sull’attività degli ospedali. Il loro ruolo è stato trasferito ai nosocomi (divenuti contemporaneamente ASST, Aziende socio sanitarie territoriali), senza che però fossero passati loro tutti quei compiti operativi originariamente in capo alle Asl. È così che si è determinato quel cortocircuito che ha causato l’impreparazione dimostrata dalla regione più ricca d’Italia nel combattere la pandemia di Corona Virus e che è costata tante vite tra sanitari e pazienti.

Pandemia, quel piano da 10 anni nel cassetto e le misure inapplicate. Per fronteggiare i rischi causati dall’influenza suina tra il 2009 e il 2010 la Regione studiò una strategia. Medici di base e Rsa: i «buchi» nelle procedure. Gianni Santucci il 28 marzo 2020 su Il Corriere della Sera. Si può partire da una voce banale: «Accordo con i gestori di telefonia per sms con informazioni urgenti». È il punto 5 della tabella. E accanto, nella colonna delle «verifiche», è scritto: «Non effettuato». Poco male (forse): esistono altri canali di informazione. Scorrendo l’elenco, si trova però un’altra «missione»: «Definire accordo-quadro con le residenze per anziani per l’aumento di assistenza medica e infermieristica». Qui la verifica dice: «Assenza di azioni specifiche». Il «buco» di programmazione in questo caso ha avuto però esiti disastrosi: perché quando il Covid-19 s’è insinuato nelle Rsa ha iniziato a provocare centinaia di morti. Se si vuole iniziare a comprendere come è stato affrontato il coronavirus in Lombardia, bisogna leggere un documento vecchio di 10 anni: la delibera della Regione del 22 dicembre 2010 (presidente Roberto Formigoni, assessore alla Sanità Luciano Bresciani). Bisogna farlo perché nelle emergenze si tende a perdere memoria storica, e oggi la parola «pandemia» sembra avere richiami ancestrali che risalgono dal Medioevo, mentre l’Italia e la Lombardia una pandemia l’hanno affrontata in tempi recentissimi, proprio nell’inverno 2009/2010, quando si diffuse il virus «H1N1», la «febbre o influenza suina». La malattia, al contrario di quel che si temeva, ebbe poi un «modesto quadro clinico» e non stressò i servizi sanitari». Ma rappresentò una grande occasione: per legge era prevista già da anni l’elaborazione di un piano pandemico: la Lombardia lo aveva e lo mise in atto. La «febbre suina» si rivelò però un nemico meno aggressivo del coronavirus: e così, senza esiti drammatici, la Regione ebbe la possibilità di fare un test su cosa avesse funzionato e cosa no di fronte a una pandemia reale, non astratta. Quella delibera fu dunque l’occasione per fare il punto, come dice l’allegato di «Valutazione»: «Si impone una attenta riflessione ed analisi per procedere a una eventuale “manutenzione” del piano pandemico, affinché si faccia tesoro delle criticità insorte». In pratica: vediamo dove abbiamo sbagliato e aggiorniamo il piano per il futuro. Oggi, tabella 2010 alla mano, si può verificare come una nuova pandemia sia arrivata e ciò che all’epoca era stato previsto, nel decennio successivo, sia rimasto inapplicato. Anche per questo il Covid-19 sta avendo conseguenze devastanti. I punti chiave sono due, e si stanno rivelando sempre più decisivi: all’epoca si dovevano definire accordi con i medici di medicina generale per «l’ampliamento dell’assistenza in fase 6» (quella di pandemia dilagata). Verifica del 2010: «Non sono stati siglati accordi». Ed evidentemente il tema non è stato affrontato neanche nel decennio successivo, se (come documentato dal Corriere) fino a pochi giorni fa i medici di base sono rimasti senza alcuna linea guida chiara su come trattare i pazienti sospetti di coronavirus in casa, e soltanto con una delibera regionale del 23 marzo sono stati in qualche modo «collocati» nel sistema. Era poi indicato come necessario un incremento dell’assistenza domiciliare, che nel 2010 mancò: «Assenza di azioni». Il Covid-19 ha dimostrato quanto sarebbe stato invece fondamentale (come ripete da giorni il professor Massimo Galli dell’ospedale «Sacco») avere una rete efficiente di medicina del territorio, per isolare in anticipo i casi sospetti e curarli prima della necessità di un ricovero. Nel decennio trascorso però il piano pandemico lombardo, nei suoi tratti essenziali, è stato abbandonato: con tutte le lacune che erano definite già nel 2010.

Gli affari del San Raffaele: tra Alfano, Maroni e la Libia ecco i segreti dell'ospedale dei vip. Non solo Briatore e Berlusconi. Decine di miliziani feriti nella guerra civile  sono stati curati nella struttura di proprietà della famiglia Rotelli. Che ha finanziato in Svizzera un mediatore già in affari con il regime di Gheddafi. E intanto nei consigli di amministrazione delle società del gruppo sono entrati i due ex ministri, la moglie di Bruno Vespa e il fratello della presidente del Senato Casellati. Vittorio Malagutti il 4 settembre 2020 su L'Espresso. Decine di voli segreti tra Tripoli e Milano. La mediazione della Santa Sede. Un grande ospedale privato italiano che accoglie i reduci della guerra civile libica. E poi le manovre della diplomazia parallela che unisce gli apparati di sicurezza italiani e i governi del Nordafrica, tra mediatori d’alto bordo come il finanziere tunisino Kamel Ghribi, banchieri, uomini d’affari e l’ex ministro degli Esteri Angelino Alfano. Ci sono tutti gli ingredienti dell’intrigo internazionale in questa storia che ruota attorno a un centro d’eccellenza della sanità italiana come il San Raffaele, controllato dal gruppo San Donato della famiglia Rotelli. Il primo capitolo risale a gennaio di quest’anno, quando alcuni articoli di giornale raccontano che decine di miliziani libici, reduci dai campi di battaglia, vengono curati a Milano. Nessuno, però, è approdato in Italia via mare, come i disperati in fuga dalla fame che ogni giorno sbarcano in Sicilia e a Lampedusa. Per loro, per i combattenti feriti, è stato organizzato un servizio di aerei ambulanza direttamente da Tripoli fino al San Raffaele. La notizia rimane a lungo sospesa tra dubbi e sospetti. Fino a quando, in luglio, si viene a sapere che gli ospiti libici erano stati ricoverati nei reparti destinati al servizio pubblico, quelli in convezione con la regione Lombardia. Una volta accertata la violazione è arrivata anche la multa: poche decine di migliaia di euro, come ha spiegato in consiglio regionale un paio di mesi fa l’assessore alla Sanità lombardo Giulio Gallera. Questa almeno è la versione ufficiale, che però va corretta alla luce del bilancio 2019 del Policlinico San Donato, appena pubblicato. Nel documento firmato da Alfano in qualità di presidente della società, alla voce “evoluzione prevedibile della gestione” si legge che «a seguito di sopralluogo effettuato nel mese di gennaio 2020 da parte di funzionari di Ats (Azienda tutela della salute, ndr) della Città Metropolitana di Milano» sono stati sospesi i ricoveri in regime di solvenza a eccezione di tre letti del reparto cardiochirurgia.

Cosa c’entra Angelino Alfano con la sanità privata in Lombardia? Asia Angaroni il 07/04/2020 su Notizie.it. Angelino Alfano è a capo del primo gruppo della sanità privata italiana. Si tratta del gruppo San Donato, la holding che comprende il San Raffaele. Per quasi un anno era tornato a svolgere l’attività legale: attualmente, invece, l’ex ministro Angelino Alfano è il presidente del primo gruppo della sanità privata italiana. Alfano ha preso il posto di Paolo Rotelli a capo della holding San Donato. Il rinnovo delle cariche è motivato dall’intenzione di “far entrare nella governance aziendale figure altamente qualificate per le sfide future”. Angelino Alfano si ritrova a capo del gruppo San Donato, la holding che gestisce 19 strutture, tra le quali l’ospedale San Raffaele, in prima linea contro il coronavirus. Ed è proprio durante una puntata dedicata all’emergenza Covid19 e alla sua gestione da parte della politica e della sanità lombarda che Report ha fatto luce sul rapporto tra l’ex ministro degli Esteri, della Giustizia e dell’Interno e gli ospedali privati nella regione italiana più duramente colpita dall’epidemia. Il gruppo leader nel campo della sanità assiste ogni anno 4,7 milioni di malati. Solo nel 2018 ha ottenuto un fatturato pari a circa 1,65 miliardi. L’ex ministro ha sostituito Paolo Rotelli, nipote del fondatore del gruppo e figlio di Luigi Rotelli. “Dopo la scomparsa di mio padre mi sono sentito in dovere di prendere le redini del gruppo per dare un segnale forte di continuità e unità. Ma oggi per continuare a crescere è essenziale affiancare competenze diverse dalle nostre”, ha dichiarato Paolo Rotelli, attualmente vicepresidente insieme al manager svizzero-tunisino Kamel Ghribi. E tra le nuove figure è stato scelto proprio Angelino Alfano, che negli ultimi tempi si era allontanato dalla politica. Infatti, spiegando il motivo che lo aveva spinto a non candidarsi alle elezioni politiche del 2018, aveva commentato: “Si può fare politica anche fuori dal palazzo”.

I dieci errori della Regione Lombardia sul Coronavirus. NeXt quotidiano il 26 Marzo 2020. Il Fatto Quotidiano oggi riepiloga in un articolo a firma di Davide Milosa e Maddalena Oliva i dieci errori della Regione Lombardia sul Coronavirus SARS-COV-2 e su COVID-19.  Ecco qua la pletora di “sottovalutazioni del rischio e incapacità organizzativa” di Attilio Fontana e Giulio Gallera:

1. Gli incontri a Roma.  L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittura riunita il 9 gennaio perla prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.

2. Prevenzione inesistente. Manca un piano pandemico regionale: sul sito, l’ultimo disponibile è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.

3. Ospedalizzazione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimento all’ospedalizzazione, ma le epidemie non si vincono negli ospedali:quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificata. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimenticando la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.

4. Ospedali veicoli di contagio “accidentale”. La scelta della Regione ha trasformato i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentuale degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta (13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) –chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabilmente riaperto –hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti.

5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Lodigiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente –spiega il professor Massimo Galli d e l l’ospedale Sacco –che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”.

6. I medici inascoltati. Un medico di Bergamo –lo ha raccontato il Wall Street Journal– il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliare la costituzione di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New England Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”.

7. Nessuna sorveglianza epidemiologica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappatura epidemiologica, attraverso la ricostruzione dei contatti dei positivi.

8. Tamponi ai sanitari. Tra i target sfuggiti c’è la categoria più esposta: il personale sanitario. Spiega Stefano Magnone, medico a Bergamo e segretario regionale dell’Anaao : “All’inizio i tamponi venivano fatti anche al personale asintomatico. Molti erano negativi e il problema è stato sottovalutato. Adesso si mandano al lavoro medici con febbre non superiore a 37,5 e senza nemmeno fare loro il tampone. Forse perché si teme che i positivi siano così tanti, da sguarnire ulteriormente di personale i presidi ospedalieri”.

9. Personale non sufficiente. Dicono i medici in trincea: se tu Regione mi fai aumentare i posti letti in terapia intensiva, ma il personale resta sempre lo stesso, allora mi uccidi. Se non di virus, di fatica.

10. La vocazione al privato. Il “peccato originale”de l modello Lombardia. Una galassia, quella del privato accreditato che, tranne alcune eccezioni, non sembra aver risposto a questa emergenza.

Lombardia contro Covid-19: i dieci errori della Regione. Davide Milosa e Maddalena Oliva . Il Fatto Quotidiano 25 Marzo 2020 – Se ci fosse un titolo, sarebbe “sottovalutazioni del rischio e incapacità organizzativa”. Il film del contagio in Lombardia mostra molti errori e responsabilità precise. Cominciamo.

1. Gli incontri a Roma.È inizio febbraio. Il virus, arrivato dalla Germania, gira nella zona di Codogno da almeno dieci giorni. A Roma, nella sede dell’Istituto superiore di sanità, il presidente Silvio Brusaferro illustra ai vari esperti regionali i rischi del nuovo Covid-19, già da settimane in Cina. A questi vertici partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione del Policlinico di Milano, oggi a capo dell’Unità di crisi in Regione. “Prima dell’inizio dell’emergenza – spiega – abbiamo avuto tre incontri. Ogni mercoledì a Roma ci venivano illustrate le previsioni di sviluppo del virus e, fin da subito, è stato posto il problema delle terapie intensive. Era evidente che in una condizione di R con 0 superiore a 1,5 la rianimazione sarebbe andata sotto stress”. Tra il 16 e il 17 febbraio c’è un altro incontro per capire quale strumentazione acquistare. Tre giorni dopo arriva la piena. Sembra cogliere tutti impreparati, ma le evidenze erano già sotto gli occhi da giorni. L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittura riunita il 9 gennaio per la prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.

2. Prevenzione inesistente. Manca un piano pandemico regionale: sul sito, l’ultimo disponibile è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.

3. Ospedalizzazione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimento all’ospedalizzazione, ma le epidemie non si vincono negli ospedali: quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificata. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimenticando la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.

4. Ospedali veicoli di contagio “accidentale”. La scelta della Regione ha trasformato i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentuale degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta (13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) – chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabilmente riaperto – hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti. E rischia di farlo ancora oggi, con il ricovero dei convalescenti nelle Rsa. “Poichè negli ospedali bisogna liberare posti letto, i pazienti Covid convalescenti – spiega Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo – vengono mandati in queste strutture col rischio che diventino dei focolai. Ma non sappiamo se questi pazienti abbiano ancora una carica virale. Ora siamo in guerra e combattiamo, ma quando sarà finita ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministratori in tribunale”.

5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Lodigiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente – spiega il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco – che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”. Qui non nascerà mai una zona rossa, così come nel Bresciano. Risultato: le due province contano oggi il record dei positivi (quasi 14mila su 32.346). “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”, ha detto il prof. Andrea Crisanti, virologo del “modello Vo’”.

6. I medici inascoltati. Un medico di Bergamo – lo ha raccontato il Wall Street Journal – il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliare la costituzione di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New England Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”. Cosa che non è stata fatta. Non si è investito sull’organizzazione degli interventi del territorio, esponendo i medici di base al contagio e puntando solo sull’ospedalizzazione. Solo oggi, la Regione inverte la marcia, incrementando i presidi sul territorio per tracciare gli asintomatici e tenere sotto controllo i malati domiciliari. Ma cos’hanno fatto le Aziende territoriali sanitarie finora?

7. Nessuna sorveglianza epidemiologica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappatura epidemiologica, attraverso la ricostruzione dei contatti dei positivi. Anche per colpa dell’Iss, che non è stato in grado di dare indicazioni precise su questo come sui target dei tamponi. Si è scelto di guardare solo ai sintomatici, perdendo almeno altre 30mila persone contagiate sommerse.

8. Tamponi ai sanitari. Tra i target sfuggiti c’è la categoria più esposta: il personale sanitario. Spiega Stefano Magnone, medico a Bergamo e segretario regionale dell’Anaao: “All’inizio i tamponi venivano fatti anche al personale asintomatico. Molti erano negativi e il problema è stato sottovalutato. Adesso si mandano al lavoro medici con febbre non superiore a 37,5 e senza nemmeno fare loro il tampone. Forse perché si teme che i positivi siano così tanti, da sguarnire ulteriormente di personale i presidi ospedalieri”.

9. Personale non sufficiente. Dicono i medici in trincea: se tu Regione mi fai aumentare i posti letti in terapia intensiva, ma il personale resta sempre lo stesso, allora mi uccidi. Se non di virus, di fatica.

10. La vocazione al privato. Il “peccato originale” del modello Lombardia. Una galassia, quella del privato accreditato che, tranne alcune eccezioni, non sembra aver risposto a questa emergenza.

I dirigenti della sanità lombarda e le “stronzate” sugli ospedali di Bergamo. Nexquotidiano il 25 Marzo 2020. Il Wall Street Journal ha dedicato il 17 marzo scorso un articolo firmato da Marcus Walker e Mark Maremont sul collasso degli ospedali italiani a causa dell’emergenza Coronavirus SARS-COV-2 e COVID-19 e all’interno riporta un botta e risposta tra i dirigenti della sanità lombarda e Angelo Giupponi, dottore dell’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo. Quando Bergamo ha scoperto un’epidemia di casi di coronavirus nella sua periferia intorno al 22 febbraio, il dottor Giupponi dell’ospedale Papa Giovanni ha inviato un’e-mail alle autorità sanitarie regionali della Lombardia. Li ha esortati a svuotare alcuni ospedali e usarli esclusivamente per i casi di Coronavirus. All’epoca i dirigenti regionali stavano affrontando un focolaio a sud di Milano (quello di Codogno, ndr). “Non dormiamo da tre giorni e non vogliamo leggere le tue stronzate”, è stata la risposta. Da allora, il lockdown dell’Italia ha trasformato Bergamo in una città fantasma. Gli avvisi di morte nel quotidiano locale, l’Eco di Bergamo, occupano normalmente poco più di una pagina. Lunedì hanno riempito nove pagine. “E sono solo quelli che finiscono sul giornale”, ha detto il dottor Nacoti. Giupponi è uno dei 13 medici che hanno inviato un appello pubblicato dalla rivista Catalyst del gruppo New England Journal of Medicine spiegando che la strategia dell’ospedalizzazione attuata nella prima regione di Italia ha prodotto la “catastrofe” e suggerendo che si cambi completamente prospettiva, arginando il contagio negli ospedali, capendo che non si tratta di una crisi di terapia intensiva, ma di una crisi logistica e di salute pubblica, soprattutto mettendo a punto un piano. Il nostro ospedale – scrivono nel loro j’accuse, un tentativo disperato di aprirci gli occhi che dovrebbe essere letto da ogni cittadino italiano e in primis dai responsabili istituzionali – è “altamente contaminato e siamo ben oltre il punto di non ritorno: 300 letti su 900 sono occupati da pazienti Covid-19”. Raccontano di tempi di attesa di ore, di pazienti anziani che “non vengono rianimati e muoiono da soli senza adeguate cure palliative, mentre la famiglia viene informata telefonicamente, spesso da un medico ben intenzionato, esausto ed emotivamente esaurito senza alcun contatto precedente”. Ma allargano lo sguardo fuori dall’epicentro, vedono gli altri ospedali dei centri più piccoli che si avvicinano “al collasso”, e spiegano che quello che succede nell’ospedale all’avanguardia di Bergamo è solo il primo girone di un inferno collettivo: la situazione nell’area circostante è secondo loro persino peggiore, mentre il focolaio è “fuori controllo” e i sanitari sono diventati vettori del contagio, le comunità sono “abbandonate” e l’emergenza Covid-19 ha messo in crisi o bloccato gli altri tipi di assistenza anche le semplici vaccinazioni e esasperato le situazioni di disagio sociale. Detto in altre parole e molto chiaramente: questa non è come è stata spesso descritta una crisi della terapia intensiva, ma “una crisi di salute pubblica e umanitaria”. E per questo bisogna muoversi esattamente nella direzione opposta di quella intrapresa finora. Il team dei medici del Papa Giovanni XXIII definisce il Covid-19 l’Ebola dei ricchi e spiega che l’epidemia ha messo in luce come «i sistemi sanitari occidentali siano stati costruiti attorno al concetto di cura centrata sul paziente mentre un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un sistema di cura incentrato sulla comunità». Quello che stiamo imparando dolorosamente, aggiungono è che «abbiamo bisogno di esperti di salute pubblica e di epidemiologia, ma questo non è stato il centro d’interesse di chi prende le decisioni a livello nazionale, regionale e ospedaliero».

Fabio Paravisi per bergamo.corriere.it il 26 marzo 2020. «Non abbiamo tempo da perdere per le tue str…te». Questa sarebbe la risposta ottenuta da un dirigente del 118 quando ha suggerito alla Regione misure drastiche quando ancora l’epidemia del coronavirus era agli inizi. A raccontarlo è Angelo Giupponi, responsabile dell’Articolazione aziendale territoriale del 118 di Bergamo all’interno di un reportage pubblicato nei giorni scorsi dal Wall Street Journal. I giornalisti Marcus Walker e Mark Miramont hanno effettuato un lungo viaggio a Bergamo, definitiva «il Ground zero dell’epidemia» oggi trasformata in «una città fantasma» e hanno parlato con numerosi dirigenti dell’ospedale Papa Giovanni e delle strutture regionali di emergenza. Tra questi c’è appunto Giupponi, che già il 22 febbraio avrebbe scoperto un nucleo di casi di coronavirus a Bergamo. Avrebbe quindi mandato una email alle autorità sanitarie della Regione, per sottolineare l’esigenza di svuotare alcuni ospedali per adibirli esclusivamente alla cura dei casi di coronavirus. I dirigenti regionali della sanità in quei giorni erano impegnati nella gestione dei casi scoppiati a Codogno e nei paesi attorno. «Sono tre giorni che non dormiamo e non vogliamo leggere le tue stronzate», è la risposta che Giupponi dice di avere ricevuto. Il medico non vuole più parlare della vicenda: «Non confermo e non smentisco, in questi giorni ho altro da fare», ha commentato oggi. Giupponi è anche uno dei tredici medici del Papa Giovanni che nei giorni scorsi hanno firmato una lettera pubblicata dal New England Journal of Medicine per avvisare che «la situazione a Bergamo è fuori controllo».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 25 marzo 2020. I camion militari che portano via le bare sono l'immagine del dolore di una città che non riesce nemmeno a seppellire i suoi morti. E non è accaduto solo una volta, perché questi luttuosi convogli avvengono a giorni alterni. Solo la scorsa settimana in provincia di Bergamo il Covid-19 ha ucciso oltre 300 persone. «Bergamo soffre molto, anche se con grande sobrietà. Quella sfilata di mezzi fa capire cosa stia succedendo veramente qui, racconta i drammi personali. Ognuno in città ha una persona cara malata, in ospedale o deceduta». Giorgio Gori sta combattendo la battaglia più dura da quando, a giugno 2014, è diventato sindaco di Bergamo. Ora, dice, «la mia agenda è completamente vuota, eventi e appuntamenti ordinari cancellati, ma lavoriamo dalle otto di mattina finché non crolliamo stremati la sera».

Il lavoro più delicato è il coordinamento tra voi sindaci e la Regione Lombardia.

«Abbiamo cercato di tenere un raccordo stretto, noi sindaci ci sentiamo in continuazione, quasi tutti i giorni abbiamo una videoconferenza con il presidente Fontana e i suoi assessori. Dobbiamo tenere stretti i bulloni, per la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, innanzitutto per chi sta negli ospedali. Con estrema fatica i presidi reggono. I limiti maggiori emergono nella sanità di territorio, che in Lombardia - nonostante gli sforzi che tutti stiamo facendo - non è solida come quella di Veneto ed Emilia Romagna. Purtroppo ora ne abbiamo la prova. La rete dei medici di medicina generale, che è il primo baluardo contro il contagio, è falcidiata dalla malattia, qui da noi 140 medici su 800. Troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono quasi tutti anziani con la polmonite, casi di Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar. Si fa fatica a dare assistenza con l'ossigeno, a intercettare per tempo queste persone e in ospedale non c'è posto per tutti. Servirebbe una rete territoriale più forte, adesso c'è una corsa a potenziarla».

Come avete reagito?

«Con l'impiego delle guardie mediche, di giovani neolaureati, dei medici volontari. Ma ancora mancano i dispositivi di protezione, le mascherine, e non possiamo mandare in prima linea dei soldati completamente disarmati. Il fronte delle attrezzature come ventilatori e respiratori resta un problema. La prima necessità, anche per l'ospedale di campo a Bergamo, sono medici e infermieri. È indubbio che la gravità di quello che stava arrivando è stata sottovalutata, a tutti i livelli, ma era anche difficile pensare a una cosa di questa violenza».

Presto arriverà il nuovo ospedale da campo in Fiera.

«Sarà pronto entro venerdì. C'è stata un po' di esitazione in partenza. È stato dato il via, poi lo stop, poi il via libera definitivo. L'importante è che si faccia. Ora stanno lavorando gli alpini e in raccordo con il Papa Giovanni XXXIII avremo un nuovo punto di screening, con ossigeno e letti per la terapia intensiva. Ci lavoreranno, tra gli altri, i medici di Emergency e forse un gruppo di dottori russi».

Con una zona rossa sarebbe accaduto tutto questo?

«Il punto non è mai stato la città. Il focolaio era ad Alzano Lombardo e a Nembro, più grave ancora che a Codogno. Non era facile decidere, questa è un'area ad altissima densità di popolazione e di imprese. Ma credo che, se fosse stata chiusa la media Valle Seriana, oggi le cose andrebbero un po' meglio. Io ero tra quelli che la chiedevano. E con forza. Ma alcuni amministratori della zona non erano convinti, temevano per le tante aziende».

È preoccupato per il dopo coronavirus, sindaco?

«Moltissimo. Questa è una provincia molto operosa, il contagio ha spazzato via in poche settimane generazioni di lavoro. Se riuscissimo a ripartire prima di settembre, davvero sarebbe un buon risultato. Ma perché torni tutto come prima ci vorranno forse dieci anni».

Se si infetta anche lui…Coronavirus, Guido Bertolaso: «Sono positivo al Covid-19, ho qualche linea di febbre». Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. «Sono positivo al Covid-19. Quando ho accettato questo incarico sapevo quali fossero i rischi a cui andavo incontro, ma non potevo non rispondere alla chiamata per il mio Paese. Ho qualche linea di febbre, nessun altro sintomo al momento». Guido Bertolaso annuncia il contagio inviando un messaggio su Facebook. Il consulente del presidente della Regione Lombardia rassicura anche i cittadini: «Sia io che i miei collaboratori più stretti siamo in isolamento e rispetteremo il periodo di quarantena. Continuerò a seguire i lavori dell’ospedale Fiera e coordinerò i lavori nelle Marche per una struttura da 100 posti letto di terapia intensiva. Vincerò anche questa battaglia». Anche Attilio Fontana racconta di averlo sentito al telefono: «Mi ha espresso la forte volontà di continuare il suo lavoro per la realizzazione dell’ospedale in Fiera, sia pure in remoto». Il governatore è apparso visibilmente dispiaciutoper la positività del suo consulente: «Ma il progetto non si ferma. Stiamo già lavorando alle nuove modalità per continuare. Rispetteremo le procedure di quarantena per il suo staff. Ma andremo avanti». Bertolaso, ha chiarito Fontana, «si è messo in isolamento e mi ha incaricato di salutarvi, mi ha espresso la volontà, con la solita forza e determinazione, di continuare a lavorare da remoto, per evitare di avere qualunque tipo di contatto. È sempre al nostro fianco e ci darà una mano per portare avanti la realizzazione dell’ospedale». Se fosse necessario sostituire Guido Bertolaso come consulente «c’e’ il rischio di un rallentamento nella consegna dell’ospedale in Fiera», ha affermato Fontana. «Il dottor Bertolaso sta bene, ha un po’ di febbre, ma sostanzialmente sta bene — ha detto il governatore —. Per la consegna dovremo cercare di capire se la sua volontà di continuare a lavorare da remoto sia realizzabile o se dovrà essere sostituito, nel qual caso è chiaro che c’è il rischio di un rallentamento perché aveva in mano tutta l’evoluzione». «Lo ringrazio perché non si è risparmiato», sono le parole del leader della Lega, Matteo Salvini che ha commentato la notizia della positività al coronavirus di Guido Bertolaso: «Era in giro come un matto a verificare ospedali, strutture perché sta coordinando e sono sicuro che lo farà da casa, via telefono. È chiaro che se per mestiere sei più esposto al rischio...». Inoltre, «ha girato mezza Lombardia, è andato nelle Marche, lo ringrazio». «Ho chiamato Guido Bertolaso per esprimere il mio rammarico dopo avere appreso che è risultato positivo al Coronavirus — ha scritto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi —. Sono sicuro che anche a distanza Guido saprà coordinare e completare l’ospedale alla Fiera di Milano perché era già riuscito con competenza e bravura ad avviare i lavori». Il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli, che lunedì ha partecipato a riunioni con Bertolaso ad Ancona, si è messo in quarantena. Indossava guanti e mascherina e ha mantenuto le distanze di sicurezza. Anche il presidente del consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, in attesa di comunicazioni ufficiali dalle strutture sanitarie, ha deciso di mettersi in quarantena per «correttezza formale». Isolamento volontario anche per il presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico centrale, Rodolfo Giampieri.

Coronavirus, un medico contagiato: “Ci ammaliamo perché non ci fanno tamponi a tappeto”. Le Iene News il 24 marzo 2020. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Iss sono 4.824 i professionisti sanitari che sono stati contagiati dal coronavirus. Sono il 9% totale degli ammalati, contro il 3,8% cinese. Perché la pandemia corre così veloce dentro i nostri ospedali? Noi di Iene.it abbiamo parlato con uno dei medici che si è ammalato: ecco cosa ci ha raccontato. “Quando ho preso il coronavirus non hanno fatto il tampone a chi ha lavorato con me. E i miei colleghi continuano a infettarsi”. A parlare con Iene.it è uno dei molti medici in prima linea nella lotta alla pandemia che ha contratto il COVID-19. Secondo i dati diffusi dall’Istituto superiore di sanità il 23 marzo sono 4.824 i professionisti sanitari che si sono ammalati dall’inizio della crisi. Parliamo del 9% dei casi totali in Italia, un numero altissimo. In Cina, il paese finora col più alto numero di contagi totali, i professionisti sanitari che hanno contratto il coronavirus sono stati “solo” il 3,8%. Com’è possibile un dato così alto nel nostro Paese? Per capirlo abbiamo parlato proprio con uno dei medici che si è ammalato di COVID-19 mentre lavorava in un ospedale in Lombardia: “Tutti noi usiamo i dispositivi di protezione necessari quando siamo con i pazienti. Il problema è che non li usiamo quando siamo tra di noi, per esempio quando ci diamo le consegne: basta che uno di noi sia infetto e tutti rischiamo di essere contagiati”. Dunque i medici, così come gli infermieri e gli altri operatori sanitari, sono esposti al contagio non solo quando sono con i pazienti ma anche - e soprattutto - quando lavorano fuori dalle stanze dei pazienti: “E’ impossibile essere sempre protetti: quando scriviamo al computer, quando siamo insieme il rischio è molto alto”. E a questo rischio se ne aggiunge un altro: la difficoltà estrema ad avere un tampone. “Se non hai sintomi evidenti, non te lo fanno. C’è stato un infermiere al pronto soccorso che ha avuto la polmonite da coronavirus, nessuno dei suoi colleghi ha ricevuto il tampone. E lo stesso è successo a me: ho fatto il turno la mattina, ho sviluppato i sintomi e ho fatto il test nel pomeriggio. A nessuno dei colleghi che ha lavorato con me quel giorno è stato fatto il tampone”. E la situazione purtroppo sembra non essere cambiata: “I miei colleghi continuano a infettarsi, perché non si fanno i tamponi a tappeto. Li riceviamo solo se stiamo male”. Un operatore asintomatico ma già contagiato, quindi, rischia di passare il coronavirus a molti colleghi. E’ anche così che il COVID-19 riesce a correre veloce all’interno degli ospedali. Un problema serio, su cui recentemente si è espresso anche il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici Filippo Anelli: “Chiediamo che vengano fatti con urgenza i tamponi a tutto il personale sanitario in prima linea”. Già, perché l’indicazione più recente del Comitato tecnico scientifico è di “estendere l'uso dei tamponi a tutto il personale sanitario più esposto e dunque a rischio, anche senza la presenza di sintomi”, ha spiegato ancora Anelli. Questa indicazione però non è “rispettata dalla grande maggioranza delle Regioni, tranne poche eccezioni come il Veneto. Ma i medici devono poter lavorare in sicurezza, sapendo di non essere contagiati per non diventare a loro volta strumenti di contagio”. E anche l’Ats lombarda, secondo quanto ci racconta la nostra testimone, sarebbe tra quelle che non procedono con tamponi a tappeto sul personale sanitario: “Non viene fatto il tampone se non si sta male”, spiega la nostra fonte. Ma non sarebbe finita qui. Ci sarebbero anche dei casi ancora più a rischio: “So di un medico che è stato male ed è positivo al tampone. E’ stato lasciato a casa, ma la moglie è anch’essa medico e l’altra sera ha fatto un turno in ospedale”. E aggiunge: “Ho colleghi che hanno perso i genitori, o sono ammalati. Anche loro continuano a lavorare nonostante i contatti con persone che hanno il coronavirus”. Situazioni che, se fossero vere, rischierebbero di rendere ancora più semplice il contagio all’interno degli ospedali. "Noi siamo delle potenziali bombe che potrebbero portare il coronavirus dappertutto”, ci spiega il nostro medico contagiato. E il principale motivo della diffusione del virus all’interno delle strutture potrebbe essere proprio questo: “Probabilmente ce lo attacchiamo tra di noi”. Una denuncia simile arriva anche dai lavoratori dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, una delle strutture più sotto pressione in questa pandemia e che anche noi de Le Iene stiamo sostenendo unendoci alla raccolta fondi lanciata da Cesvi . Il quadro che descrivono è molto duro: “Molti ospedali sono vicini al collasso”, scrivono in un documento consultabile qui. “Farmaci, ventilatori, ossigeno e dispositivi di protezione per il personale sono ormai introvabili. I pazienti vengono sdraiati su materassi per terra. Il sistema sanitario fatica a garantire i servizi regolari mentre i cimiteri sono soverchiati dall’alto numero di morti”. E a questo si aggiungono le difficoltà degli operatori sanitari: “Anche gli ospedali possono essere vettori del coronavirus essendo popolati di agenti infetti. Gli operatori sanitari rischiano di essere trasportati asintomatici o sintomatici senza sorveglianza. Alcuni potrebbero morire, inclusi i giovani, aumentando la pressione su chi lotta in prima linea”. Per fortuna però ci sono anche buone notizie. Ieri in Lombardia per la prima volta dall’inizio della crisi il numero di pazienti ricoverati in ospedale per il coronavirus è diminuito: sono 173 in meno, per un totale di 9.266. “Vediamo la luce in fondo al tunnel”, ha detto l’assessore al Welfare Giulio Gallera. “Ma non è il momento di mollare la presa, anzi bisogna intensificare lo sforzo. Ora iniziamo a vedere i risultati dei nostri sacrifici”. E anche il trend dei contagi a livello nazionale sta migliorando: per il secondo giorno consecutivo il numero dei nuovi malati è inferiore alle 24 ore precedenti. 

Coronavirus in Lombardia, Ilaria Capua: “C’è qualcosa di anomalo”. Francesco Ferrigno il 20 marzo 2020 su Notizie.it. Il coronavirus in Lombardia sta circolando “in modo anomalo”: è quanto sostiene la virologa Ilaria Capua, direttrice dell’Emerging Pathogens Institute presso l’Università della Florida. “La pandemia – ha detto l’esperta – ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali: sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara”. Ilaria Capua è una virologa ed ex parlamentare italiana: dal 2013 al 2016 è stata deputata di Scelta Civica. Nel 2006 rese nota la sequenza genica del virus dell’aviaria, avviando lo sviluppo della scienza open-source e venendo eletta dalla rivista Seed “mente rivoluzionaria”. L’anno 2014 è stata coinvolta in un’inchiesta che vedeva tra i reati ipotizzati il traffico illecito di virus. Nel 2016 è stata prosciolta dall’accusa ma ha comunque lasciato la Camera e si è trasferita negli Stati Uniti. Un mese prima dello scoppio di quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) avrebbe classificato come pandemia, la virologa aveva già lanciato l’allarme. “Nel mio libro Salute Circolare – ha affermato l’esperta – mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari. In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando”. Tra le cause della diffusione del Covid-19 ci sarebbero insomma le infrastrutture, la nostra velocissima tecnologia che di fatto produce una “accelerazione evolutiva del virus”. “L’influenza spagnola un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. – ha continuato la virologa – Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali”. E allora cos’è successo al coronavirus in Lombardia? Secondo Ilaria Capua ci sarebbero fattori ancora sconosciuti che potrebbero aver favorito la diffusione e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere.

Il virus Sars1 si è accertato che era circolato attraverso la condotta dell’aria di un albergo di Hong Kong. “Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti. – ha detto la studiosa italiana – Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare. Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche, qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti”. Che in Lombardia sia accaduto qualcosa di particolare al coronavirus è un’ipotesi ma in qualche modo, per il resto del mondo, una speranza. “Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, – ha chiarito Ilaria Capua – se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche, persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora.

Da L’Eco Di Bergamo il 25 marzo 2020. Sono almeno 1.800 a Bergamo i pazienti trentenni con polmonite da Covid-19. Il dato viene riferito dai medici della Federazione medici di famiglia (Fimmg) Lombardia. «La polmonite da coronavirus evidentemente non colpisce solo in età più avanzata», spiega Paola Pedrini, segretaria Fimmg Lombardia, «qui a Bergamo siamo 600 medici di famiglia e ognuno di noi ha in osservazione almeno 3 trentenni malati di polmonite da Covid».

C.Gu. per “il Messaggero” il 25 marzo 2020. Il coronavirus «è l'Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo transnazionale coordinato». Più la società è medicalizzata e centralizzata, «più il virus è diffuso. Questa catastrofe che si sta svolgendo nella ricca Lombardia potrebbe avvenire ovunque». Ad avvertire la comunità internazionale è un gruppo di 13 medici di Bergamo con una lettera al New England Journal of Medicine, rivista al vertice per autorevolezza e prestigio tra i periodici medici internazionali. «La Lombardia è una delle regioni più prospere e densamente popolate d'Europa e ora la più gravemente colpita. Il nostro ospedale, una struttura all'avanguardia, è altamente contaminato e siamo ben oltre il punto di non ritorno». I medici raccontano del loro lavoro «ben al di sotto del nostro normale standard di assistenza», di ore di attesa per un letto, «i pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono da soli senza adeguate cure palliative, mentre la famiglia viene informata per telefono, spesso da un medico ben intenzionato ma esausto ed emotivamente provato». Nelle aree circostanti è anche peggio, affermano, con i pazienti che giacciono su materassi a terra. «Siamo in quarantena dal 10 marzo. Sfortunatamente, il mondo esterno sembra inconsapevole del fatto che a Bergamo questo focolaio sia fuori controllo». I sistemi sanitari occidentali, scrivono, sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, «un'epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità». Perciò sono necessarie soluzioni pandemiche per l'intera popolazione, non solo per gli ospedali che «stiamo imparando potrebbero essere i principali vettori di Covid-19, poiché sono affollati da pazienti infetti, facilitando la trasmissione a pazienti non infetti». Gli operatori sanitari «sono portatori asintomatici o malati senza sorveglianza; alcuni potrebbero morire, compresi i giovani, il che aumenta lo stress di chi è in prima linea». Alla luce della loro esperienza, i medici indicano le contromisure. Primo, più cure a domicilio e cliniche mobili, evitando spostamenti inutili e alleggerendo la pressione sugli ospedali. Nessun compromesso sui protocolli, l'attrezzatura deve essere disponibile e la protezione del personale prioritaria. Servono padiglioni e operatori ospedalieri Covid-19 dedicati, separati da aree libere da virus, e un ampio sistema di sorveglianza «con adeguato isolamento e sfruttando l'innovativa telemedicina». Sono necessarie «misure audaci» per rallentare l'infezione e il blocco è fondamentale: il distanziamento sociale ha ridotto la trasmissione di circa il 60% in Cina. «Ma si verificherà probabilmente un ulteriore picco quando le misure restrittive saranno allentate per evitare un grave impatto economico. Serve un punto di riferimento condiviso per comprendere e combattere questo focolaio. Abbiamo bisogno di un piano a lungo termine per la prossima pandemia».

Il virologo Crisanti parla di fallimento del sistema: “Altro che 60mila, i contagi sono 450mila”. Ilaria Roncone il 25/03/2020 su giornalettismo.com. Secondo l'esperto i contagiati sarebbero 450mila. La questione sarebbe dovuta essere gestita diversamente, soprattutto a partire da Bergamo. Il virologo sostiene che la sorveglianza epidemologica sia stata trascurata. Crisanti è il virologo che sta studiando la questione in Veneto. Solo «in Lombardia potrebbero essere 250 mila, i morti sono troppi», ha affermato in un’intervista. E tra tutti i numeri relativi al coronavirus «la verità è che l’unico dato certo riguarda i decessi». Proprio «da lì bisogna partire per sapere quanti sono realmente i contagiati». Il fallimento di sistema starebbe nel fatto che «i numeri corretti sono purtroppo molto più alti di quelli che vengono diffusi e riguardano semplicemente i casi emersi e quindi hanno poco senso» e «finalmente anche la Lombardia l’ha capito e ha deciso di dare la caccia al sommerso».

Necessario partire dai dati certi, tamponi anche per gli asintomatici. «In Lombardia i malati saranno almeno 250mila, 150mila sintomatici e 100 mila asintomatici, in Italia ne calcolo 450mila… altro che 60mila», afferma il direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova e docente di Virologia all’Imperial College di Londra. Per quanto riguarda i tamponi l’idea dello studioso è chiara: anche gli asintomatici andrebbero sottoposti a tamponi a partire da tutti coloro che sono stati esposti al rischio di contagio.

Coronavirus, da dove arriva il dato sui 450mila contagiati. Secondo il virologo si deve partire da due dati: «Quello della Cina e quello registrato a Vo’ Euganeo, dove è stata fatta per la prima volta al mondo un’indagine epidemiologica su un’intera popolazione. Questi numeri sono simili e ci dicono che il tasso di letalità è sotto il 2%, considerando tutto si arriva all’1,5%, e che la percentuale di asintomatici che contagiano è altissima (40%)». In merito alla percentuale di asintomatici l’accusa è alla Cina, che «ha mentito, evitando di considerarli nelle statistiche».

«Troppi morti, i sintomatici sommersi andavano cercati 20 giorni fa». Sottolineando l’alto tasso di mortalità del coronavirus in Lombardia – rispetto al quale «non ci sono evidenze che il virus della Lombardia sia diverso da quello Veneto»-, Crisanti sottolinea che la gente con sintomi non gravi che potrebbe essere positiva è molta e che andrebbero testati anche «gli asintomatici testando le categorie più esposte, per cerchi concentrici». Però «avrebbero dovuto farlo 20 giorni fa. E invece non c’è stata alcuna sorveglianza epidemiologica». Il fallimento, secondo il virologo, sarebbe da attribuire alla «classe dirigente del paese» che avrebbe dovuto «mettere tutte le risorse possibili sui focali iniziali, come hanno fatto in Giappone, Corea e Taiwan».

«Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia». Crisanti punta il dito sulla difesa dell’economia a tutti i costi, «anche di fronte alla morte». La soluzione sarebbe stata quella adottata in casi come quello del Giappone, col «blocco totale dei focolai, penso a Bergamo». Da noi, invece, «fino a pochi giorni fa c’erano industrie attive con migliaia di dipendenti, penso soprattutto a Bergamo, per produrre beni peraltro non necessari».

Coronavirus, Crisanti: «Emergenza sottovalutata. In Italia 450 mila casi. Questo è un fallimento». Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. «La verità è che l’unico dato certo riguarda i decessi. Ed è da lì che bisogna partire per sapere quanti sono realmente i contagiati. Si scopre così che i numeri corretti sono purtroppo molto più alti di quelli che vengono diffusi e riguardano semplicemente i casi emersi e quindi hanno poco senso. Finalmente anche la Lombardia l’ha capito e ha deciso di dare la caccia al sommerso». È da giorni che il professor Andrea Crisanti scuote la testa: «Non riesco a spiegarmi come sia stato possibile sottovalutare le dimensioni dell’emergenza, quando erano sotto gli occhi di tutti: in Lombardia i malati saranno almeno 250mila, 150mila sintomatici e 100 mila asintomatici, in Italia ne calcolo 450mila... altro che 60mila». Direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova e docente di Virologia all’Imperial College di Londra, Crisanti ha studiato con il governatore Luca Zaia la strategia di lotta al coronavirus, sostenendo da subito la scelta dei tamponi anche ai malati asintomatici, partendo da tutti coloro che sono più a rischio di contagio.

Professore, come arriva a concludere che il contagio è così diffuso?

«Due sono i dati da considerare: quello della Cina e quello registrato a Vo’ Euganeo, dove è stata fatta per la prima volta al mondo un’indagine epidemiologica su un’intera popolazione. Questi numeri sono simili e ci dicono che il tasso di letalità (rapporto fra il numero di decessi e il totale dei contagiati, ndr) è sotto il 2%, considerando tutto si arriva all’1,5%, e che la percentuale di asintomatici che contagiano è altissima (40%). Cosa sulla quale la Cina ha però mentito, evitando di considerarli nelle statistiche».

Si dice che il ceppo lombardo del virus sia più aggressivo di quello cinese e veneto. Non è così?

«Ma vogliamo scherzare? Non ci sono evidenze che il virus della Lombardia sia diverso da quello veneto. E dunque si deve ragionare su quelle percentuali. E il fatto che il tasso di letalità in Veneto (3,4%, ndr) sia decisamente inferiore a quello lombardo (oltre il 13%, ndr) si spiega con il maggior numero di tamponi fatti che ha portato a dei risultati concreti».

In Italia però ci sono più anziani rispetto alla Cina. Questo non condiziona i numeri?

«Certo, ma anche considerando questo elemento le dimensioni del contagio restano altissime».

 La Lombardia si sta comunque allineando e cerca i sintomatici sommersi. Cosa ne pensa?

«Penso che facciano bene. C’è molta gente che accusa sintomi non gravi e potrebbe essere positiva. Dovrebbero però cercare anche fra gli asintomatici testando le categorie più esposte, per cerchi concentrici. Ma penso anche che avrebbero dovuto farlo 20 giorni fa. E invece non c’è stata alcuna sorveglianza epidemiologica. Vedo persone che muoiono a grappoli. Questo è un fallimento della classe dirigente del Paese. Troppi morti».

Era un’emergenza sconosciuta, difficile bloccare il Paese. Col senno del poi...

«Bastava mettere tutte le risorse possibili sui focali iniziali, come hanno fatto in Giappone, Corea e Taiwan. E invece da noi fino a pochi giorni fa c’erano industrie attive con migliaia di dipendenti, penso soprattutto a Bergamo, per produrre beni peraltro non necessari. Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte».

Coronavirus, il virologo Crisanti: “In Italia 450mila casi, emergenza sottovalutata per pensare all’economia”. Redazione de Il Riformista il  25 Marzo 2020. L’emergenza Coronavirus in Italia “è stata sottovaluta” e i numeri corretti sui contagiati sono “purtroppo molto più alti di quelli che vengono diffusi e riguardano semplicemente i casi emersi”. È l’allarme che lancia il professore Andrea Crisanti, Direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova e docente di Virologia all’Imperial College di Londra. Crisanti da tempo sostiene, così come il governatore del Veneto Luca Zaia, la necessità di effettuare i tamponi per il Covid-19 anche ai malati asintomatici, partendo da tutti coloro che sono più a rischio di contagio. Per Crisanti, intervistato dal Corriere della Sera, “in Lombardia i malati saranno almeno 250mila, 150mila sintomatici e 100 mila asintomatici, in Italia ne calcolo 450mila… altro che 60mila”. Crisanti non manca di accusare la Cina. Per il professore infatti Pechino ha mentito sui numeri del contagio: “Due sono i dati da considerare: quello della Cina e quello registrato a Vo’ Euganeo, dove è stata fatta per la prima volta al mondo un’indagine epidemiologica su un’intera popolazione. Questi numeri sono simili e ci dicono che il tasso di letalità è sotto il 2%, considerando tutto si arriva all’1,5%, e che la percentuale di asintomatici che contagiano è altissima (40%). Cosa sulla quale la Cina ha però mentito, evitando di considerarli nelle statistiche”. Ma il Direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova smonta anche alcune leggende metropolitane, come l’esistenza di un ceppo di Covid-19 lombardo più aggressivo di quello cinese o veneto. “Non ci sono evidenze che il virus della Lombardia sia diverso da quello veneto. E dunque si deve ragionare su quelle percentuali. E il fatto che il tasso di letalità in Veneto (3,4%, ndr) sia decisamente inferiore a quello lombardo (oltre il 13%, ndr) si spiega con il maggior numero di tamponi fatti che ha portato a dei risultati concreti”. Per Crisanti la ricetta adeguata per fronteggiare l’emergenza era chiara: “Mettere tutte le risorse possibili sui focali iniziali, come hanno fatto in Giappone, Corea e Taiwan”. Invece, ricorda il professore, fino a pochi giorni fa “c’erano industrie attive con migliaia di dipendenti, penso soprattutto a Bergamo, per produrre beni peraltro non necessari. Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”. Da Crisanti quindi arriva una bocciatura totale della risposta italiana al Covid-19: “Questo è un fallimento della classe dirigente del Paese. Troppi morti”, ammette Crisanti.

Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2020. Ventimila lombardi trattati a casa come sospetti casi di Covid-19. Senza bisogno di nessun tampone che lo certifichi. È la stima dei malati sommersi della Lombardia elaborata dall' assessorato alla Sanità guidato da Giulio Gallera. Non sono gli asintomatici (il loro numero si moltiplicherebbe), né le categorie a rischio come medici e infermieri per le quali gli scienziati chiedono a gran voce il test. Si tratta di pazienti con sintomatologia simil-influenzale, di cui non è nota l' eventuale positività, ma che vengono considerati per prudenza come possibili coronavirus. A Milano, come anticipato dal Corriere , sono almeno 1.800. Di ieri il dato dell' intera Lombardia che, se proiettato a livello nazionale, può fare stimare all' incirca 200 mila casi simili di sindromi simil-influenzali. Attenzione, però: il dato italiano - come fa presenta Antonino Bella responsabile del monitoraggio Influnet dell' Istituto superiore di Sanità - va interpretato con prudenza perché il virus nel resto d' Italia è meno diffuso che in Lombardia e, dunque, la sovrapponibilità tra influenza tradizionale e Covid-19 può essere fuorviante. La consapevolezza, però, è che si tratta di malati da tenere sotto stretta sorveglianza. Così in Lombardia d' ora in avanti i medici di famiglia dovranno mapparli uno a uno, come già sta succedendo nel capoluogo lombardo da qualche giorno. È un modo per tenere sotto controllo le loro condizioni di salute ed evitare che possano andare in fame da ossigeno da un momento all' altro. «Per sapere quante persone hanno oggi il Covid-19 dovremmo testare tutti, il che è ovviamente impraticabile nonostante l' enorme potenziamento dell' attività laboratoristica - spiega Luigi Cajazzo, direttore generale dell' assessorato alla Sanità lombardo -. Sono attivi 22 laboratori con una potenzialità di 5/6000 campioni al giorno. La strategia, in sintonia con quanto indicato dall' Istituto superiore di sanità, è quella di testare solo i casi con sintomatologia virale che accedono ai Pronto soccorso e gli operatori sanitari sintomatici. Altre strategie, per esempio i test anticorpali, sono ritenute prive di fondamento scientifico». In Cina ricoveravano anche pazienti con 37,5 di febbre. Qui i criteri per il ricovero restano quelli clinici che fanno riferimento non solo alla temperatura corporea , ma anche alle condizioni generali del paziente. In questo senso il medico di famiglia deve essere una sentinella fondamentale. «Gli chiediamo di esercitare un ruolo attivo di sorveglianza verso i pazienti con sintomatologia respiratoria che non hanno necessità di ricovero, anche se non sono positivi al tampone - ribadisce Cajazzo -. Il medico di base deve vigilare, per così dire, da remoto con modalità assai più intense di quelle già praticate, attivando, qualora necessario, le Unità speciali di continuità assistenziale per visite a domicilio». Telefono e saturimetro, i due strumenti fondamentali. «Da una stima fatta oggi, circa il 70% dei medici stanno già svolgendo le attività richieste, ma sono certo che il dato migliorerà nei prossimi giorni - assicura Cajazzo -. E questo a testimonianza che anche il mondo della medicina generale sta attivamente collaborando all' emergenza». Le Unità speciali di continuità assistenziale per visite a domicilio, su indicazione dei dottori di famiglia, saranno attive da lunedì. Dalle 8 del mattino alle 8 di sera. «Attualmente sono circa 45 postazioni sul territorio regionale, nelle sedi delle attuali guardie mediche - chiarisce Cajazzo -. Con un totale di circa 100 dottori». I medici di famiglia devono monitorare da vicino anche i malati a domicilio accertati come casi di Covid-19. «Dall' inizio dell' epidemia sono 15.620 - dice il direttore generale della Sanità lombarda -. Per ciascuno sono individuati almeno 5/10 contatti stretti. Nel caso in cui il medico di medicina generale ravvisi che l' isolamento non è adeguato, questi soggetti possono trasferirsi in strutture ricettive che mettiamo appositamente a disposizione».

Da ilmessaggero.it il 25 marzo 2020. Era positiva al Covid-19, lo stress, la fatica, forse la preoccupazione di aver contagiato altre persone. E' stato un gesto estremo, disperato, quello di un'infermiera dell'ospedale San Gerardo di Monza che si è suicidata. A darne notizia è la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) in una nota in cui esprime «tutto il dolore e la costernazione degli infermieri alla notizia di una giovane collega che non ce l’ha fatta più e tutti i 450mila professionisti presenti in Italia si stringono uniti e con forza attorno alla famiglia, agli amici e ai colleghi». Daniela, infermiera, 34 anni, era operativa nel reparto di terapia intensiva del San Gerardo di Monza, uno dei maggiori fronti italiani della pandemia, quando ha deciso di togliersi la vita. A segnare quella scelta, forse lo stress lavorativo per il coronavirus e la preoccupazione di avere contagiato altre persone perché positiva. Una riflessione che condividono anche i colleghi dell'infermiera che le sono stati vicini. Risultata positiva al tampone e messa in quarantena con sintomi, espriumeva «un pesante stress per la paura di aver contagiato altri», spiega la Fnopi. E' solo l'ultimo caso in pochi giorni. Una settimana fa un’altra infermiera si era tolta a vita a Venezia. «Un fatto analogo era accaduto con le stesse motivazioni di fondo - commentano dalla Federazione - e anche se ci auguriamo il contrario, rischia in queste condizioni di stress e carenza di organici di non essere l’ultimo».

Virus, l'allarme dei medici di famiglia: "A Bergamo 1.800 trentenni hanno polmonite da Covid-19". Il dato è stato diffuso dalla Federazione che raggruppa i medici lombardi: "Qui in città siamo 600 medici di famiglia e ognuno di noi ha in osservazione almeno tre trentenni malati di polmonite da coronavirus". Lavinia Greci, Martedì 24/03/2020, su Il Giornale. Come spesso viene ripetuto da medici ed esperti, il coronavirus non colpisce duramente soltanto i pazienti più anziani, ma anche persone giovani e talvolta anche quelle in salute. A preoccupare, in queste ore, è il dato di Bergamo, una delle città più toccate dalla diffusione del nuovo virus. Secondo quanto riportato da Il Giorno, infatti, i medici della Federazione medici di famiglia (Fimmg) della Lombardia, hanno lanciato un allarme sul numero di giovani colpiti da questo virus.

I trentenni "in osservazione". In base ai primi dati forniti a Bergamo, sarebbero almeno 1.800 i pazienti trentenni affetti da polmonite da Covid-19. Come chiarito da Paola Pedrini, segretaria Fimmg Lombardia, "la polmonite da coronavirus evidentemente non colpisce soltanto in età avanzata" e aggiunge: "Qui a Bergamo siamo 600 medici di famiglia e ognuno di noi ha in osservazione almeno tre trentenni malati di polmonite da Covid-19".

I pazienti arrivati in Germania. Sempre dalla città lombarda, i primi due pazienti, in queste ore, sono stati inviati a Lipsia, in Germania, per ricevere altre cure. A renderlo noto è stato su Twitter il ministero degli Esteri tedesco, che ha postato l'immagine dell'arrivo degli italiani. "Solidarità Ue ai tempi del Covid-19. Con la mediazione dell'Ambasciata tedesca in Italia sono arrivati stasera, da Bergamo, alla clinica universitaria di Lipsia i primi due pazienti in terapia intensiva", scrivono dal dicastero guidato da Heiko Maas.

La situazione in provincia. Nei giorni scorsi, le immagini delle bare scortate dai mezzi dell'esercito che uscivano da Bergamo di notte avevano fatto il giro della rete. Purtroppo, però, la città, uno dei luoghi più colpiti dalla diffusione del Covid-19, non ha smesso di fare i conti con i deceduti a causa della malattia. Nelle ultime ore, altri mezzi dell'esercito hanno attraversato la Bergamasca per trasportare altri feretri dalla provincia. Stamattina, i furgoni militari sono stati a Ponte San Pietro, dove, da un capannone di via papa Giovanni XXIII°, sono state portate via 33 bare, destinate al forno crematorio di Bologna. In base alle prime informazioni, non si tratterebbe soltanto di salme giunte dal policlinico della località lombarda. Come riportato da Il Giorno, la struttura per le cremazioni di Bergamo del cimitero monumentale, in funzione tutti il giorno, non riuscirebbe a contenere la richiesta, con sepolture ogni trenta minuti.

Maria Giovanna Maglie contro i medici cubani in Italia con foto di Fidel Castro: "Ma vaffanculo". Libero Quotidiano il 25 marzo 2020. In soccorso dell'Italia ecco arrivare un gruppo di medici da Cuba, direttamente da L'Havana. Insomma, il Belpaese riceve aiuti da comunisti e post-comunisti nei giorni del coronavirus: oltre ai cubani, cinesi e russi. I medici cubani, tutti in camice bianco, sono stati accolti con tutti i fasti nel nostro Paese. Ma qualcuno li ha accolti con un clamoroso "ma vaffanculo". Si tratta di Maria Giovanna Maglie, la quale in effetti ha le sue ragioni per perdere le staffe. Perché? Presto detto: i suddetti medici cubani si sono presentati non solo con camice bianco, ma anche con gigantografia di Fidel Castro, lo storico leader maximo scomparso nel 2016. Un dittatore sanguinario, esaltato a casa nostra. Ne segue il roboante e condivisibile "vaffa" della Maglie.

Coronarivus, da Nord si attacca il Sud: il fallimento del “modello Lombardia”. Giuseppe Manzo su giornale radio sociale il 20/03/20. Il coronavirus sembrava aver unito il Paese. In questa emergenza un filo lega il destino del Nord a quello del Sud, quello del contagio e della paura. La reazione emotiva dai balconi tra musica e balli ha visto esporre bandiere tricolori da Milano a Napoli. Per qualcuno, però, non è così. Non lo è per il professore Massimo Galli che nella trasmissione Carta Bianca è stato protagonista di una reazioni scomposta e quasi offensiva nei confronti di Paolo Ascierto, oncologo dell’Istituto Pascale di Napoli. Secondo Galli la terapia scoperta dai ricercatori napoletani era già in uso a Bergamo e quindi nessun merito per il team di Ascierto. E come mai, va chiesto, quel medicinale non è stato condiviso con il resto d’Italia? In questo scontro esploso sui social ecco arrivare la fake news sui 249 medici assenteisti all’ospedale Carderelli: l’azienda sanitaria non solo ha smentito ma ha annunciato querele contro i principali quotidiani nazionali che come fonte si sono basati su un post di facebook. Infine, ci pensa Salvini a svelare tutta l’ipocrisia di un ventennio di propaganda leghista anti-meridionale: “a Bergamo c’è bisogno di medici, il resto del Paese collabori”. Il modello lombardo della sanità, la regione locomotiva per l’economia, il cuore pulsante della finanza italiana sta implodendo clamorosamente e non si trova di meglio che spostare l’attenzione mediatica su Napoli e dintorni. Al tempo del coronavirus è il momento dell’unità per un Paese, ma per qualcuno “fratelli d’Italia” è solo il nome di un partito. Giuseppe Manzo giornale radio sociale. 

Impaziente Zero di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano 28 febbraio 2020 – Breve dizionarietto per orientarsi nella jungla dell’epidemia.

Coronavirus. Vasta famiglia di virus noti dagli anni 60 per infettare uomini e animali con raffreddori o malattie respiratorie più gravi, cui appartiene anche l’ultima versione “Covid-19”. Nome derivante dalla forma a corona e non dai danni paragonabili a quelli fatti da Fabrizio Corona in carcere e fuori o da Mauro Corona in televisione.

Paziente zero. É il primo, misterioso soggetto infetto che ha portato il coronavirus in Italia, innescando i contagi a catena dalla Lombardia al Veneto eccetera. È molto più ricercato di Matteo Messina Denaro, ma un po’ meno difficile da trovare di un elettore di Italia Viva.

Impaziente Zero. Gli esperti l’hanno già individuato, ma per ora ne comunicano solo il nome (Matteo) e la professione (senatore), senza sciogliere la riserva sul cognome perché stanno testando ben due potenziali candidati che presentano sintomi analoghi, tipici di quando l’insuccesso dà alla testa: mitomania molesta, logorrea patologica, mania di protagonismo, ansia di presenzialismo, smania di rovesciare un premier più bravo di loro per mandare al governo almeno due soggetti infinitamente peggiori di lui, cioè se stessi.

Governissimo. Non potendo, date le circostanze, sfidare il ridicolo col classico “governo di salute pubblica”, i due Impazienti Zero lo usano per nobilitare il loro inciucio volto a placare il Poltronavirus e a frustrare il legittimo sollievo di molti italiani per non avere il Matteo maior al governo in un momento come questo (già bastandovi la presenza del Matteo minor).

Autonomia differenziata. Bizzarra teoria politica che chiede più poteri alle regioni, molto in voga da destra a sinistra finché non si è visto di cosa sono capaci le regioni già con i poteri attuali. Ovvero: il sonno della regione genera mostri.

Immunodeficiente. Termine da sempre usato per indicare un soggetto privo o carente di anticorpi. Ora però, dopo il video ovviamente “virale” del governatore leghista lombardo Attilio Fontana che entra in quarantena in diretta Facebook e indossa la mascherina (fra l’altro, sbagliata) pur essendo negativo al test del tampone, per giunta dopo aver dato del “cialtrone” al premier Conte che osava denunciare una falla nell’infallibile sistema sanitario lombardo, il significato potrebbe allargarsi a significati più atecnici.

Sanità lombarda. Meccanismo efficientissimo e incriticabile, in quanto perfettamente funzionante e oliato, come dimostrano i 6,6 milioni di tangenti intascati da Formigoni e la sua condanna a 5 anni e 10 mesi. Ma soprattutto la sua scarcerazione dopo 5 mesi col plauso della Consulta.

Tamponamento. Incidente stradale fra due o più auto in fila. Ma ora anche test sul coronavirus, grazie all’assessore forzista lombardo Giulio Gallera, forse convinto che il tampone si applichi al mento. Vedi anche alla voce “Immunodeficiente”.

Contagio. Trasmissione del virus da un individuo all’altro per contatto diretto o indiretto. Tipo quando Peter Sellers, in Hollywood Party, infila la mano nel vassoio del caviale e poi corre a lavarsela, ma nel tragitto stringe e incaviala quelle di chiunque incontri; poi, quando finalmente l’ha lavata, reincontra tutti quelli che aveva appena incavialato, che lo reincavialano a propria volta. Ogni riferimento all’assistente infetta di Fontana che incontra Fontana, che incontra Speranza e Salvini, che a sua volta incontra Mattarella è puramente casuale.

Amuchina. Sostanza igienizzante ritenuta più taumaturgica dell’acqua santa e dunque oggetto di corse agli accaparramenti e conseguenti rincari fino a raggiungere prezzi da ambrosia. Nota anche perché Luigi Di Maio, non contento di dire “vàirus”, la ritiene una crasi di Amu e China (pronuncia “ciàina”) e la chiama “amuciàina”.

Caldo. Tutti lo attendono perché, dicono, farà calare l’epidemia. Ma non tutti i virus vengono per cuocere. In ogni caso, ce ne laviamo le mani.

Basta allarmismi. Ora lo dice persino Libero, che solo due giorni fa annunciava “Prove tecniche di strage” e ora denuncia sdegnato: “Virus, ora si esagera”. L’effetto, purtroppo, è opposto a quello sperato: se uno come Feltri minimizza, allora c’è davvero da preoccuparsi.

Peste. Termine evocato per sottrazione da chi, incluso il prof. Burioni, intende rassicurare la popolazione sul fatto che il coronavirus non è la peste. La tecnica ha funzionato finché il prof. Burioni non ha lanciato su Amazon il suo nuovo libro dal titolo “Virus, la grande sfida: dal Coronavirus alla peste” e non viceversa. Come dire che la peste (che fra l’altro viene da un batterio e non da un virus, ma fa niente) è dietro l’angolo. Seguiranno il colera e la lebbra.

Turismo. Se ce n’è tanto, è troppo e “uccide Roma e Venezia”. Se cala, è troppo poco e “uccide Roma e Venezia”. Urge numero preciso dei turisti che sarebbero perfetti per Roma e Venezia, please.

Promessi Sposi. Celeberrimo romanzo di Alessandro Manzoni, evocato da chi ha fatto le scuole alte a proposito della psicosi da coronavirus insieme al Decameron di Boccaccio, a La peste di Camus e a Cecità di Saramago. E con grande pertinenza, vista la presenza anche oggi del Conte (zio: “sopire, troncare…”), dell’Innominato, dei polli di Renzi, di don Rodrigo col Griso Giorgetti (“Questo inciucio s’ha da fare”), di Lucia Mattarella (“Non sono io che ho cercato guai, ma sono i guai che hanno cercato me”), di vari don Abbondio (tutto il Pd), dei gran cancellieri Ferrer (i governatori e le loro inutili gride manzoniane), col contorno di untori, monatti, bravi, nibbi, perpetue, monache di Lodi e Casalpusterlengo. 

In Lombardia è un disastro. La gestione sanitaria ha fallito. Il consigliere M5S Violi: “Paghiamo gli errori del passato. Cliniche private privilegiate per anni sul pubblico”. Carmine Gazzanni il 10 Marzo 2020 su lanotiziagiornale.it. “La situazione è disastrosa, i numeri crescono di giorno in giorno in modo molto preoccupante, con delle proiezioni che davvero non fanno ben sperare, con numeri che non sappiamo se la sanità lombarda oggi sia in grado di reggere”. Tanto chiaro quanto nero il quadro tracciato dal consigliere regionale M5S in Lombardia Dario Violi. Anche l’ultimo bollettino di ieri, d’altronde, disegna una situazione che resta profondamente drammatica. “Alcuni medici ci dicono, e ce lo avevano detto anche nei giorni scorsi, che a breve si troveranno purtroppo a dover scegliere a chi dare la priorità negli ammalati”.

In che senso?

«Ci saranno ammalati che avranno la precedenza e invece altri che, nonostante l’urgenza, può darsi che debbano mettersi in coda. Sono già stati predisposti voli e trasferimenti anche in ospedali di altre regioni per i malati gravi non affetti da coronavirus. Purtroppo in questi anni si è investito troppo nella sanità privata che in questa fase, e fino a qualche giorno fa, sostanzialmente è rimasta a guardare mentre il pubblico si dava da fare».

Crede che il colloquio tra Regione e Governo sia stato proficuo?

«C’è stato un problema di ascolto da parte dello Stato, perché già due settimane fa la Regione, ma non solo, e la quasi totalità dei sindaci della Lombardia, avevano chiesto misure molto stringenti ed erano preoccupati per il loro territorio; da Roma era arrivata invece una risposta molto blanda e la serrata è arrivata solo nella notte tra sabato e domenica. La Regione ha fatto polemica e lo Stato non ha voluto ascoltare».

Fontana ha definito il nuovo decreto “pasticciato”. Cosa ne pensa?

«Per me che Fontana abbia definito il decreto “pasticciato” è illogico e ingiusto. È la prima volta nella storia del nostro Paese che si interviene con misure così drastiche. È chiaro che quando si fanno le cose in emergenza tutto è sempre opinabile, ma è il lavoro delle istituzioni dovrebbe essere quello di collaborare».

Sono state diverse le ricostruzioni sulla “fuga di notizie” che ha scatenato il panico pochi giorni fa a Milano. Per alcuni l’indiscrezione sarebbe arrivata dal Governo, per altri proprio dalla Giunta lombarda…

«Tanti giornalisti, persone che conosco e che ho incontrato, ritengono, ognuno per la sua fonte, che qualcuno lo abbia mandato in giro, qualche bozza sia stata mandata da Regione Lombardia, altre addirittura dai Sindaci, altri direttamente da Palazzo Chigi. Penso però che sia vergognoso quello che è successo: bisogna intervenire e trovare i colpevoli perché non esiste mettere nel panico una Regione da 10 milioni di abitanti».

Crede che questa drammatica emergenza possa cambiare il rapporto tra sanità pubblica e privata?

«Per anni sono stati tagliati decine di migliaia di euro alla sanità: se oggi ci troviamo al collasso è dovuto soprattutto a questo. Sono stati tagliati gli ospedali periferici perché si diceva che erano inefficienti, che i numeri non li giustificavano, e l’emergenza oggi è partita proprio da un ospedale di periferia dove le risorse umane si danno un gran da fare, ma purtroppo non sono supportate perché spesso le infrastrutture sono vecchie i macchinari non sono adeguati. C’è, dunque, una questione importante di risorse da assegnare a cui si aggiunge la questione di redistribuzione delle risorse».

Tra privato e pubblico?

«Esatto. Il fatto che la sanità privata non abbia contribuito a dovere, se non ora in questa fase dove c’è stata un’esplosione totale, ed il fatto che Regione Lombardia abbia fatto sì che più della metà della sanità sia gestita a livello privato, ha portato a questa situazione. Va rivisto tutto un paradigma a livello di investimenti pubblici, perché in questi giorni vediamo il paradosso di autostrade vuote e ospedali al collasso e siamo appena all’inizio. Questo ci dovrebbe dare la dimostrazione del fatto che abbiamo investito in strade spesso inutili dimenticandoci degli ospedali e di servizi pubblici, che ad oggi non riescono a dare risposta ai cittadini e che si trovano magari a dover scegliere chi far morire o chi soccorrere per primo. Questa situazione è inaccettabile e dovrebbe aiutarci a ragionare e capire che da domani deve succedere tutto il contrario. La sanità pubblica ha dato una risposta rapida ed efficiente, mentre quella privata è rimasta a guardare imbrigliata nelle questioni burocratiche. Non sono contrario al privato. Anzi, se si tratta di un’eccellenza è ottimo. Ma non può prendersi i meriti della sanità pubblica senza esserne al fianco in queste situazioni. Deve, invece, far parte del sistema sanitario».

Coronavirus, pochi medici e ospedali al collasso: così fallisce il modello Lombardia. Claudio Marincola il 5 marzo 2020 su quotidianodelsud.it. «Purtroppo è un giro vorticoso. E tutto si conclude sempre allo stesso modo: con una visita o un’analisi in una struttura privata. È la logica di mercato, quello che accade dopo aver spezzettato la sanità pubblica in 21 Regioni diverse. Non abbiamo più qualcosa che ci unisce, una cornice nazionale». Enzo Scafuro, segretario regionale lombardo del Sindacato medici italiani (Smi) è da sempre in prima linea. Ha criticato l’ecosistema-Milano in tempi non sospetti, quando se ne parlava come un modello da imitare. Molto prima che gli ospedali finissero sotto stress e la città rischiasse di trasformarsi una gigantesca zona rossa. «Abbiamo iniziato eliminando gli infermieri, poi i medici, quindi bloccando le assunzioni. Non ci lamentiamo, dunque, se ora siamo stati costretti a richiamare in servizio gli anestesisti pensionati. La riforma è fallita».

LE CONVENZIONI. Stiamo parlando del modello-Lombardia. Il volto di Don Verzé, presidente e fondatore del San Raffaele. Una riforma sperimentale varata con la legge regionale 23/2015. Per l’occasione vennero usate parole grosse, «universalità e solidarietà», un modello organizzativo sul territorio originale. Unico. Stabiliva il diritto di libera scelta. Pubblico e privato sullo stesso piano nell’erogazione delle prestazioni. Risultato: nel pubblico file e liste d’attesa, mesi per un ricovero o per una visita specialistica. E il boom delle strutture private. «Li abbiamo visti nascere e moltiplicarsi, certi laboratori. Da un giorno all’altro, ormai qui a Milano ce n’è uno ogni 500 metri. Tutti convenzionati. E una volta entrato, il paziente non lo mollano, viene per così dire “ fidelizzato”. La radiografia? Non basta, serve anche la risonanza. E perché non un’ecografia? Ci sono esami che costano quanto il ticket, solo che, invece di aspettare mesi si fanno subito. Lei cosa farebbe? Andrebbe dal pubblico o dal privato?». Non più di due settimane fa il dottor Scafuro ha preso carta e penna e ha scritto al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, chiedendo di incrementare del 50% i posti letto di terapia intensiva e del 100% di pneumatologia. Strutture accreditate per ridurre la pressione sulle strutture pubbliche. Pool di anestesisti rianimatori, un protocollo per i tamponi, sicurezza per gli operatori sanitari. Un lungo elenco di richieste.

RIFORMA FALLITA. Succede a Milano. Capitale dei viaggi della salute, nella Lombardia che accoglie il 20% dei pazienti internazionali, seconda regione europea per numero di addetti nel settore della farmaceutica, prima regione italiana per investimenti nella ricerca. Ma dietro questa crescita esponenziale, in dissolvenza, correva un meccanismo distorto. Si doveva capire prima? «Investire oggi nella prevenzione avrebbe significato avere meno malati da curare domani, invece si è preferito inseguire i privati sulla patologia abbandonando la prevenzione», spiega ancora il segretario regionale Smi che ha portato in tribunale la Regione Lombardia per la delibera di affidamento dei casi cronici alle strutture private. Chi ha vissuto molto da vicino quel passaggio “storico” della sanità lombarda è stata Beatrice Lorenzin, ex ministro della Salute dal 2013 al 2018, prima nel governo Letta e successivamente con Renzi e Gentiloni e ora deputata dem. Per spiegarlo parte da lontano: «La riforma del titolo V doveva essere la soluzione a tutti i mali, specie per il Sud. A distanza di 20 anni registriamo invece il sostanziale fallimento della riforma “mancata” del 2000. Mancata perché mai accompagnata dall’individuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, dei fabbisogni e di un adeguato finanziamento delle amministrazioni e del servizio sanitario nazionale, in particolare al Sud». Al Nord il modello-Milano. Al Sud il modello-commissariamento per rientrare dall’esplosione del debito e i viaggi della speranza. «Ha funzionato poco e male riprende Lorenzin – inseguendo il pareggio di bilancio e ignorando di fatto i Lea e l’avanzamento del sistema delle prestazioni nelle regioni. La dimensione ragionieristica e un sistema di regole restrittive su personale e investimenti ha reso le regioni in piano di rientro sempre più deboli».

I RIMBORSI. Come uscirne? «Non possiamo tornare indietro, ma possiamo guardare avanti capendo che la spesa in sanità è un investimento sociale ed economico e non un costo. Va adeguato il finanziamento ai reali bisogni. Occorre dotarsi di meccanismi che consentano di monitorare l’applicazione dei piani diagnostici e terapeutici e cambiare i modelli di commissariamento. E bisogna realizzare nuovi Irccs nel Sud per potenziare la crescita e il trasferimento tecnologico attraendo personale altamente qualifica e risorse»: Ci sarebbero poi i rimborsi alle strutture private. Un mondo di numeri tutto ancora da scoprire. Ogni regione, in virtù del citato articolo V, può rivedere le tariffe stabilite con un decreto nel 2012 dal governo Monti. I privati convenzionati ricevono per una prestazione lo stesso rimborso di un ospedale pubblico. Si tratta spesso di strutture equiparate al pubblico senza averne i requisiti. Stiamo parlando di circa 27 milioni di prestazioni l’anno. Mica bruscolini. Nella Regione Lombardia sono parte integrante del sistema sanitario. Un settore che genera ricchezze e profitti. Posti letto di elevato livello. Un modello che ha paura dei colpi di tosse.

La sanità lombarda è eccellente: ma sarà vero? Luciano Canova su L’Inkiesta il 28 novembre 2012. La sanità lombarda è eccellente: ma sarà vero? Era un leit motiv piuttosto ricorrente nelle dichiarazioni del presidente Formigoni a proposito del sistema sanitario lombardo e la sua eccellenza: ripetuta quasi come un mantra, a ogni dichiarazione, data per assodata da chi l’ascolta, ma mai sufficientemente accompagnata da dati corroboranti. Obiettivo piuttosto semplice di questo articolo è investigare il quesito: il sistema sanitario lombardo è veramente eccellente? Rappresenta o no il migliore sistema sanitario regionale italiano? Proprio nei giorni in cui Monti segnala che, senza investimenti, il sistema sanitario nazionale rischia il tracollo. La nostra risposta è articolata, nel senso che, sicuramente, il sistema sanitario lombardo è tra i più efficienti d’Italia. Tuttavia, la sua eccellenza non pare così evidente, nel senso che condivide con molte altre regioni determinati aspetti positivi, pur avendo optato per un assetto organizzativo diverso; e nel senso, pure, che presenta alcune criticità, nient’affatto banali. Faremo riferimento prevalentemente a due fonti: il rapporto Oasi (Osservatorio sulla funzionalità delle aziende sanitarie italiane) 2011, redatto dal centro Cergas dell’Università Bocconi; e il rapporto Siveas del ministero della Salute. Per quanto attiene alla Lombardia, possiamo presentare alcuni elementi salienti: innanzitutto, si sottolinea la stabilità del sistema sanitario regionale lombardo, che ha attraversato due importanti momenti di riforma in un passato ormai non troppo recente. Il primo è avvenuto nel 1997-1998, con la ridefinizione dell’ambito territoriale delle Asl, passate da 44 a 14; e il secondo nel 2002-2003, con la separazione netta dei ruoli tra Aziende ospedaliere e Asl. Da allora, sostanzialmente, di grossi cambiamenti non ce ne sono stati in termini di assetto istituzionale. Un primo dato quantitativo interessante riguarda la durata media dei direttori generali delle Asl. Si osserva una certa stabilità, anche frutto della sostanziale continuità del governo politico per 20 anni. Un direttore generale dura in Lombardia, mediamente, quattro anni, contro una media nazionale di 3,8. Un elemento sicuramente virtuoso è caratterizzato dall’equilibrio finanziario del sistema sanitario regionale, dimostrato da un disavanzo procapite cumulato, nel periodo 2001-2010, di soli 41 euro, a fronte di una media nazionale di 631 euro di deficit. Il modello sanitario lombardo, rispetto a quello di altre regioni, presenta la peculiarità di privilegiare il privato accreditato. Esso va a costituire il 30% dell’intero sistema sanitario lombardo, a fronte del 21% della media nazionale. La spesa privata è superiore alla media nazionale sia per le prestazioni ambulatoriali specialistiche, sia per quanto concerne i ricoveri. I ricoveri ospedalieri per il 30% sono offerti da strutture private, contro una media nazionale del 23 per cento. Gli ospedali privati lombardi sono i più attrattivi per quanto attiene i pazienti che vengono da fuori regione, con l’Ospedale San Raffaele di Milano a costituire il più grande polo di attrazione.

Proprio per questo spiccato potenziamento delle strutture private, la Lombardia è leader a livello italiano anche nell’ambito della project finance, la finanza di progetto che coinvolge soggetti privati nel finanziamento di opere d’interesse pubblico. Proprio in virtù del modello organizzativo così delineato e del sistema d’incentivazione connesso, uno dei gap storici del sistema sanitario lombardo è rappresentato dall’integrazione tra le diverse strutture e dalla copertura territoriale, nonché dalla continuità delle cure, ad oggi punto debole del sistema. Come detto, il sistema sanitario lombardo è tra i più efficienti in Italia. Ma non è il più efficiente in assoluto, e in diversi ambiti. Un indicatore standard di performance è il tasso di ospedalizzazione per regime di ricovero e ubicazione della struttura. Si tratta di un indicatore che cattura i “miglioramenti di efficienza conseguibili attraverso l’appropriatezza dell’ambito di cura” . L’accordo Stato-Regioni del 2005 stabilisce che tale indicatore non dovrebbe superare il valore soglia di 180 per 1000 abitanti residenti. Il dato nazionale è inferiore allo standard: 171,79. La Lombardia ha un valore di 161,03, ma si trova dietro in classifica a Veneto (141,81), Friuli Venezia Giulia (142,49), Toscana (144,64), Piemonte (149,38) ed Emilia Romagna (154,16). Un altro importante aspetto dei sistemi sanitari regionali , molto importante anche in virtù dell’andamento demografico della popolazione italiana, è quello dell’Adi, Assistenza domiciliare integrata. Essa è una forma di assistenza che privilegia anziani e disabili in condizioni di non autosufficienza e che richiedono assistenza continuativa presso il loro domicilio. Un indicatore di efficienza, in questo caso, è dato dal numero di casi trattati ogni 100 mila abitanti. Più è alto e più la diffusione dell’Adi è da considerarsi capillare. Il valore medio nazionale è di 803 casi ogni 100 mila abitanti. La Lombardia, in questo caso, si trova appena al di sopra della media nazionale (850 casi). E segue, nella classifica tra regioni, il Friuli Venezia Giulia (2058), il Molise (1809), il Veneto (1538), l’Emilia Romagna (1531), l’Umbria (1239), la Basilicata (1146), le Marche (1034), l’Abruzzo (970), il Lazio (944) e la Liguria (922). Passando a considerare il Rapporto Siveas, prodotto dal ministero della Salute, chiudiamo con la comparazione efficace tra le regioni più efficienti attraverso il metodo qualitativo del bersaglio obiettivi. Le aree verdi individuano le dimensioni di eccellenza, per ciascuna regione; quelle gialle le dimensioni che presentano indicatori di buon livello; quelle rosse, infine, catturano le dimensioni di maggiore criticità. Pur con modelli organizzativi diversi, Veneto, Friuli, Toscana ed Emilia Romagna presentano livelli di performance paragonabili, se non maggiori, a quelli della Lombardia. Nel complesso, come mostrano anche le classifiche del WHO, il Servizio sanitario nazionale italiano è uno dei migliori al mondo, garantendo una copertura universalistica dei servizi offerti. All’interno di essi, l’eterogeneità tra performances e assetti organizzativi è molto spiccata, e concludere sull’eccellenza di un modello rispetto ad un altro è non solo questione ardua, ma sostanzialmente non rilevante, fatta salva la funzione pubblica di un bene essenziale quale la sanità. 

·         La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

E’ atterrato all'aeroporto Valerio Catullo di Verona, riaperto in via straordinaria per l'occasione, il volo con a bordo il team, arrivato ieri a Fiumicino, composto da 10 medici e 20 infermieri provenienti dall'Albania per aiutare gli ospedali di Bergamo e Brescia, tra le zone più colpite dalla pandemia. 

"È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all'Italia che gli albanesi e l'Albania non abbandonano mai l'amico in difficoltà”. Ha detto il Premier albanese.

Matteo Salvini e la coerenza, un rapporto complicato. Il leader della Lega, come tanti colleghi politici, ha ringraziato il gesto di solidarietà del premier albanese Edi Rama, che ha inviato 30 medici e infermieri in Lombardia per aiutare la sanità nostrana a fronteggiare l’epidemia di Covid-19. Bisogna andare indietro di qualche anno, è il 24 giugno del 2014, per leggere sempre sui social dell’ex ministro parole al vetriolo contro la stessa Albania. “Alla faccia della storia, dell’economia, del passato e del futuro – è il commento del leader del Carroccio, all’epoca europarlamentare – No all’Europa Supermercato”.

"Qualche giorno fa è uscita una lettera dei primari di rianimazione della Regione Lombardia, che accusavano la mancanza di solidarietà delle vicine Regioni, e credo si riferissero al Veneto, perché non avevano messo a disposizione personale medico e infermieristico fondamentale nel momento in cui qui avevamo il picco e non riuscivamo più a gestire le terapie intensive e il personale che veniva ricoverato. Mi sono chiesto, leggendo questa lettera, se esiste il Servizio sanitario nazionale, visto che ogni Regione cerca di chiudersi al proprio interno". Lo ha detto il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, ospite di "Che tempo che fa" il 29 marzo 2020.

«L'impresa veneta ha un Pil di 150 miliardi di euro: se crolla il Pil del Veneto crolla l'Italia». Lo ribadisce il governatore del Veneto, Luca Zaia, impegnato da questa mattina, 28 febbraio, nella sede della Protezione civile regionale a Marghera per fare il punto sulla situazione sanitaria in Veneto in merito alla diffusione del coronavirus. «In Veneto il turismo è letteralmente in ginocchio - dice Zaia -. Un comparto che, con 18 miliardi di fatturato, a livello nazionale rappresenta la più grande industria turistica in Italia. A questo settore si aggiunge la grande difficoltà che stanno vivendo le nostre 600mila partite Iva».

A questo punto ci vorrebbe un pernacchia. Ma mi esimo, ricordando la storia.

Il Veneto da prima dell'annessione al regno d'Italia era una terra con una forte tradizione migratoria soprattutto nelle zone pedemontane. Inizialmente il fenomeno fu di carattere perlopiù temporaneo o stagionale, diretto in particolare verso la Germania, l'Austria e l'Ungheria. Si emigrava soprattutto dalle zone montane, in particolare dalle province di Vicenza, Treviso e Belluno. Dopo l'Unità d'Italia, anche il Veneto subì una profonda crisi economica, la quale diede inizio alla grande emigrazione.

E dire che in momenti di estrema necessità, a mangiare i topi – e qualsiasi altro essere vivente commestibile – siamo stati anche noi italiani. E in particolare, proprio i veneti. Per ironia della sorte, era stato lo stesso Zaia a ricordarlo nel 2018 con un post su Facebook. «Topi messi ad essiccare a Belluno durante “l’an de la fam“, l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona».

Coronavirus, medici dall’Albania in aiuto degli ospedali di Bergamo e Brescia. Il governatore Attilio Fontana: "La Lombardia vi dice grazie". Il Giorno, 29 marzo 2020 -  Emergenza coronavirus: è atterrato all'aeroporto Valerio Catullo di Verona, riaperto in via straordinaria per l'occasione, il volo con a bordo il team, arrivato ieri a Fiumicino, composto da 10 medici e 20 infermieri provenienti dall'Albania per aiutare gli ospedali di Bergamo e Brescia, tra le zone più colpite dalla pandemia. Ad accoglierli il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, il vicepresidente, Fabrizio Sala, l'assessore all'Agricoltura, Fabio Rolfi e il sottosegretario Alan Christian Rizzi. Presente anche la consigliera regionale Simona Tironi. "Grazie - ha detto Fontana - per l'aiuto concreto in un momento molto complicato per la Lombardia. Siete la testimonianza dell'amicizia che lega l'Italia all'Albania. Sono certo che potranno contribuire ad alleggerire il lavoro dei nostri eccezionali rappresentanti della sanità che in queste settimane hanno dato una dimostrazione di dedizione, capacità, eccellenza superiore all'immaginabile. Speriamo che la situazione migliori così che presto si possa cominciare a pensare alla ripartenza. Ai nostri cittadini ripeto che non possiamo mollare, perchè diversamente rischieremmo di rientrare nel buio. E noi non possiamo permettercelo". "Stiamo lavorando ininterrottamente - ha rimarcato il vicepresidente Sala - per offrire la migliore assistenza a chi sta soffrendo per aver contratto il virus, ma anche per incoraggiare il sistema delle micro, piccole e medie imprese a sopravvivere a questo tsunami che ha sconvolto anche la nostra economia. La priorità resta la salute dei cittadini, ma dobbiamo impegnarci ancora di più per far sentire la presenza, la grande attenzione e la vicinanza a chi fa impresa - e pur con dimensioni ridotte ha grandissima qualità produttiva - per sostenere chi sta aspettando la fine dell'emergenza per ripartire". L'assessore bresciano Fabio Rolfi, nel ringraziare il personale arrivato da Tirana ha voluto dare 3 risposte ad alcune polemiche di questi giorni ."Anzitutto - ha detto - non è vero che Brescia è discriminata nell'assegnazione del personale: dal 20 febbraio ad oggi, agli Spedali civili, sono state assunte ben 140 persone grazie alle misure e alle risorse della Regione Lombardia. E ancora, dei 10 volontari della Protezione civile nazionale, 6 sono stati destinati a Brescia e, grazie all' impegno e all'amicizia dell'Albania e della Polonia potremo disporre di altri 45 medici. Importantissimi sono stati anche l'intervento di Guido Bertolaso e le capacità diplomatiche della Regione". Rolfi ha poi ricordato che "I tamponi ai medici di base continueranno a essere fatti e che l'assistenza domiciliare sul territorio è implementata grazie all'impegno dell'Ats e nel pieno rispetto delle indicazioni dell'Istituto Superiore di Sanità". L'assessore ha quindi spiegato che "Sono 80 i malati lombardi che sono stati trasferiti nelle altre regioni, secondo le decisioni presa dall'Unità di crisi della Protezione civile Nazionale che è a capo dell'attività di 'cross'". Il sottosegretario Alan Rizzi ha quindi aggiunto che "operazioni di questo genere sono certamente favorite dal rapporto quotidiano che intercorre fra la Regione e i rispettivi consolati. Un rapporto di stima e fiducia reciproca che porta a queste operazioni che hanno del miracoloso". Edi Rama, premier albanese, nelle scorse ore ha affidato a un video - postato da presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano - l'annuncio della partenza dei trenta tra medici e infermieri albanesi per l'Italia: "È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all'Italia che gli albanesi e l'Albania non abbandonano mai l'amico in difficoltà. Oggi noi siamo tutti italiani e l'Italia la deve vincere questa guerra è la vincerà anche per noi, per l'Europa e il mondo intero". "Sono 30 anni che ci aiutate e supportate ed è il minimo che potevamo fare per questa nazione". Lo ha detto un infermiere di Pronto soccorso di 35 anni di Tirana che fa parte della delegazione. "Sono consapevole di quanto sta accadendo negli ospedali bresciani, ma non mi spavento», ha detto l'infermiere che ricorda: "Ho vissuto anche 15 anni a Napoli". "Da quando ho sentito che i numeri dei contagiati continuavano a crescere in Italia mi sono informata in ogni modo per poter aiutare l'Italia e ho risposto all'appello", ha aggiunto una dottoressa: Mia madre nel 2011 è stata operata a "Pisa. Quei medici l'hanno salvata e ora io voglio restituire quanto è stato fatto». Un'altra infermiera ha aggiunto: "Per noi è una possibilitá importante e sono sicura che vinceremo questa battaglia. Mio papà che è medico è stato contagiato da Covid-19 e io voglio aiutare i bresciani".

Coronavirus, l'Albania invia medici e infermieri: "Non dimentichiamo l'Italia che ci ha aiutato". Trenta sanitari arrivati da Tirana. Il premier Rama: "Paesi ricchissimi hanno voltato le spalle agli altri. Noi non siamo ricchi ma neanche privi di memoria". La Repubblica il 29 marzo 2020. "Non siamo privi di memoria: non possiamo non dimostrare all'Italia che l'Albania e gli albanesi non abbandonano mai un proprio amico in difficoltà. Oggi siamo tutti italiani, e l'Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l'Europa e il mondo intero". E' quanto ha detto il premier albanese Edi Rama, salutando all'aeroporto di Tirana un team di 30 medici e infermieri albanesi partiti per l'Italia in aiuto ai colleghi impegnati nella lotta al coronavirus in Lombardia. "Trenta nostri medici e infermieri partono oggi per l'Italia, non sono molti e non risolveranno la battaglia tra il nemico invisibile e i camici bianchi che stanno lottano dall'altra parte del mare. Ma l'Italia è casa nostra da quando i nostri fratelli e sorelle ci hanno salvato nel passato, ospitandoci e adottandoci mentre qui si soffriva", ha aggiunto Rama nel breve saluto cui era presente anche l'ambasciatore d'Italia in Albania, Fabrizio Bucci. "E' vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere, e paesi ricchissimi hanno voltato le spalle agli altri. Ma forse è perche noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non possiamo permetterci di non dimostrare all'Italia che l'Albania e gli albanesi non l'abbandonano", ha concluso Rama. "Voglio ringraziare il premier Edi Rama, il governo e il popolo albanese per la solidarietà che ci stanno dimostrando", ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio accogliendo la delegazione a Fiumicino. "La solidarietà che l'Albania dimostra è un valore comune che ha fatto nascere l'Unione europea e che sta ricordando a tanti Paesi dell'Ue in questo momento", ha aggiunto il ministro confermano che i medici andranno in Lombardia. I sanitari arrivati sabato a Roma hanno pernottato alla Cecchignola. A Fiumicino, ad attendere il team albanese, oltre a Di Maio c'erano anche il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri e il vice capo Dipartimento della Protezione civile, Agostino Miozzo.

La grande lezione del premier albanese ai burocrati dell’Ue. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 29 marzo 2020. the world. “Non siamo un Paese ricco ma non ci dimentichiamo dei fratelli italiani che ci hanno aiutato e ospitato”. È un discorso che rimarrà scolpito nella storia, quantomeno nel rapporto fra due popoli, quello di Edi Rama, primo ministro dell’Albania, pronunciato ieri su Facebook davanti ai 30 operatori sanitari – medici e infermieri – in partenza per l’Italia dalla capitale, Tirana. Un esempio di solidarietà tra popoli e nazioni, nonché una lezione di enorme generosità per una piccola, non ricchissima, ma orgogliosa nazione quale è l’Albania, che non dimentica il suo passato e il suo profondo legame con il nostro Paese. Quest’emergenza ci ricorderà chi ha mostrato solidarietà nei confronti del nostro Paese, nel momento del bisogno, e chi no: mentre il premier albanese pronunciava il suo toccante discorso, infatti, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen gelava l’Italia – ancora una volta – affermando che non “c’è un piano per i Coronabond, quella parola è una sorta di slogan, non si lavora a questo”, considerando “giustificate” le riserve di Paesi dell’Europa del nord – guidati dalla Germania – sugli eurobond. Ebbene, le parole di Edi Rama sono soprattutto una lezione di stile a una classe di eurocrati che in quest’emergenza sanitaria – poi diventata crisi politica – hanno mostrato tutto il loro cinismo e la loro inadeguatezza. L’Italia certamente non dimenticherà la solidarietà di Tirana e l’egoismo dell’Unione europea.

Il discorso del premier albanese: “L’Italia è casa nostra”. “Non siamo privi di memoria: non possiamo non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non abbandonano mai un proprio amico in difficoltà. Oggi siamo tutti italiani, e l’Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e il mondo intero” ha spiegato Edi Rama, salutando all’aeroporto di Tirana un team di 30 medici e infermieri albanesi inviati in Italia per aiutare i colleghi impegnati nella lotta al coronavirus in Lombardia, come riporta il Tgcom24. “Voi membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra”, ha aggiunto il premier albanese rivolgendosi al team sanitario. “Trenta nostri medici e infermieri partono oggi per l’Italia, non sono molti e non risolveranno la battaglia tra il nemico invisibile e i camici bianchi che stanno lottano dall’altra parte del mare. Ma l’Italia è casa nostra da quando i nostri fratelli e sorelle ci hanno salvato nel passato, ospitandoci e adottandoci mentre qui si soffriva”, ha aggiunto Rama nel breve saluto cui ha preso parte anche l’ambasciatore italiano in Albania, Fabrizio Bucci.

“Altri Paesi ricchissimi si sono chiusi: noi non dimentichiamo”. Il premier ha poi lanciato una stoccata, senza fare nomi, verso Paesi ben più ricchi dell’Albania che però hanno subito chiuso le porte in faccia al nostro Paese. “Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile. Le risorse umane e logistiche non sono illimitate, ma non possiamo tenerle di riserva mentre in Italia c’è ora un enorme bisogno di aiuto. E’ vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere, e paesi ricchissimi hanno voltato le spalle agli altri. Ma forse è perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non possiamo permetterci di non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non l’abbandonano”.

Francesco Persili per Dagospia il 31 marzo 2020. "Siamo in una guerra mondiale contro il coronavirus. Non si può vincere solo giocando in difesa, con il catenaccio. Qui ci vuole un’Europa che faccia come il Milan di Sacchi. Gli Stati campioni si mettano a disposizione della squadra”. Il premier albanese Edi Rama interviene a “Tiki casa”, la versione social di “Tiki Taka”, e torna sulla decisione di inviare in Italia “l’esercito bianco” di 30 medici e infermieri per l’emergenza coronavirus. “Non possiamo combattere divisi all’interno delle proprie frontiere, senza reagire insieme”. “Non siamo privi di memoria e non abbandoniamo mai l’amico in difficoltà”, aveva detto il primo ministro di Tirana in un discorso che ha raccolto tantissimi consensi (non solo) sui social. Gratitudine e senso di una memoria comune. “Mi ricordo gli sbarchi in Puglia negli anni ’90”, rivela Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. “Con mio padre andammo a fare la spesa e portammo generi alimentari al porto di Brindisi. Provai un dolore fortissimo. Credo che l’Albania ricordi la nostra accoglienza…”. Due popoli che si danno la mano e condividono la sofferenza di questo tempo. “La conta dei morti ogni sera suscita una enorme tristezza – prosegue Edi Rama - Siamo in una guerra in cui l’onnipotente esercito americano e il modestissimo esercito albanese valgono lo stesso, cioè zero. Parliamo di intelligenza artificiale ma quando il nemico arriva nel nostro mondo non ci sono mascherine, non si trovano respiratori. L’Europa è la nostra casa comune. Se minaccia di bruciare non si può restare appartati e aspettare che il virus vada via. Spero che questa crisi si trasformi in opportunità per approfondire come vogliamo vivere e cosa vogliamo essere”. Ex giocatore di basket, Edi Rama ha l’Italia nel cuore. Dall’altra parte dell’Adriatico, al tempo della dittatura, l’Italia era l’America. E si tifava per gli azzurri. “Eravamo chiusi in un bunker, la sola finestra erano le partite di calcio della Nazionale italiana”. Il “Vate” Valerio Bianchini lo ricorda studente d’arte nel 1988 al tempo di una trasferta della Scavolini Pesaro in Albania in cui il futuro premier albanese svolgeva il ruolo di interprete. Lapo Elkann si è esaltato davanti alle sue foto con le giacche della Juve: “Adesso mi è tutto più chiaro perché l’Albania è guidata da un grande Uomo”. L’ex sindaco di Tirana rivela a Pardo che le sue simpatie bianconere risalgono al tempo di Dino Zoff la cui foto campeggiava sopra il suo letto. “Prima di spegnere la luce lo guardavo”. “Ho avuto una debolezza solo quando è arrivato Mourinho all’Inter. Ho gioito per i suoi successi. Tutti hanno i loro peccati…”

L’Albania di Rama oltre la solidarietà: scandali, rapporti opachi, democrazia sospesa. Francesco Giubilei il 2 aprile 2020 su Il Giornale. L’arrivo di aiuti economici, materiale sanitario e personale medico da parte di decine di stati stranieri nel nostro paese, oltre a dimostrare l’amicizia di cui l’Italia gode nel mondo, ha dato vita a un fenomeno che numerosi politologi hanno definito ”geopolitica della solidarietà”. In alcuni casi, l’invio di aiuti si accompagna a finalità di carattere politico e soprattutto i gesti di solidarietà (che senza dubbio apprezziamo in un momento difficile per la nostra nazione), non devono farci dimenticare responsabilità e comportamenti dei leader o dei governi nei propri paesi. È il caso del governo cinese che, al netto degli aiuti inviati all’Italia, ha responsabilità nelle fasi iniziali della diffusione del contagio e non può di certo essere preso come modello per una democrazia come quella italiana, ma anche dell’esecutivo guidato in Albania da Edi Rama. Qualche giorno fa dall’Albania sono arrivati in Italia trenta medici, un gesto di solidarietà importante di cui siamo grati al popolo albanese ma che si è trasformato in uno strumento di propaganda eccezionale per il Primo ministro Edi Rama. Milioni di italiani hanno condiviso in buona fede il video di Rama in cui annunciava in italiano l’invio dei medici. La forma di governo in vigore in Albania è la Repubblica parlamentare, ciò significa che, come nel nostro paese, c’è un Primo ministro e un Presidente della Repubblica. Colpisce che quasi nessuno in Italia abbia citato o ringraziato il Presidente della Repubblica Ilir Meta, eppure lo stesso Meta ha espresso: “gratitudine e orgoglio per i nostri 30 medici e infermieri che daranno il loro sostegno nella regione più colpita dalla pandemia in Italia. Questa solidarietà e questi sacrifici rafforzeranno ancora di più l’eccellente relazione tra i nostri due paesi e popoli”. Pochi sanno che in Albania è in atto uno scontro tra il Presidente della Repubblica Meta e il Premier Rama, ne avevamo parlato in un’intervista realizzata a Meta questa estate su “Il Giornale” in cui il Presidente albanese spiegava l’irregolarità delle elezioni avvenute a giugno senza la sua approvazione, rendendole perciò anticostituzionali: “in tutte sessantuno le municipalità in cui si votava hanno vinto i socialisti perché privi di opposizione come durante il regime comunista”, perciò oggi il Partito Socialista controlla il 100% del governo locale. Le elezioni sono state giudicate non regolari anche dalla missione di monitoraggio  dell’OSCE -ODIHR e dal Congresso delle Autorità Locali del Consiglio d’Europa a causa della presenza di un solo partito alle urne. I problemi democratici non sono l’unico aspetto che colpisce il governo di Rama, secondo Sali Berisha, ex Presidente ed ex Primo Ministro: “l’Albania è diventata una specie di dittatura basata sul traffico di droga, un vero e proprio narco-stato”. Un’accusa che spiega in modo dettagliato: “la nomenklatura del partito socialista amministra e governa i singoli territori e, invece di vigilare e combattere l’illegalità, non fa nulla. Ogni anno in Albania nasce un fondo da miliardi di dollari per riciclare il denaro della droga anche grazie a una cooperazione strettissima con i cartelli del sud America. Sono tonnellate di droga esportate verso l’Italia e l’Europa, basti pensare che per l’antimafia italiana il traffico di eroina è pressoché un’esclusiva della mafia albanese. Un narco-stato non può crearsi senza la complicità e la collusione della politica”. Berisha non è l’unico a denunciare i legami tra il governo Rama e il narcotraffico, secondo Fatos Lubonja, uno dei principali intellettuali albanesi ed ex prigioniero politico per diciassette anni durante il regime comunista: “c’è una triangolazione di potere tra il mondo politico, economico e il narcotraffico” e aggiunge: “in Albania mancano i sistemi immunitari tipici della democrazia, il potere è in mano a bande, c’è un’economia instabile e non ci sono prospettive per il futuro”. Lubonja si sofferma poi su un altro aspetto legato al riciclaggio di denaro: “attraverso le nuove costruzioni si ricicla denaro sporco con prezzi fuori mercato nonostante lo spopolamento dell’Albania”. Chi ha avuto un ruolo centrale nell’avvio dell’inchiesta sul narcotraffico è il giornalista investigativo Basir Çollaku, direttore delle news di Shijak Tv, un’emittente privata albanese che racconta l’organizzazione del narcotraffico in Albania: “qui agiscono decine di clan che operano in modo analogo alla criminalità organizzata in Italia”. Ci vuole molto coraggio a denunciare pubblicamente le logiche e le dinamiche del sistema albanese, non è facile compiere liberamente il lavoro di giornalista investigativo senza subire pressioni e ritorsioni, Çollaku infatti ci dice di aver ricevuto varie intimidazioni che ha denunciato alle autorità. Come racconta Petrit Vasili, già Ministro della Sanità dal 2009 al 2012 con il governo Berisha, e Ministro della giustizia dal gennaio al maggio 2017 nel governo Rama, tra i problemi dell’esecutivo c’è anche la gestione della giustizia: “Il governo Rama ha compiuto una serie di forzature inaccettabili con la riforma della giustizia, una di questa è legata all’elezione del Procuratore Generale Temporaneo. La sua elezione è avvenuta solo con i voti della maggioranza socialista che sono stati 69 invece degli 84 richiesti e, nonostante fosse contrario alla costituzione, l’Unione europea ha accettato il voto. Finché non ci sarà un vero e proprio procuratore generale, una figura potentissima nell’ordinamento giuridico albanese, quello temporaneo è sotto il controllo di Rama con tutto ciò che ne consegue”. L’ambito giudiziario è il tema più spinoso oggi in Albania perché esiste un groviglio di nomine di persone vicine al governo che impediscono la tradizionale separazione dei poteri. Il Consiglio Supremo dei procuratori è guidato da Gent Ibrahimi, cognato della presidente della commissione parlamentare per le relazioni con l’estero, Mimi Kodheli, ex ministro della difesa del gabinetto di Rama, mentre il Consiglio giudiziario supremo è guidato da Naureda Llagami, una persona strettamente associata a importanti figure del partito socialista. Artur Metani, fratello della deputata socialista Eglantina Germani, ex ministro del governo Rama, è stato eletto Alto Ispettore della Giustizia, una nomina è contraria ai criteri costituzionali. Non si può non citare il ruolo ricoperto da Ardian Dvorani, presidente del consiglio per le nomine della giustizia che decide l’elenco dei candidati per la Corte costituzionale; l’unico problema è che l’attività della Corte costituzionale è sospesa da tre anni. Oggi il Partito Socialista controlla tutti e quattro poteri che dovrebbero rappresentare i pilastri di una democrazia: esecutivo, legislativo e giudiziario ed è riuscito a controllare la maggioranza del quarto potere (i media) anche attraverso alcune leggi anticostituzionali. Tutto ciò avviene in un momento molto delicato per l’Albania con l’avvio dei negoziati per l’ingresso nell’Unione europea come ha scritto il giovane e valido opinionista albanese Nikola Kedhi in un recente articolo in cui spiega l’appartenenza della nazione balcanica alla cultura occidentale ed europea, un motivo in più per promuovere il suo ingresso nell’Unione europea, senza però dimenticare le opacità del governo Rama e pretendere maggiore chiarezza. Rama sembra interessarsi più della forma che della sostanza; grande comunicatore, non è nuovo a iniziative propagandistiche e sembra aver creato la “Repubblica albanese delle sneakers”, tanto gli piace indossare le scarpe da ginnastica. Ambisce ad essere un Obama in salsa balcanica ma dietro la sua agenda politica liberal e favorevole alla open society, si nasconde una modalità di governo tutt’altro che trasparente e questo, al di là dell’aiuto inviato all’Italia di cui siamo riconoscenti, non può e non deve essere taciuto.

Enrico Fierro per il “Fatto quotidiano” il 2 aprile 2020. Cocainomane. Pazzo. La sua casa è un bunker inaccessibile, vive come un asociale. È il capo dei narcotrafficanti È solo un piccolo assaggio dell' antologia di insulti che puoi raccogliere a Tirana se ti fermi a un caffè con i militanti del Pd, il Partito democratico d'Albania, eterni e feroci avversari dei socialisti al governo. Oggetto di tante calorose attenzioni è Edi Rama, 56 anni, una laurea in Arti figurative, di mestiere primo ministro dell'Albania. Un personaggio divenuto familiare alla maggioranza degli italiani, pochi giorni fa, quando in un video sapientemente studiato ha annunciato in perfetto italiano l'invio di 30 medici e infermieri per aiutare il nostro Paese nella lotta alla pandemia. Aeroporto di Tirana, aereo pronto a partire sullo sfondo, il premier legge un breve discorso circondato da operatori sanitari protetti da tute bianche e maschere. "Laggiù è casa nostra. Noi non abbandoniamo l'amico in difficoltà". Poche parole e un grande gesto che hanno fatto guadagnare a Rama e al suo Paese la stima bipartisan del governo e del mondo politico italiano. Chi è davvero questo leader balcanico dai modi gentili e che parla perfettamente la nostra lingua, forse eredità di una nonna dalle origini italiane, è difficile capirlo. Se giri per Tirana trovi mille tracce lasciate da Edi Rama sindaco della città nel 2000. La città ha cambiato volto nel bene e nel male. Enormi centri commerciali hanno sostituito le vecchie e fatiscenti costruzioni del regime enverista. Piazza Scanderbeg, il cuore di Tirana, è risorta, il Parco della Gioventù è stato risanato con l' abbattimento delle costruzioni abusive nate dopo il crollo del regime. Tutto frutto del Piano regolatore varato dall' amministrazione Rama. Obiettivo: far uscire anche l'architettura della città dal grigiore di due regimi, quello fascista dell'occupazione italiana, e il lungo medioevo enverista. Vanto dei piani di risanamento "le case colorate", come il Palazzo Arcobaleno, nei pressi della stazione di Biloku e l' edificio viola al Boulevard Bajram Curri, diventati ormai mete turistiche di pregio. Colori e street art, una corsa forsennata vero modelli urbani occidentali, che nascondono sotto il tappeto le contraddizioni delle periferie e dei vecchi kombinat. L'Albania moderna è paese di contrasti forti. E somiglia per tanti aspetti alla vita politica di Edi Rama. Inizia da ministro della Cultura e della gioventù, nel 2000 diventa sindaco di Tirana, riconfermato col 61% dei voti nel 2003, nel 2005 conquista la guida del Partito socialista albanese del vecchio leader Fatos Nano. Nel 2011 guida le manifestazioni contro il governo di destra di Sali Berisha. La piazza è infuocata, la polizia spara e uccide quattro persone. Rama accusa il governo e il suo ministro dell'Interno, Lulzim Basha, di essere degli "assassini". Due anni dopo vince le elezioni e diventa primo ministro. Crescita economica, attrazione di investimenti stranieri, soprattutto italiani, modernizzazione della corrotta macchina statale e del sistema giudiziario: sono questi i punti fermi della sua azione. La crescita che nel 2013 era dello 0,5% balza al 3,5 nel 2016, la disoccupazione è al 14,7%, fra i tassi più bassi dell' area balcanica. Successi e contraddizioni. Se parli con Sali Berisha, ex medico personale del dittatore Hoxha ed ex presidente della Repubblica albanese, Rama è "un golpista" e l' Albania "un narcostato" guidato dal partito socialista, ribattezzato "partito cannabista". Accuse e scontri di piazza che non impediscono a Rama di essere rieletto nelle elezioni del 2017 col 48,34% dei voti. Rama è capace di districarsi nella politica internazionale. La mossa di inviare aiuti in Italia vuole dimostrare più cose. In primo luogo che l' Albania è riconoscente (per gli aiuti italiani dopo il crollo del regime con le operazioni Pellicano e Arcobaleno) ed è cresciuta. Che vuole accelerare il percorso per entrare nella Ue (la procedura è in corso), e che ha abbandonato progetti come quello della Grande Albania, un unico Stato insieme a Kosovo e Macedonia del nord. "Noi vogliamo solo una cosa, aderire alla Ue", ha ribadito Rama anche recentemente. E sempre guardando all' Italia.

Premier albanese: “Giubbotto della Juve? Perderò il voto degli interisti”. Marco Alborghetti il 31/03/2020 su Notizie.it. Ha spopolato la foto del premier albanese con il giubbotto della Juve: Edi Rama non teme di perdere il consenso dei tifosi nerazzurri. È diventato virale in poche ore la foto del premier albanese Edi Rama con il giubbotto della Juve. Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, il leader politico ha parlato della sua fede calcistica, snobbando ironicamente i tifosi dell’Inter. Il premier albanese aveva appena fatto parlare di sé grazie alla decisione di ripagare l’aiuto che l’Italia ha sempre offerto al suo popolo, ma ciò che è saltato più all’occhio per gli amanti del calcio è stato il suo giubbotto con lo stemma della Juve. Edi Rama è un tifosissimo della Juventus, come racconta anche ad un’intervista rilasciata mentre la sua foto con il giubbotto della Vecchia Signora spopolava sul web. Nell’intervista Edi Rama spiega che in Albania il numero dei contagiati per coronavirus non è paragonabile a quello riscontrato in altre nazioni come l’Italia. Citando una frase di Mourinho, il primo ministro spiega l’efficacia della tecnica di contenimento attuata: “Siamo stati i primi a mettere l’autobus davanti alla porta”. Già da tempo in Albania sono in vigore norme severe, come le sanzioni per chi è sorpreso a passeggiare dopo le ore 18. Tornando al calcio, quindi, ha raccontato di aver appeso in camera la foto di Zoff, storico portiere della Juventus. Ora che però la sua fede calcistica è stata “smascherata”, non tralascia in conclusione dell’intervista una stoccata a tutti quei tifosi interisti che hanno commentato acidamente la sua passione: “Mi hanno fotografato con il giubbotto della Juve? Vale la pena rischiare di perdere qualche elettore interista”.

Dagospia il 31 marzo 2020. Dal profilo Facebook di Valerio Bianchini. Nel 1988, allenavo la Scavolini che, avendo vinto il campionato la stagione precedente , partecipava all'Eurolegue. Come già mi era successo con Cantù, le prime qualificazioni ci facevano incontrare il Partizan di Tirana, una competizione che non dava pensieri ma che anzi suscitava in noi grande curiosità per il piccolo Paese blindato da un tetro dittatore che seminava le campagne di fortificazioni militari a difesa della Nazione dall'invasione prossima degli italiani. I ragazzi scherzavano con i nostri americani, Cook e Daye, ricordando loro che l'Albania era il paese più comunista che si potesse immaginare. Daye, che sospettava di essere preso in giro, venne da me per sapere la verità. Io non potei che confermare quanto aveva sentito dai compagni. L'Albania era effettivamente il paese più comunista conosciuto. Aggiunsi che non avevano rapporti né con la Russia di Breznev, né con la Cina di Mao, perchè entrambi i paesi erano considerati dagli albanesi troppo di destra. Completai le informazioni dicendo che l'Albania intratteneva relazioni diplomatiche solo coi khmer rossi della Cambogia, che per gli americani erano nient'altro che i temutissimi sterminatori dei loro soldati nella guerra del Vietnam. Partimmo da Falconara per un breve volo di mezzora al di là dell'Adriatico. Darren Daye si sedette accanto a me , un po' pallido in volto, nonostante la sua abbronzatura naturale. Mi chiese: “ Coach, quante ore di volo ci sono per Tirana?” “Mezz'ora “ risposi. “ Wow, esclamò Darren, L'Italia è così vicina alla Cambogia?” A ulteriore conferma della scarsa familiarità degli americani col mappamondo. Arrivati a Tirana, ad accoglierci con i funzionari del governo c'era anche un ragazzo alto, distinto e gentile. “Sono un giocatore di basket e poiché parlo la vostra lingua, sarò il vostro interprete”. La cosa m meravigliò non poco, perchè solitamente i nostri accompagnatori all'Est erano agenti dei servizi segreti con l'aspetto truce dei personaggi di Le Carré. Il ragazzo, oltre che appassionato di basket che sapeva tutto sul campionato italiano, era colto e la sua conversazione brillante. Passò molte ore con me e fu immediata amicizia. Era uno studente di arte e mi condusse a visitare il Museo di Scanderbeg, l'eroe albanese. Mi faceva mille domande e negli occhi aveva un gran desiderio di volare a di là dell'Adriatico, lontano dalla cupa dittatura di Henver Hoxha, che teneva l'Albania in una specie di medioevo comunista. Venne il momento della nostra partenza e Edi Rama era all'imbarco con noi. Mi regalò un ritratto da lui dipinto di una giovane fanciulla in abiti del suo folclore. E aveva negli occhi una grande tristezza e un desiderio insopprimibile di venire con noi. Lo salutai con calore, convinto di rivederlo a Pesaro, quando il Partizan fosse arrivato per la partita di ritorno. Ma quando giunsero gli albanesi lui no era con loro. Era rimasto in Albania. Una ventina d'anni dopo mi telefona Marzorati e mi dice che Edi Rama il sindaco di Tirana desidera contattarmi. Edi è famoso. Ha appena vinto il premio internazionale di “Sindaco dell'anno” davanti a Veltroni , sindaco di Roma. Edi aveva trasformato la grigia e degradata Tirana di Hoxha in una nuova imprevedibile città, ricca di giardini e con le vecchie case ridipinte in mille colori come un quadro dadaista. Era successo che pocodopo la nostra visita, Edi era riuscito a fuggire a Parigi per studiare arte. Da Parigi coordinava una specie di resistenza albanese con la pubblicazione di fanzine che facevano inviperire il regime. Quando Hoxha crollò assieme al comunismo internazionale col muro di Berlino, in Albania si scatenò una sanguinosa guerra di fazioni politiche. Edi tornò per visitare i suoi e una notte gli tesero un'imboscata e lo massacrarono di percosse. Il medico disse che a salvarlo era stata la sua corporatura di giocatore di basket. Trovò ancora rifugio in Francia e intanto le cose in Albania andavano sistemandosi. Morì il padre ed Edi tornò per il funerale e il primo ministro gli offrì il ministero della Cultura. Cominciò così una carriera politica che oggi lo vede Primo Ministro. Edi, da sindaco, si ricordò dell'allenatore con cui aveva stretto amicizia da ragazzo e mi invitò con mia moglie per un soggiorno nell'Albania che stava cambiando. Mi fece fare un viaggio lungo le coste incontaminate di quella meravigliosa sponda dell'Adriatico, fino al teatro romano di Butrinto, ai confini con la Grecia. Rinsaldai l'amicizia e capii dall'ampiezza della sua visione politica che Edi non si sarebbe limitato a fare il sindaco della capitale. Ieri il nostro Renzi per chiudere il semestre europeo a guida italiana ha scelto l'Albania recandosi a incontrare Edi Rama. Una scelta dettata dall' esempio di un Paese uscito dalla dittatura verso la modernità sotto la guida geniale ed ispirata di un ragazzo che giocava a basket.

Nicolò Zuliani per termometropolitico.it il 31 marzo 2020.

Nel 1985 muore Enver Hoxha, dittatore comunista e fanatico maoista che aveva rotto con Tito perché lo considerava troppo moderato. Lascia uno Stato ridotto a meno del terzo mondo. In Albania non si può uscire né entrare, non esiste proprietà privata, chi contesta viene giustiziato in piazza e si può votare un solo partito, l’unico: il Partito del Lavoro dell’Albania. Viene definita “una prigione a cielo aperto”. Dopo Hoxa seguono governi instabili che compensano errori con orrori: la polizia diventa ancora più aggressiva e la qualità della vita precipita.

Quando nel 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino, l’economia albanese è al collasso. Il reddito pro capite annuo è di 750 dollari, i diritti civili sono azzerati. I cittadini, nascosti in casa, puntano le antenne della televisione verso l’Italia e sognano. Trasmissioni come La ruota della fortuna, Giochi senza frontiere, Non è la Rai, il Karaoke, per loro sono la prova che dall’altra parte del mare c’è un paradiso di benessere, libertà, bellezza e futuro. Così decidono che è meglio morire provando a raggiungerlo che restare lì a morire di fame guardandolo.

L’8 agosto 1991, a Durazzo, il comandante della nave mercantile Vlora, Halim Milqui, sta sbarcando le scorte di zucchero prese da Cuba. Sente rumori sul molo e vede una folla di civili sfondare il cancello e salire a bordo. Sono decine, poi centinaia, poi migliaia. Alcuni sono armati e lo minacciano di riprendere il largo per portarli in Italia. Non ha scelta, e così facendo si presenta al largo di Brindisi con 20,000 anime. Uomini, donne e bambini ridotti in stati pietosi e denutriti raccontano ai giornalisti orrori e miserie impensabili. L’ONU valuta quale sia la soluzione più conveniente a livello economico e politico, mentre il governo italiano si rende conto che sta per affrontare – da solo – un esodo di proporzioni bibliche. Ci vuol poco a capire che i profughi non caleranno, anzi, aumenteranno. Tra i disperati che scappano dalla fame si nascondono banditi che li torturano o derubano del poco che possiedono, e ne approfittano per organizzare traffici di droga ed esseri umani. Andreotti decide che il problema va risolto alla radice, contatta il governo albanese e si offre di aiutarlo con l’unico personale che ha a disposizione: i soldati di leva. Nel 1991 era ancora obbligatorio fare un anno sotto le armi. In quell’Italia così distante e diversa non esistevano Internet, Expedia, bed and breakfast; molti diciottenni uscivano dal proprio paesino solo in quell’occasione. Quando viene loro proposto di andare in Albania per un’operazione umanitaria – con stipendio 1200 dollari al mese, circa 2,400,000 di lire dell’epoca – la prendono bene. Firmano, salutano la famiglia, fanno i bagagli e s’imbarcano a bordo di un Chinhook diretti verso un paese che sta sprofondando nel medioevo. A questo va aggiunto che a nessuno Stato piace l’idea di vedere truppe straniere sbarcare sul proprio territorio, quindi l’allora primo ministro albanese pone una condizione: militari va bene, ma devono essere disarmati. L’Italia acconsente, con l’unica eccezione dei carabinieri del Tuscania che hanno compito – anche – di polizia militare.

L’operazione Pellicano inizia il 2 settembre 1991. L’idea è semplice: dissuadere l’emigrazione fornendo aiuti e protezione affinché i civili possano ricominciare una nuova vita. Purtroppo l’Albania è lo Stato più chiuso del mondo; le comunità vivono in paesini arroccati tra le montagne tra strade sterrate, spesso assediati da bande armate oppure ostaggio di ribelli che van poco per il sottile. Portare aiuti in quelle condizioni è difficilissimo per logistica e per il salasso economico. Per ogni miliardo di lire che l’Italia spende in aiuti umanitari, trasporto e sicurezza le costa cinque volte tanto. Nessuno di loro è preparato alle condizioni che troverà lì, ma mai quanto gli albanesi che pregano per un aiuto e vedono arrivare dal cielo elicotteri militari. Molti nei villaggi scappano credendo si tratti della sempre minacciata invasione imperialista, poi restano allibiti quando dai chinhook sciamano fuori frotte di ragazzini. Impiegano pochissimo a guadagnarsi il favore della popolazione, complice il fatto che tutti capiscono l’italiano e soprattutto hanno una cosa in comune: la televisione. Fiorello, Raffaella Carrà, Bruno Vespa, Ambra, sono argomento di conversazione e dibattito, i soldati vengono invitati a pranzo e tempestati di domande. Poi ci sono calcio, cucina, vino. Agli italiani basta una settimana per conquistarsi l’affetto dei civili e a improntare una strategia di aiuti e difesa. Banditi e mafiosi si guardano bene dal gironzolare attorno alle postazioni, e quando lo fanno è per capire che aria tira. Del resto, come al solito, noi obbediamo agli ordini a modo nostro: disarmati sì, ma in caso di problemi ci sono navi cariche di armi col Battaglione San Marco pronto a intervenire. In poco più di due anni vengono trasportati e distribuiti oltre 750,000 tonnellate di viveri e medicinali, gli elicotteri fanno 1700 ore di volo, gli aerei 6100. Tra Durazzo e Vallona vengono fatti 200,000 interventi sanitari con attrezzature, specialisti e farmaci arrivati dall’Italia. La missione costa 20 miliardi di lire al mese. Gli albanesi imparano a fidarsi di noi, e quando anche l’ONU interviene con una missione interforze, loro continuano a volerci come garanti in qualsiasi trattativa. Quando l’operazione finisce, mentre la bandiera italiana viene ammainata a Tirana, il primo ministro albanese Alexsander Meksi dichiara: “L’operazione Pellicano è stato il simbolo della correttezza di un’amicizia tra due popoli che gli albanesi non dimenticheranno mai”. Oggi, a distanza di 27 anni, mentre l’Europa prende tempo o fa dichiarazioni vergognose, mentre il resto del mondo prima ci deride e poi ci emula, mentre l’Unione europea fa una delle peggiori figure mai viste dalla sua nascita, l’Albania ci manda 30 medici, uno per ogni anno passato da quando ce ne siamo andati. Non solo perché gli albanesi hanno un senso dell’onore assai marcato, ma perché forse non importa se qualcuno ti aiuta a casa tua o a casa sua: conta se t’aiuta o no.

Quel grande esodo verso l'Italia: l'Albania non ha dimenticato. Il 7 marzo 1991 25mila albanesi sbarcarono a Brindisi: altri 20mila arrivarono a Bari in agosto con la nave Vlora. L'Albania non dimentica quella generosa accoglienza, come ha sottolineato il premier Edi Rama. Roberto Vivaldelli, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. L'Albania che ora corre in soccorso del nostro Paese per fronteggiare l'emergenza coronavirus dimostra di non aver dimenticato la storia. “Non siamo privi di memoria: non possiamo non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non abbandonano mai un proprio amico in difficoltà. Oggi siamo tutti italiani, e l’Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e il mondo intero”. Sono le parole pronunciate dal premier albanese Edi Rama, salutando all’aeroporto di Tirana un team di 30 medici e infermieri albanesi inviati in Italia per aiutare i colleghi impegnati nella lotta al coronavirus. "Trenta nostri medici e infermieri partono oggi per l’Italia, non sono molti e non risolveranno la battaglia tra il nemico invisibile e i camici bianchi che stanno lottano dall’altra parte del mare. Ma l’Italia è casa nostra da quando i nostri fratelli e sorelle ci hanno salvato nel passato, ospitandoci e adottandoci mentre qui si soffriva", ha aggiunto Rama nel breve saluto.

Il grande esodo del 1991: l'Albania non ha dimenticato. L'Albania non ha dimenticato ciò che successe quasi 30 anni fa. Come ricorda Il Fatto Quotidiano, le parole di Rama fanno riferimento al grande esodo di albanesi verso il nostro Paese che ebbe inizio nei primi mesi del 1991: il 7 marzo ne arrivarono 25mila in una sola città, Brindisi, nel giro di 24 ore. C’è poi una foto che rappresenta quel periodo e che segnò per sempre il legame fra i due Paesi: è quella di una nave mercantile, l'8 agosto 1991, stracarica di oltre 20mila albanesi a bordo, che attracca al porto di Bari dopo una fortunosa e spericolata traversata che era cominciata dall’altra parte del Mare Adriatico, a Durazzo. È l’immagine della nave Vlora che sbarca in Puglia. La nave Vlora, sovraccarica di uomini, donne e bambini, raggiunge Bari. Sono ore di panico, il sistema di accoglienza e la macchina dei soccorsi va in tilt, mai s’erano viste 20mila persone, tutte insieme, sbarcare in Italia. Le scene, riprese dai giornali e dalla televisione, si imprimono a fuoco nella mente degli italiani. Un esodo biblico. Gli sbarchi proseguirono senza sosta anche nei mesi successivi. Ad oggi gli albanesi residenti in Italia sono 441.027 e popolano comunità spesso ben integrate. Fin dal secondo dopoguerra, l'Albania è stata caratterizzata da un regime comunista di stampo stalinista guidato da Enver Hoxha. Con la fine del bipolarismo e la caduta del blocco sovietico, nel 1991 il Paese, tornato nel frattempo multipartitismo, affrontò un grave collasso economico e disordini sociali. Da lì l'esodo verso le nostre coste. Da allora il Paese ha affrontato un lungo periodo di transizione durante il quale si è progressivamente aperto all'economia di mercato e all'Alleanza Atlantica, alla quale ha aderito nel 2009. Come ha spiegato il premier Rama, l'Albania con il suo gesto di gratitudine nei confronti dell'Italia ha dimostrato di non essere "priva di memoria". Non ha dimenticato quella generosa accoglienza degli italiani e la successiva integrazione. E ora corre in soccorso del nostro Paese, nel momento del bisogno. Senza grandi mezzi, ma da nazione piccola e orgogliosa. Dando una grande lezione a nazioni ben più ricche e benestanti.

Salvini ringrazia i medici albanesi in Italia per il Coronavirus, ma non li voleva in Europa. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Matteo Salvini e la coerenza, un rapporto complicato. Il leader della Lega, come tanti colleghi politici, ha ringraziato il gesto di solidarietà del premier albanese Edi Rama, che ha inviato 30 medici e infermieri in Lombardia per aiutare la sanità nostrana a fronteggiare l’epidemia di Covid-19. Il discorso di Rama è stato di fatto un vero e proprio manifesto della sensibilità e della generosità di uno Stato che, pur non essendo tra i più ricchi del continente, ha mostrato il suo cuore. “Non siamo privi di memoria – ha detto infatti Rama – non possiamo non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non abbandonano mai un proprio amico in difficoltà. Oggi siamo tutti italiani, e l’Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e per il mondo intero”. Salvini quindi non ha mancato di ringraziare il premier albanese, che ammesso sui social: “Gli telefonato per ringraziarlo di questo splendido gesto di affetto per l’Italia. Grazie al popolo albanese e  al suo governo: inviando medici e infermieri hanno dimostrato una sensibilità e una generosità che non dimenticheremo”. Ciò che sicuramente non dimenticheremo è l’incoerenza dello stesso Salvini. Bisogna andare indietro di qualche anno, è il 24 giugno del 2014, per leggere sempre sui social dell’ex ministro parole al vetriolo contro la stessa Albania. Un anno chiave per il Paese, perché diventa ufficialmente un candidato per l’ingresso nell’Unione Europea, procedura ancora in corso. Per Salvini uno smacco insopportabile: “Alla faccia della storia, dell’economia, del passato e del futuro – è il commento del leader del Carroccio, all’epoca europarlamentare – No all’Europa Supermercato”.

Coronavirus, sindaco di Brescia: "Mi chiedo se esista Ssn". Adnkronos.com il 29/03/2020. "Qualche giorno fa è uscita una lettera dei primari di rianimazione della Regione Lombardia, che accusavano la mancanza di solidarietà delle vicine Regioni, e credo si riferissero al Veneto, perché non avevano messo a disposizione personale medico e infermieristico fondamentale nel momento in cui qui avevamo il picco e non riuscivamo più a gestire le terapie intensive e il personale che veniva ricoverato. Mi sono chiesto, leggendo questa lettera, se esiste il Servizio sanitario nazionale, visto che ogni Regione cerca di chiudersi al proprio interno". Lo ha detto il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, ospite di "Che tempo che fa". "La regione più colpita e la parte di Lombardia più colpita, ossia le province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, è stata sostanzialmente abbandonata", ha aggiunto.

Coronavirus, sindaco di Brescia: "La Lombardia è stata abbandonata". Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, denuncia lo stato di abbandono della Lombardia nella gestione dell'emergenza: "Regioni vicine non ci hanno aiutato". Rosa Scognamiglio, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale. "La Lombardia non ha ricevuto aiuti da altre Regioni". È il duro sfogo del sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, che denuncia a gran voce la mancanza di collaborazione e contributi corposi alla rete sanitaria del Bresciano, in sofferenza dopo la devastante ondata di contagi delle ultime settimane. Brescia, insieme a Bergamo, è tra le province della Lombardia più colpite del coronavirus. Alla data del 29 marzo, il totale dei positivi, dall'inizio dell'epidemia, ha raggiunto quota 7.652 casi con un numero di decessi di gran lunga superiore alla soglia delle mille vittime: 19 nelle ultime 24 ore. Un bilancio decisamente allarmante che, in aggiunta all'emergenza acclarata dei reparti di terapia intensiva e rianimazione in seno agli Ospedali Civili, lascia presagire una situazione di là dal collasso. "La regione più colpita e la parte di Lombardia più colpita, ossia le province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, è stata sostanzialmente abbandonata", ha dichiarato il primo cittadino nel corso di un intervento al programma televisivo 'Che tempo che fa' di Fabio Fazio. Parole al vetriolo, presumibilmente dettate dalla pressione di questi giorni, che rischiano di innescare una polemica relativa alla gestione dell'emergenza sul territorio. Nello specifico, il sindaco recrimina l'assenza di solidarietà delle vicine Regioni: "Qualche giorno fa è uscita una lettera dei primari di rianimazione della Regione Lombardia, - spiega Emilio del Bono - il che accusavano la mancanza di solidarietà delle vicine Regioni, e credo si riferissero al Veneto, perché non avevano messo a disposizione personale medico e infermieristico fondamentale nel momento in cui qui avevamo il picco e non riuscivamo più a gestire le terapie intensive e il personale che veniva ricoverato. Mi sono chiesto, leggendo questa lettera, se esiste il Servizio sanitario nazionale, visto che ogni Regione cerca di chiudersi al proprio interno". Non è la prima volta che il primo cittadino di Brescia evidenzia uno "stato di crisi" nei territori del bresciano e limitrofi. Appena qualche giorno fa, aveva sollevato alcune criticità nella gestione dell'emergenza Covid-19: "Il numero dei morti è più alto dei dati ufficiali. - aveva dichiarato alle pagine di Quotidiano.net - Cremona andava chiusa, bisognava istituire molte più zone rosse. Bisognava fare più test ai familiari dei contagiati e cercare gli asintomatici. Ci siamo dimostrati fragili come sistema produttivo ed economico nel rispondere all'emergenza".

Effetto coronavirus, l'allarme di Zaia: «Se crolla il Pil del Veneto, crolla l'Italia». Il Gazzettino Venerdì 28 Febbraio 2020. «L'impresa veneta ha un Pil di 150 miliardi di euro: se crolla il Pil del Veneto crolla l'Italia». Lo ribadisce il governatore del Veneto, Luca Zaia, impegnato da questa mattina, 28 febbraio, nella sede della Protezione civile regionale a Marghera per fare il punto sulla situazione sanitaria in Veneto in merito alla diffusione del coronavirus. «In Veneto il turismo è letteralmente in ginocchio - dice Zaia -. Un comparto che, con 18 miliardi di fatturato, a livello nazionale rappresenta la più grande industria turistica in Italia. A questo settore si aggiunge la grande difficoltà che stanno vivendo le nostre 600mila partite Iva». «Servono - insiste il governatore del Veneto - interventi urgenti per le imprese e una campagna mediatica potentissima a livello internazionale» per invertire questo trend «e far capire alla gente che non siamo la terra della peste». Ma per salvare l'economia del Veneto, aggiunge il governatore, «bisogna tornare alla normalità, ma questo non sarà sufficiente» perché, avverte, questa «immagine internazionale non ce la leveremo di dosso in pochi giorni».

In quarantena, Marzo Magno racconta l’anno della fame, quando a mangiare i topi erano i veneti. Lo scivolone di Zaia ha rischiato di trasformarsi in un incidente diplomatico con Pechino. Eppure subito dopo Caporetto, per non morire di inedia, sulle tavole venete finirono anche i ratti essiccati. Francesca Buonfiglioli su lettera43.it il 29 Febbraio 2020. Chi non ha visto i cinesi mangiare di tutto, persino i topi vivi? Lo scivolone di Luca Zaia, governatore del Veneto – una delle regioni più colpite dal coronavirus con la Lombardia del suo collega “mascherato” Attilio Fontana – ha rischiato di innescare un incidente diplomatico con Pechino. A poco è servita la toppa dell’amministratore leghista, solitamente sobrio nelle sue uscite. «È tutto il giorno che vengo massacrato per quel video. Nella migliore delle ipotesi sono stato frainteso, nella peggiore strumentalizzato», si è giustificato in una intervista al Corriere della Sera. Derubricando la gaffe a una frase che gli è «uscita male».

L’AN DE LA FAM E I TOPI ESSICCATI A BELLUNO. E dire che in momenti di estrema necessità, a mangiare i topi – e qualsiasi altro essere vivente commestibile – siamo stati anche noi italiani. E in particolare, proprio i veneti. Per ironia della sorte, era stato lo stesso Zaia a ricordarlo nel 2018 con un post su Facebook. «Topi messi ad essiccare a Belluno durante “l’an de la fam“, l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona», scriveva il 26 novembre 2018. Hashtag: non #ilVenetoriparte, ma #Venetodaamare. «Con l’Anno della fame», spiega a Lettera43.it Alessandro Marzo Magno, scrittore e giornalista veneziano autore tra l’altro de Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo, «ci si riferisce al periodo dell’occupazione austriaca subito dopo Caporetto, tra la fine del 1917 e il 1918». Mesi in cui anche in alcune zone del Veneto si moriva letteralmente di fame. «Si calcola che i morti di fame civili negli imperi centrali durante la Prima guerra mondiale furono circa 600 mila», sottolinea Marzo Magno, «più dei morti per i bombardamenti del secondo conflitto». Questo per dare un ordine di grandezza. «Ce ne fossero stati di topi da mangiare, erano spariti pure quelli».

GABBIANI, VOLPI E GATTI NEL PIATTO. Non è un mistero del resto che in momenti di carestia tutto poteva finire nel piatto: dai gabbiani alle volpi, dai topi ai famosi gatti. Nelle cronache medievali, poi, «non mancano riferimenti all’autofagia» e al cannibalismo. Insomma quando si ha fame, non si ragiona né si va per il sottile: l’unico obiettivo è provare a sopravvivere. Per gli occidentali, e gli iper-tradizionalisti italiani, resiste un solo tabù, fa notare Marzo Magno. «Puoi mangiare un cadavere o un braccio che ti sei amputato, ma guai toccare un insetto. E dire che li apprezziamo nella loro versione marina: l’aragosta non è che uno scorpione e la granseola un ragno…». Questione di cultura. Questo per ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che il cibo è il regno del relativismo. «I cinesi per esempio non si sognerebbero mai di mangiare carne di cavallo», ricorda lo scrittore. E anche parlare di “cucina cinese” non ha molto senso. «Per esempio nel Sud, a Canton, vengono mangiati i serpenti. A Pechino no». E i topi? «Quando sono andato in Cina», racconta Marzo Magno, «avrei voluto assaggiarli cotti. Sono una persona curiosa. Così ero andato in cerca di un ristorante che li aveva tra le sue specialità. Ma niente da fare era chiuso. Mi dissero che non venivano più consumati perché erano rischiosi, e potevano portare malattie. Ed era l’estate del 1993. Invece ho mangiato i serpenti: buoni».

LA RICETTA DELLO SCOIATTOLO. Tornando all’Italia basta tornare indietro nel tempo per scoprire come, per esempio, la gru fosse una vera leccornia, come racconta Boccaccio nella novella del Decamerone dedicata al cuoco veneziano Chichibio. «Chi si mangerebbe oggi una gru?», sorride Marzo Magno. Per non parlare, aggiunge, degli scoiattoli. Il cui «sapore accentuato», si legge in un ricettario del 1908 pubblicato da Sonzogno, «ha bisogno di essere attenuato con una forte marinata». Seguono le istruzioni per la preparazione: «Scorticate e sventrate come si fa con una lepre». E quindi «lasciate macerare per 48 ore, prima di arrostirlo allo spiedo». Buon appetito. O, se preferite, Xiǎngshòu nǐ de fàn.

Emigrazione veneta. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Veneto da prima dell'annessione al regno d'Italia era una terra con una forte tradizione migratoria soprattutto nelle zone pedemontane. Inizialmente il fenomeno fu di carattere perlopiù temporaneo o stagionale, diretto in particolare verso la Germania, l'Austria e l'Ungheria. Si emigrava soprattutto dalle zone montane, in particolare dalle province di Vicenza, Treviso e Belluno. Dopo l'Unità d'Italia, anche il Veneto subì una profonda crisi economica, la quale diede inizio alla grande emigrazione. Questa fase si sarebbe protratta fino alla vigilia della prima guerra mondiale, la quale funse da punto di cesura per l'emigrazione veneta ed italiana. Infatti cambiarono i punti di approdo e l'atteggiamento dello Stato verso chi migrava. In ogni caso all'orizzonte dei migranti veneti non solo ci furono solo i territori continentali, ma anche rotte transoceaniche.

Nel 2008 vi erano 260.849 cittadini veneti che vivevano all'estero (il 5,4% della popolazione della regione): la maggior parte risiedeva in Brasile (57.052 veneti), numerosi anche in Svizzera (38.320 veneti) e Argentina (31.823 veneti). Ci sono diversi milioni di persone di origine veneta in tutto il mondo, in particolare in Brasile, negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná, São Paulo e Espírito Santo. I nomi di alcuni comuni del Brasile meridionale, come Nova Schio, Nova Bassano, Nova Bréscia, Nova Treviso, Nova Veneza, Nova Padova e Monteberico, denotano l'origine veneta dei loro abitanti. Negli ultimi anni persone di origine veneta provenienti dal Brasile e Argentina rimpatriati in Italia. L'emigrazione veneta ha riguardato molte nazioni estere ed in ognuna di esse vi sono ancora associazioni che ricordano le origini degli oriundi:  Argentina, Australia, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cile. Colombia, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Lussemburgo, Messico, Paesi Bassi, Italia, Québec, Romania, Sudafrica, Svizzera, Uruguay, USA e Venezuela. Questi migranti parlano ancora la lingua veneta degli antenati e hanno lottato per il suo riconoscimento ancora prima che fosse riconosciuta da parte della Regione Veneto tramite la legge regionale n. 8 del 13-4-2007.

 

Canzone degli immigrati veneti

"Dalla Italia noi siamo partiti

Siamo partiti col nostro onore

Trentasei giorni di macchina e vapore,

e nella Merica noi siamo arriva'

Merica, Merica, Merica,

cossa saràlo 'sta Merica?

Merica, Merica, Merica,

un bel mazzolino di fior.

E alla Merica noi siamo arrivati

no' abbiam trovato né paglia e né fieno

Abbiam dormito sul nudo terreno

come le bestie andiam riposar.

E la Merica l'è lunga e l'è larga,

l'è circondata dai monti e dai piani,

e con la industria dei nostri italiani

abbiam formato paesi e città.

Canção dos imigrantes

(fine del XIX secolo)

 

Canzone degli immigrati veneti

"América América

si campa a meraviglia

andiamo nel Brasile Brasile Brasile

con tutta la famiglia e i tui parenti

América América

si sente cantare

andiamo nel Brasile

Brasile a popolare"

Canzone dei veneti

(1896)

·         Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

Le grandi aziende che lavorano nel Sud Italia hanno la sede legale al Nord e lì pagano le tasse.

Le grandi aziende del Nord Italia hanno la sede legale nei paradisi fiscali e lì pagano le tasse.

Gianluca Zapponini per formiche.net il 6 aprile 2020. Un brand italiano che sposta la sede legale (ma la produzione resta ben piantata qui) in un Paese dove si pagano meno tasse, magari in Olanda. Film già visto. Fca, su tutti, ma anche Mediaset, Cementir, Luxottica e Ferrero, quest’ultima però in Lussemburgo. Ora tocca a Campari e l’Italia paga il conto di certa indifferenza tutta politica. Gli azionisti dello storico marchio italiano nato nel 1860 (in primis la famiglia Garavoglia, tramite la cassaforte Lagfin che detiene il 51% del capitale) e che oggi fattura 1,8 miliardi e fa base a Sesto san Giovanni, alla fine di marzo hanno dato il via libera definitivo allo spostamento della sede legale nei Paesi Bassi, mentre quella fiscale rimarrà in Italia. Libero mercato, si dirà. Forse, ma a rimetterci però è quasi sempre l’Italia e il suo Pil. Perché spostare la sede legale vuol dire versare tasse in un nuovo Paese. E con la holding di solito si muove anche un certo indotto: consulenza, audit, avvocati… con il risultato che il nostro Paese perde entrate non certo trascurabili, nonostante i ricavi vengano generati sempre qui, negli stabilimenti italiani. Lo ha sottolineato anche il premier Giuseppe Conte, in una recente intervista, nel quale oltre a criticare l’atteggiamento di certi Paesi (Olanda, proprio lei, in testa) verso l’uso degli eurobond, attaccava proprio la natura di paradiso fiscale del Paese dei tulipani. “L’Olanda è anche tra i Paesi che si avvantaggiano molto del contributo delle imprese italiane. Perché molte grandi imprese che pure hanno i principali stabilimenti in Italia e ricavano i maggiori profitti nel nostro Paese poi beneficiano della legislazione fiscale olandese, molto più conveniente”, ha detto Conte. E non è stato da meno l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che in una recente intervista a Formiche.net, ha definito l’Olanda un Paese che importa holding. Ma cosa può fare il governo italiano dinnanzi a tutto questo? Perché se è vero che da una parte il nostro esecutivo si sta prodigando giustamente, attraverso il Golden power, per impedire che le imprese che decidono di rimanere vengano acquisite, non si può dire avvenga lo stesso per impedire che le stesse aziende se ne vadano all’estero con le loro gambe. Un filtro in entrata, insomma, ma non in uscita. Un esperto qualificato spiega a Formiche.net cosa c’è dietro la scelta di certe aziende. Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo. Quello con l’Olanda è datato 1990. “Lo spostamento delle sedi legali in Olanda e Lussemburgo è qualcosa che accade da molto tempo. La scusa, in parte vera, sono spesso le norme locali per gestire meglio le società. Ma per l’Italia c’è un danno: questi spostamenti, cambi di sede non sono indolore”, spiega. “Il punto è che se è vero che il Fisco è attento in queste situazioni, e spesso fa accertamenti, non dimentichiamoci di quelli fatti su Fca stessa, in questo momento in cui l’Olanda sembra fare la furba sugli eurobond, deve esserlo ancora di più. Perché è vero che se io delocalizzo porto fuori solo la holding. Ma è anche vero che questo vuol dire non pagare più le tasse in Italia. È un aspetto di cui tener conto. Ricordiamoci che l’Olanda può beneficiare di tutto ciò perché siamo in un mercato comunitario, altrimenti lo Stato Italiano non consentirebbe a un’azienda di spostarsi così. Occorre verificare, controllare, stare insomma ancora più attenti ai movimenti di chi decide di mettere la sede legale in altri Paesi”, spiega ancora l’esperto. E pensare che l’Italia “potrebbe anche denunciare quel trattato. Si può”. In ogni caso vale la pena chiedersi il perché di tale inerzia politica nel tentare di arginare simili operazioni in uscita, che certo non bene fanno al nostro Pil.

Cade il muro del segreto bancario: all'estero ci sono 85 miliardi di euro intestati a italiani. Grazie a un accordo internazionale l'Agenzia delle Entrare entra in possesso dei dati su oltre un milione di conti intestati a italiani in cento paesi tra cui anche tanti paradisi fiscali: "Forse è davvero l'inizio della fine dell'evasione fiscale internazionale". Paolo Biondani il 5 luglio 2019 su L'Espresso. Una montagna di soldi che finora era nascosta dalle nebbie del segreto bancario: più di 85 miliardi di euro. Tesori custoditi in decine di paradisi fiscali, che per la prima volta hanno dovuto comunicare tutti i dati alle autorità fiscali italiane. Il primo risultato, ancora provvisorio, è una maxi-lista di oltre un milione e centomila conti esteri. Tutti intestati a cittadini italiani. Ed è solo un bilancio parziale. Perché le cifre continuano a crescere. Il fisco italiano sta ricevendo da mesi enormi flussi di informazioni dall’estero. Una situazione mai vista prima, che gli esperti di reati tributari considerano la base di una svolta storica. Per l’evasione fiscale internazionale, come riassume a “L’Espresso” il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, «forse è davvero l’inizio della fine». Tutto parte da una sequenza di accordi promossi dall’Ocse, la più importante organizzazione economica internazionale. Che è riuscita a varare a livello globale una procedura standard per lo «scambio automatico di informazioni fiscali». Significa che non c’è più bisogno di mandare istanze all’estero, esibire prove, avviare lunghe e complicate rogatorie giudiziarie o richieste di assistenza fiscale contro il presunto evasore. Lo scambio è automatico. Continuo. Generalizzato. E sorvegliato dall’Ocse. Grazie a questa specie di Onu dell’economia, oltre cento paesi di tutto il mondo si sono impegnati a trasmettere anche a Roma tutti i dati sulle ricchezze degli italiani all’estero: conti bancari, gestioni patrimoniali, altri investimenti di qualsiasi tipo. La prima serie di dati pubblicati in questo articolo (finora inediti) riguarda una cinquantina di paesi che hanno applicato per primi la procedura dell’Ocse già tra il 2017 e il primo semestre del 2018, comunicando le liste dei tesori e tesoretti registrati dalle banche estere, nell’anno precedente, a nome di cittadini italiani: oltre un milione e 100 mila conti esteri, appunto, che custodivano più di 85 miliardi. Nel settembre 2018 lo scambio automatico si è allargato ad altre 47 nazioni. Compresi quegli Stati-cassaforte, come Svizzera e Montecarlo, ma anche Panama, Hong Kong, Singapore, Emirati Arabi e altri rinomati paradisi fiscali, che da sempre attraggono il grosso dei soldi degli italiani all’estero, come dimostrano le cifre raccolte con i vari condoni e scudi fiscali degli anni scorsi. Di certo, rispetto agli 85 miliardi schedati all’inizio del 2018, con la seconda ondata le informazioni trasmesse a Roma sono più che raddoppiate. Quindi il fisco italiano oggi possiede tutti i dati su alcuni milioni di conti esteri. Ed entro la fine del 2019 la procedura dell’Ocse dovrebbe estendersi a più di cento nazioni, con un’altra dozzina di paesi in via di adesione. Lo scambio di informazioni, di regola, si realizza in settembre, quando le autorità estere finiscono di registrare tutte le ricchezze dell’anno precedente. In Svizzera, ad esempio, è l’autorità di controllo dei mercati finanziari (Finma), che ha anche funzioni di vigilanza contro il riciclaggio di denaro sporco, a raccogliere i dati da tutte le banche elvetiche. La prima lista trasmessa a Roma contiene, ad esempio, i nomi di circa 120 mila clienti italiani del colosso Ubs. A Milano il procuratore Francesco Greco avverte che si tratta di «dati grezzi, che vanno incrociati e analizzati: sono solo la base di partenza per un’attività d’indagine o di verifica fiscale». Nella lista dell’Ubs, in particolare, ci sono gli italiani che lavorano (o fanno affari) in Svizzera e dichiarano regolarmente il loro conto elvetico; diversi familiari che in realtà risultano cointestatari di un unico deposito; e i soggetti che hanno già sanato i capitali esteri con la cosiddetta “voluntary disclosure”. Nel caso dell’Ubs, quindi, le indagini fiscali si stanno concentrando su circa 40 mila possibili evasori, per verificare se nel frattempo abbiano denunciato i loro conti svizzeri e pagato le tasse dovute, sia pure in ritardo. Altrimenti, si annunciano grossi guai, che di solito si materializzano con un questionario inviato dall’Agenzia delle entrate: caro signor contribuente, per caso ha dimenticato di dichiarare quei soldi all’estero? Le liste trasmesse a Roma dalle autorità straniere sono documenti informatici con migliaia di cifre e nomi, con i dati cruciali catalogati secondo lo standard dell’Ocse: numero di conto, saldo dell’anno precedente, identità del beneficiario economico. Cioè del titolare effettivo, anche se protetto da esotiche società offshore, fiduciarie, trust o altri schermi legali. Il fisco italiano, in pratica, riceve le stesse informazioni che deve procurarsi la banca estera per aprire il conto. E questo oggi succede per decine di Stati, compresi paradisi fiscali finora impenetrabili, dalle Isole Vergini Britanniche alle Bermuda, da San Marino al Lichtenstein, dalle Bahamas alle Antille olandesi. La nostra Agenzia delle entrate, ovviamente, è tenuta a ricambiare la cortesia: ogni anno, entro settembre, la direzione di Roma deve trasmettere a tutti gli altri Stati gli elenchi dei conti bancari e altre ricchezze detenute in Italia dai loro cittadini. Uno studio pubblicato dall’Ocse nel giugno scorso ha quantificato, per la prima volta, gli enormi benefici fiscali di questa procedura globale di comunicazione reciproca dei dati: un patto internazionale che sta salvando i bilanci e la sovranità fiscale degli stati nazionali. Questa svolta nella lotta all’evasione è un effetto della crisi economica esplosa nel 2008, che ha colpito tutto il mondo, costringendo anche le nazioni più ricche a reagire. Da allora gli accordi sempre più allargati di scambio automatico, come spiega lo studio, hanno permesso di identificare «almeno mezzo milione di individui che nascondevano ricchezze nei paradisi offshore». E hanno così garantito agli stati nazionali, stremati dalla crisi, «entrate fiscali aggiuntive per circa 95 miliardi di euro». In Italia proprio l’adesione a questa procedura internazionale, secondo gli esperti, ha fatto aumentare il gettito della voluntary disclosure: una vera e propria autodenuncia dei capitali esteri, prevista e regolata dall’Ocse, a differenza dei vecchi scudi fiscali varati dai governi di Berlusconi e Tremonti (con l’appoggio della Lega), che invece consentivano agli evasori di casa nostra di restare anonimi e sanare tutto pagando solo il 5 per cento. E magari nascondere i soldi scudati nelle cassette di sicurezza. Lo studio documenta che tra il 2000 e 2008, negli anni del boom del capitalismo finanziario, i ricchi e potenti del mondo hanno trasferito fortune immense nei paradisi fiscali. Gli economisti dell’Ocse hanno quantificato il totale dei depositi bancari registrati in 38 paesi caratterizzati da tasse bassissime o nulle: nel giugno 2008, le ricchezze occultate solo in quei centri offshore avevano raggiunto il livello stratosferico di 1.600 miliardi di dollari. Tra il 2009 e il giugno 2018, gli stessi paradisi fiscali hanno perduto un terzo di quei tesori: meno 551 miliardi di dollari. Il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, presentando lo studio, ha rivendicato «un livello di trasparenza fiscale senza precedenti, che rappresenta solo il primo risultato di un processo che continua», con l’obiettivo che «non sia più possibile nascondere ricchezze in nessuna parte del mondo». Per ora, a conti fatti, solo quei 38 paradisi fiscali continuano a custodire più di mille miliardi di dollari. Soldi rubati ai cittadini che pagano le tasse anche per gli evasori. Le pressioni internazionali stanno facendo calare i tesori offshore anche in quest’ultimo semestre: dal novembre 2018 gli stati nazionali hanno recuperato entrate fiscali per altri due miliardi di dollari. Molti ricchissimi evasori restano però impuniti. La via di fuga più banale è spostare i soldi in altri paesi “black list”, che rifiutano di fornire dati fiscali e in qualche caso perfino di collaborare con le indagini internazionali contro mafia e terrorismo. Lasciare le solide banche di nazioni come la Svizzera, però, può essere rischioso. L’avvocato ed ex magistrato elvetico Paolo Bernasconi ha raccontato a L’Espresso la disavventura di un plotone di ricchi evasori italiani, terrorizzati dai nuovi accordi fiscali, che hanno spostato i soldi in un emirato arabo: «Pochi mesi dopo, la banca esotica è fallita e loro hanno perso tutto». Un sistema più sicuro è lasciare il tesoro in un paese dell’Ocse, ma intestare il conto a prestanome o fiduciari disponibili a coprire il vero titolare. A costo di rischiare l’arresto per riciclaggio. Il limite maggiore degli accordi internazionali è però la politica unilaterale degli Stati Uniti. La prima potenza economica mondiale ha un proprio sistema di controllo fiscale, chiamato Facta, che obbliga le banche straniere a comunicare tutti i conti esteri dei cittadini americani. Un sistema molto rigoroso, che funziona da anni a vantaggio del fisco statunitense. Ma a differenza degli accordi dell’Ocse, non è reciproco: dagli Usa arrivano negli altri paesi solo informazioni limitate e parziali. Con risultati paradossali: di fatto tra i paradisi più impenetrabili oggi spiccano stati americani come Nevada e Delaware. Dove ha le sue tesorerie societarie anche il presidente Donald Trump. Altri paesi accettano le regole dell’Ocse, ma solo a parole: in alcuni centri offshore, come Dubai o le isole Cook, è ancora possibile aprire società totalmente anonime: il titolare non deve registrarsi. Quindi in Italia i dati sui conti arrivano, ma il vero beneficiario resta sconosciuto. E un altro problema è l’effettiva collaborazione delle banche estere. A Milano la Procura e la Guardia di Finanza hanno lanciato una nuova strategia di contrasto all’evasione internazionale, che parte proprio dai dati raccolti con lo scambio automatico e con la voluntary disclosure: molte banche estere risultano aver concesso prestiti e mutui a migliaia di clienti italiani. Quindi avrebbero dovuto pagare le tasse sulle commissioni e interessi incamerati grazie a quegli affari in Italia. Gli inquirenti milanesi hanno così iniziato a spedire questionari agli istituti interessati, cominciando da Svizzera e Montecarlo. Le grandi banche elvetiche, come Ubs e Credit Suisse, sono state le prime a riconoscere il debito, impegnandosi a pagare il dovuto al fisco italiano. Poi la strategia si è allargata: gli inquirenti milanesi hanno inviato moduli analoghi a un totale di 220 banche estere, da San Marino al Liechtenstein, dalle Bahamas alle Isole Vergini. E dopo il primo questionario, ne è partito un secondo, con la sintesi dei risultati di mesi di indagini tenute segrete: come avete fatto a trovare tutti quei clienti italiani? Avete per caso utilizzato una struttura riservata di funzionari o consulenti incaricati di operare in Italia in totale segretezza? E da cosa sono garantiti i vostri prestiti? Dai soldi nascosti da quegli italiani in altri paradisi offshore? Per molte banche, è stato uno choc: i legali hanno spiegato alle direzioni centrali che a Milano si rischiava l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio dei soldi degli evasori. Credit Suisse, che si era vista sequestrare addirittura le istruzioni per sfuggire alla Guardia di Finanza ( «Il manuale del perfetto evasore», rivelato da L’Espresso nel febbraio 2016 ), ha patteggiato una condanna come persona giuridica e risarcito oltre cento milioni al fisco italiano. A San Marino e Montecarlo, altre banche hanno gridato alla persecuzione giudiziaria, invocando addirittura interventi diplomatici contro i questionari milanesi. La Guardia di Finanza intanto ha chiuso anche l’indagine su Ubs, a sua volta indagata per riciclaggio, che si è impegnata a risarcire 111 milioni. Il banco di prova dell’effettiva collaborazione svizzera è proprio l’inchiesta sui colossi bancari. Ubs dovrebbe comunicare i nomi degli italiani che nascondono all’estero almeno due miliardi gestiti attraverso prestiti di comodo o altre operazioni di copertura. Con l’indagine su Credit Suisse, invece, la Guardia di Finanza ha già identificato 3.297 titolari italiani di finte polizze assicurative alle Bermuda, che finora hanno risarcito all’Agenzia delle entrate 197 milioni di euro. Ma gran parte dei beneficiari sono ancora protetti dal segreto bancario in teoria caduto: sono 9.953 italiani che hanno affidato a Credit Suisse la bellezza di 6 miliardi e 676 milioni di euro. Mai dichiarati al fisco.

Ogni anno sei miliardi di euro di tasse italiane volano nei paradisi fiscali della Ue. Lussemburgo, Irlanda e altri stati europei sottraggono al nostro fisco una cifra monstre. Gloria Riva l'11 luglio 2019 su L'Espresso. Venti miliardi di euro. Sono i profitti che le grandi aziende multinazionali guadagnano sul suolo italiano, ma ogni anno fanno volare all’estero, nei paradisi fiscali. Se quei quattrini fossero tassati in patria, frutterebbero alle casse dello Stato italiano oltre 6 miliardi all’anno. Una cifra che basterebbe a rispondere alla richiesta di correzione dei conti pubblici italiani espressa dalla Commissione europea. Invece no, gran parte di questo tesoro (17 miliardi e 170 milioni, per la precisione) finisce in altri paesi europei: nell’ordine, Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta. A cui si aggiungono i paradisi fiscali tradizionali: dalla Svizzera, che incamera quasi due miliardi (1,98) all’anno, alle isole esotiche come Cayman e Vergini, che ricevono un altro miliardo sempre di questi profitti con la targa italiana. Ma il grosso resta qui, all’interno dell’Unione europea: una specie di furto fra paesi vicini, chiamato elusione fiscale, di fatto tollerato dalla Commissione di Bruxelles, che nonostante qualche richiamo formale (e molte polemiche) non ha alcun potere di far cambiare rotta ai sei paesi che sono diventati paradisi fiscali interni alla Ue. Perché le politiche fiscali restano una materia di esclusiva competenza nazionale. Le perdite maggiori colpiscono, ancor più dell’Italia, tutti i più grandi paesi europei. I profitti societari drenati all’estero ammontano a 54 miliardi di euro per la Gran Bretagna, 48,4 per la Germania e 28,2 per la Francia. Il mancato gettito fiscale vale 10,85 miliardi all’anno per Londra, 14,3 per Berlino, 9,44 miliardi per Parigi. Non è una problematica strettamente europea, ma una questione mondiale, se si considera che le multinazionali americane riescono a nascondere al fisco statunitense l’equivalente di oltre 125 miliardi di euro all’anno. Mentre le industrie che operano in Cina fanno sparire altri 47,6 miliardi. Ma a stupire è l’elusione interna alla Ue: i sei paradisi fiscali europei vengono scelti come “porto sicuro” da metà delle aziende che operano nei paesi aderenti all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Su un totale di 395,85 miliardi di utili trasferiti nei paradisi fiscali, infatti, ben 207 finiscono in quella mezza dozzina di paesi europei. Se si considerano i dati di tutto il mondo, compresi i paesi non aderenti all’Ocse, i profitti spostati all’estero raggiungono il tetto di 544 miliardi di euro. E ben 257 miliardi finiscono in quei sei paradisi europei. Ogni anno. Numeri da capogiro, emersi con il paper scientifico “The missing profits of Nations” (I profitti perduti delle nazioni), pubblicato dal “National bureau of economic research” degli Stati Uniti, considerato il più autorevole centro di ricerca economica mondiale. Un lavoro firmato dallo studioso francese Gabriel Zucman, già autore del libro “La ricchezza nascosta delle nazioni” e professore a Berkeley, insieme a Ludvig Wier e Thomas Torslov dell’università di Copenhagen. I tre economisti, sfruttando una serie di dati innovativi, sono riusciti a ricostruire quanti profitti le multinazionali nascondono nei paradisi fiscali e come riescono a evitare le tasse nei paesi d’origine. «Finora, per calcolare l’elusione delle big company, si era utilizzato un sistema indiretto, che intercettava il 17 per cento dei profitti volati all’estero», spiega Zucman a L’Espresso: «Ora invece, incrociando le cifre delle controllate estere con altri dati, come le bilance dei pagamenti fra nazioni, il prodotto interno lordo e i volumi d’affari delle grandi società, siamo in grado di calcolare il profit shifting complessivo, cioè il totale dei profitti spostati in paesi a bassa tassazione». L’ammontare a livello mondiale è enorme: 616 miliardi di dollari, pari a circa 550 miliardi di euro. Una cifra immensa anche rispetto agli utili globali. I profitti realizzati dalle multinazionali attraverso le controllate estere ammontano infatti a 1.700 miliardi di dollari: «Stimiamo che il 40 per cento del totale finisca ogni anno nei paradisi fiscali», riassume l’economista. Il grafico riassume gli effetti delle strategie di elusione tributaria delle multinazionali: ogni anno circa 20 miliardi di utili prodotti in Italia vengono trasferiti nei paradisi fiscali soprattutto europei. Roma perde così oltre 6 miliardi di tasse all’anno. Come? I sistemi-base sono tre e si basano sui rapporti tra società controllate: la multinazionale può aggiustare i prezzi (transfer pricing), organizzare prestiti o cedere marchi e brevetti all’interno dello stesso gruppo, per abbassare gli utili nei paesi ad alta tassazione. E spostarli nei paradisi fiscali. In Italia le multinazionali versano al fisco circa 32 miliardi, ma secondo lo studio mancano all’appello altri 6 miliardi e 270 milioni. Tasse perdute dall’Italia. Che spariscono non in paradisi lontani, ma in gran parte nella stessa Ue. «Se si escludono gli Stati Uniti, l’elusione è una battaglia interna all’Europa», spiegano gli economisti: «Ogni cento euro di profitti spostati fuori da un singolo paese europeo, ottanta finiscono nei paradisi fiscali della stessa Ue». In totale, secondo il paper, le multinazionali trasferiscono in Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta circa 290 miliardi di dollari all’anno: il 35 per cento proviene da altri Stati europei a tassazione più alta, il 30 per cento da nazioni in via di sviluppo, il restante 25 dagli Stati Uniti. Quei sei paradisi europei offrono alle aziende una tassazione bassissima: meno del cinque per cento. Ma grazie alle masse di profitti spostati, riescono a incassare, in proporzione, più dei paesi normali: «Malta, ad esempio, raccoglie l’otto per cento del proprio reddito nazionale dalle imposte sulle società, il Lussemburgo il sette per cento, l’Irlanda oltre il cinque. Mentre Stati Uniti, Germania e Italia incassano meno del tre per cento». Per le aziende, stimano i tre economisti, il vantaggio è gigantesco: per ogni euro pagato in tasse nei paradisi fiscali, ne risparmiano cinque nei paesi normali. Il problema della grande elusione è aggravato dall’avvento dell’economia digitale: le multinazionali di Internet gestiscono tutto dai paradisi fiscali, ignorando le tasse nazionali. Un nervo scoperto per l’intera Ue, che ha visto fallire il progetto di “web tax europea”. Affossata proprio dai sei paradisi europei, più la Svezia. Ancora più sconfortante è la mancanza di rimedi. «Le autorità nazionali non hanno una strategia contro i paradisi fiscali: riescono a contrastare solo i trasferimenti di profitti verso altri paesi normali», avverte il professor Torslov. «La Francia ad esempio è riuscita a riportare in patria capitali spostati in Germania, ma non in Lussemburgo o alle Bermuda. E il 75 per cento dei casi di transfer pricing scoperti dal governo danese riguardano altri paesi ad alta tassazione. Il nostro paper dimostra proprio che la grande elusione fiscale non sembra essere stata in alcun modo scalfita».

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela L’Espresso in edicola domenica 28 aprile e  in anteprima online su Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.

In Veneto si fa, ma non si dice. Lo rivela “Il Corriere della Sera”. Scoperti dalla Guardia di finanza in Veneto oltre 2.300 falsi poveri che usufruivano dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario. Il controllo è stato svolto, per ora, in cinque Ussl sulle 22 esistenti nella regione, con un bacino d'utenza di circa 1.200.000 assistiti residenti in 183 comuni delle province di Venezia, Belluno, Padova, Treviso e Vicenza. I finanzieri proseguiranno gli accertamenti per verificare altre 8 mila posizioni di persone fisiche dichiaratesi «disoccupate». Il report di analisi, condotto su 30 mila prestazioni in esenzione per «disoccupazione e reddito» nel biennio 2009-2010, ha evidenziato appunto 2.300 prestazioni elargite nei confronti di cittadini con redditi superiori alla soglia prevista per godere del beneficio e 10 mila prestazioni rese nei confronti di assistiti rivelatisi non disoccupati, nei confronti dei quali le fiamme gialle compiranno ulteriori accertamenti per escludere ulteriori condotte fraudolente.

Ma di non solo truffe si ciba il ricco nord-est. Vi è anche l’evasione fiscale. In Veneto sparisce il 22,4% del reddito. E lo racconta “La Repubblica”. Un Paese unito nel nome dell'evasione fiscale: nascondere una parte o la totalità del reddito agli occhi dello Stato è un' attività diffusa su tutto il territorio italiano. Ma gli evasori non sono tutti uguali: c' è chi si accontenta di truffare il fisco solo in parte, e chi mette via ogni remora pur di accumulare entrate senza versare le tasse. Al Nord come al Sud, anzi al Nord un po' di più. Contrariamente a quanto si pensa per via della maggiore diffusione dell'economia sommersa, il picco dell'evasione si raggiunge nel Settentrione. La regione che sottrae più ricchezza ai fini dell'Irpef è il Veneto, che nasconde in media il 22,4 per cento dei suoi redditi, la più virtuosa è la Sardegna dove l'evasione si contiene al 13,7%. Fra i due estremi, c'è il ritratto di un Paese che si attrezza in mille modi per ingannare il fisco quando il contribuente non versa la ritenuta alla fonte: dalle prestazioni professionali in nero agli scontrini mai emessi. A differenziare il fenomeno in base al territorio ci ha pensato lo Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, in uno studio che calcola le percentuali del reddito dichiarato rispetto a quello disponibile nel 2008 (al netto delle prestazioni sociali e delle quote esenti, più diffuse al Sud). Il Paese in complesso ne esce male anche se, contrariamente ai luoghi comuni, la quota di reddito nascosto è più alta al Centro-Nord, con il 19,3 per cento, che al Sud (il 18). Al Veneto (22,4), nella classifica dei meno virtuosi, seguono le Marche (22 per cento di ricchezza evasa). Ma a parte un intermezzo fra il terzo e quarto posto - Basilicata (21%) e Calabria (20,6 per cento, pari merito con l'Emilia Romagna) - è l'Italia del Centro Nord a dominare la parte alta della graduatoria. Lombardia e Sicilia, regioni con notevoli differenze nel livello di vita, evadono quote simili (17,6 per cento la prima, 17,2 la seconda). Quanto a virtuosismo, alza la media settentrionale solo la Liguria (14,7 per cento di reddito evaso). L'andamento non cambia di molto se si considerano le percentuali di reddito dichiarato rispetto al Pil: il Mezzogiorno dichiara il 51,2 per cento rispetto al 49,5 del Centro-Nord. E non sembra che nel breve periodo le posizioni possano invertirsi visto che - secondo una indagine di Contribuenti.it - nei primi mesi del 2010 l'evasione era data in aumento soprattutto in Lombardia e in Veneto. Commenta lo Svimez: «Non cadiamo nella tentazione di etichettare il Centro Nord come terra di evasori fiscali - si legge nello studio -. Ma questi dati mostrano comunque che non si può attribuire questa stessa etichetta al Mezzogiorno: la realtà è che l'Italia non ha raggiunto l'unità economica, ma è unificata dall'evasione». Secondo i ricercatori dell'associazione una precisazione però va fatta: «Le informazioni della Guardia di Finanza - che non riguardano tutti i contribuenti, ma solo quelli sottoposti a controllo fiscale - indicano che nel Mezzogiorno ci sono più evasori che nascondono importi modesti». Al Centro Nord si verifica il caso opposto: «Al limitato numero di evasori corrisponde una massa imponibile non dichiarata rilevante». In sostanza, conclude lo studio Svimez «si può figurare un'evasione per sopravvivenza al Sud ed una evasione per accumulazione di ricchezza al Nord».

A tal riguardo Antonio Melli dice la sua Su “La Vera Cronaca”: Il Veneto leghista campione di evasione fiscale. Se li sentite parlare con quelle voci stridule ed inequivocabili, non pensereste mai che dietro quelle urla folkloristiche si nasconde una realtà completamente opposta al senso politico ingabbiato in esse. Parlano soprattutto della Padania, antica terra laboriosa dove il senso civico bene si amalgama con l'onestà sociale. Salvo poi a scoprire che in questo territorio si annida un'evasione fiscale che non conosce vergogna e che fa del Veneto una regione dove la pratica dell'illegalità fa quasi parte del Dna di molti dei suoi abitanti. Parlano i numeri. É Venezia la culla dell’evasione in Veneto dall’alto dei suoi 384 milioni maturati nei primi quattro mesi dell’anno. La provincia veneziana è seguita a distanza da Vicenza, con 250 milioni, Verona con 222 e Padova con 59. Fanalino di coda Belluno con 13. Città che risulta essere "virtuosa" anche per quanto riguarda l’Iva, il lavoro nero e i lavoratori irregolari. Il quadro del resto del Veneto è invece alquanto pesante: complessivamente da gennaio ad aprile l’ammontare dell’evasione è stato di 1 miliardo e 34 milioni di euro. Pesante anche "l’ammanco" dell’Iva: 242 milioni e mezzo di euro in quattro mesi, sempre con Venezia in vetta alla classifica con quasi 93 milioni, seguita da Vicenza con 51 e Padova con 49. Anche in questo caso Belluno ha fatto registrare la cifra più bassa, 1 milione e mezzo di euro. Ma non c’è solo l’ evasione. La Guardia di finanza ha anche scoperto 975 lavoratori in "nero" o irregolari, sempre nel periodo che va da gennaio ad aprile 2010. Quello del lavoro nero è un fenomeno che presenta caratteri diversi e differenze numeriche macroscopiche da provincia a provincia. La provincia con più violazioni è quella di Treviso, dove sono stati scoperti 352 lavoratori del tutto "in nero" o irregolari; poi seguono Verona (149), Venezia (130), Vicenza (119) e Rovigo (115). Ma c’è anche chi è virtuoso, come Belluno dove le posizioni irregolari sono risultate essere appena 16. Sul fronte imprese e professionisti, quelli risultati completamente sconosciuti al Fisco sono stati 288; il maggior numero è stato scoperto a Venezia (83), Verona (57) e Vicenza (47). Detto questo, non vediamo proprio quali basi etiche la Lega Nord ed i suoi adepti vogliono suggerirci per adempiere alle loro richieste di federalismo fiscale, senza attendere i giusti tempi per un'approfondita analisi dei processi che esso andrebbe ad innescare. Forse sarebbe meglio che continuassero a preoccuparsi di combattere gli immigrati clandestini che, seppur a costo di lacerazioni culturali senza precedenti nella storia del nostro Paese, rappresentano per loro il terreno ideale su cui continuare a consolidare il loro potere politico. Perchè è solo a quello che essi mirano.

E poi per ripicca contro il Sud c’è chi diventa leghista. Interessante, però è il pensiero di Emanuele Bellato su “Il Popolo Veneto”. Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38) Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41) Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20) Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71)

Appare strano che si diventi leghisti per differenziarsi dai meridionali, pur avendo se non di più, almeno gli stessi difetti. A parlare di mafia nel Nord Est italiano si fa peccato, però…..ne parla Lorenzo Frigerio ed “Il Fatto Quotidiano”. La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.

·         I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La conferenza stampa del governatore. De Luca contro le Regioni del Nord: “Campania per il massimo rigore, pronti alla battaglia per impedire il furto di risorse al sud”. Redazione su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Vincenzo De Luca è per la linea del massimo rigore. Sempre. Il Presidente della Campania nella consueta diretta del venerdì lancia come al solito accuse e strali. Al governo, soprattutto, chiede rigore in questa fase dell’emergenza coronavirus. Se la Campania si è salvata, ha detto sottolineando che la Regione è quella con la densità abitativa più alta d’Italia, è stato per le decisioni prese dalla Regione stessa, prima dell’esecutivo. E non per il dpcm delle Zone Rosse, Arancioni o Gialle. “Fesserie”, le ha definite. E quindi è infastidito dall’informazione che vuole le Regioni premere contro il governo per ottenere più riaperture. “Secondo i media c’è un assedio delle Regioni nei confronti del Governo per chiedere provvedimenti meno rigorosi. La Regione Campania chiede provvedimenti più rigorosi, non meno. Mi auguro che anche il sistema informativo trasmetta notizie rispondenti alla realtà”. Insomma, De Luca auspica che il governo non ceda alle richieste di aperture, in occasione delle festività natalizie, sulle pressioni delle Regioni del Nord. “Siamo talmente abituati a considerare ‘le Regioni’ soltanto le due, tre o quattro del Centro Nord – ha aggiunto De Luca – che scambiamo le posizioni di tre o quattro Regioni come le posizioni delle Regioni d’Italia. Non è così. La Campania sostiene una linea di rigore, è contraria al rilassamento, all’apertura della mobilità, a queste manfrine alle quali stiamo assistendo su Comuni grandi o piccoli, su che dobbiamo fare a Natale, alla vigilia, a Capodanno”.

RECOVERY FUND – Un passaggio, che sottolinea ancora uno sfondo tra Regioni del Nord e del Sud, anche sul Recovery Fund, il fondo europeo da 750 miliardi miliardi di euro sbloccato dall’accordo dei ventisette. “Sullo sfondo c’è un problema che riguarda noi meridionali: e cioè le ipotesi del Governo configurano l’ennesimo furto nei confronti delle Regioni del Sud – ha aggiunto De Luca – I 209 milioni stanziati dall’Europa arrivano per recuperare il divario del sud rispetto al nord, mentre il Governo invece di dare il 66% al sud e il 34% al nord,  ipotizza di fare tutto il contrario. Dobbiamo prepararci a una battaglia politica chiara e forte per impedire che questo ennesimo furto a danno del Sud sia consumato nell’indifferenza del Paese e, quello che è peggio, delle Regioni meridionali stesse”. E quindi ha anticipato come “nei prossimi giorni vedremo di proporre un incontro con altre regioni del sud per mettere in campo una risposta istituzionale forte, anche per verificare se i parecchi ministri campani diano cenni di esistenza oppure no”. Un’altra stoccata al governo e in particolare ai ministri campani come quello degli Esteri Luigi Di Maio, agli Affari Europei Vincenzo Amendola, all’Università Gaetano Manfredi, allo Sport Vincenzo Spadafora, all’Ambiente Sergio Costa.

Il dibattito sul Recovery Fund. Recovery Fund, l’Europa è contro il divario tra Nord e Sud. Luigi Famiglietti su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. L’Italia ha ottenuto i 209 miliardi del Recovery Fund innanzitutto perché la Commissione ha riconosciuto come il divario Nord-Sud sia un punto critico per l’economia nazionale e, quindi, ha posto lo sviluppo del Mezzogiorno come prima condizione per l’utilizzo dei fondi. Nella bozza del Piano di resilienza portata in Consiglio dei ministri dal premier Giuseppe Conte si fa riferimento alla clausola del 34% come tetto per l’utilizzo dei fondi al Sud. In realtà, tale clausola, ancora non rispettata, è stata introdotta nel nostro ordinamento per fare in modo che, rispetto agli investimenti in conto capitale interni al Paese, almeno il 34% riguardi il Sud. Tale quota rappresenta la percentuale di popolazione meridionale rispetto al dato complessivo nazionale. Perciò c’è stata una levata di scudi degli istituti meridionalisti. In particolare, il presidente di Svimez, Adriano Giannola, ritiene che, in base alle linee-guida del Recovery Fund, debba essere riconosciuto al Sud almeno il 60% delle risorse a disposizione dell’Italia proprio perché il divario con il Nord è stato riconosciuto tra i più ampi tra i Paesi europei. Il Governo precisa che i fondi destinati al Sud nei prossimi anni saranno più che sufficienti in quanto va considerato anche il Piano Sud 2030 e la programmazione dei fondi strutturali 2021/2027. Mai come in questa occasione, tuttavia, il problema non sta tanto nella quantità dei fondi messi a disposizione del Sud, quanto nella qualità dei progetti anche rispetto agli effetti che produrranno. Diventa fondamentale curare non solo il supporto alla progettazione, ma soprattutto il monitoraggio sul corretto utilizzo delle risorse. Bisognerà coniugare al futuro questo intervento straordinario che non a caso si chiama Next Generation. L’Europa ci chiede nuove politiche di sviluppo basate sull’innovazione digitale, sulla transizione ambientale e sull’eliminazione del divario Nord-Sud sia dal punto di vista infrastrutturale che nella fruizione dei cosiddetti diritti di cittadinanza: istruzione, sanità e mobilità. Nel Rapporto del G30 Mario Draghi spiega bene come per lo sviluppo servano uno sguardo lungo e progetti ad alto rendimento tali da giustificare l’investimento pubblico e garantire la crescita e la diminuzione del debito. Tuttavia, stando alla bozza del Piano italiano circolata nei giorni scorsi, sembrerebbe che ben pochi tra i progetti indicati possano garantire quei rendimenti elevati auspicati da Draghi. Intanto, buona parte dei crediti europei servirà a coprire programmi di spesa già esistenti, come nel caso della ferrovia Napoli-Bari, per liberare risorse nazionali già impegnate ed evitare un significativo aumento del debito pubblico. Rispetto ai nuovi investimenti, nella bozza circolata, si parla, per esempio, del potenziamento dei porti di Trieste e di Genova e non si fa cenno ai porti meridionali e alla funzione del Sud come grande piattaforma logistica integrata proprio quando, nel nuovo contesto internazionale, per l’Europa diventa fondamentale guardare al Mediterraneo. È scomparso dal dibattito il ponte sullo stretto di Messina che pure sarebbe utilissimo per estendere la rete alta capacità/alta velocità alla Calabria e alla Sicilia. L’Italia non eccelle nell’utilizzo dei fondi europei e le regioni del Sud hanno il dovere di fare autocritica per la gestione delle risorse comunitarie. Tuttavia la soluzione non può stare nella nomina dell’ennesima task-force nazionale che andrebbe a sovrapporsi all’Agenzia per la Coesione e alle strutture ministeriali. Il ministro Giuseppe Provenzano e il direttore di Svimez Luca Bianchi, in una pubblicazione del 2010 dal titolo Ma il cielo è sempre più su?, di fronte alla scarsa efficienza delle Regioni e delle amministrazioni centrali avevano suggerito una terza via: concordare con Bruxelles poche priorità da finanziare, definire obiettivi da raggiungere chiari e verificabili e accettare un sistema di valutazione indipendente, europeo. Già Carlo Trigilia, nel 2009, aveva invocato una Maastricht per il Mezzogiorno con un intervento su Il Mattino e considerazioni simili erano state espresse nel rapporto predisposto da Fabrizio Barca per la Commissione europea in vista della definizione della nuova politica di coesione per il post 2013. Quindi, per sfruttare al meglio i fondi europei stanziati per le prossime generazioni e provare a ridurre il divario Nord-Sud in un disegno unitario con una logica di sviluppo nazionale, bisogna ripensare il sistema di governance delle politiche pubbliche attraverso l’imposizione di vincoli esterni assai più stringenti che nel passato: occorre un rafforzamento della capacità di indirizzo e controllo da parte della Commissione europea sia nella fase di progettazione che in quella di monitoraggio della spesa.

TUTTI CON DE LUCA PER SCONGIURARE «IL FURTO AI DANNI DEL SUD». Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s'è desto. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei a fondo perduto diventa sempre più concreta. Michele Inserra su Il Quotidiano del Sud il 17 dicembre 2020. Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s’è desto. Questa volta si fa sul serio, almeno così sembra dai buoni propositi. Lo sceriffo si è svegliato, detta la linea per il Mezzogiorno, si mette di traverso, contesta il governo e il suo partito, il Partito democratico, che supporta e sostiene il percorso politico dell’esecutivo nazionale. Così su invito del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, oggi si ritrovano i presidenti delle regioni meridionali per confrontarsi sul riparto nazionale dei fondi previsti nell’ambito del programma “Next Generation” che, secondo le ipotesi di governo, destina al Sud la misera quota del 34%: Marco Marsilio (Abruzzo), Vito Bardi (Basilicata), Nino Spirlì (Calabria), Donato Toma (Molise), Michele Emiliano (Puglia), Christian Solinas (Sardegna) e Nello Musumeci (Sicilia). De Luca sollecita i colleghi a fare fronte comune al di là dei partiti, per scongiurare “un vero e proprio furto ai danni del Sud” e contrastare le “inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica”. Fanno benissimo adesso i governatori del Sud a “sposare” la campagna di questo giornale, condotta in assoluta solitudine e avallata dalle principali istituzioni economiche, statistiche e contabili della Repubblica italiana. Un sussulto di dignità per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola. Un cammino comune quello intrapreso dai governatori che ha ne Il Quotidiano del Sud-L’Altra voce dell’Italia la sua casa naturale per promuovere un atto istituzionale formale. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei diventa sempre più concreta. Era l’ora, dopo un soporifero letargo delle istituzioni meridionali. «Gli Stati membri potranno beneficiare di un contributo finanziario sotto forma di un sostegno non rimborsabile. L’importo massimo per Stato membro sarà stabilito in base a un criterio di ripartizione definito. Tali importi saranno calcolati in base alla popolazione, all’inverso del prodotto interno lordo (Pil) pro capite e al relativo tasso di disoccupazione di ciascuno Stato membro». Alle pagine 8 e 9 della proposta di regolamento, il parlamento europeo fissa i paletti sui criteri di ripartizione delle risorse a fondo perduto del Recovery Plan. Sono tre gli indicatori: popolazione, tasso di disoccupazione e Pil pro capite. Dovranno essere destinate maggiori risorse a quei territori con più residenti, con maggiore disoccupazione e prodotto interno lordo inferiore. Seguendo i criteri Ue, il governo Conte deve investire per il Nord Italia il 21,20% dei 65,4 miliardi a fondo perduto previsti dal Piano nazionale ripresa e resilienza; il 12,81% deve andare al Centro e il 65,99% al Sud, ben oltre, quindi, il 34% previsto dal piano dell’Esecutivo nazionale. Quasi il doppio. Anziché 22,23 miliardi, quindi, al Sud dovrebbero andare 43,15 miliardi, una differenza di 20,9 miliardi; mentre al Centro-Nord, anziché 43,16 miliardi dovrebbero essere destinati 22,24 miliardi, secondo i criteri dell’Unione Europea. Un «vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni» di fronte al quale «si rende urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico» ha scritto De Luca nella lettera di invito ai colleghi. Un programma «imponente – spiega il governatore campano – che prevede l’impegno di ben 209 miliardi di euro, di cui 193 miliardi del solo Piano di Ripresa e Resilienza (Pnrr) , a loro volta divisi in 65,4 miliardi a fondo perduto e 127,6 miliardi a titolo di prestito da rimborsare. Risorse che l’Europa rende disponibili per un rilancio economico finalizzato, in primo luogo, a colmare il divario tra aree più sviluppate ed aree con Pil molto al di sotto della media europea e con più alto tasso di disoccupazione. Del resto, se l’Italia è il Paese cui è destinata la maggiore quota di risorse è proprio perché comprende una consistente area con tali requisiti di debolezza: il Mezzogiorno». Di tutto ciò, sottolinea De Luca, «non vi è traccia del dibattito politico di queste settimane, tutto incentrato su inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica. Anzi, vi è di peggio. I criteri europei di riparto delle risorse sono totalmente occultati in tutti i documenti ufficiali. Da ultimo, è circolato un Piano del governo che capovolge i criteri europei e ripropone la banale distribuzione delle risorse fra Centro-Nord e Sud secondo un criterio esclusivamente demografico, cioè il contrario dei principi di coesione sociale e territoriale sanciti nel Trattato di funzionamento dell’Unione e nella nostra Costituzione». Ecco perché, secondo De Luca, «si prepara un vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni. Solo per la parte a fondo perduto del Pnrr tale furto assomma a ben 20,92 miliardi di euro. Peraltro – prosegue De Luca – anche la ripartizione delle risorse nelle 6 missioni proposte dal Governo è davvero sconcertante. Basti pensare alla mortificazione di settori importanti, in particolare per il Sud, come la sanità, il turismo ed i servizi idrici. Si rende, pertanto, urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali, che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico. Se non avvertissimo con forza questa responsabilità comune non svolgeremmo il ruolo che le nostre comunità si attendono da noi tutti». Da qui la proposta, rivolta dal presidente della regione Campania ai governatori di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, di un incontro da remoto «per discutere insieme di questi temi e per definire le più opportune iniziative in ambito nazionale ed europeo». Plauso all’iniziativa Doriana Buonavita, segretaria generale della Cisl Campania. «Ci aspettiamo una forte sinergia fra tutte le regioni del Sud, che possano superare le legittime divisioni sul piano politico e trovare alleanze profonde, anche per dare un forte contributo nel ridisegnare politiche nuove per il Mezzogiorno e per il Paese». L’iniziativa intrapresa da De Luca è riuscita anche ad incassare il sostegno di Forza Italia nel consiglio regionale campano. «Ribadiamo al presidente De Luca – ha detto il capogruppo consiliare degli azzurri, Annarita Patriarca – la disponibilità da parte di Forza Italia a collaborare e a dare il nostro apporto in termini di progetti e azioni politiche. Questa è una battaglia comune, dell’intero Meridione, e per tale motivo siamo disposti ad affiancare il governatore affinché la Campania sia alla testa delle regioni del Sud per impedire quello che si configura come un furto ai danni del Sud». «Il Recovery fund è una occasione irripetibile per il Mezzogiorno di vedere ridotto il gap con le regioni del Nord – ha aggiunto – Per questo, non dobbiamo spaventarci di ingaggiare una battaglia per far arrivare al Sud il 70% dei fondi, e non il 34% come deciso dal Governo Conte, contravvenendo alle stesse disposizioni della Commissione europea». Gli fa eco l’europarlamentare forzista, Fulvio Martusciello. «La decisione del Governo di concedere al Sud solo il 34% dei 209 miliardi destinati al nostro Paese, contrariamente a quanto stabilito dalla Commissione Europea, cioè di assegnare al Mezzogiorno il 70% delle risorse del Recovery fund, è l’ennesima mortificazione che riceve il nostro Sud, dal Governo Conte – ha detto – questo ennesimo furto va bloccato. Bisogna invertire questa decisione inaccettabile del Governo e far in modo che il 70% dei fondi vadano al Sud non al Nord. La Campania e tutte le regioni del Mezzogiorno hanno bisogno di questi fondi. Ci batteremo fino alla fine coinvolgendo tutti i parlamentari affinché il Governo cambi questa sua assurda decisione». Fa la voce grossa anche Stefano Caldoro, il candidato alla presidenza sconfitto da De Luca alle scorse elezioni regionali. «Le risorse europee vanno destinate in maniera massiccia ed intelligente al Sud perché qui ci sono più margini di crescita per l’economia e perché i trasferimenti statali di spesa corrente, negli anni, hanno penalizzato le regioni meridionali – ha detto il capo dell’opposizione in Consiglio regionale della Campania». I motori sono caldi. Si parte, a difesa del Mezzogiorno.

Ennesimo colpo al Sud: altri 70 milioni dirottati al Nord. Fondi Ue, Italia bocciata dalla Corte dei conti europea. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Un nuovo “sgarbo” sembra profilarsi nei confronti del Mezzogiorno a vantaggio del Nord, una sottrazione di risorse che vale 70 milioni. A segnalarlo è stato il deputato Paolo Russo, responsabile nazionale del dipartimento Sud di Forza Italia: «Per dare un nuovo colpo ai bilanci dei territori del Sud mancava solo l’adozione dei nuovi criteri per la revisione della metodologia dei fabbisogni standard dei Comuni appartenenti alle Regioni a statuto ordinario per il servizio smaltimento rifiuti». L’obiettivo, si è sostenuto, sarebbe costruire meglio i piani finanziari dei Comuni per lo smaltimento dei rifiuti. Ma la sostanza, ha avvertito Russo, « è che è destinata a incidere, a danno degli enti locali del Sud, sulla ripartizione del fondo di solidarietà perequativo nazionale dei comuni. Il risultato è, infatti, che i grandi centri del Nord saranno ulteriormente avvantaggiati. Questo governo quando c’è da togliere al Meridione è rapido ed efficiente, quando, invece, c’è da definire i fabbisogni standard sul fronte dei trasporti, degli asili o della salute cincischia, rallenta o ritarda. Ci dicono che questa sperequazione ulteriore valga poco in termini economici e la chiamano sterilizzazione. Per me è un altro regalo al Nord che vale 70 milioni di euro tolti al Sud».

I FONDI STRUTTURALI. Ieri, intanto, la Corte dei conti europea ha bacchettato l’Italia per l’uso dei fondi strutturali. Il Paese è al penultimo posto in Europa per l’utilizzo dei fondi strutturali europei nel 2019. Con il 30,7% di fondi spesi – rispetto a una media europea del 40% – condivide la posizione di fanalino di coda con la Croazia, che fa anche peggio arrivando solo al 30% e si aggiudica l’ultimo posto nella classifica che vede in testa la Finlandia con il 66,2%, seguita dall’Irlanda con il 60,6% e dal Lussemburgo con il 57%.

LA CLASSIFICA. La “pagella” – che suona come l’ennesima reprimenda nei confronti del Paese in merito alla sua capacità di spesa, alimentando le “perplessità” dei Paesi frugali sulla reale possibilità di mettere a terra le risorse del Next Generation Eu – compare nella relazione in cui la Corte europea paragona l’assorbimento dei fondi del 2019 e del 2012, rappresentativi dei cicli di spesa a valere sui bilanci settennali della Ue per il 2007-2013 e il 2014-2020. La “giustificazione”, accompagnata dai numeri a sostegno dell’impegno per un cambiamento di rotta, arriva dal ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, in un’audizione in commissione Politiche europee del Senato.

La dotazione complessiva di tutti i Programmi dell’attuale ciclo vale oltre 53 miliardi, due terzi dei quali sono destinati alle regioni del Sud, sia meno sviluppate sia in transizione, ha ricordato il ministro. «I ritardi accumulati in partenza dal ciclo di programmazione ne hanno reso complessa l’attuazione, ma negli ultimi mesi abbiamo registrato importanti segnali di accelerazione – ha detto Provenzano – Diversamente da quanto accaduto negli anni precedenti, tutti i Programmi operativi hanno raggiunto le soglie minime di spesa previste al 31 dicembre 2019».

LA CONTESTAZIONE. I ritardi ci sono stati, quindi, ma il ministro contesta la comparazione con il ciclo precedente adottata dalla Corte dei conti europei per due motivi: innanzitutto, per «il ritardato avvio del ciclo 2014-20, a seguito di un negoziato molto lungo, mentre lo sforzo delle Amministrazioni regionali e centrali era ancora tutto indirizzato alla chiusura del ciclo precedente onde evitare di perdere risorse. E poi la regola dell’N+3 che dilata di un ulteriore anno i tempi di assorbimento rispetto al ciclo precedente (quando valeva l’N+2)». Tuttavia, ha riconosciuto il ministro, «nonostante il raggiungimento del target, la situazione di avanzamento della spesa a fine 2019 non era affatto soddisfacente e si attestava a un dato tra i più bassi dell’intera Ue. In particolare, nelle regioni del Mezzogiorno e nel Centro Nord era pari, rispettivamente a circa il 26% e il 32%». Il monitoraggio Igrue, aggiornato al 30 agosto, mostra «un apprezzabile miglioramento», destinato, secondo Provenzano, a migliorare ulteriormente quando saranno «visibili» gli effetti della riprogrammazione delle risorse nell’emergenza Covid 19 operata con le Regioni per circa 11,5 miliardi. Da febbraio ad agosto, intanto, risulta una crescita degli impegni dal 60,5% al 69,2 e dei pagamenti dal 31,7% al 39,2% dell’intera spesa programmata, che vale 3 miliardi. I programmi procedono in maniera disomogenea, alcuni sono particolarmente in ritardo, come i Por di Calabria, Marche e Abruzzo in ambito Fers, o di Sicilia, Campania e Abruzzo per il Fse. E i comunque riguardano anche le amministrazioni centrali. Per quanto riguarda l’obiettivo di spesa di fine 2020, stimato in 12,1 miliardi di quota Ue, «restano da certificare e richiedere rimborsi per circa 2 miliardi di contributi comunitari», pertanto l’Italia, ha affermato il ministro, è «in linea con gli impegni previsti».

IL CICLO 2021-2027. Intanto, per quanto riguarda il prossimo ciclo 2021-2027, ha detto Provenzano, l’Italia è tra i pochi Paesi che vede aumentare la dotazione di Fondi Ue di 6,8 miliardi. Inoltre, ha aggiunto, «a seguito di un lungo confronto con il Mef abbiamo deciso» in legge di Bilancio 2021 «di aumentare l’impegno finanziario di cofinanziamento nazionale dei programmi di uso dei fondi strutturali Ue rispetto ai minimi fissati dalla Commissione, così riequilibrare e aumentare il cofinanziamento anche nelle Regioni meno sviluppate e in quelle in transizione. Questo ci porterà ad avere una dotazione di fondi strutturali, tra cofinanziamento europeo e cofinanziamenti nazionali, di circa 80 miliardi di euro. Se ci pensate, è un ammontare di aiuti superiore alla quota dei sussidi, ad esempio, della Recovery and Resilience Facility». Quanto al Next Generation Eu, il ministro ha ribadito la necessità che la clausola del 34% per il Sud sia «applicata anche alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma – ha sottolineato – come una quota minima».

TRASPORTI, I FURBETTI DELLE REGIONI. Il virus sul bus porta i soldi al Nord. Roberto Napoletano il 14 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. I governatori della terza camera dello Stato fanno finta che devono rispettare il tetto dell’80% e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere pure le compensazioni. Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa e che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia? Governano i governatori. Sua Maestà, Stefano Bonaccini, parla e si muove come uno specialissimo Presidente del Senato delle Regioni di impronta monarchica. Nessuno gli ha dato questo mandato, ma lui lo esercita e lo fa a modo suo. Prima i ricchi, poi i poveri. Volessimo affrontare per una volta un tema serio: come mai gli investimenti in sanità sono pari a 85 euro pro capite per ogni cittadino emiliano-romagnolo e a 16 euro pro capite per ogni cittadino calabrese? Buon ultimi a certificare questi numeri-verità sono arrivati i ricercatori del Crea di Tor Vergata che si sono addirittura spinti a dire che sull’efficienza delle singole regioni pesa per il 40% la quantità di finanziamenti ricevuti. Chissà che cosa si inventeranno i professorini in servizio permanente effettivo della squadra della diseguaglianza per negare questa elementare evidenza! Sono arrivati al punto di mettere in discussione la statistica nazionale pur di proteggere l’indifendibile. Francamente impressiona. Per chi come questo giornale sottolinea dal primo giorno di uscita la gravità della questione istituzionale meridionale per le evidentissime incapacità della sua classe dirigente c’è proprio da sorridere nel vedere come ci si affatica contro ogni regola e ogni logica a smontare quello che non è smontabile. Vale a dire che, grazie al trucco della spesa storica, in sanità scuola e trasporti si fanno figli e figliastri fino al punto che le Regioni del Nord si azzannano perché lo Stato rifinanzi i servizi aggiuntivi di pulmini e scuola-bus mentre il Sud questi bus navetta non li ha mai visti nemmeno in cartolina. Scusate, una domanda: ma questa apertura delle scuole Sua Maestà Bonaccini della Sinistra Padronale e i pari-dignitari Fontana e Zaia della Destra a trazione leghista se la aspettavano o no? Sono stati presi in contropiede, come mai? A queste linee aggiuntive, visto che loro i bus navetta ce li hanno, non potevano pensarci prima? Ora Zaia vuole la didattica a distanza, come facciamo con le aree interne del Nord e quasi tutto il Sud che la banda ultra veloce se la possono solo sognare? Ma forse forse, siamo arrivati al punto che non esiste più l’impresa globale o l’impresa nazionale, ma solo quella regionale pagata dagli altri e, cioè, sovvenzionata dallo Stato? Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa? Che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia. Che arriva addirittura a fare affari sul Covid. Sui trasporti locali i controlli sono una finzione, non esistono, non sono stati proprio previsti, probabilmente neppure potrebbero funzionare. I ras regionali non li vogliono svuotare, i loro bus. Ovviamente non esiste il biglietto nominativo, zero tracciabilità. Morale: fanno finta che devono rispettare il tetto dell’ottanta per cento e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere le compensazioni negate a ristoratori e operatori turistici, questi sì, davvero in brache di tela. Non sappiamo come fare a rinnovare la cassa integrazione e, al di là degli annunci fuori misura e fuori luogo di chi guida la politica economica italiana, la Grande Depressione avanza, e il nostro problema è quello di soddisfare le pretese di lorsignori governatori! Gli stessi che fanno le pulci al governo per qualunque tipo di provvedimento prenda ma non hanno le carte in regola per rimproverare alcunché, e non hanno nemmeno la dignità morale di ragionare in termini solidaristici. Quando la finiranno di rivendicare le loro autonomie e le loro competenze sul territorio solo se devono bussare a quattrini? Ci ha colpito che la Francia nel suo piano nazionale di Recovery Fund ha assegnato la quota più rilevante (36 miliardi) alla coesione sociale e territoriale, lo ha fatto per tabulas e senza grandi proclami. Questo accade nella nazione della città-Stato per eccellenza. Presidente Conte, non c’è più tempo per traccheggiare e fare compromessi con i mille cantastorie dell’interesse predominante e del miope privilegio dei ricchi. Per noi il Recovery Plan deve avere una sola declinazione: l’equità sociale e territoriale e il superamento di una frammentazione decisionale che ha nella incapacità di molti governatori meridionali e nell’arroganza di molti governatori del Nord la causa prima del declino strutturale italiano.

Resta un mistero lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti di quelli del Nord.

Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Invece di elemosinare posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità per fare fronte alla seconda ondata della pandemia, perché i Capi delle Regioni del Sud non si rivolgono tutti insieme alla Corte Costituzionale affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Che cosa impedisce loro di chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? E che dire del ministro Gualtieri che parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo! Ma dove vive? Siamo allibiti. Viviamo i giorni durissimi della seconda ondata della Pandemia. Il mondo è tornato a tremare, noi non sappiamo che cosa ci aspetta in casa. Lo sceriffo De Luca ha voluto più di tutti chiudere la Campania quando il Covid non c’era e rischia ora di doverla richiudere perché ha terrorizzato di nuovo i suoi cittadini. Che si sono rimessi tutti in fila a fare il tampone rischiando di moltiplicare i contagi perché nulla è stato fatto in questi lunghissimi sei mesi per garantire servizi celeri e rafforzare la medicina sul territorio. Ovviamente l’economia della regione più importante del Mezzogiorno è stata chiusa, ma nessuno se ne cura perché i professionisti dell’anti-Covid dispongono della vita umana e della vita economica delle persone e i Capi delle Regioni sanno solo presentare il conto allo Stato, pavoneggiarsi in tv da mattina a sera, insidiare Crozza come imitatore professionale e, in genere, come showman. I ristoranti sono di nuovo vuoti, il trasporto veloce e quello aereo sono in ginocchio. Il mondo dell’intrattenimento ha fatto finta di ripartire, la scuola se la è cavata meglio del previsto anche se soffre e le Italie pure nelle sofferenze sono ovviamente due. Il pubblico impiego ha persone di valore che si sacrificano, ma non ha gli strumenti digitali per fare da casa quello che faceva in ufficio e dà il suo contributo silenzioso al lento spegnersi della piccola economia di consumi. Tutti i dipendenti privati che sono in cassa integrazione sono consapevoli che l’anno prossimo rischiano di rimanere a casa. Il quadro, insomma, è nerissimo, ma non serio. Al punto che per unire farsa alla farsa tocca di vedere un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che a Porta a Porta, sotto gli occhi sbigottiti di Bruno Vespa, parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo. Scusatemi, ma dove vive? E ancora: che cosa deve accadere per capire che il gallismo dei Capi delle Regioni porta l’Italia alla rovina? È possibile continuare, anche ai tempi del Covid, in questo circuito perverso di miopi egoismi che non è nient’altro che l’Italia ridotta in venti staterelli? Ma quale dignità possono avere davanti ai nostri occhi i Capi delle Regioni del Nord che si nascondono dietro lo scudo della spesa storica per fare incetta di spesa pubblica sociale e infrastrutturale e, ancora di più, i Capi delle Regioni del Sud che elemosinano posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità ma si guardano bene dal ricorrere alla Corte costituzionale per chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? In quali mani siamo finiti! Che cosa impedisce ai Capi delle Regioni del Sud di rivolgersi tutti insieme alla Corte costituzionale perché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Possibile che neppure l’occasione storica del nuovo piano Marshall europeo – le somme oggi in gioco sono molto di più di quelle di allora – permetta di riequilibrare la spesa sociale e di avviare la riunificazione infrastrutturale immateriale e materiale delle due Italie? Per noi che in assoluta solitudine abbiamo condotto l’operazione verità e denunciato la grande balla di un Sud che vive sulle spalle del Nord, resta un mistero insondabile lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti dei governatori del Nord. Non si tratta di dichiarare guerra a nessuno, ma di rinunciare alla pratica poco dignitosa di presentarsi sempre con il cappello in mano e di imboccare la via maestra che consente di ristabilire la verità una volta per tutte. Nell’interesse dei ricchi come dei poveri. Se non si passa da qui l’Italia tutta conoscerà la fase estrema del suo lunghissimo declino e uscirà dal novero delle grandi economie industrializzate.

LE DUE ITALIE ANCHE PER I TAMPONI. IL SUD SOTTO LA MEDIA NAZIONALE. L’obiettivo dei 400mila al giorno è ancora lontano e le procedure sono ancora lente e farraginose. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Milioni di mascherine sfilano per strade delle città italiane in ossequio all’ultimo Dpcm adottato per fronteggiare l’emergenza coronavirus dopo quasi 10 settimane di ricrescita dei contagi giornalieri. Ma sull’efficacia della protezione, indossata all’aperto, la comunità scientifica si è più volte divisa. Lo stesso Andrea Crisanti – non certo annoverabile nel partito dei negazionisti – ha recentemente spiegato a Sky Tg24 che la stessa, da sola, non è sufficiente per risolvere il problema.

NUMERO MAGGIORE. Il microbiologo da mesi sostiene, infatti, che l’unica vera arma contro il Covid19 sia estendere il numero di tamponi effettuati fino a portarlo a quota 400mila ogni 24 ore. L’auspicio si scontra, però, con la realtà quotidiana dei test realizzati, che fanno segnare un record quando si avvicinano alle 130mila unità (come accaduto ieri). Un dato che, fra l’altro, risente dei mezzi e dell’efficienza dei singoli sistemi sanitari regionali, col risultato che il Paese – per quanto riguarda l’aggressione al virus – si presenta più che mai a macchia di leopardo. La questione non è di poco conto: aumentare la quantità di tamponi significa non solo intercettare per tempo contagi e potenziali focolai ma anche valutare l’andamento e l’incidenza dell’epidemia in termini statistici. A oggi gli unici dati “reali”, a parte i decessi, sono quelli che derivano dalle ospedalizzazioni (4.473 secondo l’ultimo bollettino) e – all’interno di queste – dalle terapie intensive (387). Va da sé che questi numeri hanno un peso maggiore o minore nella valutazione della gravità della pandemia in Italia a seconda della quantità di persone attualmente positive. Le oltre 70mila registrate ieri sono, quasi certamente, solo una frazione di un volume più ampio, i cui contorni possono essere definiti solo allargando il campione di soggetti testati. Semplificando: se in Italia ci fossero 10 ricoverati a fronte di 1000 positivi la situazione sarebbe meno grave rispetto a un rapporto di 10 a 100.

IL REPORT E I RITARDI. Ma sul punto siamo ancora indietro, specie in alcune zone del Paese. Lo dimostra l’ultimo istant report sul Covid19 realizzato dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università cattolica del Sacro Cuore. A oggi, spiega lo studio, la media nazionale di tamponi effettuati ogni mille abitanti è pari a 10,13. Fra le regioni che superano questo valore non ce n’è nemmeno una del Mezzogiorno. In testa troviamo il Veneto con 17,67; seguono Pa di Trento (17,55), Friuli Venezia Giulia (16,07), Pa di Bolzano (14,64), Umbria (12,68), Toscana (12,5), Emilia Romagna (12,27), Liguria (12,13) e Lazio (12,05). Se si eccettuano Lombardia (appena sotto il coefficiente mediano con 10,12), Abruzzo, Piemonte Valle d’Aosta e Marche, i valori sotto la media nazionale sono interamente appannaggio di Sud e Isole. La peggiore è la Puglia (5,32), poi Calabria (5,54) e Sicilia (6,39). La Campania, che sta facendo registrare continui boom di contagi, non fa meglio (7,17). Le regioni dunque, sottolinea il documento allegato al report, “continuano a differenziarsi in termini di strategia di ricerca del virus attraverso i tamponi, anche se il trend nazionale è in aumento dalle scorse settimane”. Sullo sfondo dell’andamento altalenante dei tamponi è la questione dei costi. La stessa Altems ha calcolato che dal 24 febbraio ai primi di settembre la spesa sostenuta dal Sistema sanitario per l’individuazione dei casi di Covid è stata pari a oltre 300 milioni di euro. Ipotizzando una media di 35 euro per tampone – il prezzo in realtà varia di regione in regione – la stessa Scuola ha calcolato quanto viene investito in ciascun distretto territoriale nell’attività di ricerca del virus. In testa alla classifica questa volta troviamo la Lombardia dove, nella settimana dal 30 settembre al 6 ottobre, sono stati spesi circa 4 milioni e 500mila euro. Seguono il Veneto (poco meno di 3 milioni), il Lazio (più di 2 milioni e 500 mila) e l’Emilia Romagna (quasi 2 milioni e 400mila). In coda c’è la Valle d’Aosta – anche per una questione legata all’esiguità della popolazione – ma subito dopo troviamo due regioni del Sud: Molise (neanche 70mila euro) e Basilicata (poco più di 139mila e 500). Nel panorama del Mezzogiorno la regione dove si è speso di più nello stesso periodo è la Campania (oltre un milione e mezzo di euro). Un’inchiesta dell’associazione Altroconsumo offre, invece, un quadro interessante sui cosiddetti “tamponi volontari” eseguiti da persone che sospettano di essere entrate in contatto con potenziali contagiati o accusano sintomi riconducibili al Covid. Per accorciare i tempi di attesa del Ssn questi individui si rivolgono spesso a laboratori privati, nei quali i costi risultano spesso elevati. L’indagine ha riguardato 154 strutture di questo tipo situate in sei regioni. In Lombardia il prezzo richiesto può andare dai 70 ai 152 euro, in Veneto dai 65 ai 102. Dalla Campania – unico territorio meridionale entrato nel campo d’analisi – non sono arrivati dati utili allo studio per quanto riguarda i tamponi. Tuttavia per l’alternativo test sierologico possono essere chiesti dai 25 ai 60 euro. Costi elevati un po’ ovunque quindi. Ma sull’efficienza delle strutture anche in questo caso emergono importanti differenze fra Nord e Sud. “Più di tre volte su dieci l’appuntamento è addirittura per il giorno stesso – afferma Altroconsumo -. Non mancano però le eccezioni: in Campania e in Lazio, per esempio, nella prima metà di settembre non era possibile eseguire il tampone privatamente”.

IL VERO TIMORE. I dati ancora bassi relativi all’attività di testing preoccupano in vista dell’incipiente stagione delle influenze che rischia di mandare in tilt il Ssn. «Abbiamo speso miliardi per il bonus bici e i banchi, invece di investirli per creare un sistema sanitario di sorveglianza– si è lamentato di recente Crisanti a Repubblica – a fine agosto ho presentato un piano per quadruplicare i tamponi al governo che lo ha sottoposto al Cts. Poi non ne ho saputo più nulla»

La sanità iniqua smascherata anche dal virus: per i pazienti del Nord ci sono sempre più soldi. Complice il sistema della “spesa storica” che lo penalizza, il Sud continua a ricevere risorse insufficienti dallo Stato. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. I numeri del turismo sanitario dal Sud verso il Nord raccontano da anni la “malattia” del sistema sanitario del Mezzogiorno con cui i suoi cittadini sono costretti quotidianamente a fare i conti per assicurarsi le cure. La pandemia ha mostrato all’intero Paese la gravità della situazione, certificando che il diritto alla salute si declina su base territoriale. La prima ondata è stata “contenuta” nel meridione, ma la seconda si annuncia molto più minacciosa, come dimostra il boom dei contagi in Campania e il tasso di ospedalizzazione dei pazienti Covid al Sud rispetto alla media. Mettendo alla prova un sistema già in forte sofferenza. E che da anni è costretto a fare i conti con una dotazione di risorse da parte dello Stato inferiore rispetto al resto del Paese, come dimostra anche la ripartizione del Fondo sanitario nazionale di quest’anno.

I NUMERI DEL DIVARIO. Qualche numero: per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 lo Stato spenderà complessivamente 1.826 euro pro capite, contro i 1.918 riservati a un emiliano e i 1.877 a un veneto. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827. La Calabria veste i panni della “Cenerentola”, con appena 1.800 euro per ogni suo cittadino contro i 1.916 per ciascun friulano, i 1.935 di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 della Toscana. Come accade ormai da oltre 15 anni, il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, complice il meccanismo della spesa storica. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi del fondo sanitario 2020, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Il quadro della spesa pro capite fotografa chiaramente le disparità: per la salute e le cure di un pugliese lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite, mentre la Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi – 1.880 euro per ogni sua cittadino – per la sua sanità che pur non ha dato una bella prova di sé durante l’emergenza Coronavirus. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Ancora: il Friuli Venezia Giulia, che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino; il Piemonte, che pure negli ultimi anni come ha certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Infine, la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite.

L’INCREMENTO. Negli ultimi 10 anni, poi, sempre le regioni del Nord hanno registrato un incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale maggiore rispetto alle altre: tra il 2010 e il 2020, infatti, la quota della Lombardia è cresciuta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, al contrario, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni settentrinali hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%, mentre altrettante regioni del Sud, che erano già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solamente dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno. Fatti i conti, quindi, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. E chi volesse giustificare questo stato di cose con una migliore performance nella gestione delle risorse da parte delle Regioni del Nord troverebbe una facile smentita nei conti del settore sanitario che tra il 2018 e il 2019 registrano un peggioramento del disavanzo del 10 per cento: dai 990 milioni di euro del 2018 si è infatti passati a poco meno di 1,1 miliardi di euro nell’esercizio appena concluso.

LE RESPONSABILITÀ. Un peggioramento che, come ha certificato la Corte dei conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, è da ricondurre «in prevalenza alle Regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019». «“Un risultato – si legge ancora nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata». Le regioni in Piano, sostanzialmente quasi tutte quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri, mentre quelle a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le differenze tra le Regioni emergono anche dal numero del personale impiegato nella sanità: la Campania conta 5,8 milioni di residenti e può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, i dipendenti a tempo indeterminato impegnati negli ospedali supera di poco le 35mila unità, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, in Emilia Romagna (4,4 milioni) sono invece oltre 57mila mentre in Lombardia si arriva quasi alla soglia delle 100mila unità.

Mes, De Luca furioso rilancia i temi dello scippo al Sud e della Grande Balla. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2020. «Per dieci anni la Campania è stata penalizzata al di là di ogni decenza istituzionale e di ogni ragionevolezza. Sarebbe uno scandalo non tollerabile, perseverare con criteri da rapina verso il Sud e la Campania perfino per l’assegnazione di risorse aggiuntive e straordinarie. Siamo pronti ad accettare la sfida dell’efficienza nei confronti di chiunque ma ci tuteleremo in ogni caso in tutte le sedi», compreso rivolgendosi «al Capo dello Stato oltre che alla Corte Costituzionale, nel caso in cui dovesse essere formalizzata tale ipotesi». VIncenzo De Luca, governatore della Campania, rilancia con decisione, in alcune dichiarazioni quella che è una battaglia che il Quotidiano del Sud l’Altravoce dell’Italia ha intrapreso fin dal suo primo numero: porre fine allo scippo ai danni del Mezzogiorno in base al quale miliardi di euro, con il trucco della spesa storica, vengono fatti confluire verso le regioni del Nord a discapito delle regioni del Sud. Una operazione che inevitabilmente fa il paio con la grande balla, denunciata dal direttore Roberto Napoletano, secondo la quale il Sud vivrebbe sulle spalle del Nord. Una falsità dimostrata dai numeri della finanza pubblica e certificata dagli enti istituzionali della Repubblica e non certo da consulenti di parte. L’occasione per tornare sull’argomento a De Luca l’ha data la simulazione, pubblicata dal Corriere della Sera, in base alla quale è stata disegnata una mappa delle assegnazioni dei possibili fondi del Mes tra le regioni Italiane qualora il Governo vi facesse ricorso. Lo schema assegna le risorse in base agli attuali criteri di spesa, quindi la spesa storica, e porta come risultato l’ennesimo squilibrio a vantaggio del Nord e discapito del Sud ossia l’ennesima incarnazione dello Scippo al Sud. Le somme del Mes, sempre se il governo vi farà ricorso, hanno un unico vincolo ossia devono essere destinate alla sanità con specifico riferimento ad investimenti e spese dirette e indirette collegate alla pandemia da coronavirus Covid-19 e da spendere nel 2020 e nel 2021 per un ammontare complessivo di circa 36 miliardi di euro. Fondo immensi fondamentali per rimettere in piedi un settore, quello sanitario, fatto letteralmente a pezzi nel corso degli ultimi quindici anni al Sud molto più che al Nord. Con la scusa dei piani di rientro e delle spese poco chiare, infatti, in tutto il Mezzogiorno, e non solo in Campania, sono stati progressivamente tagliati ospedali, punti nascite, poliambulatori, assunzioni di medici e di infermieri, riducendo la sanità del Sud ad una piccola porzione della sua struttura originaria. Tagli effettuati badando esclusivamente ai bilanci spessa senza considerare l’importanza della presenza di un ospedale in un’area montana o la necessarietà di prevedere la presenza del giusto numero di addetti (infermieri, medici e personale amministrativo) nei vari reparti progressivamente ridimensionati o addirittura chiusi. Ma De Luca si infuria perché quel criterio da oltre un anno denunciato dal Quotidiano Del Sud (LEGGI TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE) si basa ricalcandolo pedissequamente sull’attuale criterio di riparto tra le Regioni del fondo sanitario nazionale basato sul principio che bisogna ignorare il numero totale degli abitanti presenti in regione in luogo delle incidenze di giovani e anziani sul totale della popolazione causando in questo modo una forte riduzione delle somme trasferite al Sud a tutto vantaggio, ancora una volta, del Nord. Appare palese, a questo punto, che per far ripartire l’Italia serve veramente cambiare i presupposti di partenza, rompere il diabolico meccanismo per cui chi è più ricco ottiene più fondi e chi è più povero ne ottiene sempre meno e ricordarsi che un cittadino italiano è tale in qualunque luogo della Repubblica risieda e, pertanto, alcuni servizi, e la sanità è indubbiamente il principale tra questi, non devono assolutamente soffrire decurtazioni in base a latitudine e longitudine. La crisi del coronavirus può veramente essere l’occasione per fare quell’Italia unita che in 160 anni non è stata fatta.

TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE. Dopo le “Operazioni verità”, il “Manifesto per l’Italia” e l’appello per gli Stati generali dell’economia la battaglia condotta del nostro giornale continua. Claudio Marincola Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2020. «L’unica battaglia che si è persa in partenza è quella che non si è mai combattuta». A qualcuno sembrerà esagerato scomodare addirittura il comandante Che Guevara per raccontare le campagne di questo giornale. Se diciamo però che aprire l’involucro delle mistificazioni e rovesciare le tante falsità spacciate per verità non è stato facile, credeteci. Per troppo tempo al Sud sono state sottratte risorse, investimenti produttivi, spesa pubblica. Un artificio contabile, un gioco da prestigiatori e, oplà, i conti tornavano. Una foresta pietrificata di pregiudizi, decenni di affabulazioni da smascherare.

OPERAZIONE VERITÀ SCIPPO SMASCHERATO. Sul Mezzogiorno, per anni, la fabbrica all’ingrosso della manipolazione ha prodotto fake. Numeri contraffatti diffusi come granitiche certezze. Presunti vizi antropologici diventati luoghi comuni, caricature geografiche. Siamo partiti dai numeri. Dai 61,5 miliardi l’anno. Con il trapano della Spesa storica lo Stato ha continuato a regalare al Nord, finanziando ogni genere di assistenzialismo. Abbiamo raccontato, cifre alla mano, come la Regione Piemonte spenda per i suoi servizi generale cinque volte più della Campania pur avendo un milione e mezzo di abitanti in meno. Da sola più di quanto sommano insieme Campania, Puglia e Calabria. Da queste colonne s’è sollevata, in britannica solitudine, la campagna fatta propria da questo governo e inserita nella legge di bilancio: l’iniqua distribuzione che ha privato il Sud di risorse destinando quote ben inferiori alla soglia del 34%, la quota di popolazione residente. Scippo raccontato frame dopo frame, come in un film. Titolo: “Operazione verità”. La banca del buco che ha scavato sottotraccia per anni – abbiamo scritto – nelle pieghe del bilancio italiano. Risultato: al Nord 735, 4 miliardi, il 71,7% della spesa pubblica totale totale, al Sud solo 290,9 miliardi. Uno scarto rispetto alla quota dovuta del 6%, pari, appunto, a 61,5 miliardi. Che vuole dire meno mense, meno servizi pubblici, asili zero o quasi, etc., etc.

IL MANIFESTO PER L’ITALIA E LA LETTERA DI CONTE. La lotta per ridurre le disuguaglianze vale al Nord come al Sud. Questo concetto, valido anche in Europa, lo abbiamo chiaro, ed è con questo spirito che nel settembre 2019 è stato sottoscritto il Manifesto per l’Italia (LEGGI), uno stimolo per politici, sindacalisti, ricercatori, studenti per far ripartire il Paese. Senza tuttavia mai perdere di vista la bussola: il Mezzogiorno, area geografica dal perimetro ben delimitato, il luogo in cui si è perpetrato un “delitto all’italiana” gettando le basi culturali ed economiche della mancata crescita nazionale. A rimetterci è stato infatti l’intero Paese, se è vero come è vero che già prima del Covid-19 Nord e Sud d’Italia erano gli unici territori europei a non aver raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Per l’esattezza: il nostro Meridione 10 punti sotto. Il 12 settembre la lettera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Caro direttore, accolgo con favore la dichiarazione di intenti del Manifesto, serve una fase nuova, ho condiviso con von der Leyen i contenuti dell’agenda riformatrice…». La favola di un Sud pigro e sprecone – generata da una classe dirigente inadeguata e corrotta – ha fatto da carburante per alimentare la macchina dello scippo perfetto. Ed ecco in che modo gli aiuti di Stato sono finiti in larga parte alla locomotiva d’Italia, la Lombardia che ora riesce a malapena a trainare se stessa. Dalla metà del 2017 la regione del presidente Fontana – un governatore che a volte sfiora forme di masochismo e si fa male da solo – ha incassato ben 3,5 miliardi di euro contro i 600 milioni della Campania. “Aiutini” di Stato andati anche a Veneto (1,5); Piemonte (1,3); Emilia-Romagna (1,3); Lazio (1,1); Toscana (1,0); Trentino-Alto Adige (1,0).

LE MANI DEL NORD SUI FONDI EUROPEI. Sono i numeri di un’Italia rovesciata. Con il Mezzogiorno che invece di aumentare la spesa degli investimenti pubblici la vedeva ridurre dello 0,5% rispetto all’anno precedente (Fonte Cresme). Il rischio di uno scenario da deriva greca, un Sud dove il reddito pro-capite è la metà o quasi del Nord, un sistema Paese che non tira più, il fantasma della Troika che avanza. Appena due mesi prima che si scoprisse la diffusione del virus a Cologno una nostra inchiesta sui carrozzoni suonava profetica: Il 42 per cento delle risorse sanitarie incassate dalle Regioni del Nord, il 20 per cento dalle regioni del Centro e il 23 per cento da quelle del Sud. Dati della Corte dei conti, diffusi in tempo non sospetti, in cui si diceva tra l’altro che la quota di riparto del fondo sanitario nazionale era cresciuta in Lombardia del 1.07 per cento contro lo 0,75 per cento della Calabria, lo 0,42 per cento della Basilicata e lo 0,45 per cento del Molise. In pieno lockdown c’è stato anche chi, qualche tecnico del Mef, ha pensato di sfruttare la catastrofe del contagio per dare alla Lombardia i finanziamenti dei fondi europei destinati al Sud. La catastrofe della catastrofe. Una “rapina di Stato” in tempo di pace.

RI-FATE PRESTO IL DECRETO ILLIQUIDITÀ. Con il protagonismo dei governatori si è scoperto l’inganno dell’autonomia differenziata. La sanità pubblica svuotata, i presidi territoriali dismessi, i vantaggi concessi al privato. I viaggi della speranza dei cittadini del Mezzogiorno per gonfiare le tasche dei privati. Il modello-Formigoni che stiamo ancora pagando a caro prezzo. In questo clima è partita la campagna “Ri-fate presto”. Un conto alla rovescia contro la burocrazia e contro “l’esproprio” del decreto di lancio. L’assurdo di uno Stato che invece di risarcire il danno arrecato ne approfitta per entrare nel capitale sociale delle aziende con Invitalia e Cdp. L’assenza di una cabina di regia, le responsabilità del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Il fallimento del decreto “illiquidità”, l’incapacità di fornire prestiti agli italiani e alle imprese in difficoltà. Il “tappo” delle banche ammesso ancora ieri da Bankitalia, la rabbia degli italiani e di quanti saranno costretti ad abbassare la saracinesca. Il ruolo della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata Carla Ruocco. Il caso limite degli “appestati”, i tanti italiani finiti per avventura o per disgrazia nella famigerata Centrale rischi della Banca d’Italia, Condannati “a morte” magari solo per una rata scaduta.

L’APPELLO PER GLI STATI GENERALI. Difficile in questi giorni liberarsi dall’impaccio del reale e sognare una ripartenza di slancio. La crisi da Covid ha messo a dura prova le difese immunitarie di un Paese già in sofferenza. La liquidità che arriva con il contagocce, le aziende che chiudono, il terrore di una seconda ondata, le nuove stime negative della Federal Reserve. Da qui l’urgenza di abbattere le burocrazie ministeriali e bancarie e dotarsi di un piano strategico di lungo respiro. È partito da queste considerazioni l’appello lanciato dal Quotidiano del Sud per la convocazione degli Stati generali dell’economia, l’esigenza di gestire in modo ottimale ed efficiente il fiume di denaro che arriverà dall’Unione europea. Un appello raccolto dal premier Conte, osteggiato da falchi, gufi e altri volatili in libera uscita, da gabbia o da voliera. E la battaglia continua.

Gli aiuti al Nord con i soldi del Sud: lo scippo continua anche in piena crisi. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2020. Anche la sanità penalizzata per lo scippo al Sud. C’è quel 0,15% che dovrebbe essere cancellato e invece il tentativo è ancora quello di sottrarre soldi al Sud: dai finanziamenti per l’emergenza Covid che stanno finendo quasi esclusivamente nelle casse delle più grandi aziende del Nord, alla ridistribuzione e reimpiego dei Fondi coesione per pagare la Cig al Nord. C’è un’Italia che dovrebbe ripartire e rapidamente, dovrebbe farlo guardando allo sviluppo del Sud e invece proseguono gli scippi. Servirebbe una manovra che prenda le mosse da un punto fermo: ridare al Sud quello che gli è stato sottratto negli ultimi 20 anni.

FARE GIUSTIZIA. Per risollevare il Paese servirebbe un atto politico che rimetta le cose a posto, rendendo “giustizia” a un Mezzogiorno rimasto senza investimenti. All’Italia intera servirebbe correggere questa stortura, riportare gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi. Occorre riequilibrare la spesa pubblica che toglie ai poveri (il Sud) per dare ai ricchi (il Nord): basti pensare ai 62 miliardi dirottati verso le Regioni del Centro-Nord Italia. E se la cifra di 62 miliardi di euro riesce a inquietarvi, beh, pensate che la situazione è addirittura peggiorata: tra il 2016 e il 2017, infatti, il Mezzogiorno ha perso quasi un altro miliardo di euro l’anno.

IL DECLINO. Insomma, serve una manovra finalmente equa, che ridia ai cittadini del Sud la stessa qualità di servizi di cui gode chi vive al Nord. Perché è facile immaginare cosa voglia dire, ad esempio, 62 miliardi in meno: sanità meno efficiente, meno treni, meno bus, meno asili, scuole più insicure. In breve: meno diritti e opportunità. Al Mezzogiorno servono strade e ferrovie moderne. Ma non sulla carta, non solo sui progetti annunciati. La sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia, e al Sud in particolare, sta nel tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2018, pari a -2% a livello nazionale: -4,6% al Sud e -0,9% nel Centro-Nord. Gli investimenti infrastrutturali nel Sud negli anni ’70 erano quasi la metà di quelli globali, mentre negli anni più recenti sono calati a quasi un sesto del totale nazionale. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro. Nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro. La conseguenza è che nel ranking regionale infrastrutturale della Ue a 28, la regione del Mezzogiorno più “competitiva” è la Campania, a metà graduatoria (134ª su 263), seguita da Abruzzo (161°), Molise (163°), Puglia (171ª), Calabria (194ª), Basilicata (201ª), Sicilia (207ª) e Sardegna (225ª). Basterebbe questa graduatoria a raccontare il gap infrastrutturale che il Sud ha accumulato negli anni non solo rispetto al Nord, ma nei confronti del resto d’Europa.

IL DISIMPEGNO. Al Sud, a parte la realizzazione di alcune tratte autostradali con terze corsie e l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, l’incremento di autostrade è stato molto limitato e si è concentrato tutto o quasi in Sicilia. «Il segnale del disimpegno degli investimenti pubblici in questo ambito – recita l’ultimo rapporto Svimez – sta nel peggioramento della dotazione relativa di autostrade nel Mezzogiorno. Rispetto alla media europea a 15 (posta uguale a 100), la dotazione di autostrade del Sud è passata dal 1990 al 2015 da 105,2 a 80,7». Per quel che riguarda la dotazione di linee ferroviarie, molto carente al Sud è lo sviluppo dell’Alta Velocità (AV), con soli 181 chilometri di linee, pari all’11,4% dei 1.583 chilometri della rete nazionale; nel Centro-Nord la rete è di 1.402 chilometri, pari all’88,6% del totale. Nel confronto con la Ue (rete AV ponderata sulla popolazione dei soli Stati membri dotati), l’indice di dotazione dell’Italia nel 2015 è pari a 116, con il Centro-Nord a 156,5 e il Mezzogiorno appena a 38,6. D’altronde basta guardare la cartina delle direttrici dell’Alta velocità – esistenti o ancora da realizzare – per accorgersi che l’Italia delle ferrovie – non solo quella, per carità- è spaccata in due: su tutta la linea adriatica, da Bari sino a Bologna, c’è il vuoto, così come dalla Puglia alla Sicilia. Mentre al Nord è fitta la “ragnatela” di linee che si intrecciano e uniscono ogni angolo dell’Italia settentrionale.

OCCASIONI PERSE. Se al Sud c’è solo il 16% dell’Alta velocità è merito di decenni di mancati investimenti. Si spiega così il fatto che le linee sono elettrificate per l’80% al Nord e per il 50% al Sud; oppure che al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. I porti del Mezzogiorno, pur vantando numero e lunghezza degli accosti nettamente superiori a quelli del Centro-Nord, presentano una dotazione estremamente modesta, con un indice sintetico pari a 58,9, dovuto alla forte carenza di capacità di movimentazione e stoccaggio delle merci. Relativamente migliore risulta l’indice sintetico degli aeroporti (69,4), ma anche in questo comparto si scontano carenze qualitative dell’offerta (distanza dai centri urbani, aree di parcheggio aeromobili e superficie delle piste).

Basta scempi, svegliati Sud. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Mezzogiorno e regala al Nord è l’origine del declino italiano. Ora lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. E tutti i Governatori del Sud tacciono. Come sempre. Roberto Napoletano il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Allora, prendiamone nel gruppo uno a caso. Ci rivolgiamo al Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e mettiamo tutto per iscritto a futura memoria. Non sappiamo con quale lanciafiamme sta facendo strage di virus contagiosi e non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerle che ha dimostrato polso e testa nel contrastare questo brutto mostro. Ora, però, ci dobbiamo occupare dei morti di debiti e di fame non più di quelli da Coronavirus. Le facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave, stare zitti oggi di fronte al nuovo scempio significa accettare in silenzio la sparizione del Mezzogiorno e di quel che resta della sua economia. La fervida mente dei burocrati del Tesoro ha approfittato della debolezza politica del ministro “politico” Gualtieri e ha fabbricato il più poderoso “decreto di illiquidità” concepito da un Paese occidentale alle prese con la Grande Depressione Mondiale. Se per avere 25 mila euro ti devi fermare davanti a 12 stazioni della morte e non vedi il becco di un quattrino, per i finanziamenti fino a 800 mila euro e poi fino a 5 milioni non ci sono neppure le istruzioni per chiederli. Il tasso di fragilità delle imprese meridionali è quattro volte superiore a quello delle imprese del Nord. Non hanno avuto nulla e quando arriverà qualcosina avranno già chiuso per sempre. A fronte di tutto ciò si arriva a concepire lo scempio di una dote straordinaria di 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti – a sostegno dell’economia l’anno scorso ha mobilitato 36,4 miliardi di risorse – per prendere partecipazioni temporanee nel capitale di imprese private ovviamente in crisi ovviamente al Nord. Basta prendersi in giro. La Cassa Depositi e Prestiti tedesca (Kfw) è il braccio armato fuori bilancio della Cancelleria Merkel e ha inondato di liquidità le piccole e medie imprese del suo Paese con passaggi bancari velocissimi. Finanzia grandi infrastrutture e grandi eccellenze tecnologiche. Noi alla nostra Cdp non chiediamo di inondare di liquidità le imprese italiane, a partire da quelle meridionali più vicine al default, ma la vogliamo azionista di Stato delle imprese decotte del Nord per la bellezza di 50 miliardi. Proprio quelli che servirebbero per l’unificazione infrastrutturale del Paese tra Nord e Sud a partire dai treni veloci. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando Governatore De Luca – lo dico provocatoriamente a lei ma vale per tutti i suoi colleghi e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar. Gli acquisti della Banca Centrale Europea consentono a lei e all’allegra brigata di distrarsi ma non così a lungo. Qui gli acquisti sono poderosi non illimitati come in America, in Giappone, in Inghilterra e, per di più, la Lagarde a differenza di Draghi non sa parlare ai mercati. Consiglierei a tutti da Roma in giù di svegliarsi e di farsi sentire. Se questo tempo in più che il governo si è preso servirà per fare meglio, allora questo tempo è benedetto. Se servirà, complice l’imperdonabile silenzio del Mezzogiorno, a partorire il solito topolino, che si preoccupa di tenere in vita (male) solo un pezzo di Paese, allora sarà la fine del mondo. Errare è umano. Perseverare nell’errore è diabolico. Produce effetti non più controllabili.

BASTA REGALI CON I SOLDI DEL SUD. Hanno costruito al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud, ora approfittano della pandemia per regalare 50 miliardi alla Cdp e salvare le aziende decotte del Nord. Che cosa aspettano i Governatori del Sud a ribellarsi? Ultima chance per Gualtieri e Rivera: riequilibrate liquidità e spesa pubblica infrastrutturale. Roberto Napoletano su  Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2020. Non abbiamo più voglia di scherzare. Hanno regalato al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud per venti anni. Ora, approfittando della Pandemia globale, vogliono regalare 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti per dare alle aziende private decotte del Nord un socio di capitale che si chiama Stato e copre per sempre le loro nefandezze. Ancora una volta vogliono farlo con i soldi del Sud. Basta! Ministro Gualtieri, direttore del Tesoro Rivera, ve lo diciamo con chiarezza, la stagione degli scippi in tempi di pace è maleodorante, ma in tempi di guerra fa ribrezzo. Questo giornale non vi darà tregua da qui al decreto, vi controllerà a vista. Scruteremo riga per riga il testo. Andremo a vedere i bilanci a uno a uno delle aziende che finiranno nella lista dei regali pubblici. A chi appartengono? Dove si trovano? Chi le sponsorizza e perché? Scoperchieremo il pentolone senza riguardi per nessuno. Non vi daremo tregua, prima e dopo, perché la misura è colma. Non avete sbagliato un colpo per il peggiore sottogoverno nelle nomine nei Cda delle società pubbliche inventando mestieri e facendo strame di ogni regola di competenza. Non siete riusciti a togliere alle banche un solo vincolo, come la segnalazione alla centrale rischi, che taglia dall’accesso al credito la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese meridionali. Non riuscite a erogare contributi a fondo perduto perché avete escogitato (vero, dottor Rivera?) ogni genere di bizantinismo burocratico per cui i soldi a molte piccole imprese arriveranno quando avranno chiuso per sempre. Mentre voi occultate con mani sapienti ogni tipo di liquidità possibile tra Sace, Mediocredito, INPS, banche senza tutela penale, in Lombardia stanno “rimpatriando” dalla Svizzera i soldi della ‘Ndrangheta nel bresciano e si moltiplicano i faccendieri che danno le fideiussioni alle aziende che non hanno le garanzie che voi volete per avere prestiti e mutui. E così, di interposizione fittizia in interposizione fittizia, gli uomini dell’area grigia mettono un piede sempre più largo in un’economia reale che ha bisogno per colpe non sue di quella liquidità che una miope classe burocratica e una servile classe di governo impediscono loro di avere. Vergognatevi! Al Paese oggi, non domani, serve liquidità. Non azionisti pubblici amici degli amici che continuano a rapinare il soccorso pubblico dovuto al Mezzogiorno per foraggiare amministrazioni regionali assistenzialiste del Nord e un capitalismo privato del Nord che da tempo non sa più vivere di mercato. Al massimo, si affidino a Cdp strumenti di partecipazione tipo bond convertibili che finanziano l’impresa ma non entrano nel capitale. Non avremmo francamente mai creduto che i Gualtieri e i Rivera ci potessero regalare la società finanziaria comunista per cui, grazie al risparmio postale fortissimo al Sud, si diventa soci di capitale delle imprese decotte del Nord. Se non sbloccate entro una settimana la liquidità necessaria, che Paesi come Germania, Francia, Svizzera, hanno già trasferito da un mese a chi ne ha bisogno, ci sarà la rottura del patto sociale che garantisce la pace in tempi di guerra, ma se addirittura non date la liquidità oggi e architettate i vecchi trucchetti per togliere domani al povero e dare al ricco succede il finimondo. Avete un’ultima, residua, possibilità per riscattarvi. Siamo davanti a un evento straordinario? Sì, e ci sia allora un riequilibrio strutturale nella ripartizione di liquidità a fondo perduto e di spesa pubblica infrastrutturale di questo Paese tra Nord e Sud. Governatore De Luca, lo stesso lanciafiamme che ha usato nei confronti dei suoi concittadini per chiuderli in casa, vogliamo usarlo per garantire alla comunità e alla economia della sua regione i soldi che sono dovuti per la ripartenza? Vuole continuare a stare zitto e a subire, lei e gli altri Governatori del Sud, lo scippo da 60 miliardi l’anno di risorse pubbliche dovuti alle regioni meridionali per le loro sanità, le loro scuole e i loro trasporti, e regalati invece a un Nord che continua a tenere in scacco l’intero Paese? Perché non fa in pubblico qualcuno dei suoi numeri televisivi che lo hanno reso così popolare per difendere diritti che incidono sulla carne viva delle donne e degli uomini meridionali? Noi attenderemo tutti al varco perché questa volta sono in gioco la vita e la morte delle persone, la vita e la morte dell’economia. Questo giornale è nato per fare l’operazione verità sui conti pubblici e ci è pure riuscito, figuriamoci se ci tiriamo indietro in un momento come questo. Il Sud, presidente De Luca, deve riaprire prima del Nord, deve dimostrare di esserne capace, e deve avere le risorse che gli spettano. Commissario Arcuri, le fabbriche delle mascherine sono in Lombardia, vero, i soldi vanno in Lombardia, vero? Esiste un piano epidemiologico della Lombardia? No. Esiste un piano di tamponi? No. Esiste un piano di presidi sul territorio per affrontare nuove emergenze in Lombardia? No. Legga il grido di allarme che Carmela Rozza lancia dalle colonne di questo giornale. Siamo consapevoli che senza una sanità lombarda sotto controllo rischia il sistema produttivo lombardo e si tengono sotto scacco la società e l’economia di un Mezzogiorno che ha avuto comportamenti esemplari e continua a pagare un conto pesantissimo che non è suo? Che cosa si aspetta a commissariare la sua sanità regionale? Nessun Paese può vivere con una sola locomotiva peraltro “infettata” di provvigioni e prebende pubbliche senza limiti che hanno diffuso il male dell’assistenzialismo al Nord, sottratto linfa vitale al Sud, indebolito l’intero Paese. Presidente Conte, lei ha tenuto la rotta in momenti durissimi in casa e in Europa e è un uomo del Sud, non consenta a tecnocrati che pure avevamo apprezzato nelle trattative internazionali di mettere sotto scacco la politica per continuare a fare i soliti giochetti tra Nord e Sud. Non sappiamo come dirlo, ma non è aria.

Produzione delle mascherine, un affare appaltato al Nord ai danni del Sud. Claudio Marincola il 29 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le mascherine? C’è il rischio che diventeranno come la polenta o il Lambrusco. Specialità del Nord. Di origine controllata, made in Lombardia. Dei 50 milioni 195mila euro previsti dal decreto Cura Italia per riconvertire le aziende e spingerle a produrre dispositivi di protezione, ben 9 milioni 856.515 sono andati infatti a imprese lombarde. Prima del Codiv-19 producevano altro. Alla Basilicata, per dire, ne sono andati solo 960.700 mila, alla Sardegna 567mila, alla Calabria 1 milione 431mila, al Lazio 1.224.455mila. Insomma, la parte del leone, come al solito, l’ha fatta la nostra locomotiva. Finita in panne, come sappiamo, ma pronta a ripartire di slancio.

LA LEZIONE NON È SERVITA. Il grafico è disponibile sul sito di Invitalia.it: il 20% del budget complessivo è andato alla Lombardia. Alimenta il sospetto che l’esperienza drammatica che stiamo vivendo non abbia cambiato niente. La lezione del coronavirus, insomma, non è servita. Tutto, anche la produzione di dispositivi di protezione, continuerà a concentrarsi entro lo stesso perimetro industriale, sovrapponibile, guarda caso, alla diffusione del contagio. E agli altri? Le briciole. Le domande presentate e accolte dall’Ufficio del super commissario all’emergenza Domenico Arcuri sono state in totale 107. Con l’unica eccezione della Campania, che se n’è vista accogliere 13, il“ ”visto si finanzi” è andato a Lombardia, 17; Toscana, 14; Emilia-Romagna, 11; Marche e Puglia, 8; Abruzzo e Umbria, 5; Sicilia, 3; Basilicata, Sardegna e Piemonte, 2, Liguria, 1. Settanta domande hanno riguardato la riconversione, 37 l’ampliamento dei locali. Di mascherine ne servono diverse decine di milioni al giorno. Un business non da poco. E la truffa è sempre in agguato. Si va da aziende improbabili, pronte a sfruttare il momento, alle mascherine con il marchio Ce, che, però, non vuol dire certificate in Europa ma China export. Produrle al Nord vorrà dire intasare un’area già congestionata. Senza dire che al Mezzogiorno un po’ di posti di lavoro in più, diciamolo, non avrebbero fatto male. Sono scesi in campo i colossi: Armani e il gruppo Prada-Montone, inizialmente a scopo benefico. A ruota gli altri: Fippi Spa di Rho; Malex di Correggio; Nuova Sapi di Casalgrande; Md Massaflex di Massa Carra, che fino a ieri produceva materassi. E si è mosso anche il mondo della Legacoop, con 12 cooperative dedicate, In Veneto, tra le prime a riconvertirsi alla produzione di mascherine la veronese Quid.

MASCHERINE DI STATO. A CHI? Ancora da definire resta la questione delle macchine che serviranno per la produzione. Lo Stato ne ha acquistate 51. Le prime 17 verranno consegnate in comodato d’uso a 4 aziende di cui ancora non è noto il nome. Quando il Paese diventerà autosufficiente – sempre troppo tardi, purtroppo – il Mezzogiorno continuerà probabilmente a dipendere in gran parte dal Nord. E non viceversa. Occasione persa o solito strapotere? Ci sarebbe anche da dire che le aziende riconvertite sull’onda dell’emergenza lasceranno ai concorrenti consistenti quote di mercato. Più dispositivi facciali per difendersi dal virus malefico vuol dire meno capi di abbigliamento o meno altro che si produceva prima. Non era meglio, una volta tanto, puntare sul Sud, isole comprese?

LA PROPOSTA DEI DOCENTI SARDI. Da questa considerazione è partita forse la proposta del giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino e coordinatore di Lettera 150, un gruppo di docenti che si sta battendo per rallentare la corsa alla riapertura e uscire in sicurezza dal lockdown. La drammatica carenza di tamponi e reagenti e la chiusura dei mercati internazionali a seguito dei divieti di esportazione rendono sempre più urgente la necessità di pensare a una “produzione statale” di presidi strategici, come appunto le mascherine. E cosa propongono il professore e i suoi colleghi? «Di localizzare la produzione in aree naturalmente protette come Sardegna e Sicilia», anche perché così si potrebbero «rivitalizzare aree economicamente depresse oltre a garantire l’autosufficienza del Paese». Già. È cosi difficile?

Buoni spesa, firmata l’ordinanza per i 400 milioni ai Comuni: come funziona e chi ne avrà diritto. Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. Il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ha firmato l’ordinanza che prevede lo stanziamento di 400 milioni ai comuni per provvedere alla distribuzione di aiuti alimentari a chi ne avesse bisogno. Una quota pari all’80% del totale per complessivi 320 milioni – si legge in una nota del Dipartimento – è ripartita in proporzione alla popolazione residente di ciascun comune. Il restante 20% per complessivi 80 milioni è ripartita in base alla distanza tra il valore del reddito pro capite di ciascun comune e il valore medio nazionale ponderata per la rispettiva popolazione. In ogni caso il contributo minimo spettante a ciascun comune non potrà risultare inferiore a 600 euro. Nel testo non viene specificato l’importo dei buoni spesa che verranno distribuiti ma, secondo quanto stabilito dall’ordinanza, sarà l’ufficio dei servizi sociali di ogni Comune a individuare la platea dei beneficiari. Inoltre la priorità sarà data a coloro che non sono già destinatari di altre misure di sostegno economico, come il reddito di cittadinanza. Durante la consueta conferenza stampa tenuta ieri sui numeri del contagio da Coronavirus, Borrelli aveva anticipato che “la gestione dei buoni spesa sarà a cura dei servizi sociali e i Comuni potranno avvalersi degli enti del terzo settore e di unità di protezione civile per l’acquisto delle derrate. L’ordinanza sarà immediatamente operativa”. 

Salvini ennesima gaffe, altro che 6€: per i più bisognosi qualche centinaio di euro per la spesa. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Forse sperava di essere anche lui tra i beneficiari del nuovo sussidio annunciato dal governo che destina 400 milioni ai Comuni per fornire buoni spesa o beni alimentari di prima necessità a coloro ne hanno bisogno. Solo così si spiega l’errore marchiano del leader della Lega Matteo Salvini che ieri ha commentato così il nuovo decreto. “I 400 milioni di euro annunciati dal governo per aiutare le famiglie tramite i Comuni significano circa 7 euro a testa. Caspita, non sarà un po’ troppo? Forse pensavano all’uovo di Pasqua, ma agli Italiani serve ben altro!”. Una stima, poi corretta a 6 euro, ricavata dividendo lo stanziamento per tutta la popolazione italiana. Ma il calcolo, ovviamente, è errato. Il provvedimento, come annunciato dal presidente del Consiglio Conte e dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, risponde alla domanda sociale di quelle famiglie che, a causa dei provvedimenti conseguenti all’emergenza sanitaria, si trovano ora in gravi difficoltà economiche. Una domanda concentrata soprattutto al Sud e, infatti, la distribuzione delle risorse non sarà uguale in tutto il territorio. Non sono ancora stati stabiliti con precisione i criteri che porteranno all’attribuzione del sussidio: lo farà un’ordinanza della Protezione civile che incrocerà i dati di reddito pro capite, popolazione e indicatori Istat sulla povertà e sul disagio sociale. Pur non potendo stimare la platea dei beneficiare, una cosa è certa: i buoni non andranno a tutti gli italiani, come sostenuto da Salvini. L’ex vicepremier, infatti, ha ricavato la stima dei circa 7 euro, oggi ritrattati a 6, dividendo sic et simplicter, i 400 milioni per l’intera popolazione italiana, circa 60 milioni. Proviamo, invece a fare una stima basata sul numero dei poveri nel nostro Paese. Secondo gli ultimi dati Istat, il numero delle persone che versano in povertà assoluta, ovvero che dispongono di un reddito inferiore al costo dei servizi e dei beni essenziali, è di 5 milioni. Se la platea dei beneficiari dovesse coincidere con questo dato, a ciascun cittadino sarebbe destinato un importo di circa 80 euro. In una famiglia di 4 persone il buono alimentare arriverebbe a circa 320 euro. Ma facciamo una seconda ipotesi, tenendo in considerazione il numero dei poveri relativi, ovvero di quelle persone hanno un reddito pari o inferiore alla soglia di povertà, che si stima al 60% del reddito medio del Paese. Questa platea è quasi doppia rispetto alla prima, e comprende, secondo gli ultimi dati, almeno 9 milioni di cittadini. Il sussidio, quindi, raggiungerebbe i 44 euro pro capite, arrivando così a raggiungere i 170 euro circa per un nucleo di quattro persone.

Coronavirus, arrivano i buoni spesa: cosa sono e come richiederli. La Protezione Civile ha stanziato 400 milioni destinati ai Comuni da utilizzare per distribuire generi alimentari a chi ne ha bisogno. Fabio Franchini, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Quattrocento milioni e 180mila euro. Tanto ha stanziato la Protezione Civile, con un'ordinanza speciale firmata dal capo Angelo Borrelli, in favore dei Comuni italiani, invitandoli a servirsi del finanziamento per destinare e distribuire generi alimentari a chi ne ha bisogno. Un maxi-bonus che va così a creare i cosiddetti buoni spesa e che per l'80% del suo totale, ovvero per 320 milioni, è ripartito tra gli enti in base alla popolazione, mentre il restante 20%, cioè 80 milioni di euro, è redistribuito in base alla differenza tra reddito pro capite e reddito medio nazionale. Nel testo del documento ufficiale del provvedimento si legge che il contributo per ciascun comune dello Stivale non può essere inferiore a 600 euro: è questo il caso che interessa la scarsa cinquantina di comuni italiani di ridotte-ridottissime dimensioni. Come Morterone, in provincia di Lecco, o Zerba, in quella di Piacenza: alle rispettive amministrazioni sono destinati 600 euro. Si tratta di una sorta di "voucher"– il cui importo non è stato specificato - utilizzabile per l'acquisto di beni alimentari o di prima necessità, ma – stando a quanto si legge – "il riparto di fondi per nucleo familiare è assegnato una tantum pari a 300 euro". I 400 milioni messi a disposizione dalla Protezione Civile si vanno a sommare ai 4,3 miliardi di euro previsti dal Fondo di Solidarietà. Chi ne può usufruire, ovvero qual è la platea dei beneficiari? La priorità spetta a chi non è già destinatario di un altro sostegno pubblico, come il redito di cittadinanza o il sussidio di disoccupazione. A tal proposito, sarà decisivo il lavoro dell'ufficio dei servizi sociali di ogni comune del Paese. La regione più finanziata risulta essere la Lombardia, con 55,9 milioni di euro, seguita dalla Campania con 50,7 e dalla Sicilia con 43,5. In fondo alla “classifica”, Basilicata (4,5), Molise (2,4) e Valle d'Aosta, 680mila euro. Venendo ai comuni? 15 milioni di euro alla capitale Roma, seguita da Napoli (7,6), Milano (7,2), Palermo (5,1), Torino (4,6), Genova (3). A Vo' Euganeo (Padova) e Codogno (Lodi), i due primi focolai italiani dell'epidemia anzi pandemia di coronavirus, vanno rispettivamente 42mila e 169 mila euro.

IL BONUS SPESA REGIONE PER REGIONE

Abruzzo 9,4 milioni

Basilicata 4,5

Calabria 17,2

Campania 50,7

Emilia-Romagna 24,2

Friuli Venezia Giulia 6,6

Lazio 37

Liguria 8,7

Lombardia 55,9

Marche 9,4

Molise 2,4

Piemonte 24

Puglia 33,1

Sardegna 12,6

Sicilia 43,5

Toscana 21,4

Trentino Alto Adige 5,7 (2,8 provincia di Bolzano, 2,9 provincia di Trento)

Umbria 5,5

Valle d'Aosta 0,68

Veneto 27,7

Il 40 per cento dei buoni pasto finirà in tasca agli immigrati. Antonella Aldrighetti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. La solidarietà del governo giallorosso ancora una volta strizza l'occhio ai cittadini extracomunitari iscritti nelle anagrafi comunali. Infatti stando agli ultimi dati diffusi dai Caf (Centri di assistenza fiscale) la popolazione più in linea con i requisiti per incassare il voucher per la spesa alimentare è proprio quella straniera, che secondo stime prudenti è tra il 30 e il 40% di tutti gli aventi diritto, scremando chi percepisce reddito o pensione di cittadinanza senza essere italiano. Per semplificare le procedure per richiedere il voucher le grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma, Bari, Napoli, e Reggio Calabria), si sono affidate a uno strumento tanto semplice quanto facile da usare in modo fraudolento: l'autocertificazione. Ciascun iscritto all'anagrafe, compresi i richiedenti asilo, potrà compilare a partire da questa mattina un modulo e inviarlo via posta elettronica o fax, specificare le proprie credenziali al numero di telefono dedicato e precisare se vorrà ricevere il voucher su un conto corrente bancario o postale riportando l'Iban oppure la stessa cifra in buoni spesa indirizzati al proprio domicilio. Ogni Comune che accetterà l'autocertificazione ha promesso controlli a campione. Ma per coloro che sceglieranno i buoni spesa sarà facile aggirare eventuali controlli: chi vorrà barare sui requisiti sociali e incassare il bonus non rischierà prelievi forzosi sul conto bancario. Quanto ai controlli a campione, saranno possibili solo se l'Inps consentirà verifiche veloci e capillari su tutti i percettori di voucher. Lunedì il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha voluto anticipare di un giorno la procedura per richiedere i buoni spesa. E il sito del Comune è stato preso d'assalto: 11 mila le richieste di aiuto, pari a 4 al minuto. E per uscire dall'impasse è stato deciso di bloccare le iscrizioni fino a lunedì 6 aprile. In questi giorni che restano si avvierà la verifica. «Evitiamo che qualche sciacallo provi a intrufolarsi» la chiosa di Orlando. E tra le strade possibili per l'erogazione dei soldi: buoni pasto, carta prepagata, convenzione con catene di supermercati. Già perché in ultima istanza se i primi voucher saranno erogati a metà aprile ce ne potrebbe essere un'altra ondata alla fine del prossimo mese e di uguale entità.

Emergenza alimentare: scopri quanta parte dei 400 milioni per buoni spesa andrà nel tuo Comune. Arrivano i fondi per acquistare e distribuire subito beni di prima necessità nei comuni, dando priorità agli indigenti che non hanno altro sostegno pubblico. Nicoletta Cottone su Il Sole 24 ore il 30 marzo 2020. Arrivano ai comuni i fondi per gli indigenti messi in ginocchio dall'emergenza coronavirus. Quattrocento milioni per comprare immediatamente beni di prima necessità e distribuirli tramite le associazioni di volontariato agli indigenti che non hanno altro sostegno pubblico. L'ordinanza n. 658 della Protezione civile segnala che il ministero dell'Interno entro il 31 marzo 2020 disporrà il pagamento di 400 milioni di euro, ripartiti per 386.945.839,14 in favore delle regioni a statuto ordinario, delle regioni Sicilia e Sardegna e per 13.054.160,86 euro in favore di Friuli Venezia Giulia, Valle d'Aosta e delle province autonome di Trento e Bolzano. Saranno contabilizzate nei bilanci degli enti a titolo di misure urgenti di solidarietà alimentare. Qui è possibile scoprire, Comune per Comune, come vengono ripartiti gli aiuti. La misura era stata annunciata dal premier Giuseppe Conte e dal ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Conte aveva anche chiesto alle catene della grande distribuzione di applicare uno sconto aggiuntivo del 5 o del 10 per cento.

I criteri di ripartizione fra i Comuni. Le risorse sono state ripartite fra i comuni seguendo tre criteri concordati con l'Anci:

1) l'80% del totale - pari a 320 milioni - ripartito in proporzione alla popolazione residente di ogni comune;

2) il 20% - pari a 80 milioni - ripartito in base alla distanza fra il valore del reddito pro capite di ciascun comune e il valore medio nazionale, ponderata per la rispettiva popolazione;

3) il contributo assegnato a ciascun comune non può essere inferiore a 600 euro. Viene raddoppiato il budget assegnato ai comuni della zona rossa individuata dal Dpcm del 1° marzo: in Lombardia sono Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini, mentre in Veneto c'è Vo'. La quota prevista per i comuni con popolazione oltre i 100mila abitanti viene decurtata in proporzione, per assicurare il rispetto dei criteri individuati per ke zone rosse e i piccoli comuni.

Le donazioni. I comuni possono anche aprire dei conti correnti per donazioni da destinare alle misure urgenti di solidarietà alimentare. L'ordinanza ricorda che in base all'articolo 66 del decreto legge 18/2020 per le erogazioni liberali in denaro o in natura spetta una detrazione d'imposta del 30%, per un importo non superiore a 30mila euro. Gli acquisti si fanno presso gli esercizi commerciali contenuti in un elenco stilato da ogni comune e pubblicato sul sito istituzionale.

Dai buoni spesa ai prodotti di prima necessità. Le risorse assegnate dall'ordinanza e le eventuali donazioni potranno essere destinate dai comuni ad acquisire buoni spesa utilizzabili per generi alimentari di prima necessità. I comuni potranno anche acquistare direttamente generi alimentari e beni di prima necessità. E potranno avvalersi per l'acquisto e la distribuzione di beni di enti del terzo settore.Inoltre nell'individuazione dei fabbisogni alimentari e nella distribuzione dei beni i comuni possono anche coordinarsi con gli enti che si occupano della distribuzione alimentare del programma operativo del Fead, il Fondo di aiuti europei agli indigenti. L'ordinanza chiarisce che per le attività di distribuzione alimentare non ci saranno restrizioni agli spostamenti del personale e dei volontari del terzo settore. L'ufficio servizi sociali di ogni comune avrà il compito di individuare la platea dei beneficiari e il contributo tra i nuclei più esposti agli effetti economici derivanti dall'emergenza Covid-19 e tra i cittadini che versano nel maggior stato di bisogno. Obiettivo soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali, dando priorità a chi non ha altro sostegno pubblico.

Coronavirus, come vengono ripartiti i 400 milioni ai Comuni. I sindaci: "Pochi soldi". Sky tg24 il 30 marzo 2020. Dai 15 milioni destinati a Roma ai 600 euro per una quarantina di piccolissimi Comuni. A Campania, Sicilia e Lazio la maggior parte dei fondi per buoni spesa e acquisti di prima necessità. L'Anci: "Sufficienti solo per prima metà aprile, stanziare un miliardo". Dai 15 milioni destinati a Roma ai 600 euro da versare ai micro-Comuni. Ecco come verranno ripartiti i 400 milioni di euro, secondo l’ordinanza firmata domenica sera dal capo della protezione civile Angelo Borrelli, con i quali i sindaci potranno fronteggiare l'emergenza Coronavirus distribuendo buoni spesa o generi alimentari e di prima necessità a chi ne abbia bisogno.  Ma i comuni chiedono di più. Sono favorevoli al pacchetto di misure predisposto dal governo per fronteggiare i bisogni dei meno abbienti ma molti sindaci sono dubbiosi sull'esiguità delle risorse messe in campo.

I criteri di ripartizione ai Comuni. L'80% dei fondi - 320 milioni - è distribuito in proporzione alla popolazione residente in ogni singolo Comune. Ciò significa che le città con più abitanti avranno più risorse. Il restante 20% (80 milioni) verranno distribuiti in base alla distanza tra il valore del reddito pro-capite di ciascuno degli oltre 8mila Comuni italiani, calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi del 2017, e il valore medio nazionale "ponderata per la rispettiva popolazione". Ciò vuol dire che avranno ulteriori risorse i Comuni che hanno più persone in condizioni di difficoltà economica. In ogni caso, dice ancora l'ordinanza, il contributo minimo spettante ad ogni comune "non può risultare inferiore a 600 euro". Una quota, quest'ultima, che, se necessario, verrà decurtata da quella spettante alle amministrazioni con popolazione superiore ai 100mila abitanti.

Come saranno distribuiti gli aiuti ai cittadini. I 400 milioni potranno essere utilizzati dai Comuni in due modi: o attraverso dei buoni spesa per l'acquisto di generi alimentari presso una serie di esercizi commerciali contenuti in un elenco pubblicato da ogni amministrazione, oppure per comprare direttamente generi alimentari i prodotti di prima necessità. Sul valore dei buoni spesa è ancora in corso tra i tecnici dell'Anci la definizione dei criteri che dovranno poi definire sia l'importo sia la quantità assegnabile ad ogni nucleo familiare. A distribuire i pacchi spesa, come ha detto Borrelli, saranno invece i volontari appartenenti al terzo settore.

Gli aiuti alle città. In base ai criteri stabiliti, oltre ai 15 milioni a Roma, andranno 7,6 milioni a Napoli, 7,2 milioni a Milano, 5,1 milioni a Palermo, 4,6 milioni a Torino, 3 milioni a Genova. Sono previsti dei piccoli stanziamenti di 600 euro a testa per una quarantina di piccolissimi Comuni. Bari potrà distribuire 1,9 milioni, Firenze 2 milioni, Reggio Calabria 1,3 milioni, Venezia 1,3 milioni, Catanzaro 622mila euro, Caserta 445mila euro, Foggia 1,1 milioni, Lecce 566mila euro, Piacenza 548mila euro, Nuoro 230mila euro, Cagliari 814mila euro, Pesaro 503mila euro, Potenza 398mila, Matera 394mila, Isernia 148mila, Campobasso 303mila. A Bergamo, città duramente colpita dall'epidemia, andranno 642mila euro.

Dalle zone rosse alle città turistiche. Tra i capoluoghi, Il Comune di Vo', primo focolaio dell'epidemia, potrà aiutare chi è in difficoltà con 42mila euro, Codogno con 169mila euro, Alzano Lombardo, città che aveva chiesto di essere inclusa nella zona rossa, avrà 72mila euro. A Fondi e Nerola, le cittadine più colpite nel Lazio, 357mila e 13mila euro ciascuna. A Dinami, in provincia di Vibo Valentia, che in base alla dichiarazione dei redditi del 2017 è il paese più povero d'Italia, vanno 20.400 euro. Al Comune più piccolo d'Italia con i suoi 33 abitanti, Morterone, in provincia di Lecco, 600 euro. A Zerba (Piacenza), paesino che in base ai dati Istat è popolato da persone anziane, vanno 600 euro. A Castel Volturno, in Campania, 276mila euro. Scorrendo tra le mete turistiche più ricercate, emerge che Cortina potrà distribuire buoni spesa e generi alimentari per 30.600 euro, Capri per 37.800 euro, Taormina per 73mila euro; Arzachena, sotto il cui comune ricade Porto Cervo, per 100mila euro; Portofino per 2000 euro.

Gli aiuti su base regionale. Su base regionale è la Lombardia a ricevere la quota maggiore di risorse, 55 milioni; alla Campania ne vanno 50; alla Sicilia 43,4; al Lazio 36; alla Puglia 33; al Veneto 27,4; all'Emilia Romagna 24,2; al Piemonte 24; alla Toscana 21; alla Calabria 17; alla Sardegna 12; alle Marche 9,3; alla Liguria 8,7. Per il bilanciamento tra reddito pro capite e numero di abitanti, la Campania e la Sicilia ricevono risorse superiori al Lazio, pur avendo un numero inferiore di abitanti (5,9 milioni il Lazio, 5,8 milioni la Campania, 5 milioni la Sicilia).

La protesta dei sindaci. Nelle file dell'Anci, l'associazione nazionale dei comuni italiani, c'è apprezzamento per la centralità assegnata ai sindaci, ma anche tanta preoccupazione per la gestione concreta dell'erogazione delle risorse sui territori. Sul disagio economico poi insiste anche l'allarme della Commissione Antimafia, che parla di un combinato disposto "su cui le mafie sono pronte ad approfittare". "Quattrocento milioni possano bastare soltanto fino alla prima metà di aprile, bisogna pensare invece ai mesi che verranno, e la cifra di 1 miliardo può essere una prima risposta efficace per gli 8mila comuni italiani", spiega il vicepresidente dell'Anci Roberto Pella. Questo perché "le famiglie sono molto provate e il numero delle richieste è destinato ad essere molto alto".

Fondi ai Comuni per aiuti alimentari, ecco come vengono divisi i 400 milioni. Quindici a Roma, oltre 7 a Napoli e Milano, 5 a Palermo, fino ai micro-stanziamenti da 600 euro a testa per i piccolissimi centri. Redazione ANSAROMA il  30 marzo 2020. Quindici milioni a Roma, 7,6 a Napoli, 7,2 a Milano, 5,1 milioni a Palermo, 4,6 a Torino, 3 milioni a Genova. Fino ai micro-stanziamenti da 600 euro a testa per una quarantina di piccolissimi Comuni. Così vengono ripartiti i 400 milioni di euro con i quali i sindaci potranno fronteggiare l'emergenza Coronavirus distribuendo buoni spesa o generi alimentari e di prima necessità a chi ne abbia bisogno. Alla capitale, che è città più popolosa d'Italia, va la quota più grande. Ma l'ordinanza firmata questa sera dal capo della protezione civile Angelo Borrelli riequilibra i fondi anche in base al reddito medio dei residenti e non dimentica i centri con poche decine di abitanti, stabilendo che in mancanza di risorse i 600 euro a loro destinati - la cifra minima stanziata - vengano sottratti alle grandi città. Su base regionale è la Lombardia a ricevere la quota maggiore di risorse, 55 milioni; alla Campania vanno 50 milioni; alla Sicilia 43,4 mln; al Lazio 36 mln; alla Puglia 33 mln; al Veneto 27,4 mln; all'Emilia Romagna 24,2 mln; al Piemonte 24 mln; alla Toscana 21 mln; alla Calabria 17 mln; alla Sardegna 12 mln; alle Marche 9,3 mln; alla Liguria 8,7 mln. Per il bilanciamento tra reddito pro capite e numero di abitanti, la Campania e la Sicilia ricevono risorse superiori al Lazio, pur avendo un numero inferiore di abitanti (5,9 milioni il Lazio, 5,8 milioni la Campania, 5 milioni la Sicilia). Tra i capoluoghi, Bari potrà distribuire 1,9 milioni, Firenze 2 milioni, Reggio Calabria 1,3 milioni, Venezia 1,3 mln, Catanzaro 622mila euro, Caserta 445mila euro, Foggia 1,1 mln, Lecce 566mila euro, Piacenza 548mila euro, Nuoro 230mila euro, Cagliari 814mila euro, Pesaro 503mila euro, Potenza 398mila, Matera 394mila, Isernia 148mila, Campobasso 303mila. A Bergamo, città duramente colpita dall'epidemia, andranno 642mila euro. Il Comune di Vo', primo focolaio dell'epidemia, potrà aiutare chi è in difficoltà con 42mila euro, Codogno con 169mila euro, Alzano Lombardo, città che aveva chiesto di essere inclusa nella zona rossa, avrà 72mila euro. A Fondi e Nerola, le cittadine più colpite nel Lazio, 357mila e 13mila euro ciascuna. A Dinami, in provincia di Vibo Valentia, che in base alla dichiarazione dei redditi del 2017 è il paese più povero d'Italia, vanno 20.400 euro. Al Comune più piccolo d'Italia con i suoi 33 abitanti, Morterone, in provincia di Lecco, 600 euro. A Zerba (Piacenza), paesino che in base ai dati Istat è popolato da persone anziane, vanno 600 euro. A Castel Volturno, in Campania, 276mila euro. Scorrendo tra le mete turistiche più ricercate, emerge che Cortina potrà distribuire buoni spesa e generi alimentari per 30,600 euro, Capri per 37,800 euro, Taormina per 73mila euro; Arzachena, sotto il cui comune ricade Porto Cervo, per 100mila euro; Portofino per 2000 euro.(ANSA).

Coronavirus e aiuti di Stato: alla Lombardia 200 milioni, a Campania, Sicilia e Puglia 300. Sandro Iacometti 26 marzo 2020 Libero Quotidiano. Piccolo quiz. In Lombardia, ad oggi, ci sono stati 32mila casi positivi al Coronavirus, in Emilia Romagna 10mila, in Veneto 6mila. In Sicilia, invece, i contagiati sono stati 994, in Puglia 1.093 e in Campania 1.199. Indovinate un po' dove sono andati i soldi del governo? Non è tutto, perché non si tratta di quattrini destinati all' emergenza sanitaria, ma al finanziamento della cassa integrazione per le aziende in crisi. Allora, al quiz bisognerebbe aggiungere altri dati. Come ad esempio quelli sul Pil delle tre regioni del Nord, che insieme (dati Eurostat 2018) superano il 40% dell' intero prodotto interno lordo del Paese, mentre le tre del Sud non arrivano neanche al 16%. Possibile che il danno economico provocato dal virus sulle due aree dello Stivale sia comparabile? Non si sono fatti questa domanda il ministro dell' Economia, Roberto Gualtieri, e quella del Lavoro Nunzia Catalfo, né si sono preoccupati di verificare il grado di diffusione dell' epidemia. Per distribuire gli 1,3 miliardi messi a disposizione dal governo per la cig in deroga i due si sono limitati a chiedere all' Inps l' elenco dei lavoratori non coperti da ammortizzatori ordinari. «Finalità elettorali» - Ed è così che la Sicilia si è trovata in tasca 108 milioni, la Puglia 106 e la Campania 101. La Lombardia, che ha il doppio degli abitanti, il record di contagiati e morti e produce da sola il 22% del Pil italiano si è dovuta accontentare di 198 milioni, mentre l' Emilia Romagna ne ha ricevuti 110. Un vero e proprio schiaffo quello arrivato al Veneto. Per la patria delle piccole e medie imprese, il regno delle eccellenze italiane, la regione che traina l' export del Paese, la dote stabilita dal governo per aiutare le imprese è stata di soli 99 milioni. Spiccioli che hanno fatto andare su tutte le furie l' assessore allo Sviluppo della regione, Roberto Marcato. «Forse fino ad oggi ho vissuto da un' altra parte. Da noi il 97% delle aziende ha meno di 10 dipendenti e siamo una delle regioni più colpite d' Italia», spiega a Libero, «vedere che nella distribuzione degli ammortizzatori sociali in deroga siamo sotto Puglia, Sicilia e Campania è una grande delusione. Mi aspettavo che di fronte all' emergenza la politica potesse cambiare approccio, scegliere per una volta in base a criteri oggettivi, senza pregiudizi e senza finalità elettorali, invece ci troviamo ancora di fronte alle vecchie logiche. Le stesse che sono dietro le parole pronunciate un paio di giorni fa dal ministro Provenzano, che invocava finanziamenti al Sud, anche per aiutare i lavoratori in nero. Ma stiamo scherzando?».

“Operazione verità” sui fondi sottratti al Sud. (ITALPRESS 25 marzo 2020) – La proposta è sul tavolo. La Commissione europea ha autorizzato l’Italia ad usare i fondi di coesione e sviluppo per l’emergenza sanitaria. E’ certo che i fondi saranno usati principalmente per venire in soccorso della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, le regioni più colpite dall’emergenza coronavirus. Ma quanti sanno che già si è attinto a piene mani ai fondi di coesione nella lunga stagione dell’austerità, crisi finanziaria del 2008-09 e crisi sovrana 2011-12? Nessuno si può sottrarre alla solidarietà nazionale, è bene però che si sappia che in passato è già successo per somme notevoli. Chi dice che il Mezzogiorno non è capace di usare i fondi di coesione deve riconoscere che una parte rilevantissima di queste somme è stata usata per finanziare le esigenze dei cittadini del Nord. Se ne parla nel libro “La Grande Balla” di Roberto Napoletano, che aveva anticipato molti temi divenuti di attualità oggi con la grande crisi del Coronavirus. “Quanti di voi sanno che, dal 2008 al 2012, le cosiddette misure di stabilizzazione della finanza pubblica del governo della Repubblica italiana sono state assunte tagliando brutalmente 22,3 miliardi di euro interamente destinati al Mezzogiorno dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC)? Avreste mai creduto – scrive Napoletano – che il costo dell’austerità per un paese in balia della speculazione finanziaria e di una pesante crisi di credibilità potesse essere messo tutto sul conto delle popolazioni meridionali? Che si avesse l’ardire di proteggere i ricchi con risorse straordinarie per la cassa integrazione a loro volta sottratte dalla quota di cofinanziamento dei fondi strutturali europei 2007/2013 anch’essi destinati dall’Europa non all’Italia ma alle sue regioni meridionali?”. “I fondi ordinari per il Sud sono diventati negli anni di predefault il bancomat dello stato e quelli cosiddetti straordinari la cassa sociale per le crisi industriali del Nord. E’ avvenuto con tre distinte delibere (112/2008, 1/2011, 6/2012) del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) approvate con l’esclusiva motivazione di maggiori esigenze di controllo della finanza pubblica”, sottolinea l’autore del libro, che aggiunge: “Si sono tolti in rapida sequenza 22,3 miliardi alla spesa per incentivi e investimenti pubblici destinati alle regioni meridionali per soddisfare ragioni generali di rigore (che riguardano il Nord e il Sud del paese) lasciando che circolasse la favola del Mezzogiorno incapace di utilizzare le risorse ordinarie e comunitarie disponibili (in realtà decimate) e continuando a trasferire decine e decine di miliardi non dovuti di spesa pubblica sociale alle regioni ricche con il trucco della spesa storica ugualmente sottratti alle regioni meridionali”.

Bufera sul Carroccio. La Lega in Europa ha provato a bloccare gli aiuti per l’emergenza Coronavirus all’Italia. Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. Mentre in Italia da giorni hanno ormai spaccato il fronte comune chiesto anche dal Presidente della Repubblica Mattarella per gestire l’emergenza Coronavirus, la Lega ora porta anche in Europa le sue battaglie, rischiando incredibilmente di danneggiare il suo Paese. È quanto accaduto ieri al Parlamento Europeo, dove il gruppo di Matteo Salvini ha rischiato di far arenare la proposta della Commissione UE che portava allo sblocco di 37 miliardi di fondi europei, di cui 9 diretti all’Italia, per contrastare la pandemia di Covid-19 e per sospendere le norme sull’utilizzo delle bande orarie da parte delle compagnie aeree. A sollevare il caso è stato l’eurodeputato del Pd Brando Benifei. “La Lega da sempre è contro l’Italia e contro il suo interesse nazionale, lo sappiamo. Ma oggi ha superato un nuovo limite, quasi non ci si può credere – scrive il rappresentate italiano all’Europarlamento – Ancora una volta i leghisti hanno portato avanti un gioco sporco, per propri interessi di propaganda, sulla pelle degli italiani: contro il volere di tutti i gruppi politici europei, loro soltanto hanno presentato emendamenti che se approvati avrebbero bloccato la procedura d’urgenza, mettendo così a rischio l’arrivo rapido di risorse europee per l’Italia. Sono soldi necessari per fronteggiare le conseguenze del virus, per acquistare equipaggiamento per i nostri medici, mascherine, respiratori. Per fornire capitale alle piccole e medie imprese e per sostenere programmi di sostegno all’occupazione”, conclude Benifei. Sulla stessa linea anche Rosa D’Amato, europarlamentare del Movimento 5 Stelle: “Gli europarlamentari della Lega sono degli irresponsabili. Hanno presentato degli emendamenti alla proposta di finanziamenti europei nella lotta contro il Coronavirus che, se approvati, ritarderebbero almeno di alcune settimane l’erogazione dei fondi”, aveva detto la D’Amato. “La palla, infatti, ripasserebbe al Consiglio. Siamo i primi a pretendere dall’Europa che faccia di più e meglio, ma l’Italia ha bisogno di questi fondi subito, i cittadini non possono aspettare”. Una votazione da record, tra l’altro: sono stati ben 687 gli eletti che hanno partecipato alla prima votazione speciale della plenaria per le misure urgenti sul Covid-19.

In serata quindi l’Europarlamento ha bocciato a stragrande maggioranza gli emendamenti, a firma tra l’altro anche dalla Lega, sulle proposte della Commissione Europea.

Paola Zanca per "il Fatto quotidiano” il 31 marzo 2020. L' antico adagio "fatta la legge, trovato l' inganno" non lo ammazza nessuno: neanche il coronavirus. E la legge, in questo caso, è il decreto del presidente del Consiglio dei ministri firmato il 22 marzo: quello che elenca le attività che possono continuare a produrre nonostante la chiusura imposta dall' epidemia. Ottantadue codici Ateco, secondo l' ultima lista modificata mercoledì scorso, che indicano quali comparti produttivi hanno il permesso di non fermarsi. Attività essenziali - l' agroalimentare, l' energia, il chimico, i trasporti - che devono andare necessariamente avanti. Ma a cui - tra una deroga e un cavillo - si aggiunge un' altra grossa fetta di imprese che chiudere non può, o non vuole: migliaia, soltanto nelle province di Bergamo e Brescia. Quelle che da sole, nonostante il dato cominci fortunatamente a essere in calo, contano quasi la metà dei Covid positivi in Lombardia. Come quelli dei contagi, anche i numeri delle comunicazioni arrivate via Pec alle prefetture di Brescia e Bergano vanno ancora analizzati nel dettaglio. Ma la mole di mail ricevute è il segnale che l' instancabile voglia di lavorare che ha fatto grande la provincia lombarda non ha intenzione di farsi fermare da quel decreto firmato a Roma: il "Chiudi Italia" - almeno qui - esce piuttosto ammaccato. Cominciamo da Bergamo, tristemente nota come la capitale del Covid-19. Fino a ieri, 1800 aziende hanno chiesto deroghe al decreto firmato da Giuseppe Conte. Significa che per loro, il blocco scattato il 25 marzo non è ancora operativo. Lavorano, nell' attesa che la Finanza e i carabinieri arrivino a notificare una eventuale sospensione. Hanno autocertificato che possono restare aperti perché svolgono attività riconducibili a filiere essenziali: "Funziona al contrario", dice il segretario provinciale della Cgil Gianni Peracchi, costretto ad ammettere che "il polso della situazione non ce l' ha nessuno". Verifiche, loro, non ne possono fare, nonostante l' accordo lo preveda: la prefettura, così come a Brescia, non gli ha ancora fornito l' elenco delle autocertificazioni arrivate. Nell' attesa, il sindacato ha segnalato già due violazioni. Una è una ditta che continuava a restare aperta nonostante producesse utensili in legno e pennelli, l' altro un produttore di carta che si era iscritto alla filiera alimentare, nonostante riguardasse una parte infinitesimale del suo mercato. Il nodo vero è proprio qui: come si decide se una azienda che lavora anche per uno dei settori essenziali può tenere attivo l' intero ciclo produttivo? Un caso è quello di Camozzi Group, colosso bresciano della manifattura e dell' automazione con 18 siti produttivi e 2600 dipendenti. Tra le tante cose, fabbrica ed esporta componenti di respiratori polmonari, certo. Ma fonde alluminio e ghisa, si occupa di tessile, di carpenteria, di meccanica pesante. E, a oggi, sono tutti al lavoro. Tant' è che nell' home page del loro sito rassicurano i clienti: "Informiamo che la produzione delle aziende appartenenti al Gruppo Camozzi sta funzionando regolarmente e tutti i servizi e assistenza sono garantiti ai nostri clienti a livello internazionale". Interpellata sul punto, la proprietà non ha voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni. Ma la risposta, va detto, è nei fatti: in prefettura si limitano a verificare che una impresa abbia il codice Ateco autorizzato dal decreto. Che poi di codici, un' azienda, possa averne associati molti altri, non è un problema loro. "Ci sono aziende che hanno auto-dichiarato la 'parzialità' della produzione - spiega Francesco Bertoli, segretario provinciale della Cgil a Brescia - Certo è possibile che qualcuno faccia un passo in più". Lo spiega meglio, in una lettera pubblicata sui social, la moglie di un dipendente (tutti rigorosamente anonimi, che l' aria che tira non è buona) di una fabbrica di Lumezzane, il comune in provincia di Brescia che esporta rubinetti e posate in tutto il mondo. "Cari imprenditori lumezzanesi - la sintesi del messaggio - il governo decide la chiusura delle fabbriche non essenziali e voi che fate? Con la scusa che una piccolissima parte delle vostre aziende produce parti di apparecchiature medicali, continuate a produrre anche tutto ciò che realizzate abitualmente: vi chiedete cosa state chiedendo ai vostri lavoratori?". I numeri, a Brescia, sono più pesanti di quelli di Bergamo: le Pec arrivate in prefettura sono 2980. Ma è plausibile che al loro interno ci siano anche aziende che hanno inviato la comunicazione per scrupolo o per errore. Bertoli, per dire, è più stupito dal numero di imprese del settore della difesa e dell' aerospaziale che hanno chiesto l' autorizzazione a riaprire: 317 solo a Brescia. Poi certo, la faccenda è controversa. E non è detto che chi resta aperto non abbia i dispositivi di sicurezza necessari. E, come spiega Dario, delegato della Cgil in un' azienda chimica del Bergamasco, "fermare tutto potrebbe significare la distruzione di un tessuto produttivo con ripercussioni molto forti in termini di condizioni di vita di tutti i lavoratori". Non sarà un bel domani, se già ora le richieste di cassa integrazione hanno subìto un boom appena è giunta notizia che sarà l' Inps a pagare direttamente le mensilità, senza bisogno che l' imprenditore le anticipi.

De Luca: “Forniture Consip saltate, su 400 ventilatori richiesti la metà donati da Alfredo Romeo”. Redazione de Il Riformista il 3 Aprile 2020. La principale criticità nell’emergenza coronavirus in Campania resta quella delle forniture. Lo ha dichiarato il presidente della Regione Vincenzo De Luca nel suo punto sulla crisi trasmesso sui social. “Le forniture che dovevano arrivare da Consip sono saltate. Senza l’impegno delle Regioni l’Italia oggi sarebbe sprofondata“. Sono queste le parole del Governatore in merito alle apparecchiature e ai dispositivi necessari per affrontare la crisi. Durante la diretta il governatore ha annunciato lo stato dell’arte sui vari dispositivi. “Su 400 ventilatori polmonari la Protezione Civile ce ne ha consegnati 41 di cui 36 provenienti dall’ente e 5 da donazioni“. De Luca ha poi annunciato che “Arrivano oggi in Campania per una donazione della società di Alfredo Romeo 192 apparecchiature per la sub intensiva e 6 ventilatori polmonari“. Praticamente la Romeo Gestioni ha contribuito, con la sua donazione, a circa la metà del fabbisogno annunciato dal governatore. “Voglio ringraziare di cuore il dott. Romeo per questa donazione che ha fatto alla Regione Campania“. De Luca ha proseguito il suo discorso senza voler entrare nel dibattito tra lo Stato e le Regioni. “Un impegno – ha però osservato De Luca – aveva lo Stato dal punto di vista operativo: quello di garantire un flusso permanente, continuo, adeguato, programmato, nel trasferimento di forniture ai territori“. E invece, ha continuato il governatore, “tutte le forniture dalla Consip sono saltate e ancora oggi dobbiamo fare la guerra per avere un carico di mascherine, per avere i dpi per i medici, per avere i ventilatori polmonari, per avere attrezzature adatte per la terapia subintensiva e quant’altro“. Le forniture restano dunque la principale criticità dell’emergenza secondo il governatore. “Per i caschi per l’ossigenazione – ha continuato il Presidente campano – ne abbiamo chiesti cinquemila, non ne abbiamo neanche uno. Per i tamponi premiamo ogni mattina per avere una dotazione adeguata. Per le mascherine stiamo abbastanza tranquilli ma ce la siamo visti da soli, ordinando un milione di mascherine chirurgiche a una fabbrica di Nola“. Già nel videomessaggio della settimana scorsa il governatore aveva ringraziato e sottolineato il ruolo dei privati nel reperimento di apparecchiature per fronteggiare il coronavirus.

Bari, Emiliano requisisce ad azienda macchine per tamponi destinate al Veneto. «Per ora stop esecuzione». Il governatore manda i Carabinieri: vanno consegnate alla Regione. La Masmec: le daremo a Foggia. Massimiliano Scagliarini il 3 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La data del provvedimento è 1° aprile, e qualcuno ha pensato a uno scherzo. Invece è tutto vero. Mercoledì il governatore Michele Emiliano ha firmato una ordinanza di requisizione di attrezzature sanitarie. Anche se il decreto del 18 marzo, all’articolo 6, consente questa possibilità solo alla Protezione civile nazionale. Il presidente della Regione è andato avanti, ritenendosi soggetto attuatore dell’emergenza ed ha ordinato al Comando regione Carabinieri Puglia di prelevare due sistemi automatici per le analisi dei tamponi dallo stabilimento della ditta Masmec e di consegnarli al capo del dipartimento Salute della Regione. Masmec è la società di Bari che ha realizzato una macchina per l’estrazione del Rna (la prima fase nella procedura per l’esame del tampone salivare), donandone il primo esemplare al Policlinico, con cui ha messo a punto il protocollo per le analisi. Una macchina da 40mila euro che funziona bene e che consente di velocizzare il procedimento per le analisi, e di cui la Regione ha chiesto altri due esemplari. Ma la Masmec, che ha anche stipulato un accordo con la Menarini per la fornitura dei reagenti, ha spiegato di dover consegnare le due macchine successive al Veneto e che per la Puglia sarebbe stato necessario attendere fino a fine aprile. E così Emiliano ha preparato una ordinanza e ha ordinato «la requisizione in proprietà di 2 strumentazioni tecniche complete (piattaforme automatiche e reagenti necessari) realizzate per la diagnosi della positività negatività al Coronavirus». «Una sola strumentazione - ha argomentato - non è affatto sufficiente a colmare il delta amplissimo tra le analisi realizzabili in Puglia e quelle realizzabili in altre regioni», perché la capacità della Puglia non arriva a 1.000 tamponi al giorno, mentre in Veneto hanno «evidentemente disponibilità di macchine e reagenti in numero tale da realizzare più di 6.000 analisi al giorno», grazie alla «totale deregulation normativa della distribuzione sul territorio nazionale di dette macchine e reagenti». Emiliano ha anche scritto che Masmec ha realizzato la macchina «su impulso del Presidente della Regione»: insomma, l’idea di quel dispositivo è sua. Ma il patron della Masmec, l’ingegner Michele Vinci, contattato al telefono, appare sinceramente sorpreso. È la «Gazzetta» a dirgli dell’ordinanza di requisizione e Vinci garantisce che non ce n’è bisogno: «Fino a un quarto d’ora fa - racconta - stavo parlando con il dottor Parisi dell’Istituto zooprofilattico di Foggia cui noi consegneremo due macchine». Ed Emiliano? «Lui ieri era preoccupato perché non gliele davamo. Io non l’ho sentito oggi, ma so che ha parlato molto bene della Masmec». Le due macchine, insomma, resteranno in Puglia: «Ne stiamo producendo quattro - dice Vinci -, la Regione aveva bisogno di due, per cui noi adesso stiamo lavorando in maniera tale da soddisfare questa esigenza». Se sarà così, dicono dalla Regione, l’ordinanza non verrà notificata.

LA PRECISAZIONE DI EMILIANO - «La requisizione non è avvenuta perché di fronte alle legittime esigenze della Puglia la ditta Menarini e la ditta Masmec si sono subito adoperate per trovare l’adeguata soluzione, che è in via di individuazione. E dunque - precisa il governatore - l’esecuzione del provvedimento non è ancora avvenuta perché si sta trovando un accordo. Per tale ragione non era stata data ancora notizia del provvedimento». 

Coronavirus, la beffa: i ventilatori donati agli ospedali della Puglia requisiti dal commissario Arcuri. Le Dogane applicano una norma del decreto Conte: le forniture vengono gestite dalla protezione civile. E i doni della imprese potrebbero finire anche al Nord. Massimiliano Scagliarini l'1 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La gara di solidarietà sta riguardando tanta gente. Grandi aziende, ma anche piccole imprese e anche singoli cittadini. Chi può, prova a dare un segno tangibile di vicinanza. E magari investe alcune decine di migliaia di euro per acquistare materiale destinato agli ospedali, a partire dagli indispensabili ventilatori polmonari che si producono - soprattutto - in Cina. E che da un paio di settimane, ormai, vengono fermati alla dogana su disposizione del commissario di governo, Domenico Arcuri: la legge gli consente di requisirle. Sta accadendo anche ad un imprenditore del Tarantino che aveva acquistato, con soldi propri, un lotto di materiale sanitario da destinare agli ospedali pugliesi. Da alcuni giorni il carico è fermo a Ciampino, dove l’Agenzia delle Dogane ha dato attuazione a quanto richiesto da Arcuri (l’uomo che Conte ha incaricato di occuparsi delle forniture sanitarie): può passare solo ciò che è destinato ad ospedali pubblici, tutto il resto deve essere fermato e - se il commissario lo richiede - deve essere consegnato alla Protezione civile. Quella della requisizione è una facoltà prevista dai decreti sull’emergenza. Al legittimo proprietario della merce verrà rimborsato il prezzo pagato per l’acquisto. Ma poi è la Protezione civile a stabilire dove andranno a finire i preziosi ventilatori (a Ciampino, insieme a quelli ordinati dall’imprenditore pugliese, ce ne sono fermi molti altri), e nessuno potrà sapere che fine farà la merce requisita. Se (almeno) finirà lì dove era destinata, o se verrà invece dirottata verso un ospedale del Nord. Ma del resto le difficoltà della Protezione civile a far arrivare le forniture richieste dagli ospedali sono note. Ieri la Regione, dopo almeno un mese di tentativi, è riuscita a farsi consegnare 35mila mascherine «ffp3» ordinate il 22 marzo attraverso un’azienda locale: la merce, partita dalla Cina in aereo, ha fatto il giro del mondo (Sud Africa e Olanda, in aereo, poi in treno fino a Milano, quindi un camion fino a Bari). Altri ordini fatti per quasi 30 milioni di euro, molti dei quali garantiti con lettere di credito, non sono mai arrivati. Anche alcune forniture della stessa Regione si sono perse alle dogane, stavolta quelle dei Paesi extraeuropei in cui hanno fatto scalo i voli diretti dalla Cina. Ieri la Protezione civile ha consegnato alla Regione 1.080 kit per accesso vascolare, 8.778 tubi endotracheali, 84 monitor multiparametrici fissi, 176 monitor multiparametrici portatili, e 15 ventilatori polmonari, dopo che nella tarda serata di lunedì un aereo da carico messo a disposizione da Leonardo aveva scaricato a Bari 30.400 mascherine chirurgiche, 500 tute di protezione e 3.730 mascherine ffp2, mentre domenica un volo della Guardia costiera ha portato 42mila mascherine chirurgiche. Due voli che non hanno coperto nemmeno un singolo giorno di fabbisogno del sistema di assistenza pugliese, per non parlare degli appena 31 ventilatori totali a fronte dei 400 necessari: dei 15 consegnati ieri, peraltro, qualcuno potrebbe provenire dai lotti requisiti. E c’è un giallo anche sui numeri complessivi: secondo la Protezione civile il materiale consegnato alla Puglia ammonta a 1.272.000 pezzi, la Regione ne contabilizza 236mila in meno (dovrebbe trattarsi di mascherine). E di questo totale, 400mila sono le famigerate mascherine Montrasio, che in ospedale sono inutili e che infatti la Lombardia ha mandato indietro: secondo i medici sono più utili da utilizzare al posto dei panni Swiffer. [m.s.]

Coronavirus, "respiratori e mascherine da Calabria al Nord": le denunce. Pubblicato da adnkronos.com il 20/03/2020. "È inquietante, inammissibile e pericolosissimo, specie in questa fase di aumento dei contagi da nuovo coronavirus, che non siano arrivati i dispositivi di protezione individuale e i ventilatori polmonari ordinati da aziende del Servizio sanitario della Calabria. Secondo la denuncia pubblica del commissario dell'Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, questi materiali sarebbero stati tutti 'dirottati' verso le regioni del Nord". Lo affermano, in una nota, i parlamentari del Movimento 5 Stelle Francesco Sapia, Bianca Laura Granato, Giuseppe d'Ippolito e Paolo Parentela, che precisano: "Qui non si tratta di cedere a polemiche, ma di stabilire se le aziende pubbliche della salute che operano in Calabria debbano, come sacrosanto, essere messe nelle condizioni di garantire la prevenzione oppure no, il che sarebbe terribile". "C'è - proseguono gli stessi parlamentari - un evidente problema politico da chiarire con il ministro della Salute, che dovrebbe preoccupare anche la nuova giunta regionale. L'emergenza Covid-19 è nazionale, le regioni meridionali, e in particolare la Calabria, sono le più sguarnite sul piano dell'assistenza sanitaria. Perciò è fondamentale - rimarcano i 5 Stelle - che adesso, e non con ulteriori rinvii, giungano in Calabria i ventilatori polmonari e i dispositivi di protezione necessari ad affrontare la situazione, atteso che, secondo le stime disponibili, nei prossimi giorni si attende il picco dei contagi, che in Calabria potrebbero schizzare ad oltre 500 per la fine di marzo, con tutte le gravi conseguenze in termini di stress delle strutture sanitarie pubbliche e dei vari operatori, i quali continuano a lavorare con rischio e gravi difficoltà quotidiane". "Al ministro della Salute - concludono i parlamentari del Movimento 5 Stelle - chiediamo di attivarsi immediatamente, intanto presso il capo della Protezione civile nazionale, per risolvere con urgenza questo problema della ripartizione sui territori italiani, in relazione alle specifiche necessità e al di fuori della logica della contesa tra 'poveri', degli strumenti indispensabili in tutti i presidi e reparti". "Comprendiamo le proporzioni drammatiche dell’emergenza sanitaria al Nord, ma non può essere sottovalutata la necessità di contenere la diffusione del coronavirus nelle regioni meridionali e in particolare in Calabria, dove il sistema sanitario non è in grado di reggere una eventuale esplosione dell’epidemia", afferma invece la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro in merito alla vicenda delle mascherine destinate alla Calabria requisite ed inviate in Lombardia. "Per questo abbiamo il dovere di proteggere soprattutto il personale medico e sanitario - ricorda Ferro - già numericamente insufficiente, ed evitare che il contagio si diffonda nelle corsie degli ospedali, come purtroppo si è verificato nel reparto di dialisi dell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. Non è accettabile che la Protezione civile requisisca alla fonte mascherine e dispositivi di protezione individuale destinate agli ospedali calabresi, come confermato dal commissario delle aziende ospedaliere catanzaresi e cosentine Zuccatelli". "Una pratica che, secondo quanto riferito da Zuccatelli, riguarderebbe anche le attrezzature come i ventilatori e i respiratori, necessarie all’allestimento delle nuove postazioni di terapia intensiva e sub-intensiva. Intanto a Catanzaro – afferma Wanda Ferro in una nota - il personale infermieristico si è visto consegnare le inutili mascherine, simili a stracci per la polvere, ritirate dagli ospedali della Lombardia perché assolutamente non idonee. La Lombardia sta rappresentando un vero e proprio fronte della guerra contro il coronavirus, e la Calabria ha dato una prova di solidarietà accogliendo nelle proprie strutture i primi pazienti in arrivo da Cremona e da Bergamo. Non possiamo però permetterci di restare impreparati di fronte ad un aggravarsi dei contagi, soprattutto dopo il rientro di migliaia di cittadini dal Nord, e dobbiamo essere messi in condizione di attrezzare i nuovi reparti e soprattutto di salvaguardare chi dovrà prendersi cura dei pazienti".
Coronavirus Reggio Calabria, parla il commissario Gom: «Ecco quando sarà il picco. Respiratori? Requisiti e mandati al Nord». Viaggio nel nuovo edificio Covid 19 che curerà i pazienti positivi al Coronavirus. Tutte le misure approntate dal Grande ospedale metropolitano che si è preparato all’emergenza con grande anticipo. Consolato Minniti su Il Reggino il 22 Marzo 2020. La finestra alla fine del corridoio affaccia sul nuovo pronto soccorso e mostra, poco distante, l’istantanea più eloquente di questi giorni di emergenza: due tende, l’una vicina all’altra e, fuori, una fila ordinata di persone, tutte rigorosamente distanti fra loro. Hanno guanti e mascherine, i volti tiratissimi. Negli occhi c’è la paura di poter avere dentro di sé il mostro che sta spaventando il mondo intero. Alcuni sono asintomatici, ma hanno avuto contatti sospetti. Altri hanno già febbre e raffreddore. Per loro manca solo la conferma ufficiale. C’è chi tiene gli occhi fissi sullo smartphone e comunica con amici e parenti. Qualcuno, invece, ha uno sguardo perso nel vuoto, come se stesse vivendo un sogno dal quale appare difficile svegliarsi. Volgiamo lo sguardo alle nostre spalle ed una corsia lunga e silenziosa si staglia davanti. Qui, fino a qualche settimana fa, c’erano i reparti delle varie chirurgie. Pazienti e familiari a centinaia ogni giorno. Un viavai frenetico fra consulenze, esami e diagnosi. Sospiri, lacrime, sorrisi e preoccupazioni. Tutto tace. Ma è un silenzio solo apparente. Perché questo sarà il luogo in cui aprirà l’edificio Covid-19, struttura interamente dedicata alla cura dei pazienti positivi al Coronavirus. In questo nostro viaggio abbiamo avuto due guide d’eccezione: il commissario straordinario del Gom, Iole Fantozzi, e il direttore sanitario di presidio, Antonino Verduci.
L’inizio dell’emergenza. «Abbiamo lavorato molto sulla prevenzione – spiega Iole Fantozzi – perché era scontato che potesse succedere anche qui l’emergenza. Già dai primi di febbraio avevamo differenziato i percorsi di triage per sospetti Covid, dai triage regolari. Il primo caso ha seguito questa procedura ed è stato ricoverato in Malattie infettive, una volta accertata la positività».
Ancor prima che entrassero in vigore i provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri, il Gom reggino aveva istituito un tavolo di crisi, coinvolgendo l’Asp «perché tutto il territorio deve essere coinvolto nell’evitare che tutti i pazienti arrivino in maniera indifferenziata al Gom perché essendo un ospedale che fornisce intensità di cure superiore rispetto agli ospedali territoriali, preferiremmo ricevere i casi più gravi, così da non saturare le terapie intensive e rinviare agli spoke territoriali i casi che possono essere gestiti con un’intensità di cura diversa», rimarca il commissario.
L’edificio Covid 19. «Abbiamo allestito un edificio interamente Covid», sottolinea Fantozzi. Ed i numeri le danno ragione. «Abbiamo aumentato i posti della terapia intensiva, passando da 14 a 18, anche 20 se riusciamo ad avere i respiratori che avevamo acquistato ma che ci sono stati requisiti dalla Protezione civile e quindi attendiamo una nuova distribuzione, dopo quella al nord che è in un momento peggiore rispetto a noi. Abbiamo aumentato di 20 posti la pneumologia, di 23 posti le malattie infettive e creato un apposito pronto soccorso Covid, una Obi covid ed una Radiologia Covid dedicata. Ci siamo preoccupati, in questo stesso edificio, di creare due postazioni con dialisi con osmosi portatile e una postazione di Obi per i pazienti pediatrici. Il tutto all’interno di un’area dove in prossimità abbiamo il reparto di Malattie infettive e due tende di triage una per l’attesa e una per l’esecuzione del tampone per chi sospetta di essersi infettato». In totale, dunque, l’edificio Covid-19 può contare su 87 posti letto che, aggiunti a quelli già presenti, arrivano a circa 140. Ma c’è di più. «Abbiamo ridotto tutte le chirurgie d’elezione. Così le visite non urgenti e quindi le prestazioni che portavano pazienti e visitatori all’interno dell’ospedale. Abbiamo isolato una parte del blocco operatorio, quattro delle nostre sale operatorie, per trasformarle in terapia intensiva in modo da aumentare subito i posti per persone con ventilazione assistita o con doppia patologia connessa a tempo-dipendenza in caso di urgenza».
Passaggio dal “Morelli” al “Gom”. Il commissario straordinario ricorda come si sia fatto «un modello previsionale per acquisto di farmaci e per finire le operazioni che avevamo in corso. Siamo stati costretti di spostare pneumologia dal “Morelli” al Gom per curare i pazienti affetti da polmonite da Covid. La direzione sanitaria di presidio si è allertata subito ed ha dato una grande mano negli spostamenti».
I dispositivi di protezione. Come rimarcato anche dal dottor Verduci, tanto è stato fatto per fare in modo che il personale fosse in grado di operare con i dispositivi idonei e che imparasse tutte le tecniche di vestizione e svestizione fondamentali per evitare il contagio. «Abbiamo acquistato i dispositivi da tempo. Noi consegniamo dei kit completi per i dipendenti ad ogni turno». Ma le precazioni sono sufficienti? «In ospedale è tutto in regola perché avevamo fatto le scorte e gli approvvigionamenti per tempo. Ci sono strumentalizzazioni, così come accade in tutta Italia. La riprova è data da un paziente ricoverato per un ictus che ha sviluppato il Covid nel corso del ricovero. Se i dipendenti non fossero stati protetti avremmo trovato positività di medici e infermieri. E invece nessuno si è contagiato. Le regole di igiene e i dispositivi hanno evitato i contagi».
Il ruolo dell’Asp. Ma cosa succede se il numero di pazienti dovesse crescere a dismisura? «Abbiamo recuperato infermieri allestendo un ospedale isolato dal primo, stiamo ricoverando fino a saturazione di tutti i posti. A quel punto c’è un accordo con l’Asp per cui utilizzeremo i loro ospedali periferici. Noi terremo i casi più gravi. Qualora i posti dovessero diventare non sufficienti, le altre strutture dovranno curare i casi meno preoccupanti», ricorda Iole Fantozzi. Quanto al possibile picco, Iole Fantozzi, pur andando cauta, spiega: «Ci aspettiamo un periodo di picco connesso all’esodo di quanti lavoravano al Nord e sono scappati nelle more dell’ultimo Dpcm. Tra questa settimana e la prossima ci aspettiamo il picco epidemiologico».
Le richieste. La richiesta di Iole Fantozzi alla politica è chiara: «Ci servono i medici specializzati ad affrontare le emergenze, infermieri e oss perché noi abbiamo approntato i luoghi ma senza persone non c’è cura che possa essere effettuata. Facciamo appello affinché la Regione e il Dipartimento si sbrighino nell’attività di reclutamento dei medici specialisti e che le persone rispondano per il reclutamento specifico su Covid».
I respiratori requisiti. «Noi – conclude – avevamo provato ad approvvigionarci con 14 ventilatori polmonari, ma sono stati requisiti dalla Protezione civile che li ha dirottati al Nord dove l’emergenza era maggiore. Ma a noi serve questo materiale per la ventilazione polmonare».
I Fondi europei destinati al Meridione andranno al Nord. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale: "Si chiede al Sud di dare quello che ancora non ha avuto, e chissà se mai lo avrà". di Redazione basilicata24.it il 12 marzo 2020. “Quello che temevamo è successo: al Sud, per l’emergenza sanitaria, si chiede ancora una volta una prova di solidarietà sulla ripartizione dei Fondi UE, dirottando a Nord (secondo anticipazioni del Sole24ore) circa dieci miliardi delle risorse destinate a impedire il crollo del Mezzogiorno. È inammissibile, non è un atto di solidarietà nei confronti del Nord, ma un peso che ancora una volta ricade sulle spalle di chi ha più bisogno e ha già meno.” E’ quanto sostiene il Movimento 24 Agosto – Equità Territoriale, in una nota diffusa alla stampa. I fondi destinati al Sud dall’UE  –  è scritto nella nota – non possono essere il contrappeso di un’emergenza che riguarda tutto il Paese, e per il quale l’Italia potrà già sforare il deficit per 25 miliardi. Il Meridione non ha strutture, non ha servizi, non ha possibilità di garantire a se stesso la “sopravvivenza” sanitaria, già in situazioni normali, figuriamoci in una situazione di emergenza globale come quella che stiamo vivendo. Si chiede al Sud di dare quello che ancora non ha avuto, e chissà se mai lo avrà. Ci sono ben altri cespiti – conclude – da cui si può attingere per l’emergenza, fra cui grandi opere che producono solo sprechi e corruzione.
“Sud, fondi Ue per emergenza”, polemica su proposta Provenzano. Raffaella Pessina giovedì 26 Marzo 2020 su qds.it. M5s: “Scippo per la Sicilia, proposta inaccettabile”, anche gli alleati di governo insorgono. Romanio (Eurispes): “Su liquidità intervengano piuttosto banche e fisco. Servono interventi adeguati su tasse ed agevolazioni”. Non è piaciuta al Movimento Cinquestelle l’idea del ministro per il Sud Giuseppe Provenzano di riprogrammare i fondi europei per reperire risorse e parla di proposta irricevibile. Il deputato regionale pentastellato Luigi Sunseri tuona contro il ministro definendolo un “ministro del Nord, altro che per il Sud”. “Non capisco- si chiede Sunseri – Provenzano è ancora il ministro per il Sud? Come può chiedere di attingere ai fondi europei delle regioni del Mezzogiorno, e in particolar modo della Sicilia, per finanziare gli interventi dell’emergenza in corso?”. Sunseri ha detto che la proposta del ministro di riprogrammare i fondi europei (Por e Pon) non spesi è “inaccettabile, un vero scippo alla Sicilia, un’iniziativa che potrebbe costare cara a tutto il Sud”, e propone una ricetta diversa. “la Sicilia ha estremo bisogno di investimenti pubblici, la Regione Siciliana si deve attivare per riprogrammare e spendere il prima possibile le risorse, perché domani è già tardi”. Ma il deputato regionale non si è fermato alle dichiarazioni, ha scritto una lettera proprio a Provenzano “per fargli meglio comprendere la situazione della Sicilia nella gestione dei fondi comunitari. La Commissione europea, nelle sue ultime note, è chiarissima: si possono già riprogrammare le risorse, assegnate e non spese, reindirizzandole verso gli investimenti necessari al sistema sanitario, alla piccola imprenditoria, e al sociale, per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Questa riprogrammazione la può fare l’amministrazione titolare del piano, e nel nostro caso è la Regione, re-impiegando le risorse nel territorio regionale e quindi non snaturando la natura stessa dei Por”. Sunseri afferma che la Commissione europea ha già concesso all’Italia “di rimodulare con procedure straordinarie la spesa dei fondi europei e di utilizzare queste ingenti somme nei confronti di imprese, lavoro, comuni e salute e non comprende come la Regione potrebbe rinunciare alla possibilità di spendere le risorse stanziate da qui al 2023 per l’emergenza sanitaria e per le imprese siciliane”. Scendendo nel dettaglio Sunseri spiega che i vari obiettivi (Ricerca e Sviluppo, Inclusione sociale e Competitività di piccole e medie imprese) possono destinare in deroga le proprie somme ad investimenti nella sanità.”Diamo soldi per investimenti ai Comuni per far ripartire l’economia locale – ha aggiunto – aiutiamo le aziende a rilanciarsi. Non togliamo risorse alla Sicilia con la promessa di ridarle nella prossima programmazione. Non siamo nelle condizioni di poter attendere”. Sulla stessa linea Saverio Romano, Presidente Osservatorio Mezzogiorno dell’Eurispes. “Il tentativo del Governo nazionale di utilizzare anche i fondi comunitari delle regioni del Sud, ossia le risorse destinate dall’Unione europea per progetti strutturali e non ancora impiegate, è da stigmatizzare fortemente”. Romano ritiene fuori discussione la necessità di reperire liquidità a sostegno dell’occupazione, delle categorie produttive, delle imprese, delle famiglie e del sistema Paese, ma ritiene illogico privare il Meridione dell’unica opportunità per risollevarsi dalla crisi finanziaria che poi verrà aggravata dalla pandemia. Romano è critico sulla ipotesi di rimodulare i fondi strutturali regionali per sovvenzionare la crisi odierna. “Significa condannare il Mezzogiorno e in modo inevitabile al sottosviluppo, alla marginalità e alla povertà per i prossimi decenni. Servono provvedimenti adeguati su tasse e agevolazioni, risposte in tempi brevi e tangibili sul credito al sistema imprenditoriale e soluzioni che diano ristoro alle categorie più esposte come quella delle partite Iva, dei liberi professionisti, degli imprenditori, del commercio, della piccola e media impresa, del terziario. Sono quei soggetti che, con il blocco economico, dovranno sopportare i maggiori oneri, in special modo se operano al Sud".

·         La Televisione che attacca il Sud.

LA TELEVISIONE CHE ATTACCA IL SUD NON FA IL BENE DELL’ITALIA. Michele Eugenio Di Carlo il  09.04.2020 su movimento24agosto.it. La comunicazione politica dai toni populistici, divisivi, ultimativi, definita dagli esperti di marketing politico “liquida”, tesa in maniera spasmodica alla continua ricerca di un consenso elettorale effimero, facendo leva più sull’emotività che sulla razionalità, si è fortemente insinuata nell’ambito dei social, ma si è anche avvalsa di una potente rete di media nazionali tramite i normali canali di divulgazione televisiva e alcuni dei maggiori giornali italiani, che hanno contribuito anche ad alimentare non pochi luoghi comuni e pregiudizi che presentano il Mezzogiorno con un’ottica distorta. Da quest’ultimo punto di vista, non solo l’informazione politico-mediatica “liquida” ha fatto scuola, anche il sistema pubblico dell’informazione ha contribuito decisamente a far percepire il Mezzogiorno come un’area dalle problematiche irrisolvibili. Infatti, i docenti universitari di sociologia dei processi comunicativi Stefano Cristante e Valentina Cremonesini, in un testo pubblicato nel 2015 (La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo), hanno reso noto i loro studi statistici: il TG1 della RAI, negli ultimi 35 anni, ha dedicato solo il 9% delle notizie al Mezzogiorno e quasi solo per parlarne male: cronaca nera, criminalità, malasanità, meteo. Tralasciando le statistiche di giornali e tv di proprietà privata che mettono quotidianamente in cattiva luce il Mezzogiorno, colpisce nello studio dei due studiosi che anche il Corriere della Sera e la Repubblica abbiamo dedicato spazi esigui al Sud, passando dai 2000 articoli del ventennio 1980-2000 ai 500 del decennio 2000-2010, occupandosi quasi solo di metterne in rilievo i mali e ignorandone sistematicamente gli estesi e avanzati processi culturali nel mondo dell’arte, della musica, del cinema, della cultura in generale. C’è una convergenza perfetta, e sospetta, tra il potere politico-finanziario nord-centrico e i media negli ultimi 35 anni. Tornando alla comunicazione politica “liquida”, è indubbia la preoccupazione che essa genera visto che occupa una fascia importante dell’informazione che conta, peraltro quasi totalmente accentrata nelle mani di poteri politici-finanziari di parte sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista geografico e territoriale, creando nelle popolazioni con una vera e propria operazione di distrazione di massa continue ansie, paure, incertezze, odio verso nemici spesso immaginari e nei confronti della parte debole e abbandonata del paese: il Mezzogiorno. Buona parte della televisione italiana ha da anni inaugurato una comunicazione dominata dalla presenza di una ventina di commentatori a vario titolo onnipresenti (politici, intellettuali, giornalisti, sociologi, economisti), che impongono con un linguaggio urlato, supponente, arrogante le posizioni politiche, culturali, economiche pretese da chi finanzia, gestisce e produce il talk show televisivo. Talk show che ha, tra gli altri, il fine di produrre profitti attraverso le sponsorizzazioni. Ed ecco che commentatori politici e non, dai curriculum dilatati e spesso improbabili, vengono messi su di un piedistallo e diventano famosi, al prezzo di assolvere l’unico ruolo per il quale sono stati selezionati: dare sempre e comunque ragione al conduttore, urlando e sbraitando selvaggiamente contro chiunque dissenta dalla scontata e spesso squallida linea redazionale, trovando sempre il conforto e il supporto di un pubblico plaudente a comando che alimenta la percezione in telespettatori, spesso sprovveduti, che quello sia il modo onesto e persino serio di affrontare problematiche spesso inventate di sana pianta. E’ così che molti cittadini italiani hanno assorbito odio e paranoie, convincendosi attraverso il supporto di statistiche spesso non certificate che la delinquenza sia aumentata, che gli stupri siano compiuti da un’etnia particolare, che i clandestini siano il primo problema in Italia, che vi sia in atto una sostituzione etnica e religiosa, che le case popolari siano assegnate a profughi ed extracomunitari, che chi affoga in mare se la sia cercata, che il Sud è la palla al piede dell’Italia e, in questi tempi di emergenza sanitaria, che i meridionali non rispettino le regole, mentre viene continuamente evidenziato che le carenze strutturali della sanità meridionale sono sempre e solo questione di mafia, di amministratori incapaci, di mentalità sottosviluppata della gente. Da quest’ultimo punto di vista appare non solo preoccupante, ma persino raccapricciante, che nessuna di queste trasmissioni televisive abbia commentato il recente rapporto dell’Eurispes che attesta in maniera inconfutabile che al Mezzogiorno d’Italia dal 2000 al 2017 sono stati sottratti 840 miliardi. Mai che, oltre alle gravi responsabilità di una classe politica meridionale incapace di governare il proprio territorio, vengano rivelate le responsabilità precise di governi nazionali, di destra e di sinistra, che hanno deciso con scelte politiche chiare di non ridurre il divario Nord-Sud e di non affrontare di petto la questione mafia, alimentando e aggravando i fenomeni di degrado, di abbandono, di miseria, l’emigrazione e lo spopolamento di intere aree territoriali. Ma come siamo arrivati ad una televisione del genere? Una televisione in cui i conduttori e gli ospiti fissi esercitano spesso un ruolo decisivo nell’influenzare l’opinione pubblica al servizio di interessi particolari (finanziari, politici, promozionali), esulando dalla funzione di intrattenere il pubblico dando un’informazione corretta e certificata con dati chiari. Una televisione che non va assolutamente sottovalutata perché, seppur spesso non avente un grande seguito, taluni talk show vengono continuamente rilanciati sui social da referenti politici di riferimento e da sponsor raggiungendo decine di milioni di persone e riuscendo a rappresentare nella percezione comune una realtà distorta, spesso fingendo di colpire le élite mentre ne sono lo strumento, amplificando la voce di personaggi da macchietta per confutare e confondere quella di veri intellettuali ed esperti, facendo persino passare le vittime come delinquenti beneficiati e i delinquenti come vittime. Di fronte allo scempio informativo e al disastro culturale imposto da queste trasmissioni dal potere politico-mediatico fortissimo possiamo solo agire sugli sponsor, invitandoli a non consegnare i loro messaggi promozionali e pubblicitari a pagamento a chi non osserva le regole di una corretta informazione e a chi spesso diffonde messaggi etici e valoriali non condivisi dalle stesse aziende. Noi del Mezzogiorno lo possiamo far a maggior ragione e con più convinzione, visto che almeno l’80 % dei beni, dei prodotti e dei servizi pubblicizzati ha sede legale al Nord.

Coronavirus, Napoli: l'ombra della camorra dietro alcuni aiuti. Le Iene News il 22 aprile 2020. Giulio Golia ci mostra il dramma di chi vive nei quartieri poveri di Napoli. Dalle Vele di Scampia ai Quartieri Spagnoli fino al Rione Sanità c’è chi non sa che cosa mettere in tavola, chi ha perso il lavoro e chi non vuole scendere a compromessi perché alcuni aiuti che arrivano sembrano in odore di camorra. “Non si muore solo di coronavirus, ma anche di fame”. È il grido disperato che arriva da Napoli in queste settimane di chiusure per la pandemia. Giulio Golia è tornato alle Vele di Scampia. “Lo Stato non ci aiuta. Si sono scordati di noi”, dice una donna dalla finestra appena ci vede. “A noi ci fa vivere la camorra non lo Stato”, sostiene un altro residente mostrandoci come sono scoppiate anche le fogne. “Da quando è morta la camorra siamo letteralmente nella merda”. “Hanno detto che ci davano 600 euro, ma quando arrivano questi soldi?”, si chiede un altro residente dal balcone. Nei vicoli di Napoli la crisi si presenta con un’altra faccia. “Con quella buona di chi ti vuole aiutare, magari facendoti la spesa”, spiega Catello Maresca, sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia. Dove non arriva la solidarietà (e ce n'è tanta, pulita, e fatta con il cuore), in alcuni casi ci pensa anche la camorra a consegnare i pacchi di prima necessità. “Chi li prende un domani dovrà sottostare alle loro richieste perché hanno un debito di vita”, spiega Maresca. Alle Vele ci dicono che oggi vengono aiutati solo da associazioni benefiche e non tutte potrrebbero essere limpide. “Quando ti arriva il pacco non vai a guardare la fedina penale di chi te lo porta. Lo accetti perché c’è la gente che non può mangiare”, ci dice un residente. “Dire che non esiste la criminalità organizzata è indice dell’opposto. Ci sono dinamiche ormai rodate, difficili anche da denunciare”, spiega Maresca. “Non ce la facciamo più, vogliamo uscire. Ci dicono di aver stanziato i soldi, ma dove stanno?”, si chiede una donna. Ci spostiamo ai Quartieri Spagnoli, dove la situazione non sembra diversa. “Se non ci fanno andare a lavorare scendo con la mazza in mano”. Qui le conseguenze del coronavirus sono palpabili. “Se non c’era la nonna, non si mangiava”, ci dice un altro. Perché molti vivono con i genitori anziani e grazie alle loro pensioni riescono almeno a fare la spesa. “La gente non riesce a mettere il piatto a tavola, la cassa integrazione non arriva, chi lavorava a nero non ha più una lira”, spiega un altro. Molti hanno smesso di lavorare dall’8 marzo scorso. E ora dopo più di un mese anche i risparmi iniziano a finire. Ma qui qualcuno sta portando i pacchi solidarietà e a volte la provenienza non è chiara. “Vogliamo chiamarla camorra? Chiamiamola camorra. Non so che cosa sia, ma ringraziamo Dio che qualcuno ci pensa”. Lo stesso pensiero di un altro papà: “Purtroppo c’è sempre un ritorno, io per far mangiare mio figlio che cosa dovrei fare? Poi il ritorno quando arriva, arriva. Ora devo prendere quello che c’è da prendere”. Ma c’è anche chi vuole farcela da solo. “Non voglio ridurmi a prendere il pacco di pasta. Siamo tornati al tempo della guerra? E poi c’è la luce, il gas, il padrone di casa. E poi ci sono i debiti…”, spiega un residente. Siamo nel Rione Sanità, la terza zona di Napoli che visita Giulio Golia. C’è anche chi sta aspettando il terzo figlio: “Lavoravo a nero. L’azienda ha chiuso, noi siamo per strada. Chi mi dà i soldi per le visite di mia moglie e per il mangiare ai miei figli”. Qui un centro di solidarietà bella è la basilica gestita da don Antonio Loffredo: tanto associazioni aiutano con il cuore in mano, senza altri fini. Da questa base partono aiuti economici e per la spesa. “Noi suoniamo al campanello e lasciamo il pacco davanti al portone senza vedere i volti di chi lo riceverà”, spiega un volontario. “Lo facciamo per non togliere la dignità alle persone”.

Camorra e coronavirus: la risposta di Giulio Golia. Le Iene News il 23 aprile 2020. Dopo il servizio andato in onda martedì 21 aprile, Giulio Golia risponde ad alcune critiche nel nome della "città in cui sono nato, che amo e continuerò sempre ad amare: Napoli". Buongiorno a tutti, ci tengo a fare alcune precisazioni sul servizio andato in onda sulle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata nel meccanismo di solidarietà. Lo faccio perché mi state scrivendo in tantissimi, alcuni anche con toni un po’ troppo violenti (forse è un po’ eccessivo minacciarmi di morte per un servizio, no?) perché avrei mostrato un aspetto non veritiero della città in cui sono nato, che amo e continuerò sempre ad amare: Napoli. Ho ricevuto anche tanti messaggi da parte delle decine e decine di associazioni per bene che stanno portando avanti iniziative meravigliose e utilissime alla comunità, iniziative come la spesa solidale, il carrello sospeso, reti di donazioni di privati per distribuire ai più bisognosi i beni di prima necessità. Mi si accusa soprattutto di non aver mostrato questo lato di Napoli, il suo grande cuore, l’enorme rete che si è attivata. Beh, a dire il vero, l’abbiamo fatto. Abbiamo ripetuto più volte che la rete di solidarietà è immensa, abbiamo parlato con i volontari del Rione Sanità, e li abbiamo accompagnati a consegnare i pacchi. Ma qui il discorso era un altro, e peraltro non riguarda solo Napoli. La solidarietà non può durare in eterno e non arriva dappertutto. E quello che abbiamo voluto fare è lanciare un allarme alle istituzioni: la camorra, così come la mafia e la ‘ndrangheta, si sta insinuando in questo vuoto. E non possiamo chiedere che a colmarlo sia il grande cuore del popolo napoletano con le tante e straordinarie iniziative di solidarietà. Perché quel vuoto deve colmarlo lo Stato, prima che lo facciano le iniziative criminali. Questo sta già avvenendo in alcune zone, e rischia di prendere piede in misura maggiore più avanti nel tempo se le misure del governo non saranno adeguate e soprattuto rapide. E non lo diciamo solo noi, lo dicono anche tre grandissimi magistrati, cioè il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, il Procuratore Capo di Catanzaro Nicola Gratteri e il Sostituto Procuratore della DDA di Napoli Catello Maresca, e un prete di frontiera che vive il territorio e lo conosce: Don Maurizio Patriciello di Caivano. Nessuno ha detto, come qualcuno di quelli che mi ha scritto ha insinuato, che tutte le associazioni che stanno operando sul territorio siano fatte da camorristi, anzi. Ma non si può fare finta che il fenomeno non esista, anche perché non riguarda solo il primo livello di solidarietà, e cioè i beni di prima necessità, ma anche gli aiuti alle piccole e medie imprese che sono in seria difficoltà e hanno bisogno di liquidità. Non avremmo dovuto parlarne? Penso che invece si debba fare, e con forza guardarlo in faccia il problema, per poterlo soffocare sul nascere. Napoli certo che ha un grande cuore, che combatte e sta cambiando la città, ma purtroppo non basta per cancellare del tutto “l’altro”, meno bello, che continua a esistere. Ed è qui che deve intervenire lo Stato, prima che sia troppo tardi.

“La mafia e l'antistato arrivano dove lo Stato non si muove”. Le Iene News il 29 aprile 2020. Giulio Golia torna a Napoli per parlarci del lato buono di questa emergenza. Sono tantissimi i volontari impegnati in prima linea per donare alimenti a chi non arriva a fine mese, ma se lo Stato non si muove, dove la beneficenza non può arrivare è concreto il rischio che possa infilarsi la mafia, come ci raccontano tre magistrati: il procuratore nazionale antimafia De Raho, il procuratore capo di Catanzaro Gratteri, e l’ex sostituto procuratore della Dda Maresca. “La mafia si muove dove c’è il bisogno e le persone non riescono a mettere il piatto a tavola. La solidarietà è enorme, ma purtroppo, per definizione, limitata. Se lo Stato non si muove, arriverà prima l’antistato”. A dirlo è Luigi De Magistris, sindaco di Napoli. Il suo pensiero è lo stesso che abbiamo provato a raccontarvi la scorsa settimana. Con Giulio Golia vi abbiamo parlato del grave pericolo della criminalità organizzata che può sfruttare un momento difficile come questo per arricchirsi (clicca qui per il servizio). Un pericolo che si insinuerebbe laddove la rete di solidarietà, che a Napoli sta facendo i salti mortali, non riesce ad arrivare. “Si presenta con la faccia buona di chi ti fa la spesa”, dice Catello Maresca, ex sostituto procuratore della Dda di Napoli. “Su questo rafforza quel sostegno sociale che le consente di crescere e operare”, aggiunge il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. È come se “tira la corda, ma non la spezza”, chiosa Nicola Grattieri, procuratore capo di Catanzaro. Nel primo servizio di Giulio Golia vi abbiamo mostrato la difficoltà dei quartieri più a rischio per lanciare un appello allo Stato. “Ogni giorno di ritardo apre possibilità alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, di approfittarne”, sostiene De Raho. Ma a Napoli, anziché questo messaggio dal nostro servizio ne sarebbe passato un altro. “Per Le Iene quello che c’è dietro alla beneficenza fatta a Napoli è grazie alla camorra”, dice uno dei tanti volontari impegnati in prima linea. Una conclusione dettata forse anche da un errore del nostro sito, che poi abbiamo corretto, dove si veniva fatta una generalizzazione sugli aiuti. In questo fraintendimento si è scatenato il putiferio. Anche gli stessi volontari se la sono presa con Giulio Golia. “Sei stato veramente una iena. Sei un figlio rinnegato di Napoli perché hai raccontato solo il lato peggiore”, dice uno di loro. Sono volati insulti, accuse pesantissime e perfino minacce. Così abbiamo cercato un punto d’incontro per chiarirci, e raggiungiamo un ragazzo che ci ha criticato con un video sui social a Ischia. Ma dopo 20 minuti di urla e minacce di querela al procuratore gettiamo la spugna. “Se lo Stato non si muove, la camorra approfitterà di tutto come ha sempre fatto”, dice un passante. Ed è proprio questo il punto della questione che abbiamo affrontato nel servizio per cercare di alzare l’attenzione per chiedere allo Stato di intervenire. “Ultimamente in televisione Napoli viene attaccata e criticata continuamente. A un certo punto non ce la facciamo più”, aggiunge una donna. Durante questo confronto arriva almeno una buona notizia: “Apriremo uno sportello di ascolto per tutti i problemi che possono avere famiglie, artigiani, piccoli negozianti”, annuncia la presidente della Fondazione Banco di Napoli, Rossella Paliotto. “Lo Stato ancora non ha fatto arrivare la cassa integrazione di marzo e a oggi le aziende non riescono a fare le pratiche presso le banche. E queste non sono nella condizione di erogare le somme. Sono passati due mesi e non è arrivato niente di niente, nemmeno un euro. In questa situazione si muove l’antistato, punto”. L’impegno della Fondazione Banco di Napoli, delle associazioni, e dei tanti singoli che si sono dati fare, corre insieme a quello del Comune. “Siamo arrivati ai poverissimi, 27mila famiglie circa”, spiega il sindaco Luigi De Magistris. “E poi a qualche migliaio di persone con il banco alimentare di mutuo soccorso”. Un impegno però che non può andare avanti ancora per molto se lo Stato non si muove. “La solidarietà con le sue risorse ha un tempo limitato. Se lo Stato non fa il suo dovere per consentire alle persone di mantenere la loro dignità, entra in campo l’antistato. Ora stiamo camminando su questo filo”.

UNA RISPOSTA A GOLIA. Un volontario: “Rabbia e bugie. Alle signore nel servizio delle Iene abbiamo consegnato pacchi con lo Sgarrupato”. Sergio Valentino su Identitainsorgenti.com mercoledì 22 aprile 2020. Fa male. Fa male constatare come, per invidia o gelosia, si continui a denigrare Napoli e il Meridione. Ma fa ancora più male che a consentirlo e favorirlo mettendolo in pratica, sia proprio un figlio di questa terra, per la precisione uno di Torre del Greco, Giulio Golia, che dovrebbe anzi impegnarsi nello sforzo di non consentire che si continui a perpetrare il delitto di lesa maestà di un territorio che fu Capitale di bellezza e di cultura. E che in questi mesi ha dato prova di resilienza assoluta. Sciacallaggio mediatico. Non c’è una definizione più idonea, benché non siano pochi, e non certo così morbidi, gli epiteti che vengono alla mente dopo aver visto al servizio delle Iene andato in onda ieri sera, 21 aprile, su Italia 1, relativo ad un fondamentale impegno da parte della sola malavita organizzata per aiutare i cittadini napoletani in ristrettezze economiche, come sottolineanto nei titoli e nel lancio del servizio, prima ancora che lo vedessimo. La collera  però saliva man mano che il servizio andava avanti. Chi scrive, infatti, è in questo momento impegnato nella distribuzione di generi di prima necessità procurati grazie alla beneficenza di tanti incluse molte associazioni e aziende. Nessuno nega che la longa manus della camorra cerchi di infilare i suoi tentacoli ovunque, e anche il presidente della Seconda Municipalità, Francesco Chirico, aveva nei giorni scorsi messo in allerta gli organi preposti e denunciato su Facebook la paventata possibilità che questo potesse accadere. Ma al tempo stesso aveva sottolineato l’impegno di chi, come noi dello Sgarrupato e altre realtà laiche e religiose su tutto il territorio non solo locale, ma cittadino, si sta applicando con tutte le proprie energie, riuscendo, da ormai più di un mese, a raggiungere tutte le situazioni più difficili attraverso un passaparola e un ottimo sistema di comunicazione e collaborazione. Ma è chiaro che qui non c’entra tanto la camorra come tale. C’entra, piuttosto, il bisogno, la necessità, l’urgenza, da parte di una determinata e ben guidata politica del Nord, a screditare Napoli e tutto il Meridione con ogni meccanismo possibile e una macchina del fango che dura da oltre un secolo e mezzo, ma che in questo momento si sta esacerbando nel tentativo di coprire, in ogni maniera possibile, le manchevolezze e le responsabilità di intere schiere di politici, presidenti di Regione e direttori sanitari che hanno reso possibile una vera e propria carneficina di migliaia di persone in tutta l’area centro-settentrionale italiana!

Paesi, città e centri abitati trasformati in lazzaretti, e case di riposo per anziani che si sono trasformate in centri di smistamento e di contagio tra infettati e vecchietti ignari, passati in pochissimo tempo dal letto alla bara! Per non dire del tentativo di trasferire il virus al Sud attraverso quella assurda fuga di notizie che aveva portato alla diaspora verso i territori meridionali di tutti coloro che erano in alta Italia per lavoro o per studio! Illazioni? Non direi, visto che ancora oggi c’è chi ripete, cercando di apparire convincente, che è grazie all’impegno delle regioni settentrionali se il virus non si è propagato al Sud. Eh, già, perché il bello, ciò che né Salvini ne gli altri sono riusciti a mandare giù, è che al Sud il contagio si sia mantenuto “così basso”! Potranno dire quello che vogliono in relazione ai meriti e alle situazioni, ma i numeri parlano, carta canta, e il ritornello che ripete è che il Sud sregolato e disobbediente, il Sud che non obbedisce alle regole, quello della Napoli caotica e della Pignasecca affollata di gente (tutte fandonie smentite dalle stesse forze dell’ordine, a cominciare dal Comandante dei Vigili Urbani, Ciro Esposito) sta dimostrando civiltà e rispetto, e continua a seguire file distanziate ed ordinate per effettuare la spesa. E lassù, al Nord, questo non sta bene, e allora cosa fanno? Cambiano il tiro, e spostano il dito per puntarlo verso l’ormai classico cliché della malavita organizzata e della camorra che si sostituisce allo Stato! Ma questa volta siamo noi a dire che non ci stiamo a questo gioco prefabbricato, a questa macchinazione ben incartata da quelli delle Iene con l’avallo e la complicità di amichetti evidentemente davvero legati alla malavita, visto che le riprese sono state effettuate in posti specifici e che le persone intervistate dai balconi noi dello Sgarrupato le conosciamo bene e personalmente, perché da alcune di quelle signore, che ce le avevano chieste, le buste con le confezioni di spesa solidale le abbiamo portate personalmente, e questo veleno in corpo e questa cattiveria non ce la meritiamo, e non ci meritiamo le sputazzate in faccia di tutta Italia e la vanificazione dei nostri sforzi e dell’impegno profuso sul territorio, noi come tutti i volontari di ogni quartiere e di ogni Città che si stanno impegnando nel medesimo modo a supportare la popolazione per superare tutti insieme il difficile momento che stiamo vivendo! Mai come ora la rete di collaborazione tra associazioni, centri sociali e chiesa stanno producendo frutti ben visibili, e se c’è qualcuno che si sta sostituendo allo Stato troppo attaccato ai tempi lunghi della burocrazia sono proprio i benefattori e le aziende che collaborano con noi, perché noi siamo solo le braccia, ma senza il corpo di tanta generosità noi non potremmo fare un accidenti! Purtroppo non siamo in grado di risolvere i problemi pressanti, come la difficoltà di pagare il fitto o le bollette, per quelle occorrono interventi autoritari di chi è preposto all’amministrazione con manovre che ottengano una sicurezza economica e lavorativa onesta quando l’emergenza sarà terminata e ognuno dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe per andare avanti: noi possiamo solo tentare di soddisfare la fame fisica e aiutare nuclei familiari in difficoltà a mettere il piatto a  tavola e tenere alto l’umore dei bambini e la salute degli anziani. Però non prestiamo a strozzo, non fittiamo e non prestiamo, no: noi rispondiamo gratuitamente agli appelli di aiuto e corriamo là dove ci viene richiesta una mano, e forse è proprio grazie a noi che questa volta la camorra non riesce ad infilarsi come vorrebbe, e come vorrebbero lasciare intendere quelli delle Iene! Noi non ci arrendiamo ai vostri intrallazzi, e non passeremo nell’ombra per lasciare la luce a chi deve fare le passerelle politiche con l’aiuto della manovalanza di dubbia integrità morale! Come cantano i 99 Posse, non ci avrete mai come volete voi: un buon cavallo si vede sulle lunghe distanze, e noi abbiamo ancora molte energie e tanto di buono da offrire, perché più voi ci calpestate, più noi ci rialziamo e combattiamo, ed anche questa volta sarà la costanza e l’impegno a dimostrare che valiamo, perché sappiamo di valere e lo dimostreremo ancora una volta al termine di questo lungo calvario procurato dalla pandemia, quando ci risolleveremo dalla polvere come sempre più forti di prima, nonostante i vostri meschini sforzi di sopraffazione! Perdonerete la mia veemenza, ma vi assicuro che la rabbia è davvero forte. A chi segue ciò che si sta operando sul territorio, lasciamo le valutazioni. La camorra c’è, ed è indiscutibile, ma non è giusto voler dare voce solo a una parte del discorso, e lasciare un accenno a tanto impegno di volontari e a tante opere di bene, basandosi su ciò che viene detto da esperti di legalità in chiave generica e da poche voci confuse raccolte tra i vicoli o a Scampia. Un vero servizio giornalistico deve essere effettuato a 360 gradi, o è giusto e normale pensare che si tratti di un affare pilotato dall’alto. Una sola cosa vorrei dire per concludere, e la dico rivolgendomi a Giulio Golia, che ha firmato il servizio recandosi sul posto per ascoltare ciò che voleva ascoltare, e che gli era stato detto di far dire: tu sei nato qui, sei un “terrone” come noi: fa male constatare ancora una volta quanto ti sia lasciato coinvolgere da questa offesa diffamante per la tua terra, e senza vagliare fino in fondo la verità ed ascoltare ogni voce di questa battaglia sociale che si combatte quotidianamente su un territorio già martoriato… Ti sei venduto, e hai concesso ancora una volta che il Nord sputasse in faccia al Sud. Ma quello che non hai compreso, e che temo non comprenderai mai, è che hanno sputato in faccia anche a te. Te lo sei fatto questo conto? Sergio Valentino

Delirio Iene, super magistrati e El Chapo contro Napoli: “La solidarietà è camorra”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 22 Aprile 2020. A Napoli le Iene e i super magistrati vedono solo la camorra. Ci sono i clan dietro la consegna delle spesa alle famiglie bisognose. Poco importa se da settimane associazioni di volontariato, chiesa e semplici cittadini si fanno in quattro per cercare di assistere tutte quelle persone in grande difficoltà per l’emergenza coronavirus. Una rete solidale enorme quella messa in piedi a Napoli, così come in altre città d’Italia. Per Giulio Golia no. L’inviato delle Iene, tra l’altro di origine partenopea, torna spesso nella sua città con obiettivi mirati. Questa volta il servizio doveva raccontare la mano oscura della camorra dietro la solidarietà. E così è stato. Supportato dalle dichiarazioni dei tre magistrati Nicola Gratteri, Catello Maresca e Federico Cafiero de Raho, che da settimane denunciano la presenza della criminalità organizzata in questo tipo di iniziative, Golia è andato a Scampia, nei Quartieri Spagnoli e nel Rione Sanità con un unico grattacapo. “Qui dicono che c’è la camorra che consegna la spesa, è vero?”. E fa nulla se la maggior parte delle persone intervistate, dalle famiglie dei bassi agli abitanti delle Vele a padre Antonio Loffredo, sottolineano la grande rete solidale che si è attivata in queste settimane, ricordando anche le preziose pensioni dei nonni che mantengono famiglie addirittura di 5-6 persone. Per le Iene, supportate sempre dalle dichiarazioni allarmanti dei vari Gratteri e Catello Maresca, esiste solo la camorra. Bisogna raccontare solo questo anche se non ci sono prove, testimonianze dirette. Perché l’inciucio sulla criminalità organizzata, che a Napoli esiste ma, per fortuna, esiste anche tanto altro, è l’unica cosa che riesce bene. Sono quegli stereotipi che non moriranno mai perché vengono continuamente alimentati da racconti enfatizzanti, quasi cinematografici, che fanno comodo a certa stampa nazionale e internazionale. E lo sa bene Golia che addirittura, in apertura di servizio, paragona la solidarietà della camorra napoletana con quella delle organizzazioni dei narcotrafficanti messicani, dalla famiglia del Chapo Guzman al cartello del Golfo, in “prima linea” per donare generi alimentari e altro con tanto di logo dei superboss su buste e cartoni. A Napoli, ma sarà stato poco attento Golia, non abbiamo avuto il piacere di vedere buste della spesa con il loghetto o i simboli riconducibili al clan Mazzarella, ai Contini o alle famiglie criminali di Scampia. Un servizio incompleto quelle delle Iene, purtroppo. “In Messico questa è una cosa normale” spiega Gratteri “perché il Chapo era considerato Dio. Costruiva ospedali, strade e scuole, comprava così il popolo delle Favelas dove la vita dell’uomo equivale a quella della di una gallina”. Un paragone forzato, pretestuoso, che oscura quanto di buono fanno ogni giorno la maggior parte dei napoletani. Perché basta far dire a Catello Maresca che “la camorra non si muove mai per beneficenza, istituisce un debito di vita che si sconta con la vita” per andare in giro e provare a estorcere dalla bocca dei cittadini quello che si vuole. Ma il coro delle persone intervistate, caro Golia, era sempre lo stesso: “Lo Stato si è dimenticato di noi, siamo rovinati, non moriremo di coronavirus ma di fame“. C’è chi aggiunge che non vale la pena nemmeno darsi alla micro-criminalità perché “oggi in carcere si muore“. Ma l’attenzione delle telecamere delle Iene finisce però su un uomo che urla da un balcone delle Vele che “la camorra a noi ci fa campare”. Concetto ribadito da un altro residente della zona, alla prese con un problema al sistema fognario che il comune di Napoli tarda a risolvere. L’uomo precisa: “Per me è meglio la camorra che lo Stato, perché cacciava i soldi e risolveva i problemi come questo qui delle fogne. Da quando è morta la camorra stiamo pieni di merda”. Altri abitanti delle Vele ribadiscono: “Le associazioni e la Chiesa portano i pacchi, non la camorra, non esiste proprio, è finita”. Ma Golia insiste, ricorda la rete solidale di associazioni e persone perbene ma sottolinea che “inevitabilmente qualcosa sfugge”. Parole che delegittimano il lavoro dei tanti volontari che rischiano il contagio pur di garantire assistenza e beni di prima necessità a chi in questo periodo sta soffrendo. Ma lo spettacolo deve andare avanti e quindi, anche senza prove, l’ennesimo servizio stereotipato è stato portato a casa. Complimenti.

La bomba di solidarietà, parlano i ragazzi volontari di Napoli: “Non è tutto camorra”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 25 Aprile 2020. Rosanna, Fiorella, Francesco e tanti altri ragazzi di Napoli non fanno parte di associazioni né comitati. Sono semplici volontari che, insieme ad un gruppo di persone, stanno assistendo, in modo diverso, le numerose famiglie in difficoltà durante questa emergenza coronavirus. Napoli da oltre un mese si è mobilitata, mostrando quella generosità che da sempre emerge nei momenti difficili e sta dimostrando di essere più forte di quei luoghi comuni e quei racconti sensazionalistici che mirano sempre e solo a raccontare la faccia sporca della città. Perché a Napoli è esplosa “una bomba di solidarietà” racconta Rosanna Laudanno, studentessa e consigliera della II Municipalità che comprende i quartieri di Avvocata, Montecalvario, Mercato, Pendino, Porto, S. Giuseppe. “Non è nemmeno più una questione di Stato e anti-Stato, qui si parla di una figura che si è messa in mezzo, autonomamente, fatta di persone, studenti, che va dalla periferia di Napoli al centro”. Dopo il servizio delle Iene e dell’inviato Giulio Golia, “bisognava far vedere un’altra faccia della città, quella della solidarietà, che oggi a Napoli è scoppiata. C’è tanto lavoro di persone normali, forse questo spaventa: la normalità di una città che si sta dando tanto da fare”. “E’ nato tutto all’improvviso -spiega – con un appello lanciato sui social che questa volta sono stati utilizzati in modo corretto, chiamando una serie di persone, soprattutto i giovani, a contribuire a questa distribuzione di beni primari, come medicinali e spese, alle persone più anziane. Si è creato un gruppo di 10 persone che lavorano sul territorio a titolo gratuito e con l’obiettivo di rendersi utili per il quartiere”. Con Rosanna c’è un’altra giovane studentessa, Fiorella La Marca, anche lei volontaria: “Siamo persone che neanche si conoscevano ma, accomunati dallo stesso intento, abbiamo condiviso qualcosa di bello in un momento di così grande difficoltà”. Le volontarie di Salvator Rosa hanno assistito numerose persone che vivono da sole: “Abbiamo ricevuto richieste da napoletani che vivono fuori e che hanno qui mamme, papà, fratelli, zii che vivono da soli. Quello che abbiamo fatto è non lasciarli abbandonati a loro stessi. Purtroppo è facile legare Napoli solo alla criminalità organizzata”. Nella zona delle Case Nuove, lungo via Vespucci e via Marina, c’è Francesco Russo, un “normale cittadino” che si è messo a disposizione, insieme ad un gruppo di amici, in questo momento di difficoltà. “Abbiamo lavorato duramente in questi 30 giorni, a volte dormendo anche 2-3 ore ma ero soddisfatto perché mi faceva stare bene quello che stavo facendo”. Francesco racconta che “dal 20 marzo al 10 aprile abbiamo consegnato spese a 1450 famiglie napoletane”. “Davamo appuntamento nello spiazzale dell’ospedale Loreto Mare alle tante persone che ci contattavano, perché tutto questo non si racconta? Ho contatti con numerose tv nazionali per la triste vicende dei miei tre parenti scomparsi in Messico anni fa e mai più ritrovati. All’epoca volevano tutti intervistarmi, oggi invece, nonostante i tanti messaggi inviati, nessuno mi ha calcolato”. Ma come è nato tutto questo? “E’ iniziato tutto su Instagram dove in un gruppo tra amici del quartiere facemmo una piccola colletta comprando beni di prima necessità e distribuendoli alle famiglie che ne avevano bisogno. Poi molti imprenditori, gente per bene, si sono fatti avanti anche grazie ai video da noi pubblicati e hanno donato alimenti e altri generi primari”. Associare Napoli sempre e solo alla camorra “fa notizia però bisogna anche sottolineare le tante eccellenze che abbiamo: dal professore Ascierto all’ospedale costruito in tempi record. Tutto questo fa male, bisogna anche documentare con prove e non solo con le chiacchiere. Non sono ancora riuscito a trovare una connessione tra Messico, Napoli e la beneficenza”.

De Crescenzo: "Qualcuno fermi Feltri, è istigazione all'odio razziale. Denuncia e mail agli sponsor". Il noto professore ha replicato alle dichiarazioni del direttore di Libero che ha definito i "meridionali inferiori nella maggior parte dei casi". Redazione di areanapoli.it il 21 aprile 2020. Gennaro De Crescenzo, napoletano, laurea in lettere, docente di italiano e storia, giornalista, saggista, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e fondatore nel 1993 del Movimento Neoborbonico, ha attaccato duramente il direttore di Libero, il giornalista Vittorio Feltri il quale ai microfoni di Rete 4, pochi minuti fa, ha dichiarato: "I meridionali sono inferiori in molti casi. Si arrabbiano? Chissenefrega". Ecco quanto scritto da De Crescenzo: "BASTA CON FELTRI: QUALCUNO FERMI QUESTO PERSONAGGIO. È ISTIGAZIONE ALL'ODIO RAZZIALE. SERVONO MIGLIAIA DI MAIL AGLI SPONSOR DI RETEQUATTRO ("Fuori dal coro" 21/4/20) e una denuncia penale, visto che l'Ordine dei Giornalisti non fa nulla". Poi ha aggiunto: "Feltri ha poi detto: "Cosa andremmo a fare in Campania? I posteggiatori abusivi? È invidia contro la Lombardia, sono complessi di inferiorità anche se IN GRAN PARTE DEI CASI I MERIDIONALI SONO INFERIORI". Il tutto tra battutine e risatine del conduttore Mario Giordano e dell'ospite. Riusciamo a far arrivare agli sponsor migliaia di lettere? Io gli ho scritto. "Fino a quando sponsorizzerete programmi come Fuori dal Coro con ospiti razzisti come Feltri che sputa fango sui meridionali "che in gran parte dei casi sono inferiori" io non posso più acquistare i vostri prodotti. Saluti rammaricati dal Sud". 

Feltri e i meridionali inferiori. Dipocheparole il 22 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. In questo simpatico spezzone di Fuori dal Coro di Mario Giordano possiamo ammirare (si fa per dire) Vittorio Feltri mentre tenta per l’ennesima volta di scatenare contro di sé una shitstorm prendendosela con uno dei suoi bersagli preferiti: i meridionali: “Molta gente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché ha un complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, credo semplicemente che i meridionali in molti casi siano inferiori”. Subito dopo potete ammirare come Giordano finga alla grandissima un po’ di indignazione come da copione dopo la frase di Feltri mentre in realtà nella sua testa sta esultando come Tardelli dopo il goal alla Germania nel 1982 perché Feltri ha fatto il suo solito spettacolino che farà arrabbiare metà del suo pubblico e divertire l’altra metà. Poi addirittura dice: “Ma se cambiano canale è un guaio!”.

Feltri attacca i meridionali, Ziliani: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha commentato le parole di Feltri sui suoi profili ufficiali social. Redazione areanapoli.it il 22 aprile 2020. Vittorio Feltri è intervenuto nel corso della trasmissione "Fuori dal Coro" utilizzando delle discutibili parole contro i meridionali. Il direttore di Libero è un fiume in piena e continua a non digerire la possibile scelta di De Luca di chiudere i confini della Campania. "Al Sud stanno gioendo per le disgrazie del Nord. Non dovrebbero odiarci così tanto, visto che ben 14mila meridionali ogni anno si curano nelle strutture lombarde. Hanno un sentimento di rabbia e invidia nei nostri confronti perché subiscono una sorta di complesso d'inferiorità. Io però non credo ai complessi d'inferiorità, credo che in molti casi i meridionali siano inferiori". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha risposto così a Vittorio Feltri sui suoi profili ufficiali social: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti. Oltre che esseri umani". Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano, ha commentato così il pensiero di Feltri: "L'ODG capisca che quella di #Feltri, da tempo, non è libertà di opinione ma istigazione all'odio che non può essere più tollerata. Le trasmissioni deputate a creare scompiglio si nascondono dietro il suo sfacciato razzismo e lo strumentalizzano per compiere sinistri disegni".

Vittorio Feltri a Fuori dal coro: “Meridionali inferiori, subiscono il complesso”. Antonio Scali il 22 Aprile 2020 su TPI. Ieri, 21 aprile 2020 il direttore di Libero Vittorio Feltri è stato ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano. Che Feltri non sia uno che le mandi a dire e che ami le polemiche non è certo una novità, ma stavolta forse ha fatto un passo oltre, suscitando critiche unanimi. Ripercorriamo cosa è accaduto. Giordano gli ha chiesto se nei confronti della drammatica situazione in Lombardia a causa del Coronavirus ci sia stato “un po’ di accanimento“, una sorta di “godimento per i primi della classe che stanno male”. Una domanda provocatoria alla quale Feltri ha risposto senza tanti giri di parole: secondo il direttore di Libero, infatti, è evidente che ci siano persone che stanno godendo per la situazione della Lombardia. “Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità“, ha spiegato Feltri. Il giornalista ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori“. Ecco il video tratto dalla puntata di ieri di Fuori dal coro: Una frase che ha messo in imbarazzo persino Giordano, conduttore della trasmissione, che ha bonariamente rimproverato il collega: “Adesso me li fa arrabbiare davvero”. Feltri ha poi risposto: “E chi se ne frega se si arrabbiano, secondo me si arrabbiano tutti i giorni. Mi insultano e mi augurano di morire ma io dico quello che penso”. La vera preoccupazione di Giordano però non sembra essere l’indignazione per le parole appena ascoltate contro i meridionali quanto l’auditel: “Se mi cambiano canale è un guaio”. A quel punto il direttore di Libero lo ha rassicurato dicendo: “Non preoccuparti, per queste cose non cambiano canale. Stanno lì di più per odiarmi maggiormente”. Feltri purtroppo non è nuovo ad uscite del genere nei confronti del Sud. Parlando sempre del Coronavirus, infatti, il giornalista in un recente articolo su Libero aveva parlato di “brutta fine meritata” per i meridionali. Le parole di ieri a Fuori dal coro hanno indignato molte persone, che adesso chiedono la sua definitiva radiazione dall’albo dei giornalisti.

Ilaria Roncone per giornalettismo.com il 22 aprile 2020. Ieri sera a Porta a Porta è andato in onda un incontro-scontro che in molti attendevano con impazienza. Lo testimonia il web, con l’hashtag De Luca – governatore della Campania – che è rimasto in trend topic per tutta la serata. Bruno Vespa ha invitato a parlare della situazione italiana e delle Regioni di provenienza il governatore Vincenzo De Luca e il suo omonimo della Lombardia, Attilio Fontana. De Luca ha parlato in maniera chiara e cristallina facendo riferimento al fatto che una regione con mille nuovi casi al giorno non può aprire come se nulla fosse. De Luca ha iniziato a farsi notare per il suo modo di comunicare diretto ed espressivo. Quello dei lanciafiamme a chi fa feste di laurea, per intenderci. Non è stato da meno nella serata di ieri quando, ospite a Porta a Porta, ha affermato davanti a Vespa e Fontana che non si devono dire più banalità. «Noi ci dobbiamo avviare alla vita ordinaria usando la ragione. Nessuno vuole mettere le barriere in New Jersey o i cavalli di Frisia da nessuna parte». Il cavalli di Frisia altro non sono che ostacoli difensivi utilizzati ai tempi del Medioevo. Il concetto è chiaro: no alle barriere fisiche, ma serve buon senso. Nei giorni scorsi molti governatori hanno parlato per la propria regione in merito alle riapertura, compresi De Luca e Fontana. Al riapriamo tutti del lombardo si era opposto il campano, affermando che se la Lombardia avesse riaperto senza condizioni i confini della Campania si sarebbero chiusi. De Luca ha chiarito: «Si dice semplicemente che occorre una posizione di prudenza. Cominciamo a scongelare la situazione, ma manteniamo anche dei controlli». Il principio deve valere per chi va da Milano a Napoli ma anche per chi va da Napoli a Milano, chiarisce De Luca. Riapertura con cognizione di causa, quindi: «Chi va in giro senza nessun motivo serio deve essere bloccato e sanzionato. Questo è tutto, almeno per alcune settimane». Chiaro e conciso, con riferimento diretto alla Lombardia di Fontana: «Se in alcune regioni non c’è quasi più il contagio ma in altre regioni abbiamo ogni giorno mille nuovi contagi credo che un elemento di prudenza debba essere mantenuto. Questo è tutto». Un intervento ragionevole al quale è difficile ribattere, posto che economia e vita sociale devono riprendere in maniera graduale e controllata.

Dagospia il 22 aprile 2020. Da La Zanzara – Radio 24. “C’è un livore nei confronti della Lombardia che si manifesta con una rivalsa nei confronti del Nord che è più ricco e versa soldi a Roma a tutto spiano, e poi è abbastanza chiaro che spesso nel Meridione soffrano di un complesso di inferiorità. Io invece non penso che soffrano di un complesso di inferiorità, penso che siano inferiori”. Lo dice Vittorio Feltri a La Zanzara su Radio 24 parlando delle polemiche tra alcune regioni sulla Fase 2 per la riapertura dell’Italia. In che senso sono inferiori?: “Tutta la loro economia è un disastro. Da un secolo tentano disperatamente di risollevarsi e non ci riescono, e c’è un gap che non riescono a colmare. Mi sembra la fotografia della realtà”. E Vincenzo De Luca?: “Mi sta molto simpatico. Dal suo punto di vista non potrebbe fare diversamente, e tenta di tenere alto l’orgoglio campano”. “Il Sud è inferiore – dice ancora – perché sono inferiori i dati. Il 25 per cento del Pil lo produce la Lombardia, non mi sembra che altrettanto si possa dire della Campania. Ci sono più malati e contagiati perché i focolai sono scoppiati lì, tutto qui”. Sono incazzati al Sud con te: “Ma chissenefrega, facciano quello che vogliono. Il Sud ha tutte le possibilità per risollevarsi basta che copino quello che succede al Nord, lavorare un po' di più sarebbe opportuno. E comunque c’è da ricordare che 14mila napoletani ogni anno vengono a curarsi a Milano” .

Coronavirus, Vittorio Feltri contro i meridionali: "Inferiori". L'Ordine valuta il danno di immagine. Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il giornalista Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale per istigazione all'odio. Concetta Vecchio il 22 aprile 2020 su La Repubblica. Su Twitter è diventato il caso del giorno. L'Ordine dei giornalisti valuta una denuncia  "per danno d'immagine". Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale, ipotizzando una violazione della legge Mancino, che sanziona le manifestazioni di odio. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, pur non citandolo, gli ha dedicato 'Je so' pazzo di Pino Daniele, "in particolare la fine di quella canzone, che per me è poesia" e intanto pensa ad azioni legali. Il Meridione insorge contro il direttore di Libero Vittorio Feltri, che l'altra sera, durante una puntata della trasmissione "Fuori dal coro", condotta su Rete 4 da Mario Giordano, ha detto: "Perché mai dovremmo andare in Campania? A fare i parcheggiatori abusivi? I meridionali in molti casi sono inferiori". Giordano gli aveva chiesto un parere sull'annuncio del governatore campano Vincenzo De Luca, che intende chiudere i confini regionali se le regioni del Nord dovessero ripartire anzitempo.

Feltri: "Ho simpatia per De Luca, ma vorrei chiedergli se li chiude in entrata o anche in uscita? Perché a me risulta che ogni anno 14 mila campani si recano a Milano per farsi curare, perché le strutture sanitarie lombarde sono più rassicuranti di quelle campane. Io credo che nessuno di noi abbia voglia di trasferirsi in Campania"

Giordano: "Adesso mi fai arrabbiare quelli della Campania, direttore!"

Feltri: "Io non ce l'ho con  la Campania! Sto solo dicendo che io, te e altri perché dovremmo trasferirci in Campania, a fare che cosa? I parcheggiatori abusivi?"

Il conduttore quindi gli ha domandato se c''è stato un po' di accanimento nei confronti della Lombardia.

Giordano: "Se la sono presa con i primi della classe che stanno un po' male? C'è chi ha goduto?"

Feltri: "E' evidente. E' così. Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che è nutrita di invidia e di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso d'inferiorità. Io non credo ai complessi d'inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori".

Giordano: "Direttore, adesso me li fai arrabbiare davvero! Non puoi dirlo questo!"

Feltri: "Chissenefrega se si arrabbiano!"

Giordano: "Se mi cambiano canale è un guaio, però!"

Feltri: "Non cambiano canale, mi guardano invece e mi odiano di più".

Nel corso della giornata la provocazione di Feltri è diventata rapidamente un caso politico. "Il Sud per voi è solo un votificio, da cui attingere dopo un trentennio di insulti", ha detto Erasmo Palazzotto (Leu), presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Michela Rostan, Italia Viva, vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera, ha affermato che Feltri deve essere sanzionato duramente dall'Ordine dei Giornalisti. "I suoi continui attacchi volgari ai meridionali non hanno nulla a che vedere con la libertà di esprimere le proprie opinioni. Sono una vera e propria istigazione all'odio razziale".

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha commentato così: "Da romana, con origini sarde e siciliane non potrei ovviamente mai condividere le parole di Vittorio Feltri, ma lo conosco abbastanza bene da sapere che una persona della sua cultura e intelligenza non possa aver sostenuto la tesi di una presunta inferiorità antropologica dei meridionali. Sono certa che si riferisse alle condizioni di disparità economica tra nord e sud, come lui stesso ha avuto modo di chiarire, e che però la scelta dei termini sia stata sbagliata". 

Scrivono De Giovanni e Ruotolo: "A Feltri occorre ricordare i due fondamentali articoli della Costituzione, l'articolo 3 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale") e l'articolo 2 ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo"), quale che sia la Regione o zona geografica che vivono. Feltri farebbe bene a studiare la storia del nostro Paese, anche prima dell'Unità d'Italia, e così potrà scoprire quanto poco inferiori siano i campani e i meridionali in genere". Il coordinatore napoletano di Forza Italia Stanislao Lanzotti ha chiesto a Mediaset di sospenderlo. Nessuna reazione, al momento, da parte dell'azienda.

Feltri, che ha quasi mezzo milione di follower, ha poi pubblicato un tweet: "Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L'antropologia non c'entra con il portafogli. Noto che ancora una volta le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno".

"In che modo, esattamente, è stata strumentalizzata la sua frase?" gli ha ribattuto un'utente.

Ilaria Floris per adnkronos.com il 24 aprile 2020. "Non è che io ho un fatto un test di intelligenza in tutta Italia, anche perché non sarei attrezzato per farlo: mi sono limitato a dare un'occhiata ai dati Istat. E i dati Istat dicono che la Lombardia ha un reddito procapite di 37mila e rotti euro, mentre la Campania 19mila. Quindi mi sembra evidente che la Campania sia economicamente inferiore, non è contestabile". Così Vittorio Feltri commenta all'Adnkronos il video appello dei vip meridionali, postato oggi sui social dall'ideatrice Nunzia De Girolamo come risposta alle sue dichiarazioni sul sud Italia, che il giornalista ha definito "inferiore". "Loro hanno interpretato la cosa per andarmi contro, per polemica, perché sono antipatico - osserva Feltri - e hanno pensato che io misurassi il livello dei loro cervelli anziché quello del loro portafogli, e si sono arrabbiati. Se tu citi una frase decontestualizzata dal discorso generale puoi attribuire alla frase qualsiasi significato. La realtà però è quella che dico io". La sanità lombarda "anche se in questo momento vituperata, è superiore a quella del sud, tanto è vero che ogni anno 14mila campani vengono a farsi curare a Milano. Come mai, per turismo o per essere curati?", affonda Feltri. E sui numerosi esposti presentati nei suoi confronti, da quello dell'Agcom a quello dell'Ordine dei Giornalisti, fino alla denuncia del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, risponde così: "Facciano quello che vogliono, se sarò accusato avrò modo di difendermi molto agevolmente. Dopodiché, se mi vogliono perseguitare lo facciano pure".

Vittorio Feltri risponde alla lettera di Giovanni Nostro: "Meridionali inferiori ai settentrionali? Era solo un riferimento economico". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 aprile 2020. Caro Giovanni Nostro, ti ringrazio della lettera garbata inviatami. Tuttavia non condivido ognuna delle tue argomentazioni, poiché io nel dire in tv, ospite di Mario Giordano (Fuori dal coro), che i meridionali sono inferiori ai settentrionali non mi riferivo affatto alle loro qualità morali e intellettuali, bensì al fattore economico, nettamente svantaggioso rispetto al Settentrione. Ovviamente la diversità di reddito fra le due zone del Paese provoca problemi facili da appurare e difficili da risolvere. In sostanza, le mie dichiarazioni fraintese si riferivano ai portafogli e non certo ai cervelli, quindi nulla di antropologico e tutto finanziario. Pure il più tonto dei polentoni è consapevole che Benedetto Croce, Giovanni Verga, Gabriele D'Annunzio, Corrado Alvaro e Leonardo Sciascia (cito i primi nomi che mi sovvengono) non fossero delle teste di rapa, bensì personalità eccelse espresse non dalla Valle Brembana, piuttosto dal glorioso Meridione. Sta di fatto che il reddito pro capite della Campania ammonta a 19 mila euro (ISTAT), mentre quello della Lombardia è il doppio, 37 mila euro. Devo fingere di ignorare codesti dati e proclamare che a Napoli vi sono più risorse che a Milano? La realtà non è mai offensiva né ingannatrice, per cui non comprendo il motivo che induce tanta gente a prendersela con me, accusandomi di ogni nefandezza, soltanto perché mi sono limitato a sottolineare la verità. La mia esternazione pertanto non è stata infelice, semmai male interpretata da chi non riflette su quanto ascolta e su quanto legge. Qui al nord sono stati commessi molti errori, però le morti registrate negli ultimi due mesi da queste parti non sono state causate da disattenzioni degli apparati sanitari e amministrativi, bensì dal virus che ha colto chiunque di sorpresa, inclusi i virologi, molti dei quali ne sanno di meno degli infermieri, anche perché frequentano maggiormente gli studi televisivi dei laboratori scientifici. Tu, Giovanni, ami la tua gente, come io amo la mia benché spesso la critichi in quanto mi appaia in talune circostanze un po' ottusa. Per essere uomini provveduti non basta nascere a Milano o a Napoli. La categoria degli stolti è universale e si sviluppa ad ogni latitudine, nonostante talvolta ci siano cretini più cretini di altri. Dare a me dell'antimeridionale significa trascurare la mia storia e il mio operato. I vari giornali che ho diretto nel mio percorso sono sempre stati imbottiti da geniali terroni (sinonimo scherzoso) che mi hanno aiutato nelle imprese da me avviate. Non ho mai nutrito sentimenti improntati a razzismo. Non avrei potuto in quanto, peraltro, sono cresciuto in Molise, Terra del Sacramento (leggete Francesco Jovine), ovvero a Guardialfiera (provincia di Campobasso), dove ho trascorso gli anni più felici della mia esistenza. E ora ti svelo una notizia che ho sempre taciuto per riservatezza. Recentemente, un mio amico di quel paesino delizioso mi ha informato che la campana più antica del mondo si è guastata e necessita di restauro. Peccato che i guardiesi, non certo ricchi, non avessero i 15 mila euro indispensabili per restaurarla. Ispirato da un senso di gratitudine per i miei compaesani, ho inviato al parroco un bonifico pari alla menzionata cifra. Mi hanno promesso la cittadinanza onoraria, però l'ho rifiutata. Il Molise e i molisani sono nel mio cuore e mi interessa il loro affetto, non la riconoscenza. Quando mi tacciate di antimeridionalismo non mi arrabbio, vi compatisco. Disconoscete tutto di me e se dichiaro che in Bassitalia girano meno soldi che in Lombardia mi insultate. Vergognatevi. Non posso chiedere venia per quanto ho asserito né mi preme ricevere scuse poiché chi ha ragione non ha niente da temere. Gli increduli telefonino al parroco di Guardialfiera e verifichino se ho mentito.

Il desiderio nascosto di Feltri: “Vorrei vivere al Vomero”, ma la sua retorica ha stancato. Emilia Missione de Il Riformista il 26 Aprile 2020. Può capitare a tutti di sbagliare. L’importante, in fondo, è comprendere l’errore per non ripeterlo. Succede anche con i direttori di giornale di una certa esperienza che, in diretta tv, si lasciano andare a tesi ormai vetuste anche per gli sfottò da stadio: “I meridionali sono inferiori“. Ma la cosa importante, si diceva, è correggere il tiro. Come, “ahinoi!”, non ha fatto Vittorio Feltri, l’autore della brutta figura (come altro chiamarla?) di cui sopra. Oggi, sul suo Libero, scrive una finta excusatio, tanto ironica quanto retorica. “Non è vero -mi sono sbagliato – che la Campania e varie altre regioni del Mezzogiorno sono più sfortunate della opulenta Lombardia. Al contrario, a Napoli e dintorni, per citare un esempio, gronda ricchezza da tutte le parti. Non esiste lavoro nero, la miseria è solo un ricordo del passato remoto, oggi non c’è partenopeo che non viva da nababbo e non abbia un reddito di alto livello, la camorra è un fenomeno folcloristico enfatizzato dalla stampa, non vi è alcuno non in grado di mantenere la famiglia agevolmente, la città è ordinata e i cittadini disciplinati, le tasse vengono pagate con puntualità”. “Milano e Brescia – prosegue rubando lo spunto a Matilde Serao – al confronto delle comunità vesuviane sono un casino, pullulano di poveracci che si arrabattano per recuperare una manciatella di euro, abitano in catapecchie, in due stanze alloggiano in dieci persone. Insomma, un disastro che rende i residenti in Lombardia simili agli appartenenti alle tribù rom”. E poi eccolo, nero su bianco, l’emergere del desiderio represso: “Nel mio piccolo aspiro a trasferirmi al Vomero al fine di respirare un po’ di aria pura, concedermi una pizza ogni tanto per rinfrancarmi il corpo e lo spirito. Sono impaziente di migrare in Campania o a Potenza allo scopo di sollevarmi dalla fame orobica, aggravata dal virus. Confido di ottenere un posto nel ruolo di posteggiatore abusivo o contrabbandiere, meglio ancora: spero di essere assoldato, magari contando sulla raccomandazione di un’anima pia, da qualche cosca che mi dia la gioia di prendere in locazione un bilocale alle Vele che sono in vetta alle mie aspirazioni. Se poi mi fosse offerta l’occasione di recitare in un film tipo Gomorra, toccherei il cielo con un dito”. Forse aveva davvero ragione Freud, quando diceva che a chiusure psicologiche radicate, spesso corrispondono pulsioni  altrettanto forti ma di senso contrario. Forse, sotto quel cumulo di cliché da questione meridionale e di offese da bar dello sport, anche il direttore bergamasco aspira a saggiare un po’ di quella visione della vita, tutta partenopea, fatta di bellezza e contraddizione, pragmatismo e apertura mentale. E quando si potrà finalmente tornare a viaggiare, l’augurio è di vederlo davvero passeggiare tra le vie del Vomero. Soddisfare tutte le altre ambizioni, sarà difficile. Per recitare in Gomorra servono doti che, nonostante l’inclinazione naturale a una teatralità grottesca, il direttore di Libero non sembra avere.

Da leggo.it il 22 aprile 2020. «Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori» ha detto il direttore di Libero, Vittorio Feltri, in tv (Fuori dal coro, Rete 4, conduttore Mario Giordano). allungando la sua serie di considerazioni sul Sud Italia particolarmente corposa in questi giorni. Al punto da spingere l'Usigrai a scendere in campo. «Credo che non sia più sufficiente lamentarsi sui social e nei convegni di alcuni comportamenti. Ma sia l'ora dei fatti. Quindi questa mattina ho inviato un esposto al Consiglio di disciplina dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia sull'ennesima uscita offensiva di Vittorio Feltri contro i cittadini del sud Italia». Lo annuncia sui suoi profili social Vittorio Di Trapani, segretario dell'Usigrai. Nel testo dell'esposto, allegato al post, si segnalano alcuni episodi relativi a Feltri: «Il 21 aprile il giornalista Feltri - ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano - ha detto: "Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori". Questo episodio segue la pubblicazione il 19 aprile sul quotidiano Libero di un editoriale, nel quale Feltri scrive: "Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata". Di Trapani cita il precedente esposto firmato da Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo in merito ai seguenti episodi: "Il 5 aprile 2019, in merito alla formazione del governo guidato da Giuseppe Conte, in un editoriale pubblicato su Libero Vittorio Feltri scrive: Zoo di terroni ostili al Nord che li mantiene tuttì; in data 19/06/2019, in merito alle condizioni di salute Andrea Camilleri, sempre sul quotidiano Libero Feltri ha scritto: L'unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni. "A giudizio di chi vi scrive - conclude il segretario dell'Usigrai - tali episodi si configurano come violazioni delle norme deontologiche cui sono tenuti ad attenersi gli iscritti all'Ordine dei Giornalisti. Nel caso, vi prego di valutare anche la circostanza della reiterazione di tali comportamenti".

Agcom. Esposto all'Agcom da parte del senatore Sandro Ruotolo e dello scrittore Maurizio De Giovanni su quanto accaduto «nel corso della trasmissione di Rete4 'Fuori dal coro' in onda martedì 21 aprile (ieri, ndr). Il giornalista Vittorio Feltri - ospite della trasmissione - ha detto: 'Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiorì. Il conduttore della trasmissione, Mario Giordano, non ha preso le distanze da queste affermazioni, limitandosi, sorridendo, a dire: "Eh addirittura, adesso me li fai arrabbiare davvero. No direttore, non puoi dirlo questo". Il dialogo prosegue così: Feltri: "E chi se ne frega, si arrabbino. Ma chi se ne frega se si arrabbiano. Secondo me si arrabbiano tutti i giorni, mi insultano, mi augurano di morire". Giordano: "Eh, ma se cambiano canale è un guaio. Direttore, se mi cambiano canale è un guaio però". Vi chiediamo di valutare se in questo episodio e nel comportamento delle persone citate - è l'epilogo dell'esposto all'Autorità del senatore del gruppo misto Sandro Ruotolo e dello scrittore Maurizio De Giovanni - si configurino violazioni della delibera AgCom n. 157/19/Cons in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all'hate speech».

Vittorio Feltri nel 2015 era il candidato Presidente della Repubblica di Salvini e Meloni. Antonio Scarpata il 22/04/2020 su Notizie.it.  C'è chi non ricorda e chi preferisce non ricordare: nel 2015 Salvini e Meloni candidarono Vittorio Feltri al Quirinale. Oggi tacciono (o prendono tempo). È il 22 marzo 2020. Siamo nel bel mezzo di una pandemia che in poche settimane ha già causato centinaia di migliaia di morti. E chissà quante altre vite strapperà via. L’economia mondiale è in ginocchio, l’incertezza si fa avanti, spocchiosa e avida, togliendoci spesso molto più di quanto non faccia già il virus. Ed è anche in questa situazione, che il buon Giacomino Poretti definirebbe a ben donde “kafkiana”, che ci ritroviamo ancora una volta a sorprenderci di quanto straordinaria riesca ad essere la vita. Già. La vita che, per rincuorarci di quanto accade là fuori, ci sorprende di nuovo con uno dei suoi doni. È vero: là fuori si muore, ci sarà anche la fame. Ma almeno, nell’inferno generale, abbiamo Feltri e le sue lezioni di vita. La verità è che, qualche esistenza fa, dobbiamo averla combinata proprio grossa. Altrimenti tutto questo non si spiega. Ora dunque che dovrei fare? Mettermi a elencare tutte le volte che il signor Feltri si è prodigato nel manifestarci il suo amore? Sarebbe un inutile spreco di tempo, di caratteri, di energia. Ma certo, sarò anche il classico inferiore meridionale che a Milano, in tempi normali, si può incontrare ovunque. Ma davvero non ne vale la pena. Tanto lo sappiamo, Vittorio è sorgente inesauribile. Di sue massime ne abbiamo sentite. E ne sentiremo ancora e ancora. In fondo, anche il più ipocrita dei terroni ammetterebbe di essersi, un pochino, (colpevolmente) abituato. Dunque perché infierire su Feltri? Sparare sulla Croce Rossa non fa onore a nessuno. La quarantena ci priva, ogni giorno che passa, di molte cose. Alcune però le restituisce, questo è certo. Spesso nel modo più brutale. Tra queste anche un po’ di memoria storica, che se non esageri male non fa mai. E proprio mentre l’amore di Vittorio trionfa, mentre sentenzia onnipotente la fine che noi sudditi meridionali meritiamo di fare, la mente mi saluta e torna improvvisamente indietro. Al 2015. Ed è lì, in quel vecchio gennaio, che la magia si spezza. Proprio lì il romanticismo tramonta e dà spazio agli altri due illuminati. Giorgia e Matteo si avvicinano sornioni ai microfoni. Fanno sul serio, è evidente. Qualche secondo di silenzio, poi lo schiaffo: “Vittorio Feltri è il nostro candidato al Quirinale. Un candidato ideale, perché non è un cieco servitore di Bruxelles, dell’Europa, delle banche, della finanza, dell’euro. Osa criticare l’immigrazione clandestina e quindi ci sta simpatico. L’Italia ha bisogno di una persona così”. Cinque anni dopo Giorgia e Matteo tacciono (o prendono tempo). Eppure non sono pochi quelli che, in Terronia, si sono affidati a loro. Loro che promettevano di tutelare i prodotti delle loro terre, la pesca nel loro mare, i confini delle loro spiagge dall’arrivo dei cattivi dalla pelle nera. La lezione di vita di Feltri, in fondo, è tutta qui. L’infamia non si nasconde mai, resta fedele a se stessa. È la dannata memoria a breve termine, spesso, a renderla invisibile.

Frasi di Feltri contro il Sud, edicolanti calabresi rifiutano di vendere Libero. Il Quotidiano del Sud il 23 aprile 2020. Monta la protesta in qualche edicola della Calabria contro Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. In alcune edicole, infatti (sono segnalati casi a Montalto Uffugo, Castrovillari e Filadelfia), dai rispettivi titolari è stato esposto un cartello in cui si informano i clienti che non troveranno in vendita le copie di Libero. La protesta nasce a seguito delle frasi rilasciate da Feltri contro il Sud in una trasmissione televisiva, frasi stigmatizzare anche dalla presidente della Regione Calabria Jole Santelli.

Dagospia il 23 aprile 2020. DALL’ACCOUNT TWITTER DI VITTORIO FELTRI: Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L’antropologia non c’entra con il portafogli. Noto ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno.

To.Ro. per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Per l’ennesima volta Vittorio Feltri alza il livello lisergico del giornalismo italiano: pronuncia la millesima offesa ridicola e delirante verso una citta, una popolazione, un’etnia, un orientamento sessuale o una minoranza generica. E riparte il solito bailamme automatizzato: indignazioni, hashtag, denunce, prese di posizione, invocazione dell’Ordine dei giornalisti e richieste di radiazione. Conta davvero cosa abbia detto Feltri? Chi abbia offeso stavolta? Quanto sia stupido e surreale il livello delle sue argomentazioni? Tant’e: ospite di Fuori dal coro, la trasmissione di Mario Giordano, il direttore di Libero ha prodotto questo illuminante ragionamento: “Perche mai dovremmo andare in Campania? A fare i parcheggiatori abusivi? I meridionali in molti casi sono inferiori”. Bene, applausi, genio. Feltri vive di questo: di attenzione. E un generatore casuale di indignazione collettiva: dice qualcosa di palesemente idiota e offensivo cosi tutti possono parlare male di lui. C’e soltanto una cosa piu ridicola del riflesso condizionato di chi ancora prende sul serio le flatulenze di Feltri. Le misere giustificazioni di Feltri stesso, il giorno dopo: “Ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno”. Direttore, per carità.

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 24 aprile 2020. “Io credo che i meridionali in molte cose siano inferiori”, la parole pronunciate da Vittorio Feltri a Fuori dal coro su Rete 4, dopo l’attacco alla regione Campania e al presidente De Luca, sono finite al centro della scena suscitando polemiche e indignazione. Su Twitter è diventato un caso da qualche giorno, vip e politici hanno condannato le dichiarazioni del direttore di Libero, l’Ordine dei giornalisti sta valutando una denuncia “per danno d’immagine” mentre lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale, ipotizzando una violazione della legge Mancino che sanziona le manifestazioni di odio. Il padrone di casa Mario Giordano, pur rivendicando il suo rapporto con Feltri, si è dissociato con un tweet: “Visto che qualcuno me lo chiede ribadisco ciò che avevo già detto in trasmissione (per essere più chiaro): sarò sempre contento di ospitare Feltri e di lasciarlo libero di dire ciò che crede, ma non condivido il suo pensiero sui meridionali. E’ lontano anni luce da ciò che penso“. Giordano ha poi argomentato su Youtube rafforzando le sue scuse: “Voglio benissimo a tutti i meridionali e sono convinto che anche Vittorio Feltri voglia bene a tutti i meridionali. L’Italia è una sola, non esistono divisioni. Credo che Vittorio Feltri volesse dire altro, mi sono dissociato dalle cose che ha detto. Forse non sono stato abbastanza chiaro e mi dispiace. Amo tutta l’Italia, è una roba che non sta ne in cielo ne in terra. Chiedo scusa per la frase di Feltri e chiedo scusa per non avere avuto una reazione più forte. Abbiamo comunque trattato tanti altri argomenti in merito al Coronavirus, non vorrei che questa cosa detta da Feltri facesse passare in seconda piano tutto il nostro lavoro e battaglia che conduciamo da tempo con la nostra trasmissione. Abbiamo sollevato e portato alla luce di tanti problemi. Feltri è un grandissimo giornalista, ma ha detto una cosa fuori dal mondo.” Il direttore di Libero è tornato sull’argomento sempre sui social, non migliorando la sua posizione: “Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L’antropologia non c’entra con il portafogli. Noto ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno”. Intanto sui social da ieri circolano le immagini di numerose edicole che hanno scelto di non rendere più disponibile il quotidiano diretto da Feltri, a queste si sarebbe aggiunta anche una libreria di Reggio Calabria che avrebbe deciso di boicottare la vendita dei suoi libri. Giordano ha fatto sapere che si discuterà di quanto accaduto, fornendo probabilmente nuove scuse, nella prossima puntata di Fuori dal Coro. Il talk show era stato visto da 1.5 milioni con il 6,8% di share, in Campania la puntata incriminata aveva ottenuto “solo” 100 mila telespettatori.

Caso Feltri, il sindaco di Nicotera querela il giornalista mentre le edicole si rifiutano di vendere Libero. Gianluca Prestia il 24 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Le dichiarazioni rilasciate dal giornalista Vittorio Feltri che ha definito i meridionali degli esseri inferiori, sono indegne di un paese civile, razziste, volgari e semplicemente vergognose ancorché inaccettabili». Lo ha affermato il sindaco di Nicotera, Giuseppe Marasco, annunciando che la Giunta ha deliberato di dare mandato ai legali dell’Ente per presentare come Comune formale querela contro il direttore di Libero e un esposto all’Ordine dei giornalisti «che non può accettare tra i suoi ranghi gente del genere. «Feltri compie un primo colossale errore quando asserisce che i cittadini del Sud Italia, abbiano esultato alla notizia delle difficoltà delle regioni settentrionali legate all’emergenza coronavirus. Falso perché io stesso ricordo sui social le tante attestazioni di vicinanza della gente nei riguardi dei loro fratelli settentrionali così come ricordo i tanti che sono partiti, nel pieno della pandemia, per dare una mano». E le parole di Feltri hanno provocato anche la dura reazione di numerosi edicolanti. Da Montalto a Castrovillari a Filadelfia, nel Vibonese. In quest’ultimo centro a prendere posizione è stato Vincenzo Provenzano che ha affisso all’entrata della sua attività un messaggio: a caratteri maiuscoli: «In questa edicola da oggi, 23 aprile 2020, non è più in vendita il quotidiano “Libero”. Essendo meridionali inferiori, non siamo in grado di comprendere gli arguti articoli di questa testata giornalista indipendente. Ci voglia scusare il direttore (scritto volutamente in minuscolo, ndr) Feltri». E sulla locandina ha affermato: «Quel messaggio? È stato istintivo ma allo stesso tempo ragionato. Può sembrare un paradosso ma non lo è». Trattiene la rabbia quasi a stento, Provenzano – che ricopre, tra l’altro, il ruolo di presidente provinciale Fit (federazione italiana dei Tabaccai) – le cui motivazioni sono molto chiare: «Ieri mattina, alla vista del giornale ho avvertito un sentimento di rabbia perché mi sono risuonate all’orecchio le parole di Feltri. Allora ho scritto quella frase, l’ho stampata ed affissa all’entrata della mia attività. Ieri ho accettato le copie, ma le ho messe in disparte, perché ormai mi erano state recapitate ma ho fatto già comunicazione affinché da domani non me ne portino più. Questa persona ha calpestato la dignità non solo dei meridionali ma di tutti gli italiani perbene e danneggiato la categoria dei giornalisti. Leggevo che molti stanno procedendo a querelare Feltri, credo sia inevitabile, d’altronde ciò che ha detto è gravissimo e vergognoso. Mi spiace solo per quei cronisti perbene che lavorano in questo giornale e finiscono con l’essere identificati con lui».

Da tuttonapoli.net il 27 aprile 2020. “La lettura non è la principale attività al Sud”. Così ha parlato Vittorio Feltri ai microfoni di La7 durante la trasmissione 'Non è L'Arena: "Non vendono Libero al Sud? Anche prima si vendeva poco, non leggono molto i giornali del Nord ed in verità neanche quelli del Sud. La lettura non è la principale attività al Sud" ha dichiarato il direttore di Libero.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 27 aprile 2020. Vorrei girare la frittata. Sono stato linciato perché ho dichiarato in tv che i meridionali hanno meno opportunità di lavoro rispetto ai settentrionali, quindi, dal punto di vista economico, sono inferiori ai settentrionali. Visti gli esiti della mia banale e ovvia osservazione, per nulla offensiva bensì oggettiva, lungi da me l' idea di pentirmi (non saprei di cosa), vorrei ribaltare i termini del mio vituperato discorso. Non è vero - mi sono sbagliato - che la Campania e varie altre regioni del Mezzogiorno sono più sfortunate della opulenta Lombardia. Al contrario, a Napoli e dintorni, per citare un esempio, gronda ricchezza da tutte le parti. Non esiste lavoro nero, la miseria è solo un ricordo del passato remoto, oggi non c' è partenopeo che non viva da nababbo e non abbia un reddito di alto livello, la camorra è un fenomeno folcloristico enfatizzato dalla stampa, non vi è alcuno non in grado di mantenere la famiglia agevolmente, la città è ordinata e i cittadini disciplinati, le tasse vengono pagate con puntualità. Milano e Brescia al confronto delle comunità vesuviane sono un casino, pullulano di poveracci che si arrabattano per recuperare una manciatella di euro, abitano in catapecchie, in due stanze alloggiano in dieci persone. Insomma, un disastro che rende i residenti in Lombardia simili agli appartenenti alle tribù rom. Nel mio piccolo aspiro a trasferirmi al Vomero al fine di respirare un po' di aria pura, concedermi una pizza ogni tanto per rinfrancarmi il corpo e lo spirito. Sono impaziente di migrare in Campania o a Potenza allo scopo di sollevarmi dalla fame orobica, aggravata dal virus. Confido di ottenere un posto nel ruolo di posteggiatore abusivo o contrabbandiere, meglio ancora: spero di essere assoldato, magari contando sulla raccomandazione di un' anima pia, da qualche cosca che mi dia la gioia di prendere in locazione un bilocale alle Vele che sono in vetta alle mie aspirazioni. Se poi mi fosse offerta l' occasione di recitare in un film tipo Gomorra, toccherei il cielo con un dito. Tutto questo dimostra la superiorità del Sud e la inferiorità (economica, civile e sociale) delle terre padane e alpine. Noi polentoni siamo degli straccioni, e io faccio ammenda per aver parlato di inferiorità dei meridionali. Perdonatemi, il sistema produttivo del nostro Mezzogiorno rappresenta un modello eccelso ed efficiente.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 27 aprile 2020. L’Italia è un Paese stravagante e talvolta imbecille. Da quando ha adottato con spirito religioso il politicamente corretto con l'intento di onorare tutte le categorie di umani, non si capisce più niente. Parlare, così come scrivere, è diventato un esercizio pericoloso, comporta addirittura il rischio di finire in tribunale e di ricevere una condanna. È ormai vietato definire coloro che hanno la pelle scura "negri", termine caricato abusivamente di significati offensivi, e non se ne comprende la ragione, visto che dalle nostre parti, a differenza che negli Stati Uniti, le persone di colore non sono mal state maltrattate, nel senso che non è esistito II Ku Klux klan, nota associazione segreta dedita alla persecuzione degli afroamericani. Non Importa. Per imitare i nostri alleati degli States abbiamo assunto, non richiesti di giungere a tanto, le loro stesse responsabilità per guanto riguarda le violenze perpetrate al danni degli individui che presentano una pigmentazione di tonalità cioccolato. Una decisione quasi comica considerato che qui nessuno si è sognato di sopprimere uno del Senegal e dintorni. Vabbè, transeat. È un fatto che pure i nomadi non si possono chiamare zingari poiché c'è il rischio si offendano. Costoro sono rom, e non si afferra cosa diavolo tale vocabolo voglia dire, però non puoi appellarli diversamente altrimenti sono cazzi tuoi. La circostanza che i rom spesso commettano reati gravi (il furto è la loro specialità) costituisce un dettaglio su cui occorre sorvolare. Contano di più le parole degli atti materiali.

Andiamo avanti. Se qualcuno a me bergamasco dà del polentone, non è un dramma, giustamente, eppure, se io do del terrone a uno del Mezzogiorno, apriti cielo: viene giù il mondo. Mi denunciano, ml insultano, mi sommergono di Ingiurie. Perché? O osservi il politicamente corretto oppure sei un razzista, per Io più di merda. In questo campo vanto una vasta esperienza. Ma fin qui c'è solo da ridere, ammesso che ti consentano di non prendere sul serio certe manie linguistiche invero incomprensibili. Tuttavia, se qualcuno, parecchi, si accanisce contro di te in quanto sei vecchio, sui social e non solo, nessuno storce il naso. La Costituzione recita che ogni cittadino ha gli stessi diritti e va rispettato nel medesimo modo, nonostante ciò se hai superato i 60/65 anni ti riempiono di contumelie, mandando affanculo la religione del politicamente corretto. In questo periodo di virus dominante, inoltre, perfino il governo reputa chi ha oltrepassato una certa età merce avariata, indegna di essere equiparata alla specie dei giovani, al guaii sarà concesso di uscire di casa, mentre i nonni dovranno sopportare per mesi, forse di più, gli arresti domiciliari. La ratio? I guaglioni hanno diritto di disporre della propria vita come aggrada loro. I vegliardi se ne stiano tappati tra le mura domestiche e non rompano i coglioni. Infatti, qualora si ammalassero e morissero, pazienza; però se venissero ricoverati, peserebbero sulle casse della sanità Questo si, è razzismo, eppure bonario, quindi va tollerato, anzi non va neppure catalogato alla voce razzismo, bensì a quella del buonsenso. Tra pochi giorni ripartiranno le attività economiche, ma le scuole resteranno chiuse, come vuole il duce di Foggia. Cosicché le famiglie dove metteranno i bambini? Li affideranno ai nonni, i quali all'improvviso saranno rivalutati ed equiparati a esseri umani non Inferiori.

I VIP DEL SUD CONTRO FELTRI: "NON SIAMO INFERIORI". Da adnkronos.com il 24 aprile 2020. Un videomanifesto di orgoglio del Sud, dove tantissimi volti noti del sud dell'Italia "ci mettono la faccia" per rivendicare la loro appartenenza al meridione e affermare con forza di "non essere inferiori". E la risposta dei tanti personaggi noti alle dichiarazioni di Vittorio Feltri ideata da Nunzia De Gerolamo che, in una sola ora sui social, sta già diventando virale. "Ora basta, siamo stanchi di ripeterlo. Chi è nato al sud è felice ed orgoglioso di esserci nato e cresciuto. Io sono felice, orgogliosa e non mi sento inferiore a nessuno", dice all'inizio del video la De Girolamo, dando poi 'la parola' ai vip che si avvicendano nel video. "Sono del sud, e non mi sento inferiore", dice Gigi D'Alessio". "Camilleri, Tommaso Campanella, De Filippo, Benedetto Croce, De Crescenzo, Franco Rosi sono tutti meridionali -dice Marisa Laurito- ma anche al nord ci sono quelli bravi. Siamo tutti italiani, tranne gli infeltriti". "Profondamente orgogliosa di amare così tanto il sud che per me è come una pietra preziosa", aggiunge Rita Dalla Chiesa. "Caro Vittorio, tu hai un problema - dice l'attore Francesco Paolantoni- ma noi che siamo del sud e abbiamo un cuore grande, ti stiamo vicino". All'appello-video della De Girolamo hanno aderito: Biagio Izzo, Rita Dalla Chiesa, Maurizio De Giovanni, Gigi D'Alessio, Beppe Convertini, Marisa Laurito, Mariano Bruno, Claudio Amendola, Raimondo Todaro, Angelo Russo, Gigi Finizio, Maurizio Casagrande, Sal Da Vinci, Manuela Arcuri, Sergio Friscia, Francesco Paolantoni.

Gigi D'Alessio su Facebook il 24 aprile 2020: Sono meridionale e sono orgoglioso di esserlo. Spero che dopo questo episodio si possa smettere di dare spazio e dare voce ad un uomo che ormai ha perso la sua lucidità e offende solo per qualche punto di share. Mi auguro che chi ha facoltà di scegliere gli ospiti delle trasmissioni televisive non continui questa corsa al ribasso dell'intelligenza e della dignità.

Saverio Capobianco per davidemaggio.it il 24 aprile 2020. Le polemiche sulle parole pronunciate da Vittorio Feltri contro i meridionali continuano a tenere a banco, sui social (ieri Giordano si è dissociato dalle affermazioni del giornalista) come in tv. Ieri è toccato ad Al Bano – ospite di Dritto e Rovescio – dire la sua sulla vicenda. Il cantante di Cellino San Marco ha esordito contestando l’anacronistico vizio di contrapporre Nord e Sud e di giudicare le persone in base alla loro provenienza territoriale. “Io sono italiano, dal Sud mi sono spostato al Nord, al Nord ho coronato tutti i miei sogni, il Nord è dentro di me. Non mi sento come qualcuno dice inferiore, ma neanche superiore. Cretini ci stanno in un luogo e cretini ci stanno nell’altro luogo, intellettuali in un luogo e intellettuali nell’altro… ma stiamo ancora a parlare di Sud e di Nord?“ ha chiesto rassegnato Al Bano, sottolineando come Meridione e Settentrione siano solo “punti geografici” e che l’intelligenza non sia appannaggio solo del popolo dell’uno o dell’altro. Il riferimento al contestato discorso di Feltri – che ha parlato di inferiorità dei meridionali – è parso evidente. E ancor più lo è stato quando il cantante si è sbottonato definitivamente e ha lanciato la stoccata finale al giornalista: “Poi se qualcuno vuole fare gli scoop dicendo "lì sono inferiori e qua superiori" fa una figura da cacca, proprio… lui la fa!”.

Stefano De Martino, tweet a sorpresa contro Vittorio Feltri: «Qualcuno è rimasto fermo al 1800. Io voglio guardare avanti». Il Mattino Venerdì 24 Aprile 2020. La teoria, esposta da Vittorio Feltri durante la trasmissione “Fuori dal coro”, secondo cui i meridionali sarebbero inferiori ha naturalmente scatenato una pioggia di critiche e giudizi negativi, compresa la minaccia di azioni legali. Al coro dei contestatori si aggiunge Stefano De Martino, marito di Belen Rodriguez. Un cinguettio sul suo account Twitter infatti non fa il nome di Feltri, ma sicuramente riferimento alla discussa vicenda. L’ex ballerino di “Amici”, trasferitosi a Milano ma di origini napoletane ha scritto: “Io mi ricordo poche cose della storia a scuola ma mi stava antipatico Metternich, un cancelliere austriaco dell'800 che per disprezzare l'Italia disse “L'Italia è solo un'espressione geografica”, volendo intendere che, essendo divisa in tanti piccoli stati e staterelli, sempre occupati a litigare fra loro, non poteva avere nessuna considerazione. Ora a sentire certe dichiarazioni, mi sembra che più di qualcuno sia rimasto fermo al 1800. Io sinceramente voglio guardare avanti”. Un tweet a sorpresa da parte di Stefano, che di solito su questi temi si espone poco, molto apprezzato e ricondiviso dai suoi follower.

Per la prima volta, sotto la spinta di Vittorio Di Trapani (Usigrai) e per la pronta reazione del presidente Odg, Carlo Verna, si parla non solo di un deferimento disciplinare di Vittorio Feltri, colpevole di affondi particolarmente offensivi verso i meridionali, ma anche di azioni legali in sede civile e penale. E l’Ordine ha anche puntato il dito contro Mario Giordano e quei conduttori tv che calpestano la Carta dei diritti e dei doveri dei giornalisti, la deontologia fondamentale.

Il presidente dell’Ordine dei giornalisti: “Azione legale contro Feltri per difendere la categoria”. Marta Vigneri su TPI il 23 aprile 2020. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti (Odg), Carlo Verna, è intervenuto durante una puntata di Radio Punto Nuovo, una emittente campana, per commentare l’infelice uscita di Vittorio Feltri contro i meridionali al programma “Fuori dal Coro”. “Nella riunione appena terminata abbiamo deciso di rivolgerci ad un legale per tutelare l’intera categoria dei giornalisti che nulla hanno a che vedere con i comportamenti di Feltri. Intanto ci siamo relazionati con AGCOM e stiamo diffidando i conduttori da incaute ospitate qualora non si dissocino da certe espressioni” ha dichiarato Verna nel corso della puntata andata in onda ieri, mercoledì 22 aprile, sottolineando come il comportamento del direttore di Libero stia danneggiando l’immagine della categoria giornalisti. “Stiamo immaginando di intraprendere un’azione legale nei confronti di questo signore. Non ho il potere di espellere nessuno, perché c’è un giudice che fa certe valutazioni, visto che il tesserino non gli serve per l’età ed è direttore editoriale”, ha dichiarato Verna. “Quasi ogni 15 giorni arrivano segnalazioni, ma comunque non possiamo restare fermi. Il consiglio di disciplina farà la sua parte. Per quanto ci riguarda dobbiamo esternare la massima dissociazione da questi comportamenti. Più di una causa per danni d’immagine da parte di Feltri, più di interpellare l’AGCOM con sanzioni salate, più di ricordare ai conduttori che rischiano di essere complici se non si dissociano, altri poteri non ne abbiamo”, ha concluso il presidente dell’Odg, che alla luce degli ultimi articoli di Libero contro i meridionali, aveva già indirizzato, martedì 21 aprile, una lettera di “scuse” al sindaco di Napoli Luigi De Magistris in nome della categoria. Dal canto suo Feltri, il quale aveva dichiarato su Rete 4 che “i meridionali sono inferiori”, ha difeso le sue affermazioni sui social. In alcuni recenti tweet il direttore di Libero ha chiarito che le sue parole si riferivano all’oggettiva superiorità di reddito dei settentrionali rispetto ai meridionali, che nulla ha a che vedere con quella intellettuale. Ma questo non è bastato a placare le critiche di migliaia di persone, che hanno espresso la propria indignazione non solo sul web. Alcuni edicolanti hanno già deciso di interrompere la vendita del quotidiano diretto da Feltri nei propri esercizi. “Ingiusto arricchire i razzisti che ci mancano di rispetto”, ha dichiarato oggi la proprietaria di una libreria-edicola in provincia di Cosenza, invitando Feltri a leggere l’articolo tre della Costituzione. “Essendo meridionali inferiori non siamo in grado di comprendere gli arguti articoli di questa testata giornalistica indipendente”, si legge nella foto di un cartello affisso fuori da un’edicola, che circola in queste ore sui social.

Feltri e le offese ai meridionali in TV, l’AGCOM avvia un procedimento sanzionatorio.  Francesco Di Lieto  il 24 Aprile 2020 su Ciavula.it. Il Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha rilevato, a seguito del monitoraggio degli uffici relativo alla trasmissione “Fuori dal Coro”, alcuni elementi critici nella puntata andata in onda su Rete4 il 21 aprile 2020. Il Consiglio ha ritenuto che specifici passaggi, nelle modalità di conduzione dell’intervista al Direttore di un quotidiano nazionale, costituiscano una violazione dei principi e degli obblighi del Regolamento di contrasto all’“hatespeech” di cui alla Delibera 157/19/CONS. In particolare, nel corso di un’intervista nella quale sono stati espressi giudizi sommari e ingiustificati volti a riproporre stereotipi relativi alla provenienza territoriale dei cittadini italiani, il comportamento del conduttore, ad avviso dell’Autorità, non ha assicurato il rispetto dei principi e delle disposizioni cui devono adeguarsi i fornitori di servizi media audiovisivi e radiofonici soggetti alla giurisdizione italiana nei programmi di informazione e intrattenimento, per assicurare il rispetto della dignità umana e il principio di non discriminazione e contrasto alle espressioni di odio, come definite alla lett. n) dell’art. 1 della Delibera 157/19/CONS. Le violazioni riscontrate – peraltro oggetto di una comunicazione anche da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti, nel rispetto della separazione di responsabilità e di funzioni – sono state valutate dall’Autorità particolarmente gravi, anche in ragione della circostanza che gli episodi di ripetuta discriminazione e valutazione stereotipata nei confronti di gruppi di cittadini sono avvenuti nell’ambito di un dialogo tra due giornalisti tenuti, per altro verso, al rispetto delle norme e attribuzioni dell’Ordine, richiamate dallo stesso art. 2, comma 2, del Regolamento. In conclusione, in considerazione della circostanza che la trasmissione è già stata oggetto di accertamento della violazione del Regolamento nel mese di marzo ai sensi dell’art. 7 comma 1 della delibera 157/19/CONS, per infrazioni contestate già nel luglio 2019, e che in quella sede si è convenuto sulla necessità di continuare a monitorarne l’andamento, l’Autorità ha giudicato la violazione sistematica e particolarmente grave e ha avviato pertanto nei confronti della Società RTI un procedimento sanzionatorio ai sensi dell’art.7 comma 2 del Regolamento. 

E ti pareva che i simili non solidarizzassero...

Scontro tra Annalisa Chirico e Luca Telese sul Sud: «Moralmente inferiore». Duro scambio di battute tra i due giornalisti ospiti a «Non è l’Arena». CorriereTv il 26 aprile 2020. Scontro tra Annalisa Chirico e Luca Telese sul Sud, dopo le dichiarazioni di Vittorio Feltri, a «Non è l’Arena». Chirico ha sostenuto che «un popolo debole economicamente, rischia di essere moralmente inferiore», scatenando la reazione di Telese e del conduttore Massimo Giletti: «Non lo permetto».

Chirico, giornalista pugliese: “Meridionali economicamente inferiori lo diventano anche moralmente. Sono anche più pigri”. Da Chiara Di Tommaso il 27 Aprile 2020 su vesuviolive.it. Ancora un attacco ai meridionali. Questa volta arriva da Annalisa Chirico, una giornalista pugliese che, nel corso del programma Non è l’Arena condotto da Massimo Giletti, è intervenuta sulle parole di Vittorio Feltri cercando di difenderlo. Ma il tentativo è apparso più che goffo e ha scatenato la reazione dei presenti, in primis di Luca Telese. Per la giornalista Chirico i meridionali non sono solo economicamente inferiori ma questo comporta anche esserlo moralmente. Dichiarazioni che hanno scatenato una dura presa di posizione da parte di Telese e una reazione sui social e di tutti i meridionali che si sono sentiti offesi. Queste le parole della giornalista del Foglio: “Feltri ha il diritto di esprimere le sue opinioni. A me piace il dibattito, un agorà pubblica dove ci sono anche le opinioni più dissacranti. Ma credo che Feltri ponesse un tema vero, poi forse un po’ ha smorzato, cioè che un popolo che economicamente è più debole, più lento, alla lunga rischia di essere anche moralmente inferiore. Ora mi spiego”. Dichiarazioni che hanno scatenato subito una dura presa di posizione da parte di Telese che ha interrotto la giornalista.

“Sei pugliese, ma vergognati! Stai dicendo le peggio cose, ma siamo scherzando?”.

La Chirico però non ha ritrattato e ha spiegato, peggiorando la situazione, cosa intendesse: “Io sono pugliese, sono l’unica meridionale in questa stanza e in questo studio. Il senso del discorso è questo: c’è una parte d’Italia dove per morale intendo la laboriosità di un popolo, l’intraprendenza, la voglia di fare e vengono al Nord a lavorare…”.

Interviene Giletti: “I mie operai la maggior parte sono meridionali, sono gente in gamba che si fa un mazzo così. Il problema è della classe dirigente, delle regioni, non di un popolo che merita rispetto”.

Ma la Chirico insiste nello spiegare la sua idea di meridionali moralmente inferiori: “Se la gente che vive in quelle regioni fa fatica a trovare un lavoro, vive di reddito di cittadinanza, deve chiedere il favore al politico anche per andare in ospedale e avere le cure adeguate, quella gente perde fiducia nelle istituzioni, nella classe dirigente e diventa più fiacca anche nel morale”.

A questo punto Telese sbotta: “Ma che stiamo dicendo? Inferiore lo dicono i nazisti. Ricacciati in bocca quella parola”.

Ma la giornalista non ci sta a ritrattare: “Non mi ricaccio nessuna parola in bocca perché rivendico il diritto di poter parlare liberamente e di parlare di come c’è una parte d’Italia che fa fatica economicamente e per questo rischia di perdere anche la voglia di fare e risultare più pigra“.

Ancora una volta il dibattito su come l’emergenza coronavirus è affrontata in Italia si sposta su uno scontro Nord-Sud che sta sfuggendo di mano anche a molti giornalisti. A differenza di quanto successe con Giordano che non interruppe Feltri, questa volta le dichiarazioni della Chirico sono state subito bloccate dal conduttore e dagli ospiti in studio. Segno che qualcosa sta cambiando.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2020. Caro Dago, te la faccio breve breve. Vittorio Feltri – uno che conosco come le mie tasche per avere scritto a lungo su due giornali da lui diretti – è semplicemente “uno che ci fa”. Misura le spacconate e le bravate, una dopo l’altra, perché sa che di quelle si nutre la civiltà massmediatica. Lascia andare, come fosse una bomba a scoppio ritardato, l’affermazione che i meridionali sono “inferiori” e per una settimana almeno ecco che c’è chi manda appelli accorati a difesa dei meridionali, chi vuole Vittorio morto, chi fa riferimento ai sacri valori della Costituzione, chi si appicca al petto la medaglia di meridionale, chi vuole deferire Vittorio e persino Mario Giordano a non so quale supremo Tribunale. Dio che sciocchezze. Te ne sta parlando uno che non si vanta affatto di essere meridionale e che dalla sua città di origine (Catania) è fuggito a gambe levate nel gennaio 1970. Uno che se glielo chiedono che cos’è, risponde di essere italiano. Uno che ha nel sangue i libri di Leonardo Sciascia, Luigi Pirandello, Vitaliano Brancati e tanti altri. Diciamo semplicemente che non è facile essere meridionali, e diciamo pure che il nord ha conosciuto lo sviluppo che ha conosciuto a forza di meridionali immigrati che avevano due coglioni grossi così. Tutte cose che Vittorio sa a puntino, anche se la prossima volta che capiterà l’occasione ne sparerà un’altra delle sue. Anzi non vede l’ora. Perché è così che funzionano i massmedia, bellezza. Vittorio avesse scritto un poema superiore alla “Divina Commedia”, sui giornali si sarebbe guadagnato tutt’al più un trafiletto. Abbiamo tali e tanti problemi, lasciamo stare le logomachie. Uno di questi problemi è che ci sono due Italie, l’una che finisce a Roma e l’altra che comincia a Roma e questo dopo 150 anni di presunta Unità d’Italia. E’ questa la discussione drammatica cui dobbiamo apprestarci e senza che nessuno abbia le spiegazioni bell’e pronte. E’ questa la discussione che dobbiamo tenere aperta nella mente e nel cuore di noi cittadini italiani del terzo millennio. Ciao Vittorio, ciao direttore, ti voglio bene.

Anna Lauritano per it.blastingnews.com il 24 aprile 2020. Sta facendo molto discutere la frase pronunciata da Vittorio Feltri nel corso della puntata di "Fuori dal coro" del 21 aprile. "I meridionali sono inferiori", ha dichiarato senza mezzi termini il direttore di 'Libero', scatenando la reazione del mondo giornalistico, del popolo del web e non solo, che ora minacciano di adire le vie legali. Già nella giornata di ieri, 22 aprile, Feltri ha provato a giustificare le sue esternazioni alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" in onda su Radio 24, spiegando al conduttore Giuseppe Cruciani di aver fatto riferimento solo ad un divario economico tra nord e sud. La precisazione, però, non è servita a placare le polemiche e in sua difesa è intervenuto oggi proprio Cruciani, nel corso della nuova puntata de "La Zanzara". Secondo il giornalista e conduttore radiofonico, le parole di Feltri sarebbero state fraintese e non avrebbe alcun senso portare la vicenda in tribunale. Nel corso della sua trasmissione Cruciani è intervenuto in difesa di Feltri dopo le esternazioni nei confronti dei meridionali. "Viva la libertà di espressione", ha esordito il conduttore radiofonico, aggiungendo che le parole del direttore di Libero sono state fraintese. Secondo lui i meridionali non sono un'entità e non c'è niente di scandaloso nelle esternazioni di Feltri, che avrebbe semplicemente sottolineato "un'indubbia inferiorità economica" del sud rispetto al nord. "Siete ridicoli. Può anche aver esagerato dicendo queste cose. Io non ci credo - ha affermato Cruciani - lui intendeva inferiori economicamente e non dal punto di vista antropologico". Le opinioni di Feltri sui meridionali hanno scatenato diverse polemiche in tutta Italia e non sono mancate le minacce di azioni legali. Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno dato mandato al loro legale per agire in sede civile e penale contro Feltri per "istigazione all'odio"; anche l'Ordine dei giornalisti, sta valutando cosa fare, ritenendo che il comportamento del direttore di Libero rischia di danneggiare l'immagine dell'intera categoria. Cruciani, invece, non è arretrato di un millimetro nella difesa di Feltri, ritenendo assurdo portare la vicenda in tribunale e sostenendo che le minacce di azioni legali contro Feltri siano senza alcun fondamento. "Ma lo vogliono denunciare per che cosa? Per attentato ai meridionali?" ha ironizzato il conduttore, mandando nuovamente in onda il chiarimento avvenuto ieri ai microfoni di Radio 24. A replicare a Cruciani ci ha pensato David Parenzo, il co-conduttore del programma radiofonico La Zanzara. "Le frasi di Feltri sono assolutamente vergognose e voi che lo difendete siete scandalosi. Dovrebbe chiedere scusa a tutti i meridionali per quello che ha detto", ha commentato Parenzo, accusando Cruciani di aver coccolato come al solito il direttore di Libero. "Servono provvedimenti e l'Ordine dei Giornalisti fa bene ad intervenire", ha concluso il co-conduttore.

Da liberoquotidiano.it il 27 aprile 2020. "Il razzista sei tu, sei razzista con Vittorio Feltri". A Non è l'Arena si parla della polemica sui meridionali innescata dalle parole del direttore di Libero, e Alessandro Sallusti lo difende a spada tratta, travolgendo con una arringa infuocata Luca Telese. "Feltri intendeva dire che i meridionali sono inferiori economicamente, e i numeri del Pil sono lì a dimostrarlo - incalza il direttore del Giornale, in collegamento con Massimo Giletti -. Sai chi è Feltri? Io l'ho conosciuto. Passa per essere ateo, ma il suo miglior amico è un prete. Sai cos'ha scritto di lui Marcello Veneziani, uomo del Sud? 'Gli rinfaccio tutto tranne essere razzista, non mi ha mai censurato'". E a Telese non resta che balbettare.

Il pericoloso virus della censura. Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto. Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori è altrettanto vero. Alessandro Sallusti, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale.  Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto. Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori, arrivando a dire in tv, ospite di Giordano, a proposito della guerra sul Coronavirus tra Lombardia e Campania, che «i meridionali in molti casi sono inferiori», è altrettanto vero. Che molti italiani, meridionali e non, ascoltando quelle parole, si siano offesi è vero e legittimo; che altrettanti meridionali e non abbiano sorriso e riso divertiti è indiscutibile, ne conosco più d'uno. Ma che tale Vittorio Di Trapani, segretario del sindacato dei giornalisti Rai, detto Usigrai, e l'immancabile neo senatore pd Sandro Ruotolo chiedano di processare il direttore di Libero e il conduttore di Fuori dal Coro e di espellerli dall'Ordine dei giornalisti è la prova che in Italia come diceva Ennio Flaiano - la situazione è grave, ma non è seria. Parlandone solo per un secondo seriamente, trovo che le bizzarre parole di Feltri escano dai canoni e dalla correttezza professionale molto ma molto meno comunque meno pericolosamente - dei faziosi servizi filogovernativi che ogni giorno ci scodellano Tg1 e Tg3, cosa che, questa sì, dovrebbe turbare ma così non è - la sensibilità dell'Usigrai. E trovo che Sandro Ruotolo, in quanto senatore del Pd, quindi di maggioranza, prima di processare gli altri dovrebbe affrontare lui il tribunale della storia per l'incapacità del suo partito di rimettere in moto e in sicurezza l'Italia azzoppata dal Coronavirus. Nel febbraio del 1960 Indro Montanelli, in una intervista a Le Figaro, ebbe a dire: «Ah! La Sicilia! Voi avete l'Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani». In risposta, la Sicilia venne tappezzata di manifesti a forma di necrologio: «Per le ingiurie lanciate contro l'intero popolo siciliano sarà rifiutata la vendita di giornali contenenti articoli di Indro Montanelli». E la cosa finì lì. Belli quei tempi, i tempi alla don Camillo e Peppone, liberi cazzotti e libere goliardate. Oggi ci ritroviamo con Ruotolo e Di Trapani, esposti, codici etici, giudici e tribunali. Ma piantatela lì, lasciate che siano i lettori e i telespettatori a decidere, come allora fecero i siciliani con Montanelli, se continuare o no a seguire gli sketch di Giordano e Feltri. Si chiama libertà e, tranquilli, le app-spie sul telecomando il Pd ancora non le ha previste.

IL CORO DEGLI AMICI DI MERENDA: FELTRI RAZZISTA? MA QUANDO MAI. Raffaele Vescera il 24.04.2020 su Movimento 24 agosto. La piena confessione pubblica del pregiudizio razziale nutrito contro i meridionali, resa da Feltri, cui è seguita una inaspettata e fortissima reazione degli offesi, ha scatenato il panico nel campo dei compagni di merenda dell’indifendibile direttore di Libero il quale, persi i freni dell’ipocrisia, se n’è uscito con l’affermazione che i meridionali sono “inferiori”. Affermazione “ingenerosa”, “inopportuna”, “fraintesa” “sbagliata” “sfuggita dai denti” “voleva dire altro” “è campanilismo”, come ha detto la presidente calabrese Santelli a capo di una giunta paraleghista,  insieme ad altre interessate riduzioni del significato chiarissimo della sfregiante affermazione. Di tutto pur di non definirla per quella che realmente è: razzista. Un razzismo, manifesto o ipocritamente mascherato, condiviso dall’intero sistema del “prima il Nord”. Feltri, spaventato e sorpreso dalla potente reazione a suon di denunce penali per istigazione all’odio razziale, dice che no, voleva significare ben altro, lui parlava di “inferiorità economica”, non antropologica, perché lui ama la canzone napoletana (sic!). Ma le parole sono pietre, in questo caso macigni che testimoniano in modo inequivocabile l’intenzione di definire i meridionali inferiori, tout court. Smarcati e smarriti, i sostenitori di Feltri, a partire dal duo neomelodico Meloni-Salvini, che ha recentemente proposto Vittorio Feltri alla carica, udite udite, di presidente della Repubblica, vanno in panico, provocato dal timore che l’amico Feltri, svelando la verità sul fascioleghista pensiero, potesse far perdere loro milioni di voti. A partire dalla signora Meloni che, dicendosi lei stessa di origini meridionali, non potrebbe mai condividere il senso razziale delle parole di Feltri da lei conosciuto come uomo di “grande cultura” (sic!) che certamente intendeva dire “inferiorità economica”. Ricordiamo alla Meloni che Feltri si vanta di avere un busto di Mussolini sulla scrivania. Sarà questa la ragione della corrispondenza di amorosi sensi? E, visto che domani si celebra il 25 aprile, ricordiamo alla Meloni le parole del loro mai rinnegato duce che, al primo bombardamento alleato su Napoli, chiedendosi se i partenopei stessero ancora suonando i mandolini, si disse lieto che la città avesse notti così severe. Così, secondo Mussolini “la razza sarebbe diventata più dura e la guerra avrebbe fatto dei napoletani un popolo nordico.” Il razzismo, o la lotta “di razza”, è un elemento fondante dell’ideologia fascista, confermato nelle nefaste leggi razziali del 1938.  E questa è storia. E poi che dire della dissociazione da Feltri di Salvini, condannato lui stesso per razzismo per i cori vergognosi contro i napoletani alla festa della lega nord, napoletani che secondo il capo leghista puzzavano più dei cani? E che dire poi dei suoi compari leghisti, Calderoli anch’egli condannato per razzismo, e Borghezio, Bossi, Centinaio,  invocanti l’eruzione del Vesuvio per sterminare i meridionali, definiti volta per volta “topi da derattizzare” “merdacce mediterranee” “terroni di merda” e altre amene dichiarazioni d’affetto? Che dire delle parole “i medici calabresi valgono meno e vanno pagati meno” pronunciate in Tv dalla signora Ceccardi, europarlamentare leghista, ora proposta da Salvini quale candidata a presidente della Toscana? Normali insulti razziali che, non provocando il quarantotto di adesso, non sono stati mai condannati da Salvini. Ora l’aria è cambiata, il Sud s’è scetato, e l’aria s’è fatta tosta per i suoi nemici, la scalata al potere della peggio politica italiana ha bisogno di voti, allora alé, fanno di necessità virtù e per finta apprezzano  i meridionali.

Lettera di Massimiliano Parente a Dagospia il 24 aprile 2020. Caro Dago, sono amico di Vittorio Feltri ormai da molti anni, e i miei amici di sinistra mi dicono «Ma come fai a essere amico di Vittorio Feltri?». Io rispondo sempre «Non sapete cosa vi perdete», e comunque si facciano i cazzi loro. Tra l’altro casomai dovrebbero chiedersi come faccia Feltri a essere amico mio, che sono bisessuale, ateo, scientifico fino al midollo, odiato sia dalla sinistra che dalla destra. Un lettore ieri mi ha scritto che non leggerà più i miei libri perché ne ho scritto uno con Feltri, e io gli ho detto chissenefrega, sei tu che non mi piaci ai miei libri non loro a te, leggiti la Murgia. Non sempre siamo d’accordo, io e Vittorio. Nell’ultima telefonata abbiamo discusso su Matteo Salvini, che per lui è il meno peggio e per me sono tutti uno peggio dell’altro, forse Salvini peggio di tutti perché gli altri sono il nulla ma lui è il nulla che bacia il cuore immacolato di Maria tra un selfie dove addenta un panino e l’altro dove si traveste da poliziotto, quando non viene a suonarti al citofono per accusarti di spaccio, un politico con un guardaroba da vomito e con una culturina da ultras da stadio che rispetto a lui perfino Zingaretti sembra un professore anziché il mio commercialista. Ma la polemica sui meridionali non la capisco. Come ha fatto notare Giuseppe Cruciani, era ovvio che Vittorio intendesse inferiori economicamente, e lì non c’è dubbio. Gli si obietta che molti meridionali nel dopoguerra sono andati a lavorare al Nord, appunto, perché al Nord c’era lavoro, mentre il Sud si regge ancora sulla mafia. Quella mafia che Roberto Saviano denunciò di essere arrivata al Nord, anche qui appunto, esportata dal Sud. Oltretutto si è scandalizzato Parenzo, cartina tornasole del fatto che abbia ragione Feltri. Senza contare che Feltri, tra l’altro, è la persona più liberale che io conosca. Con lui parliamo spesso contro l’idiozia delle religioni (cosa fondamentale per essere davvero miei amici), gli ho presentato il mio compagno e la mia compagna, ci ha invitati spesso insieme a cena e sempre offrendo lui perché non sono mai riuscito a offrirgli neppure un caffè, e per il resto non ha nessuno schema mentale o ideologico che hanno molti altri, di destra o di sinistra che siano. La prima volta che glielo dissi, che ho un fidanzato, una fidanzata, e diverse amanti (all’epoca, oggi mi sono rotto i coglioni anche del sesso, al massimo vado da una prostituta, costa meno di una donna), mi rispose: «Pensa che fortuna, e io che sono solo etero e devo accontentarmi solo delle donne». Con lui puoi parlare di tutto, e lui parla di tutto in privato e anche in pubblico, facendo irritare i benpensanti perché non hanno capito che, esistenzialmente, non gliene frega niente di un cazzo, e dice quello che vuole, e come direttore, io ne sono la prova, ti dà anche la libertà che vuoi. Quando difende gli omosessuali e le unioni civili nessuno dice niente, quando dice «frocio» come dicono anche gli omosessuali tra di loro scatta l’indignazione. Ti racconto anche un aneddoto che non sa nessuno, è privato ma significativo. Quando Feltri passò da Libero al Giornale, si portò dietro un gruppo di suoi giornalisti fidati, più uno scrittore, me, non certo di destra, e lasciandomi carta bianca come ha sempre fatto. All’epoca la mia collaborazione con Libero, in forma cessione diritti d’autore, era di sedicimila euro l’anno. Quando mi chiamò il direttore amministrativo del Giornale, Gianni di Giore, mi chiese quanto volevo. Io pensai di alzare la posta e proposi venticinquemila. Dopo due ore Di Giore mi richiamò: «Il direttore non è d’accordo». «Capisco», dissi rassegnato. «E quindi quanto mi date?». «Dice che sei troppo bravo, ti propone quarantacinquemila». Non mi è mai successo nella vita, figuriamoci a Roma, dove vivo, dove casomai ti propongono collaborazioni dove non ti pagano proprio o il minimo indispensabile. Unica cosa che non capisco di Vittorio è perché non manda affanculo l’ordine dei giornalisti. Una volta, per un articolo che io scrissi su Libero o sul Giornale, non ricordo, partì anche una mozione dell’Ordine contro di me per espellermi, senza accorgersi che non sono iscritto all’Ordine, non sono neppure un pubblicista, sono uno scrittore che riceve solo compensi di diritti d’autore. Ma credo che quella di Vittorio sia una questione di principio. Potrebbe andarsene quando vuole, è il direttore più pagato d’Italia da decenni, ma forse continuare a restare nell’Ordine, senza che l’Ordine riesca a cacciarlo, perché è il suo modo di mandarli affanculo ogni giorno. Baci, Massimiliano Parente

I meridionali non sono inferiori, ma Feltri va difeso. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Vedremo se un giudice riterrà Vittorio Feltri responsabile di qualche delitto per aver dichiarato di credere «che i meridionali, in molti casi, siano inferiori». Non gli faccio un piacere riportando fedelmente la frase che lui, successivamente, nel prevedibile canaio che ne è venuto, ha rivendicato con la precisazione secondo cui i meridionali sarebbero «economicamente» inferiori. L’ha pronunciata, e tant’è: ciascuno ha il diritto di sdegnarsene; come ciascuno, al contrario, ha il diritto di prendere le parti di Feltri quando lamenta che le sue affermazioni «vengono strumentalizzate in modo indegno». Ma se un giudice condannerà Vittorio Feltri facendo appello alla cosiddetta legge Mancino, secondo le istigazioni di alcuni parlamentari e sulla scorta dei suggerimenti in tutta fretta messi a disposizione dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, avremo una sentenza magari legittima e tuttavia pronunciata applicando una normativa molto pericolosamente illiberale e profondamente ingiusta. Perché quella legge non punisce unicamente gli atti di discriminazione razziale o etnica, o di incitazione a commetterne: ma anche la sola diffusione di idee fondate su pretese di superiorità razziale o etnica. Idee pessime, che ripugnano a qualsiasi coscienza civile e certamente anche a quella di Vittorio Feltri, ma idee: che è giustissimo contrastare nei luoghi del dibattito pubblico, ma che è sbagliatissimo processare e condannare in un’aula di tribunale. Peggio, poi, è che a un’altra specie di processo si voglia giungere su iniziativa dell’Ordine dei giornalisti, questo apparato di diretta derivazione fascista che ha legittimato i costumi più immondi e screditanti di una categoria – quella dei giornalisti, appunto – non solo assai poco illustre, vista la quantità di ignoranti e molto spesso pressoché analfabeti che la compongono, ma abituata a distruggere impunemente l’onore e la reputazione delle persone senza che questa pratica trovi freno nella giustizia che sistematicamente la protegge (ricordiamo che in questo caro Paese il diritto alla reputazione personale “recede”, cioè va a farsi benedire, davanti al cosiddetto diritto di cronaca). Il giornalismo corporato, infatti, lamenta che la propria immagine sarebbe stata danneggiata dalle dichiarazioni di Vittorio Feltri, evidentemente sul presupposto che si può far parte di quell’Ordine a patto che si abbiano le idee giuste e che nel manifestarle si adottino le maniere ammesse dal giornalismo patentato. È inutile dire che Vittorio Feltri non ha bisogno di questa difesa. Che infatti non si rivolge a lui né a quel che ha detto: ma al principio per cui in un Paese civile la libertà di esprimere un’idea non si coarta con un processo, né si subordina alle valutazioni di un burocrate che si incarica di sanzionare l’idea illegittima. Un principio cui dovrebbero tenere tutti, anche quelli che detestano Feltri di tutto cuore.

NON SOLO FELTRI: IL NORD SI ARROCCA, ANCHE NEL SISTEMA DEI MEDIA. E REPUBBLICA SCIOPERA. Giancarlo Pugliese, Circolo M24A-ET “Marche” il 24.04.2020 su movimento24agosto.it. No. Decisamente non è un buon momento per l’informazione italiana. Il caso-Feltri? Non è quello il punto. C’è uno strano fenomeno che sta avvenendo nei media italiani. In un momento del tutto inedito nella storia repubblicana, con un Paese alle prese con un’emergenza sanitaria senza precedenti dai tempi della Spagnola, da più parti si stanno osservando, con sempre maggiore frequenza e virulenza, quotidiani attacchi verso il Sud. Nei modi più subdoli , non di rado con plateale sprezzo del ridicolo. E non solo su Tele-Lega, meglio nota come Rete4, ma anche sul Servizio Pubblico. Ce n’è abbastanza per interrogarsi profondamente sulle ragioni di tutto questo. Ma intanto, mentre l'Italia sta, forse per la prima volta, seriamente pensando di boicottare Vittorio Feltri, proprio ieri il suo figliolo Mattia Feltri ha assunto il ruolo di nuovo direttore del seguito Huffington Post, al posto di Lucia Annunziata, dimessasi al momento del passaggio di proprietà in Gedi. Per carità, mai sia detto che le “colpe” dei padri debbano ricadere sui figli. Ma siamo sicuri che quelle siano considerare “colpe”? A questo proposito, in un silenzio che non promette nulla di buono, il mondo dell’informazione è interessato da cambiamenti che invece meriterebbero le maggiori attenzioni del pubblico. Si sta infatti delineando una pericolosa concentrazione di potere nei media italiani. L’Huffington Post fa parte del Gruppo Gedi, nato nel 2016 dalla fusione tra il Gruppo Espresso-Repubblica (controllato dai De Benedetti) e la Italiana Editrice (vicina alla famiglia Agnelli) facente capo alla Stampa e a numerose testate locali. Pochi giorni fa, dopo un lungo iter, il controllo della maggioranza delle azioni del Gruppo è passato di mano dai De Benedetti agli Agnelli, ramo Elkann. I risultati si notano subito: Verdelli, direttore di Repubblica, viene defenestrato dopo poco più di un anno dal suo subentro a Mario Calabresi, e proprio nel giorno in cui "scadevano" le minacce di morte ricevute, che ne avevano imposto la protezione sotto scorta. Gli subentra l'ex direttore della Stampa, Maurizio Molinari. Non a caso, ieri, venerdì 24 Aprile, vigilia della Liberazione, la Repubblica non è uscita. Peraltro, nel giorno più importante della settimana, quello di edizione del seguìto inserto "Il Venerdì". Un fatto più unico che raro nella oltre quarantennale storia della testata.  Il Comitato dei giornalisti del quotidiano, nel comunicato emesso ieri, non fa molti giri di parole:  “la Redazione non può non rilevare come la scelta dell’editore cada in un momento mai visto prima per il Paese e per tutto il pianeta, aggrediti da una pandemia che sta seminando dolore e morte e sta chiamando tutti noi a uno sforzo straordinario. E proprio nel giorno indicato come data della morte del direttore Verdelli dagli anonimi che ormai da mesi lo minacciano, tanto da spingere il Viminale ad assegnargli una scorta. Una tempistica quanto meno imbarazzante.” Sullo sfondo, una chiara preoccupazione in merito non solo a eventuali “piani di ristrutturazione aziendale”, ma anche alle garanzie di indipendenza del giornale. Un allarme cui anche noi del Movimento 24 Agosto riteniamo sia opportuno tenere puntati i fari. Allo stesso modo in cui, tornando alla premessa, non ci sfugge un malcelato tentativo, che è ormai ben più di un’ipotesi: quello di deviare l’attenzione da problemi e responsabilità evidenziate dalle regioni del Nord nella gestione della pandemia. Evidenze gravi, gravissime. Rese impossibili da eludere dalla drammatica impietosità dei numeri. E che, fra inchieste della Magistratura e gli appelli, sempre più condivisi, a commissariare la sanità lombarda, potrebbero arrecare gravi danni ai referenti politici del potere nord-centrico, pregiudicandone la tenuta. Il punto, dunque, non è il Feltri che accetta di farsi mandare consapevolmente allo sbaraglio per svolgere una parte, con fin troppa solerzia, in questo giochino banale e terra-terra. Il punto è un altro. La percezione è che, in un momento come questo, il sistema mediatico "filonordico" si stia  arroccando pericolosamente. Con grande dispendio di uomini e mezzi. E questo ci preoccupa non poco.

A che serve far sentire la propria voce? Serve, serve...Pino Aprile il 23 aprile 2020 su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale. Il Tg3, nella prima edizione raggiungibile del telegiornale, si è scusato, ieri, per la offensiva frase del servizio sulla gambizzazione avvenuta a Ostia, un atto criminale che non avrebbe fatto notizia a Napoli, Palermo, Reggio Calabria, secondo il collega della Rai. La cosa ha suscitato ovvia indignazione e le nostre proteste: i circoli del nostro Movimento per l'Equità Territoriale si sono mossi, inviando lettere di segnalazione e protesta alla Rai. Molti dei nostri iscritti hanno fatto altrettanto, pur vivendo e lavorando all'estero (ma seguono i tiggì Rai). Il Tg3 ha preso atto della scivolata (sono giornalista, una parola infelice può scappare a tutti) e si è doverosamente scusato, riconoscendo l'errore (Enrico Mentana, forse dovrebbe riflettere su questo: nessuno è “diminuito” se gli capita di sbagliare e lo dice; al contrario, è negare l'evidenza e replicare stizziti che fa perdere stima e autorevolezza). Quindi, male ha fatto il collega a pronunciare quella frase, bene hanno fatto i nostri iscritti a non farla passare, bene ha fatto il Tg3 ad ammettere che può succedere ed è successo. Questa è civiltà.

TUTTI GLI INSULTI “ITALIANI” CONTRO IL SUD. Di Giovanni Palmulli su movimento24agosto.it il 23.04.2020. Martedì 21 aprile, il TG3 delle 14.00 mandava in onda un servizio su una gambizzazione avvenuta ad Ostia (Roma) che esordiva così: “A Napoli, Palermo o Reggio Calabria forse una gambizzazione non fa notizia, ma ad Ostia si!”. Immediatamente venivamo allertati da decine di segnalazioni ed altrettanto immediatamente partivamo con il redigere una lettera di protesta al TG3 corredata dalle firme di iscritti e simpatizzanti. Già ieri mattina, raccolte centinaia di firme, la lettera veniva inviata al destinatario. E ieri sera, in coda al TG delle 19.00 la bella sorpresa: l’annunciatrice si scusava per quel servizio male impostato e in cui sicuramente era stato detto quel che non si voleva dire ottenendo l’effetto contrario. Diceva che erano pervenute tante mail di protesta da parte di cittadini e ascoltatori e quindi chiedeva scusa. Possiamo così dire che abbiamo così vinto una piccola battaglia, ma siamo ben coscienti che la guerra, per noi appena iniziata, è ancora lunga, molto lunga e viene da lontano. A partire dal 21 febbraio, giorno in cui il Coronavirus è apparso ufficialmente in Italia e nei TG, c’è stato un attacco continuo e crescente al Sud, un attacco vecchio di 160 anni, ma allo stesso tempo nuovo in quanto, già dall’esordio di questo mostruoso 2020, ha subito una forte e ben orchestrata accelerazione. Da quel giorno infatti le carognate mediatiche contro il Sud, si sono susseguite a ritmo sempre più incalzante. Eccone un breve e molto incompleto elenco:

22/02 – I tifosi bresciani, in piena epidemia, cantano allo stadio dove giocava il Napoli “Terun, terun, La rovina dell’Italia siete voi!” con i media che riportano il fatto senza sanzioni o indignazione.

Stesso giorno, esordisce Feltri: “Invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera!”

E Mentana rincara la dose: “Il virus è devastante perché colpisce le zone produttive del paese!”

E a Milano appare uno striscione: “NAPOLETANI CORONAVIRUS” (evidentemente era quello il loro auspicio quando ancora non sapevano di essere loro il focolaio dell’epidemia).

23/02 – Il Nord attacca: “Il Molise mette al bando lombardi e veneti!” (e infatti il governo annullò il provvedimento del Molise).

25/02 – Da una parte i TG lodano la Cina per aver sigillato subito il focolaio e dall’altra si dà dell’invasata alla signora di Ischia che chiedeva ai turisti lombardoveneti di non sbarcare sull’isola.

26/02 – Vittorio Sgarbi afferma che i presidenti delle regioni del Nord non devono chiudersi dando al Sud un’occasione d’oro per avvantaggiarsi.

28/02 - Rita dalla Chiesa lancia una fatwa contro l’intera isola d’Ischia: “Amici del Nord, ci sono tanti di quei posti belli in Italia che possiamo vivere anche se non andiamo ad Ischia. Ricordiamocelo soprattutto per le vacanze estive!” Un ricatto bello e buono, una rappresaglia esplicita chiesta agli “amici del Nord”.

01/03 – Paolo Liguori (direttore di Studio Aperto) afferma: “Senza la Lombardia la Sicilia può finire solo in Africa!”

04/03 – Un Feltri gongolante per l’arrivo del virus anche al Sud titola: “L’infezione crea l’unità d’Italia! Il virus alla conquista del Sud!”

Intanto l’8 marzo c’è la grande fuga dal Nord, ma il ministro Boccia afferma: “Nessuna quarantena per chi torna al Sud!” e impugna la delibera della regione Puglia.

15/03 – Ancora Rita della Chiesa afferma: “Sono nata a Casoria (NA), nata e scappata, perché sono di Parma!”

18/03 – Entra in scena il professor Galli che si scaglia contro il collega Ascierto di Napoli: “Non avete scoperto nulla. Quel protocollo è stato testato già al Nord!”

19/03 – Calenda: “Le regioni del Sud sono inefficienti nella gestione del Servizio Sanitario!”

Stesso giorno Striscia la Notizia, tramite la voce di Gerry Scotti, irride al prof. Ascierto e dà ragione al prof. Galli.

20/03 – Gerry Scotti si scusa e dice: “Il testo è stato scritto dagli autori. Ascierto è stato un signore. Galli voleva fare il primo della classe.”

Nello stesso giorno Barbara Palombelli afferma: “Il virus si è diffuso al Nord perché lì ci sono più cittadini ligi e abituati a lavorare!”

Il Fatto Quotidiano sbatte in prima pagina i presunti 249 assenteisti negli ospedali di Napoli.

Lucia Annunziata, nonostante da Napoli arrivi la smentita, riprende la notizia portando il numero a 300.

21/03 – Servizio dalla Pignasecca, quartiere di Napoli ad alta densità abitativa, nel quale, tramite immagini piatte, si cerca di dimostrare che a Napoli non si rispetta il divieto di uscire. Nel contempo non si è visto un servizio, dico uno, su un qualunque centro commerciale del Nord dove gli affollamenti erano di sicuro maggiori e con la stessa motivazione della spesa.

23/03 – Mattino 5: “Il Sud impari dal Nord per l’emergenza!”

26/03 - Myrta Merlino: “Ieri sono stata a Napoli e c’erano assembramenti pazzeschi!”

29/03 – Feltri: “I meridionali accusano i settentrionali di essere gli untori, ma dimenticano di essere venuti spontaneamente il Lombardia. Potevano restare dalle loro parti…”

02/04 – Mentana: “Meridionali ridicoli e piagnoni. Imparate l’italiano!”

03/04 – Libero: “Traffico di pastiere e gente in strada. Ha ragione De Luca. Lanciafiamme!”

03/04 – Senaldi: “Il Corona colpisce l’italia per punirci di aver votato 5S. Ma Dio deve essere un po’ strabico perché sta falcidiando le terre che meno si sono fatte abbindolare ovvero il Nord!”

03/04 – Mattino 5 parla dell’indisciplina di Napoli e per rafforzare l’affermazione mostra una strada affollata … di Genova.

04/04 – La giornalista lamenta il fatto che la gente di Napoli va a fare la spesa (!) e passa di negozio in negozio, fruttivendolo, salumiere ecc.

08/04 – Myrta Merlino: “Non ce lo aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli!”

08/04 – Tiziana Panella: “I meridionali sono stati fortunati a non aver avuto la stessa ondata di contagi del Nord!”

14/04 – ANSA – “Boom di multati per Pasqua in lockdown, 14000 sanzioni”. Il tutto mentre scorrono immagini di Napoli. Il servizio viene poi ripreso da tutti i TG nazionali.

15/04 – Agorà – Serena Bortone: “Voglio sapere se Napoli è vuota o no, se si rispettano le regole o no! Peraltro – rivolgendosi alla inviata Elena Biggioggero – tu sei milanese, hai uno sguardo nordico…”

Elena Biggioggero, in evidente difficoltà, risponde: “In questo momento si stanno comportando… (voleva dire ‘bene’ ma non se l’è sentita di dirlo) cioè, in realtà non c’è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso!” (due camioncini di consegne merci e un autobus).

16/04 – Si scusano entrambe, ma la Bortone in maniera molto sofferta: “Qualche parola sbagliata può scappare…” (guarda caso sempre a nostro danno…)

17/04 – Beppe Severgnini: “Verso la Lombardia sento astio e crudeltà. Forse è odio verso i primi della classe…”

18/04 – TG1 – Prima di far partire un servizio sugli applausi che la gente di Barra e Ponticelli ha riservato alla Polizia intervenuta a sanificare le strade, l’annunciatrice ricorda (a completo sproposito) che in precedenti occasioni la gente buttava mobili sulla Polizia dai balconi.

18/04 – Ancora la Palombelli a Stasera Italia chiede a Sgarbi: “De Luca vuole chiudere la Campania. Riflesso giusto o impazzimento generale?” Risponde Vittorio Sgarbi: “De Luca conosce i napoletani quindi tende a credere che non saranno rispettosi di nessuna regola!”

18/04 – Il Giornale: “Il muro di Napoli. Manicomio De Luca” e nell’articolo di Lottieri: “Una Campania che decide da sé e che alza le proprie frontiere non è compatibile con il generoso assegno che essa incassa annualmente!” (altro ricatto).

18/04 – Senaldi invitato (?) a Stasera Italia: “Ovvio che al Sud non si pongono il problema riaperture. Non hanno nulla da riaprire!”

19/04 – Feltri: “Al Nord vogliono andare a lavorare, non scendere in strada a suonare il mandolino”. E ancora: “GREGARI, NEMICI, STORNELLATORI, non esagerate, c’è aria di rivolta al Nord contro la dittatura Roman-Foggiana. Attenzione, MANUTENGOLI INGORDI, non tirate troppo la corda del giochino che vi ha consentito di succhiare denaro dalle tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande. Voi senza di noi andate a ramengo! Datevi una regolata o farete una brutta fine, peraltro meritata!”

19/04: Porro: “L’Italia può fare a meno della Campania!”

20/04 – Gallera: “Il Sud lo abbiamo salvato noi da Milano! Se noi non ci fossimo opposti con rigidità al governo, il Sud il 7 marzo non sarebbe stato chiuso!”

21/04 – Feltri: “Il Sud gioisce che i settentrionali siano stati massacrati dal virus!” E ancora: “La Lombardia vuole riaprire perché vive del lavoro dei suoi cittadini, non di sussidi e lavoro nero!” E poi il gravissimo affondo finale: “Io non credo ai complessi di inferiorità, ma credo che i meridionali in molti casi siano inferiori!” E tutto questo mentre il conduttore “fuori dal coro”, Mario Giordano, se la ride.

21/04 – Feltri: “In Lombardia ripartenza scaglionata. In Campania ripartenza scoglionata!”

22/04 – Le jene – Giulio Golia confeziona un servizio al fine di dimostrare, contro ogni evidenza, che i cestini della solidarietà e i pacchi alimentari siano in realtà di provenienza camorristica.

22/04 – Feltri: “Senza la Lombardia in Campania si morirebbe di fame!”

Ora, considerando che il COVID per il 90% ha colpito al Nord, non si capisce il perché di tanta attenzione al Sud. Non si capisce… Beh, pensandoci bene, si capisce eccome! Tutta questa sfilza di citazioni di personaggi presenti di continuo su TG e programmi di intrattenimento su tutte le reti, nessuna esclusa, è soltanto la messa in pratica di una strategia tendente a far passare l’idea di un Sud incapace, corrotto, e gestito da organizzazioni criminali e camorriste, e pertanto non meritevole di alcun sostegno, tantomeno finanziario, da parte dello Stato. 'Serve a dirottare verso il Nord, con l'avallo dell'opinione pubblica, i fondi che arriveranno'. Nord a favore del quale, viceversa, c’è stata una caterva di servizi sulla sua generosità, operosità, efficienza ed eroismo. Un Nord quindi meritevole di quei fondi a scapito di un Sud brutto, sporco e cattivo. DISCREDITARE PER GESTIRE!

Siamo di fronte ad una ORGANIZZAZIONE MEDIATICA CRIMINALE che vuole distruggere una parte d’Italia per favorirne l’altra. Distruggere il tessuto economico e sociale distruggendone l’immagine. Bisogna capire che ogni parola cattiva contro di noi significa la chiusura di una attività economica. Quando il TG ti dice che le gambizzazioni al Sud non fanno neanche più notizia, sono tutte presenze turistiche che vengono meno al Sud e confluiscono al Nord. Quando ti dicono che ai quartieri spagnoli comanda la camorra, c’è una pizzeria, un B&B che chiude e che apre al Nord!

E allora ecco come si spiega il bombardamento mediatico a tappeto cui stiamo assistendo in questi giorni. Si, è vero che abbiamo ottenuto le scuse di Gerry Scotti, di Serena Bortone ed Elena Biggioggero, e ieri sera del TG3, ma loro vogliono applicare la tattica del bombardamento a tappeto per far impazzire la nostra contraerea delle proteste, in modo che non dobbiamo più sapere da che parte sparare. Ma noi dobbiamo individuare il centro pensante, nevralgico, la cabina di regia di questa macchina del fango ben oliata che permette a un lestofante reiterato come Feltri e a tutti i suoi accoliti, di avere sempre un palcoscenico dal quale parlare e spargere veleno. Certo, in alcuni casi, potrebbe trattarsi di pregiudizi inconsci e automatici da parte di alcuni giornalisti e divulgatori, ma anche in questo caso il pregiudizio è anch’esso frutto di questa macchina del fango che, ricordiamolo, non lavora da oggi, ma è all’opera addirittura da prima della cosiddetta unità d’Italia e che sicuramente ha contribuito a realizzarla e nella maniera peggiore. Oggi sembra addirittura che la democrazia sia vigente solo quando parlano loro per massacrarci (ed infatti nessuno gli si oppone), mentre viene sospesa e diventa dittatura quando parliamo noi per difenderci. Infatti Zaia, una delle menti dell’Autonomia differenziata, dice: “Se la Campania chiude i confini, è Sud contro Nord e non viceversa. Fanno autonomia!” Quindi prepariamoci ad alzare il tiro. Dobbiamo colpire la centrale operativa che organizza questo bombardamento. Colpire e distruggere i cannoni potrebbe non bastare!

Grillo come Feltri ma tutti zitti. Redazione La Rampa il 24 Aprile 2020. Il web ha memoria lunga. Utilizzarlo con bulimia può esporre a rischi seri. Quando meno lo si aspetta, argomenti e parole usate in un tempo non sospetto, possono ripresentarsi a mo’ di boomerang e smontare, nello spazio effimero di un attimo, una critica sulla quale magari si stanno capitalizzando insperate fortune mediatiche. L’antologia degli sbugiardamenti è lunghissima e trabocca di nomi pesanti: della politica, dello sport, del jet set. Oggi a fare i conti col rimbalzo della rete sono Beppe Grillo e i suoi accoliti grillini. D’accordo, la coerenza non è il loro forte e, se c’è una cosa della quale proprio non gliene può fregar di meno, è perdere la faccia. Lo dimostra una sfilza di incredibili capriole su Tav, Tap, Mes, #MaicolPD e via dicendo. Da qualche giorno le truppe del comico genovese, rilanciano le infelici parole di Vittorio Feltri, la nota firma del giornalismo italiano, sul conto di campani e meridionali. Per la verità l’ex direttore de ‘Il Giornale’ è preso di mira, a giusta ragione, da un fronte largo e variegato. Cecchini professionisti dello spessore di Maurizio De Giovanni, hanno imbracciato la tastiera a difesa dei vessilli partenopei e sudisti, tradendo anche il malcelato fine, il vero obiettivo delle loro invettive, di attribuire efficacia retroattiva all’endorsement con cui Meloni e Salvini, anni addietro, ipotizzavano una candidatura al Colle del giornalista bergamasco. Le schiere pentastellate non sono da meno. Hanno iscritto d’ufficio Feltri ai ranghi del partito di Salvini. Il leader della Lega ha voglia di affannarsi in queste ore il per marcare le distanze dal fumantino Direttore: vano esercizio. Di Maio e company, specialisti della giustizia sommaria, non ammettono ragioni e utilizzano, senza distinzioni, la medesima gogna per Feltri e per Salvini. La bocca si devono sciacquare prima di esprimere giudizi sui napoletani, ripetono come una litania, confidando nella brama di linciaggio della rete. Poi però, come una cambiale dimenticata, spunta un video di Grillo in cui si afferma che i napoletani sono disonesti e che, per trovarne uno privo di questo requisito, occorre una modificazione genetica. Ed è in quel preciso istante che i grillini, che la faccia l’hanno perso da tempo, si accorgono di aver smarrito anche la parola…

Nord contro Sud, la secessione dei ricchi sarebbe più odiosa di quella degli immuni. Marco Demarco de Il Riformista il 22 Aprile 2020. Sarebbe veramente il colmo se, dopo aver denunciato la secessione dei ricchi, il Mezzogiorno mettesse in campo la secessione degli immuni. Sarebbe come se, dopo aver criticato Veneto e Lombardia per il regionalismo differenziato, tra l’altro costituzionalmente protetto, il Sud proponesse, tra le vie di uscita dalla crisi, la differenziazione da coronavirus. E dopo aver messo in croce i leghisti del Nord, perché indifferenti a ogni forma di solidarietà nazionale, lanciasse, nel momento di maggior bisogno, un sonoro e vigliacco “si salvi chi può”. Per giunta accompagnato da discutibili rimandi morali e da catastrofiche profezie legate allo shopping e agli aperitivi sui navigli. Eppure, è esattamente quello che sta succedendo. O, se non proprio quello che sta succedendo, ciò che gli altri, e tra questi i Fontana e gli Zaia, stanno capendo. A titolo di esempio, provo a mettere in fila tre prese di posizione venute dal Sud in questi ultimi giorni . Vincenzo De Luca, in piena emergenza: “Se il Nord apre, noi chiudiamo le frontiere della Campania”. Roberto Saviano, mentre ancora si contano i morti: “La Lombardia ha collassato perché ha distrutto il suo tessuto sociale, e questo non lo ha fatto il virus, è successo prima”. Il costituzionalista Massimo Villone, certo di aver già trovato il colpevole del sistema lombardo appena messo sotto processo da Saviano: “Fontana ha già messo a terra 12mila bare…”. Proprio così: ha messo a terra, come fa un becchino. Più dei concetti, forse traditi da parole inappropriate sfuggite al controllo, a colpire sono i toni e i tempi delle dichiarazioni. Saviano scrive addirittura che il Caso – scritto con la maiuscola, inteso come destino – “è stato ed è parte della vita dei meridionali” i quali, pagando di persona, “non sono mai riusciti a farlo sparire dalle proprie vite”. Vuol dire che come a noi sono capitati i terremoti e il colera, ora è giusto – nel senso di proporzionato – che il virus colpisca i settentrionali? Non oso crederlo. Anzi, voglio sperare di aver capito male. Ma mi colpisce il commento di Vittorio Feltri, ieri su Libero, proprio a proposito delle polemiche in corso. “I meridionali – ha scritto mandandoci tutti violentemente a quel paese – interpretano questa congiuntura come un giudizio universale, pensano che la giustizia divina ha regolato conti in sospeso da anni”. Il fato di Saviano, appunto. Mi preoccupa, poi, che a differenza di Fontana (“Caro De Luca, noi non abbiamo chiuso le frontiere ai 14mila campani che ogni anno vengono a curarsi in Lombardia”) il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, un altro leghista, usi argomenti molto più minacciosi. “Ogni anno – dice – versiamo più di quanto riceviamo in servizi, e quest’anno è nostra intenzione trattenere i mille e duecento milioni che solitamente versiamo a Roma”. E se anche la Lombardia e il Veneto si mettessero su questa stessa strada? Se proprio ora che i centri studi delle grandi banche ci avvertono di un possibile calo del 35% della domanda turistica al Sud, i veneti e i lombardi insistessero nel ricordarci che sono loro a pagare buona parte delle tasse italiane? Certo, anche quelle di Fedriga sono solo parole. Ma se al Sud risuonano come odiose e provocatorie, bisognerebbe almeno chiedersi come mai ci meravigliamo dell’effetto che provocano al Nord quelle pronunciate dai nostri rappresentanti istituzionali e dai nostri intellettuali. È comunque un buon segno che De Luca e Fontana ieri abbiano deciso di confrontarsi in tv, arbitro Bruno Vespa.

Da “AdnKronos” il 22 aprile 2020. (…) Ironico, come suo solito, lo scrittore Ottavio Cappellani: "Povero Feltri, io lo compatisco. Non ha avuto una vita facile" ha detto all’Adnkronos. "Rimasto vedovo in giovane età - aggiunge - pensa che il reddito sia tutto quello che conta nella vita. Conduce una vita triste e squallida tra Milano e Bergamo, l’unico svago sono le stupide giacche con le quali si sente eleganti mentre sembra un 'wannabe' uno che vorrebbe essere elegante ma non ce la fa". "Non gli direi mai che è un essere inferiore - conclude Cappellani-perché obiettivamente lo è, e queste sono cose che non si dicono. Non puoi dire a un cafone che è un cafone. Lo dici con lo sguardo ai tuoi simili. Il cafone resta cafone anche se glielo dici...".

L’Istantanea – Le uscite di Feltri e gli obiettivi di chi lo spinge oltre i confini della misura. Antonello Caporale il 22 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano. Non so perché Vittorio Feltri abbia scelto – oramai purtroppo da tempo – un degrado linguistico così acuto da apparire preoccupante. Forse è una forma di sadismo verbale, forse qualcosa di più grave. Ad ogni modo, sarebbero fatti suoi se altri non cercassero, piuttosto scelleratamente, di portarlo oltre i confini della misura. Ieri sera Mario Giordano, nella sua trasmissione su Retequattro, ha scelto che fosse proprio lui a commentare il confronto nord-sud e Feltri lo ha accontentato. La rivalsa dei meridionali contro il nord, oggi in difficoltà per via del Covid, nasce da “un senso di invidia e di inferiorità”. Poi ha aggiunto: “I meridionali sono inferiori”. Più grave di questa affermazione di per sé incommentabile, mi pare la chiosa di Giordano: “No direttore, adesso me li fai arrabbiare davvero… Cambiano canale, è un guaio”. Ecco il guaio: cambiano canale, lo share ne risente, la pubblicità cala. Per me comunque resta un mistero perché i talk show di Retequattro debbano somigliare a un pub a fine serata.

Ps: annoto che Feltri, al tempo dell’elezione del presidente della Repubblica, è stato persino candidato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni al Quirinale. Ma si trattava certamente di uno scherzo. 

Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.

Lezzi: “L’on. Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci”. Alfredo Di Costanzoil 19 aprile 2020 su iltabloid.it. Così Barbara Lezzi sulla sua pagina Facebook: L’ on. Antonio Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci tacciandoli di essere nullafacenti e mantenuti mentre intasca finanziamenti pubblici, dal 2003 al 2017, per la bellezza di 53 milioni di Euro. Poco più di 3 milioni l’anno. Poco meno di 260 mila Euro al mese. Una scena pietosa ieri sera resa ancora più squallida dalla conduttrice. Senaldi attacca gratuitamente i cittadini del Mezzogiorno d’Italia. Una provocazione inutile in quel contesto ma che io non lascio passare. Detesto le ingiustizie e ancor di più detesto chi succhia dalle casse pubbliche e poi fa il liberale dei miei stivali con la pelle degli altri. Il grande e coraggioso Senaldi si cimenta in un piagnisteo da premio Oscar chiedendo aiuto alla conduttrice, Veronica Gentili: “gne gne gne, non mi hai difeso.” Guardate il video, dice davvero così. E lì la Gentili a scusarsi quasi prostrata senza minimamente prendere in considerazione, magari per un retaggio di una lontana buona educazione, di chiedere scusa al 34% della popolazione del Paese che era stata bellamente infamata dal suo gradito ospite. Non paghi entrambi, hanno ribadito, in chiusura, le scuse per mio conto (io non mi scuso affatto) ad Angelucci sol perché avevo parlato della sua grigia reputazione. Questo mi ha molto infastidita non per il merito che qualifica lo spessore (infinitamente basso) dei due giornalisti che confondono la sacra libertà d’opinione con la libertà di insulto ma perché non mi ha permesso di rispondere all’altro giornalista “molto indipendente” che ha accusato il m5s di non volere le grandi industrie come, ad esempio, l’ex Ilva. Beh, Barisoni, caro il mio competente giornalista economico, se le multinazionali devono venire in Italia a farsi i fatti loro scudate da una bella immunità penale e amministrativa, in me avranno sempre un nemico. Ma chiunque voglia far crescere il nostro Paese nel rispetto della legge e della salute dei miei concittadini è il benvenuto. Chiaro? Spero di sì. Per il resto, sugli interessi passivi che non contano, sulla politica monetaria contrapposta agli eurobond come se la prima potesse durare per sempre, sulla lezioncina con la quale voleva svelarmi il gran segreto che gli eurobond sono prestiti ( il MES che lei vorrebbe cosa sarebbe, Barisoni?) magari avremo qualche altra occasione per discuterne, sempre se riuscirà a liberarsi dal desiderio che la muove più per contraddirmi che per fare informazione. Perché le Barisonate “competenti” sono la ragione per cui finora abbiamo ingoiato austerità e trattati capestro. A Maria Giovanna Maglie che pettegola in mia assenza glielo regaliamo un velo pietoso, anzi penoso? Ma sì, perché negarlo.

Carlo Tarallo per Dagospia il 22 aprile 2020. “Follow the money”, dice il saggio. Segui il denaro e arriverai alla verità. In questo caso, se si vuole andare oltre le sparate cabarettistiche che in queste settimane alcuni giornalisti e politici del Nord stanno mettendo in scena contro le regioni meridionali, che fino ad ora hanno contrastato con maggiore efficacia l’epidemia da coronavirus, bisogna ricordare bene cosa è il “turismo sanitario”. Comprendere il meccanismo è semplicissimo, come bere un bicchiere di vino (anche due) e andare in tv a sparare contro i “meridionali inferiori”. Il tema è questo. Il Servizio sanitario nazionale è articolato su base regionale, per cui ogni cittadino ha diritto a prestazioni gratuite, ovviamente nei limiti dei ticket così via, su tutto il territorio nazionale, ma chi paga è la Regione di residenza. Quindi il signor Gennaro Esposito, residente a Napoli, ha diritto a farsi curare in Calabria, in Trentino o in Lombardia, ma i costi saranno a carico della Regione Campania. Cosa accade, dunque: ogni anno, per effetto di questa migrazione sanitaria, il saldo è negativo, per la Regione Campania,per circa 320 milioni di euro. Soldi che ogni anno la Campania paga alle regioni del Nord dove vanno a farsi curare i pazienti campani. Ogni anno, dalle regioni del Sud partono centinaia di migliaia di malati che vanno a farsi curare al Nord, portando con sé un vero e proprio fiume di denaro. Secondo il Sole24Ore, le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro in relazione a questo fenomeno (dati 2017) sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni). Se si aggiunge a tutto ciò l’indotto rappresentato dai familiari dei pazienti, che spendono soldi per vitto, alloggio, spostamenti, annessi e connessi, la cifra aumenta ancora. Naturalmente, la scelta di andare a curarsi al Nord è dettata dalle croniche inefficienze della sanità meridionale, in particolare riguardo alle lunghissime liste d’attesa, ma c’è anche un fattore per così dire “emotivo”, che spinge i meridionali a fidarsi di più della sanità settentrionale. Anzi, per meglio dire, spingeva. Con l’epidemia coronavirus che ha flagellato il Nord, infatti, questo fiume di denaro è destinato a ridursi e di molto: innanzitutto, per i prossimi mesi i cittadini del Sud avranno oggettive difficoltà a raggiungere le strutture sanitarie del Nord; in secondo luogo, ci sarà un’inevitabile preoccupazione dovuta al coronavirus; in terzo luogo, la sanità settentrionale dal punto di vista dell’immagine esce male da questa emergenza, mentre quella meridionale sta dimostrando di poter raggiungere risultati di eccellenza. Meno turisti della salute, meno soldi che vanno dalle regioni del Sud a quelle del Nord, quindi. Questo è quanto, il resto è cabaret. 

TURISMO SANITARIO. I PAZIENTI CON LA VALIGIA SPOSTANO 4,6 MILIARDI DI EURO DA SUD A NORD. Barbara Gobbi per amp.ilsole24ore.com il 31 Luglio 2019. Le Regioni del Nord come una calamita per il Sud Italia. La mobilità sanitaria, il fenomeno dei pazienti con la valigia in cerca di assistenza migliore che muove ogni anno circa un milione di malati più i familiari, si traduce in un fiume di denaro pari nel 2017 a 4,6 miliardi di euro, certificati dalla Conferenza delle Regioni nei mesi scorsi previa compensazione dei saldi. E il flusso ha una direzione chiara: l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata - mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Un quadro che racchiude sfaccettature fisiologiche ma anche patologiche, imputabili alle liste d’attesa o alla scarsa qualità dell'assistenza nelle Regioni di partenza, da cui riesce a “fuggire” per curarsi solo chi può permetterselo. A fare il punto è la Fondazione Gimbe: «Abbiamo analizzato – spiega il presidente Nino Cartabellotta – esclusivamente i dati economici della mobilità sanitaria aggregati in crediti, debiti e relativi saldi, in attesa di ottenere il prospetto dei flussi integrali trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute, che permetterebbero di analizzare la distribuzione delle tipologie di prestazioni erogate in mobilità, la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato e la Regione di residenza dei cittadini si curano fuori casa». Elementi fondamentali per scovare il «lato oscuro» della mobilità sanitaria e su cui non a caso indagherà il Patto per la salute in via di definizione tra governo e Regioni. Perché il fenomeno è la cartina di tornasole di un'Italia delle cure spaccata in due, dove troppo spesso si emigra in assenza di alternative valide nella propria realtà. E «in tempi di regionalismo differenziato – avvisa Cartabellotta – il report Gimbe non solo dimostra che il flusso di denaro scorre prevalentemente da Sud a Nord, ma che anche se la bozza di Patto per la Salute prevede misure per migliorare la governance, difficilmente la fuga in avanti delle tre Regioni che cumulano l'88% del saldo attivo potrà ridurre l'impatto di un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche».

Sei Regioni vantano crediti superiori a 200 milioni di euro (mobilità attiva): in testa Lombardia (25,5%) ed Emilia Romagna (12,6%) che insieme contribuiscono ad oltre 1/3 della mobilità attiva. Un ulteriore 29,2% viene attratto da Veneto (8,6%), Lazio (7,8%), Toscana (7,5%) e Piemonte (5,2%). Il rimanente 32,7% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre 15 Regioni, oltre che all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (217,4 milioni di euro) e all'Associazione dei Cavalieri di Malta (39,7 milioni).

Le 6 Regioni con maggiore indice di fuga (mobilità passiva) generano debiti per oltre 300 milioni: in testa Lazio (13,2%) e Campania (10,3%) che insieme contribuiscono a circa 1/4 della mobilità passiva; un ulteriore 28,5% riguarda Lombardia (7,9%), Puglia (7,4%), Calabria (6,7%), Sicilia (6,5%).

Il restante 48% si distribuisce nelle altre 15 Regioni. Le differenze Nord-Sud risultano più sfumate quando si guarda al passivo: gli indici di fuga, alti in quasi tutte le Regioni del Sud, sono rilevanti anche al Nord grazie alla facilità di spostamento dei cittadini. In Lombardia si arriva a -362,3 milioni di euro, in Piemonte a -284,9 milioni, in Emilia Romagna a -276 milioni, in Veneto a -256,6 milioni e in Toscana a -205,3 milioni.

Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni)

Il Coronavirus smaschera falsi miti e stereotipi sul Sud scatenando il razzismo delle TV: Feltri è solo la punta dell’iceberg, gli altri sono persino più subdoli. Gli attacchi di Feltri, le risatine di Giordano e i servizi di Giletti, Report e delle “grandi TV d’inchiesta” screditano il Sud e il popolo meridionale che invece affronta il Coronavirus meglio del decantato Nord: è la strada più semplice anzichè approfondire le porcherie della sanità padana. Rocco Fabio Musolino su strettoweb.com il 22 Aprile 2020. Avrà accettato il collegamento televisivo dimenticandosi prima di prendere la pillola della pressione il signor Vittorio Feltri, che dall’agitazione ne ha sparate di tutti i colori. Questa volta però il limite è stato oltrepassato. Non possono e non devono passare inosservate le ormai famose e orribili parole pronunciate ieri sera nella trasmissione ‘Fuori dal Coro’ in onda su Rete4. Il direttore di Libero, rispondendo ad una provocazione di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, ha attaccato il Sud affermando: “molta gente è nutrita da un sentimento di invidia, rabbia nei nostri confronti (abitanti del Nord, ndr) perché subisce una sorta di complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, ma credo che i meridionali, in molti casi, siano inferiori”. Oltre a queste clamorose dichiarazioni, sorprende ancor di più la reazione del conduttore Mario Giordano, che non solo non ha preso le distanze da quegli ingiustificati attacchi ma – ridacchiando sotto i baffi – si è preoccupato dell’audience che avrebbe avuto il suo programma dopo quelle frasi piene di odio: “no direttore, così me li fai arrabbiare davvero, non puoi dirlo questo. Se mi cambiano canale è un guaio”, ha affermato sorridendo il giornalista Mediaset. In un periodo di difficoltà legato al Coronavirus, in cui ogni spot pubblicitario bombarda la mente degli ascoltatori con l’hashtag #andràtuttobene e si invita la popolazione a restare unita e ad aiutare il prossimo, i cittadini meridionali sono costretti pure a guardarsi le spalle da attacchi provenienti dalle Tv nazionali. E’ questo ultimo caso si somma al servizio del giornalista Fabrizio Feo, nativo di Salerno (un meridionale come noi, pazzesco!), trasmesso nel corso dal Tg3: “a Napoli, Palermo o Reggio Calabria una gambizzazione non farebbe nemmeno notizia. Ma ad Ostia, sì”. E’ la frase esatta utilizzata dall’inviato per raccontare degli spari contro un parente del clan Spada, accaduti in provincia di Roma. E che dire poi di Massimo Giletti ogni sera preoccupato a Non è l’Arena di raccontare degli scandali sulla sanità che riguardano la Calabria mentre invece la Calabria è la Regione che sta affrontando meglio la pandemia di Covid-19 a fronte dei disastri del Nord? Immancabili anche le “inchieste” di Report, ancora una volta sulla Calabria mentre in Lombardia sono morti centinaia di medici e infermieri contagiati negli ospedali! Ecco perchè alla fine Feltri è solo la punta dell’iceberg: è stato il più esplicito, ma il razzismo subdolo di molti altri fa ancora più male. Perchè continua ad alimentare stereotipi che il Coronavirus ha smascherato. Tutta questa gente dovrebbe premurarsi piuttosto di focalizzare la propria attenzione sugli scandali organizzativi della tanto decantata sanità della Lombardia o dell’Emilia Romagna, dove a farne le spese sono stati i poveri cittadini deceduti in queste settimane per colpa del Covid-19 e della cattiva organizzazione. E non certo sul Sud dove la pandemia è stata limitata proprio grazie all’efficienza degli ospedali e al grande senso di responsabilità della popolazione. Attaccare il Sud è diventato sin troppo facile e questi stereotipi adesso hanno stancato tutti. Nessuno è più disposto a reggere il vostro gioco, cari Feltri, Giordano, Giletti e via discorrendo. Il Coronavirus ha semplicemente smascherato la falsa gloriosa reputazione di cui gode la sanità del Nord, tanto decantata da questi nobili signori come terra di eccellenze e grandi valori, luogo in cui oggi purtroppo si paga lo scotto più caro per gli evidenti errori della classe politica e manageriale. E dove finisco i demeriti del Settentrione, iniziano quelli del Meridione, ricordato dalla stampa nazionale solo quando si deve parlare di mafia e di ‘ndrangheta. Perché l’egocentrico Giordano non manda i suoi inviati all’ospedale di Palermo, dove un signore di Bergamo, in coma per 8 giorni, dato per spacciato, è stato rimesso in sesto dai medici siciliani? Oppure dedica un approfondimento sui due pazienti lombardi usciti sani e salvi dall’ospedale di Catanzaro? Purtroppo bisogna ascoltare la Tv estera per sottolineare il grande lavoro che stanno facendo gli esperti del Cotugno di Napoli o dello Spallanzani di Roma, o venire a conoscenza che a Londra il luminare vicino a Boris Johnson è un calabrese laureatosi a Reggio Calabria. Con questo non si vuole far credere che nelle regioni del Sud non esistano gli sprechi o la mala organizzazione, ma bisogna essere anche intellettualmente onesti nel riconoscere che si tratta di un discorso estendibile a tutta Italia ed è servito il Coronavirus per aiutarci a capirlo. “A me risulta che tutti gli anni 14mila campani siano venuti a Milano per farsi curare nelle strutture sanitarie lombarde che sono più rassicuranti”, è un altro attacco scagliato da Feltri nella totale compiacenza dell’amichetto Giordano, è questo un falso mito da dover sfatare. Quanti sono, invece, i pazienti, anche padani doc, che vengono rifiutati dagli ospedali “dell’eccellenza lombarda”, perché sono più difficili da curare e quelle strutture non vogliono correre il rischio di veder crollare le statistiche sulla sopravvivenza dei loro pazienti? E’ facile ottenere alte percentuali con questi “trucchetti”, volti esclusivamente a vantarsi di essere i migliori. Eppure in Calabria l’esempio del neo-governatore Jole Santelli, malata di tumore da diversi anni, nonostante fosse parlamentare e residente a Roma, ha deciso di curarsi Paola, nella Provincia di Cosenza. E’ stato grazie al lavoro dei medici del luogo se le sue condizioni di salute sono migliorate, spingendola a candidarsi alle elezioni regionali e a prepararla ad affrontare una sfida che la proietta a un impegno istituzionale così importante per almeno 5 anni senza alcun tentennamento. E’ evidente che la situazione di emergenza sanitaria abbia invertito le carte, adesso è il Sud a doversi allungare per dare una mano ai pazienti del Nord. Quindi appare meschino e vergognoso che le Tv nazionali continuino a parlare della presunta inefficienza degli ospedali siciliani, calabresi, pugliesi o campani, anziché occuparsi dei palesi disastri di Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna o Marche dove sono morti oltre 180 tra medici e infermieri ed ogni giorno si apprende di contagi all’interno del personale sanitario (decine di migliaia di operatori!). Nel cuore del Sud, invece, funzionano anche gli ospedali di Provincia come il GOM di Reggio Calabria, dove invece soltanto 6 operatori sono risultati positivi al Coronavirus in tutte queste settimane su 1.700 addetti alla struttura. Un numero talmente tanto basso che questa mattina StrettoWeb ha rivolto un appello al sindaco Giuseppe Falcomatà affinché domani consegni il San Giorgio d’Oro alla struttura ospedaliera reggina. E’ l’ora di dire basta a tutti questi atroci soprusi, di permettere a questa gente di definirci “esseri inferiori” o addirittura “mantenungoli ingordi“, di far passare il Sud come parte becera dell’Italia. Perché qui, esattamente come al Nord, esiste gente perbene che si sveglia la mattina presto e torna a casa la sera tardi per portare da mangiare ai propri figli. E se davvero tra di noi esiste un mantenungolo ingordo, quelli sono proprio questi signori che vivono coi soldi dei finanziamenti pubblici alla stampa, per sparare scemenze sui propri giornali e all’interno delle proprie trasmissioni prendendosi pure il lusso di offendere i meridionali. Giornalisti che si sono mostrati ancora una volta scuri e tristi come il cielo di Milano. Chissà quante volte si saranno recati in Sicilia o in Calabria per trascorrere le proprie vacanze estive o abbiano mangiato al ristorante le prelibatezza di uno chef pugliese o lucano. Facciano un profondo esame di coscienza sulle problematiche del Nord, anziché screditare una terra e un popolo sempre pronto a donare amore ed accoglienza. Magari se vi trovaste di passaggio qui dallo Stretto, saremmo pure disponibili ad offrirvi un caffè di benvenuto, a patto che dopo non vi alteri la pressione…

Da ilfattoquotidiano.it il 23 aprile 2020. La lettera di Totò e Peppino stavolta ‘porta la firma’ de I Sansoni. Il loro video, manco a dirlo, sta spopolando. Il tema? Vittorio Feltri e la sua uscita “i meridionali sono inferiori” per la quale l’Odg ha dato mandato a un legale che valuterà il “danno d’immagine alla categoria”. Affermazione che ha fatto infuriare molti e alla quale altri hanno reagito usando l’ironia. “Senti, scrivi un’email“, iniziano i due fratelli siciliani, Federico e Fabrizio Sansone, che hanno conquistato il web con i loro video. “Carissimo pezzo di m…“, “No, dobbiamo scrivere una mail pacata…“. Così inizia il video da un milione e mezzo di views e quasi 5000 commenti.

Dagospia il 23 aprile 2020. Post di Marina La Rosa su Facebook. Nel secondo dopoguerra c’è stato un grande flusso migratorio di meridionali verso il nord del paese. Era quello un momento delicato ma l’Italia ha avuto una forte ripresa ricordata poi come il miracolo economico. Il nostro paese ha potuto contare su una grande manodopera proveniente per la maggior parte dal sud del paese e non c’erano inferiori e superiori. Si stava uniti nella ricostruzione del paese. Ed è quello che si dovrebbe fare anche adesso. Oggi tuttavia voglio esprimermi con verità (cosa che purtroppo o per fortuna mi ha sempre contraddistinto) e quindi con il mio linguaggio, quello più vero, quello che viene dalle viscere delle mie origini, sento il bisogno come fosse un’urgenza o un vomito che non si può trattenere, di rivolgermi a te, scrittore nonché giornalista Vittorio Feltri e dirti semplicemente…SUCA

Antonio Giangrande: Contro il Razzismo dei Padani non si risponde con le offese. Già il sig. Feltri ha detto che se ne fotte. E' rimarchevole il fatto che lui quello che pensa lo dice. Ci mette la faccia. Sono più subdoli e vigliacchi chi lo pensa ma lo fa dire a Feltri. Allora usiamo un altro metodo: promuoviamo una campagna di boicottaggio delle Tv di Mediaset. Senza spettatori, niente spazi promozionali per le reti Padane. Ergo: niente inviti per i razzisti antimeridionalisti. Consumiamo meridionale, guardiamo i nostri Network 

Lucio Presta su Facebook il 24 aprile 2020. E dopo i sorrisi complici con il direttore Feltri e la frase sghignazzando “direttore no che così mi si arrabbiano “ ci siamo tolti ogni dubbio su Mario Giordano, anche lui è del ramo d’impresa INGUARDABILI di VideoNews. Nessuna delle persone con le quali collaboro andrà in quel programma. #iosonomeridionale

E… nun ce vonno stà. Luciano Scateni su lavocedellevoci.it il 23 Aprile 2020. Prosegue imperterrita, quanto ingannatrice, la campagna pubblicitaria del Network di Berlusconi. Strumentalizzando lo scandaloso andazzo di notizie false che circolano con ogni mezzo, Mediaset trasmette ossessivamente lo slogan sul giornalismo professionalmente corretto e credibile, che sarebbe quello di Canale 5, Rete 4, Italia 1, ovvero dei megafoni che amplificano platealmente o sotto mentite spoglie il pensiero unico della destra.  TG, talk show, format per la distrazione di massa, da mane a sera, sono in campagna elettorale al servizio di Forza Italia e degli alleati Lega-Fratelli d’Italia, per tempi e contenuti di insopportabile faziosità. Due soggetti, forse tre se nel conto entra anche il flirt televisivo della D’Urso con chi la retribuisce lautamente, meritano la citazione, perché attori di una commedia dell’orrore giornalistico. Per non fare nomi: Mario Giordano e Vittorio Feltri, il quale, in corso di trasmissione di “Fuori dal coro” ha detto, apparentemente da sobrio: “Non credo nei complessi di inferiorità, credo che i meridionali, in molti casi, siano inferiori”. Il sindacato dei giornalisti Usigrai e l’ordine dei giornalisti della Campania hanno inviato un esposto all’ordine della Lombardia a cui appartiene Feltri, che dovrà anche rispondere in tribunale all’azione giudiziaria, in sede civile e penale, promossa dal senatore Sandro Ruotolo e dallo scrittore De Giovanni. La contestazione: “Definire inferiori i cittadini del Sud è indecente, non è libertà di opinione. Parlino Berlusconi, Salvini e Meloni e prendano le distanze e l’indignato commento di giornalisti e politici”. Giordano si è dissociato con un goffo tentativo di placare le acque, ma non si è scusato: “Feltri, lo sapete tutti, è un grandissimo giornalista”. Finchè a denigrare il Sud è uno come Feltri, che peggiora vistosamente invecchiando, nessuna sorpresa, ma se si pone su uno stesso piano il Tg3, è lecita la considerazione su come lo dirige la Paterniti, sull’inquinare l’indiscutibile linearità di una testata storica. La denuncia è del sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Un servizio andato in onda ha denigrato il sud, con cadute di stile di stampo razzista”. Queste la frase incriminate: “A Napoli, Palermo o Reggio Calabria, una gambizzazione, colpi d’arma da fuoco agli arti inferiore, non farebbe nemmeno notizia. Ma ad Ostia sì…” Si è scusata la Paterniti, ma basta? Se nella sua redazione c’è chi la pensa come l’autore del servizio sotto accusa, qualcosa non quadra nel confronto sulla linea editoriale. La cattiva Germania, sistematicamente nel mirino ad alzo zero della Lega, risponde a Salvini con un gesto collettivo di solidarietà ad alto tasso di visibilità e di monito per Paesi sovranisti, qual è la piccola Olanda. Una significativa rappresentanza di parlamentari con alla testa Marian Wendt, manifesta solidarietà per l’Italia a Berlino, davanti all’ambasciata del nostro Paese. La Wendt sostiene che le risorse europee destinate all’Italia (540miliardi) siano insufficienti, che debbano essere raddoppiate. Partecipa tra gli altri Martin Schulz, favorevole agli eurobond. Dalle carceri testimonianze di solidarietà per chi combatte il Covid-19. Agenti, personale civile e detenuti del carcere di Ivrea hanno raccolto alcune migliaia di euro da consegnare all’ospedale della città “Per dare una mano a medici e infermieri impegnati nella battaglia contro il coronavirus”. Non è un episodio isolato.

GILETTI, DEL DEBBIO…: COLPE AL SUD, DIRITTI AL NORD. Pino Aprile il 15 Gennaio 2020.

LA TELEVISIONE DELL’ITALIA DIVISA: IL RAZZISMO DI FATTO È LA VERA QUESTIONE MERIDIONALE. “Mi sono rotto le palle di questo tipo di politica!”, urla il prode Massimo Giletti in faccia al presidente del Consiglio comunale di Catanzaro, Marco Polimeni, persona perbene, accusato di nulla, che prova a dire la sua sulla “rimborsopoli” calabrese con soldi pubblici (uno sport nazionale: pensate a quanto è avvenuto in Val d’Aosta, in Liguria, in Lombardia, e quasi ovunque: basterebbe ricordare cosa hanno comprato il Trota e la Minetti con quei soldi). E noi ci siamo rotti le palle di questa parodia del giornalismo e dell’uso mirato che si fa della apparente indignazione del conduttor scortese. Se Giletti (e l’originale che forse lui cerca di superare nel peggio, Paolo Del Debbio) abbaia così contro un politico pulito, cosa farà mai a chi qualche macchia ce l’ha? Ce lo ricordiamo, i lineamenti stravolti dallo sdegno (ha una sensibilità selettiva, ma altissima), gridare “Pagliaccio!” a un politico siciliano (non ricordo se per i forestali o gli stipendi dei consiglieri regionali: tanto, la Sicilia, per certa tv italiana, a quello si riduce, più le sorelle di Mezzojuso).

L’INDIGNAZIONE… TERRITORIALE. Ora se tanto mi dà tanto, il disgusto di cotanto conduttor civile dev’essere sfociato nel vomito in diretta quando avrà dovuto intervistare Matteo Salvini, segretario del partito che ha fatto sparire 49 milioni di soldi pubblici, da “restituire” in ottant’anni (per noi, Equitalia); uno condannato per razzismo e per oltraggio a pubblico ufficiale, ma nonostante ciò ha fatto il ministro dell’Interno. E invece, il conduttore diviene cortesissimo, si spalma; le foto dei due insieme, sorridenti. E così proteso, attento, cortesissimo, lo abbiamo visto intervistare Berlusconi, allora interdetto dai pubblici uffici e incandidabile per condanna ricevuta. E figuratevi cosa avrà fatto contro un Giancarlo Galan, già presidente del Veneto, finito in galera per milionarie mazzette del Mose! La pressione alta da indignazione civile dovrebbe aver rischiato di strozzare il povero Giletti! Per fortuna ha evitato di indignarsi o ha saputo controllarsi tanto bene che non se ne è accorto nessuno. Forse, troppo occupato con i forestali terroni, Massimo il censore non ha avuto tempo di dedicarsi alla trascurabile vicenda veneta (o all’altra delle banche sfondate dagli probi amministratori padani; o…). E pensate per Roberto Formigoni, già presidente lombardo finito pure lui in galera per tangenti! Lì, dev’essere stato il medico a ordinare a Giletti di tenersi lontano dall’argomento, per salvarsi la vita (uno con una tale sensibilità civile, vi immaginate cosa avrebbe potuto succedergli, se si fosse occupato dei latrocini padani, manco fossero porcate da furbetti del cartellino di Sicilia?).

MENTRE GLI SCANDALI SPAVENTOSI A NORD (MOSE, EXPO, TAV, PEDEMONTANE…) LASCIANO LE COSCIENZE TRANQUILLE. Per questioni sanitarie (e perché, se no?) si sarà mantenuto alla larga dagli scandali dell’Expo, con retate di centinaia di furboni (altro che furbetti) alla volta, tanto da rischiare di mettere in crisi la ricettività carceraria (pensate se avesse saputo che la mafia non è solo a Mezzojuso, e per l’Expo sono state beccate più società a rischio mafia, che in mezzo secolo sulla Salerno-Reggio Calabria). La debolezza delle carotidi (?) deve aver indotto il nostro eroe dello schermo ad alzo rasoterra, a non immergersi nelle porcate e nelle ruberie del Mose, della Tav, delle autostrade appena fatte e ancora in fattura che cadono a pezzi a latitudini più alte della Terronia. A proposito di “rimborsopoli”: immaginate cosa avrebbe dovuto strillare Giletti a Edoardo Rixi, già capogruppo della Lega alla Regione Liguria, condannato a 3 anni e 5 mesi per le “spese pazze”, quando (nonostante il processo) fu nominato vice-ministro del governo giallo-verde. E cosa ad Armando Siri, fatto sottosegretario nonostante la condanna per bancarotta fraudolenta, poi costretto alle dimissioni perché implicato nell’indagine sui rapporti di un ex deputato di Forza Italia in affari con il prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro.

IL FORMAT: IL SUD SUL BANCO DEGLI IMPUTATI. E invece no, con il Nord non funziona. Ormai è un format: si prende un terrone da rimprovero (o pure intonso, come Polimeni, in assenza di quelli che intonsi non sono, ma comunque calabresi), lo si mette sul banco degli imputati e lo si massacra in diretta, con l’occhio all’audience. Del Debbio ha portato questo schema a livelli da delirio, concentrando nel suo serraglio plotoni di esecuzione di solida formazione leghista o affine; ma Massimo ormai mangia la coda al suo presumibile maestro di caricatura del giornalismo. Il format è di fatto razzista, persino al di là delle intenzioni di chi lo usa, come testimoniato dalla ricerca su 30 anni di informazione della tv di Stato (e figuratevi le altre!) sul Sud: solo il 9 per cento del tempo totale dedicato al Mezzogiorno, e per oltre il 90 per cento, quel misero 9 è criminalità e malasanità. Quando vedremo Giletti, i Del Debbio & C. con i lineamenti deformati dallo sdegno per il treno che non arriva a Matera nel 2020, le 14 ore per fare 300 km in treno in Sicilia; la spesa sanitaria ridotta per i meridionali; i 2 posti letto ogni mille abitanti al Sud contro gli 8 al Nord; i quasi 400 euro pro-capite per assistenza familiare a Trieste e gli 8 a Vibo Valentia…? Per quella degenerazione culturale che ha radici profondissime (la campagna diffamatoria che precedette l’unità e quella susseguente per giustificare i crimini compiuti per farla), il Sud non ha diritti, solo colpe; l’assenza dei primi lascia indifferenti e la ricerca e l’esasperazione delle seconde, sino a farne una caratteristica etnica, giustifica l’assenza dei primi (non se li meritano quelli lì…); al Nord il contrario. Questa è la vera Questione meridionale: il razzismo inconsapevole (o conclamato, nei casi peggiori) che divide l’Italia in due, quella che ha diritto a tutto e colpevole di nulla e quella che non ha diritto a niente e colpevole di tutto. Il culmine della serata è stato quando Giletti ha accusato il suo interlocutore calabrese di avere un suggeritore, urlandogli di far allargare l’inquadratura, perché si vedesse il burattinaio. Peccato che l’operatore che inquadrava non era del consigliere calabrese, ma di Giletti, che avrebbe potuto chiedergli di allargare il campo. Stando a quanto replicava il poverocristo calabro, a rivolgergli la parola è stato proprio l’operatore di Giletti! C’è chi sospetta che la scena fosse stata preparata. Comunque stiano le cose, a Giletti la faccia feroce vien bene solo quando guarda a Sud e a scandali da cortile: le migliaia di euro rubati da politicanti di mezza tacca, i morti di fame tenuti in vita con i sussidi mascherati da forestale, la mafia che ce l’ha con le sorelle di Mezzojuso… La mafia socia delle aziende del Nord (processo Aemilia, oltre duecento condanne…); le tangenti più alte di sempre (Mose), i presidenti di Regione in galera per mazzette milionarie o i 49 milioni svaniti della Lega (circa un centinaio di miliardi delle vecchie lire, neh!?)… mica è roba terrona. In un’altra vita ho conosciuto un Massimo Giletti: o non è lui, o ha saputo nascondere bene quel che era, o invecchia male!

Fontana risponde a De Luca: “14 mila campani si curano in Lombardia”. Irene Barbato su internapoli.it il 20 Aprile 2020. Non si placa la polemica dopo le esternazioni del Governatore Vincenzo De Luca. Il Presidente della Regione sarebbe pronto a chiudere la Campania poichè è preoccupato dai residenti delle regioni del nord. Oggi Il Governatore della Lombardia Attilio Fontana lo ha risposto attraverso un post su Facebook: “Caro governatore Vincenzo De Luca, sappia che qualunque cosa accada noi non chiuderemo mai la porta ai 160mila italiani, tra cui circa 14mila campani, che ogni anno scelgono di venire in Lombardia per farsi curare“. Nei giorni scorsi anche il Presidente del Veneto Luca Zaia ha commentato: “Non penso che tutti i veneti che vanno in vacanza in Campania siano contenti. Non credo che il presidente De Luca stia facendo un grande servizio alla sua Regione”.

LE PAROLE DI DE LUCA. “Gli esperti ci dicono che in tante parti di Italia siamo ancora alla Fase 1, poi sento alcuni miei colleghi che vogliono ripartire tutto. Invece io credo che ci voglia un maggiore senso di responsabilità. Lombardia, Veneto e Piemonte hanno una situazione che non è ancora tranquilla. Lombardia e Veneto, soprattutto, sono in alto mare e vogliono aprire. Così facendo, però, si rischia di mettere in pericolo tutta l’Italia. Per questo saremo costretti a chiudere i confini. La cosa più drammatica sarebbe riaprire tutto e dopo due settimane tornare a chiudere: a quel punto l’Italia non reggerebbe più. Le riaperture dovranno essere sempre accompagnate da un piano di sicurezza sanitaria che è imprescindibile. La ripresa sarà su due piani: economico e sanitario” , ha detto venerdì scorso De Luca.

INIQUITÀ E MOBILITÀ SANITARIA. Ambrogio Carpentieri, Antonio Milici, Giuseppe (Josè) Galiero, Marcello Fulgione, Francesco Carbone, Antonio Marsiglia, Elio de Lorenzis, Pippo Satriano, Commissione Sanità ET-M24A, il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. La mobilità sanitaria annuale dovuta a cittadini meridionali che vanno a curarsi al Nord ha spostato soprattutto nelle casse di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna 4,6miliardi di euro che vanno a sommarsi ai 4 miliardi di euro che annualmente sono sottratti al Sud per una iniqua distribuzione dei fondi. Di conseguenza, pur avendo una Sanità di eccellenza, le Regioni meridionali sono costrette ad offrire una assistenza in mancanza di 100.000 medici e operatori sanitari e nella situazione carente di 2 posti letto contro gli 8 posti letto per 1000 abitanti negli ospedali del Nord. Eppure i Centri di Eccellenza del Sud sono particolarmente attivi. Basti pensare agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e privati come:

Oncologia: Istituto nazionale tumori Fondazione G. Pascale – Napoli

Gastroenterologia: Ente ospedaliero S. De Bellis – Castellana Grotte (BA)

Oncologia: Istituto Tumori Giovanni Paolo II - Bari

Oncologia: CROB Centro di riferimento oncologico della Basilicata – Rionero in Vulture (PZ)

Neuroscienze: Centro Neurolesi Bonino Pulejo – Messina

Neuroscienze: Istituto neurologico mediterraneo Neuromed – Pozzilli (IS)

Diagnostica: SDN Istituto di ricerca diagnostica e nucleare – Napoli

Genetica: Ospedale Casa sollievo della sofferenza – San Giovanni Rotondo (FG)

Insufficienze terminali d'organo: ISMETT Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione – Palermo

Ritardo mentale: Oasi di Maria santissima – Troina (EN)

In Italia esistono 49 Irccs di cui 21 pubblici e 28 privati. Solo 5+5 sono localizzati al Sud e nessuno in Sardegna, Abruzzo e Calabria. In tali casi è auspicabile un polo oculistico in Sardegna, un polo pediatrico in Calabria e un centro per le malattie immunitarie in Abruzzo. Da evidenziare anche la mancanza della Facoltà di Medicina e chirurgia presso la Università della Basilicata. Ma i centri di Eccellenza non si limitano agli Irccs trattandosi di Ospedali specializzati in grado di affrontare prestazioni ad alta complessità che richiedono sicurezza e realizzano una condizione favorevole all'efficacia dei risultati. Basti pensare per esempio al Monaldi ad indirizzo cardio-pneumologico o al Cotugno di Napoli ad indirizzo infettivologico o il DCA di Chiaromonte (PZ) per i disturbi del comportamento alimentare e del peso. Il concetto di EvidencedBasedMedicine oramai è surclassato dal ValueBM dove per Valore si intende non certo una entità astratta o una parola in codice per indicare tagli finanziari ma rappresenta l'unità di misura più concreta e innovativa per guidare le strategie organizzative e le politiche sanitarie del terzo millennio, perchè mette in relazione diretta i risultati ottenuti dall'assistenza sanitaria (efficacia, sicurezza) con le risorse utilizzate (efficienza). (Gimbe) La organizzazione sanitaria, secondo cui tali Centri dovrebbero lavorare con i Presidi ospedalieri della “periferia” fondamentali per la cura e assistenza in prossimità dei cittadini, è la modalità della rete articolata in hub e spoke. Le Reti nascono quando nei sistemi aumentano le interazioni e si aprono opportunità per rendere più conveniente la collaborazione rispetto alla competizione. Tale modello organizzativo si è reso indispensabile in sanità per la crescente complessità dei percorsi di cura che difficilmente possono trovare risposte in un'unica struttura. Favorisce un accesso equo e tempestivo del malato diffuso su tutto il territorio, concentra esperienze professionali e tecnologie nelle sedi opportune, migliora la circolazione del know how con il riconoscimento delle vere dalle false innovazioni, è in grado di monitorare la qualità delle prestazioni erogate, rende possibile al paziente una scelta informata e consapevole dei Centri di Riferimento. La iniquità sanitaria particolarmente vissuta al Sud, secondo quanto disse Francesco II partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861 al comandante Vincenzo Criscuolo: “Ai Napoletani non lasceranno neanche gli occhi per piangere”, va contrastata non in termini di profitto (che danni incommensurabili ha fatto al Nord) ma in termini di partecipazione alla creazione di salute.

LA SCHEDA O IL FUCILE. Di Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna. Pubblicato da Michele Di Pace il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. Il 3 di aprile del 1964 davanti ad una folla ammutolita Malcom X incitava tutta la fratellanza afroamericana con il mítico discorso La scheda o il Fucile. Il fulcro dell’oratoria era una analisi sulla possibile rivolta della nazione negra e le conseguenze della stessa. Malcom X citava gli altri attivisti afroamericani e affermava che nonostante avessero differenze sostanziali nel come la comunità dovesse identificarsi nella società, il momento richiedeva unità . Non importa se siete colti o analfabeti, se abitate in zone eleganti o nel ghetto, siete anche voi in questo inferno, proprio come me. Siamo tutti nelle stesse condizioni e tutti dovremo vivere nello stesso inferno che ha organizzato per noi lo stesso uomo. Quell'uomo è il bianco e tutti noi abbiamo sofferto qui, in questo paese, l'oppressione politica, lo sfruttamento economico, la degradazione sociale ad opera dell'uomo bianco. Il dire queste cose non significa che siamo contro i bianchi come tali, ma contro lo sfruttamento, contro la degradazione e contro l'oppressione. (Malcom X) Esiste una incredibile analogia, nel 1964 il discorso veniva rivolto a una comunità di 22000000 di persone, tante quante siamo oggi noi TERRONI. Esiste un passaggio di quel mítico discorso che urlato oggi da un palco alla nostra platea calzerebbe a pennello: “A questo punto vorrei fermarmi per sottolineare una cosa. Cercate di capire che quando volete ottenere ciò che vi appartiene, chiunque vi privi di tale diritto è un criminale. Quando volete ottenere ciò che è vostro, siete nel pieno diritto di esigerlo e chiunque cerca di privarvene infrange la legge ed è un criminale.” (Malcom X). Oramai tutti sappiamo che lo stato ogni anno ci da meno di quello che ci spetta, ci toglie invece di darci, lo dicono quelli della SVIMEZ,EURISPES, giornalisti, ricercatori, attivisti, etc… ogni anno 65 miliardi di euro che ci servirebbero per i nostri figli, i nostri padri ci vengono tolti. La nostra terra viene volontariamente abbandonata per farcela abbandonare, ma noi siamo in tanti e loro lo sanno, siamo 22000000 di persone, tre volte il Portogallo, tanti come la Svezia, Danimarca e Norvegia assieme, 3 volte l’Olanda e non abbiamo neanche treni che ci uniscono in tempi decenti, strade che ci facciano incontrare e lo sapete perchè? Ci vogliono divisi!!!!! Uniti facciamo paura!!!! Sorelle e Fratelli meridionali il cambio è lento e alle volte doloroso per quelli che veramente lo cercano e per questo che in questo viaggio dobbiamo imbarcarci tutti assieme e cercare il valore e la forza nella compagna e compagno di fianco a noi. Quello che in cui possiamo fare unicamente affidamento è la nostra fratellanza ,la nostra nazione. Nessuno ci dirà mai che il viaggio sarà corto, lungo o doloroso, però sappiamo che il camino sarà illuminato, perché il popolo sarà la luce del camino. Per fare un popolo ci vuole il tempo e quello ne abbiamo di più che tanti altri, sono quasi 1000 anni che viviamo assieme. Per fare un popolo ci vuole il sangue e di sangue ne abbiamo versato tanto e oggi più che mai sappiamo che non fu invano. Il sangue è quello che ci vogliono togliere lentamente, separando figli dai padri, fratelli dalle sorelle, amici dagli amici ,amori dagli amori, perché il sangue serve da sfruttare in un'altra parte di questa penisola. Non si tratta più di una lotta di classe, non si tratta più di rivendicare diritti social, si tratta di una oppressione ad un intero popolo, il nostro. Catalani, Baschi, Scozzesi riescono ad ottenere risultati nelle lotte ai propri diritti sociali, perché? Perchè lo rivendicano come popolo ,lo rivendicano tutti assieme. Dobbiamo finalmente capire che assieme siamo un popolo ,separati siamo la regione più povera d'Europa, assieme siamo 22000000 di persone, soli siamo povera gente. Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna

Coronavirus, Feltri: «Santelli dice che se non si riapre arriva la 'ndrangheta? Non se ne è mai andata». Il Quotidiano del Sud il 2 maggio 2020. Lo scorso giovedì 30 aprile la governatrice della Calabria Jole Santelli aveva sottolineato in collegamento con “La Vita in diretta” su Rai 1 la necessità di partire al più presto con la fase 2, per scongiurare un’avanzata della criminalità organizzata. Una difesa della discussa ordinanza firmata qualche ora prima), in netto contrasto con le disposizioni del governo nazionale sul contenimento del contagio da coronavirus. Tra le reazioni si registra quella di Vittorio Feltri, che ha commentato così su Twitter le parole della presidente di Regione: Jole Santelli, governatrice della Calabria avverte: “se restiamo fermi arriva la ‘Ndrangheta”. Non si preoccupi: é già arrivata, anzi non se ne è mai andata. 10:49 - 2 mag 2020. Risale a pochi giorni fa la polemica che ha visto protagonista il giornalista lombardo a causa delle sue parole contro i meridionali che scatenarono la reazione indignata di tanti cittadini calabresi.

CARO FELTRI, TI RACCONTO LA NOSTRA STORIA E TI INVITO IN CALABRIA PER DIMOSTRARTI CHI È DAVVERO INFERIORE. Di Francesco Patrizio Lapietra. Pubblicato da Raffaele Vescera il 30.04.2020 su Movimento 24 Agosto. Dopo aver sentito le ignobili e gratuite offese al popolo meridionale, non me la sono sentita a far finta di nulla e tacere. È d’obbligo mettere mano alla tastiera del pc e urlare tutta la mia indignazione quando, per la ennesima volta, Vittorio Feltri si permettere di offendere il mio popolo. Andando ai fatti, il giornalista Feltri, ospite della trasmissione televisiva su Rete 4 Fuori dal coro, dopo aver prima rinfacciato che 14mila malati oncologici campani vengono curati in Lombardia, si lancia in una esternazione lombrosiana dicendo che «i meridionali, in molti casi, sono inferiori a quelli del nord», il tutto alla presenza di un giornalista, Mario Giordano, a tratti compiacente, che con il sorriso sulle labbra si è solo limitato ad accennare un minimo di rimprovero di circostanza al suo collega. Feltri, non pago di quanto avesse detto, quando Giordano gli rammenta che qualche meridionale avrebbe potuto prendersela a male per le espressioni utilizzate, questi infierisce dicendo «chi se ne frega». Mi sono domandato se fosse stato giusto adottare indifferenza nei confronti dell’offesa perpetrata ai danni di noi meridionali in diretta nazionale. La risposta che mi sono data è che non si può e non si deve più chinare il capo. Il sottoscritto è un meridionale, fiero ed orgoglioso di esserlo, il quale ha studiato e si è formato nella sua terra superando le difficoltà, non poche, che ogni giorno ci vengono dal nostro Sud depauperato e umiliato. Premesso che, come ho detto tante altre volte, il Sud oggi è impoverito dalla criminalità organizzata e dalla mala gestione politica che va di pari passo con il malaffare, è altrettanto doveroso non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto e capire il perché della arretratezza odierna.

CHI SONO DAVVERO I MERIDIONALI. Visto che il Feltri è molto perspicace nel capire le cose, vorrei ricordargli quando e quanto i meridionali erano inferiori. Un tempo, se non vado errato su taluni testi è riportato che, esisteva una certa Magna Graecia, culla di cultura filosofica, arte, letteratura, scienza medica. Nell’attuale zona del Catanzarese, pare vi fosse una popolazione denominata “italioti” e che, da questi derivi il nome della nostra penisola. Nell’attuale Crotone (Kroton) si dice che predicasse un certo Pitagora, dicono che sia stato un matematico e un filosofo scopritore di alcune cose che ancora oggi sono utili alla umanità. Alcuni hanno, tra l’altro, l’ardire di dire che i l’Impero Romano conquistò la Grecia (e la Magna Graecia) con la forza delle armi ma, Roma – popolo di guerrieri e pastori – imparò e trasfuse a sé tutto dalla cultura greca. La Democrazia, quella nata da Pericle in avanti, è frutto della inferiorità delle popolazioni meridionali della Magna Grecia. Per arrivare ad una storia un po’ meno remota, il nostro popolo era assai inferiore, arretrato, povero ed incolto.

Ecco, allora, quanto noi terroni eravamo inferiori, su alcune cose: prima cattedra di astronomia in Italia (1735), prima cattedra di economia al mondo; primo cimitero in Italia per inumare i poveri (1763); primo codice marittimo al modo (1781); primo intervento di profilassi anti tubercolosi in Italia (1782); prima assegnazione di case popolari in Italia (1789- San leuco, Caserta); prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (1789); prima scuola di ballo in Italia (1812); primo istituto per sordomuti in Italia (1835); primo tratto ferroviario in Italia (1839- Napoli, Portici); Napoli prima illuminazione a gas in una città italiana, terza in Europa dopo Londra e Parigi (1839); prima fabbrica metalmeccanica in Italia per numero di assunti (1839 Pietrarsa); primo centro sismologico in Italia (1840) e primo sismografo (1856); primo telegrafo elettrico (1852); prima luce elettrica (1852 Capodimonte); più grande industria navale in Italia (1860); prima della unificazione il mezzogiorno era il primo in Italia per numero di orfanotrofi e ospizi, collegi, centri di formazione, conservatori musicali, nel 1860 il sud varò il primo piano regolatore in Italia e, Napoli fu la prima città al mondo a portare l’acqua corrente nelle case; Mongiana, in Calabria, era il primo complesso siderurgico in Italia; nel 1860 si aveva ala più alta percentuale di medici per numero di abitanti e il più basso tasso di analfabetismo , mortalità infantile in Italia, indici di benessere e di sviluppo.

Ragionando in termini economici, il sud aveva la migliore finanza pubblica in Italia, con la più alta rendita dei titolo di Stato pari al 120% (1860 Borsa di Parigi) e, il minor carico tributario erariale in Europa.

Non dobbiamo dimenticarci che il meridione, all’atto dell’annessione possedeva il 65,7% di tutte le monete circolanti in Italia, più di tutti gli altri Stati pre unitari messi insieme (fonte tratta dal saggio “Nord e Sud” di Francesco Saverio Nitti).

Premesso che in alcun modo deve essere messa in discussione l’Unità della nostra Nazione, non si può e non si deve infangare il meridione con aggettivi non degni di un paese civile.

La storia chi ha consegnato pensieri abominevoli che per forza di cose ci hanno resi volutamente, inferiori, basti pensare a quanto affermato da Carlo Bombrini (Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882) il quale asserì che «i meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Una ferita altrettanto indimenticabile fu quanto detto dal Generale e Senatore del Regno Enrico Cialdini, che con impavido disprezzo cosi affermò:«Li voglio tutti morti! questi terroni sono tutti africani e contadini. A morte i nemici del Piemonte, dei Savoia, dei Bersaglieri e del mondo intero. Non vogliamo testimoni, diremo che sono stati briganti».

ANCHE IN QUESTO PERIODO DI PANDEMIA dal meridione, è iniziata la sperimentazione del farmaco anti artrite contro la polmonite da Covid-19 che, ha prodotto ottimi risultati ed è stato inserito nei protocolli farmaceutici. A dare inizio a questa sperimentazione è stato l’acume e la scienza del Dottore Paolo Ascierto, direttore dell’unità di oncologia e terapie innovative dell’istituto tumori Pascale di Napoli. Il Dottore Ascierto dopo i primi interventi in lacune dirette televisive per la sua scoperta che ha salvato, certamente, molte vite, ora i media di “regime” non ne fanno più accenno.

POSSIBILE DANNO ALL’ORDINE DEI GIORNALISTI. Ritornando al caso Feltri, pare che nelle ultime ore il presidente dell’ordine dei giornalisti abbia deciso di procedere legalmente contro questi per valutare il danno di immagine all’Ordine stesso. Pare, che lo stesso Ordine stia puntando il dito anche contro Giordano, puntualizzando che questi avesse l’obbligo di intervenire nel momento dello sproloquio riprendendo Feltri. Sembra che anche il presidente dell’ordine della Lombardia, voglia trasmettere al consiglio di disciplina quanto accaduto. Nei prossimi giorni sapremo cosa succederà, professionalmente, a Feltri. Immediata, invece, è stata la reazione di molti edicolanti del sud che hanno deciso di non vendere il giornale Libero diretto da Feltri, in alcuni casi le edicole hanno affisso delle vere e proprie locandine in cui si dice che i meridionali essendo inferiori non sono in grado di comprendere gli articoli contenenti nello stesso giornale. Noi giovani generazioni, siamo consci della nostra storia, di cui ne andiamo orgogliosi perché, chi non conosce il proprio passato e non ne fa tesoro non potrà mai capire il presente ed il futuro. Nessuno deve arrogarsi il diritto di reputarci inferiori perché non lo siamo mai stati e né mai lo saremo. Siamo solo consapevoli di una cosa, che alcune, pochissime, menti del Nord che, purtroppo, godono di una penna e di una cassa di risonanza ignorando la storia del loro Paese infangano ed offendono gli altri. Se c’è qualcuno che è in debito con qualcun’altro, di certo quel qualcuno non siamo noi meridionali perché, abbiamo pagato (24 milioni di emigrati) e paghiamo (80mila nuove emigrazioni l’anno di laureati) un prezzo salatissimo. Sono del parere che alle offese si risponde con gentilezza e con la propria storia.

LA STORIA DEVE ESSERE MAESTRA DI VITA per non ricadere in errore, in questo caso, noi meridionali non dimenticheremo mai da dove proveniamo e chi erano i nostri avi. Sarò lieto, dopo aver chiesto venia (ovviamente), di invitare personalmente il Dottore Feltri a far visita alla nostra Calabria cosi da potersi rendere conto chi tra lui e la storia, la cultura, l’arte del mezzogiorno sia realmente l’inferiore…in molti casi.

Dichiarazioni Feltri, Wanda Ferro: “Tra delirio e falso storico”. I due pazienti di Bergamo guariti a Catanzaro sono stati un momento di commozione e verità. Redazione catanzaroinforma.it il 22 Aprile 2020. «Le considerazioni di Vittorio Feltri sulla presunta inferiorità dei meridionali non meritano commento, tanto sono stupide e deliranti, così come le farneticazioni secondo cui qualcuno avrebbe gioito per l’ecatombe causata dal coronavirus in Lombardia. Non è neppure il caso di ribadire quante siano le eccellenze calabresi – e meridionali – nei più svariati campi delle professioni, della cultura, delle arti, della ricerca, del giornalismo: non abbiamo complessi di inferiorità che ci spingono a rivendicare il riconoscimento del nostro valore». E’ quanto afferma il deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che prosegue: «Meritano invece una replica, anche perché rappresentano una narrazione molto diffusa, le considerazioni secondo le quali i meridionali scelgono di curarsi nelle strutture sanitarie del Nord perché più “rassicuranti”, come dice Feltri, o comunque più valide o efficienti. Questo è solo un racconto parziale della realtà, perché è vero che molti pazienti calabresi, ad esempio, sono costretti a rivolgersi alle strutture del nord per farsi curare, ma questo non avviene certo per la mancanza di medici di grande competenza e professionalità – sanno tutti che moltissimi dei luminari che guidano le strutture di eccellenza del nord sono meridionali – o per  la situazione disastrata di alcune strutture sanitarie depredate dalle inefficienze, dal malaffare e dalla ‘ndrangheta, che continuano ad arricchire giustamente i reportage televisivi. Ma anche quella è solo una parte della realtà, perché in Calabria ci sono tantissime strutture d’eccellenza, nella sanità pubblica e in quella privata, con dotazioni strutturali efficienti, a volte all’avanguardia, e che soprattutto possono contare su risorse professionali di straordinario valore. La guarigione dal coronavirus di due pazienti lombardi curati a Catanzaro è stato un momento emozionante, ma in fondo solo una delle infinite pagine di buona sanità che i medici e gli operatori sanitari che hanno scelto di restare in Calabria continuano a scrivere ogni giorno, anche operando in condizioni difficili. Il vero problema  è proprio il circolo vizioso dell’emigrazione sanitaria, che sottrae al Sud risorse che potrebbero essere investite nel potenziamento delle strutture, e che invece continua a ingrossare i bilanci delle regioni del Nord con risorse che vengono così investite nei sistemi sanitari che continueranno così a richiamare pazienti meridionali e così via. Il bisogno di salute del Sud, quindi, è usato come un bancomat dalle regioni settentrionali, che per decenni hanno costruito e retto i propri sistemi di eccellenza proprio sulla mobilità sanitaria interregionale. Che la sanità meridionale non sia capace di dare cure di elevato livello è un falso storico, un racconto che serve proprio ad alimentare il sentimento di sfiducia nei cittadini, che si trasforma in un fiume di risorse che in maniera ormai strutturale passa da Sud a Nord, depauperando i sistemi sanitari delle regioni meridionali per consentire a quelli settentrionali di dotarsi delle strutture a cinque stelle di cui parla Feltri. E’ giusto raccontare il marcio che si annida in tanti gangli della sanità meridionale, ma è giusto dire che quella è solo una parte del racconto, e non può essere il pretesto per sfuggire alla responsabilità dei governi nazionali dopo anni di tagli alle risorse e commissariamenti che non hanno raggiunto l’obiettivo di migliorare i livelli di assistenza, e soprattutto per sottrarsi al dovere di destinare al Sud gli stessi investimenti che vengono da sempre indirizzati, copiosi, al Nord. Per fare della sanità meridionale una realtà “rassicurante” e spezzare finalmente la catena della migrazione sanitaria».

Non è l'Arena, le Sardine contro Massimo Giletti: "Trasmissione contro il Sud e in difesa della Lombardia". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Le Sardine sono sempre ben liete di comparire in tv - soprattutto in un periodo in cui sono irrilevanti politicamente - non importa che sia una puntata di Amici di Maria De Filippi o di Non è l’arena. Alla trasmissione della domenica sera di La7 ha preso parte Jasmine Cristallo, una delle esponenti di punta del movimento ittico, che però non è parso molto grato a Massimo Giletti per l'ospitata in prima serata. “Non avremmo voluto essere interrotti su Tina Anselmi - frignano le Sardine sui social - partigiana e primo ministro donna che sulla sanità molto ha fatto. Né avremmo voluto ascoltare una trasmissione contro gli ospedali del Sud, tacendo invece le responsabilità della Lombardia. Ma questo è Giletti”. La prossima volta allora i pesciolini possono gentilmente declinare l’invito, se non aggrada loro la discussione prevista in trasmissione. 

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio. Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Nunzia De Girolamo a Non è l'arena: "Se metti le mani nella sanità muori. Calci nel sedere a chi non sa usare i soldi". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. "Se ci metti le mani, muori". Nunzia De Girolamo è drastica: a Non è l'Arena da Massimo Giletti si para ancora di sanità al Sud e l'ex ministra puntualizza: "Si tratta di un settore pieno di interessi, non trasparente. Se parli, vieni punito e quando fai inchiesta improvvisamente si svegliano". Poi però il Sud non ha preso il 34% degli investimenti pubblici, ha preso il 24% per anni, quando non il 19%, e questo è un altro discorso, "Ma come fai a chiedere più soldi se li sprechi o li rubi?", le chiede Alessandro Cecchi Paone, in collegamento video. "No, i soldi devono arrivare perché i cittadini non possono pagare per la loro classe dirigente. E chi non li sa usare va preso a calci nel sedere".

Sanità in Puglia, lo scandalo dell'Ospedale di Mottola. La7 30/03/2020. Nell'Italia in emergenza per il Coronavirus a Mottola, vicino Taranto, c'è un Ospedale nuovo che è praticamente chiuso. Danilo Lupo è andato a scoprirlo. Giampiero Barulli, il Sindaco di Mottola: "E' una vergogna italiana!".

Tgnobaonline 31-03-2020. Ospedale di Mottola attaccato da La 7, ma la Asl svela falso scoop. Un ospedale nuovissimo, chiuso e inutilizzato per l’emergenza coronavirus, parliamo dell’Umberto primo di Mottola finito nel tritacarne mediatico

Servizio di Francesco Iato.  Riprese e montaggio di Pasquale D'Attoma. Intervista a Stefano Rossi, direttore generale Asl Taranto.

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio.

Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Numeri. Caro Giletti, così ci siamo. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bravo Giletti, il suo viaggio nel Sud a Non è l’Arena questa volta ci è piaciuto. Ai nostri occhi si è riscattato perché ha coperto con onestà il buco nero informativo della sua trasmissione che questo giornale ha denunciato perché insopportabile. Che a un cittadino calabrese lo Stato italiano elargisca 15,9 euro per investimenti in attrezzature sanitarie contro gli 89,9 che riceve un cittadino della Valle d’Aosta è uno scandalo morale, prima ancora che economico, perché lede i diritti di cittadinanza inviolabili della Repubblica italiana. A prescindere dal fatto, sia chiaro, che gli amministratori della Valle d’Aosta si sono dimessi perché indagati per associazione politico elettorale mafiosa e che il Comune di Saint Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta. Giletti ha mostrato le tabelle del Quotidiano del Sud che sono poi quelle dei Conti Pubblici Territoriali e ha detto con assoluta chiarezza che il capitolo degli investimenti sanitari dopo lo tsunami Coronavirus dovrà essere riscritto perché non equo. Non era scontato. Queste parole gli fanno onore e sono quelle che avremmo voluto sentire già due domeniche fa. Ogni volta che il conduttore di Non è l’Arena denuncerà gli sprechi e il malaffare calabrese nella sanità pubblica e privata ci avrà sempre al suo fianco. Perché questo giornale, come ho scritto la settimana scorsa, non ha e non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi pubblici e al coacervo di interessi massonici e amministrativi che a volte hanno spartito con essa il bottino e a volte ne hanno bloccato l’impiego per calcoli inverecondi. Questa vergogna deve essere esplorata e denunciata senza riguardi per nessuno perché la sanità è un bene pubblico e le vittime sono le donne e gli uomini del Mezzogiorno. Saremo sempre in prima linea nel sostenere a tutto campo l’azione di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori dall’Italia, e non ci stancheremo mai di ringraziarlo. C’è un punto rimasto in sospeso che aiuta a capire come sono andate davvero le cose, caro Giletti. È vero che i commissariamenti delle regioni del Sud hanno comportato un taglio dei trasferimenti per colpe loro, come hai opportunamente sottolineato, ma sono scattati per bilanci regionali in rosso per importi rilevanti che non hanno però paragone con quanto prima, durante e dopo è stato tolto alle stesse regioni del Sud per regalarlo alle regioni del Nord. Dal 2000 al 2017 su 47 miliardi di investimenti complessivi 27,4 sono andati al Nord, poco più di un terzo al Sud (10,5). Per la sanità italiana, un cittadino della Calabria ha ricevuto cinque volte di meno di un cittadino emiliano-romagnolo. A seguito dei giusti commissariamenti frutto di sprechi e inefficienze le Regioni del Mezzogiorno taglieggiate pesantemente per quasi un ventennio nella distribuzione delle risorse pubbliche hanno dovuto mandare a casa un altro 10% di personale. Ho scritto la Grande Balla perché questa ineludibile operazione verità che riguarda la sanità come la scuola, gli asili nido come i treni veloci, fosse chiara a tutti. Questa distorsione incostituzionale della spesa pubblica è tra l’altro all’origine dell’abnorme crescita della rendita sanitaria privata lombarda a discapito degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno. Ogni battaglia sacrosanta di moralizzazione e di ricostruzione economica e sociale del Paese può partire solo da questi numeri. Che parlano perché hanno un cuore e un’anima. 

VERGOGNA. Questo giornale sostiene l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri contro il malaffare in Calabria, in Italia e fuori dall’Italia ma denuncia un racconto sul Sud che nasconde il taglieggiamento degli investimenti pubblici per la sanità. Al Mezzogiorno va un terzo rispetto al Nord e lo Stato spende per  un calabrese 15,9 euro e per un valdostano 89,9 euro. Robero Napoletano il 30 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. DAL 2000 al 2017 ogni cittadino calabrese ha ricevuto pro capite 15,9 euro per investimenti fissi in sanità dal bilancio della Repubblica italiana. Ogni cittadino piemontese tre volte tanto (44,1), chi è nato in Emilia-Romagna cinque volte di più (84,4), ai cittadini veneti la dote personale (61,3) è pari a quattro volte la spesa pubblica attribuita a un abitante di Vibo Valentia o di Reggio Calabria. Campani e pugliesi si devono accontentare della metà esatta di quanto ricevono i lombardi e di un terzo di quello che incassano i veneti. Al colmo dell’equità in Valle d’Aosta dove il Governatore si è dimesso perché indagato per scambio elettorale politico mafioso e il Comune di Saint-Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta ogni cittadino riceve 89,9 euro: i suoi diritti di cittadinanza sanitaria pubblica sono di quasi sei volte superiori a quelli dei concittadini calabresi e valgono quattro volte di più di quelli dei suoi concittadini campani e pugliesi. Questo certificano i Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana voluti da Carlo Azeglio Ciampi per cercare almeno di capire a che cosa avrebbe condotto, anno dopo anno, la scelta di abolire il servizio sanitario nazionale e la nascita dei venti staterelli in guerra tra di loro chiamati Regioni. Che cosa si intende, mi chiederete, quando si parla di investimenti fissi in sanità? Per capirci, sono attrezzature scientifiche e sanitarie, macchinari, respiratori, posti letto di terapia intensiva, unità ospedaliere pubbliche. Tutto ciò che abbiamo scoperto mancare drammaticamente come dimostra l’ecatombe di vite umane da Coronavirus di questi giorni. Ci permettiamo, altresì, di ricordare che, parola della Corte dei Conti, il peggioramento dei conti della sanità pubblica italiana è interamente attribuibile a Regioni a statuto ordinario del Nord, a partire dal Piemonte. Scusate se sono andato lungo, ma era solo per esprimervi compiutamente il senso di ribrezzo che ha determinato in me assistere a un’ora e mezza di processo televisivo alla sanità del Mezzogiorno, ai suoi medici, ai suoi ospedali (Non è l’Arena di Massimo Giletti, La7) senza che si desse conto mai di uno solo dei numeri del taglieggiamento dei fondi per gli ospedali pubblici del Sud a favore dei prenditori della rendita sanitaria privata del Nord. Questo giornale non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi della sanità pubblica e al coacervo di interessi criminali, massonici e amministrativi a essa collegati ed è in prima linea nel sostenere l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori Italia (grazie Procuratore), ma non può nascondere il sentimento di vergogna per un racconto omissivo che appartiene a uno scenario scolastico di informazione leggerissima già mal digeribile nei tempi di pace. Non si rinuncia al più becero sensazionalismo saltellando sulle macerie italiane. La grande guerra è cominciata, ma ci sono alcuni “colonnelli della politica” e i loro “portavoce” che non hanno capito niente. Giocano alla guerra senza sapere che siamo in guerra per davvero non per finta. Sono i padroni delle telerisse. Non hanno rispetto nemmeno dei morti. Sono accecati da loro stessi, l’ego sconfinato del nulla. Dio ce ne scampi.

Dall’estero elogi al Cotugno: “E’ l’ospedale migliore d’Italia contro il coronavirus”. Redazione de Il Riformista il 1 Aprile 2020. E’ il Cotugno l’ospedale modello in Italia per la lotta al coronavirus. L’elogio arriva dalla stampa inglese e nello specifico da Sky News britannico che in un lungo e dettagliato servizio sull’emergenza pandemia covid-19 sottolinea il duro lavoro di tutto il personale sanitario dell’ospedale che rientra nell’azienda dei Colli insieme al Mondali e al Cto. “Questo ospedale è un’eccezione nel sud del paese” spiega l’inviato Stuart Ramsay, l’unico dove non ci sono medici e infermieri contagiati. “Mentre il diffondersi dell’epidemia ha colto tutti di sorpresa nel nord e il personale medico si è trovato senza protezioni, le cose in questo ospedale sono andate diversamente. Siamo stati portati, completamente vestiti di tute e occhiali di protezione, in una delle loro Unità Intensive. Qui siamo ad un livello completamente differente rispetto a tutto quanto visto finora”. Sky News spiega come nel “nord Italia in centinaia del personale sanitario si sono ammalati combattendo la pandemia del coronavirus e dozzine hanno perso la vita”. Al sud invece hanno avuto tempo per prepararsi. Il Cotugno, che ora tratta solo pazienti malati di covid-19, “era già il più avanzato, ma adesso ci rendiamo conto che tenere al sicuro il personale sanitario è possibile. Quello che ci dicono è che tutti e nessuno si possono infettare, non solo gli anziani. Ci sono molti giovani pazienti giovani in trattamento ed è interessante notare che i più colpiti sono della classe sociale media. Chiedo perché? La risposta è ovvia: lavorano. Quello che ci preme sottolineare è che le severe regole di separazione tra materiale infetto e pulito vengono seguite da tutti, ma le guardie di sicurezza nei corridoi di connessione lo ricordano in caso qualcuno lo dimentichi”. E poi ancora: “Le guardie di sicurezza sorvegliano i corridoi. Entrando, passiamo sotto un macchinario di disinfezione che sembra lo scanner di un aeroporto, ma che ti pulisce completamente. Lo staff che assiste i pazienti indossa maschere super avanzate simili a maschere antigas diverse da quelle normalmente indossate negli altri ospedali. Sono rivestiti da una tuta ermetica che fa in modo che medici ed infermieri siano davvero isolati. Incredibilmente, almeno per ora, nessun membro dello staff si è infettato, sembra che quindi questo sia possibile, basta avere le giuste forniture e seguire i giusti protocolli”. Protocolli rispettati anche nell’assistere i pazienti: “Avvertiamo un improvviso cambiamento. Un infermiere ci passa disperatamente veloce accanto con una siringa, Un paziente all’interno di una camera è improvvisamente peggiorato. Possiamo vedere che prepara un’iniezione fuori dalla stanza del trattamento. Non entra mai nella stanza ma comunica attraverso una finestra collegata col paziente. Questi non escono mai dalle loro stanze durante la crisi, e questo è uno. Quando è pronta, la medicina passa attraverso una porta a compartimento. Ricordate: non è mai entrato nella camera, non ha toccato niente e nessuno, ma immediatamente si toglie guanti e camice. l’attenzione ai dettagli è costante”.

La napoletana Myrta Merlino: “E’ incredibile, non mi sarei mai aspettata un’eccellenza come il Cotugno” . Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. La conduttrice de “L’aria che tira” su La7 si è lasciata andare a una considerazione infelice sull’eccellenza dell’ospedale Cotugno, rimarcata la scorsa settimana anche da Sky News britannico. Nel corso della trasmissione andata in onda questa mattina, martedì 7 aprile, la Merlino, durante un collegamento con il direttore del giornale Alessandro Sallusti si è lasciata andare a una dichiarazione del genere: “Poi a Napoli… per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli… la storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”. Il solito luogo comune arriva al termine di un discorso sull’impreparazione degli ospedali della Lombardia, messi in ginocchio dal boom di contagi di coronavirus, compresi medici e infermieri. “Il vero tema – ha argomentato la Merlino – è questo: quando il Covid-19 arriva, un ospedale deve avere la capacità di creare una sorta di chiusura ermetica. Questo è mancato in una fase iniziale. E’ anche il motivo per cui a Napoli, invece… Ecco, per me è incredibile: non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli, ma la storia del Cotugno ci ha sorpreso, perché hanno creato una situazione quasi da astronave rispetto all’elemento Covid”.

San Giuseppe Moscati, il medico santo e i miracoli con cui ha guarito i napoletani. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2020. Considerato il medico dei poveri, San Giuseppe Moscati è stato beatificato da Papa Paolo VI nel corso dell’Anno Santo 1975 e canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, a 60 anni dalla sua morte. La sua capacità di conciliare scienze e fede lo ha reso uno dei medici più conosciuti del Novecento. In particolar modo a Napoli, dove ha trascorso gran parte della sua vita anche se nacque a Benevento. Settimo di nove figli, Giuseppe Moscati proveniva da una famiglia di laureati in giurisprudenza, ma lui non continuò il tradizionale lavoro di famiglia e decise di iscriversi alla facoltà di Medicina per seguire la sua vocazione. Infatti San Giuseppe Moscati diventa noto in tutto il mondo per i suoi miracoli, che tuttora portano tantissimi fedeli a rivolgersi a lui per ottenere una guarigione. Il medico dei poveri vedeva nei suoi pazienti il Cristo sofferente, e per questo era spinto da uno slancio di amore generoso nei confronti di chi soffriva. Non attendeva che i malati andassero da lui, ma li andava personalmente a cercare e curare gratuitamente nei quartieri più poveri ed abbandonati della città. Moscati diventa così l’apostolo divino, colui che porta l’amore, la solidarietà e la compassione nel mondo dei più bisognosi attraverso le sue cure.

LA STORIA – Venuto al mondo il 25 luglio 1890, all’età di quattro anni si trasferì con la sua famiglia nel capoluogo campano dove ha conseguito gli studi e ha sviluppato la sensibilità per gli ammalati, che poteva osservare dalla finestra della sua abitazione che affacciava sull’Ospedale degli Incurabili. Il primo ammalato con cui ebbe a che fare fu proprio suo fratello Alberto, il quale caduto da cavallo subì un trauma cranico che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento ebbe un effetto persuasivo su Moscati tanto che lo spinse ancora di più a proseguire la sua vocazione per la medicina. Conclusi gli studi universitari il 4 agosto 1903, dall’anno successivo dopo aver superato due concorsi, presta servizio di coadiutore all’ospedale degli Incurabili a Napoli. Inoltre, organizza l’ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e grazie alla sua capacità di agire tempestivamente ha assistito i ricoverati nell’ospedale di Torre del Greco, durante l’eruzione del Vesuvio nel 1906. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia, ed i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni. Negli anni si succedono le nomine a coadiutore ordinario negli ospedali e, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a primario. Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell’insegnamento. Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, diventando uno dei più ricercati nell’ambiente partenopeo e non solo, conquistando anche una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Ma ciò che più ha caratterizzato il professor Moscati è la sua dedizione verso i più deboli e la sua vita impregnata di fede e di carità. Infatti sono numerosi i racconti di pazienti che hanno testimoniato la sua benevolenza restituendo i soldi delle visite mediche. Per lui i pazienti erano delle anime divine, da amare come noi stessi. Giuseppe Moscati morì di infarto il 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina. I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è  svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975. A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987.

I MIRACOLI – Ancora oggi i miracoli di San Giuseppe Moscati sono ricordati con amore dal popolo, che celebra la festa liturgica del medico Santo ogni anno il 16 novembre. Il 16 novembre del 1930, infatti, i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Dopo due anni la beatificazione, sempre il 16 novembre, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione. Tra i miracoli più noti del medico troviamo tre guariti: Costantino Nazzaro, Raffaele Perrotta e Giuseppe Montefusco. Il primo miracolato fu Costantino Nazzaro, maresciallo degli agenti di custodia, in salute fino a quando nel 1923 un ascesso alla radice della gamba destra non lo portò ad ammalarsi. Durante la convalescenza nell’ospedale militare di Genova, le sue condizioni fisiche peggiorarono e gli fu attribuito il morbo di Addison, considerata all’epoca dai trattati di medicina una diagnosi mortale. Nella primavera del 1954 Costantino, entrato in chiesa del Gesù Nuovo pregò dinanzi la tomba di San Giuseppe Moscati ritornando ogni due settimane per quattro mesi. Una notte Nazzaro sognò di essere operato da Giuseppe Moscati e l’indomani era guarito, con l’incredulità dei medici che non riuscirono a spiegarsi la sua guarigione.

Il secondo miracolato invece, Raffaele Perrotta, fu guarito istantaneamente da meningite cerebrospinale meningococcica nel febbraio del 1941. La patologia di cui soffriva Perrotta gli fu diagnosticata da piccolo già in forma grave e stava così male che il professore che lo aveva in cura non gli aveva dato nessuna speranza. Le condizioni del bambino, infatti, si aggravarono e la madre invocò Giuseppe Moscati. Passate alcune ore il ragazzo riprese conoscenza e la malattia fu dichiarata debellata. Giuseppe Montefusco fu l’unico dei miracolati presente alla canonizzazione di Giuseppe Moscati nel 1975. Dopo pochi anni, quando lui ne aveva venti, cominciò ad accusare astenia, pallore e vertigini tanto da ricorrere al ricoverato in ospedale. Al ragazzo gli fu diagnosticata una leucemia acuta mieloblastica, una patologia che lo avrebbe portato in poco tempo alla morte. Una notte, la madre sognò la fotografia di un medico in camice bianco. Segnata dall’evento, l’indomani mattina la donna racconta il sogno al suo parroco che pensò subito che potesse trattarsi di Giuseppe Moscati. Così la madre di Giuseppe si recò nella chiesa del Gesù Nuovo, dov’è sepolto Moscati, a pregare. Suo figlio dopo meno di un mese guarì. Anche in questo caso i medici parlarono di una morte non spiegabile.

Il premio. Prestigioso premio per Paolo Ascierto, dagli Usa arriva il Collaboration Award 2020 per il ricercatore del Pascale. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2020. “Sono orgoglioso oggi di ringraziare la Society for Immunotherapy of Cancer, Società per l’Immunoterapia del Cancro, che mi ha conferito il Collaborator Award 2020, un premio importantissimo per me, che celebra l’impegno e la fiducia che in pochi abbiamo avuto quando si è iniziato a parlare di immunoterapia”. Così l’oncologo e ricercatore italiano Paolo Ascierto dell’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli ringrazia con un post sui social l’organizzazione mondiale dedicata ai professionisti che lavorano nel campo dell’immunologia e dell’immunoterapia del cancro. Dopo numerosi riconoscimenti ottenuti quest’anno grazie anche al suo impegno nella battaglia contro il Covid-19, il dottor Ascierto potrà contare un premio in più nel suo palmares. “Sono altrettanto orgoglioso di aver fatto da ponte tra gli USA e l’Europa nella sperimentazione di un nuovo percorso di cura per i pazienti per cui fino a quel momento non avevamo molte terapie a disposizione”, prosegue l’oncologo. D’altronde, la ricerca dell’Istituto dei tumori Pascale non è la prima volta che sbarca oltreoceano. Lo scorso settembre, infatti, il sito statunitense Expertscape.com ha stilato una classifica di 65mila esperti nella lotta al melanoma mettendo al primo posto l’ospedale napoletano e Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia oncologica e Terapie Innovative. “Un risultato che abbiamo potuto raggiungere insieme, grazie alla ricerca e agli sforzi di tanti di noi che si sono dedicati alla scienza con passione e dedizione straordinarie”, conclude.

Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.

IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.

LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti”.

Coronavirus, Palombelli: “Al Nord più diffuso perché ligi al dovere”. Asia Angaroni il 21/03/2020 su Notizie.it. Sono le regioni del Nord Italia a essere più colpite dall'allarme Coronavirus: Barbara Palombelli ha dato una spiegazione, ma molti non hanno gradito. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte: è il Nord Italia a essere più coinvolto dall’emergenza Covid-19. Secondo gli esperti, sono le polveri sottili ad accelerare la diffusione dell’infezione, in particolare nella Pianura Padana. Intervenuta sull’allarme Coronavirus al Nord, Barbara Palombelli ne ha dato una sua interpretazione. In molti, tuttavia, pare non abbiano gradito il suo commento. Spiazzati i cittadini del Sud, che ora fanno appello al marito Francesco Rutelli, affinché prenda le distanze dalle moglie. “Il 90% dei morti è al Nord perché sono tutti ligi e vanno a lavorare”. Con queste parole Barbara Palombelli, nel corso della sua trasmissione Stasera Italia, in onda su Rete 4, ha spiegato qual è per lei il motivo per cui siano più numerosi al Nord Italia i contagi e i morti causati dal Covid-19. Sicuramente la celebre presentatrice, moglie dell’ex sindaco di Roma, si riferiva alla facile trasmissione del virus legata al maggior numero di persone che si muove da una città all’altra. Le cifre, nelle grandi metropoli del Nord, risultano più consistenti. Essendoci più gente che si muove, la rapidità e la facilità del contagio rischiano di salire esponenzialmente. Tuttavia, il Sud non ci sta e attacca: “Non ci sono giustificazioni: è un’infamia“. Per alcuni, simili parole esigevano delle “scuse immediate” da parte della Palombelli. E ancora: “Uno scivolone, anche se intollerabile, può capitare”. Ma a dare l’esempio, secondo il giudizio di alcuni, deve essere il marito Francesco Rutelli. A detta di alcuni, infatti, in nome del suo ruolo istituzionale e del suo passato politico, dovrebbe discostarsi dalle affermazioni della moglie, prendendo le difese del Sud.

Barbara Palombelli, polemica sul coronavirus: "Più morti al nord perché più ligi? E il Sud insorge. Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Barbara Palombelli nel mirino dei social. La conduttrice di Stasera Italia è finita al centro della polemica a causa di una frase sul coronavirus. "Il 90 per cento dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?" ha chiesto la Palombelli ai suoi ospiti nello studio di Rete Quattro. Una frase che ha immediatamente fatto indignare gli utenti del web che si sono scagliati così: "Un esempio di razzismo, in piena emergenza coronavirus. Seconda la Palombelli, il coronavirus ha fatto più morti al Nord perché lì 'sono più ligi e vanno a lavorare'", è uno dei commenti più leggeri che su Twitter si sono susseguiti. Eppure il contesto era totalmente diverso e la frase estrapolata e interpretata in malo modo.

L’assurda tesi anti Sud della Palombelli: “Al Nord più contagiati perché vanno a lavorare”. «Come il 90% dei morti da coronavirus in Italia si è registrato al nord?”. Barbara Palombelli, giornalista e conduttrice del programma d’informazione, ‘Stasera Italia’ (Rete 4), porge la domanda al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, una delle aree più colpite dal coronavirus. Ma prima di passare la parola al sindaco, Palombelli aggiunge: “Vi sono delle motivazioni particolari? Ci sono delle persone più ligie che vanno sempre a lavorare?”. Redazione de Il Riformista 21 Marzo 2020

Barbara Palombelli nella bufera per battuta sul Sud: «Più casi di coronavirus al Nord perché tutti lavorano?» Il Mattino Sabato 21 Marzo 2020. Barbara Palombelli nella bufera sui social per una domanda sul coronavirus. «È venuto fuori che il 90% dei morti» per coronavirus «è nelle regioni del Nord. Che cosa ci può essere stato di più? Comportamenti di persone più ligie che vanno tutti a lavorare?». Così Barbara Palombelli parlando dell'emergenza coronavirus in Italia durante la trasmissione Stasera Italia su Rete4. La domanda che la conduttrice del programma ha rivolto ai suoi ospiti ha innescato una bufera sui social. «Cara Barbara Palombelli, che brutta caduta di stile. In un momento così difficile per l'Italia intera, lei cosa fa? Squallide insinuazioni»; «Per cotanta bassezza intellettuale provo solo tanta pena»; «Scivolone assurdo di Barbara Palombelli, considerazione spicciola e gretta. Andiamo anche noi terun a lavurà»; «Ma davvero? Ma questa gente non è mai stata a sud di Assago? Ma che credono che noi viviamo sugli alberi? Io non ho parole!!! #barbarapalombelli si vergogni!», sono alcuni dei commenti che si leggono su twitter.

Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".

Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».

Dal profilo Facebook di Barbara Palombelli il 23 marzo 2020: Venerdì sera, si parlava dei bergamaschi e del loro senso del dovere e del lavoro... di andare a lavorare anche con la febbre. Con il sindaco Gori e gli ospiti in collegamento ci si chiedeva come mai proprio Bergamo fosse la città martire, se le aziende aperte fossero state, insieme alla partita giocata col Valencia, responsabili di questo dramma... qualcuno ha capito male e ha montato una immaginaria tempesta... non è il momento delle polemiche, non risponderò a nessuno.

Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2020. Barbara Palombelli  con un post duro su Facebook annuncia che passerà alle vie legali. Tutto parte dalla sua trasmissione, Stasera Italia in onda tutte le sere su Retequattro, in collegamento con diversi ospiti tra cui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori,  commentando la drammatica situazione della città bergamasca, piegata dal Coronavirus, la giornalista specificava: “Il 90% dei morti è nelle regioni del Nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?. Considerazione che ha causato una pioggia di insulti e critiche. “La libertà di opinione è sacra. La diffamazione via web è un reato. Tutti i post e gli autori contenenti ingiurie, calunnie e diffamazioni vengono e verranno identificati e chiamati a rispondere in sede civile di quanto hanno scritto“. Così la moglie di Francesco Rutelli sul suo profilo Facebook. “I miei avvocati sono al lavoro. Estrapolare una frase da un contesto in cui si parlava esclusivamente della tragedia di Bergamo, travisandone il contenuto, è un’operazione scorretta. Di tutto il resto si occuperanno polizia postale, magistratura e avvocati.” 

 “Ascierto non ha saputo replicare a Galli”, niente scuse di Striscia la Notizia. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Niente scuse e nessun passo indietro da parte di “Striscia la Notizia” dopo la querela presentata dall’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal professor Paolo Ascierto in seguito al servizio andato in onda la scorso 17 marzo che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra l’oncologo campano e il profersso Massimo Galli, dell’Istituto Sacco di Milano. La trasmissione di Canale 5 in una nota fornisce alcune precisazioni sul tipo di servizio andato in onda, dove accusava Ascierto di aver “copiato” il trattamento del farmaco anti-artrite Tocilizumab dai cinesi accusandolo di una “pessima figura”. “In merito alla notizia della querela presentata dalla Direzione dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal prof. Paolo Ascierto nei confronti di Striscia la notizia, vogliamo precisare, come già specificato nei giorni scorsi, che non era nostra intenzione entrare nel merito del curriculum e della storia professionale dei due esperti. Né, a maggior ragione, valutare i protocolli sanitari in atto per attribuire il primato della scoperta a uno o all’altro o a nessuno dei due. Il nostro servizio si è semplicemente limitato a riproporre il confronto televisivo tra i due medici, andato in onda nel programma di Bianca Berlinguer, durante il quale il dottor Ascierto non è stato in grado di controbattere in modo efficace alle contestazioni del professor Galli. La missione di Striscia la notizia è da sempre quella di fare satira televisiva ed è quello che continuerà a fare. Cogliamo l’occasione per ringraziare medici, infermieri, operatori sanitari e tutte le figure coinvolte per lo straordinario lavoro che stanno svolgendo”. La controparte ha invece ritenuto il servizio” montato ad arte e gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi”.

Perchè Striscia la Notizia dimentica le parole di Galli e si accanisce con Ascierto? Data cruciale.... Il noto giornale satirico dovrebbe ricordare le parole del famoso infettivologo dell'ospedale "Sacco" di Milano: una previsione totalmente sbagliata.  Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 marzo 2020. E' di oggi la notizia che la Direzione generale dell'Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale e il professor Paolo Ascierto hanno dato mandato all'avvocato Andrea Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del direttore responsabile e del conduttore di Striscia la Notizia e di quanti hanno curato il servizio trasmesso il 17 marzo che ha richiamato la trasmissione "Carta Bianca" di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra Ascierto e il professor Massimo Galli sul tema della sperimentazione del farmaco Tocilizumab su pazienti affetti da coronavirus. L'Istituto Pascale e il professor Ascierto "ritengono il servizio su richiamato di Striscia la notizia, montato ad arte, gravemente lesivo dell'onore e della reputazione di Paolo Ascierto e dell'Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi". Al di là di ogni possibile polemica e satira, una domanda sorge spontanea senza alcun tono polemico: perchè Striscia la Notizia che definisce "figuraccia" quella del Prof. Ascierto (ovviamente in maniera forzata e del tutto fuori luogo anche se è un giornale satirico), non va a ripescare le parole del Prof. Galli? Quali? C'è una data cruciale, ovvero il giorno 10 febbraio. Quel giorno, in un convegno Medico a Milano, il noto infettivologo dichiarò: "In Cina è in netta crescita per quanto riguarda la zona di Wuhan, anche se negli ultimi due giorni l’incremento è stato proporzionalmente inferiore rispetto ai giorni precedenti. Quindi dobbiamo attendere una o due settimane per capire dove si andrà a parare e sarà molto importante considerare le epidemie satelliti, ovvero la presenza del virus in altre grandi aree urbane della Cina. Rispetto a quanto ci si poteva attendere, la diffusione a livello internazionale di questo virus è stata molto inferiore rispetto a quanto è capitato ad esempio per la SARS nel 2003. Questo vuol dire che le misure di limitazione dei viaggi  assunte abbastanza presto hanno consentito di contenere il fenomeno e questo vale soprattutto per il nostro Paese dove abbiamo solo tre casi importati. Si tratta – ha proseguito – di due cittadini cinesi e uno italiano, persone che si sono infettate poco prima di partire dalla Cina e da Wuhan nel caso specifico. La malattia da noi difficilmente potrà diffondersi: l’esiguità del numero dei casi riscontrati fino ad ora e la modalità con cui si sono manifestati in persone che si sono infettate poco prima di partire da Wuhan, ci dà la dimensione del contenimento complessivo della problematica". Forse è più questa una brutta figura? Forse... Del resto, errare è umano. Restiamo umani.

Striscia la Notizia nei guai: la fake news su Reggio Calabria. Linda l'01/04/2020 su Notizie.it. Striscia la Notizia smentita dall'ospedale di Reggio Calabria: la fake news denunciata dalla struttura sanitaria. Tutti sono ormai a conoscenza del grande gesto compiuto da Fedez e Chiara Ferragni nel raccogliere fondi per il San Raffaele di Milano. La loro iniziativa ha del resto spinto molte persone ad aprire altre sottoscrizioni destinate a diverse strutture ospedaliere di tutta Italia. Proprio in questo frangente anche Striscia la Notizia ha voluto realizzare un servizio per aiutare gli italiani a scegliere delle campagne solidali serie e che non siano delle truffe. Prima di fare la propria donazione, ognuno deve quindi assicurarsi che l’attività sia svolta su siti web ufficiali e confermati. In tale contesto, anche l’ospedale di Reggio Calabria ha deciso di aprire una campagna solidale sul sito GoFundMe. Tuttavia qualche giorno fa Striscia la Notizia ha fatto notare al suo pubblico come sulla piattaforma non risultasse ancora tale struttura nell’accettazione della campagna. Il tg satirico di Antonio Ricci ha invece precisato come il San Raffaele di Milano abbia dato la propria autorizzazione. Stando dunque al programma di Canale 5, il rischio era che il denaro raccolto potesse finire sul conto corretto del soggetto creatore della campagna e non all’ospedale vero e proprio. La replica non è tuttavia tardata ad arrivare. La notizia è stata infatti smentita direttamente dei colleghi del tg satirico di Mediaset. Nelle ultime ore il GOM ha di fatto firmato una delibera con cui ha autorizzato ufficialmente la donazione della raccolta fondi dei cittadini calabresi. È stato infine messo in chiaro come nel servizio di Striscia la Notizia sia stata data sostanzialmente una fake news.

Enrico Mentana, un "anche" di troppo? Criticato da alcuni napoletani, replica: "Ridicoli piagnoni, imparate l'italiano". Libero Quotidiano il 02 aprile 2020. Enrico Mentana nella bufera. A far discutere è un post pubblicato dal direttore del Tg La7 sul suo profilo Facebook. Qui il giornalista condivide un articolo dal titolo: “Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta al coronavirus: il Cotugno”. A rimarcare il pezzo, il suo commento: "A Napoli c’è anche un’eccellenza“. E così, per l'"anche", è stato preso di mira da non pochi utenti: sono più di 9mila i commenti lasciati e ai quali Mentana non evita di rispondere. “Ridicoli piagnoni che vi attaccate a un semplice anche, imparate l’italiano - scrive -. Amo Napoli più di voi evidentemente”. Una frase che ha gettato benzina sul fuoco, alimentando ancora di più la polemica in corso: "'Anche', è proprio più forte di voi. Intanto qui nessuno ci pensa e l'eccellente personale sanitario fa i salti mortali per assistere con i pochissimi mezzi messi a disposizione chi ha la "fortuna" di poter essere curato. L'eccellenza qui c'è sempre!" scrive una ragazza mentre qualcuno le fa eco: " ... “anche”...Non cambierà mai. E non parlo di lei, direttore. Ma della discriminazione generale verso il Sud. Insomma, tutti contro Mentana.

Per i media inglesi il Cotugno è un modello per l’Italia. Per Mentana: “A Napoli c’è anche un’eccellenza”. Da Chiara Di Tommaso l'1 aprile 2020 su Vesuvio Live. Il Cotugno di Napoli è un’ospedale modello per tutta l’Italia, una mosca bianca. A dirlo è un servizio, ricco di elogi, fatto da Skynews, una delle fonti più autorevoli nel campo dell’informazione. Sotto la lente di ingrandimento finisce un dato significativo: quello dei medici e infermieri che non sono stati contagiati dal coronavirus nell’Ospedale napoletano. Un dato in controtendenza rispetto a quello di tutta Italia dove si registrano oltre 8 mila contagi nel personale sanitario. Ma in un articolo di Open, questa notizia viene leggermente cambiata. Come? Semplicemente nel titolo:

“Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta contro il Coronavirus: il Cotugno”.

Il ma a inizio frase indica un certo atteggiamento avversativo a una notizia che è invece solo positiva. Una scelta ben precisa perché come sostiene la Treccani, “Il caso più noto e studiato è quello del ma che, oltre a essere usato come congiunzione coordinativa con valore avversativo, ha una serie di usi pragmatici, che segnalano cioè un atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato stesso o all’enunciazione. In questi casi il ma è solitamente collocato in apertura di frase. Un primo esempio è rappresentato da frasi esclamative abrupte in cui il ma segnala la contrarietà del parlante (ma tu guarda!, ma bravo!, ma no!). Il ma può essere inoltre usato a inizio di frase con un valore parafrasabile all’incirca come «nonostante sia vero quanto detto (o presupposto) finora, più importante ancora è quello che segue …». Lo si incontra nello scritto dopo una pausa forte (marcata da un punto o punto e virgola) o a inizio assoluto di testo, per segnare il passaggio ad altro argomento o per rinviare enfaticamente a un argomento noto”.

Peccato che l’intero articolo racconti solo dell’elogio di Sky News al Cotugno e manchi del tutto il riferimento a un altro argomento, appunto avversartivo. Resta quindi un titolo fuorviante che genera solo commenti negativi. Anche il fondatore di Open, Enrico Mentana, posta questa notizia sul suo profilo Facebook riportando, in parte, il titolo dell’articolo.

“A Napoli c’è anche un’eccellenza”

Qui è la parola ‘anche’ ad aver suscitato più di una reazione nei lettori. In tantissimi infatti sotto al post criticano la scelta del giornalista di aver usato quella congiunzione.

Scrive Raffaele: “Che significa “a Napoli c’ è anche un eccellenza”? lo ritengo abbastanza offensivo da un professionista come lei. Ha perso tutta la mia stima”.

Mentre Tiziana commenta: “L”anche” poteva essere evitato… mettendolo sta affermando che il resto non è eccellenza o, addirittura, induce a pensare che il resto è al di sotto dei livelli standard (per non dire, alla napoletana, il resto è munnezz)”.

Ma c’è anche chi pensa che questa sia stata solo una mossa per ottenere più like, come Paolo che scrive: “Quell’ “anche” è molto triste, so che l’ha messo per far sollevare un ennesima polemica, ma offende tanti che in questo momento, fuuri dal Cotugno, si stanno facendo in quattro contro il Virus. Rettifichi il titolo, non approfitti di questo momento di grande emotività per racimolare qualche commento o like in più”.

La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.

“A Napoli traffico intenso”: in strada non c’è nessuno e la giornalista tocca l’uomo. Da Francesco Pipitone il 15 Aprile 2020 su VesuvioLive. Questa mattina è andata in onda, come al solito, il programma di informazione Agorà in onda su Rai Tre. In collegamento da via Luca Giordano al Vomero c’era la giornalista Elena Biggioggero, che ha intervistato Luigi Sparano, segretario della sezione napoletana della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In realtà la Biggioggero fa domande molto interessanti a Sparano, il quale mette in luce problematiche estremamente importanti per quanto riguarda la gestione del pericolo della diffusione del contagio da coronavirus. Napoli, viene evidenziato, è una città in cui ci sono molti nuclei familiari numerosi, dunque il contagio avviene spesso tra le mura domestiche. Situazione che si fa più grave nei quartieri più popolari, dove le esigenze economiche spingono alla convivenza tra più persone, in particolar modo con gli anziani. Il problema sorge quando la conduttrice, Serena Bortone, si collega alle polemiche dei giorni scorsi sulla presunta eccessiva presenza di persone in strada domandando ad Elena Biggioggero se fosse vero o meno: “Siccome sono state fatte un po’ di polemiche – Napoli vuota, strade occupate eccetera – da testimone – per altro tu sei milanese, per questo hai uno sguardo nordico sul nostro amato Sud… non toccarlo, non vi avvicinate… – voglio sapere se Napoli è vuota oppure no, se si rispettano le regole oppure no”. A quel punto la giornalista fa girare il cameraman per fargli inquadrare la strada, che però in quel momento è vuota: “Guarda Serena, io ti voglio far vedere questa immagine. Noi stiamo in una zona che sarebbe pedonale. Siamo qua da circa una mezz’ora. C’è un passaggio di auto, insomma, abbastanza numerose; abbiamo visto furgoncini, sarebbe una zona commerciale in cui il commercio è interrotto perché i negozi sono chiusi. Ecco, non siamo fortunati in realtà perché in questo momento non c’è nessuno ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso”. Serena Bortone replica: “No perché ieri ci siamo sentiti con Elena e mi ha detto che Napoli era deserta. Quindi se poi qualcuno si sposta, insomma…”. In realtà via Luca Giordano è sì pedonale, ma soltanto in parte, come sa bene qualsiasi napoletano. Elena Biggioggero ha dunque fornito un’informazione sostanzialmente sbagliata, poiché fa intendere che nonostante la pedonalizzazione ci sia un passaggio intenso di auto. Secondo, quando la giornalista fa inquadrare la strada, viene ripresa la parte dove le auto possono passare e se ne vede transitare soltanto una, poi un autobus. Durante il collegamento furgoncini non se ne vedono, soltanto un mezzo dell’Asia per la raccolta dei rifiuti, e tra l’altro se anche fossero passati dei furgoncini molto probabilmente poteva trattarsi di lavoratori che consegnavano merci, chissà. Giornalisticamente l’informazione che ha dato è irrilevante poiché nulla faceva intendere una illiceità del passaggio – presunto – dei furgoncini. Ma la parte “migliore” l’abbiamo vista quando la Biggioggero ha messo la mano sulla spalla del dottor Sparano passandogli molto vicino, sfiorandolo addirittura, ed entrambi non avevano la mascherina posizionata sul volto. Serena Bertone infatti l’ha avvertita: “…non toccarlo, non vi avvicinate…”.

Ennesima figuraccia Rai. Napoli Est applaude la polizia, Tg1 vergogna: “Ma da voi non è ben accetta”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Sorprendersi perché i residenti del Bronx di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli, applaudono la polizia intervenuta con mezzi speciali per sanificare le strade durante l’emergenza coronavirus. La Rai ci ricasca ancora e a pochi giorni dall’inviata della trasmissione Agorà, che dal nord è stata spedita a Napoli per dichiarare in diretta televisiva di essere stata sfortunata a non beccare auto o persone in strada, porta a casa un’altra figuraccia con un servizio andato in onda venerdì sera, 17 aprile, al Tg1. “Qua di solito la polizia non è ben accetta” chiede il giornalista a un residente del Bronx dopo aver ripreso l’accoglienza calorosa riservata dagli abitanti delle case popolari omaggiate qualche anno fa da due dipinti dello street artist Jorit. Un pregiudizio gratuito che resta tale a prescindere nella concezione di chi viene spedito a raccontare quello che accade nel capoluogo partenopeo senza conoscere a fondo la realtà stessa che dovrebbe documentare. Per l’opinione pubblica nel Bronx c’è solo la camorra, così come a Scampia, nel Rione Traiano, nel rione Conocal a Ponticelli o nel centro storico a Forcella. Tutte le persone oneste che vi abitano sono destinate a portarsi dietro questa etichetta e a finire, in chiave negativa, in un servizio del Tg1 nonostante gli applausi alla polizia.

I Mantenuti…

Il Fallimento della Sanità Lombarda. Gli altezzosi, arroganti e presuntuosi padani ed i loro media amici non possono nascondere la verità. Un sistema di sanità privata promossa e pubblicizzata come "Eccellenza" dalla padana Mediaset, ma toccato da scandali e finanziato dalle Regioni meridionali per pagare i servizi resi ai loro malati con la valigia. Quei meridionali illusi che al nord Italia vi sia un'eccellenza che al Sud manca. Ma oggi con l'emergenza della pandemia si notano tutti i limiti di una menzogna. E' un ecatombe addebitabile, sì, al Coronavirus, ma causata da inefficienze strutturali. Basti pensare che le prime vittime ed i primi carnefici sono stati proprio gli operatori sanitari.

Guai, però, a dire che l’arroganza e la presunzione non paga.

La Grande balla al Tg4, Napoletano: «Il Sud è stato di fatto escluso dal decreto liquidità». Roberto Napoletano il 16 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Nuova crisi, vecchio rimedio. I soldi? Sempre e solo al Nord. La proposta indecente dei tecnici del Governo. Ivana Giannone il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nuova crisi economica, vecchi rimedi. Come accadde dal 2009 in poi, anche oggi con l’emergenza Coronavirus in corso, il Governo ha bisogno di risorse da investire qua e là per salvare il salvabile. Questa volta non serviranno a ripianare i conti pubblici, che grazie alla sospensione del patto di stabilità non dovrebbero essere un problema, ma a investire nelle zone più colpite. Con quali soldi? Con quelli destinati al Mezzogiorno. La proposta arriva dal Dipe, il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica che fa capo a Palazzo Chigi. In un documento dal titolo “L’Italia e il Covid-19” (aprile 2020), che il Quotidiano del Sud è riuscito a visionare, si propone la «sospensione del riparto delle risorse dei programmi di spesa». Tradotto: la messa in pausa della cosiddetta clausola del 34% che destina alle regioni meridionali una quota di investimenti pari alla popolazione residente. Un colpo di mano che rischierebbe di mettere una pietra sopra su una disposizione approvata a fine 2016, ma ancora largamente inattuata. Sospendere, poi, fino a quando? Questo il Dipe non lo dice. L’emendamento proposto cita testualmente: «Il riparto delle risorse dei programmi di spesa di cui al comma 2 è sospeso sino al …….».

Puntini sospensivi. Che potrebbero valere mesi, o più probabilmente anni, di quello che questo giornale ha sempre definito “scippo” e che questa volta troverebbe una nuova giustificazione nell’emergenza che però, è bene ricordarlo, colpisce tutto il Paese, specie i territori che già prima scontavano povertà e disoccupazione. Due rilievi possono aiutare a capire cosa significherebbe dirottare altrove gli investimenti destinati al Sud. Secondo una stima della Svimez, già prima dell’inizio dell’emergenza Covid-19, il Mezzogiorno faceva i conti una pesante recessione: il pil meridionale era circa dieci punti al di sotto dei livelli pre-crisi del 2009. Secondo dato: il lockdown dovrebbe far calare il prodotto interno lordo del Mezzogiorno di circa altri 8 punti. A fine anno quindi il Sud potrebbe contare circa 20 punti di pil in meno rispetto al 2007. Tutto questo ovviamente al netto della proposta del Dipe. Senza investimenti o con una quota significativamente ridotta, i numeri potrebbero essere ben altri.

Le giustificazioni si sprecano: «A seguito dell’esplosione della crisi sanitaria e delle sue conseguenze economiche nel Paese – si legge nella relazione illustrativa allegata alla proposta – si rende necessario operare una sospensione del criterio di riparto delle risorse dei programmi di spesa in conto capitale finalizzati alla crescita o al sostegno degli investimenti, consentendo all’Autorità Politica la valutazione delle zone ove concentrare la maggior quantità di risorse per investimenti in considerazione del mutato scenario sociale e produttivo». Leggi: i soldi vanno dirottati in quello che fino a un paio di mesi fa era il cuore produttivo del Paese, con buona pace di quelle regioni che quest’estate non potranno contare più neanche sulle entrate garantite dal turismo.

E non finisce qui. Proprio come già accaduto nel 2010, quando il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, si propone una sforbiciata anche ai Fondi di sviluppo e coesione, le risorse che almeno in teoria sarebbero destinate al riequilibrio territoriale. L’attuale ripartizione affida l’80% dei fondi al Sud e il 20% al Centro-Nord. Percentuali che ora si vorrebbero rivedere, anche se il documento non specifica in quale misura, rimandando tutto al “coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali”. Le risorse prese in considerazione sono quelle relative alla programmazione 2014-2020, in particolare i 4,87 miliardi di euro che oggi risultano ancora «liberi da utilizzi». Un set di proposte indecenti che non è passato inosservato dalle parti di Montecitorio. «È imprescindibile che il Governo mantenga, ribadendola con forza, una linea politica per lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali che da un lato favorisca una pronta ripartenza del proprio tessuto produttivo e dall’altro permetta il recupero progressivo dei divari economici e infrastrutturali con il resto del Paese», scrivono i deputati meridionali del Partito Democratico. «A tal fine consideriamo i seguenti punti come componenti fondamentali e non derogabili di questa strategia: 1. mantenere il vincolo di destinazione territoriale delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) congiuntamente a quelle degli altri Fondi strutturali, al fine di promuovere le politiche per lo sviluppo della coesione sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e infrastrutturali tra le regioni; 2. considerare le risorse di cui al punto 1) aggiuntive rispetto a qualsiasi altro strumento di finanziamento ordinario e/o straordinario, non derogando così al criterio dell’addizionalità previsto per i fondi strutturali dell’Unione Europea; 3. rispettare la cosiddetta “clausola del 34%” che prevede la distribuzione degli stanziamenti in conto capitale delle Amministrazioni Pubbliche in proporzione alla popolazione nelle varie regioni italiane». Ora tocca al ministro dell’Economia, il democratico Roberto Gualtieri, e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte battere un colpo.

"Modificate le risorse per il Sud". Bufera sul documento del governo. Al centro delle polemiche vi è il documento “L’Italia e la risposta al Covid-19” che modifica la normativa vigente sulle risorse economiche per il Sud. Gabriele Laganà, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. La settimana scorsa era stata resa nota la creazione da parte del governo di una bozza dal titolo "L’Italia e la risposta al Covid-19" che, in 150 pagine, definisce un piano di crescita economica e di ingenti investimenti pubblici. Il documento è finito al centro delle polemiche perché contiene un punto controverso: quello in cui si propone la sospensione della quota del 34% e del criterio di riparto del Fsc, il Fondo sviluppo e coesione. Attraverso questo strumento, che in origine si chiamava Fondo per le aree sottoutilizzate, il governo effettua investimenti nelle zone meno sviluppate del Paese. Immediatamente si sono alzate critiche molto forti da parte dei parlamentare del Sud. Il dem Pietro Navarra, insieme ad altri colleghi provenienti dalla Regioni del Mezzogiorno ha inviato una lettera ai ministri competenti in cui si richiede che le risorse dei fondi strutturali rimangano nel Meridione e che resti in vigore la clausola del 34%. I parlamentari del Sud definiscono "ingiustificate" le proposte di superamento dell'attuale ripartizione del Fsc, che destina l'80% del fondo al meridione e il 20% al Centro Nord. Giudizio simile anche per quanto riguarda la sospensione della norma per cui il 34% di stanziamenti in conto capitale della Pa vadano destinati al Sud. Ora sulla questione è intervenuto anche Fratelli d’Italia. "Il governo faccia chiarezza sull'esistenza di una bozza di documento denominato 'L'Italia e la risposta al Covid-19', elaborato ad aprile 2020 dal Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica della Presidenza del Consiglio dei ministri, che proporrebbe due proposte volte a modificare la normativa vigente in materia di destinazione delle risorse economiche alle regioni del Sud Italia". È quanto hanno dichiarato i deputati Marcello Gemmato, Edmondo Cirielli, Wanda Ferro, Carolina Varchi, Ella Bucalo, Salvatore Deidda, Ylenja Lucarelli, Salvatore Caiata e Davide Galantino. I parlamentari di Fdi hanno anche annunciato una interrogazione. Il loro obiettivo è quello di sapere "quali siano le eventuali modifiche alle percentuali di riparto delle risorse del 'Fondo sviluppo e coesione che si vorrebbero modificare (Ciclo di Programmazione 2014-2020 ), e che attualmente prevedono l'80% destinato alle regioni del Mezzogiorno e il 20% destinato alle regioni del Centro-Nord". Gli stessi deputati, inoltre, chiediamo se esiste una reale intenzione da parte del governo di sospendere "la cosiddetta regola del 34% nella assegnazione degli stanziamenti statali ordinari in conto capitale, che attualmente prevede in nome del principio del riequilibrio territoriale, il criterio di assegnazione differenziale di risorse aggiuntive a favore degli interventi nei territori delle regioni del sud disponendo che le Amministrazioni centrali dello Stato si debbano conformare all'obiettivo di destinare agli interventi in queste regioni un volume complessivo annuale di stanziamenti ordinari in conto capitale proporzionale alla popolazione di riferimento". Gli esponenti di Fdi, infine, chiedono di sapere quali iniziative intenda adottare l'esecutivo al fine di assicurare comunque un adeguato riparto di risorse in favore delle regioni del Sud "affinché si possa garantire sempre il riequilibrio territoriale tra le diverse zone del Paese nonché lo sviluppo della coesione economica, sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e sociali del Paese così come disposto dall'articolo 119 della Costituzione della Repubblica italiana".

Il virus rischia di togliere i fondi europei alla Calabria: soldi alle regioni colpite. Massimo Clausi il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Altro che Mes. Il vero acronimo che dovrebbe preoccupare i calabresi è CRII+ (Coronavirus Response Investment Initiative Plus). Si tratta di un pacchetto di misure finalizzate a fronteggiare l’emergenza coronavirus in tutta Europa. L’elefantiaco procedimento legislativo di Bruxelles sul tema non si è ancora concluso, ma in linea di massima il pacchetto prevede una straordinaria flessibilità dei fondi affinché tutto il sostegno finanziario non utilizzato a titolo dei Fondi strutturali e di investimento europei possa essere pienamente mobilitato. Nello specifico la flessibilità è garantita mediante: possibilità di trasferimento tra i 3 fondi della politica di coesione (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo di coesione); trasferimenti tra le diverse categorie di regioni; e flessibilità per quanto riguarda la concentrazione tematica. Naturalmente è il secondo punto quello che più interessa alla Calabria ovvero lo spostamento dei fondi di Coesione (pensati per colmare i gap socio-economici fra le regioni) a regioni diverse da quelle definite “convergenza” come la Calabria. In base a questo pacchetto i fondi non utilizzati dalle regioni più “deboli” possono essere trasferiti ad altre regioni per contrastare gli effetti della pandemia. Attualmente gli Stati membri possono trasferire tra le regioni fino al 3% dei fondi stanziati. Nella proposta odierna non vi è più alcun limite, poiché l’impatto del coronavirus non rispetta la consueta categorizzazione delle regioni più o meno sviluppate prevista dalla politica di coesione. Ciò significa che la Lombardia, dove il virus ha colpito più che altrove, può prendersi i fondi della Calabria. Al fine di garantire una continua attenzione alle regioni meno sviluppate, gli Stati membri dovrebbero valutare in primo luogo altre possibilità di trasferimento dei finanziamenti prima di prendere in considerazione il trasferimento dai bilanci delle regioni meno sviluppate a quelli delle regioni più sviluppate. In altre parole, i trasferimenti non dovrebbero ostacolare gli investimenti essenziali nella regione di origine o impedire il completamento delle operazioni selezionate in precedenza. Inoltre, i trasferimenti possono essere richiesti dagli Stati membri solo per operazioni connesse al coronavirus nel contesto della relativa crisi. Va ricordato che l’obiettivo della politica di coesione è ridurre il ritardo delle regioni meno favorite. Tale principio è sancito dal trattato e dovrebbe essere rispettato anche nelle circostanze attuali. Questo in linea di principio. In Italia però bisogna sempre prendere tutto con le molle perchè già abbiamo avuto un’esperienza simile con i fondi Pac “dirottati” sulle quote latte lombarde. Questa possibilità che i fondi comunitari non impegnati possano essere trasferiti ad altre regioni interessa molto la Calabria che ha diversi investimenti ancora fermi al palo. La tabella che potete leggere in pagina è contenuta fra i documenti allegati al bilancio di previsione 2020 che sarà discusso nel prossimo consiglio regionale. Secondo i conti del Dipartimento Bilancio della Regione, la quota delle risorse a fronte delle quali non si registrano obbligazioni giuridicamente vincolanti ammonta ad almeno 3 miliardi di euro nel pluriennale 2020-2023. A questi vanno aggiunti anche i quattrini della programmazione 2016/2020 calata in un quadro economico che oggi è totalmente mutato per gli effetti del coronavirus. Da qui la proposta del consigliere regionale del Pd, Carlo Guccione, di approvare insieme al bilancio un piano strategico per far ripartire gli investimenti pubblici e impegnare quante più risorse possibile per evitare futuri scherzi da parte del Governo e della Ue. La maggioranza, dal canto suo, vuole riproporre una commissione consiliare che i occupi di fondi comunitari proprio per evitare che queste risorse prendano altre strade. Non sappiamo quale delle due proposte sia confacente alla situazione, ma quel che è certo è che bisogna iniziare a discutere della futura programmazione per far ripartire la Calabria. Al momento si registra solo l’atto di indirizzo della giunta, su proposta dell’assessore Fausto Orsomarso (approvato con Delibera di Giunta Regionale del 01.04.2020) in cui vengono stanziati 150 milioni, che verranno gestiti da Fincalabra, per prestiti alle imprese calabresi. Un primo passo, che a breve verrà concretizzato, ma il dibattito non può che essere più ampio se non vogliamo rischiare un altro scippo al Sud.

VOGLIONO FAR PAGARE AL SUD SPRECHI E MALAGESTIONE DEL NORD. Pino Aprile 20 Aprile 2020.

FONDI COESIONE E 34% A RISCHIO. MINISTRO PROVENZANO, E SOTTOSEGRETARIO TURCO: NO. “L’Italia è finita”, sembrò un titolo esagerato, ad alcuni: racconta quello che sta succedendo, e perché, anche se uscito due anni fa. Preveggenza? Figurati: lo diceva già Indro Montanelli molti anni prima. Il destino dell’Italia si gioca in questi giorni, forse, in queste ore: dipenderà da come finisce lo scontro fra chi pensa di “tornare a prima del Covid-19”, ovvero al Paese diviso fra chi si arroga tutti i diritti e i meriti (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso), e chi è ritenuto titolare di minori diritti (lo si vorrebbe persino sancire costituzionalmente, con l’Autonomia differenziata) per la sua pochezza e incapacità (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso, pur se lo insegnano da cattedre in “Tutta colpa del Sud” generosamente elargite). Il modo in cui si vorrebbe tornare a “prima del Covid-19” è lo stesso che ha creato l’Italia duale: una parte che rastrella risorse (e non “restituisce”, come ha detto il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano e confermano economisti non schierati) e una parte tenuta in stato coloniale, cui sottrarre risorse e diritti.

L’APPELLO L CAPO DEL GOVERNO: LA RIPARTENZA SIA MERIDIONALE. Le proposte allo studio del governo sono le peggiori possibili: rubare i fondi per lo sviluppo e la coesione, FSC, destinati al Sud e darli a chi è stato capace di buttare da 21 a 50 milioni (non si sa ancora), per attrezzare in un mese una dozzina di posti letto di terapia intensiva, mentre gli incapaci e ladri, a Napoli, in 30 ore, costruivano un ospedale (non solo tirando su tramezzi in un edificio esistente), per 72 posti letto, spendendo 7 milioni. E vorrebbero pure sospendere la clausola, appena imposta, del 34 per cento della spesa pubblica al Sud, almeno proporzionale alla popolazione! Questo, mentre centinaia di cittadini (primi firmatari, decine di docenti universitari, intellettuali, imprenditori) lanciano una lettera dal Sud al capo del governo, per dire che la ripartenza dalla tragedia non può che essere meridionale, perché le circostanze lo consentono, senza rischiare, e perché l’Italia è giunta al punto di rottura: o si avvia il recupero del divario Nord-Sud (frutto di scellerate scelte politiche e discriminatore a danno del Mezzogiorno, in un secolo e mezzo), o il Paese non reggerà alla brutalità di questo ennesimo strappo e si spezzerà.

LA PAROLA D’ORDINE: “FOTTERE IL SUD”. A livello di governo e dintorni, ormai c’è chi dice, esplicitamente, che “bisogna fottere il Sud” (la disperazione degli incapaci e ladri fa cadere le finzioni ed emergere la vera natura delle cose). E i trombettieri di regime coloniale annunciano la secessione possibile del Nord, se non potrà ancora saccheggiare il Sud, mentre si dice stufo di mantenerlo (e sono pure bugiardi, visto che ormai anche la Gazzetta di Paperopoli, non i giornali del Nord, non la Tv di Stato, salvo eroiche eccezioni, vedi Report, pubblica che l’ente di Stato Conti Pubblici Territoriali, gli studi della Svimez, le ricerche dell’Eurispes, eccetera eccetera eccetera, dimostrano che ogni anno son sottratti al Sud, dalle risorse che gli spetterebbero, almeno 61-62 miliardi. Quindi: chi mantiene chi?

Più volte, il giornale portavoce della Confindustria, il Sole24ore, nelle settimane scorse, aveva riportato “voci” chiaramente ispirate da ambienti ministeriali, senza dire quali, secondo cui “era allo studio” l’idea di “riprogrammare” i fondi per lo sviluppo e la coesione, eliminando il vincolo della destinazione. Che voleva semplicemente dire: i soldi del Sud, ce li prendiamo al Nord, e chissene pure del vincolo del 34 per cento (infatti il ministro ai Trasporti, purtroppo Paola de Micheli, Pd, nella ripartizione di parte dei fondi per il rinnovo dei parchi degli automezzi per il trasporto urbano, assegnò tutto alle città del Nord, meno una del Sud: l’equità di lorsignori). La mossa di oggi, quindi, viene da lontano.

"GLI ERPIVORI: NEL 1948 DE GASPERI DIROTTO' I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA'? Annamaria Pisapia il 23 aprile 2020 su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicopensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque (ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto (la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall'ospedale di Padova e di Brescia come "primi" ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l'emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce com“ nord, motore propulsivo". Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l'unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l'America annunciò l'avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell'Europa. Il piano prevedeva l'impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l'Italia, il Sud era l'area maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall'evento bellica. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l'87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su "Il Popolo" del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori" (consumatori parassiti di fondi Erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si battè affinché gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: "a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il Pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita "La Cassa per il Mezzogiorno" (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto, mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente".

IL MINISTRO DEL MEZZOGIORNO E IL SOTTOSEGRETARIO ALLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA: IL SOLDI DEL SUD NON SI TOCCANO. C’è da dire che, nel pieno del casino suscitato dalla divulgazione della proposta giunta sul tavolo di governo, ci sono due esponenti di peso del governo che sono venuti allo scoperto: il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega alla programmazione economica, Mario Turco. Provenzano, a cui ho chiesto cosa dobbiamo aspettarci, ha risposto: «Quelle proposte non sono le mie. Non sono state nemmeno discusse nel governo. Ma la clausola della sospensione del 34 per cento non passa, non può passare; io la sto già applicando. Quando ai fondi FSC, sviluppo e coesione, ho già detto pubblicamente che sono già stati programmati e non è previsto il loro trasferimento». Ricordo che questo, il ministro lo scrisse già replicando al Sole24ore. Ma… se il governo dovesse decidere diversamente? «Prima di essere chiamato a fare il ministro, ero vice direttore dello Svimez, e il mio compito fu documentare la fine che facevano i fondi destinati al Sud, invece di essere investiti a Sud. Ora quei fondi dipendono dal mio ministero. E non intendo sprecare questa occasione di rilancio a partire da Sud». E il sottosegretario Turco, ha diffuso una nota in cui si legge: “Anche se l’Italia è alle prese con l’emergenza coronavirus, non subiranno alcuna modifica le norme per il Mezzogiorno”. Spiega che il documento “L’Italia e la risposta al covid-19” è solo “una bozza di lavoro propedeutico ad uno studio del Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento della politica economica”, non ancora sottoposta “perché incompleta, al vaglio dell’autorità politica”. Sulla determinazione del ministro Provenzano e del sottosegretario Turco, non ci sarebbero dubbi, a giudicare dalle loro parole (che, se non risultassero coerenti con le azioni, si ritorcerebbero contro). Ma il documento è stato prodotto e qualcuno lo ha fatto arrivare alla stampa, spiazzando non solo il ministro Provenzano e il sottosegretario Turco (in quota uno al Pd, l’altro ai cinquestelle), ma forse lo stesso Conte. Un capitolo di quel documento più esplicito non potrebbe essere: “Proposta di sospensione della clausola del 34%”; e altrettanto per i fondi FSC. Qualcuno lo ha scritto e prima che il governo ne discutesse, divulgato (meglio così, a questo punto, qualunque sia stata l’intenzione, se far passare la cosa per già fatta o per stroncarla). Provenzano dice: non passa, e nella nota del sottosegretario Turco, lo di dice due colte: “le soluzioni alla crisi economica connesse con il coronavirus non vanno ricercate modificando le norme a tutela del Mezzogiorno”, e quindi “è impensabile sospendere la clausola che destina il 34% delle risorse dei Fondi Ordinari per la spesa in conto capitale al Sud. Così come il criterio di ripartizione dei fondi Fsc”: tutte misure “per garantire una maggiore equità territoriale” (parole sante…, le ultime due, per fatto quasi personale).

SE ANCOR UNA VOLTA LA FURIA PREDATORIA DEL NORD DOVESSE PREVALERE, L’ITALIA SI SPEZZEREBBE. Lo scontro si preannuncia duro, quindi. Abbiamo tutti il dovere di operare e sperare che ci si possa salvare insieme, perché in una gara planetaria, meglio essere più grandi che più piccoli; ma se più grandi e divisi, in un conflitto irrisolvibile, allora, meglio piccoli coesi e forti, senza dover a che fare con il peggior nemico in casa. Le grandi tragedie sono occasione di verità e di scelte definitive; sono i momenti in cui si decide se continuare nel modo che ha portato al disastro o cambiare totalmente indirizzo. L’Italia è migliore di come ce l’hanno descritta e ce la descrivono: un Nord onesto, efficiente e generoso con il Sud disonesto, incapace e sprecone. Questo racconto, su cui è stata costruita una economia, non regge più; e quella economia non è più possibile, appartiene al tempo delle colonie; il Sud s’è scetato: o un Paese che sia lo stesso per tutti nei diritti, o non ci sarà più (la finzione di) un Paese, ma due.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

PER LA LOMBARDIA, RAZZISTA E’ IL SUD (E LORO CI DAREBBERO 100 MILIARDI L’ANNO). Lino Patruno del direttivo nazionale M24A-ET. Proprio non la vogliono capire. Neanche un docente universitario e filosofo come Carlo Lottieri, bresciano. Il quale sul <Giornale> di Milano si lancia in una difesa della Lombardia a suo parere, e non solo suo al Nord, oggetto di razzismo da parte del resto d’Italia per i problemi della sua sanità (così magari capiscono cosa è il razzismo che riservano da sempre al Sud). Poi però si avventura in tesi sulle quali lui e gli altri farebbero bene a non insistere: il cosiddetto <residuo fiscale>. Sostiene con coraggio pari alla avventatezza che il Nord passa al Sud ogni anno 100 miliardi (e la Lombardia in particolare 54 miliardi). Anche a quella Campania la quale chiude le frontiere ai lombardi ma poi passa all’incasso. E’ la stessa faccia ineffabile con la quale Fontana e Zaia meditavano l’autonomia rafforzata. Facendo un autogol clamoroso. Perché allora si è scoperto (con le cifre ufficiali dei Conti pubblici territoriali) che:

- non c’è alcun residuo fiscale del Nord verso il Sud

- ogni anno lo Stato spende per ogni cittadino meridionale circa 4 mila euro in meno rispetto a un cittadino settentrionale

- dal 2009 sono stati sottratti al Sud 61 miliardi all’anno

- con un diverso conteggio questi miliardi dal 2000 al 2017 sono stati 840 (Eurispes)

- i posti fissi che secondo Ottieri i campani e i meridionali vorrebbero con i soldi del Nord, sono più numerosi al Nord che al Sud (dati Istat).

Consiglio finale ad Ottieri: studi di più.

Fontana risponde a De Luca: “E’ confuso, non chiuderemo ai 14mila campani che vengono a curarsi in Lombardia”. Redazione de Il Riformista il 20 Aprile 2020. “Caro governatore Vincenzo De Luca, sappia che qualunque cosa accada noi non chiuderemo mai la porta ai 160mila italiani, tra cui circa 14mila campani, che ogni anno scelgono di venire in Lombardia per farsi curare. #Fermiamoloinsieme”. Tuona così sul suo account Facebook il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana rivolgendosi al Governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca. Il post è arrivato dopo un’intervista rilasciata dal leghista ai microfoni di Rai Radio 1 durante la trasmissione CentoCittà. Negli ultimi giorni i due presidenti sono stati al centro di una polemica che ha visto il presidente campano rivolgere una serie di frecciate e messaggi non particolarmente apprezzati dal leghista. De Luca infatti nei giorni scorsi ha chiarito la sua posizione in merito alla famigerata Fase 2, dichiarando che qualora qualche regione aprisse prima di altre lui chiuderà la Campania non permettendo spostamenti. Il riferimento era soprattutto nei confronti della Lombardia, che tuttora è una delle regioni più colpite del Paese.

Sulla sanità torna lo scontro. Il Governatore De Luca provoca: non andate negli ospedali del Nord.  Il Quotidiano del Sud il 9 maggio 2020. “Invito i cittadini campani ad evitare di andare negli ospedali del Nord e a restare in Campania, dove abbiamo gli ospedali più sicuri d’Italia e la possibilità di dare un’assistenza che è la migliore d’Italia e, in alcuni casi, del mondo”. Lo ha detto il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, nel corso della diretta Facebook con la quale, ogni venerdì, aggiorna sulla situazione coronavirus in regione. “Molti sistemi ospedalieri del Nord – ha aggiunto De Luca – hanno campato con centinaia di milioni che prendevano dalla nostra Regione per la mobilità passiva, 300 milioni che dalla Campania sostenevano i sistemi di altre regioni”. E ancora: “Siamo all’avanguardia per la Fase 2, faremo di tutto per far ripartire in maniera decisa l’economia della Campania, il commercio, l’artigianato, gli eventi, la cultura, con una sola attenzione: se riapriamo, riapriamo per sempre e non per fermarci domani”. “Questa è la nostra linea – ha aggiunto – sono assolutamente fiducioso, quando riaprirà la Campania avrà un andamento della crescita che, anche in questo caso, sarà da primato nazionale ne sono convinto”. Serve, ha sottolineato, “un altro po’ di pazienza, mancano pochi giorni e poi potremo riprendere in grande una vita, non dico del tutto normale, ma dinamica per l’economia, artigianato, cultura e per le nostre relazioni sociali”. E sulla Fase Due: “Se non ci sono ‘fiammate’ entro il 18 maggio riapriremo tutto. E’ evidente che se torneranno i contagi, il ministero della Salute dovrà prendere delle decisioni e noi con il ministero della Salute”. “Nessuno pensa di riaprire con zero contagi – ha spiegato – dobbiamo convivere per un periodo abbastanza lungo con il contagio. Ho detto e lo ripeto, un conto è avere qui e lì in maniera sparsa qualche caso, vuol dire che abbiamo sotto controllo la situazione, altro è avere dei focolai che si sono accesi”. E’ sulla sanità che si riaccende lo scontro. Interviene la capogruppo regionale del Movimento 5 Stelle Valeria Ciarambino: “Nell’illustrare le ragioni per cui i cittadini della Campania dovrebbero evitare di recarsi negli ospedali del Nord perché da noi, a suo avviso, l’assistenza sarebbe la migliore in Italia, De Luca ha omesso alcuni interessanti primati inanellati in questi ultimi cinque anni. A partire dai tempi ancora biblici delle liste d’attesa. Basti ricordare che per una mammografia si aspetta anche un intero anno, mentre per interventi urologici e oculistici l’attesa sale fino a tre anni, per non parlare della chirurgia oncologica. A scorrere i dati Agenas, si scopre che primi in Italia lo siamo anche per morti da ictus, mortalità tumorale, per mortalità materna e per morti evitabili”. Non resiste il leader della Lega Matteo Salvini: “Penso che i cittadini della Campania si aspettino dal loro governatore azioni concrete per sistemare gli ospedali aperti e riaprire quelli chiusi, visto che anche l’anno scorso decine di migliaia di campani hanno dovuto spostarsi in altre Regioni per visite, esami ed operazioni. Se invece De Luca preferisce polemizzare sul colore dei miei occhiali confesso che, come milioni di Italiani, ho problemi di vista e sono presbite. Per De Luca è un problema?”.

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.

In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.

Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:

Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;

Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.

Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.

In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.

Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.

Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.

Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:

la presunta efficienza crea morte nei loro territori;

la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Radiografie e Tac, affare d'oro per la sanità lombarda. Vincenzo Damiani il 7 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud.  In Lombardia il sorpasso del privato sanitario sul pubblico è già avvenuto e si registra in una branca nemmeno secondaria, quella della diagnostica strumentale e per immagini: già nel 2015 il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato ha inciso per il 52% sul valore totale delle prestazioni (fonte: Opendata della Regione Lombardia). Parliamo di Tac, ecografie, risonanze, endoscopia, insomma una grossa fetta degli esami a cui si sottopongono, quotidianamente, migliaia di persone.

IL SORPASSO. Ma il sopravvento del privato sul pubblico è attestato da altri dati e altre fonti autorevoli che andiamo a presentare. Ad esempio: l’Osservatorio Assolombarda Bocconi, analizzando quanto accaduto nel decennio tra il 1997 e il 2006, consegna alla Lombardia anche il record di crescita degli ospedali privati. Nel 1997 erano 55, nel 2006 sono diventati 73, +18, una variazione che non ha eguali nel resto dell’Italia. L’unica regione che mostra un andamento simile è la Sicilia (che sale da 49 a 61, +12), ma complessivamente nel resto del Paese c’è addirittura una contrazione: nel Lazio, ad esempio, si riducono di 15 unità, la Campania perde 4 ospedali privati, complessivamente in tutto il Paese si passa da 537 strutture ospedaliere private a 563, +26. Abbiamo parlato di esami medici e ospedali, ora vediamo quanto accade sui costi: secondo quanto certifica il ministero della Salute (anno 2016) in Lombardia su 1.931 euro di spesa sanitaria pro capite totale il 27,9% è incassato dalle strutture private (ospedali, ambulatori, laboratori), cioè 538 euro. Nessun’altra regione come la Lombardia: il Lazio si avvicina (24,6%) ma resta distante, in Calabria dei 1.749 euro pro capite ai privati ne vanno 265 (15,1%), in Basilicata la fetta scende addirittura all’11,8% (219 euro su 1.854), in Campania si attesta al 20,6%, in Sicilia al 20,7% e in Puglia al 21.4%.

RICOVERI E AMBULATORI. Lo sbilanciamento lombardo a favore del privato è fotografato da altri numeri ancora, ad esempio quello dei ricoveri relativi all’anno 2017: su 1.441.657 ricoveri totali, il privato ne ha eseguiti 494.501, il 35% circa, il pubblico 947.157, pari al 65%. Nel complesso, i ricoveri hanno generato un valore di 5,4 miliardi di euro e la Lombardia ha versato a titolo di rimborso ai privati circa 2,1 miliardi, cioè il 40% dei 5,4 miliardi. Ricapitolando: nel 2017 le strutture private hanno garantito il 35% dei ricoveri, ma hanno incassato il 40% di quanto il sistema sanitario lombardo ha generato. Come è possibile? C’è solo una spiegazione: i servizi offerti dai privati costano di più rispetto alle prestazioni del pubblico. Stesso discorso, anche se in maniera meno evidente, per visite ambulatoriali ed esami: nel 2017, su 160 milioni di prestazioni, il 42% è stato svolto in centri privati (66 milioni); le strutture, però, hanno incassato il 43% del valore totale di visite ed esami, 1,24 miliardi su 2,8 miliardi complessivi (fonte Regione Lombardia).

LA DIAGNOSTICA. Se ci spostiamo sul campo della diagnostica strumentale e per immagini, il sorpasso del privato sul pubblico c’è già stato nel 2015: infatti, se consideriamo il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato sul valore totale delle prestazioni pubbliche e private dello stesso ambito, il privato incide per il 52% (Fonte: Opendata della Regione Lombardia). Scendendo più nel dettaglio e nel locale, a Milano e provincia sono presenti 57 strutture di ricovero ordinario e day hospital, 26 sono pubbliche, 31 a gestione privata (54,4%), a Bergamo 14 su 23 sono private (60,9%), a Brescia 14 su 28. In Lombardia gli Irccs privati sono circa il triplo dei pubblici (14 contro 5, fonte ministero della Salute). Nel 2018, in una struttura privata che non lavorava con il servizio sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica (ginocchio, spalla, mano, anca, piede) costava ai cittadini circa 90 euro.

RIMBORSI E DIVARIO. Qual è il rimborso che la Lombardia garantiva nel 2018 ai suoi centri privati convenzionati? Circa 169 euro, l’89% in più. Il gruppo San Donato – GSD è il principale gruppo privato d’Italia e in Lombardia, solo a Milano e provincia le strutture di ricovero e cura sono 7, delle quali 3 sono istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs). Nel 2017, in termini di valorizzazione dei ricoveri, il gruppo San Donato ha raggiunto il 35% del totale privato, mentre complessivamente, calcolando anche il pubblico, ha superato il 14% della valorizzazione dei ricoveri. Questa è la fotografia della sanità lombarda che in media ogni anno può contare su circa 19 miliardi di soldi pubblici. Nel 2019, la Regione Lombardia – che ha il doppio della popolazione della Puglia – ha speso quasi il triplo della regione amministrata da Emiliano. Circa 19,3 miliardi per 10 milioni di residenti, contro i 7,7 pugliesi per 4,2 milioni di abitanti. I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle singole Regioni. Alla voce “Tutela della salute”, nel suo bilancio la Puglia (4,1 milioni di residenti) nel 2019 iscrive la somma 7,7 miliardi. L’Emilia Romagna (popolazione 4,4 milioni), invece, quasi 10,2, ben 2,5 in più nonostante uno scarto residuale di abitanti; il Veneto (4,9 milioni) spende 10,1 miliardi; la Lombardia che ha poco più del doppio della popolazione della Puglia (10 milioni di residenti) addirittura spende quasi il triplo, 19,3 miliardi. Insomma, una “tutela della salute” a macchia di leopardo: in alcune zone è più garantita, in altre meno grazie a una distribuzione del fondo nazionale non propriamente equo. D’altronde, è accertato dalla Corte dei conti che dal 2012 al 2017 nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei Regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, in media, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%. Tradotto, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni di euro in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Così è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.

Da Bergamo a Chieti, le cliniche assoldano i più bravi. Il cardiochirurgo lombardo: "Su 532 persone operate, 150 sono pugliesi". La Regione Puglia spende ogni anno 200 milioni per le cure in trasferta. Antonello Cassano l'11 aprile 2016 su La Repubblica. A metà strada tra le star e i guru. Sono i grandi professionisti della medicina, specialisti in branche importanti come l’oncologia o la cardiochirurgia, camici bianchi dalle mani d’oro che con la loro fama e il loro talento riescono a far spostare masse importanti di pazienti dalla Puglia verso altre regioni. Anche di questo si nutre la mobilità passiva pugliese, flusso in uscita di pazienti che ogni anno costa alle casse della Regione Puglia più di 200 milioni di euro. Secondo il Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero in Italia, nel 2014 i ricoveri fatti fuori dalla Puglia sono stati 39.615, pari all’8,1 per cento dei ricoveri totali erogati. Dove vanno principalmente i pugliesi per farsi curare? Lombardia (8.308 ricoveri), Emilia Romagna (7.641), Lazio (4.791). Non si tratta di semplice turismo sanitario, ma di una reale ricerca dell’eccellenza nelle cure. Ed è qui che intervengono i grandi professionisti del settore. Molti di questi sono pugliesi, si sono formati nelle nostre università, poi hanno lavorato all’estero per qualche anno e sono tornati in Italia. Anni di lavoro tra i corridoi degli ospedali pubblici di Bari o Lecce, poi il salto nelle cliniche private o private convenzionate. In questo modo riescono a creare un bacino di pazienti considerevole, diventando “appetibili” per le grandi cliniche del Nord. E quando decidono di trasferirsi per lavoro negli Irccs o nelle cliniche del Centro- Nord, “portano via” un gran numero di pazienti pugliesi. Il fenomeno è esteso. Nel centro nazionale di alta tecnologia dell’università di Chieti-Pescara, diretta dal professore Leonardo Mastropasqua (originario di Barletta), arrivano pazienti da tutta Italia. «Nella mia clinica facciamo 5800 operazioni all’anno, dalla cornea alla retina — conferma Mastropasqua — e il 60 per cento dei ricoveri è effettuato su pazienti provenienti da fuori regione, molti pugliesi, attratti anche perché sono miei conterranei». Qualche centinaio di chilometri più a nord, precisamente a Bergamo, c’è l’Irccs privato Humanitas. Ed è qui che, dopo anni di lavoro in Puglia, è arrivato Giampiero Esposito, cardiochirurgo salentino di fama internazionale. I suoi pazienti non lo hanno abbandonato. Solo lo scorso anno su 528 ricoveri totali effettuati da Esposito, 130 riguardavano pazienti pugliesi: «Ma devo dire la verità — ammette Esposito — mi dispiace molto vedere intere famiglie spostarsi insieme ai pazienti in cerca di cure». Basta scendere un po’ più a sud, in Emilia Romagna, per trovare altri pazienti pugliesi. Succede alla Casa di cura San Lorenzino di Cesena. Qui ogni anno centinaia di pugliesi, spesso giovani sportivi, vengono a sottoporsi alle cure di Antonio Rizzo, chirurgo ortopedico di origini salentine. «Molti pazienti pugliesi che hanno problemi seri come la rottura del crociato — dice Rizzo, che ha lavorato nel privato convenzionato pugliese — vengono qui da noi. L’anno scorso lo hanno fatto in duecento circa». Ma quello dei grandi chirurghi pugliesi che “portano via” pazienti dalla Puglia è solo uno dei motivi che alimentano il fenomeno della mobilità passiva. Ora la Regione sta provando a organizzare una strategia difensiva. L’idea è quella di consentire ai più grandi ospedali di eccellenza di riportare i pugliesi a curarsi nella loro regione anche attraverso premialità extra tetto. Un’idea che trova sostegno pure tra i banchi dell’opposizione. È quello che pensa Luigi Manca, consigliere regionale dei Conservatori e Riformisti: «Su questo fenomeno bisogna lavorare molto, anche attraverso un aumento del tetto di spesa delle cliniche private accreditate pugliesi. Solo così si possono sostenere le punte di eccellenza della nostra sanità».

Mobilità Sanitaria, ecco come la Campania “foraggia” le casse delle Regioni settentrionali. Rocco Corvaglia il 22 Aprile 2020 su anteprima24.it. Ieri sera è andato in onda, negli studi della nota trasmissione televisiva “Porta a Porta“, il dibattito tra il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana e il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Un “duello” atteso al pari di una finale di Champions League, tra i due personaggi politici che – per ragioni opposte – hanno saputo catalizzare l’attenzione pubblica in questo periodo di emergenza sanitaria. Ora, è proprio da una dichiarazione di Attilio Fontana che vogliamo partire. Qualche giorno fa, in risposta a una provocazione di De Luca, Fontana sentenziava tronfio: “Noi non chiuderemo le porte ai campani che si curano nei nostri ospedali“. Bene. Anzi, benissimo ci verrebbe da dire. Lo slancio umanitario di un governatore leghista è sempre meritevole di considerazione. Ma – cosa volete? – nell’ascoltare questa dichiarazione il tarlo del dubbio si è impossessato di noi. Pertanto, abbiamo deciso di porci qualche domanda. Banalmente: ha la Lombardia un qualche interesse economico ad accogliere i cittadini campani nelle proprie strutture sanitarie? Ecco, la risposta non la forniamo noi, ma il rapporto elaborato dalla “Fondazione GIMBE” che si occupa da anni di monitorare lo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale. Il Rapporto della Fondazione Gimbe (anno 2017) affronta il tema della Mobilità Sanitaria nazionale (in sostanza, quanti pazienti si spostano da una regione all’altra per usufruire di prestazioni sanitarie): “Dal punto di vista economico, la mobilità attiva rappresenta per le Regioni una voce di credito, mentre quella passiva una voce di debito; ogni anno la Regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino“. Di fatto, le prestazioni sanitarie offerte dalle regioni che accolgono pazienti da altre regioni vengono rimborsate dalle regioni nelle quali questi ultimi risiedono. Se un cittadino campano si cura in Lombardia, alla Regione Campania toccherà l’onere del rimborso. Nel 2017 il valore della mobilità sanitaria ammonta a € 4.578,5 milioni (oltre 4.5 miliardi di euro). Nella tabella di seguito i valori in termini di crediti, debiti e saldi per le 19 Regioni e 2 Province autonome per l’anno 2017 (fonte Fondazione GIBEM): Come si evince dalla Tabella, la Campania presenta il peggior saldo con un passivo di oltre 320 milioni di euro, mentre la Lombardia presenta un attivo per oltre 800 milioni di euro.

Di seguito una tabella che mostra la Mobilità Sanitaria Attiva, che identifica le prestazioni erogate da ciascuna Regione per cittadini non residenti: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di attrazione” e in termini economici identifica i crediti esigibili da ciascuna Regione:

Di converso una tabella che mostra la Mobilità sanitaria passiva, che identifica le prestazioni erogate ai cittadini al di fuori della Regione di residenza: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di fuga” e in termini economici identifica i debiti di ciascuna Regione: “Il valore della mobilità sanitaria regionale nel 2017 supera i € 4.578,5 milioni, una percentuale apparentemente contenuta (4%) della spesa sanitaria totale (€ 113.131 milioni), ma che assume particolare rilevanza per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, per l’impatto sull’equilibrio finanziario di alcune Regioni, sia in saldo positivo (es. Lombardia + € 784 milioni), sia in saldo negativo (es. Calabria -€ 281 milioni; Campania -€ 318); in secondo luogo, per la dispersione di risorse pubbliche e private nelle Regioni con offerta carente di servizi“, queste alcune delle conclusioni del Rapporto della Fondazione GIMBE.

Senza voler incorrere in banali semplificazioni (appare evidente che se vi è mobilità sanitaria ciò lo si deve, anche e soprattutto, alla diversità – in termini di qualità – di prestazioni sanitarie offerte), il tema è proprio quello di un riequilibrio complessivo della qualità del nostro Sistema Sanitario Nazionale su tutto il territorio nazionale.

Se, come scriveva Barbara Gobbi dalle colonne del Il Sole 24 Ore “l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata – mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania”, è chiaro che il sistema non può reggere e che forse le parole di Fontana non erano animate solo da francescano spirito di solidarietà. 

La Calabria è la Beirut dell’assistenza socio sanitaria. Ettore Jorio, Università della Calabria, il 7 gennaio 2020 su quotidianosanita.it. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. La Calabria ha chiuso il proprio bilancio, quello del 2019. È più maledetto dei precedenti. Come ogni documento «contabile» che si rispetti anche quello politico-istituzionale calabrese rintraccia nei suoi saldi finali il valore del risultato. Il prodotto finale è certamente da bancarotta, verosimilmente fraudolenta. A fronte delle «rimanenze finali», invero mai state così precarie e pericolose per la popolazione, c'è necessità di effettuare velocemente, nell'anno appena iniziato, un importante «reso ai fornitori»: il decreto legge Grillo, convertito nella legge 60/2019. Uno strumento legislativo che, a memoria d'uomo, non ha modo di rintracciare uguale perniciosità sociale, da restituire pertanto al mittente. Esso ha generato un autentico disastro per i calabresi, solo perché capricciosamente voluto dalla allora ministra alla salute che, si spera, abbia a suo tempo agito inconsapevolmente.

Le colpe e i rimedi elusi. L'anno appena trascorso è iniziato male e finito peggio, così come meritava. I calabresi (gente onesta e sofferente, compromessa dai ben noti!) sono finiti nel solito mirino della solita peggiore ignominia, solo perché considerati come soggetti appartenenti alla patria della 'ndrangheta e alla regione infiltrata nelle istituzioni e nei ceti dominanti. Un bel regalo per i nostri giovani costretti a lavorare altrove. Una responsabilità grave, la nostra, quella di non aver saputo generare, negli anni che furono e che sono, gli anticorpi giusti per porvi rimedio. Per imporre quel freno sociale e istituzionale che il fenomeno avrebbero meritato, man mano che andava ad assumere l'attuale dimensione. Certamente un adempimento collettivo molto difficile da concretizzare a causa dell'efficienza «aziendale» del nemico e delle megarisorse a disposizione della 'ndrangheta. Basta, infatti, constatare il proliferarsi ovunque di una siffatta organizzazione delinquenziale, tale da rendere permeabile con la sua vis mafiosa qualsivoglia organismo pubblico/privato e tutti i segmenti che costituiscono il Mercato. Da qui, la certezza che la 'ndrangheta rappresenta un problema nazionale (e non solo) con la conseguenza che le politiche governative devono essere improntate alla depurazione del sistema, cominciando dalla Calabria, con la previsione di importanti investimenti strutturali, sia in termini di bonifica che di prevenzione.

Il catalogo dei princìpi. Meno male che quest'anno c'è stato il giudice Nicola Gratteri e il gruppo dei bravi magistrati che gli collaborano alla DDA di Catanzaro a lasciare la speranza sotto l'albero di Natale dei calabresi. Essi non si sono resi solo autori di una importante retata ma hanno somministrato a tutti noi una lezione dalla quale assumere il «catalogo» dei nuovi principi e dei rinnovati canoni cui deve ispirarsi la società civile. Non solo. Anche quelli cui deve attenersi il sistema istituzionale ed essere improntato l'andamento della Pubblica amministrazione nostrana. In proposito, spero proprio - da calabrese desideroso di investire sul futuro della propria regione - che i candidati alle elezioni del prossimo 26 gennaio ne sappiano approfittare, assumendo le nuove regole ad ispirazione, prima da parte di tutti i competitor, della campagna elettorale e, poi per gli eletti, dell'esercizio del mandato legislativo regionale!

Toccano alla politica i presupposti per la rinascita. Ritornando alle «giacenze di magazzino», a risorgere dovrebbe essere soprattutto la sanità che, dalle nostre parti, oltre ad essere terreno fertile per le consorterie di ogni genere e grado, è fonte di disperazione, di morti colpevoli, di spreco di danaro pubblico, del peggiore clientelismo ma soprattutto di insicurezza sociale. Ivi, fanno gola i 320 milioni di euro di mobilità passiva, che la Calabria regala al centro-nord (Lombardia in primis), in favore della quale, pare, lavorino personaggi che eccellono molto di più nell'esercizio della mediazione commerciale retribuita dai destinatari che in quello delle arti mediche. Ivi, oggi più che mai attraggono gli incarichi extraregionali e le conduzioni straordinarie delle aziende della salute (Asp, Ao e Aou), caratterizzate da decenni da una malagestio da manuale e dall'assenza assoluta dei controlli aziendali, regionali e commissariali. A tal proposito, risulta da dieci anni inutile e costosissima la presenza degli advisor, nei confronti dei quali si fa davvero fatica a giustificare l'inerzia di chi dovrebbe mandarli a casa. Insomma in Calabria, tra sprechi vergognosi e incapacità, si registra una inefficienza da scandalizzare chiunque. Basterebbe pensare che da queste parti vengono ancora tollerate aziende sanitarie territoriali senza bilancio da anni, altre sciolte per 'ndrangheta, aziende ospedaliere che, pare, non esercitino il pronto soccorso e chiudano nei week-end. Tutto questo nonostante dieci anni di commissariamento ad acta, che si sta svendendo la pelle dei calabresi anche attraverso pratiche occupazionali orride e gestite nel peggiore cinismo verso il fabbisogno epidemiologico e sociale, che (audite!) mai nessuno ha rilevato.

Peccato non aver usato la scopa della Befana per spazzare via il decreto Grillo. A tutto questo ha ampiamente contribuito il decreto salva-Calabria, vero campione di sadismo certificato, che a distanza di otto/nove mesi impone la conta dei saldi, con le partite in dare che non provano alcun apporto migliorativo e quelle in avere che registrano danni irreversibili alle persone e al sistema, destinati sensibilmente a crescere! Insomma, un provvedimento così cinico e un risultato così aberrante sarebbero stati ovunque improponibili e assolutamente non tollerati dalla società civile, certamente produttivi di dimostrazioni pubbliche ad elevatissima partecipazione sociale. Avrebbero meritato altro che sardine! In Calabria nulla, nonostante l'incredibile prodotto generato a sfavore dell'utenza, finanche demolitivo di quel poco che c'era. Neppure nei programmi dei candidati alle elezioni regionali del 26 gennaio prossimo c'è la proposta della benché minima soluzione. Tutto scorre come se qui ci fosse l'assistenza sanitaria della Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana ecc.Per non parlare dell'assistenza sociale ulteriormente affossata da un improvvido e improvvisato regolamento approvato dalla Giunta regionale uscente che metterà al tappeto imprese del settore, che a fatica sbarcano il lunario aziendale, e famiglie con persone disabili e caratterizzate da fragilità psico-fisiche.

La Calabria è la Beirut dell'assistenza socio sanitaria. L'inventario di fine anno. Tre aziende ospedaliere della quali, per il momento, soltanto una con una manager ufficiale concretamente preposta alla direzione di una Ao (Cosenza) e due mandate avanti alla bene meglio da esponenti della burocrazia interna, che hanno campicchiato tra una dimissione e l'altra. Un'azienda ospedaliera universitaria senza testa né coda ovverosia senza manager e impegnata in un molto creativo percorso di integrazione, "interpretativo" di una procedura di fusione che non c'è con l'azienda ospedaliera operante nel territorio cittadino di Catanzaro. Cinque aziende territoriali provinciali delle quali nessuna gestita sino ad oggi da manager nominati, atteso che ci vorrà ancora qualche giorno perché si insedino quelli individuati a circa un anno dalla loro previsione normativa. Due aziende territoriali (l'Asp di Reggio Calabria e quella di Catanzaro) sciolte per infiltrazione/condizionamento mafioso, ex artt. 143 e 146 Tuel ed entrambe "fantasiosamente" dichiarate in dissesto, ex art. 244 Tuel e seguenti, con qualcun'altra destinata più che verosimilmente a seguire la medesima (assurda) sorte. Una novità in assoluto in diritto, quest'ultima, intendendo per tale il superamento (incostituzionale) di quell'autonomia riconosciuta alla Regione dalla Carta, atteso che le aziende sanitarie in default obbligano le Regioni di appartenenza al risanamento dei loro bilanci, a partire dalla copertura delle loro perdite annue sino ad arrivare al ripianamento dei deficit patrimoniali prodotti. Un dovere ineludibile e una prassi peraltro evidenziabile dal pagamento del rateo annuo di circa 31 milioni di euro del mutuo a suo tempo contratto a fronte del debito pregresso contabilizzato al 2009 dal Commissariamento di protezione civile all'epoca attivo. E ancora. I danni sono tendenzialmente in crescita per incapacità gestionale di preposti a generare la programmazione del cambiamento. L'attuale improvvisata governance commissariale sta facendo, infatti, di peggio di quanto si faceva prima del suo insediamento, che rappresentava il massimo del deterioramento progressivo del servizio. L'ultima vicenda è il segno evidente dell'assenza totale di una saggia pianificazione degli investimenti che sottolinea la mancanza di una idea complessiva di organizzazione della salute che si ha il dovere costituzionale di rendere ivi efficiente ed efficace come altrove. A fronte di programmazione di spesa delle risorse ex art. 20 legge 67/1988, finalizzate all'acquisizione di tecnologie rafforzative delle eccellenze operanti in Calabria (tra tutte, in contrapposizione ad una programmazione aziendale tendente a consolidare quelle già rese dall'AO di Cosenza, gli stop: all'acquisizione di una risonanza magnetica di tipo 3Tesla da rendere disponibile alla neuroradiologia interventistica di assoluto riconosciuto pregio nazionale; all'acquisto del robot chirurgico Leonardo da Vinci da «consegnare» alla urologia e alla chirurgia toracica di altrettanto indiscusso valore professionale, attività peraltro segnatamente impattanti positivamente avverso l'enorme mobilità passiva di settore che impoverisce annualmente il Ssr), si è pensato di disperdere le relative risorse distribuendole a pioggia nei diversi presidi spock e di conseguenze renderle di fatto improduttive di erogazione qualificata di assistenza. 

Tante le aspettative, sino ad oggi deluse. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. L'augurio è anche quello che la Calabria riesca a trovare un/una Presidente della Regione capace di esercitare la riscossa e materializzare il rinascimento di una terra che ha ormai capitalizzato un credito di civiltà così alto da apparire difficile da essere riscosso nonché il risarcimento dei drammi sopportati da una società generalmente impoverita.

I pazienti con la valigia spostano 4,6 miliardi di euro da Sud a Nord. La mobilità sanitaria si traduce in un fiume di denaro pari nel 2017 a 4,6 miliardi di euro. L’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Barbara Gobbi il 31 luglio 2019 su ilsole24ore.com. Le Regioni del Nord come una calamita per il Sud Italia. La mobilità sanitaria, il fenomeno dei pazienti con la valigia in cerca di assistenza migliore che muove ogni anno circa un milione di malati più i familiari, si traduce in un fiume di denaro pari nel 2017 a 4,6 miliardi di euro, certificati dalla Conferenza delle Regioni nei mesi scorsi previa compensazione dei saldi. E il flusso ha una direzione chiara: l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata - mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Un quadro che racchiude sfaccettature fisiologiche ma anche patologiche, imputabili alle liste d’attesa o alla scarsa qualità dell'assistenza nelle Regioni di partenza, da cui riesce a “fuggire” per curarsi solo chi può permetterselo. A fare il punto è la Fondazione Gimbe: «Abbiamo analizzato – spiega il presidente Nino Cartabellotta – esclusivamente i dati economici della mobilità sanitaria aggregati in crediti, debiti e relativi saldi, in attesa di ottenere il prospetto dei flussi integrali trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute, che permetterebbero di analizzare la distribuzione delle tipologie di prestazioni erogate in mobilità, la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato e la Regione di residenza dei cittadini si curano fuori casa». Elementi fondamentali per scovare il «lato oscuro» della mobilità sanitaria e su cui non a caso indagherà il Patto per la salute in via di definizione tra governo e Regioni. Perché il fenomeno è la cartina di tornasole di un'Italia delle cure spaccata in due, dove troppo spesso si emigra in assenza di alternative valide nella propria realtà. E «in tempi di regionalismo differenziato – avvisa Cartabellotta – il report Gimbe non solo dimostra che il flusso di denaro scorre prevalentemente da Sud a Nord, ma che anche se la bozza di Patto per la Salute prevede misure per migliorare la governance, difficilmente la fuga in avanti delle tre Regioni che cumulano l'88% del saldo attivo potrà ridurre l'impatto di un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche».

Sei Regioni vantano crediti superiori a 200 milioni di euro (mobilità attiva): in testa Lombardia (25,5%) ed Emilia Romagna (12,6%) che insieme contribuiscono ad oltre 1/3 della mobilità attiva. Un ulteriore 29,2% viene attratto da Veneto (8,6%), Lazio (7,8%), Toscana (7,5%) e Piemonte (5,2%). Il rimanente 32,7% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre 15 Regioni, oltre che all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (217,4 milioni di euro) e all'Associazione dei Cavalieri di Malta (39,7 milioni). Le 6 Regioni con maggiore indice di fuga (mobilità passiva) generano debiti per oltre 300 milioni: in testa Lazio (13,2%) e Campania (10,3%) che insieme contribuiscono a circa 1/4 della mobilità passiva; un ulteriore 28,5% riguarda Lombardia (7,9%), Puglia (7,4%), Calabria (6,7%), Sicilia (6,5%). Il restante 48% si distribuisce nelle altre 15 Regioni. Le differenze Nord-Sud risultano più sfumate quando si guarda al passivo: gli indici di fuga, alti in quasi tutte le Regioni del Sud, sono rilevanti anche al Nord grazie alla facilità di spostamento dei cittadini. In Lombardia si arriva a -362,3 milioni di euro, in Piemonte a -284,9 milioni, in Emilia Romagna a -276 milioni, in Veneto a -256,6 milioni e in Toscana a -205,3 milioni. Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni)

LA PRESTAZIONE. Report Rai PUNTATA DEL 02/05/2010 di Alberto Nerazzini. La Lombardia è la regione più popolosa e più ricca del Paese, con un bilancio pari a quello di un piccolo stato e una sanità che da sola costa quasi 17 miliardi di euro. Un sistema unico in Italia, fondato sulla libertà di scelta e sulla parità tra pubblico e privato, introdotto tredici anni fa. Ancora oggi è proprio la riforma della sanità il cavallo di battaglia del Presidente Formigoni che, dopo la recente rielezione, si avvia verso il compimento del suo personale e incontrastato ventennio di governo. Ed è sempre la sanità lombarda quella portata a modello dal premier Berlusconi. L’inchiesta realizzata da Alberto Nerazzini entra nelle contraddizioni di una regione e del suo sistema sanitario. I protagonisti sono gli ospedali, quelli di Milano e quelli di provincia, pubblici e privati; sono i medici che protestano e i medici di Comunione e Liberazione; gli scandali, le inchieste della Procura e le eccellenze. E infine c’è la storia di Giuseppe Rotelli, il numero uno della sanità privata in Italia che, mentre i magistrati indagano le sue strutture più importanti, diventa il secondo azionista del gruppo RCS – Corriere della Sera.

NOTA DEL 02/06/2016. A maggio 2016 il dott. Roberto Gallotti è stato assolto in via definitiva dall’accusa di omicidio preterintenzionale perché il fatto non sussiste. Inoltre la sentenza spiega che per gli altri episodi contestati - tutti prescritti – non emerge prova certa della non necessità degli interventi effettuati. In ogni caso Gallotti viene completamente scagionato dall’accusa di aver fatto un gran numero di interventi “a cottimo” col fine principale di aumentare i suoi introiti.

LA PRESTAZIONE di Alberto Nerazzini.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Piazza San Giovanni a Roma. È il 20 marzo. Manca una settimana alla tornata elettorale che coinvolge 13 regioni. Berlusconi festeggia la vittoria dell’amore. Con il giuramento solenne dei suoi uomini scelti. Candidati sul palco: “Presidente Silvio Berlusconi!” Silvio Berlusconi: “Evviva! Tutti su la mano!”

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Pochi minuti prima, aveva passato in rassegna il suo esercito di candidati, presentandoli uno a uno. Silvio Berlusconi: “Per la Lombardia chi ci sarà? Scusate, devo leggere... Un certo Roberto, lo conoscete? Roberto Formigoni! Roberto ha esperienza di tre legislature, ha saputo costruire una Lombardia modello, vincerà alla grande, con una grandissima maggioranza, e tra le sue qualità e i suoi meriti, c’è anche quello di avere realizzato in Lombardia un sistema sanitario che è considerato il migliore d’Europa! E non a caso da lui e negli ospedali del Veneto fuggono dalle regioni rosse e vengono a curarsi da noi, migliaia e migliaia di cittadini!” Roberto Formigoni: “Grande Silvio!”

MILENA GABANELLI IN STUDIO Il modello sanitario di Roberto Formigoni è quello che da 13 anni mette sullo stesso piano pubblico e privato, entrambi attingono alle risorse e tu cittadino decidi se farti curare in un ospedale pubblico o in una struttura accreditata. Si sono accorciate le code e questo è un bene. Poi, siccome noi siamo un programma di critica e quindi guardiamo l’altra faccia della medaglia. Il bilancio della regione che è di 21 miliardi di euro, 17 vanno in la spesa sanitaria con 2 milioni 400mila ricoveri ospedalieri, 160 milioni di visite ambulatoriali. In questi numeri giganteschi chi si è indebolito è il pubblico che ha perso 3000 posti letto, traslocati nel privato. Il miglior modello d’Europa secondo il premier, forse un po’ drogato visto che in Lombardia ci sono più cardiochirurgie che in tutta la Francia, un modello sempre secondo il premier che andrebbe esportato nelle altre regioni del paese. Ma come fai se la sua forza sta anche nel numero di pazienti che vengono a farsi curare soprattutto dalle regioni del Sud? Cioè se il tuo sistema si regge molto sulla inefficienza e sulle difficoltà degli altri? Gli ultimi due assessori alla sanità sono dello stesso partito, la Lega. Per quello in carica il modello è perfetto, per quell’altro, che se ne è dovuto andare, si riempie il portafogli dei privati, senza fare, in senso più generale, l’interesse dei cittadini. Alberto Nerazzini.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il timoniere della sanità di Formigoni, da tre anni, è Luciano Bresciani. È un cardiochirurgo, che trent’anni fa lavorava in Sudafrica al fianco del celebre Chris Barnard, autore del primo trapianto di cuore della storia. Da quando è rientrato in Italia fa politica con la Lega e fa il medico di Bossi. È appena stato trombato alle elezioni, ma il posto di assessore è stato riconfermato.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA A noi piace essere protagonisti, no? Abbiamo anche un vantaggio... che è importante. Noi siamo a parità di bilancio da sette anni, stiamo entrando nell’ottavo. Il nostro sistema è un sistema di eccellenze, dove ci sono eccellenze. Devo dirle che però nella mia veste di amministratore, abituato a battere tutti i giorni i suoi raggiungimenti, perché il chirurgo è fatto così, è educato a questo, cerchi tutti i giorni di superare quel livello perché al cittadino dai di più. E quindi la mia funzione non è cambiata, è la stessa funzione che avevo sul tavolo operatorio. Lavori per il tuo paziente, no? E qui lavori per tanti pazienti.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Bresciani è stato chiamato tre anni fa a sostituire un suo compagno di partito, l’ex capogruppo della Lega alla Camera, Alessandro Cè, che qualche mese fa ha deciso di tornare a fare il medico.

ALESSANDRO CÈ – EX CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA GRUPPO MISTO Mi dimisi dopo aver tentato di cambiare il sistema lombardo, che era assolutamente troppo sbilanciato a favore della sanità privata, ma che era anche troppo lottizzato dai partiti. Perché il sistema tutto sommato non crolla. Perché oltre che una spesa pubblica consistente, c’è una spesa privata enorme. Per cui, le carenze del sistema e anche l’arricchimento dei privati, utilizza anche le risorse private. Questo per completezza. Ci sono 5-6, adesso esattamente non si sa, però 5-6 miliardi di denaro cash, o attraverso le assicurazioni che viene usato, per aggirare le code per le visite mediche, perché la Lombardia è ricca fondamentalmente, capito? Il sistema si tiene anche per questo.

ALBERTO NERAZZINI Certo. ALESSANDRO CÈ – EX CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA GRUPPO MISTO Il sistema si tiene anche per questo.

ALBERTO NERAZZINI Lei ha detto delle cose molto chiare su questa parità pubblico-privata.

ALESSANDRO CÈ – EX CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA GRUPPO MISTO Ma, la parità non esiste. È scontato. Il pubblico si prende tutta la parte difficile da gestire, il privato spesso o quasi sempre, va invece a lavorare in quei settori, dove ci sono i Drg più rimunerativi. E tutto questo avviene senza che ci sia una programmazione adeguata dell’offerta di servizi e prestazioni da parte della regione che sia strettamente correlata rispetto ai bisogni reali dei cittadini.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Chi ha preso il suo posto, invece, difende un sistema sanitario che, mettendo in competizione il pubblico con il privato, crea un sistema complessivo di eccellenza.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Nel privato abbiamo una grande espressione di efficienza. Io ti dico “pubblico, impara dal privato, andare sull’efficienza” e dico al privato “impara dal pubblico, ad avere il massimo dell’appropriatezza”.

ALBERTO NERAZZINI Secondo Lei che è stato anche un parlamentare nazionale, ma l’idea che questo governo ha della sanità, è questa qui che voi avete in Lombardia? Da diversi anni, ormai...

ALESSANDRO CÈ – EX CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA GRUPPO MISTO Beh, sicuramente, sicuramente. Secondo me la loro impostazione, mancando appunto di criteri di riferimento che sono quelli di una programmazione adeguata, di un controllo adeguato, pende nettamente, anzi, è sbilanciato completamente sulla parte diciamo di interesse privato nella sanità.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Questo è il San Giuseppe, pieno centro di Milano. La proprietà è del Vaticano, ma è inserito a pieno titolo nel sistema sanitario nazionale. Negli ultimi tre anni si sono avvicendati, nella gestione, ben quattro diversi gruppi della sanità. L’ultimo arrivato è Multimedica, di proprietà di Daniele Schwarz, big della sanità privata lombarda, in passato anche condannato per truffa alla Regione. È il 25 marzo: il sindaco è qui perché oggi è una giornata di festa, al San Giuseppe. Daniele Schwarz presenta il piano di rilancio di un ospedale che ha i conti in rosso. Parla di progetti e di rivoluzioni tecnologiche, ma soprattutto vuole aprire l’ospedale ai liberi professionisti.

DANIELE SCHWARZ – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO MULTIMEDICA Pensiamo inoltre che sia importante operare con un ospedale aperto. In grado di accogliere anche i medici esterni alla nostra struttura, come i ginecologi liberi professionisti...

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Qualche giorno prima, al San Giuseppe, in un’aula al primo piano, i dipendenti dell’ospedale si erano chiusi in assemblea. Stavano preparando il secondo sciopero nella storia di questo ospedale.

MEDICO 1 Noi abbiamo usato il termine una volta in assemblea di “derattizzare il San Giuseppe”, ovverosia tutti quelli che sono a contratto pubblico, tra virgolette, nel senso che il nostro contratto è equivalente a quello del pubblico, tutti quelli che sono assunti con concorso, devono andarsene, devono essere sostituiti da medici liberi professionisti, quindi che hanno o interesse loro a lavorare o che comunque sono nelle mani dell’amministrazione e devono fare quello che gli viene detto.

MEDICO 2 È chiaro che il libero professionista è legato alla struttura per un capello, dopodiché la gestione, la dirigenza, l’amministrazione può in qualunque momento e senza neanche spiegarglielo dirgli “guardi, grazie, non ci serve più la sua collaborazione, arrivederci e grazie”.

MEDICO 1 Assumiamo il giovane libero professionista, lo schiavizziamo, gli diamo quattro soldi, a contratto libero professionale, e magari una percentuale sui Drg in maniera tale che mi ricovera solo chi serva a me. Questa è la traduzione del proclama di Multimedica.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Per Schwarz, se l’ospedale ha i bilanci in rosso, la colpa è quasi tutta del personale. Soprattutto dei medici: dei 121 assunti ne vuole buttar fuori 51, perché sono vecchi e incompetenti. Eppure questo è un ospedale inserito nel sistema sanitario nazionale.

DANIELE SCHWARZ – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO MULTIMEDICA A me sembra che i rapporti con il personale medico adesso siano sicuramente molto buoni.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Nessun problema, dice Schwarz, che nel frattempo ha fatto un passo indietro, bloccando la procedura di mobilità. Quei medici vecchi e incompetenti, oggi non sono più da rottamare?

DANIELE SCHWARZ – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO MUTLIMEDICA Questo è un equivoco che è venuto fuori, non so bene perché, ma questa affermazione non è mai stata fatta.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO A dire il vero l’ha scritta. Nel documento inviato alla direzione provinciale del lavoro si legge che i 51 medici devono andare in mobilità per scarsa competenza e anzianità.

DANIELE SCHWARZ – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO MUTLIMEDICA Però, posso far presente che, come dire, il nostro esempio è stato seguito subito da altri...

MEDICO 3 Già una ventina di colleghi hanno chiesto e ottenuto trasferimento in altre strutture e di qui a giugno, probabilmente ce ne saranno altri 5-8 che se ne andranno. Quindi in certa misura, l’obiettivo da parte loro è stato ottenuto, chiaramente sostenendo che non hanno licenziato nessuno, ma sicuramente la gente se n’è andata perché dentro qui non si trovava più tanto bene e per vari motivi ha deciso di andarsene.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Insomma, il nuovo amministratore dell’Ospedale San Giuseppe, ci ha provato. La differenza di trattamento tra il contratto del medico del pubblico e quello del professionista del privato è così abissale che ha contribuito al manifestarsi di alcune perversioni del sistema. Per raccontare una storia meno conosciuta rispetto ad altre, andiamo a Vigevano, da un sacerdote che, qualche anno fa, riesce a prendere un appuntamento per un controllo al cuore in uno dei migliori ospedali accreditati della Lombardia.

MONS. PIER LUIGI GUSMITTA – DIOCESI DI VIGEVANO (PV) Mi fanno la coronarografia, durante l’esecuzione della coronarografia il medico che la segue, mi dice: ma lei ha delle coronarie splendide. Vedrà il cardiochirurgo che cosa fare. E così io mi trovai in sala operatoria, ma senza sapere nulla dell’esito degli esami che erano stati effettuati.

ALBERTO NERAZZINI Le hanno spiegato meno bene, più o meno nel dettaglio, che tipo di operazione stava per affrontare?

MONS. PIER LUIGI GUSMITTA – DIOCESI DI VIGEVANO (PV) A me hanno spiegato che si trattava, me l’ha spiegato subito il dottor Gallotti quel giorno, si trattava di sostituire la valvola aortica. E basta.

ASSISTENTE MONSIGNORE La valvola è un rischio notevole perché essendo un corpo meccanico...

MONS. PIER LUIGI GUSMITTA – DIOCESI DI VIGEVANO (PV) Può bloccarsi, insomma!

ASSISTENTE MONSIGNORE Può bloccarsi!

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il monsignore era entrato in ospedale per verificare un’aritmia ed è uscito con una protesi meccanica al cuore, dopo un intervento delicatissimo. Il rischio di una valvola aortica che si può bloccare te lo prendi, se la valvola ti ha salvato la vita. Ma il sacerdote scopre che non era così.

MONS. PIER LUIGI GUSMITTA – DIOCESI DI VIGEVANO (PV) Io esco dall’ospedale e quei disturbi per cui fui operato, cioè le cosiddette extrasistolie, io le avevo sempre, anzi accentuate. Accentuate ecco. Tutti furono concordi nell’affermare che dati i risultati degli esami dai quali risultava che io avevo un’insufficienza lieve, io non dovevo essere operato.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il monsignore va in Procura e fa un esposto. Scattano i controlli e il sequestro di altre cartelle cliniche. Si indaga su una trentina di casi, se ne portano una decina nel processo. Imputati, i medici ritenuti responsabili di aver eseguito su pazienti ignari operazioni costose e pericolose, senza indicazione chirurgica, solo per ottenere i rimborsi dalla Asl. Uno dei periti dei magistrati è il direttore dell’unità operativa di Cardiologia dell’ospedale Luigi Sacco di Milano.

MAURIZIO VIECCA – DIRETTORE CARDIOLOGIA OSPEDALE SACCO MILANO Se si operasse occasioni come quello, bisogna operare metà degli italiani. Non può secondo me il cittadino, incappare nel pericolo di entrare in una logica di speculazione sulla sua salute. Da noi, può essere un ospedale pubblico, se ne operi uno o mille, non cambia niente. Lo stesso stipendio non si modifica. È un ospedale pubblico, è un ospedale della regione, non è che si preoccupano che se alla fine dell’anno, ha fatto molto più interventi, ci guadagna di più.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sergio Casartelli è uno che ne mastica di sanità lombarda: ha lavorato nella direzione generale del grande ospedale Niguarda, è amico del Monsignore e ha seguito passo-passo il processo Humanitas.

ALBERTO NERAZZINI Entrano in gioco poi in tutta la vicenda che poi diventa anche un elemento processuale due medici in particolare della struttura Humanitas. Una cardiologa e un collega di Gallotti.

SERGIO CASARTELLI – EX DIRIGENTE OSPEDALE NIGUARDA MILANO Un cardiochirurgo sì, che chiamati dal magistrato a testimoniare su questi altri casi hanno una problema di etica, di morale, come poi non se ne riscontra più da nessuna altra parte, e mantengono la correttezza verso il paziente, verso la vita di un paziente, e dichiarano le cose secondo coscienza.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Solo due medici all’interno della struttura collaborano con gli investigatori. Sono una cardiologa, la dottoressa De Chiara, e un cardiochirurgo, il dottor Manasse. Tutti e due i medici hanno dovuto lasciare l’Humanitas. Il cardiochirurgo, addirittura, è stato costretto a cambiare mestiere. Oggi è il consulente di una società che vende valvole cardiache.

SERGIO CASARTELLI – EX DIRIGENTE OSPEDALE NIGUARDA MILANO È lui in questo momento che propone dai prodotti che ha visto usare in maniera forse non corretta, all’interno di quella struttura sono rimasti tutti gli atri che abbiamo letto nelle intercettazioni, sapevano o tentavano di fare qualcosa.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Tutti sapevano, ma doveva sapere anche la direzione dell’ospedale. Quella che segue è la registrazione di una riunione del reparto di cardiologia, quando è ormai noto che la procura sta indagando. Il primario dice ai suoi collaboratori che il modus operandi di Gallotti lo aveva già denunciato anni prima ai vertici aziendali, anche al direttore generale Ravera.

REGISTRAZIONE REPARTO CARDIOLOGIA ISTITUTO CLINICO HUMANITAS 16/03/2005

DOTT.SSA DE CHIARA “Cioè voglio dire, allora la Direzione Sanitaria e... e questi qua perché si muovono adesso... se erano tanto tranquilli...

DOTT. FALETRA (PRIMARIO) Perché sì…

DOTT. SGALAMBRO perché devono pararsi... pararsi il culo all’Istituto... Prima a loro non gliene fregava assolutamente niente...

DOTT. FALETRA (PRIMARIO) Anzi più operava e meglio era...

DOTT. SGALAMBRO Finché nessuno protestava... loro... per carità di Dio...

DOTT. FALETRA (PRIMARIO) Ma io a Ravera gli ho anche detto che... questi overtreatment aumentavano nei periodi di fine anno... Cioè quando lui doveva arrivare a un certo numero.

DOTT.SSA DE CHIARA E Ravera?

DOTT. FALETRA (PRIMARIO) Lui si è messo a ridere... come fosse una battuta!

DOTT.SSA DE CHIARA Ah... carino nèh!?

ALBERTO NERAZZINI Un cardiochirurgo come il dottor Gallotti, quanto arrivava a guadagnare?

SERGIO CASARTELLI – EX DIRIGENTE OSPEDALE NIGUARDA MILANO Ho visto che a fronte dei soliti 5 mila euro al mese che venivano dati in un contratto, c’erano 70-80 mila euro al mese di incentivi, tutti basati sulla quantità dell’attività svolta. È fuori dal mondo, il medico non è un venditore di salute, non deve produrre volumi di attività per poter avere lo stipendio più alto possibile.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Questo è il contratto che il primario di cardiochirurgia firma quando entra in carica all’Humanitas. Un fisso annuo che non arriva a 55 mila euro. Tutto il resto, il dottor Gallotti lo portava a casa grazie ai superincentivi e ai bonus sulla produzione, fatturati a parte, da libero professionista. Era questo il tipo di accordo che il grande istituto di ricerca Humanitas prediligeva. In tante strutture private accreditate, se a fine anno dimostri una produzione alta di interventi, puoi raggiungere cifre esorbitanti, rispetto a quello che guadagna un primario del pubblico.

MAURIZIO VIECCA – DIRETTORE CARDIOLOGIA OSPEDALE SACCO MILANO Ti alletta molto perché nel pubblico ti danno uno stipendio di merda. Ti fanno impazzire con la burocrazia. Non fai più il medico, ma fai il mezzemaniche. Io sono capo dipartimento, guadagno 4.200 euro al mese. Tu dici è tanto? Sì, certo, rispetto all’albanese è tanto, ho capì, però... Sai, anche a me mi avevano offerto 15 mila euro al mese, no? Però poi, vai a vedere come sono composti. Hai tre mila di fisso, poi puoi arrivare fino a 25 mila, quindi sei indotto ad allargare le indicazioni, che poi è quello che succede sempre. No? Ti abitui ad uno stile di vita alto... e poi cominci a dire “ma sì! Perché non operi anche quello?”

AUTODICHIARAZIONE A “STRISCIA LA NOTIZIA” PROF. ROBERTO GALLOTTI - CARDIOCHIRURGO “Ho il conforto di sapere che specialisti di grande prestigio internazionale, incaricate di verificare il mio operato, lo hanno approvato in tutti i casi, oggetto di indagine. Sono stato e rimango a disposizione delle autorità giudiziarie per fornire tutte le spiegazioni che mi verranno richieste. Vi posso assicurare che mi sento tranquillo”.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Roberto Gallotti si difende così dentro a Striscia la Notizia. Ma il giudice lo ha ritenuto colpevole, e nel febbraio dell’anno scorso è arrivata la sentenza di primo grado. Condanna a sette anni e tre mesi diminuiti a 4 anni e 10 mesi per il rito abbreviato. Interdizione per cinque mesi dalla professione, per 5 anni, invece, dalla pubblica amministrazione. Gallotti ha impugnato la sentenza e la Corte d’Appello il 28 aprile gli ha derubricato le accuse. Tutto ciò che resta in piedi va in sede civile per il risarcimento danni. Alla direzione dell’istituto clinico Humanitas, invece, era andata molto meglio sin dall’inizio.

SERGIO CASARTELLI – EX DIRIGENTE OSPEDALE NIGUARDA MILANO I documenti sanitari sono stati cancellati dal server di Humanitas. E una società specializzata, incaricata dalla magistratura, li va a riscovare in un back up. Bisogna dire che non sono dei bravi informatici, da questo punto di vista, ci sono altri sistemi per cancellare e non far più trovare traccia di quello che si vuole nascondere.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO L’ospedale non entra nel processo e dopo le dimissioni di Gallotti assume uno dei migliori cardiochirurghi in Italia: il professor Vitali, conosciuto anche per le sue prese di posizione a difesa della sanità pubblica.

SERGIO CASARTELLI – EX DIRIGENTE OSPEDALE NIGUARDA MILANO È il goal che fa un fuoriclasse, quello, secondo me, avere un’immagine di un Vitali che va... che è il post Gallotti, è esattamente l’opposto.

TELEFONATA PROF. ETTORE VITALI – DIR. DIP. CARDIOVASCOLARE HUMANITAS Il concetto è che il sistema è perverso, non è l’accreditato che è perverso. Sono venuto qui, pensavo di poter fare il mio lavoro e lo sto facendo. Non ho cambiato una virgola del mio comportamento professionale quotidiano. È il sistema, è il prendersi cura, cioè noi non curiamo più la gente come sistema, facciamo delle cose e poi il malato, il paziente se ne va.

ALBERTO NERAZZINI Esatto.

TELEFONATA ETTORE VITALI Solo. Nella prateria.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Qui siamo in un’altra struttura privata accreditata di Milano. Appartiene al Gruppo più importante, il San Donato. All’ingresso incontriamo un dirigente medico alla fine della sua giornata di lavoro. DIRIGENTE MEDICO Io non c’ho il contratto, non c’ho la tredicesima, non c’ho le ferie, non c’ho la malattia, non c’ho un cazzo, qui se lavoro, lavoro. Se non lavoro, faccio su il mio valigino e vado.

ALBERTO NERAZZINI Lei come viene pagato nel suo campo?

DIRIGENTE MEDICO Vieni pagato dal punto di vista libero professionale. Vieni pagato fondamentalmente sul drg che tu produci.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il Gruppo per il quale lavora questo primario è la prima holding che produce sanità in Italia. Il suo fiore all’occhiello è il Policlinico San Donato, specializzato in cardiochirurgia, chirurgia vascolare, e ortopedia. Il numero uno della sanità privata in Italia lo incontriamo qui. Si chiama Giuseppe Rotelli. Secondo lui il medico dovrebbe essere pagato come un avvocato. Nessun stipendio fisso, solo a prestazione.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO E io ritengo questo un’anomalia. Io continuo a essere dell’opinione che si devono pagare le prestazioni. Come per qualsiasi altro professionista. Non è questa, non è questo criminogeno.

DIRIGENTE MEDICO Però, il bello di questa faccenda è che sarebbe stato semplicissimo, no? Se tu dici pubblico e privato, lo metti assieme, lo fai uguale, nel momento in cui il pubblico e privato venivano messi sullo stesso piano, dovevano avere le stesse regole.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Un anno fa, quando inaugurò le nuove strutture edilizie, è stato omaggiato da tutti. Soprattutto dal presidente del consiglio, che si ritagliò una mattinata per venire qui. Ne approfittò per spiegare anche la sua idea di sanità.

SILVIO BERLUSCONI AL POLICLINICO SAN DONATO “Deve cadere la discriminante ideologica, il pregiudizio ideologico della differenza tra sanità pubblica e sanità privata. Il punto di arrivo non può prescindere da tre pilastri che sono alla base, che sono la filosofia di questo servizio che lo stato deve garantire a tutti i cittadini: la libertà di ogni cittadino di scegliersi il medico che vuole; secondo, la libertà di ogni cittadino di scegliersi dove andare a farsi curare, dove vuole; terzo, il sistema di finanziamento pubblico che deve essere come pagamento a prestazione!”.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il numero uno della sanità privata è un avvocato, con un passato di professore universitario. È stato il coordinatore del primo progetto di Piano Sanitario, dopo essere entrato in Regione come dirigente in quota all’allora partito socialista. Si è buttato in sanità grazie al padre, un chirurgo di Tarquinia che a un certo punto decise di tirar su le sue cliniche.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO C’era il grande problema che mancavano i posti letto. Oggi ce ne sono troppi, allora ce ne erano pochi e quindi costruì 380 posti letto alle porte di Milano.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Oggi il Gruppo San Donato di Rotelli viaggia oltre gli 800 milioni di euro di fatturato all’anno. Possiede 18 strutture, tutte in Lombardia tranne una che sta a Bologna. A parte due cliniche che fanno privato puro, dove vai solo se paghi, sono tutte accreditate al servizio sanitario nazionale. In totale, quasi 4000 posti letto, 2 milioni e 200 mila pazienti l’anno, un personale che sfiora le 10mila unità. Ma ad annusare l’affare sanità era stato il padre Luigi. Aveva costruito nel ‘57 la prima clinica a Pavia facendosi aiutare dal suocero, e venti anni dopo sedeva nel consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il Banchiere al servizio dello Ior di Marcinkus e della P2 di Licio Gelli. Appoggiato dai suoi consiglieri di amministrazione, Calvi portò la Banca al collasso, prima di finire ucciso, a Londra, nel 1982, sotto il ponte dei Frati Neri. Il padre di Rotelli, da consigliere di amministrazione, seguì fino alla fine uno dei più grandi scandali finanziari della storia. Anche se, a seguito di un’ischemia, non era più tanto lucido.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Mio padre partecipò ma con scarsa, diciamo... con scarse capacità di discernimento e partecipò soltanto per il piacere di poter essere in un consesso prestigioso.

ALBERTO NERAZZINI In un salotto buono, come si dice.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Beh, bene: in un salotto buono!

ALBERTO NERAZZINI Lei cosa pensa di Calvi?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Non penso nulla, non sono... diciamo... non ho mai fatto delle riflessioni. Penso semplicemente che sia stata una vicenda drammatica ed estremamente negativa.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Roberto Calvi, grazie all’amicizia con Michele Sindona, aveva raffinato la sua competenza in investimenti riservati, riuscendo a costruire una intrecciata rete di società di facciata, piazzate nei paradisi fiscali. Chi indagò per anni la struttura e le connivenze del Banco Ambrosiano, oggi è il viceprocuratore nazionale Antimafia. Pier Luigi Dell’Osso ci impiegò anni di inchiesta. Poi arrivò al processo, e le sue richieste furono confermate fino in Cassazione.

PIER LUIGI DELL’OSSO – VICE PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA Il Banco Ambrosiano in sostanza crollò per una sorta di autofagia, ingoiò se stesso perché in realtà una parte consistente dei pacchetti azionari di controllo in realtà erano stati comprati con denari distratti dal patrimonio dello stesso banco e pacchetti azionari poi collocati, parcheggiati in società estere.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Nella sua requisitoria, quando fa riferimento ai diversi procedimenti per reati valutari stralciati dal processo principale, si porta ad esempio di questo modo di agire una società, scovata a Nassau. La società è la Kismet, ed era riferibile al consigliere dell’Ambrosiano Luigi Rotelli. E ai conti della società poteva avere accesso anche il figlio.

ALBERTO NERAZZINI Questa società che si chiamava Kismet mi dice che cos’era?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Non lo so. Noi non abbiamo avuta nessuna...diciamo...abbiamo perduto il capitale e lì abbiamo abbandonato la vicenda. Non abbiamo più...

ALBERTO NERAZZINI Ma l’aveva fatta suo padre la società?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Probabilmente, io non ne so niente. Mio padre mi ha semplicemente detto che nel caso fosse mancato io avrei dovuto essere contattato, siccome c’è il mio nome entrai in questa inchiesta e fui subito però prosciolto.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sul territorio milanese Rotelli possiede anche altre strutture accreditate con la Regione. Sono il grande Istituto Ortopedico Galeazzi, l’Istituto Clinico Sant’Ambrogio e il San Siro. Con il Policlinico San Donato fanno quattro.

ALBERTO NERAZZINI Tutte e quattro queste strutture sono sotto indagine.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Sì.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il San Donato era già finito sotto processo, all’inizio degli anni Novanta, ma Rotelli ne uscì assolto. L’accusa era di aver truffato la Regione con i rimborsi delle rette. Truffa e falso ideologico sono le principali accuse che gli rivolgono oggi.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Che cos’è il drg? È la tariffa per ogni singola prestazione che la regione poi rimborsa. Allora la procura, che ha lavorato insieme al Gruppo spesa pubblica della Guardia di Finanza, ha chiuso le indagini a dicembre su tre strutture di Rotelli, e disposto il sequestro preventivo per 6 milioni e mezzo di euro. Nessuno contesta interventi non necessari, ma l’utilizzo di meccanismi per ottenere rimborsi maggiori rispetto al dovuto. Per esempio, per l’asportazione di una verruca è previsto un rimborso di 45 euro e si fa in ambulatorio; se ne chiedevano 1500 perché veniva fatta in day hospital. Sono state sequestrate 60.000 cartelle cliniche, bisognerebbe analizzarle tutte una per una, ma siccome la procura fa fatica a trovare i medici che fanno le perizie perché poi rischiano di venire un po’ esclusi dal sistema, si sono fermati a 8 mila. Di queste oltre il 97% presenterebbe degli illeciti di varia natura.

ALBERTO NERAZZINI Capisce che codificare eventualmente una prestazione in maniera diversa, cambiando un numero, si passa da 45 euro di rimborso a 1500.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO E va bene, voglio dire, ci saranno stati anche qualche per noi limitatissima situazione, in cui questo sistema può non aver generato quell’esito felice che tutti ci auguriamo. Bene, lo correggiamo. Non c’è soltanto la repressione penale.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Una cosa è certa. Quando, un anno fa, tutti visitarono il nuovo policlinico di Rotelli, tutto aveva quella struttura ospedaliera tranne che l’aria di essere sotto inchiesta.

SILVIO BERLUSCONI AL SAN DONATO “Per gli imprenditori quello della sanità si presenta come un settore di grande soddisfazione e io credo che quello che in questo settore ha fatto, sta facendo e continuerà a fare il gruppo del Professor Rotelli possa essere veramente un modello rassicurante da imitare”: ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E men che meno Formigoni, sembrava pensare che Rotelli avesse potuto truffargli un po’ di soldi con i rimborsi.

ROBERTO FORMIGONI AL SAN DONATO “Saluto il Professor Rotelli, la cui storia personale s’intreccia con quella della sanità della nostra regione, non soltanto in questi ultimi anni”.

GIUSEPPE ROTELLI AL SAN DONATO “Noi costituiamo un modello virtuoso, non l’unico ma certo uno dei più efficaci ed efficienti di cui la Lombardia sotto la guida sicura di Roberto Formigoni e l’Italia intera sotto la guida illuminata di Silvio Berlusconi, sono un esempio da imitare che molti stati ci invidiano a cominciare dagli Stati Uniti d’America”.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La «guida sicura» di Formigoni, in Lombardia, va avanti ininterrottamente da 15 anni. E in Italia, come negli Stati Uniti, il governatore non può superare due mandati consecutivi. Lo dice la legge 165 del 2004. Quindi questa candidatura sarebbe illegittima. Ma siccome nelle stesse condizioni c’è il candidato del Pd in Emilia Romagna, Vasco Errani, la questione ha comunque scatenato un gran silenzio.

ALBERTO NERAZZINI Secondo lei che cosa c’è dietro questo silenzio?

GIUSEPPE CIVATI – CONSIGLIERE PD REGIONE LOMBARDIA Ma c’è la convenienza, perché evidentemente conviene a chi occupa già una posizione di potere ritenersi indiscutibile, pensare di non essere appunto costretto a lasciare il passo perché la norma ha questo senso, dopo due mandati bisogna lasciare ad altri la possibilità di correre come presidenti.

VITTORIO ANGIOLINI – PROF. DIRITTO COSTITUZIONALE STATALE DI MILANO Formigoni, per la verità, ha risposto solo che è retroattiva. Ha sostenuto che il divieto opera soltanto a partire dal 2015, e cioè quando lui avrà effettuato completi due mandati sotto la vigenza della legge.

RICCARDO SARFATTI – EX CONSIGLIERE PD REGIONE LOMBARDIA Gli interessi che stanno sotto a Formigoni sono Comunione e Liberazione, compagnia delle opere, hanno creato oggettivamente una situazione di un mercato distorto, in Lombardia lo sanno tutti. Se non passi di là è difficile avere gli incarichi, è difficile essere assunti, non puoi dirigere un ospedale. ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO I consiglieri di opposizione si sono dati appuntamento per firmare l’esposto che presentano contro la ricandidabilità di Formigoni. La Corte d’Appello di Milano si dichiarerà poi incompetente, e Formigoni potrà festeggiare l’ennesima vittoria.

ROBERTO FORMIGONI AL TG “I dati parlano della quarta vittoria consecutiva è questo il primo dato, parlano di vantaggio raddoppiato rispetto al 2005”. ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ma nello studio del professore Angiolini firma l’esposto anche un cittadino che nella vita non fa il politico. È un funzionario della Regione, lavora all’assessorato Sanità, ed è stato il direttore del centro Emoderivati della Lombardia. I guai di Enrico De Alessandri sono cominciati quando da un sito internet è stata anticipata l’uscita di un suo libro. Anticipazione non gradita al direttore del personale, il signor Camisasca.

ALBERTO NERAZZINI Mi dice chi è Michele Camisasca?

ENRICO DE ALESSANDRI – FUNZIONARIO REGIONE LOMBARDIA – SANITA’ Il nipote di Don Massimo Camisasca uno dei fondatori storici di Comunione e Liberazione… ha ritenuto di sospendermi per la pubblicazione di questo libro. C’è stata una trattativa di patteggiamento che io naturalmente ho rifiutato dal momento che non ho scritto cose false in questo libro, non ho divulgato le informazioni di cui sono in possesso, quindi non ho violato il cosiddetto codice etico della regione Lombardia, mi sono limitato a parlare di questo potere monopolistico che questo movimento esercita nell’ambito della Regione Lombardia.

CARLO MONGUZZI – EX CONSIGLIERE VERDI REGIONE LOMBARDIA Viene sospeso per un mese perché ha recato danno al proprio datore di lavoro, ma noi chiediamo, in Lombardia il datore di lavoro è Comunione e Liberazione o è la giunta regionale in rappresentanza dei cittadini tutti?

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO A fine ottobre, De Alessandri riceve la lettera con cui il dirigente gli comunica la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un mese. L’accusa è quella di aver infranto il codice etico, creando un danno al suo datore di lavoro, la Regione Lombardia.

ALBERTO NERAZZINI Io ho intervistato un signore che lavorava...ho intervistato un signore che è un dipendente della regione che ha scritto, un libello, un pamphlet su Comunione e Liberazione ed è stato sospeso...

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Eh l’ha scritto lui...e sentite lui.

ALBERTO NERAZZINI Ma infatti l’ho già sentito. Le avrei voluto chiedere.. è l’ex direttore degli Emoderivati.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Non voglio entrare nel merito perché non è compito mio, non faccio questo. Cioè… lei sa che sono un assessore tecnico quindi non vengo dalla politica, quindi non voglio entrare negli ambiti della politica, dei vertici politici, faccio politica sanitaria, non politica di partito. Mi sembra che sia noto anche però, perché... è noto, no?

ENRICO DE ALESSANDRI – FUNZIONARIO REGIONE LOMBARDIA – SANITA’ Il CL rappresentano il 5% dell’elettorato del popolo della Libertà. È una minoranza rispetto all’elettorato del Pdl, ma è una minoranza granitica, compatta, abituata all’obbedienza acritica, sorretta da una ferrea disciplina interna e da una impressionante simultaneità di azione. E in questo spirito settario di CL che va vista la loro forza.

CARLO MONGUZZI – EX CONSIGLIERE VERDI REGIONE LOMBARDIA La Compagnia delle Opere e Comunione e Liberazione hanno ramificato il proprio intervento e gestiscono pezzi di potere molto, molto grossi. La sanità è quello principale. Gestiscono dirigenti, direttori generali, ma soprattutto gestiscono anche medici e primari. Una quota consistente dei primari in Lombardia sono di Comunione e Liberazione.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Sospendere un funzionario della regione perché ha scritto un libro sulla pervasività di Comunione e Liberazione dentro al sistema, volendo essere in malafede, è per via del fatto che il governatore è di CL e così pure il Direttore Generale della sanità. Siccome di sanità parliamo e non di altro, non può sfuggire che solo a Milano gli uomini di CL amministrano il Niguarda, il Policlinico Mangiagalli, il Besta, e una lunga lista dei primari. Ma dove sta il problema? Se il meglio degli iscritti all’ordine dei medici, gli eccellenti, come aspira ad essere il modello Lombardia, stanno anche tutti dentro ad un altro ordine che è quello di Comunione e Liberazione, è giusto che a loro vengano affidati incarichi così importanti e delicati. Obama nella sua riforma sanitaria, sta facendo una grande battaglia per avvicinarsi al nostro modello di sanità pubblica, che in alcune regioni funziona bene in altre è il disastro che sappiamo. E poi c’è il modello Lombardia che è in grado di accogliere tanti pazienti in fuga e di soddisfare tutti perché ha accreditato tante strutture private. Con le storture che genera un po’ questo sistema, che sono quelle che abbiamo visto, dalle prestazioni gonfiate, a interventi non sempre necessari, quando sono ben remunerati. Quindi, il privato nasce e prospera sulla mala gestione pubblica. E qui però è la politica che nomina i dirigenti ed è la politica che dovrebbe avere almeno il pudore di stare fuori dalle sale operatorie.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Seguire un candidato esperto come il ciellino Formigoni in campagna elettorale, significa visitare un bel numero di ospedali. E questo può essere utile per farsi un’idea del sistema sanitario nel suo complesso. Perché non vengono dimenticate nemmeno le aziende ospedaliere più periferiche. Qui siamo in Valle Camonica, a Esine, ai piedi delle alpi bresciane. E in questi casi il politico porta sempre con sé una bella notizia.

ROBERTO FORMIGONI ALL’OSPEDALE DI ESINE (BS) E poi c’è anche una cosa imprevista, una novità positiva che ho voluto portarvi siccome sapevo e ho detto prima che ci vogliono strutture sempre nuove e all’avanguardia, ho proposto alla giunta, e la giunta è stata d’accordo con me, per cui vi porto oggi uno stanziamento supplementare di un milione e mezzo di euro per la radiologia!

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Una visita guidata dal direttore generale nominato dalla sua giunta, l’inaugurazione di un reparto di emodinamica, e la simbolica posa della prima pietra, a sigillo dei grandi finanziamenti promessi e arrivati. Perché ci sono grandi progetti per l’ospedale di Esine: oltre al milione e mezzo portato oggi personalmente dal presidente, sono stati finanziati lavori per una ventina di milioni.

ANGELO FOSCHINI – DIRETTORE GENERALE ASL VALLE CAMONICA – SEBINO Io sono un democristiano, la Democrazia Cristiana l’hanno chiusa, l’hanno chiusa, io dove dovevo finire da democristiano del gruppo Forlaniano se vogliamo, di quell’area lì, sono andato in Forza Italia, basta tutto lì. Sono sempre stato un estimatore di Formigoni, questo da tempi antichi. Io non ho mai guardato, soprattutto al livello di primari e di responsabili la tessera che aveva in tasca uno, ecco proprio non mi fregava proprio niente, l’importante è che sapesse fare il proprio lavoro. ALBERTO NERAZZINI Mi hanno parlato molto dell’ospedale di Esine e mi hanno parlato molto di un reparto specialmente, del reparto di chirurgia. Appunto si parla di un primario vicino a CL, mi hanno detto.

ANGELO FOSCHINI – DIRETTORE GENERALE ASL VALLE CAMONICA – SEBINO Sì. Sì è possibile.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il direttore dell’unità di chirurgia di cui si parla tanto da queste parti è il dottor Colombo. Lo vediamo al termine della visita di Formigoni. Fa appena in tempo a chiamarlo e a dargli un saluto informale, allungandogli una busta.

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Secondo me quando il malato è in un momento di sofferenza è in un momento privilegiato lui, ma anche chi lo assiste. ALBERTO NERAZZINI Lei qui ha la rivista di Comunione e Liberazione.

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Sì, sì.

ALBERTO NERAZZINI Lei è di Comunione e Liberazione.

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Sì.

ALBERTO NERAZZINI Lei conosce Formigoni a prescindere da…

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Sì.

ALBERTO NERAZZINI Lo conosceva da prima, non l’ha conosciuto qualche giorno fa?

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) No, no, ci conosciamo da molti anni, non ci si vede mai, tant’è per esempio che quando è venuto gli ho fatto omaggio di un ricordo montanaro di qualche anno fa.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Che il primario sia di Comunione e Liberazione non vuole dire assolutamente nulla. Siamo venuti fin quassù dopo aver letto qualche articolo di giornale e ascoltato il punto di osservazione di alcuni medici di base che di solito sta a metà strada tra il paziente e l’ospedale.

MEDICO DI MEDICINA GENERALE 1 AL TELEFONO Ormai mi sono rassegnato, ho i miei punti di riferimento, soprattutto su Brescia e… cosa vuole che le dica… Si prende su la macchinina e si va là. Insomma deve anche capire una cosa, che se vogliamo credere ancora a questo rapporto di fiducia che c’è tra medico e paziente, poi tu a quel paziente devi rispondere su come certe cose possono essere andate male. MEDICO DI MEDICINA GENERALE 2 ANONIMO Parecchi pazienti che hanno avuto complicanze banali, durante interventi chirurgici, casi di sovrainfezione, casi di ascessi intraddominali, cose che non accadevano nella precedente gestione dell’unità operativa di chirurgia. Questo è un altro dato.

MEDICO DI MEDICINA GENERALE 1 AL TELEFONO Sono più preoccupato per me e per i miei, ho lasciato uno scritto però, non portatemi a Esine. No, ve lo dico francamente, no non ce l’ho il portafoglio, sono balle.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sappiamo che c’è una serie di esposti che denunciano presunti casi di “malpractice” chirurgica. Ma di cosa si parla esattamente in questi esposti?

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Ci sono state delle persone che si sono arrogate senza averne né la competenza, né l’esperienza professionale, si sono arrogate il diritto di mettere da parte, nascondendo una mal celata insoddisfazione professionale, mettere da parte dieci casi clinici e segnalarli non alle autorità, ma segnalarli alla Direzione Generale.

ALBERTO NERAZZINI Quindi questi esposti di cui sono venuto a conoscenza facilmente, perché sono stati anche raccontati da alcuni articoli di giornale, in cui si parla di diversi casi di…

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Dica, dica. Quella dei casi è un argomento veramente molto buffo.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il primo esposto risale a un anno e mezzo fa, indirizzato al direttore generale della azienda. Vi sono elencati 10, 11 casi di interventi eseguiti all’interno dell’unità che non avrebbero rispettato i protocolli e le indicazioni diagnostico-chirurgiche. È firmato da tutti i medici della chirurgia che ogni giorno lavorano al fianco del primario.

ALBERTO NERAZZINI Quindi l’hanno accusato di non essere un bravo chirurgo.

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Saranno state alcune persone, piccole persone, ma la maggioranza delle persone… So che dà fastidio dire che nel giro di tre giorni, senza avere nessuna organizzazione alla base, ci siano state 1400 persone che hanno raccolto delle firme in sostegno di un primario chirurgo. Ormai tutta la Valle, perché tutta la Valle è come un piccolo paese, sa che il primario della chirurgia è il primo ad arrivare in ospedale, che talvolta dorme qui dentro, che ha sacrificato tutta la vita anche familiare e affettiva per questo lavoro! E questo probabilmente avrà rotto degli interessi locali, delle piccole lobby locali.

ALBERTO NERAZZINI Capisco però tutto questo, le stavo dicendo, capisco meno che si arrivi addirittura a elencare dei casi di errore chirurgico…

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Che non ci sono.

ALBERTO NERAZZINI Di fronte…

FABIO MARIA COLOMBO – DIRETTORE CHIRURGIA GENERALE OSPEDALE DI ESINE (BS) Non dica… Guardi che su questo io sono non solo tassativo, ma sono feroce! Non sono 10 casi di errore chirurgico!

ANGELO FOSCHINI – DIRETTORE GENERALE ASL VALLE CAMONICA – SEBINO Ma non ha capito che questa è tutta una messa in scena contro una persona che è stata presa per questioni di urto personale e di rapporti interni di una divisione.

ALBERTO NERAZZINI Cioè è una bega tra medici secondo lei?

ANGELO FOSCHINI – DIRETTORE GENERALE ASL VALLE CAMONICA – SEBINO È una bega tra medici alla grande!

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sarà un bega. Però della situazione di questo reparto si sono occupati sia i sindacati, sia la Lega Nord. Che in Valle Camonica è il partito più votato.

MARIO MAISETTI – SEGRETARIO LEGA NORD VALLE CAMONICA O se è di Cl, o della Lega o di Rifondazione Comunista, l’importante è che sia bravo ad operare perché se uno è un macellaio, può essere della Lega ma è un macellaio comunque. Il problema è questo, io dico sempre politicamente…

ALBERTO NERAZZINI Questo è il ragionamento giusto!

MARIO MAISETTI – SEGRETARIO LEGA NORD VALLE CAMONICA Io mi faccio operare da uno di Rifondazione che magari in questo momento è dall’altra parte della barricata no, poi politicamente ci faremo fuori, però so che quello è in grado di operarmi. Ma se io devo prendere un calzolaio leghista perché è leghista, son sicuro che mi uccide sul letto.

DOMENICO GHIRARDI – CGIL VALLE CAMONICA Il direttore generale ci chiama e dice: io ho qui questo esposto cosa facciamo? Noi gli abbiamo consigliato: fai fare una perizia.

MARIO MAISETTI – SEGRETARIO LEGA NORD VALLE CAMONICA Non lo so mi viene adesso di pensare, ci sarà delle cartelle cliniche che riscontrano questa… o è svanito tutto, non lo so.

DOMENICO GHIRARDI – CGIL VALLE CAMONICA E lì si scopre, si scopre che allora la politica purtroppo è arrivata in una logica di lottizzazione, dove i primari hanno anche, come dire, una nomina certo che viene fatta dal direttore generale ma che dietro c’è un sistema di potere che come dire uno alza le mani e dice “io non ci posso fare niente”.

OSVALDO SQUASSINA – EX CONSIGLIERE SINISTRA E LIBERTA’ REGIONE LOMBARDIA Come sempre la Lega denuncia alcune cose importanti e quando vede che dentro c’è il potere vero, a un certo punto tira i remi in barca e abbandona le sue battaglie.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ma cosa ha fermato la Lega che era così inferocita? L’arrivo di questo parere.

MARIO MAISETTI – SEGRETARIO LEGA NORD VALLE CAMONICA Non posso andare ad interferire su una dichiarazione di tecnici specialisti perché ho letto il nome, sono i primari di prim’ordine della provincia di Brescia.

ALBERTO NERAZZINI Voi avete… così…

 LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Un anno fa…

ALBERTO NERAZZINI …Ricoperto la Valle Camonica di questi volantini.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA L’anno scorso c’era giustamente una protesta. Abbiamo chiesto al Direttore Generale spiegazione, abbiamo chiesto documentazione. Il Direttore Generale ha fatto arrivare due periti a verificare i presupposti “malpractice”. Sono stati i periti ad esaminare i casi e i periti hanno scritto una perizia e l’hanno firmata e i periti sono dei professionisti che lavorano in altra sede e non in quella sede lì.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Uno dei due cattedratici di Brescia che ha dato un parere sul dossier inviato dai medici al loro direttore generale è il professor Giulini, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Lo rintracciamo al telefono. Vorremmo anche sapere qual è tutta la documentazione che hanno potuto visionare.

PROFESSORE STEFANO MARIA GIULINI PRESIDE MEDICINA BRESCIA AL TELEFONO Quella però è una vicenda molto privata, molto delicata, non credo di poter fare... particolari dichiarazioni in proposito.

ALBERTO NERAZZINI Mi chiedevo se lei ha potuto, diciamo, controllare tutta la documentazione clinica legata a questi casi e se questa è a tutti gli effetti una perizia.

PROFESSORE STEFANO MARIA GIULINI PRESIDE MEDICINA BRESCIA AL TELEFONO No, in termini giuridici, non le so, non penso che questa si possa considerare una perizia medico legale vera e propria. ALBERTO NERAZZINI Ha potuto controllare tutte le cartelle in questione?

PROFESSORE STEFANO MARIA GIULINI PRESIDE MEDICINA BRESCIA AL TELEFONO Io non posso darle informazioni di questo tipo, però non so, io non la definirei... non la definirei una perizia.

ALBERTO NERAZZINI Mi ha chiarito le idee. Utilizzerò le cose che ci siamo detti anche al telefono, visto che lei e il vostro parere siete tirati in ballo spesso, siete citati da più persone insomma.

PROFESSORE STEFANO MARIA GIULINI PRESIDE MEDICINA BRESCIA AL TELEFONO Va bene. ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Quindi, chi ha firmato questo documento, che assolve il dottor Colombo, non ha dubbi: è un parere complessivo e non una perizia medico-legale. Per questa ragione il consigliere e il sindacato vanno in Procura. E tre chirurghi, in rappresentanza di tutti, si rivolgono alla Guardia di finanza di Bergamo. Questo accadeva il 1 dicembre del 2008.

ANONIMO 1 AL TELEFONO La procura deciderà e se vorrà decidere penso proprio che il nostro dovere lo abbiamo fatto e più di così io non so veramente cosa dirle.

ANONIMO 2 AL TELEFONO Per telefono non le dico niente, però, creda a me, sono cose più grandi di noi.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO E oggi? Che aria tira dentro al reparto? In molti sembrano essere interessati alla nostra presenza. Ma nessuno si prende la responsabilità di palare con noi.

ALBERTO NERAZZINI Lei non ha nulla da dirci?

CAPOSALA No.

ALBERTO NERAZZINI Va tutto bene?

CAPOSALA Non ho nulla da dirvi!

ALBERTO NERAZZINI Volevamo capire che problema c’è e se c’è qualche problema. MEDICO Io le posso dire che i problemi che ci sono, c’erano e ci saranno... li abbiamo già illustrati al nostro direttore generale, magari anche a qualche struttura più elevata del direttore generale.

ALBERTO NERAZZINI Ma il direttore generale mi dice che è una questione di beghe fra medici.

MEDICO Non credo, comunque, cioè non è così... comunque non importa. Non è una questione di beghe fra medici.. è una.. questione professionale. Non di beghe tra medici, non c’è nessuna bega!

ALBERTO NERAZZINI Volevamo capire se è un problema di “malpractice” oppure no.

MEDICO Quello lo abbiamo già riferito a chi di dovere. È tutto, non posso dire altro...

ALBERTO NERAZZINI Non mi può fare una battuta?

MEDICO No, non posso. Grazie e arrivederci.

ALBERTO NERAZZINI Arrivederci dottore, grazie.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Le voci che mancano, in questa storia, sono sempre state quelle dei pazienti. Qualcuno di loro ci contatta e chiede di restare anonimo. Una madre ci racconta del suo bambino, che arriva in ospedale con una semplice appendicite. Il primario lo opera, ma qualcosa è andato storto.

TESTIMONIANZA AL TELEFONO 1 Nei giorni successivi questo bambini non si riprendeva, aveva sempre dei forti mal di pancia.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Non resta che riportare in ragazzino in sala operatoria. Dove si scopre qual era il problema…

TESTIMONIANZA AL TELEFONO 1 Altre due ore di operazione, io ho intravisto l’anestesista, mi ha detto che quando hanno riaperto il bambino, dentro hanno trovato di tutto e di più, cioè all’interno dell’addome il bambino aveva tutto scombussolato. Il bambino era lì da dieci giorni per un’appendicite ed era ancora lì, operato per la seconda volta, non guariva, non se ne veniva fuori.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Forse, dopo la prima operazione il piccolo paziente era stato richiuso troppo in fretta… Appena il bambino è in grado di rialzarsi, la madre lo porta di corsa all’ospedale di Brescia. Arriva appena in tempo.

TESTIMONIANZA AL TELEFONO 1 Quando è arrivato giù a Brescia, era quasi a rischio di trasfusione, tutto per non voler trasferire il bambino subito.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Anche questa signora racconta di aver salvato suo marito. A causa dell’ostinazione nel confondere un’infezione da ameba con un tumore in metastasi, il marito ci stava lasciando il fegato, e ha rischiato di infettare l’intero reparto…

TESTIMONIANZA AL TELEFONO 2 L’abbiamo caricato in macchina con una flebo attaccata e ce lo siamo portati al Negrar.

ALBERTO NERAZZINI Siete praticamente scappati dall’ospedale?

TESTIMONIANZA AL TELEFONO 2 Scappati… scappati! Per avere la cartella clinica, io ho dovuto minacciare di andare su con i carabinieri. Io e mio marito abbiamo fatto una lettera di quello che ci era capitato, semplicemente che per quattro giorni non ha fatto che parlare di cancro con metastasi senza avere un riscontro in mano. Il chirurgo è ancora lì e non è successo niente. Comunque mio marito, è passato un anno e mezzo, lui è ancora in cura. Va bene? Perché non gli hanno fatto quello che dovevano fargli.

ALBERTO NERAZZINI L’altro tema che ovviamente volevo affrontare con lei è quello altrettanto discusso che è l’occupazione di CL dentro la Sanità.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA No! Questo non lo tratto, mi faccia la cortesia. Questo no.

ALBERTO NERAZZINI Perché no?

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Perché non voglio lavorare e fare dei commenti nell’ambito di un alleato istituzionale. No, questo non me lo faccia fare.

ALBERTO NERAZZINI Non è un alleato! CL è un movimento, non è un partito politico.

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Insomma, senta, non lo faccio, non rilascio dichiarazioni su questo. Non mi sembra corretto. Chiediamo a CL di questa roba qui.

ALBERTO NERAZZINI Eh, magari! Però… Chiediamo a Formigoni…

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Dai, faccia il bravo. ALBERTO NERAZZINI Mi colpisce che non voglia parlare di CL, mi dispiace…

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA No, non ne voglio parlare perché è scorretto per me.

ALBERTO NERAZZINI No, ma lei mi dovrebbe dire “non è cosi”!

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA I vertici parlano di CL. ALBERTO NERAZZINI Lei mi dovrebbe dire “non è cosi”!

LUCIANO BRESCIANI – ASSESSORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA No non glielo dico così, perché sono onesto.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Vien da pensare che CL sia più forte di un partito! Ora con quali criteri vengono nominati i direttori generali degli ospedali, poteva spiegarcelo il governatore Formigoni, ma ha preferito declinare. Rimane il fatto che dentro ad un ospedale a disposizione di un’intera valle frequentata da tanti turisti, le denunce di cittadini, medici esposti in procura, sono messi a tacere da una perizia che, secondo chi l’ha fatta, proprio perizia non è. Questioni odiose possono capitare in tutti gli ospedali, basterebbe affrontarle in modo trasparente, così si fa chiarezza e si evita di correre il rischio di rompere un rapporto di fiducia fra un’intera popolazione e un ospedale da 400 posti letto, dove ci lavorano decine di bravi professionisti. A volte anche risanare le casse non è così difficile. Basterebbe controllare. Come dimostra l’esempio che adesso vedremo.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO A Milano, a un passo dalla stazione, c’è un oculista che dopo vent’anni di lavoro in ospedale senza aver mai subito un controllo, decide di fare tutto da solo.

DOMENICO DE FELICE – MEDICO OCULISTA MILANO Mi sono chiesto come avrei potuto controllare il mio lavoro. Ho telefonato alla Regione Lombardia per chiedere come facevano loro a controllare il lavoro dei medici nelle varie strutture ospedaliere che siano esse private, accreditate, oppure pubbliche.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO In Regione Lombardia gli dicono che hanno una piccola squadra di dipendenti, i nuclei operativi di controllo, che vanno in giro negli ospedali a fare dei controlli a campione sugli elaborati scritti, le cartelle cliniche. Siamo nel 2003, e la percentuale delle cartelle monitorata dalla Regione è del due per cento. Il dottore, allora, decide di fare la stessa cosa sui suoi pazienti già operati.

DOMENICO DE FELICE – MEDICO OCULISTA MILANO Ho voluto controllare quante persone operate nell’ambito oculistico dell’intervento più importante che viene eseguito in oculistica che è la cataratta, quante persone avevano avuto o meno una possibile complicanza dell’intervento stesso, la cosiddetta cataratta secondaria. Che cosa ho fatto: ho raccolto tutte le persone operate in un arco di tre anni, cioè dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2003 e ho trovato, elaborandole tramite computer, 3070 persone operate, quindi circa mille all’anno. Ho estrapolato percentualmente un numero di pazienti in base a quello che mi aveva risposto la Regione Lombardia. Mi dissero che all’epoca controllavano il due per cento delle cartelle cliniche: il due per cento di tremila e settanta erano 61 pazienti, li ho richiamati per ricontrollarli e vedere se e quanti avessero avuto questa cataratta secondaria.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il dottor De Felice torna a visitare il suo campione di pazienti e scopre qual è la percentuale che ha dovuto sottoporsi a un secondo intervento. Solo l’1,6 per cento. Poi confronta il dato con la media registrata della Lombardia che arriva quasi al 19 per cento. I casi sono due: stiamo intervistando un fenomeno della oculistica, oppure…

DOMENICO DE FELICE – MEDICO OCULISTA MILANO C’è qualcosa che non va. Ma l’unico modo per saperlo è controllare i pazienti. Controllateli per vedere se è stato eseguito bene il lavoro. A me non pare che ci sia nulla di male.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO De Felice ripete lo stesso studio sullo stesso campione sei anni dopo, nel 2008. E la percentuale non cambia. Dopo aver pubblicato entrambi i lavori sottopone questo metodo di controllo in Regione.

DOMENICO DE FELICE – MEDICO OCULISTA MILANO Poteva anche dirmi in alternativa che questo tipo di lavoro era già stato eseguito, magari senza successo. Purtroppo questo non mi è stato detto, mi è stato detto anzi che il lavoro era stato fatto egregiamente ma che avrei dovuto trovarmi io gli appoggi per la diffusione del lavoro stesso o tramite la società oftalmologica o tramite gli ordini dei medici.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Lui ci ha provato, ma alla fine nessuno gli ha risposto. Ricordiamo che ad ogni prestazione corrisponde una tariffa da rimborsare. E sarebbe utile ricontrollare i pazienti perché così scopri se qualcuno ha truffato o non ha eseguito bene gli interventi. A meno che, si voglia liquidare questo oculista come un mago, ma allora andrebbe sostenuto e non ignorato! Sta di fatto che la spesa pubblica sanitaria è l’ultima grande diligenza e certamente un business per gli imprenditori, che se da una parte stanno molto attenti a non perderci, dall’altra sempre più spesso investono in un settore dove difficilmente si guadagna: l’editoria. Tranne De Benedetti, che ha fondato il gruppo La Repubblica – Espresso e dopo ha subito il fascino della sanità, abbiamo la famiglia Angelucci, che possiede Libero e Riformista, Ciarrapico con una lunga lista di quotidiani locali e regionali, e poi il professor Rotelli che invece ha puntato al top, a Il Corriere della Sera. ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Cominciamo da una vecchia conoscenza, uno dei primi a fiutare l’affare della sanità, uno di quelli che fa convivere la passione per le cliniche con quella per i giornali. GIUSEPPE CIARRAPICO – SENATORE PDL Io ho scoperto i quotidiani regionali. Ce ne ho 12 nell’asse. Vendo 54 mila copie tutte le mattine, ma le vendo veramente. Faccio dei giornali, io li chiamo i giornaletti perché ci occupiamo dei fatti di Roccasecca, ma questo è il tipo di giornalismo che manca, che mancava.

ALBERTO NERAZZINI Lei, abbiamo detto, la passione per l’editoria ce l’ha. Angelucci: Libero e il Riformista; De Benedetti, altro grande imprenditore della Sanità, Repubblica; Rotelli… Eh, Rotelli ormai è il secondo azionista del Corriere della Sera. GIUSEPPE CIARRAPICO – SENATORE PDL Ah, siamo a un altro livello!

ALBERTO NERAZZINI Sì. GIUSEPPE CIARRAPICO – SENATORE PDL È un altro discorso! Rotelli è un imprenditore serio. ALBERTO NERAZZINI Investire nel Corriere della Sera oggi non ha nulla di economico perché…

GIUSEPPE CIARRAPICO – SENATORE PDL Ma ha molto di “poteri forti”. E tutto sommato, se raschia, agli imprenditori questo gusto di appartenere ai poteri forti piace.

ALBERTO NERAZZINI Corriere della Sera e basta.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Cosa vuole che le dica sul Corriere della Sera?

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Per esempio perché ha deciso di gettarsi in un investimento così costoso. Oggi è il secondo azionista davanti alla Fiat, dietro a Mediobanca, con un pacchetto dell’11,07 per cento. Ma ha esposto il suo patrimonio personale, attraverso la finanziaria Pandette, per circa 600 milioni di euro.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Mi sono detto che era opportuno diversificare. Diversificare in qualche cos’altro che potesse essere per me interessante. Ho pensato che questo fosse il settore che mi era più congeniale e per cui diciamo ho una qualche forse capacità di comprensione.

ALBERTO NERAZZINI Una pulsione che lei insomma ha pagato caro, perché lei ha pagato le quote anche sette volte il loro valore.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO No, no, no. No.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Proprio per accaparrarsi una parte delle azioni lasciate in pegno al Banco Popolare da Stefano Ricucci, Rotelli ha portato a casa il 6 per cento circa pagando ogni azione al prezzo stabilito di 4.51 euro, quando il titolo in borsa viaggiava intorno ai 60 centesimi. È l’ultima mazzata, che almeno Rotelli ottiene di pagare in due rate.

ALBERTO NERAZZINI Sono 82 più… 114?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Sono… Sì, più o meno...

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Nonostante lo sforzo economico pazzesco, Rotelli è sempre stato tenuto fuori dal Patto di Sindacato che riunisce gli azionisti che decidono. Diego Della Valle, pur avendo investito meno, invece è dentro al Patto. Ma per evitare che i proprietari condizionino la libertà del Corriere, c’è da sempre un consiglio di amministrazione composto da figure indipendenti. Per Della Valle è ora di cambiare: devono essere gli azionisti a metterci la faccia e a entrare direttamente nel cda.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Nelle mie aziende io la faccia ce la metto sempre da sempre, quindi trovo strano stare lontani dai posti in cui uno deve dare, diciamo così, un contributo alla gestione di una società.

ALBERTO NERAZZINI Un conto è appunto parlare di un giornale o parlare di un’azienda che produce le famose scarpe.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Io dico, se gli azionisti decidono di vedere come possono fare per dare una mano nella gestione del giornale, non nella gestione quotidiana ma quella strategica, e se tra questi Rotelli deve fare il Presidente, non vedo perché no. È uno di noi, è uno degli azionisti.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO È il 18 marzo. Oggi si decide se i consiglieri indipendenti andranno a casa e al loro posto entreranno i proprietari. Nel parcheggio dietro via Solferino sfilano tutti, da John Elkann a Pesenti, da Geronzi a Montezemolo. Rotelli spera di diventare presidente del cda che controlla il Corriere della Sera. Due ore dopo il parcheggio si svuota. Nessuna dichiarazione, gli autisti tirano diritto. Solo un finestrino s’abbassa. È Marco De Luca, l’avvocato milanese che nella riunione rappresentava Rotelli.

GIORNALISTA DONNA Avvocato c’è qualche novità? C’è qualche novità? Confermato Marchetti…?

MARCO DE LUCA – AVVOCATO Secondo me nulla di definitivo, lo vedremo prossimamente, lo vedremo prossimamente. Buon lavoro, arrivederci!

ALBERTO NERAZZINI Quindi su Marchetti riconfermato…? MARCO DE LUCA No, no, nessun commento.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Chissà cosa vuol dire! Visto che tutto è andato come sperava Della Valle: saltano i consiglieri indipendenti ed entrano gli azionisti. L’unico a restare al suo posto è Piergaetano Marchetti. Sulla poltrona di presidente. Proprio la poltrona che doveva prendersi Rotelli. ALBERTO NERAZZINI È uscito a mani vuote da questo cda del 18 marzo.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Io ritengo di avere un piccolo merito e cioè di avere svolto un’attività che ha fatto nascere il desiderio nei grandi azionisti di impegnarsi nella società.

ALBERTO NERAZZINI È uno stimolo dato da lei?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Ritengo sia un piccolo merito. E quando questo accade, e cioè che gli azionisti si occupano della società, è sempre una giornata radiosa.

ALBERTO NERAZZINI Mi chiedo: ma Della Valle sa fare i mocassini perché questo lo ha dimostrato e lo dice lui stesso, ma cosa capisce Della Valle di editoria?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Sa fare l’imprenditore e queste qualità contano.

ALBERTO NERAZZINI Cosa capisce Rotelli di editoria? Cioè lei sa fare sanità.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Mah è un po’ riduttivo, non mi può ridurre soltanto alla dimensione dell’imprenditore, io ho fatto altro nella mia vita.

ALBERTO NERAZZINI No, io le chiedo se entrare nel cda per i grandi azionisti vuol dire anche lavorare sulla linea editoriale.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Lasciamolo giudicare agli azionisti che hanno questo compito.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Questo significa che saranno Della Valle, Luca Cordero di Montezemolo, Giovanni Bazoli, Giampiero Pesenti, Marco Tronchetti Provera, e Cesare Geronzi, a decidere il grado di libertà del direttore del Corriere.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Finché c’è una compagine così, diciamo, variegata, è la migliore garanzia che questo sarà un giornale che potrà continuare ad essere un giornale libero. Non c’è ombra di dubbio. ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Quanto è rischioso il venir meno del filtro tra la proprietà e ciò che viene scritto sul giornale lo può sapere bene il suo direttore.

FERRUCCIO DE BORTOLI – DIRETTORE CORRIERE DELLA SERA Io ho avuto più volte, anche in passato diversi dissidi anche con l’azionista Tronchetti rispetto a quelle che sono state le sue scelte in Telecom. Poi per esempio sul tema Mediobanca Generali, il Corriere della Sera ha espresso qualche dubbio, in maniera chiara e in maniera netta su una liturgia bizantina che forse non è giù al passo con i tempi. Così per esempio abbiamo sostenuto che non fosse il caso che la Fiat acquistasse la Fideuram, o meglio non la Fiat, ma Exor, la Fideuram dal Gruppo Intesa nel momento in cui c’era aperto tutto un tema che riguardava gli incentivi al settore automobilistico. Queste sono tutte posizioni che abbiamo adottato con la responsabilità nostra. Devo dire che gli azionisti le hanno discusse, le hanno accettate ma hanno sempre rispettato l’autonomia e l’indipendenza del quotidiano. E io non ho motivo di dubitare che questo possa continuare indipendentemente dal loro ruolo all’interno dei consigli di amministrazione della Quotidiani o della RCS Media Group.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Se fino a oggi è andata così, da domani quando si scrive di Telecom, Intesa San Paolo, Tod’s, Sai Fondiaria, Generali, Italcementi, che vuole dire grandi appalti, Mediobanca, Alta Velocità, Pirelli, magari della Juve e della Fiorentina, con quali pressioni bisognerà fare i conti?

FERRUCCIO DE BORTOLI – DIRETTORE CORRIERE DELLA SERA Di pressioni ce ne sono sempre, questo è inutile che... poi spetta al nostro modo di fare questo mestiere. Del resto, immagino che Report abbia delle pressioni da parte del proprio editore ogni settimana. Eppure fate il vostro mestiere e nessuno pensa che siate al servizio dei vostri azionisti che in questo momento coincidono con il governo per certi versi! No?

MILENA GABANELLI IN STUDIO Confermo! Da buona parte dell’arco parlamentare e anche da tutto il resto. Però devo dire che nessuno, mai, mi ha impedito di parlare di questo o di quest’altro o censurato delle parti. Questo significa che le pressioni si possono contrastare. Però c’è una differenza: Report è poca cosa e sta comunque dentro la Rai che fa pur sempre servizio pubblico, il Corriere risponde solo ai suoi azionisti. E ci auguriamo che siano così illuminati da non sfondare le spalle di un professionista come Ferruccio De Bortoli. Perché il Corriere fa gola e ogni tanto qualcuno tenta di scalarlo... E a proposito di pressioni: il titolo Rcs per esempio le ha subite ma sembra che nessuno se ne sia accorto. Lo scorso autunno Geronzi dichiara che il primo azionista Rcs, non è Mediobanca, ma il re della sanità lombarda, Giuseppe Rotelli. E nasce un piccolo giallo perché Geronzi è uomo riservato che di solito non parla a caso.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il 29 ottobre scorso, a margine della Giornata Mondiale del Risparmio a Roma, Geronzi dichiara che Giuseppe Rotelli possiede il 15% delle azioni Rcs e invita i giornalisti ad andare a verificare bene i pacchetti azionari. Se così fosse Rotelli avrebbe dovuto denunciare i nuovi acquisti alla Consob. La notizia, per un giorno, finisce nei titoli di tutti i giornali.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Abbiamo detto che noi non abbiamo più acquistato azioni dopo quelle dichiarate. Quindi sono il secondo azionista.

ALBERTO NERAZZINI E come mai ha detto questa cosa Geronzi?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Eh? ALBERTO NERAZZINI Come mai ha detto questa cosa Geronzi?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Deve chiederlo a Geronzi. ALBERTO NERAZZINI Lei che idea si è fatto?

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Non sono curioso.

ALBERTO NERAZZINI Geronzi ha detto: Rotelli ha il 15%.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Non lo so questa cosa, ma è vera?

ALBERTO NERAZZINI Geronzi avrebbe detto: fatevi bene i conti, perché Rotelli è già il 15 e quindi è il primo azionista. Appunto io le chiedo...

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Non l’ho seguita questa cosa dovrebbe chiederla a lui. Ma capita anche di sbagliare, di fare un errore… Ma faccio anche una domanda a lei, che cosa può significare questo?

(RISPONDE AL TELEFONO) Chi è? Va bene, va bene, ok. Scusi, eh?

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Pronto... scusami. Pronto?

ALBERTO NERAZZINI Sì, ci sono. Dimmi.

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Capito? Quindi era una battuta che voleva.. dare un significato particolare. Era una cosa di attenzione nei confronti di Rotelli a quel tempo, no? Questo era il senso della battuta. Perché tu me lo chiedi… insomma? Per quale motivo ti è venuto in mente dopo un anno? Questa battuta...? Cioè... qual è il ragionamento? Così ci capiamo meglio...

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Il portavoce di Geronzi dice che era solo una battuta, fatta per sottolineare l’importanza dell’azionista Rotelli. Ma il giorno dopo ci richiama per chiarire meglio.

ALBERTO NERAZZINI Ma perché non l’avete smentita dopo tutti quegli articoli?

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Ma non lo so... perché poi a quel tempo il significato era questo, l’aveva smentita... dopo Rotelli... l’ha portata alla Consob, lo abbiamo lasciato... lo abbiamo lasciato...

ALBERTO NERAZZINI Per arrivare al 15 avrebbe avuto bisogno ben più del due, avrebbe dovuto denunciarlo alla Consob...

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Certo, certo!

ALBERTO NERAZZINI Geronzi fa una battuta e Rotelli conferma alla Consob che la sua quota è invariata. AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Esatto, esatto, esatto! È questa la cosa. ALBERTO NERAZZINI È che a volte fare ‘ste battute… Uno poi… No?

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI Sì certo... Infatti lui diceva che si è pentito, sai lui non parla mai con i giornalisti... buongiorno e buonasera…

ALBERTO NERAZZINI E quando parla dice che Rotelli ha il 15...

AL TELEFONO LUIGI VIANELLO – PORTAVOCE DI CESARE GERONZI …Bella giornata… quindi tocca stare attenti!

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Comunque, proprio a fine ottobre si chiudeva un periodo molto buono per il titolo Rcs, che in soli 46 giorni, registrava un rialzo del 50,2%. Un balzo sospetto, sul quale indaga la Consob.

ALBERTO NERAZZINI Questa indagine della Consob sul rialzo del titolo?

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Magari venisse un bel rialzo! Io non lo vedo. Ma quando ha rialzato? Quando non c’ero?

ALBERTO NERAZZINI No, no… Lei c’era.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Magari guardi! Non vedo l’ora! Io lo vorrei leggere in prima pagina: “Enorme rialzo del titolo RCS”!

ALBERTO NERAZZINI Il 50,2% in 46 giorni non è male come rialzo!

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE No, ma non ci posso credere, stapperei dello champagne! Ma credo che è così. Verifichi meglio.

ALBERTO NERAZZINI Se lo è perso questo rialzo, non se lo ricorda?

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Io sto molto spesso all’estero, ma tutti i giorni guardo comunque come i contadini quello che ho in cascina. Non mi pare comunque, non mi ricordo. Se è così è una bellissima notizia! Speriamo che continui.

ALBERTO NERAZZINI Eh, gliela do con qualche mese di ritardo, perché stiamo parlando di settembre, ottobre, novembre.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Infatti! Dobbiamo verificare, guardi. Mi pare... a naso… mi pare che non è possibile.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Sarà andato come noi sul sito di Borsa italiana, dove si può vedere la curva del titolo. Un rialzo che, secondo la Consob, potrebbe celare operazioni sospette.

DIEGO DELLA VALLE – IMPRENDITORE Guardi quelle sono aziende oramai... ripeto, insomma... non voglio parlare per altri… ma sono in totale trasparenza su ogni fronte. Sono talmente viste e controllate, guardate a vista, che neanche un pazzo che ne avesse voglia si metterebbe poi a giocare con cose che scottano così, no? ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO La Consob sta facendo accertamenti chiedendo una serie di informazioni ad alcune Società di Gestione del risparmio che fanno operazioni sul titolo RCS. Fra queste c’è PRIMA SGR, che ha anche rastrellato piccole quote del capitale. Per PRIMA SGR, però, le richieste della Consob sono prassi ordinaria.

AL TELEFONO UFFICIO STAMPA PRIMA SGR I rapporti tra la Consob e le SGR, in questo caso Prima, sono coperti da riservatezza e quindi...

ALBERTO NERAZZINI Se voi mi dite che è prassi ordinaria è una cosa, se voi mi dite: “Non è prassi ordinaria ma c’è la riservatezza”, è un’altra cosa.

AL TELEFONO UFFICIO STAMPA PRIMA SGR Ma non è questione! È prassi ordinaria!

ALBERTO NERAZZINI Perfetto.

AL TELEFONO UFFICIO STAMPA PRIMA SGR La Consob fa questo genere di attività, ed è attività diversa da un’ispezione.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO È prassi ordinaria, per la Consob, chiedere nomi dei dipendenti e dei collaboratori della società? Chiedere se qualcuno di loro abbia o meno rapporti particolari con il gruppo RCS? E chiedere copia della documentazione dei controlli previsti dal regolamento? Queste richieste di solito partono quando inizia un lavoro d’indagine.

AL TELEFONO UFFICIO STAMPA PRIMA SGR Mi è stato detto che è prassi ordinaria, lei invece evidentemente ha degli elementi per dire che non è così. E io... sinceramente non... non so che cosa... non so che cos’altro aggiungere.

ALBERTO NERAZZINI FUORI CAMPO Ma di chi è la PRIMA SGR? Il capitale della società è al 33 per cento del Monte dei Paschi di Siena, ma l’azionista di riferimento, con il 67%, è Claudio Sposito, ex numero uno della Fininvest. Le indagini della Consob saranno utili anche per capire se, come già successo, qualcuno sta rastrellando di nascosto quote del capitale RCS, usando metodi poco ortodossi. Anche il patron delle cliniche lombarde Rotelli, quando diede inizio alla sua scalata a RCS, fu ricoperto da illazioni e sospetti. Si vociferò che, spendendo tutti quei milioni di euro per comprare azioni del Corriere della Sera, Rotelli stesse agendo per conto di qualcun altro.

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Io sono un uomo libero.

ALBERTO NERAZZINI Quindi quelli son soldi suoi e lei vuole arrivare...

GIUSEPPE ROTELLI – PRESIDENTE GRUPPO OSPEDALIERO SAN DONATO Sono soldi miei e ragiono con la mia testa! Quindi alla mia libertà di uomo indipendente tengo moltissimo.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Rimane il sospetto che qualcuno abbia comprato azioni per conto di qualcun altro. Una società di gestione del risparmio sotto indagine Consob ci scrive dicendo che non è vero. Si tratta di un normale accertamento. Qualcuno sta tentando di scalare occultamente il Corriere? Non sarebbe la prima volta, controllarlo significa avere fra le mani un’informazione che almeno fino ad oggi è la più influente, un’informazione che farà più fatica a mettersi di traverso magari proprio sui tuoi progetti. E tornando alla sanità, il 30 dicembre scorso è stata approvata una legge che consente di cambiare la natura giuridica degli ospedali pubblici, trasformandoli in fondazione. Una proposta avanzata più volte proprio da Giuseppe Rotelli.

·         Ecco la Sanità Modello.

De Luca: "Un'altra buona notizia che conferma l'eccellenza della sanità campana”. È napoletano il numero uno degli otorinolaringoiatri d’Italia: Giuseppe Tortoriello, il medico che dà la voce ai pazienti. Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. “Abbiamo anche qualche notizia che conferma le nostre eccellenze: il professore Tortoriello dell’Asl Napoli 1 dell’Ospedale del Mare è diventato Presidente Nazionale degli Otorinolaringoiatri d’Italia”. Lo ha annunciato Vincenzo De Luca durante una delle sue dirette del venerdì. Giuseppe Tortoriello è il primario del reparto di Otorinolaringoiatria e chirurgia-cervico facciale dell’Ospedale del Mare. Più volte De Luca ha definito quel reparto “un’eccellenza del Sud Italia”. Infatti lì si compiono dei veri e propri miracoli, soprattutto per quanto riguarda gli interventi per tumori alle corde vocali. Un reparto che non si è mai fermato nemmeno durante l’emergenza Covid: “Durante l’emergenza Covid – ha spiegato il primario in una recente intervista al Mattino – invece di fermarci abbiamo operato un gran numero di pazienti. Più di 74 i tumori testa-collo e soprattutto laringe. La nostra mission è rimettere il paziente in condizioni di parlare nel più breve tempo possibile”. Nel reparto hanno strutturato un intero percorso che accoglie il paziente dalla diagnosi fino alla riabilitazione con trattamenti mininvasivi o con il maggior rapporto tra costo (in termini di demolizione dell’organo) e benefici. “Abbiamo inoltre studiato dei percorsi ad hoc per i pazienti che hanno tumori molto avanzati, per i quali sono necessari interventi demolitivi. Puntiamo a fare in modo di restituirli ad una vita quanto più possibile normale e piena”. L’unità guidata dal dottor Tortoriello è tra le poche a inserire in sede di intervento la protesi che consente ai pazienti sin da subito di tornare a parlare. Una vera e propria eccellenza riconosciuta a livello nazionale in uno degli ospedali maggiormente vittima di “sciacallaggio mediatico” e che invece si conferma ancora una volta come un’eccellenza. Il riconoscimento nazionale di Tortoriello ne è la riprova. “Era da tempo che non c’era un presidente Nazionale degli Otorinolaringoiatri del Sud, della Campania, da decenni – ha detto de Luca – È un’altra buona notizia che conferma le tante eccellenze che abbiamo nella nostra sanità”. Durante la diretta De Luca ha sottolineato come le varie campagne di sciacallaggio ai danni della sanità campana “si è conclusa nel ridicolo come era ampiamente prevedibile – ha detto de Luca – Ieri ci è stato comunicato, ma noi lo sapevamo già da prima che non c’era nessuna ragione per commissariare l’Asl Napoli 1 per infiltrazione camorristica. Nientedimeno ho chiesto io da 2 anni l’istituzione di un posto di polizia che non hanno istituito all’Ospedale San Giovanni Bosco. È finita un’altra occasione di sciacallaggio. Il Ministero ci ha comunicato che il lavoro va avanti tranquillamente. Non abbiamo mai interrotto le attività delle malattie gravi, pazienti oncologici sono stati seguiti e operati”.

Simona Ravizza per il ''Corriere della Sera'' il 6 ottobre 2020. L'acquisto dei vaccini contro l'influenza in Lombardia è diventata una soap opera . Nove gare: tre non aggiudicate, una sospesa, una andata deserta. Nulla di fatto soprattutto per la maxi fornitura da un milione e mezzo di dosi che avrebbe dovuto arrivare con il nono bando chiuso il 30 settembre: «L'unica offerta pervenuta - scrive l'Azienda regionale per l'innovazione e gli acquisti (Aria)- è risultata inappropriata in quanto rispetto alle prescrizioni del disciplinare non prevedeva un unico prezzo di offerta e contemplava consegne di fornitura in data successiva al 21 novembre 2020 posto come termine massimo di consegna. La gara non può essere aggiudicata». Bisognerà accontentarsi di 500 mila nuovi vaccini, un terzo di quelli richiesti: la Regione riesce a portarseli a casa con la decima gara, chiusa ieri alle 12.30 e in corso di aggiudicazione. Stamattina con ogni probabilità arriverà la notizia ufficiale. La Lombardia dunque potrà disporre di 2,8 milioni di dosi in totale (contro i 3,8 auspicati): fin qui, con le quattro gare andate a buon fine, c'erano un milione e 868 mila vaccini per adulti e 430 mila per bambini. Il problema è che le disponibilità del mercato sono andate ad esaurirsi. Mai come quest' anno la vaccinazione è considerata fondamentale per distinguere i sintomi dell'influenza da quelli del Covid-19 e non sovraccaricare inutilmente i laboratori di analisi dei tamponi né gli ospedali. Il ministero della Salute raccomanda di vaccinarsi sopra i 60 anni (contro i soliti 65), a chi appartiene a una categoria a rischio (compresi gli operatori sanitari), e ai bambini (in particolare sotto i 6 anni). Ma, con le dosi disponibili agli sgoccioli, i prezzi salgono. Così la Regione per riuscire ad accaparrarsi qualcosa deve raddoppiare il prezzo d'acquisto: 10 euro a dose, il doppio rispetto ai primi rifornimenti e a quanto speso dal Veneto (5,5 euro a vaccino per 1,3 milioni di dosi comperate) e dall'Emilia-Romagna (stessa cifra per 1,2 milioni di antinfluenzale). E per rendere l'offerta più appetibile Aria deve anche acconsentire al pagamento in anticipo, cosa che non avviene praticamente mai. I problemi, come ricostruito ieri dal Corriere , nascono da lontano. Nei mesi in cui la Lombardia è sotto lo tsunami del Covid. È il 23 marzo quando la centrale acquisti Aria certifica il fallimento della prima gara, indetta il 26 febbraio: «Si propone la non aggiudicazione della procedura in quanto, da parte dell'unico operatore partecipante, sono state presentate offerte superiori alla base d'asta». In quel momento la Glaxosmithkline è disponibile a fornire 1,3 milioni di vaccini a 5,9 euro a dose. Ma il bando è per 4,5 euro a dose, verosimilmente nel tentativo di risparmiare. La seconda gara viene revocata il 21 maggio perché i vertici dell'assessorato alla Sanità si rendono conto che sono necessari più vaccini di quanti ne sono stati richiesti. Altro tempo perso. Esito della terza gara il 23 giugno: l'offerta sale a 5,9 euro a dose ma si trovano solo 20 mila vaccini pediatrici, nulla per adulti. Dopo le quattro gare riuscite durante l'estate, il 24 agosto si ripropone il problema: nessuna offerta ricevuta per 700 mila vaccini per adulti a oltre 4 milioni di euro. Con la nona, la Lombardia è disponibile a pagarli più del doppio ma ormai non trova più i quantitativi auspicati. I 500 mila recuperati ieri in zona Cesarini fanno, comunque, tirare un sospiro di sollievo ai vertici dell'assessorato alla Sanità, attaccato dai partiti di opposizione in Regione (la consigliera Pd Carmela Rozza batte il chiodo a tal proposito dall'inizio di agosto) e anche dal sindaco di Milano Beppe Sala. È accettabile concatenare un fallimento delle gare dietro l'altro? L'assessore alla Sanità Giulio Gallera non ci sta a essere messo sotto accusa e ribadisce: «I quantitativi disponibili sono sufficienti». Ma com' è possibile, se solo gli over 60 che dovrebbero vaccinarsi sono quasi 2,2 milioni (il 75% del totale), più ci sono tutte le altre categorie a rischio e chi spera di acquistare il vaccino in farmacia? «In proporzione agli abitanti le quantità di vaccini di cui disponiamo - è il mantra di Gallera - sono in linea con il Veneto e l'Emilia».

Ha leucemia ed epatite C, medici napoletani salvano bimbo di 6 anni con farmaco innovativo. Redazione su Il Riformista il 9 Novembre 2020. Una grave leucemia lo ha colpito prima che compisse 6 anni e la malattia è degenerata in una epatite C nel giro di pochissimo. Poi la pandemia ha peggiorato la situazione rendendo le cure e i controlli ancora più difficili. Ma la Sanità campana non si è arresa davanti alle difficoltà e a Napoli si è messa in moto una rete di professionisti che, durante il lockdown,  hanno salvato il piccolo di origine venezuelana. Il bambino sudamericano aveva contratto l’epatite C durante le cure per debellare la leucemia. Una situazione gravissima perchè questa infezione rischia di compromettere severamente il fegato nell’immediato periodo pre- e post-trapianto di cellule staminali. Ma l’equipe dell’Università Federico II non si è arresa e ha deciso di provarle tutte per vincere quella corsa contro il tempo: così ha deciso di utilizzare un farmaco innovativo che poi si è rivelato essere la scelta vincente, grazie anche al lavoro di equipe e all’efficacia del percorso terapeutico. A guidare l’equipe dell’Epatologia Pediatrica dell’Azienda ospedaliera universitaria il professor Raffaele Iorio. “In un momento storico come quello odierno in cui sembrano esserci poche armi per contrastare il Sars-Cov-2, dà a tutti noi una grande speranza la consapevolezza che il virus dell’epatite C, che fino a pochi anni fa sembrava difficilmente eradicabile, può essere neutralizzato da una serie di nuovi farmaci sicuri e maneggevoli e sembra pertanto destinato a scomparire e a non influenzare più negativamente la vita di tante persone”, sottolinea Iorio.

Napoli. Ascierto primo oncologo del mondo, il Pascale miglior centro sul melanoma. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2020. E’ Napoli, con l’Istituto dei tumori Pascale, il primo centro internazionale per la lotta al melanoma. A dirlo è la classifica stilata dal sito americano Expertscape.com che mette al primo posto nel mondo, su 65mila esperti, Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto dei tumori partenopeo. Il Covid gli ha dato sicuramente una popolarità inaspettata. La felice intuizione di usare un farmaco anti artrite per curare le complicanze della polmonite da coronavirus gli è valsa la fama mediatica. Paolo Ascierto, tuttavia, è un oncologo di caratura mondiale. Già cavaliere e commendatore della Repubblica da diversi anni, il suo nome figura nei maggiori board internazionali. Nessuna sorpresa, dunque, dinanzi alla notizia che lo vede sul podio mondiale degli oncologi per la cura del melanoma. L’analisi di Expertscape, ideata dai ricercatori della Università della North Carolina, si basa sulla produzione scientifica dei clinici nei vari settori della medicina, tenendo in considerazione soprattutto le pubblicazioni dell’ultimo decennio, valutando la qualità della rivista e la posizione come autore nell’articolo. Ascierto ha un Impact Factor e un H-Index, i due parametri utilizzati per “misurare” la produzione scientifica, molto alti, pari rispettivamente a oltre 3500 e 68. E a proposito di squadra molto valida, nella classifica nazionale di Expertscape, non a caso figurano ai primi posti, due suoi collaboratori: Ester Simeone e Antonio Grimaldi. Il ricercatore napoletano è, inoltre, componente dei gruppi di lavoro che stilano le linee guida di ASCO (American Society of Clinical Oncology) ed ESMO (European Society of Clinical Oncolgy) sul melanoma ed è coordinatore delle linee guida su questa neoplasia di AIOM (Associazione italiana di oncologia medica). “Nell’ultimo decennio – dice il direttore scientifico del polo oncologico, Gerardo Botti – al Pascale sono state condotte più di 120 sperimentazioni sul melanoma, per un totale di oltre 3.500 pazienti coinvolti – Un Istituto che conferma il suo ruolo di leader internazionale coinvolto nelle principali sperimentazioni cliniche e traslazionali, nonché nella definizione delle più importanti linee guida nel settore”. Inevitabile la soddisfazione anche del direttore generale dell’Irccs partenopeo, Attilio Bianchi.

Da ansa.it il 23 luglio 2020. "Abbiamo preso decisioni in anticipo di 20 giorni rispetto ad altre regioni. Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche, si diceva “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”, “Brescia non si ferma”, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, migliaia non centinaia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, parlando dell'emergenza Covid19 nel corso della sua visita di oggi all'ospedale di Sapri (Salerno). De Luca ha duramente attaccato la gestione dell'emergenza covid19 nelle regioni del Nord Italia. "Solo nella provincia di Bergamo - ha detto - ci sono stati 2.000 morti fra gli anziani delle residenze assistenziali. In tutta la Campania i morti nelle Rsa sono stati 14. E' stato difficile mettere in quarantena il Vallo di Diano. A Milano discutono ancora se la zona rossa doveva farla Governo o Regione. Noi intanto abbiamo chiuso e salvato la vita di centinaia di persone. Abbiamo dato una prova importante, ovviamente parte essenziale del risultato è rappresentato dalla tenuta del nostro personale, qui abbiamo ospedali di assoluta eccellenza, non c'è bisogno di andare a Milano, Bologna, Verona, Pavia".

Benvenuti al Sud: qui la vita si allunga. Al Nord l’aspettativa si sta accorciando. Nel Meridione si può arrivare  in media a 82 anni  ma in certe zone della Sicilia si va oltre. Carlo Porcaro il 25 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Al Sud è stata bloccata l’ondata del virus e si vive di più. Al Nord il Covid ha assunto i contorni della tragedia e si vive mediamente di meno. A fotografare la longevità degli italiani è l’Istat alla luce della pandemia, i cui effetti sono ancora in corso. Lo “scatto” è impietoso per chi ha già sofferto molto la cattiva gestione sanitaria del coronavirus. È infatti calata di 2 anni, da 84 a 82, l’aspettativa di vita nelle province del Nord Italia, in particolar modo in quelle colpite dal Covid-19, soprattutto nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica. Si può vivere fino a 82 anni in media nel Meridione, ma in alcune province della Sicilia il post-Covid ha fatto persino salire la media e si “campa” di più.

I DATI. Sono i dati emersi dal Report dell’Istat focalizzato sugli “scenari di mortalità da Covid-19”, secondo cui invece «l’intensità nel cambiamento della speranza di vita alla nascita appare decisamente minore, e nella maggior parte dei casi trascurabile, in corrispondenza di buona parte delle province del Centro e del Sud. Per alcune di esse – ha registrato l’Istituto di statistica – si ha persino modo di registrare un miglioramento, ad esempio per talune province della Sicilia». I problemi più preoccupanti riguardano gli anziani, già deboli di loro, vittime preferite dal virus. Le stime sulla speranza di vita degli over 65enni si sono abbassate molto. In particolare, in tutte le province del Nord e parte di quelle del Centro un individuo al 65° compleanno poteva aspettarsi di vivere, in epoca pre-Covid, per altri 21 anni (mediamente), mentre con gli effetti di mortalità dovuti alla pandemia, tale durata – facendo riferimento allo scenario intermedio “moderato” – scenderebbe a circa 19. E il Mezzogiorno? Le Province meridionali «non sembrano tuttavia registrare variazioni di rilievo», il che significa che la situazione è rimasta di fatto invariata o leggermente migliorata. Stare chiusi in casa è servito a salvare la pelle, oggi e domani insomma.

LA CLASSIFICA. Bergamo e Cremona segnano una  riduzione della speranza di vita alla nascita che risulta superiore ai 5 anni; riduzione che a Bergamo arriva a raggiungere i sei anni allorché la si misura al 65° compleanno. Per cogliere meglio il significato delle variazioni osservate, «può essere utile collocare i livelli della speranza di vita localmente ipotizzati attraverso gli scenari disegnati per il 2020 nel quadro delle dinamiche rilevate, nel corso degli anni, per quegli stessi indicatori». Per alcuni territori si torna indietro di circa 20 anni, mentre al Sud la longevità è la stessa di prima. «La marcata incidenza della mortalità in corrispondenza della popolazione in età più avanzata porta con sé, là dove è presente, anche un significativo allentamento di quel fenomeno, noto come invecchiamento demografico, che identifica la crescita della componente anziana e che tradizionalmente era stato visto – almeno sino ad ora e stante le dinamiche demografiche da tempo in atto – come qualcosa di ineluttabile. Non a caso – si legge nel Report dell’Istat – la simulazione per il 2020 in assenza di Covid-19, mette chiaramente in luce come la quota di ultra 65enni sul totale dei residenti fosse destinata ad aumentare di altri 0,3 punti percentuali a livello nazionale, segnalando un incremento in pressoché tutte le Province».

PATRIMONIO DEMOGRAFICO. Il “patrimonio demografico” di ogni Provincia, inteso come il totale di anni-vita che competono ai suoi residenti in base alle aspettative di vita (e di riflesso alle condizioni di mortalità) di un dato periodo. In questo senso, «se si tiene conto dei cambiamenti nella speranza di vita alle diverse età prospettati dai diversi scenari si ha modo di cogliere come, ad esempio nello scenario moderato, alle condizioni di mortalità (di speranza di vita) ipotizzate vi siano alcune Province in cui si registra una riduzione del patrimonio demografico anche nell’ordine del 5-10%. Ciò è quanto accade per le Province di Bergamo, Cremona, Lodi, Piacenza, Brescia, Lecco, Parma e Pavia, mentre nel Centro e nel Sud, ad eccezione della Puglia, Calabria e Sardegna, si registrano variazioni del patrimonio demografico sostanzialmente nulle o in molti casi positive. In generale, va ricordato che la popolazione italiana di età tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Lo ha detto Bankitalia nella sua ultima relazione annuale. «Le nostre proiezioni demografiche non sono favorevoli, anche tenendo conto del contributo dell’immigrazione, stimato da Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno», annunciò il governatore Ignazio Visco.

Le eccellenze della sanità in Campania. Pazienti Covid guariti: “Non abbiamo mai visto il volto di chi ci ha salvato la vita”. Rossella Grasso su Il Riformista il 24 Giugno 2020. L’ondata di epidemia Covid è passata ma per alcuni resta il ricordo indelebile di aver contratto il virus che spaventa tutto il mondo. Rimane anche la riconoscenza e l’affetto per chi li ha curati durante il lungo percorso di degenza che li ha portati alla guarigione. “Medici, infermieri e oss si aggiravano intorno a noi coperti da testa a piedi, la mascherina suo viso e i grandi occhiali. Non abbiamo mai visto i loro volti ma gli occhi quelli si, ci hanno dato coraggio e ci hanno fatto stare molto meglio”, racconta Salvatore Ferrieri, il re della sfogliatella Napoletana che per un periodo è stato ricoverato al Loreto Mare. Salvatore racconta la solitudine, la paura e la preoccupazione di non farcela a riabbracciare i suo amati nipoti. “All’interno ci davano tutti una grande forza – racconta – A Pasqua il figlio di uno dei medici, un bambino, ci ha scritto delle lettere e regalato degli ovetti di cioccolato. Ci scriveva di non avere paura e che lui pregava per noi”. Quello che ha vissuto è un vero e proprio incubo, ora per fortuna finito grazie alle cure attente dei sanitari dell’ospedale di via Vespucci. Una volta guarito Salvatore ha deciso di regalare pacchi di sfogliatelle all’ospedale come ringraziamento per quanto hanno fatto per lui. Poi c’è Alessandro Manzo, salumiere di Poggiomarino. Ha contratto il Coronavirus ed è stato trasferito dall’Ospedale di Sarno al Loreto Mare. “Il coronavirus ti cambia letteralmente la vita – dice- ero spaventato ma i medici mi hanno trattato benissimo. In soli 5 giorni mi hanno fatto passare la febbre”. Non è stato facile nemmeno per la famiglia di Alessandro: uno dei suoi figli ha contratto il virus e una volta tornato a casa è stata la moglie ad essere risultata positiva. “Sono grato a tutti i medici per quello che hanno fatto per noi, andrebbero tutti premiati”, dice. Ciro Noletto è lo zio di Salvatore Pastore, 55enne con la sindrome di Down anche lui risultato positivo al virus e per questo ricoverato all’Ospedale del Mare, nella zona costruita per l’emergenza. “Mio zio non è autosufficiente, noi parenti non potevamo nemmeno parlare con lui al telefono o in viodechiamata – racconta – Ma i medici e gli infermieri non mi hanno dato il tempo di cercarli tanto che mi contattavano spesso per darmi informazioni sulla salute di mio zio. Il suo ritorno a casa è stata una vera vittoria per noi e per loro. Non ci hanno mai fatti sentire soli”. Adesso Salvatore, Alessandro e Salvatore stanno bene e oltre ai ricordi resta anche un po’ di amarezza nel sentire sempre la sanità campana sminuita e aggredita. Loro sono la testimonianza che ospedali additati da molti come “inutili” o “malfunzionanti” siano stati fondamentali a salvare vite durante l’emergenza, eccellenze senza le quali probabilmente non sarebbero qui a raccontare la loro esperienza. “Credo che quello che è stato fatto all’Ospedale del Mare sia un gran bel lavoro. Chi non è passato per questo virus non può capirlo”, conclude Noletto.

Sinapsi artificiale ibrida, a Napoli l’eccezionale studio dei cervelloni rientrati che collega le protesi al cervello. Amedeo Junod su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Ancora un’eccellenza nel campo della ricerca biomedica al Sud. Il laboratorio di Tissue Electronics dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Napoli, sotto il coordinamento di Francesca Santoro, in collaborazione con i team di ricerca dell’Università di Eindhoven e di Stanford, ha sviluppato il primo modello di sinapsi artificiale – ibrida, composta da un’interfaccia biologica e una piattaforma elettronica, in grado di simulare il comportamento delle sinapsi. Nel sistema nervoso le sinapsi hanno il ruolo di mettere in comunicazione i neuroni, garantendo la trasmissione degli impulsi elettrici che costituiscono il segnale nervoso. Nel modello bioibrido realizzato all’ istituto di Napoli, il team ha selezionato cellule che hanno un comportamento simile a quello dei neuroni, in grado di rilasciare dopamina, e messo a punto un chip neuromorfico organico in grado di conservare memoria in seguito ad una stimolazione elettrica. Una delle caratteristiche principali delle sinapsi è la plasticità, cioè la capacità adattarsi in base alla modificazione dell’ambiente interno e esterno e di mantenere memoria delle modifiche apportate. Il team di ricerca partenopeo, composto da 8 ricercatori, per la maggioranza donne, si è occupato dell’accoppiamento diretto delle cellule sul microchip e della misurazione delle variazioni dell’attività elettrica del chip. La ricerca ha appurato che il chip è in grado di individuare la dopamina rilasciata dalle cellule che simulano il neurone, e di conservare nel tempo lo stato di eccitamento alterato raggiunto, il cosiddetto effetto memoria, dimostrando di essere riusciti a ricreare in laboratorio la plasticità sinaptica e quindi che il modello di sinapsi bioibrida è promettente per costituire una connessione tra neuroni del sistema nervoso. “Ѐ la prima volta che un dispositivo elettronico neuromorfico viene direttamente interfacciato con un sistema cellulare per ottenere una piattaforma in grado di riprodurre la plasticità sinaptica a breve e a lungo termine – dichiara Francesca Santoro. – Prima di questo studio erano stati realizzati sistemi capaci di ricevere stimoli, ma non in grado di eccitarsi e mantenere l’eccitamento a loro volta”. I risultati dello studio gettano le basi per nuove ricerche utili al futuro della medicina, per esempio nell’ambito delle malattie neurodegenerative, in cui si assiste alla perdita di comunicazione tra neuroni e dove i dispositivi bioibridi potrebbero introdurre o ripristinare le connessioni neuronali danneggiate, ma anche nell’ambito delle amputazioni, dove questi dipositivi potrebbero fare da ponte tra le terminazioni nervose biologiche preservate e i circuiti delle protesi artificiali robotiche di nuova generazione.

Da ilmessaggero.it il 30 maggio 2020. Coronavirus, tra i fattori chiave che hanno contribuito a disegnare in modo tanto netto la mappa dell'epidemia di in Italia ci potrebbe essere anche «un'interazione fra Dna e ambiente». È la tesi di Antonio Giordano, scienziato italiano trapiantato negli Usa, fra gli autori di un articolo pubblicato su "Frontiers Immunology". Uno scudo genetico in sostanza potrebbe aver protetto l'Italia del Sud dallo tsunami Sars-CoV-2 che ha travolto le regioni del Nord. «L'ipotesi è da validare prima di trarre conclusioni certe, ma è già fondata su solide basi scientifiche», spiega all'Adnkronos Salute Antonio Giordano. Una difesa nel codice della vita. «L'ipotesi è che esista una forma di difesa» stampata nel codice della vita, «un assetto genetico protettivo» contro gli effetti più gravi del patogeno pandemico, «che dai numeri sembra più diffuso al Sud rispetto al Nord», osserva Giordano. Fondatore e direttore dell'Istituto Sbarro per la ricerca sul cancro e la medicina molecolare di Filadelfia, professore di Anatomia patologica all'università di Siena, l'esperto vanta anche un incarico nel direttivo scientifico dell'Istituto superiore di sanità, come delegato del ministero dell'Ambiente sui legami fra malattie e ingiurie ambientali. Durante il lockdown Giordano ha cercato di analizzare «le possibili cause dell'alto tasso di infezione e mortalità in Italia», collaborando con ricercatori di diversi settori e firmando questo primo articolo insieme a colleghi fra i quali Pierpaolo Correale e Rita Emilena Saladino del Grand Metropolitan Hospital di Reggio Calabria, Giovanni Baglio del ministero della Salute e Francesca Pentimalli dell'Istituto tumori di Napoli. Gli autori descrivono le principali caratteristiche del decorso clinico di Covid-19, i possibili meccanismi molecolari responsabili di un peggior esito dei pazienti, e le varie strategie terapeutiche che possono essere adottate per contrastare la patologia e le sue complicanze. E puntano il dito in modo particolare «sul sistema Hla (antigene leucocitario umano), che ha un ruolo chiave nel modellare la risposta immunitaria antivirale, sia innata sia acquisita». La teoria è dunque che «uno specifico assetto genetico, costituito da particolari varianti dei geni Hla, potrebbe essere alla base della suscettibilità alla malattia da Sars-CoV-2 e della sua severità». Per Luciano Mutti, oncologo e professore alla Temple University di Filadelfia, «l'identificazione di tali determinanti genetici sarebbe cruciale per valutare i livelli di priorità nelle future campagne di vaccinazione, per la gestione clinica dei pazienti e per isolare gli individui a rischio, compresi gli operatori sanitari». Lo studio solleva «un'altra interessante possibilità per quanto riguarda la diffusione dell'infezione in Italia in cui il Nord del Paese, dove è stata inizialmente rilevata la malattia, è stato colpito in modo più pesante. Sebbene una massiccia migrazione dalle regioni» epicentro «verso il Sud sia stata registrata prima del blocco nazionale, le regioni meridionali hanno registrato tassi di infezione molto più bassi». Fra l'altro «è stato ipotizzato che il virus circolasse molto prima del lockdown nazionale», quindi l'idea è che qualcosa 'aiutì gli abitanti di metà Stivale. «Mentre alcuni hanno proposto che condizioni climatiche più miti potrebbero aiutare a prevenire la diffusione virale», gli autori si chiedono se «una specifica costituzione genetica possa contribuire a proteggere i cittadini del Sud. Ulteriori studi caso-controllo su larga scala potrebbero far luce su questo possibile aspetto», ma «le solide basi per pensarlo già esistono», assicura Giordano. «Stiamo aumentando la casistica per arrivare al dato finale», precisa. E a chi dovesse obiettare che molti cittadini originari del Sud Italia in realtà vivono al Nord da generazioni, lo scienziato risponde ricordando l'esistenza di «complesse interazioni tra genetica e ambiente. Dobbiamo considerare anche una serie di fattori importanti che stiamo esaminando, non ultimo il possibile ruolo dell'inquinamento da polveri sottili».

La lezione del Sud: “Competenza e responsabilità, così sì è salvato dal virus”. Il Dubbio il 7 maggio 2020. L’elogio del virologo Guido Silvestri: “Lì il tanto temuto tsunami di COVID-19 non è mai arrivato”. “Continua la grande ritirata di SARS-CoV-2 dall’Italia. Anche oggi è calato, per il ventiquattresimo giorno consecutivo, il numero totale dei ricoveri in terapia intensiva per COVID-19, da 1.427 a 1.333, quindi ben 94 unità, e ora siamo a meno di un terzo del picco registrato a metà marzo con 4.068 ricoveri”, inizia così, con una boccata d’ottimismo, il lungo articolo dell’epidemiologo Guido Silvestri su Medical Facts. “Cala di molto anche il numero dei ricoveri ospedalieri totali (da 16.270 a 15.769, quindi di 501 unità). Quindi avanti così, un giorno alla volta, con prudenza, sempre ricordando la similitudine della nave tra i due scogli, ma anche con tanto ottimismo, perché il “mostriciattolo” sembra davvero andare verso l’uscita”. Poi Silvestri fa l’Elogio al Sud Italia: “Oggi ho provato, in una pausa, a calcolare le mortalità da COVID-19 regione per regione (per 100.000 abitanti): Lombardia 146.1; Valle d’Aosta 111.2; Emilia Romagna 84.9 Liguria 80.2; Piemonte 74.6TN/BZ 67.6; Marche 62.9; Veneto 32.0; Abruzzi 26.2; FVG 25.5; Toscana 24.3; Puglie 10.9; Lazio 9.1; Umbria 7.9; Molise 7.3; Sardegna 7.2; Campania 6.5; Sicilia 5.0; Calabria 4.6; Basilicata 4.5. Voglio soffermarmi per un momento sui livelli molto bassi di mortalità osservati nelle regioni del Sud, dove il tanto temuto tsunami di COVID-19 non è mai arrivato. Come sapete ci sono diverse ipotesi sul perché l’Italia del Sud sia andata così bene, tra cui quella che sia merito esclusivo del lock-down (in realtà su questo ho i miei dubbi, visto che la gran parte dei decessi, nel Nord Italia, sono comunque avvenuti dopo il 10 marzo) e quella dell’effetto benefico del clima più mite. Qui però vorrei solo fare un elogio, anzi, due elogi. Il primo ai tanti medici e infermieri che sono stati bravissimi nel fare tesoro delle esperienze dei loro colleghi al Nord – sono in contatto con colleghi di Catanzaro, Napoli, Pescara, Cagliari, Bari, Catania, Lecce, Avellino, Messina ecc… -, e sono rimasto molto colpito dalla loro competenza e professionalità. Il secondo elogio è per tutti gli abitanti del Sud, che in questo difficile frangente si sono comportati con grande disciplina e responsabilità. L’Italia meridionale in tante situazioni ha fatto e continua a fare fatica, ma nel caso di COVID-19 può davvero andare a testa alta. Massimo Clementi sul Corriere della sera. Ieri bellissima, e rarissima, intervista del grande Massimo Clementi, virologo tanto bravo quanto silenzioso (l’altro giorno mi ha scritto: «Nella vita mi sono spesso pentito di aver parlato, quasi mai di aver taciuto»), che per una volta ha fatto un’eccezione. Ecco due brevi estratti:SARS-CoV-2 è diventato meno aggressivo? «L’espressione clinica dell’infezione adesso è più mite. Nella fase drammatica, al San Raffaele arrivavano 80 persone al giorno, la maggior parte necessitava di ricovero in terapia intensiva. Le cose sono nettamente cambiate, le terapie intensive si stanno man mano liberando, l’infezione non sfocia più nella fase gravissima, la cosiddetta “tempesta citochinica”. Per ora è solo un’osservazione empirica, l’epidemia c’è ancora, ma dal punto di vista clinico si sta svuotando».

Covid-19, torna a casa il paziente lombardo curato in Puglia. Gelormini su Affaritaliani.it Lunedì, 4 maggio 2020. Guarisce dal Covid e viene dimesso: torna a casa paziente lombardo curato al Policlinico di Bari. Emiliano: “La cosa ci dà forza e coraggio per andare avanti". È guarito dal Coronavirus ed è stato dimesso dal Policlinico di Bari il paziente lombardo di 56 anni arrivato il 3 aprile scorso all'aeroporto Karol Wojtyla con il C130 dell'Aeronautica militare. Un'ambulanza dell'Aeru (l'Azienda Regionale Emergenza Urgenza della Lombardia) lo ha preso in carico per riportarlo a casa dopo essere risultato negativo all'ultimo tampone per la verifica dell'infezione da Covid19. A curarlo, in un mese, sono stati i medici dei reparti di Terapia intensiva, Pneumologia e Malattie infettive del Policlinico di Bari. “Sono queste le notizie che danno la forza e il coraggio di andare avanti - ha dichiarato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano - la solidarietà e la fratellanza, assieme alla competenza dei nostri sanitari, hanno battuto il virus e hanno restituito la salute al paziente che avevamo accolto proveniente dalla Lombardia.  Auguro a lui, alla sua famiglia e a tutte le persone che stanno combattendo contro il Covid la migliore ripresa”. L'uomo, arrivato in una barella di bio-contenimento, intubato e in gravi condizioni, con una forte compromissione delle funzioni respiratorie, è stato soccorso in prima battuta dai professionisti del reparto di Anestesia e Rianimazione Covid. Sottoposto al trattamento per l'insufficienza respiratoria è stato successivamente estubato e trasferito nel reparto di terapia sub intensiva respiratoria. Recuperate le funzioni polmonari, infine, è stato curato dai medici delle Malattie infettive. Tre passaggi all'interno di tre reparti tutti all'interno del padiglione Asclepios. “E' stato un esempio di multidisciplinarietà delle cure e di sinergia tra reparti – spiega il direttore di Anestesia e Rianimazione, professor Salvatore Grasso – ha funzionato l'interscambio di competenze e professionalità presenti nel Policlinico di Bari e integrate nel Covid Hospital allestito ad Asclepios”. A giocare un ruolo importante nel recupero del paziente sono state anche le videochiamate con la famiglia, che i medici hanno consentito di fare attraverso i tablet. Il 56enne, infatti, ha ripreso a parlare solo dopo aver visto e sentito, sia pur a distanza, il figlio e il contatto con i familiari ha agevolato la reazione del paziente alla malattia. “La guarigione del paziente lombardo è il risultato della competenza e della professionalità degli specialisti del Policlinico di Bari - ha sottolineato il direttore generale del Policlinico, Giovanni Migliore - ed è anche un bell'esempio di collaborazione e solidarietà tra ospedali e sistemi sanitari”. “Ci siamo trovati ad affrontare un'epidemia al Nord con la necessità, nei momenti di massima crisi di avere posti letto disponibili in terapia intensiva che, pur essendo stati triplicati in Lombardia non erano comunque sufficienti per assistere tutti i pazienti che necessitavano di ventilazione meccanica – ha spiegato il direttore Areu Alberto Zoli - per questo motivo Regione Lombardia e in particolare Areu, l'Azienda Regionale di Emergenza Urgenza, attraverso l'organizzazione garantita da Cross nazionale, ha trasferito con l'utilizzo di vari vettori più di 120 pazienti sia in Italia, in altre regioni disponibili ad accettare pazienti Covid positivi e negativi, sia all'estero". "Il ringraziamento e la presentazione di stima e riconoscimento dell'aiuto fornito sia ai pazienti lombardi che a tutto il sistema della Regione - ha aggiunto Zoli - sono dovuti e vanno fatti con una certa enfasi. La Puglia è stata una regione molto disponibile a rispondere alle nostre richieste di aiuto e per questo voglio ringraziare personalmente il governatore Michele Emiliano, al quale ho fatto riferimento, e soprattutto il dottor Giovanni Migliore che ha sempre risposto positivamente e con la necessaria immediatezza, avendo organizzato all'interno del Policlinico di Bari un padiglione Covid così come oggi tutta l'Italia si appresta a fare”.

Guariti due pazienti bergamaschi trasferiti in Molise. Guariti due pazienti bergamaschi trasferiti in Molise. Curati nel reparto di malattie infettive dell'ospedale Cardarelli, ora sono a casa. Antonello Di Lella su Valseriananews.it il 24 Aprile 2020. Quando hanno riaperto gli occhi si sono ritrovati a Campobasso, in Molise. A poco meno di 800 chilometri da casa. È nel reparto di malattie infettive dell’ospedale Cardarelli del capoluogo molisano che si sono conosciuti due pazienti bergamaschi affetti da Covid-19 e trasferiti fuori dalla Lombardia per essere curati nell’ambito della collaborazione Cross (la Centrale remota operazioni soccorso sanitario attivata dal Dipartimento della Protezione civile, ndr).

Due pazienti bergamaschi in Molise. Dopo oltre un mese i due pazienti bergamaschi in Molise sono ufficialmente guariti sconfiggendo il Coronavirus. Nati entrambi nel 1954: uno di nazionalità peruviana e residente ad Azzano San Paolo, l’altro residente a Bergamo. Sono finiti nella stessa stanza d’ospedale nel piccolo Molise. Manco Villavicencio era stato trasportato in ospedale a Bergamo in ambulanza e il suo trasferimento era stato predisposto con l’aggravarsi delle condizioni. Mario Minola, invece, era stato accompagnato in pronto soccorso dalla moglie e dai figli: poi il buio, i suoi ricordi si fermano a quel giorno. Arrivati intubati, lo scorso 15 marzo, quando le terapie intensive già scoppiavano in tutta la Lombardia, i due 66enni sono finiti dritti nel reparto di Rianimazione del Cardarelli. Fino a quando le loro condizioni sono migliorate e sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. Il percorso riabilitativo per tornare nel pieno delle forze appare ancora lungo, ma il peggio è alle spalle.

Il racconto dell’architetto Minola. Ne è ben consapevole l’architetto Minola che, piano piano, sta ritrovando lo spirito giusto: “Mi sono trovato qua, mi hanno detto lei è guarito. Ma non sapevo nemmeno di cosa fossi malato – ha riferito ai microfoni della stampa locale – Poi ho ricominciato la rieducazione: sono felice di essere stato trasferito a Campobasso. Mi trovavo nel mondo dei morti e sono rinato. Ora, come i bambini, dovrò imparare a fare le cose più semplici, come la mia nipotina di un anno. Mia moglie mi ha assicurato che mi darà tutto il sostegno possibile. Non vedo l’ora di riabbracciarla”. Magari insieme poi torneranno a visitare il Molise e a trovare i nuovi amici e il personale sanitario del Cardarelli che Mario, prima di ripartire per tornare a Bergamo, ha voluto ringraziare: “Ho preso il numero telefonico di tante persone. Sono un amante del Sud: mi piace il calore della gente, l’ospitalità e il senso che danno alla vita. Non siamo così noi del Nord: siamo troppo ansiosi, sempre a correre dietro. Ma a che cosa? Tanto devi lasciar tutto qui, su questa terra. Appena torno a casa chiudo lo studio e lo lascio a mio figlio, voglio vivere serenamente con mia moglie quello che il Signore mi darà ancora da campare”. Una cosa però Mario non la cambierebbe mai con il Sud: il prosecco. “Stapperò una bottiglia appena torno a casa. Avete anche voi il vino buono, però se bevi una bottiglia e cominci con 16 gradi, devi morire prima di cominciare”. Un brindisi sempre più vicino, visto che proprio nella giornata di giovedì 23 aprile Mario e Manco hanno salutato Campobasso e sono rientrati a Bergamo. Antonello Di Lella 

L'abbraccio in corsia e il commosso grazie dei pazienti lombardi ai sanitari del Pugliese. La guarigione dei due pazienti trasferiti da Bergamo e Cremona rappresenta non solo la vittoria di una battaglia contro il Covid-19, ma è anche una prova della professionalità e dell’umanità di medici e paramedici del nosocomio catanzarese. Daniela Amatruda il 19 aprile 2020 su lacnews24.it. È trascorso un mese dal loro arrivo. Erano giunti a Catanzaro nella notte, intubati, frastornati e sofferenti. I due pazienti affetti da covid 19, provenienti da Bergamo e Cremona, sono stati subito ricoverati in terapia intensiva all’Ospedale Pugliese-Ciaccio. La Lombardia non aveva più posti e ad accoglierli, la Calabria. Sì, la Calabria. Suona strano, è vero: due pazienti del nord portati al sud per essere curati. Ed è “suonato” strano anche agli stessi calabresi che increduli, quella sera, assistevano ad una scena che mai avrebbero creduto di vivere. Eppure è a Catanzaro che hanno trovato le cure, il calore, la guarigione. Ed è dal reparto di malattie infettive che oggi, quegli stessi pazienti sono usciti sorridenti e grati. Via le coperte, via i tubi e via i respiratori. Sono stati il freddo ed il buio della notte ad accoglierli al loro arrivo ed oggi, come simbolo di rinascita, sono stati salutati da un caldo sole di primavera. Sono guariti e tornano dai loro cari, nelle loro case. Anche se una casa, in questo lungo mese di degenza i due pazienti, un uomo ed una donna, l’avevano trovata all’interno del reparto, coccolati dalle cure amorevoli di infermieri e medici che hanno dato prova di professionalità, competenza e umanità. La battaglia non è ancora finita purtroppo, ma per il personale sanitario di malattie infettive oggi è stata una festa, una piccola grande vittoria che dà speranza e che incoraggia. 

L'abbraccio in corsia. Nelle immagini girate all’interno del reparto si vede la prima paziente che, prima di andar via, cerca in tutti i modi di salutare e ringraziare il primario di malattie infettive, il dr Lucio Cosco. Poi la barella viene girata per raggiungere l’uscita e davanti a lei gli occhi commossi di infermieri, oss e medici del reparto che, posizionati lungo tutto il corridoio, l’hanno omaggiata con scroscianti applausi. Strette di mano e frasi di incoraggiamento anche per il secondo paziente. Entrambi, non avevano fretta di andar via, hanno salutano uno per uno i sanitari. Sono sereni e riconoscenti per l’accoglienza ricevuta ed anche se la mascherina copriva i loro sorrisi, gli occhi non mentivano. «È stato un po’ più fortunato di altri – ha detto sotto la sua tuta un medico lombardo che accompagnava la barella di uno dei degenti -, alcuni pazienti si sono risvegliati in Germania dove parlavano un‘altra lingua. Ma soprattutto è stato molto fortunato ad andare in un posto in cui c’è il calore del sud».

Ettore va in coma a Bergamo e si sveglia a Palermo: “Mi tatuerà la Sicilia sul cuore”. Redazione de Il Riformista il 19 Aprile 2020. “Mi sono addormentato a Bergamo e mi sono risvegliato a Palermo: mi tatuerà la Sicilia sul cuore”. Parole cariche di gioia quelle di Ettore Consonni, 61enne magazziniere oggi in pensione. La sua storia regala tanta speranza a chi in queste ore sta lottando in un letto di ospedale contro il coronavirus. Ettore ha raccontato a Repubblica le sue emozioni dopo il risveglio. Un mese fa si era ammalato di covid-19 e nei giorni successivi, a causa dell’emergenza presente negli ospedali della Lombardia, era stato trasferito con un aereo militare da Bergamo all’ospedale Civico di Palermo. “In Rianimazione sentivo l’accento siciliano, ma pensavo a qualche medico emigrato. Mi dicevano che ero a Palermo, ma pensavo scherzassero”. Dopo 23 giorni è uscito dalla terapia intensiva e ha realizzato che effettivamente si trovava nel capoluogo siciliano. “Qui mi hanno resuscitato, grazie: ci sono infermieri e medici speciali”, dice guardando negli occhi i medici e gli infermieri del reparto. Ora vuole tornare presto a casa ma la Sicilia la porterà nel cuore per sempre: “Ho deciso di tatuarmela”.

“Mi tatuerò la Sicilia sul petto”: Ettore Consonni mantiene promessa. Notizie.it il 20/06/2020. L'ex magazziniere di Bergamo, Ettore Consonni, ha mantenuto la promessa: si è tatuato la Sicilia in onore dei medici che l'hanno salvato. Ettore Consonni, 61 anni di Bergamo, ex magazziniere ora in pensione, ha mantenuto la promessa fatta nei confronti dei medici che gli hanno salvato la vita. Nei giorni più bui della pandemia, il 61enne aveva contratto il virus. Data l’indisponibilità di posti nei reparti di terapia intensiva degli ospedali lombardi, un volo di stato lo aveva portato a Palermo, presso il reparto di Rianimazione del Civico. Giunto al nosocomio siciliano, i medici locali lo avevano preso in cura, salvandogli la vita. Quindi la promessa: “Mi tatuerò la Sicilia sul petto”. E così ha fatto. Sul torace di Ettore Consonni è ora ben visibile la sagoma dell’isola siciliana, con al centro il simbolo della trinacria, circondato dai nomi di figli e nipoti. La sua storia è stata ripresa anche dal Partito Democratico, il quale ha deciso di dedicargli un post sul suo profilo Facebook. “Sono questi i valori che davvero sentiamo nostri” si legge nel commento. Consonni ha voluto tributare un omaggio onesto e sincero ai medici e agli infermieri palermitani che lo hanno accolto e guarito dopo aver trascorso oltre venti giorni attaccato a un ventilatore meccanico nel reparto di Terapia intensiva. Al risveglio, dopo 35 giorni di coma, le sue prime parole furono le seguenti: “Mi sono addormentato a Bergamo, la mia città, e mi sono svegliato a Palermo. Ma io mica ci credevo. […] Mi tatuerò la Sicilia sul petto, sono guarito grazie a voi”.

COME IL SUD SI È SALVATO DAL DISASTRO LOMBARDO. Angelo Forgione il 20 aprile 2020. Giulio #Gallera, assessore al welfare della Regione #Lombardia, sostiene che la Lombardia ha salvato il Sud dal disastro sanitario: «Se noi non ci fossimo opposti con rigidità al governo, il Sud non sarebbe stato chiuso. Invece abbiamo sbattuto i pugni sul tavolo chiedendo misure restrittive. Grazie a questo, le altre regioni ci hanno seguito e abbiamo ridotto il contagio».

Dichiarazione che si smonta con molta facilità, poiché il Sud, al momento, si è salvato da solo nonostante le fughe dal Nord che hanno aumentato i contagi, e ci è riuscito per tre sostanziali motivi:

1) L'inquinamento atmosferico da Pm10 inferiore a quello della Pianura Padana, che è la macroarea più inquinata d'Europa. L’inquinamento influisce direttamente sulle difese immunitarie e sulle capacità respiratorie, messe a dura prova dal #Covid19. Come sostengono i ricercatori dell'Università di Siena e di Aarhus University, non è casuale il livello di letalità più alto al Nord, "legato al fatto che le persone che vivono in queste aree, con una esposizione prolungata all'inquinamento, hanno una predisposizione maggiore a sviluppare condizioni e patologie respiratorie croniche che con l'arrivo del virus possono portare più facilmente alla morte";

2) Le decisioni tempestive dei governatori regionali che, come ha sottolineato Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, «hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato». Contrariamente ai casi Lombardi della Bergamasca e del Bresciano, zone per troppo tempo lasciate aperte nonostante i problemi esplosi ad #AlzanoLombardo, #Nembro e #Orzinuovi;

3) Il sostanziale rispetto del distanziamento sociale. Fuori elenco per questione di assenza di prove scientifiche circa il Covid-19, il fattore climatico, che normalmente concorre a ridurre la potenzialità dei virus (le influenze di stagione sono sempre più violente in Pianura Padana).

Ognuno può farsi un'idea di ciò che è accaduto. Ma una cosa è certa: il 28 febbraio scorso, mentre la situazione nella Bergamasca si aggravava, Giulio Gallera escludeva l’istituzione di una zona rossa per quei comuni: «Non riteniamo di gestire con ipotesi di zona rossa quella zona lì di Alzano Lombardo». Contemporaneamente, #Confindustria Bergamo, per tranquillizzare “i nostri partner internazionali”, pubblicava il video “#bergamoisrunning” dove si sbandierava che l’industria lombarda non si fermava affatto. Si spingeva per tenere aperto il distretto industriale di Alzano-Nembro, uno dei primi cinque d'Italia per Comuni sotto i 300mila abitanti. Secondo i dati di Confindustria #Bergamo, un'eventuale zona rossa in quell'area avrebbe riguardato 376 aziende, con una forza lavoro che varia dai 120 agli 800 dipendenti, per circa 850milioni di euro all'anno di fatturato.

Il 9 aprile, Marco #Bonometti, presidente della sezione lombarda di Confindustria, ha rivelato: «Nelle riunioni che abbiamo avuto con cadenza quasi quotidiana tra fine febbraio e i primi giorni di marzo, anche in sede di Patto di sviluppo con artigiani, commercianti, lega delle cooperative e sindacati, la Regione è sempre stata d’accordo con noi nel non ritenere utile, ma anzi dannosa, una eventuale zona rossa sul modello Codogno per chiudere i comuni di Alzano e Nembro».

Per Bonometti, «non si poteva fermare la produzione». Ma la colpa dei troppi contagi, secondo lui, non è da imputare al tardivo lockdown bensì… agli allevamenti di animali in Lombardia.

Concludendo, è chiaro che il Sud si sia per il momento salvato sa solo, anche facendo tesoro dei disastri della Regione Lombardia, che si è condannata con le sue stesse mani e si è rivelata, in tempo di pandemia, la palla al piede dell'intera Italia, costringendo il Centro e il Sud a difendersi dal bubbone lombardo lasciato crescere per non dover rinunciare al profitto produttivo. Altro che salvezza! Manca solo che Gallera chieda riconoscenza al Sud.

Cosa avrebbe fatto il Nord se il coronavirus fosse esploso prima nel Mezzogiorno. Se il primo caso si fosse manifestato a Napoli, nella sua sterminata cintura urbana, anziché a Codogno, siamo sicuri che a parti invertite il Paese avrebbe mostrato la stessa solidarietà vissuta in queste settimane? Luigi Vicinanza il 15 aprile 2020 su L'Espresso. “Colera colera”. Sta per compiere mezzo secolo l’insulto che accoglie negli stadi del nord i tifosi napoletani. Quelli che Matteo Salvini, prima di indossare la felpa sovranista, riconosceva a naso. Agosto-settembre 1973, una Napoli saccheggiata dalle “mani sulla città” viene attaccata dal morbo di memoria ottocentesca. Un ospedale sulla collina del Vomero, il Cotugno, è il centro dove la malattia viene individuata e curata. Ieri come oggi quello stesso ospedale è il centro d’eccellenza per fronteggiare l’epidemia di coronavirus. Dove il contagio tra il personale sanitario è stato finora scongiurato grazie al rispetto di rigidi protocolli di comportamento, frutto di un’esperienza antica. Una felice eccezione nazionale, scoperta anche da Sky International. Al Cotugno nel 1973 muoveva i primi passi un giovane medico, Franco Faella, diventato negli anni primario del reparto di infettivologia. Un esperto a livello internazionale. A 74 anni è stato richiamato dalla pensione per trasferire la sua competenza nel coordinare il Loreto Mare, una struttura malandata, in via di dismissione, che il governatore Vincenzo De Luca ha completamente trasformato in pochi giorni in un efficace centro dedicato esclusivamente ai malati di Covid-19. Quella ferita prodotta dal colera, fa ancora male ai napoletani di ogni ceto. Un brivido: se il primo caso di coronavirus si fosse manifestato a Napoli, nella sua sterminata cintura urbana, anziché a Codogno? Siamo sicuri che a parti invertite il Paese avrebbe mostrato la stessa solidarietà vissuta in queste settimane? Mentre migliaia di emigrati sono scappati da Milano e Torino per cercare rifugio nelle famiglie d’origine nei paesi del Mezzogiorno, si è consumato un contrappasso geografico: il Nord che trasmette paura e insicurezza. Se fosse stato il Sud il focolaio dell’epidemia? Ha colpito la mortificante supponenza con cui nei primi giorni sono state accolte le sperimentazioni, già avviate in Cina, di un farmaco antivirale effettuate sempre al Cotugno in collaborazione con l’équipe di Paolo Ascierto dell’istituto dei tumori Pascale. Ha prevalso un antico riflesso: ma che ne sanno questi napoletani di sanità efficiente. Vincenzo De Luca conosce le insidie di una frattura insanabile tra le due Italia. Sa come esercitare la sua leadership, l’epidemia l’ha fatta esplodere. Neppure la fantasia di Maurizio Crozza avrebbe osato lanciafiamme e plotoni di esecuzioni, post di Naomi Campbell e ricette casalinghe per la pastiera di Pasqua. Nel protagonismo dei governatori spesso in polemica con Roma De Luca si è mostrato il più accorto. Capace di parlare a sei milioni di persone, anche in territori dove illegalità e violenza sono diffuse. Con le sue video-minacce ha provato a contenere il disordine metropolitano per arginare la diffusione dell’epidemia. Una sfida titanica, ribaltare il canone del pregiudizio: il Sud disordinato, il Nord organizzato. Tra qualche mese forse sapremo come è andata.

Il Sud regge e prova a ripartire. Il virus ha capovolto l'Italia. Carlo Porcaro su Il Quotidiano del Sud il 15 aprile 2020. Migliaia e migliaia di morti, inchieste giudiziarie, alto tasso di mobilità e polemiche: questo è stato il Nord nella gestione del Coronavirus. Poche centinaia di morti, sostanziale rispetto dell’obbligo di restare a casa e reazione rapida del sistema sanitario: questo è stato il Sud in quarantena. Una sintesi brutale? No, i numeri parlano chiaro. Su un totale di oltre 20mila morti in tutta Italia, circa 16mila sono stati registrati nelle regioni settentrionali. Al Mezzogiorno (isole comprese), dal 9 marzo ad oggi, i deceduti sono sotto il migliaio: rappresentano quindi appena il 5 per cento della cifra complessiva che ci angoscia ogni giorno. Quanto ai contagiati, se a livello nazionale sono circa 104mila al Sud se ne conta il 10 per cento: basti pensare che la Campania conta 3.600 affetti mentre la sola Lombardia è capitolata sotto lo tsunami che ha portato a 33mila pazienti positivi. Una situazione, insomma, fuori controllo raffrontata ad uno scenario che – salvo alcune zone d’ombra e tamponi in ritardo – ha tenuto eccome. Due Italie, quindi, capovolte rispetto alla consueta ed errata narrazione. Tre fondamentalmente le motivazioni del successo del Meridione: il vantaggio di essersi organizzati per tempo; le straordinarie eccellenze mediche presenti ; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. Eppure, mezzi e risorse non sono esattamente gli stessi. L’Italia è diseguale, iniqua, c’è un Nord che riceve molto più di quanto riceva il Sud.

IL CONTRASTO. Ecco qualche esempio concreto del netto contrasto tra le due Italie. È notizia di ieri che in Lombardia sono state svolte le perquisizioni al Pio Albergo Trivulzio e all’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone, due della dozzina di Residenze assistenziali per anziani al centro delle indagini della procura di Milano sulle morti tra i pazienti ricoverati collegate al Coronavirus. L’obiettivo dei magistrati è verificare che cosa sia accaduto nelle scorse settimane, quando con delibera regionale le residenze assistenziali hanno preso in cura alcuni pazienti Covid senza separare i percorsi, senza il necessario distanziamento, portando in molti casi quegli anziani già deboli verso la morte. A centinaia di chilometri di distanza, l’eccesso (positivo, ma non in senso di malattia) opposto. Per la prima volta dall’inizio dell’emergenza sanitaria, in Basilicata non si sono registrati nuovi contagi: gli ultimi 214 tamponi eseguiti hanno dati tutti esito negativo. Una bella boccata d’ossigeno per una regione piccola che qualche problema comunque lo ha avuto, ma non è stata travolta. Anzi ora sta respirando. In totale, finora sono stati eseguiti in Basilicata – dove 19 persone sono morte a causa del Coronavirus – 4.759 tamponi, 4.438 dei quali hanno dato esito negativo. Nei due ospedali di Potenza e Matera sono ricoverarti 74 malati. Bene anche la Calabria: sono stati eseguiti 17.569 tamponi, le persone risultate positive al Coronavirus sono 956 (+28 ieri), quelle negative sono 16.613. Ammontano soltanto a 32 i nuovi contagi registrati in Abruzzo dove, dall’inizio dell’emergenza, sono stati registrati 2.245 casi diagnosticati dai test eseguiti nel laboratorio di riferimento regionale di Pescara, dall’Istituto Zooprofilattico di Chieti.

GLI OSPEDALI. Altro chiaro esempio di contrasto: le strutture ospedaliere. A Milano avrebbero dovuto “salvarsi” con il Covid center di Milano Fiera che però tarda a decollare. Doveva ospitare 400 pazienti, poi si è detto 205 e, infine, dall’apertura ad oggi, solo 24 persone affette da Coronavirus hanno fatto ingresso nella struttura. Manca personale e, secondo gli esperti, l’ospedale in Fiera non è abbastanza attrezzato per diventare uno dei più grandi centri di terapia intensiva d’Italia. Insomma, tutto ancora in progress mentre contagiati e morti aumentano seppur lievemente rispetto alle scorse settimane. Al Sud, invece, al costo di 7 milioni e mezzo a breve sarà operativo l’ospedale da campo all’Ospedale del Mare di Napoli: è slittata l’apertura di qualche giorno, ma entro la fine della settimana saranno pronti i primi 48 posti mentre sono già cominciate le operazioni per i restanti 24. Su questo fronte il governatore Vincenzo De Luca si gioca molto le sue carte in termini di credibilità. Zooprofilattico di Teramo e dall’Università di Chieti.“

LA SVOLTA. Per fare un’analisi complessiva di quanto è accaduto in questi 40 giorni che hanno sconvolto il Paese, si deve fare un passo indietro. Precisamente a quella notte, tra sabato 8 marzo e domenica 9 marzo, in cui migliaia di meridionali salì su un treno o un bus per scendere dalla rispettiva famiglia al Sud perché il Governo aveva appena annunciato la chiusura dei confini regionali. Ebbene, il timore fu enorme. Si pensò che il Nord, “liberandosi” di studenti fuorisede, giovani precari, avrebbe “rovinato” il Mezzogiorno. “Dobbiamo essere rigorosi e controllare che tutto funzioni, altrimenti dovremo rassegnarci ad avere una ospedalizzazione, con una situazione pesante per gli ospedali: si dovrà decidere se ricoverare chi ha un trauma e chi un Coronavirus in condizioni gravi”, disse all’epoca De Luca prima di disporre alcune zone rosse nelle aree interne. “Abbiamo il dovere di tutelare la salute dei cittadini, e per questa ragione ho dato disposizione agli uffici di predisporre un’ordinanza che impone la quarantena a tutti quanti rientrano in Abruzzo”, annunciò il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio. Analogo annuncio da parte del governatore pugliese, Michele Emiliano. “Chi torna in Puglia da Lombardia, Emilia e Piemonte deve restare a casa o domicilio in isolamento per 14 giorni, chiamare subito il tuo medico curante o compilare il modulo on line per dichiarare di essere rientrato in Puglia”, disse. Tutti erano consapevoli che dovevano reagire a tempi record, dovevano organizzare la propria rete territoriale e poi contare sul rispetto degli obblighi. Come detto, salvo alcuni indisciplinati, la popolazione è stata ligia. Ora in provincia di Napoli “ci sono focolai domestici” – ha fatto sapere la Regione – e bisogna comprendere se perché si rimasti in casa come viene chiesto con ogni spot tv oppure perché si è fatta qualche tavolata in famiglia senza precauzioni.

Va commissariata la Sanità della Lombardia. Le due Italie e l’umiltà di chiedere aiuto per ricostruire insieme un Paese nuovo. Roberto Napoletano il 14 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Si evitino processi sommari, ma si guardi ai fatti che già si conoscono con mente libera da pregiudizi. Va bandito, come abbiamo scritto appena ieri, il sussiego irresponsabile con cui vengono sottaciute l’anomalia mondiale della Lombardia e il conto che l’intero Paese paga per gli errori della sua classe dirigente politica e amministrativa. Questo giornale ha tirato fuori per primo la delibera dell’otto marzo 2020 con cui la Regione Lombardia chiede alle case di riposo per anziani di accogliere pazienti provenienti da altri ospedali e pazienti affetti da Covid 19. Il classico cerino che accende il pagliaio entrando dalla porta principale. Dopo che altri cerini disseminati nei pronto soccorso hanno incendiato molti degli ospedali pubblici lombardi diventati un rogo gigantesco dentro il quale lasciano la vita più di undicimila persone a oggi. Il più grande focolaio della terra nei giorni terribili della Pandemia Globale. Questo giornale ha pubblicato in anteprima il report dell’Istituto Superiore di Sanità da cui si evince che dal primo febbraio al sei aprile i decessi per sintomi di simil influenza nel 27,5% delle strutture sanitarie lombarde sono quattordici volte superiori a quelli ufficialmente morti di Covid. Il rapporto anomalo è superiore di quasi sei volte a quello dell’Emilia Romagna e di oltre sette rispetto al Veneto – le altre due regioni con focolai significativi – di centinaia di volte se confrontato con la gran parte delle altre regioni italiane. Questi sono i fatti nudi e crudi all’origine delle perquisizioni della guardia di finanza scattate ieri all’interno delle residenze sanitarie lombarde. A questi fatti ne vanno aggiunti un altro paio. Primo: i decessi in Lombardia sono pari al 52,88% di quelli italiani e al 9,1% dei morti globali da Covid 19. Tutte le regioni meridionali peninsulari e insulari messe insieme contano 896 decessi pari all’8% dei morti in Lombardia. Gli ospedali pubblici del Mezzogiorno sono stati ingiustificatamente espropriati da almeno dieci anni in qua di risorse pubbliche a favore delle Regioni del Nord (alla Lombardia vanno 20 miliardi l’anno pari al triplo di quanto riceve la Puglia) e della rendita sanitaria privata da queste stesse Regioni foraggiate con i soldi pubblici di tutti gli italiani. Questo giornale in assoluta solitudine documenta da un anno questa vergogna e altre di tipo analogo. Ho scritto la Grande Balla perché questo lavoro rimanesse agli atti in modo compiuto. Davanti alla prova terribile del Coronavirus si è scoperto che la Regione Lombardia, a differenza di Emilia-Romagna e Veneto, non ha cultura di prevenzione pubblica sul territorio. Non ha capito nulla prima e ha sbagliato molto dopo. Perché è mancata del tutto la strategia della separazione tra luoghi Covid e luoghi non Covid e si è infettata con leggerezza imperdonabile un’intera classe di personale medico e paramedico. Si è dovuto attendere per settimane lo scatto operoso di quella imprenditoria privata foraggiata oltre ogni decenza che ha continuato a fare le sue cose mentre un’ecatombe si abbatteva sulla Lombardia. Si è finiti nel tunnel di una situazione totalmente fuori controllo in un rimpallo avvilente di responsabilità tra centro e territorio. Quanta distanza in termini di efficienza, di capacità tecniche e di serietà nella azione degli amministratori regionali meridionali, delle sue dimenticate eccellenze sanitarie e delle sue comunità! Ognuno ha fatto il suo. Chi ha sensibilizzato e agito separando ermeticamente i reparti e creando ovunque nuovi luoghi Covid. Chi si è autodenunciato e ha rispettato le quarantene. Chi ha mostrato sul campo capacità di ricerca scientifica e di azione terapeutica prevenendo, isolando e curando. I volontari che sono corsi in massa a rischiare la vita negli ospedali infettati della Lombardia sono partiti in misura rilevante dalle regioni del Sud e del Lazio. Pazienti malati gravi della Lombardia sono stati accolti e curati dagli ospedali pubblici meridionali. Tutti sono guariti, tutti hanno ringraziato. Mai Fontana e il suo scudiero Gallera sono riusciti a pronunciare questa parola di sei lettere nelle infinite dirette televisive. Anche da questo si capisce che la situazione ha superato il livello di guardia. Si nomini un commissario ad acta per la sanità se non si vogliono avocare direttamente allo Stato i poteri. Non siamo mai stati teneri con le disfunzioni della macchina centrale nazionale e ne conosciamo le debolezze. Un sistema nazionale da venti anni svuotato di risorse e poteri a favore delle Regioni fa fatica a rimettersi in corsa. Una cosa, però, è certa: oggi la Lombardia va aiutata. Deve dimostrare di avere almeno l’umiltà di chiederlo. Poi, sarà più facile ricostruire un Paese nuovo. Perché lo si farà finalmente insieme.

Marco Palombi per il “Fatto quotidiano” il 14 aprile 2020. Al momento sono una dozzina gli ospiti della grande struttura di terapia intensiva che Regione Lombardia ha voluto costruire alla Fiera di Milano affidandone la gestione al Policlinico. Ora però che, a parità di ricoveri ospedalieri da Covid-19, la pressione sulle terapie intensive, peraltro raddoppiate da inizio marzo, diminuisce (circa 200 pazienti da lunedì 6 aprile a ieri) è lecito farsi qualche domanda sul mega-investimento fatto da Attilio Fontana e soci: funziona o è l'ennesima cattedrale nel deserto? Il dubbio, come vedremo, è più che lecito. I numeri. Ad oggi, come detto, sono una dozzina i pazienti assistiti in Fiera da una cinquantina di persone che turnano su 24 ore: impossibile far crescere i ricoverati senza aumentare decisamente il personale, che però scarseggia in tutta Italia e in particolare al Nord. Le mille figure professionali necessarie (tra cui 200 medici e 500 infermieri) secondo la Regione sono ad oggi solo un desiderio: per coprire i turni, dicono fonti interne, ad oggi qualche infermiere viene addirittura spostato dal Policlinico in una sorta di gioco a somma zero. Se l' andazzo fosse questo, Fiera aggiungerebbe pochissimi letti alle terapie intensive lombarde e il resto sarebbe solo una partita di giro tra posti già esistenti.

I letti. Dovevano essere 600, ora l' obiettivo è 205, anche se ormai è chiaro a tutti - anche in Fiera - che a quella cifra non ci si arriverà: al momento sono stati completati 53 posti letto; un secondo lotto da 104 posti è in via di costruzione è sarà pronto se va bene tra una o due settimane; gli ultimi 48 posti letto nel Padiglione 2 - dicono fonti qualificate - semplicemente non verranno mai costruiti. Insomma, 157 posti a fine aprile per la maggior parte dei quali manca personale.

I trasferimenti. L' idea è fare di Fiera l' hub regionale per i malati Covid-19, svuotando gli ospedali ordinari (ma la convenzione su cui lavora la struttura è di sei mesi per ora). Ad oggi ci sono almeno un paio di grossi problemi: 1) le ambulanze hanno meno di tre ore di autonomia di ossigeno e arrivare in Fiera in tempo, ad esempio, da Sondrio o Mantova è molto difficile (si parlava di un eliporto, ma non è alle viste); 2) spostare i malati intubati vuol dire esporli a rischi enormi, una cosa che ovviamente nessuno vuole fare se non è costretto.

L' isolamento. Ha scritto su Facebook il 6 aprile, giorno dell' inaugurazione, il cardiologo Giuseppe Bruschi, dirigente medico di I livello del Niguarda: "L' idea di realizzare una terapia intensiva in Fiera non sta né in cielo né in terra Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell' ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre Strutture Complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un ospedale". In sostanza, quel tipo di pazienti tendono ad avere anche altri problemi e c' è bisogno "non solo di infermieri e rianimatori, ma degli infettivologi, dei neurologici, dei cardiologi, dei nefrologi e perfino dei chirurghi.": in ospedale ci sono, in Fiera no.

L' alternativa. Ancora Bruschi: "Perché costruire un corpo a se stante, quando si sarebbe potuto potenziare l' esistente? Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni 'abbandonati' degli ospedali lombardi (Niguarda, Sacco, Varese). Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla Sanità Lombarda". Un sindacalista dei Cobas a metà marzo aveva sostenuto che l' ex Ospedale Civile di Legnano "ha tutte le potenzialità per accogliere velocemente nuovi pazienti". L' assessore al Welfare, Giulio Gallera, rispose il 18 marzo con un parere chiesto agli uffici tecnici il giorno prima: "Ci vorrebbero sei mesi". In realtà il parere si riferisce al rifacimento dell' intero monoblocco, cosa ovviamente non necessaria. Il costo. Fiera di Milano ha creato una Fondazione molto snella (3 membri tra cui il presidente di Fiera Enrico Pazzali) per poter usare le cospicue donazioni arrivate: 21,3 milioni. Quanti soldi sono stati spesi per la nuova struttura, però, non si sa: c' è chi sostiene che il costo sia più vicino ai 50 milioni che ai 20.

Bergamo. Un paragone utile. Una struttura molto simile, quella alla Fiera di Bergamo (peraltro più vicina agli ospedali della zona), è stata creata in meno tempo con l' obiettivo di avere 72 posti in terapia intensiva e 70 in sub-intensiva: ha già 50 posti operativi e oltre venti pazienti seguiti da medici russi, norvegesi, di Emergency e degli alpini; al momento mancano circa 50 infermieri su un fabbisogno indicato in 130; il costo è stato assai inferiore a quello di Milano. Il 18 marzo la Regione tentò di bloccarlo: "Manca il personale per gestirlo: è inutile creare una cattedrale nel deserto". Appunto.

"L'ospedale in Fiera non è servito a ricoverare centinaia di persone", ma è costato 21 milioni di euro. "L'ospedale in Fiera non è servito a ricoverare centinaia di persone", ma è costato 21 milioni.  Editoriale - Da "stiamo facendo la storia" a "non è servito": la vita (fallimentare) dell'ospedale in Fiera. Carmine Ranieri Guarino su milanotoday.it il 15 aprile 2020. Trentuno marzo 2020, primo pomeriggio. Al tavolo allestito per l'occasione sono seduti il presidente di regione Lombardia, Attilio Fontana, il presidente della Fondazione Fiera, Enrico Pazzali, il direttore generale del Policlinico di Milano, Pino Belleri e Gerardo Del Borgo, presidente corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta. Di fronte a loro, accomodati in prima fila, ci sono il vicepresidente del Pirellone, Fabrizio Sala, gli assessori al Welfare, Giulio Gallera, e al lavoro, Melania Rizzoli. L'unico assente del "dream team" è Guido Bertolaso, che in quei giorni è in ospedale. Le parole che riecheggiano dai microfoni raccontano di un miracolo, di un'impresa resa possibile dalla mitica operosità lombarda. "Stiamo facendo la storia", dice il governatore. "È il più grande reparto di terapia intensiva d'Italia", gli fa eco Belleri, che avrà la struttura in gestione. È "un risultato inimmaginabile con uno sforzo enorme, siamo fieri", ribadisce. E ancora, Pazzali a MilanoToday: "La struttura è pensata per accogliere tecnologicamente fino a un massimo di 208 pazienti". Quindi, Bertolaso, con un messaggio: "Sono fiero di essere italiano". I toni sono entusiastici, celebrano un capolavoro messo a punto in "tempi record", sottolineano più e più volte dal Pirellone. 

"L'ospedale in Fiera non è servito". Quattordici aprile 2020, tardo pomeriggio. Al tavolino utilizzato per il consueto punto stampa c'è l'assessore Gallera: "L'ospedale fortunatamente non è servito - dice - a ricoverare centinaia e centinaia di persone in terapia intensiva. E di questo - sottolinea - stiamo contenti perché vuol dire che oggi c'è un bisogno sanitario inferiore". L'ospedale in questione è lo stesso: quello allestito in fretta e in furia in Fiera a Milano, quello per cui era stato chiamato Guido Bertolaso a curare i lavori, quello del miracolo come argine per l'emergenza Coronavirus. Quello che il 31 marzo serviva a "fare la storia" e che 14 giorni dopo "fortunatamente non è servito". 

21 milioni per 10 pazienti. Già, "non è servito". Perché da quel 31 marzo di posti letto in Fiera ne sono stati allestiti 53 - il primo progetto prometteva 400 posti - e ne sono stati occupati soltanto dieci, tutti con pazienti arrivati da altri presidi. "Servirà per le seconde ondate", si sono affrettati a spiegare un po' tutti gli attori coinvolti nel "miracolo lombardo", ma al momento per ogni persona ospedalizzata sono stati spesi 2 milioni, 115mila e 300 euro. Il progetto dell'ospedale in Fiera - stando ai dati più volte rivendicati nei giorni passati dal Pirellone - è costato 21 milioni e 153mila euro, tutti raccolti dal 29 marzo attraverso 1.560 donatori. Erano i giorni in cui in Lombardia andava in scena una vera e propria gara di solidarietà, stupenda, con donazioni che raggiungevano anche le cifre mostruose di 10 milioni di euro ad assegno, come quelli staccati da Giuseppe Caprotti o Silvio Berlusconi, che il denaro lo aveva destinato espressamente all'ospedale in Fiera. Ed erano anche i giorni in cui a Piacenza e Crema si lavorava agli ospedali di campo o a Bergamo si creava da zero un ospedale con l'aiuto di Alpini e ultras nerazzurri: tutte strutture operative anche senza l'inaugurazione formale con tanto di "gita turistica" per i media. 

Un'impostazione sbagliata? Ma quei soldi donati sono andati a finire proprio lì. Pur considerando l'emergenza - che per definizione rende difficili le scelte da prendere nell'immediato -, possibile che il Pirellone non sapesse che i tempi per completare l'ospedale sarebbero stati così lunghi? Possibile che dalla giunta non immaginassero che a lavori finiti, davvero, quegli spazi sarebbero rimasti vuoti? Forse quei soldi potevano essere usati diversamente. Forse, più che fare la corsa ai posti letto, in regione - come hanno mostrato i casi del Veneto e dell'Emilia Romagna - sarebbe stata più utile una corsa all'assistenza a casa. Probabilmente sarebbe stato più utile - come poi è stato fatto, ma solo in parte - creare squadre di medici, oggi si chiamano Usca, in grado di intervenire immediatamente ai primi sintomi, magari a domicilio dal paziente, eseguire il tampone ed evitare che quello stesso paziente in ospedale ci finisca, ma con un quadro clinico preoccupante. Prevenire per non curare, insomma. Curare prima per ridurre l'impatto sugli ospedali, in sostanza. Forse sarebbe stato necessario fare i tamponi ai medici o a pazienti e personale delle Rsa, dove si sta consumando una strage senza precedenti. Sarebbe stato più sensato investire sulle strutture per la quarantena dei pazienti positivi ma non gravi per evitare i focolai domestici, come continuano a chiedere i medici che la battaglia la stanno combattendo in prima linea. Perché se dopo giorni e giorni di lockdown i contagi non calano - o calano solo quando cala il numero di tamponi effettuati - un problema deve esserci. 

Perché, pensato così, l'ospedale in Fiera "non può funzionare". Che il "miracolo Fiera" era tutto tranne che un miracolo lo aveva lasciato intendere benissimo il 6 aprile scorso Giuseppe Bruschi: non un giornalista, un economista o un avversario di partito, ma un dottore che da quasi venti anni è dirigente medico di primo livello nel reparto di Cardiochirurgia dell'ospedale Niguarda. "Che dispiacere. Sono medico, sono lombardo, oggi però con l’inaugurazione dello pseudo 'ospedale' in fiera mi sento triste", si era sfogato in un lungo post su Facebook il giorno in cui in Fiera era entrato il primo paziente. "Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre strutture complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un Ospedale perché i pazienti ricoverati in terapia intensiva necessitano della continua valutazione integrata di diverse figure professionali, non solo degli infermieri e dei rianimatori ma degli infettivologi, dei neurologici dei cardiologi, dei nefrologi e perfino dei chirurghi - aveva scritto -. Quindi per vivere una terapia intensiva ha bisogno di persone, di professionisti integrati nella loro attività quotidiana mutli-disciplinare". "L’idea quindi di creare dei posti letti slegati da questa realtà - senza entrare nel merito di quanti 600 – 500 – 400 – 250 – 100 – 12 - mi sembra assurda. Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni abbandonati degli ospedali lombardi. Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla Sanità Lombarda, potendo poi essere utilizzato ancora come terapia intensiva oppure riutilizzabile con altre finalità ma sempre all’interno di un ospedale funzionante", aveva chiarito. "La Lombardia non aveva certo bisogno di dimostrarsi superiore alla Cina costruendo un 'ospedale' in fiera. Vastava vedere quanto fatto da tutti i dipendenti degli ospedali lombardi che in questi 40 giorni hanno creato oltre 600 posti di rianimazione dal nulla, con il loro costante lavoro e sostanzialmente iso-risorse", aveva concluso il medico. 

La "storia" che per ora "non è servita". Dall'inaugurazione dell'ospedale in Fiera a martedì di giorni ne sono passati invece 14, eppure sembra un'era storica. Gli oltre 200 posti letto non si vedono, i pazienti latitano - per fortuna -, i 21 milioni sono stati usati e mancano anche medici e infermieri per mandare avanti la struttura. "Stiamo facendo la storia", aveva detto il governatore Fontana. "Fortunatamente non è servito", ha detto due settimane dopo il "suo" assessore Gallera. 

Bertolaso: "La maschera di ossigeno è un'esperienza terribile". Intervistato ad Omnibus, ricorda i momenti drammatici vissuti in ospedale, annuncia la prossima conclusione dei lavori del primo ospedale marchigiano anti-Covid e risponde alle polemiche sulla struttura realizzata nella fiera di Milano. Federico Garau, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Guido Bertolaso, intervistato durante la trasmissione "Omnibus" di La7, parla della realizzazione del progetto dell'ospedale anti Covid-19 delle Marche, torna sull'argomento di quello realizzato nella fiera di Milano e per il quale ancora non si spegne l'eco di forti polemiche, e ricorda l'esperienza personale di quegli attimi terribili vissuti durante il ricovero per la malattia. "Sto bene ora, siamo in piena attività, siamo impegnati nella realizzazione di questo secondo Covid hospital in Italia nella regione Marche. Siamo in pieno della tabella di marcia, tra circa una settimana cominceremo a ricoverare i primi pazienti", annuncia. "L'obiettivo in questa fase è alleggerire tutti gli altri ospedali della regione Marche che sono impegnati nell'assistenza ai malati di Covid-19 e quindi non possono garantire altri tipi di assistenza sanitaria che normalmente dovrebbero assicurare a tutti i cittadini", aggiunge. Una situazione che dovrebbe estendersi a tutte le regioni italiane. "Mi pare chiaro da quanto enunciato dal ministro Speranza e confermato dal presidente del consiglio. Quindi la regione Lombardia prima e quella Marche ora hanno anticipato in modo positivo e senza alcuna polemica quelle che sono state poi le giuste indicazioni del governo. Forse nelle regioni più colpite potrebbe anche essere necessario programmare la realizzazione di più di un ospedale anti Covid", suggerisce. C'è spazio anche per tornare sulle polemiche legate all'ospedale realizzato alla fiera di Milano, definito "cattedrale nel deserto" e vero e proprio spreco di denaro. "Mi sarebbe facile scaricare le responsabilità sui rappresentanti addetti alla sanità di quella regione. A noi non era stato chiesto di gestire la struttura ma solo di costruirla cosa che, nonostante la mia malattia, abbiamo fatto in collaborazione con tutti. Poi era compito di strutture sanitarie locali quello di organizzare medici e infermieri e trasferire i malati dagli altri ospedali dove ci fosse un ingolfamento delle terapie intensive", dichiara ancora Bertolaso. "Poi per fortuna nel frattempo è accaduto che il picco epidemico del Covid anche in Lombardia si è stabilizzato e c'è stata una riduzione: così si sono liberati molti posti in terapia intensiva anche da destinare ad altre patologie. Quando sono stato chiamato intorno al 15 di marzo, tuttavia, non era ancora così. Nulla vieta di svuotare altri ospedali ancora con pazienti affetti da Covid per trasferirli nella struttura della Fiera e ottimizzare il tutto. Se non lo vogliono fare è una decisione loro", ribadisce. La giornalista domanda se altri abbiano richiesto il suo intervento, e Bertolaso replica così: "Sono in tanti che mi cercano spesso, specie presidenti delle Regioni. Sono contento e orgoglioso per quanto fatto per il mio Paese, ma sono convinto che non ci sia bisogno solo di Guido Bertolaso", esordisce. "Ho anche suggerito al presidente delle Marche di contattare il ministro della salute Speranza e quello degli affari regionali Boccia e i commissari Arcuri e Borrelli. Prendete una macchina, da Roma fino a qui ci arrivate in 2 ore. Venite a vedere quello che stiamo realizzando, valutate progetti, costi e tempistica e fatelo. I soldi per questo genere di interventi ci sono, lo devono fare loro, non serve Bertolaso", aggiunge. Un'ultima nota sul dramma della malattia, vissuto in prima persona. "Guardi, questa è una malattia terribile, veramente perfida. Nel 70-80% dei casi quasi passa inosservata, per altri si supera rapidamente. Ma sono tanti quelli a finire in ospedale e in terapia intensiva e anche peggio in rianimazione. È un'esperienza che non auguro a nessuno", ricorda. "C'è la grande ansia di vedersi piazzare in faccia, se sei fortunato, questa maschera che ti stringe fortissimo intorno alla testa, come se dovessi fare un'immersione subacquea ma senza stare solo mezzora/un'ora, ma 24 ore, facendo fatica sia ad inspirare l'ossigeno che ad espirarlo. Perchè questa fatica serve anche a far riaprire i polmoni colpiti da questa polmonite interstiziale. Un'esperienza drammatica", conclude.

Alla Fiera di Milano un ospedale per pochi. Solo sei persone. Il problema è che manca il personale sanitario: è già impegnato a pieno regime altrove. Francesca Del Vecchio il 12.04.2020 su Il Manifesto. A una settimana dall’apertura, l’Ospedale della Fiera di Milano – celebrato da Regione Lombardia nell’affollata conferenza stampa finita nel mirino del Codacons per gli assembramenti provocati – conta appena sei pazienti, tre dei quali arrivati nelle ultime 48 ore. Una struttura che con i suoi 24 posti, poi diventati 53, prometteva di dare supporto alle realtà ospedaliere lombarde in sofferenza ma che, di fatto, non riesce ancora a mettere a frutto le proprie potenzialità. Da quanto riferiscono fonti sanitarie, l’operatività di questo Covid-hospital è compromessa dall’assenza di personale, già impegnato a pieno regime nelle altre strutture del territorio. «L’80% di quello attualmente in servizio – spiegano dal Policlinico di Milano, che ha preso in carico la direzione sanitaria della nuova struttura – è interno al nostro ospedale, il restante 20% è stato reclutato attraverso i bandi delle Regione e della Protezione civile». Parliamo di circa 50 persone tra medici, infermieri, tecnici radiologi e di laboratorio e personale amministrativo, sufficiente solo per i pazienti attualmente presenti nella struttura. Come spiegano sempre dal Policlinico, «sono necessari, per ognuno, un anestesista e tre infermieri con esperienza di terapia intensiva su un turno di 8 ore». Il personale è stato spostato dall’Ospedale Maggiore e dalla Mangiagalli (clinica gestita dal Policlinico) su base volontaria. «Non possiamo dire che questa sia un’operazione che depotenzia le strutture privandole del personale», commenta Luciano Cetrullo, Responsabile aziendale sindacale Cisl Fp del Policlinico di Milano. «Né che sia un lazzaretto, anzi: il personale è altamente qualificato. Piuttosto, ho dei dubbi sull’utilità della struttura e sui costi», aggiunge. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’impressione – anche a detta di alcuni medici che preferiscono restare anonimi – è che il personale della fiera sia «come i carri armati di Mussolini», spostato da una parte all’altra per nascondere le falle del sistema. A nulla è servito infatti l’appello del governatore Fontana al collega piemontese (alleato di centro destra) Alberto Cirio, cui aveva proposto la disponibilità dei 53 posti di terapia intensiva in cambio di un «prestito» di medici e infermieri. Cirio aveva rifiutato e l’indomani si era già mosso per «raddoppiare i posti di terapia intensiva disponibili portandoli da 287 a quasi 600 e triplicando quelli di sub intensiva da 90 a 270», come aveva spiegato in una nota del 3 aprile. Dunque, conseguenza diretta della scarsità di personale è la mancanza di pazienti: i primi tre, trasferiti dal Policlinico il 7 aprile, non possono considerarsi un alleggerimento alla rianimazione dell’Ospedale maggiore, quanto uno spostamento «per riempire la fiera», dicono alcuni sanitari. Considerati anche i numeri dei ricoveri in terapia intensiva degli ultimi giorni, che accennano lentamente a diminuire, la prospettiva degli ulteriori 150 posti all’ospedale della fiera appare quantomeno irrealistica. Quanto ai costi, di cui ancora non è stata fornita alcuna rendicontazione, si teme che la spesa – pur trattandosi di fondi derivanti da donazioni private – sia stata eccessiva per una struttura che, con molte probabilità, verrà smantellata di qui a un anno. «Forse sarebbe stato meglio potenziare strutture già esistenti», commenta ancora Cetrullo. «Parliamo di una struttura clinica senza prospettive future, che – inoltre – non è dotata di tutti i reparti, ma solo della terapia intensiva». Terminata l’emergenza ci si chiede a cosa potrebbe servire una struttura simile. Una stoccata all’indirizzo di Palazzo Lombardia arriva anche da Vincenzo De Luca, presidente della Campania, al termine dei lavori per il Covid-Hospital di Napoli: «Abbiamo fatto un ospedale vero in 10 giorni. A Milano hanno fatto un’operazione analoga dentro la Fiera, ma è una struttura che andrà smantellata alla fine dell’epidemia. Quello realizzato in Campania rimarrà». A quanto pare, l’eccellenza lombarda di cui tanto hanno parlato il governatore Fontana e l’assessore Gallera ha ancora molta strada da fare per replicare il «modello Wuhan» preso come riferimento per la costruzione record dell’ospedale. A partire dai protocolli: primo tra tutti, il piano pandemico regionale. Datato 22 dicembre 2010.

"Gufate" e insulti. Così la sinistra infanga l'ospedale dei record. Realizzato a Milano in 10 giorni, è pronto per ospitare 157 pazienti. Ma i dem rosicano. Alberto Giannoni, Martedì 14/04/2020, su Il Giornale. Altri 104 posti consegnati. E ora avanti con i collaudi. Anche il secondo piano dell'ospedale in Fiera è stato terminato e a oggi sono 157 i posti-letto allestiti in totale. Presto si arriverà ai complessivi 208, assicurano i promotori. Voluto da Regione e Fondazione Fiera e inquadrato come un Padiglione del Policlinico, il centro è stato realizzato in 10 giorni effettivi per rispondere a esigenze diverse, attuali e in prospettiva, e non solo milanesi, come il governo ha riconosciuto. Eppure anche l'ospedale milanese è diventato oggetto di polemiche della sinistra, che vede pure in quest'opera un pretesto per screditare la Regione. Eppure tre giorni fa, in occasione del Centenario, anche il presidente Sergio Mattarella ha elogiato l'opera della Fiera in una lettera ai vertici dell'ente milanese. Attualmente il centro ospita 10 pazienti, 4 uomini e 6 donne. Il giorno in cui il progetto è stato presentato, il 19 marzo, è stato fra i più drammatici. Nelle 24 ore precedenti si erano registrati 319 decessi e il governatore Attilio Fontana aveva pronunciato un appello più accorato del solito: «State a casa o non potremo più curarvi». Nella notte precedente un volo aveva trasferito a Bari due pazienti di Bergamo. Uno dei due purtroppo era deceduto nonostante le manovre dei rianimatori sulla pista di atterraggio. La Regione aveva già messo mano a tutti gli sforzi per raddoppiare i posti della terapia intensiva, passati da 724 a 1.500. In quella fase si temeva che una ondata di contagi avrebbe potuto investire Milano, con esiti impensabili. E anche ora la città non ha del tutto scongiurato il rischio di una grave diffusione del virus. Gli attuali vertici della Protezione civile avevano dichiarato che per allestire un ospedale sarebbe servito un mese. Ebbene, dieci giorni dopo quel progetto era realtà. Il balletto della sinistra era già iniziato e non si è fermato il 31 marzo, giorno della conferenza stampa in Fiera. Il Pd Lombardia lo ha definito «uno show» «in pompa magna», «un vero e proprio assembramento», qualcuno sui giornali vide l'inaugurazione «di un focolaio» vista la presenza di giornalisti e operatori (peraltro distanziati e controllati coi termometri). Il Manifesto è arrivato a scrivere «nessuna traccia dell'hub annunciato da Fontana». Il Pd, dovendo criticare ogni giorno la Regione, ha finito per oscillare, dicendo tutto e il suo contrario. Prima qualcuno nel gruppo dem ha sostenuto l'ipotesi Legnano, seguendo un sindacato che voleva riaprire un vecchio ospedale del Milanese. Il capogruppo Fabio Pizzul ha liquidato la cosa come «un progetto settoriale». L'eurodeputato Pierfrancesco Majorino prima ha spiegato che non c'era «altro tempo da aspettare per l'ospedale in Fiera», poi ha profetizzato che avrebbe richiesto «tempi più lunghi» e ha sentenziato che «la partita si vince fuori dagli ospedali», infine lo ha definito «un piccolo passo ma significativo» e ieri ha rilanciato l'intervento di un comunicatore che ha parlato di tre pazienti riaprendo la bagarre. E anche le Sardine sono tornate a galla per contestare l'ospedale e chiedere addirittura le dimissioni di Fontana. Qualcuno sembra considerare negativo il fatto che i pazienti siano meno del previsto. In realtà l'ospedale risponde a una logica che l'assessore Giulio Gallera ha ricondotto al «modello israeliano». Realizzare in ogni provincia interi reparti o ospedali «pronti e attivati per le emergenze»: «Tutti dicono che le pandemie arrivano a ondate varie e qualcuno dice a ottobre potrebbe essercene un'altra». Anche gli esperti del Policlinico prevedono che dovremo fare i conti con ondate: una potrebbe verificarsi in autunno ma un nuovo aumento dei contagi potrebbe registrarsi anche prima, quando il «lockdown» sarà allentato. E intanto gli altri ospedali dovranno per forza tornare alla normalità, con sale operatorie, spazi e reparti riconvertiti alla loro destinazione fisiologica e originaria.

Francesco Borrelli:  Milano? Wuhan? NewYork?Londra? Eh No Amici, siamo a Napoli nel parcheggio dell'Ospedale del mare Costruzione del reparto terapia intensiva Crovid-19 tutto In 30 Ore.

Da corriere.it il 14 aprile 2020. A Milano? Wuhan? NewYork?Londra? Eh No Amici, siamo a Napoli nel parcheggio dell’Ospedale del mare Costruzione del reparto terapia intensiva Crovid-19 tutto In 30 Ore». Il tweet di Francesco Borrelli.

Napoli, reparto coronavirus costruito in 30 ore: “Meglio di Wuhan”. Antonino Paviglianiti il 13/04/2020 su Notizie.it.  A darne notizia su Facebook è il Consigliere Regionale Francesco Borrelli che ringrazia tutti per l'impegno. Napoli si sta distinguendo in positivo in merito alla lotta al coronavirus. A conferma di ciò, arriva anche la notizia della realizzazione di un reparto Covid-19, costruito in meno di 30 ore. A comunicarlo è Francesco Borrelli, Consigliere Regionale dei Verdi con un lungo post su Facebook. “Il nuovo ospedale Covid costruito nel lotto 2 dell’Ospedale del Mare è a buon punto. Nei prossimi giorni la struttura sanitaria con 72 posti sarà già operativa”. È quanto sottolineato da Borrelli sui social: “Per questo un enorme grazie va a quegli operai che anche a Pasqua e Pasquetta hanno lavorato senza sosta, così come il Direttore generale dell’Asl Napoli 1 Centro Ciro Verdoliva e tutto il personale. Un lavoro straordinario che permetterà a tutto il comparto sanitario della nostra regione di lavorare meglio e di salvare quante più vite è possibile”. Francesco Borrelli, consigliere regionale dei Verdi, ha inoltre sottolineato come questo sia: “Il segno di una Campania che sta affrontando con precisione, professionalità e tempestività l’emergenza sanitaria”. Per poi esaltare la realtà partenopea facendo un paragone con le grandi metropoli mondiali: “Milano? Wuhan? NewYork? Londra? Eh No Amici, siamo a Napoli nel parcheggio dell’ Ospedale del Mare”, ha concluso Francesco Borrelli. Il Cotugno, invece, è ospedale modello nella cura dei malati di coronavirus: il riconoscimento è stato attribuito da Sky Regno Unito che ha trasmesso in Gran Bretagna un lungo servizio sull’ospedale napoletano. Per l’emittente televisiva si tratta infatti di uno dei pochi ospedali che si sta contraddistinguendo per organizzazione e qualità del servizio offerto. Un risultato incredibilmente importante per la sanità campana che di solito non viene proposta in questi termini e che sconta molti anni di commissariamento e tagli ai bilanci delle aziende ospedaliere.

Coronavirus, il Cotugno di Napoli è l’ospedale modello con zero contagi. Sky Uk trasmette un lungo reportage sulla struttura partenopea, una delle poche in cui non si è avuto contagio di personale sanitario. Vera Viola su ilsole24ore.com il 2 aprile 2020. Il Cotugno è ospedale modello nella cura dei malati di Covid19: il riconoscimento viene da Sky Regno Unito che ha trasmesso in Gran Bretagna un lungo servizio sull’ospedale napoletano. Per l’emittente televisiva si tratta infatti di uno dei pochi ospedali in cui non è stato contagiato neanche un medico o infermiere. Ma non solo. La struttura napoletana viene indicata come la migliore in Italia per organizzazione e qualità del servizio offerto. Un risultato incredibilmente importante per la sanità campana che di solito non viene proposta in questi termini e che sconta molti anni di commissariamento e tagli ai bilanci delle aziende ospedaliere.

Personale e pazienti in sicurezza. Nel lungo video, mandato in onda due giorni fa in Gran Bretagna, il giornalista fa notare guardie di sorveglianza in tutti i reparti e corridoi, un percorso di disinfezione automatica che somiglia allo scanner di un aeroporto. Lo staff che assiste i pazienti indossa maschere molto avanzate simili a quelle antigas, tute ermetiche. I malati sono isolati tra di loro. Tra la stanza del malato in rianimazione e il resto del reparto si comunica attraverso una finestra.

Il direttore Conenna: «Grazie a una lunga esperienza». «Siamo partiti presto e abbiamo reagito correttamente – riflette il direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera dei Colli che riunisce Cotugno, Santobono e Monaldi, Rodolfo Conenna – Il Cotugno aveva alle spalle esperienze ultradecennali: il colera, l’HIV, la Sars, l’Ebola. Oltre al fatto che normalmente questo ospedale gestisce malattie infettive non epidemiche, come la meningite». In breve tempo è stato completato il Padiglione G la cui costruzione era stata interrotta, realizzando in esso 80 nuovi posti di terapia sub intensiva. Ospitiamo 200 pazienti Covid19 al giorno. Intanto è in corso l’allestimento di una nuova sala operatoria ibrida dedicata a operazioni urgenti di pazienti Covid.

La formazione del personale sanitario. Altro tema molto delicato è quello della formazione di infermieri e operatori socio sanitari che in altre numerose realtà, specie in quelle di nuova costituzione, è stata causa di ampio contagio. «Abbiamo avuto necessità di ampliare l’organico e perciò abbiamo assunto 150 infermieri e 25 medici in un solo mese – racconta ancora Conenna – I nuovi assunti sono stati messi in squadra con infermieri esperti che hanno assunto anche il ruolo di formatori. In una settimana abbiamo ottenuto una sufficiente preparazione. Oggi l’organico del Cotugno conta 100 medici e 600 tra infermieri e operatori socio sanitari».

I dispositivi di protezione. Al Cotugno i dispositivi di protezione non sembrano carenti e sono per lo più diversi rispetto a quelli usati negli altri ospedali. Il personale indossa tute integrali, e maschere più simili a quelle antigas che alle PPf3. «Anche nell’approvvigionamento – spiega Conenna – siamo partiti prima grazie alla nostra vocazione ed esperienza. Usiamo per lo più prodotti non monouso, soprattutto per rianimazione e pronto soccorso, oltre a schermi facciali riutilizzabili. Veniamo riforniti di solito da agenti locali, ma in questi giorni facciamo ricorso anche ad altri. Devo dire che abbiamo penuria di tute integrali, e siamo in attesa del via libera dell’Istituto superiore di sanità per acquistarne di nuove».

Le prossime emergenze. «Adesso – riflette Conenna – c'è bisogno di luoghi a bassa assistenza, per i nuovi sospetti o positivi o per coloro che stanno per guarire. Meglio non l’albergo, poiché questo non garantisce sul piano delle misure per evitare il contagio, ma strutture ospedaliere in cui il ricoverato possa essere assistito da infermieri. A questo scopo la Regione Campania sta lavorando a un accordo con l’Aiop, l’associazione della sanità privata».

E ancora dopo?

«Nella fase tre – conclude il direttore sanitario – andrà potenziata la rete sul territorio: è lì che si dovrà lavorare per tenere a bada il virus finchè non avremo cure specifiche e un vaccino».

LOMBARDIA E LIQUIDITÀ, LA GRANDE BALLA. L’efficienza lombarda è caduta come un castello di carta. Aiutiamoli per costruire un Paese nuovo. Roberto Napoletano il 13 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Abbiamo scritto RI-FATE PRESTO e in modo franco abbiamo chiarito che non avremmo mai pensato di dovere ripetere un titolo che era un appello estremo (novembre 2011) per evitare il default sovrano dell’Italia. Purtroppo, ci sono due problemi interni non risolti che ci obbligano a ripetere l’appello perché rischiano di ipotecare il futuro del Paese e di fare dell’Italia la vittima numero uno della Grande Depressione mondiale da Pandemia. Il primo problema riguarda l’anomalia mondiale della Lombardia. Il prezzo enorme che l’intero Paese sta pagando per gli errori della sua classe dirigente politica e amministrativa all’origine di questa anomalia. Il sussiego irresponsabile con cui tutto ciò viene colpevolmente sottaciuto. Il secondo problema riguarda il decreto liquidità ribattezzato illiquidità perché nessuno vede un euro. Siamo davanti a una scandalosa macchina burocratica italiana che sforna a getto continuo provvedimenti di questo tipo. Sono insufficienti in tempi di pace semplicemente suicidi in tempi di guerra. Su entrambi i punti a rischiare è l’esecutivo Conte che ha il merito storico di avere salvato l’Italia chiudendola in tempo utile davanti alla furia contagiosa della anomalia Lombardia, ma non riesce a ingranare la marcia per costruire il Paese nuovo dove crollano tutti i tabù e le due Italie tornano a riunirsi. Se non disinnesca queste due mine parlando il linguaggio della verità e facendo le cose arriva alla partita finale europea indebolito e, cosa ancora più grave, espone il suo Paese a un rischio sovrano che scatta per la mancata protezione a debito della sua economia e gli effetti incontrollati della devastante Pandemia lombarda. Procediamo con ordine.

Punto uno. Il primo della classe che prende due a un compito può fare disastri incommensurabili. Ha bisogno di tempo per assorbire il colpo. Non è abituato, non capisce, moltiplica gli errori. Questo è il caso della Lombardia di oggi. Si misura con 10.901 decessi pari al 53% di quelli italiani e al 9,3% dei decessi globali, la città di Milano ogni giorno aumenta il numero dei contagiati dopo mesi di accertata Pandemia. Tutte le regioni del Sud messe insieme non fanno neanche un decimo dei morti registrati nella sola Lombardia. Sono 912. Questi sono i fatti. L’efficienza lombarda è caduta come un castello di carta e sono venuti fuori gli effetti della grande balla sanitaria, la Lombardia che riceve il triplo dei finanziamenti della Puglia e sacrifica il finanziamento degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno italiano sull’altare della rendita sanitaria privata. Si è smontata l’igiene pubblica, si sono resi inadeguati gli ospedali pubblici lombardi e si ha anche l’arroganza di continuare a non vedere la mostruosità fabbricata con le proprie mani fino al punto di fare di quegli ospedali abbandonati il nucleo della nuova Pandemia non globale ma tutta lombarda. Questo bisogna dirlo perché non si può assistere complici allo spot quotidiano di un presentatore televisivo mancato che risponde al nome di Giulio Gallera, assessore alla sanità della Lombardia, che legge bigliettini di bambini che ringraziano (?, chi?, perché?) mentre tiene il conto dei diecimilanovecento e passa morti lombardi con lo stesso distacco con cui si leggono i numeri di una tabellina dell’Ocse. Basta! Il governatore della Campania De Luca al confronto è uno statista e i fatti sotto gli occhi di tutti dimostrano che non è vero che tutta l’efficienza è al Nord e tutta l’inefficienza è al Sud. Ripartiamo da qui, ripartiamo dai meriti di Zaia in Veneto e dei Governatori del Sud che non si sono risparmiati. Ripartiamo dalla realtà e facciamo un Paese nuovo. Nell’ospedale devastato di Reggio Calabria hanno messo su in quattro e quattr’otto una area Covid separata, non hanno mischiato Covid e non Covid come si è fatto in Lombardia perfino nelle case di riposo per anziani. Gli ospedali pubblici della Sicilia, della Calabria, della Puglia hanno curato pazienti Covid lombardi, sono tutti guariti, hanno tutti ringraziato per la pulizia, l’ordine e l’efficienza delle cure. Loro hanno detto grazie. Hanno usato parole severe: siamo usciti dall’inferno, ci avete salvati. Mai Fontana, mai Gallera hanno detto grazie. A parti invertite non so come sarebbero andate le cose. Le cellule telefoniche misurano l’abissale differenza di comportamenti della comunità lombarda e delle comunità meridionali giustamente impaurite. Nella giornata di Pasquetta di ieri a Milano si è effettuato un terzo dei controlli di Roma, ma i milanesi multati sono più del doppio dei romani. Una grigliata di quattro gatti tutti fermati e multati in un quartiere popolare di Palermo permette alle tv italiane (non tutte) di continuare a fare un racconto non vero superato dai fatti e dalla storia. Solo che il clima è cambiato e le oche che scoprono con stupore l’eccellenza mondiale del Cotugno di Napoli ricevono il biasimo per sempre. Esprimono una leggerezza servile al luogo comune infranto che si scontra con il sentimento comune meridionale che è quello che oggi può salvare il Paese. Non si liberano dalla condanna perché il Coronavirus ha cambiato tutto. Ha fatto emergere l’inefficienza del mito, ha raccontato dove sono finiti davvero i soldi sottratti agli ospedali pubblici e agli asili nido del Sud. Raccontano di un Paese rovesciato e di una classe dirigente amministrativa lombarda che si è mangiata la laboriosità operosa dei lombardi. Per rifare un Paese nuovo si deve partire insieme dalla Grande Balla sanitaria. Il Sud sia amico e solidale con il Nord e non lo ripaghi con la stessa inefficiente moneta della protervia. Si mettano a frutto insieme le intelligenze e si riequilibri la spesa pubblica. Meno assistenzialismo farà bene al Nord.

Il secondo problema lo abbiamo esplorato in largo e in lungo. Lo possiamo liquidare con poche righe. O Conte riuscirà a piegare la burocrazia italiana cambiando il loro modo di operare o cambiando le teste di chi la guida o sarà la burocrazia che piegherà Conte al fallimento della sua azione di Governo. L’Europa ha aperto un ombrello gigantesco sopra i tetti delle fabbriche e delle famiglie italiane. Questo ombrello si chiama Banca Centrale Europea che ha 1100 miliardi a disposizione da spendere senza vincoli di destinazione tra un Paese e l’altro. Presidente Conte serve la garanzia bancaria al 100% e si vanno a scontare in Bce le sofferenze italiane che sono economiche prima che bancarie meridionali prima che settentrionali e non hanno nulla da spartire con la piaga terribile della criminalità organizzata che va invece combattuta senza pietà in Italia e fuori. I bonus, i prestiti, la cig devono prendere la forma di bonifici e arrivare sui conti correnti delle persone. Quando si ha un malato grave in casa prima lo si cura poi si pensa al resto che, nel nostro caso, sono i debiti da pagare. Non si può dire, come fanno al Tesoro, entro quattro mesi tutti avranno quello che devono avere perché quattro mesi oggi sono un’eternità. Spariscono le imprese, esplode la bomba sociale, la gente non sa cosa mangiare, dominano le mafie. Sappiamo che Conte è consapevole di tutto ciò. Cambi allora gli uomini, Presidente, altrimenti saranno loro a fare cambiare Lei. Non c’è più tempo da perdere. I rubinetti finanziari aperti dall’Europa aiutano e vanno sfruttati. Solo cambiando la macchina burocratica italiana e usando il debito e la benzina europea disponibile l’Italia potrà affrontare la risalita in casa e vincere la battaglia europea dei covibond. A questo punto, l’unico compromesso possibile è quello di risultato. Bisogna costruire insieme un Paese nuovo.

·         Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

Coronavirus, che cosa abbiamo imparato in una settimana di emergenza. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Un uomo di 38 anni inizialmente ricoverato all’ospedale di Codogno in gravi condizioni viene identificato come «paziente 1» del focolaio lombardo. Non è mai stato in Cina e si cerca dunque di rintracciare chi possa essere il «paziente zero», cioé una persona arrivata dalle zone a rischio in Cina che avrebbe veicolato per primo il virus in Italia. L’operazione è importante nelle prime fasi dell’epidemia per poter individuare e isolare chi ha avuto contatti con lui , nel tentativo di bloccare la diffusione della malattia. Nonostante le ricerche non è stato trovato iil «paziente zero» in Lombardia questo perché in Italia la metà dei casi identificati sono asintomatici e non avremmo saputo della loro positività se non li avessimo cercati. Oggi, dal momento che il numero dei contagi è molto alto, molti esperti valutano questa ricerca inutile perché questo paziente zero potrebbe essere già guarito e sfuggito ai controlli . Ora in Italia non si parla più di casi di importazione (i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani) ma di casi autoctoni: il virus viene trasmesso da persona a persona nei confini del nostro territorio: gli esperti parlano già di trasmissione terziaria o quaternaria.

Covid-19 - Situazione in Italia, da salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus. Nel nostro Paese è attiva fin dall'inizio della pandemia una rete di sorveglianza sul nuovo coronavirus. Il monitoraggio dell'epidemia dei casi di Covid-19 in Italia viene effettuato attraverso due flussi di dati giornalieri: il flusso dei dati aggregati inviati dalle Regioni coordinato da Ministero della Salute (prima con il solo supporto della Protezione Civile) e dal 25 giugno 2020 anche con il supporto di ISS, per raccogliere informazioni tempestive sul numero totale di test positivi, decessi, ricoveri in ospedale e ricoveri in terapia intensiva in ogni Provincia d’Italia. il flusso dei dati individuali inviati dalle Regioni all'Istituto Superiore di Sanità (Sorveglianza integrata Covid-19, ordinanza 640 della Protezione Civile del 27/2/2020), che comprende anche i dati demografici, le comorbidità, lo stato clinico e la sua evoluzione nel tempo, per un'analisi più accurata. Dal 25 giugno la scheda con l’aggiornamento quotidiano dei dati è stata integrata con i “casi identificati dal sospetto diagnostico” (casi positivi al tampone emersi da attività clinica) e “casi identificati da attività di screening” (indagini e test, pianificati a livello nazionale o regionale, che diagnosticano casi positivi al tampone). Tutti i dati sono consultabili anche sulla mappa interattiva (dashboard) del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. 

N.B. La conferma che la causa del decesso sia attribuibile esclusivamente al SARS-CoV-2 verrà validata dall'Istituto Superiore di Sanità. Il numero dei positivi totali può subire variazioni in base ad eventuali ricalcoli da parte delle Regioni interessate.

Report monitoraggio fase 2. Per la gestione della Fase 2 della pandemia in Italia è stato attivato uno specifico sistema di monitoraggio  (Sorveglianza settimanale Regioni), disciplinato dal decreto del ministero della Salute del 30 aprile 2020, sui dati epidemiologici e sulla capacità di risposta dei servizi sanitari regionali. Il monitoraggio è elaborato dalla cabina di regia costituita da ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Regioni.

Caratteristiche dei pazienti deceduti COVID-19 positivi. Ecco le principali caratteristiche dei pazienti deceduti sulla base dei dati ISS (ultimo aggiornamento 25 giugno 2020):

Età media  80 anni

Età mediana 82 anni (più alta di quasi 20 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione e la cui età mediana è di 62 anni)

Sesso

uomini 58%

donne 42%%

Patologie pregresse al momento del ricovero

Pazienti con 0 patologie pre-esistenti 4,1%

Pazienti con 1 patologia pre-esistente 14,5%

Pazienti con 2 patologie pre-esistenti 21,3%

Pazienti con 3 o più patologie pre-esistenti 60,1%

Aree geografiche con la percentuale maggiore di deceduti

Lombardia con 49,5%

Emilia Romagna con il 12,7%

Piemonte con il 8,9%.

Veneto con il 6%

Sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nelle persone decedute

febbre 76%

dispnea 73%

tosse 39%

diarrea 6%

emottisi 1%

I primi casi in Italia. I primi due casi di Coronavirus in Italia, una coppia di turisti cinesi, sono stati confermati il 30 gennaio dall'Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, dove sono stati ricoverati in isolamento dal 29 gennaio e dichiarati guariti il 26 febbraio. Il primo caso di trasmissione secondaria si è verificato a Codogno, Comune della Lombardia in provincia di Lodi, il 18 febbraio 2020.

Misure di contenimento. L'Italia ha bloccato il 30 gennaio con un'Ordinanza del ministro della Salute tutti i voli da e per la Cina per 90 giorni, oltre a quelli provenienti da Wuhan, già sospesi dalle autorità cinesi.

Il Governo italiano ha dichiarato il 31 gennaio lo Stato di emergenza, stanziato i primi fondi e nominato Commissario straordinario per l'emergenza il Capo della protezione civile Angelo Borrelli.

Con il decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile del 5 febbraio 2020 è stato istituito un Comitato tecnico-scientifico per fronteggiare emergenza, poi ampliato con ordinanza del 18 aprile 2020.

Come previsto dal Decreto legge 18 del 2020, il Presidente del Consiglio dei Ministri con decreto del 18 marzo 2020 ha nominato Domenico Arcuri Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Il Consiglio dei ministri ha varato un primo decreto legge  il 23 febbraio 2020 con misure per il divieto di accesso e allontanamento nei comuni dove erano presenti focolai e la sospensione di manifestazioni ed eventi.

Successivamente sono stati emanati i seguenti decreti attuativi: il Dpcm 25 febbraio 2020, il Dpcm 1° marzo 2020, il Dpcm 4 marzo 2020, il Dpcm 8 marzo 2020, il Dpcm 9 marzo 2020 #Iorestoacasa, il Dpcm 11 marzo 2020 che chiude le attività commerciali non di prima necessità.

Tra le misure adottate l'ordinanza 22 marzo 2020, firmata congiuntamente dal Ministro della Salute e dal Ministro dell'Interno, che vietava a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati un comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute.

Il Governo ha poi emanato con il Dpcm 22 marzo 2020 nuove ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. Il provvedimento prevedeva la chiusura delle attività produttive non essenziali o strategiche. Restano aperti alimentari, farmacie, negozi di generi di prima necessità e i servizi essenziali. Le stesse disposizioni si applicano, cumulativamente al Dpcm 11 marzo 2020 nonché a quelle previste dall’ordinanza del Ministro della salute del 20 marzo 2020 i cui termini di efficacia, già fissati al 25 marzo 2020, sono entrambi prorogati al 3 aprile 2020.

Con il DPCM 1 aprile 2020, tutte le misure per contrastare il diffondersi del contagio da coronavirus sono state prorogate fino al 13 aprile 2020. Il decreto entrato in vigore il 4 aprile sospende anche le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, all’interno degli impianti sportivi di ogni tipo.

In seguito con il DPCM 10 aprile 2020 tutte le misure sono state prorogate fino al 3 maggio. Il Decreto ha permesso la riapertura dal 14 aprile dei negozi per neonati e bambini, librerie e cartolibrerie.

Con il DPCM 26 aprile 2020 sono specificate le misure per il contenimento dell'emergenza Covid-19 della cosiddetta "fase due” .

Le disposizioni del decreto si applicano a partire dal 4 maggio 2020 in sostituzione di quelle del DPCM 10 aprile 2020 e sono efficaci fino al 17 maggio 2020, a eccezione di quanto previsto per le attività di imprese, che si applicano dal 27 aprile 2020 cumulativamente.

Il Decreto legge 33 del 2020 disciplina la fine delle limitazioni agli spostamenti e la riapertura delle attività produttive, commerciali, sociali a partire dal 18 maggio e fino al 31 luglio.

Con il DPCM 17 maggio 2020 vengono definite le misure di prevenzione e contenimento per la convivenza con il coronavirus.

Infine, con il DPCM 11 giugno 2020 viene autorizzata la ripresa di ulteriori attività.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RENDICONTO REGIONE PER REGIONE:

Fonte: Bollettino giornaliero del Ministero della Salute Salute.gov.it

 

 

CONTAGIATI Febbraio 2020

REGIONE

7

21

23

24

25

26

27

28

29

VALLE D’AOSTA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PIEMONTE

 

 

6

4

3

11

2

11

11

LOMBARDIA

 

14

88

167

340

258

403

531

615

VENETO

 

15

24

27

43

71

111

151

191

TRENTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BOLZANO

 

 

 

 

1

1

1

1

1

FRIULI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIGURIA

 

 

 

 

1

1

19

19

42

EMILIA ROMAGNA

 

 

9

18

26

47

97

145

217

SAN MARINO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TOSCANA

 

 

 

 

2

2

2

8

11

UMBRIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MARCHE

 

 

 

 

 

1

1

6

11

SARDEGNA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LAZIO

3

 

3

3

3

3

3

3

6

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ABRUZZO

 

 

 

 

 

 

1

1

2

MOLISE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAMPANIA

 

 

 

 

 

 

3

4

13

PUGLIA

 

 

 

 

 

 

1

3

3

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CALABRIA

 

 

 

 

 

 

 

1

1

SICILIA

 

 

 

 

3

3

4

4

4

 

 

 

Totale:

50 guariti

1.049 attualmente positivi

29 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Marzo 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

 

VALLE D’AOSTA

 

 

 

 

 

7

8

9

15

 

PIEMONTE

49

51

56

82

108

143

207

360

350

 

LOMBARDIA

984

1254

1520

1820

2251

2612

3420

4189

5469

 

VENETO

263

273

307

360

407

488

543

670

744

 

TRENTO

 

 

4

5

7

10

14

23

33

 

BOLZANO

1

1

1

1

1

4

9

9

9

 

FRIULI

6

9

13

18

21

31

42

57

93

 

LIGURIA

25

22

24

26

28

32

51

78

109

 

EMILIA ROMAGNA

285

335

420

544

698

870

1010

1180

1386

 

SAN MARINO

 

 

 

 

 

3

3

3

3

 

TOSCANA

13

13

19

38

61

79

113

166

208

 

UMBRIA

2

2

8

9

9

16

24

26

28

 

MARCHE

25

35

61

84

124

159

207

272

323

 

SARDEGNA

 

 

1

2

2

5

5

11

19

 

LAZIO

6

7

14

30

44

54

76

87

102

 

VATICANO

 

 

 

 

1

1

1

1

1

 

ABRUZZO

5

5

6

7

8

9

11

17

30

 

MOLISE

 

 

3

3

7

12

14

14

14

 

CAMPANIA

17

17

30

31

45

57

61

101

120

 

PUGLIA

3

4

6

9

14

17

26

40

50

 

BASILICATA

 

 

1

1

1

3

3

4

5

 

CALABRIA

1

1

1

1

2

4

4

9

11

 

SICILIA

9

7

7

18

18

24

35

53

54

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Marzo 2020

REGIONE

10

11

12

13

14

15

16

17

1

 

VALLE D’AOSTA

17

20

27

28

42

57

105

136

 

 

PIEMONTE

453

501

580

840

873

1111

1516

1897

 

 

LOMBARDIA

5791

7280

8725

9820

11685

13272

14649

16220

 

 

VENETO

856

1023

1384

1595

1937

2172

2473

2704

 

 

TRENTO

52

77

107

163

206

378

378

385

 

 

BOLZANO

38

75

104

125

173

204

241

291

 

 

FRIULI

116

126

167

257

301

347

386

394

 

 

LIGURIA

141

194

274

345

643

559

667

778

 

 

EMILIA ROMAGNA

1533

1739

1947

2263

2644

3093

3522

3931

 

 

SAN MARINO

60

66

69

73

98

98

102

106

 

 

TOSCANA

264

320

364

470

630

781

866

1053

 

 

UMBRIA

37

46

64

76

107

143

164

197

 

 

MARCHE

394

479

592

725

899

1133

1242

1371

 

 

SARDEGNA

20

37

39

43

47

77

107

117

 

 

LAZIO

116

150

200

277

357

436

523

607

 

 

VATICANO

1

1

1

1

1

1

1

1

 

 

ABRUZZO

38

38

84

89

112

137

176

229

 

 

MOLISE

15

16

16

17

17

17

21

25

 

 

CAMPANIA

127

154

179

220

272

333

400

460

 

 

PUGLIA

59

77

104

129

166

230

230

340

 

 

BASILICATA

7

8

8

10

10

11

12

20

 

 

CALABRIA

13

19

33

33

60

68

89

114

 

 

SICILIA

62

83

115

130

156

188

213

237

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Marzo 2020

REGIONE

18

19

20

21

22

23

24

25    

1

 

VALLE D’AOSTA

165

215

264

313

364

393

400

401

 

 

PIEMONTE

2341

2932

3461

4617

4420

4861

5515

6024

 

 

LOMBARDIA

17713

19884

22264

25515

27206

28761

30703

32346

 

 

VENETO

3214

3484

4031

4617

5122

5505

5948

6442

 

 

TRENTO

455

523

642

782

954

1023

1110

1222

 

 

BOLZANO

376

436

548

621

678

724

781

858

 

 

FRIULI

462

599

656

790

874

930

992

1139

 

 

LIGURIA

887

1059

1221

1436

1665

1924

2116

2305

 

 

EMILIA ROMAGNA

4525

5214

5968

6705

7555

8535

9254

10054

 

 

SAN MARINO

109

126

133

136

151

163

162

163

 

 

TOSCANA

1330

1482

1793

2012

2277

2461

2699

2972

 

 

UMBRIA

247

334

395

462

521

577

648

710

 

 

MARCHE

1568

1737

1981

2153

2461

2569

2736

2934

 

 

SARDEGNA

134

206

293

330

339

359

421

442

 

 

LAZIO

724

823

1008

1190

1383

1540

1728

1901

 

 

VATICANO

1

1

1

1

1

1

1

5

 

 

ABRUZZO

263

385

449

529

587

663

689

813

 

 

MOLISE

28

46

50

61

66

67

73

73

 

 

CAMPANIA

460

652

749

844

936

1026

1101

1199

 

 

PUGLIA

383

478

581

675

786

906

1005

1093

 

 

BASILICATA

27

37

52

66

81

90

92

113

 

 

CALABRIA

129

169

207

235

273

292

319

351

 

 

SICILIA

282

340

408

490

630

721

846

994

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Marzo 2020

REGIONE

26

27

28

29

30

31

VALLE D’AOSTA

408

452

511

511

584

628

PIEMONTE

6534

7092

7671

8206

8712

9301

LOMBARDIA

34889

37298

39415

41007

42161

43208

VENETO

6935

7497

7930

8358

8724

9155

TRENTO

1297

1391

1505

1594

1682

1746

BOLZANO

906

1003

1109

1214

1325

1371

FRIULI

1223

1317

1436

1480

1501

1593

LIGURIA

2567

2696

2822

3076

3217

3416

EMILIA ROMAGNA

10816

11588

12383

13119

13531

14074

SAN MARINO

192

196

196

193

192

230

TOSCANA

3226

3450

3817

4122

4412

4608

UMBRIA

802

884

969

1023

1051

1078

MARCHE

3114

3196

3373

3558

3684

3825

SARDEGNA

494

530

624

638

682

722

LAZIO

2096

2295

2505

2706

2914

3095

VATICANO

5

5

6

6

6

6

ABRUZZO

946

1017

1133

1293

1345

1401

MOLISE

103

109

123

127

134

144

CAMPANIA

1310

1454

1592

1759

1952

2092

PUGLIA

1182

1334

1458

1549

1712

1803

BASILICATA

134

151

182

202

214

226

CALABRIA

393

494

555

614

647

659

SICILIA

1164

1250

1359

1460

1555

1647

 

 

 

 

Totale:

15.729 guariti

77.637 attualmente positivi

12.428 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Aprile 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

VALLE D’AOSTA

631

668

719

748

782

805

835

850

861

879

902

PIEMONTE

9795

10353

10896

11709

12362

12924

13343

13883

14522

15012

16008

LOMBARDIA

44773

46065

47520

49118

50455

51534

52325

53414

54802

56048

57592

VENETO

9625

10111

10464

10824

11226

11588

11925

12410

12933

13421

13768

TRENTO

1870

2003

2109

2220

2285

2348

2476

2602

2708

2816

2970

BOLZANO

1418

1479

1559

1592

1644

1722

1811

1835

1903

1955

1957

FRIULI

1685

1799

1879

1986

2048

2103

2153

2218

2299

2349

2393

LIGURIA

3660

3782

3965

4203

4449

4549

4757

4906

5020

5191

5376

EMILIA ROMAGNA

14787

15333

15932

16540

17089

17556

17825

18234

18677

19128

19635

SAN MARINO

195

194

201

251

258

265

273

302

250

260

268

TOSCANA

4867

5273

5499

5671

5847

6001

6173

6379

6552

6727

6958

UMBRIA

1095

1128

1179

1210

1239

1253

1263

1289

1298

1302

1309

MARCHE

3962

4098

4230

4341

4464

4614

4710

4859

4955

5084

5211

SARDEGNA

745

794

825

874

907

922

935

975

1026

1063

1091

LAZIO

3264

3433

3600

3757

3880

4031

4149

4266

4429

4583

4723

VATICANO

6

6

6

6

6

6

6

8

8

8

8

ABRUZZO

1436

1497

1563

1628

1703

1721

1799

1859

1931

2014

2120

MOLISE

160

165

176

206

224

224

224

226

234

243

246

CAMPANIA

2231

2456

2677

2828

2960

3058

3148

3268

3344

3442

3517

PUGLIA

1946

2077

2182

2240

2317

2444

2514

2634

2716

2809

2904

BASILICATA

237

246

261

264

278

287

291

297

303

308

312

CALABRIA

669

691

733

741

795

817

833

859

874

901

915

SICILIA

1718

1791

1859

1932

1994

2046

2097

2159

2232

2302

2364

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Aprile 2020

REGIONE

12

13

14

15

16

17

18

19

20

21

22

VALLE D’AOSTA

921

927

947

958

971

993

1073

1088

1088

1093

1095

PIEMONTE

16660

17134

17690

18229

19108

19803

20464

21057

21349

21955

22739

LOMBARDIA

59052

60314

61326

62153

63094

64135

65381

66236

66971

67931

69092

VENETO

14077

14251

14432

14624

14990

15374

15692

15935

16127

16404

16738

TRENTO

3053

3126

3141

3220

3294

3376

3431

3532

3590

3614

3646

BOLZANO

2098

2149

2184

2224

2267

2296

2325

2380

2394

2410

2416

FRIULI

2431

2482

2520

2544

2616

2675

2731

2745

2775

2792

2817

LIGURIA

5494

5596

5808

5936

6039

6188

6301

6528

6669

6764

6918

EMILIA ROMAGNA

20098

20440

20752

21029

21486

21834

22184

22560

22867

23092

23434

SAN MARINO

268

282

283

304

333

341

356

362

362

462

386

TOSCANA

7235

7390

7527

7666

7943

8110

8237

8372

8507

8603

8700

UMBRIA

1319

1320

1321

1322

1329

1337

1344

1348

1349

1353

1357

MARCHE

5303

5381

5426

5503

5582

5668

5721

5769

5826

5877

5994

SARDEGNA

1113

1128

1138

1161

1164

1178

1198

1215

1228

1236

1247

LAZIO

4845

4968

5111

5232

5380

5524

5668

5755

5815

5895

5975

VATICANO

8

8

8

8

8

8

8

8

9

9

9

ABRUZZO

2160

2213

2245

2274

2346

2443

2487

2521

2612

2667

2733

MOLISE

257

257

257

263

263

269

269

279

281

282

284

CAMPANIA

3604

3670

3769

3807

3887

3951

3988

4029

4074

4135

4185

PUGLIA

2989

3065

3118

3184

3258

3327

3409

3529

3567

3622

3730

BASILICATA

315

319

319

320

336

337

339

342

342

350

354

CALABRIA

923

928

956

971

1009

991

1011

1035

1038

1047

1060

SICILIA

2416

2458

2501

2535

2579

2625

2672

2717

2759

2835

2883

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Aprile 2020

REGIONE

23

24

25

26

27

28

29

30

 

 

 

VALLE D’AOSTA

1096

1100

1100

1106

1111

1119

1124

1128

 

 

 

PIEMONTE

23140

23822

24426

24820

25098

25450

25861

26289

 

 

 

LOMBARDIA

70165

71256

71969

72889

73479

74348

75134

75732

 

 

 

VENETO

16881

17229

17391

17471

17579

17708

17825

17960

 

 

 

TRENTO

3727

3776

3838

3894

3995

4025

4069

4116

 

 

 

BOLZANO

2435

2456

2476

2481

2496

2498

2507

2518

 

 

 

FRIULI

2858

2882

2903

2917

2977

2995

3010

3025

 

 

 

LIGURIA

7049

7173

7301

7488

7642

7772

7889

7993

 

 

 

EMILIA ROMAGNA

23723

23970

24209

24450

24662

24914

25177

25436

 

 

 

SAN MARINO

398

409

431

433

433

448

453

450

 

 

 

TOSCANA

8780

8877

9015

9147

9179

9231

9292

9352

 

 

 

UMBRIA

1362

1363

1366

1368

1370

1379

1391

1392

 

 

 

MARCHE

5952

6028

6058

6111

6127

6175

6210

6247

 

 

 

SARDEGNA

1254

1257

1271

1280

1283

1285

1290

1295

 

 

 

LAZIO

6054

6132

6224

6309

6392

6467

6545

6616

 

 

 

VATICANO

9

9

9

9

9

9

9

9

 

 

 

ABRUZZO

2785

2803

2832

2859

2874

2899

2923

2930

 

 

 

MOLISE

284

287

292

296

296

297

297

298

 

 

 

CAMPANIA

4238

4282

4299

4331

4349

4380

4410

4423

 

 

 

PUGLIA

3839

3881

3912

3948

3958

3980

4029

4072

 

 

 

BASILICATA

356

360

361

366

366

366

366

367

 

 

 

CALABRIA

1069

1079

1088

1089

1096

1097

1102

1108

 

 

 

SICILIA

2926

2981

3020

3055

3085

3120

3140

3166

 

 

 

 

 

 

 

Totale:

75. 945 guariti

101. 551 attualmente positivi

27.967 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Maggio 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

VALLE D’AOSTA

1133

1136

1142

1143

1143

1146

1150

1151

1152

1157

1158

PIEMONTE

26684

27179

27430

27622

27774

27939

28135

28368

28549

28665

28776

LOMBARDIA

76469

77002

77528

78105

78605

79369

80089

80723

81225

81507

81871

VENETO

18098

18224

18318

18373

18402

18479

18553

18618

18671

18722

18741

TRENTO

4132

4181

4247

4258

4261

4280

4283

4285

4292

4295

4297

BOLZANO

2528

2535

2536

2541

2542

2549

2552

2558

2567

2569

2572

FRIULI

3041

3059

3072

3076

3085

3094

3107

3116

3124

3130

3138

LIGURIA

8126

8312

8359

8412

8475

8551

8645

8723

8738

8788

8832

EMILIA ROMAGNA

25644

25850

26016

26175

26275

26379

26487

26598

26719

26796

26876

SAN MARINO

457

455

455

455

456

458

475

468

470

457

457

TOSCANA

9445

9525

9563

9601

9631

9657

9683

9721

9745

9774

9787

UMBRIA

1393

1394

1394

1394

1400

1404

1405

1406

1407

1411

1412

MARCHE

6275

6298

6319

6363

6392

6421

6452

6470

6493

6533

6543

SARDEGNA

1313

1315

1319

1317

1318

1319

1324

1330

1334

1340

1343

LAZIO

6672

6756

6809

6847

6914

6995

7034

7086

7133

7165

7190

VATICANO

9

9

9

10

10

10

10

10

10

10

10

ABRUZZO

2948

2964

2996

3000

3025

3047

3072

3078

3086

3103

3107

MOLISE

300

301

301

301

301

304

305

327

347

370

383

CAMPANIA

4444

4459

4484

4498

4518

4532

4541

4562

4576

4588

4602

PUGLIA

4099

4133

4144

4153

4170

4196

4245

4256

4286

4313

4327

BASILICATA

378

380

386

386

396

399

383

382

382

385

386

CALABRIA

1112

1112

1114

1118

1119

1122

1125

1126

1129

1132

1134

SICILIA

3194

3213

3240

3255

3267

3281

3288

3301

3313

3327

3339

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI Maggio 2020

REGIONE

12

13/14

15/16

17/18

19/20

21/22

23/24

25/26

27/28

29/30

31

VALLE D’AOSTA

1160

1166

1173

1174

1175

1177

1178

1181

1182

1183

1184

PIEMONTE

28889

29202

29483

29619

29885

30077

30180

30314

30445

30583

30637

LOMBARDIA

82904

83820

84518

85019

85775

86384

87110

87417

88183

88758

88968

VENETO

18782

18845

18928

18950

19030

19059

19086

10105

19125

19146

19152

TRENTO

4303

4315

4326

4351

4368

4388

4404

4415

4425

4429

4430

BOLZANO

2572

2578

2578

2582

2587

2590

2593

2593

2595

2596

2597

FRIULI

3148

3161

3183

3198

3209

3227

3236

3251

3262

3271

3273

LIGURIA

8863

8995

9111

9191

9289

9389

9480

9550

9605

9651

9663

EMILIA ROMAGNA

26929

27056

27182

27267

27364

27470

27558

27611

27701

27759

27790

SAN MARINO

460

435

414

400

395

366

357

349

306

272

 

TOSCANA

9802

9859

9913

9961

9982

10035

10062

10070

10086

10100

10104

UMBRIA

1419

1420

1422

1424

1427

1429

1430

1431

1431

1431

1431

MARCHE

6568

6603

6642

6678

6677

6697

6714

6718

6719

6727

6730

SARDEGNA

1344

1345

1352

1353

1355

1356

1356

1354

1355

1356

1356

LAZIO

7212

7291

7396

7485

7533

7589

7627

7661

7693

7715

7728

VATICANO

10

10

10

10

10

10

10

10

10

10

10

ABRUZZO

3115

3136

3178

3193

3205

3220

3226

3230

3237

3237

3244

MOLISE

386

403

410

422

422

426

432

432

435

436

436

CAMPANIA

4615

4639

4668

4695

4714

4733

4749

4767

4777

4797

4802

PUGLIA

4337

4357

4374

4386

4407

4440

4458

4469

4481

4490

4494

BASILICATA

387

389

390

392

393

394

399

399

399

399

399

CALABRIA

1138

1143

1151

1151

1156

1157

1157

1157

1158

1158

1158

SICILIA

3343

3366

3382

3395

3411

3421

3423

3430

3438

3442

3443

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI  2020

REGIONE

giugno

luglio

agosto

settembre

ottobre

novembre

dicembre

VALLE D’AOSTA

1195

1208

1241

1314

3240

6535

7290

PIEMONTE

31349

31667

32881

35402

70636

169133

198886

LOMBARDIA

93901

96219

100075

106727

195744

411839

481959

VENETO

19286

20120

22929

27451

56953

148127

258680

TRENTO

4863

4975

5096

5992

9138

15889

22033

BOLZANO

2639

2717

2935

3539

8382

23871

29764

FRIULI

3308

3394

3769

4666

10841

31386

50742

LIGURIA

9977

10214

10951

13335

28608

52023

60881

EMILIA ROMAGNA

28492

29670

31922

35311

55841

124541

174141

TOSCANA

10250

10483

11858

14827

44263

104099

120917

UMBRIA

1441

1466

1793

2454

10179

23952

29188

MARCHE

6785

6884

7240

7955

14121

30143

42317

SARDEGNA

1366

1404

2193

3900

9431

21895

31478

LAZIO

8110

8647

11191

16475

46422

121449

164964

ABRUZZO

3287

3382

3777

4419

10552

28420

35723

MOLISE

445

471

525

655

1695

4773

6634

CAMPANIA

4690

4999

7066

12742

55740

156432

191407

PUGLIA

4531

4611

5440

7786

18622

55979

92359

BASILICATA

402

452

524

808

2199

8298

10982

CALABRIA

1181

1266

1491

1985

5065

17032

24265

SICILIA

3080

3288

4317

7118

21758

65085

94766

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Febbraio 2020

REGIONE

21

22

23

24

25

26

27

28

29

VALLE D’AOSTA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

PIEMONTE

 

 

 

 

 

 

 

 

0

LOMBARDIA

 

1

1

3

3

6

 

4

6

VENETO

1

 

 

1

 

 

 

 

0

TRENTO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

BOLZANO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

FRIULI

 

 

 

 

 

 

 

 

0

LIGURIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

EMILIA ROMAGNA

 

 

 

 

1

 

 

 

2

SAN MARINO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

TOSCANA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

UMBRIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

MARCHE

 

 

 

 

 

 

 

 

0

SARDEGNA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

LAZIO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

 

 

 

 

 

 

 

 

0

MOLISE

 

 

 

 

 

 

 

 

0

CAMPANIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

PUGLIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

CALABRIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

SICILIA

 

 

 

 

 

 

 

 

0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Marzo 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

 

VALLE D’AOSTA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

PIEMONTE

 

 

 

 

2

2

 

2

7

13

LOMBARDIA

 

15

18

29

36

38

39

57

77

333

VENETO

 

 

1

3

4

2

1

2

5

20

TRENTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

BOLZANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

FRIULI

 

 

 

 

 

 

 

 

1

1

LIGURIA

 

 

1

 

2

 

1

 

3

7

EMILIA ROMAGNA

5

3

8

4

7

7

11

7

15

67

SAN MARINO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

TOSCANA

 

 

 

 

 

 

 

 

1

1

UMBRIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

MARCHE

 

 

2

2

 

 

2

 

4

10

SARDEGNA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

00

LAZIO

 

 

 

 

 

1

 

 

4

5

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

MOLISE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

CAMPANIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

PUGLIA

 

 

1

 

 

 

1

 

1

3

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

CALABRIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

SICILIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Marzo 2020

REGIONE

10

11

12

13

14

15

16

17

 

 

VALLE D’AOSTA

 

1

 

 

 

 

1

 

 

2

PIEMONTE

4

4

5

20

13

22

30

22

 

133

LOMBARDIA

135

149

127

273

76

252

202

220

 

1420

VENETO

6

3

3

10

13

8

6

11

 

80

TRENTO

 

 

1

1

 

4

 

1

 

7

BOLZANO

 

 

1

1

1

2

1

2

 

8

FRIULI

2

3

2

2

 

4

8

8

 

30

LIGURIA

1

 

3

6

10

6

7

10

 

60

EMILIA ROMAGNA

18

28

33

55

40

43

62

47

 

393

SAN MARINO

 

3

2

 

2

 

2

2

 

11

TOSCANA

 

 

4

 

1

2

6

3

 

17

UMBRIA

 

 

 

1

 

 

 

 

 

1

MARCHE

3

5

4

5

9

10

11

12

 

69

SARDEGNA

 

 

 

 

 

2

 

 

 

2

LAZIO

1

 

3

2

2

3

3

4

 

23

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

1

 

1

 

 

1

1

2

 

6

MOLISE

 

 

 

 

 

 

1

 

 

1

CAMPANIA

 

1

 

1

 

7

 

 

 

9

PUGLIA

 

2

 

 

3

8

 

2

 

18

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

CALABRIA

 

 

 

 

 

1

 

 

 

1

SICILIA

 

 

2

 

 

 

 

1

 

3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Marzo 2020

REGIONE

18

19

20

21

22

23

24

25

 

 

VALLE D’AOSTA

1

3

1

1

1

3

7

5

 

24

PIEMONTE

21

21

34

29

45

32

59

75

 

449

LOMBARDIA

539

209

381

546

361

320

402

698

 

4474

VENETO

14

21

16

15

23

23

24

42

 

258

TRENTO

 

5

1

15

7

6

15

18

 

74

BOLZANO

1

5

3

3

3

6

9

5

 

43

FRIULI

1

5

2

4

5

7

19

6

 

70

LIGURIA

13

18

28

33

19

41

19

23

 

254

EMILIA ROMAGNA

65

73

109

75

101

76

93

92

 

1077

SAN MARINO

3

 

 

6

 

 

1

 

 

21

TOSCANA

5

16

9

25

19

18

20

13

 

142

UMBRIA

1

 

5

3

6

 

3

 

 

19

MARCHE

23

23

22

17

30

19

28

56

 

287

SARDEGNA

 

 

 

2

3

4

4

3

 

18

LAZIO

9

6

5

7

3

10

17

15

 

95

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

1

4

6

5

11

5

8

6

 

52

MOLISE

 

1

3

2

 

 

1

 

 

8

CAMPANIA

 

8

 

5

7

20

7

18

 

74

PUGLIA

1

6

1

3

2

6

7

4

 

48

BASILICATA

 

 

 

 

 

1

 

 

 

1

CALABRIA

 

2

1

1

2

 

3

1

 

11

SICILIA

 

 

1

2

2

5

7

5

 

25

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Marzo 2020

REGIONE

26

27

28

29

30

31

 

VALLE D’AOSTA

4

9

4

2

7

6

56

PIEMONTE

 

120

48

67

65

105

854

LOMBARDIA

387

541

542

416

458

381

7199

VENETO

29

26

49

30

21

64

477

TRENTO

12

16

18

9

18

17

164

BOLZANO

5

12

4

 

10

2

76

FRIULI

2

4

11

11

9

6

113

LIGURIA

26

51

27

19

20

31

428

EMILIA ROMAGNA

97

93

77

99

95

106

1644

SAN MARINO

 

 

1

2

1

1

26

TOSCANA

16

19

21

17

16

13

244

UMBRIA

1

1

7

3

2

4

37

MARCHE

23

26

28

22

31

35

452

SARDEGNA

1

2

5

1

1

3

31

LAZIO

11

12

6

12

14

12

162

VATICANO

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

11

5

8

12

14

13

115

MOLISE

 

1

 

 

 

 

9

CAMPANIA

9

15

11

8

8

8

133

PUGLIA

17

4

2

15

5

19

110

BASILICATA

 

2

 

1

 

2

7

CALABRIA

3

4

3

4

6

5

36

SICILIA

8

6

18

8

11

16

81

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Aprile 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

 

VALLE D’AOSTA

3

4

7

12

9

5

4

2

3

2

 

107

PIEMONTE

32

97

60

85

40

83

68

59

76

78

101

1633

LOMBARDIA

394

367

351

345

249

297

282

238

300

216

273

10511

VENETO

22

33

40

35

24

31

33

41

20

37

38

831

TRENTO

9

14

17

6

7

13

14

11

13

7

9

284

BOLZANO

40

13

10

7

12

6

10

9

4

4

9

200

FRIULI

9

7

7

9

9

4

6

5

2

8

6

185

LIGURIA

32

28

31

23

14

39

25

34

28

27

25

734

EMILIA ROMAGNA

88

79

91

75

74

57

72

54

82

81

84

2481

SAN MARINO

2

2

2

 

 

 

2

 

 

 

1

35

TOSCANA

9

15

22

17

18

25

19

23

16

46

13

467

UMBRIA

 

1

1

2

2

1

5

1

1

1

 

52

MARCHE

25

26

54

17

25

13

18

22

17

13

7

689

SARDEGNA

3

6

1

 

2

4

5

7

5

5

4

73

LAZIO

7

16

14

13

7

10

9

6

9

10

10

273

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

8

10

13

7

5

11

3

7

15

4

8

206

MOLISE

1

1

 

 

2

 

 

 

 

 

1

14

CAMPANIA

15

19

14

5

3

15

12

5

6

4

7

238

PUGLIA

19

15

20

9

9

13

14

19

6

13

15

253

BASILICATA

2

1

1

 

2

 

1

 

1

 

2

17

CALABRIA

2

3

4

4

7

2

2

 

1

4

1

66

SICILIA

7

5

8

10

5

7

2

8

5

10

6

154

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Aprile 2020

REGIONE

12

13

14

15

16

17

18

19

20

21

22

 

VALLE D’AOSTA

5

3

3

3

1

1

1

1

1

 

1

127

PIEMONTE

96

97

101

88

79

77

81

79

78

76

74

2559

LOMBARDIA

110

280

241

235

231

243

199

163

163

203

161

12740

VENETO

25

26

24

34

41

45

33

28

25

42

27

1181

TRENTO

9

7

10

4

4

20

6

12

6

10

5

381

BOLZANO

5

7

4

11

2

9

5

6

4

2

5

256

FRIULI

10

7

4

6

5

3

2

3

14

16

5

246

LIGURIA

15

11

33

14

21

38

31

31

29

33

32

1022

EMILIA ROMAGNA

83

51

90

83

55

60

62

58

56

68

57

3204

SAN MARINO

 

1

 

 

2

1

 

 

 

1

 

40

TOSCANA

28

23

20

18

29

17

16

19

30

19

19

705

UMBRIA

 

 

1

1

1

2

 

1

 

2

1

61

MARCHE

11

13

15

18

18

21

10

12

15

12

11

845

SARDEGNA

 

2

5

3

2

1

 

 

 

7

3

96

LAZIO

6

5

16

11

5

16

8

1

8

14

7

370

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

6

12

8

8

3

3

7

5

5

8

5

276

MOLISE

1

 

 

 

1

 

 

1

1

 

1

19

CAMPANIA

4

6

12

18

8

7

7

4

5

8

10

327

PUGLIA

7

7

11

10

11

8

7

2

10

25

11

351

BASILICATA

1

 

1

2

1

 

1

1

 

 

 

24

CALABRIA

 

1

1

3

1

1

 

2

 

1

 

76

SICILIA

9

8

4

6

6

3

6

4

3

3

2

208

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Aprile 2020

REGIONE

23

24

25

26

27

28

29

30

 

 

 

 

VALLE D’AOSTA

 

2

1

1

2

2

2

 

 

 

 

137

PIEMONTE

71

69

68

56

55

58

67

63

 

 

 

3066

LOMBARDIA

200

166

163

56

124

126

104

93

 

 

 

13772

VENETO

25

38

44

27

29

64

29

22

 

 

 

1459

TRENTO

1

7

11

5

2

5

4

2

 

 

 

418

BOLZANO

5

2

2

4

1

2

2

1

 

 

 

275

FRIULI

10

2

5

1

7

7

7

4

 

 

 

289

LIGURIA

25

29

17

21

14

13

11

15

 

 

 

1167

EMILIA ROMAGNA

65

34

44

39

45

41

40

39

 

 

 

3551

SAN MARINO

 

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

41

TOSCANA

18

19

18

18

17

16

16

15

 

 

 

842

UMBRIA

 

1

1

1

1

 

1

1

 

 

 

67

MARCHE

12

8

9

5

5

9

6

7

 

 

 

906

SARDEGNA

2

4

1

6

 

 

7

 

 

 

 

116

LAZIO

5

9

3

2

8

17

17

10

 

 

 

441

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

4

6

7

2

4

11

5

5

 

 

 

320

MOLISE

1

 

1

 

 

 

 

 

 

 

 

21

CAMPANIA

5

4

5

4

7

6

1

 

 

 

 

359

PUGLIA

21

11

8

8

6

2

3

5

 

 

 

415

BASILICATA

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

 

25

CALABRIA

 

4

 

 

3

2

1

 

 

 

 

86

SICILIA

5

5

6

4

3

1

 

3

 

 

 

235

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Maggio 2020

REGIONE

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

 

VALLE D’AOSTA

 

 

1

1

 

 

 

 

 

 

 

139

PIEMONTE

31

29

26

34

64

31

35

23

26

36

33

3400

LOMBARDIA

88

329

42

63

95

222

134

228

85

62

68

15054

VENETO

20

23

14

12

17

23

21

38

16

14

9

1666

TRENTO

5

2

4

1

3

4

1

 

 

3

2

443

BOLZANO

3

1

2

3

2

 

 

3

1

 

 

290

FRIULI

5

1

2

2

4

3

2

 

 

2

2

312

LIGURIA

17

11

14

12

11

11

11

11

11

5

12

1293

EMILIA ROMAGNA

28

35

28

24

39

32

29

31

30

18

22

3867

SAN MARINO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

41

TOSCANA

12

9

9

9

8

10

16

15

7

5

8

950

UMBRIA

1

 

 

2

 

 

 

1

 

 

 

71

MARCHE

5

5

11

5

4

7

5

6

4

2

4

964

SARDEGNA

1

2

 

 

 

 

 

 

 

1

 

120

LAZIO

41

15

11

16

10

4

5

6

4

4

5

562

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

4

3

3

2

3

6

7

3

4

4

7

366

MOLISE

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

 

22

CAMPANIA

 

3

2

2

3

7

3

7

2

3

1

392

PUGLIA

6

1

2

5

4

5

3

2

 

5

3

451

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

1

 

1

 

 

27

CALABRIA

 

2

 

 

 

1

 

1

 

1

2

93

SICILIA

2

3

2

2

3

3

1

2

3

 

1

257

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI Maggio 2020

REGIONE

12

13/14

15/16

17/18

19/20

21/22

23/24

25/26

27/28

29/30

31

 

VALLE D’AOSTA

1

1

1

1

 

 

 

 

 

 

 

143

PIEMONTE

28

65

101

139

86

39

26

29

26

20

9

3867

LOMBARDIA

62

180

154

247

366

122

56

56

78

105

33

16112

VENETO

20

57

40

60

29

22

15

17

12

18

2

1918

TRENTO

2

3

5

 

2

 

2

4

1

 

 

462

BOLZANO

 

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

291

FRIULI

1

4

2

1

2

3

4

 

4

 

 

333

LIGURIA

8

28

17

21

19

21

12

12

14

14

6

1465

EMILIA ROMAGNA

18

45

75

26

22

29

18

21

18

13

7

4114

SAN MARINO

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

 

42

TOSCANA

9

14

6

10

9

11

4

8

8

8

4

1041

UMBRIA

 

2

 

 

1

 

1

 

 

1

 

76

MARCHE

5

5

8

2

3

3

4

2

1

 

 

997

SARDEGNA

 

5

 

1

 

2

1

1

 

 

 

130

LAZIO

4

29

21

12

19

22

15

9

15

20

7

735

VATICANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0

ABRUZZO

4

9

4

5

1

5

4

2

2

2

1

405

MOLISE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

22

CAMPANIA

1

1

2

3

2

3

1

 

5

1

1

412

PUGLIA

5

5

2

8

7

4

5

7

2

4

4

504

BASILICATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

27

CALABRIA

 

2

 

 

1

 

 

 

 

1

 

97

SICILIA

4

2

2

2

1

 

1

2

1

1

1

274

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI  2020

REGIONE

giugno

luglio

agosto

settembre

ottobre

novembre

Dicembre

 

VALLE D’AOSTA

3

0

0

0

22

149

64

381

PIEMONTE

223

39

56

18

237

1965

1657

7960

LOMBARDIA

532

162

221

90

670

4569

3099

25203

VENETO

94

62

46

58

281

1417

2811

6629

TRENTO

0

0

0

1

33

224

290

952

BOLZANO

1

0

0

0

20

222

208

742

FRIULI

12

0

3

3

49

439

806

1669

LIGURIA

93

9

4

33

203

630

494

2898

EMILIA ROMAGNA

146

29

203

21

168

1174

2003

7808

TOSCANA

63

30

7

23

204

1328

1027

3700

UMBRIA

4

0

0

5

46

289

210

625

MARCHE

0

0

0

3

32

257

305

1581

SARDEGNA

3

1

0

20

93

222

302

751

LAZIO

102

26

15

40

334

1219

1361

3792

ABRUZZO

59

8

0

9

78

356

312

1218

MOLISE

1

0

0

1

14

83

72

192

CAMPANIA

20

3

10

18

228

1048

1143

2864

PUGLIA

41

7

4

39

167

794

964

2481

BASILICATA

0

1

0

1

21

104

103

256

CALABRIA

0

0

0

3

19

185

178

479

SICILIA

8

1

3

25

216

1087

851

2440

 

 

Totale:

2.129.376 casi totali

1.479.988 guariti

74.621 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Segue bollettino ufficiale del 1 gennaio 2021 riferito ai dati del 31 dicembre 2020

(ANSA l'8 ottobre 2020) - Sono 407 i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni pari all'1% del totale di 36.008. In particolare, 89 avevano meno di 40 anni e, di questi, 14 non avevano diagnosticate patologie di rilievo. E' quanto emerge dal Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da Sars-Cov-2 in Italia, realizzato dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss), aggiornato al 4 ottobre e che mostra come nei tre mesi estivi sia anche aumentata l'età media dei decessi. "Il dato - scrive l'Iss in un tweet - può essere spiegato da maggiori conoscenze sull'infezione e maggiori capacità di cura". L'età media dei pazienti deceduti e positivi a Sars-Cov-2 è 80 anni ed è più alta di oltre 25 anni rispetto a quella di coloro che hanno contratto l'infezione. Mettendo a confronto le caratteristiche dei decessi nei 2 trimestri marzo-maggio e giugno-agosto 2020, emerge dal Rapporto Iss, si nota come nel secondo trimestre aumenta leggermente l'età media (da 77,8 a 81,7 anni) e aumentano i decessi di persone con 3 o più patologie preesistenti, soprattutto fibrillazione atriale e demenza, più che raddoppiate. L'insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comune nei pazienti deceduti (94,7% dei casi), seguita da danno renale acuto (23,2%), sovrainfezione (18,2%) e danno miocardico acuto (10,9%). La terapia antibiotica è stata comunemente utilizzata nel corso del ricovero (86,6% dei casi), meno usata quella antivirale (57,9%), più raramente la terapia con corticosteroidi (43,5%). In 1138 casi (26,3%) sono state utilizzate tutte e tre le terapie.

Coronavirus in Italia, dal blocco dei voli alla quarantena: ecco gli errori commessi e quelli da evitare. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Lo stop dei voli dalla Cina: è stata questa la prima misura che il governo italiano ha preso per contrastare l’epidemia da nuovo coronavirus. Ma non è stato sufficiente. E adesso ci si chiede se tante delle misure via via adottate sono state utili. Sono uno strumento che permette di controllare i contatti delle persone con diagnosi di Covid-19, nome della malattia provocata dal SARS-CoV 10, il nuovo coronavirus responsabile di quasi 300 casi in Italia. È stato utilizzato dalla Regione Veneto per selezionare anche i contatti che al momento del prelievo non hanno sintomi. Uno screening allargato che può aver determinato l’impennata del numero di casi rilevati, a differenza di altri Paesi come la Francia dove vengono controllati col tampone faringeo solo i sintomatici. «Il problema è che una parte dei test possono risultare negativi se effettuati in una fase molto precoce dell’infezione. Quindi andrebbero ripetuti in un secondo momento», analizza Pier Luigi Lo Palco, docente di igiene all’università di Pisa. I tamponi sono uno strumento indispensabile per individuare in fase precoce l’infezione. Ma un’organizzazione di questo tipo è difficilmente sostenibile: «I laboratori si intasano, il rischio è di ritardare i tempi di risposta a analisi di diverso tipo comunque urgenti. Non credo che i nostri servizi sanitari regionali possano permettersi un carico del genere». Chiusure di scuole, mercati, uffici, cinema, luoghi ricreativi. Sono efficaci per ridurre la trasmissione di malattie respiratorie virali? Secondo l’epidemiologo dell’istituto internazionale di prevenzione di Lione, ex capo del dipartimento di prevenzione del Ministero della Salute, la risposta è in sospeso in quanto sulla valutazione di queste misure profilattiche «non medicali, di natura sociale» non esisto studi: «I risultati non sono conclusivi, al contrario: esistono buone prove scientifiche sull’efficacia di protezione individuale quali l’isolamento domiciliare e il lavaggio delle mani». Tuttavia, continua Greco, essendo il coronavirus un virus di trasmissione interumana «appare assolutamente razionale il concetto che ridurre le probabilità di incontro tra persone, riduce anche la possibilità che i relativamente pochi individui infetti in fase di propagazione del virus possano incontrare individui suscettibili al contagio e infettarli». Questo sistema è stato introdotto in Italia contestualmente alla chiusura dei voli diretti dalla Cina e poi ampliato a tutti i passeggeri a partire dagli scali più trafficati, Fiumicino e Malpensa. Per fronteggiare l’urgenza di schierare un numero di rilevatori sufficiente sono stati arruolati con un bando anche i medici di medicina generale in formazione. Il sistema è basato sulla possibilità di individuare persone con febbre. Il problema è che la febbre è un sintomo legato a a tanti germi, non solo al coronavirus, mentre non vengono identificati possibili infetti con Covid-19 in fase di incubazione, ammalati con poca febbre oppure asintomatici. Secondo Donato Greco: «La sensibilità e la specificità di questi controlli» sono molto bassi. Da sabato 22, dopo la scoperta di focolai epidemici, è stata decisa la progressiva chiusura alla circolazione di mezzi e persone a 10 comuni del lodigiano, in Lombardia, e uno del Veneto. Iniziative che hanno una elevata probabilità di ridurre il rischio di trasmissione da individui infetti a persone sane, proteggendo anche persone in fase di incubazione o individui infetti ma senza sintomi. Misure efficaci, è il parere di Greco, «ma con un elevato costo sociale e economico, andrebbero confrontate con l’effettiva efficacia nel ridurre il rischio. Pur mancando prove certe restano però l’unica alternativa possibile per contenere il contagio». Non è un caso che in Cina intere città siano state chiuse per giorni e giorni e che a un mese e mezzo dalle prime restrizioni si stia valutando la riapertura di alcune attività produttive. L’Italia è stata il primo Paese al mondo a chiudere, non senza attirare polemiche, gli scali italiani ai voli diretti dalla Cina. Ora la domanda è se quell’altolà imposto ai viaggiatori cinesi provenienti dalle zone infette è stato inutile senza che contemporaneamente fosse previsto il controllo dei passeggeri in arrivo da scali intermedi. Poi si è cominciato a discutere se revocare Shengen, l’accordo per la libera circolazione di mezzi e persone nell’Ue. Interrogativi che lasciano il tempo che trovano, secondo Pier Luigi Lo Palco, professore di igiene all’università di Pisa: «Ogni ulteriore iniziativa di blocco aereo sarebbe stato inutile. A fine gennaio molto probabilmente il coronavirus era già in Italia. Oggi i casi sono quasi a 300 e per arrivare a questi numeri sono necessarie settimane calcolando che per decuplicarli servono 7 giorni di tempo». Lo Palco chiarisce però che dare lo stop ai voli può contribuire a ritardare la diffusione dell’epidemia: «Se avessimo lasciato libero il virus di muoversi avremmo rischiato l’effetto Wuhan», la città dove il primo focolaio si è sviluppato. Per il virologo Giorgio Palù «è stata abbassata la guardia per alcuni giorni, circa 20-30. Venezia e Milano sono il secondo e terzo scalo italiano. Nel nord si concentrano attività industriali e fieristiche, gli scambi sono intensi. Questo coronavirus ha una mortalità significativamente più bassa di Ebola e SARS e si è adattato meglio alla struttura umana». Walter Ricciardi, oggi consigliere del governo italiano per le relazioni con l’Organizzazione mondiale della sanità, dà un parere da ricercatore: «Come ribadito a più riprese dall’Oms, è una decisione che alla base non ha alcuna evidenza scientifica, anzi può essere controproducente perché tramite altri scali possono comunque entrare altre persone delle quali si perde il controllo». La quarantena è la misura di prevenzione più antica del mondo, attuata per la prima volta ai tempi della peste alle navi in arrivo a Venezia che potevano attraccare. Viene considerato oggi il sistema più efficace per contenere le epidemie. Secondo Giovanni Rezza, capo del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, «può ridurre i casi di infezione sensibilmente». Altro strumento valido è evitare che i pazienti con la malattia arrivino al pronto soccorso o negli studi dei medici di famiglia, circostanza che invece si è verificata all’ospedale di Codogno, dove il focolaio italiano si sarebbe sviluppato. Lo screening dei pazienti su cui concentrare il sospetto di collegamento con l’infezione da nuova coronavirus viene effettuato con il «triage» telefonico, cioè una valutazione a distanza fatta attraverso una serie di domande.

Coronavirus, parla Walter Ricciardi: "In tempi di epidemia lasciar scegliere le Regioni è un pericolo per l'Italia". Il membro dell'Oms e consulente del governo: "Le prossime due settimane saranno decisive". Michele Bocci il 27 febbraio 2020 su La Repubblica. Walter Ricciardi. Lunedì è stato nominato dal ministro della Salute Roberto Speranza "consigliere per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali". Nel giro di un paio di giorni, Walter Ricciardi si è già ambientato nel suo nuovo ruolo. Ha analizzato errori, dato consigli e ora avverte: con un'emergenza come questa una gestione frammentata, su base regionale, del sistema sanitario può avere effetti letali.

Lei non ha risparmiato critiche al governo, per le misure prese e per quelle non prese prima dell'arrivo della malattia. Perché l'hanno chiamata e perché ha accettato?

"Perché mi hanno chiesto di collaborare non lo so, va domandato a loro. Io ho detto sì perché ritengo che ora ci si debba mettere al servizio del Paese, che è in un momento difficilissimo. Io sono un medico di sanità pubblica e questo è il mio mestiere. Riguardo alle mie dichiarazioni dei giorni scorsi, gli scienziati hanno il dovere di dire sempre la verità, anche quando è scomoda".

Che clima ha trovato?

"Sono rimasto sorpreso dal ministro Roberto Speranza, che ho conosciuto tre giorni fa. È una persona perbene, cerca di risolvere una situazione che metterebbe a dura prova qualsiasi politico. Avrei comunque detto sì alla richiesta del ministero, ma ora sono anche più convinto".

Sono stati commessi degli errori dopo i primi casi in Lombardia e Veneto?

"L'Italia ha una debolezza: il sistema è frammentato, è in mano alle Regioni e lo Stato ha solo ruoli limitati. In tempi normali questo è anche accettabile ma in tempi di epidemia come questo può avere effetti letali, perché in certi frangenti va adottata una linea unitaria, che faccia prendere misure proporzionate. E invece spiccano casi di inadeguatezza decisionale. Penso alle Marche, che chiudono le scuole per un caso in una regione vicina. In generale, un altro errore è la deroga a evidenze e protocolli. Così si allarmano le persone".

Si riferisce al gran numero di tamponi effettuati in questi giorni?

"Anche. Finalmente abbiamo deciso che vengano fatti solo a chi ha i sintomi di un'infezione respiratoria e proviene da una zona a rischio, anche italiana, o ha avuto contatti con i malati. Bisognava fare così da subito e invece ci troviamo con tanti casi sospetti, per i quali manca ancora una conferma. Per non parlare dei tanti possibili falsi positivi che si generano. In più c'è un errore che si potrebbe definire strutturale".

Quale?

"Quando hai davanti un cluster di casi devi usare l'epidemiologia di campo, che è una sofisticata tecnica investigativa. Ci sono pochi esperti in Italia, non in ogni Regione. All'Istituto superiore di sanità avevamo una grande scuola per questo tipo di professionisti. In un Paese serio queste competenze non si tagliano. E invece gli epidemiologi e i medici di sanità pubblica negli anni passati sono stati decimati. Per forza poi non si trova il paziente zero, non abbiamo gli investigatori adatti a cercarlo".

Che cosa, invece, è stato fatto bene?

"Le procedure del ministero sono state corrette, hanno cercato di fare tutto al meglio ma come ho detto i problemi di competenza in materia sanitaria sono stati un ostacolo".

Quanto fa paura il coronavirus?

"Non è da sottovalutare ma non parliamo neanche di Ebola. Nell'80% dei casi decorre in modo benigno, nel 15% si cura efficacemente, e nel 5% ha conseguenze gravi, da terapia intensiva. Solo il 2-3% dei colpiti muore".

Quanto tempo sarà necessario per capire se le cose miglioreranno?

"Le prossime due settimane sono decisive. Vedremo se siamo riusciti, in Italia e nel mondo, a contenere il virus. Se i cittadini vedranno i casi decrescere o non aumentare più con lo stesso ritmo dei giorni scorsi potranno essere sollevati".

E se invece i dati peggioreranno?

"Verranno prese misure più drastiche".

Di che tipo?

"Inizierà la fase di mitigazione, dovremo fare del nostro meglio per curare tutti i nuovi casi. Non mi va però di dire ora nello specifico cosa si farà, non ha senso spaventare i cittadini per un'ipotesi".

Ci sono stati i primi casi nei bambini, eppure si diceva che i più piccoli non sono aggrediti dal virus.

"Non sorprende che siano stati contagiati anche dei bambini, si infettano come gli altri perché i virus non guardano all'età. Parliamo però di casi non gravi. Anche in Cina se ne sono visti pochi tra i contagiati, perché è plausibile pensare che abbiano una immunità crociata. Non ci dimentichiamo che il Covid-19 è un coronavirus, parente di micro-organismi che nell'uomo provocano il raffreddore, molto diffuso tra i bambini, che quindi possono essere in parte coperti. E loro hanno comunque una protezione immunitaria data dalle tante vaccinazioni che fanno, anche se non specifiche per questo virus".

Gli anziani sono il bersaglio principale del coronavirus, cosa può suggerire a queste persone?

"Vorrei piuttosto fare una domanda a loro, ai malati e alle persone fragili: vi siete vaccinati contro l'influenza a ottobre? Se avete paura del coronavirus oggi, allora dovreste temere anche l'influenza, che su certe persone può avere conseguenze gravi. Il vaccino va fatto".

Coronavirus, via al decreto: i trasgressori andranno in carcere. Redazione de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Scuole, musei, palestre, uffici e fabbriche. Ma anche manifestazioni, concorsi e gite scolastiche. Tutto fermo per il coronavirus e, per chi non rispetta la legge, potrebbe scattare il carcere per un periodo massimo di 3 mesi. È quanto prevede il decreto legge varato dal governo ‘’allo scopo di evitare il diffondersi del Covid-19’’, secondo quanto si legge nel provvedimento pubblicato in Gazzetta ufficiale. Le misure scattano «nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona, per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio». Le autorità competenti, secondo quanto stabilito dal dl, sono tenute ad «adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica». A partire dal divieto di allontanamento da parte di tutti gli individui presenti nel comune o nell’area e, ovviamente, anche il divieto di accesso. Possono essere sospese le manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura. Lo stop riguarda gli asili, le scuole di ogni ordine e grado, comprese le università; gli studenti dovranno rinunciare anche alle gite scolastiche, sia sul territorio nazionale sia all’estero. È prevista la sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri luoghi della cultura; ma anche la chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi per l’acquisto dei beni di prima necessità. Per gli uffici pubblici scatterà la ‘’chiusura o limitazione’’ delle attività; così come per gli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali. E in tutte le strutture che resteranno aperte l’accesso sarà «condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale», cioè le mascherine, «o all’adozione di particolari misure di cautela individuate dall’autorità competente». La sospensione riguarda, inoltre, le procedure concorsuali per l’assunzione di personale. Le limitazioni comprendono anche i servizi del trasporto di merci e di persone terrestre, nonché di trasporto pubblico locale, anche non di linea. Mentre per le imprese, e in generale per le attività lavorative, è prevista la sospensione. L’applicazione della misura della quarantena dovrà essere rafforzata, con «sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva», si legge nel decreto legge. Le persone che sono arrivate in Italia, provenendo da zone a rischio epidemiologico, lo dovranno indicare al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente che, a sua volta, dovrà avvertire l’autorità sanitaria competente per «l’adozione della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva». L’attuazione delle misure di contenimento, dovranno essere adottate «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, Il mancato rispetto delle misure sarà punito, secondo quanto prevede il Codice penale all’articolo ‘Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, con «l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206». Ovviamente «salvo che il fatto non costituisca più grave reato», caso in cui la punizione sarà ancora più severa. Il Prefetto avrà il compito di «assicurare l’esecuzione delle misure avvalendosi delle Forze di polizia e delle Forze armate, sentiti i competenti comandi territoriali». Le coperture ammontano a 20 milioni di euro.

Coronavirus, nessuno sa come finirà ma intanto governo minimizza. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. La peste del Manzoni non c’entra niente: non ci sono untori, non ci sono monatti, e quanto alla mortalità, il grazioso Coronavirus che somiglia a una torta con le fragole, ammazzerà quasi esclusivamente gli over settanta, scremando un po’ la popolazione invecchiata e rendendo un segnalato favore all’Inps. C’è in compenso un altro tipo di peste: quella di un governo chiacchierone e fanfarone che tratta i cittadini come sudditi cretini, con il contorno di un sistema radiotelevisivo complice di quello che in inglese si chiama “cover up”, cioè la bugia o, come noi preferiamo, la bufala. E l’ho potuto provare sabato a Stasera Italia, dopo aver messo sotto stress un onesto scienziato quale è il professor Alessandro Vespignani, direttore dell’Istituto Netsi alla Northeastern University di Boston, il quale dopo una lunga colluttazione ha scelto, rompendo la consegna, di dire le cose come stanno: «Allora, il signor Guzzanti voleva i numeri veri. Voleva l’onestà e cioè quello che ha definito il worst-case scenario, il peggior scenario possibile. E io non so se c’è ancora (in studio ndr) il viceministro alla Salute («No, è andato via per partecipare al Consiglio di ministri», avverte la conduttrice Veronica Gentili) e certamente il viceministro conosce i numeri come li conosco io, allora questa pandemia infetterà circa il trenta per cento della popolazione, in qualche zona anche di più, sarà infettato dal Coronavirus. Sono numeri molto alti e quando noi ci riferiamo ai casi di oggi, siano soltanto all’inizio di questa epidemia». Il trenta per cento! Fanno venti milioni di possibili infettati. Quando ho ringraziato per l’onesta ammissione, sostenendo che i cittadini hanno prima di tutto diritto di sapere il peggio, l’illustre scienziato italiano che dirige l’Istituto di Boston ha detto «Su questo sono perfettamente d’accordo». Vespignani è d’accordo, ma la bufala continua. Naturalmente all’origine della grande bugia c’è la pretesa buona intenzione di non provocare il panico. Ma è una pretesa cretina, perché se le cose dovessero prendere la piega peggiore appena delineata da Boston, il panico, anziché manifestarsi in maniera controllabile e controllata, prenderà la forma di angoscia diffusa con milioni di gesti inconsulti imprevedibili. La verità è che – da quando è cominciata l’epidemia a metà dicembre in Cina, finché non sarà disponibile un vaccino per il quale sembra occorra almeno un anno ma forse anche diciotto mesi – nessuno ha la più pallida idea di che cosa accadrà, di quanta gente sarà infettata ed avrà bisogno di ricorrere alle cure ospedaliere e di quante persone perderanno la vita. Non lo sa nessuno e potrebbe persino finire bene, con un gran sospiro di sollievo perché – proviamo a sognare – con la tarda primavera e l’inizio dell’estate anche questa forma virale, come fanno le normali influenze, potrebbe ritirarsi e scomparire. Non lo sappiamo noi, non lo sanno i virologi, non lo sanno gli epidemiologi, non lo sa nessuno. Quindi, prudenza e rispetto reciproco vorrebbero, che si arrestasse la marea delle sciocchezze fintamente rassicuranti che vengono riversate ad imbuto nelle orecchie degli italiani, con uno spettacolo di indecente minimizzazione. Ho chiesto più volte nelle trasmissioni televisive che fosse detto con chiarezza, dove e quante sono (e quante in allestimento) le camere di terapia intensiva con personale addestrato e messo a sua volta in condizioni di sicurezza. Non lo sanno, non sanno rispondere. Sanno soltanto dire una cosa così cretina da essere offensiva, come «Non andate nei pronto soccorso, per non intasarli». E dove dovrebbe andare un disgraziato che avesse i sintomi dell’infezione, dalla febbre alla polmonite, con rischio di morire? Risposta: dal medico di famiglia. Ma sono scemi? O ci prendono per cretini a noi? Come si sa, il “medico di famiglia” per lo più non esiste: specie nelle grandi città è il nome di un ufficio in cui il medico di zona firma ricette e fa le visite che riesce a fare, con una sala d’aspetto affollata dove chiunque tossendo e starnutendo infetterebbe gli altri. In alternativa? Vaghezze perentorie: chiamare i numeri di telefono prescritti. E che succede quando chiami il 112 o il 5000? Non si sa. Non si sa chi dovrebbe somministrare i tamponi faringei con cui identificare al microscopio il virus e quali i laboratori per interpretare i tamponi. In quali tempi, con quale personale, dove, come. Mi sono sentito rispondere dal viceministro alla Salute per i Cinque stelle Pierpaolo Sileri, superstar dei talk show di questi giorni perché è un buon comunicatore e uno stimato chirurgo, che queste domande vanno poste all’assessore alla Sanità. Voi capite che tutto ciò significa che nessuno sa nulla per certo, il che è personalmente comprensibile, ma tutti fanno anche finta di avere la situazione sotto controllo quando invece non ne hanno ancora la più pallida idea, e questo è imperdonabile. Politicamente, il governo si copre dietro la Scienza. È stata inventata, di colpo, una entità autonoma e indipendente, infallibile e misteriosa, che si chiama la Scienza. Noi siamo dei grandi fautori del pensiero scientifico e dunque, come tutte le persone di buon senso, sappiamo che gli scienziati, specialmente in materia medica ed epidemiologica, agiscono prudentemente e sulla base di modelli matematici fondati sulla statistica. Il che è un bene. La scienza è per definizione umile e realistica. E gli scienziati dovrebbero essere delle oneste persone che, senza alcun partito preso, dicono soltanto ciò che loro risulta, senza nulla omettere e nulla aggiungere. Ma qui siamo alla cover up di cui dicevamo all’inizio. Il governo, dopo essersi rinchiuso nel fortilizio della Scienza Che Ne Sa Più Di Noi, ha perseguito uno scopo nobile e sciagurato allo stesso tempo. Quello di andare a beccare uno per uno, casa per casa, tutti coloro che tornando dalla Cina potevano essere portatori sani o malati del famoso virus. E poi con indagini da santa Inquisizione, scoprire tutte le loro mosse, contatti, amori, liti, spostamenti e pensieri intimi, per perquisire vite e scoprire la verità. È stato un pensiero arrogante e cretino. Già ai primi dibattiti si sentiva dire questa enorme sciocchezza: che tutto il problema era di trovare il leggendario famoso Paziente Zero, e risalire all’anello di congiunzione fra l’italiano e il virus. Sarebbe come progettare di attraversare la pioggia senza bagnarsi, stando ben attenti a passare fra goccia e goccia. Così, le grandi menti di questo governo che gli italiani si sono un bel po’ meritati, hanno fatto la grande scoperta che non erano stati capaci di prevedere e immaginare. E cioè che non soltanto coloro che sono tornati dalla Cina o che hanno visto uno che ha incontrato un altro che è tornato dalla Cina, ma anche uno sconosciuto estraneo a qualsiasi intersezione con la Via della Seta era infetto. Come sarà stato? Come è potuto succedere? La risposta è ovvia: poiché l’incubazione del virus richiede del tempo, durante quel tempo più persone si infettano a catena senza che fra loro esista alcuna relazione. E infatti, l’abbiamo visto con la grande sorpresa dei casi germogliati in Lombardia, Veneto, poi Piemonte e via via nel resto del Paese. A questo punto la frittata è fatta e gli italiani sono affidati esclusivamente a Santa Pupa, una santa immaginaria dei romani, quando non sanno più a chi raccomandarsi. E così, arrivati agli sgoccioli di questo amaro febbraio seguitiamo ad assistere alla pantomima degli inviati speciali alla ricerca dell’Untore Zero, allo show del Primo Ministro professor Conte il quale – in questo spudoratamente sostenuto dai suoi ministri – ha inventato una tesi geniale. La tesi geniale è che l’Italia non ha più persone infette degli altri Paesi europei, ma è invece il Paese più virtuoso di tutti, prova ne sia che è l’unico in cui la tenacia eroica delle sue eccellenze (l’Italia rigurgita di eccellenze, ma manca di normalità) permette di scovare le persone in fette. Non stiamo scherzando. È stato detto e ripetuto. L’alto numero degli infetti di Coronavirus in Italia dimostra che l’Italia ha il più formidabile apparato diagnostico del mondo, sicché li becca tutti e subito, chissà invece quei poveracci dei tedeschi, francesi, austriaci, belgi, spagnoli, svizzeri e svedesi, quanti ne hanno ma neanche se ne accorgono. Non è un Paese e un governo meraviglioso, il nostro? In questo modo il governo più pazzo del mondo ha potuto difendere anche la sua primigenia e del tutto sciocca idea di chiudere le frontiere aeree con la Cina, lasciando aperte tutte le altre. Geniale. Soltanto fra la Svizzera e la Lombardia ogni giorno passano circa centocinquantamila persone, ma noi drastici e tetragoni abbiamo spezzato le reni al virus volante. Risultato: gli altri ci mettono in quarantena. A noi. Mentre noi, o meglio il nostro divino governo con il suo fardello di eccellenze – discute se chiudere o no le frontiere del trattato di Schengen, gli altri Paesi ci chiudono a noi, o discutono se farlo. E i nostri treni vengono fermati al Brennero per sospetta presenza di infetti a bordo. In altre parole, l’Italia va, oltre che a picco economicamente, anche in quarantena perché considerata un pericolo pubblico nella comunità internazionale. E adesso, se volete, andate a godervi gli spettacoli televisivi in cui governo, governati ed eccellenze si rimpallano l’allegra bufala dell’epidemia inesistente, sicché alla fine vedrai che l’untore sono io per aver indotto un esperto a confessare: il contagio sarà terribile, nessuno sa come andrà a finire e finora l’unica strategia usata – quella dell’isolamento – ha portato soltanto disastri. Si replica. Come ogni onesto virus.

Scuole, nozze e funerali, mercati: cosa è stato deciso Le ordinanze regione per regione. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Grata Sclaunich. L’epidemia di coronavirus (Covid-19) è scoppiata in Cina alla fine del 2019 e da lì si è diffusa in 28 Stati. L’Italia è il terzo Paese al mondo per numero di contagi, dopo la Cina (oltre 77 mila) e la Corea del Sud (893, 60 in più di ieri). In base all’ultimo bollettino, sono 283 i casi accertati nel nostro Paese (contando anche i decessi e chi era malato ma è poi guarito): diverse Regioni hanno disposto misure speciali per contenere l’epidemia, valide fino al 1 marzo. Ecco cosa prevedono.

LOMBARDIA

numero verde per info: 800.894.545

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Musei, cinema, teatri: chiusi (Scala compresa, il Duomo invece è chiuso ai turisti ma aperto ai fedeli, anche se le messe sono sospese);

Centri sportivi e palestre: chiusi;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese;

Messe: sospese, tranne funerali e matrimoni ma alla presenza dei soli parenti stretti;

Concorsi ed esami (come quello di guida): rinviati;

Tribunali: i processi con parti delle zone rosse saranno rinviati;

Bar, pub, discoteche e locali notturni: chiusi ma solo dalle 18 alle 6 del mattino;

Centri commerciali: aperti ma i negozi chiuderanno sabato e domenica, tranne quelli che vendono generi alimentari.

Nei comuni della zona rossa (Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano):

divieto di spostamento;

ingressi e uscite solo in situazioni di reale necessità valutate caso per caso;

obbligo di dispositivi di protezione individuale per l’accesso ai servizi pubblici e agli esercizi commerciali.

 

VENETO

numero verde per info: 800.462.340

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Musei, cinema, teatri: chiusi (compreso La Fenice);

Centri sportivi e palestre: chiusi;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese, compreso il Carnevale di Venezia;

Messe: sospese, tranne funerali e matrimoni ma alla presenza dei soli parenti stretti;

Concorsi ed esami (come quello di guida): rinviati;

Vaporetti e autobus: disinfestazione straordinaria.

Nei comuni della zona rossa (Vo’ Euganeo):

divieto di spostamento;

ingressi e uscite solo in situazioni di reale necessità valutate caso per caso;

obbligo di dispositivi di protezione individuale per l’accesso ai servizi pubblici e agli esercizi commerciali.

 

PIEMONTE

numero verde per info: 800.333.444

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Musei, cinema, teatri: chiusi;

Centri sportivi e palestre: chiusi;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese, compreso il Carnevale di Ivrea;

Messe: sospese, tranne funerali e matrimoni ma alla presenza dei soli parenti stretti. A Torino invece le messe non sono sospese ma i fedeli non possono ricevere la comunione eucaristica in bocca, darsi il segno della pace e usare l’acquasantiera (che sarà svuotata);

Concorsi ed esami (come quello di guida): rinviati;

Tribunali: rinviati di almeno due mesi i procedimenti che coinvolgono persone provenienti dalle zone considerate focolai.

 

LIGURIA

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Musei, cinema, teatri: chiusi;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese;

Concorsi ed esami (come quello di guida): rinviati;

 

EMILIA ROMAGNA

numero verde per info:800.033.033

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese;

Messe: sospese, tranne funerali e matrimoni ma alla presenza dei soli parenti stretti;

Tribunali: udienze ordinarie sospese a Piacenza e Rimini;

Bar, pub, discoteche e locali notturni: chiusi dalle 18 alle 6 del mattino ma solo a Piacenza;

Mercati settimanali: sospesi a Piacenza;

Centri commerciali: aperti ma a Piacenza i negozi chiuderanno sabato e domenica, tranne quelli che vendono generi alimentari.

 

TRENTINO ALTO ADIGE

numero verde per info: 800.751.751

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese, comprese quelle del Carnevale.

 

FRIULI VENEZIA GIULIA

numero verde per info: 800.500.300

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: chiuse, mentre le gite sono sospese;

Musei, cinema, teatri: chiusi;

Centri sportivi e palestre: chiusi;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: sospese;

Messe: sospese, tranne funerali e matrimoni ma alla presenza dei soli parenti stretti;

Concorsi ed esami (come quello di guida): rinviati.

 

TOSCANA

numero verde per info: 800.556.060

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole: chiuse a Piagncastagnaio e Cecina, studenti esonerati dalla frequenza obbligatoria delle lezioni all’Università di Firenze e Pisa;

Obbligo per i viaggiatori di segnalare il rientro, oltre che dalle aree a rischio della Cina, anche da Paesi in cui la trasmissione dell’infezione è significativa secondo le indicazioni Om (in questa disposizione rientrano anche i Comuni italiani soggetti a misure di quarantena disposte dall’autorità).

 

BASILICATA

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Obbligo per i cittadini che rientrano in Basilicata e provenienti da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Liguria (o che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni) di comunicare la propria presenza ai servizi di sanità pubblica e di restare in quarantena presso il proprio domicilio per 14 giorni.

 

ABRUZZO

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole e università: sospese solo le attività didattiche dell’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara e i corsi di specializzazione di quella di Teramo;

Comune dell’Aquila: sospeso il ricevimento pubblico;

Tribunali: udienze sospese a Lanciano.

 

CAMPANIA

numero verde per info: 800.909.699

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole : chiuse a Cardito in provincia di Napoli, Sant’Agata de’Goti, Eboli, Scafati;

Manifestazioni pubbliche, culturali e sportive: annullato il Carnevale di Benevento;

Messe: i fedeli non possono ricevere la comunione eucaristica in bocca né darsi il segno della pace.

 

MARCHE

numero verde per info: 800.936.677

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole: a Urbino chiuse fino al 27 febbraio.

 

PUGLIA

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Allo studio un’ordinanza per la segnalazione preventiva al medico di base di quelli che stanno rientrando.

 

LAZIO

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Concorsi: rinviata la prova di ammissione, prevista per il 25 febbraio, al corso di laurea in medicina e chirurgia al Campus bio-medico di Roma.

 

CALABRIA

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Scuole: chiuse a Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro, Belvedere Marittimo e Fuscaldo nel Cosentino. Ancora al vaglio la proposta di ordinanza regionale per chiudere scuole e università.

 

VALLE D’AOSTA

numero verde per info: 800.122.121

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

 

UMBRIA

numero verde per info: 800.636.363

numero unico nazionale: 1.500

numero per la segnalazione dei casi: 112

Coronavirus, non fermarono i cinesi. Ora fermano gli italiani. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 26 Febbraio 2020. Chissà perché il premier Conte non accusa tutto il resto del mondo di razzismo nei nostri confronti? Oppure perché non denuncia per attentato all' unità della Repubblica i presidenti di Basilicata e Molise, che hanno fatto sapere di non gradire arrivi da Lombardia e Veneto? Perché farlo sarebbe una cavolata. Se ne rende conto perfino lui, che malgrado il curriculum che si è pompato con un pizzico di megalomania, non è laureato ad Harvard. Il bando di mezza Europa e dei governatori meridionali nei confronti degli italiani delle zone infettate non è una questione di pregiudizio antropologico bensì di buon senso e precauzione. Sono proprio queste le qualità mancate al capo dell' esecutivo al momento opportuno. Un paio di settimane fa, gli amministratori leghisti di Lombardia, Veneto e Friuli Venezia-Giulia, avevano dato al governo il consiglio opportuno: mettere in quarantena chiunque arrivasse dalla Cina. Esperto di medicina quanto di meccanica quantistica, il professore di Volturara Appula non capì. Fu accecato dal pregiudizio anti-Salvini e bocciò la proposta, tacciandola di razzismo, unicamente perché gliel' avevano fatta gli uomini di Matteo, mentre se l' avesse letta sui Baci Perugina l' avrebbe attuata al volo. Questa è la prova che l' uomo non è all' altezza del compito. Il Corona virus ha svelato a chi ancora non se ne era accorto che il Conte è nudo. L' epidemia è un problema più grande di lui. Fontana e Zaia, amministratori veri, si sono trovati la patata bollente in casa a causa della faziosa dabbenaggine altrui e la stanno disinnescando con calma e una certa efficacia. Il presidente del Consiglio lo ha di fatto importato con il suo comportamento incosciente. Tra Cina e Italia c' è di mezzo un Continente. È inspiegabile che noi siamo la terza nazione più infetta. Il boom di malati dimostra che i colleghi con i quali il signor Giuseppe era al vertice Ue lo scorso fine settimana sono stati più bravi di lui nell' opera di prevenzione. E lo è stato pure il vituperato Trump, che ospita qualche milione di cinesi più di noi ma è quasi immune dal virus. Per essere onesti, bisogna riconoscere che Conte non è il solo colpevole. È stato aiutato nell' errore dal tedioso, nutrito e inadeguato esercito di buonisti con il sedere degli italiani che reggono il suo esecutivo. La ministra dell' Istruzione grillina, Lucia Azzolina, era inorridita all' idea che i ragazzi di ritorno dal Capodanno cinese non potessero tornare immediatamente sui banchi di scuola. Il ministro della Salute, Speranza, aveva parlato di «allarmismi ridicoli». Il segretario dem, Zingaretti, dichiarò che la misura era inutile in quanto l' esecutivo aveva già sospeso i voli, fingendo di non capire che i governatori si riferivano agli studenti già rientrati, o forse non capendolo davvero. Le sardine, manco fossero pozzi di scienza anziché avanzi di centri sociali e oratori, quali invece sono, dissero che il razzismo salviniano andava sconfitto con la cultura (omettendo di specificare che alludevano alla coltura del virus). Palazzo Chigi ha distorto mediaticamente la proposta leghista della quarantena per attaccare il rivale politico, fregandosene dei danni al Paese, o quantomeno sottovalutando gli effetti del suo niet scellerato. Così, per non aver voluto fermare i cinesi due settimane fa, il governo oggi è costretto a bloccare metà italiani, con conseguenze drammatiche per l' economia. Ma forse, agli occhi di chi bada solo al reddito di cittadinanza, e lo vende come panacea di ogni crisi, paralizzare due tra le Regioni più produttive d' Italia è poca cosa. La quarantena di chi arrivava dall' Estremo Oriente avrebbe scongiurato l' epidemia. I primi a saperlo sono i cinesi che stanno in Italia, che se la sono autoimposta fidandosi dei suggerimenti di Pechino anziché delle rassicuraizoni di Palazzo Chigi. E infatti, al momento, non si registrano decessi nella loro comunità. Sbagliare si può, però stavolta l' errore è stato fatto in cattiva fede. Conte ha peccato perché voleva umiliare Salvini e i suoi governatori e, anziché girare le televisioni per rassicurare il Paese, ora dovrebbe andare a nascondersi. Un uomo che ha detto di avere la situazione sotto controllo e ha tentato di farsi uno spot con la battaglia al virus, oggi che l'epidemia è scoppiata non è credibile agli occhi dei cittadini. Più il premier appare in tv, più si diffonde il panico.

Otto e mezzo, Giorgia Meloni attacca Conte sull'emergenza Coronavirus e Lilli Gruber si innervosisce. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. In studio a da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, si parla di Coronavirus e Giorgia Meloni attacca Giuseppe Conte: "La valutazione sull'operato del governo andrà fatta a valle, oggi dobbiamo affrontare l'emergenza. Ma io ho trovato inaccettabile l'assenza di informazione che c'è stata a partire dal regime cinese fino al governo Conte", dice la leader di Fratelli d'Italia. Infatti, "trattare l'epidemia come un'influenza rinforzata cozzava con le immagini di una Cina militarizzata. C'è stata una sottovalutazione all'inizio e ora c'è una psicosi, siamo passati dall'abbracciare i cinesi a Oddio è finita l'amuchina". Una tesi che evidentemente non piace alla conduttrice che in modo nervoso dice: "Ma cosa poteva fare il governo?". 

Coronavirus, Alessandro Meluzzi a Quarta Repubblica: "Perché Papa Francesco insiste a far entrare i migranti?" Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Alessandro Meluzzi, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, dice di non capire esattamente la ragione per la quale Papa Francesco debba dire di aprire ai migranti in un momento di emergenza come questo, per il coronavirus. "Ognuno deve garantire ciò che promette. Le Ong fanno sbarcare i poveri migranti in un Paese afflitto da un terribile virus, mi chiedo perché il Papa abbia un accanimento con l'Italia", attacca Meluzzi. Il quale sottolinea poi che "le frontiere non saremo noi a chiuderle, ma saranno gli altri. I confini servono a sopravvivere, non è razzismo, dobbiamo fermare i virus e i batteri, altrimenti siamo nel delirio". E infine, si chiede Meluzzi: "Cosa faremo? Isoleremo Milano, isoleremo Roma? Questo virus è caratterizzato nel produrre una sindrome influenzale nell'80 per cento dei casi e nel 20 per cento sfocia in una polmonite, abbiamo rianimazioni per questo 20?".

La matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos e al panico. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Giordano. La matematica del contagio è semplice. Tanto semplice quanto cruciale. Ora che abbiamo imparato a lavarci le mani come si deve, il secondo aspetto a cui dovremmo rivolgere la nostra attenzione è proprio, a sorpresa, la matematica. Se rinunciamo allo sforzo, rischiamo di non capire granché di quanto ci sta accadendo e di lasciarci prendere, come molti in queste ore, da suggestioni poco fondate. Per cominciare dividiamoci in tre gruppi. Un segreto della matematica è di non andare mai troppo per il sottile, e la matematica del coronavirus distingue la popolazione, tutti noi, in modo grossolano: ci sono i Suscettibili (S), cioè le persone che potrebbero essere contagiate; gli Infetti (I), cioè coloro che sono già stati contagiati; e i guariti, i Recovered (R), cioè quelli che sono stati contagiati, ne sono usciti e ormai non trasmettono più il virus. Ognuno di noi è in grado di riconoscersi all’istante in una di queste categorie, le cui iniziali formano il nome del modello a cui gli epidemiologi si rivolgono in queste settimane come a un oracolo: il modello SIR. Fine. Ok, non proprio fine. Manca almeno un altro concetto. Dentro il modello SIR, dentro il cuore di ogni contagio, si nasconde un numero, diverso per ogni malattia. Nei giorni scorsi è spuntato qua e là in discussioni e articoli. Viene indicato convenzionalmente come R0, «erre con zero», e il suo significato è di facile interpretazione: R0 è il numero di persone che, in media, ogni individuo infetto contagia a sua volta. Per il morbillo, ad esempio, R0 è stimato intorno a 15. Vale a dire che, durante un’epidemia di morbillo, una persona infetta ne contagia in media altre quindici, se nessuna è vaccinata. Per la parotite, R0 è all’incirca 10. Per il nostro coronavirus, la stima di R0è intorno a 2,5. Qui qualcuno salta subito alle conclusioni e smette di leggere: «Evviva! È basso! Al diavolo la matematica!». Non esattamente. L’R0 dell’influenza spagnola, quella del 1918, è stato calcolato retrospettivamente intorno a 2,1. Ma per adesso non vogliamo affrettarci a stabilire se l’erre-con-zero del coronavirus sia alto o basso. C’interessa sapere, più in generale, che le cose vanno davvero bene quando R0 è inferiore a 1. Se ogni infetto non contagia almeno un’altra persona, la diffusione si arresta da sola, la malattia è un fuoco di paglia, uno scoppio a vuoto. Se, al contrario, R0 è maggiore di 1, anche di poco, siamo in presenza di un principio di epidemia. Per visualizzarlo, basta immaginare che i contagiati siano delle biglie. Una biglia solitaria, il famigerato paziente zero, viene lanciata e ne colpisce altre due. Ognuna di queste ne colpisce altre due, che a loro volta ne colpiscono altre due a testa. Eccetera. È quella che viene chiamata una crescita esponenziale, ed è l’inizio di ogni epidemia. Nel primo periodo, sempre più persone vengono contagiate sempre più velocemente. Quanto velocemente, dipende dalla grandezza di R0 e da un’altra variabile fondamentale di questa matematica trasparente e decisiva: il tempo medio che intercorre tra quando una persona viene infettata e il momento in cui quella stessa persona ne infetta un’altra — una finestra temporale che, nel caso di Covid-19, è stimata a circa sette giorni. Fine, per davvero. Avendo assorbito queste poche informazioni, possiamo riassumere tutti gli sforzi istituzionali, tutte le misure «draconiane», le quarantene, la chiusura di scuole e teatri e musei, le strade vuote, in un’unica intenzione matematica: abbassare il valore di R0. È quello che stiamo facendo con le nostre dolorose rinunce. Perché quando R0 si abbassa, l’espansione rallenta. E quando R0 viene faticosamente riportato sotto il valore critico di 1, la diffusione inizia ad arrestarsi. A partire da quel momento è l’epidemia stessa, non più le persone, a soffocare. Negli ultimi giorni si è aperta una faglia tra chi accetta con umiltà quanto viene disposto dall’alto e chi grida all’esagerazione, alla follia, alla «psicosi collettiva». O magari non grida nemmeno, assume un atteggiamento più sprezzante, più intellettuale, come a dire «poveri stolti, si lasciano infinocchiare», che in fondo è la stessa cosa. Questo tipo di scetticismo è trasversale, non dipende dal livello d’istruzione, né dalla provenienza o dall’età — forse dall’età un po’ sì, gli adulti-adulti sembrano particolarmente inclini. A ogni modo è un atteggiamento umano, ed è particolarmente in voga nella nostra epoca. Ma chi insiste a dire che il contenimento eccezionale messo in atto è «esagerato» non ha capito la matematica. Oppure l’ha travisata. Un fraintendimento comune, per esempio, nasce dal raffronto proposto con l’influenza stagionale. Ciò che di Covid-19 assomiglia all’influenza stagionale è il modo del contagio, il fatto che avvenga per lo scambio di goccioline sparate in aria attraverso gli starnuti e la tosse. E ci sono i sintomi generali, certo, che si confondono — una confusione che ha causato ritardi nel contenimento iniziale, nonché incidenti spiacevoli come quello dell’ospedale di Codogno. Ma al momento non c’è alcuna evidenza che il coronavirus debba avere un autonomo picco stagionale per poi recedere, come le influenze ordinarie. Riguardo al picco di contagi, poi, qualcun altro si è lasciato ingannare dalla notizia che in Cina sia già stato superato. E che questo accadrà molto presto anche da noi. È l’interpretazione errata di un dato. Sarebbe più corretto dire che «un» picco, il primo, è stato raggiunto e superato in Cina. Ciò è accaduto proprio ed esclusivamente in ragione delle misure iper-restrittive che la Cina ha applicato, ovvero bloccare qualche centinaio di milioni di persone in casa. Non a causa di una caratteristica intrinseca della malattia. Insomma R0, in Cina e poi da noi, è stato trascinato giù a forza. E adesso viene mantenuto basso a forza, come se tutti quanti, ubbidendo alle istituzioni, stessimo premendo sul coperchio di una pentola piena d’acqua in ebollizione. Nel momento in cui le misure venissero allentate, in Cina come qui, è probabile che R0 tornerebbe al suo valore «naturale» di 2,5. Il contagio ricomincerebbe a diffondersi esponenzialmente. Gli epidemiologi sanno che il solo modo di fermare sul serio un’epidemia è che il numero di Suscettibili diventi abbastanza basso da rendere poco probabile il contagio. Per esempio quando la popolazione è vaccinata. I vaccini ci fanno passare da Suscettibili a Recovered senza nemmeno attraversare la malattia. Ma non è il nostro caso per il momento. Il Covid-19 è per noi umani ancora troppo nuovo. È saltato da un pipistrello a qualche altro animale, forse un serpente, dove i due codici genetici si sono mescolati in maniera sfortunata, e da quel secondo ospite ha spiccato un altro salto, sull’uomo, con la stessa carica di novità di un’asteroide che fa precipitare sulla Terra un elemento chimico sconosciuto. Non abbiamo anticorpi efficaci e non abbiamo vaccini. Non abbiamo neppure statistica. Tradotto nel modello SIR, significa che siamo ancora tutti Suscettibili.

Domanda nel test di matematica: «Quanti sono oggi i Suscettibili al Covid-19?». Risposta: «Un po’ più di sette miliardi». Un’altra aberrazione riguarda l’accanimento mediatico sul «paziente zero» in Italia. «Il paziente zero» è un titolo perfetto per una serie distopica di Netflix o per un film sugli zombie, e infatti esiste già. Ma il paziente zero italiano è d’interesse pressoché nullo per gli epidemiologi ormai da alcuni giorni. Da quel fantomatico punto d’origine si sono già diramate linee secondarie e terziarie, traiettorie silenziose del contagio, molte delle quali probabilmente latenti. A Firenze, in Liguria, in Germania, negli Stati Uniti, chissà dove. E c’è, infine, l’algebra della pericolosità, anch’essa fuorviante. Dividendo il numero di morti per il numero dei contagi conclamati si ottiene un risultato che non impressiona: zero virgola zero qualcosa. Tradotto: «Tanto non si muore!». I virologi si stanno seccando la gola nel ripeterci che il vero problema è un altro. Il tasso di ricoveri necessari per il Covid-19 è infatti piuttosto elevato. Se tutti o buona parte dei Suscettibili diventassero Infetti troppo velocemente, a ricevere un urto pericoloso sarebbe il nostro sistema sanitario. Non è scontato che avremmo le risorse necessarie per fronteggiare adeguatamente un’eventualità simile. Non è scontato che non andremmo in tilt. Le azioni «esagerate» intraprese in Cina e adesso da noi si fondano su scenari che sono anch’essi matematici. Non su misure prese a spanne, non su impressioni vaghe o isterismi di massa. Alessandro Vespignani, che alla Northwestern University di Boston sviluppa questi scenari, mi ha detto: «È come con le previsioni del tempo». Alla base delle simulazioni c’è il semplice modello SIR che abbiamo descritto, ma la teoria viene applicata alla situazione effettiva del nostro pianeta, della nostra società. Per nutrire di realtà il modello vengono utilizzati tutti i dati a disposizione: le mappe satellitari della Nasa, le rotte dei voli e il numero dei rispettivi passeggeri, le informazioni su ogni interazione umana misurabile e perfino certi correttivi psicologici, come la paura, il panico, la cautela. Ecco un ambito in cui i Big Data servono a salvarci la vita. Le simulazioni, una volta lanciate, mostrano come l’epidemia si svilupperà nei giorni successivi entro certi margini di errore, se diverrà una pandemia o invece sparirà. Da quelle analisi procedono le decisioni dei governi. Alzi la mano, ora, chi non crede affatto alle previsioni del tempo, chi programmerebbe una gita al mare domani, sapendo che ilMeteo.it dà il 90% di probabilità di un diluvio. Ecco un fatto curioso: la diffusione di una notizia falsa è descritta bene dagli stessi modelli SIR che si usano per le epidemie. Anche rispetto a un’informazione errata ognuno di noi appartiene a uno dei tre insiemi: i Suscettibili, gli Infetti oppure i Guariti. Peccato che abbiamo molta più difficoltà ad autocollocarci in quello giusto. Spesso, poi, essere Suscettibili al falso equivale a essere Sospettosi verso il vero. La fatica di accettare che qualcosa di radicalmente nuovo, di «fuori dall’ordinario» stia accadendo è un altro tratto profondamente umano della nostra psiche. Una forma di ritrosia verso l’inaspettato, verso lo sconcertante e soprattutto verso il complesso, ha fatto in modo che ci volessero decenni perché il cambiamento climatico fosse accettato da molti. In questo momento è in azione un meccanismo difensivo simile nei riguardi del coronavirus. Non abbiamo anticorpi contro Covid-19, ma ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. È un paradosso del nostro tempo: mentre la realtà diventa sempre più complessa, noi diventiamo sempre più refrattari alla complessità. E tuttavia, ciò che sta succedendo in questi giorni non è davvero inedito. «A Singapore il governo e gli ufficiali sanitari lavoravano insieme per impedire che l’infezione si diffondesse. Furono attuate misure draconiane non solo negli ospedali: quarantena obbligatoria per tutti i casi sospetti, multe e condanne per chi non rispettava l’isolamento, chiusura di un grande mercato, chiusura delle scuole, controlli periodici della temperatura a tutti i tassisti. In questo modo l’epidemia fu domata». Sembra che parli di oggi, invece David Quammen sta riportando quanto avvenuto nel 2003 con la Sars. Descrive misure identiche a quelle adottate nel Lodigiano con la sola differenza della severità delle sanzioni penali, perché il nostro sistema si basa sulla fiducia nei cittadini, sull’assioma della loro piena collaborazione.

«Spillover», il libro di Quammen, meriterebbe un articolo a sé. Basti dire, qui, che è il modo migliore per comprendere le varie sfaccettature, la complessità per l’appunto, di questa epidemia. Per non viverla come una strana eccezione o un flagello divino. Per metterla in relazione ad altri disastri ecologici del nostro tempo, come la deforestazione, la cancellazione degli ecosistemi, la globalizzazione e il cambiamento climatico stesso. E per entrare, addirittura, nella mente del virus, decifrarne le strategie, intuire perché la specie umana sia diventata così golosa per ogni patogeno in circolazione. A volte Spillover fa paura, è vero, complice il pipistrello nero della copertina, e a volte fa addirittura sobbalzare, per esempio quando si domanda — era il 2012 — se il Next Big One, la prossima grande epidemia attesa dagli esperti, sarà causato da un virus e se comparirà «in un mercato cittadino della Cina meridionale». Preveggenza? No. Solo scienza. E un po’ di storia. Strano che Spillover non sia esaurito sugli scaffali, come i gel antisettici e le mascherine. Alla mia professoressa di matematica del liceo piaceva usare un’espressione un po’ antica, «detto in soldoni», quando voleva farci familiarizzare con un concetto nuovo. È un’espressione che per qualche ragione mi torna alla mente adesso. Detto in soldoni, la matematica del contagio c’insegna che il solo modo efficace di soffocare un’epidemia come quella in corso è di tenere la gente il più possibile separata. E che dovremmo, semmai, discutere su quanto le misure necessarie siano sostenibili nel medio termine, perché al momento, e in assenza di un vaccino, non ci sono elementi razionali per ipotizzare che la crisi sia breve. Ai più coriacei, a chi non fosse ancora persuaso e continuasse a pensare che siamo di fronte a una reazione sproporzionata, possiamo proporre un ultimo, disperato argomento di buon senso. È davvero lecito supporre che un Paese come la Cina decida di tirare il freno a mano della propria economia per aver sopravvalutato un’influenza stagionale? Che un governo come il nostro decida di mettere in quarantena intere aree perché ha scambiato un virus pericoloso per qualcos’altro? Mi sembra che per supporlo si debba essere dei Sospettosi eterni, dei complottisti incalliti. Oppure no, mi sbaglio. Dopotutto è sufficiente capovolgere una volta di più il ragionamento scientifico e, invece di trarre le proprie opinioni dai fatti, partire dalle proprie opinioni per ricavarne i fatti.

Perché il coronavirus si è diffuso così rapidamente nel Nord Italia? Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. In appena un paio di giorni in Italia si sono superati i 130 contagi da coronavirus , 90 solo in Lombardia , molti altri in Veneto ma i dati sono destinati a crescere nelle prossime ore. Venerdì mattina l'Italia si è svegliata con l'incubo della prima vittima da coronavirus, Adriano Trevisan, 78 anni, morto all'ospedale di Schiavonia (Padova) dopo 10 giorni di ricovero. Un fulmine a ciel sereno piombato appena poche ore dopo la notizia dei primi contagi secondari, cioé quando le persone vengono infettate da altre provenienti dai luoghi dell'epidemia in Cina. E in 48 ore Lombardia e Veneto si sono ritrovate blindate, con scuole, luoghi di aggregazione, cinema, piscine chiusi per almeno una settimana con lo scopo di impedire la diffusione del virus. Ma perché i due focolai di coronavirus, quello in Veneto e quello in Lombardia si sono diffusi così velocemente? «C'è stata una non conoscenza dei sanitari che non sono stati in grado di riconoscere immediatamente i sintomi del virus» ha commentato il commissario all'emergenza Angelo Borrelli. All'ospedale di Codogno, dove è stato ricoverato il paziente 1, sono rimasti contagiati almeno 5 tra medici e infermieri. All'ospedale di Dolo, dove è stato ricoverato un pensionato di Mira, medico, infermiere e operatore sanitario che lo hanno seguito nella degenza sono risultati positivi al Covid-19. All'ospedale di Schiavonia, dove appunto è avvenuto il primo dei due decessi, finora nessun operatore sanitario risulta contagiato, ma l'ospedale sarà svuotato dopo che il primo paziente deceduto è rimasto ricoverato per dieci giorni. Per nessuno era stato sospettato un contagio da coronavirus. Al paziente di Schiavonia il tampone è stato fatto appena poche ore che morisse. «Non è un problema di quantità di test. Ci sono state situazioni in cui non si è stati in grado di riconoscere immediatamente i sintomi del virus» ha aggiunto Borrelli che sottolinea come non sia stata una «colpa» dei medici, quanto una «difficoltà» ad individuare i sintomi. «Quello che è successo in Italia è un caso da manuale in cui una o più persone vengono contagiate da chi arriva da un luogo di epidemia, e poi ci sono dei contagiati secondari con lo stesso tempo di incubazione » ha spiegato Walter Ricciardi, docente di Igiene alla Cattolica e membro del Consiglio esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. «Inoltre, quando vengono contagiati i medici significa che non si sono messe in campo le pratiche adatte, oltre al fatto che il virus è molto contagioso». Del resto il coronavirus in Italia fino a pochi giorni fa non circolava. Nessuno dei pazienti era mai stato in Cina, e neppure risultavano contatti con persone rientrate dalla Cina. «Le manifestazioni cliniche dei ricoverati erano quelle dell'influenza: non si è pensato al coronavirus semplicemente perché in Italia non era mai stato segnalato se non per i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani» giustifica Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore del Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell'Università degli studi di Milano. «Le diagnosi differenziali vengono eseguite quando c'è attenzione su un particolare patogeno, cose che appunto fino a pochi giorni fa non c'era». Non vengono neppure messi in atto protocolli di protezione particolari per i medici che assistono pazienti malati di influenza e questo ha permesso un'accelerazione alla diffusione del contagio perché gli operatori sanitari non erano evidentemente protetti in modo adeguato. «Medici e infermieri hanno un rischio maggiore di contagio perché hanno una vicinanza prolungata con il paziente, talvolta devono anche mettere in atto manovre invasive» aggiunge Pregliasco. L'Italia ha vissuto la stessa situazione della Cina: si è trovata di fronte a un nuovo virus. Vero, se ne parlava da un mese, ma nessun caso secondario, come detto, era mai stato segnalato. «La differenza è che la Cina ha tentennato un bel po' prima di comunicare al mondo l'esistenza del nuovo virus mentre l'Italia ha messo a disposizione i dati in modo istantaneo» precisa Pregliasco che aggiunge: «Identificando casi gravi in Italia è stata trovata la punta dell'iceberg dell'infezione e da lì si è andati in profondità con centinaia e centinaia di controlli. L'Italia ha cercato in modo attivo, attraverso i tamponi, gli eventuali altri contagiati con controlli a tappeto. Non escludo che nel resto d'Europa non siano emersi tanti casi come nel nostro Paese perché, non essendoci stati casi gravi, potrebbero non essere state svolte verifiche accurate come è successo da noi».

Coronavirus, Pio D'Emilia: "Falla nei controlli, in Italia arrivano centinaia di cinesi sui pullman turistici". Libero Quotidiano il 21 Febbraio 2020. Pio D'Emilia, inviato di SkyTg24 in Asia, rivela l'incredibile "falla" nel sistema dei controlli per il coronavirus nel nostro Paese. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira su La7, il giornalista sottolinea un aspetto nella prevenzione del contagio che evidentemente è stato completamente non considerato: "Non voglio fare polemica ma c'è un limite. Le autostrade non sono controllate", spiega, "controllano le stazioni e gli aeroporti ma non le strade". "E vi ricordo che ancora oggi, ogni giorno", conclude D'Emilia, "arrivano a Venezia e in Italia, dal Nord Europa soprattutto, centinaia di turisti cinesi a bordo di pullman". A oggi 21 febbraio si contano altre due persone ricoverate all'ospedale Sacco di Milano, specializzato nelle malattie infettive, per il Coronavirus. Si tratta della moglie incinta all'ottavo mese del trentottenne contagiato, e ancora ricoverato a Codogno, nel lodigiano (lo assiste una equipe del Sacco), che è risultata positiva al test e del collega tornato dalla Cina con cui aveva cenato e che si è presentato spontaneamente in ospedale con i sintomi di una polmonite. La donna è incinta all'ottavo mese, insegna in una scuola ma fortunatamente da alcune settimane è in maternità.

VALLE D’AOSTA.

(ANSA il 5 marzo 2020) - Primi due probabili casi di Covid-19 in Valle d'Aosta. Lo comunica la Presidenza della regione, aggiungendo che i tamponi sono stati inviati all'Istituto superiore di sanità per la conferma. Gli esami effettuati ieri su due pazienti presi in carico dal Servizio sanitario regionale sono risultati positivi. Le persone risultate positive manifestano sintomatologie lievi. I pazienti appartengono allo stesso nucleo familiare. I due pazienti hanno evidenziato sintomi influenzali e uno di loro era stato nelle zone ritenute a rischio contagio. Entrambi - così come i loro nuclei familiari e le persone che sono state in stretto contatto con loro, sono stati sottoposti a misure di isolamento preventivo - con assistenza sanitaria e sorveglianza epidemiologica da parte del medico con il supporto del 118. "L'Unità di coordinamento per il Covid-19 - si legge in una nota - sottolinea comunque che l'evidenziazione di queste positività non deve generare allarmismo. Si raccomanda in ogni caso alla popolazione di evitare, se non strettamente necessario, ogni spostamento verso le zone a rischio".

PIEMONTE.

Lidia Catalano per “la Stampa” il 9 novembre 2020. L'immagine delle brande allineate nelle chiese degli ospedali è l' emblema della ricerca spasmodica di posti-letto. Ma ancora più drammatica, per chi si trova a fronteggiare l' impennata dei ricoveri, è la carenza di personale. Il Piemonte travolto dalla seconda ondata dell' epidemia lancia l' ennesimo Sos. Stavolta il grido di aiuto parte da un esponente leghista in Consiglio regionale, che a sorpresa si rivolge alle Ong. «Dirottate personale sanitario dai vostri ospedali all' estero verso il Piemonte. I posti letto e soprattutto il personale si stanno esaurendo. Abbiamo bisogno dell' aiuto di tutti», è l'appello di Alessandro Stecco, che oltre a presiedere la Commissione regionale Sanità è anche docente universitario e medico all' ospedale di Novara. «I colleghi sono stanchi, ancora sfibrati dal peso della prima ondata e in molti casi purtroppo si stanno contagiando sul posto di lavoro. Senza il personale adeguato la ricerca di strutture, tecnologie e posti letto rischia di essere vana». Mancano figure chiave, come gli anestesisti, fondamentali per incrementare le terapie intensive. Impossibile appellarsi al contributo delle altre Regioni. «Durante la prima ondata un aiuto temporaneo è arrivato da professionisti reclutati al centro-sud. Ma ora anche loro sono alle prese con l'emergenza». Stesso discorso per gli altri Paesi europei. «Francia e Germania non sono certo nelle condizioni di poterci inviare i loro medici e infermieri», ragiona Stecco. Così l'ultima speranza a cui ci si aggrappa è cooperazione internazionale. «Credo sia il momento di attingere a tutte le risorse disponibili, come è avvenuto e avverrà per i rinforzi arrivati da Cuba e dalla Cina, per dare una mano a una delle parti d' Italia più colpite in base al tasso di ricoveri». Il margine dei posti letto disponibili in Piemonte si assottiglia ogni giorno di più. Dei 5.600 riservati ai pazienti positivi oltre 4.600 - di cui 300 in terapia intensiva - sono già occupati. Cappelle e centri congressi degli ospedali sono stati riadattati a reparti, si ricavano posti di fortuna nelle tende dell'Esercito, nelle mense, negli ambulatori delle Asl. Torino sta per inaugurare un ospedale da campo da 458 posti nel padiglione che fino a un anno fa ospitava le giostre durante le feste di Natale. «Ma senza personale diventa impossibile aprire i reparti e mantenere i percorsi di cura per le altre patologie», insiste Stecco, che, «senza intenti polemici» accusa il governo di muoversi «con una lentezza esasperante nell' attuazione dei suoi provvedimenti in materia di ospedali, tecnologie e territorio». Il riferimento è al piano per le terapie intensive consegnato dalle Regioni al commissario Arcuri e a oggi rimasto quasi del tutto inattuato. «Ma va anche detto che nessuno si aspettava un'impennata così violenta dei ricoveri: il virus sembra essere molto più contagioso e ha ripreso a propagarsi nelle aree più popolose. Un mix letale». Per questo, aggiunge Stecco, anche «un aiuto simbolico dalle Ong, se ci consentisse di attivare qualche posto letto in più in terapia intensiva, sarebbe un contributo importante». Sembrano lontanissimi oggi i tempi in cui il segretario della Lega Salvini demonizzava gli operatori umanitari che soccorrevano i migranti in mare. La pandemia, per una sorta di contrappasso, costringe il Carroccio a riabilitare il «nemico storico» e a elevarlo a unica possibile ancora di salvezza.

Alessandro Mondo per ''La Stampa'' il 7 novembre 2020. La Fase uno dell'epidemia aveva coinciso con le tende dei militari davanti agli ospedali. Ora sono tornate. Ma l'immagine, emblematica, sbiadisce di fronte alle brande ordinatamente disposte nelle cappelle e nelle sale congressi degli ospedali piemontesi. Mancano posti-letto, non tanto nelle terapie intensive ma nei reparti a bassa e media complessità di una Regione sempre più "rossa": ieri 29 decessi, 4878 nuovi contagi rispetto a giovedì (di cui 2022, il 41%, sono asintomatici), 192 nuovi ricoveri (19 in terapia intensiva, 173 in terapia non intensiva). Occhi puntati sulle Rsa, di nuovo accerchiate: 604 casi. «In Piemonte ci sono oltre 11 mila posti letto, con un limite che ci siamo dati per il Covid di 5600 posti - spiega Luigi Icardi, l'assessore alla Sanità -. In questo momento, siamo a 3600-3700, quindi abbiamo ancora un margine di ricovero importante. Per quanto riguarda le terapie intensive, abbiamo ulteriori 100 posti che si stanno attivando». La media dei ricoveri è di 177 al giorno, «c'è ancora il tempo per realizzare ulteriori posti». Toni rassicuranti che dietro le quinte si affievoliscono, cedendo il passo alla preoccupazione. Il vero termometro sono le riunioni a ciclo continuo tra l'Unità di crisi, il Dipartimento Emergenze-malattie infettive (Dirmei) e le Asl. Come quella convocata giovedì sera, a tarda ora, con i manager delle aziende sanitarie in collegamento. La Regione si aspetta un raddoppio dei ricoveri nei prossimi 15 giorni. Situazione particolarmente critica a Torino e Novara: a Torino l'ospedale da campo che a breve sorgerà nel quinto padiglione al Parco del Valentino (sarà gestito dall'Asl di Torino e dalla Città della Salute, che in quanto azienda universitaria può portare in dote gli specializzandi necessari per farlo funzionare) potrebbe non bastare; all'ospedale di Novara l'iperafflusso di pazienti Covid ha imposto per qualche ora la chiusura del pronto soccorso. Il problema sono in primis i posti letto per la degenza ordinaria e in subordine le terapie intensive: nel secondo caso la dotazione sulla carta, causa lentezze nella riconversione dei blocchi operatori dovute anche al mantenimento di parte delle attività sanitarie ordinarie, non sempre corrisponde a quella effettiva. Da qui la preoccupazione e le tensioni emerse durante quello che è stato una specie di gabinetto di guerra. I manager delle Asl sono stati diffidati di denuncia se non ottempereranno velocemente alle disposizioni che si succedono ad un ritmo sempre più incalzante. Negli ospedali i posti letto Covid devono salire al 50% (100% nei Covid Hospital), l'ordine di scuderia è quello di utilizzare ogni spazio disponibile: compresi ambulatori, palestre per la fisioterapia, sale gessi, sale mense, sale congressi, cappelle, chiese. E ancora: immediata contrattualizzazione degli hotel disposti ad accogliere pazienti Covid positivi, con indicazione del personale socio-sanitario di complemento. Si è persino valutata l'ipotesi di chiedere al governo una deroga per far tornare in servizio gli infermieri positivi asintomatici nei reparti Covid: improbabile, ma rende l'idea di un'emergenza nell'emergenza: la progressiva carenza di personale. L'ospedale San Luigi ha adibito la cappella e la sala congressi a reparto per pazienti Covid prossimi alla dimissione. Nei presidi sanitari dell'Asl Torino 5 si trasformano in repartini Covid anche gli ambulatori, dotati di erogatori dell'ossigeno. Gli ospedali stanno riattivando i Peimaf, i piani ospedalieri di risposta ad un massiccio afflusso di pazienti. Non accadeva dai tempi della strage di piazza San Carlo a Torino, 3 giugno 2017: allora era stato l'afflusso dei feriti e delle vittime della calca che si era scatenata durante la partita Juventus-Real Madrid a giustificare i piani straordinari, oggi il Covid. Mancano i posti letto e il personale, denunciano i sindacati Anaao Assomed, Nursind e Nursing Up: sotto-organico, già sfibrato dall'impegno profuso nella Fase uno, falcidiato dai contagi. L'arrivo di task-force dall'estero - i medici cubani a Torino, quelli cinesi a Vercelli - non può risolvere: gocce nel mare.

Alessandro Mondo per “la Stampa” il 5 novembre 2020. La prima linea, quella dei pronto soccorso, mostra la corda. Martedì sera a Torino nel pronto del Mauriziano si contavano un centinaio di pazienti da ricoverare e nessun posto libero. Situazione pesante anche al Maria Vittoria, altro presidio della città. A fare la differenza, oltre ai continui arrivi delle ambulanze, la chiusura del pronto soccorso del Martini, uno dei 16 ospedali piemontesi che la Regione ha trasformato in Covid Hospital. Ci sono stati momenti di forte difficoltà. Di tensione, anche: tra ospedali e ospedali e tra ospedali e 118, con l' Unità di crisi regionale costretta a mediare tra chi lamenta di non riuscire a reggere l' urto del continuo afflusso di ambulanze. Vista l' impossibilità per i mezzi del 118 di scaricare i pazienti al Mauriziano e al Maria Vittoria, si è optato per il loro trasferimento, tramite ambulanze militari, alle Molinette, al San Giovanni Bosco e persino all' ospedale di Tortona. Operazione ripetuta nella giornata di ieri: ambulanze ferme di fronte all' ingresso del Maria Vittoria in attesa di portare i malati positivi a Tortona. Altri sono partiti dal San Giovanni alla volta dell' ospedale di Borgosesia, nel Vercellese. La situazione degenera rapidamente. Emblematici i messaggi in arrivo dal personale dei pronto soccorso: «Non sappiamo più dove mettere i pazienti»; «è una catastrofe»; «oggi male: tanti malati positivi ma anche i "puliti" non mancano». I puliti, cioè i malati non Covid che arrivano, pure loro in emergenza. A metà giornata il pronto del Mauriziano aveva già accolto 35 pazienti Covid e 10 "grigi", cioè con diagnosi sospetta, le Molinette 35, 37 il San Luigi di Orbassano. In serata 85 pazienti erano presenti nel pronto del Maria Vittoria e 72 al San Giovanni. Martedì sera all' ospedale Molinette, il principale di Torino, è stato eseguito un singolare trasloco: di pazienti. Quelli Covid sono stati trasferiti negli spazi fino ad allora occupati dagli altri, più spaziosi, e viceversa. È il principio dei vasi comunicanti, innescato dall' aumento progressivo dei malati positivi che approdano al pronto soccorso e poi sono ricoverati. Operazione faticosa, accompagnata dalla sanificazione di tutti gli spazi, voluta dalla direzione con il concorso del personale sanitario. In un altro ospedale, il Mauriziano, si valuta di ricoverare i pazienti anche nelle palestre destinate alla fisiatria, nelle sale riservate alla mensa per i dipendenti e nella cappella interna, nei giorni scorsi già impiegata come sala d' attesa per garantire un riparo ai cittadini in coda per sottoporsi al tampone. Gli ospedali in capo all' Asl cittadina non stanno meglio: anzi. Sono le spie della progressiva sofferenza del sistema sanitario in una città e in una regione che ieri ha contato 37 decessi, 3.577 nuovi contagi rispetto a martedì, 166 nuovi ricoveri (20 in terapia intensiva e 146 non in terapia intensiva). Una regione dove le tende dell' esercito sono già sorte nelle vicinanze degli ospedali e dove si ragiona di un ospedale da campo da 500 posti letto ospitato in un padiglione nel Parco del Valentino. Sempre che lo spazio risulti agibile, e che basti. Un' onda lunga affrontata da un esercito di medici, infermieri e operatori socio-sanitari provati fisicamente e psicologicamente, reduci dallo sforzo sostenuto nella Fase uno dell' epidemia ed ora risucchiati in una nuova emergenza. La Regione, che non sa più a che santo votarsi, ha chiesto e ottenuto dal governo cubano il ritorno in Piemonte dei medici della Brigada Henry Revee che si erano già distinti nei mesi scorsi al Covid Hospital allestito alle Ogr. Una buona notizia, ma ci vuole altro.

Piemonte, bufera sull'assessore alla Sanità che va in viaggio di nozze nella settimana più critica dell'epidemia. Maria Chiara Giacosa su La Repubblica il 18 ottobre 2020. La Lega lo difende ma lo convoca per domani al rientro dalla luna di miele in Sicilia. La Lega vuole vedere Luigi Icardi, e non per farsi raccontare come è andato il viaggio di nozze. Domani, o al massimo martedì, l’assessore alla sanità della giunta Cirio incontrerà il gruppo regionale del suo partito, dopo la settimana trascorsa in Sicilia per festeggiare le nozze. La scelta, quella di allontanarsi dalla barca proprio nella settimana finora peggiore sul fronte della crescita dei contagi, con il sistema che torna in piena emergenza, è stata molto criticata dalle opposizioni, ma non è piaciuta nemmeno ai leghisti che, però, esattamente come quando Icardi era finito nel mezzo della bufera durante la fase più acuta dell’emergenza Covid, blindano il loro assessore, smentendo qualsiasi ipotesi. D’altra parte il centrodestra non avrebbe alcuna convenienza a immolare Icardi: la sua sostituzione darebbe infatti l’idea che a essere sconfessata sia tutta la gestione dell’emergenza coronavirus. Su cui però, anche nella maggioranza, si è riaperto lo scontro. E sono tornati tesi i rapporti tra Icardi e il presidente Cirio, che non ha gradito il turismo matrimoniale del suo assessore, non per il merito ma per il periodo scelto per allontanarsi, e da giorni chiede conto del perché in Piemonte per settimane si sono fatti pochi tamponi, a fronte delle reali possibilità dei laboratori in campo, compresi le due maxi strutture di La Loggia e Novara che finora hanno lavorato a mezzo regime. Fino a quando i numeri erano bassi il Piemonte poteva, con la potenza di fuoco messa in campo per analizzare i test, ambire a scalare almeno di qualche posizione la classifica che in questi mesi l’ha visto tra le regioni meno solerti. Il tempo perso, e ora il boom dei contagi che costringono il sistema sanitario a dirottare i tamponi sui casi sintomatici per non intasare i laboratori, archiviano a tempo indeterminato quella chances. Non solo. Tornano già all’ordine del giorno le segnalazioni di malati mai contattati dal Sisp, di attese lunghe per i tamponi che ogni tanto arrivano quando già è terminata la quarantena. Anche l’incontro di venerdì pomeriggio tra Cirio e i direttori delle Asl – doveva essere il punto settimanale di routine – si è trasformato in una non stop di tre ore, durante la quale il presidente ha verificato che il sistema ha bisogno di più di qualche aggiustamento. E che è tempo che l’assessore torni.

Lidia Catalano e Lodovico Poletto per “la Stampa” il 16 ottobre 2020. Sei mesi fa, nel pieno dell'emergenza, il Piemonte scontava la carenza di laboratori. Erano appena due, con una capacità di processare 120 tamponi al giorno. Troppo pochi per provare a tracciare e contenere una pandemia che solo nella regione mieteva fino a 100 vittime al giorno. Impossibile pensare di isolare i positivi, individuare i loro contatti stretti interrompendo la catena del contagio. Le conseguenze sono state drammatiche e hanno fatto del Piemonte la terza Regione d'Italia più colpita dalla pandemia, subito dietro la Lombardia e l'Emilia Romagna. Molte lacune di allora oggi sono state colmate. I laboratori del sistema sanitario regionale sono 15 e si sommano a quelli dei privati, portando la capacità massima delle strutture piemontesi a circa 11 mila tamponi. Esattamente quelli che la regione dovrebbe garantire ogni giorno per ottemperare a quanto previsto dal Dpcm di aprile, che imponeva tra gli indicatori di monitoraggio della fase 2 uno standard minimo di almeno 250 tamponi al giorno ogni 100 mila abitanti. Eppure quell'obiettivo non è mai stato raggiunto. Per tutto il mese di settembre la quota di test effettuati si è attestata tra i 5-6000 al giorno, contro gli oltre 10 mila di Emilia-Romagna e Veneto (territori paragonabili in termini di popolazione) e i 20 mila della Lombardia. Ora che i contagi hanno ricominciato a galoppare - 1500 nuovi casi negli ultimi due giorni - e la pressione sugli ospedali inizia a farsi sentire, la regione guidata da Alberto Cirio torna nel mirino. Troppo pochi tamponi, denunciano i medici e le opposizioni in Consiglio regionale. E dire che proprio dall'unità di crisi piemontese, da quel gruppo di lavoro guidato dall'ex ministro della Salute Ferruccio Fazio, era arrivata l'indicazione precisa di arrivare a 15 mila test al giorno. Una potenza di fuoco mai raggiunta. Ad oggi i guai del Piemonte nel contact tracing restano tanti. Dalla scarsa produttività dei laboratori regionali per l'analisi dei tamponi, alla carenza dei reagenti che si riflette anche sulle capacità di analisi («che cala anche del 50%»). Sui tavoli della Regione e delle Asl del Piemonte c'è un documento che denuncia tutte le carenze del Piemonte. È stato realizzato da una commissione di esperti. Punta il dito sulle Asl meno produttive (fanalino di coda sono quelle del cuneese, ma anche il capoluogo di regione ha qualche difficoltà). Chiede la creazione di una piattaforma informatica comune per tutti laboratori e le aziende, così che la mappatura e lo scambio di informazioni siano rapidi e veloci. Dichiara che intervenire è fondamentale per far sì che la macchina del tracciamento dei contatti funzioni. E poi c'è la questione dei laboratori di analisi privati, un parterre da implementare rapidamente se si vuole rientrare nei parametri previsti dal decreto aprile e inseguire ciò che aveva suggerito il gruppo di supporto istituito la scorsa primavera e guidato dall'ex ministro Fazio. Ma ciò che manca - a monte di tutto - sono le forniture per i test. A cui devono provvedere le Asl regionali. Visto che Invitalia ha fatto calcoli disallineati rispetto al reale.

Andrea Rossi per “la Stampa” il 27 aprile 2020. Due giorni fa il Piemonte ha superato l' Emilia Romagna e ora è la seconda regione italiana per casi di coronavirus: 24.910. Ci è arrivato in capo a una preoccupante rincorsa cominciata a inizio aprile, così tumultuosa da colmare in pochi giorni il divario dal Veneto ed Emilia. Secondo, il Piemonte, lo era già - e da diversi giorni - per i casi attualmente positivi, che scontano quindi le vittime e i guariti. Ma c' è un dato che più di tutti ne fa il malato d' Italia in questo momento: il rapporto tra la popolazione e le persone che attualmente lottano contro il virus. In Piemonte ci sono 356 abitanti ogni 100 mila alle prese con il Covid; in Lombardia 342. Il sorpasso è avvenuto martedì scorso. Dal primo aprile l' indice di positivi su 100 mila abitanti è cresciuto in Italia del 31,4%, in Piemonte dell' 83,1%, in Lombardia del 33,8, in Veneto del 14,7 e in Emilia del 7,4. Nella regione che più di tutti fatica a ridurre la curva del contagio - basti pensare che qui i nuovi casi aumentano in media del 2,5% al giorno, la Lombardia è intorno al 2%, l' Emilia viaggia stabilmente sull' 1% - ci sono poi almeno due casi allarmanti. Il primo riguarda Torino: pochi giorni fa era la quarta provincia per casi accertati; mercoledì ha superato Bergamo, ora tallona Brescia, 300 contagiati di differenza e un sorpasso che potrebbe avvenire già oggi. E poi c' è Alessandria: 755 casi ogni 100 mila abitanti, il doppio della media regionale, e 533 vittime su 2.859 in regione, avendo però appena il 9% della popolazione. Il Piemonte è terzo per ricoverati in terapia intensiva, ma i posti occupati si sono pressoché dimezzati negli ultimi giorni, da 460 a 217. Ed è la terza regione per decessi registrati, eppure da quindici giorni consecutivi tallona la Lombardia. In un quadro così complesso la Regione guidata da Alberto Cirio sta progettando la riapertura delle attività e un piano da 800 milioni per sostenere le attività in ginocchio. Il governatore si rimette al giudizio dei tecnici. Nel corso delle settimane si è circondato di tre gruppi di lavoro, totale 54 persone.  L' Unità di crisi, costituita a fine febbraio per affrontare l' emergenza, è oggetto di un' infinità di critiche per il degenerare della situazione (i pochi tamponi all' inizio, la strage nelle residenze per anziani, le protezioni mancanti negli ospedali). Il comitato tecnico scientifico (22 membri) non si riunisce da quasi un mese. L' ultimo gruppo di lavoro è nato intorno a chi per settimane - inascoltato - aveva criticato le scelte della Regione. In questo scenario ieri il capogruppo di Leu alla Camera Federico Fornaro ha avvertito che servirà «la massima prudenza là dove si è ancora in piena emergenza sanitaria». I fronti restano preoccupanti. Da una decina di giorni in Piemonte riesce a processare oltre 6 mila tamponi, sforzo che ha permesso di portare a galla centinaia di casi sommersi. Ma si sconta ancora il "peccato" iniziale, la scelta di eseguire test solo su chi presentava sintomi evidenti lasciando tutti gli altri alla responsabilità dei comportamenti individuali. Il risultato è stato l' esplodere dei contagi tra le mura domestiche, per non parlare delle Rsa: 20 mila tamponi fatti su ospiti e personale, uno su tre positivo, oltre 500 vittime finora. È l' affanno di una regione anziana, che negli ultimi anni ha attraversato il deserto del piano di rientro della Sanità: niente assunzioni, chiusura di alcuni presìdi, riorganizzazione della rete ospedaliera, indebolimento della Medicina territoriale, eliminazione e accorpamento dei servizi che non potevano giustificare utilità e sostenibilità economica. Quando l' epidemia ha fatto breccia il sistema si è trovato scoperto: due laboratori per i test, nessuna comunicazione tra medici di base e rete ospedaliera. E non ha saputo reagire: pronto soccorso intasati, in tilt il sistema che doveva raccogliere le segnalazioni dei dottori sui casi da trattare, mail andate perse. Solo da una decina di giorni, con il rinnovo delle task force voluto da Cirio, la rotta si è aggiustata: più tamponi, interventi sulla prevenzione, riorganizzazione della rete. Ma l' epidemia era ormai scoppiata: ora il contagio rallenta, ma sono ancora troppi i guai delle settimane passate da smaltire.

Il pasticcio piemontese. Report Rai PUNTATA DEL 20/04/2020 di Emanuele Bellano collaborazione di Greta Orsi. Il 21 febbraio la pandemia di Covid-19 si è abbattuta come uno tsunami sul nostro sistema sanitario. Una risposta rapida e adeguata di chi sta gestendo l'emergenza può fare la differenza tra il contenimento del contagio e l'aumento della diffusione del virus. Eppure qualcosa nella gestione del territorio non ha funzionato come sperato. ll Piemonte è una delle regioni più colpite, oggi seconda solo alla Lombardia per aumento di nuovi positivi. Report è andata sul campo per verificare come questo territorio sta affrontando la pandemia. 

- A riguardo del bar dell'Ospedale di Alessandria, pubblichiamo quanto ricevuto dall'Azienda Ospedaliera e la nostra risposta

Sul bar dell'Ospedale di Alessandria 20 aprile 2020 ore 21:20 - Riceviamo dall'Azienda Ospedaliera: Spett.le Redazione, L’Azienda Ospedaliera ha appreso con stupore che Rai3 racconterà i prima serata nel suo programma Report la situazione relativa al bar interno. Dalla visione di tali immagini risulterebbe assente la precisazione inviata dall’Azienda che si riporta nuovamente che evidenziava la legittimità dell’apertura e il rispetto delle disposizioni di distanziamento sociale per l’erogazione del servizio da parte del gestore.

“Il bar è aperto in quanto previsto dal DPCM 11.03.2020 2) Sono sospese le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie),  ad  esclusione  delle mense  e  del catering continuativo su base contrattuale,   che garantiscono la distanza di sicurezza  interpersonale  di  un  metro. Resta consentita la sola ristorazione con consegna  a  domicilio  nel rispetto  delle  norme  igienico-sanitarie  sia  per  l'attività  di confezionamento che  di  trasporto.  Restano,  altresì,  aperti  gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande posti  nelle  aree di servizio e rifornimento carburante situati lungo la rete stradale, autostradale e all'interno delle stazioni ferroviarie,  aeroportuali, lacustri  e  negli  ospedali garantendo  la  distanza di  sicurezza interpersonale di un metro. Tale scelta è stata effettuata pensando che gli operatori sanitari devono aver la possibilità di mangiare e avere un luogo di ristoro, soprattutto in caso di lunga permanenza in ospedale, in un luogo idoneo e con adeguate misure di sicurezza.”

Si tratta di un fatto gravissimo che getta discredito sulla gestione dell’emergenza dell’Azienda Ospedaliera e che pertanto si riserva ogni azione a Sua tutela e diffida fin d’ora alla messa in onda di un servizio che contiene informazioni false e inesatte. Inoltre si chiede di integrare con tali precisazioni eventuali servizi già diramati da altre testate giornalistiche (es. La Stampa) e vietarne la diffusione qualora non rettificate.

- La risposta della redazione: Gentilissimi, Riceviamo la vostra diffida nella quale evidenziate che il bar dell'Ospedale di Alessandria è legittimamente aperto e che nel bar sono rispettate le disposizioni di distanziamento sociale. A riguardo citate il DPCM 11.03.2020 che, dopo aver stabilito che i bar degli ospedali possono restare aperti, così recita: "Garantendo la distanza di sicurezza interpersonale di un metro". Ecco il testo del nostro servizio relativo al passaggio da voi menzionato: "Questo è il bar dell’ospedale di Alessandria pochi giorni fa. E’ aperto e le persone consumano sui tavolini, cosa vietata ovunque, anche negli autogrill". La questione menzionata dal servizio non è dunque il fatto che il bar sia aperto ma che al suo interno non venga rispettata la distanza interpersonale di un metro. A prova di ciò le immagini riprese all'interno del bar in cui i clienti consumano seduti ai tavoli a una distanza ampiamente inferiore a quella prevista dal decreto da voi citato. In particolare si vedono clienti seduti fianco a fianco vicini al punto di toccarsi spalla a spalla. Distinti saluti Redazione Report - Rai3

“IL PASTICCIO PIEMONTESE” Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi immagini di Giuseppe Cogno.

OPERATORE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19

Dove sei? Aspetta.

OPERATRICE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Ah è caduta?

OPERATORE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Ci sono i signori. SIGNORA Eh … sono caduta.

OPERATRICE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Signora è caduta?

OPERATRICE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Le manca l’aria in questi giorni? No. Signora controlliamo la temperatura. Aspetta eh.

OPERATORE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Mettiamo questo per respirare un po’ molto meglio, eh?

OPERATRICE AMBULANZA 118 SAVONA – 31 MARZO 2020 SOCCORSO COVID19 Guarda adesso la mettiamo un attimino così. Lei adesso, stia tranquilla. Brava, alzi il braccio. Pronto? Allora la paziente con l’ossigeno va meglio. 1, 2, 3. Vai tranquillo. Vai giù, vai a preparare la barella. Vai a preparare la barella.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’avevamo anticipato poco tempo fa, sono le condizioni in cui si muovono gli operatori del 118 quando vanno a soccorrere un sospetto paziente Covid. Insomma una delle regioni più colpite è il Piemonte che si sta giocando il secondo posto con l’Emilia Romagna. E questo perché? Perché per una questione di diagnosi non fatte. Hanno perso il controllo e stanno piano piano scalando questa triste classifica. E questo perché mancano i tamponi, i server sono intasati, si sono smarrite le email, circolari che fanno a cazzotti fra loro e una rete di medicina territoriale frantumata. E poi, come al solito, mancano i dispositivi di protezione. Mancano per tutti che per uno. Il nostro Emanuele Bellano.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Entro solo io, d'accordo? Così verifico la situazione. E quando suonano mi venite ad aprire, non vi avvicinate, non vi avvicinate a me, state più distanti di un metro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È il 12 marzo e a Tortona è scoppiato il focolaio che sta diffondendo rapidamente il virus nella zona. In questa casa di riposo per religiose ci sono 32 suore anziane che nella notte hanno accusato difficoltà respiratorie. Sul posto arriva il capo dell'unità di crisi regionale, Mario Raviolo. Indossa una tuta a protezione batteriologica con cappuccio e maschera con respiratore.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Noi abbiamo una decina di quelle maschere che sono in dotazione alla maxi emergenza 118 che sono delle maschere che sono il massimo della protezione.

EMANUELE BELLANO Cioè, lei in quel caso si è protetto a dovere, insomma.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Noi le usiamo normalmente per tutti i tipi di intervento, chimici, nucleari, batteriologici...

EMANUELE BELLANO Noi chi? Perché il personale no.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Maxi emergenza, maxi emergenza del 118, siamo una decina di persone, e abbiamo circa una decina di maschere in Piemonte di quel tipo.

EMANUELE BELLANO Gli operatori sanitari oggi con che tipi di dispositivi...

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Con i dispositivi che sono a disposizione per tutti gli altri operatori sanitari.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Regione non ci ha accordato il permesso di filmare l'attività del 118, ma abbiamo raccolto le testimonianze degli infermieri e dei medici.

ANONIMO Oggi gli operatori del soccorso vengono ancora mandati in giro con i camici, quindi che lasciano scoperto sostanzialmente un terzo di arto inferiore dell'operatore, di gamba dell'operatore. Per chiuderci sostanzialmente i guanti dobbiamo utilizzare dello scotch di carta.

EMANUELE BELLANO Al posto dei calzari cosa viene usato?

ANONIMO Attualmente le buste dell'immondizia. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Come questo medico in turno sull'ambulanza con indosso sacchi per la spazzatura alle caviglie, un grembiule al ginocchio e mascherina chirurgica.

EMANUELE BELLANO Certo, quello che colpisce è vedere un po' l'immagine sua che è il capo del 118 che si tutela nella maniera migliore possibile e poi invece l'esercito di infermieri e medici che tutti i giorni assistono pazienti e salvano vite umane che invece devono andare con dei mezzi di protezione che sono insufficienti.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Sì, l'alternativa era mettermi una mascherina chirurgica anch'io e entrare in una situazione davvero molto difficile; ho usato quello che avevo e che poteva proteggermi in un momento in cui la mia assenza, se avessi avuto dei problemi, forse sarebbe stata un problema per la macchina organizzativa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Torniamo a metà marzo, l’epidemia sta crescendo vertiginosamente e in quei giorni il problema dell’approvvigionamento di mascherine per il personale sanitario in Piemonte sembra risolto. L’assessore alla Sanità Icardi annuncia ai giornali di aver raggiunto un accordo con la ditta di moda Miroglio che inizierà a produrre mascherine per medici e infermieri della regione.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Queste sono le prima 10mila mascherine lavabili prodotte dalla ditta Miroglio, qui di fianco a me c’è uno degli artefici di questo miracolo. Oggi abbiamo ricevuto tutti i dati corretti per cui attendiamo di stampare la certificazione che abbiamo avuto da Roma, per cui queste saranno anche certificate.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà non sono arrivate né la certificazioni né le mascherine.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Non sono mai arrivate per questo motivo: queste mascherine per essere certificate dalla Protezione Civile e dall’Istituto Superiore di Sanità avrebbero, tutte le mascherine queste fatte, avrebbero dovuto essere, avere un trattamento antibatterico, avere una linea sterile di produzione. Quindi dall’Istituto poi ci sono arrivate indicazioni, “le potete utilizzare sulla popolazione, su tutti quelli che non trattano direttamente, non fanno operazioni mediche”.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma nei giorni in cui siamo in Piemonte i medici di medicina generale ricevono dalla Regione l’invito a ritirare presso le Asl, 2 mascherine Miroglio a testa. La mascherina non garantisce in alcun modo la protezione delle vie respiratorie chi la indossa, né offre protezione adeguata contro il virus.

EMANUELE BELLANO Questa forniture qui da questo punto di vista…

ROBERTO VENESIA – PRESIDENTE FIMMG PIEMONTE È inutile, assolutamente inutile. Non servono per fare visite a malati, assolutamente. Sarebbe un rischio incredibile.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Quando l’abbiamo avute e le abbiamo date, ma da utilizzare quando escono per andar a far la spesa, o per altre cose.

EMANUELE BELLANO Non per quando lavorano. Quando devono avere a che fare con i pazienti.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Infatti nella nota…

EMANUELE BELLANO Però dico visto che questi medici poi hanno anche contatti con pazienti Covid, in questo caso che cosa indossano?

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE FP2, FP3 non ne avevamo. Come unità di crisi noi non avevamo da distribuire. C’è stato un giorno, in cui ne avevamo 100 ne avevamo, per tutto il Piemonte.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dalle parole dell’assessore Icardi, si capisce perché nel pieno della diffusione del contagio, alcune Asl ordinano al personale sanitario di razionare l’uso di mascherine durante le ore di lavoro.

CHIARA RIVETTI – SEGRETARIO REGIONALE ANAAO PIEMONTE È stato intimato di non girare per le aree comuni con le maschere chirurgiche, mentre era proprio quello il momento in cui bisognava girare con le maschere chirurgiche. Per evitare la diffusione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Come nel caso della Asl di Vercelli che inoltra questa circolare. Le mascherine chirurgiche e i filtranti non devono essere indossate nelle aree comuni, cioè in tutti i luoghi degli ospedali dove non sono ricoverati pazienti Covid. L’ospedale Mauriziano di Torino invece il 5 marzo scrive ai suoi dipendenti che per l’assistenza ai pazienti Covid medici e infermieri devono usare la mascherina chirurgica e non i filtranti FFP2 o FFP3.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Questa nota abbiamo le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, validate dal comitato scientifico, che danno delle precise indicazioni, tra le quali questa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 22 febbraio il ministero della Salute aveva invece inviato a tutte le regioni queste indicazioni: “il personale sanitario in contatto con un caso sospetto o confermato di covid-19 deve indossare filtranti respiratori FFP2”.

CHIARA RIVETTI – SEGRETARIO REGIONALE ANAAO PIEMONTE Ci sono stati degli, del personale, richiamato perché girava con le mascherine e gli stato addirittura minacciato un procedimento disciplinare per procurato allarme, dicendo “ma le mascherine negli spazi comuni non servono”.

EMANUELE BELLANO Questo in che periodo?

CHIARA RIVETTI – SEGRETARIO REGIONALE ANAAO PIEMONTE Anche inizio marzo. Fino a inizio marzo i bar delle aziende erano ancora aperti, quindi c’era questa possibilità di diffusione perché comunque l’ospedale è purtroppo un posto a rischio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è il bar dell’ospedale di Alessandria pochi giorni fa. È aperto e le persone consumano sui tavolini, cosa vietata ovunque, anche negli autogrill. Vicino c’è la sala d’aspetto con alcuni sanitari in attesa di fare il tampone.

PAZIENTE OSPEDALE Sto aspettando che mi chiamino.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’ospedale ospita malati Covid e infermieri e medici che lavorano in terapia intensiva e nei reparti di malattie infettive rischiano di diffondere attraverso il bar, il contagio. Sempre nell’area più fortemente colpita del Piemonte c’è l’ospedale Cardinal Massaia di Asti; è uno dei centri scelti dalla Regione per affrontare l’emergenza Covid.

GABRIELE MONTANA – NURSIND ASTI Noi segnaliamo la non sicurezza per gli operatori sicuramente in una parte del pronto soccorso. È stata chiusa creando una parvenza di pressione negativa, una parvenza di chiusura, di un reparto chiuso ed è stato creato un reparto Covid intensivo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tutti questi letti in quest’area del pronto soccorso, ospitano malati Covid. In questo ambiente contiguo invece, ci sono gli infermieri che senza area di svestizione e decontaminazione girano per il resto dell’ospedale. A dividere i due ambienti, delle buste di plastica della spazzatura, appoggiate alle fessure delle vetrate.

EMANUELE BELLANO Questo tipo di separazione secondo lei è regolare, è a norma?

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Eh dovrei vederla. Ah qui c’è una vetrata…

EMANUELE BELLANO È appoggiata una busta, non so bene neanche come.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Le aziende hanno gli uffici tecnici che fanno queste valutazioni.

GABRIELE MONTANA – NURSIND ASTI L’azienda non ha interpellato l’ufficio della prevenzione. Non ci aspettavamo in un momento del genere il top della sicurezza, ma almeno una parvenza, ecco.

EMANUELE BELLANO Me lo conferma che questo qui è il pronto soccorso Covid?

GIOVANNI MESSORI IOLI – COMMISSARIO ASL ASTI Visto così mi sembra di sì. Lì qualche operatore, per portarsi avanti, per impedire che per sbaglio dei colleghi mettessero lì materiale cartaceo sulle feritoie, ha pensato di chiuderlo con delle buste di plastica.

EMANUELE BELLANO Ma perché invece non realizzare invece una segregazione vera, insomma?

GIOVANNI MESSORI IOLI – COMMISSARIO ASL ASTI Per l’ufficio tecnico, per la direzione del presidio, quell’ambiente lì era sicuro.

EMANUELE BELLANO Quanti tra medici e infermieri, qui nell’ospedale di Asti voi avete avuto come positivi?

GIOVANNI MESSORI IOLI – COMMISSARIO ASL ASTI Abbiamo pochissime unità per adesso per fortuna.

EMANUELE BELLANO Mi sa dare un numero?

GIOVANNI MESSORI IOLI – COMMISSARIO ASL ASTI Mi pare quattro, due… ma insomma, i numeri sono molto piccoli.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà stando al Nursind, il sindacato degli infermieri, a quella data i casi di operatori sanitari dell’ospedale di Asti contagiati, sono circa 80. Una trentina invece secondo la Asl.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Fin dal 22 febbraio a ridosso dei primi casi di Coronavirus in Italia il ministero della Salute pubblica le linee guida per gli ospedali e raccomanda che “i casi di Covid-19 siano ospedalizzati in stanze con pressione negativa” cioè sigillate e tali per cui l’aria che c’è dentro non possa uscire al di fuori. Poiché il rischio è la diffusione incontrollata del virus, l’ospedale deve valutare attentamente la gestione dei nuovi spazi Covid. Tutte le modifiche devono essere - stando al testo unico della sicurezza sul lavoro - per legge valutate dal Responsabile del Servizio di Protezione e Prevenzione che alla fine stila una relazione.

EMANUELE BELLANO Nel documento di valutazione del rischio che lei ha stilato con la Asl è stato analizzato anche per esempio il fatto che nel pronto soccorso Covid dell’ospedale di Asti c’è una vetrata in cui ci sono delle fessure e che sono state chiuse con delle buste di plastica della spazzatura?

ANDREA CANE – RESP. PREVENZIONE E PROTEZIONE OSP. DI ASTI Non lo so, non mi pare. Guardi che per delle feritoie del genere non è quello il problema dove passa il sarscov2, glielo posso garantire. Quindi se è per quello non stia a preoccuparsi. Però il tempo tecnico di mettere giù il telefono con lei avviso l'ufficio tecnico che vada a vedere perché anche solamente una persona che veda un pronto soccorso che è fatto così, dove fa schifo puzza fa pietà e compassione verrebbe da dire qualche cosa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci scrive l’assessorato alla Salute, che la circolare dell’Asl di Vercelli, emessa nella prima settimana di marzo, riportante l’indicazione “chirurgiche” (riferito alle mascherine) era un errore, e che è stato già segnalato e prontamente eliminato il 10 marzo. Insomma, intanto Mario Raviolo, che è l’uomo che è stato nominato capo dall’assessore Icardi dell’Unità di Crisi per l’Emergenza Covid, quello che si è infilato lo scafandro tanto per capirci è stato rimosso dall’incarico. Ecco. Tuttavia rimane a capo della gestione del 118. Per che cosa è stato rimosso Raviolo? Per la gestione del caso Alessandria. Ecco, il manuale delle cose che non devi fare quando scoppia un’epidemia. Tuttavia probabilmente Raviolo è stato spostato, rimosso per responsabilità che non sono solo le sue.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Al 7 aprile la provincia di Alessandria contava 2000 contagiati, in proporzione alla popolazione, di più per esempio della provincia di Milano. Ma in Piemonte i tamponi fatti sono molto meno che altrove.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Scene come questa qui si vedono praticamente tutti i giorni: all’ospedale di Alessandria la salma di un malato di Covid viene prelevata dall’obitorio dai funzionari delle onoranze funebri. Per lui non potranno esserci esequie con i famigliari che hanno potuto vederlo per l’ultima volta quando da casa è stato trasferito in ospedale.

EMANUELE BELLANO È una situazione che voi non avete vissuto prima da quello che capisco.

MARCO BAGLIANO – ONORANZE FUNEBRI BAGLIANO - ALESSANDRIA Mai, la nostra è un’azienda che ha 100 anni e io vivo di ricordi di nonni, di bisnonni, una situazione del genere non è ma mai in assoluto stata ma neanche raccontata. In questo momento ci ritroviamo a mandare foto di casse via whatsapp perché questo è l’unico sistema di comunicazione, fare delle foto alle benedizioni o fare dei video in diretta.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’anomalia si riscontra anche nei dati. In provincia si passa dai zero contagi del 25 febbraio ai 2016 dell’8 aprile, con un aumento esponenziale in sole 4 settimane. Un focolaio molto intenso di fatto è scoppiato in questa area a metà febbraio. I ricoverati in tutta la provincia di Alessandria passano in pochi giorni da 2 a 580. Una parte sono nell’ospedale di Alessandria.

GUIDO CHICHINO – PRIMARIO MALATTIE INFETTIVE – OSPEDALE ALESSANDRIA Questo è il pronto soccorso vero e proprio e qui c’è medicina d’urgenza.

EMANUELE BELLANO Questa è proprio l’area Covid.

GUIDO CHICHINO – PRIMARIO MALATTIE INFETTIVE – OSPEDALE ALESSANDRIA Area Covid e semi intensiva. In questo momento in semi intensiva ci sono più di 30 pazienti.

EMANUELE BELLANO Qui, in questo reparto qui…

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma come nasce il focolaio più acuto del Piemonte?

GUIDO CHICHINO – PRIMARIO MALATTIE INFETTIVE – OSPEDALE ALESSANDRIA Uno dei primi casi gravi che ci sono stati nel tortonese si riferiva a un orchestrale che era stato il giorno di san Valentino a suonare in una sala da ballo. Chiaramente gli orchestrali non vivono mica per un solo concerto, girano e quindi questo con la sua orchestra era nei giorni precedenti, anche il mese precedente, stato in Lombardia, stato nelle zone poi colpite dall’infezione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La sala da ballo dove è avvenuto il primo contagio è questo locale nel paesino di Sale. ABITANTE Un musicista era risultato infettato e però tanta gente era andata lì vicino perché deve essere uno di queste zone, sono andati lì a stringerli la mano, a salutarlo e poi…

EMANUELE BELLANO E da lì poi è partito il contagio? ABITANTE E certo, questo qui avrà magari infettato 4-5-6 persone

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l’esibizione il batterista 68enne dell’orchestra viene ricoverato in ospedale in rianimazione. La Cometa viene chiusa al pubblico, sigillata e subito si registrano i primi 6 casi di positività al Covid, tutti riconducibili al locale. La situazione appare subito critica.

GIORNALISTA TGR – DAL TGR PIEMONTE 3/03/2020 Mario Raviolo coordinatore dell’unità di crisi ha un appello da fare, perché pare che sia stato trovato un luogo che si è prestato in modo particolare al contagio, si tratta di una sala da ballo.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Sì, si tratta di una sala da ballo, grazie. Perché abbiamo questa sala appunto nel comune di Sale, provincia di Alessandria, dove dopo il 17 febbraio ci sono stati molti eventi che hanno previsto la partecipazione di soggetti di età media.

GIORNALISTA TGR – DAL VIDEO E ci sono dei casi già confermati?

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Purtroppo abbiamo riscontrato la positività di 6 soggetti ed è necessario assolutamente che tutte le persone che sono state a ballare in quella discoteca e che presentano sintomi, contattino, quindi febbre, contattino domani il loro medico curante, si mettano in relazione col servizio sanitario nazionale in modo tale che possiamo prenderli in carico dal punto di vista sanitario.

EMANUELE BELLANO Queste persone che si sono rivolte ai medici di base e hanno segnalato la loro presenza in quel locale, sono state contattate dal servizio sanitario, monitorate e magari sottoposte a tampone?

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Onestamente questo secondo pezzo non l’ho seguito, non l’ho gestito.

EMANUELE BELLANO Che feedback voi avete avuto da questa cosa qui, siete riusciti a segnalare persone?

ANGELO LEGNAZZI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE – SALE (AL) Allora io ho segnalato una persona che sicuramente l’ha avuto, se l’è cavata, ho chiesto per questo signore ma non mi hanno più risposto niente, finita lì… EMANUELE BELLANO Chi è che non le ha risposto?

ANGELO LEGNAZZI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE – SALE (AL) Mi han detto che mi avrebbero fatto sapere qualcosa (tosse)… ma poi alla fine non abbiamo ottenuto niente…

EMANUELE BELLANO Cioè dall’unità di crisi… dal sistema di sorveglianza?

ANGELO LEGNAZZI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE – SALE (AL) Dal sistema di sorveglianza…

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La maggior parte dei medici di base che abbiamo chiamato sono stati contattati da pazienti che erano stati alla Cometa.

EMANUELE BELLANO Quante persone l’hanno contattata, dicendo: “siamo stati lì, dovremmo fare il tampone”?

PIERLUIGI VILLA – MEDICO DI MEDICINA GENERALE – SALE (AL) Eh, nella sala da ballo ne avevo una, massimo due…

EMANUELE BELLANO E a queste due persone, il tampone in seguito alla sua comunicazione è stato fatto o no?

PIERLUIGI VILLA – MEDICO DI MEDICINA GENERALE – SALE (AL) Non è stato fatto.

EMANUELE BELLANO Cioè, lei ha fatto l’appello al telegiornale, chiedendo questa cosa. E poi, chi doveva seguire, c’è stato un controllo poi dopo la denuncia, l’autodenuncia, di queste persone? MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Dal nostro punto di vista no.

EMANUELE BELLANO Questo vuol dire che quelle persone che sono state lì, se non hanno avuto il buon senso di rimanere a casa da sole, potrebbero aver tranquillamente invece continuato a girare, a diffondere il virus.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Non penso, noi siamo stati tempestivi nella nomina del commissario.

EMANUELE BELLANO Ecco però, quelle persone lì, non sono state controllate, non erano sotto controllo, non è stato fatto il tampone per vedere quale di quelle erano positive…

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Allora, come le ripeto in alcuni casi è successo quello che dice lei, nel grosso dei casi no. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il commissario per l’ospedale di Tortona viene nominato il 9 marzo. L’appello alla popolazione da parte dell’unita di crisi è del 3 marzo. In questa settimana i contagi in provincia di Alessandria passano da 0 a 63. Nei 14 giorni successivi si palesano i casi diffusi in quel periodo. Dai 105 dell’11 marzo, i contagi schizzano a 1106 del 27 marzo. Il secondo commissario viene nominato il 30 marzo. A quella data i contagi viaggiano ormai verso quota 1500.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Io ho avuto segnalazioni dai sindaci sul fatto che quest’area territoriale non funzionava. Tenga presente che lì si è verificato un numero enorme di casi in contemporanea.

EMANUELE BELLANO Parliamo di Tortona, Alessandria…

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Alessandria… e quindi lì la risposta non è stata adeguata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Stiamo parlando di una regione, il Piemonte, che vanta uno dei sistemi sanitari più rinomati d’Italia. Il ministero della Salute addirittura lo pone tra i primi quattro posti. E il governatore Cirio non perde occasione per tessere le lodi del sistema sanitario. Ma al momento della crisi poteva contare solo di 287 posti in terapia intensiva. Uno dei dati più bassi di tutta Italia. Ecco però si poteva evitare che tanti pazienti confluissero contemporaneamente nelle sale della terapie intensive. Come? Facendo funzionare il Sisp, il sistema di igiene e sanità pubblica regionale. Però qui la storia si fa brutta. Una storia si server intasati, di mail smarrite e soprattutto di pazienti di cui si sono perse le tracce.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando scoppia la pandemia lo strumento di controllo per arginare il virus diventa il sistema sanitario territoriale. Il protocollo per il contenimento dei contagi prevede che i potenziali pazienti positivi debbano essere registrati dal SISP, il sistema di igiene e sanità pubblica regionale, che fa capo alle ASL.

FRANCESCA D’AGOSTINO – MEDICO DI FAMIGLIA - TORINO Via telefono è praticamente impossibile. Per esempio, il primo paziente che ho segnalato, aveva la febbre da più di 10 giorni e quindi ho fatto la segnalazione, ho inviato la scheda di segnalazione via mail il 9 marzo. Ho rinviato un’altra scheda di segnalazione per sollecitare qualche giorno fa, non ho ricevuto ancora la risposta. Il paziente non è mai stato contattato. In teoria doveva essere contattato dal SISP due volte al giorno per sapere le sue condizioni di salute. In teoria doveva essere fatto il tampone. Non so quando farlo uscire di casa, perché poi il dubbio è anche quello: adesso sta meglio, però è guarito? Non lo so.

EMANUELE BELLANO Cioè i medici di base.

GUIDO GIUSTETTO - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI TORINO Mandano una email…

EMANUELE BELLANO Segnalano che una persona che potrebbe essere vettore inevitabilmente di diffusione del virus.

GUIDO GIUSTETTO - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI TORINO Sì, ma il SISP non la legge, ma non perché non vogliono leggerla, perché son così pochi che non riescono a leggerla. Mi sembra strano ma mi è stato detto, che il sistema della posta a un certo punto quando raggiunge un certo numero di mail non lette non memorizza più quelle successive, per cui…

EMANUELE BELLANO Si perdono nel nulla.

GUIDO GIUSTETTO - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI TORINO Ci sono probabilmente delle segnalazioni che sono state perse nel nulla.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questa è la risposta automatica inviata dal SISP ai medici che segnalano casi di Covid fra i loro pazienti: “il sistema è sovraccarico e le mail in ingresso e in uscita sono bloccate. La comunicazione quindi è paralizzata.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE È successo che in alcuni casi, l’intasamento della posta elettronica, non solo quella, ci sono un paio di casi in cui si è intasata.

EMANUELE BELLANO Però questa mail di risposta del sistema che io le sto leggendo è del 26 marzo, parliamo di 3, 4 giorni fa più o meno.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Lo trovo strano però se me la fa avere certamente provvederemo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Poco più avanti la risposta automatica del SISP di Torino scrive: “il sistema prenderà in carico la segnalazione solo nel caso in cui siano disponibili i dati anagrafici del caso Covid positivo da cui il paziente si è infettato. Diversamente la segnalazione non potrà essere presa in carico” una circostanza, questa, che secondo i medici è quasi sempre impossibile fornire.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Sì, ma da dove arriva?

EMANUELE BELLANO Questa me l’ha girata ovviamente un medico, una fonte, il nome è coperto.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE No, no, no, ma chi l’ha inviata? Da chi è firmata?

EMANUELE BELLANO È la risposta automatica, diciamo così, del sistema di sorveglianza del SISP a un modulo compilato da un medico di medicina generale che stava segnalando un paziente come potenziale.

COVID… LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE È sbagliato, è evidentemente sbagliato…!

EMANUELE BELLANO Lo correggerete?

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE E certo!

EMANUELE BELLANO La correggerete questa cosa?

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Certamente. No ma… se me la gira così vediamo; uno è stata una delle aziende sanitarie piemontesi che ha fatto questo errore.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Di risposte come queste dal sistema SISP ogni medico di base ne ha ricevute a decine per tutto il mese di marzo.

LUIGI GENESIO ICARDI - ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE PIEMONTE Probabilmente il SISP non ha avuto la capacità di rispondere alle migliaia di mail, alle migliaia di sollecitazioni che ha avuto sul caso specifico. Per questo motivo, già in precedenza, eravamo partiti con una nuova piattaforma informatica. Questa piattaforma prevede che il paziente preso in carico venga inserito su un sistema informativo, dove c’è scritto dov’è, cosa fa, se è ai domiciliari, se è stato fatto il tampone.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La piattaforma era in fase di avvio proprio nei giorni in cui abbiamo realizzato l’intervista. Per tutto il primo mese di emergenza, invece, quando i contagi sono saliti vertiginosamente, la struttura sanitaria del territorio è rimasta in black out, senza possibilità di comunicare.

GUIDO GIUSTETTO - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI TORINO Noi non abbiamo ancora le unità operative territoriali, quelle che sono dette in gergo le USCA, che vuol dire Unità Speciali di Continuità Assistenziale, non abbiamo ancora le unità operative sul territorio, perché questi pazienti, qualcuno forse potrà essere monitorato a telefono, ma un bel numero dovrà essere visitato a casa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Previste dal decreto coronavirus del 9 marzo, le USCA sono dei team di medici addestrati ed equipaggiati che ogni regione deve dislocare sul territorio, con il compito di visitare il paziente a domicilio.

ROBERTO VENESIA – PRESIDENTE FIMMG PIEMONTE Non è stato fatto in Piemonte ed era perentorio il decreto: diceva entro 10 giorni. A me risulta che i 10 giorni sono scaduti il 19 di marzo. In Piemonte abbiamo 60 distretti, quindi mediamente ci vorrebbero due USCA per distretto; sa quante ce ne sono operative oggi? Mi risultano 4 o forse 5.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Senza gli strumenti in grado di controllare il territorio, l’unità che gestisce l’emergenza è come un corpo cieco: non sa chi sono i malati in casa, né quante persone rispettano la quarantena o vanno in giro a diffondere il contagio. Non ha numeri attendibili sulla diffusione del virus. Ed è forse anche a causa di questa cecità che il capo dell’unità di crisi regionale in quei giorni imputa, in una lettera di richiamo, il caos che sta investendo il 118, alla pigrizia dei medici di base.

EMANUELE BELLANO Il suo ruolo non era anche quello di coordinare il controllo sul territorio, la prevenzione territoriale?

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Sì, effettivamente l'abbiamo fatto.

EMANUELE BELLANO Se lei conosceva la situazione sul territorio non avrebbe dovuto richiamare i medici di base che le segnalazioni le facevano al Sisp; il problema era che il Sisp era al collasso.

MARIO RAVIOLO –DIRETTORE UNITÀ DI CRISI PIEMONTE 22/02/2020 – 16/03/2020 Collasso non so cosa voglia dire; so che ovviamente c'era un numero di richieste elevatissimo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sì al collasso. Ora sulla questione delle mail scomparse stanno indagando i Nas su mandato della Procura di Torino che indaga anche sul perché mancavano, sono mancati i dispositivi di protezione. Lì è un po’ più semplice perché bisogna semplicemente individuare chi avrebbe dovuto applicare il piano contro le pandemie al livello nazionale e anche recepirlo al livello regionale. Ecco mentre invece la Regione ci scrive che si sono resi conto dopo che i laboratori effettivamente in grado di processare i tamponi per l’individuazione del Covid-19 in Piemonte erano solamente due. E poi sulle Usca la Regione sostiene di essersi attivata entro il 17 marzo, entro i limiti stabiliti dal governo, però il risultato abbiamo visto, che è un disastro. È stato un disastro. Bisognerà potenziare la rete di medici sul territorio, dar loro la possibilità di prescrivere quei medicinali che servono per limitare i danni del virus prima che portino il paziente in terapia intensiva. Ma bisogna far presto perché l’autunno è alle porte e liberarsi del virus sarà cosa lunga.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Come la Lombardia, e in questo periodo non si tratta di un complimento. Se esiste un caso Piemonte, passa anche attraverso una latente accusa di subalternità della sua nuova classe dirigente alla regione finora più colpita dall' epidemia, che si manifesta con la replica quasi esatta dei provvedimento presi a Milano, con un giorno di ritardo. L' annuncio anch' esso postdatato della mancata riapertura delle librerie porta acqua al mulino di chi sostiene un sostanziale allineamento alla Lombardia, circostanza storicamente non proprio gradita sotto la Mole e nelle altre province sabaude. Fino a una settimana fa poteva essere al massimo un tema di nicchia per gli studiosi della complicata relazione politico-psicologica tra le due regioni confinanti. Adesso, dati alla mano, sta purtroppo diventando una questione molto più seria. A voler cominciare dalle buone notizie, occorre dire che le terapie intensive si stanno svuotando con un passo in linea con il resto d' Italia, alcuni giorni anche più veloce. Ma è l' unica curva che sta prendendo la giusta direzione. La crescita dei contagi, ieri altri 474 casi, +2,8 per cento rispetto al +2 per cento nazionale, con un misterioso aumento del 9,9% in provincia di Cuneo, ha toccato un tasso giornaliero del 6 per cento nella prima settimana di aprile, scendendo al 4 per cento negli ultimi giorni, pur sempre il doppio della Lombardia, che oscilla intorno al 2 per cento. La provincia di Torino, con 8.181 contagiati, è la quarta più colpita dopo Milano, Bergamo e Brescia. Il Piemonte è la terza regione italiana per numero di contagi dopo la Lombardia e l' Emilia-Romagna. Se la Lombardia è vicina in senso non solo figurato, il Veneto appare distante come non mai. A parità di confini, a est come a ovest, la regione amministrata da Luca Zaia ha mostrato una autonomia decisionale che sembra dare buoni frutti. Di fronte a una sostanziale parità di abitanti, il Piemonte conta 1.826 decessi, quasi mille in più rispetto al Veneto (882), 12.765 casi di positività, duemila in più del Veneto (10.766), e supera anche l' Emilia-Romagna nel numero di persone ricoverate in terapia intensiva, 379 contro 332, mentre il Veneto si ferma quota 245. Nelle case di riposo si contano poi quasi cinquecento morti e almeno cinque inchieste delle procure di quasi ogni provincia che indagano per epidemia colposa. Alla fine di marzo Cirio si era detto possibilista sull' idea di seguire l' esempio veneto in tema mappatura del contagio, riconoscendo la necessità di sottoporre al tampone il maggior numero possibile di piemontesi. L'uscita è rimasta nel cassetto dei buoni propositi, pur «nel rispetto delle indicazioni dell' Organizzazione mondiale della sanità», come ripete sempre l' assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi. In Piemonte sono stati effettuati solo 69.170 tamponi, contro i 211.092 della Lombardia, i 203.077 del Veneto e i 99.047 dell' Emilia-Romagna. Seppure con la dovuta avvertenza che si sta parlando di un evento eccezionale e impossibile da prevedere, per il mondo intero e non solo per il Piemonte, i numeri dicono che qualcosa non sta funzionando. Alle obiezioni sullo scarso numero di tamponi effettuati finora, Cirio replica dicendo di avere trovato al suo arrivo nel maggio del 2019 solo due laboratori attivi, mentre adesso li ha portati a 17. L' attuale presidente insiste spesso sulle presunte colpe dei suoi predecessori. «Sto combattendo una guerra con l' esercito che ho trovato, che aveva gravi carenze organizzative». Il suo assessore alla Sanità porta avanti la teoria «gli altri stanno peggio di noi». Nel rispondere a un duro documento dell' Ordine dei medici, il Comitato di crisi evoca «attacchi alle spalle», mentre il capogruppo della Lega Alberto Preioni attribuisce il mancato contenimento dell' epidemia ai medici di famiglia, che a suo parere non andavano a trovare i malati. Come minimo, in Piemonte esiste anche un serio problema di comunicazione istituzionale.

Da liberoquotidiano.it il 18 marzo 2020. Il paziente 1 del Piemonte, dichiarato guarito dal coronavirus è tornato in quarantena. Secondo quanto riporta la Repubblica, l'uomo, un manager quarantenne di Torino, colpito da Covid-19 e ricoverato all'ospedale Amedeo Di Savoia stava per tornare a casa perché dopo le cure e una serie di test era risultato guarito. Poi però, prima delle dimissioni, un tampone di controllo ha invece evidenziato ancora  un basso grado di positività.  "E' guarito, lo confermiamo", dice il professor Giovanni Di Perri, virologo e responsabile Malattie infettive all'Amedeo di Savoia, "in questi casi è abbastanza normale che ci sia una fase di oscillazione fra negatività e positività. Succede in tutte le infezioni".

Lidia Catalano per "lastampa.it" il 18 marzo 2020. Il coronavirus in Piemonte galoppa senza sosta. Nella sola provincia di Torino i casi sono triplicati in tre giorni. Il bollettino dei contagi ieri sera certificava 904 positivi, sabato erano 305. E si continua a morire, a ritmi che inquietano: domenica 15 marzo non era ancora stato sfondato il tetto psicologico dei cento decessi, adesso le vittime in tutta la regione sono 144 e il dato è destinato a crescere perché il picco dell’epidemia è ancora lontano. Ieri il presidente Alberto Cirio ha ufficializzato la decisione di eseguire i tamponi su tutti gli operatori sanitari: sono 55mila, distribuiti in tutte le Asl del territorio. «È una richiesta che ci è stata fatta dall’Ordine dei medici e dai sindacati, a cui vogliamo dare una risposta rapida anche perché è nell’interesse dell’intera comunità tutelare la salute di chi è in prima linea in questa emergenza», ha chiarito Cirio durante la conferenza stampa di insediamento di Vincenzo Coccolo, nuovo commissario straordinario per il coronavirus in Piemonte. La scelta dei «tamponamenti a tappeto», per i quali sarà comunque seguito un criterio di priorità, insieme alla volontà di garantire delle premialità economiche per gli sforzi di queste settimane, rappresentano anche segnali di distensione nei confronti del mondo sanitario, che nelle scorse settimane si era scontrato con una gestione ritenuta «brusca» della macchina organizzativa presieduta dal dottor Mario Raviolo. E non a caso - altro segno di discontinuità - lo stesso Ordine dei medici entrerà a far parte della nuova unità di crisi.

La nuova task force. Un organismo fortemente ampliato, perché, spiega Cirio, «questa non è più soltanto un’emergenza sanitaria, ma una crisi sociale, economica, di ordine pubblico, di approvvigionamento delle risorse». A sovrintendere un quadro sempre più complesso la Regione ha voluto «una figura di grande competenza, per l’esperienza nella gestione di crisi idrogeologiche e umanitarie, ma anche molto lucida e posata», spiega Cirio. Fondamentale, in questa fase, mantenere i nervi saldi e un buon dialogo con tutti gli attori coinvolti. «Ho raccolto la sfida con orgoglio perché penso che ogni cittadino debba mettere le proprie competenze al servizio di un’emergenza epocale come questa», ha detto Coccolo.

I dispositivi mancanti. Che già dalle prossime ore, insieme alla sua squadra, dovrà fare i conti con l’altra priorità per gli operatori sanitari, che lamentano una grave carenza di dispositivi di sicurezza individuali, come mascherine, camici e occhiali. «Le forniture sono scarse, daremo la precedenza agli operatori ospedalieri», ha chiarito l’assessore Luigi Icardi. «Tutti gli altri soggetti che ne fanno richiesta, farmacisti, medici di base, forze dell’ordine, saranno riforniti in base alla disponibilità». Sulla penuria di rifornimenti Cirio punta il dito contro il governo: «Continuiamo a ricevere poco sia in termini qualitativi che quantitativi, infatti già da giorni ci siamo attivati con canali interni». Dove può, la regione fa da sé. Lo dimostra l’accelerata sull’inaugurazione dell’ospedale di Verduno, nel Cuneese, che sarà interamente dedicato alla cura del coronavirus e già da domenica dovrebbe accogliere i primi pazienti. Si guarda con speranza al fine settimana, anche perché la giunta conta di vedere al più presto i primi risultati delle misure di contenimento. «Ci siamo mossi con anticipo, siamo convinti che otterremo segnali incoraggianti».

La rete si amplia. Intanto la Regione si attrezza per ampliare la rete dei laboratori che eseguono i tamponi. «Nelle prossime ore ne apriremo uno a Rivoli e uno a Biella e doteremo i centri delle Molinette e dell’Amedeo di Savoia di quattro apparecchiature per eseguire i test rapidi, in grado di dare l’esito in appena un’ora», spiega Icardi. Non solo. «Il laboratorio di Orbassano sarà dedicato esclusivamente ai test sui dipendenti del sistema sanitario regionale».

Le critiche a Cirio. Escluso, per ora, che i tamponi vengano estesi alla popolazione su larga scala, come caldeggiato da diversi esponenti del Consiglio regionale. «Il Piemonte segua il modello del Veneto per contenere il contagio», esorta Maurizio Marrone (Fdi). «Conosciamo le difficoltà di risorse e mezzi, ma è necessario aumentare i numeri perché è ampiamente documentato che il contagio si diffonde anche attraverso gli asintomatici», aggiungono Mauro Salizzoni e Domenico Rossi del Pd. Dall’inizio della crisi la Lombardia ha eseguito 46.449 tamponi, il Veneto 35.478 e il Piemonte 6.872, pur avendo appena 600 mila abitanti in meno della Regione governata da Luca Zaia. 

Coronavirus, Cirio dice basta: "In Piemonte ci sono le condizioni per un ritorno alla normalità". La richiesta al governo del presidente della Regione. Domani vertice con presidenti di provincia, sindaci e prefetti per "sospendere o rimodulare le misure". Il Piemonte chiederà lo stato di crisi. La Repubblica il 26 febbraio 2020. "In Piemonte ci sono le condizioni per un graduale ritorno alla normalità". Il messaggio al governo è del presidente del Piemonte, Alberto Cirio, anche alla luce del calo del numero di contagiati in tutta la regione che, dopo l'esito negativo dei test di verifica sulla coppia di Cumiana, si è ridotto a uno. "L’ottima notizia del risultato negativo pervenuto sui due casi di Cumiana - è scritto in una nota della Regione Piemonte - è stato accolto con grande favore dal presidente della Regione che, alla luce dell’esistenza al momento in Piemonte di un solo caso di contagio collegato al ceppo lombardo, ritiene ci siano finalmente le condizioni per chiedere al governo un graduale ritorno alla normalità". "Le misure attualmente in vigore - prosegue la nota - per l’ordinanza adottata il 23 febbraio dalla Regione Piemonte, erano già meno restrittive rispetto a quelle previste da altre Regioni come la Lombardia, proprio alla luce della situazione piemontese decisamente più contenuta e circoscritta". "L’ordinanza attuale scadrà sabato 29 febbraio e, visto il nuovo quadro sanitario, al fine di confrontarsi sull’opportunità di sospendere o rimodulare le misure per il contenimento del coronavirus in Piemonte, il Presidente della Regione ha convocato domani alle 18 nella sede della presidenza in piazza Castello i presidenti delle Province, i sindaci dei Comuni capoluogo e tutti i prefetti del territorio". Il Piemonte, inoltre, chiederà lo stato di crisi per le aziende penalizzate dall'effetto coronavirus. Lo ha annunciato oggi in conferenza stampa l'assessore alla Sanità, Luigi Icardi, che domani incontrerà a Roma il ministro della Salute, Roberto Speranza. "Faremo un rendiconto della situazione  nella nostra regione - spiega Icardi - Porteremo anche le istanze del nostro territorio, comprese quelle delle aziende, degli alberghi,  dei ristoranti e delle attività commerciali. Alle aziende -  prosegue Icardi - abbiamo chiesto un'analisi comparativa degli incassi di quest'anno e dell'anno scorso nello stesso periodo, per dare una prima sommaria stima dei danni e chiedere lo stato di crisi, perché le nostre aziende hanno bisogno di essere sostenute. La situazione è drammatica anche sul piano economico, per tutto il tessuto produttivo piemontese".

LOMBARDIA. 

Da Ansa il 18 dicembre 2020. A Milano chiude da domani e fino al 3 gennaio il crematorio di Lambrate. Lo ha deciso il Comune con un'ordinanza emessa in seguito all'incremento dei decessi dovuto alla seconda ondata dell'epidemia di Covid. I tempi di attesa per la cremazione delle salme al momento sono anche di 20 giorni. "La seconda ondata pandemica ha determinato un incremento della mortalità a Milano e, come conseguenza necessaria, la Direzione comunale competente ha già limitato l'accesso al crematorio di Lambrate ai soli defunti residenti a Milano a partire dal 5 novembre 2020", si legge nel documento.

Ospedale di Brescia, oggi come a marzo. E l'ala da 7 milioni di euro è ancora in alto mare. L'ospedale Civile, uno dei più efficienti d'Italia, è di nuovo in balia degli eventi. E il contestato progetto di riconversione per ricavare posti Covid al suo interno va a rilento. «Ma l’esperimento perché Gallera non lo fa a casa sua?» Andrea Tornago su La Repubblica il 09 novembre 2020. Pazienti Covid disseminati in più reparti. Percorsi sporchi e puliti solo sulla carta. Pochi tamponi per i sanitari. E il contestato progetto di un Covid hospital di cui si discute da mesi, avviato in fretta e furia a fine ottobre, con i ricoveri che già aumentavano a vista d’occhio. Nella seconda provincia più colpita della Lombardia dopo Bergamo, con oltre 3 mila morti per Covid tra marzo e aprile, l’ospedale Civile di Brescia è ancora «quello di marzo», racconta all’Espresso un operatore del pronto soccorso. «Abbiamo un unico ingresso e un unico triage senza reali separazioni, i pazienti sospetti positivi e quelli ordinari percorrono tutti uno stesso corridoio.

Il Covid investe Varese e Monza ma Fontana toglie medici e infermieri alle due città. Vittorio Malagutti e Francesca Sironi su L'espresso il 6 novembre 2020. Il Nordovest della Lombardia è la nuova prima linea nella lotta contro il virus. In una delle zone più ricche d’Italia, la sanità pubblica rischia di essere travolta. Ma il governatore anziché inviare rinforzi sollecita, e ottiene, truppe fresche per il padiglione della Fiera di Milano destinato alle terapie intensive voluto a tutti i costi da lui e dall'assessore Gallera. Nelle giornate buone dall’ultimo piano si vedono nitide le Grigne e, a un passo, il Resegone dei Promessi Sposi; nelle giornate ottime spuntano i profili della Grivola e i quattromila del Gran Paradiso, in Piemonte; ma nelle giornate faticose come queste in pochi hanno voglia di guardare le montagne dalle finestre dell’ospedale di Monza. Una delle città dal Pil più alto d’Italia, provincia cresciuta in competizione col mondo a forza d’export di divani e lampadari, di elettronica e macchinari, si scopre fragile. Oggi è qui l’epicentro del contagio. La Brianza condivide con Varese il triste primato dell’epidemia di Covid in Lombardia, zone rosse già di fatto prima del Dpcm del 4 novembre.

Il giorno in cui Milano e la Lombardia sono state travolte di nuovo dal coronavirus. Il punto di non ritorno è il 10 ottobre, ma la politica ha reagito solo la settimana dopo, in maniera insufficiente. Oggi gli ospedali in trincea e molti medici si sono ammalati. E la capitale lombarda anticipa il dramma che sta investendo l'intero Paese. Francesca Sironi su L'Espresso il 23 ottobre 2020. Il giorno in cui tutto è cambiato, a Milano e in Lombardia, è il 10 ottobre. È il giorno in cui medici, tecnici e ricercatori si sono resi conto che il virus, che non se n’era mai andato, stava dilagando nel territorio a una velocità di molto superiore al previsto. La seconda ondata nel capoluogo non inizia quindi il 16 ottobre, quando viene firmata la prima ordinanza del presidente della regione. Non comincia nemmeno il 18, quando parla in conferenza stampa nazionale il premier Conte. E di certo non il 22, quando nella zona più popolosa e produttiva del Nord Italia scatta il coprifuoco del compromesso. Inizia il 10 ottobre, una data passata in silenzio, ma cruciale per capire quello che è successo.

Milano, medico del Niguarda: “Siamo impreparati alla seconda ondata”. Le iene News il 28 ottobre 2020. Gaetano Pecoraro intervista un medico che lavora al Niguarda di Milano, che ci racconta di una situazione di impreparazione dell’ospedale nell’affrontare la seconda ondata. Una situazione che la Iena è andata a verificare di persona. E le cose non andrebbero meglio nemmeno al Policlinico di Milano. “Siamo stati di nuovo investiti da uno tsunami inatteso”. A parlare è un medico, che racconta a Gaetano Pecoraro dell’emergenza Covid nell’ospedale milanese in cui lavora, il Niguarda, scelto come ospedale Hub Covid, ovvero di riferimento per il Covid, dalla Regione Lombardia. Questo medico ci ha raccontato una situazione sconcertante nelle strutture del suo ospedale che dovrebbero affrontare la seconda ondata di Covid. Gaetano Pecoraro, come vedrete nel servizio in onda giovedì 29 ottobre a Le Iene, è andato con i suoi occhi a verificare la situazione nel padiglione Covid del Niguarda di Milano e quello che ha trovato ci ha lasciato senza parole. A marzo, quando è scoppiata la pandemia, gli ospedali sono stati colti impreparati ad affrontare un’emergenza di queste proporzioni: “Hanno gestito male le persone e hanno iniziato a gestire male gli spazi che avevano a disposizione”, racconta il medico del Niguarda. “Nel senso che tutti i percorsi che avevano a che fare con il Covid non erano percorsi puliti”. Ma a marzo chi poteva aspettarsi una situazione simile? Ora invece, con la seconda ondata, che tutti si aspettavano, le cose sarebbero potute e dovute andare diversamente. E invece la situazione nel padiglione Covid del Niguarda, secondo quanto ci racconta il medico che lavora in questo ospedale, sembra essere ancora inadatta ad affrontare l’emergenza: “I percorsi che separano ciò che è sporco da ciò che è pulito, che è quello che serve agli operatori per cambiarsi e per dire “ok vado a casa tranquillo” sono percorsi promiscui, separati spesso da una linea di scotch steso per terra”. E questo è un problema: “Avere dei percorsi promiscui oggi vuol dire continuare a contagiare”. Eppure, per farsi trovare pronti alla seconda ondata, Regione Lombardia aveva messo sul piatto ad agosto oltre 250 milioni di euro per lavori negli ospedali. “Noi sapevamo che sarebbero stati fatti dei lavori per sistemare le criticità strutturali interne al padiglione, però quello che si vede entrando nel padiglione è che assolutamente non è stata appesa neanche una mensola dopo l’ondata di marzo”. E questa situazione fa paura: “Sono reparti in cui può essere difficile e rischioso lavorare. Un letto di terapia intensiva ha bisogno di una serie di attrezzature elettriche che richiedono una cosa banale: cinque, sei, sette prese elettriche. Lì ce ne sono due per letto. C’è gente che si è portata la ciabatta da casa”, continua il medico.

Ma l’elettricità non sarebbe l’unico problema di questa struttura. Un altro problema avrebbe a che fare con i droplet, ovvero le goccioline che trasmettono il virus. “C’è bisogno di flussi di aria con una pressione tale da evitare che i droplet si diffondano per gli operatori”, spiega il medico. “Queste invece sono stanze che hanno semplicemente dei finestroni. Come fare una terapia intensiva a casa mia”. Ma non sarebbe finita qui: “Da marzo a oggi nessuno ha fatto uno screening sistematico degli operatori sanitari. Anche per chi lavora nel Covid”. Cioè medici e infermieri che lavorano nel padiglione non farebbero tamponi di controllo. “Il paziente che si positivizza in ospedale è un paziente che se l’è preso in ospedale da parte degli operatori sanitari”. E non sarebbe un caso così improbabile, come ci racconta il medico del Niguarda: “Oggi un reparto è stato dichiarato focolaio perché tutti i pazienti entrano dopo un tampone negativo, di questi quattro avevano un tampone positivo oggi”. E il reparto, secondo quanto racconta il medico, non sarebbe nemmeno stato sanificato: “Il reparto è aperto e oggi hanno ricoverato pazienti. Non hanno sanificato, hanno tamponato gli altri pazienti e adesso probabilmente tamponeranno gli operatori sanitari che ci lavorano”. Ma il Niguarda non è l’unico ospedale milanese ad avere problemi con i reparti Covid. Nel servizio che vedrete in onda giovedì 29 ottobre Gaetano Pecoraro parlerà anche con un medico di un’altra struttura: il Policlinico di Milano.

Sei mesi sciupati ed errori a catena: sulla Lombardia l'incubo lockdown. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 28 ottobre 2020.

SEI MESI. Decine di inchieste e un errore dietro l’altro. E adesso la Lombardia si ritrova nel panico, più per la disorganizzazione generale che per carenze di uomini e mezzi. Come si vede dai dati riportati nel grafico accanto, i massicci investimenti statali e regionali hanno permesso di rinforzare il sistema. Però senza i giusti comandanti anche l’Invicibile Armata spagnola è stata affondata da forze inferiori. Lo stesso rischio che corrono Milano e la Lombardia, perché dagli sbagli passati pare si sia imparato poco.

ORGANIZZAZIONE KO. A partire dai rifornimenti per ospedali e presidi sanitari in generale: in primavera poteva essere comprensibile sentire di scatoloni arrivati vuoti, soldi anticipati a chi non aveva mai consegnato i materiali e addirittura commesse milionarie partite per sbaglio, come quella da 1,5 milioni affidata per errore a un’azienda vicina alla Fondazione Open. In questo aspetto della confusione si è impantanato lo stesso presidente lombardo Attilio Fontana: su di lui e i suoi famigliari pendono diverse inchieste partite dal famoso ordine da 517mila euro affidato dalla centrale acquisti della Regione Lombardia alla Dama spa, società del cognato e della moglie. La successiva trasformazione dell’ordine in donazione e il tentativo di Fontana di rifondere l’azienda con 250mila euro personali è stata una toppa peggio del buco. La mossa del governatore ha permesso all’opinione pubblica di scoprire che possiede 5 milioni di euro in un conto in Svizzera. Soldi ereditati dai genitori, ha poi spiegato, ma il danno per la Lega era fatto. Si pensava che dopo aver cambiato i vertici di Aria spa, la centrale acquisti regionale, cambiasse la musica: gli errori sugli ordini per i vaccini contro l’influenza, però, sembrano smentire le attese. La Regione ha dovuto ammettere di aver sbagliato a scrivere gli ultimi bandi. L’effetto diretto è la carenza di dosi, se non per le categorie a rischio, e l’incremento dei costi, perché ora il vaccino anti influenzale è richiestissimo. Dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria ci sono più mezzi, ma solo negli ultimi giorni sembra si sia capita l’importanza della sanità territoriale: la Regione sta potenziando il servizio sia con personale che con strumenti, come un sistema di telesorveglianza per asintomatici che coprirà fino a 900 pazienti al giorno annunciato dall’assessore al Welfare Giulio Gallera.

TERRITORIO ABBANDONATO. Il presidio territoriale è infatti necessario per evitare di intasare gli ospedali mandando in tilt il sistema sanitario, ma la Regione aveva e ha il problema politico di dimostrare l’utilità dell’ospedale in Fiera costruito con 21 milioni di euro da Guido Bertolaso. Il fatto che già in primavera i medici spiegassero la difficoltà di utilizzare una struttura avulsa da quelle del territorio è stato ignorato. Un grave errore, perché ora si ripropone in altri termini: ora che è stato riaperto, il piano di Palazzo Lombardia è di trasferirci medici e infermieri per gestirlo, ma ciò vuol dire sguarnire gli altri hub di personale specializzato nel trattare i pazienti Covid. Al loro posto saranno trasferiti i sanitari degli spoke, cioè i presidi più piccoli: pochi di loro, però, sono già formati sulle procedure per il Coronavirus.

COMUNICAZIONE IN TILT. Un altro grande errore che si ripete è la mancanza di organizzazione comunicativa: tutti parlano di tutto con egual peso con danni irreparabili. Ad esempio, in primavera sia Fontana che Gallera tenevano conferenze stampa quotidiane per aggiornare i cittadini sull’andamento della pandemia. Solo dopo molti giorni a Palazzo Lombardia hanno capito che o si scambiavano gli speaker a turno, oppure era semplice confusione. Spaccature interne alla giunta hanno iniziato a scricchiolare sempre di più, talmente tanto che il rimpasto previsto per settembre è stato rinviato a tempi migliori: la situazione è tanto delicata politicamente che se cambia un assessore, c’è il serio rischio che cada tutta l’Amministrazione. Ma la Regione non è stata l’unica a partecipare alla confusione informativa: il Comune, lo Stato e pressoché tutte le istituzioni territoriali sono state impegnate in decine di polemiche interne. Oggi si riparte con lo stesso schema, peggiorato: persino la Lega si è spaccata internamente con lo scontro tra la linea Fontana e la linea Salvini. Il primo ha deciso di ripartire con ordinanze restrittive, il secondo era poco incline all’idea, ma alla fine l’ha spuntata il governatore.

MEDICI IN CONFUSIONE. E la confusione sul piano della comunicazione ha coinvolto anche i medici: Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, e Massimo Galli, responsabile delle Malattie Infettive al Sacco, hanno sbattuto il naso sul tema. Il primo si è guadagnato l’appellativo di negazionista per suoi messaggi in cui affermava che il virus era « clinicamente morto» e l’emergenza finita. Il dottore ha dovuto scusarsi e ora è più prudente. Mentre Galli si era guadagnato il posto di voce autorevole tra gli esperti, ma nei giorni scorsi un focolaio ha colpito proprio il Sacco, incrinando l’immagine pubblica del professore. Un altro problema serio: indicazioni chiare da persone autorevoli potrebbero essere utili quanto un vaccino.

IL FLOP CHE SI POTEVA EVITARE. Mancano medici, infermieri e ambulanze. Sanità lombarda già in tilt: ed è solo l’inizio. L’infettivologo Galli: «Scontiamo due-tre decenni di abbandono della medicina di territorio». Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 24 ottobre 2020.  Ambulanze insufficienti, numero di emergenza in tilt e se non bastasse ospedali che cascano a pezzi. Letteralmente, come denunciato in una lettera aperta di medici e infermieri del polo di Niguarda: nei giorni scorsi due pannelli si sono staccati dal soffitto della Rianimazione Covid Rossini, il reparto riaperto da poco per fronteggiare l’emergenza Coronavirus in uno dei principali hub di Milano. Ma è tutto il sistema lombardo che sta affrontando una dura prova: le chiamate al numero unico 112 sono state talmente tante che due giorni fa il centralino è andato in tilt. L’ultima volta era successo proprio in primavera.

MANCANO UOMINI E MEZZI. Altri aspetti della crisi ricordano la prima quarantena, come la carenza di uomini e mezzi: Regione Lombardia ha dovuto chiedere a Croce rossa, Anpas e Misericordie di aumentare il numero di ambulanze a disposizione, perché il numero di chiamate è così alto che i pazienti devono aspettare sui mezzi fino a mezz’ora per evitare assembramenti. I primi passi sono stati compiuti: «Solo questa settimana abbiamo messo in campo 12 nuovi mezzi – spiegano all’Ansa Anpas, Cri e Misericordie, che sull’area metropolitana ne gestiscono una sessantina – programmando aumenti costanti di presenze con ulteriori nuove ambulanze ogni giorno, fino alla prossima settimana». Ma non basta, perché oltre ai mezzi ci vogliono le persone: «Il problema non sono tanto le vetture – sottolinea un tecnico – quanto gli equipaggi. Non possiamo correre il rischio di mettere sui mezzi soccorritori non adeguatamente preparati, anche e soprattutto perché si lavora in regime Covid, con protocolli complessi». A proposito di ambulanze, ieri la prima ha varcato i cancelli riaperti dell’ospedale in Fiera. Ma per l’hub costruito da Guido Bertolaso al costo di 20 milioni di euro ricorre sempre lo stesso tema: negli armadi non c’erano neanche medici e infermieri.

CONTAGI E RICOVERI IN CONTINUO AUMENTO. Dunque le risorse umane dovranno essere trovate, ma sarà sempre più difficile nelle prossime settimane perché i dati non migliorano: secondo quanto comunicato dal governatore lombardo Attilio Fontana, in Lombardia si registrano 5mila positivi in più rispetto a ieri, 350 ricoveri tra intensiva e non, e un numero complessivo di 170 ricoverati in terapia intensiva. Solo a Milano sono mille i nuovi contagi. E la medicina di territorio indica tendenze preoccupanti: secondo la Ats della Città metropolitana, il numero medio di visite dei medici Usca (acronimo delle unità territoriali) è di 70 al mese. Per avere un termine di paragone, ad aprile erano 50. Motivo per il quale le unità sono state potenziate: dai 13 camici bianchi disponibili a settembre, si passerà entro fine mese a 25 e a 27 a novembre.

MEDICINA TERRITORIALE IN STATO DI ABBANDONO. La medicina del territorio è una delle armi essenziali per combattere il virus come ha ribadito Massimo Galli, responsabile del dipartimento Malattie infettive del Sacco: «Per quanto riguarda la struttura di tipo sanitaria, credo che ci si debba augurare che ci sia un pre e un post Covid. Il post Covid deve essere necessariamente qualcosa che comprenda un’organizzazione della medicina del territorio e della prevenzione ben diversa da quella a cui ci eravamo ridotti ad oggi. Ci sono stati più di due, forse tre decenni di abbandono sostanziale dello sviluppo di questa medicina o del suo essere relegata a un ruolo ancillare. Ne stiamo pagando, anche pesantemente, le conseguenze». Galli ha quindi auspicato un «futuro in cui toccherà investire bene e parecchio, perché la medicina del territorio e della prevenzione vengano garantite. Non dico che sia stato sbagliato investire in cardiochirurgie, ma magari averne un numero tale, soprattutto con molto nel privato, che è praticamente pari a quello dell’intera Francia, ci dice che forse qualcosa non va. Forse si doveva allestire una maggior organizzazione a livello di grossi ospedali hub, con grosse unità che potessero essere magari, anche dal punto di vista economico, più adatte e rispondenti alla realtà dei bisogni». Ma anche gli ospedali hub come il Niguarda sono in difficoltà, come dimostra la lettera resa pubblica dal sindacato Fials Asst Niguarda. Un segnale emblematico, perché non è un ospedale qualunque, ma un cardine fondamentale del sistema sanitario milanese e lombardo. Eppure anche qui mancano i medici e infermieri: la posta pneumatica con cui si dovrebbero scambiare i materiali (ad esempio i campioni per gli esami, ndr) i vari reparti è perennemente in panne. Gli infermieri devono così uscire dalle rianimazioni lasciando sguarniti i reparti.

MEDICI E INFERMIERI ALLO STREMO. E i medici sono tornati a turni massacranti perché manca il personale: «Tutti e tre i turni si trovano in estrema difficoltà: al mattino ci troviamo a lavorare in 7, al pomeriggio in 6 e la notte 5/6 – raccontano i sanitari – Stiamo lavorando con dei ritmi non umani, ad esempio vi sembra possibile che in un turno notturno di 10 ore si possa uscire dalla zona “sporca” e si possano rimuovere i dpi solo per 15 minuti? Nel conteggio del personale necessario bisogna considerare infermieri nella zona “pulita” che possano dare il cambio agli infermieri nella zona “sporca”, così da non dover rimanere per più di 3/4 ore di seguito con gli stessi dpi, per la nostra sicurezza in primis. Ci sentiamo stanchi e abbandonati e siamo solo all’inizio di questa nuova emergenza». Le risorse ci sono, ripetono le istituzioni, ma è anche vero che nei mesi scorsi sono state usate anche per premiare i dirigenti ospedalieri che chiudevano i reparti Covid. Mentre solo ora si riaccelera sulle assunzioni di personale. Si insegue cioè il virus, invece di provare a gestirne la presenza, come consigliano da mesi vari esperti. Eppure anche il tema della carenza di medici, che dovrebbe acuirsi entro il 2025 per effetto dei pensionamenti, non è nuovo. Poteva essere l’occasione per affrontarlo, ma l’approccio delle istituzioni sembra quello di procedere settimana per settimana.

SANITÀ PUBBLICA E PRIVATA IN LOMBARDIA PAROLA D’ORDINE: DISORGANIZZAZIONE. Un flop il tracciamento dei contagi, l’unica strada per tenere sotto controllo una pandemia. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 21 ottobre 2020. Milano e la Lombardia stanno per pagare gli errori commessi dalla propria classe dirigente. La giunta regionale traballa, il territorio galoppa verso un nuovo lockdown (1.054 nuovi casi nella provincia milanese), mentre le terapie intensive si riempiono a ritmi paragonati a quelli della primavera. Nel frattempo, i privati come il San Raffaele tengono ancora chiusi i reparti per il Coronavirus creati con le donazioni raccolte dai Ferragnez e la psicosi da vaccini mancanti pervade le case dei lombardi. Tutti questi errori possono riassumersi in un’unica parola: disorganizzazione. Nella regione che si è sempre vantata della sua capacità di fare, pare non esserci più un piano preciso per niente. Solo un tentativo di tamponare le emergenze del momento, spesso ottenendo l’unico effetto di complicare ancor più i problemi. Partiamo dalla primavera con alcuni esempi: spulciando i documenti di Aria spa, la centrale acquisti regionale, si susseguono ordini annullati e modificati in ogni modo. E qualcuno di ha guadagnato- Come una società legata alla renziana Fondazione Open: la Dori Pubblicità srl ha ottenuto un ordine da 1,5 milioni di euro per visiere anti Covid grazie a un errore di Regione Lombardia. L’azienda era arrivata terza classificata nel bando per trovare i dpi, ma Palazzo Lombardia ha comunque commissionato un milione e rotti di pezzi. Ai primi di maggio però qualcuno si accorge dell’errore e prova ad annullare l’ordine. La Dori Pubblicità però ribatte che ormai riceverebbe un danno economico e si dichiara disponibile a trattare. L’ex dirigente di Aria Filippo Bongiovanni, poi silurato quando è emerso l’affaire camici-Fontana, concorda un 20 per cento in meno di pezzi e un prezzo inferiore, cioè pari a quello offerto dal primo classificato. La Dori, il cui titolare ha confermato quanto riportato nel documento regionale, incassa così un ordine milionario per un errore. Tra l’altro consegnando in ritardo i materiali, sebbene nelle lettere di incarico di Aria per altri ordini si sottolinei quanto sia essenziale ai fini del pagamento rispettare le dare stabilite. Ma la disorganizzazione ha toccato anche i mesi successivi, quando il virus aveva concesso un respiro alla Lombardia: il tracciamento dei contagi era l’unica strada per tenere sotto controllo una pandemia violentissima come questa. Eppure, come hanno ammesso gli stessi responsabili sanitari della provincia di Milano, di fatto il tracciamento non c’è stato ed è ormai impossibile controllarlo. Mancano le persone e le strutture dedicate. Quindi ci si affida, ancora, ai santi. Come raccontato nei giorni scorsi dal Quotidiano del Sud, anche le unità di medicina del territorio sono tutt’ora inesistenti. Solo nella provincia di Milano dovrebbero esserci 65 Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) pari a 130 medici invece abbiamo 6/7 Usca con 12/14 medici. E come ha ammesso anche Alberto Zangrillo, volto del San Raffaele che diceva di non credere a una seconda ondata, un sistema del genere efficiente vorrebbe dire il 30 per cento di pazienti in meno ricoverati in ospedale. Perché il tema dei posti in terapia intensiva è relativo: possono esserci 10mila posti, ma senza medici e infermieri in più il risultato è inevitabilmente di bloccare gli ospedali. E di poter curare solo poche persone, escludendo tutte quelle non a rischio imminente di vita. Eppure dove ci sarebbero le risorse, come al San Raffaele, ancora non si sbloccano i letti sempre per mancanza di direttive: dall’ospedale infatti fanno sapere che “sarà Regione Lombardia a dare indicazioni sulla base del piano regionale per la gestione dell’emergenza sul territorio”. La disorganizzazione colpisce ancora: si parla di lockdown, ma si lasciano dormienti strutture efficienti. Intanto pure politicamente le azioni di Fontana continuano a far traballare la giunta: questa volta sono i meloniani a prendere le distanze. “Fratelli d’Italia ha diverse perplessità sulle proposte uscite ieri dalla riunione in Regione sulle misure di contrasto al Covid – hanno dichiarato per Fratelli d’Italia la coordinatrice regionale, Daniela Santanché, il capodelegazione Riccardo De Corato e il capogruppo Franco Lucente, in accordo con gli assessori e i consiglieri del gruppo – Ci sembra che si stia seguendo troppo da vicino quelle linee guida già espresse dal Governo, che noi abbiamo criticato e considerato poco utili. Così come ci sembra che non sia stato adeguatamente trattato quello che noi riteniamo uno dei nodi più importanti da sciogliere: il trasporto pubblico”. Anche con gli alleati dunque non c’è organizzazione. Solo un decisionismo di un gruppo dirigente legato a Varese e dintorni assediato dalle inchieste e da problemi che sembra non avere i numeri per gestire. La tensione è talmente alta che si è tornati a ventilare le dimissioni proprio di Attilio Fontana, un gesto auspicato ormai da molti sia dentro che fuori dal centrodestra lombardo. Intanto la disorganizzazione avanza e gli errori continuano ad accumularsi.

Elisa Messina per corriere.it il 21 ottobre 2020. La vicenda di S., 43 anni, milanese, è esemplificativo che qualcosa a Milano non sta funzionando come dovrebbe nella gestione dei tamponi, nel tracciamento dei positivi e nel servizio di informazioni al pubblico a carico dell’Azienda Territoriale Sanitaria. Con conseguenze pesanti nel controllo dell’epidemia in un territorio critico e complesso come quello dell’area cittadina di Milano. Procediamo con ordine. S. lavora nel mondo della pubblicità, ha una moglie e due figli in età scolare, abita in città. E questa è la sua storia.

Al drive through: “Scusi, lei ha il covid?” Tutto è partito, come spesso avviene, dalla comunicazione che una persona con cui S. era stato a contatto era positivo. «Un collaboratore con cui avevo fatto anche un viaggio in auto, a fine settembre. Dopo pochi giorni dal “contatto” sono apparsi dei sintomi di raffreddore. Non gli non ho dato molto peso perché anche mio figlio aveva avuto il raffreddore e capita spesso che poi lui lo passi a me. Ma dopo che il collega mi ha riferito della sua positività mi sono attivato subito per prenotare un tampone». L’azienda per cui lavora S. ha fissato una convenzione con il Centro Auxologico di Milano, così lui decide di procedere privatamente: il 7 ottobre prende il motorino ( l’auto la stava usando la moglie) e va personalmente al’Auxologico. Ma lì lo avvertono che, dal momento che è sintomatico, non possono farlo entrare nella struttura e deve andare in uno dei centri diagnostici dove si fanno i tamponi “drive through”, ovvero in auto. «Allora sono andato all’ospedale San Carlo e mi sono messo in coda con il mio motorino. Per fortuna, mentre aspettavo, un addetto passava a dare le informazioni: per fare il tampone era obbligatoria una prenotazione oppure aver attivato la richiesta tramite Ats. Così, durante l’attesa chiamo il mio medico di famiglia, o meglio, gli mando un messaggio urgente, lui mi richiama e subito attiva la procedura tramite Ats. Posso fare il mio tampone. Quando arrivo davanti all’addetto questo mi chiede “ha i sintomi?” rispondo di si. Poi mi chiede “ha il covid?” Rispondo che sono qui per scoprirlo, ma la domanda mi stupisce». Ma è solo la prima stranezza di una serie. Perché lo stesso addetto, alla domanda “Finché non ho la risposta devo stare isolato?” risponde “no, non importa, può fare quello che vuole”. Risposta sbagliata.

«Isolamento? Non è necessario». Al servizio tamponi dicono anche a S., e questo è corretto, che la risposta sarebbe arrivata entro 72 ore: sarebbe arrivata al suo medico e sarebbe stata inserita nel fascicolo sanitario elettronico. Un servizio che ogni cittadino può attivare se dispone di una spid, ovvero l’identità digitale, oppure la “cie” (carta d’identità elettronica) o la tessera sanitaria con il lettore. Ma S., come tanti, non ha nessuna di queste. «Perché mi hanno rubato il portafoglio e da circa un anno sto aspettando dalla Regione Lombardia una nuova tessera sanitaria. Però il mio medico ha accesso al mio fascicolo e mi ha detto che avrebbe controllato lui. Così mi tranquillizzo». Passano le prime 24 ore e parlando con amici e conoscenti S. viene a sapere che in caso di positività si viene avvisati entro le 24 ore dal tampone. Informazione corretta. Infatti, solitamente, la fornisce lo stesso addetto del drive through che procede al prelievo o l’operatore sanitario al telefono quando si fa una prenotazione, ma ad S. non è stata data, anzi, gli è stato detto che può uscire tranquillamente. Un errore che, come vedremo, può avere sgradevoli conseguenze.

Sei giorni per avere il referto positivo. «Passate le 24 ore inizio a mandare messaggi al mio medico per sapere del referto, lui non trova niente, io penso: ok, sono negativo, anche perché nel frattempo mi era passato tutto. Arriva il weekend, esco a fare una passeggiata, vado a cena fuori. Lunedì 12 ottobre sono passati 5 giorni dal mio tampone e il mio medico ancora non trova il mio referto. Finalmente il 13 mattina, sei giorni dopo il tampone, il medico mi scrive una cosa sibillina: tampone del 9 positivo, quello del 10 negativo. Ma io non ho fatto due tamponi in due giorni... Neppure il mio medico sa spiegarselo. Ho pensato che forse avevano analizzato due volte il mio tampone per essere sicuri... Neanche al San Carlo sanno cosa rispondermi ma mi invitano ad andare di persona per prendere il referto. Vado e ritiro un unico referto, quello del 9: positivo. Poi il mio dottore mi chiama per dirmi che si era sbagliato».

La svista del medico. Ecco il secondo errore: il medico di base ha letto male il fascicolo sanitario. Perché S. aveva sì fatto in precedenza un altro tampone, ma il 10 settembre, non ottobre, quando, rientrato dalle ferie, la sua azienda si era fatta carico di far monitorare tutti i dipendenti che tornavano dai luoghi di villeggiatura. Il medico non ha visto che un tampone era di settembre (il negativo) ma il successivo, quello importante, era del 9 ottobre. Ricapitolo degli errori commessi: 1) l’informazione sbagliata sull’isolamento cautelativo, 2) la “svista” nella lettura del fascicolo sanitario elettronico, 3) la mancata comunicazione del tampone di positività entro 24 ore , 4) il tempo intercorso tra il tampone e comunicazione del referto di positività è stato di 6 giorni (da chi dipende? Dal medico? Dall’ospedale?). Una sequenza micidiale. Ma non è finita, purtroppo.

Ats non risponde. «Tornato a casa con il referto di positività avverto gli amici con cui ero uscito a cena e prenoto, a mie spese, il tampone rapido a domicilio per mia moglie e i miei figli: sono tutti negativi, ma restano in isolamento in attesa di fare un secondo tampone, visto che io sono ancora positivo. Ma il dettaglio forse più preoccupante è che S. non è stato chiamato da nessuno per il famoso “contact tracing” ovvero l’attività di ricerca e gestione dei contatti di cui si occupa l’Ats territoriale, anche attraverso la App Immuni e che è cruciale nelle strategie di controllo dell’epidemia. Anche provando a chiamare il servizio pubblico S. non è mai riuscito a parlare con nessuno. «Ho chiamato molte volte il numero dell’Ats che si dovrebbe occupare di questo, sono stato in attesa anche per 40 minuti ogni volta ma niente: arrivato alla fine della coda inesorabilmente cadeva la linea. Poi, siccome avevo provato a chiamare di sabato mattina, dalla Regione Lombardia mi sono sentito dire che il numero di Ats non funziona durante il weekend. L’ho trovato strano, allora ho riprovato a chiamare il lunedì successivo, ovvero ieri, 20 ottobre, molte volte e niente neanche stavolta». Tanto per essere chiari, il numero a cui S. tenta invano di chiamare da giorni è il 02/85781. Abbiamo provato anche noi e un disco risponde che il servizio è attivo dal lunedì al sabato. Ma poi al momento di parlare con l’operatore la linea cade.

«Immuni? Nessuno mi ha chiamato per validare il codice». Con il referto di positività in mano S. ha fatto anche la segnalazione sulla app Immuni che lui aveva scaricato e attivato poco tempo fa. «Una volta fatta la segnalazione arriva un codice che però, a quanto ho capito dalle istruzioni della App, deve essere validato da un operatore sanitario perché poi effettivamente possa scattare l’alert su tutti i telefoni dei miei possibili contatti. Ma al momento nessuno mi ha chiamato. Dovrei forse chiamare io? Ma chi chiamare dal momento che Ats non risponde?».

Quarantena: 14 o 10 giorni? «Anche sul fronte della quarantena c’è stato un fraintendimento: sono 14 o 10 i giorni di attesa? In base al nuovo Dpcm sarebbero 10 ma siccome il Dpcm non è retroattivo, per i tamponi fatti prima della sua entrata in vigore vale ancora la regola dei 14 giorni. «Peccato che al servizio telefonico di informazioni (un servizio dove si ascoltano solo informazioni registrate) si parla di 1o giorni senza fare questa specifica. Alla fine dopo vari tentativi sono riuscito a parlare con qualcuno, chiamando la Regione Lombardia, e lì mi hanno detto che Ats mi dovrebbe chiamare entro il 23». Insomma, S. è in attesa, isolato in una camera, in casa sua, come molti altri nella sua condizione, e non può “accorciare” la quarantena con un tampone privato, «anche se i centri diagnostici che fanno tamponi privati sono di fatto gli stessi, qui a Milano, che sono convenzionati con l’Ats, ma la legge non lo prevede». Per fortuna non ha avuto bisogno di cure ospedaliere e i suoi sintomi sono stati poco più che un raffreddore un po’ di bruciore agli occhi, ma la realtà degli asintomatici o, come si dice in gergo, paucisintomatici, costituisce il grosso dei positivi al coronavirus. Per cui il loro monitoraggio sarebbe cruciale nel controllo dell’epidemia. «Riassumendo tutta la mia Odissea, dice S. io vedo tre cose gravi: un esito positivo che mi è arrivato sei giorni dopo il tampone, nessuno che mi ha chiamato per inserirmi in un’attività di contact tracing, un medico di famiglia che forse non è ben informato sulle procedure da seguire e non sapeva bene cosa consigliarmi. Ma sa che cosa trovo veramente assurdo? Che ci sia un solo numero di telefono a cui devono accedere tutti, positivi e persone che sospettano di esserlo. Non sarebbe più semplice e funzionale che le persone con in mano un referto di positività al covid avessero un percorso diverso? Più accessibile? Più rapido nelle risposte?» Già. Sarebbe meglio.

Simona Ravizza per corriere.it il 16 ottobre 2020. Con i 1.053 nuovi casi Covid di giovedì, di cui 515 in città, il virus continua la corsa su Milano. Qui è concentrato il 55% dei contagi della Lombardia (la popolazione pesa solo per un terzo). I bollettini quotidiani vedono il moltiplicarsi di positivi al tampone: lunedì 363, martedì 440, mercoledì 1.032. Stessa tendenza sulla città: 184, 236, 504. Dai monitoraggi dell’Ats di Milano, l’Azienda di tutela della Salute, nella settimana tra il 4 e il 10 ottobre i casi raddoppiano rispetto alla precedente (2.086 contro 966). E per la settimana tra l’11 e il 18 rischia di dovere essere ritoccata all’insù la previsione di 3.200 nuovi contagi nelle province di Milano e Lodi e di 1.900 a Milano città. Ormai per l’Ats l’Rt è a 2. È considerato il segnale che non sono sufficienti le misure di contenimento adottate finora (mascherine, divieto di assembramenti e distanziamento sociale). Che cosa sta succedendo? Innanzitutto Milano sconta il suo Dna di città con un’economia di relazioni più che qualunque altra in Italia (qui i dati nazionali). Le 306.500 imprese, con oltre 1,5 milioni di lavoratori, appartengono per il 50% al settore terziario e per un altro 25% al commercio. Con la riapertura del 4 maggio le attività hanno ripreso a pieno ritmo (anche quel 33% che si erano fermate). Vedo gente, faccio cose. Un’altra storia rispetto ai mesi clou dell’epidemia. I casi accertati su Milano sono sotto i 500 quando nella notte tra l’8 e il 9 marzo scatta il lockdown che di fatto salva la metropoli. In quel periodo (gennaio-maggio) i morti in più rispetto ai 5 anni precedenti raddoppiano (da 6.318 a 11.627), ma non si quadruplicano come nella provincia di Bergamo (da 2.090 a 8.227). Allora è la Bergamasca investita per prima dall’arrivo del virus che segue la rotta dei rapporti con la Cina (come emerso dai focolai della Bassa Lodigiana e della Valle Seriana). Stavolta, invece, il virus è già qui e si diffonde dove ci sono più contatti sociali. La forza di Milano in questo contesto diventa il suo problema. Poi c’è l’effetto della movida. Il 17% dei contagiati a Milano ha tra i 20 e i 29 anni, stessa percentuale tra i 30 e i 39, sopra i 50 anni solo uno su tre. Altra questione, la scuola. Non è tanto quel che succede dentro, quanto quel che succede fuori dai cancelli dove, fino all’obbligo di mascherina anche all’aperto dell’8 ottobre, i ragazzi chiacchierano, si abbracciano e pranzano insieme. Dal 5 all’11 ottobre 147 casi tra gli alunni, il doppio rispetto ai 77 della settimana precedente, a loro volta il doppio dei 38 tra il 21 e il 27 settembre. Considerando anche gli insegnanti, 175 nuovi contagi l’ultima settimana contro gli 85, 43, 26 e 7 delle altre. Il trend è simile per chi finisce in isolamento: 2.895 tra il 5 e l’11 ottobre contro i 1.471, 869, 357 e 37 iniziali. Non può essere sottovalutato il ruolo dei trasporti pubblici dove, come dimostrano le foto degli ultimi giorni, l’effetto sardine è ben visibile. Sia il sindaco Beppe Sala sia l’Atm che gestisce i mezzi assicurano che l’80% di capienza consentita dalle norme in vigore è ben lontana. Il problema principale sono gli orari di punta con la coincidenza degli ingressi a scuola e delle entrate in ufficio. Un potenziamento delle corse è considerato impossibile e una riduzione al 60% dei passeggeri porterebbe a lasciare fuori dai tornelli in attesa 140 mila passeggeri al giorno. Che fare? Conseguenze. A Milano al momento sono ricoverati per il virus 350 pazienti, più altri 30 circa in Terapia intensiva. Nulla rispetto agli scorsi marzo e aprile. Solo l’8% dei positivi finisce oggi in ospedale. Ma i medici al fronte parlano di situazione già di sofferenza, a iniziare dai Pronto soccorso. Sta iniziando a essere complicato ricoverare i casi Covid senza ridurre l’attività ospedaliera ordinaria. Questo vale sia per i reparti di degenza sia per le rianimazioni. Durante il lockdown venivano garantite, e a fatica, solo le urgenze: tutto il resto rimandato. Sono rimasti da recuperare almeno 250 mila visite ed esami medici e una quantità indefinita di interventi chirurgici. Con l’aumento dei contagi sono destinati ad aumentare anche i casi più gravi, dove metterli? L’ipotesi su Milano è prepararsi a utilizzare nel giro di un paio di settimane l’ospedale in Fiera (con quale personale resta da capire). Fino a 15 giorni fa su mille trasporti con l’ambulanza solo 68 sono per problemi respiratori, negli ultimi giorni sono già 167. Nel frattempo, e nonostante gli sforzi, i settemila tamponi al giorno non stanno più bastando, ma aumentarli è più facile a dirsi che a farsi. Negli scorsi mesi erano duemila. Il sistema di tracciamento dei contatti a rischio sta andando in crisi. Le ripercussioni sanitarie ed economiche di quel che potrebbe succedere in una metropoli da tre milioni di abitanti potrebbero investire l’intero Paese.

Nella martoriata Lombardia vogliono abolire il 118: l'unica cosa che funziona. Un disegno di legge dei 5 Stelle mette a rischio il sistema di chiamate urgenti basato su infermieri e volontari. Gloria Riva su su L'Espresso il 15 ottobre 2020. Nella martoriata Lombardia, dove quasi tutto è andato storto, dai ritardi nella chiusura delle aree più colpite della bergamasca, all’assenza della medicina territoriale, agli scandali che hanno investito i vertici della Regione, agli ospedali in affanno, fino al flop della fornitura dei vaccini, ad aver tenuto botta è stata, indiscutibilmente, l’Azienda Regionale Emergenza Urgenza, l’Areu, un’eccellenza nazionale che ora una proposta di legge al Senato intende impallinare. Si vuole passare a un diverso modello di gestione del 118, basato sulla professionalità medica anziché su quella di infermieri e volontari, sul ritorno alla possibilità di chiamata diretta al 118 - di fatto depotenziando il Numero di Emergenza Unico Europeo, il 112 -, sulla provincializzazione del servizio di urgenza che verrebbe legato alla medicina di territorio, anziché rappresentare un prolungamento del pronto soccorso ospedaliero. Di questa riforma, il ddl 1715, presentata dalla senatrice pentastellata Maria Domenica Castellone, si parla da circa un anno, ma è da giugno che la proposta di legge ha subito un’accelerata. Da allora si è scatenato un inferno di pareri e contro pareri, dal sapore prettamente lobbistico e politico, anziché entrare nel vivo dei numeri, della sostenibilità economica e dell’efficacia di un modello sull’altro. Di buono c’è però la consapevolezza che il sistema dell’emergenza urgenza, che risale all’inizio degli anni ‘90, frazionato in decine di modelli, alcuni regionali, altri provinciali, necessita di una revisione complessiva, in cerca di un minimo comune denominatore organizzativo e gestionale da applicare a livello nazionale, capace di dare risposte omogenee e di qualità a tutti. La riforma Castellone è stata ispirata dal medico tarantino Mario Balzanelli, alla guida della Società Italiana Sistema 118, che intende strutturare il nuovo 118 su base provinciale, proponendo un grande investimento nei sistemi di geolocalizzazione del chiamante, ma soprattutto imponendo l’assunzione a tempo indeterminato di un medico per ogni ambulanza e mettendo in secondo piano il ruolo dei volontari. Un modello che si rifà soprattutto ai sistemi in essere al Sud, profondamente diversi da quelli messi in campo da Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Lazio, che hanno puntato su una razionalizzazione dei costi e un’integrazione con i sistemi di emergenza dei pronto soccorso, da cui provengono medici e infermieri a bordo delle auto mediche e ambulanze, nonché sulla valorizzazione dei volontari, se non altro per una questione squisitamente economica. L’Areu lombarda ha 200 medici di urgenza (per capirci in Sicilia ce ne sono 350 e la metà della popolazione lombarda) e i volontari lombardi sono 25mila. Siamo sicuri che il sistema sanitario italiano abbia i soldi per assumere a tempo indeterminato così tante persone? Dunque, contro la prima proposta del Ddl Castellone si è schierata la Società Italiana della medicina di emergenza-urgenza, la Simeu, che ritiene quel modello obsoleto, perché penalizza gli infermieri specializzati, con anni di esperienza nei pronto soccorso e quindi in grado di intervenire a bordo di mezzi d’emergenza. L’ente è anche contrario allo smantellamento del numero unico 112, che oggi è applicato da mezza Italia e, per altro, è l’Europa ad aver imposto, pena il pagamento di salate sanzioni. Di più, nei mesi scorsi si è creato un gruppo di lavoro intersocietario, composto da otto associazioni di medici e infermieri che lavorano nell’emergenza urgenza, fra cui medici anestesisti, l’associazione scientifica Acemc per la medicina d’urgenza, l’associazione infermieri di area critica e altre ancora, che hanno presentato una proposta alternativa che prevede di far interagire medici, infermieri, soccorritori e mondo del volontariato, mettendo al centro la figura dell’infermiere del 118, percorsi di professionalizzazione che prevedano una formazione ospedaliera e un’implementazione del numero unico 112. Che forma avrà il nuovo 118 lo si saprà fra non meno di tre mesi, nel frattempo la commissione Sanità del Senato ha avviato le audizioni per sentire i pareri di tutti gli stakeholder di competenza e dei sindacati. Seguirà un dibattito interno alla commissione, che produrrà una sintesi e un’effettiva riforma del 118. Sperando che, oltre ai pareri, qualcuno si presenti anche con qualche dato tecnico, perché la commissione possa scegliere il modello più performante, non quello più accomodante.  

Coronavirus, il capo dell’Areu: «Ecco perché le ambulanze possono arrivare tardi». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. «Stai a casa: il rischio è altrimenti che l’ambulanza non riesca a venirti a prendere in tempo nonostante sforzi immani». Alberto Zoli, 64 anni, storico direttore generale dell’Azienda regionale Emergenza Urgenza (Areu) della Regione Lombardia accetta di parlare, per la prima volta, con il Corriere della Sera interrompendosi spesso durante le varie telefonate. Alle quattro del pomeriggio il capo dell’Areu sta seguendo il trasferimento in elicottero di un paziente da Cremona a Trento, un altro da Bergamo a Trento, un altro ancora in aereo da Bergamo a Palermo (a fine giornata i malati di Covid-19 trasferiti saranno 30); poi alle 8 di sera il medico raggiunge via della Boscaiola, dove sono allestite 80 postazioni per smistare le richieste d’aiuto. È una nuova centrale operativa in aggiunta alle 4 già esistenti a Milano, Pavia, Bergamo e Como: il suo compito è assistere i malati dubbi in modo da non inviare ambulanze se non strettamente necessario. La drammaticità della situazione e allo stesso tempo la macchina poderosa messa in campo è tutta nei numeri.

Alberto ZoliIl cittadino chiama il 112: in quanto tempo risponde?

«Prima del Coronavirus in 3-4 secondi, adesso è capitato anche in 20 minuti. Ci sono stati giorni con oltre 400 mila chiamate. Ho dovuto mandare uno dei miei collaboratori in aereo a Paternò, Sicilia, per riconvertire almeno in parte il centralino per le prenotazioni delle visite e degli esami medici in centrale di risposta per il Coronavirus. Abbiamo formato gli operatori in quattro ore. Per aiutarci».

Quanto dura il colloquio con l’operatore del 112?

«Per essere i più tempestivi possibile abbiamo messo a punto un sistema nuovo: c’è una linea rossa del 118 sulla quale giriamo immediatamente i casi che ci risultano gravi; poi c’è un’altra linea che serve da filtro per quelli dubbi. L’operatore ha dieci minuti di tempo per fare le domande chiave (“Quant’è la febbre? Che tipo di tosse ha? Come respira?”). È un modo per fare uscire la ambulanze solo quando serve. Spesso richiamiamo anche il paziente per capire l’evolversi della situazione».

Un’ambulanza in quanto tempo arriva?

«In città prima dell’epidemia arrivava in 8 minuti, adesso può capitare che ci metta anche un’ora e più».

I mezzi in campo?

«Erano 400, oggi sono 500 per 30 mila soccorritori. Ci aspettiamo altre 50 ambulanze in arrivo dal resto d’Italia».

Le missioni al giorno?

«I numeri delle nostre statistiche sono divisi in due voci: in tempo di pace e in tempo di guerra. Prima e dopo. A Bergamo erano 190, oggi sono 490 al giorno; a Brescia 226 contro 380; a Lodi 57 contro 154, e così via. In tre settimane abbiamo trasportato quasi 80 mila pazienti».

Un’immagine frequente di questi giorni drammatici sono le ambulanze in fila fuori dai Pronto soccorso. Perché?

«Gli ospedali sono a loro volta strapieni. Motivo per cui per sbarellare un malato ci impieghiamo anche 2 ore e mezzo. Fino a un’ora in più».

Tempi che s’allungano a dismisura.

«Bisogna considerare che dopo ogni missione nelle aree più critiche è necessario procedere alla sanificazione completa del mezzo che richiede fino a un’ora di lavoro prima del ripristino dell’operatività».

Ma il tempo è fondamentale per sconfiggere questo maledetto virus.

«Il problema è che il Covid-19 è subdolo. Un paziente può aggravarsi in un tempo rapidissimo in cui va in carenza d’ossigeno. In questi casi se non arriviamo subito uno può morire. È il motivo per cui ripetiamo: state a casa, altro che jogging. È una questione di vita o di morte».

Anonimo Milanese per Dagospia il 27 febbraio 2020. Fase uno: moriremo tutti. fase due: quarantena, coprifuoco, le regole non si discutono ma si applicano. Fase tre : tocca fattura’. Fase quattro i baristi di Brera fanno bau, il sindaco una penosa marcia indietro, i governatori dicono è solo un raffreddore. Fase 5: non famo più i tamponi. Fase 6 i giornali urlano e gridano Milano riparte. Fase 7 Fontana prova a strozzarsi con la mascherina.  

Paolo Colonnello e Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 18 marzo 2020. Una fiera del fieno a Nembro, in Val Seriana, Bergamo, e una fiera di animali a Orzinuovi, bresciano. Nelle zone più produttive e industriali d' Italia, il coronavirus è arrivato così: attraverso la campagna, dai contadini di Codogno. Poi è diventata un' ecatombe. E adesso bergamasca e bresciano sono le aree dove il contagio da virus infuria e miete vittime. A Bergamo non hanno più posti nelle camere mortuarie. A Brescia e provincia, 3. 096 positivi e 374 decessi fino a ieri, ospedali che scoppiano le cose non vanno meglio: è chiaro che si tratta di aree infestate, le più pericolose d' Italia in questo momento. Anche se a quanto pare i numeri sono in flessione anche lì. Ma perché non sono state fatte subito le zone rosse? «Noi le avevamo fortemente chieste», spiega l' assessore al Welfare, Giulio Gallera, «ma poi qualcuno ha remato contro, il governo ha balbettato e alla fine non se n' è fatto più niente». Chiudere adesso, giusto per rimanere in tema agricolo, sarebbe come chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. «Inutile», conferma Gallera, «aspettiamo i risultati di queste due settimane e poi vediamo. Domenica decideremo». Ed è chiaro che se la situazione non dovesse migliorare, saranno nuove misure e molto più drastiche di adesso. Eppure, due mercoledì fa, la commissione tecnica della Protezione civile aveva dato parere positivo alla chiusura almeno della bergamasca. Una volta arrivato al Palazzo Chigi però il parere non è stato recepito. E il fatidico sabato 7 marzo Conte ha deciso di blindare l' intero Paese. «In tanti sono scappati, pare che di notte qualcuno abbia anche spostato i macchinari dai capannoni», racconta Gallera. Perché una cosa deve essere chiara: da queste parti, nel bresciano, mille e trecento industrie associate, il lavoro è più di una religione. Non si discute. E allora tra le ipotesi, molto concrete, di una maggiore diffusione del contagio, qui come nella bergamasca, è che alla fine abbia prevalso la logica del lavoro e delle fabbriche da tenere aperte a tutti i costi. Una verità parziale secondo Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia e di Officine Meccaniche Rezzatesi, bresciano purosangue. «Le aziende che potevano chiudere han chiuso tutte. Questa è una polemica sterile. E poi, aziende farmaceutiche e supermercati non sono forse aziende? Quelle per esempio è bene che rimangano aperte. E le mascherine chi le fa se non altre aziende?». E comunque, spiega sempre Bonometti, «molti hanno ridotto la produzione per tenere viva l' azienda. Chi non ha commesse o ha il mercato fermo, fa prima a chiudere». Conferma Giuseppe Pasini, di Confindustria Brescia: «Ci sono altre industrie che non riescono a chiudere perché sono strategiche per le persone e per le filiere internazionali e rischiano di pagare penali molto alte. Altre hanno alti standard di sicurezza». E i morti, il boom dei contagi? La verità, fanno notare a Brescia, è che il week end prima del decreto Conte, complice il bel tempo, la città si era svuotata invadendo i laghi e le montagne e trasportando il contagio ovunque. Non è insomma solo colpa delle industrie. «Stiamo raccogliendo i morti dei contagi delle settimane prima - commenta Bonometti - se si fossero adottate misure più severe prima...Ma è inutile piangere sul latte versato. Dal week end in poi mi aspetto risultati migliori». Bonometti, racconta, nella sua azienda ha incentivato le ferie, ridotto il personale e incentivato lo smart working, chiuso i reparti non essenziali. Insomma, non è che gli sforzi siano mancati. «Ma abbiamo mantenuto la produzione per i clienti americani, cinesi, austriaci e tedeschi». Insomma, arriverà il giorno in cui ci dovremo risollevare e qualcuno dovrà pur aver mantenuto i contatti. «Le aziende sono metà chiuse e metà aperte». Chiuderebbe tutto? «Inutile». Eppure è un' ipotesi che in Regione non escludono: bisognerà vedere la curva dei contagi che sembra leggermente rallentare.

BERGAMO.

Vittorio Feltri, la lettera a Bergamo: "Ho perso il conto dei morti. Io, colpevole di essere scampato allo sterminio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 aprile 2020. La mia amata Bergamo è in ginocchio, così prega meglio, con maggiore concentrazione. In questi giorni di pestilenza assassina che ha provocato migliaia di vittime, un primato assoluto, essa non può fare altro che rivolgersi al Padreterno nella speranza di aiuto, visto che la scienza non sa che fare per contenere la strage. Da queste parti è più facile andare all’altro mondo che al supermercato e la gente ignora come comportarsi, salvo ubbidire alle disposizioni ermetiche di Giuseppe Conte, dal che si evince quanto sia disperata. Sui colli e nelle valli dove ho trascorso infanzia e giovinezza i preti hanno rinunciato a suonare le campane a morto per non terrorizzare la popolazione, già frastornata dai lutti. Non si capisce perché la provincia sia al vertice della classifica dei defunti a causa del virus. Non c’è virologo che abbia scoperto i motivi per cui proprio lassù, in mezzo al verde e tra persone educate, sia avvenuta simile ecatombe. Quasi 5000 trapassati senza contare quelli non censiti. È un mistero più cupo del maledetto Corona. Confesso che anche i miei parenti sono stati falcidiati, ogni dì mi giunge una telefonata che mi informa di un decesso. Pure alcuni miei amici e compagni di scuola sono finiti al cimitero, ne ho perso il conto mentre avrei preferito perdere il Conte. Mi sento un abusivo della sopravvivenza. Quando tornerò a Bergamo per lanciare una occhiata alla casa che conservo in quella terra, avvertirò quasi di essere un estraneo, non troverò qualcuno con cui fare due chiacchiere sulla nostra prodigiosa Atalanta. Io sono ancora qui a picchiettare sul computer, colpevole di essere scampato allo sterminio. Peggio, di essere fuggito dal paesello in ottobre, poco prima che la malattia esplodesse, come se presagissi il peggio, e da allora non ci ho più messo piede. Anche questo particolare mi trafigge il cuore: sono scappato a tempo per evitare il contagio. Mio fratello Ariel sostiene che io abbia soltanto avuto culo o sia stato ispirato da Sangiovese, protettore di chi beve volentieri un bicchiere o quattro. Forse ha ragione lui, però la sera, quando rientro nella mia dimora milanese e in tv seguo le statistiche relative alle vittime del Covid-19, provo una fitta al petto e mi viene il magone, a me che non piango mai per non tradire la mia fragilità. Oggi non mi trattengo, ammetto di essere debole e impaurito, più che la morte temo la disperazione nel constatare che fra i miei concittadini non riconoscerò più coloro con i quali ho condiviso gli anni più belli, quelli con cui passeggiavo spesso lungo il Sentierone, luogo deputato allo struscio, o sulle incantevoli mura veneziane, teatro del mio primo bacio, dato a una ragazza, commessa di un negozio di elettrodomestici, che non ho più incontrato pur ricordandomi con nostalgia la sua tenerezza. Spero non sia stata travolta dal morbo. Sospetto che queste righe turbate possano infastidire il lettore, tuttavia spero che almeno i miei bergamaschi comprendano: costituiscono lo sfogo di uno di loro incapace di trattenere il proprio dolore. Il mio pensiero corre specialmente ai vecchi come me, ammazzati dalla febbre e dalla polmonite. Individui in gamba che accudivano i nipoti e aiutavano i figli a tirare avanti la baracca, cattolici un po’ troppo bigotti ma generosi. Mi mancheranno il tintinnio dei bicchieri e le chiacchiere di ogni venerdì sera, allorché rientravo da Milano, e sostavo alla trattoria Falconi, scherzosamente definita “università della saggezza”, al fine di gustare un calice di bianco. Gli avventori sulle prime mi riservavano un certo riguardo, in seguito, dopo che avevo pronunciato un paio di battute burine, diventavano consanguinei, mi chiamavano Vittorio e volevano sempre offrire loro le consumazioni. Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante. Mi riconosco in ogni orobico, e in questo detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Traduco: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Ciao, Berghem. Sarai nel mio cuore e ti sarò grato fino all’ultimo giorno che mi rimane. Mi hai dato tutto, soprattutto i vizi e i difetti, e altresì per questo ti voglio bene. Requiem.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2020. «Ora cercherò in Toscana...l'Emilia è piena, ho chiesto a Ferrara, a Bologna, nulla...stessa cosa in Piemonte, anche se hanno dissequestrato il forno di Biella ma lì ci mettono quelli di Trecate e sono tanti. In Veneto il forno di Vicenza è scoppiato. Ho portato alcune bare due giorni fa a Gemona, in Friuli, ma adesso devo per forza spostarmi verso il Centro Sud». Paolo Storoni non è un impresario di pompe funebri. È il comandante provinciale dei carabinieri di Bergamo, un colonnello che arriva dai reparti speciali dell' Arma. Si occupava di criminalità organizzata, narcotraffico, omicidi, rapine. Da quando è esplosa l'emergenza è l' addetto allo smistamento delle bare della provincia più martoriata d' Italia: 1.878 decessi. Una cupa, inesorabile, tragica processione di casse e camion dell' Esercito che corrono per l' Italia verso i forni crematori.

Qual è la situazione comandante?

«Bergamo è una provincia in grande trambusto, che sta pagando una straordinaria emergenza. Quanto alle bare, delle quali mi sto occupando con il coordinamento della Prefettura, la situazione è critica perché il forno crematorio di Bergamo non ce la fa a smaltire l' impressionante richiesta. Siamo a circa mille funerali in un mese contro una media di cento. E non è facile trovare posto nelle altre strutture del Nord. Mi trovo a dirigere un drammatico traffico di bare, come un vigile che indica la giusta direzione. Questo serve e questo faccio perché ritengo utile aiutare i Comuni della Bergamasca in un momento così difficile».

Quante ne avete portate via con i camion?

«Noi militari, cioè carabinieri ed Esercito, fino a ieri abbiamo fatto quasi 400 trasferimenti, un conto al quale non si riesce a star dietro. Il fatto è che molte famiglie ora chiedono la cremazione e il sistema non è pronto ad assorbire numeri così imponenti. Il nostro lavoro è accompagnare con pietas i corpi di questi nostri concittadini come se fossero i nostri cari. È gente che in molti casi conoscevamo».

E le imprese di pompe funebri?

«Si tratta di una criticità sotto vari aspetti. Da una parte hanno avuto un alto numero di contagi che li costringe a lavorare a ranghi ridotti. Dall' altra abbiamo scoperto comportamenti poco corretti da parte di alcune agenzie. Ne abbiamo fermate tre che volevano portar via le bare con mezzi di fortuna. Sono stati denunciati. In altri casi abbiamo notato un aumento dei prezzi. In questi frangenti emerge la nobiltà d' animo di alcuni e la bestialità di altri».

Altri problemi?

«C' è quello dei farmaci che non arrivano perché i corrieri hanno ancora delle difficoltà con le maestranze malate o in sciopero. C' è il problema della carenza di bombole d' ossigeno per chi sta a casa: ai 400 malati cronici si sono aggiunte mille persone. E c' è quello delle persone anziane».

Cioè?

«Molti anziani sono soli, soprattutto nei paesini di montagna. C' è chi è in quarantena e se ne deve stare a casa, c' è chi ha perso il marito o la moglie e si è ritrovato senza nessuno, poveri, e chi ha familiari che non può andare a trovare perché a loro volta sono in quarantena. All' inizio dell' emergenza è successo poi che diverse famiglie hanno portato i nonni nelle case di paese per paura del contagio».

La vicenda che l' ha più toccata?

«Quella della famiglia del mio collega Claudio Ponzoni, morto a 46 anni di coronavirus. Nel giro di due settimane la moglie ha perso il padre, che viveva con loro, e poi lui. È rimasta sola con la loro bambina di 10 anni, senza nessuno. Nei giorni dell' agonia di Claudio l'unico punto di riferimento della moglie ero io. Lei (37 anni, ndr ) era in quarantena e chiamava me per sapere di lui. Quando Claudio è morto mi ha chiesto il favore di andare a casa loro per dirlo alla bambina. Anzi, per confermarlo perché la piccola non voleva credere alla mamma. Non dimenticherò mai quegli occhi. Alla fine, la bimba mi ha regalato pure un disegno. Sono ancora così, in quarantena, sole».

Frasi drammatiche da Bergamo: "I contagiati accanto alle salme". Il direttore di una Rsa rivela la drammatica situazione in Val Seriana: "Costretti a staccare una bombola di ossigeno a un paziente, per darla a un altro". Francesca Bernasconi, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. "Stiamo andando al di là delle regole". Emerge anche questo dal racconto drammatico che Cesare Maffeis, 52 anni, direttore di una Rsa per anziani in Val Seriana, in provincia di Bergamo, fa al Corriere della Sera, parlando dell'emergenza coronavirus, che ha investito l'Italia e la Lombardia in particolare. È dal 2012 che Maffeis lavora per una Rsa, ma ora "non so più che lavoro facciamo, non è più un lavoro ma mutuo soccorso reciproco tra medici, infermieri, farmacisti. Almeno quelli che sono rimasti in campo". Diversi, infatti, i colleghi già contagiati dal Covid-19, che sta mettendo in ginocchio la zona. E la sua testimonianza ne è un'ulteriore dimostrazione: "Stiamo andando tutti al di là delle regole, ormai le regole non esistono più- spiega-Molti di noi si sono trovati nella condizione di staccare una bombola di ossigeno a un paziente che avevamo fatto ricoverare in rianimazione e intubare solo per poterla dare a un altro paziente che non respirava". Trovare l'ossigeno, infatti, non è semplice: occorrono dalle 24 alle 72 ore. Ma questa non è l'unica difficoltà che devono affrontare gli operatori sanitari in prima linea nelle zone più colpite. "Non ci sono tamponi che vengono effettuati nelle residenze sanitarie per anziani, non li ha nessuno. Il test viene fatto esclusivamente al paziente sintomatico in ospedale", racconta, mentre si trova fermo in macchina, lungo il percorso che lo porta al prossimo paziente, in una casa di riposo per anziani. Maffeis parla anche della difficile situazione in cui si trovano medici e infermieri: "La cosa che dall’esterno non si comprende è che i medici sono al capolinea, altri venti giorni così non li reggiamo". E, secondo lui, è probabile che il problema non verrà risolto a breve termine, "per il semplice motivo che non riusciamo a capire: ci sono malati che sembrano gravi e guariscono e altri a cui diresti 'Signora, lei sta benissimo, non ha più problemi' che muoiono". Poi, lancia un appello, rivolto a chiunque "è fuori": "Spero comprendano quello che sta accadendo qui, non oso immaginare cosa possa accadere in altre parti d'Italia non c'è questo sistema sanitario di supporto". Nella zona di Bergamo i morti sono tanti, ma il personale sanitario non ha il tempo di pensarci, rivela Maffeis: "La settimana scorsa ho seppellito due miei carissimi amici. Non ho avuto il tempo per pensare. Sa quando me ne sono ricordato? Mentre percorrevo una strada per raggiungere una mia paziente che stava male. Ho incrociato per caso un’auto identica alla sua e per cinque secondi mi sono commosso". Sulla paura di un contagio, però, il direttore della Rsa dice: "O facciamo o facciamo, non abbiamo molta scelta e se succede succede". Non c'è alternativa. E per far comprendere cosa sta accadendo in Bergamasca fa un esempio struggente: "C'è stata una signora di 70 anni, ricoverata in terapia intensiva per una polmonite, con accanto la salma del marito deceduto il giorno prima".

Luca Telese per tpi.it il 28 marzo 2020.

Buongiorno sindaco, siete, forse, la città più colpita d’Italia.

«Lo siamo purtroppo, aldilà dei numeri che ascoltiamo al telegiornale, che rappresentano solo parzialmente la dimensione dell’epidemia e il dramma di tante famiglie».

Quale?

«Il numero reale delle vittime è di oltre due volte e mezzo quello certificato ufficialmente».

È una affermazione clamorosa.

«Purtroppo è la realtà».

Spieghiamo perché.

«I dati sui contagiati che vengono diffusi quotidianamente dalla Regione e dalla Protezione Civile riguardano solo coloro che sono risultati positivi al tampone. E i tamponi in Lombardia si fanno solo a chi si presenta in ospedale con sintomi molto seri».

E secondo lei è un dato ingannevole?

«Quella è solo la punta dell’iceberg. Ci sono decine di migliaia di persone positive, solo nella mia provincia, che non entrano nelle statistiche solo perché non viene fatto loro il tampone. Parlo di persone sintomatiche, poi ci sono gli asintomatici».

Voi però avete trovato un altro modo di stimare le vittime dell’emergenza?

«Abbiamo contato i decessi dei residenti in città dall’1 al 24 marzo, e abbiamo confrontato questo dato con la media dei decessi nello stesso periodo degli ultimi dieci anni. E quando lei fa questo raffronto cosa scopre? Emerge che il numero dei decessi di quest’anno dall’1 al 24 marzo è quattro volte e mezzo superiore alla media degli anni precedenti».

Incredibile.

«Quest’anno ci sono stati 446 decessi, negli anni precedenti mediamente 98. Sono 348 in più. Per le statistiche ufficiali i decessi causati da Covid 19 sono “solo” 136: tantissimi, ma molti meno di quelli realmente avvenuti».

Quindi la differenza sono tutte vittime? Ma è un numero enorme.

«Ci sono 212 decessi in più di quelli ufficialmente calcolati. Con i medesimi sintomi. E questo scarto non riguarda solo la città: si ritrova in tutti i comuni della provincia di Bergamo, in alcuni casi anche più vistoso».

Dentro questo numero, dunque, si nasconde un altro fenomeno di dimensioni enormi.

«È la dimensione reale di questa tragedia. Centinaia di persone morte nelle loro case, o nelle RSA, senza che sia stato possibile anche solo diagnosticare loro la malattia».

Se questi sono i caduti, significa che il contagio è ovunque.

«Ne ho parlato con diversi esperti, tra cui mio fratello Andrea, che è un infettivologo. È possibile fare delle stime».

Quali?

«A seconda del tasso di mortalità che si assume, gli esperti sostengono possa stare tra il 2% e l’1%, i contagiati in città potrebbero essere tra 17 e 35mila, la maggior parte dei quali fortunatamente con sintomi leggeri o con nessun sintomo. Nell’ipotesi di mortalità più bassa il virus avrebbe colpito già il 30% dell’intera popolazione di Bergamo».

Addirittura?

«È difficile rendersi conto della presenza del virus quando si manifesta senza sintomi, ma ogni cittadino di Bergamo percepisce queste dimensioni: non c’è famiglia che non sia stata toccata, non c’è nessuno di noi che non debba preoccuparsi per un amico, un parente o un collega in gravi condizioni. Oltre ai tanti a casa con sintomi più leggeri. L’incidenza della malattia è molto, molto elevata».

Calcolando anche le forme più leggere e non censite.

«Io avuto mal di gola per più di 15 giorni. Non avevo febbre ma forse era una manifestazione leggera del virus, chi può dirlo?»

Non si riesce ancora oggi, nemmeno a Bergamo, a fare uno screening sui casi sensibili?

«Penso che avrebbero dovuto prima, in forma molto più estesa».

Ad esempio a chi?

«A tutti gli operatori sanitari in primis. E poi almeno a tutti i sintomatici e a tutti i loro familiari».

Anche adesso, per contenere il contagio?

«Anche adesso, almeno per disporre le quarantene di chi va allontanato e proteggere chi va protetto. Mentre è tardi, secondo me, per usare i tamponi come strumento di mappatura, siamo purtroppo troppo avanti nella diffusione dell’epidemia».

Parlo a lungo con Giorgio Gori, ed ascoltarlo è come seguirlo in una anabasi, una lucida discesa agli inferi. Tuttavia, quando leggerete questa intervista non troverete un solo punto esclamativo: non ne usa mai, quando parla, neanche di fronte al dramma. È lo stile dell’uomo, una dote preziosa, in queste ore. Tuttavia, chiunque lo ascolti, non può non restare impressionato dalla capacità di sintesi del sindaco di Bergamo. Numeri e dati a memoria, analisi e ipotesi, e una capacità utile a tutti: quella di studiare il caso Bergamo per trasformarlo in un caso di scuola utile a tutti. Prendete questa intervista e i suoi focus – dalla mascherine ai tamponi, dagli ospedali alle bare – come la prima indagine sull’emergenza ai tempi del Coronavirus.

Ripartiamo dai tamponi. Che idea si è fatto su questo tema degli esami limitati che si ripropone di continuo?

«È una policy, ma non la condivido. L’idea di farne poche migliaia – peraltro cambiando tutti i giorni la dimensione del campione, senza alcuna significatività statistica – non ci dice nulla né sulla storia, né sull’evoluzione della malattia, né su chi quarantenare e quando. Mentre noi – oggi – dovremmo poter tracciare sia i casi sintomatici che tutte le relazioni più strette».

Nella vostra condizione attuale è essenziale questo ultimo aspetto.

«Certo. Viceversa in altre regioni bisogna impostare le cose in altro modo, perché è ancora possibile circoscrivere e bloccare».

Ma chi è che ha dato questa direttiva in Lombardia?

«Noi sindaci lo abbiamo chiesto al presidente Fontana».

E cosa ha risposto?

«Che la Regione si attiene alle direttive dell’ISS e dell’OMS. Nella risposta che ha dato alla lettera degli 81 sindaci della provincia di Milano dice che la Regione si attiene alle disposizioni della circolare del Ministero della Salute del 22 febbraio».

Che effettivamente dice questo?

«Dice di fare i tamponi ai soggetti sintomatici. Che è quello che chiediamo noi. Nessuno ha mai proposto di fare tampone di massa. E in ogni caso di circolare ministeriale ce n’è un’altra, del 20 marzo, ancora più chiara nel dire – gliela sto leggendo – che “è necessario identificare tutti gli individui che sono stati o possono essere stati a contatto con un caso confermato o probabile di Covid19”».

Quindi si dovrebbe cambiare la strategia?

«Mi dico di sì. Leggo che il presidente Fontana ha annunciato che la Regione farà tamponi anche ai monosintomatici. Non capisco bene cosa voglia dire, posto che fino ad oggi non si facevano neppure ai plurisintomatici, né quanti si pensa di farne».

Immaginiamo che si riuscisse ad applicare la direttiva del 20 marzo, e fare più esami, trovare i laboratori, tracciare tutti i casi di cui lei parla. Cosa avremmo in più?

«Si potrebbero gestire in modo molto più efficiente le quarantene, isolando una buona parte dei portatori del virus. Oggi purtroppo si interviene – quando è possibile farlo – troppo tardi».

Perché anche oggi, secondo lei il fattore tempo è decisivo.

«L’altro ieri sono andato con il vescovo di Bergamo a rendere omaggio alle urne contenenti le ceneri di nostri concittadini cremati negli impianti di altre: erano 118, allineate sull’altare del famedio. E nella chiesa di Ognissanti, ordinate a terra, c’erano 94 bare. Non si può spiegare».

Lei la usa per darmi le proporzioni del dramma.

«Sì, perché immagino che per chi non vive qui sia più difficile comprendere. Per questo mi affanno a dire che va trovato il modo per rafforzare gli interventi sul territorio. Per quanti miracoli si siano fatti per ampliare la capacità di cura negli ospedali, aggiungendo decine di letti di terapia intensiva, non si può aspettare che i malati si aggravino al punto da doverli portare in ospedale.

Perché è troppo tardi.

«E perché servirebbero centinaia di posti in più, che non ci sono. Dobbiamo arrivare prima. L’ordine dei medici stima che nelle case e nelle RSA della provincia ci siano quattromila casi di polmonite in corso».

E chi li assiste?

«Da alcuni giorni la Regione ha istituito le USCA – unità speciali di continuità assistenziale -, piccole squadre di medici e infermieri che vanno a casa dei pazienti, verificano la saturazione del sangue, il bisogno di ossigeno. È la strada giusta. Ma sa quante sono? Otto per tutta la provincia. Servono più medici, più infermieri e più dispositivi di protezione».

Per proteggere medici e infermieri.

«Le dico solo che di 700 medici di medicina generale della provincia se ne sono ammalati 144. Andare a curare a domicilio casa è un altro rischio. Non bastano le mascherine. I medici delle USCA debbono proteggersi da capo a piedi, sembrano degli astronauti. Serve un’ora di preparazione per ogni visita. I tempi e i rischi si dilatano».

E poi, per chi è casa, c’è il tema delle bombole.

«C’è un grande problema con l’ossigeno: servono più di duemila bombole di ossigeno al giorno. Ognuno cerca di dare una mano, anche nel contattare i fornitori che si conoscono. L’ATS ha fatto un buon piano ma preoccupa la prospettiva».

Perché?

«I fornitori sono sollecitati ormai anche da altre province. C’è il rischio che non riescano a coprire tutto il fabbisogno».

Qui dove sta il problema?

«Mi hanno spiegato che scarseggiano innanzitutto i contenitori, le bombole. Per recuperare le bombole vuote si sono attivati anche i carabinieri. Se ne occupa in prima persona anche il sindaco di Treviolo, che ha competenza provinciale sulla Protezione Civile».

E di nuovo si torna al problema di risalire la catena del soccorso per anticiparla.

«Sarebbe forse utile attrezzare dei luoghi in cui assistere chi è in condizione pre-ospedaliera, ha bisogno di ossigeno e va allontanato dagli altri familiari. Come si sta pensando di fare negli hotel per chi esce dagli ospedali ma non può ancora rientrare a casa. Ci sono anche altri effetti collaterali del decorso domestico. Tante persone malate vivono in piccoli appartamenti in cui non è possibile separare gli ambienti. I familiari sono lì, necessariamente vicini».

Cioè a rischio contagio.

«Altissimo».

E qui si ritorna alla tracciatura.

«È esattamente quello che dicevamo prima».

Dicono che c’è anche il problema dei reagenti e dei laboratori, per gli esami.

«Non so dirlo. Ma a questo punto, qui dove l’epidemia è così avanti, penso ci si debba concentrare anche su un altro tipo di test: quello che misurando il livello degli anticorpi può individuare chi è stato contagiato , anche in modo asintomatico, è soprattutto può certificare chi si è “negativizzato”.

Altrove si è fatto.

«Mi pare in Corea. In questo momento mi risulta che diversi istituti di ricerca siano impegnati nella verifica di affidabilità di alcuni prototipi di questo tipo di test».

Spieghiamolo.

«Non sono un medico ma provo a dirlo. La misurazione degli anticorpi consentirebbe di avere traccia del contagio pregresso, a cui è seguita una risposta immunitaria, ma anche ad avere la certezza che non sono più contagioso. E sarebbe importantissimo poterlo certificare».

Parla anche in prima persona.

«Anche. Io ho chiuso in casa i miei genitori da un mese e ho paura di andarli a trovare perché non so se potrei contagiarli».

Quindi esami anche senza tampone.

«Non si tratterebbe di tamponi rino-faringei, se ho ben capito, ma di test ematici. Sarebbe ovviamente importante poterne realizzare in grande quantità».

Lei fece scandalo quando all’inizio della crisi disse che alcuni venivano lasciati a morire fuori dalle terapie intensive sovraccariche. Adesso sappiamo che era vero.

«Dicevo quello di cui ero venuto a conoscenza. Non per accusare qualcuno ma per dire in quale enormi difficoltà si trovassero alcuni ospedali».

Da dove le arrivava quella notizia?

«Da amici che lavorano negli ospedali e da altri che avevano perso il papà, o un parente, senza che fosse stato possibile intubarlo. Non voleva essere una accusa, ma una testimonianza delle drammatiche difficoltà in cui alcuni medici si trovavano ad operare».

Questo rischio c’è ancora?

«Tante persone muoiono a casa, senza che sia possibile portare tutti nelle terapie intensive degli ospedali».

Il tappo negli ospedali e le persone che restano a casa?

«L’offerta di cure intensive è stata quasi raddoppiata in Lombardia, e nonostante questo… L’esito, terribile, è lo stesso. È vero che si tratta quasi sempre di persone molto anziane, con altre patologie, ma se non si fossero ammalate avrebbero probabilmente vissuto altri dieci o quindici anni».

Gli ospedali sono saltati.

«Guardi, io continuo a dirlo: in Lombardia c’è un ottimo sistema ospedaliero e ci lavorano delle persone straordinarie. Ma è vero questa cosa è più grande di noi, e che ci ha colto impreparati».

Cosa non ha funzionato, dunque?

«È la dimensione dell’epidemia, innanzitutto. E poi tutto precipita sugli ospedali, come ci siamo detti. La domanda è se si poteva evitare».

Come?

«Va assolutamente trovato il modo di intercettare prima i malati, curarli a domicilio prima che le loro condizioni precipitino».

E i privati?

«Ho letto il pezzo di Selvaggia Lucarelli su TPI. Ero d’accordo su tutto, non su questo punto. Almeno per quello che ho visto a Bergamo».

Come funziona da voi?

«Qui i privati si sono fatti in quattro. All’Humanitas Gavazzeni abbiamo ormai solo malati Covid».

Però non basta per sorreggere il sistema?

«Non basta se non si riducono i contagi e se non si curano prima i malati. Quando i pazienti arrivano negli ospedali le loro condizioni sono spesso disperate».

Altro dilemma: le mascherine.

«Il presidente dell’Ordine degli infermieri di Bergamo oggi dice che le mascherine ancora non ci sono. È così, da quanto raccolgo anch’io. Sembra che ne debbano arrivare a milioni – dalla Protezione Civile, dalla Cina, dai donatori – ma ancora scarseggiano».

Un disastro.

«Abbiamo provato a rimediare. Martedì dovremmo avere le prime mascherine prodotte da aziende bergamasche che si sono riconvertite. Ma sottolineo: per chi è in trincea servono anche occhiali, camici, guanti e calzari. E ne servono in quantità industriali».

Ho visto che Armani ha convertito la produzione per fare camici.

«L’ho ringraziato».

Ma se non arrivano dalla Protezione Civile come fate in Comune per i vostri approvvigionamenti?

«Fino ad oggi abbiamo fatto fronte alle necessità più urgenti grazie alla generosità di alcuni amici. La Mediberg di Calcinate, produttore nazionale del nostro territorio, fornitore primario della Protezione Civile, ci ha regalato 4.500 mascherine. Le stiamo usando per i dipendenti del Comune che sono al lavoro, per gli autisti del trasporto pubblico e per quelli dell’azienda che si occupa della pulizia delle strade e della raccolta dei rifiuti. Oltre che per i volontari che portano la spesa a casa alle persone anziane».

Miracolo.

«Solo un dettaglio, per dare l’idea: per questa farci avere questa piccola fornitura hanno dovuto infilarla in un turno supplementare notturno, altrimenti non avremmo avuto modo di proteggerci».

Quanti volontari avete per l’assistenza domestica?

«Trenta squadre, 500 volontari impegnati nel dare assistenza alle persone anziane. Vanno a fare la spesa, portano i farmaci insieme ai volontari della Croce Rossa. Nelle squadre ci sono anche alcuni consiglieri comunali, tante storie belle che un giorno potremo raccontare».

E il nuovo ospedale da campo?

«È in via di costruzione all’interno dei padiglioni della Fiera. Ci sono gli alpini al lavoro, ma anche lì tanti si sono offerti di dare un aiuto: soldi, materiali, strumentazioni. Qualcuno ha detto vi offro la cablatura, altri hanno tirato su le pareti…»

Donazioni?

«Tante: “Io regalo i pavimenti”, “io metto i miei artigiani”, persino i tifosi della curva si sono mobilitati. mercoledì sarà pronto».

Darà sollievo alla filiera ospedaliera?

«Assolutamente sì. All’ospedale Papa Giovanni non c’è più spazio, anche avessimo altri ventilatori e il personale per gestirli. Bisogna alleggerire la pressione».

Il personale medico della nuova struttura arriva tutto da fuori città?

«Il “Papa Giovanni” è l’ospedale di riferimento. Poi ci sono medici italiani, una squadra di Emergency che si occuperà della terapia intensiva, e poi i russi: 32 militari organizzati in squadre da quattro: un medico generico, un infettivologo, un anestesista e un infermiere. Assistiti da un interprete».

Mi dica gli sbagli più gravi da cui imparare.

«Non mi piace usare la matita rossa e blu. Parliamo di insegnamenti».

Il primo.

«Bisogna proteggere adeguatamente i medici. Vedendo quanti se ne sono ammalati credo che non sia stato fatto alla perfezione. Se non si fa i medici e i sanitari diventano i primi veicoli di contagio».

E il secondo?

«Detto col senno di poi, la mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana».

Chi non l’ha voluta?

«Io mi ricordo bene quei giorni tra il 2 e l’8, anche se sembra un secolo fa».

Cosa accadde?

«Pensavamo tutti che la decisione fosse imminente, venne addirittura l’esercito a fare sopralluoghi».

E poi?

«E poi non si è fatta. L’8 marzo è nata la zona arancione, estesa a tutta la Lombardia e ad altre 14 province».

Lei mi sta dicendo: il ritardo è stato di una settimana al massimo.

«Una zona arancione non è una zona rossa. Quest’ultima avrebbe dovuto comprendere solo i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, dove si era sviluppato un focolaio. Ma una settimana in questa guerra che stiamo affrontando può valere moltissimo».

Si dice che sia stato il territorio a resistere all’idea della zona rossa bergamasca.

«Per motivi anche comprensibili. Io ritenevo che andasse fatta, e l’ho detto, ma capivo la preoccupazione dei territori interessati. Quella è una zona in cui ci sono centinaia di imprese».

Con chi ne ha discusso?

«Con alcuni imprenditori amici che operano in quella zona, cercando di spiegare loro che la zona rossa non avrebbe significato necessariamente la morte delle loro aziende, come temevano».

E riusciva a essere persuasivo?

«Non so. Ma dicevo una cosa di cui oggi sono certo. Se non si fosse fatta, poi sarebbe stato peggio».

Quanto riesce a discutere con suo fratello in queste ore?

«Lo sento spesso. Lui è veramente in prima linea, come tutti i medici, nel suo caso al Policlinico di Milano. Lo sento anche per evitare di dire cose imprecise o avventate sui temi sanitari. Anche sul test degli anticorpi ho cercato di farmi spiegare da lui come possa funzionare».

Lui è più o meno pessimista di lei?

«Lo sento preoccupato. Il virus minaccia anche Milano. E bisogna fare di tutto per frenarlo prima».

Ecco perché lei insiste sullo screening mirato.

«L’incendio non deve divampare anche a Milano. È fondamentale».

Perché non è accaduto?

«Forse quei pochi giorni che si sono guadagnati rispetto a Bergamo, quando la Lombardia è stata chiusa, sono stati decisivi nel proteggere la città».

Chiudiamo questa intervista dove l’abbiamo iniziata. Il tempo.

«Vede, è il mio pensiero ricorrente. Ognuno di noi oggi misura il destino della sua comunità sui giorni, sulle ore, o persino sui pochi minuti di vantaggio che riesce ad accumulare rispetto al metronomo impazzito della crisi».

Pensa mai a quando avrà di nuovo tempo?

«Molto spesso. Una parte dovremo dedicarla a chi ci ha lasciato. A Bergamo abbiamo cercato di fare il possibile, ma so che è troppo poco».

Ad esempio?

«Consentiamo ai parenti – massimo dieci – di assistere alla tumulazione. E ho subito aderito alla proposta del presidente della Provincia di esporre bandiere a mezz’asta martedì 31 e fare un minuto di silenzio di fronte al movimento ai caduti. Accadrà in tutti i comuni d’Italia».

Ma lei sta pensando al dopo?

«Dovremo trovare un modo degno, e simbolicamente importante, per onorare tutti quelli che sono caduti. Un grande omaggio».

Dentro l'ospedale di Bergamo, la trincea del coronavirus. Elena Testi 27/3/2020 su L'Espresso. Bergamo i carri funebri aspettano fuori dal cancello. Una fila di bare che si appresta a rimanere sola. Arriva un piccolo corteo, sono una decina, hanno tutti le mascherine. Non vedi il dolore del volto, senti solo le urla strozzate. Il pianto della figlia che ha perso il padre. Le parole masticate del marito che ha sentito volare via l’amore. Salutarlo no, quello non è permesso. Avrà trent’anni, appoggia una rosa bianca sopra la bara, poi il carro se ne va, entra dentro il cimitero. Rimane sola, nessuno può abbracciarla, confortarla. È proibito il contatto umano, anche di fronte alla perdita. E allora, dopo avere appoggiato il fiore, non resta che salire nuovamente in auto e guidare verso casa, chiudendosi la porta alle spalle, sapendo di non poterla riaprire neanche per una passeggiata all’aria aperta. Devi rimanere imprigionato nei ricordi, senza possibilità di evasione. Le salme, qui a Bergamo, arrivano a decine ogni giorno. «Voglio dare loro dignità», mi dice l’assessore ai servizi funebri Giacomo Angeloni. Fuma in maniera disperata. «È la mia comunità, è la mia gente. Muoiono, muoiono in continuazione e io non so più dove mettere i corpi». Fuori dall’ospedale papa Giovanni XXIII i pazienti arrivano. Qui, ormai, è tutto Covid-19. Marco Rizzi, primario del reparto di malattie infettive, esce dalla corsia: «Sono tempi difficili, non è facile dare una risposta a tutti. Il sistema sanitario è sotto stress e non c’è più l’efficienza di prima». Rimane fermo, lucido, umano. «Tutto è cambiato, abbiamo riorganizzato l’intero ospedale, aumentando i posti di terapia intensiva, oltretutto la più grande d’Europa, ma i pazienti continuano ad arrivare con punte che toccano anche i settanta accessi al pronto soccorso in un giorno solo». Fanno tre all’ora, uno ogni venti minuti. E la corsa verso la salvezza spesso si blocca all’improvviso, con una crisi respiratoria. Muoiono soli, senza una mano che li accompagni. In quattro settimane è già strage, più di seicento persone in provincia di Bergamo sono state uccise dal Covid, ma i numeri veri sono molto più alti, oltre mille, perché tanti se ne vanno in casa senza essere tamponati. L’esercito è appena arrivato, una carovana di blindati che ha preso in consegna 75 salme. Nessuno sa cosa deve fare esattamente. Siamo di fronte a un caos di eventi che è una costante emergenza. «Sai che sono morti 15 sacerdoti qui a Bergamo, si sono ammalati perché andavamo a dare conforto alle famiglie di chi ci ha lasciato». I funerali sono bloccati e così i preti si incamminano verso le case dove il Covid è entrato. Si infettano, finiscono in ospedale e lasciano questa terra. Non ce l’ha fatta neanche don Fausto Resmini, che a Bergamo chiamavano il “prete degli ultimi”. Apri i giornali, li sfogli e ti rendi conto che si sono tramutati in un cimitero di inchiostro e carta. Le ambulanze, ormai, non accendono più neanche le sirene. Non lo fanno più da nessuna parte, in Lombardia, neanche a Milano, dove il contagio è contenuto, ma c’è e lo percepisci. Le vedi in autostrada, nelle vie delle città che stentano ad essere deserte. Le vedi ovunque, a flotte, ogni giorno. Provi a contarle per capire a che punto è l’epidemia, a metà mattinata ti sei già perso e allora è inutile continuare. Scendono con la tuta bianca, la barella. Salgano e poi scendono nuovamente con persone attaccate a un ventilatore. Ormai vengono a prendersi solo quelli gravi, quelli che devono per forza stare in un ospedale. I posti letto sono finiti e c’è chi preferisce morire a casa. «Non so se continuerò a fare il medico quando tutto sarà finito», mi dice una dottoressa dell’ospedale di Brescia alla fine del turno. Dodici ore di impotenza. «Solo ieri ho perso venti pazienti, in un giorno, non ho mai assistito a nulla del genere». Eppure un medico è abituato alla morte, al dolore, alla sofferenza fisica: «Ma nessuno», mi spiega, «poteva immaginare tutto questo. Nessuna persona può umanamente accettarlo». Sono loro, i medici, che comunicano il decesso. Provano a farlo di persone, ma a volte, sono così tanti che bisogna telefonare. Annientare la pietas per salvare altre vite. Mentre parla arrivano i nuovi, quelli che entreranno nel suo reparto. Vengono consegnati dai familiari fuori dal pronto soccorso. Misurano la febbre, prendono i parametri, se sono compatibili con la malattia vanno verso destra. Passano dall’esterno, hanno la paura che gli sfigura il volto. Gli occhi sbarrati che guardano il cielo, poi per molto tempo non potranno più vederlo, forse non lo vedranno mai più. Forse quella potrebbe essere l’ultima volta. Vanno dentro il percorso soli, nessuno gli tiene la mano, poco distante vedi il figlio, la madre, il padre, la sorella o la nipote che tentano di capire. Chiedono al personale medico: «Dove va? Ma lo rivedremo? È grave?». Rispondono di aspettare e che «no, non lo vedrete fino a che non sarà guarito». Alessandra è un’infermiera che sta nella terapia intensiva di Brescia, parliamo, anche un solo contatto umano esterno dall’ospedale per chi sta in trincea è un’evasione. «Qui c’era un ragazzo, un collega medico venuto da Cremona, un omone di 38 anni, lo abbiamo intubato, però sembra stare meglio». Anche loro si ammalano. Toccano i pazienti, usano tutte le precauzioni, ma questa è una strana bestia che ti succhia il sistema immunitario. Ti attacca nei momenti di distrazione. «Non vedo la mia famiglia da tre settimane», lo dice mentre si allontana ancora un po’. «Non possiamo far rischiare la vita ai nostri cari». Non toglie mai la mascherina, neanche all’aperto. Lo fa, dice, solo quando è sola, perché alla fine di questo virus abbiamo ancora capito poco. Seduta su una panchina c’è Stefania, ha tre grandi buste vicino a sé. Aveva smesso di fare l’infermiera: «volevo stare con i miei figli, con il marito camionista ho pensato che almeno un genitore dovesse stare con loro». L’ospedale l’ha chiamata per «combattere questa guerra», la chiama così, anche se in guerra vedi almeno le macerie, hai un nemico. Qui il nemico non si sa che volto abbia. Rimane in silenzio, vede l’ambulanza passare e allora scoppia in lacrime come una giovane pronta a partire per il fronte: «Non sono vigliacca, io rimango, lo devo alla mia gente, ma ho paura di ammalarmi». Si ferma e lo ripete: «Ho paura di ammalarmi, ho paura di contagiare i miei figli». Una paura così grande che appena vede i pazienti del reparto Covid decide di dimettersi: «Non è umanamente possibile sopportare tutto questo». E come lei tanti altri. Ma la paura la senti ovunque. La vedi nell’ossessione del disinfettante per mani. La percepisci durante la fila per entrare al supermercato. Tutti distanti più di un metro. Una distanza che diventa un vuoto oscuro, perché nessuno parla. Tieni stretta la busta tra le mani fasciate con i guanti. Se ti avvicini troppo a un altro essere umano, scatta l’istinto di sopravvivenza che ti porta a un balzo verso un’invisibile area protetta. La paura la vedi lungo i marciapiedi, c’è chi preferisce andare in mezzo alla strada pur di non passarti accanto, ma se per un momento ti scordi di stare lontano, qui a Milano te lo ricorda la polizia municipale. Passano con i megafoni: «Ehi lei, scenda da quella altalena, è un gioco per bambini, e poi i parchi sono chiusi». Continuano il giro del quartiere a passo d’uomo: «Voi siete troppo vicini, mantenete le distanze». Ti chiedi quanto le persone resisteranno ancora e scopri, in una delle tante telefonate, che in un piccolo comune della bergamasca in un solo fine settimana hanno firmato sei Tso. Qui pesa la paura e la reclusione. Vai in stazione Centrale per vedere quanti ancora tentano la fuga. Nessuno passa. Un muro di militari e polizia, i treni che prima ti portavano al sud sono stati ormai quasi tutti cancellati nel silenzio generale. Si fa spazio l’isteria. «Chiami il mio medico, le dirà che devo andare a casa», urla con l’angoscia in gola e le braccia alzata. Il militare gli fa cenno di no, gli spieghi che da qui non può andare via e che deve rimanere a Milano. Scendono le lacrime, arriva la supplica: «La prego, chiami il mio medico, parli con lui, mi faccia partire». Rimane fermo di fronte al militare, poi chiama la madre e l’avverte. Si porta lo zaino in spalla ed esce dalla stazione deserta. Non c’è più nessuno, solo qualche barbone per terra. I taxi sono fermi, una lunga fila bianca a riposo dalla frenesia di trenta giorni fa, quando il mondo ancora si muoveva senza pensare. Ogni mattina tre pasticche. Due per il sistema immunitario e una di Vitamina C. Forse non servono a nulla ma le butti giù con un bicchier d’acqua perché così hai l’impressione di controllare il tuo corpo. Lo fanno in tanti. Se in una guerra ci sono le bomba da evitare, in questo caso la bomba, senza saperlo, potresti esseri tu. Un promemoria che tutti conoscono, anche in Regione Lombardia. Nel grattacielo milanese voluto da Roberto Formigoni sono rimasti in pochi, la domanda ricorrente è una: «Perché qui il Covid è così violento, perché?». Non hanno una risposta e allora si aggrappano con determinazione al bollettino finale. Analizzano i dati, li sciorinano e li spiegano. In tempi di pace, frase usata per dividere il prima e l’adesso, si sarebbe scatenata una battaglia senza precedenti tra governo e regione, soprattutto la sera del 21 marzo, quando il presidente Attilio Fontana ha emanato l’ordinanza con la quale imponeva maggiori restrizioni. Sono rimasti in attesa della risposta del Governo. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte li avrebbe dovuto chiamare la sera, ma alle 22.30 è arrivata la telefonata da Palazzo Chigi: «Il presidente non vi chiamerà». Un’ora dopo, senza che nessuno sapesse nulla, è stato firmato un nuovo decreto della presidenza del Consiglio, il Dpcm, per loro e per l’Italia. Il disappunto in Regione è trapelato a microfoni spenti, perché «questo non è il tempo delle polemiche». Ma c’è chi ti confida: «A Roma non capiscono cosa stiamo vivendo, non capiscono cosa sta accadendo qui da noi, non capiscono quanto sarebbe stato meglio se ci avessero ascoltato sin dall’inizio, quando volevamo chiudere tutto». E ora che tutto è chiuso, ciò che rimane sono solo le ambulanze senza più voce, le strade vuote, gli ospedali pieni, la solitudine e un mostro che cammina di corpo in corpo. E non sappiamo ancora quando smetterà di camminare.

Coronavirus, il sindaco di Nembro: "Anagrafe piena di morti e infettati, non possiamo registrare i decessi". Libero Quotidiano il 03 aprile 2020. La situazione coronavirus in Lombardia è drammatica. Tra le zone più colpite c'è Nembro, comune in provincia di Bergamo che conta 11.500 abitanti. "Il nostro mondo è stato stravolto - spiega il sindaco Claudio Cancelli -. In un anno normale avevamo un morto ogni tre giorni. A marzo una media di 5 morti al giorno, con punte di 10. Ora siamo a 3. E tanto basta per vedere un filo di luce". Una situazione critica al punto che l'assistenza ai pazienti dializzati positivi al Covid, non la fa né l'Asl né la Protezione civile, "se non li accompagniamo noi - si sfoga il primo cittadino sulle pagine della Stampa -, muoiono in casa". I decessi a Nembro sono talmente tanti che non si sapeva più come registrarli: "L'ufficio anagrafe non esisteva più: un impiegato morto, gli altri tre contagiati. Altre due dipendenti hanno cambiato ufficio, guidate al telefono. Una pensionata è venuta a lavorare gratis". Lo sconforto di Cancelli c'è ogni sera, "ogni volta che raccolgo i nomi dei morti". Così come "la delusione di fronte alle polemiche tra politici, alle diatribe tra Regione e governo". Nessuno - conclude il sindaco - li ha protetti: "Lo Stato è stato incapace di gestire anche gli aspetti organizzativi e logistici più semplici. E non ci sono state direttive chiare e uguali per tutti". Il futuro sembra impensabile, almeno per un comune dimezzato.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 3 aprile 2020. «Facciamo presto. Devo ancora fare la conta dei morti. E poi ho la giunta. Ne facciamo tre al giorno, su Skype. L' ultima alle 9 di sera, quella più lunga». Claudio Cancelli, insegnante di fisica in pensione, è un sindaco di guerra. La sua Nembro, 11500 abitanti in provincia di Bergamo, è stata flagellata dal coronavirus: 76 morti e 210 contagiati ufficiali. «Ma noi abbiamo contato 160 morti e stimiamo almeno il 50% della popolazione contagiata. Vorrei fare test di massa degli anticorpi, per evitare recrudescenze».

Com' è adesso la situazione?

«Il nostro mondo è stato stravolto. In un anno normale avevamo un morto ogni tre giorni. A marzo una media di 5 morti al giorno, con punte di 10. Ora siamo a 3. E tanto basta per vedere un filo di luce».

Come vi siete organizzati?

«Abbiamo dirottato sull' emergenza 7 dipendenti comunali e 115 volontari per gestire ogni tipo di servizio. Un centralino che riceve 50 telefonate al giorno. La consulenza legale gratuita per divieti e multe. La consegna di farmaci e pasti a domicilio. Gli accordi con gli idraulici per gli anziani a cui si rompe la caldaia. Uno sportello notarile per le successioni».

E dal punto di vista sanitario?

«La ricerca delle introvabili bombole di ossigeno, anche in altre valli. L' assistenza ai pazienti dializzati positivi al covid, che non fa né l' Asl né la Protezione civile. Se non li accompagniamo noi, muoiono in casa».

Le famiglie colpite da lutti sono state aiutate?

«Abbiamo chiamato un' associazione di psicologi specializzata in traumi da catastrofi come i terremoti».

Anche voi avete dovuto portare i morti lontano?

«Fortunatamente avevamo parecchi loculi disponibili. Li abbiamo usati come spazi temporanei. Piuttosto a un certo punto non sapevamo più come registrarli».

In che senso?

«L' ufficio anagrafe non esisteva più: un impiegato morto, gli altri tre contagiati. Altre due dipendenti hanno cambiato ufficio, guidate al telefono. Una pensionata è venuta a lavorare gratis».

Siete stati aiutati?

«Abbiamo fatto tutto da soli. Sopravvissuti grazie ad atti di eroismo civile. Non aspettando che arrivassero "i nostri", da Roma o da Milano».

Come comunica con i cittadini?

«Ogni sera registro un messaggio che automaticamente per telefono raggiunge oltre duemila persone. Un bollettino di giornata. Soprattutto le persone sole aspettano la mia voce».

Oggi cosa ha detto?

«Un richiamo al rispetto delle norme, perché abbiamo segnalazioni di passeggiate sui sentieri. E informazioni sulle agevolazioni fiscali».

Cose tecniche.

«Altri giorni vado sui sentimenti. Qualcuno poi mi chiama perché l' ho fatto piangere».

Capita anche a lei?

«Una volta, quando le sirene delle ambulanze non davano tregua. Ho scritto il messaggio, ho provato a registrarlo ma non ce l' ho fatta. La voce si spezzava».

Perché?

«Era appena morta un' ostetrica, molto generosa e conosciuta da tutti in paese. Ero vinto dall' impotenza e da un senso di solitudine nel dolore».

Ora qual è il suo sentimento prevalente?

«Quando raccolgo i nomi dei morti lo sconforto. E delusione di fronte alle polemiche tra politici, alle diatribe tra Regione e governo».

Vi siete sentiti abbandonati?

«Non ci siamo sentiti protetti. Lo Stato è stato incapace di gestire anche gli aspetti organizzativi e logistici più semplici.

E non ci sono state direttive chiare e uguali per tutti».

Pensa al vostro futuro?

«Non riesco ancora a farlo».

Perché?

«Mi chiedo come e quando ne usciremo. Bisognerà evitare nuovi contagi, quando si tornerà a una vita più o meno normale. Sostenere le imprese. Aiutare chi ha bisogno, magari con meno complicazioni burocratiche dei buoni spesa».

Quanto è arrivato dal governo?

«Per l' assistenza sociale 63 mila euro».

Bastano?

«Non penso. Per fortuna abbiamo oltre 100 mila euro di donazioni private».

La guerra è finita?

«Non ancora. Ma bisogna già pensare a vincere il dopoguerra».

Francesca Nava per tpi.it il 26 marzo 2020. Nel comune bergamasco di Nembro, in Val Seriana, le sirene delle ambulanze hanno smesso di suonare, per non infierire ulteriormente su una popolazione già provata da un bollettino di guerra quotidiano. Sia qui, sia ad Alzano Lombardo – i due comuni della provincia di Bergamo con la più alta incidenza di contagi da Covid19 – molte fabbriche hanno chiuso dopo il decreto ministeriale di sabato 21 marzo. Eppure, come ci raccontano alcuni sindacalisti della zona, diverse aziende si stanno preparando per ripartire già da lunedì. Altre, invece, non si sono proprio fermate, sfruttando la possibilità di andare in deroga al decreto nel caso in cui l’attività produttiva sia agganciata a quelle consentite. Ed è così che, paradossalmente, ci troviamo oggi davanti a situazioni come quella descritta da un operaio in una lettera aperta al premier Conte: “Buongiorno presidente – scrive Fabrizio – sono un sardo residente nella bergamasca e dopo il decreto sulla chiusura totale, che in realtà non ha chiuso niente, mi sono sentito come un figlio che viene pugnalato alle spalle. Io lavoro nel settore della gomma plastica, ma non facciamo beni primari, bensì giocattolini”. Come la sua, scrive l’operaio, c’è un elenco infinito di ditte – accanto a quella in cui lavora lui – che non fanno beni primari, ma che restano aperte. E’ il nord produttivo che non vuole fermarsi, nonostante tutto. Nonostante questa strage. Fabrizio si sente abbandonato e racconta nella lettera la sua atroce quotidianità: “Non sa che cosa vuol dire lavorare con la mascherina per otto ore. Con pensieri brutti, concentrazione bassa, guardando i colleghi con gli occhi lucidi. Non sa che cosa vuol dire paura. Di infettarsi. Di infettare. Tornare a casa dopo aver incrociato ancora tante ambulanze. Posti di blocco. Arrivare a casa e non abbracciare mia figlia di un anno e mezzo, che vuole le coccole che le davo sempre. Ora che siamo allo stremo e tutti gli ospedali sono al collasso, chiediamo solo di chiudere tutte le ditte, perché il contagio avviene anche in fabbrica. Aiutateci a esser più sereni a casa con i nostri cari. Chiuda tutto. A nome di tutta la bergamasca. Fabrizio, un umile cittadino”. Ancora una volta le fabbriche. Ancora una volta la produttività. Ancora una volta il dilemma tra salute ed economia. E’ questo il grande nodo su cui si è incagliata la macchina dello Stato nella gestione di questa emergenza e su cui ancora di più oggi – che si sono strette le maglie – si gioca la grande partita dell’Italia contro il coronavirus. A partire anche da zone come quelle di Nembro e Alzano, con 25 mila abitanti, 370 aziende, quattromila lavoratori e 680 milioni di fatturato all’anno. Una settimana fa su TPI abbiamo raccontato la storia di questi due comuni e del focolaio lombardo partito dall’ospedale “Pesenti Fenaroli”, mai messo in sicurezza. Una storia nella quale appare sempre più evidente come il combinato disposto di una mancanza di protocolli chiari e i forti interessi economici abbiano fatto passare in secondo piano la tutela della salute pubblica. Secondo quanto riportato recentemente dalla Fondazione Gimbe, organo indipendente di ricerca e informazione in ambito sanitario, “i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti in ambito medico, all’informazione alla popolazione”. Tutte queste attività, inclusa la predisposizione dei piani regionali, erano previste dal “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006. “È inspiegabile – afferma il Presidente Gimbe, Nino Cartabellotta – che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio”. In fondo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sono sempre state chiare: trova il contagio, isolalo, testalo, traccia tutti i contatti. Modello Corea del Sud, dove il primo focolaio è stato localizzato il 2 febbraio ed è subito scattata la quarantena per tutto il paese, mettendo a disposizione una App per la tracciatura di tutti i cittadini. Risultato: dall’inizio del tracciamento in due settimane i contagi sono passati da 800 a 80 al giorno. Da noi, invece, si è andati avanti un po’ a tentoni, accumulando un errore dietro l’altro, come dimostra questa nuova testimonianza di un’assistente socio sanitaria, che si trovava dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo la notte tra il 22 e il 23 febbraio e che ci è stata segnalata dal giornale online “Valseriana News”. La donna stava seguendo un paziente di 80 anni ricoverato per un check up nel reparto di Medicina generale, in una stanza condivisa con un altro paziente di 60 anni affetto da una grave polmonite. “Il nostro vicino di letto aveva la febbre alta, non riusciva a respirare – racconta l’assistente sanitaria – e chiamava l’infermiera in continuazione, perché era evidente che stesse soffrendo molto, indossava il casco dell’ossigeno, che però continuava a cadere, era agitato, sudava e lo sentivo ripetere "non riuscite a capire che io sto morendo, sto morendo". Queste parole mi sono rimaste impresse nel cervello. Gli infermieri, tra l’altro, avevano iniziato a indossare le mascherine con il filtro, quelle buone, mentre fino a qualche giorno prima li avevo visti solo con quelle chirurgiche e questo dettaglio mi aveva allarmato”. Il giorno dopo, nell’ospedale di Alzano Lombardo, che dista appena cinque chilometri da Bergamo, vengono diagnosticati due casi di Covid19, uno di loro è transitato dal pronto soccorso e un altro nel reparto di Medicina generale. L’assistente sanitaria viene a sapere che il paziente in camera con il suo assistito è morto e che l’ospedale è stato chiuso e riaperto alcune ore dopo la notizia delle infezioni da coronavirus. Nessuno, però, la contatta, né la sottopone a tampone, così come non vengono contattate le altre sue colleghe, che avevano prestato servizio nella struttura ospedaliera infetta e che nei giorni a seguire si sono spostate liberamente per tutta la provincia di Bergamo. Il paziente che la donna aveva in cura muore una decina di giorni dopo. Lei, invece, si ammala: febbre, raffreddore e tosse, e mentre la intervistiamo al telefono non riesce nemmeno a finire di parlare, a causa della forte tracheite che ancora la tormenta. “Ho cinque figli – dice – e nessuno in quell’ospedale ha pensato di proteggermi e di tutelarmi, ci ho pensato io a mandare i miei figli da un’altra parte per non contagiarli, perché sono sicura di aver contratto il coronavirus. Lo hanno preso tutti qui, se hai l’influenza è quasi sicuramente covid, ma ormai il tampone non lo fanno quasi più a nessuno”. Questa storia fa il paio con decine di testimonianze che stanno emergendo in questi giorni, come quella di un uomo di Villa di Serio, che nell’arco di due settimane, a febbraio, ha perso entrambi i genitori transitati per motivi diversi dall’ospedale di Alzano Lombardo. I sintomi prima di morire erano sempre gli stessi, tutti riconducibili al coronavirus. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo, perché sono morti senza che venisse fatto loro il tampone. Contagiati molto probabilmente dentro all’ospedale. Da altri pazienti o dagli stessi operatori sanitari. Un disastro insomma. Ce ne sono centinaia di storie così in questi comuni della bergamasca. Storie di abbandono, di disperazione, di rabbia e di solitudine. Non a caso sono molte le famiglie che stanno pensando di riunirsi in un comitato per chiedere verità e giustizia per le vittime del coronavirus. L’avvocato bergamasco Roberto Trussardi è già stato contattato da alcuni parenti per avere un parere legale e non nasconde lo stupore: “Non si capisce perché la Procura della Repubblica non abbia ancora annunciato l’apertura di un’inchiesta per il reato di epidemia colposa contro ignoti, perché sarebbe utile sapere qual è il magistrato che se ne occupa, in modo tale che i parenti delle vittime e le parti lese possano inviare materiale e fornire una collaborazione per lo sviluppo successivo di un’indagine, che faccia luce su quanto accaduto dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo. Il fatto che ancora non si sia mosso nulla mi sembra incomprensibile – aggiunge l’avvocato – così siamo in un vero e proprio limbo”. Intanto le denunce a mezzo stampa non si fermano. E non ci fermiamo neanche noi. Nel tentativo di fare luce su questa vicenda abbiamo scoperto che l’indicazione tecnico-scientifica di “chiudere” Alzano Lombardo e Nembro era stata messa per iscritto all’inizio di marzo. Per capire meglio facciamo una premessa. Il Governo ha sempre affermato di agire sulla base delle migliori evidenze scientifiche, elaborate anche attraverso una attenta sorveglianza epidemiologica della propagazione del virus su tutto il territorio italiano. Il Comitato tecnico scientifico (Cts), che dal 3 febbraio consiglia il premier Conte sull’emergenza coronavirus, è formato da esperti e dirigenti del settore già inseriti nella pubblica amministrazione per la loro attività in campo sanitario, come ad esempio il direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, un rappresentante della commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome, oltre a scienziati di fama internazionale, come ad esempio Walter Ricciardi. Le decisioni del Governo sono informate dal Comitato tecnico scientifico, ma le modalità con cui il Cts lavora, con cui informa il Governo e con cui il Governo prende le decisioni non sono chiare. La cosiddetta “evidence-based policy”, ovvero la politica basata sull’evidenza scientifica prende le decisioni basandosi sulla scienza, ma non solo. Se queste informazioni vengono date al Governo in via informale o vengono messe a verbale non è dato saperlo, quello che è certo è che se dei verbali esistono, non sono pubblici. Sono secretati. Fatta questa premessa, quello che abbiamo potuto verificare è che in data 2 marzo – una settimana dopo aver diagnosticato i primi pazienti infetti da Covid19 all’ospedale di Alzano Lombardo e mentre la maggior parte dei sindaci della Lombardia, con in testa Giuseppe Sala, sindaco di Milano, e Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, lanciavano gli slogan “Milano non si ferma” e “Bergamo non si ferma” – è stata messa per iscritto una nota tecnica dell’Istituto Superiore di Sanità, che evidenziava l’incidenza di contagi da Covid19 nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi, raccomandandone l’isolamento immediato e la chiusura, con la creazione di una zona rossa, come quella di Codogno. Per quanto riguarda i due comuni bergamaschi veniva sottolineato un ulteriore fattore di rischio, ovvero la pericolosa vicinanza a un grosso centro urbano, dal momento che Alzano Lombardo e Nembro distano solo una manciata di chilometri da Bergamo, divenuta oggi il lazzaretto d’Italia. Questa nota tecnica veniva successivamente dettagliata e arricchita di nuove informazioni in data 5 marzo. Purtroppo non ci è dato sapere, in qualità di cittadini e nemmeno di giornalisti, se questa nota sia mai stata messa a verbale e quindi firmata da tutti i membri del Comitato tecnico scientifico e sia mai arrivata sul tavolo di Conte. Quello che sappiamo con certezza oggi è che una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro non è mai stata decretata – nonostante le evidenze scientifiche, nonostante i contagi e i morti in aumento; sappiamo con certezza che qualcosa è andato storto all’ospedale “Pesenti-Fenaroli”, che la popolazione di quei comuni è stata disorientata e sollecitata da una comunicazione istituzionale a dir poco schizofrenica, che gran parte degli industriali della Val Seriana, alcuni dei quali con un intenso scambio con la Cina, hanno espresso contrarietà, anche a mezzo stampa, rispetto alla creazione di una zona rossa e che si è dovuto aspettare fino all’8 marzo per chiudere tutta la Lombardia e altre 14 province, mentre già da diversi giorni c’era un’indicazione tecnico-scientifica ben precisa che raccomandava l’isolamento di quei due comuni ormai infetti. Se il Governo ha tentennato ci chiediamo se la regione Lombardia, invece, avrebbe potuto chiudere quella zona o se semplicemente non ha avuto il coraggio di farlo, visti gli interessi in campo. Chi lo sa. Quello che è certo è che la mancata creazione di una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro è uno dei più gravi errori commessi nella gestione di questa epidemia. “La stragrande maggioranza dei contagi e dei morti che abbiamo oggi – afferma il presidente di Gimbe Nino Cartabellotta – sono il frutto delle azioni fatte e non fatte tra la fine di febbraio e il 10 di marzo. E’ evidente”. 

Claudio Cancelli e Luca Foresti per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2020. A Nembro le strade quasi deserte, il traffico assente, uno strano silenzio è interrotto talvolta dalla sirena di un' ambulanza che trasporta con sé l' ansia e la preoccupazione che riempiono i cuori di tutti in queste settimane. A Nembro tutti ricevono continuamente notizie che non avrebbero mai voluto sentire, ogni giorno si perdono persone che facevano parte delle nostre vite e della nostra comunità. Nembro, in provincia di Bergamo, è il comune più colpito dal Covid-19 in rapporto alla popolazione. Non sappiamo esattamente quante persone siano state contagiate, ma sappiamo che il numero dei morti ufficialmente attribuiti al Covid-19 è 31. Siamo due fisici, uno diventato imprenditore nella sanità, l' altro sindaco: abbiamo notato che qualcosa in questi numeri ufficiali non tornava e abbiamo deciso insieme di fare una verifica. Abbiamo guardato la media dei morti nel comune degli anni precedenti, nel periodo gennaio-marzo. In base a essa Nembro avrebbe dovuto avere - in condizioni normali - circa 35 decessi. Quelli registrati quest' anno dagli uffici comunali sono stati 158. Ovvero 123 in più della media. Non 31 in più. La differenza è enorme e non può essere una semplice deviazione statistica. Il numero di decessi anomali rispetto alla media è 4 volte quelli ufficialmente attribuiti al Covid-19. Se si guarda a quando sono avvenute queste morti l' anomalia è ancora più evidente: c' è un picco di decessi «altri» in corrispondenza di quello delle morti ufficiali da Covid-19. Nell' ipotesi - niente affatto remota - che tutti i cittadini di Nembro abbiano preso il virus (con moltissimi asintomatici, quindi), 158 decessi equivarrebbe a un tasso di letalità dell' 1%. Che è proprio il tasso misurato sulla nave da crociera Diamond Princess e in Corea del Sud. Abbiamo fatto esattamente lo stesso calcolo per i comuni di Cernusco sul Naviglio (Mi) e Pesaro. A Cernusco il numero di decessi anomali è 6,1 volte quelli ufficialmente attribuiti al Covid-19, anche a Pesaro 6,1 volte. Impressionanti i dati di Bergamo, in cui il rapporto arriva addirittura a 10,4. È estremamente ragionevole pensare che queste morti in eccesso siano in larga parte persone anziane o fragili che muoiono a casa o in strutture residenziali, senza essere ricoverate in ospedale e senza essere sottoposte a tampone. Nembro rappresenta in piccolo quello che accadrebbe in Italia se tutti fossero contagiati dal Coronavirus Covid-19: morirebbero 600 mila persone. I numeri di Nembro, inoltre, ci suggeriscono che dobbiamo prendere quelli dei decessi ufficiali e moltiplicarli almeno per 4 per avere l' impatto reale del Covid-19 in Italia, in questo momento. Il nostro suggerimento, quindi, è di analizzare i dati dei singoli comuni in cui ci siano almeno 10 morti per Covid-19 ufficiali e verificare se corrisponde alle morti reali. Il nostro timore è che non solo il numero dei contagiati sia largamente sottostimato ma che lo sia anche - dati dei Comuni alla mano - quello dei morti. Siamo di fronte a un evento epocale e per combatterlo abbiamo bisogno di dati credibili, diffusi con trasparenza tra tutti gli esperti e le persone che con responsabilità devono gestire la crisi. Sulla base di questi dati possiamo capire e decidere cosa è giusto fare, nei tempi che la crisi richiede.

"Qui ci sono 70mila contagiati". ​La città inferno che preoccupa. La federazione dei medici di famiglia di Bergamo ritiene che il numero dei pazienti contagiati dal nuovo coronavirus sia molto più elevato rispetto ai dati ufficiali. Federico Giuliani, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. Negli ultimi giorni è stato più volte ripetuto che i dati reali riguardanti il numero dei contagiati dal nuovo coronavirus fossero molto più alti rispetto a quelli ufficiali consultabili nei tabellini quotidiani. La conferma, l'ennesima, arriva dalla federazione dei medici di famiglia (Fimmg) di Bergamo: "Siamo certi che i dati ufficiali non corrispondono alla realtà. Dalle nostre stime attualmente nella nostra provincia circa 70.000 cittadini bergamaschi sono probabilmente infettati dal coronavirus". La Fimmg sottolinea inoltre come "i dati certi potremmo averli solo in futuro con dei test immunologici” e che per questo è dunque “poco utile fare dei ragionamenti sulla base dei risultati dei tamponi, laddove i tamponi di fatto vengono riservati quasi esclusivamente alle situazioni più critiche che accedono agli ospedali". Per quanto riguarda gli ospedali, "è purtroppo vero che alcune persone vi arrivano tardi; questo non dipende però da un ritardo nell'attivazione dei servizi di emergenza/urgenza da parte del territorio, bensì dalla indisponibilità di posti letto nei presidi ospedalieri”. La situazione è critica dal momento che “gli attuali pochi posti disponibili vengono riservati alle situazioni più critiche, mentre si tende a lasciare al domicilio gli altri pazienti apparentemente meno gravi”.

Il problema dei medici infettati. A detta della Fimmg “non si è capito da subito che questa non è solo un'emergenza intensivologica (ove ringraziamo per i miracoli fatti nell'aumentare i posti delle rianimazioni), ma è anche - o forse soprattutto - un'emergenza di sanità pubblica". Come se non bastasse c'è un altro tema su cui fare luce: il contagio dei medici. “Ad oggi – ricorda Fimmg - nella nostra provincia si sono ammalati 144 medici di famiglia e purtroppo 4 Colleghi (dr. Mario Giovita, dr. Antonino Buttafuoco, dr. Vincenzo Leone e in queste ore anche il dr. Carlo Alberto Passera) sono caduti sul campo. 200.000 cittadini bergamaschi in questo momento sono formalmente senza il loro medico di famiglia: in realtà questo numero è decisamente inferiore poiché quasi tutti i colleghi, nonostante debilitati dalla malattia, stanno lavorando 12 ore al giorno (spesso anche nel weekend) con consulenze telefoniche, ricette, certificati e prodigandosi direttamente per assicurare le visite indifferibili attraverso il coinvolgimento di altri colleghi e servizi”.

Arginare l'emergenza. Il messaggio lanciato da Fimmg si conclude con l'illustrazione di un progetto nato per arginare l'emergenza in corso: “Stiamo comunque attivamente collaborando con le istituzioni per provare ad arginare l'emergenza a livello territoriale. In queste ore è in fase di definizione con ATS Bergamo il progetto "Covid-Hotel" che permetterà un alleggerimento dei ricoveri ospedalieri meno critici e delle situazioni domiciliari non gravi ma delicate anche dal punto di vista sociale. Con Regione Lombardia invece stiamo definendo una modalità di sorveglianza attiva dei cittadini più fragili, anche con l'ausilio delle cooperative lombarde dei medici di medicina generale".

Coronavirus, il gesto della vergogna: strappato nella notte lo striscione di amicizia tra Bergamo e Brescia. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Carlos Passerini. «Purtroppo dobbiamo comunicare che lo striscione che avevamo messo sul ponte …. ha subito un vile atto vandalico questa notte …. è stato tagliato e danneggiato…. purtroppo nei giorni scorsi avevano subito pressioni da parte di qualche «fenomeno» x non farlo appendere …. spiace constatare che in un momento così tragico x la ns terra …. ci sia qualcuno che si permette di compiere certe cose …. che tristezza ….». Con queste parole il Club degli amici dell’Atalanta di Sarnico ha denunciato un pessimo episodio avvenuto nella notte fra sabato e domenica. Sul ponte che divide Sarnico e Paratico, quindi le province di Brescia e Bergamo, era stato esposto uno striscione di amicizia e di speranza. Stanotte è stato strappato. Era un messaggio di speranza, di unità, proprio ora che bresciani e bergamaschi stanno vivendo giorni terribili. Un modo per andare oltre alla storica rivalità fra i due club. Lo striscione recitava: «Divisi sugli spalti, uniti nel dolore». «Brescia e Bergamo in questo momento difficile stanno soffrendo per i propri cari. Come sindaco di Sarnico dico solo una parola! Vergogna per chi ha commesso questo gesto. Invece ringrazio tutti i bergamaschi e bresciani che in questo momento resistono e soffrono insieme. Lo sport deve sempre unire, Atalanta e Brescia unite». Così in un lungo post su Facebook, il sindaco di Sarnico (Bergamo), Giorgio Bertazzoli.

Torna l’Esercito al cimitero di Bergamo: altre 74 bare fuori regione per la cremazione. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it. Tre giorni dopo, è tornato l’Esercito al cimitero di Bergamo per portare via altre 74 bare. Una scena che si era già vista mercoledì sera, quando erano stati portati via 65 feretri per la cremazione in altre città. Il forno crematorio di Bergamo funziona 24 ore al giorno, ma non basta più. Ieri, solo in città, ci sono stati 48 morti. Così anche stamattina (sabato 21 marzo), le bare vengono portate via, dopo che Palazzo Frizzoni ha preparato i documenti: per spostare ogni bara serve un documento di trasporto. Questa volta sono dirette a Ferrara, a Copparo e a Serravalle Scrivia. Le ceneri verranno riportate in città nei prossimi giorni dopo le cremazioni.

Coronavirus: le ultime parole di addio affidate ai necrologi. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano e Donatella Tiraboschi. L’addio porta la firma di Romano: «Ciao Emilia, amore mio. Abbiamo camminato insieme per una vita, uno di fianco all’altra. Adesso siamo in pace e insieme per sempre». Romano Zanini era un imprenditore di Sesto San Giovanni, aveva 81 anni ed è morto il 7 marzo. I suoi figli, Bruno ed Alessandro, due giorni fa hanno pubblicato questo necrologio a suo nome sul Corriere della Sera, perché dodici giorni dopo aver pianto lui hanno perduto anche la madre Emilia, 77 anni. Il virus toglie il fiato e l’umanità di un ultimo saluto a chi si ama. E allora diventano potenti le parole, anche quelle postume. Diventano abbracci, baci e carezze negate per chi lascia questo mondo respirando i suoi ultimi giorni in un reparto covid. Le parole come unico addio possibile. Sulle pagine delle necrologie, sui fogliettini di carta fatti avere ai malati assieme alla biancheria, sulle lettere date agli impresari funebri per infilarle nelle bare... «Hai lottato, hai sofferto tutta sola, alla fine ci hai lasciato per raggiungere il tuo amato Romano. rimarrete sempre insieme. La tua gentilezza, il tuo amore saranno sempre con me» scrive Bruno nel necrologio affidato al Corriere della Seraper sua madre Emilia. Il messaggio del fratello Alessandro dice: «Te ne sei andata anche tu sola e senza nessuno di noi vicino. Sono sicura che ti sei accorta che sono sempre stato lì con te. Ti stringevo, ti baciavo e ti abbracciavo sempre, notte e giorno. Ti ho tenuto per mano e ti ho accompagnata dal papà». Alla fine di un necrologio che invece pubblichiamo oggi, i familiari di una signora che si chiamava Anna Maria Pucci scrivono quel che vale ormai per tutti i morti di queste ultime settimane, e cioè: «Le esequie si terranno quando possibile». L’emergenza ha annullato la ritualità della cerimonia funebre e tutti, ma proprio tutti i parenti di chi muore in questo tempo sbagliato, promettono a loro stessi di fare altro e di più per onorare - chissà quando - la memoria di chi hanno perduto. Si fa strada ogni giorno di più il bisogno di far sapere al mondo che chi si è tanto amato se n’è andato solo, è vero, ma non è stato mai abbandonato. Fa male sapere che i morti finiscono nelle bare senza i vestiti, chiusi dentro sacchi di plastica. E con i loro messaggi, le loro preghiere, le famiglie cercano un rimedio agli oltraggi del virus. La media delle partecipazioni che un quotidiano come il nostro pubblica ogni giorno è fra i 40 e i 50. In quest’ultima settimana la cifra è cresciuta fino a oltre 200, e molti dei nomi di quella lista appartengono a uomini e donne caduti nella guerra al coronavirus, il «killer invisibile», come lo definiscono in tanti. Il 16 gennaio di quest’anno - per dire - i messaggi nella pagina delle necrologie erano 52. Lo stesso giorno di marzo, cioè all’inizio di questa settimana, sono stati 223. Anna Mercalli, la figlia di un imprenditore di Vigevano, l’altro giorno ha dedicato una lunga lettera al padre Luciano, ucciso dal virus nel giro di pochi giorni. Voleva che lui sapesse quello che non aveva fatto in tempo a dirgli: «Ciao papà, in tanti mi dicono che quando parlo di te mi si illuminano gli occhi. E non può che essere così. Sei sempre stato l’uomo della mia vita, padre presente, punto di riferimento di ogni azione, esempio da seguire, faro dell’esistenza...». A Bergamo e nella sua provincia il numero dei morti da covid-19 è così enorme che il servizio necrologie del quotidiano locale storico - l’Eco di Bergamo - è diventato un caso: ogni santo giorno più di dieci pagine per elencare i nomi di chi non ce l’ha fatta. Sabato erano dodici. Una distesa di croci, fotografie spesso sfuocate, parole per ringraziare medici e infermieri. Pochissimi di quell’elenco sterminato se ne sono andati per cause diverse dal coronavirus. Giovanni è fra i nomi di sabato. Aveva 60 anni, era un farmacista molto conosciuto della val Brembana dove fu fra i primi a occuparsi di birra artigianale e a diventare maestro birraio. Un tipo sportivo, montanaro e scalatore appassionato. Ha vissuto i suoi ultimi sei giorni in una terapia subintensiva, con i polmoni a chiedere aria e gli occhi a guardare un panorama di mascherine, visiere, camici, respiratori...Il saluto per lui parla di un bene «che ci avvicina in un periodo che ci obbliga a stare divisi». La famiglia di Giuseppe invece mette in fila i nomi di una decina di medici e infermieri da ringraziare per essersi presi cura di lui «con affetto e infinita passione». A loro l’incoraggiamento più grande: «Fateli guarire tutti!». Ci sono medici ai quali tocca il compito ingrato di chiamare a casa dei pazienti e avvisare della loro morte. Una prova durissima. Dall’altro capo del filo le lacrime, i sensi di colpa per non aver potuto stare accanto a chi sia amava. E comunque - sempre - la telefonata si chiude con un grazie che non ha nulla di formale. Come quello scritto nei necrologi. «Grazie», sapendo che non sarà mai abbastanza.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 20 marzo 2020. Mi metto lì e cerco qualcosa da scrivere, di sensato se possibile, ma continuo a pensare ai camion dell' Esercito nella mia Bergamo che portano via sessantacinque morti perché la città non può provvedere a loro, e saranno cremati a Bologna, Piacenza, Varese, lontani da casa e da chi li ama. Vedo scoop a raffica sulle diffuse e imperdonabili colpe firmati nell' infallibilità delle migliori tastiere ma continuo a pensare a Nicolas Facheris, impresario di pompe funebri della mia provincia, "non dormo da tre giorni, l' altra sera ho avuto una crisi di nervi". Leggo i dotti rilievi ai provvedimenti di governo di chi impila migliorie ora dopo ora e stupisce che il mondo non gridi "eureka" ma continuo a pensare a Veronica, della Valseriana, la valle di mia madre, che ha appena avuto una bimba, Allegra, e non si toglie dalla testa sua zia che sta morendo da sola nell' ospedale di Lovere. Vedo infiammare il dibattito sull' Europa e sulla globalizzazione, se siano tracollanti o tracollate ma continuo a pensare a Riccardo, mio antico compagno di cronache dal tribunale di Bergamo, a cui è morta la suocera, e l' ha detto ai figli per telefono, e loro piangevano, e non poteva correre ad abbracciarli perché due su tre sono positivi al virus, positiva anche l' ex moglie, a letto con la febbre, e la figlia più piccola cucina per tutti. Vedo i sovranisti in opposizione intransigente e sprezzante al premier, e sì che a Palazzo Chigi ce l' hanno portato loro, non io, ma continuo a pensare al frate dell' ospedale di Bergamo che poggia il telefonino acceso sulle salme e prega coi parenti lontani. E' solo un pensiero, da qui, senza far rumore.

Salvatore Cernuzio per “la Stampa” il 20 marzo 2020. La scena più straziante che fra Aquilino Apassiti ha vissuto in questi giorni convulsi da cappellano dell' Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, da dove nelle scorse ore sono giunte le immagini dei camion dell' esercito che trasportavano bare dal cimitero monumentale ai forni crematori di altre regioni, è stato mettere il telefonino sulle salme dei morti di Covid-19 e pregare in diretta con i loro parenti in quarantena. «Muoiono soli, senza che nessuno possa venire neanche a salutarli», racconta al telefono questo sacerdote di Dalmine di 84 anni, venticinque dei quali vissuti da missionario in Brasile. E intanto, Bergamo lancia un appello in inglese, per reclutare medici da altri Paesi, che vengano ad aiutare nell' emergenza. «Ho assistito alla guerra negli Anni '40, una bomba è scoppiata vicino a casa mia, in Amazzonia ho avuto a che fare con la lebbra, la malaria, ma scene scioccanti come quelle di questi giorni non le avevo mai viste». Sempre al seguito di medici e infermieri del nosocomio dove il direttore del Dipartimento di Medicina ha dichiarato lo stato di «piena emergenza», padre Apassiti indossa la mascherina -. «In realtà mi scoccia un po' perché non posso assicurare neanche un sorriso a chi se ne sta andando» - e si affaccia sulla porta dei reparti o rimane dietro un vetro. Quando gli è permesso, si avvicina con le dovute precauzioni ai letti degli ammalati e scambia due parole: «Si preoccupano per me: "Padre, si riguardi". Rispondo: vengo a dirvi che sto bene e che vado in Chiesa a pregare per voi». Spesso il frate si trova nelle camere mortuarie da solo «con 4 o 5 salme». È lì che tira fuori lo smartphone (nonostante l' età se la cava benissimo con WhatsApp e altri social) e contatta figli, mariti, mogli, nipoti, che non hanno potuto dare l' ultima carezza ai loro cari. «La prima volta è successo con una signora che mi ha chiesto di fare questo gesto inedito di telefonarle. Le ho detto: "Sono qui davanti alla bara di suo marito, preghiamo il Padre Nostro e il Signore la conforterà nel suo dolore". Siamo scoppiati a piangere entrambi». Queste «esequie virtuali» fra Aquilino le ha celebrate anche per altri defunti: «Non ci sono solo i malati di coronavirus, abbiamo pazienti oncologici, quelli in dialisi In questo ospedale stiamo lavorando al 150%. Conduciamo una lotta contro il tempo per salvare vite umane». Lui non si sente per nulla «eroico»: «Gli eroi sono medici e infermieri. È terribile vedere le loro facce con i solchi delle mascherine, otto ore senza quasi respirare. Molti mi fermano e mi chiedono preghiere, dopo servizi estenuanti vengono in cappella e vi restano anche per 45 minuti. Poco fa ho incontrato una dottoressa per le scale e, tra le lacrime, mi ha detto: "Sto per tornare a casa ma non po sso toccare i miei figli, non so se sono infetta". Io cerco di infondere un raggio di speranza perché sono realmente speranzoso! Sono certo che ne usciremo. Cambiati, ma ne usciremo. Dio non ci può abbandonare».

Ma non ha paura di essere contagiato?

«Ho 84 anni, cosa vuole che me ne importi?. Non ho paura della morte. Ho vissuto una lunga vita, ho realizzato tanti sogni, sono pure sopravvissuto a un tumore al pancreas, mi avevano dato sei mesi. Non sto disprezzando la salute che Dio mi dona, soprattutto adesso che vedo quanto essa sia un bene prezioso, ma semplicemente dico: Signore, se mi vuoi ancora in vita che possa essere almeno utile agli altri». A costo di ogni rischio? «Sì, a costo di ogni rischio».

Dagospia il 20 marzo 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Il prof. Francesco Le Foche, medico immunologo, responsabile del day hospital di immuno infettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Sull'incidenza del Coronavirus a Bergamo: "Ne ho parlato in una intervista al Corriere dello Sport con Giancarlo Dotto. Per quanto sta accadendo a Bergamo sembrerebbero esserci state una serie di concause che hanno portato all'esplosione di questo contagio, che è quasi un'anomalia planetaria. Solo nella bergamasca c'è questa condizione di contagi e questo numero di morti. La prima condizione è che quella di Bergamasca è un'area particolarissima. Ci sono delle industrie particolari, delle industrie europee, le persone sono molto operose e in quell'ambito vengono da tutto il mondo. Hanno dei contatti diretti con l'Europa e con il resto del mondo. Questa condizione ha portato a una predisposizione per il contagio. Il bergamasco poi è una persona molto operosa, tiene molto al suo lavoro, lavora anche in uno stato di sofferenza, questa condizione potrebbe aver favorito il contagio stesso. E poi le varie prestazioni dell'Atalanta, soprattutto in Champions League, dove l'Atalanta ha conseguito dei risultati fantastici, possono aver avuto il 19 febbraio l'epilogo. Più di 40.000 persone sono andate a San Siro, poi al bar il giorno dopo, il giorno prima,giorni prima, giorno dopo. Questo afflato, questa condizione di piacere immenso nel vivere questi risultati storici, hanno contribuito probabilmente all'esplosione di una condizione preesistente". Sulla tenuta di Roma: "La situazione tiene. Abbiamo amplificato il numero dei posti letto, mettendo in campo manovre che dovrebbero essere efficienti. Ci dovremmo aspettare il punto massimo entro i prossimi dieci giorni, entro la metà della prossima settimana. Andiamo abbastanza bene, la sanità romana tiene molto bene, abbiamo un significativo numero di posti letto, per il Covid19 sono state aperte nuove corsie. E poi voglio segnalare che le persone si comportano benissimo, si comportano in modo rispettoso delle regole. Altra cosa che vorrei sottolineare è che questo virus in realtà al di là della pericolosità isola le persone che stanno male. Il medico oltre ad affrontare la parte squisitamente medica e clinica deve affrontare la parte umana. Incontriamo un afflato umano, queste persone oltre a impegnarci in termini clinici ci impegnano in termini umani e ci spingono a dare il massimo all'arte medica, che è una professione umanistica. I pazienti non possono vedere i familiari, dobbiamo diventare anche un tramite affettivo". Ancora Le Foche: "Cosa si può fare per non indebolire ulteriormente le difese immunitarie? La corsetta all'aperto potrebbe essere utile, ma deve essere rispettosa delle regole. Stiamo affrontando tutti un disagio non indifferente, noi proprio come popolo non siamo abituati ad essere rinchiusi. Questo è un periodo particolare. Dobbiamo armarci di pazienza e utilizzare al massimo il piacere della lettura, del confronto su internet, le strumentazioni aggreganti e contestualmente riuscire ad avere l'opportunità di fare quelle cose che normalmente durante l'anno non riusciamo a fare".

Bergamo allo stremo: pure le imprese funebri stanno per arrendersi. Stop alle attività in mancanza di mascherine Paziente positivo fugge dall'ospedale: ricercato. Patricia Tagliaferri, Sabato 21/03/2020 su Il Giornale. Anche la rivalità calcistica è messa da parte davanti alla tragedia che stanno vivendo Bergamo e Brescia. «Divisi sugli spalti, uniti nel dolore», recita uno striscione con i colori biancoblù e nerazzurri comparso al confine tra le due città lombarde, mentre i numeri del Covid-19 continuano a crescere in maniera preoccupante. Contagi e decessi sempre fuori controllo. E quell'immagine del centro di Bergamo attraversato da un'interminabile colonna di mezzi militari carichi di morti da portare fuori dalla regione diventata ormai il simbolo di un'emergenza che sta facendo pagare un conto altissimo a queste due province. Ancora drammatici gli ultimi numeri: Bergamo, con 5.154 casi, 509 in più, è la più colpita della Lombardia, seguita da Brescia, con una crescita di 401 positività in un giorno, 4.648 in totale. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, è tornato a chiedere la chiusura di tutte le attività non essenziali. Il rischio, adesso, è che si blocchi l'attività delle imprese funebri, soprattutto qui nelle zone rosse dove il virus corre veloce. Mancano le mascherine e quando saranno finite i defunti potrebbero essere lasciati nelle camere mortuarie, come denuncia Cristian Vergani, presidente nazionale della Federazione italiana del comparto funebre: «La situazione a Bergamo, Brescia e ora anche a Milano peggiora sempre di più. Abbiamo molti impresari contagiati ed è sempre più pericoloso fare i nostri servizi perché le mascherine non si trovano più, tutti i nostri fornitori sono blindati dalla protezione civile. Quando saranno esaurite non potremo più lavorare». Bergamo, tra i tanti morti, che secondo i sindaci sarebbero molti di più di quelli ufficiali perché molti anziani muoiono in casa o nelle residenze assistite senza che vanga eseguito il tampone post-mortem, piange anche il secondo carabiniere stroncato dalle complicanze di una polmonite da coronavirus, l'appuntato scelto Claudio Polzoni, 47 anni, in servizio da anni presso la centrale operativa. Era intubato da qualche giorno all'ospedale San Donato di Milano, poi le sue condizioni si sono aggravate. Mentre a Calvisano, in provincia di Brescia, è deceduto un volontario della Croce Rossa che dal 1998 lavorava sulle ambulanze. Una situazione sempre più al limite, tra le due province, messe duramente alla prova, con gli ospedali ormai al collasso. Da una di queste strutture, il San Giovanni Bianco in Val Brembana, giovedì notte è fuggito un paziente positivo al coronavirus. L'uomo, che adesso è braccato dalle forze dell'ordine, avrebbe perso il padre, ucciso dal Covid-19, e la notizia del lutto lo avrebbe sconvolto al punto da scappare via nonostante i rischi per i possibili contagi. Da Bergamo arriva però anche una buona notizia, quella dell'avvio di una sperimentazione su un farmaco, già approvato per altre indicazioni, che potrebbe rivelarsi efficace nei malati di coronavirus. Lo studio è in corso presso l'ospedale Papa Giovanni XXIII. Sui pazienti Covid-19 che hanno sviluppato gravi complicazioni respiratorie viene utilizzato l'anticorpo monoclonale siltuximab. Il siltuximab, mirato all'interleuchina-6, è già autorizzato in Usa e nella Ue per il trattamento di un disordine linfoproliferativo raro.

Coronavirus, il vescovo di Bergamo: «Tutti avranno il funerale. Figli e medici: benedite i morenti». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo.

Monsignor Beschi, un mese fa iniziava tutto.

«Fin da subito ho avuto la sensazione che sarebbe stata una prova lunga».

Bergamo è la città martire. Qual è oggi il suo stato d’animo?

«Chiedo la grazia di essere perseverante. È una virtù necessaria: per essere vicino ai malati, e per reggere le disposizioni avviate un mese fa, che limitano la vita delle nostre parrocchie, e che i sacerdoti hanno accolto, pur con grande sofferenza».

Quanto vi pesa non poter dire messa?

«Ma noi diciamo messa, tutti i giorni. Non possiamo farlo con il popolo, ma lo facciamo per il popolo. La mancanza fisica della gente ci fa soffrire; ma la messa resta un momento per noi decisivo, ne scaturisce comunque un bene spirituale. È una forza morale condivisa, che si esprime in vari modi: telefono, radio, tv, social. A me pare un pane necessario a tutti noi, anche ai non credenti».

Perché secondo lei il morbo ha colpito in particolare la Bergamasca?

«È un’area molto aperta al mondo, dinamica, con un grande aeroporto. Non ho visto trasgressioni delle regole ricevute. Certo, il lavoro qui è molto importante, le attività sono continuate fin quando possibile».

È stato un errore non fare anche qui la zona rossa?

«Le due comunità colpite fin dall’inizio, Alzano e Nembro, mi sono particolarmente care, anche perché sono molto vivaci dal punto di vista ecclesiale. Tutti ci domandavamo se non fosse il caso di prendere un provvedimento più tempestivo. Si è deciso invece di prendere un provvedimento generale, ma più tardi».

I bergamaschi muoiono senza il conforto dei parenti e dei religiosi. Non è terribile? Cosa si può fare?

«Il nostro impegno è far di tutto per i malati, cercare ogni soluzione possibile per non abbandonarli. Ho invitato i familiari a benedire i propri genitori e i propri nonni morenti, nelle case. Un battezzato può benedire. Un tempo era il padre a benedire i figli al momento dell’addio. Ora possono farlo i figli e, nelle terapie intensive, anche i medici e gli infermieri. Dico loro: ovviamente non vi imponiamo nulla; ma se intuite che una persona ha questa sensibilità, voi stessi fatevi portatori di un segno, di una benedizione, di una piccola preghiera».

I morti vengono portati via dall’esercito e cremati altrove: avranno mai un funerale?

«È un’immagine straziante. Si allunga l’ombra della morte, che non è solo l’allungarsi di una lista; è un’ombra che entra nell’anima. Non possiamo sottrarci al vissuto doloroso di coloro che vedono i propri cari sparire nel nulla. Conosco molte persone, anche nostri sacerdoti, che hanno perso il papà o la mamma senza poterli salutare. Venerdì prossimo sarò nel centro del cimitero monumentale di Bergamo, e farò una preghiera di suffragio per i defunti che i cari non hanno più visto».

Ma i funerali? Si faranno?

«Sì. Penso a una celebrazione per tutti i defunti della nostra diocesi. A una celebrazione in ogni parrocchia per tutti i defunti della comunità. Poi ogni famiglia si accorderà con il parroco per una celebrazione per il proprio caro».

Il sindaco Gori dice che i morti sono più numerosi delle statistiche ufficiali, che molti bergamaschi si spengono in casa e non risultano nei bollettini. È vero?

«Ci sono persone che muoiono senza essere riconosciute come portatrici del virus, perché non c’è stata una diagnosi. Forse muoiono per un concorso di cause tra cui c’è anche il virus. Non ho dati scientifici; ma è questo il sentire comune».

Il Papa le ha telefonato. Che cosa le ha detto?

«È stata una bellissima sorpresa. Il Papa era molto accorato, molto informato, molto ammirato e grato nei confronti di medici e infermieri. Ed era dolorosamente colpito dal numero dei morti. Anche tra i sacerdoti».

Tra le vittime ci sono quindici preti. Chi erano?

«Alcuni erano molto anziani, persone che amavo tanto, bellissime figure, che vivevano insieme in una casa di riposo. Altri erano di età matura, anche se aiutavano ancora le loro parrocchie. Cinque erano parroci, relativamente giovani. Caduti in servizio. Ci sono comunità che hanno perso il loro parroco. Come don Giuseppe Casnigo, della Val Gandino, una valletta della Val Seriana: un uomo molto amato, molto semplice, dal cuore che conquistava tutti; ammalato, si è spento in ospedale».

C’è qualche altra storia che l’ha colpita in particolare?

«Proprio stamattina un sacerdote mi ha raccontato di una nostra catechista che ha perso la mamma di 56 anni. Una vicenda straziante. La donna respirava sempre più a fatica, la figlia ha chiamato l’ambulanza, l’ambulanza tardava, la paziente sembrava riprendersi, lei non ha insistito per non disturbare, pensando ci fossero magari casi più gravi; ma la madre è peggiorata, quando finalmente l’ambulanza è arrivata lei è morta tra le braccia della figlia. Che ora teme di non aver fatto abbastanza».

Qualcuno sostiene che la Chiesa sia un po’ assente. Che cosa sta facendo in concreto la Curia di Bergamo?

«Le parrocchie si sono organizzate per restare vicine alla gente. Chiusi gli oratori, ci siamo inventati i modi più diversi per non abbandonare i ragazzi, organizzare attività per loro. Per fortuna abbiamo un giornale, l’Eco di Bergamo, una tv, molti sacerdoti che usano i social. Così abbiamo costruito una serie di interventi mediatici — catechesi, lettura della Bibbia — per mantenere unita la comunità, e tenere acceso il desiderio di poterci ritrovare».

E per i malati?

«Abbiamo accolto malati in quarantena che non possono rientrare nelle case. In seminario ci sono cinquanta stanze per medici e infermieri che vengono da fuori Bergamo o preferiscono non rientrare in famiglia. Abbiamo aperto “Un cuore che ascolta”: un telefono che riceve chiamate da persone che hanno bisogno di confronto, riflessione, consolazione dal punto di vista spirituale o psicologico. Ci lavorano sacerdoti, suore, anche laici. E abbiamo pensato ai poveri tra i poveri, riorganizzando strutture dove senzatetto e migranti possono vivere in modo sicuro».

Qual è l’impegno della società civile, degli imprenditori?

«La risposta è straordinaria. Moltissimi imprenditori sostengono gli ospedali, aiutano i malati dimessi, comprano mascherine e respiratori. C’è una raccolta fondi di Curia, Confindustria e Sesaab, la nostra società editrice, per accogliere chi ne ha bisogno, anche pagando loro l’albergo. Certo la solidarietà dovrà continuare, quando appariranno più evidenti i problemi delle famiglie, delle persone deboli, dei lavoratori precari».

Come si stanno comportando medici e infermieri?

«Ho parlato con molti di loro, tra cui alcuni che lavorano nella terapia intensiva. A fronte della virulenza dei sentimenti, della giusta preoccupazione di avere più mezzi e più personale, ci sono una passione, una dedizione, anche una chiarezza e un ordine nell’affrontare la situazione che mi hanno impressionato».

Uomini di Chiesa, su radio cattoliche, hanno definito la pandemia un castigo di Dio. Cosa ne pensa?

«Da molto tempo abbiamo abbandonato questa interpretazione delle sofferenze umane. Gesù non ha il volto di un castigatore. Vedo che molti si pongono la domanda: cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Il messaggio cristiano è di un amore sconfinato. Non è questione di parole, noi non diciamo: Dio è buono. Il segno dell’amore e della bontà di Dio è la figura di Gesù».

Appunto, cosa risponde a chi le chiede: perché questa tragedia?

«La spiegazione sfugge agli uomini di scienza, agli uomini di governo. Non so se appartiene alla dimensione della natura, o se c’è una responsabilità umana. Da persone di fede ci interroghiamo su cosa ci dice oggi la parola di Dio. Siamo chiamati a esercitare l’amore di Cristo, a maggior ragione in questa circostanza. A interrogarci sul senso del limite dell’uomo, che diventa senso di responsabilità verso la nostra vita, verso gli altri, verso la natura, verso il pianeta».

Lei ha pregato papa Giovanni, cui è intitolato l’ospedale del dolore?

«Sì, questa settimana sono andato nella sua casa natale a Sotto il Monte. Ho elevato una supplica a questo santo Papa. Non c’era nessuno, è stata trasmessa in tv. Non siamo abituati a supplicare qualcuno, ci sembra che la supplica faccia venir meno la dignità, ma nella sofferenza la supplica nasce dal cuore, è appunto accorata. Siamo piccoli, fragili, umili, viviamo un grande dolore, ma ci mettiamo tutto il nostro cuore. La supplica è sempre rivolta a Dio, con l’intercessione della madre di Gesù, dei santi, e del nostro meraviglioso Papa bergamasco. Sono andato a rileggermi la supplica di san Bernardo nell’ultima cantica del Paradiso, in cui prega Maria affinché Dante possa vedere il volto di Dio. Là è la supplica della bellezza, qui nasce dal dolore».

L’epidemia ci cambierà? Come? In meglio o in peggio?

«Abbiamo attraversato molte crisi. La crisi economica e finanziaria non è stata uno scherzo. La crisi ambientale non è uno scherzo. C’è anche una crisi ecclesiale. Molte volte abbiamo detto: non sarà più come prima, dobbiamo imparare dagli errori, non dobbiamo ripeterli. La domanda è: siamo pronti a imparare? Le famiglie faranno i conti con le perdite, i posti vuoti. La risposta non l’ho ancora».

Ma come saremo quando tutto sarà finito?

«Due sono gli elementi decisivi: la condivisione solidale, necessaria per venirne fuori; e l’esercizio di una responsabilità personale. Se riusciremo a crescere, almeno sarà venuto un frutto da questa vicenda terribile».

Dall’account facebook di Paolo Franchi il 19 marzo 2020. Dall’account facebook di Giorgio Gori del 26 febbraio 2020 alle ore 20:47. Bergamo non ti fermare! Questi giorni ci hanno messo a dura prova. Le notizie sulla diffusione del virus e le prescrizioni che a partire da domenica hanno limitato tanti aspetti della nostra vita hanno generato un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario. E’ come se il nostro spirito attivo e positivo fosse improvvisamente spento e intimidito. La città sembra sospesa. Io credo sia giusto seguire le indicazioni, ma al tempo stesso dobbiamo andare avanti con intelligenza e buon senso, senza allarmismi. Sono convinto che un virus non fermerà Bergamo, né oggi né in futuro, e noi che amiamo questa città dobbiamo ridarle presto coraggio e vivacità. Con questo spirito stasera ho proposto a mia moglie Cristina di venire a cena da Mimmo (un classico per noi bergamaschi): per passare una bella sera insieme e dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tutti, FORZA BERGAMO!

Da ilfattoquotidiano.it il 19 marzo 2020. L’esercito porta via le bare dal cimitero del Bergamo, dove non c’è più posto per le vittime del coronavirus. Le salme verranno trasferite in diversi comuni che si sono resi disponibili ad accertarle, saranno cremate e quindi i resti rientreranno in Lombardia per essere affidati alle famiglie. Sono circa una sessantina le bare che i militari hanno prelevato dal cimitero del capoluogo della provincia più colpita dal Covid-19. Trentuno saranno portate a Modena, le altre ad Acqui Terme, Domodossola, Parma, Piacenza e diverse altre città che si sono rese disponibili e che sono state ringraziate dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che ha scritto ad ogni sindaco una lettera. “In un momento tragico la vostra collaborazione e vicinanza è encomiabile”, scrive il primo cittadino.”I decessi sono, purtroppo, numerosi – aggiunge Gori – e il nostro cimitero è in notevole sofferenza; la maggioranza delle famiglie ha scelto la pratica di cremazione dei propri defunti”. Una decisione, si legge ancora, di fronte alla quale Comune e società che gestiva l’impianto “si trovano nella impossibilità oggettiva di gestire in modo ordinario la drammatica situazione venutasi a creare, pur lavorando ininterrottamente”. Con questo trasferimento Bergamo, si fa sapere dal Comune, torna alla normalità nella gestione dei defunti. Una gestione che nello scorso week end ha visto una crescita esponenziale, dovendo fare il cimitero della città da punto di raccolta per tutta la provincia. Da qui la necessità di utilizzare la chiesa e altri locali, in alcuni casi delle tende, per stipare le bare. “Il forno crematorio di Bergamo, lavorando a pieno regime, 24 ore su 24, può cremare 25 defunti. È chiaro che non si poteva reggere ai numeri dei giorni scorsi”, viene precisato da fonti del Comune. Inoltre le agenzie funebri non erano più in grado di gestire il servizio, alcune sono chiuse perché i dipendenti si sono ammalati e quindi il Comune attraverso la propria società ‘Bergamo Onoranze Funebri’ ha dovuto sopperire.

Il corteo di morte. Andrea Indini il 19 marzo 2020 su Il Giornale. In coda, nel cuore della notte. Il lento incedere del corteo funebre senza un solo famigliare a stargli dietro, a pregare per quelle vite spezzate dal virus maledetto che stronca la respirazione. Le immagini che ieri sera ci sono arrivate da Bergamo raccontano più di ogni altra il dramma che stiamo vivendo. Il coronavirus ci sta mettendo in ginocchio e, nonostante i continui sforzi dei medici in prima linea e della comunità scientifica che si sta affannando per trovare una cura, il numero dei morti continua a salire inesorabilmente. Così la fragilità del vivere ci strappa anche la speranza di venirne fuori. È toccato all’esercito portare le bare via da Bergamo. Nelle ultime ore si sono accumulate una dopo l’altra mentre i respiratori delle terapie intensive non riuscivano più a tenere i contagiati aggrappati all’ultimo esile soffio di vita. Se ne sono andati via così, a decine, soffocati come sott’acqua. I loro corpi non avranno una normale sepoltura. Le misure per contenere il contagio lo vietano. E così, ieri sera, i cittadini di Bergamo hanno assistito – ammutoliti – a un corteo funebre che non dimenticheranno mai (guarda il video). La colonna di trenta mezzi militari ha attraversato il cuore della città, dal cimitero monumentale all’autostrada, per portare gli oltre settanta feretri che il camposanto non riesce più a gestire. Da quando l’epidemia ha iniziato a dilagare nelle valli, l’attesa per cremare i cadaveri ha presto superato la settimana. Troppo per evitare il collasso di strutture non abituate a un eccidio del genere. “In Val Seriana ormai si sentono solo le sirene delle ambulanze e le campane che suonano a lutto”, ha raccontato all’Ansa Roberta Zaninoni. Il padre Giuseppe, di Alzano Lombardo, è morto anche lui per il terribile morbo arrivato dalla Cina. “Forse – ha detto – la gente che non abita qui non se ne rende conto, ma nella nostra valle si muore come se fossimo in guerra”. Da quando è esplosa l’epidemia, molti faticano a capire la gravità del momento. Le immagini di Bergamo ci colpiscono come un pugno nello stomaco: più di ogni altra ci sbattono in faccia la tragicità che stiamo vivendo e ci obbligano a riflettere. Prima di oggi la nostra generazione le aveva viste solo in televisione o al cinema, in quei film che a Hollywood simulano un mondo devastato dalle pandemie o dalle guerre nucleari. Oggi sono vere. Le tocchiamo con mano, le proviamo sulla nostra pelle. E ci rimarranno addosso per sempre. Probabilmente aiuteranno a piegare gli irresponsabili che non rispettano i divieti o a rendere più umani quei burocrati che, anche davanti al mondo sconvolto dalla calamità del coronavirus, si aggrappano a clausole, regole e burocrazia. Nel frattempo noi, che chiusi in casa cerchiamo di sfuggire al contagio, ci riscopriamo più deboli: in un’epoca, che ci aveva illuso di essere onnipotenti, capiamo infine di essere solo uomini impotenti davanti al futuro.

Coronavirus, il frate dell’ospedale di Bergamo: «Metto il telefonino vicino le salme e prego con i parenti». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «I familiari dei defunti mi chiamano, io metto il cellulare sulle salme dei loro cari e preghiamo insieme». Frate Aquilino Apassiti, 84 anni, missionario cappuccino nei posti più impervi del mondo, da sei anni è il custode della cappella dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo dove si lotta in prima linea per salvare i contagiati. Ha un tumore al pancreas, eppure, quasi 24 ore su 24, il suo pensiero è per gli altri. È per chi se ne è andato a causa del Coronavirus e per i loro familiari, straziati, che non possono nemmeno dare un ultimo saluto ai loro cari. Per questo fra Aquilino cerca di aiutare queste persone come può. Lo ha raccontato in un lungo colloquio — dolente e bellissimo, sovente piangendo — al microfono di InBlu Radio, il network delle radio cattoliche della Cei. Alla giornalista Chiara Placenti ha descritto il momento più terribile: la benedizione delle salme senza i parenti spesso in quarantena. «L’altro giorno una signora- —ha raccontato fra Aquilino — non potendo più salutare il marito scomparso, e nemmeno vederlo un’ultima volta nella camera mortuaria, mi ha chiesto di fare questo gesto. Il telefono era lì, l’ho preso, ho risposto... Ho benedetto la salma del marito, fatto una preghiera e poi ci siamo messi entrambi a piangere per telefono. Si vive il dolore nel dolore. È un momento di grande prova, non possono avvicinarsi... è terribile». «In queste ultime settimane — ha aggiunto il cappuccino, piangendo — ovviamente non posso più vedere di persona i malati, soprattutto coloro che sono in dialisi ma rimango sulla porta della stanza. Lo faccio perché se i pazienti non mi vedono pensano che io sia stato contagiato». La cappella del San Giovanni XXIII resta comunque, nel rispetto delle norme di sicurezza, un posto dove meditare. «La maggior parte del tempo la passo nella cappella dell’ospedale a pregare. La sera spesso viene una dottoressa del reparto di cardiologia e prega per 45 minuti. Si chiama Roberta, mi chiede la comunione». Fra Aquilino è stato in Brasile tanti anni, ha dato conforto nei lebbrosari, ma «ciò che vedo qui è forse peggiore, straziante, un dolore toccabile; ma sono commosso da chi opera qui, i volontari che trasportano le salme, chi fa le pulizie, i medici impegnati allo stremo. Al Signore dico di benedirli e di continua a dargli forza». «Abbiamo incontrato i medici e in qualche reparto dove le cose sono gravi e non si può entrare, abbiamo detto di dare una preghiera personale da parte del sacerdote che magari in quel momento non può dare l’Olio santo. Un gesto di cuore da parte nostra». Al termine dell’intervista la giornalista chiede a fra Aquilino una promessa: «si riguardi...». Lui risponde semplicemente «sì, sì...». Ma poi aggiunge: «Io sono previlegiato... E anche in questo momento ho un privilegio: sono qui a raccontare la mia storia. Apro gli occhi e dico Signore grazie. E gli chiedo di aiutarmi a non tirarmi indietro».

Francesca Nava per tpi.it il 19 marzo 2020. Inutile girarci intorno: Bergamo, la città dove sono nata e cresciuta, è oggi l’epicentro italiano di questa nuova pandemia, con oltre oltre 4.000 casi positivi da Coronavirus, centinaia di nuovi contagi al giorno e quasi 400 morti dallo scoppio dell’epidemia. Nelle strade, ormai deserte, si sente solo il suono delle sirene delle ambulanze, una dietro l’altra, come se fosse scoppiata una guerra. I bergamaschi non hanno più nemmeno una bara su cui piangere i propri cari, le pompe funebri sono in tilt, i feretri sono stipati nella chiesa del cimitero o dentro alle tendopoli montate fuori dagli ospedali, in attesa di essere cremati o sepolti in fretta e lontano dagli affetti. Almeno cento i medici di famiglia contagiati, centinaia gli operatori sanitari in quarantena e con la febbre. Negli ospedali i pazienti vengono ammassati dove capita, nell’atrio del pronto soccorso, in sala parto, nei corridoi. Il 4 marzo Bergamo ha superato Lodi, con 817 contagi contro i 780 della zona rossa intorno a Codogno. E c’è solo una domanda che mi gira in testa: perché Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia? Che cosa non ha funzionato? Osservando la mappa del contagio a livello provinciale ci si accorge che il focolaio lombardo (il secondo dopo quello di Codogno) è divampato da una zona ben precisa in Val Seriana, da un piccolo comune che dista meno di sei chilometri da Città Alta. Si chiama Alzano Lombardo e insieme a Nembro detiene il triste record della più alta incidenza di contagi da coronavirus di tutta Europa. Ma andiamo per ordine. Domenica 23 febbraio, nel pomeriggio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid19 all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, almeno uno di loro passa dal pronto soccorso, un luogo angusto e affollato. L’ospedale viene immediatamente “chiuso”, per poi riaprire – inspiegabilmente – alcune ore dopo, senza che ci sia stato “nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione nel pronto soccorso di triage differenziati né di percorsi alternativi”, come denunciano due operatori sanitari che chiedono l’anonimato. “Nei giorni successivi – si legge nella loro lettera pubblicata da Avvenire – si apprende che diversi operatori, sia medici che infermieri, risultano positivi ai tamponi per Covid19, molti di loro sono sintomatici”. Ma le disposizioni cambiano velocemente e pochi giorni dopo “tutti i contatti stretti delle persone accertate positive non vengono più sottoposti a tampone se asintomatici”. Come pensare quindi di delimitare il contagio, isolando i possibili vettori? Si chiedono i due operatori sanitari dipendenti della struttura ospedaliera. La domanda ce la poniamo anche noi. Soprattutto perché la maggior parte delle persone transitate nell’ospedale e nel pronto soccorso quella domenica di fine febbraio, una volta uscite – senza essere né diagnosticate, né isolate e ignare dei casi positivi riscontrati – sono tornate a casa dalle proprie famiglie, il giorno dopo sono andate in ufficio, in fabbrica, a fare la spesa, in palestra, al parco, al bar a fare l’aperitivo, si sono mosse liberamente per il comune, per la provincia e la regione, altre sono anche andate a sciare, magari a Valbondione (località sciistica in provincia di Bergamo) dove, guarda caso, si sono registrate impennate di contagi da coronavirus nei giorni successivi. Le scuole sono già chiuse da alcuni giorni in tutta la Lombardia, ma la gente continua a lavorare e soprattutto a uscire. Intanto nell’ospedale di Alzano Lombardo si ammalano un po’ tutti: dal primario, ai medici, dagli infermieri ai portantini. Ci sono addirittura pazienti che entrano con una frattura ed escono morti positivi a Covid19. E con l’aumento dei casi, aumenta anche la voglia di denunciare. Un’altra infermiera si sfoga con il quotidiano locale Valseriana News: “noi stasera siamo di guardia al pronto soccorso con un medico positivo al tampone – racconta la donna con voce concitata al telefono – e nessuno lo allontana, gli hanno dato ordine di rimanere qui fino a domani mattina, indossando la mascherina. Rischio il posto di lavoro a dire queste cose, ma sono stanca di essere presa per i fondelli, ci sono mille raccomandazioni e poi mi metti di guardia un medico che sai che è positivo!”. Insomma, in barba al buon senso e a qualunque criterio logico di protezione, dall’ospedale di Alzano il contagio si allarga a macchia d’olio a tutta la provincia. “Anche noi siamo rimasti attoniti da quello che è successo quella domenica pomeriggio all’ospedale – mi dice il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi – consideri che la mattina stavamo decidendo se festeggiare o no il carnevale e il pomeriggio ci sono stati i primi due casi”. Ma la gravità della situazione emerge chiaramente una settimana dopo, quando si inizia a vedere un aumento esponenziale dei contagi, soprattutto nel vicino comune di Nembro e sono in molti nella valle a chiedere una zona rossa come quella di Codogno. “Abbiamo capito da subito che la situazione era seria – continua il sindaco Bertocchi – e infatti insieme ad altri sindaci abbiamo emesso immediatamente delle ordinanze urgenti per stringere le maglie di quella ministeriale. Non so se si ricorda ma nella stessa città di Bergamo si invitava la gente a tornare nelle strade a sostenere le attività, a prendere i mezzi pubblici, mentre noi consapevoli della criticità avevamo preteso fermezza. È stato un momento non semplice, perché i nostri operatori e commercianti si chiedevano perché la gente a Bergamo potesse fare ciò che voleva, mentre il sindaco di Alzano li costringeva a chiudere a una determinata ora. Per il semplice motivo che noi avevamo inteso la gravità e il principio era: regole rigide subito per uscirne il prima possibile”. E invece oggi Alzano Lombardo conta oltre 50 morti in tre settimane, sette volte la media. “Più che le fabbriche bisognava fermare tutto quello che succedeva intorno alle fabbriche, penso ai locali, ai ristoranti, la vita è continuata in maniera normale, supermercati pieni, assembramenti in piazza, questo tra il 23 febbraio e l’8 marzo. In Val Seriana la gente continuava a viver come prima. Quando è uscito il decreto ministeriale del primo marzo, nel quale si diceva che le società sportive potevano continuare a restare aperte – stigmatizza Bertocchi – noi lo abbiamo visto come una cosa folle, tant’è che abbiamo chiamato le società sportive e gli abbiamo detto: il decreto vi da la possibilità di restare aperte, ma noi vi invitiamo ad astenervi dal farlo. Qua giocano migliaia di ragazzi, abbiamo squadre di pallavolo, calcio, pallacanestro. La norma aveva introdotto una sorta di lassismo dicendo, va bene potete continuare a fare sport, e noi a ripetere: ma allora non avete capito la situazione! È grave, dal governo non ci date la possibilità di fare delle ordinanze e allora chiediamo un atto di responsabilità ai nostri cittadini”. I giorni antecedenti all’8 marzo – data di chiusura della Lombardia – sono stati tesissimi. “Abbiamo cercato risposte – mi spiega il sindaco di Alzano – e non le abbiamo avute: né dal governo, né dalla prefettura, non abbiamo capito perché si siano aspettati tutti quei giorni. In quei 4 giorni la gente era più interessata a capire se c’era o no la zona rossa e non era interessata a contenere i contagi. Non c’era la percezione del pericolo e questa incertezza non ha giovato alla nostra missione che era quella di contenere l’epidemia. Arriverà il momento in cui capiremo che cosa è successo”. E per capire davvero che cosa sia successo tra il 23 febbraio e l’8 marzo, per capire per quale motivo non si sia sigillata subito (come approvato anche dall’Istituto Superiore di Sanità) una zona infetta di soli 25 mila abitanti – evitando magari di chiuderne una da 11 milioni prima e da 60 milioni dopo – dovremmo considerare anche l’altro aspetto centrale di tutta questa storia, quello economico. Creare subito una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro avrebbe significato bloccare quasi quattromila lavoratori, 376 aziende, con un fatturato da 700 milioni l’anno. “Un danno incalcolabile per il nostro territorio, un enorme dramma per il nostro tessuto economico”, diceva il sindaco Bertocchi due settimane fa quando, invocando la zona rossa, chiedeva comunque ambiguamente di mantenere la circolazione delle merci. Il termometro della preoccupazione è rimasto altissimo per giorni in questa valle produttiva. Colossi come la Persico Group (nota per gli scafi di Luna Rossa per l’America’s Cup) o la Polini Motori si sono trincerate dietro un no comment. Eppure sono molti gli imprenditori che hanno palesato il timore che un isolamento forzato del loro territorio li avrebbe danneggiati irrimediabilmente. L’unica cosa che ci è data sapere oggi sono i numeri incontrovertibili di questa battaglia, messi lì a dimostrarci tutti i nostri errori. Quali siano lo capiremo, forse, a epidemia passata. Intanto la direzione sanitaria dell’ospedale di Alzano Lombardo mi ha comunicato di “non ritenere opportuno in questo momento rispondere” alle mie domande. Hanno altre emergenze da gestire e da una settimana lo fanno anche con l’ausilio dell’esercito.

Tomaso Trussardi: «Io bergamasco, rimango qui e aiuto la città di mio padre». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Michela Proietti. «Ho riunito la famiglia qui, nel palazzo in Città Alta: anche se vivo e lavoro a Milano da molti anni, ho scelto di rispettare le regole e fare il mio periodo di quarantena a Bergamo». Tomaso Trussardi, Presidente del marchio del Levriero, parla al Corriere dalla sua casa di Bergamo, dove ha appena lanciato #ConBergamo, la raccolta fondi per sostenere il reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale cittadino: il 100% delle vendite su trussardi.com sarà devoluto a CESVI, onlus che farà da ponte tra l’azienda e la struttura sanitaria. Una delle tante generose donazioni di questi giorni, ma che in questo caso ha una radice più emotiva. Bergamo, la città italiana più flagellata dal Coronavirus, è il luogo dove è nato il marchio Trussardi. «Dal 1911, quando mio nonno Dante Trussardi ha fondato l’omonima Premiata Fabbrica di Guanti, la città ha sempre mostrato la sua vicinanza alla mia famiglia e ha contribuito alla nostra storia con creativi, artigiani e maestranze locali», spiega Trussardi, che ha scelto di trascorrere la quarantena nella città d’origine di suo padre Nicola Trussardi. Un legame che dura da tre generazioni e che oggi più che mai è forte. «Mia moglie Michelle e le nostre bambine sono qui a Bergamo: con noi ci sono anche Aurora con il fidanzato e la migliore amica di Aurora, Sara Daniele. Siamo ligi alle regole, non usciamo, uno di noi fa la spesa una volta a settimana con tutte le precauzioni richieste». Paura, emozione, ma soprattutto un senso di impotenza, che ogni tanto si affaccia nelle giornate più dure. «Credo che ognuno di noi debba fare la sua parte, i bergamaschi, gente instancabile e dal temperamento forte hanno probabilmente all’inizio sottovalutato una situazione che però era più forte di loro. A tutti dico: non siamo invincibili, anche se sembra uno scherzo cattivo che il peggio stia accadendo nella città che ha basato la sua immagine sulla forza e la resistenza delle persone. Dico questo perché mio padre Nicola era esattamente così, un bergamasco tipico, che ha creato la sua azienda a 4 km dalla città e non l’ha mai lasciata, fino alla fine». La pandemia che ha travolto la città ha portato via alla famiglia Trussardi un anziano parente. «Ma noi stiamo bene e passiamo le giornate in modo ordinato, cercando di alleggerire il peso delle bambine, che però vogliono risposte sincere: quando ci chiedono se questo virus uccide, noi rispondiamo la verità». La sensazione, guardando fuori dalla finestra, è quella di «vivere un film dell’orrore, uno strazio che si aggiunge alla preoccupazione per il futuro dell’azienda: avremo delle perdite importanti, ma a questo penseremo in futuro». Adesso quello che conta è superare la pandemia. «D’accordo con Giorgio Gori e Cristina Parodi abbiamo avviato questa raccolta fondi insieme alla onlus Cesvi: vogliamo sostenere l’acquisto di respiratori e ventilatori polmonari per l’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo XXVIII, in emergenza COVID-19. Ogni macchina salva una vita di una persona, è quello che devo alla mia città».

Coronavirus, cronache di una città allo stremo: il grido di Bergamo che vuole rialzarsi. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Ci sono immagini potenti che si incollano alla memoria e non se ne vanno più. Chi potrà mai scordare la fila dei mezzi militari carichi di bare che attraversano il centro di Bergamo? Sotto ogni telone le vite interrotte di uomini e donne che hanno avuto fame d’aria e di speranza e che alla fine sono morti soli, senza una mano da stringere per addomesticare un po’ la paura. Quella carovana di morte, mercoledì sera, portava 65 caduti della guerra al coronavirus nei forni crematori di città fuori regione, perché Bergamo non può cremare più di 26 salme al giorno e siamo ben oltre quel limite. I morti, sì. Ma c’è anche il fronte dei contagi. La Bergamasca è la provincia lombarda più infetta: ieri il numero ufficiale dei positivi al test è arrivato 4.645, 340 in più rispetto al giorno precedente. Cifre lontanissime dalla realtà, è convinto il sindaco Giorgio Gori: «Il numero delle persone contagiate è immensamente superiore a quello che ci raccontiamo tutti i giorni» dice senza girarci troppo attorno. «Qui non c’è persona che non abbia un parente, un amico, un collega, un vicino alle prese con il virus. È drammatica. In queste settimane, soprattutto da chi è in prima linea, ho ricevuto messaggi che strapperebbero le lacrime anche a una statua». «Da chi è in prima linea», dice. Come se lui non lo fosse. A ricordargli che invece lui, la sua città e tutta la comunità della provincia sono i luoghi martire di questa storia nera, è stato ieri sera il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo ha chiamato per far arrivare a tutti la sua vicinanza e il suo dolore. La gravità della situazione si può misurare anche stando semplicemente fermi davanti all’ingresso (sbarrato) del cimitero monumentale. Nel piazzale vanno e vengono soltanto carri funebri. Ogni tanto qualcuno scende dall’auto per scambiare due chiacchiere (a distanza)con il collega del carro accanto, ma è un continuo squillare di telefonini. Chiamano dall’ospedale, dalle case di cura per anziani, dalle abitazioni private. Francesco lavora per la società Bergamo Onoranze Funebri e dice che «prima di tutto questo disastro una squadra si occupava in media di uno-due defunti al giorno. Adesso siamo a otto». Contagiarsi è un attimo, «soprattutto se andiamo a prendere qualcuno a casa che è stato male, magari proprio con i sintomi del virus, e che però non ha mai fatto il tampone. Che ne sappiamo se era infetto, di cosa è morto, se sono positivi i suoi parenti...». In condizioni d’emergenza valgono le regole del buonsenso più di quelle scritte. Tutti danno una mano a fare tutto, se serve. Per cercare le disponibilità fuori regione e organizzare gli spostamenti delle vittime da cremare - per dire - si sono dati un gran daffare i carabinieri del comandante provinciale Paolo Storoni. E poi c’è il caso dei medici in pensione: stanno rispondendo in tanti all’appello dei sindaci di tutte le città capoluogo, e cioè «chiunque di voi sia disponibile ci contatti». Le case di cura Ci sono case di cura, fuori Bergamo, che vedono morire gli anziani l’uno dopo l’altro. Succede a Zonco, per esempio, dove il parroco ha annunciato che avrebbe suonato a morto le campane una sola volta al giorno perché sennò toccherebbe suonarle di continuo. Ci sono paesi-focolai - Nembro e Alzano - che contano contagi e morti record in rapporto alle loro popolazioni. In tutta l’area del Bergamasco ci sono 70 medici di base malati di coronavirus. All’orizzonte ogni tanto si vede la luce di una notizia positiva, come il bambino di poche settimane infetto e dimesso proprio ieri perché sta bene, o come l’ok arrivato dal governatore Fontana (sempre ieri) per realizzare l’ospedale da campo all’interno della fiera. «Su questo argomento c’è stata un po’ di elettricità con la Regione che mercoledì ci aveva chiesto di sospendere tutto» dice il sindaco Gori, «ma dopo le scintille ci siamo capiti e adesso i lavori possono partire». Che vuol dire questo: trovati i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che servono per farlo funzionare, con 200-250 posti di terapia sub-intensiva. «Avere più letti significa salvare più vite» sintetizza Gori, «perché è inutile negarlo: ci sarebbe una gran quantità di persone che avrebbe bisogno di accedere alle cure e noi non siamo in grado di dargliele perché posti non ce ne sono più».Inutile negarlo, appunto. Al Papa Giovanni XXIII i letti in Terapia Intensiva Covid sono 80, tutti occupati (ce ne sono altri 18 per le emergenze diverse). I ricoverati per il virus sono più di 400, in gran parte con sintomi gravi. Dalla trincea ospedaliera arrivano voci e storie di resistenza, nonostante tutto. Giuseppe Grosso è un ginecologo «prestato» al reparto pneumo-covid. «Gli occhi dei pazienti mi fanno pensare ai condannati al patibolo che si vedono nei film» dice. «Implorano aiuto, salvezza. Non servono le parole per capirlo. Facciamo tutti quel che possiamo, anche noi che non siamo del settore. Nei reparti covid ci sono medici che magari al mattino hanno il camice e alla sera diventano pazienti...». Ma Bergamo racconta anche mille e mille storie di solidarietà di ogni genere e grado. I di 500 volontari per chi è in difficoltà, le bibliotecarie che leggono le favole via facebook, le donazioni importanti, gli artigiani disponibili per eventuali emergenze, le aziende che si riconvertono per produrre quel che serve... «Dite anche questo» chiede il sindaco Gori. «Fa bene al cuore».

Coronavirus, lo sfogo di una figlia: "Mio padre morto come un cane, non è giusto: qui nel Bergamasco solo ambulanze e campane a lutto". Roberta Zaninoni intervistata dall'Ansa: "Non è vero che muoiono solo i malati, e mio padre non era vecchio, forse chi non abita qui non si rende conto". La Repubblica il 18 marzo 2020. "Muoiono tutti come dei cani, come dei porci, non mi vergogno di dirlo. Non è giusto che papà sia morto così. La gente dice che erano vecchi ed erano malati: ma era mio padre, non era vecchio e non era malato": Roberta Zaninoni è la figlia di Giuseppe, una delle vittime del coronavirus di Alzano Lombardo, uno dei comuni del Bergamasco dove i contagi sono esplosi in maniera esponenziale. Il suo sfogo, in un video dell'Ansa, racconta quel che accade in Val Seriana: "Qui ormai si sentono solo le sirene delle ambulanze e le campane di lutto: forse la gente che non abita qui non se ne rende conto, ma nella nostra valle si muore come se fossimo in guerra". E ancora racconta, parlando della morte di suo padre: "Tutti abbiamo vissuto il nostro lutto da soli, quando è arrivato quello delle pompe funebri ci ha detto che serviranno due o tre settimane per riuscire a cremarlo". "Faccio più di 10 condoglianze al giorno ad amici e conoscenti su Facebook e le pompe funebri sono costrette ad ammassare le bare nelle chiese, come se i corpi fossero numeri", prosegue. E conclude: "All'inizio scrivevo post ironici, vi prego non sottovalutatela: non uccide solo le persone malate e i vecchi, ma anche i giovani. Non fate il mio stesso errore. Restate a casa, anche se siete giovani. Tutelate i vostri cari". E allo Stato dice: "A Bergamo questo mese bisogna chiudere tutto, i soldi sono più importanti della salute?". L’epidemia in Italia e nel resto del mondo di Covid-19, la malattia causata dal coronavirus Sars-Cov-2, prosegue. In Italia i contagiati sono oltre 30mila, i morti più di tremila. L'emergenza sta mettendo in ginocchio intere regioni, in particolare la Lombardia. L’Italia è il paese più colpito dopo la Cina e anche quello che per primo in Occidente ha messo in campo misure straordinarie, decidendo la chiusura di tutti gli esercizio commerciali non essenziali e chiedendo alla popolazione di limitare gli spostamenti. Un modello che stanno iniziando a imitare in tutto il mondo. Ancora si attende l'arrivo del picco, mentre gli scienziati cercano di stimare quando arriverà e le strutture sanitarie combattono ora dopo ora per reggere l'urto dei contagiati.

Coronavirus, sindaco di Nembro: "Conto i morti ogni sera, siamo soli". Il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, parla dell'emergenza sanitaria nella piccola cittadina orobica: "Qui si contano almeno 3 morti al giorno". Rosa Scognamiglio, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. "Abbiamo fatto tutto da soli, siamo sopravvissuti grazie ad atti di eroismo civile, non aspettando che arrivassero "i nostri" da Roma o Milano". Tuona così Claudio Cancelli, insegnante di fisica in pensione e sindaco di Nembro, cittadina della Bergamasca falcidiata da coronavirus: 76 morti e 2010 contagi ufficiali da quando è esplosa l'epidemia. Numeri altissimi, da mettere i brividi e far scuotere il capo tra le mani. Cosa sia accaduto nella piccola località della Valle Seriana nessuno riesce ancora a spiegarlo. Fatto sta che su una popolazione di 1500 abitanti, più di un terzo - almeno nelle stime ufficiali - è stata travolta dall'ondata virulenta del Covid-19. "Abbiamo contato almeno 160 morti - rivela il primo cittadino alle pagine del quotidiano La Stampa - e stimiamo che il 50% della popolazione è stata contagiata. Vorrei fare test di massa degli anticorpi per evitare recrudescenze". La conta dei deceduti nella località orobica non ha precedenti storici equiparabili: "Il nostro mondo è stato stravolto. In un anno normale avevamo un morto ogni tre giorni. A marzo una media di 5 morti al giorno, con punte di 10. Ora siamo a 3. E tanto basta per vedere un filo di luce", dice Cancelli. L'emergenza sanitaria ha imposto una riorganizzazione delle maestranze locali impegnando i cittadini in uno sforzo collettivo di collaborazione. "Abbiamo dirottato sull' emergenza 7 dipendenti comunali e 115 volontari per gestire ogni tipo di servizio. Un centralino che riceve 50 telefonate al giorno. La consulenza legale gratuita per divieti e multe. - racconta il sindaco - La consegna di farmaci e pasti a domicilio. Gli accordi con gli idraulici per gli anziani a cui si rompe la caldaia. Uno sportello notarile per le successioni". E gli aiuti, quelli da Roma, risultano ancora non pervenuti: "La ricerca delle introvabili bombole di ossigeno, anche in altre valli. L' assistenza ai pazienti dializzati positivi al covid, che non fa né l' Asl né la Protezione civile. Se non li accompagniamo noi, muoiono in casa". Tante le vittime di questa tragedia, troppe, al punto da rendere complessa persino le operazioni di sepoltura. "Fortunatamente avevamo parecchi loculi disponibili. Li abbiamo usati come spazi temporanei. - spiega Cancelli - Piuttosto a un certo punto non sapevamo più come registrarli. L' ufficio anagrafe non esisteva più: un impiegato morto, gli altri tre contagiati. Altre due dipendenti hanno cambiato ufficio, guidate al telefono. Una pensionata è venuta a lavorare gratis". Un compito difficile quello del primo cittadino di Nembro, costretto ad aggiornare ogni dannata sera il bollettino di guerra e a confortare gli anziani del pese: "Ogni sera registro un messaggio che automaticamente per telefono raggiunge oltre duemila persone. Un bollettino di giornata. Soprattutto le persone sole aspettano la mia voce. Un richiamo al rispetto delle norme, perché abbiamo segnalazioni di passeggiate sui sentieri. E informazioni sulle agevolazioni fiscali. Cose tecniche. Altri giorni vado sui sentimenti. Qualcuno poi mi chiama perché l' ho fatto piangere". I cittadini della piccola località orobica hanno dovuto scorciarsi le maniche ed affrontare coraggiosamente la tragedia. Lo hanno fatto da soli: "Non ci siamo sentiti protetti. - denuncia il sindaco - Lo Stato è stato incapace di gestire anche gli aspetti organizzativi e logistici più semplici. E non ci sono state direttive chiare e uguali per tutti". Il futuro è ancora in certo e la conta dei morti non ancora azzerata. "Mi chiedo come e quando ne usciremo. La guerra non è ancora finita ma bisogna già pensare a vincere il dopoguerra".

Nembro, viaggio nel paese dei funerali: "Qui da noi ogni famiglia piange il suo morto". Nel piccolo comune già quasi 100 le vittime. Molte bare in attesa di sepoltura. Gian Micalessin, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. «No, fermo! Non salire in casa ho il Covid». La chiamata s'interrompe bruscamente. Un attimo dopo l'immagine di Danilo Belotti con mascherina sulla bocca compare sul «whatsapp» del mio cellulare «Dobbiamo parlare così altrimenti ti contagio». Mi guardo intorno. Lassù s'allunga la val Brembana. Quaggiù Nembro è un villaggio fantasma. Il negozio di abbigliamento Attimi ha la porta d'ingresso coperta da un eloquente «Chiuso per lutto». E di lutti ne sa fin troppo anche Danilo, 48 anni, fedele lettore del Giornale: «Mia madre se n'è andata ieri, mio padre una settimana fa. Io invece oggi non ho più la febbre. Spero di cavarmela, ma non so che ne sarà di me. Prima del Covid facevo il geometra a partita Iva. Ora faccio il malato senza stipendio, perché a me malattie e lutti non li paga nessuno». Ma a Danilo dei soldi non può importare di meno. Il suo unico dramma è l'addio a quei due genitori morti soli e lontani. Senza una parola di conforto. Senza una carezza. È iniziato tutto tre settimane fa. «Mio padre è stato ricoverato ad Alzano Lombardo e da quel momento non l'abbiamo più visto. Ce l'hanno fatto vedere per due minuti quando era già in coma. Pochi giorni dopo la sua morte hanno portato via mia madre. Ieri mattina ci hanno detto che era morta. L'unica che l'ha vista è stata mia sorella mentre la mettevano nella bara. Nel frattempo ho perso almeno altri venti fra parenti, amici e conoscenti». Un brivido mi gela la schiena. Nembro più che un paese sembra un mattatoio di umani, l'epicentro di un flagello biblico. L'assessore ai lavori pubblici Matteo Morbi, 46 anni, mi riceve davanti alla casa della sorella. Sul cancello d'entrata sventola un lenzuolo bianco con disegnato un arcobaleno e la scritta «andrà tutto bene». In un minuto i dati sciorinati da Matteo cancellano quello sprazzo d'innaturale ottimismo. «Questo è un paesino di 11.500 abitanti dove dal 25 febbraio ad oggi il Covid ha fatto 91 morti. Ma la cifra ufficiale comprende solo quelli a cui è stato fatto il tampone. Se ci aggiungi i morti in casa senza tampone il numero sale. E poi vi sono circa 140 malati chiusi nelle proprie abitazioni in attesa di capire se miglioreranno o peggioreranno». A descriverti la paura e l'inquietudine di Nembro ci pensa la sorella Mariarosa. «L'ululato delle ambulanze è quello che più inquieta. Ogni sirena è una fitta al cuore. Ci ricorda che a pochi passi dalla nostra porta si consuma una tragedia. Ci sforziamo di star sereni, abbiamo persino appeso quel lenzuolo al cancello. Ma è difficile. Ogni casa ha un lutto. Ogni famiglia ha perso un amico o un parente. C'illudevamo che la Cina fosse lontana e ce la siamo ritrovata qui nel nostro piccolo paese». La tragedia di Danilo, Matteo e Mariarosa si materializza dietro le cancellate del cimitero di Bergamo. «Qui in città abbiamo avuto 330 morti. Nella chiesa del cimitero ci sono 112 bare che attendono sepoltura. Facciamo un funerale ogni mezz'ora e dirottiamo le cremazioni fino all'Emilia Romagna», spiega l'assessore ai servizi cimiteriali di Bergamo Giacomo Angeloni. L'immagine umana di quell'emergenza è la signora Roberta Caprini, responsabile di Generali Bergamasca, la più grande agenzie funebre della provincia. Incollata ad un cellulare che non smette di squillare s'aggira per un magazzino pieno zeppo di bare incellofanate. «È sconvolgente di solito facciamo 1300 funerali all'anno, ma dal primo al 15 marzo ne abbiamo già fatti 500. Ormai rifiutiamo metà delle richieste e come se non bastasse rischiamo la vita. Mio padre e mio zio si sono ammalati e con loro molti dipendenti. Non abbiamo tute, guanti e mascherine perché il governo non ci considera categorie a rischio. La notte per me non esiste più. Lavoro fino a tardi e quando m'infilo nel letto non chiudo occhio. I funerali non sono più il mio lavoro, sono il mio incubo».

Da Liberoquotidiano.it. Altro dettaglio inquietante sul coronavirus. A Bergamo, dove la situazione è drammatica, il primo cittadino Giorgio Gori afferma: "Nei Comuni di qui il numero di decessi è superiore a quelli che vengono registrati negli ospedali". Per il sindaco, in collegamento con Agorà, il numero dei morti a marzo è stato "superiore di 4 volte a quello dello stesso mese dello scorso anno". Il motivo? "La gente muore a casa e non viene registrata".  Una testimonianza che ricalca quanto successo a Napoli dove un uomo è rimasto in casa 24 ore con la sorella morta. "Nessuno ci diceva cosa dovevamo fare" aveva raccontato in merito alla tragedia troppo spesso divenuta realtà.

Coronavirus, troppi morti a Bergamo: l’esercito porta le bare fuori regione per la cremazione. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 da Corriere.it. L’emergenza Coronavirus continua a mietere decine di vittime a Bergamo. Nella giornata di mercoledì, secondo i dati ufficiali, i morti sono stati 93: ma secondo il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, il conteggio va valutato come approssimato per difetto, perché molte persone muoiono con sintomi compatibili a quelli del Covid-19, ma prima che si sia riusciti ad effettuare su di loro i tamponi. Il forno crematorio della città – che da una settimana funziona 24 ore su 24 – non riesce più a far fronte all’emergenza: così nella serata di mercoledì 18, mezzi dell’esercito hanno portato decine di bare — una sessantina — secondo quanto riferito dall’agenzia Ansa — dal cimitero di Bergamo in forni crematori di altre regioni dove ci sono comuni che si sono resi disponibili ad accettarle. Le bare prelevate dal cimitero di Bergamo saranno portate in forni crematori di Modena, Acqui Terme, Domodossola, Parma, Piacenza e diverse altre città che si sono rese disponibili e che sono state ringraziate dal sindaco Gori, che ha scritto a ognuno dei colleghi una lettera. Una volta eseguita la cremazione, le ceneri saranno riportate a Bergamo e destinate ai luoghi di provenienze dei defunti. «Il forno crematorio di Bergamo, lavorando a pieno regime, 24 ore su 24, può cremare 25 defunti», sostiene il Comune. «È chiaro che non si poteva reggere ai numeri dei giorni scorsi». Anche le agenzie funebri non erano più in grado di gestire il servizio: alcune sono chiuse perché i dipendenti sono malati. Il comune, attraverso la propria società «Bergamo Onoranze Funebri», ha dovuto sopperire ai mancati ritiri delle salme.

Coronavirus, Bergamo: i militari pronti a sigillare Alzano e Nembro. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Maddalena Berbenni e Riccardo Nisoli. A Bergamo contano i numeri. Ma anche i nomi: fra i 623 positivi al coronavirus della provincia ci sono anche il prefetto Elisabetta Margiacchi e il questore Maurizio Auriemma. Stanno bene, lavorano a pieno ritmo, ma in isolamento. Nella stessa situazione si trova, per altro, il prefetto di Brescia Attilio Visconti. Nomi e numeri. Il contagio cresce, negli ultimi giorni più che nel Lodigiano, e questo spiega perché si attenda da un momento all’altro la decisione del governo per istituire una nuova zona rossa per Nembro e Alzano, alle porte della Val Seriana. Qui si sarebbe originato un focolaio veicolato dall’ospedale come a Codogno: un paziente infetto e poi deceduto, rimasto ricoverato ad Alzano otto giorni prima di essere sottoposto al tampone, risultato positivo. E in pochi giorni l’epidemia è esplosa nei due paesi che ora rischiano di essere blindati. A Verdellino si sono già stanziati 100 carabinieri del Reggimento di Milano e sono pronti altri 150 tra poliziotti e militari dell’esercito. Un segnale dell’imminente ordinanza. Come sembrano probabili ulteriori restrizioni sulla zona rossa del Lodigiano. Secondo l’assessore al Welfare Giulio Gallera «o assumiamo un atteggiamento individuale molto responsabile, oppure non siamo in grado di valutare quando arriverà la discesa dei casi di contagio». Che stando al bollettino della Lombardia, il 6 marzo erano 2.612, più 135 decessi. Poi, una stoccata a Roma: «Se quando ci siamo confrontati per la prima volta, tre giorni fa, con l’Istituto Superiore di Sanità, fosse arrivata una risposta, questo avrebbe evitato incertezza che nella peggiore delle ipotesi può avere, speriamo di no, portato qualcuno anche a spostarsi da quella zona». Da martedì, quando è sembrato chiaro l’orientamento degli esperti, la bassa valle vive in un limbo. Cittadini, imprese, gli stessi amministratori sono appesi a un annuncio. Ma proprio nelle stesse ore in cui i sindaci Camillo Bertocchi (Alzano) e Claudio Cancelli (Nembro, tra i contagiati) sfogavano al telefono la loro frustrazione, a una ventina di chilometri arrivavano i primi rinforzi. Nessuno mette in discussione la necessità delle misure, perché i dati danno il polso dell’epidemia: 43 vittime, 74 malati a Nembro, 35 ad Alzano e 71 a Bergamo città. Ma preoccupano le ricadute economiche di quest’area del Nord tra le più produttive. Il calcolo lo ha fatto Confindustria: la zona rossa riguarderà 3.700 dipendenti di 376 aziende, per complessivi 680 milioni l’anno di fatturato. Fra le altre, le Cartiere Pigna, il gruppo Persico, famoso per gli scafi di Luna Rossa, la Polini Motori, leader nella produzione di parti speciali per scooter, da Piaggio a Yamaha. «Se zona rossa sarà — dice il sindaco Bertocchi — sarebbe opportuno creare un corridoio in sicurezza per le merci delle imprese». Una proposta partita dagli stessi imprenditori, che le associazioni territoriali di Confindustria Lombardia tenteranno di supportare attraverso una task force: per ospitare lavoratori in trasferta, si sta pensando di affittare alberghi e b&b in zona. Sono ore convulse. «La macchina organizzativa non ha mai smesso di funzionare», spiega la prefetta Elisabetta Margiacchi. «Io grazie a Dio sto bene, mi è passata pure la febbre. Ho avuto solo qualche linea, ora sono completamente operativa, anche se con le dovute precauzioni visto che lavoro con altre persone». Idem il questore Maurizio Auriemma, positivo ma totalmente asintomatico. Dal suo alloggio ieri ha firmato pure l’ordinanza di chiusura di un bar.

Bergamo, racconto dall'inferno "Stanno arrivando i 40enni..." L'anestesista rianimatore dell'ospedale di Bergamo: "Siamo al limite delle risorse. E la media dei pazienti adesso è di 50 anni". Francesca Bernasconi, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. "Mi sembra un unico giorno molto lungo". All'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove lavora come anestesista rianimatore il dottor Lorenzo Grazioli, l'ondata di malati per coronavirus non è mai finita.

400 i pazienti ricoverati, 80 in rianimazione. Ad oggi, racconta il medico in un'intervista alla Stampa, "Abbiamo accumulato così tanti pazienti che se ci dovesse essere un calo da qui non lo vedo ancora. È un' onda lunga". In rianimazione, i pazienti sono tanti e "molto complessi da trattare": "Il nostro problema- spiega Grazioli- È dove metterli. Siamo al limite delle risorse. La rete è satura". Ma, nonostante questo, si cerca di fare "il meglio" nell'ospedale e, in caso di necessità, "ci affidiamo alla rete sanitaria della Regione Lombardia". Nella Regione, la più colpita dalla pandemia da Covid-19, la situazione è complessa. Ma perché proprio qui si è concentrato il maggior numero dei casi? "L'epicentro- spiega Grazioli- come quello del terremoto, non si sa mai dove sarà. Qui ci sono tante persone che vanno e vengono per ragioni di lavoro, tanti aeroporti e tanti contatti. Questa è una malattia estremamente virulenta, contagiarsi è facile". E sull'età dei pazienti, l'anestesista lancia l'allarme: "I primi erano grandi anziani, piano piano sta diminuendo l'età. Vedo tanti uomini anche di quarant' anni. La media adesso è cinquant' anni. Hanno bisogno di ventilazione meccanica". Il motivo? "Provate a far correre un uomo di 30, uno di 40 e uno di 50 anni insieme. Chi arriverà primo? Quello di 30. All'ospedale invece l'arrivo è inverso. I giovani hanno più risorse". E per trattarli "ci sono dei criteri tracciati", delle "scale di valutazioni", che permettono di capire "il beneficio che una terapia intensiva può dare": "Tutti i giorni, valutiamo. Facciamo i clinici. Quindi, decidiamo. Ma non significa trascurare i pazienti. Ci sono malati che per la loro età anche con 100 posti liberi non andrebbero in terapia intensiva perché non ne beneficerebbero". E specifica: "Tutti coloro che hanno bisogno di intubazione vengono intubati". Per curare i pazienti, i medici fanno orari lunghi ed estenuanti. Il rianimatore di Bergamo lavora "non meno di 12 ore": "Non ho una vita, in questo momento. Torno a casa, mangio e vado a letto. Poi torno in ospedale". Da subito, Lorenzo Grazioli ha capito che il coronavirus avrebbe cambiato l'Italia: "Abbiamo avuto un incremento esponenziale di pazienti- spiega- Da allora non è mai finita. Mi sembra un unico giorno molto lungo". Per questo, il medico sostiene che non ci sia stato allarmismo: "Se voi vedeste quanta gente arriva ogni giorno vi togliereste il dubbio. Non siamo bambini. Bisogna essere seri e crudi nelle comunicazioni". Per affrontare l'emergenza sarebbero utili "attrezzature e personale, ma non è facile trovare medici che facciano questo lavoro serenamente. L'esperienza è impagabile in questi casi. L' emotività va lasciata da parte sempre". E sulla possibile durata del virus, il rianimatore avverte: "Dipende da noi. Da tutti noi. Se ci convinciamo che possiamo fermare il virus stando a casa, si smorzerà per forza. Altrimenti, no: continuerà e ne pagheremo le conseguenze".

(ANSA il 12 marzo 2020) - Nella sola provincia di Bergamo "sono ad oggi cinquanta i medici infettati", uno di questi è morto nei giorni scorsi, che con gli altri due decessi di camici bianchi in Lombardia e Veneto portano a tre le vittime fra i medici. Lo rende noto il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, nella lettera inviata al premier Conte per chiedere la sospensione dell'accesso libero dei pazienti agli ambulatori per contenere i contagi. E' "a rischio l'efficacia dell'assistenza".

Mattia Feltri per “la Stampa” il 16 marzo 2020. «Stai lontano da questo lazzaretto», mi scrive Cesare, vecchio amico dei nostri esordi. Usare la parola dramma è perfino riduttivo, scrive. Le voci dal silenzio mi arrivano sull' iPad, sul telefonino, sulla mail, via social, da una Bergamo muta, paralizzata, allibita, mai arresa.

«Situazione drammatica, sono al collasso. Sono a casa da lunedì con febbre e tosse e faccio fatica a respirare. Mi tengono monitorata la situazione sanguigna. Mi raccomando, non fate i nostri errori, restate isolati», mi scrive Paolo.

Gli ospedali stanno come sapete, allo stremo delle forze e al limite delle possibilità. «Vediamo passare tutto il giorno i sarcofagi», scrive Beppe che lavora alla manutenzione dei macchinari all' ospedale Papa Giovanni.

I sarcofagi contengono i corpi di chi esce dalla terapia intensiva e non ce l' ha fatta. È morto il padre di Mirco, da Colzate: «Aveva 77 anni, diabetico e cardiopatico, ma non era in fin di vita.

Senza questo virus non sarebbe morto. Ma devo dirti che negli ospedali abbiamo degli angeli dietro ogni mascherina, per i modi con cui rispondono, per la delicatezza».  A Bergamo siamo a oltre tremila contagiati, due terzi dell' intera Francia. Cinquanta, sessanta morti al giorno. Al cimitero c' è una sepoltura ogni mezzora, anche di notte e non basta. Alcuni vengono cremati a Varese. «Sento in giro di figli che hanno tenuto in braccio madri e padri nel momento dell' addio», aggiunge Mirco. Alla clinica Gavazzeni le pompe funebri non ritirano più le salme, non ce la fanno.

«Oggi ho sentito almeno trenta ambulanze, tra Seriate e Brembate. Non tutte vanno di corsa», mi scrive @Confucio.

Scrivono tutti delle sirene.

Barbara: «Anche quando ti estranei per recuperare un briciolo di serenità, ti riporta alla realtà il suono delle sirene».

Carmela: «Il primo suono che sento alla mattina è quello delle sirene. Poi quello degli uccellini. C' è silenzio, c' è dignità».

Caterina: «Si prega, si sentono troppe sirene».

@Simobelo: «Qui sul lago si sentono solo sirene e campane a morto».

@Hermion: «Contiamo le ambulanze. Stamattina diciotto. Quattordici nel pomeriggio». Alex: «I bambini contano le ambulanze: oggi erano contenti, due meno di ieri». Bergamo è una città in cui i bambini sono scomparsi. Annamaria: «La cosa più dolorosa è che per strada non c' è nessuno, ma da settimane non vedo un bambino». Le bibliotecarie di Bergamo hanno aperto una pagina Facebook - Storie per chi le vuole - per leggere le favole ai bambini.

Mary: «Mia figlia guarda dalla finestra e conta le persone che passano».

Spediscono le foto. Viale Papa Giovanni deserta. Via XX Settembre deserta. Piazza Pontida deserta. Città Alta deserta. Si vive di reclusione e di lavoro instancabile.

Luca e Francesco girano la provincia dalle 8 alle 23 («abbiamo più di cento chiamate al giorno») per fare radiografie a domicilio. Diego, 46 anni, operatore del 118, si sentiva come se fosse stato investito da un tir, ma ha rassicurato la moglie e nella notte è morto. «Alla fine ci diremo, come sempre, di aver fatto solo la metà del nostro dovere», scrive Alberto.

«Sono veneto, ho lavorato in Val Seriana. Da voi ho imparato a rispettare valori come l' onestà e la forza di mettersi al lavoro ogni giorno. Sono con voi, Grazie», scrive @Moka.

«Mi sono lamentato tante volte della fissazione per il lavoro e il sacrificio della nostra gente, fin da piccolo quando qualcuno moriva ho sempre sentito elogiarlo con parole come "ha sempre lavorato tanto". Nonostante sapessi nel profondo che anche noi siamo un popolo generoso e gentile, mi è sempre sembrato un peccato. Ma è in questi giorni che, di notte, mi sale lo sconforto. Ritrovo un silenzio innaturale, non sento i rumori del turno di notte della vicina azienda meccanica, delle auto sulla provinciale, nessun segno dell' operosità della mia terra. Ed è in quel silenzio innaturale che mi si gela il sangue», mi scrive @TassBurrfoot.

Bergamo non è una città di smancerie. «Siamo in guerra, e contro un nemico che ammazza senza sparare un solo colpo. Ma alla fine sarà lui a crepare», scrive Giorgio. E la rudezza si sposa sempre con la generosità e la tenerezza. «La mia compagna lavora in una farmacia in provincia di Brescia. Non possiamo più vederci. Mi manca tantissimo e ho paura per lei. Abbiamo un solo modo: testa bassa e lavorare, senza lamentarci», scrive Marco.

«Sono dell' Aquila e mi ricordo i volontari bergamaschi dopo il terremoto, instancabili, di poche parole, sempre con la mano tesa per aiutare gli altri. Forza, sono con voi», scrive Camilla.

Il mio computer è travolto di grazie, di per piacere, se potesse. «Un ragazzo disabile dopo aver superato la fase critica è stato dimesso, anche se ancora positivo. Non poteva tornare in comunità. Lo abbiamo accolto noi nella nostra piccola cooperativa. Lo abbiamo assistito in tre, con tutte le prudenza del caso. Speriamo. Dovete sapere che noi non ci arrendiamo», scrive Giuseppe.

Josip Ilicic ha messo all' asta il pallone con cui ha fatto quattro gol a Valencia, in Champions League, e quel che arriva andrà in beneficenza. I tifosi dell' Atalanta hanno donato all' ospedale i 60mila euro di rimborsi che gli spettavano per l'annullamento della trasferta in Spagna. Decine di negozi, chiusi, hanno scritto al Comune offrendosi di preparare pasti per i vecchi e per le famiglie in difficoltà. Cinquecento volontari ogni giorno si muovono per fare e consegnare la spesa a chi non può, o per tenere compagnia a chi è solo. «Confesso che quando sono stata chiamata stamattina e mi è stata assegnata un' anziana a cui portare delle cose dalla rosticceria e con cui fare due chiacchiere avevo un po' di paura. Per lei, per me, per mia nonna. Poi però ho deciso di non annullare l' impegno preso e sono andata dalla signora Bruna che ha 85 anni e tanta voglia di chiacchierare con qualcuno. Mi sono scusata per la maschera e i guanti e lei mi ha sorriso dolcissima, dicendomi che l' importante era avermi lì. Io col tempo ho smesso di chiedermi se valga o meno la pena prendersi cura degli altri, dell' amica che poi ti tradisce, dello sconosciuto, perché in mezzo a mille batoste c' è sempre il sorriso che ti cambia la giornata. Grazie Bergamo, sono fiera di noi», scrive Grazia mentre altri voci, dal silenzio, continuano ad arrivare.

Nando Pagnoncelli a DiMartedì: "Nel cimitero di Bergamo abbiamo una sepoltura ogni 30 minuti per coronavirus". Libero Quotidiano il 18 marzo 2020. Uno sconsolato Nando Pagnoncelli, bergamasco di nascita, per una volta sveste i panni sondaggista e racconta, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì martedì 17 marzo,, la situazione che sta vivendo la sua città. A Bergamo e provincia, infatti, ci sono troppi morti per coronavirus. Tantissime salme che il forno crematorio non riesce a smaltire e che vengono allineate nella cappella del cimitero in attesa di sepoltura.. La provincia lombarda è infatti ora l’epicentro dell’infezione da Covid-19. "A Bergamo il numero medio di decessi al giorno è passato da 8 a quasi 50, nell'ultima settimana sono morte 330 persone, un anno fa nella stessa settimana ne morirono 23. Nel cimitero di Bergamo abbiamo una sepoltura ogni 30 minuti", la tragica rivelazione di Pagnoncelli. 

I morti a Bergamo e l’allarme di Gori: «Anche il forno crematorio non riesce a fronteggiare l’emergenza». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it. «Percepiamo finalmente attenzione anche dal governo centrale, con la telefonata del Presidente del Consiglio alla direttrice dell’ospedale di Bergamo, credo sia stata una telefonata importante anche per tutti quelli che lavorano. Sono stati assicurati alla Lombardia 150 ventilatori, ma con questo tasso di crescita basteranno per 3 giorni e non saranno sufficienti». Così il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ieri sera a Che tempo che fa su Rai2. E poi, in collegamento con il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, Gori gli ha chiesto: «Abbiamo bisogno che questi ventilatori arrivino non a giorni, ma nel giro di ore». «Domani consegneremo due milioni di mascherine in tutta Italia, sono numeri importanti ma in questo momento sono numeri insufficienti perché il consumo delle mascherine è decuplicato», ha risposto Borrelli. «La situazione sanitaria a Bergamo è molto complicata — ha proseguito Gori — . La città è l’epicentro di questa emergenza. Il numero dei contagiati continua a crescere, di quelli portati in ospedale, messi in terapia intensiva. Purtroppo cresce il numero dei decessi, circa 50 al giorno, 300 nell’ultima settimana. Nel frattempo si ammalano i medici negli ospedali e i medici di base, ce ne sono più di 70 ammalati per aver fatto il proprio lavoro. Mancano presidi di protezione per loro, per chi sta negli ospedali ma anche per i volontari che vanno a portare cibo e medicine nelle case degli anziani, e che in questo momento non siamo in grado di difendere. La richiesta partita forte dalla Lombardia nelle scorse ore di avere protezione con mascherine, camici e guanti è l’istanza più urgente, avere apparecchi di ventilazione per i pazienti gravi. La capacità di cura è stata costantemente aggiornata e sono stati trovati, anche con creatività, spazi e posti letti ma siamo veramente al limite. Se non c’è modo di cambiare l’inclinazione della curva che cresce non saremo in grado di far fronte a tutte le necessità. Già in queste ore alcuni pazienti gravi sono stati trasferiti in altre regioni, che ringrazio per la disponibilità. Allo stesso modo, tante salme sono state spedite in altri luoghi per la cremazione. Il forno della città di Bergamo non è in grado di smaltire tutto il lavoro che deve fare; questo non per dare particolari truculenti ma per farvi capire la fatica, la sofferenza. Sono amici che muoiono, conoscenti, colleghi».

Coronavirus, a Bergamo viene sepolto un morto ogni mezz'ora. Ad annunciarlo è stato l'assessore ai servizi cimiteriali del comune, Giacomo Angeloni: una sepoltura ogni mezz'ora, Bergamo e provincia le più colpite dal contagio. Marco Della Corte, Venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. A Bergamo viene sepolto un morto per coronavirus ogni mezz'ora. Questo terribile dato è stato confermato a Rainews24 da Giacomo Angeloni, assessore ai servizi cimiteriali del comune. Sono stati 18 i decessi lo scorso 7 marzo, altri 44 tra l'8 e il 9 marzo 2020 avvenuti nel comune di Bergamo. Si sono registrate, in seguito, 33 vittime martedì 10 ed ulteriori 51 mercoledì 11 marzo. Nel corso di un'intervista a Bergamo News, Angeloni ha invece parlato della difficile situazione che si respira presso il capoluogo orobico, spiegando come il comune di Bergamo si sta organizzando: "Sì, c'è una grossa emergenza a Bergamo, la stiamo vivendo tutti in questi giorni. Le restrizioni imposte dal governo hanno avuto delle conseguenze chiare anche sull'amministrazione comunale che ha chiuso tutto quello che era possibile chiudere, mantenendo soltanto i servizi essenziali che sono aperti; servizi, anche più di mia competenza, quindi, i servizi cimiteriali e i servizi dello stato civile per le denunce dei morti. Il tema dei decessi è quello che ci fa più impressione in queste ore". Una situazione preoccupante quella che sta vivendo la città e la provincia di Bergamo a causa dell'epidemia di coronavirus. Nel territorio si registrano numerosi decessi da Covid-19. L'assessore Angeloni ha ammesso: "Abbiamo visto i dati di questi ultimi 5 giorni che fanno molta impressione. Siamo a 149 decessi. Sono numeri che, solitamente, si fanno in settimane. C'è un aumento di quasi 5 volte la normalità dei decessi". Proprio per tali motivi, l'amministrazione comunale è stata costretta ad utilizzare modalità divergenti circa la gestione dei servizi cimiteriali. Proprio su tale argomento, l'assessore ha specificato: "Abbiamo aperto la camera mortuaria del cimitero che di solito non viene utilizzato, abbiamo avuto l'autorizzazione da parte della prefettura di Bergamo e di Ats di poter utilizzare anche la chiesa di Ognissanti come camera mortuaria" . La chiesa di Ognissanti è di recente costruzione ed è sita all'interno del cimitero. Essa sarà dunque utilizzata come una grande camera mortuaria. Giacomo Angeloni ha aggiunto: "Sono giorni molto difficili, è importante però , in questi momenti, anche ricordarsi delle persone che lavorano, oltre ai medici, agli infermieri ed agli operatori sanitari che continuiamo a ringraziare, perché stanno facendo un lavoro, mi viene da dire, fino allo stremo delle forze. Vanno ringraziati anche i dipendenti del comune e, per parte mia, è importante ringraziare le persone che si stanno esponendo al rischio in questi giorni, perché lavorano, seppur con le protezioni che le sono state consegnate, in una situazione di difficoltà". Il politico ha specificato che altri lavoratori sono, ad esempio, coloro che lavorano agli sportelli, gli uscieri ed anche i guardiani del cimitero.

Coronavirus, il «focolaio» di Bergamo: camere mortuarie strapiene. Sottovalutato il contagio in Val Seriana: ora ci sono 142 morti. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Armando Di Landro. Bergamo è ferma, non esiste più traffico, le strade sono vuote «come ad agosto» secondo gli auspici del sindaco Giorgio Gori, e i pochi passanti a piedi indossano sempre più spesso mascherine con il filtro. Uno dei templi dello shopping, l’Oriocenter, appare deserto, e molti negozi hanno chiuso anche in anticipo su eventuali nuovi decreti. «Questa è una guerra da vincere — dice Paolo Agnelli, l’imprenditore re delle pentole in tutto il mondo —. Fermiamoci e poi vedremo di ripartire, come fosse un dopoguerra, ma ora fermiamoci, è l’unica cosa da fare». E quando a dirlo è l’industria significa che la paura ha pervaso tutto, perché il nemico è invisibile e impercettibile finché non arriva e colpisce, e porta anche cinquantenni e sessantenni in ospedale senza più ossigeno. È l’epoca del coronavirus Covid 19, che nessuno si aspettava con tanta prepotenza, ma che è arrivata, veloce e letale: tanto che un po’ di traffico è rimasto in viale Pirovano, quello che guarda in faccia il cimitero monumentale. Le camere mortuarie degli ospedali cittadini (il Papa Giovanni in primis, ma anche le Cliniche Humanitas Gavazzeni), non reggono più, e il Comune deve fare la sua parte, dando spazio e pietoso riposo anche alle spoglie di chi è arrivato in ospedale da fuori città, ed è morto di «polmonite interstiziale», il principale effetto del virus senza vaccino. Ma anche la mortuaria del cimitero cittadino non è più sufficiente: per accogliere i feretri, prima della cremazione, è stata anche aperto il Tempio di Ognissanti, la moderna chiesa del cimitero, occupata mediamente da 40 bare ogni giorno. E se in un sabato ordinario di inizio marzo i decessi ordinari registrati in città, potevano essere tra i 4 e i 5, ora la media è terrificante, e sfiora i 20. Accade a Bergamo e anche a Zogno, dove il parroco ha deciso di suonare una sola volta le campane a morto, perché altrimenti i rintocchi funebri dovrebbero proseguire tutto il giorno. Già, come in guerra, saltano gli schemi, gli spazi, i punti di riferimento, dopo 142 vittime su un totale di 244 Comuni, concentrate tra Nembro, Alzano Lombardo, Albino, i primi territori a soffrire, ma sempre di più anche in città. Come se il flusso del virus, dopo aver colpito duro nella bassa Val Seriana, avesse virato a un certo punto in due direzioni: da un lato Zogno e la Val Brembana, oltre i crinali delle prime prealpi, dall’altro la città, per fare ancora più male e colpire tra i quartieri, dove i palazzi e gli spostamenti sono più ravvicinati, nel cuore di una Bergamo che negli ultimi anni ha raggiunto livelli di dinamicità, turismo incluso, che probabilmente non si erano mai visti. Non ci sono più trolley e turisti spagnoli o dall’Est Europa, in giro, solo un grande vuoto, e dopo il primo invito di fine febbraio a non fermarsi e continuare a vivere, il sindaco Gori oggi manda almeno un messaggio al giorno via social, per invitare tutti a stare in casa. C’è da chiedersi perché, però, Bergamo e provincia siano finite nella morsa del virus globale a questi livelli. Il sistema ospedaliero, impegnato a far fronte all’emergenza sfiorando il collasso, non ha mai preso nettamente posizione sul tema e sui casi specifici, ma il dubbio è che ci sia stata una sottovalutazione dei sintomi di alcuni pazienti, che erano arrivati in ospedale addirittura prima che esplodesse l’allarme a Codogno (il 21 febbraio). E l’attenzione va in particolare alla Val Seriana e all’ospedale di Alzano Lombardo, quello da cui spuntarono le prime notizie dei contagi domenica 23 febbraio, solo un paio di giorni dopo il lodigiano. Ma andando a ricostruire i casi dei singoli pazienti, la realtà parla di contagi e decessi in parallelo, se non addirittura in anticipo, sul focolaio Lodigiano, di persone con sintomi sospetti che proprio in quello stesso periodo riuscirono ad avere l’esito del tampone solo dopo giorni, trascorsi da degenti in reparti ordinari. Si è creato così un focolaio devastante tra Nembro, Alzano, ma anche Albino e Villa di Serio? A Villa viveva la prima vittima, Ernesto Ravelli, 83 anni, morto nella tarda serata di domenica 23 febbraio dopo il trasporto d’urgenza al Papa Giovanni di Bergamo proprio da Alzano, dov’era stato ricoverato venerdì:era il giorno dopo il test positivo sul paziente 1, il podista di Codogno. Franco Orlandi era un ex camionista di Nembro, 83 anni: i parenti hanno spiegato che era stato ricoverato già sabato 15 febbraio all’ospedale di Alzano, il «Pesenti Fenaroli», nel reparto di Medicina, dove è sempre rimasto, ma l’esito del tampone risale al 23, solo otto giorni dopo. E l’ex camionista è deceduto il 25. L’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est (che gestisce anche la struttura di Alzano) non ha mai precisato nulla in merito. Nemmeno sul caso del rappresentante di commercio Samuele Acerbis, 63 anni, anche lui di Nembro, che ha raccontato di aver avuto febbre fin dal 17 febbraio, di essere stato ricoverato sempre ad Alzano tra il 20 e il 21, e di aver aspettato tre giorni prima di essere sottoposto al tampone, positivo, e quindi trasferito in Terapia intensiva al «Papa Giovanni» di Bergamo. Molto presto, al «Pesenti Fenaroli», sono poi risultati positivi anche il primario del pronto soccorso e il caposala. I dubbi restano, anche adesso che la conta delle vittime è tracimata, ben oltre la Val Seriana: sul territorio c’è in corso un focolaio che ha «travolto» l’ospedale di Alzano, diventato così una cassa di risonanza e diffusione del contagio, oppure la sottovalutazione di alcuni casi ha contribuito in modo determinante a trasformare la Bergamasca in un’area dove, in questi giorni, il suono più ricorrente è quello delle ambulanze? In 18 giorni, a partire dal 23 febbraio, i morti sono stati 142. Quasi 10 al giorno. Una guerra da vincere fermandosi, una guerra mai vista.

Coronavirus, cosa sta succedendo a Bergamo. Remuzzi: «È un dolore enorme vedere i tuoi amici cadere. Serviva la zona rossa». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Giuseppe Remuzzi ha fretta. «Dobbiamo trovare entro domani almeno cento posti per i malati di Covid-19 che non hanno ancora bisogno di cure intensive, così liberiamo letti per quelli più gravi». Sta parlando del Papa Giovanni XXVIII, l’ospedale del quale è stato direttore del dipartimento di Medicina, un posto che per lui è casa, con il quale continua a collaborare anche oggi che guida l’Istituto di ricerca Mario Negri. I malati normali, tutti gli altri insomma, sono chiusi nel reparto di nefrologia che lui, uno degli studiosi italiani più conosciuti e pubblicati nel mondo, ha diretto fino al 2018. Ogni altro angolo di uno dei più grandi ospedali lombardi, e sono 50 blocchi, è riempito dai pazienti colpiti dal coronavirus. «Lei mi chiede come sto». Lunga pausa. «Mi sento come un soldato che perde i suoi compagni. Un mio amico dottore ricoverato in pneumologia in situazione critica, altri due intubati. Quando vedi queste cose, con le persone che sono cresciute con te in questi anni, che cadono mentre il nemico avanza, ti viene da piangere, non ce la fai. Mentre parliamo vedo le ambulanze che continuano a passare, e su ogni ambulanza c’è un essere umano che non respira. Ecco come sto».

Professore, cosa sta succedendo a Bergamo?

«Qualcosa di enorme. Due martedì fa erano tre morti. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono più gravi di quelle della settimana scorsa».

Come se lo spiega?

«La gente è terrorizzata di andare in ospedale. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirina e antibiotico. Il 113 ci porta solo quei malati che proprio non ce la fanno a respirare».

Ma perché un numero così alto di vittime?

«Tra i tanti coronavirus che ci troviamo ad affrontare, questo è mutato in fretta. Fatichiamo a trovare una risposta immune. Fatichiamo a curare».

Quale è la verità?

«Questa non è una malattia benigna. Non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo anziani, ma anche giovani. E ha colpito molte più persone di quante siamo in grado di trattare».

Ma come si spiega questa virulenza?

«Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite. Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell’influenza».

Hanno sbagliato?

«È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo».

Poi cosa è successo?

«Alzano Lombardo è una piccola capitale industriale. Contatti di ogni tipo. Vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentate della zona. Un posto da movida, a farla breve».

Nessun’altra spiegazione?

«Le potrei raccontare la storia del dottore tedesco che lavora a Shanghai e a Monaco, che ha avuto contatti con un cinese di Shanghai che sembrava fosse sano, invece non lo era, e lavorava per una compagnia con filiale anche a Codogno. Ne ha parlato la New England general medicine , la pubblicazione di settore più importante del mondo».

E perché non lo vuole fare?

«Perché non serve a niente. Non ora almeno. Da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio, quando ce ne siamo accorti, c’è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Con la Cina, con la Germania, con tutto il mondo».

Dove vuole arrivare?

«Chissà chi è andato, chissà chi è venuto. Il paziente zero non ci serve. Adesso ci servono posti in rianimazione».

C’era qualcosa di diverso che si poteva fare?

«Una zona rossa. Subito, come a Codogno».

Perché non è stata fatta?

«Non lo so. Dico solo che l’assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave».

Le testimonianze che arrivano dagli ospedali bergamaschi fanno paura.

«Ormai sono tutte simili. Dicono che la gente muore. Che anche chi lavora negli ospedali si ammala. Che non c’è posto. Questo virus ci sta facendo capire cose che in tempi normali si fatica a far capire».

Ad esempio?

«Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatologi che stanno imparando l’assistenza respiratoria».

In tempi normali i neolaureati avrebbero dovuto entrare subito in corsia?

«L’ho detto e anche scritto spesso. Il mestiere, lo imparano meglio in ospedale. Ma nessuno ha mai voluto ascoltare. Se l’avesse fatto, oggi avremmo un esercito di “riservisti” prezioso a dir poco».

Torno a chiederle come sta.

«Come tutti, vivo con l’idea che possa capitare a me».

Se dovesse accadere?

«Direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant’anni».

Armando Di Landro per corriere.it il 13 marzo 2020. Bergamo è ferma, non esiste più traffico, le strade sono vuote «come ad agosto» secondo gli auspici del sindaco Giorgio Gori, e i pochi passanti a piedi indossano sempre più spesso mascherine con il filtro. Uno dei templi dello shopping, l’Oriocenter, appare deserto, e molti negozi hanno chiuso anche in anticipo su eventuali nuovi decreti. «Questa è una guerra da vincere — dice Paolo Agnelli, l’imprenditore re delle pentole in tutto il mondo —. Fermiamoci e poi vedremo di ripartire, come fosse un dopoguerra, ma ora fermiamoci, è l’unica cosa da fare». E quando a dirlo è l’industria significa che la paura ha pervaso tutto, perché il nemico è invisibile e impercettibile finché non arriva e colpisce, e porta anche cinquantenni e sessantenni in ospedale senza più ossigeno. È l’epoca del coronavirus Covid 19, che nessuno si aspettava con tanta prepotenza, ma che è arrivata, veloce e letale: tanto che un po’ di traffico è rimasto in viale Pirovano, quello che guarda in faccia il cimitero monumentale. Le camere mortuarie degli ospedali cittadini (il Papa Giovanni in primis, ma anche le Cliniche Humanitas Gavazzeni), non reggono più, e il Comune deve fare la sua parte, dando spazio e pietoso riposo anche alle spoglie di chi è arrivato in ospedale da fuori città, ed è morto di «polmonite interstiziale», il principale effetto del virus senza vaccino. Ma anche la mortuaria del cimitero cittadino non è più sufficiente: per accogliere i feretri, prima della cremazione, è stata anche aperto il Tempio di Ognissanti, la moderna chiesa del cimitero, occupata mediamente da 40 bare ogni giorno. E se in un sabato ordinario di inizio marzo i decessi ordinari registrati in città, potevano essere tra i 4 e i 5, ora la media è terrificante, e sfiora i 20. Accade a Bergamo e anche a Zogno, dove il parroco ha deciso di suonare una sola volta le campane a morto, perché altrimenti i rintocchi funebri dovrebbero proseguire tutto il giorno. Già, come in guerra, saltano gli schemi, gli spazi, i punti di riferimento, dopo 142 vittime su un totale di 244 Comuni, concentrate tra Nembro, Alzano Lombardo, Albino, i primi territori a soffrire, ma sempre di più anche in città. Come se il flusso del virus, dopo aver colpito duro nella bassa Val Seriana, avesse virato a un certo punto in due direzioni: da un lato Zogno e la Val Brembana, oltre i crinali delle prime Prealpi, dall’altro la città, per fare ancora più male e colpire tra i quartieri, dove i palazzi e gli spostamenti sono più ravvicinati, nel cuore di una Bergamo che negli ultimi anni ha raggiunto livelli di dinamicità, turismo incluso, che probabilmente non si erano mai visti. Non ci sono più trolley e turisti spagnoli o dall’Est Europa, in giro, solo un grande vuoto, e dopo il primo invito di fine febbraio a non fermarsi e continuare a vivere, il sindaco Gori oggi manda almeno un messaggio al giorno via social, per invitare tutti a stare in casa. C’è da chiedersi perché, però, Bergamo e provincia siano finite nella morsa del virus globale a questi livelli. Il sistema ospedaliero, impegnato a far fronte all’emergenza sfiorando il collasso, non ha mai preso nettamente posizione sul tema e sui casi specifici, ma il dubbio è che ci sia stata una sottovalutazione dei sintomi di alcuni pazienti, che erano arrivati in ospedale addirittura prima che esplodesse l’allarme a Codogno (il 21 febbraio). E l’attenzione va in particolare alla Val Seriana e all’ospedale di Alzano, quello da cui spuntarono le prime notizie dei contagi domenica 23 febbraio, solo un paio di giorni dopo il lodigiano. Ma andando a ricostruire i casi dei singoli pazienti, la realtà parla di contagi e decessi in parallelo, se non addirittura in anticipo, sul focolaio della bassa lombarda, di persone con sintomi sospetti che proprio in quello stesso periodo riuscirono ad avere l’esito del tampone solo dopo giorni, trascorsi da degenti in reparti ordinari. Si è creato così un focolaio devastante tra Nembro, Alzano, ma anche Albino e Villa di Serio? A Villa viveva la prima vittima, Ernesto Ravelli, 83 anni, morto nella tarda serata di domenica 23 febbraio dopo il trasporto d’urgenza al Papa Giovanni di Bergamo proprio da Alzano, dov’era stato ricoverato venerdì:era il giorno dopo il test positivo sul paziente 1, il podista di Codogno. Franco Orlandi era un ex camionista di Nembro, 83 anni: i parenti hanno spiegato che era stato ricoverato già sabato 15 febbraio all’ospedale di Alzano, il «Pesenti Fenaroli», nel reparto di Medicina, dove è sempre rimasto, ma l’esito del tampone risale al 23, solo otto giorni dopo. E l’ex camionista è deceduto il 25. L’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est (che gestisce anche la struttura di Alzano) non ha mai precisato nulla in merito. Nemmeno sul caso del rappresentante di commercio Samuele Acerbis, 63 anni, anche lui di Nembro, che ha raccontato di aver avuto febbre fin dal 17 febbraio, di essere stato ricoverato sempre ad Alzano tra il 20 e il 21, e di aver aspettato tre giorni prima di essere sottoposto al tampone, positivo, e quindi trasferito in Terapia intensiva al «Papa Giovanni» di Bergamo. Molto presto, al «Pesenti Fenaroli», sono poi risultati positivi anche il primario del pronto soccorso e il caposala. Muoiono gli anziani ed è a rischio anche la rete di medici e infermieri che sta tentando di far fronte all’emergenza: già 8 giorni fa all’ospedale di Seriate si contavano fino a 50 operatori positivi al Covid 19. In una lettera inviata al premier Conte, invece, si parla di «cinquanta medici infettati nella sola provincia di Bergamo»: a scriverla è Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. Uno dei contagiati è deceduto e con altre vittime tra i colleghi in Lombardia e Veneto, il bilancio è di tre morti proprio tra i camici bianchi. Anelli chiede al primo ministro la «sospensione dell’accesso libero dei pazienti agli ambulatori per contenere i contagi». I dubbi restano, anche adesso che la conta delle vittime è tracimata, ben oltre la Val Seriana: sul territorio c’era già in corso un focolaio che ha «travolto» l’ospedale di Alzano, diventato così una cassa di risonanza e diffusione del contagio, oppure la sottovalutazione di alcuni casi ha contribuito in modo determinante a trasformare la Bergamasca in un’area dove, in questi giorni, il suono più ricorrente è quello delle ambulanze? In 18 giorni, a partire dal 23 febbraio, i morti sono stati 142. Quasi 10 al giorno. Una guerra da vincere fermandosi, una guerra mai vista.

BRESCIA.

Dagospia il 2 aprile 2020. Da I Lunatici Radio2.  Francesco Renga è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Renga ha parlato di ciò che è accaduto tra Brescia e Bergamo: "Nella mia Brescia è stata una tragedia di proporzioni veramente devastanti. Forse non si è capito, qui tra Bergamo e Brescia abbiamo passato dei momenti terribili che sono  stati compresi forse in maniera più precisa da tutto il Paese con le immagini delle salme portate via dall'esercito dall'ospedale. Nel bresciano e nel bergamasco ci sono dei posti dove una intera generazione non c'è più. I nonni non ci sono più. Io abito in una casa vicino all'ospedale: sentivo le ambulanze con una frequenza di pochi secondi una dalle altre. Andavano e venivano. Fino a pochi giorni fa amici medici mi dicevano che nel pronto soccorso c'erano ancora centinaia di persone che aspettavano di fare il tampone mentre erano positivi al coronavirus. Ora mi sembra che la situazione sia migliorata. Ci sono quaranta, cinquanta persone nel pronto soccorso. Però è stata veramente dura. All'inizio non si capiva. Comunque non bisogna abbassare la guardia. Ogni bresciano conosce almeno una decina di persone defunte o che si sono ammalate e hanno avuto bisogno di un respiratore. Non bisogna abbassare la guardia. Anche se un giorno torneremo a fare concerti e ad abbracciarci. Ora bisogna restare uniti in maniera diversa. Ci sono io, Fabio Volo, Ambra, la madre dei miei figli, siamo separati ma ci vediamo tramite diretta social, abbiamo raccolto fondi per l'emergenza medica, all'inizio qui non si era capito a livello di Paese cosa stesse accadendo. Mancavano fisicamente delle cose, al di là del personale medico, che è stato composto da eroi. Non dimentichiamocene una volta finito tutto. L'emergenza medica sta rientrando, piano piano. Ma secondo me, secondo noi, si affaccia la prossima emergenza, che sarà sociale. Legata a quelle persone che non lavorano da tempo e non riescono a fare la spesa. Ora avvieremo Sostieni Brescia cerca di fare beneficenza, di condividere. Brescia è sempre stata generosa. Continueremo a condividere attraverso questo canale". Francesco Renga è un fiume in piena: "A Bergamo gli alpini in dieci giorni hanno fatto un ospedale. Abbiamo visto tanta forza, tanta energia. Il virus qui non ha piegato nessuno. Anche se sono morti nonni, madre, padri. Qui nessuno si è mai permesso di arrendersi. E' commovente. Bisogna aiutare ora chi rischia di rimanere indietro. Non deve rimanere indietro nessuno. Ma non solo a Brescia, nel Paese". Come si parla con i figli di una cosa del genere: "Parlarne con i figli? All'inizio abbiamo tutti sottovalutato la cosa. Forse per paura. Pensavamo che a noi non potesse mai capitare. Ora anche i ragazzi stanno iniziando a capire cosa è successo e cosa sta succedendo. Nessuno era pronto ad affrontare un nemico del genere. I nostri figli all'inizio l'hanno vissuta come noi, sembravano in un film. Ora sono sconvolti come noi. Io e Ambra siamo molto fortunati da questo punto di vista, nostra figlia Iolanda ha sempre avuto un grande impulso per il sociale. Sa che fa parte di una comunità, che è meglio se in quella comunità tutti stiano comunque bene". Sul senso di solidarietà riscoperto: "Uno degli aspetti positivi di questa tragedia immane è questo spirito di unità di Paese, di umanità, che si è ritrovato. Io ho risentito persone, riaperto delle porte, risentito colleghi o amici, senza nessuna motivazione, solo per sapere come stessero certe persone. E aggiungo: ho avuto la fortuna di riuscire a fare un trasloco cinque giorni prima che scoppiasse il disastro. Sono in una casa che non è nemmeno finita, non conosco i vicini, non so niente, è una zona nuova, ma loro, i vicini, senza conoscermi, si sono mostrati subito gentilissimi, hanno iniziato a consegnarmi attività pronte a portare cose a casa. Carne, frutta, acqua. Il fatto è che quando tutti abbiamo un po' paura, è bello sentirsi vicini. Quando tutto sarà finito, non dimentichiamoci dei veri angeli. Medici e infermieri".

Franco Ordine  per il Giornale il 18 marzo 2020. Pensavamo di aver visto tutto nel calcio italiano al tempo del coronavirus (le polemiche su porte chiuse e aperte, allenamenti sì e no, litigi sulle formule per la ripresa del campionato), e invece siamo stati ancora una volta colti in contropiede. Non poteva che essere Massimo Cellino, adesso presidente-padrone del Brescia, a sorprenderci nel bel mezzo di una giornata in cui Uefa e Fifa hanno mostrato quel che mancava da un pezzo: buonsenso e responsabilità. Il club lombardo, geograficamente nel bel mezzo di un drammatico focolaio, ha convocato per oggi alle ore 9, presso il centro sportivo di Torbole Casaglia, collaboratori tecnici, preparatori e osservatori, degli staff di Eugenio Corini e Fabio Grosso, i due tecnici, esonerati nei mesi scorsi, a dispetto del provvedimento di sospensione degli allenamenti della squadra lombarda in scadenza il 28 marzo. La spiegazione ufficiale: programmare la futura attività. Scopertissimo invece lo scopo: poiché questa categoria di lavoratori, della famiglia degli allenatori, non è tutelata dal contratto collettivo, l'eventuale risposta negativa farebbe scattare, sul piano teorico, il mancato pagamento dei rispettivi emolumenti. Renzo Ulivieri, presidente del sindacato di categoria, ha firmato un comunicato di fuoco e invitato i suoi tesserati a non rispondere alla convocazione. Sul punto, poiché si tratta di un contenzioso che invade il terreno minato della salute pubblica e disobbedisce all'obbligo per i cittadini lombardi di restare a casa, è il caso classico per il quale sarebbe cosa buona e giusta l'intervento delle autorità, Prefetto e/o Questore di Brescia più che del calcio italiano, ancora una volta sputtanato per una volgare questione di poche migliaia di euro. L'episodio è, in verità, anche la spia di un altro fenomeno col quale, molto prima del previsto, dovremo fare i conti. E cioè con il collasso economico di gran parte delle società di calcio, anche in serie A che pure è la più ricca del reame, dove finora i club meno abbienti si sono finanziati quasi esclusivamente grazie ai diritti televisivi. La sospensione del torneo e l'incertezza di recuperare la sua conclusione hanno già prodotto danni enormi al sistema. Di certo non sarà con iniziative sciagurate come questa, che il calcio italiano potrà guadagnare il rispetto e la considerazione della politica cui toccherà farsi carico degli aiuti. 

Da sportmediaset.mediaset.it il 18 marzo 2020. L'Assocalciatori contro il Brescia di Cellino. Il numero uno dei lombardi, scrive in una nota l'Aiac, ha convocato per mercoledì mattina alle 9 al campo di allenamento "i collaboratori tecnici,  i preparatori e gli osservatori facenti parte degli staff di Mr. Fabio Grosso e di Mr. Eugenio Corini, già esonerati nel corso della stagione dal rendere le loro prestazioni". Atteggiamento, questo, definito "irresponsabile, illegittimo e strumentale... tenuto conto della gravità della situazione che sta interessando proprio la provincia bresciana in questi giorni". Questo il comunicato completo dell'Associazione Italiana Allenatori Calcio: L’ASSOCIAZIONE ITALIANA ALLENATORI CALCIO vuole oggi denunciare la grave ed irresponsabile condotta posta in atto dalla società Brescia Calcio S.p.A. nei confronti degli allenatori e preparatori atletici in precedenza esonerati. Nonostante emerga dal sito ufficiale del Club la “sospensione di tutte le attività della Prima Squadra fino al giorno 28 marzo compreso”, il Brescia Calcio S.p.A. ha inspiegabilmente richiamato e convocato per domani mattina alle ore 9.00 al campo di allenamento di Torbole Casaglia i collaboratori tecnici, i preparatori e gli osservatori facenti parte degli staff di Mr. Fabio Grosso e di Mr. Eugenio Corini, già esonerati nel corso della stagione dal rendere le loro prestazioni. Tale convocazione appare del tutto illegittima e strumentale, nonché contraria al buon senso, alla correttezza e alla buona fede nell’esecuzione del contratto, tenuto conto della gravità della situazione che sta interessando proprio in questi giorni la provincia bresciana e considerata l’attuale sospensione degli allenamenti della prima squadra, in ferie sino al 28 marzo. La richiesta appare, inoltre, violativa delle disposizioni del DPCM del giorno 11/03/2020, come integrato dalla precedente normativa emergenziale, oltre che della normativa sulla sicurezza nei posti di lavoro ed espone i lavoratori ad inutili e gravi rischi per la salute propria e degli altri. L’AIAC stigmatizza e censura fermamente l’iniziativa del Club ed è accanto ai propri associati, preannunciando fin d’ora l’intenzione di intraprendere ogni iniziativa e denuncia alle autorità sportive e di sicurezza nazionale a fronte di una condotta che andrà valutata anche sotto il profilo dell’eventuale rilevanza penale. Si consiglia ai propri associati di rimanere ciascuno nelle proprie abitazioni finché non lo consentiranno il contesto normativo e le condizioni igienico-sanitarie ivi prescritte. Dopo il duro comunicato dell'Aiac contro il Brescia calcio che avrebbe convocato per domani i collaboratori ancora sotto contratto degli staff di Corini e Grosso, entrambi esonerati insieme ai membri di loro staff, sempre a mezzo comunicato è arrivata la risposta del club di Cellino. Si legge: "Il club tiene a precisare che la convocazione per la giornata di domani, mercoledì 18 marzo 2020, presso il Centro Sportivo di Torbole Casaglia è stata inoltrata ai tecnici di base a contratto, tra cui collaboratori tecnici e preparatori atletici". Tale convocazione non è stata mandata né ai primi né ai secondi allenatori sollevati dal loro incarico nel corso di questa stagione. La ragione della convocazione è data dal fatto che, considerata la situazione sanitaria in corso, già da qualche settimana era stata fatta una valutazione in merito alla possibilità di prevedere una programmazione dell'attività con allenamenti a singolo giocatore o al massimo a gruppi di due giocatori, frazionati nella giornata e distribuiti su tutta la superfice del Centro Sportivo. Nell'ottica di programmare una simile attività e con l'intento di garantire la massima sicurezza dei propri atleti e tesserati, è stato ritenuto opportuno attingere a tutte le risorse possibili, tra il personale sotto contratto con Brescia Calcio". Brescia Calcio precisa infine che "in vista dell'incontro di domani, per tutelare la salute di tutti, garantirà il rispetto di tutte le misure di sicurezza indicate dal Decreto Ministeriale relativo ai comportamenti da tenere sul posto di lavoro".

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it il 23 marzo 2020. «Ma quale ripresa, ma quale stagione da concludere, io penso all’anno prossimo, solo a quello. La coppa, lo scudetto… Lotito lo vuole, se lo prenda. È convinto di avere una squadra imbattibile, lasciamogli questa idea».

Non starai esagerando?

A Massimo Cellino do del tu da sempre. Siamo quasi coetanei, primo incontro nel ‘94, due anni prima aveva acquistato il Cagliari dai fratelli Orrù. Ho la fortuna e talvolta la disgrazia di volergli bene: ne riconosco tanto i pregi (la dolcezza, sì, dolcezza, la competenza, un’intelligenza insolita, il fortissimo senso dell’amicizia, la straordinaria persuasività) quanto i difetti: è spesso arrogante, scostante, pesante nei giudizi, fin troppo diretto, un uomo a parte e di una risolutezza che stordisce. Ricordo ancora quando, appena uscito dal carcere di Cagliari (il 14 maggio del 2011 gli fu revocato dopo due mesi esatti l’arresto cautelare: era stato accusato, insieme al sindaco e all’assessore allo sport di Quartu, di peculato e falso ideologico, caso stadio Is Arenas), mi chiese di salire sul primo aereo per Cagliari perché aveva bisogno di sfogarsi. Lo raggiunsi al centro sportivo di Assemini, smise di parlare alle tre del mattino, il suo mezzogiorno. «Ascoltami bene» eccolo. «Ho avuto la febbre per tre giorni e sono in quarantena da undici. Chiuso in casa a Padenghe sul Garda, sono solo. Mia moglie Francesca è bloccata a Cagliari, ho un figlio a Milano, gli altri fuori. Ho visto e sentito cose che non vi potete neppure immaginare. Da Brescia ricevo continuamente notizie, e sono tutte pazzesche, eppure la città sta affrontando la tragedia con una dignità che imbarazza. Questa gente mi ha strappato il cuore. Ha genitori, parenti, amici, conoscenti che muoiono ogni giorno eppure soffre terribilmente ma in silenzio. Chiede aiuto solo a se stessa. Altri sono i numeri, non quelli ufficiali, altre le dimensioni. Fosse successo da altre parti sarebbe scoppiata la rivoluzione. Ha un solo desiderio, rimettersi al lavoro, ricominciare a vivere. E mi volete parlare di campionato, di scudetto? Non me ne frega un cazzo… Ho paura ad uscire di casa, mi sta venendo la depressione».

Massimo, credimi, ci basta quello che vediamo in tv e leggiamo sui quotidiani.

«C’è molto, molto di più. Non bisogna pensare a quando si ricomincia, ma se si sopravvive. E se parliamo di calcio, tutto deve essere spostato alla prossima stagione. Realismo, signori. Questa è la peste. E poi avete letto o no il comunicato dei tifosi della Lombardia?».

Mi è sfuggito.

«Non vogliono che si riparta. Lo vietano loro, non la federazione. Prima la vita. La vita, cazzo. Ci sono ultrà che portano l’ossigeno agli ospedali, altri che piangono i loro morti, altri ancora intubati. Non si può più giocare quest’anno. Si pensi al prossimo. Qualcuno non si rende ancora conto di quello che sta accadendo, e quel qualcuno è peggio spedel virus. Io non credo ai miracoli, ho smesso di farlo tanto tempo fa. Resettiamo. Quante partite si sono giocate?».

Ventisei.

«La stagione è andata, se qualcuno vuole questo scudetto maledetto se lo prenda pure. Chiuso. Finito. E non parlo così perché il Brescia è ultimo in classifica. Siamo ultimi perché ce lo meritiamo. Io per primo lo merito. Facciano quello che vogliono. Penso a quelli che perderanno il posto di lavoro, a quelli che stanno morendo… Il calcio è un’azienda che occupa tante persone ma è anche in grado di superare la crisi. Semplicissimo: si è bruciato un terzo del campionato, e allora si taglino un terzo dello stipendio ai calciatori, un terzo dei diritti televisivi e un terzo delle tasse. È il modo più facile per aggiustare le cose. La testa delle istituzioni, federazione e lega, deve proiettarsi a settembre, a ottobre, a quando sarà. Ho letto con attenzione quello che ha detto Galliani al tuo giornale e sottoscrivo tutto, Adriano è il migliore, il più lucido. Ma temo che non ci sia più il tempo per contrastare il dissesto in modo strutturato».

Da gianlucadimarzio.com il 23 marzo 2020. (…) Avete letto il comunicato dei tifosi della Lombardia? Non vogliono che si riparta. Lo vietano loro, non la federazione. Prima la vita. La vita, cazzo. Ci sono ultrà che portano l’ossigeno agli ospedali, altri che piangono i loro morti, altri ancora intubati. Non si può più giocare quest’anno. Si pensi al prossimo. Qualcuno non si rende ancora conto di quello che sta accadendo, e quel qualcuno è peggio del virus. Io non credo ai miracoli, ho smesso di farlo tanto tempo fa". Poi Cellino spiega che il suo discorso è oggettivo e non c'entra nulla con la posizione in classifica del suo Brescia: "La stagione è andata, se qualcuno vuole questo scudetto maledetto se lo prenda pure. Chiuso. Finito. E non parlo così perché il Brescia è ultimo in classifica. Siamo ultimi perché ce lo meritiamo. Io per primo lo merito. Facciano quello che vogliono. Penso a quelli che perderanno il posto di lavoro, a quelli che stanno morendo. Il calcio è un’azienda che occupa tante persone ma è anche in grado di superare la crisi. Semplicissimo: si è bruciato un terzo del campionato, e allora si taglino un terzo dello stipendio ai calciatori, un terzo dei diritti televisivi e un terzo delle tasse. È il modo più facile per aggiustare le cose".

Lo scontro con l'AssoAllenatori. Poi una specificazione sul caso che ha visto l'AssoAllenatori contro il Brescia e alle cui accuse aveva risposto la società con un comunicato: "La verità è un’altra. Dopo l’ultima partita stavamo pensando di proseguire gli allenamenti a gruppi di due, tre giocatori per volta. Una decina di mini-sedute al giorno. Abbiamo un centro sportivo enorme, quindici ettari di prato, e per sviluppare il programma, una sgambata, due calci al pallone, avevamo bisogno di preparatori, non di allenatori. Quelli che abbiamo chiamato non sono tecnici, ma preparatori di base. Mi chiedo per quale motivo si sia mossa l’Associazione allenatori. Non mi metto a parlare. Ulivieri mi conosce bene, certe cose doveva dirmele in faccia. Comunicati, attacchi generici e strumentali, c’è chi mi ha dato del vigliacco. Noi avevamo telefonato a cinque preparatori e nessuno si è mai degnato di rispondere. Per questo siamo ricorsi alle convocazioni scritte, e quando non ci pensavo già più disgraziatamente le cose sono peggiorate ed è scoppiato il casino. Sono tutte persone a libro paga, professionisti. Due si sono presentati, gli altri no. Cercavo solo la loro collaborazione, visto che ne pago un vagone. Ho Lopez, l’allenatore, chiuso in casa da giorni, una casa che è poco più grande di una vasca da bagno. Il preparatore dei portieri che era con Corini, ed è rimasto con noi, si è permesso di ricorrere all’associazione allenatori per sottrarsi al lavoro. Un mese fa".

Brescia prima in Italia per nuovi casi quelli reali sarebbero oltre 15mila. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Pietro Gorlani e Matteo Trebeschi. Brescia conquista un triste record. È la prima provincia al mondo per nuovi casi di coronavirus: 382 solo il 17 marzo, una cinquantina in più che a Bergamo, che resta la provincia più colpita dall’epidemia. Cresce in modo impressionante anche uil numero dei morti: 68 in un solo giorno e la triste conta dal 24 febbraio ad oggi arriva così a 387 con una crescita galoppante. L’aggressività del coronavirus è lì da vedere. In realtà i numeri veri dell’epidemia potrebbero essere molto più alti, soprattutto se si tiene conto dello studio pubblicato sulla rivista Science, dove il rapporto tra positivi ufficiali e contagiati sul territorio è di uno a cinque. Quindi anche nel bresciano i positivi sarebbero molti più dei tremila ufficiali: gli altri potrebbero essere casi più lievi, che non necessitano di un ricovero ma ugualmente contagiosi. Senza dimenticare anziani e cronici che si aggravano nella loro abitazione. «La situazione è drammatica, non sappiamo dove portare i pazienti, gli ospedali stanno facendo di tutto ma oltre un certo numero non possono assistere. Ci sono file di ore davanti al pronto soccorso» dice Luca Cavallera, responsabile sanitario Gruppo volontari del Garda. «Lasciamo la gente a casa, la portiamo in ospedale solo se in situazione disperata. Non possiamo portare tutti in ospedale. Brescia è a limite e le cosa stanno peggiorando, non migliorando. La gente va ancora in giro, c’è chi scambia questo tempo libero come un periodo di vacanza. È preoccupante».

La carenza di strutture. La Regione ha deciso di non realizzare un ospedale da campo alla Fiera — mentre a Bergamo l’associazione nazionale alpini ne creerà uno da 300 posti in meno di una settimana — ma cresce in modo spasmodico il bisogno di nuovi posti letto. È una corsa contro il tempo per installare nuove postazioni di terapia intensiva agli Spedali Civili di Brescia e in Poliambulanza. Cresce anche il bisogno di strutture dove ricoverare i pazienti meno gravi o convalescenti. Sono una ventina gli edifici disponibili tra città e provincia ma manca un registro e un database in rete che indichi le disponibilità. Gli ospedali della nostra provincia sono al momento già pieni di malati Covid. Basta vedere l’andamento dei contagi negli ultimi giorni per capirne il motivo: 286 nuovi positivi sabato, più 442 domenica, altri 345 lunedì e, infine, 348 ieri (dati Ats di metà pomeriggio). I contagi crescono anche nel capoluogo: dai 39 nuovi casi di sabato ai 67 di ieri. In città si contano ormai 535 persone che hanno contratto il coronavirus: 62 di queste sono morte. Significa che ogni 8,6 contagiati uno è deceduto. Questo rapporto sale se si prende in considerazione un paese simbolo come Orzinuovi: qui, ogni cinque contagiati (139 in totale) si conta un decesso. Ma la crescita dei positivi preoccupa anche altri paesi della provincia, come ad esempio Montichiari (+7), Ospitaletto (+8), Pontevico (+6), Roncadelle e Rovato (+5), ma anche Gussago (+9) che ha raggiunto ormai quota 52 casi. Anche a Palazzolo i contagi non si fermano (+6), quasi a dimostrare che la Franciacorta è tra le aree più esposte, per la vicinanza alla Bergamasca. Tutti i presidi si sono organizzati per ricavare posti di terapia intensiva e, in parallelo, trasformare letti di Medicina e altre corsie in reparti Covid. L’ospedale di Esine conta oggi su 125 posti per i pazienti positivi al coronavirus, mentre tra Manerbio, Desenzano e Gavardo la riorganizzazione interna ha permesso di raddoppiare i posti di rianimazione (da 16 a 30). Dato che le persone positive in quarantena sono migliaia, l’Asst del Garda ha messo a punto un servizio di Consulenza psicologica telefonica (per prenotarsi, si può scrivere via WhatsApp al 380/6913898, chiamare lo 030/9116214 o mandare una mail ad aiutopsicologico@asst-garda.it).La Regione ha deciso di non realizzare un ospedale da campo alla Fiera — mentre a Bergamo l’associazione nazionale alpini ne creerà uno da 300 posti in meno di una settimana — ma cresce in modo spasmodico il bisogno di nuovi posti letto. È una corsa contro il tempo per installare nuove postazioni di terapia intensiva agli Spedali Civili di Brescia e in Poliambulanza. Cresce anche il bisogno di strutture dove ricoverare i pazienti meno gravi o convalescenti. Sono una ventina gli edifici disponibili tra città e provincia ma manca un registro e un database in rete che indichi le disponibilità. Gli ospedali della nostra provincia sono al momento già pieni di malati Covid. Basta vedere l’andamento dei contagi negli ultimi giorni per capirne il motivo: 286 nuovi positivi sabato, più 442 domenica, altri 345 lunedì e, infine, 348 ieri (dati Ats di metà pomeriggio). Intanto nelle case di riposo e nelle strutture per disabili prosegue la strage delle persone più fragili. Nella Rsa di Quinzano d’Oglio i decessi negli ultimi giorni sono arrivati a 18. In quella di Calcinato se ne contano 9, sette in quella di Barbariga. È morto anche un secondo disabile ospite del centro diurno Il Gabbiano di Pontevico, dove il 23 febbraio si è trovato un educatore positivo al Covid 19. Da lì ad oggi è un crescendo senza fine di lutti.

Coronavirus, a Brescia il boom dei contagi: 465 morti. «Chi non ha un amico malato non può capire cosa succede». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Mara Rodella. C’è chi ancora apre il retro della sua trattoria e ci organizza cene con gli amici e karaoke. O gruppi di ragazzini che si ubriacano al parco. Succede a Brescia, dove i numeri dell’emergenza coronavirus sono davvero impietosi. E dove, adesso, l’epidemia cresce più che a Bergamo. Lo conferma l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera: siamo a 3.785 positivi (e 465 decessi, il 15% del totale nazionale), più 484 in un giorno. La città resta la più colpita, con 607 casi e 78 morti, mentre Orzinuovi, nella Bassa, si conferma il paese con il maggior numero di positivi: sono 148, oltre a 28 vittime. La progressione dei lutti è impressionante: si è passati dai tre decessi del 1 marzo ai 465 di ieri. Un balzo del 15333%. Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, la situazione la riassume così: «Questi giorni sono il nostro 11 settembre», dice annunciando una serie di misure adottate in giunta, come la sospensione delle rette di asili nido e materne, lo spostamento dei termini di pagamento e un fondo con i primi 500 mila euro per i cittadini in difficoltà. «Perché per gli americani quella data rappresenta il crollo delle certezze, il dolore di una comunità intera, una botta psicologica dalle ripercussioni attuali», dice. «E chi non ha conosciuto un parente o un amico malato non può capire. Viviamo un’emergenza di proporzioni enormi, che cambierà il nostro modo di essere». Lui continua a ribadirlo: «Bisogna stringere di più le maglie, differenziare i provvedimenti a seconda delle zone e delle situazioni, anche in Lombardia. Non è possibile ci siano ancora tante attività produttive aperte». La voce di Emilio Del Bono tradisce la preoccupazione. Lui, per il quale oggi, fare il sindaco significa nonostante tutto «essere baluardi forti, in grado di dare prospettive di speranza: più saremo rigorosi e prima ne usciremo, insieme». Gli fa eco Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera: «Brescia, la mia città, è in grande difficoltà. So quanto lavorano i sanitari, eroi che non smetteremo mai di ringraziare. Ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte e restare a casa». Eppure fuori dal pronto soccorso la gente si mette in fila e aspetta. Michela Bezzi, pneumologa, coordina un’unità Covid ed è nella task force di un ospedale hub (rivoluzionato) come il Civile: «Le caratteristiche della malattia all’inizio hanno portato in prima linea gli infettivologi, poi, per i casi più gravi, i rianimatori e noi pneumologi. Ora siamo tutti in trincea, in una situazione che sta evolvendo ogni giorno e che prevediamo raggiunga il clou attorno al 26 marzo». Per fortuna aumentano anche le dimissioni. E di difficoltà, pesanti, ne vive pure il sistema economico: il Cerved stima perdite da 25 miliardi per le imprese locali sul biennio. Dati che vanno di pari passo con la richiesta all’Ue del presidente Aib, Giuseppe Pasini, affinché sia riconosciuta la «prova della causa di forza maggiore» sui contratti di fornitura che le aziende non riusciranno a evadere a causa della chiusura degli stabilimenti.

Chiara Baldi per “la Stampa” il 5 aprile 2020. «Non sono soddisfatto né per l' azione del governo né per quella di Regione Lombardia. Il nostro territorio è stato sottoposto a un enorme stress: sono mancati i medici, gli infermieri, i posti letto, i posti nelle terapie intensive. E anche i medici di famiglia non sono stati adeguatamente accompagnati nella gestione dei probabili pazienti Covid19. C' è stata una grandissima debolezza di risposta». Al 43esimo giorno di pandemia il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, fa un primo bilancio. I numeri sono impietosi: 9180 contagiati in tutta la provincia e 3854 morti - secondo i dati non ufficiali - solo a marzo. Sono stati giorni di polemiche tra i sindaci e il presidente di Regione Attilio Fontana, «con cui abbiamo fatto fatica a capirci», ma Del Bono avverte: «Non mi interessa alzare polveroni, voglio entrare nel merito delle questioni».

Com'è stato il coordinamento tra governo, Regione e sindaci?

«Molto faticoso. Soprattutto noi delle province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, quelle più colpite, abbiamo fatto molta fatica a capire se esistesse una cabina di regia unica. Non solo la Regione ma anche la Protezione civile è apparsa in affanno per cui noi abbiamo avuto una oggettiva difficoltà ad avere un' unica filiera».

Cosa è stato complicato per lei?

«Non posso certo dire di aver avuto una fotografia puntuale di quello che accadeva dal punto di vista sanitario. È vero, ho parlato spesso con il direttore degli Spedali Civili, che mi teneva informato sull'andamento della situazione, ma carte o documenti non ne ho mai avuti. Ho sempre avuto informazioni grazie a canali informali con i direttori degli ospedali. Ma in tutta la provincia molti sindaci sono stati tenuti all'oscuro e nessuno li ha interpellati».

Quali informazioni le sono mancate?

«Non ho mai saputo quanti fossero i ricoverati bresciani negli ospedali cittadini. In Prefettura c' è un coordinamento dell' emergenza, di cui faccio parte, a cui ogni giorno vengono forniti dei dati: il numero di positivi, i decessi e, per ogni comune della provincia, anche quello di chi è in sorveglianza sanitaria a casa. Ma il numero di ricoverati, di quelli in terapia intensiva e dei dimessi suddivisi per comune non li abbiamo mai avuti. Li abbiamo chiesti, ma ci hanno sempre detto che era complicato averli. Però la Regione li ha».

Qualche giorno fa ha chiesto più medici su Brescia. Ne servono ancora?

«Sì. La scorsa settimana grazie al bando della Protezione civile sono arrivati 14 medici in Lombardia e qualche giorno fa altri 19. Vorrei sapere quanti di questi sono stati mandati a Brescia dalla Regione perché io non lo so».

Crede che i sindaci debbano avere più poteri nella sanità?

«Credo che dovremmo avere più peso negli indirizzi, più che nella gestione. Dovremmo avere una reale espressione di voto sui piani di investimento, sui piani di presidio territoriale. E non una mera funzione consultiva come oggi».

Wanda Marra per "il Fatto quotidiano” il 17 marzo 2020. "I dati non sono buoni, neanche questa volta". Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono (Pd) risponde al telefono mentre nella sua città e nella sua provincia, i nuovi contagiati sono più di quelli di Bergamo (2918, con un aumento di 445 in un solo giorno, contro 3760, ovvero 344 più di domenica). Il bollettino quotidiano fa registrare 40 morti in più in un unico giorno (di cui quattro in città). In tutto sono 267. "Non si attenua il numero dell' espansione del contagio, né quello dei ricoverati e delle terapie intensive. Dovremmo avere il picco questa settimana", dice, con il tono calmo di chi si sforza di controllare la tensione. "Non sappiamo più dove mettere le bare: le portiamo nella chiesa di San Michele, al centro del cimitero".

Sindaco, perché Brescia è in questa situazione? Bisognava fare prima la zona rossa?

«Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito. Qui è arrivato da Lodi, da Cremona. Come a Bergamo. Si tratta di una zona molto industriale, molto commerciale, dove la gente si sposta rapidamente. Noi, come dodici sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali. Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato».

È il governo che è stato troppo timido o la Lombardia?

«Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito».

Le mascherine sono introvabili, anche per le farmacie.

«Un gigante industriale come la Lombardia si è dimostrata fragilissima nella produzione di beni come le mascherine e i respiratori. Questo ci fa riflettere sul fatto che in alcune cose dipendiamo troppo dall' estero. Alcune filiere dovrebbero essere protette e attivabili rapidamente. Abbiamo perso settimane preziose. Mancano non solo ai farmacisti, ma anche a chi fa assistenza a domicilio, agli agenti di polizia, agli autisti dell' autobus. Sono state direzionate verso gli ospedali e le strutture sanitarie».

E la sanità privata?

«A Brescia le strutture sanitarie convenzionate Rsa sono entrate nel circuito coronavirus. Gli ospedali, pubblici e privati, sono tutti sotto stress. Non è solo questo il tema».

Cioè?

«Le terapie intensive, ma anche i ricoveri, devono essere almeno regionali, non solo territoriali. E serve un aiuto dai medici militari».

La Difesa sta mettendo a disposizione del personale?

«Non ho avuto nessuna interlocuzione. Ripeto: non ci sono più medici, anche quelli di famiglia si stanno ammalando tutti. L' Ordine dei medici ha chiesto a quelli in pensione di rientrare. In 70 hanno risposto di sì, a titolo gratuito. Ne abbiamo anche chiesti all' estero».

E il progetto di fare un ospedale nella Fiera?

«Congelato: manca il personale».

Come sindaco ha preso qualche misura in più?

«Ho chiuso i parchi giorni e giorni fa, e anche i mercati. Oggi (ieri, ndr) ho chiuso i cimiteri al pubblico: si può entrare solo per la tumulazione e i servizi previsti. La gente risponde: c' è paura, molti hanno amici e parenti che stanno vivendo questo dramma. E il virus colpisce al 30% la fascia d' età sotto i 65».

Il tessuto sociale regge?

«Ci sono tanti volontari anche lettighieri sulle ambulanze, tanti casi di assistenza a domicilio, tanti servizi agli anziani. Una grande risposta della comunità».

Giusto chiamare Bertolaso?

«Siamo disincantati: va bene chiunque riesca a dare una mano. D' altra parte, c' è stata una lentezza, non solo nelle misure, ma anche nella riorganizzazione delle strutture sanitarie: non avevamo così tanti posti in rianimazione e terapia intensiva. Fare polemica è puerile e pure fasullo. Siamo stati tutti fragili in questa vicenda. Anche noi quando dicevamo - all' interno delle regole - "Brescia non si ferma"».

Sarebbe utile fare il tampone anche agli asintomatici?

«È tecnicamente impossibile».

Alessandro Bocci per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Sino a venti giorni fa Cesare Prandelli ha fatto il pendolare tra Firenze e Orzinuovi, tra la città in cui ha scelto di vivere e il paese nella Bassa bresciana dove è nato e dove abitano sua madre, le sue sorelle, zii e cugini. Ora che il virus maledetto ha cambiato le nostre abitudini anche l' ex c.t. della Nazionale si è adeguato: «Ci parliamo attraverso le videochat su WhatsApp. Un' idea di mio cognato per sentire meno la lontananza, in un momento in cui bisogna stare in casa». Per Prandelli, allenatore in cerca di un progetto che completi la sua carriera, questi giorni sono stati particolarmente duri perché Orzinuovi ha registrato un numero di contagi impressionante: «All' inizio sembrava un bollettino di guerra. Una situazione difficile da accettare».

Come sta vivendo la clausura forzata?

«Sono preoccupato per i miei figli, per le persone a cui voglio bene, per la mia piccola comunità. Ho tanti pensieri in testa...».

E dove la portano?               

«Credo che quando l' emergenza ci darà tregua dovremo ricominciare in maniera diversa e ridisegnare la nostra vita. La mia generazione non ha mai vissuto momenti così drammatici. Dopo Chernobyl ci dicevano di stare in casa, ma era durato solo pochi giorni. Ora è differente».

E cosa comporterà?

«Quando siamo scossi da un evento traumatico ci promettiamo di cambiare, salvo tornare subito nel solito frullatore. Adesso dovremo vivere due o tre mesi quasi isolati, recuperando valori che prima erano travolti dai ritmi frenetici della nostra vita».

L' esperienza ci cambierà?

«Cambierà le nostre priorità. Troveremo il tempo per le piccole cose. Serve fare un passo indietro. Magari apprezzeremo un bell' aperitivo con gli amici che ora diamo per scontato».

Intanto resta la preoccupazione per Orzinuovi.

«Ho perso due amici carissimi, tifosi della Fiorentina, uno di 80 anni e l' altro di 64. È terribile sapere che la gente muore da sola in ospedale, senza il conforto di un familiare, senza una carezza. E che non possiamo onorarla con un funerale».

Si è spiegato come mai il coronavirus ha preso di mira Orzinuovi?

«Ci sono molte teorie e qualche leggenda. Forse si è sviluppato al bocciodromo o al mercato del fieno, di sicuro c' erano persone di Lodi che inconsapevolmente possono aver iniziato il contagio». 

Gli italiani nelle difficoltà riescono a fare squadra.

«Fatichiamo ad accettare le regole, ma quando siamo responsabilizzati diamo il meglio, andando oltre le solite liti politiche. Spero che possiamo essere un esempio per gli altri Paesi della Comunità europea».

Medici e infermieri sono i nuovi eroi.

«Sorrido di fronte a chi dice che facciamo dei sacrifici a stare in casa. I sacrifici li fa chi lavora 24 ore al giorno per salvare delle vite».

E il calcio, come al solito, ha fatto una figuraccia fermandosi in ritardo.

«Non era una decisione facile da prendere. Forse qualcuno ha pensato di poter gestire una situazione diventata ingestibile».

Paolo Cittadini e Michele Sasso per “la Stampa” il 13 marzo 2020. La nuova frontiera lombarda del coronavirus è adesso tra i paesi della Bassa Bresciana. Tra allevamenti e fabbriche, si sono registrati nuovi focolai di infezione in 150 comuni su 205 della Provincia. Ed ora il rischio concreto è mandare in tilt la macchina sanitaria della zona: ieri si è arrivati a quota 1598, una impennata di 247 nuovi contagiati in appena 24 ore. Per capire questo exploit occorre partire da un dato: il 5 marzo i positivi al Covid-19 erano appena 155. Cosa è successo da allora? «Se uno va a cercarli li trova i contagi», esordisce Camillo Rossi, capo dell' unità di crisi degli Spedali Civili di Brescia: «Dal 1 marzo abbiamo fatto 2.073 tamponi perché è aumentato l' afflusso ed ora abbiamo 500 ricoverati». Nel più grande ospedale del capoluogo i posti di terapia intensiva sono stati raddoppiati ma ancora non bastano. «Ci troviamo in una fase acuta - continua Rossi - e ieri abbiamo avuto 34 decessi ma se guardiamo i dati c' è stato lo stesso naturale aumento osservato prima nel Lodigiano e poi nel Cremonese. Sono le stesse proporzioni ma noi abbiamo più residenti». Brescia è una provincia popolosa e industriosa, con la terza Camera di Commercio per importanza dopo Milano e Torino. E qui nei primi giorni della zona rossa off limits della vicina Codogno, nessuno ha pensato di fermarsi. «I contagi sono partiti dai comuni più vicini al Lodigiano, che dista pochi chilometri, e si sono diffusi con tanta forza perché non c' è stato nessun contenimento», sottolinea il prefetto Attilio Visconti, anche lui positivo ai controlli e in quarantena a casa. Il primo focolaio sembra partito dal mercato del bestiame e del fieno di Orzinuovi, paese sul fiume Oglio al confine con la vicina Cremona, dove ogni venerdì si tiene una fiera molto frequentata da commercianti e allevatori di Lodi e di Crema. Due bar, il "Bocciodromo"e il "Bar Milano2", sembrano essere stati il luogo di contatto di tutti i cinque orceani - questo il nome degli abitanti di Orzinuovi - deceduti per primi. «Venivano qui a giocare a carte e a fare due chiacchiere, ed è possibile che proprio in questi due locali si siano scambiati il virus», ha spiegato il sindaco Giampietro Maffoni. Oggi è il comune più colpito con quasi cento positivi e 15 decessi. E, dalla Bassa, il virus si è allargato borgo dopo borgo fino alla Alta Valcamonica dove anche le piste da sci sono chiuse. I numeri registrano un continuo aumento dei casi ovunque: a Lonato i cittadini positivi al virus sono 13, a Calcinato 15, altrettanti a Cazzago San Martino. Montichiari, verso il confine con Mantova, è un altro dei paesi più colpiti con una quarantina di positivi e 5 decessi. La crescita dei casi va ad aggravare la situazione al limite del collasso degli ospedali del capoluogo dove i posti scarseggiano e quindi si sta pensando a un ospedale da campo. Nel frattempo anche la Diocesi cerca di dare il proprio contributo e ha messo a disposizione 44 camere del centro diocesano Paolo VI. Le stanze ospiteranno i pazienti dimessi dagli ospedali, ma che non possono affrontare la successiva fase di guarigione in casa. E con l' emergenza sanitaria è arrivato anche il rischio di chiusura per decine di aziende: dalla fabbrica di armi Beretta all' Alfa Acciai, grandi e piccole produzioni hanno fermato tutto utilizzando permessi e ferie per fare stare a casa i propri dipendenti. Troppo difficile al momento garantire le misure di sicurezza imposte dal decreto del Governo e fornire agli operai tutti i dispositivi di sicurezza. Dove hanno deciso di tenere aperto, ieri si sono registrati scioperi spontanei.

Coronavirus, Brescia seconda in Italia per numeri: si aspetta l’esercito. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Pietro Gorlani. I nuovi casi di positività al virus crescono in media di 250 al giorno. In meno di dieci giorni si sfiorano i 200 decessi. Le persone in quarantena sono quasi 4mila. Gli ospedali scoppiano e si attende l’allestimento delle tende della Protezione Civile dentro la Fiera, proprio come a Milano. Nel frattempo quasi metà delle fabbriche hanno chiuso volontariamente (compresa Beretta ed i colossi del settore siderurgico), andando oltre i divieti imposti dal governo. E si registrano scioperi nelle imprese che hanno deciso di tenere aperto. È un vero e proprio clima da conflitto bellico quello che si respira a Brescia, seconda provincia in Italia per numero di contagi, dietro Bergamo. Province notoriamente «divise» da idiosincrasie calcistiche ma mai così unite nel dramma della pandemia. Anche l’obitorio degli spedali civili è ormai stracolmo. Il forno crematorio cittadino non sostiene l’arrivo dei nuovi feretri. I deceduti vengono seppelliti senza l’ultimo saluto dei loro cari. Sono passati venti giorni dalla scoperta del paziente «1», un educatore 51enne di una centro disabili a Pontevico che aveva avuto contatti con la zona rossa del Lodigiano. L’uomo ha avuto problemi di salute, è finito in quarantena così come i 35 ragazzi che abbracciava quotidianamente. Ora sta meglio. Ma qualche ragazzo ha avuto febbre alta e tosse. Ed il 12 marzo a Manerbio è morto Stefano: aveva solo 38 anni. È il paziente più giovane d’Italia ad uscire sconfitto dalla battaglia contro il coronavirus. Forse l’istituzione di una «zona rossa» in paese avrebbe potuto arginare il diffondersi dell’epidemia. Vero è che i contagi avevano iniziato ad espandersi in modo rapido anche in un altro paesone della Bassa, Orzinuovi. Tre settimane fa un commerciante di fieno del Lodigiano dopo il mercato del venerdì ha giocato a carte nel bar del bocciodromo. E le conseguenze sono state devastanti: in una cittadina di 13mila abitanti i contagiati sono oltre 120, i morti ormai una ventina. Disegnare l’intera geografia dei contagi è opera impossibile. A Leno ad esempio, due anziani positivi al virus tre settimane fa hanno frequentato una balera di Manerbio dove c’erano anche persone del Lodigiano. Un contagiato di Longhena ha contratto il virus ad Alassio, nello stesso albergo dove c’era una turista poi deceduta. La bassa bresciana dista una manciata di chilometri da Lodi e Cremona, gli scambi commerciali — soprattutto nel settore primario — sono frequentissimi. Angelo Menoni, guarito dal Covid 19 (Ansa)Tardivamente ma si deve correre ai ripari: «Non resta che bloccare interamente tutta la città e la provincia per due settimane» dicono il sindaco di Brescia Emilio Del Bono e tantissimi altri primi cittadini che nei giorni scorsi hanno dimostrato un «eccesso» di zelo emettendo ordinanze con le quali hanno chiuso mercati o hanno vietato il gioco delle carte nei bar, anticipando di diversi giorni gli ultimi provvedimenti del governo, decisi mercoledì. La pandemia ormai si è estesa a quasi tutti i 205 comuni della provincia: sono una trentina quelli ancora senza contagi. Ma è questione di giorni. Certo, cresce anche il numero dei dimessi: sono 243 i sopravvissuti al coronavirus. Ma quanto difficile sia questa battaglia lo ha raccontato al Corriere, Angelo Menoni, un 69enne di Montirone: «giorni in un letto d’ospedale attaccato all’ossigeno. Non sai più se è giorno o notte. Avevo sempre sete». Per affrontare la crescita dei pazienti le autorità sanitarie hanno fatto uno sforzo sovraumano. Sono stati ricavati posti letto anche nelle cliniche private e nelle case di riposo. Ma non basta. «Le previsioni dicono che il picco epidemico si estenderà anche alla prossima settimana» dice Marco Trivelli, direttore generale dell’Asst Spedali Civili. Per questo si è deciso di allestire un ospedale da campo nella Fiera di Brescia: «duecento posti per i pazienti paucisintomatici, con sintomi lievi — spiega Donatella Albini, responsabile delle questioni sanitarie per il comune di Brescia — per liberare letti negli ospedali. Ma non ci sono medici ed infermieri per gestire questa struttura, per questo chiediamo che ci venga in aiuto l’esercito con i suoi medici militari e la Croce Rossa».

Gian Micalessin per “il Giornale”. L'assedio del contagio non si allenta. Dopo aver messo in ginocchio la bergamasca spazzando la città e seminando morte dalla Bassa alle Valli Covid-19 punta al cuore di Brescia e della sua provincia. Come faceva notare nel consueto resoconto serale l' assessore regionale alla sanità lombarda Giulio Gallera, Brescia ieri ha strappato a Bergamo il poco invidiabile primato di provincia con il maggior numero di nuovi contagi registrando una crescita di 433 unità in sole 24 ore. Il numero totale dei contagiati bresciani sale così a 2748 avvicinandosi ai tragici dati di Bergamo che con i 3760 positivi segnalati ieri resta la zona più flagellata d' Italia e dove ieri hanno preso servizio 27 medici e 4 infermieri militari. Brescia, anche in virtù del suo milione e 250mila abitanti fra città e provincia ha, purtroppo, tutte le ragioni di temere una crescita esponenziale capace di avvicinarla progressivamente ai numeri della bergamasca. «I dati - sottolinea Gallera - sono un po' scomposti, alcuni crescono molto, altri meno». A Brescia - di pari passo con i contagi - cresce inevitabilmente anche il computo dei morti aumentato tra domenica e oggi di altre 40 unità toccando quota 315 su tutto il territorio provinciale, con una media di un morto ogni 32 minuti. Particolarmente drammatica nel bresciano la situazione della casa di riposo di Barbariga dove sette ospiti sono già deceduti a causa del virus mentre altri otto risultano positivi. Nel frattempo il totale dei decessi in tutta la Lombardia è arrivato a quota 1420. Il che significa 202 morti in più, ma anche una leggera flessione rispetto ai 252 di domenica. La matematica e la geometria del contagio non aiutano, però, a fare previsioni. Resta aperta, infatti, la grande incognita di Milano. Facendo gli scongiuri la metropoli registra fin qui un numero di casi e di morti contenuto in percentuale. I suoi 1750 casi di Coronavirus la posizionano al quarto posto dopo Bergamo, Brescia e Cremona. Come sottolineano i sanitari uno dei misteri di questa epidemia è la dinamica che l'ha portata prima ad aggredire due piccoli centri come Lodi e Cremona per poi avanzare nell' alta e bassa bergamasca, aggredire il suo capoluogo ed espandersi infine nel bresciano. Permane quindi il timore di una devastante penetrazione nel milanese capace di saturare definitivamente non solo gli ospedali lombardi, ma anche quelli delle regioni contigue. Già adesso i livelli di guardia risultano ampiamente superati. I pazienti accolti fuori dalle terapie intensive sono 6171 con un incremento di 621 in più rispetto ai 5550 di domenica. Per comprendere le difficoltà basti pensare che l' ospedale di Bergamo, la struttura regionale più moderna e capiente, ha dovuto dotarsi di un evaporatore mobile e di un' autocisterna-serbatoio da 30.000 litri di ossigeno liquido per garantire la ventilazione dei pazienti. Unico elemento positivo in un bilancio da vera guerra è quello dei dimessi. Ieri hanno raggiunto quota 2368, con un aumento di 357 in 24 ore.

MILANO.

Milano chiude il forno crematorio di Lambrate: "Troppe vittime". Gli incrementi dei decessi hanno determinato la chiusura forzata dell'impianto: "Non abbiamo mai visto una cosa del genere". Luca Sablone, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Fino a giovedì 30 aprile sarà chiuso il polo crematorio di Lambrate: questa la decisione presa dal Comune di Milano, la cui ordinanza recepisce le indicazioni del Ministero della Salute legate all'emergenza Coronavirus per quanto riguarda il settore funebre, cimiteriale e di cremazione. Una scelta davvero drammatica, forzata dall'incremento del numero dei decessi: nel trimestre gennaio-marzo i deceduti milanesi sono stati 4.459 nel 2020, 3.888 nel 2019 e 3.929 nel 2018; solamente nel mese di marzo sono stati 2.155, mentre erano stati 1.224 nel 2019 e 1.206 nel 2018. La nuova disposizione supera la precedente ordinanza: l'interruzione è stata estesa anche ai residenti "a causa dell'aumento costante e progressivo dei defunti in attesa di cremazione che, attualmente, si attesta intorno ai 20 giorni ma che, in caso di superamento di questa soglia, potrebbe causare criticità di carattere igienico-sanitario". Palazzo Marino ha fatto sapere che, al fine di agevolare le famiglie, sarà possibile inumare i propri cari "senza costi o procedere alla loro tumulazione in colombaro con il solo pagamento delle tariffe di concessione del manufatto". Ai familiari di coloro che hanno perso la vita in ospedale o nelle strutture socio-assistenziali è stato comunicato che si dovrà "dare disposizioni per la salma entro tre giorni dalla data del decesso, in caso contrario l'Amministrazione procederà d'ufficio all'inumazione".

"Mai vista una cosa così". Roberta Cocco ha confermato che i dati dimostrano l'aumento dei decessi anche per la città di Milano: "I mesi di gennaio e febbraio e la prima metà di marzo sono in linea con gli anni precedenti ma, a partire dalla seconda metà di marzo, abbiamo osservato un incremento notevole, anche a causa dei decessi più che raddoppiati tra gli ospiti delle Rsa cittadine e nelle abitazioni private". L'assessore ai Servizi Civici ha spiegato che la chiusura dell'impianto di Lambrate è stato forzato poiché gli incrementi "hanno saturato la capacità del crematorio". Ai dipendenti del settore fenubri e cimiteriali è andato il ringraziamento dell'Amministrazione per il "lavoro senza sosta" che stanno svolgendo "con un altissimo senso di responsabilità per garantire lo svolgimento di tutte le attività necessarie". Riccardo Ganzleri, titolare di un'impresa del settore, ha raccontato che questa situazione "ha un impatto devastante sui congiunti". L'alternativa all'inumazione è la ricerca di un altro impianto: "Trecate, che è già saturo per gli arrivi da Bergamo, nonostante abbiano aggiunto due capannoni, Mantova, Albosaggia, in provincia di Sondrio Domodossola, Brà e così finché non si trova un posto". Come riportato da Avvenire, un altro titolare ha spiegato che nel corridoio del Centro Girola "c'erano cinque persone decedute, per le quali si prospettavano tempi di una settimana". E in tutto ciò ci sono nipoti "che stanno impazzendo per far portare via la loro nonna". Nicola Gammone, un altro collega, ha ammesso: "Noi ne vediamo tante, ma una cosa così mai l'avevamo vista".

"Malati in crisi d'ossigeno: dopo pochi passi ansimano come se corressero". Un infermiere dell'ospedale Sacco di Milano racconta l'emergenza sanitaria: "Ora arrivano anche giovani sotto i 30 anni con polmoniti". Rosa Scognamiglio, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. "Entrano in pronto soccorso con l'ossigeno a 90, basso da far spavento. Hanno fatto quattro passi ma ansimano come se avessero corso". Inizia così il racconto choc di un infermiere dell'ospedale Sacco di Milano, polo sanitario di riferimento nazionale per le malattie infettive adibito, ad oggi, a struttura Covid-19. Le sale operatorie sono ferme e tutti gli altri reparti sono in stand by mentre aumentano gli accessi dei pazienti infetti: "Se il coronavirus entrasse profondo su Milano, sarebbe come un Boeing-747 che si schianta davanti al pronto soccorso". È trascorso più di un mese ormai da quando anche la città meneghina è stata risucchiata nel vortice dei contagi. "Servirà ancora una settimana - spiega l'infermiere al Corriere della Sera -per sapere che quel crash non ci sarà". L'età media degli ammalati è notevolmente cambiata rispetto agli esordi dell'epidemia; ora si registrano giovani con età inferiore ai 30 anni nella curva delle polmoniti critiche. "Qualche settimana fa molti arrivavano con sintomi lievi, o medi, comunque senza "impegno respiratorio". Oggi sono un po' meno, ma l' età media s' è abbassata, intorno ai 55/60 anni, anche ragazzi di 30 anni. E quasi tutti hanno bisogno immediato di ossigeno. Febbre che non scende sotto i 38. Lastre bruttissime. In pronto soccorso vedi ovunque persone con cannule, mascherine, caschi". Difficile se non impossibile capire l'avanzamento della malattia per chi è confinato in regime di isolamento domiciliare, motivo per cui il pronto soccorso è intasato di persone in evidente sofferenza respiratoria. "Tutto il sistema sanitario sta dicendo ai malati di restare a casa isolati il più possibile. A volte va bene, ma le persone non si rendono conto di quanto avanza la malattia. - continua il racconto l'infermiere -Entrano in pronto soccorso con l' ossigeno nel sangue a 90, basso da far spavento. Quaranta atti respiratori al minuto, oltre il doppio del normale: hanno fatto quattro passi e ansimano come se avessero corso. Compensano fino alla fine con i polmoni quasi compromessi. Su 20/25 pazienti che entrano in un turno di 7 ore, almeno 3 o 4, ancor prima di fare il tampone, hanno già bisogno del casco, massimo livello di ossigeno prima dell' intubazione". Mentre s'impenna la curva dei contagi diminuisce la disponibiltà di ossigeno nell'impianto, una criticità già denunciata dall'ospedale di Bergamo: "In pronto soccorso "reggiamo" 8-9 caschi, più le mascherine. - spiega - Hanno creato due aree d' emergenza, anche in astanteria. Ad ogni bocchettone d' ossigeno è attaccato qualcuno. Abbiamo anche i meccanismi per sdoppiare i flussi e assistere due pazienti. Ma la quantità totale d' ossigeno dell' impianto resta quella. Per ora stiamo reggendo". Il Sacco è attrezzato per le emergenze sanitarie di bioterrorismo e i protocolli attivati in epoca coronavirus sono gli stessi dell'Ebola. "Abbiamo sale visita specifiche, docce alla candeggina per l' antrace. - racconta l'infermiera - Con quella mentalità è stato trasformato l' intero ospedale. La nostra forza è stata la formazione obbligatoria, ogni infermiere può essere reperibile per la task force Ebola. Sai come vestirsi. Come comportarti. Che precauzioni prendere. Sono io che scelgo le protezioni, a seconda se sto al triage o in emergenza. Affrontiamo il Covid con i protocolli Ebola, un virus con una mortalità devastante. Tutto questo per ora ci sta salvando la pelle». (È la differenza chiave rispetto a molti altri ospedali lombardi, che per carenze nella formazione, nell' organizzazione d' emergenza e nelle scorte di protezioni, investiti dall' epidemia, sono diventati centri moltiplicatori del contagio". Dopo l'esplosione del coronavirus, la struttura milanese ha dovuto adeguarsi alla nuova richiesta di ricoveri contingentando percorsi ad hoc per i pazienti con positività accertata o necessitanti di intubazione. "Entriamo in una maxi-emergenza perenne, che dura ancora. Viene rifatto il pronto soccorso. Si trovano aree d' emergenza per gestire i pazienti gravi nell' immediato. Vengono studiati percorsi diversi, linee gialle e verdi, posti "puliti" e posti "sporchi". E poi aree di isolamento, di filtro, di sanificazione, di vestizione. Ascensori solo per i "positivi". Prima i prelievi di sangue viaggiavano con la posta pneumatica, oggi vengono sigillati in triplice involucro e portati di persona da un operatore, per evitare ogni contaminazione. All'accettazione, tutti i pazienti ricevono guanti, mascherina e camice monouso". Nonostante si stia profilando una situazione poco incoraggiante, resta un filo di speranza a cui aggrapparsi: "Ho visto i bambini col coronavirus. - conclude l'infermiere -Lo passano come un raffreddore. Almeno loro saranno risparmiati da questa tragedia". 

Coronavirus, come cambia Milano: la «dolce vita» che dovrà scomparire. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Antonio Scurati. Come posso convincere mia moglie che, mentre guardo fuori dalla finestra, sto lavorando? — si chiedeva Joseph Conrad al principio del secolo scorso. Io, invece, mi chiedo: come posso spiegare a mia figlia che, quando guardo fuori dalla finestra, vedo la fine di un’epoca? L’epoca in cui lei è nata ma che non conoscerà, l’epoca del più lungo e svagato periodo di pace e prosperità goduto dalla storia dell’umanità. Vivo a Milano, fino a ieri la più evoluta, ricca e brillante città d’Italia, una delle più desiderabili al mondo. La città della moda, del design, dell’Expo. La città dell’aperitivo, che ha regalato al mondo il Negroni sbagliato e la happy hour e che oggi è la capitale mondiale del Covid-19, il capoluogo della regione che da sola conta trentamila contagi accertati e tremila morti. Un tasso di letalità del 10 per cento, le bare accatastate davanti ai padiglioni degli ospedali, una pestilenza vaporosa che aleggia sulle guglie del suo Duomo come sulle città maledette delle antiche tragedie greche. Le sirene delle ambulanze sono diventate la colonna sonora dei nostri giorni; le nostre notti sono tormentate da uomini adulti che frignano nel sonno: «Cosa c’è, ti senti bene?»; «Niente, non è niente, torna a dormire». Migliaia dei loro amici, parenti, conoscenti tossiscono fino a sputare sangue, da soli, fuori da ogni statistica e da qualsiasi assistenza, nei letti dei loro monolocali arredati da architetti di grido.Se, in questo istante, guardo fuori dalla finestra, vedo un povero minimarket gestito con ammirevole laboriosità da immigrati cingalesi. Fino a ieri era una singolare anomalia in questo quartiere semicentrale, e a suo modo elegante, una nota stonata. Oggi è un luogo di pellegrinaggio. In coda per il pane davanti alle sue vetrine spoglie, vedo uomini e donne che fino a ieri lo disdegnavano perché sprovvisto della loro marca preferita di crusca. Sostano, sorretti dalla disciplina dello scoramento, a un metro di distanza l’uno dall’altro, al tempo stesso minacciosi e minacciati, con mascherine di fortuna, ricavate da brandelli di tessuto con il quale, fino a ieri, proteggevano le piante esotiche dei loro terrazzi, garze sfilacciate che pendono dai loro volti con la malinconia floscia di scampoli di un’epoca finita. Vedo questi uomini e queste donne tristi, incongrui a loro stessi. Li guardo. Non ho nessuna intenzione di sminuirli o deriderli. Sono uomini e donne adulti eppure sopra le mascherine mostrano lo sguardo sgomento di bambini deprivati. Sono arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia eppure, proprio per questo motivo, sono donne e uomini coraggiosi. Hanno fatto parte del pezzetto di umanità più agiato, protetto, longevo, meglio vestito, nutrito e curato che abbia mai calcato la faccia della terra e, adesso, giunti ai cinquant’anni, sono in coda per il pane. Il loro apprendistato alla vita è stato un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva. Avevano vent’anni quando hanno assistito dal salotto di casa alla prima guerra in diretta televisiva della storia umana, trenta quando sono stati bersagliati attraverso gli schermi televisivi dal terrore mediatico, quaranta quando l’odissea dei dannati della terra è approdata alle spiagge delle loro vacanze. Tutti appuntamenti fatidici che non potevano non mancare. Le grandi scene della loro esistenza si sono consumate in eventi mediatici, sono stati guerrieri da salotto, bagnanti sulle spiagge dei migranti, reduci traumatizzati da serate trascorse davanti alla tv. E ora sono in coda per il pane.La loro infanzia è stata un manga giapponese, la loro giovinezza un party in piscina — ricordi? Era sabato sera e si andava a una festa; era sempre sabato sera e si andava sempre a una festa — la loro età adulta un tributo a una trinità insulsa e feroce: frenesia del lavoro, estasi dell’outlet, sublime da centro benessere. Hanno vissuto bene, meglio di chiunque altro, ma più vivevano e più erano inesperti della vita: mai conosciuto il morso della guerra, mai sfiorati dal sentimento tragico dell’esistenza, mai un interrogativo sul loro posto nell’universo. E adesso, a cinquant’anni, con i capelli già bianchi, gli addomi prolassanti e l’ansia che impaccia i loro polmoni, sono in coda per il pane. Turisti compulsivi, hanno girato il mondo senza mai uscire di casa e adesso la loro casa segna per loro i confini del mondo; hanno sofferto quasi solo drammi interiori e adesso il dramma della storia li catapulta sulla linea del fuoco di una pandemia globale; hanno la casa al mare e il cellulare di ultima generazione eppure adesso sono in coda per il pane; hanno avuto più cani che figli e adesso rischiano la vita per portare il loro barboncino a pisciare. Li guardo dalla finestra del mio studio mentre scrivo. Li osservo mentre i decessi salgono a quattromila, mentre l’ascissa del contagio cresce esponenzialmente, mentre trattengo il respiro per non inalare l’aria del tempo. Li guardo e li compiango perché sono stati la generazione più fortunata della storia umana ma, poi, gli è toccato di vivere la fine del loro mondo proprio quando iniziavano a diventare troppo vecchi per sperare in un mondo a venire. Eppure dovranno farlo, lo faranno, ne sono sicuro. Dovranno immaginare il mondo che sono stati costretti a sperimentare in questi giorni: un mondo che s’interroghi su come educare i propri figli, su come preservare un’aria respirabile, su come prendersi cura di se stessi e degli altri. Un’epoca è finita, un’altra comincerà. Domani. Oggi si sta in coda per il pane. Oggi i quotidiani titolano: resisti Milano! E Milano resiste. Getto un ultimo sguardo dalla finestra ai miei coetanei cinquantenni, ai miei concittadini milanesi, ai miei ragazzi improvvisamente invecchiati: quanto sono grandi e patetici con le loro scarpe da runner e le loro mascherine chirurgiche! Provo pietà, li comprendo, li compatisco. Fra pochi secondi sarò in coda insieme a loro.

Ernesto De Franceschi per leggo.it il 23 marzo 2020. Misurazione della febbre per chi entra nei supermercati e nelle farmacie della Lombardia. In base all'ordinanza emessa il 21 marzo, in serata dal presidente della Regione Attilio Fontana, si prevede la misurazione della temperatura corporea a chi entra negli esercizi commerciali ancora aperti e, in caso sia pari o superiore a 37,5° c'è l'obbligo di vietare l'ingresso. E' scritto testualmente nell'ordinanza diffusa ieri dalla Lombardia. Restano aperti praticamente soltanto supermercati, farmacie ed edicole e in queste attività sarà possibile domandare agli avventori di misurare la temperatura. Non è per ora del tutto chiaro quali siano le possibilità per i gestori qualora si rilevi uno stato febbrile. Si annuncia comunque complicato misurare la febbre alle persone ingresso, peraltro questi controlli devono essere effettuati da personale qualificato.

Come i medici di base hanno scoperto 1800 contagiati sommersi di Coronavirus in 48 ore. Redazione de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Ben 1800 contagiati sommersi scoperti in sole 48 ore grazie alla nuova strategia messa in atto dai medici di base. È quanto accaduto in questo giorni a Milano, capoluogo della Lombardia che sta affrontando il numero maggiore di decessi e malati da Covid-19. Il tutto è stato possibile grazie a un piano messo a punto dalla Regione. Di fatto si tratta a tutti gli effetti di una mappatura, una “sorveglianza attiva” da effettuare in due modi: telefonate quotidiane e l’uso del saturimetro per capire in tempo reale la quantità di ossigeno presente nel sangue (quando il livello di saturazione è in calo, preannunciando un peggioramento delle funzioni respiratorie). Come spiega il Corriere della Sera, nel giro di 48 ore i medici di base sono riusciti a intercettare 1800 malati con i sintomi del Coronavirus grazie a questo metodo, messi in quarantena e da sorvegliare in modo stringente. Il progetto nasce grazie all’attivazione di un portale informatico messo a punto dall’epidemiologo dell’Ats Milano Antonio Russo, avviato venerdì scorso grazie all’accordo con la Regione Lombardia, anticipando anche il provvedimento dell’Ente. In un solo fine settimana i 6096 medici di base milanesi hanno così contatto 5500 pazienti, segnalandone 600 come malati con bisogni sociali e 1800 come malati di Coronavirus finora ‘sommersi’ e che dovranno essere quindi monitorati.

Milano, scovati 1.800 malati «sommersi». Lombardia, calano i ricoveri. “Non molliamo”. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. «Isolatevi, senza vedere i vostri familiari, anche se avete un semplice raffreddore e poche linee di febbre». Dietro l’appello dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera c’è la nuova strategia di Regione Lombardia che ruota intorno a una consapevolezza: «I pazienti con sintomatologia simil influenzale, di cui non è nota l’eventuale positività, devono essere considerati come sospetti casi Covid-19». Sono i malati nelle nostre case, finora sfuggiti alle statistiche ufficiali, che lunedì hanno segnato per la prima volta un calo dei ricoveri in ospedale, e spesso arrivati in ospedale già in gravi condizioni. D’ora in avanti i medici di famiglia dovranno seguirli ancora più da vicino e, di fatto, mapparli. Il come è contenuto in una delibera approvata ieri dalla giunta di Attilio Fontana. La parola d’ordine è «sorveglianza attiva» da attuare con telefonate quotidiane e soprattutto con il saturimetro per capire in tempo reale chi va in fame di ossigeno e, dunque, deve essere ricoverato di corsa in ospedale. Questo virus purtroppo è subdolo e le condizioni di respirazione possono peggiorare all’improvviso. È ciò che deve essere evitato. Il loro numero è sconosciuto. Ma un’idea di quanti possono essere i pazienti coronavirus a domicilio — e dunque dell’importanza di occuparsene — arriva da Milano (e provincia). Nel giro di 48 ore i medici di base sono riusciti a intercettare 1.800 malati con sintomi Covid-19 da mettere in quarantena e sorvegliare in modo stringente. È il risultato dell’attivazione di un portale informatico messo a punto dall’epidemiologo dell’Ats Milano Antonio Russo e avviato già venerdì, anticipando in accordo con Regione Lombardia il provvedimento di ieri, con l’obiettivo di essere il più veloce possibili nella città che in questo momento preoccupa maggiormente. È una chiamata alle armi dei dottori di famiglia: le storie di coloro che sono morti per stare vicino ai propri pazienti le conosciamo dai titoli di cronaca delle ultime settimane, ma non possono neppure essere tralasciate le numerose segnalazioni di cittadini che li considerano desaparecidos. Morale: nel fine settimana il 60% dei medici milanesi apre il portale e contatta 5.500 pazienti, segnalando quasi 600 casi di malati con bisogni sociali (girati ai sindaci) e i 1.800 malati Covid-19 finora sommersi che dovranno essere monitorati, anche con l’invio di unità speciali di guardia medica. A questi pazienti saranno date indicazioni su come comportarsi e — quando necessario — verrà fornito un saturimetro con le relative istruzioni d’uso e il contatto di riferimento per comunicare il proprio stato di salute. Insomma: poche ore di ambulatorio e solo su appuntamento, ma tutti attaccati al telefono (dalle 8 di mattina alle 8 di sera). Non solo per scovare e monitorare i malati. Ma anche per sorvegliare il rispetto della quarantena a aiutare gli anziani. Per capire il ruolo che d’ora in poi sono chiamati a svolgere i medici di famiglia vanno considerati i dati, spaventosi anche in una città come Milano dove l’incremento dei contagi tutto sommato non è ancora esploso (e speriamo non lo faccia): in poche settimane si sono svolte inchieste epidemiologiche per oltre 4.000 casi, mettendo in quarantena oltre 12 mila contatti stretti. Con numeri simili viene considerato impossibile fare sorveglianza attiva, cioè chiamare e sentire come stanno tutti i contagiati e i contatti. È il motivo per cui la delibera della Regione assegna questo ruolo ai medici di medicina generale. Con un’epidemia di tali dimensioni va ampliata, e di molto, la rete di chi segue i pazienti. Per non farli sentire abbandonati a domicilio, ma anche perché siano seguiti sul piano clinico e rispettino le indicazioni di isolamento. Per bloccare, anche così, la maledetta conta dei morti.

La paura di Bresso: «Noi siamo in anticipo. Ora il coronavirus attacca i 50enni». Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Berni. Quota cento, purtroppo, si è superata facilmente. Bresso, 26mila abitanti, uno dei primi focolai dell’area metropolitana, paga un tributo sempre più caro in relazione all’epidemia di coronavirus. Il dato di ieri parla di 125 persone positive dall’inizio dell’emergenza (una ventina in più in un giorno). Si abbassa verso la cinquantina l’età media. Su questo numero, si contano fino ad adesso 20 vittime in fascia anagrafica avanzata (circa 80 anni). Almeno una dozzina, tra gli ammalati, quelli con meno di 55 anni, a ulteriore conferma del fatto che nessuno può sentirsi immune. E ora è arrivato anche l’esercito. Da quanto emerso, il 20% delle persone fermate dalla polizia locale del comune che affaccia sul Parco Nord non ottempera alle norme imposte dal Governo per il contenimento dei contagi. Le denunce penali, evidentemente, non bastano. Per questo, il 19 marzo, il sindaco Simone Cairo, dopo gli appelli diffusi via altoparlante, ha optato per una ulteriore stretta nelle restrizioni a livello comunale. Divieto di utilizzo delle piste ciclabili, limitazione all’accesso alle aree cani (quelle più vicine all’abitazione) con il limite di due persone per volta e per un massimo di 10 minuti a testa. Divieto di svolgimento di qualsiasi attività sportiva all’aperto. Vietata la permanenza in tutte le aree pubbliche o private ad uso pubblico (a parte quelle in prossimità dei negozi di alimentari), compresi gli spazi condominiali. Sanzioni amministrative (ulteriori rispetto alle conseguenze penali) da 50 a 500 euro, a seconda della gravità della violazione e dell’eventuale recidiva. Chiusura di tutte le aree verdi cittadine, e ancora altri divieti fatti propri anche dai comuni dell’hinterland che comprendono le aree del Parco Nord, un polmone verde non recintato e quindi non facilmente controllabile. I sindaci di Sesto e Cinisello, comuni confinanti e collegati da una ciclabile, hanno firmato un’ordinanza congiunta con disposizioni molto simili, e lo stesso è stato fatto nella vicina Monza, città direttamente collegata alla fascia Nord del Milanese. Bresso, fin dall’inizio del contagio, è stata preso in esame come uno dei primi focolai. Il virus si è fatto largo tra i frequentatori di un centro ricreativo, il Libertas. Quasi esclusivamente anziani, che si sono ammalati a catena partendo dal «paziente zero», un pensionato di Niguarda. Molti dei decessi sono riconducibili proprio allo storico luogo di ritrovo di via Cavour. «Come ho già detto in precedenza, Bresso vive una situazione in anticipo rispetto a quello che potrebbe verificarsi in altre zone», è la constatazione del sindaco Cairo. Che aggiunge: «Fino al 15 marzo notavamo che il contagio riguardava persone di età media sui 75 anni, ora gli anziani sono protetti, mentre i nuovi positivi sono i cinquantenni, le persone che vanno a lavorare, per questo dico che l’unica cosa da fare è fermare tutto».

Il virus arrivato  giocando a carte. E Bresso ora teme anche le infezioni tra i cinquantenni. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Berni e Cesare Giuzzi. Il virus è arrivato giocando a carte. Circolo lavoratori Libertas, via Cavour 4/a. Il municipio è a pochi passi, così come la parrocchia di San Nazaro e Celso. Anche se Bresso somiglia a un grande dormitorio, in un tutt’uno con il quartiere Niguarda di Milano, qui l’atmosfera è quella di un paese. Perché quasi il 30% dei 26 mila abitanti ha più di 65 anni. Molti oltre i 75. Bresso è stato il primo epicentro del coronavirus a Milano. L’ultimo bollettino dell’Unità di crisi della Regione conta 127 contagi. Ma a spaventare sono le vittime, venti dal 28 febbraio. Venti morti, tutti anziani, tutti con un tragico legame: frequentare il circolo Libertas. È qui che il Covid-19 ha iniziato ad uccidere. E ha continuato anche dopo che il sindaco Simone Cairo, 51 anni, ha deciso di chiudere il centro anziani. Il «paziente zero» è stato ricostruito grazie a un’analisi di malati e contagi. Si tratta di un milanese di Niguarda che frequentava il circolo ogni giorno. E avrebbe, suo malgrado, contagiato altri anziani giocando a carte. La voce s’è diffusa il 28 febbraio, di prima mattina: «Hanno chiuso il Libertas, i baristi sono ammalati. Ma anche alcuni clienti». Erano i giorni, diciamo così, in cui nella zona rossa del Lodigiano si moriva senza sosta, ma a Milano il dibattito era sulla necessità di riaprire «bar e ristoranti». A Bresso però le cose sono state prese da subito molto seriamente. Memori anche dell’epidemia di legionella che s’è scatenata nell’estate di due anni fa. Così il sindaco Cairo ha di fatto anticipato, in autonomia, molte delle misure assunte poi da Governo e Regione hanno assunto. «Dall’11 marzo abbiamo deciso di far chiudere bar, parchi pubblici — spiega Cairo —. Da quella data i nostri ammalati sono passati da 60 a 120. Una crescita del 100%. Ma in altre aree urbane nello stesso periodo la curva è salita del 600%». In provincia di Milano i casi di coronavirus sono 5.096 su una popolazione di 3,2 milioni di abitanti. I morti sono già 445, per il 72% uomini, con un’età media di 78 anni. Oggi il «caso Bresso» è diventato una modello per studiare l’epidemia. Adesso l’età media dei positivi s’è abbassata da 75 a 55 anni: «Da un lato è il segnale che la protezione dei pensionati ha funzionato, li ha messi al riparo — riflette Cairo —. I nuovi contagiati sono persone entrate a contatto in ambito familiare o lavorativo. In mezzo ci saranno operatori sanitari: molti nostri abitanti lavorano negli ospedali tra Sesto San Giovanni, Niguarda, la Multimedica, il Bassini di Cinisello».

La mia Bresso, il record di contagi e la forza che non sapevamo di avere. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Sono per metà milanese e per metà bergamasca, nata e cresciuta a Milano, perfettamente integrata nell’ingranaggio della frenesia meneghina. Qui corriamo sempre, e per tutto: per portare i bambini a scuola, per andare al lavoro, per tornare dal lavoro, per recuperare i bambini dai nonni o dalla tata; finito di lavorare, si corre anche per andare alla lezione di yoga e, quando si ha voglia di rilassarsi, si va a correre al Parco Nord. Di bergamasco ho il profondo senso del dovere e del lavoro, e l’amore per le adorate immutabili montagne della Val Seriana, al cui saldo abbraccio penso spesso in questi giorni di angoscia. E penso a entrambe le mie «gentes» che stanno pagando un tributo altissimo a questa guerra, il mio cuore perde un battito ogni volta che vedo e sento di chi si ammala e di chi non ce la fa. E abito a Bresso, il paese che a oggi conta il numero più alto di malati e di decessi, nell’hinterland milanese. Bresso è un grosso paese densamente popolato, il rapporto tra persone anziane e giovani qui è piuttosto sbilanciato; va da sé che questo virus si sia tanto innamorato della nostra cittadina — già la legionella si era tanto affezionata alla nostra acqua qualche tempo fa. Ma davvero non pensavo che questa anonima cittadina potesse alzare la testa in modo così fermo e vigoroso: qui la gente non si dà per vinta. Paradossalmente questo virus che ci separa fisicamente, ci sta facendo stringere la mano l’un l’altro: sui gruppi social del nostro paese è un continuo darsi coraggio e supporto, c’è il negozio di alimentari che si offre di fare consegne gratuite, la farmacia che offre il servizio di consegna gratuita dei farmaci, i mercatari di ortofrutta che ti portano a casa la frutta e la verdura. C’è persino la psicologa (con tanto di matricola di iscrizione all’albo) che offre gratuitamente il suo supporto telefonico a chi avesse bisogno di aiuto per sgonfiare il proprio cuore. E tante tante persone che si offrono di fare la spesa per chi ne avesse bisogno. C’è il vicino di casa musicista, che ci delizia dal balcone di casa con la sua musica, e che oggi ha composto e diffuso sui social cittadini una canzone per spiegare il virus ai bambini. E c’è la raccolta fondi dedicata «Aiuta le famiglie di Bresso», promossa da Comune, Croce Rossa e parrocchie, perché tutti i bressesi possano davvero aiutarsi l’un l’altro, in un modo o nell’altro. E poi ci sono i Carabinieri, che l’altro giorno sono passati per le strade della nostra cittadina diffondendo l’Inno di Mameli, a incoraggiamento e conforto di tutti noi. Certo, non posso negare che sentir risalire dalle finestre «siam pronti alla morte» mi abbia dato un brivido di inquietudine. Ma questo gesto così ufficiale e simbolico, ha in un certo senso suggellato il nostro stringerci a coorte, in questo momento difficile. Ho descritto la mia piccola realtà, ma credo che potrei usare le stesse parole per tutta Milano, e per la bergamasca, la Lombardia, l’Italia intera. Quando questa battaglia finirà, avremo inaspettatamente guadagnato un tesoro prezioso, e di questo dobbiamo dire grazie al virus. Il tesoro dell’unione, dell’affetto e della cooperazione, come da decenni non si percepiva in Italia. E speriamo che sia l’alba di nuova era per questo nostro Paese.

Vittorio Feltri a Dritto e Rovescio: "Coronavirus? I milanesi si romperanno le scatole, ne sono certo". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. L'orgoglio del Nord. Giorni difficili, per il Settentrione, alle prese con i focolai da coronavirus, con le porte degli altri stati che si chiudono, con il Sud che con un pizzico di rivalsa in qualche occasione tratta i "cugini" come ospiti non desiderati. Giorni difficili a cui Beppe Sala, sindaco di Milano, cerca di reagire. Lo ha fatto per esempio con un video dal titolo #Milanononsiferma, diventato virale in poche ore. Già, è proprio Milano la grande città più colpita dall'emergenza, tra ordinanze di chiusura e psicosi dilagante. E di questo ne parla anche Vittorio Feltri, ospita a Dritto e Rovescio di Paolo Del Debbio su Rete 4. E il direttore di Libero fa leva proprio sull'orgoglio del Nord e dei cittadini meneghini: "Penso che tra qualche giorno i milanesi si saranno rotti le scatole del virus e ricominceranno a vivere come prima e come sempre", premette. E poi rincara: "Ne ho la certezza".

Coronavirus, a Saronno “rischio di 1200 decessi”: l’ordinanza senza basi scientifiche del sindaco leghista. Redazione de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. A Saronno, comune di circa 40mila abitanti in provincia di Varese, si rischiano “circa 1.200 decessi” per coronavirus. A scriverlo in un’ordinanza dai toni apocalittici è stato il sindaco della città, il leghista Alessandro Fagioli, nel dispositivo emanato per ordinare la chiusura del mercato cittadino previsto questa mattina. Nel documento si leggeva infatti che “la città di Saronno ha poco meno di 40.000 abitanti e qualora nel caso peggiore, venissero tutti contagiati, rischieremmo di avere, stando al 3% di decessi, circa 1200 decessi”. Una casistica di fatto impossibile che ha provocato un polverone di politiche, tanto da costringere il primo cittadino leghista a fare un passo indietro. Nella stessa ordinanza il Comune scriveva infatti che “pur nella consapevolezza che si tratta di un dato non estrapolabile scientificamente, ma non avendo al tempo stesso controprove, è da tenere in considerazione nella tutela della salute pubblica ed in particolar modo per la fascia debole della popolazione ovvero di chi ha già patologie in corso”. Una percentuale, ricorda infatti il presidente del gruppo Pd alla Camera Emanuele Fiano, che “va invece applicata alla popolazione infettata. Questo non è un errore da poco. Lei – spiega Fiano rivolgendosi a Fagioli – ha fatto credere ai suoi concittadini che si era di fronte alla possibilità di un’ecatombe, peraltro per poi prendere semplicemente l’iniziativa di chiudere un mercato”.

IL SINDACO: “ERRORE COMUNICATIVO, ORDINANZA GIÀ SCADUTA” – “Innanzitutto sottolineo che l’ordinanza in oggetto ha avuto valore solamente per questa mattina ed è, quindi, già scaduta. Ammetto che c’è stato un errore comunicativo e, se questo ha scaturito allarme, me ne scuso, non era la mia intenzione”, ha dichiarato Fagioli in una nota. “Detto questo – aggiunge il sindaco di Saronno – rimane validissima la motivazione principale per la quale ho deciso di introdurre questo e altri provvedimenti e cioè quello della tutela della salute pubblica dei miei cittadini. È fondamentale continuare ad avere massima fiducia nella scienza e nella medicina così come nelle istituzioni e seguire tutte le indicazioni di prevenzione. In questo modo certamente riusciremo a superare anche questo difficile momento e torneremo a fare una vita normale”, conclude Fagioli.

ITALIA VIVA ACCUSA: “PAROLE INAUDITE” – “Le dichiarazioni del sindaco della Lega di Saronno, Alessandro Fagioli, sono irresponsabili. Usare a vanvera l’indice di letalità del coronavirus sui contagiati, che è pari a 0,015 calcolato con i dati certi dei focolai esistenti, per dire che una città di 40mila abitanti come Saronno rischierebbe 1200 morti, significa voler generare disordine e paura nella cittadinanza e creare un danno alle attività economiche della città”. Lo dichiarano i deputati di Italia Viva Gianfranco Librandi e Maria Chiara Gadda. “L’Italia ha 60 milioni di abitanti e grazie a controlli massicci sono stati individuate poche centinaia di contagiati e di questi, ad oggi, solo persone con pregresse complicanze sono purtroppo decedute. Usare queste cifre e strumentalizzare le vittime per alimentare allarme e farsi propaganda è folle: chi lo fa come Fagioli dovrebbe dimettersi, perché – sottolineano – sta venendo meno al suo ruolo di garanzia istituzionale”. “Il presidente Fontana, cui riconosciamo la fermezza e la moderazione con cui sta affrontando l’emergenza, intervenga su chi nel suo partito usa parole inaudite e specula sulla paura. Si stabiliscano le responsabilità di chi con le sue incompetenti decisioni ha danneggiato l’immagine e la reputazione economica e sociale della Lombardia e di tutta l’Italia”, concludono.

Coronavirus, Sala chiama Conte: "Riapriamo Milano al più presto". Il sindaco guida il Nord che non si piega al virus. Alberto Cirio: "Spazio per ritorno alla normalità". Bonaccini chiede al governo aiuti per le imprese. Piero Colaprico il 27 febbraio 2020 su La Repubblica.  Al centesimo messaggino, il senso di Beppe Sala per il bon ton istituzionale è andato in conflitto con il senso di Beppe Sala per l'opportunità politica. E il sindaco di Milano s'è smarcato dall'idea di "serrata totale" di una metropoli che, se si ferma, è in qualche modo perduta nella sua identità. Già martedì, nel rinviare l'importante e redditizio appuntamento del Salone del Mobile a giugno, Sala aveva spiegato la necessità di "sconfiggere il coronavirus, ma anche il virus della sfiducia". Ieri il suo rilancio è stato a tutto campo: "Mi sono messo a telefono con Roma, ho parlato con il Presidente del Consiglio, l'ho invitato a venire presto a Milano per rendersi conto di persona della nostra situazione". In queste telefonate, pur non essendoci alcuna conferma ufficiale, è certo che Giuseppe Conte abbia assicurato il sindaco sul suo desiderio di una seria trasferta in Lombardia, per andare in giro ovunque serva, raccogliere le richieste delle varie categorie sociali e "provvedere". "Milano a luci spente non piace nessuno, che sia una città riaperta al più presto", dice Sala e non c'è solo lui in questa prospettiva di rinascita nel rispetto della sanità pubblica. Si stanno facendo i conti tra realtà e psicosi: il vero problema (in prospettiva) riguarda i posti nelle rianimazioni, dov'è necessario curare chi peggiora, non il tasso di mortalità o la quantità di tamponi positivi. Infatti, "Ci sono finalmente le condizioni per chiedere al Governo un graduale ritorno alla normalità", dice il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, che oggi alle 18 incontra i presidenti delle Province, i sindaci dei capoluoghi e i prefetti. E per il rieletto presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, l'emergenza sanitaria legata non può trasformarsi, sostiene, in un disastro per la tenuta economica. S'è rivolto, come Sala, a Conte. Nei suoi desideri ci sono aiuti alle imprese in genere e "per tutti gli operatori del pubblico spettacolo, non è immaginabile che l'onere economico del provvedimento del governo ricada solo su di loro". C'è un altro Nord, insomma, che guarda oltre gli "agenti virali". E Sala, primo cittadino della città-locomotiva, ieri "dopo aver lavorato alla riprogrammazione del calendario degli eventi, che qui sono cruciali per molte attività e per il turismo", non ha chiamato soltanto il presidente del Consiglio, ma altri due membri del governo. Il ministro dell'Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri, al quale "ho chiesto - dice - un supporto e gli ho detto che un aiuto a Milano è un buon investimento". E s'è sentito con il ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini, habitué di Milano e della Scala, con il quale s'è capito al volo: "Ripartiamo dalla cultura, riapriamo qualcosa, che siano i musei, o altro, ma la cultura è vita". Per Sala il tema delle difficoltà economiche non riguarda nell'immediato la finanza e la grande industria, "ma ci sono persone che se non lavorano non arrivano a fine mese ed è a queste che deve pensare il sindaco di una città, se la vuole solida, attiva e internazionale com'è la nostra". Da quando c'è stata l'emergenza, Sala aveva detto che era opportuno "limitare la socialità" e non aveva mai preso pubblicamente le distanze dalla Sanità regionale e dal presidente della Lombardia Attilio Fontana, che ha in mano il boccino delle strategie insieme con la Protezione civile e il ministero della Salute. E se n'era rimasto silente nello scontro Conte-Fontana. Che dietro le quinte dicesse ai suoi che "così non si può reggere" non era però un segreto. E s'è dato da fare. Il prossimo lunedì, quindi, può segnare la fine del "mondo sospeso", così inconsueto a Milano. 

Isolate le stalle che sfamano l’Italia. “Ma se molliamo saremo spazzati via". La zona rossa che resiste. Nel Lodigiano agli animali che nascono vengono dati nomi che guardano al futuro come Vita, Coraggio e Speranza. Giampaolo Visetti il 27 febbraio 2020 su La Repubblica. "Siamo rimasti soli e tremiamo. Più ancora del virus, ci spaventa il futuro di stalle e cascine secolari. Se la zona rossa durerà settimane, il marchio del contagio distruggerà il nostro latte e la nostra carne. Centinaia di aziende del Lodigiano rischiano di essere spazzate vie". Alle sette del mattino Basilio Recagni, 68 anni, di Bertonico, finisce la prima mungitura delle sue 400 vacche. Cascina Campolungo è a quattro chilometri da Castiglione d'Adda, epicentro del coronavirus assieme a Codogno. Anche qui, da quasi una settimana, la vita è sospesa. Quella di tutti, nei dieci centri sigillati per arginare l'epidemia. "Ma non quella di noi allevatori - dice - obbligati a resistere per produrre cibo ed evitare che muoiano gli animali che sfamano l'Italia". Il focolaio nazionale del Covid-19, tra Lodi, Crema e Piacenza, è nel cuore dell'agricoltura padana. Dentro la zona rossa sono "prigioniere" quasi 200 stalle. Lungo il confine sigillato dai posti di blocco se ne incontrano altre 300. Il Lodigiano conta oltre 500 cascine e 104 mila capi, tra mucche, manzi e maiali. "Siamo la capitale di latte e carne - dice Filippo Boffelli nella sua stalla a Codogno - e viviamo nel dramma. Chi fa formaggi e prosciutti, destinati all'export, già avverte che le multinazionali fermano gli ordini di prodotti provenienti dall'area-virus. Tutti sanno che gli alimenti sono sani e controllati. La speculazione però si nutre di psicosi: se esplode, siamo finiti". Mangimi, paglia e gasolio per ora sono garantiti. La stessa deroga alla quarantena di massa vale per chi trasporta latte ai caseifici, manze e maiali ai macelli. "Il problema - dice Rachele Madonini nella Cascina Fornelli di Secugnago - è il personale. Centinaia di mungitori, addetti alla pulizia, capi stalla e trattoristi, sono bloccati oltre la zona rossa. Se una stalla si trova pochi metri fuori dalla cintura sanitaria, non possono raggiungerla. Chi invece vive all'esterno, può entrare e uscire dal focolaio del virus per evitare una strage di animali". Nelle campagne sconvolte è già gara di solidarietà. Chi può, presta braccia a chi è rimasto senza. Decine i vecchi contadini, contagiati o rimasti senza dipendenti a Casalpusterlengo, Somaglia, Codogno e Castiglione, salvati dagli amici risparmiati dall'epidemia. "Ogni notte - dice Eugenio Francesconi tra i vitellini di Cascina Vignazza a Brembio - prego che non si spacchino le mungitrici, o i miscelatori del mangime. Nessuno ripara più le macchine, spariti anche i veterinari. Finora abbiamo retto per miracolo: se la vita normale non riprende subito, nelle campagne il virus causerà il collasso economico". Nella zona rossa anche coltivare i campi è proibito. Questo è il tempo in cui si ara la terra, tra due settimane dovrebbe cominciare la semina. Molti coltivano terreni mezzi di qua e mezzi di là. "I trattori sono fermi - dice Antonio Falchetti, contadino di Codogno - i grossisti di semi della zona, chiusi. Chi vive grazie alla terra, da generazioni lotta contro malattie e calamità. Per la prima volta, oggi non so come affrontare un nemico che minaccia di devastare l'intera agricoltura italiana". Da Cina e Russia le prime richieste di "chiarimenti". A tremare, icone come il grana padano, il gorgonzola, il latte fresco, prosciutti e salumi esportati in tutto il mondo. A rischio un giro d'affari superiore ai 10 miliardi all'anno. "Se la trasformazione si blocca o rallenta - dice Giuseppe Palosti, allevatore a Casalpusterlengo - il valore di latte e carne crolla. Il grana va fatto entro ventiquattro ore dalla mungitura, altrimenti il latte finisce a nutrire i maiali. I suini, se ingrassano troppo, si svalutano. Il dramma è che oggi, dentro e attorno alla zona rossa, molti macelli e caseifici sono chiusi perché i dipendenti sono bloccati dal virus". Licenza di transito solo per i camion. Gli autisti sono protetti da mascherine, tute e guanti: gli allevatori non possono avvicinarsi nemmeno al ritiro dei prodotti. "Dopo quarant'anni di sacrifici - dice l'allevatore Giovanni Francesconi - all'improvviso scopriamo di tirare avanti alla giornata". Qui però nessuno si arrende. L'epicentro lombardo del coronavirus resiste e senza lamentarsi non rinuncia a vivere proprio nelle sue storiche cascine. Da venerdì scorso i vitelli non si battezzano più in ordine alfabetico. "Dopo ogni parto - dice Alice, 35 anni, allevatrice di Terranova - diamo nomi che guardano al futuro. In mezzo a tanto dolore, speriamo ci portino fortuna". Le mucche nate questa notte, nella zona rossa, si chiamano Vita, Speranza e Salute. I torelli, Coraggio, Eterno e Sano. La campagna può perdere tutto, non quel certo senso fantastico per la fiducia.

Coronavirus, lite tra Conte e Fontana, il governatore chiude collegamento. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Alla fine Attilio Fontana ha sbattuto giù il telefono e ha chiuso il collegamento, non prima di aver fatto volare parole irose contro il premier Giuseppe Conte nella sala della Protezione civile dove era in corso una riunione operativa. Il governatore della Lombardia non è riuscito a trattenersi, non aveva mai digerito l’attacco del presidente del Consiglio all’ospedale di Codogno per il comportamento non consono tenuto con il «paziente uno». L’accusa diretta di non aver seguito il protocollo . Fontana durante la riunione ha rinfacciato a Conte le sue dirette televisive nei programmi popolari «mentre l’Italia sta in emergenza», e gli ha duramente contestato quell’attacco sferrato lunedì contro i medici e gli infermieri dell’ospedale nel lodigiano. Nella concitazione della riunione il premier Conte ha chiesto ai tecnici presenti alla riunione di lasciare la sala. La riunione alla Protezione civile si era aperta con parole di distensione del presidente del Consiglio, che aveva anche teso la mano ai governatori per ristabilire una clima di pace. Ma poi è bastato poco a far riaccendere le micce, per la precisione una discussione sull’uso delle mascherine per medici e infermieri. Ad un certo punto è stato un tecnico presente che ha sollevato dubbi sulla reale necessità delle mascherine, ed è stato a quel punto che Fontana è scattato, con i governatori di Veneto e Friuli Venezia Giulia, Zaia e Fedriga, che tentavano di usare modi morbidi. La video conferenza del presidente del Consiglio con i governatori delle regioni è durata un’ora e mezza, così come ha raccontato Alberto Cirio, presidente del Piemonte, lasciando trapelare una tensione forse non soltanto personale tra il premier e i governatori, nonostante quella mano tesa del premier . Ha detto il presidente Cirio: «Conte sostiene di essere stato frainteso, e va bene così, non vogliamo polemizzare. Io però ho rivendicato il mio diritto di difendere i cittadini piemontesi».

Da corriere.it il 26 febbraio 2020. La conferenza stampa mercoledì sera in Regione? «Annullata perché una mia stretta collaboratrice ha contratto il virus», conferma il governatore Attilio Fontana in diretta su Facebook. «Anche noi, che facciamo parte della stessa squadra, siamo stati quindi sottoposti ad un test per accertare le nostre condizioni: la notizia è positiva, per ora non ho contratto alcun tipo di infezione- dice Fontana- per cui possiamo continuare a lavorare, a combattere la battaglia che stiamo combattendo per evitare la diffusione di questo virus». Ma qualcosa cambierà, avverte il governatore lombardo: «Anche io mi atterrò alle prescrizioni dell’Istituto superiore della sanità, cioè vivrò nelle prossime due settimana in una sorta di autoisolamento, per preservare tutti quelli che vivono cone me o lavorano con me». E qualcosa è cambiato già: «Oggi ho passato la giornata indossando la mascherina, e continuerò a farlo, così se mai dovessi positivizzarmi eviterò che qualcuno possa essere da me contagiato». In Lombardia, come sottolinea lo stesso Fontana, «purtroppo i numeri stanno aumentando ancora, non in maniera drammatica, ma c’è ancora qualche ulteriore situazione di persone che hanno contratto il virus».

La parabola del Fontana mascherato: da moderato della Lega a campione di gaffe. Irride Renzi. Attacca Conte. Spaventa il mondo annunciando l'autoisolamento in diretta Facebook, anche se sta bene e non ha sintomi da coronavirus. Il governatore della Lombardia fatica a gestire lo stress. E cancella la sua immagine di lumbard pacato e conciliante. Vittorio Malagutti il 27 febbraio 2020 su La Repubblica. Ci mancava solo il fuorionda: parole in libertà con risatine di contorno. L’ultimo atto della trasformazione di Attilio Fontana è andato in scena tra ieri e oggi, nell’ennesima giornata di ordinaria paura da Coronavirus. Il politico moderato, dialogante e istituzionale, il grigio ma bonario avvocato varesino, adesso si offre al pubblico con la faccia e le parole di un uomo perennemente sull’orlo di una crisi di nervi. Ed eccolo, allora, il governatore della Lombardia mentre sfotte Matteo Renzi e il suo presunto «odio» per Giuseppe Conte. L’assessore alla Sanità Giulio Gallera ascolta, annuisce e ridacchia. Tempo due giorni e il colloquio oggi è finito in rete grazie a uno dei tanti microfoni accessi durante la quotidiana conferenza stampa del Governatore. Una gaffe come tante, ci può stare, in questi giorni tremendi e confusi. Se non fosse che proprio ieri Fontana si era fatto immortalare in diretta Facebook mentre indossava una mascherina anti contagio. «Vado in autoisolamento perché una mia collaboratrice ha contratto il Coronavirus», ha raccontato via social network il Fontana mascherato. Il quale, per sua fortuna, sta benissimo: nessun sintomo, nessuna positività al tampone. E allora resta quell’immagine, subito rimbalzata in tutto il mondo, di un politico spaventato a tal punto da proteggersi anche se non ce n’è bisogno. Con buona pace dei messaggi rassicuranti.  Tipo quello dello stesso Fontana, che due giorni fa scandiva con sprezzo del pericolo: «Il Coronavirus? È poco più di una normale influenza». Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana è negativo al coronavirus, ma andrà in auto-isolamento. Lo ha annunciato lo stesso governatore su Facebook. Una sua collaboratrice - ha aggiunto - è risultata invece positiva. "Da oggi qualcosa cambierà - spiega - perché anche io mi atterrò alle istruzioni date dall'Istituto Superiore della Sanità, per cui per due settimane cercherò di vivere in una sorta di auto-isolamento che soprattutto preservi le persone che lavorano con me". A questo punto, anche tra i concittadini del governatore, gente che lo conosce e lo stima da sempre, c’è chi comincia a pensare che il governatore soffra un po’ troppo l’ansia da prestazione. Tre giorni fa aveva rimbrottato pesantemente Giuseppe Conte, colpevole di aver attribuito la diffusione del virus «a una gestione non del tutto propria da parte di un ospedale». Che poi sarebbe quello lombardo di Codogno, anche se il presidente del Consiglio non l’ha nominato. Tanto è bastato per scatenare l’ira funesta del governatore, il quale martedì scorso, durante una riunione in video conference tra i presidenti di regione e il governo, ha piantato tutti in asso dopo un’epica sfuriata in difesa del buon nome della sanità lombarda. Conte e Fontana poi hanno fatto entrambi retromarcia. Il disagio, però, resta. E anche un interrogativo. Che fine ha fatto il “quiet man” della Lega, il colonnello lumbard sempre allineato e coperto, mai coinvolto direttamente nelle tante faide nel partito del Carroccio. La sua immagine di politico pacato e conciliante, compassato e di poche parole, lo ha accompagnato fin sulla poltrona di presidente della Lombardia, scelto da Matteo Salvini, ovvero il suo opposto, per sostituire l’uscente Roberto Maroni. In campagna elettorale l’ex sindaco di Varese (due mandati, dal 2006 al 2016), aveva però già sorpreso tutti con una gaffe monumentale. «Non possiamo accettare tutti quelli che chiedono di entrare in Italia», disse Fontana, spiegando che dobbiamo «decidere se la nostra razza bianca deve continuare a esistere o deve essere cancellata». Il riferimento alla razza bianca parve un filo eccessivo perfino a molti leghisti. «Un lapsus», si giustificò l’allora candidato governatore. Parole dal sen fuggite forse per colpa dello stress. Senonché, a maggio dell’anno scorso, Fontana è stato costretto un’altra volta a giustificarsi, a spiegare. E qui la faccenda si fa più seria, perché ad accusarlo sono i pm di Milano che lo hanno messo sotto inchiesta per abuso d’ufficio. Il sospetto è che il governatore abbia favorito il suo amico ed ex collega di studio, Luca Marsico, nella selezione per un posto da esperto giuridico del Nucleo valutazione investimenti della Regione. Marsico ha ottenuto quel posto. Fontana ha respinto le accuse, spiegando di aver scelto il suo ex socio, già consigliere regionale trombato alle elezioni, per «non disperdere le sue competenze». L’indagine è ancora in corso. L’eventuale rinvio a giudizio verrà deciso nelle prossime settimane. Altro stress in arrivo per il governatore. E meno gaffe, si spera.

Coronavirus, un dipendente della Regione Lombardia potrebbe essere positivo: annullata conferenza stampa. Da liberoquotidiano.it il 26 febbraio 2020. Coronavirus, è stata evacuata la sala stampa a Milano della Regione Lombardia. Sky in diretta tv ha spiegato: "Accertamenti sono in corso su persone dello staff del presidente Fontana". È stata proprio l'inviata di Sky tg24 ad annunciare che la conferenza stampa era stata cancellata e che erano in corso accertamenti sulle persone dello staff del presidente Fontana. Tutti i giornalisti sono stati invitati così ad uscire dalla sala nella sede della Regione. Immediata la decisione di cancellare la conferenza stampa prevista con i giornalisti e di evacuare l'intero piano della sala stampa per precauzione. Gli operatori sanitari hanno così potuto poter effettuare controlli sul personale nonché sullo stesso presidente Attilio Fontana.

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 26 febbraio 2020. Una stretta collaboratrice positiva al Coronavirus, il presidente della Regione Lombardia negativo, ma in isolamento. Lo stesso Attilio Fontana ha dato l' annuncio ieri sera, pochi minuti prima delle 22, mediante una diretta video facebook durata 4 minuti e 20 secondi, al termine della quale - con gesto plateale - ha deciso di indossare una mascherina, facendosi ritrarre in quella che, salvo ulteriori sviluppi, pare destinata a diventare l' immagine simbolo di questa vicenda. Si è mostrato sorridente e disteso il governatore, al termine dell' ennesima giornata drammatica, la sesta dall' inizio dell' emergenza. «Io - ha garantito guardando la telecamera - per ora non ho contratto alcun tipo di infezione, nessuna delle persone sottoposte all' esame ha contratto questo tipo di infezione, per cui possiamo continuare battaglia per combattere questo virus». Ma - ha aggiunto - «da oggi qualcosa cambierà. Anch' io mi atterrò a quelle che sono le prescrizioni date dall' Istituto Superiore di Sanità, quindi per due settimane cercherò di vivere in una sorta di auto-isolamento che preservi le persone che mi circondano, che vivono con me e che lavorano con me». La giornata era iniziata come al solito all' alba per i vertici della Regione più esposta d' Italia - e per ora d' Europa. L' appuntamento della conferenza stampa pomeridiana, inizialmente fissato per le 17, aveva subito in prima battuta un rinvio, alle 18 e 30, quindi, alle 18 e 37, è partita la mail che annunciava la cancellazione dell' incontro previsto come al solito a Palazzo Lombardia. All' insegna della massima trasparenza, l' ufficio stampa della Regione ha comunicato che la conferenza stampa era stata annullata, «poiché sono in corso alcune verifiche sanitarie su un dipendente regionale che ha avuto contatti con l' Unità di crisi che sta coordinando l' emergenza Coronavirus, in ottemperanza delle linee guida del ministero della Salute». Alle 19 e 51 un secondo annuncio. Una smentita: «Il dipendente sottoposto ad accertamenti sanitari - ha precisato la Regione - non è in forza all' assessorato al Welfare e non è un tecnico dell' Unità di crisi che sta coordinando l' emergenza Coronavirus». Altre due ore di congetture e voci incontrollate, fino all' annuncio con la diretta «social», una scena che un' ora dopo era già stata vista da 82mila persone. Una scena, quella di Palazzo Lombardia, che pare tratta da una sceneggiatura fantascientifica e che oggi farà probabilmente il giro del mondo, come le notizie sull' Italia alle prese con l' epidemia. «Evidentemente - ha spiegato pazientemente il presidente - anche noi che facciamo parte della stessa squadra, io, i collaboratori, gli assessori, tutte le persone che hanno avuto a che fare con il nucleo che si sta occupando dell' emergenza di questa infezione siamo stati sottoposti al test per accertare le nostre condizioni. È arrivato pochi minuti fa e la notizia è positiva». Hanno voluto dunque aspettare l' esito dell' esame, Fontana e il suo staff, anche perché la dipendente è una collaboratrice stretta, anche se non strettissima, che incrocia quotidianamente. Tutti i collaboratori sono stati sottoposti allo stesso esame e tutti seguiranno le stesse prescrizioni cautelative, che prevedono una distanza minima dagli altri, l' uso esclusivo di un bagno esclusivo e ovviamente della mascherina. Il presidente nei giorni scorsi ha incontrato molte persone in Regione - dove venerdì è stato accolto anche il ministro della Salute Roberto Speranza. Dalla Regione, comunque, assicurano che Fontana continuerà a recarsi a Palazzo e a svolgere le sue funzioni istituzionali, «normalmente».

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2020. «Non spaventatevi se nei prossimi giorni mi vedrete così». Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, indossa la mascherina protettiva in diretta Facebook. Ha ricevuto l' esito dei test e annuncia in prima persona di essere risultato negativo al virus, che però ha colpito una sua stretta collaboratrice. Ma anche la sua vita cambia. Continuerà a governare in prima persona la Regione, ma con contatti ridotti con le altre persone e mascherina sul volto: «Per due settimane cercherò di vivere in una sorta di autoisolamento».

Presidente Fontana, anche lei andrà in quarantena?

«Io mi sento in quarantena dal momento in cui è partita l' emergenza».

C' è già chi polemizza per il fatto che lei, da negativo al test, indossi la mascherina.

«Si tratta solo di piccole precauzioni verso le persone che mi circondano, seguirò le disposizioni dell' Istituto superiore di sanità».

Ma a che punto siamo?

«Io sono ottimista e ogni giorno mi aspetto notizie positive. Però è una situazione del tutto nuova, invito i cittadini ad avere pazienza e li ringrazio per quella dimostrata finora. Dovrebbero essere necessari almeno 6 o 7 giorni per valutare gli effetti dei nostri provvedimenti di contenimento. Ma non dimentichiamoci mai che 3 o 4 giorni di sacrifici sono molto meno costosi dell' eventualità di avere migliaia di contagi, un sistema sanitario al collasso e un territorio alla paralisi».

Come sono i rapporti con il governo e il premier dopo le polemiche dei giorni scorsi?

«Abbiamo rapporti di grande collaborazione. Conte lo sento due o tre volte al giorno, più di mia moglie. Dopodiché può capitare, quando si lavora in situazioni complicate come questa, di avere qualche scambio più ruvido».

Però sono stati sollevati dubbi espliciti su quanto avvenuto all' ospedale di Codogno e c'è anche un' indagine giudiziaria in corso.

«A Codogno sono stati rispettati tutti i protocolli, anzi è stata seguita una cautela ancora maggiore. È giusto che si faccia un' indagine, ma sono convinto che non emergerà alcuna violazione da parte di personale sanitario che da giorni si ferma a dormire in ospedale per non mettere a rischio nessuno all' esterno.

Quei medici e quegli infermieri sono degli eroi, forse sono i protocolli a essere un po' laschi».

Lei è sbottato anche durante la riunione del premier con i governatori a proposito della mancanza di mascherine.

«Be', è un disappunto comprensibile, non dovremmo trovarci ad affrontare questa situazione senza forniture adeguate di materiali».

E l' idea di una cabina di regia centrale per la gestione della crisi le sembra un modo surrettizio per scavalcare le autonomie decisionali delle Regioni?

«No, no, va benissimo. Anzi è uno strumento utile per mettere in circolo idee e soluzioni e interagire con tecnici di altissimo livello».

Insomma, si lavora in piena unità politico-amministrativa?

«Sì, certo, come è giusto che sia».

Lei l' altro giorno ha parlato di questo virus alla stregua di un' influenza. Era un modo per minimizzare l' allarme?

«No, era una constatazione oggettiva: perché noi oggi siamo in apprensione non tanto per la gravità clinica della malattia ma per la velocità della sua diffusione. Ed è contro questo che stiamo combattendo».

Intanto, però, in un territorio come la Lombardia l' economia soffre molto.

«Ne siamo tutti consapevoli e ovviamente non sottovalutiamo affatto questo aspetto.

Da una parte abbiamo la priorità di salvaguardia della salute, dall' altra di non soffocare troppo le attività economiche e ogni scelta è frutto di questa doppia valutazione. Ma invito i cittadini a continuare a collaborare, senza panico e senza abbandonarsi all' idea che tutto sia inutile».

Chi è la collaboratrice del presidente Fontana positiva al coronavirus? Veronica Caliandro 26/02/2020 su Notizie.it. Nella serata del 26 febbraio è stato annunciato un sospetto caso di coronavirus all’interno dell’unità di crisi della Regione Lombardia e pertanto è stato disposto l’annullamento della consueta conferenza stampa prevista inizialmente per le ore 18.30. Una collaboratrice del governatore Attilio Fontana, infatti, è risultata positiva al Coronavirus. Intervenuto attraverso un video su Facebook per spiegare quanto successo, il governatore Fontana ha spiegato chi è la collaboratrice contagiata dal Coronavirus. A tal proposito ha affermato: “Si tratta di una persona con la quale collaboro costantemente, una persona che io stimo tantissimo, che mi aiuta tantissimo, una persona bravissima che, purtroppo, è risultato dalle analisi alle quali si è sottoposta di essere positiva al Coronavirus. Per questo tutti noi che facciamo parte della stessa squadra, anche io con i miei collaboratori e gli assessori, siamo stati sottoposti ad un test per accertare le nostre condizioni”. Per poi aggiungere: “L’esito è arrivato pochi minuti fa e la notizia è positiva. Per ora io non ho contratto nessun tipo di infezione, così come tutte le persone che si sono sottoposte a questo test, perciò possiamo continuare a lavorare per cercare di interrompere la diffusione di questo virus“. Tuttavia, sottolinea il governatore: “Da oggi qualcosa cambierà e cercherò di attenermi alle prescrizioni date dall’Iss. Per due settimane cercherò di vivere in una sorta di auto-isolamento, che preservi tutte le persone che vivono e lavorano con me. Oggi ho già passato la giornata indossando la mascherina e continuerò a farlo nei prossimi giorni per evitare che qualcuno possa essere eventualmente contagiato da me”.

Coronavirus, positivo l’assessore lombardo Mattinzoli: test per tutta la giunta. Redazione de Il Riformista il 2 Marzo 2020. L’assessore della Regione Lombardia Alessandro Mattinzoli è risultato positivo al coronavirus. Lo riferiscono in una nota il presidente Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Mattinzoli è attualmente ricoverato in ospedale, ha la febbre alta ma non sarebbe in terapia intensiva. Chi ha potuto sentirlo in queste ore lo ha definito “tranquillo”. Dalla Regione assicurano inoltre che Mattinzoli non ha mai partecipato alle riunioni dell’Unità di crisi, attivata in Regione per affrontare e contenere i contagi. Nel comunicato diramato dal governatore si spiega che “come previsto per gli operatori dei servizi essenziali di pubblica utilità, tutta la Giunta si sottoporrà ai test di accertamento”. “Per questo siamo stati costretti a rinviare la visita agli ospedali di Lodi, Codogno e Cremona”, dichiarano Fontana e Gallera, con l’incontro che era previsto alle 9:30 all’ospedale di Lodi, da dove si sarebbero collegati a Palazzo Lombardia per partecipare alla seduta di giunta convocata per le 10. “Una volta ottenuti gli esiti, attiveremo le procedure previste dai protocolli di Regione Lombardia, condivise con il ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità per i contatti diretti”, aggiunge Gallera. Alessandro Mattinzoli, assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia, 60 anni, è nato il 30 agosto 1959 a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia. Imprenditore nel settore turistico e della ristorazione, è stato sindaco di Sirmione dal 2009 al 2018 e vice presidente della Provincia di Brescia dal 2016 al 2018. Nell’XI Legislatura, il 29 marzo 2018 è stato nominato dal presidente Attilio Fontana assessore regionale allo Sviluppo economico. le materie rientranti nell’incarico sono Industria, imprese e artigianato; Commercio, terziario e fiere.

Coronavirus, due magistrati del tribunale di Milano contagiati. La Regione: "Un piano per proteggere gli over 65". Evacuato il sesto piano del Palazzo di giustizia per una sanificazione urgente. Protezione civile e volontariato coinvolti sul modello del "piano caldo" estivo per gli anziani. Il governatore Fontana: "Stiamo combattendo i giorni più difficili". Sandro De Riccardis e Oriana Liso il 03 marzo 2020 su La Repubblica. "Stiamo combattendo i giorni più difficili: nello spazio di due o tre giorni si avrà un'idea se i contagi cominceranno a rallentare o addirittura a decrescere": il governatore della Lombardia Attilio Fontana parla in diretta a Mattinocinque, non nascondendo le difficoltà, ma lanciando un segnale di speranza. Che, però, ha bisogno della collaborazione di tutti. Per questo la Regione lancia un appello agli anziani lombardi perché nelle prossime due settimane restino il più possibile a casa e riducano al minimo i contatti sociali con parenti e amici. È la fascia di cittadini over 65, secondo i dati disponibili finora e il parere degli esperti al lavoro, quella più debole in questa emergenza sanitaria e che rischia le conseguenze più critiche dall'eventuale contagio da coronavirus. I dati aggiornati forniti dalla Regione Lombardia convalidano la richiesta d'accortezza: "Il 53 per cento dei nostri 1.254 casi positivi in Lombardia sono nella fascia dai 65 anni in su. Ma gli over 65 in terapia intensiva corrispondono al 68 per cento. Per questo ribadiamo a tutti coloro che hanno più di 65 anni la necessità di rendere estremamente rarefatta la vita sociale". E ancora: "Uscite il meno possibile nelle prossime due o tre settimane". Così si è rivolto ai lombardi l'assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, che ricorda l'attività della centrale operativa della sanità regionale impegnata in un lavoro senza sosta dalle sette del mattino alle due di notte. Due magistrati in servizio a Palazzo di Giustizia sono risultati positivi al tampone. Uno lavora alla Sesta sezione civile, l'altro in quella penale, alla sezione Misure di prevenzione. Sono entrambi in isolamento ma non sarebbero in gravi condizioni. In auto-isolamento una trentina di persone: 15 giudici delle due sezioni e 15 del personale amministrativo, che riceveranno due volte al giorno una telefonata dalle autorità sanitarie per capire le loro condizioni. Ma l'auto-isolamento potrebbe estendersi anche a tutti quelli che sono venuti in contatto con i magistrati. Sospese le udienze delle due sezioni, disposta una sanificazione urgente degli ambienti, e per questo è stato evacuato il sesto piano, facendo uscire magistrati, avvocati e tutti i presenti. Il presidente del Tribunale Roberto Bichi: "Speriamo rimangano casi isolati, altrimenti dovremmo prendere ulteriori provvedimenti". In tribunale sono arrivati i tecnici che devono sanificare aule e uffici al terzo e al sesto piano del Palazzo. Al momento, i corridoi dei due piani non sono stati chiusi, ma è probabile che le aree davanti agli uffici e alle aule interessate agli interventi verranno momentaneamente interdette all'accesso del pubblico. Fuori dagli uffici e dalle aule interessate ci sono cartelli che ne segnalano la chiusura e il fatto che le udienze delle due sezioni coinvolte (la sesta civile al sesto piano e la sezione misure di prevenzione al terzo piano) sono state rinviate. "Stanno evacuando il sesto piano del Tribunale, due casi fra i giudici - ha scritto l'avvocato Mirko Mazzali su Facebook -. Teniamolo pure aperto il Tribunale per fare udienze che possono benissimo farsi fra un paio di mesi senza che succeda nulla. Si devono fare solo le udienze urgenti, non è difficile da capire". Nella tarda serata di ieri i contagiati in Lombardia erano saliti a 1.254, i ricoverati a 478 dei quali 127 in terapia intensiva mentre i malati senza sintomi risultavano esser 472. I decessi sono cresciuti da 31 a 38, sette vittime in più tutte con più di 80 anni e patologie pregresse. La buona notizia è la guarigione dei primi due malati nella zona rossa del Lodigiano, tornati a casa in attesa dell'ultimo tampone di controllo. Per gli anziani il piano che si sta studiando coinvolge i sindaci lombardi ma anche la Protezione civile e il mondo del volontariato e ha lo scopo di attivare dei modelli di intervento sugli anziani sulla falsariga del piano anticaldo o antifreddo che viene di solito introdotto d'estate o d'inverno nelle città quando molti over 65 sono più a rischio per le condizioni climatiche estreme. Una rete straordinaria di assistenza da attuare sul territorio per aiutare gli over 65 più fragili, che magari non hanno parenti su cui poter contare, che hanno bisogno di un pasto caldo o di qualcuno che compri loro le medicine o i beni di prima necessità. In questo senso l'apporto dei volontari sarà fondamentale. Per attuare un sostegno domestico nei prossimi 15 giorni e fare in modo che questa fascia della cittadinanza possa restare in casa senza forti disagi, una accortezza che può essere risolutiva per la loro salute visto che tutti i decessi finora causati dal contagio dal coronavirus riguardano over 65. Ma anche un aiuto significativo al contenimento del virus. La stessa logica che ha portato a contingentare le visite nelle Rsa e nelle case di riposo, perché se il virus entrasse in quei luoghi sarebbe un pericolo serio per gli ospiti. Per questo è stato chiesto a parenti e amici di andare a trovare gli anziani in casi di estrema necessità, mentre in altre circostanze è meglio astenersi per tutelarli. Almeno per le prossime due settimane.

Coronavirus Milano, ricoverati al Sacco due magistrati: «Positivi ai test». Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Carlotta De Leo. Due magistrati del Tribunale di Milano sono risultati positivi al test del Coronavirus e nella notte tra lunedì e martedì sono stati ricoverati all’ospedale Sacco di Milano. Il primo giudice aveva sintomi influenzali da qualche giorno e si era sottoposto all’esame con il tampone, il cui risultato è arrivato nelle scorse ore. Con lui è stata ricoverata la moglie, giudice anche lei, risultata positiva al contagio. Il presidente del Tribunale, Roberto Bichi, ha disposto la sanificazione degli uffici delle due sezioni dove lavorano i magistrati; ha inoltre sospeso fino al 9 marzo compreso e rinviato a dopo aprile le udienze civili non urgenti, per via della «diminuzione di risorse» del personale a sua disposizione. Una quindicina di magistrati e altrettanti impiegati delle cancellerie delle due sezioni sono in isolamento volontario per 14 giorni, come previsto dal protocollo di profilassi. In questi giorni palazzo di Giustizia era quasi deserto, ma non del tutto: alcune udienze infatti si sono svolte regolarmente e poche sono state quelle rinviate. I responsabili degli uffici hanno anche invitato il personale amministrativo, che è a contatto diretto con il pubblico, a mantenere una distanza di almeno due metri dagli utenti, come prevedono le norme adottate per l’emergenza sanitaria. Non è possibile dare in dotazione mascherine perché, annotano nel documento finale della riunione, non sono state fornite dal Ministero della Salute. Sono stati invece tutti rinviati i processi nei quali compaiono parti (imputati, difensori, parti civili e magistrati) che provengono dalle zone in cui si sono verificati focolai da Covid-19 . La procura di Milano ha chiuso gli uffici al pubblico fino a nuove ulteriori disposizioni. Per le informazioni al pubblico gli utenti potranno rivolgersi al primo terra dove si trova l’ufficio Urp, le comunicazioni con gli avvocati invece avverranno prevalentemente per via telematica.

Coronavirus in Lombardia, positivo l'assessore Mattinzoli. "Buona giornata a tutti. Tengo a farvi sapere che il mio morale è buono, sono tranquillo, nonostante, per ora, la febbre non abbia intenzione di mollare". Così l'assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Alessandro Mattinzoli, dal nosocomio bresciano dove è ricoverato in un audio messaggio pubblicato sulla pagina Facebook di Lombardia Notizie Online. "Sono felice - ha aggiunto l'esponente della giunta - che tutti i miei colleghi di giunta siano risultati negativi. "Noi contagiati - ha sottolineato - siamo veramente in ottime mani e guariremo sicuramente tutti. Un saluto alla mia famiglia, a tutti i lavoratori e collaboratori di Regione Lombardia, a partire dal mio staff e dalla mia Direzione e un pensiero agli imprenditori che anche loro, non contagiati, stanno vivendo un momento difficile". Ieri solo alla fine di una lunghissima giornata si tira un sospiro di sollievo: nessun assessore è stato contagiato oltre ad Alessandro Mattinzoli. L'assessore regionale alle Attività produttive di Sirmione sul lago di Garda, al mattino, era stato ricoverato all'ospedale di Brescia dopo l'esito positivo del tampone. Durante una diretta sul suo profilo su Facebook, il governatore Attilio Fontana annuncia che la " giunta ha stanziato 40 milioni per affrontare l'emergenza". Con una delibera che prevede l'acquisto di alcune attrezzature innovative. Si tratta soprattutto di un primo lotto di 62 ventilatori portatili, una specie di casco che posizionato sul paziente induce ossigeno e lo aiuta a respirare. "Sono i primi ma stiamo cercando di recuperarne altri appena saranno reperibili", fa sapere l'assessore al Bilancio Davide Caparini. Questi ventilatori sono strategici perché possono essere posizionati in tutti i reparti di Pneumologia e in certi casi eviterebbero che per alcuni malati contagiati dal virus sia necessaria la terapia intensiva.

Coronavirus, allarme alla Scala: corista infetto forse già prima del focolaio di Codogno. Stop al teatro si prolunga. Test su tutti gli attori e le maestranze che hanno portato in scena il Trovatore. Primo caso in Puglia: Emiliano ordina chiusura delle scuole nel Tarantino. La Repubblica il 27 febbraio 2020. La diffusione del Coronavirus contina ad aumentare. I contagi  sono arrivati a quota 456, 131 in più del giorno prima: è la crescita più alta fin qui registrata. Le regioni coinvolte sono diventate dodici: Lombardia (con 305 casi), Veneto (71), Emilia Romagna (47), Liguria (16), Piemonte, Lazio, Marche e Sicilia (3), Toscana (2), Alto Adige, Campania e Puglia (1). I morti sono dodici. L’ultimo, un uomo di Lodi di 69 anni, con patologie respiratorie pregresse, morto in Emilia Romagna.

Corista della Scala positivo, stop alle attività: preoccupano i tempi. Un corista della Scala è risultato positivo al Coronavirus e il teatro milanese ha disposto di prolungare lo stop alle attività fino al 2 marzo. Ma a far temere i vertici del teatro e le autorità sanitarie non è tanto la sospensione degli spettacoli e delle prove, quanto i tempi del contagio. Il dipendente infatti è assente per malattia sin dal 13 febbraio, oltre una settimana prima della scoperta del focolaio lombardo. La Scala ha diramato un avviso urgente a tutti i dipendenti e le maestranze: chiunque abbia lavorato per la messa in scena de Il Trovatore il 12 febbraio o sia venuto in contatto con il collega dovrà sottoporsi agli accertamenti. Il corista non è ricoverato e ha superato la fase acuta della malattia. La notizia arriva poche ore dopo l'appello del sindaco Sala al premier Conte: "Riapriamo Milano". Invece si prospetta uno stop più lungo per il teatro simbolo.

Chiuse le scuole del Tarantino. Intanto in Puglia si è registato il primo caso di contagio. Un uomo di 43 anni di Torricella in provincia di Taranto è risultato positivo al test del coronavirus:aveva sintomi influenzali e ha spiegato ai medici di essere arrivato domenica 23 febbraio a casa dopo essersi allontanato dalla zona rossa di Codogno. L'uomo è ricoverato all'ospedale Moscati di Taranto. A dare l'annuncio del primo caso di contagio da coronavirus in Puglia è stato il governatore Michele Emiliano su Facebook. Successivamente il governatore ha disposto la chiusura di tutte le scuole della provincia di Taranto fino al 29 febbraio.

Validati due casi in Toscana. E' arrivata nella notte la validazione da parte dell'Iss, attesa da ieri, dei primi due casi positivi al coronavirus in Toscana. E' quanto si spiega dalla Regione. Si tratta dell'imprenditore fiorentino di 63 anni e del 49enne di Pescia (Pistoia), quest'ultimo rientrato giovedì scorso da Codogno. In Toscana ci sono stati altri due casi sospetti positivi per quali la Regione attende la validazione di Iss: un 65enne vicino di casa dell'imprenditore 63enne e un norvegese di 26 anni che studia a Firenze.

Dagospia il 26 febbraio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Sono Andrea e chiamo da Brescia, ho preso un volo dalla Cina a Mosca e poi Milano Malpensa. Nessun controllo, zero. Sul volo dalla Cina alla Russia c’era una donna che si è sentita male, aveva la febbre, sono arrivate persone con le mascherine, ci hanno fatto scendere. Poi arrivato in Italia nessun controllo, potrei spargere il virus ovunque”. Così un ascoltatore a La Zanzara su Radio 24. Dov’eri in Cina?: “Non lontanissimo dalla zona di Wuhan”. Che è successo a Mosca?: “Ci hanno controllato la temperatura, una ragazza aveva la febbre, l’hanno isolata e noi siamo scesi”. Poi?: “Ho preso un volo da Mosca a Milano. A Malpensa ho preso la mia valigia e sono uscito. Nessuno mi ha detto nulla, nessuno mi ha chiesto da dove venivo. Nulla, zero. Una cosa che mi ha stupito moltissimo”. “Dopo aver fatto i miei bisogni in un autogrill – racconta – ho chiamato tutti i numeri, ma dopo ore di attesa ho lasciato perdere. Poi questa mattina ho richiamato e mi hanno chiesto se avevo la febbre: ho detto di no, e mi hanno detto di richiamare solo se ho la febbre. Ho chiesto se è possibile fare un tampone, e hanno detto di no. Non gliene frega un cazzo”. “In teoria ci vogliono alcuni giorni di incubazione – dice Andrea – e dunque potrei infettare tutte le persone che incrocio. E’ normale tutto questo”. 

(LaPresse il 26 febbraio 2020) - Diciotto carabinieri della Compagnia di Codogno, nel Lodigiano, sono in quarantena volontaria dopo aver manifestato sintomi compatibili con il coronavirus. Da quanto si apprende da fonti vicine ai militari che si sono ammalati, tutti avrebbero preso parte ad una cena con un collega in congedo, poi risultato positivo al virus, che si sarebbe svolto in caserma. I carabinieri, sottolinea la medesima fonte, hanno accompagnato fin dalle prime ore del contagio i medici a casa dei cittadini esposti al covid 19 e dunque sarebbero stati esposti al virus. I militari, in ogni caso, alcuni casi presenterebbero lievi sintomi della malattia.

 "La mia non-vita da segregata. E con 3 chili di meno". La paura chiude lo stomaco e non fa dormire: «Ci aggrappiamo alla speranza via WhatsApp». Patrizia Baffi, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Da venerdì io e mia figlia Lucia viviamo da separate in casa. Stanze e bagni divisi. Guanti alle mani, mascherine alla bocca. A tavola si mangia lontani, ai lati opposti. Ma ormai pranzo e cena non sono più una gioia. Ho perso tre chili. L'angoscia mi blocca lo stomaco. Ci facciamo forza a vicenda, ma è incredibile come le nostre vite stiano cambiando. Giovedì eravamo felicissime. Lucia studia ingegneria automobilistica. Da un mese era segregata a Modena, studiava aerodinamica, l'esame più difficile. Non vedevamo l'ora di festeggiare il suo trenta e lode. Giovedì non si poteva perché ero a Milano in Consiglio Regionale. Venerdì quella notizia ha cancellato tutto il nostro entusiasmo. Ora Lucia mi guarda e ripete «non sono più contenta» «non c'è più nulla da festeggiare». È stato un bel colpo. Venerdì ho capito subito che c'eravamo dentro fino al collo. Lui, il paziente numero uno come lo chiamano, lo conosco perché facciamo parte dello stesso club podistico anche se da quando sono in Consiglio Regionale non corro più. Il mio primo istinto è stato quello di mettermi al lavoro. Da dieci anni sono anche Consigliere e a Codogno conosco tutti. Ho cercato i suoi amici. Volevo tranquillizzarli, ma anche spiegare che era importante collaborare, cercare di ricostruire tutti i passaggi del contagio. Il brutto è venuto dopo. Non appena ho passato tutti quei dati all'assessorato alla Sanità è incominciata l'angoscia, sono iniziati i pensieri. Difficile distrarsi. Qualcuno esce, va fuori, gira per il paese. Io no. Sono sempre stata ligia alle regole. A scuola non ho mai preso una nota, nella vita mai una multa. Quindi se dicono di limitare gli spostamenti io lo faccio. Del resto là fuori non c'è un gran mondo. Hanno tutti guanti e mascherina. A volte ti riconosci a stento. E pochi hanno voglia di parlare. Un cenno di saluto e poi via, ognuno per la sua strada. Qualche giornale racconta che la gente esce clandestinamente. Magari era vero fino a domenica, ma da lunedì ci sono i posti di blocco. Qualcuno l'ha fatto per far rifornimento. So di qualche contadino che è andato a metter a posto la sua cascina. Ma da quanto ne so io la grande maggioranza dei miei concittadini sta obbedendo. La cosa peggiore per noi che siamo qui prigionieri sono le polemiche politiche. Vi prego smettetela non ci aiutano. Ci regalano solo altra angoscia e brutti pensieri. Gli stessi che la notte diventano incubi e ci fanno pensare che non ne usciremo più. Che non ci faranno più uscire da qui. Sono solo incubi ma quando sei sola nel letto è difficile venirne fuori. Penso a mia madre che è anziana, vive sola ed è ancora debole per un'operazione. Penso a Lucia che a volte piange e a volte, invece, riesce a sorprendermi per la sua forza. Penso a quei suoi due o tre amici che hanno fatto il tampone e ora risultano positivi. Ma penso anche ai loro messaggi audio. Lucia ogni tanto me li fa ascoltare. Hanno voci tranquille, trasmettono serenità, invitano gli amici a non preoccuparsi. Mi riecheggiano nella mente riempiono l'oscurità e lentamente mi trascinano fuori dall'incubo. Loro sono le voci della tranquillità. Sono le voci della generazioni che ci aiuterà a dimenticare tutto questo. Sono loro a trascinarmi fuori dagli incubi della notte per ritrovare le certezze del nuovo giorno. Sono la mia iniezione di fiducia. Perché loro cresceranno mentre questo male presto passerà.

Codogno, salta già la quarantena: i cittadini escono senza controlli. Stando alle testimonianze, i cittadini del paese focolaio del coronavirus non rispetterebbero le norme: "Non ci sono militari". Rosa Scognamiglio, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. A Codogno, in questo momento, si può entrare e uscire. Non ci sono controlli, nonostante i divieti stabiliti ieri sera dopo il consiglio straordinario dei ministri. Lo riferiscono più fonti all'AGI. "Non ci sono militari, niente di niente, nessun controllo di accesso o in uscita", spiega un abitante della cittadina. "Sono entrata e uscita e sto passeggiando nel paese", è la testimonianza di una donna arrivata da Milano. Saltano le misure restrittive e di massima allerta stabilite nel "decreto emergenza" diramato dal Governo centrale per contenere la diffusione del virus fuori dai confini territoriali del lodigiano. Stando alle ultime indiscrezioni, pare che, contrariamente a quanto deciso, la "zona rossa" della Lombardia non sia pattugliata da alcun militare ma, al contrario, sia garantita invece la libera circolazione dei cittadini. Dopo l'esplosione della pandemia, che in Lombardia ha fatto registrare il paziente 1 proprio a Codogno, in provincia di Lodi, il consiglio dei ministri aveva emesso un decalogo di provvedimenti stringentissimi al fine di evitare una propagazione a macchia d'olio del Covid-19. Posti di blocco intorno ai paesi del contagio, corridoi sterili per garantire l'approvvigionamento dei generi alimentari e farmaceutici ai cittadini in quarantena ma, soprattutto, pattuglie di militari per cinturare i luoghi colpiti dall'epidemia. Sulla base del "modello Wuhan", infatti, si è deciso di schierare in campo anche l'esercito, proprio come è accaduto nella provincia di Hubei, ground zero del nuovo virus. Ogni area dove vivono o sono transitate persone positive ai test avrebbe dovuto essere completamente isolata ed interdetta alla circolazione. Le vie di accesso avrebbero invece dovuto essere controllate da auto di polizia e carabinieri in modo che nessuno potesse entrare o uscire ad eccezioni di esigenze particolari accertate da un'autorizzazione del prefetto. Ma stando alla indiscrezioni, il piano emergenza sembrerebbe essere già saltato. Ma Codogno non è l'unico paese dove manca la cintura di sicurezza delle Forze dell'Ordine. Stando a quanto riporta il quotidiano locale Il Cittadino, al casello autostradale di Ospedaletto-Casalpusterlengo, lungo la statale 234, non ci sono pattuglie militari a controllo del traffico in entrata ed uscita dalla "bassa". I mezzi circolano senza nessuna limitazione sulla strada ragion per cui è impossibile prevedere se si tratti di residenti oppure no. Ad ogni modo, qualora venissero applicate le misure stabilite, i trasgressori rischiano fino a 3 mesi di carcere con un'ammenda fino ai 200 euro.

Caos a Codogno, i cittadini aggirano i divieti della quarantena. Un residente: è panico assoluto. Martino Della Costa domenica 23 febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia. Coronavirus, non basta la paura del contagio. Non bastano i richiami istituzionali alla precauzione. E non sono sufficienti neppure le sanzioni fissate per chi non rispetta limiti e disposizioni della quarantena. Come noto, i trasgressori rischiano fino a 3 mesi di carcere con un’ammenda fino ai 200 euro. In barba a paura e psicosi. Controlli e contagi. E stando a quanto riferito da alcuni testimoni del posto, a Codogno sarebbe il caos. Con le misure restrittive di massima allerta stabilite nel “decreto emergenza” diramato dal governo per contenere la diffusione del virus già disattese. In queste ore il sito dell’Ansa riferisce della inquietante testimonianza di un infermiere dell’ospedale di Codogno che, «raggiunto telefonicamente dall’agenzia di stampa afferma che “tutto ciò che dicono non è vero. Non c’è niente sotto controllo. È il panico assoluto. L’ospedale è chiuso al pubblico. E i parenti dei degenti continuano a chiamare preoccupatissimi per i familiari ricoverati. Pazienti che oggi sono stati sottoposti al tampone. La mia impressione  – conclude l’operatore sanitario – è che prima hanno lasciato scappare i buoi, poi hanno chiuso la stalla». Non solo. A quanto si apprende dai racconti di gente del posto, i cittadini del paese epicentro del focolaio del coronavirus sarebbero in grado di trasgredire in assenza di controlli. Scrive infatti l’Agi: «Non ci sono militari. Nessun controllo di accesso o in uscita», spiega un residente. «Sono entrata e uscita e sto passeggiando nel paese», incalza una persona arrivata da Milano. Dunque, stando a quanto filtra dalla zona rossa della lombardia, non ci sarebbero pattuglie di militari in loco a evitare trasgressioni e la libera circolazione di cittadini che dovrebbero essere in quarantena. eppure, come noto a tutti ormai, in provincia di Lodi il consiglio dei ministri straordinario di ieri sera ha emesso un decalogo di provvedimenti urgenti e imprescindibili al fine di evitare il dilagare a macchia d’olio del Covid-19 e il diffondersi dei contagi. Una serie di stringenti misure di sicurezza che, sulla base del “modello Wuhan” prevederebbero dal blocco intorno ai paesi del contagio ai corridoi sterili per garantire l’approvigionamento di generi alimentari e farmaceutici. Dalla disposizione dei divieto di circolazione per i cittadini in quarantena, fino alla dislocazione capillare di pattuglie di militari per presidiare e isolare i luoghi colpiti dall’epidemia. Tutto già saltato?

Non solo Codogno: manca la cintura di sicurezza delle Forze dell’Ordine. E non è ancora tutto: stando a quanto riporta Il giornale in queste ore, «Codogno non è l’unico paese dove manca la cintura di sicurezza delle Forze dell’Ordine. Stando a quanto riporta il quotidiano locale Il Cittadino, al casello autostradale di Ospedaletto-Casalpusterlengo, lungo la statale 234, non ci sono pattuglie militari a controllo del traffico in entrata ed uscita dalla “bassa”. I mezzi circolano senza nessuna limitazione sulla strada. Ragion per cui è impossibile prevedere se si tratti di residenti oppure no». Un dubbio crescente, un pericolo sempre più strisciante…

E’ panico. A Codogno le persone aggirano il decreto emergenza. Forestalinews domenica 23 febbraio 2020.  Coronavirus, non basta la paura del contagio. Non bastano i richiami istituzionali alla precauzione. E non sono sufficienti neppure le sanzioni fissate per chi non rispetta limiti e disposizioni della quarantena. Come noto, i trasgressori rischiano fino a 3 mesi di carcere con un’ammenda fino ai 200 euro. In barba a paura e psicosi. Controlli e contagi. E stando a quanto riferito da alcuni testimoni del posto, a Codogno sarebbe il caos. Con le misure restrittive di massima allerta stabilite nel “decreto emergenza” diramato dal governo per contenere la diffusione del virus già disattese. In queste ore il sito dell’Ansa riferisce della inquietante testimonianza di un infermiere dell’ospedale di Codogno che, «raggiunto telefonicamente dall’agenzia di stampa afferma che “tutto ciò che dicono non è vero. Non c’è niente sotto controllo. È il panico assoluto. L’ospedale è chiuso al pubblico. E i parenti dei degenti continuano a chiamare preoccupatissimi per i familiari ricoverati. Pazienti che oggi sono stati sottoposti al tampone. La mia impressione  – conclude l’operatore sanitario – è che prima hanno lasciato scappare i buoi, poi hanno chiuso la stalla». Non solo. A quanto si apprende dai racconti di gente del posto, i cittadini del paese epicentro del focolaio del coronavirus sarebbero in grado di trasgredire in assenza di controlli. Scrive infatti l’Agi: «Non ci sono militari. Nessun controllo di accesso o in uscita», spiega un residente. «Sono entrata e uscita e sto passeggiando nel paese», incalza una persona arrivata da Milano. Dunque, stando a quanto filtra dalla zona rossa della lombardia, non ci sarebbero pattuglie di militari in loco a evitare trasgressioni e la libera circolazione di cittadini che dovrebbero essere in quarantena. eppure, come noto a tutti ormai, in provincia di Lodi il consiglio dei ministri straordinario di ieri sera ha emesso un decalogo di provvedimenti urgenti e imprescindibili al fine di evitare il dilagare a macchia d’olio del Covid-19 e il diffondersi dei contagi. Una serie di stringenti misure di sicurezza che, sulla base del “modello Wuhan” prevederebbero dal blocco intorno ai paesi del contagio ai corridoi sterili per garantire l’approvigionamento di generi alimentari e farmaceutici. Dalla disposizione dei divieto di circolazione per i cittadini in quarantena, fino alla dislocazione capillare di pattuglie di militari per presidiare e isolare i luoghi colpiti dall’epidemia. Tutto già saltato? E non è ancora tutto: stando a quanto riporta Il giornale in queste ore, «Codogno non è l’unico paese dove manca la cintura di sicurezza delle Forze dell’Ordine. Stando a quanto riporta il quotidiano locale Il Cittadino, al casello autostradale di Ospedaletto-Casalpusterlengo, lungo la statale 234, non ci sono pattuglie militari a controllo del traffico in entrata ed uscita dalla “bassa”. I mezzi circolano senza nessuna limitazione sulla strada. Ragion per cui è impossibile prevedere se si tratti di residenti oppure no». Un dubbio crescente, un pericolo sempre più strisciante…

Strade di campagna per evitare i blocchi: «Denuncia penale per chi le utilizza». L’argine di Somaglia o la via del Chiavicone usati per “fuggire”. Il Cittadino Mercoledì 26 Febbraio 2020. Laura Gozzini Lungo la strada del Chiavicone o sull’argine di Somaglia partendo da località Bellaguarda, sono solo due delle vie di fuga escogitate da alcuni residenti nei dieci comuni della zona rossa, per superare i varchi presidiati dalle forze dell’ordine. «Abito nella bassa di Santo Stefano Lodigiano e vedo passare persone di San Fiorano e di Codogno che passa davanti a casa mia e arriva in questi due paesi tramite strada sterrata. Passano sia di giorno che di notte, camioncini, furgoni, macchine e biciclette. Possibile che debbano per forza uscire e metterci tutti nei guai?» racconta un cittadino confermando la notizia che ieri ha suscitato rabbia e indignazione tra quanti, fortunatamente la maggior parte, osservano invece rigorosamente il divieto di uscire dal perimetro “sigillato”. A denunciare l’andazzo è anche un operaio di Mirabello, altra zona fuori dalla cintura di sicurezza, che ogni giorno mentre va al lavoro assiste alle deviazioni fuorilegge di quanti «per non spendere 1.70 di autostrada fanno tutto l’argine passando da Somaglia, in piena zona rossa, e sbucano a Sam Rocco al Porto scavalcando i controlli», spiega. «Io per arrivare al lavoro devo partire venti minuti prima del solito e questi invece percorrono una strada demaniale non transitabile, come segnalato dai cartelli alla base dell’argine, e per giunta in zona rossa» prosegue il lavoratore che lunedì ha postato un video delle auto incriminate in diretta su Facebook e tempo dieci minuti gli è stato bannato. Il problema resta, e ne sono state informate le forze dell’ordine, come avvertiva ieri il sindaco di San Fiorano Mario Ghidelli: «Ci sono persone che stanno utilizzando le strade di campagna per uscire dalla zona rossa, ho già segnalato la cosa ai carabinieri e se verranno scoperti saranno denunciati penalmente. È una cosa vergognosa che qualcuno vada a farsi la spesa o in giro nonostante il divieto di uscire. Un comportamento incivile nei confronti di tutte quelle persone che vivono nel nostro territorio e che stanno rispettando a pieno le disposizioni».

Non rientra nella zona rossa, la “fuga” gli costa una denuncia. Primo caso, il cittadino di Codogno era a Firenze. Il Cittadino il 27 febbraio 2020. Si fa autorizzare per uscire dalla zona rossa per motivi sanitari, ma i carabinieri di Firenze lo fermano in riva all’Arno. E dopo i controlli incrociati scatta la denuncia per un uomo di Codogno, che ora dovrà rispondere penalmente per inosservanza dei provvedimenti di pubblica sicurezza e per falso. «Grandissimo impegno per aiutare la popolazione a superare i disagi, ma c’è bisogno della collaborazione di tutti perché si parla di un’emergenza di carattere sanitario. I furbi saranno individuati e puniti come previsto dalla legge» fanno sapere dalla centrale operativa della Prefettura di Lodi. Nei primi giorni di isolamento altre cinque persone erano state fermate nei campi attorno alla zona rossa dei dieci comuni dalle forze dell’ordine, ma non è noto se nei loro confronti sia scattata la denuncia penale prevista dal decreto ministeriale, dal momento che sono stati fermati mentre ancora si allontanavano dall’area. L’uomo di Codogno aveva presentato una richiesta di autorizzazione alla centrale operativa della Prefettura per uscire dalla zona rossa lunedì per motivi sanitari, e gli era stata concessa una deroga con l’indicazione che raggiungesse il punto prelievi più vicino della zona gialla. Una delle tantissime autorizzazioni che ogni giorno viene valutata, tra le 500 e le 600, in crescita rispetto ai primi giorni. Una volta autorizzato, l’uomo si è presentato ai check point ed è stato regolarmente fatto passare. Ma invece che recarsi al punto prelievi più vicino, il codognese ha imboccato l’autostrada A1 direzione Firenze. E qui solo un disguido ha fermato la sua fuga. Infatti, si è dovuto rivolgere a una banca e quando ha mostrato il documento che lo indicava residente a Codogno, è scattato l’allarme. Sono quindi stati contattati i carabinieri, ai quali l’uomo però con fare arrogante ha contrapposto il permesso rilasciato dalla Prefettura di Lodi. Forse contava sul fatto che non si svolgessero controlli incrociati nella complessità del lavoro di questi giorni, ma ha fatto male i suoi conti evidentemente. Dalla Prefettura hanno verificato l’autorizzazione rilasciata, con la specifica di poter raggiungere solo il punto prelievi più vicino della zona gialla, e a quel punto i carabinieri di Firenze hanno denunciato l’uomo per l’inosservanza delle prescrizioni del decreto governativo (articolo 650 del codice penale) e per falsa dichiarazione (articolo 495 del codice penale). Il codognese ha fatto rientro nella zona rossa.

Coronavirus in Lombardia: a Codogno si entra e si esce senza controlli. Nessun controllo in entrata e uscita a Codogno, la cittadina in provincia di Lodi da cui si è sviluppato uno dei due focolai italiani di coronavirus. La città è tra i Comuni sottoposti dal governo a isolamento ma secondo quanto riporta l’agenzia Agi si può entrare e abbandonare la cittadina senza essere sottoposti ad alcun controllo. Susanna Picone il 23 febbraio 2020 su Fanpage.it. A Codogno, in questo momento, si può entrare e uscire e non ci sono controlli, nonostante quanto stabilito nella serata di ieri dopo il consiglio dei ministri straordinario dopo le decine di contagi di coronavirus in Italia. A darne notizia sono diverse fonti all'Agi. "Non ci sono militari, niente di niente, nessun controllo di accesso o in uscita", le parole di un abitante della cittadina nella provincia di Lodi. "Sono entrata e uscita e sto passeggiando nel paese", è quanto ha detto una donna arrivata da Milano. "Siamo in un limbo, siamo tutti chiusi in casa. Non possiamo allontanarci dai nostri comuni”, le parole invece di un medico di Codogno contattato telefonicamente dall’Ansa. "A parte il fatto che qui non si sta spostando nessuno, e che oggi è domenica, non possiamo lavorare, non possiamo andare al bar né al ristorante – ha aggiunto il medico – Ci attacchiamo a Netflix o a Sky, oppure ai buoni libri. Per fortuna sto ricevendo un sacco di telefonate di solidarietà da parte degli amici”. In Lombardia il numero di contagi è salito a 89. Due i focolai di coronavirus in Italia, uno nella Bassa lodigiana e l'altro a Vo' Euganeo. Le persone decedute sono finora due, una in Lombardia e una in Veneto. Il governo ha varato misure drastiche per contenere i contagi: per gli oltre 50.000 cittadini di 11 Comuni – Casalpusterlengo, Codogno, Castiglione d’Adda, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano e Vo’ – è stato deciso l'isolamento totale, ovvero appunto nessuno potrà entrare o uscire, salvo casi eccezionali. A controllare i loro spostamenti saranno le forze dell'ordine con posti di blocco attorno alle cittadine. La virologa Ilaria Capua ha parlato dell’emergenza coronavirus a Fanpage.it facendo riferimento a una "emergenza sanitaria” che possiamo chiamare sindrome influenzale da Coronavirus: “Influenzale, già. Perché questa infezione provoca nella stragrande maggioranza dei casi sintomi molto lievi e solo in pochi casi – con patologie intercorrenti e con situazioni particolari – provoca effetti gravi. Esattamente come ogni normale influenza”. Quello che dobbiamo fare ora, secondo Ilaria Capua, è rispettare le regole che ci vengono date.

FRIULI VENEZIA GIULIA.

Le bare e i militari per strada: così si combatte il coronavirus in Friuli-Venezia Giulia. L’esercito, che trasporta le bare, è impegnato sul fronte nord orientale del virus con lo schieramento di Strade sicure. A Trieste il prefetto ha chiesto e ottenuto 115 dragoni di rinforzo del reggimento Piemonte cavalleria schierato al fianco della polizia in città e lungo il confine con la Slovenia. Fausto Biloslavo, Martedì 07/04/2020 su Il Giornale.  Il silenzio per i caduti, come in guerra, irrompe nella giornata grigia di Gemona del Friuli. I soldati in mimetica con le mascherine e guanti di protezione scattano sull’attenti davanti alle bare che spuntano dal cassone di uno dei tre camion militari. Le vittime del virus cinese sono arrivate da Bergamo, che non riesce a cremarle tutte. “Gemona non si è tirata indietro per i bergamaschi ricordandoci della solidarietà ai tempi del terremoto del 1976. Mai avremmo pensato a qualcosa del genere. Oggi la loro sofferenza è anche la nostra” dichiara il sindaco, Roberto Revelant. Nella mattinata fredda e uggiosa anche lui è sull’attenti, con la fascia tricolore, per salutare l’ultima volta i feretri. Il forno crematorio di Gemona, come altri in Friuli, riduce in cenere i caduti della pandemia. L’esercito, che trasporta le bare, è impegnato sul fronte nord orientale del virus con lo schieramento di Strade sicure. A Trieste il prefetto ha chiesto e ottenuto 115 dragoni di rinforzo del reggimento Piemonte cavalleria schierato al fianco della polizia in città e lungo il confine con la Slovenia. Dall’inizio dell’emergenza si temono ancora di più i clandestini lungo la rotta balcanica. In realtà, dopo un’impennata in febbraio, nel mese di marzo gli arrivi sono diminuiti per paura del Covid 19. “Tutte le forze armate sono impegnate in prima linea al fianco dei medici e degli infermieri, che combattono la guerra contro il virus” sottolinea il colonnello Giuseppe Russo, comandante del Piemonte cavalleria. La Difesa ha messo a disposizione una struttura militare alle porte del capoluogo giuliano per la quarantena. All’interno le stanze per i positivi senza sintomi sono confortevoli con la tv e in riva al mare. “Non vedevo l’ora dopo giorni in ospedale” confessa un contagiato appena portato in ambulanza, che cammina sulle sue gambe. A Trieste esercito e polizia mettono in piedi pattugliamenti e posti di blocco per controllare il rispetto delle restrizioni sulle uscite di casa. I volontari dell’Associazione nazionale alpini con i giubbottoni della Protezione civile distribuiscono mascherine lavabili casa per casa imbucandole nelle cassette della posta. Anche la polizia locale fa la sua parte. L’equipaggio Alfa 7 controlla alle 8.30 del mattino lo scarso traffico sulle Rive sferzate dalla bora. In gran parte gente che va a lavorare con regolare autocertificazione. L’uomo al volante, che viene fermato con il figlio piccolo dietro sul seggiolino, non tira giù il finestrino. Da dietro il vetro mostra un codice sul telefonino, che lo identifica come positivo al virus, ma autorizzato ad andare a fare dei controlli medici. Non tutti rispettano le regole: pochi giorni fa è stata chiusa un’osteria dove si continuava a bere tranquillamente. “Qualche furbetto c’è sempre - racconta l’agente Monica Ceci - Ma il caso più inaspettato è quello di un tizio che ha violato i divieti per prendere un’ostia consacrata e portarla a casa alla moglie”.

Trieste, gli eroi in guerra per salvare vite. Con i medici dell'ospedale: "Siamo messi male, ma che gioia risvegliare i pazienti". Fausto Biloslavo, Lunrdì 06/04/2020 su Il Giornale. «Anche noi abbiamo paura. É un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile» spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella «guerra» contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una «recluta» arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. «Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus - racconta l'infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all'idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui». Bardati come due marziani spariscono nell'ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l'ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l'ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l'ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l'inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d'Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. «Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute» ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell'Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l'emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. «Sono bombe virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi». Nell'ospedale di Cattinara «la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno» spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l'emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un'altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un «palombaro» le scrivono sulla schiena il nome e l'orario di ingresso con un pennarello nero. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l'ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L'anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l'infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All'interfono racconta l'emozione «del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok». E se qualcuno non ce la fa Mara spiega «che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all'ultimo momento». Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare «con tutto il cuore» i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: «Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere». Il fiore all'occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: «Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l'estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente». Prima di venire intubati i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: «Mio nonno era un ragazzo del '99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del '99 di questa guerra». 

VENETO.

Paolo Biondani e Andrea Tornago per “L’Espresso” il 18 dicembre 2020. Dopo il triste corteo dei camion militari in marzo a Bergamo, le foto choc della seconda ondata arrivano dalla provincia di Verona: un container frigorifero sistemato nel cortile di un ospedale, per accogliere le salme delle troppe vittime del Covid. Succede a Legnago, la cittadina di 25 mila abitanti dove ha sede il secondo polo sanitario pubblico della provincia. L'ospedale non riesce più a gestire il record dei contagi, ricoveri e decessi: l’obitorio è pieno, per cui le bare vengono spostate nel contenitore d'acciaio collocato all'esterno. Verona è la provincia più colpita dal coronavirus, con più di 1.300 morti e quasi 20 mila persone attualmente positive. E gli ospedali scoppiano, come testimonia il chirurgo Ivano Dal Dosso, segretario veronese del sindacato dei medici Anaao: «Siamo in una situazione di estremo stress, a Legnago l’altro giorno in pronto soccorso c’erano 49 pazienti, di cui 20 in attesa di un letto. Ormai si gestiscono i malati direttamente lì, con il casco Cpap, come se fosse una terapia semi-intensiva. E questi pazienti non risultano nemmeno censiti nei bollettini della Regione, perché tecnicamente non sono ricoverati». Non va meglio nelle altre province venete, come raccontano gli altri rappresentati degli operatori sanitari ormai stremati. Stefano Polato, medico dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, registra una «situazione decisamente preoccupante: sia le terapie intensive che i reparti attualmente disponibili sono pieni, basta un soffio di vento perché tutto precipiti». Anche a Vicenza, conferma l’ematologo Enrico Di Bona, «il quadro è grave e se continua così si arriverà al collasso, perché tutti gli ospedali dovranno essere riconvertiti esclusivamente al Covid». A Treviso il chirurgo ortopedico Pasquale Santoriello, dell’ospedale cittadino Ca’ Foncello, parla di «personale distrutto, sfinito dai turni di 12 ore nelle tute di plastica, e sempre più soggetto al contagio. Poco fa ho incrociato un amico infermiere che mi ha riferito di essere appena risultato positivo al test: stava scappando dall’ospedale passando per gli scantinati, per cercare di non contagiare nessuno». In Veneto si era registrata, il 21 febbraio, la prima vittima italiana della pandemia. Nei mesi successivi della prima ondata questa regione, grazie alla massiccia campagna di controlli con tamponi molecolari avviata dall'ospedale universitario di Padova, ha limitato i contagi e i decessi rispetto al resto del nord Italia. Le riaperture incontrollate di questi mesi in zona gialla, però, hanno fatto esplodere i contagi e i decessi nella seconda ondata. E anche oggi, come ormai da settimane, il Veneto registra il record nazionale di nuovi contagiati (oltre 4.400) e delle vittime: altri 92 morti in 24 ore. Il primo a lanciare l’allarme era stato il segretario regionale dell’Anaao, il dottor Adriano Benazzato, che aveva contestato i criteri utilizzati dalla Regione Veneto per conteggiare i posti disponibili nelle terapie intensive: «In realtà sono soltanto 639, per attivarne 500 in più bisognerebbe assumere almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati e preparati, che in Veneto non ci sono». Gli fa eco il suo vice, Andrea Rossi, geriatra dell’ospedale Borgo Trento di Verona: «In Veneto iniziamo a raschiare il fondo del barile. Qui o la regione cambia colore, oppure rischiamo di trovarci in un'emergenza ancora peggiore. Tra poco il Covid potrebbe sommarsi al picco dell’influenza. E se non si corre subito ai ripari, la nave andrà a picco come era successo a Brescia e a Bergamo nella prima ondata».

Vietato mettere in ombra Luca Zaia: e la macchina leghista attacca Andrea Crisanti. L'Espresso il 10/6/2020. Lo strano caso del dottor Zaia e mister Zyde. Il primo è un politico abile e navigato, cresciuto nella regione più democristiana d’Italia: un leghista moderato e popolare, attento ai problemi del suo elettorato, capace di fare squadra, ascoltare gli esperti più autorevoli e limitare i danni dell’emergenza coronavirus. Quando getta la mascherina, però, Luca Zaia diventa mister Zyde: un negazionista che parla di «pandemia mediatica», si batte per riaprire tutto senza limiti, punta i piedi per ridurre a un metro la distanza di sicurezza contro il parere dell’Inail, attacca gli scienziati che lui stesso fino a poco prima elogiava. Tra le due personalità del presidente della Regione Veneto c’è di mezzo un’altra emergenza: la campagna elettorale. Zaia cerca il terzo plebiscito, vuole essere rieletto al più presto, con la stella di eroe della lotta al virus, e per la sua propaganda ha bisogno di mister Zyde. In queste settimane di ripartenza in salita il nuovo nemico è un professore, Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di microbiologia del polo ospedale-università di Padova. Crisanti è uno scienziato di fama internazionale: è stato il capo della sezione di malattie infettive e immunologia dell’Imperial College di Londra. Dal giugno 2019 è tornato a lavorare in Italia. Dove dal gennaio scorso ha ispirato il “modello Padova”: tamponi a tutti i potenziali contagiati, anche senza sintomi; isolamento dei positivi. Una linea contrastata dai vertici della sanità veneta. In particolare dal direttore generale Domenico Mantoan, che in una lettera datata 11 febbraio (già pubblicata dall’Espresso) minacciava un processo al professore per danni erariali. Dopo il 21 febbraio, però, quando si scopre il primo focolaio a Vo’ Euganeo (e a Codogno in Lombardia), il presidente Zaia capisce di aver bisogno di uno scienziato come Crisanti e autorizza il suo piano: tamponi a tutti, grazie alle massicce scorte di reagenti acquistate in anticipo dal professore. Quindi il governatore diventa il primo propagandista della linea di Crisanti. Il politico illuminato dalla scienza. Il divorzio si consuma in soli tre mesi. Il 21 maggio, per la prima volta, il bollettino veneto non registra alcun nuovo contagio. Crisanti fa l’errore di ricordare che «l’intuizione di cercare gli asintomatici ha pagato». Nella conferenza stampa giornaliera, esplode l’ira del governatore: «Attenzione a come si comunica». Da quel giorno al suo fianco comincia a comparire la dottoressa Francesca Russo, direttrice del settore prevenzione, sicurezza alimentare e veterinaria, che il presidente veneto presenta così: «È lei che ha fatto il piano dei tamponi». La strategia giusta sui tamponi è stata quella della regione del Nord-Est. Scelta dagli scienziati che hanno avuto il coraggio di andare contro le direttive dei potenti burocrati locali. Ecco come si sono mosse le altre regioni e quali sono i problemi in vista della fase 2. Crisanti invece diventa «genio e sregolatezza», «un cavallo di razza che ogni tanto scalcia, morsica, sgroppa». Gli attacchi, diretti e indiretti, si moltiplicano. Il messaggio centrale è che il modello veneto non l’ha ideato Crisanti, come Zaia ripete più volte: «Il piano di sanità pubblica è stato presentato dalla dottoressa Russo ancora prima del 21 febbraio... Già a gennaio abbiamo messo in fila 14 laboratori per fare i tamponi, non solo Padova». E la dirigente conferma: «Per il Covid ho redatto quattro procedure operative per la fase 1, ora stiamo scrivendo la prima della fase 2». A quel punto Crisanti perde le staffe: «Ho letto che la dottoressa Russo avrebbe avuto un piano tamponi già il 31 gennaio: questa è una baggianata. Lei questo piano non ce l’aveva, non c’era proprio l’obiettivo di cercare i pazienti asintomatici». Di fronte alle opposte versioni, L’Espresso ha cercato i documenti. Che sono chiarissimi. Il primo piano della Regione Veneto per l’emergenza coronavirus è datato 11 febbraio e si limita a recepire le direttive del ministero: tamponi solo a soggetti in contatto con malati già accertati (in quel momento, solo due turisti cinesi) oppure a «persone sintomatiche di ritorno da Wuhan». Il primo documento regionale che parla di tamponi agli asintomatici è una delibera del 17 marzo, a firma dell’assessore Manuela Lanzarin: è l’atto che recepisce il progetto di «sorveglianza attiva» elaborato dal dipartimento di Crisanti. Un «piano di individuazione dei soggetti positivi pauci-sintomatici ed asintomatici», che chiama proprio la struttura di Padova a «fornire supporto a tutta la regione» per eseguire più tamponi possibile e «interrompere la trasmissione del virus». Mentre la dottoressa Russo, di sorveglianza attiva, non aveva mai parlato. Anzi, il 28 febbraio, in un video delle aziende sanitarie, rassicurava così gli anziani: «Ho tranquillizzato i miei genitori dicendo tra l’altro che hanno già contratto l’influenza: al momento non abbiamo motivo di preoccuparci». E quali sono invece i casi da sottoporre a tampone? Risposta: «L’elemento cruciale è l’essere stato in un Paese a rischio oppure a contatto con un caso già confermato. Altrimenti posso assolutamente pensare che si tratti di un’influenza stagionale». Del piano per i tamponi di massa, nessuna traccia. Nelle prime settimane sembrava destinata a diventare un focolaio e invece si è registrata una vistosa frenata. Ecco la ricetta di questa svolta. Ma il professor Crisanti avverte: 'Il contagio continua nelle case, bisogna requisire alberghi per le quarantene". Quel 28 febbraio non è la giornata più felice per la comunicazione leghista. Lo stesso giorno, infatti, il governatore si trasforma in mister Zyde in diretta televisiva, sostenendo che i cinesi hanno molte più vittime dei veneti «perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi». Nello slancio polemico, il governatore sposa pure le tesi di Trump e Bolsonaro: «Questa è solo un’influenza, anzi una psicosi internazionale. C’è una pandemia mediatica vergognosa. Per noi le scuole possono tranquillamente riaprire». Tornato nei panni di presidente della seconda regione italiana attaccata dall’epidemia, però, Luca Zaia autorizza Crisanti a fare i tamponi all’intera popolazione di Vo’. È il famoso test di massa che prova il ruolo-chiave degli asintomatici. Ma già l’otto marzo, quando il governo chiude la Lombardia e mezzo Veneto, torna in scena Mister Zyde: «Il nostro comitato regionale ha elaborato una relazione: consideriamo sproporzionato, esagerato, se non inopportuno inserire tre province venete nelle zone rosse». Tre giorni dopo, il dilagare dell’epidemia costringe il governo a sigillare tutta Italia. Tra marzo e aprile, la crescita esponenziale manda in crisi anche la sanità veneta. Zaia confessa di aver vissuto giorni di terrore, con le terapie intensive prossime alla saturazione. E allora diventa il governatore dei tamponi. E il re delle mascherine: «Si dovrebbero rifiutare le cure a chi non le indossa». Prodotte da un’azienda privata, le mascherine con la bandiera veneta vengono regalate a tutte le famiglie. Anche se sono inefficaci: nelle avvertenze spedite ai medici (ma non ai cittadini) la stessa Regione riconosce che «non garantiscono la protezione degli utilizzatori, né il mancato contagio di soggetti terzi». Il leader veneto della Lega ha anche il fiuto politico di prendere le distanze dalla Lombardia di Fontana e Salvini, accreditandosi come campione della sanità pubblica: «Siamo tra le regioni con meno strutture private, che sono soprattutto religiose». Quindi bolla come false le accuse di tutte le opposizioni (Pd e Cgil, Cinquestelle e comitati civici contro tagli e chiusure) di aver sacrificato gli ospedali pubblici a vantaggio dei privati. I dati però confermano le denunce. In Veneto, dal 2002 al 2019, gli ospedali pubblici hanno perso 3.629 posti letto, i privati ne hanno guadagnati 517. E dal 2013 al 2019 le terapie intensive pubbliche sono scese da 755 a 652, quelle private sono aumentate (solo) da 48 a 53. Come documenta la Corte dei Conti, il Veneto è diventato la terza regione con la più ricca sanità privata, dietro la Lombardia del sistema Formigoni e il Lazio, da sempre capitale delle cliniche d’oro e degli ospedali religiosi. Ogni cento euro spesi dai veneti per curarsi, in particolare, più di 40 vanno alla sanità privata: soldi pubblici versati dalla regione agli ospedali convenzionati (28 per cento del totale) e cure in clinica pagate dai cittadini di tasca propria (13%). Anche i dati sul coronavirus mostrano che il modello è Padova, non il resto del Veneto. La città dell’ospedale-università, benché colpita per prima, ha moltiplicato subito i tamponi, isolato i reparti a rischio, ridotto i contagi. E ha avuto meno vittime di Vicenza, Treviso, Venezia e soprattutto di Verona, che ha fatto un decimo dei tamponi e ha il doppio dei morti. Ed è anche la provincia con i più ricchi ospedali privati. La macchina della propaganda regionale però parla d’altro. La caccia allo scienziato serve a screditare chi può oscurare i meriti di politici e burocrati. E a cercare voti tra i cittadini esasperati dai divieti, ignorando i dubbi degli esperti. E così al dottor Zaia torna a sostituirsi il complottista Zyde: «Se il virus perde forza vuol dire che è artificiale». E le mascherine? Dimenticate, come decreta il presidente veneto nella nuova veste di eroe della ripartenza: «Dal primo giugno via la mascherina. Si indossa solo in luoghi chiusi». L’emergenza elettorale ora impone di zittire le critiche. Un primario dell’ospedale di Padova, Costantino Gallo, è finito sotto procedimento disciplinare per aver scritto su Facebook che le mascherine di Zaia non servivano a niente. Essendo vero, l’accusa è stata archiviata. Mentre il super direttore Mantoan, ora promosso a capo dell’Aifa e dell’Agenas, ha querelato per diffamazione il capogruppo regionale dei Cinquestelle, Jacopo Berti, colpevole di aver criticato il suo stop ai tamponi di Crisanti. «Se si fanno processi penali a chi pubblica notizie vere, cambiamo nome alla regione», ironizza Berti: «Chiamiamola Corea del Nordest».

Modello Veneto, scoppia lo scontro sui meriti. Crisanti contro la Regione: «Vogliono riscrivere la storia». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Marco Bonet. Ora che l’emergenza è passata, e tutta l’attenzione è concentrata sulla «Fase 2», nel Veneto portato da molti scienziati a modello nella gestione dell’epidemia del Coronavirus esplode uno scontro clamoroso all’interno della squadra capitanata dal governatore Luca Zaia (che proprio grazie ai risultati centrati negli ultimi tre mesi rivaleggia col premier Giuseppe Conte nella classifica del consenso nazionale). Motivo del contendere è il ruolo di Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia dell’Aziende Ospedaliera di Padova, il professore atterrato dall’Imperial College di Londra diventato agli occhi dell’opinione pubblica «l’uomo dei tamponi», ossia la mente del massiccio piano di tracciamento dei contagi che contro l’opinione dell’Oms e dell’Istituto Superiore di Sanità ha permesso al Veneto di contenere il numero delle vittime rispetto a Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte. L’attenzione nei confronti di Crisanti nelle ultime settimane è cresciuta in modo vertiginoso, anche per via del carattere originale e poco avvezzo a mediazioni del professore, ma ora che tra corsie e laboratori le acque si sono calmate, Zaia ha deciso di intervenire per ristabilire quelli che a suo dire sono «ruoli, meriti e responsabilità». L’aveva già fatto una decina di giorni fa, spiegando che lui e soltanto lui «contro legge» aveva deciso di chiudere Vo’ non appena scoperti i due contagi, aveva ordinato di eseguire tamponi di massa e di procedere con l’isolamento fiduciario dei casi sospetti. Era il 21 febbraio e solo il 3 marzo, dunque dodici giorni dopo, «il professor Crisanti mi chiamò per collaborare, proponendomi uno studio specifico su Vo’». Una ricostruzione confermata ieri dal sindaco di Vo’, Giuliano Martini. Nell’occasione Zaia enfatizzò al contrario il ruolo di Francesca Russo, direttore del Dipartimento di prevenzione della Regione, sconosciuta al grande pubblico sebbene, come ha spiegato il governatore, «sia lei la madre del piano che prevede i tamponi, l’isolamento e insomma tutto ciò che oggi viene citato come il modello vincente del Veneto». E non è un caso che dopo altre incomprensioni (quando Zaia sostenne che il virus «perdeva forza» e dunque «probabilmente era artificiale», Crisanti in tivù lo rimbrottò: «Ma che vuol dire “perde forza”? Non ci sono prove, non ha senso…») venerdì il governatore abbia voluto proprio Russo al suo fianco per smentire quanto annunciato dal professore dell’università di Padova e cioè che il Veneto aveva tagliato il traguardo del «contagio zero». «Non è così — ha detto Russo — immagino che Crisanti abbia parlato in buona fede ma dobbiamo fare attenzione ai messaggi che lanciamo all’opinione pubblica». E di nuovo Zaia ne ha approfittato per elogiarla: «È insostituibile, la vera mente del nostro piano, ha un ruolo strategico. Crisanti? Una colonna, bravissimo, ma dirige uno dei nostri laboratori, ce ne sono altri tredici in tutta la regione». Crisanti, stavolta, non l’ha presa bene ed ha replicato seccamente: «Vengono dati meriti a persone che non ne hanno. Se la dottoressa Russo aveva un piano sui tamponi, deve spiegare perché l’8 febbraio il suo ufficio mi ha intimato di non farne più a chi tornava dalla Cina. Dire che aveva un piano è una baggianata. Vogliamo prendere in giro tutti? Io non ho interessi politici, se volete credere alle favole siete liberi di farlo. Fino a ieri pensavo che collaborassimo e che i meriti venissero riconosciuti… Vogliono riscrivere la storia». Russo ha definito «scorretto l’intervento» di Crisanti, gli ha intimato di «non mettere mai in dubbio la mia onestà» e ha contro replicato, carte alla mano, sostenendo che il professore non ha mai chiesto formalmente di eseguire i tamponi, «l’ha detto alla stampa», e richiesto di un chiarimento «ha detto di essere stato travisato e di volersi attenere alle linee guida nazionali». Che in quel momento non prevedevano «tamponi di massa». Un duello pubblico tra scienziati che ha molto imbarazzato Zaia, perché rischia di incrinare l’immagine di efficienza del Veneto e di gettare un’ombra pesante sui meriti fin qui attribuiti alla Regione nella gestione dell’emergenza: «Non voglio polemiche tra fuoriclasse, voglio fare da paciere — taglia corto ora il governatore —. Il merito è della squadra e se abbiamo voglia di fare rivendicazioni, pensiamo ai 1.840 morti e ci passa subito la voglia».

Coronavirus, Crisanti: "Piano Veneto sui tamponi era una baggianata". Ma Zaia non ci sta.

Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da Enrico Ferro su La Repubblica.it.  E' di nuovo scontro tra il virologo coordinatore della ricerca scientifica condotta sulla popolazione di Vo' Euganeo e il governatore, che ribatte: "Si fa confusione, dovrò mettere a posto i cocci". Qualche settimana fa sui social girava un fotomontaggio: un album di figurine Panini ma non dei calciatori, bensì dei virologi. Era una burla ma probabilmente è anche per questo senso comune nei confronti degli scienziati che ora in Veneto si consuma uno dei testa a testa più duri dall'inizio della pandemia: quello tra il governatore del Veneto Luca Zaia e il direttore del laboratorio di Microbiologia di Padova Andrea Crisanti. A nessuno dei due dispiace l'idea di essere ricordato come l'uomo dei tamponi, colui che ha salvato il Veneto dal coronavirus. Ma mentre all'inizio la diplomazia governava il rapporto tra questi due uomini con il piglio da leader, ora volano gli stracci.

Zaia sostiene che il merito vada al piano redatto dal suo Dipartimento di prevenzione ma Crisanti gli risponde senza tanti giochi di parole: "Baggianate". E così il governatore leghista, alla vigilia delle elezioni regionali e con un gradimento superiore al 60%, si ritrova nella paradossale di situazione di avere come contendente principale non un esponente della corrente avversa, bensì un virologo. Non uno qualunque, peraltro. Andrea Crisanti, scienziato di fama internazionale dopo un lungo periodo all'Imperial College di Londra, emerge a livello nazionale in contrapposizione alla Regione Veneto subito 24 ore dopo il primo morto di coronavirus in Italia, che fatalità è successo proprio a Vo', in provincia di Padova.

Medicina e Ricerca Coronavirus: "Il 50-75% dei casi a Vo' sono asintomatici. Una formidabile fonte di contagio" Un carteggio datato 11 febbraio fa riferimento all'idea di Crisanti di sottoporre al tampone non solo coloro che mostravano sintomi compatibili con l'infezione, ma tutti coloro che rientravano dalla Cina. "Esistono infatti pazienti asintomatici: portatori sani che pur non mostrando alcun segno della malattia sono stati contagiati e possono contagiare altre persone. Una verifica su tutti i potenziali malati, quindi, sarebbe auspicabile proprio sulla base delle indicazioni della comunità scientifica internazionale", fa presente il virologo.

La Regione gli risponde con il direttore della sanità veneta Domenico Mantoan (in quota Lega): "Si chiede di conoscere sulla base di quali indicazioni ministeriali o internazionali si sia ipotizzata tale scelta di sanità pubblica o se il suddetto percorso rientri all'interno di un progetto di ricerca approvato dal Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica di riferimento", si legge nel documento. Il richiamo è al coordinamento centrale, "elemento imprescindibile per la corretta risposta all'emergenza". Si precisa poi che "eventuali proposte in ambito assistenziale, discostanti da quanto ad oggi definito, devono essere condivise con la Direzione Prevenzione".

Il documento si chiude facendo riferimento al fatto che una spesa del genere non rientrerebbe tra le prestazioni coperte dalla sanità nazionale". Esplode la polemica, con il consigliere regionale grillino Jacopo Berti che grida allo scandalo. L'aumento esponenziale dei contagi, dei decessi e delle zone rosse, metterà a tacere i contendenti. Ma la ferita rimane aperta. Andrea Crisanti si concentra su Vo' e coordina la ricerca scientifica  unica al mondo sulla popolazione del paese colpito dal coronavirus, con ben tre cicli di tamponi a tutti i 3.300 abitanti.

Le interviste si moltiplicano sui media nazionali e internazionali ma anche il governatore Zaia, al ritmo di una conferenza stampa al giorno, guadagna terreno in termini di consensi. E mentre la Lombardia va a picco, il Veneto regge lo tsunami del virus. Zaia e Crisanti, Crisanti e Zaia. In un paio di occasioni finiscono insieme in conferenza stampa ma non ci vuole tanto a interpretare lo spirito individualista di entrambi. Giovedì arriva il giorno in cui in Veneto si registrano "zero contagi".

Crisanti, ad Agorà e a Radio3, spiega che il Veneto ha tagliato l'importante traguardo con largo anticipo rispetto alla simulazione statistica. Orgoglio da scienziato. Ma Zaia non apprezza e, ancora una volta, sottolinea che la vittoria è della squadra diretta dalla professoressa Francesca Russo, capo del Servizio di Prevenzione del Veneto. Dice anche che la Russo aveva già un piano tamponi. Crisanti ribatte: "Se la dottoressa Russo aveva un piano sui tamponi, deve spiegare perché l'8 febbraio il suo ufficio mi ha intimato di non fare più i tamponi a chi tornava dalla Cina. Dire che aveva un piano è una baggianata. Vogliamo prendere in giro tutti?. Io non ho interessi politici, se volete credere alle favole siete liberi di farlo. Fino a ieri pensavo che collaborassimo e che i meriti venissero riconosciuti, io posso dimostrare tutto e loro no. La dottoressa Russo non scriverà nessun report scientifico, perché non ha nessun dato in mano".

Anche Zaia non esita a rispondere: "Premesso che Crisanti è una colonna portante della sanità veneta e ha un grande merito di aver ottimizzato il lavoro del laboratorio che gli compete, nell'analisi del virus, dico che la dottoressa Russo ha per legge l'obbligo e il dovere di redigere i piani di sanità pubblica. Qualsiasi sanitario può esprimere le due considerazioni. Sarà il mio ruolo mettere a posto i cocci di un'ulteriore polemica, ma le polemiche non servono".

Ancora Crisanti:  "Ora tutti vogliono la paternità di micro e macro successi per ragioni politiche, così possono riscrivere la storia". Zaia si porta in conferenza stampa la professoressa Russo, che torna sull'argomento: "Crisanti ha dichiarato di voler fare tamponi ai cinesi attraverso la stampa, non ha mai fatto una richiesta formale. La notizia l'abbiamo appresa l'11 febbraio da una dichiarazione ai giornali e scrissi una lettera con Mantoan (direttore Sanità del Veneto) per chiedere a Crisanti se ci fossero indicazioni ulteriori di cui era in possesso o se era interessato a presentare un progetto di ricerca".

Crisanti torna a testa bassa e attacca sui tamponi, argomento caro a Zaia: "Se non avessimo usato i reagenti dell'Imperial College, ci avremmo messo un mese e mezzo a sviluppare i tamponi, con tutta la burocrazia che ci hanno messo. Ora vogliono cambiare la narrativa, vste da uno che è stato in Inghilterra, queste cose mi fanno tenerezza".

Zaia prova a metterci una pietra sopra: "Si confonde lo studio di Vo', cioè la materia scientifica che arriva a fine quarantena, e Crisanti ha avuto una bella intuizione, con il Piano di sanità pubblica del Veneto. Non c'entra niente. È una nobilissima attività di ricerca scientifica. Punto". E la professoressa Russo puntualizza: "I tamponi a Vò sono costati 150 milioni di euro, messi a disposizione con delibera di Giunta". Luca Zaia, a fine conferenza stampa, si defila furbamente e dice di voler fare da paciere tra i due fuoriclasse Crisanti e Russo. Ma la verità è che nell'album delle figurine Panini ci vorrebbe finire anche lui.

Da adnkronos.com il 28 maggio 2020. "Penso che dovremmo tutti quanti avere un po' di senso di decenza", se non altro "per rispetto a tutte le sofferenze e ai morti. Io sulle sofferenze e sui morti non voglio speculare". Ciò premesso, "se loro dicono di avere avuto questi piani, li tirassero fuori". Rivolge questo invito alla Regione Veneto Andrea Crisanti, responsabile del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Azienda ospedaliera di Padova, dopo che in un'intervista a 'Il Fatto Quotidiano' il governatore Luca Zaia torna a soffiare sul fuoco della polemica esplosa in merito alla paternità della strategia regionale risultata vincente nella gestione dei tamponi per la diagnosi di Covid-19. "In genere non guardo le interviste che do, non leggo i social e nemmeno leggo gli articoli che parlano di me. Si figuri questa cosa", risponde Crisanti contattato dall'Adnkronos Salute nell'ora che per tanti italiani è quella in cui si sfogliano i giornali. Per molti, ma non per il virologo dell'università di Padova, che i passaggi in cui si scrive di lui se li fa leggere al telefono. Replicando così: "Una polemica su quelli che possono essere i meriti ci sta in tutte le situazioni in cui c'è stato un grande risultato. Questo è normale, è nella natura umana cercare in qualche modo di accaparrarsi il merito". Tuttavia, "per quanto riguarda questa situazione particolare, ritengo che" farlo "non sia una cosa eticamente giusta". Basta liti, "rispetto per i malati e per i morti" e "senso di decenza", invoca Crisanti. "Piuttosto che chiedere a me, chiedete a loro questi piani", dice lo scienziato in riferimento a quelli che Zaia torna ad attribuire a Francesca Russo, capo del Dipartimento di Prevenzione della Regione Veneto, e Domenico Mantoan, direttore generale Area Sanità e Sociale. "Chiedete a loro. Se i piani sono protocollati, se sono autentici, chiedete a loro. Io non voglio attizzare polemiche sulle sofferenze e sui morti che ci sono stati", ribadisce Crisanti. "Io non voglio speculare sulle sofferenze e sui morti" della pandemia di coronavirus. "Basta", chiede il virologo. "Penso che gli italiani abbiano visto sotto i loro occhi lo svolgersi di questa epidemia e abbiano visto chi ha fatto cosa. Hanno visto che cosa ho detto e su cosa mi sono battuto fin dall'inizio", rivendica. "Se vogliono che mostri tutta la documentazione lo farò, anche se preferirei non arrivare a questo punto", aveva dichiarato Crisanti nei giorni scorsi. "Le carte parlano chiaro", aveva osservato, e "penso che verranno fuori da sole, che devono tirarle fuori loro", precisa oggi. Quanto all'invito a smettere di andare in televisione, a selezionare di più, la risposta a Zaia è che "io non ho mai preso 1 euro da nessuna apparizione in tv. Ho solo partecipato a programmi di informazione e non ho mai sollecitato nessun intervento".

Vittorio Ravà per Dagospia il 13 aprile 2020. Nel 1923 si inaugurava a Cortina l’ospedale  restaurando un vecchio albergo asburgico e introducendo le innovative tecniche sviluppate dal professore Codivilla al Rizzoli di Bologna. Negli anni ‘60 esisteva una seconda unità ospedaliera, la clinica Grignes che permetteva ai luminari di tutta Italia di visitare o operare mentre si trovavano in vacanza. Oggi il povero medico di base rappresenta l’unico baluardo sanitario e in più viene vissuto come un untore dagli eroici ampezzani che hanno fatto di tutto per mantenere l’ultima gara del campionato del mondo di sci, prevista a metà marzo, ma annullata solo una settimana prima del lockdown, perchè money first. Mia nonna veniva a Cortina all’inizio del novecento quando era ancora asburgica e mio nonno fu il primo ufficiale Italiano a liberare Cortina dagli austriaci nel 1918,costruendo la strada del Giau. Mio padre ha passato qui i suoi anni migliori e qui ha conosciuto mia madre nel ‘52. Io ne conosco ogni pietra ed ogni mugo e adesso i miei nipoti di Londra e di Milano qui hanno imparato a sciare. Alla fine degli anni ‘50 i contadini affittavano le case sopra le stalle, tagliavano il fieno e mungevano le vacche, adesso le vacche da mungere sono i foresti che con i negozi, bar, ristoranti chiusi non servono più, anzi distraggono il medico di base che deve essere a disposizione solo degli Ampezzani. Mi meraviglio che ancora il sindaco non abbia fatto una delibera in cui si sancisca la priorità per i Regolieri, le famiglie originarie, che gestiscono il demanio comunale che non è di tutti i residenti o domiciliati che pagano l’Imu più cara d’Italia, ma solo loro. Ancora oggi, dopo più di un secolo, non hanno permesso l’introduzione del catasto italiano continuando ad avere la deroga per utilizzare il catasto Asburgico con il sistema Tavolare. Oggi al Codivilla c’è solo un pronto soccorso che smista i malati negli altri ospedali Veneti, ma dov’erano i nostri Eroi del Boite quando chiusero prima la clinica Grignes e poi il Codivilla. Venezia dal 2011  ad oggi si è mobilitata contro il declassamento dell’ospedale civile, utilizzando il numero dei turisti per restare nella classe di un ospedale da capoluogo di regione, mentre qui il villeggiante serve solo se spende. I locali si curano invece  a Milano, allo IEO o al Monzino, al primo cancro o al primo infarto come altri 100.000 italiani di altre regioni, fonte Matteo Salvini. Senza Milano non sarebbero arrivate le Olimpiadi del 2026 come dimostrano i reiterati tentativi falliti degli ultimi 70 anni. Il castello chiuso porta all’economia curtense, non certo quella di questi giorni quando la cooperativa riesce a non mettere in cassa integrazione gran parte dei suoi dipendenti per il grande lavoro dei reparti aperti: alimentare, casalinghi, ferramenta, vini e igiene personale, strategicamente allocati al piano terra, Grazie ai foresti. Cortinesi fate una sana autocritica e pentitevi delle maldicenze di questi giorni, anche perchè gli Ampezzani contagiati possono solo dare la colpa ai propri figli che lavorano o studiano fuori sede.

Coronavirus, in Veneto la fase due: 500 mila test in strada per scovare chi è già stato colpito. Per le categorie a rischio l’obiettivo della Regione guidata dal governatore Luca Zaia è di arrivare a 13 mila tamponi al giorno. Fabio Tonacci il 22 Marzo 2020 su La Repubblica. Il "modello Veneto" di contenimento del contagio passa alla fase 2.0. Allo screening intensivo mediante tamponi cominciato fin dall'inizio dell'epidemia su tutti i contatti dei casi positivi (ne hanno fatti 57.671, la Lombardia - con una popolazione doppia - è a poco più 70 mila), l'amministrazione regionale guidata dal governatore Luca Zaia affianca ora altre due iniziative. La prima: test alla popolazione, per strada e su base volontaria, con un kit anticorpale, per individuare chi ha avuto il virus in forma asintomatica e lo ha superato. La seconda: una "campagna parallela", mirata e di massa, sotto il diretto controllo del microbiologo Andrea Crisanti (lo stesso che ha proposto la campionatura di tutti gli abitanti di Vo'), per sottoporre all'esame del tampone le categorie più a contatto con il pubblico quali i 54 mila operatori sanitari veneti, le forze dell'ordine, i dipendenti di supermercati, autisti di autobus, assistenti nelle case di riposo. L'obiettivo, dicono dalla Regione Veneto, è di arrivare entro la settimana a un regime di 13.000 test al giorno. "Non facciamo 5 milioni di tamponi, perché non serve", spiega Zaia. "E' un piano per mettere in sicurezza le persone a rischio. Se abbiamo molti casi di positività anche in Veneto è perché andiamo a cercarli. Abbiamo difficoltà ad avere i reagenti, forse il dimensionamento delle forniture non ha tenuto conto del fatto che ci potesse essere una Regione di pazzi e squilibrati come la nostra che si è inventata la strategia del tampone e isolamento". Il "modello Veneto" si arricchisce dunque del kit monoclonale anticorpale, un sistema diagnostico di uso domestico. La Regione ne ha ordinati 500 mila. Funziona così: basta una puntura su un dito e dalle tracce di sangue il kit è in grado di rilevare, in un quarto d'ora o poco più, la presenza degli anticorpi del Covid-19. Questo permette di sapere se un soggetto ha contratto il virus tempo fa, è rimasto asintomatico o con pochi sintomi, poi si è negativizzato. I test saranno offerti per strada, previa la firma del consenso informato, da operatori della Protezione Civile alle persone autorizzate a circolare per motivi di lavoro o per le altre ragioni previste dal decreto Conte. "Questo - osservano dallo staff di Zaia - ci permetterà di sfoltire la lista di chi vogliamo sottoporsi al tampone". Un frame del video su Facebook, nel quale un farmacista italiano sostiene che l'antivirale Avigan usato in Giappone funzioni anche per il Covid-19. Non solo. Zaia vuole sperimentare in Veneto anche l'Avigan, il farmaco antinfluenzale usato in Giappone contro il virus, protagonista nelle ultime ore di un video sul web nel quale si dice che l'antivirale è efficace contro il Coronavirus se somministrato ai primissimi sintomi. "Spero di partire con la sperimentazione già oggi", dice Zaia. Ma l'Agenzia italiana del farmaco, che inizia anch'essa la valutazione, avverte: "Non ci sono prove che funzioni".

Coronavirus, Locatelli: "Farmaco Avigan? Bene sperimentazione, ma su efficacia mancano prove certe".

No al Protocollo Ascierto troppo Meridionale!.

Coronavirus, morto il primo medico in Italia: si tratta dell'anestesista Chiara Filipponi. Libero Quotidiano il 07 marzo 2020. È morto il primo medico in Italia di coronavirus. Si tratta dell'anestesista Chiara Filipponi dell'ospedale di Portogruaro (Venezia). La donna aveva contratto il virus, che l'aveva indebolita, in corsia. Anche se le sue condizioni erano già gravi a causa di una malattia per la quale era ricoverata, all'ospedale dell'Angelo di Mestre, da un mese. "Le Regioni devono essere trasparenti e dare indicazioni univoche ed efficaci per la protezione del personale sanitario - fa sapere il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, -. Medici, infermieri, farmacisti in queste ore stanno gestendo anche questa emergenza con abnegazione, professionalità, etica e senso del dovere. Non devono essere abbandonati a loro stessi ma messi in condizioni di sicurezza. Perché ogni professionista contagiato o in quarantena non solo è una risorsa sottratta al Servizio sanitario nazionale ma un potenziale veicolo di contagio per i colleghi e i pazienti". E ancora: "Per questo chiediamo alle Regioni un report dettagliato sulla disponibilità dei dispositivi di protezione - conclude -. Abbiamo già chiesto l’intervento del ministro perché forniscano i dati sul numero di colleghi contagiati e in quarantena in modo da poterli sostituire anche con personale proveniente da altre zone d’Italia".

I pm aprono un fascicolo sul primo morto per virus a Padova. Nel fascicolo aperto dagli inquirenti non vi sono nè indagati nè ipotesi di reato. Sono state acquisite le cartelle cliniche dell'ospedale dove Adriano Trevisan è stato ricoverato per cercare di capire se siano state adottate tutte le linee guida di fronte alla malattia. Sofia Dinolfo, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Sono ore cruciali queste per le Regioni italiane che stanno facendo i conti con il coronavirus. Piani d’emergenza adottati nelle varie città colpite direttamente dal virus, tavoli tecnici a lavoro per far fronte alle esigenze sanitarie della popolazione e quarantene per gli abitanti delle città focolaio della malattia. Una situazione che sta generando non poche preoccupazioni fra la gente che, tra prudenza e un moderato nervosismo, sta seguendo tutte le misure di carattere precauzionale che vengono richieste dagli esperti. E mentre da una parte vi è la corsa contro il tempo per evitare che la situazione possa degenerare facendo accrescere il numero dei contagiati e la conta dei morti, da un’altra parte si cerca di capire cosa ci sia stato dietro la morte della prima vittima da coronavirus in Italia. Stiamo parlando del caso di Adriano Trevisan, il 78enne di Vo’ Euganeo, deceduto il 22 febbraio scorso nell’ospedale di Schiavonia, nella Bassa Padovana. La procura di Padova ha aperto infatti un fascicolo d'inchiesta, a carico di ignoti, per accertare con maggiore chiarezza come sia avvenuto il decesso del paziente. Si tratta al momento di un’indagine che non ha indagati e nemmeno ipotesi di reato. Gli inquirenti hanno chiesto all’ospedale in questione le cartelle cliniche del paziente per accertare se le linee guida rispetto alla malattia, siano state eseguite. Quando si parla di linee guida, si fa riferimento al protocollo da seguire nei casi di sospetta presenza del virus e quindi, dalla fase di diagnosi a quella di contenimento del contagio. L’uomo, ex titolare di un’impresa edile, da anni in pensione, si trovava ricoverato in ospedale da una decina di giorni prima che gli venisse diagnosticato il coronavirus. I sintomi per i quali il 78enne ha richiesto le cure del personale specializzato sono stati quelli di una grave forma influenzale. Pochi giorni dopo però, le sue condizioni sono peggiorate precipitosamente. Da qui i test che hanno confermato la positività al virus. Poi, la morte. Con l’apertura dell’inchiesta adesso si mira a fare luce su cosa sia accaduto in quei momenti che hanno preceduto la fase dei tamponi e delle analisi, fino ai provvedimenti adottati dal momento in cui è stato diagnosticato il coronavirus. L'ospedale di Schiavonia, alle porte di Monselice, dopo il fatto è stato sottoposto a sanificazione attraverso diverse procedure che hanno richiesto lo svuotamento di alcuni reparti. La prima vittima italiana da coronavirus, non era mai stata in Cina e nemmeno era venuta in contatto con gente proveniente dalla Nazione messa in ginocchio da Covid-19. L’unica abitudine, da quando era andata in pensione, era quella di recarsi nel bar del paese per scambiare quattro chiacchiere con gli amici e giocare a carte. Nulla di più o di meno. Dunque, risulta ancora difficile poter ricostruire anche i frammenti di vita privata che hanno riguardato Adriano Trevisan prima del ricovero in ospedale.

"Lo ha ucciso il Coronavirus ma era mio padre, non solo un numero". Le parole dignitose e composte di Vanessa, la figlia del 78 enne di Vo’ morto venerdì scorso all’ospedale di Schiavonia (sul decesso la procura di Padova ha aperto un’inchiesta), riportano questa storia sul piano dove deve stare. Il lutto in famiglia, il cordoglio, il momento del ricordo. Fabio Tonacci il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. "Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è mio papà. È il marito di mia madre Linda. È il nonno di Nicole e di Leonardo". Le parole dignitose e composte di Vanessa, la figlia del 78 enne di Vò morto venerdì scorso all'ospedale di Schiavonia (sul decesso la procura di Padova ha aperto un'inchiesta), riportano questa storia sul piano dove deve stare. Il lutto in famiglia, il cordoglio, il momento del ricordo. Un piano da cui la psicosi per il virus venuto dalla Cina la stava togliendo. Vanessa ha 45 anni, è stata sindaco di Vò fino alla primavera scorsa ("non scrivete Vò Euganeo, si chiama Vò e basta", tiene a dire), adesso è chiusa in casa per i 14 giorni della quarantena, che condivide con sua madre Linda. Entrambe sono risultate positive.

Chi era Adriano?

"Un leone allegro, a 78 anni era autosufficiente, guidava la macchina e usciva da solo. Nessuno in paese lo chiamava Adriano, per tutti era "il moro" per via della sua carnagione scura. Quand'era giovane ha fondato con 4 amici una ditta edile con decine di dipendenti, ha costruito mezza provincia di Padova. Appassionato di musica lirica, andava all'Arena di Verona a vedere i concerti".

Viaggiava molto?

"Macché... in pensione si divideva tra casa e il bar di Vo', dove giocava a carte. Pensi che quando in ospedale ci hanno chiesto se di recente fosse stato all'estero, mia madre ha risposto che neanche le aveva fatto fare il viaggio di nozze. Non andava in gita, non andava in chiesa o alle bocce, gli piaceva pescare, ecco: quello era il suo vero hobby. Parlava sempre di politica, la sua benedetta politica...".

Un sostenitore della Lega?

"Comunista fino all'osso! Io la penso in modo totalmente opposto e infatti facevamo certe discussioni a tavola. Poi però arrivava Nicole, mia figlia che ora ha 13 anni, e lui si perdeva. La chiamava eapiccoa , in dialetto veneto. Prima di Nicole ero io la sua eapiccoa . Siamo una famiglia molto unita. Vorrei che mio padre fosse ricordato per come è vissuto, non per come è morto".

Cosa l'ha disturbata?

"Che sia diventato una cifra. Vittima numero uno del coronavirus. Poi ci sono stati il due, il tre, il quattro... e hanno detto: "però era vecchio", come se la sua età dovesse attenuare il dolore che provo, come se la sua scomparsa fosse meno importante. È morto venerdì e solo adesso che devo sbrigare le pratiche burocratiche, chiamare la banca, telefonare al notaio, comincio a realizzare. Stamani mi hanno chiesto di inviare il suo documento d'identità, sono andata a frugare nel suo portafogli e ho capito che mio papà non c'è più".

È morto di coronavirus.

"Sì, è vero. Ma è anche vero che era cardiopatico e debilitato. Il mio vero rammarico è che il nostro medico di base, quando ha cominciato a sentirsi male, non sia voluto salire a Vò per visitarlo. Sosteneva fosse una banale influenza".

La procura padovana ha acquisito le cartelle cliniche di suo padre, vuole capire se ci siano stati ritardi nella diagnosi della positività al virus. Ci racconta come è andata?

"Stava male già giovedì 13, aveva la febbre e problemi a respirare. Chiamo il dottore, gli riferisco le sue condizioni, ma appunto lui non viene ad auscultargli i polmoni. La domenica, il giorno del suo compleanno, l'abbiamo fatto ricoverare a Schiavonia".

Non vi è balenato il dubbio che fosse coronavirus?

"Inizialmente no, il medico ci aveva rassicurato. In ospedale, però, non riuscivano a capire cosa provocasse l'infiammazione ai polmoni che gli impediva di respirare. Ci hanno domandato se aveva fatto viaggi, se aveva la passione del giardino...".

Perché questa domanda?

"Per capire se era stato a contatto con fertilizzanti tossici. La dottoressa che seguiva il caso ci diceva di non poter fare il test per il virus perché il protocollo non lo prevedeva per pazienti che non erano tornati dalla Cina, o non avevano avuto contatti con soggetti a rischio. E chi poteva immaginare che Vò era diventato un focolaio?".

Poi cos'è cambiato?

"Alla fine la dottoressa è riuscita a convincere i suoi superiori dell'opportunità di fargli il tampone, visto che tutto il resto era stato escluso. Gliel'hanno fatto giovedì 20. Venerdì pomeriggio ero in ufficio, mi chiama mio fratello e mi dice che nostro padre ha il virus. Mollo tutto, vado a Schiavonia e trovo il reparto di Rianimazione blindato. La sera è morto. Comunque voglio ringraziare tutto il personale di quel reparto, sono stati angeli: quando papà ha avuto la crisi cardiaca, hanno provato a rianimarlo per 40 minuti. Ben venga l'indagine, ma lui non me lo porta indietro nessuno".

Le autorità sanitarie sospettano che il contagio sia avvenuto al bar Al Sole, la sera di Inter-Milan.

"Potrebbe essere, perché, pur non essendo un fan di calcio, andava lì quando davano le partite".

Lei come sta?

"Sto bene, non ho febbre né tosse. Sto con mia madre, abbiamo i nostri piccoli riti per passare il tempo, come il tè delle 16. Ma mi manca Nicole, che è a casa di mio fratello, e non posso lavorare. Posso solo aspettare".

Lo hanno ricoverato domenica, ma gli hanno fatto il test quattro giorni dopo: la dottoressa diceva che non era previsto dai protocolli.

Alberto Muraro per tvblog.it il 23 febbraio 2020. Intervistati dalla rete locale Antenna 3, un gruppo di cittadini veneti ha dato una risposta epica ad una giornalista sul delicato tema del Coronavirus: ecco l'irriverente siparietto in diretta. Grande apprensione in tutta Italia in queste ultime ore per gli inquietanti aggiornamenti sul Coronavirus, la polmonite infettiva originaria di Wuhan, in Cina, arrivata purtroppo anche nel nostro paese. La psicosi, che già da diversi giorni serpeggiava online e non solo, è ufficialmente esplosa quando in mattinata nel comune di Codogno, in provincia di Lodi, è stato accertato il primo caso di virus dalle nostre parti. Eppure, per fortuna, c'è chi sta prendendo l'emergenza con la dovuta ironia. Il numero di contagiati da Coronavirus sale a 14 in Lombardia e ci sono anche due positivi in Veneto. Il ministro Roberto Speranza ha illustrato le misure da prendere. Come avrete probabilmente sentito dai media, infatti, sempre nella giornata di oggi il presidente della Regione  Luca Zaia ha confermato la diagnosi di Coronavirus su due cittadini di Vo' Euganeo, un paesino in provincia di Padova. Si tratta di una coppia di anziani che, a quanto pare, ha di recente avuto un contatto diretto con cittadini di origine cinese. Ecco dunque che, com'era ovvio che accadesse, sul posto sono già arrivati i primi telegiornali locali e non, che hanno cercato di raccontare da vicino il mood dei paesani. Fra questi troviamo anche la rete locale Antenna 3, che pochi minuti fa si è ritrovata ad intervistare in diretta un gruppo di avventori di un bar decisamente molto, molto tranquilli rispetto all'emergenza sanitaria. Una volta individuato il gruppo di uomini pacificamente seduti ad un tavolino del bar di fronte ad uno spritz, la giornalista di Antenna 3 ha spiegato la situazione chiedendo ai presenti cosa ne pensassero di quanto stava accadendo: Andiamo all'interno del bar qui a Vo Euganeo. Vedo dei signori seduti qui al bar. Avete sentito? Sembra che proprio qua a Vo' Euganeo ci sono due anziani che sarebbero affetti da Coronavirus. Sarebbero stati trasportati al reparto di malattie infettive di Padova. A quanto avrebbero giocato a carte con dei cittadini cinesi probabilmente residenti qua a Vo Euganeo. Siete preoccupati?

La risposta dei diretti interessati, a questo punto, non avrebbe potuto essere più irriverente: Ma no, no. Noi abbiamo l'alcol che ci protegge! La giornalista, in ogni caso, non ha preso proprio bene la risposta degli avventori del bar, di certo molto più interessati a finire il loro aperitivo che rispondere alle domande della stampa: Vabbé, a parte gli scherzi, questa è una cosa seria, è una malattia contagiosa, si muore!

Alessia Strinati per leggo.it il 5 marzo 2020. Fugge dalla quarantena per andare a sciare, ma si rompe il femore e viene scoperto dai medici. È successo a un uomo di 50 anni di Vo', il paese veneto messo in quarantena per la presenza di casi di Coronavirus. L'uomo è risultato negativo al virus, ma ha comunque violato un provvedimento ufficiale. Il 50enne è riuscito a fuggire dalla quarantena per andare in Trentino a sciare. Sulle piste però si è fratturato una gamba e quando è stato portato negli ospedali di Cavalese e Trento è venuta a galla la sua fuga. A riportare la notizia è L'Adige che spiega che probabilmente nessuno si sarebbe accorto della sua fuga se non si fosse fatto male. Dopo i primi accertamenti il 50enne è stato portato a Trento perché necessitava con urgenza un intervento. Durante il ricovero il personale sanitario ha adottato tutte le precauzioni necessarie ed è stato sottoposto al test. Risultato negativo è stato poi operato, ma ora è stato segnalato ai Carabinieri e alla Procura per aver violato il decreto governativo.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2020. «Tanto non possiamo andare in vacanza...». Non è solo l'impossibilità di muoversi, chiusi nella zona rossa più piccola d' Italia e d' Europa, un recinto da 3.200 abitanti. Gli abitanti di Vo' Euganeo hanno capito l' importanza di quel che stanno facendo. Dell' esperimento di cui sono l' elemento principale. Due giorni fa il presidente Zaia, i suoi assessori, i medici dell' ospedale di Padova, hanno chiamato il sindaco Giuliano Martini, per altro farmacista del paese. Gli hanno chiesto se a suo avviso la popolazione avrebbe accettato di sottoporsi un' altra volta al tampone. Temevano che l' isolamento e la voglia di evadere dichiarata a più non posso nella chat e nelle proteste collettive, avrebbe prevalso. Il sindaco ha preso tempo, ma giusto qualche ora. Poi ha risposto. Ci stanno, lo fanno volentieri. Hanno capito, come gli era stato detto, che questa loro esperienza può diventare una piccola cosa buona per l' Italia. Forse, anche qualcosa più di piccola. Andrea Grisanti, docente di microbiologia e virologia e direttore del reparto di diagnostica dell' Ospedale di Padova, ci spera. Anzi, ne è convinto. «Vo' Euganeo rappresenta involontariamente un modello epidemiologico unico al mondo. Una comunità isolata. Il tampone fatto a tutti, positivi e negativi, a tempo zero, ovvero dopo la scoperta dei primi due casi, quindi molto vicini all' inizio della fase di trasmissione del virus. Abbiamo chiesto agli abitanti tutto, le loro frequentazioni, i legami, le abitudini. E ora, grazie al permesso ottenuto dalla Regione e dagli abitanti, rifaremo il test nel tempo-uno, dieci giorni dopo la scoperta iniziale. Ne otterremo un modello che ci potrà aiutare a definire un algoritmo tutto nostro, diverso da quello di Wuhan, che come abbiamo visto da noi non funziona». Un passo indietro. Al 21 febbraio, quando si scopre che il virus ormai si sta diffondendo in tutta Italia. La prima persona deceduta per complicazioni legate anche al coronavirus, è il povero Adriano Trevisan, pensionato di Vo' Euganeo. Luca Zaia, che ha una laurea in veterinaria e qualche reminiscenza degli esami di virologia, si mette in contatto con l' università di Padova. «Sapevo che era fuori da ogni linea guida, ma intuivo la possibilità che facendo il tampone a tutti gli abitanti avremmo potuto ottenere un caso di scuola». La prima fase si è chiusa con una mappatura quasi totale, tremila tamponi, ne mancano all' appello meno di cento, lista dei residenti anagrafici alla mano. La necessità di una seconda volta per fini scientifici è stata accolta e accettata dai vadensi, così si chiamano gli abitanti di Vo' Euganeo, senza battere ciglio. Il sindaco Martini è distrutto ma orgoglioso. Con tre collaboratori in quarantena, a tenere aperta la sua farmacia ci sono solo lui e suo figlio. «Certo che i miei compaesani hanno voglia che finisca presto questo isolamento assoluto. Ma siamo persone responsabili. Se serve alla comunità scientifica per studiare un virus di cui si sa ancora poco, noi saremo sempre disponibili a fare la nostra parte». Domani, sabato, domenica. Tre giorni per rifare l' esame a tutta la popolazione. Poi si chiude. «O meglio, si riapre», come dice il sindaco. L' esperimento finirà alla mezzanotte del giorno di festa quando scadrà il decreto che impone l' isolamento totale alle due zone rosse italiane. L' ultima settimana è stata scandita dai titoli sulla presunta ribellione di Vo' Euganeo. Certo, quasi ogni mattina decine di persone si trovavano in piazza, vino e salame per tutti, striscioni e canti di protesta all' insegna del «ridateci la libertà». Nelle chat e nei gruppi Facebook del paese era facile trovare tracce di impazienza e di sconforto. «Fateci uscire», «Evasione di gruppo», «Basta con l' isolamento». Qualcuno scriveva che gli sembrava di essere «dentro un gigantesco esperimento». In qualche modo, ci aveva preso. Adesso il tono dei messaggi è cambiato. Le parti si stanno per ribaltare. Vo' Euganeo riapre con la certezza di essere l' unico paese d' Italia mappato, controllato e tamponizzato per ben due volte, come dicono i medici. «Siamo ormai il posto più sicuro di tutti» è la sintesi del sindaco Martini. «Là fuori, invece, il virus ormai è ovunque. Dovremo essere noi a fare attenzione agli altri, non viceversa». L' esperimento di Vo' Euganeo sta per finire. I risultati parziali sono già stati affidati a una squadra di matematici per l' elaborazione di un algoritmo nostrano. Ma comunque la paura rimane. Anche per chi ha passato le ultime due settimane tagliato fuori dal mondo.

TOSCANA.

CARMELA ADINOLFI per repubblica.it il 10 marzo 2020. Una ragazzina positiva al coronavirus, in isolamento a casa insieme al resto della famiglia tra cui i genitori e l’anziana nonna. Una situazione difficile da fronteggiare. A cui si aggiunge il peso di offese e insulti da parte di un coetaneo, di qualche anno più grande. Bullismo ai tempi del coronavirus a Forte dei Marmi. A raccontare la storia è stato Bruno Murzi, sindaco della cittadina versiliese - dove al momento sono cinque le persone contagiate dal Covid-19 e sette le persone in quarantena. “E’ un attacco personale, violento e sgradevole - racconta Murzi - Ho segnalato il fatto in via informale ai carabinieri, che hanno provveduto a fare un richiamo informale”. “Bisogna bloccare sul nascere questi fenomeni, non basta dire dopo ‘ho sbagliato’’, bisogna pensarci prima, è troppo semplice”, ribadisce il sindaco che avverte: “Se ci saranno altri episodi simili denuncerò l'autore”. Intanto da questa mattina sono circa 15 le persone, provenienti dalle zone sottoposte a restrizioni come Lombardia ed Emilia Romagna, che hanno “segnalato” la loro presenza a Forte dei Marmi, così come previsto dal decreto del governo e dall’ultima ordinanza della Regione: “Tra loro un gruppo di sei ragazzi di Milano, arrivati sabato scorso, e  un uomo di Modena in città da inizio marzo”, spiega il sindaco. Ora tutti dovranno osservare la quarantena fiduciaria in casa. Misura per la quale “il comune insieme alle associazioni sta mettendo a punto un sistema e un numero dedicato” in modo da fornire loro la spesa, farmaci e beni di prima necessità. “In queste ore i miei concittadini stanno dimostrando di aver capito la gravità della situazione. C’è stata una presa di coscienza importante del problema”, ha sottolineato Murzi. Sono già cinque i bar che hanno deciso di abbassare le saracinesche. E anche la Capannina - storico locale di Forte dei Marmi - ha chiuso dal 5 marzo scorso. “Ora la priorità è fronteggiare l’emergenza”, conclude il sindaco. Poi, passata la tempesta, si farà la conta delle ricadute economiche sulla città. Una città, Forte dei Marmi, che vive di turismo. Con 40 alberghi e 100 stabilimenti balneari. “Cercheremo di sostenere le nostre imprese, ma con i fondi limitati che abbiamo come Comune da soli non ci riusciremo. Il governo ci dovrà dare una mano”.

Marco Gasperetti per corriere.it il 4 marzo 2020. I primi sospetti di essere stato contagiato dal coronavirus li aveva avuti dopo aver partecipato a una gara podistica a Bologna. Così, dopo aver consultato il medico di famiglia, aveva deciso di andare al pronto soccorso. In un primo momento i sanitari non avrebbero però capito che l’uomo, 55 anni, potesse aver contratto il virus. Anche perché pare che i sintomi fossero atipici e diversi da quelli delle altre persone contagiate dall’epidemia, e non è dunque scattata la procedura di sicurezza per i casi sospetti con la visita urgente nel reparto di malattie infettive. E invece, prima di essere ricoverato in isolamento nel reparto di terapia intensiva in condizioni gravi, l’uomo pare abbia atteso alcune ore il suo turno al pronto soccorso. Preoccupa il primo caso di coronavirus a Livorno. I familiari sono stati messi in quarantena e adesso si sta cercando di capire con chi il paziente è stato in contatto (anche al pronto soccorso) prima di essere ricoverato. Tutti gli operatori del reparto che sono entrati in contatto con lui sono stati posti in quarantena preventiva. Durante la notte si è riunita l’unità di crisi del Comune. All’uomo, positivo al tampone, è stata diagnosticata una polmonite interstiziale. La prognosi è riservata. Allarme anche a Pontremoli, in provincia di Massa Carrara, dove è si è deciso la chiusura del pronto soccorso. È stata l’Asl a darne notizia spiegando in una nota che «un paziente passato per il pronto soccorso e ricoverato in medicina è risultato positivo al test e l’unità di crisi aziendale ha ritenuto opportuno sospendere l’attività dei due reparti». L’Asl ha poi eseguito la sanificazione degli ambienti e ha messo in quarantena personale e pazienti che hanno avuto contatti con l’uomo. L’Usl ha anche deciso l’apertura di un punto di primo soccorso all’esterno della struttura.

Coronavirus: fugge da Codogno, trovato a Firenze. Altri 5 in fuga dalle «zone rosse». Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Gastaldi. In fuga dal virus fino a Firenze. O attraverso i campi per andare dalla fidanzata. Subito ripescati, rispediti oltre la linea di quarantena e denunciati. Sono i tentativi di fuga che alcuni lodigiani hanno tentato negli ultimi giorni per sfuggire all’ isolamento della «zona rossa». C’è chi vuole andare a trovare la ragazza «oltre cortina», chi un amico, chi semplicemente non ce la fa più. Il caso più clamoroso è avvenuto ieri durante un controllo di una pattuglia dei carabinieri a Firenze. Dai documenti dell’ uomo è subito balzato all’ occhio il luogo di nascita e di residenza: Codogno, la città simbolo del contagio attraverso cui il Coronavirus è entrato in Italia penetrando in tutta Lombardia e della «zona rossa» che racchiude dieci comuni del Basso Lodigiano, focolaio del Covid-19. Da domenica scorsa è praticamente impossibile uscire o entrare se non attraverso uno dei 35 checkpoint controllati da 400 agenti delle forze dell’ordine e da ieri anche dell’esercito. I militari fiorentini hanno perciò chiesto spiegazioni all’uomo, che non avrebbe dovuto certo trovarsi lì, ma nella sua città. Lui ha accampato qualche scusa, poi ha tirato fuori un foglio con un’ autorizzazione a uscire dalla zona rossa per «gravi motivi sanitari». Lo aspettavano in uno degli ospedali della zona (forse in quello di Lodi) per un esame, invece ha pensato bene di arrivare fino a Firenze, probabilmente a casa di un amico, per sfuggire ai quindici giorni di isolamento. Mettendo ulteriormente a rischio anche la sicurezza di una regione, la Toscana, in cui già sono quattro i casi di positività al tampone. Di riportarlo dentro la zona rossa lodigiana si è interessata la prefettura di Lodi, che già negli ultimi giorni è stata impegnata a vanificare altri casi di «evasione», almeno cinque. Tutti tentati, a quanto pare, attraverso la fuga nei campi. E tutti ripescati dalle forze dell’ ordine impegnate ai varchi della «red zone». Per tutti è scattata una denuncia per «violazione dei provvedimenti dell’autorità per motivi di pubblica sicurezza». La reprimenda è arrivata pure dal prefetto di Lodi Marcello Cardona il quale però sottolinea il comportamento «degli altri 47 mila lodigiani che stanno sopportando con grande senso di responsabilità questi giorni di isolamento forzato».

Coronavirus, due nuovi casi di presunti positivi a Firenze. In Toscana 273 persone in quarantena a casa. Sono un ragazzo norvegese, arrivato pochi giorni fa per motivi di studio, e di un amico dell'imprenditore contagiato. Il figlio di quest'ultimo negativo al test. Carmela Adinolfi e Michele Bocci il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Due nuovi casi di presunti positivi al coronavirus a Firenze. Si tratta di un ragazzo norvegese in città per studio, arrivato a Firenze cinque giorni fa, e di un amico dell'imprenditore già registrato come contagiato, che lo aveva visto a pranzo nei giorni scorsi. Si aspetta comunque la conferma definitiva dell'Istituto superiore della sanità. Lo studente novegese ha 26 anni, studia a Firenze da agosto ed è rientrato cinque giorni fa dopo due settimane passate nel suo Paese. Abita nel centro storico fiorentino. Nel viaggio di rientro a Firenze ha fatto uno scalo a Monaco. Questi tempi non escludono quindi che abbia avuto contatti col viruis in Norvegia o nel corso del viaggio aereo. Il giovane ha avuto la febbre, è stato portato a Ponte a NIccheri, dove ora è ricoverato nel reparto di malattie infettive. Secondo quanto riferito dalla Regione è in buobe condizioni e la febbre sarebbe già scomparsa. In Toscana "sono complessivamente 273 le persone in isolamento domiciliare, sotto sorveglianza attiva, a seguito delle indagini epidemiologiche in corso e della prima ricostruzione dei contatti stretti e prolungati dei primi due sospetti positivi, quelli emersi ieri l'altro. Tra le persone isolate figurano anche i contatti con i due cinesi transitati dalla Toscana e poi ricoverati allo Spallanzani di Roma". Lo spiega in una nota la Regione Toscana in base a quanto hanno fatto sapere le autorità sanitarie. In particolare, a ieri sera erano "già 57 le persone messe in isolamento domiciliare e monitorate dalla Asl tra quelle che complessivamente hanno avuto contatti con l'imprenditore fiorentino di 63 anni", uno dei due primi casi positivi, per il quale la Regione aspetta la validazione dell'Iss. Per l'altro caso, relativo al 49enne informatico, sono 43 tra compagni di lavoro e familiari le persone messe in isolamento domiciliare fiduciario con sorveglianza attiva da parte nelle Asl, residenti nei comuni di Pescia, dove l'uomo vive, e Massa e Cozzile, dove ha sede l'azienda dove lavora. Intanto è risultato negativo al test del Covid-19 il figlio del fiorentino di 63 anni, contagiato dal coronavirus. L’uomo, un imprenditore con un’azienda in Oriente è uno dei primi due contagiati in Toscana insieme a un informatico di Pescia di 49 anni. Entrambi, non in gravi condizioni, sono ricoverati da martedì notte nei reparti di malattie infettive dell’ospedale di Ponte a Niccheri e di Pistoia in attesa della conferma da parte dell’Istituto Superiore di Sanità. Il ragazzo, che frequenta una scuola superiore di Firenze, era già stato messo in quarantena in via precauzionale insieme a una decina di familiari, tra cui la madre. Ieri - appena diffusa la notizia - all’istituto frequentato dal ragazzo alcuni genitori avevano protestato, chiedendo al preside di interrompere le lezioni. Altri anche tentando di riportare i figli a casa. Una coppia proveniente dalla zona rossa del lodigiano, invece, è in quarantena volontaria in un residence alla Partaccia, a Massa (Massa Carrara). Si tratta di giovani e, secondo quanto appreso, al momento, non presenterebbero alcun sintomo. I due sono monitorati dalla Asl. Controlli sono stati effettuati anche sui dipendenti della struttura per escludere un eventuale contagio. Ieri sera a Pisa, invece, il sindaco Michele Conti ha ha firmato un’ordinanza, per disporre nei confronti di un residente la misura della quarantena con sorveglianza attiva. L’uomo, infatti, sarebbe entrato in contatto con l’altro contagiato toscano, l’informatico di 49 anni di Pescia. «Si tratta di una misura precauzionale – ha dichiarato Conti – Non è il caso di abbandonarsi ad allarmismi, nessuno al momento è risultato positivo al coronavirus a Pisa. La nostra attenzione è massima”. 

 LIGURIA.

Coronavirus, sedici positivi in Liguria. Uno è l'uomo nello spezzino, tutti gli altri arrivano dagli hotel già in quarantena di Alassio, da questa sera inizia il trasferimento in altre strutture, una parte saranno trasferiti presso le rispettive abitazioni per proseguire la sorveglianza attiva. La Repubblica il 26 febbraio 2020. In Liguria sono sedici i positivi al coronavirus, uno da Spezia e tutti gli altri provenienti dal cluster di Alassio, "l'unico vero focolaio di infezione", come spiega il presidente della Regione liguria Giovanni Toti nel corso del punto stampa in Regione. I soggetti in vigilanza attiva sono complessivamente 584, sono 33 in Asl1, 218 in Asl2, 46 in Asl3, 70 in Asl4, 217 in Asl 5.  Continua così a crescere il bilancio dei contagiati in Liguria. Ieri la giornata si era chiusa con due casi. Alle due di oggi erano già diventati sei. I dieci nuovi casi di positività al Coronavirus, emersi stasera, arrivano tutti dagli hotel già in quarantena di Alassio, dove ha soggiornato la "paziente 1" della Liguria, ovvero la 74enne lombarda ricoverata nel reparto malattie infettive dell'ospedale San Martino, come gran parte dei contagiati. Solo uno dei complessivi 16 pazienti infetti della Liguria si trova in una località diversa, La Spezia: si tratta di un 54enne che era transitato da Codogno. Per altro non tutti i 15 turisti ospiti ad Alassio e trovati positivi al coronavirus sono ricoverati all'ospedale San Martino di Genova. Gli otto casi con sintomatologia più lieve sono gestiti direttamente nella struttura alberghiera in cui erano ospitati. Sei, invece sono i pazienti centralizzati al nosocomio genovese, più un settimo in corso di trasferimento, con una polmonite ma in condizioni stabili e senza particolari criticità. Tutti i casi positivi in Liguria sono comunque in buone condizioni generali di salute.  "Abbiamo deciso di smontare l'assembramento che da ieri si è dovuto avere nei due hotel di Alassio" che sono in isolamento per il coronavirus, ha spiegato l'assessore alla Protezione civile della Regione Liguria Giacomo Giampedrone nel punto stampa. "Così tante persone in strutture senza controllo non ci garantiscono che non accada nulla dal punto di vista della sicurezza, poi c'è un'esposizione molto alta" al virus, e per questo si è deciso di suddividerli, ha spiegato. "Entro domani sera avremo chiuso le operazioni", ha aggiunto. Nei due alberghi resteranno in quarantena obbligatoria solo i proprietari e il personale dell'hotel, 20 persone in tutto. Tra gli ospiti, poi, "12 lombardi vanno a casa in provincia di Pavia e in provincia di Milano e vengono presi in carico dal sistema sanitario lombardo", ha detto. Un gruppo di Castiglione d'Adda verrà accompagnato in una struttura dell'esercito in Liguria già individuata e un gruppo della provincia di Asti di 32 persone (dei 36 di Asti in totale della comitiva originaria) sarà trasferito in Piemonte.

SAN MARINO.

Coronavirus, a San Marino 10 casi positivi e un decesso. (LaPresse il 3 marzo 2020) Il Gruppo di coordinamento per le emergenze sanitarie di San Marino ha reso noto che i casi positivi di coronavirus sono 10, di cui 7 ricoverati all’Ospedale di San Marino (uno in Rianimazione in condizioni serie ma stabili, 6 ricoverati nella nuova ala al 2° piano con sintomatologia moderata) e 3 presso il proprio domicilio (in condizioni buone). Una persona è morta. Sono 37 i tamponi totali effettuati, di cui 19 risultati negativi, 11 positivi e 7 in attesa di esito. Sono 98 le quarantene domiciliari sui contatti stretti (54) compresa la rete familiare, amicale e personale sanitario. Nella mattinata, 9 persone hanno terminato la quarantena. Dei casi positivi, il range d’età va dai 68 ai 93 anni; di essi, 5 sono femmine e 5 maschi.

EMILIA ROMAGNA.

Giangiacomo Schiavi per corriere.it il 31 marzo 2020. Luigi Alberoni era uno di quei tipi che in paese fanno parte del paesaggio come la piazza e il campanile, aveva fatto il barbiere per tradizione di famiglia e gli piaceva andare a bottega anche da pensionato, ma era del 1933 e per il coronavirus l’età non è un optional, è un tirassegno. Così se n’è andato con altri 519 in una provincia ammutolita dal dolore che da tre settimane obbliga il quotidiano locale Libertà a forzare i toni.

Le parole. «A Piacenza siamo all’ecatombe», dice il direttore Pietro Visconti, che nei titoli ha aggiornato il lessico delle catastrofi, perché strage, flagello, tragedia sconfinata, non bastano più. In provincia ci si conosce un po’ tutti e per ogni ambulanza che passa si pensa con un brivido a un amico, un parente o un conoscente, poi il giorno dopo si apre la pagina dei necrologi e si fa con rassegnata impotenza la conta degli scomparsi: 20, 25, 29, 30, 33...Un po’ come a Bergamo anche a Piacenza non c’è posto al cimitero e le bare finiscono in lista d’attesa, ma per Luigi Alberoni, la dolcezza del sentimento ha reso meno lugubre lo sfoglio delle pagine d’addio. Sotto l’età, 89 anni, è comparso, in corsivo, un insolito titolo onorifico: giocatore di dama.

Un mondo che scompare a causa del virus. Quando si parla di un mondo che scompare a causa del virus che toglie il respiro, è questo. È il mondo degli anziani come Alberoni, i longevi attivi che in provincia hanno segnato rinascite e riprese, che non si sono mai arresi davanti a niente, che hanno lavorato fino all’ultimo e poi magari hanno sostenuto con risparmi e pensioni le difficoltà di figli e nipoti, integrando bilanci familiari, surrogando emergenze di lavoro e malattia. «Giocatore di dama» è una categoria ignota ai tempi di Xbox e Playstation, rimanda ai bar di una volta, alle sfide in famiglia fra nonni e nipoti, a qualche oratorio e alle abilità affinate con l’esercizio paziente su una scacchiera. Ma qui, a Piacenza, in questi drammatici giorni, è come una lapide su una generazione invecchiata con un bagaglio di abilità e competenze artigianali e tecniche, «le nostre infrastrutture civili», le chiama Visconti «che hanno accompagnato in questi anni i cambiamenti della società».

Disperazione. A Piacenza la conta dei morti ha provocato «una disperazione inaudita», afferma la sindaca Patrizia Barbieri appena uscita dalla quarantena del Covid-19 iniziata il 3 marzo. Ma il dolore non ha urlato come altrove, «per giorni abbiamo avuto la sensazione di essere dimenticati, abbandonati tra le sirene delle ambulanze», dice un medico di famiglia. Lutti nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio, nel mondo dell’artigianato e nella politica: la vicinanza con Codogno ha accelerato il contagio, l’ospedale è diventato il riferimento obbligato di una comunità, le caserme ormai vuote sono state riaperte e in pochi giorni è stato allestito dai militari un ospedale da campo per i nuovi pazienti. Poi è arrivato il presidente della Regione Bonaccini, ha telefonato il premier Conte, sono giunti i primi aiuti, dalla centrale nucleare di Caorso, ora in dismissione, hanno mandato mille tute per proteggere i sanitari. È stata per giorni sovrastata dal lutto, Piacenza. «Una tristezza senza nome», trattiene le lacrime l’ex ministro e segretario del Pd, Pierluigi Bersani. È un contagio infinito, che tocca ricoveri e case per anziani. Alla clinica Piacenza i cronisti di Report denunciano il caso sospetto del vero paziente uno: un anziano morto e portato via dal personale con tute da biocontenimento.

Uno dei banchetti apparsi in città. Ma sono la solidarietà e la generosità a emergere in queste ore. A Roncaglia e Borghetto, due negozi hanno messo i banchetti come nel Dopoguerra: «Pane e focaccia gratis», dice un cartello. E l’altro: «Prendi quello che ti serve». Poi è arrivata una lettera di Giorgio Armani con una donazione all’ospedale della sua città. «È sempre stata coraggiosa la mia Piacenza, così riservata e silenziosa, ma pronta a combattere. Si riprenderà, grazie all’energia che conosco e alla sua umanità».

Da liberoquotidiano.it il 31 marzo 2020. Il coronavirus è stato per settimane un tabù in una clinica privata di Piacenza, che adesso si ritrova al centro di un caso a dir poco inquietante. Ad aprire il classico vaso di Pandora è stata Selvaggia Lucarelli, che ha pubblicato un lungo report su Tpi, basato sulle testimonianze raccolte tra il personale della clinica Sant’Antonino. “Pazienti, medici, caposala, oss, infermieri, donne delle pulizie che si ammalano di coronavirus già a metà febbraio, o forse anche prima, e nessuna informazione esce da lì”: è questo lo scenario tremendo che la Lucarelli mette in evidenza. Fino al 16 marzo tutto è passato sotto silenzio: ufficialmente in quella clinica non è successo nulla, almeno fino a quando una donna delle pulizie non viene trovata morta in casa. Dopo questo tragico episodio, molti dipendenti contattano la Lucarelli e iniziano a parlare. Alcune testimonianze sono tremende, specialmente quelle relative alle condizioni di lavoro: da “qui se ti lamenti ti dicono quella è la porta’” a “eravamo due infermieri con 40 pazienti che si levavano l’ossigeno, dovevamo spesso legare i polsi agli anziani”, fino ad arrivare all’ammissione sul primario  della clinica (“sapevamo che aveva preso il coronavirus”). Insomma, la Lucarelli sostiene che a Piacenza in tanti si sono ammalati e alcuni sono anche morti a causa della gestione scellerata di una clinica che ha tenuto nascosto a lungo il coronavirus.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 31 marzo 2020. Clinica privata Sant’Antonino, Piacenza. Una clinica accreditata col servizio sanitario che con “Casa Piacenza”, sua “gemella” e della stessa proprietà (il direttore sanitario Mario Sanna), si trova al centro di un caso molto inquietante: pazienti, medici, caposala, oss, infermieri, donne delle pulizie che si ammalano di Coronavirus già a metà febbraio, o forse anche prima, e nessuna informazione esce da lì. Finché il Fatto quotidiano, il 18 marzo, scoperchia la pentola: una donna delle pulizie muore e si scopre che settimane prima un vecchietto col Coronavirus è stato portato via in fretta dalla struttura. La Clinica privata Sant’Antonino, interrogata da me il 6 marzo, tace su tutto dicendo di chiedere alla Ausl, il direttore della Ausl di Piacenza Luca Baldino mi comunica che quello che succede lì non gli interessa e che ha cose più importanti di cui occuparsi. Il 13 marzo, la Ausl di Piacenza annuncia che il Sant’Antonino diventa clinica specializzata Covid e ringrazia la clinica per la sua “sensibilità” in un comunicato ufficiale. E quindi, è forse il momento di aggiungere tutti i particolari della storia, comprese le varie testimonianze raccolte e le nuove “risposte” della dirigenza della Casa Piacenza e Sant’Antonino, anche se ancora una volta sostanzialmente attribuiscono ogni responsabilità alla Asl di Piacenza.

La storia. A metà febbraio, quando il Coronavirus sembra non essere ancora arrivato in Italia, il paziente anziano Gino B., ricoverato alla clinica Sant’Antonino, si sente male. Comincia ad avere una febbre costante, che non scende. In clinica pensano che dipenda dal fatto che il suo letto è situato di fianco al calorifero. Quella febbre però non passa e a un certo punto si ammala anche il suo vicino di letto. Stanno male anche alcuni dottori. Il 24 febbraio, in clinica, arriva notizia che il dottor Cremonesi, un medico in pensione che svolgeva alcune operazioni presso la clinica Piacenza, è stato ricoverato a Tenerife mentre si trovava in vacanza: ha il Coronavirus. Ne parlano anche i giornali e i tg, ma il nome della Clinica Piacenza non viene mai associato al fatto. Ufficialmente, lì dentro, non è successo nulla. Nessuna comunicazione ufficiale del proprietario Mario Sanna, nessuna comunicazione alle famiglie dei pazienti ricoverati, nessuna comunicazione ufficiale a tutto il personale. Gino, il vecchietto trovato positivo, viene portato via alcuni giorni dopo. Il 16 marzo, Monica Rossi, una donna delle pulizie di Casa Piacenza, viene trovata morta in casa. “Avrei potuto salvarla, non me lo perdonerò mai! Vivrò la mia vita con questa croce sulle spalle! Scusami se puoi Monica!”, scrive su Facebook la responsabile del personale di Casa Piacenza Laura Cappellano. Dunque, cosa è successo da metà febbraio a quel 16 marzo, nelle cliniche private Casa Piacenza e Sant’Antonino? Molte cose, e tutte ben silenziate dalla dirigente assistenziale Nawal Loubadi, dalla figlia del proprietario Lidia Sanna e da tutti i responsabili delle strutture. Molti dipendenti hanno continuato a lavorare, da quel 24 febbraio, in una condizione di incertezza e paura, scoprendo sempre per vie traverse, per confidenze di medici, di infermieri, di oss, che la malattia stava girando nelle cliniche e che tanti di loro si stavano ammalando. Qualcuno era stato contagiato e “andava in ferie” o “veniva messo in malattia” in tutta fretta. La parola “Coronvirus” era tabù. Dopo la morte della donna delle pulizie però, tutto cambia. I dipendenti iniziano a parlare. E mi contattano in tanti. Un oss della Sant’Antonino mi racconta, tra un colpo di tosse l’altro: “Qui ci sono decine e decine di persone positive da più di un mese. Tutto inizia con il paziente anziano Gino B., nella stanza 8, vicino al termosifone bollente. Aveva sempre la febbre altissima, dal 10 febbraio circa. Lo spostano nella stanza 15, una tripla. Dopo che scoppia il Coronavirus in Italia scoprono, credo con una lastra o un tampone, che è positivo. Lo spostano in una stanza singola, la 5. Riguardo i due pazienti che gli sono stati accanto, uno è deceduto giorni fa”. “Io non lo so come ci è arrivato il Coronavirus qui dentro, ma sicuramente non dai pazienti ricoverati. Qui c’è un infermiere di Casalpusterlengo che ha la mamma che fa l’infermiera all’ospedale di Codogno, mamma che aveva il Coronavirus. Il primario del Sant’Antonino si è preso anche lui il Coronavirus a febbraio e a quanto pare la figlia era stata a cena con un’amica intima della moglie del paziente 1 di Codogno. Si è ammalato il medico F., il medico C., si sono ammalate l’infermiera S., la caposala C.,”, la fisioterapista F. e così via. “Il servizio di igiene dell’ospedale mi ha chiamato a metà marzo e aveva una lista di dipendenti parziale. Gli ho chiesto se nella lista c’era S., il dipendente di Casalpusterlengo e mi è stato risposto La clinica non ci ha fornito questo nome. Non avevano vari nomi di alcuni dipendenti malati o delle zone rosse che dovevano rimanere a casa”. “Noi operatori del Sant’Antonino siamo distrutti. Lavoriamo solo per i pazienti. Non abbiamo avuto una mascherina FFP3 per fare l’ossigenoterapia per settimane, quindi ci saremo infettati tutti in quel periodo. Abbiamo visto il panico qui dentro, ma nessuno della dirigenza ha condiviso qualche informazione con noi mortali. A una riunione la mia collega N. ha detto che si sarebbe rivolta al sindacato, le hanno contestato che non era una persona seria. Il problema sanitario poteva accadere, questa omertà no”. “I Covid li hanno spostati tutti qui alla Sant’Antonino perché a Casa Piacenza c’è la sala operatoria. Potevano quindi continuare a operare e a fatturare, qui siamo stati trattati come spazzatura. Chi si era ammalato da noi ora è mescolato con pazienti Covid mandati dagli ospedali, quindi ora si possono confondere le acque. Se Luca Baldino della Ausl vuole iniziare a indagare, parta dal paziente Gino B.”. “I problemi iniziano da prima dell’emergenza. Qui non abbiamo sapone, garze, giuste pomate per le medicazioni. Ci viene detto, da anni, addirittura di riciclare le bavaglie dove mangiano i pazienti. Qui da sempre è tutto improntato al risparmio, con cazziatoni della dirigenza continui”. Un’infermiera del Sant’Antonino mi racconta: “Io da un turno all’altro mi sono trovata qui 80 pazienti col Covid senza sapere come gestirli. In una settimana sono morte 20 persone. Una tizia della Ausl ci ha fatto una lezione veloce su come usare le tute, dicendoci: ‘Non dovete neppure guardarli i pazienti, sono tutte persone che moriranno'”. L’infermiera piange, mentre lo racconta. “Io li lavo, mi prendo cura di tutti, per me sono tutti come fossero mia mamma, se ne salvo uno sono contenta. Ma siamo troppo pochi qui, certe volte trovo i pannolini del giorno prima. Stamattina un paziente mi ha strappato l’anima. Mi ha preso la mano e mi ha chiesto: ‘Come sta mia moglie, per favore, dimmelo’. La moglie stava male, muoiono soli, come le mosche. Almeno farli morire con dignità. Se io mi lamento che serve personale, mi dicono: se non vuoi lavorare qui, quella è la porta”. “Abbiamo chiesto tamponi per settimane, si sono ammalati di Coronavirus pazienti che erano entrati a fine gennaio e poi hanno avuto sintomi a febbraio. Se avessero fatto il tampone a tutti, avrebbero chiuso perché sarebbero rimasti senza personale”.  “Io vedo pazienti morire come pesci senz’acqua, questo è solo un posto dove vengono i pazienti molto anziani a morire, almeno un po’ di dignità per loro e di sicurezza per noi. L’Ausl deve vigilare sul rigore con cui lavora il privato, quella di Piacenza cosa fa? Qui da quando non sono entrati più i parenti, si è fatto quel che si voleva, chi ha controllato?”. Un’addetta alle pulizie, collega della donna delle pulizie morta, mi dice: “Io lavoro alla Casa Piacenza. Sono distrutta. A me fa male respirare, mi fa male la testa, ho tanta paura, ho famiglia. Lavoravo con Monica, quindi potrei aver preso anche io il Coronavirus. Lei aveva la febbre, si è fermata qualche giorno, poi è tornata al lavoro con la febbre e alla fine è morta in casa. Una mia collega è positiva, il marito se l’è preso anche lui da lei, è finito in ospedale. Qui il tampone lo hanno fatto a chi pareva a loro”. “Nel frattempo io andavo avanti da settimane con una mascherina che andrebbe usata 8 ore e che ho usato 1 settimana. Io non voglio morire, ho un figlio. Le mie colleghe sono tutte con le febbre, io vedevo tutti i giorni il primario e non sapevo che era malato, ho saputo che aveva il Coronavirus dopo una settimana. Idem il dottor C. e chissà quanti altri”. Un’altra infermiera rivela: “Non so come sia entrato qui al Sant’Antonino il Coronavirus. Prendevamo emoculture senza sapere che girava il virus. Poi un giorno scopro che è morta la madre del primario. Che il primario ha il Coronavirus. La nostra caposala è di Codogno. Hanno fatto tamponi solo ad alcuni, poi ci hanno detto che i tamponi erano finiti, ma io li ho visti in un armadietto, c’erano. La mia collega L. aveva la polmonite interstiziale. Tutti ammalati. Qui ora ci fanno la tac, se non hai sintomi come febbre e tosse lavori anche con la polmonite. Non siamo dipendenti, siamo discarica”. “Si è ammalata ed è morta una paziente che stava nella stanza ‘Sollievo’ da 3.000 euro al mese a Casa Piacenza che non era positiva e si è presa qui il virus. Siamo due infermiere su 40 malati, non sappiamo dove girarci. Siamo carne da macello, noi e i poveri malati. Abbiamo la delibera per legare i polsi per il loro bene perché non possiamo guardarli tutti, sennò si levano l’ossigeno. Noi non possiamo fare niente, scarseggia pure l’Urbason per le terapie, alle volte lo prendo dal carrello delle urgenze. Se ci lamentiamo ci dicono che c’è la fila fuori dalla porta per lavorare lì, possiamo andarcene. Molti di noi hanno deciso di parlare e questo è un bene. I problemi qui sono esplosi col Covid, ma sono iniziati dalla gestione di Mario Sanna, prima col Dottor Agamennone qui si lavorava bene”. Luisa racconta: “Mia suocera è stata ricoverata il 13 marzo al Sant’Antonino con febbre e tosse. Mio marito aveva la febbre altissima, ma la Ausl non ha voluto fare il tampone. Il sabato chiamiamo e non riusciamo a parlare con nessuno. Chiamiamo tre volte ma mi dicono che non conoscono ancora bene i pazienti. La sera mi buttano giù il telefono. La domenica dicono che mia suocera risponde alle cure e di portare un cambio. Il giorno dopo non ci rispondono. Alla fine mio cognato va in clinica col cambio il giorno dopo alle 13.00. Gli chiedono il nome della signora, arriva un dottore dopo 30 minuti e lo informano che mia suocera è morta durante la notte. Nessuno ci aveva avvisati! Non abbiamo mai avuto una diagnosi, nulla. L’avranno curata per il Covid? È una cosa oscena”. Silvia Bettini, di Piacenza, aveva il papà al Sant’Antonino, ricoverato il 13 febbraio. “Io l’ho visto l’ultima volta il 23. Giorni dopo al telefono mi comunicano che è ventilato. Nessuno ci dice che lì gira il Coronavirus, ma io lo scopro per vie traverse. Una sera quindi mio fratello chiama la clinica minacciandoli, dicendo ‘So cosa succede lì dentro, portate mio padre subito al pronto soccorso di Piacenza!’. Dopo mezz’ora ci chiamano dal pronto soccorso e ci dicono che mio padre era arrivato malnutrito e disidratato. Stava morendo e gli avrebbero fatto la morfina. È morto poche ore dopo, di notte. Ci hanno detto che aveva sicuramente il Coronavirus, per via di una polmonite interstiziale gravissima. Lui non ha mai avuto le cure per il Coronavirus”. Andrea, figlio di una donna che è stata ricoverata al Sant’Antonino, mi dice: “Mia madre era stata operata all’ospedale di Piacenza a fine gennaio e poi è andata al Sant’Antonino per la riabilitazione. Mi avevano sconsigliato tutti quella clinica. È entrata il primo febbraio ed è rimasta fino al 25, ci siamo ammalati di Coronavirus io e mia madre. Io mi sono ammalato il 26. Negavano che ci fossero casi di Coronavirus, mi arrabbiavo perché una signora che era nella stessa stanza di mia madre aveva badanti che cambiavano continuamente e venivano due volte al giorno, quando già era scoppiato il caso Codogno. Erano tutte con tosse e raffreddore, raccontavano di parenti malati. Io ci litigavo e andavo dalle infermiere a informare della situazione. Il 25 ho chiesto di dimetterla: mia madre torna a casa e resta con la badante. Il 26 io mi ammalo. La badante il 29 mi chiama e mi dice che mamma sta male, il 118 la vanno a prendere e scoprono la polmonite. Alla fine fa il tampone ed è positiva. Io dentro al Sant’Antonino ho visto un clima terribile di paura e omertà, i medici mi dicevano ‘Non parliamo qui per favore, ci sentono!’. Hanno lasciato sani e infetti insieme a lungo, non hanno informato noi parenti del fatto che gli stessi primari e medici con cui avevamo parlato erano infetti, siamo andati tutti in giro per Piacenza malati. Loro hanno fatto delle tac a febbraio a pazienti quando hanno capito cosa succedeva, me lo ha confermato un medico lì, ma hanno scelto di non dire la verità come andava fatto e subito a tutti i coinvolti”. Dopo il mio primo articolo su Casa Piacenza uscito su Il Fatto il 18 marzo, alcune mie fonti nelle strutture mi hanno riferito che i responsabili delle cliniche hanno avuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei dipendenti, minacciando licenziamenti se avessero scoperto le mie fonti. Riguardo la morte della donna delle pulizie Monica Rossi, la Ausl ha confermato alla sorella Marina la positività del tampone: “Ma il medico di base ha scritto che mia sorella Monica è morta di ictus e – sai cosa? – Senza aver mai visto la sua salma dopo la morte! Quando gli ho chiesto spiegazioni è stato vago e poi non mi ha più parlato”.

La risposta delle cliniche. Tramite l’avvocato delle due cliniche coinvolte, l’avvocato Sacchelli, ho posto alcune domande scritte alla dirigenza, che mi ha fatto arrivare le seguenti risposte.

1) Avete dipendenti delle zone rosse di Codogno? Se sì, vi risulta siano stati contagiati o abbiano parenti contagiati? L’ospedale di Piacenza, che aveva un infermiere di Codogno risultato positivo, ne ha dato comunicazione già a febbraio, per trasparenza. Come vi siete comportati voi? Sì, abbiamo dipendenti delle zone di Codogno. L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.

2) Il vostro primario C., positivo, risulta avere un familiare, la figlia, che era stretta conoscente di un’amica della moglie del paziente uno di Codogno. Sarebbero state informazioni importanti da comunicare a parenti di pazienti e pazienti entrati in contatto col primario, per permettere di ricostruire la catena dei contagi, anche all’interno della clinica Sant’ Antonino e nelle zone di Piacenza e Codogno. L’avete fatto? L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza. Abbiamo fornito al Servizio di igiene tutti i dati che ci hanno richiesto sul caso di specie.

3) Perché non è stata comunicata la positività del primario (senza specificare la sua identità, ma più genericamente di un dipendente) e di dottori e caposala? È stato fatto tramite il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.

4) Perché negli altri ospedali viene comunicato per trasparenza e nell’interesse di pazienti e cittadini il numero dei dipendenti e pazienti postivi per contagio avvenuto all’nterno e voi lo tacete? È stato fatto, in numeri dei pazienti sono quelli pubblicati 80 CCPSA e 90 CCPP, i dati sono quelli dell’Asl di Piacenza di cui noi facciamo parte come Struttura Privata Convenzionata.

5) Quanti sono ad oggi i dipendenti di Piacenza e Sant’Antonino contagiati? Sono dati che ha Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.

6) Come commentate il comunicato interno in cui invitavate i dipendenti a lavorare anche con tac positiva e che i tamponi erano terminati? La Tac è un esame non previsto nel protocollo ma lo è il tampone. La proprietà ha dato a disposizione la Tac gratuitamente come strumento di screening a maggior tutela dell’operatore. “Operatori con Tac positive ma in assenza di sintomi”: sono gli operatori che hanno in evidenze alterazioni strutturali del polmone non sicuramente riconducibili a polmonite interstiziali da virus, ma riconducibili a patologie virali (Rino virus), influenza virus avute in precedenza.

7) Come mai non avete fatto una comunicazione al personale tra infermieri, oss e addetti alle pulizie sui numeri del contagio all’interno dell’ospedale e li avete lasciati inconsapevoli e spaventati? Come mai avete fatto tamponi solo ad alcuni dipendenti? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale.

8) Il primo caso di paziente contagiato al Sant’Antonino risulta essere il signor Gino B., aveva la febbre già a metà febbraio, perché, pare, gli è stato fatto il tampone (positivo) solo a marzo? Da quel momento avete comunicato a tutti i parenti dei ricoverati, per esempio a quelli del paziente Gino B. e Bettini (ricordiamo che l’ospedale non era Covid ai tempi) la positività? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale.

9) E avete comunicato ad altri parenti dei pazienti contagiati, tra cui alcuni della sezione Sollievo che erano lì da moltissimi mesi, la situazione? Subito appena ricevuti i Protocolli Regionali e le disposizioni Prefettizie.

10) Alcuni dipendenti dichiarano di aver avuto disposizione di legare i polsi ai pazienti e di averlo fatto. Volete commentare? Parla delle misure di contenzione previste da qualunque protocollo Ospedaliero.

11) Medici e Oss parlano di un personale risotto all’osso, due/tre infermieri per 40 pazienti. È un problema mondiale la carenza di operatori, il personale che c’è, sta lavorando al massimo per garantire un servizio alla comunità.

12) Come si è conclusa la vicenda dei ricoveri truccati, in cui è stata coinvolta la Clinica Piacenza? (avrebbe operato interventi in regime di ricovero seppur breve, anziché ambulatoriale, per ottenere rimborsi superiori dal servizio sanitario) C’è un procedimento in corso.

Bonaccini: «In Emilia quadro allarmante  Ho fermato i runner senza aspettare Roma». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Daniela Corneo. Per primo in Italia, precedendo anche il premier Giuseppe Conte, ha firmato un’ordinanza che dà una risposta definitiva sullo sport ai tempi dell’emergenza coronavirus, un tema che negli ultimi giorni ha diviso gli italiani. Il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, oltre a chiudere i parchi nella Regione che guida, ha vietato tutto: jogging, passeggiate, lunghe «gite» con il cane, giri in bici. Si sta vicini alla propria abitazione e ci si sposta solo per motivi improrogabili. Punto.

Bonaccini, ha fatto un’ordinanza che non lascia spazio a interpretazioni. Lei vorrebbe venisse estesa a tutto il Paese?

«Sono ancora troppi quelli che si spostano senza vere necessità. Credo serva qualche altra misura restrittiva, cosa che il Governo sta valutando di fare: non possiamo rischiare per colpa di alcuni irresponsabili».

C’è chi ha criticato il provvedimento, invocando principi di libertà personale.

«Sono pronto ad accompagnare chi dice di non poter rinunciare a fare jogging in uno dei nostri reparti di terapia intensiva, e tutto gli sarà più chiaro. Ci sono donne e uomini sottoposti a cure pesanti, diversi purtroppo muoiono, ma dietro i numeri che leggiamo ogni giorno ci sono delle persone. Per me le persone non saranno mai numeri».

Ha messo ulteriori paletti anche alle attività commerciali.

«Abbiamo chiuso bar e tavole calde nelle aree di rifornimento carburanti dentro i centri urbani. Ripeto: bisogna restare in casa».

Qualche giorno fa Medicina, nel Bolognese, è diventato territorio off limits. Verranno create altre «zone rosse» in Emilia-Romagna?

«Le zone rosse le crea il governo. Abbiamo chiuso Medicina di fronte all’evidenza dei dati sul numero anomalo di contagi e sulla base di pareri medico-scientifici. Ma è un’area circoscritta, quindi gestibile. Abbiamo province dove la situazione è critica: Piacenza, Rimini, Parma. Stiamo valutando ulteriori misure restrittive, in particolare nel Riminese, ma non parliamo di zone rosse».

In Emilia-Romagna sta reggendo il sistema sanitario?

«Sì, grazie in primo luogo al lavoro straordinario di medici, infermieri, operatori. E a una capacità di programmazione che ci ha permesso di definire un piano regionale che mette a disposizione di tutti i territori fino a 3.100 posti letto ordinari e 513 in terapia intensiva. A questi si aggiungono ulteriori posti resi disponibili dalla sanità privata».

Ha già detto che, passata l’emergenza, servirà un dibattito serio sulla sanità pubblica. Cosa pensa si debba fare?

«Il sistema sanitario pubblico è un patrimonio nazionale, su cui bisogna investire di più. E i 4 miliardi in più sul Fondo sanitario nazionale per il 2020, frutto dell’intesa fra governo e Regioni, sono un segnale importante: la strada è questa ed è obbligata».

C’è chi ha accusato governo e Regioni di aver incentivato troppo le privatizzazioni nella sanità.

«In Emilia-Romagna abbiamo difeso e investito nella nostra sanità pubblica, anche di fronte a chi proponeva il modello opposto. Quanto ai privati, in questa emergenza stanno collaborando: valgono per loro le regole del pubblico, a partire dal dover differire ogni prestazione non urgente. Non è questo il momento delle differenze, serve unione e il contributo di tutti».

Nonostante le restrizioni per l’emergenza coronavirus, in molti, tutti i giorni, stanno andando al lavoro, mettendo a rischio la propria salute. Come pensa di intervenire su questo tema?

«Governo e parti sociali hanno firmato un accordo per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro. Va fatto rispettare, punto. I luoghi di lavoro dove non è garantita la sicurezza vanno chiusi finché non si determinano condizioni opposte. Come Regione noi aumenteremo i controlli».

Con le scuole cosa pensa si debba fare? Quando è ipotizzabile una riapertura?

«Andranno riaperte solo quando potrà essere garantita la tutela della salute di bambini, ragazzi e lavoratori, non altro».

Nuovo focolaio nel Bolognese. Il virus dilagato nella bocciofila. A Medicina e Ganzanigo boom di casi fra gli anziani. Tiziana Paolocci, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. I carabinieri presidiano il comune di Medicina, finanza e esercito la frazione di Ganzanigo, circondario di Imola, alle porte di Bologna. I due territori da ieri sono «zona rossa» e non è più possibile uscire. A spingere la Regione Emilia Romagna a prendere questa decisione drastica è stata una «crescita anomala del contagio» da Coronavirus, che si è diffuso rapidamente all'interno dei bar del Medicivitas e della bocciofila Ca' Nov di Medicina, punto di ritrovo di molti anziani, allargandosi ben presto ad altri territori dell'imolese e del bolognese. «È necessario arginare il contagio a tutela dei residenti del comprensorio imolese e della Città metropolitana di Bologna, area vasta da 1 milione di persone - spiega la Regione - In base all'ordinanza del governatore emessa d'accordo con Governo, prefetto, sindaco della Città metropolitana e d'intesa col sindaco di Medicina possono entrare i soli residenti ancora fuori dall'area circoscritta e chi lavora nei servizi pubblici e privati essenziali». «È uno degli atti più sofferti che io abbia assunto da governatore - spiega Stefano Bonaccini - ma le informazioni e le indicazioni che ho raccolto dai tecnici non mi hanno permesso altra scelta. Da diversi giorni il numero dei contagi e dei decessi a Medicina registra una crescita tale da richiedere un intervento drastico». Chi non abita a Medicina, paese di 16mila abitanti, ma ci lavora, per entrare e uscire avrà un'autorizzazione da parte del Comune. Il provvedimento scattato include però la sospensione di tutte le attività produttive e commerciali, mentre resteranno aperti negozi di generi alimentari, farmacie, rivenditori di mangimi per animali, distributori di carburante, ottici, attività connesse al rifornimento dei beni essenziali e le strutture socio assistenziali. Inaccessibili invece parchi, aree cani e sportive. Consentito infine il servizio di raccolta rifiuti e consegna a domicilio di farmaci e generi alimentari. Di scelta «coraggiosa e necessaria» parla anche il sindaco di Bologna, Virginio Merola, mentre il commissario ad Acta della Regione Emilia-Romagna, Sergio Venturi, di provvedimento preventivo. Del resto la situazione era irrimandabile visti i numeri inviati due giorni fa in Regione dall'Usl di Imola e dall'ordinario di Malattie Infettive dell'Università di Bologna: 90 casi accertati di Coronavirus a Medicina e Ganzanigo, 8 decessi, 22 ricoveri ospedalieri e 24 casi in isolamento fiduciario domiciliare, oltre a 102 in isolamento precauzionale. «Mi tocca dirvi quello che un sindaco non vorrebbe mai dire - ha sottolineato il primo cittadino di Medicina Matteo Montinari in un video diffuso su Facebook - Dobbiamo però seguire le indicazioni dei medici che stanno gestendo al meglio quest'emergenza sanitaria». «Siamo tutti qui impegnati a trovare un senso a questa storia - aggiunge citando Vasco - In realtà non c'è alcun senso, c'è comunque un domani che arriverà e saremo fortunati di viverlo insieme. Vi voglio bene».

Coronavirus, 2 assessori Emilia-Romagna positivi. Regione: Stanno bene. (LaPresse il 4 marzo 2020) - La neo assessora regionale dell'Emilia-Romagna, Barbara Lori, è risultata positiva al Coronavirus. Lori aveva partecipato alla seduta di insediamento della Giunta venerdì scorso. Subito dopo aver appreso la notizia - si legge in una nota - ieri sera tardi, il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, il sottosegretario Davide Baruffi e l'assessore alle Politiche per la Salute, Raffaele Donini, si sono sottoposti al test tampone, per motivi legati all'operatività dell'Ente e doverose ragioni precauzionali. In particolare, l'assessore Donini era entrato in più diretto contatto con Barbara Lori nei giorni scorsi. Il presidente Bonaccini e il sottosegretario Baruffi sono risultati negativi. Positivo, invece, l'assessore Donini. Già questa mattina, gli altri componenti la Giunta sono stati sottoposti al test. "Lori e Donini - si trova ancora scritto - sono in buone condizioni e si trovano presso le loro abitazioni, dove rispetteranno il periodo di isolamento. In entrambi i casi è in corso di definizione la lista dei contatti avuti nei giorni passati e, così come previsto dai protocolli, verranno svolti gli accertamenti sulle persone interessate, contattate direttamente dalle strutture sanitarie competenti territorialmente". Barbara Lori è assessora alla Montagna, aree interne, programmazione territoriale e pari opportunità. Dopo essere stata eletta consigliere della Provincia di Parma dal 2009 al 2014, nel 2014 è stata eletta consigliera regionale dell'Emilia-Romagna nel 2014. Originaria di Parma, Lori è una 'new entry' della Giunta guidata da Stefano Bonaccini. Raffaele Donini, oggi assessore con delega alle Politiche per la salute, nella scorsa legislatura, è stato vicepresidente e assessore ai Trasporti, reti infrastrutture materiali e immateriali, programmazione territoriale e agenda digitale.

Coronavirus, 47 casi in Emilia-Romagna. Contagiata partorisce: il bimbo non ha il virus. I positivi sono venti in più rispetto a ieri. Un decesso: un uomo lombardo ricoverato a Piacenza e poi trasferito a Parma. L'assessore Venturi: "Probabilmente le scuole rimarranno chiuse per un'altra settimana". La Repubblica il 26 febbraio 2020. Nuovi casi di contagio da coronavirus in Emilia-Romagna. E il primo morto in Regione: un paziente di 69 anni già affetto da importanti patologie pregresse. Proveniente da uno dei comuni della “zona rossa” lombarda, era stato ricoverato all’ospedale di Piacenza, poi trasferito in terapia intensiva a Parma. Ma c'è anche una notizia positiva, oltre ai due dimessi perché guariti: il bimbo partorito da una mamma positiva, ricoverata a Piacenza, non ha il virus. Il bilancio sale a 47 pazienti, venti in più rispetto a ieri sera, molti a casa loro. I nuovi casi sono a Piacenza e nella provincia di Modena: si tratta di contagi, precisa la nota della Regione, tutti riconducibili al focolaio lombardo, nessuno di questi è in condizioni critiche. Unica eccezione sono i due casi in più a Rimini. Complessivamente, sale così a 47 il numero dei casi sul territorio regionale: 28 a Piacenza otto in più, si sono autopresentati stanotte in ospedale), 8 a Parma, 8 a Modena e 3 a Rimini, questi utlimi tutti e tre in ospedale. I casi in Terapia intensiva sono due a Parma, che provengono da Piacenza e uno a Modena che proviene da Carpi. Per quanto riguarda le condizioni degli altri casi positivi rilevati nei giorni scorsi, 2 soli sono in terapia intensiva, 14 ricoverati in condizioni non critiche presso i reparti di malattie infettive e 13 – di cui 9 asintomatici – si trovano in isolamento al proprio domicilio. Fra le persone che si sono presentate stanotte al Pronto soccorso di Piacenza, poi risultati positivi al Coronavirus ci sarebbe un paziente 'fuggita' dalla zona rossa di Codogno. "Stanotte - precisa Venturi - abbiamo avuto diversi accessi in Pronto soccorso a Piacenza, otto si sono presentati spontaneamente, tutti casi collegati al basso Lodigiano". Uno dei pazienti, però, segnala l'assessore, "con sufficiente margine di certezza viene da Codogno ma è in corso una verifica". "Evidentemente c'è qualcosa che non va da segnalare alla Regione Lombardia - fa notare Venturi -: avremo piacere che i pazienti di Codogno fossero curati nell'ospedale di Lodi e dintorni".

L'assessore Venturi: "Scuole, forse chiuse altri sette giorni". "L'indicazione è far rimanere a domicilio i pazienti risultati positivi a coronavirus". A dirlo è l'assessore regionale alla Sanità Sergio Venturi durante l'aggiornamento del pomeriggio. "Abbiamo una pista consistente su Rimini", ha aggiunto. Dopo il primo caso di ieri, il ristoratore di Cattolica, ci sono due pazienti risultati positivi che frequentavano la trattoria: "C'è una verifica in corso se c'è contatto col focolaio di Codogno o provenienza da Padova, per noi sarebbe una cosa di grande rilievo". Venturi ha annunciato anche i primi due dimessi di Codogno dall'ospedale di Piacenza, tra cui l'infermiere che fece il triage al paziente 1, Mattia, al pronto soccorso: "Oggi sta bene, va a casa sua". Tra le notizie positive, c'è una mamma col coronavirus che ha partorito a Piacenza, una signora che viene dalla Lombardia:  "Il bimbo sta bene e non ha il virus". Sulle scuole l'assessore dice: "Probabilmente la chiusura sarà di due settimane, non ha senso una sola". Ma lascia la decisione al suo successsore Raffale Donini. Mentre sui certificati chiarisce: "I genitori non devono presentare i certificati medici al rientro, a meno che non abbiano preso l'influenza i loro figli".

Nel Piacentino ammalato anche un sindaco. Il sindaco di Borgonovo Valtidone, sulle colline del piacentino, Pietro Mazzocchi, è tra i contagiati dal coronavirus. Lo ha confermato lui stesso questa mattina al quotidiano Libertà: "Domenica avevo la febbre alta, mi è stato fatto il tampone che è risultato positivo, anche per mio figlio". Mazzocchi ha anche spiegato che il figlio "è da poco tornato da un viaggio ad Amsterdam con un ragazzo di Codogno, la causa potrebbe essere da ricercare lì". Le condizioni di padre e figlio non sono allarmanti: "Sto passando quella che a tutti gli effetti è un'influenza, niente di particolarmente pesante".

Merola: "Siamo città di relazioni, la vita prosegue". "Siamo una città che vive di relazioni con il mondo, il nostro tessuto economico e imprenditoriale è forte: diamo per primi l'esempio che la vita prosegue". E' il messaggio del sindacao Virginio Merola, che stamattina ha incontrato i segretari di Cgil, Cisl, Uil e i rappresentanti di Confidustria Emilia centro, Alleanza delle cooperative italiane e Cna. "L'incontro è stato convocato per fare il punto della situazione in questi giorni in cui anche la nostra città deve applicare le misure di precauzione per evitare la diffusione del coronavirus", spiega il Comune in una nota. "Oggi ho incontrato i rappresentanti delle categorie economiche e delle organizzazioni sindacali per avere un quadro aggiornato della situazione e per conoscere le loro valutazioni", dichiara il sindaco, aggiungendo di aver "trovato in loro quel senso di responsabilita' e di concretezza che, mi auguro, tutti sapremo mettere in atto: dai cittadini a chi ha responsabilita' politiche, sanitarie o amministrative".

Tribunale Bologna, gli avvocati: "Troppo stretti, rinviare udienze". I locali del Tribunale di Bologna, del Tribunale dei minori e della Corte d'appello non garantiscono il rispetto delle prescrizioni suggerite dal ministero della Salute per prevenire la diffusione del contagio da coronavirus. Per questo l'Ordine degli avvocati bolognese chiede ai capi degli uffici giudiziari di "rinviare a data da destinarsi le udienze civili e penali, salvo quelle indifferibili" oppure, se questo non fosse possibile, di "adoperarsi affinche' le misure previste dal ministero, di concerto con la Regione, siano rispettate, disponendo che le udienze si svolgano esclusivamente in aule in cui siano garantiti il rispetto della distanza di sicurezza e le condizioni igieniche, tra cui la pulizia delle superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol".

Da liberoquotidiano.it il 4 marzo 2020. Prima vittima illustre del coronavirus. Ivo Cilesi 62 anni, deceduto lunedì all' ospedale Maggiore di Parma. Era un luminare della cura dell' Alzheimer, in particolare aveva sviluppato la cosiddetta «doll therapy», oltre che terapie non farmacologiche rivolte in particolare alla cura delle persone affette da demenza. Cilesi, martedì scorso, era andato a Salsomaggiore per uno dei suoi numerosi progetti e stava bene. Le sue condizioni sono precipitate in tre giorni: una crisi respiratoria giovedì notte, il ricovero a Fidenza venerdì, il tampone positivo, sabato il trasferimento all' ospedale di Parma dove è morto. «Era il massimo studioso delle terapie non farmacologiche, l' ideatore della doll therapy e della terapia del viaggio», spiega ora Paola Brignoli, vice presidente del centro Innovative Elder Research di San Paolo d' Argon, di cui Cilesi era il presidente. La sua carriera era iniziata con una laurea in scienze dell' educazione e pedagogia. Poi era arrivato l' impegno al centro Alzheimer d' eccellenza dell' ospedale Briolini di Gazzaniga e la collaborazione con il Policlinico di Milano fino al progetto con l' Università di Bergamo sulla doll therapy a domicilio. A quel punto, le consulenze si erano allargate a tutto il mondo, dalla Svizzera, alla Svezia, a Cuba. Fino alla trasferta a Salsomaggiore, la crisi respiratoria, il tampone e la morte improvvisa che lascia un vuoto nella scienza italiana e molte domande su questo maledetto virus.

Annalisa Cretella per agi.it il 4 marzo 2020. Ivo Cilesi, il medico 61enne, conosciuto per il suo lavoro per combattere l'Alzheimer, morto nella notte tra domenica e lunedì a Parma dopo essere risultato positivo al coronavirus "stava bene, non aveva un raffreddore, nulla. E fino a pochi giorni fa non aveva alcun problema di salute. Nessuna patologia" pregressa che potesse complicare il quadro clinico. Lo racconta all'AGI Paola Brignoli, amica dell'uomo e vice presidente del centro di ricerca Innovative Elder Research Onlus da lui fondato. Un caso, dunque completamente diverso da quello delle persone decedute per il coronavirus fino a questo momento. "Ivo - spiega la dottoressa Brignoli - non soffriva di alcuna patologia prima. Era un uomo straordinario e il virus l'ha portato via in tre giorni. Tutto si è scatenato improvvisamente. Così fa ancora più paura questo virus. Proprio martedì sera, io e Ivo commentavamo il fatto che fosse pericoloso solo gli anziani. Ma lui aveva 61 anni" non rientrava nella categoria degli over 65 considerata a rischio, "ci siamo sentiti giovedì e stava benone". "A volte scherzavamo - continua Brignoli - gli dicevamo che doveva mettersi a dieta. Ma così, per ridere". "Anzi ha rassicurato i colleghi. In ufficio, c'era un po' di subbuglio su questo Coronavirus e si pensava di lasciare delle persone a lavorare da casa per evitare troppi contatti. E lui è intervenuto dicendo 'ma ragazzi non drammatizziamo, è un'influenza a tutti gli effetti, un po' più alta, ma mica si muore'. Se penso alle ultime sue parole mi vengono i brividi".

Coronavirus, morto il dottor Ivo Cilesi: aiutava i malati d’Alzheimer con la doll therapy. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Giuliana Ubbiali. Sul suo profilo Facebook una donna abbraccia una bambola di pezza. Ivo Cilesi era l’esperto della doll therapy, oltre che delle terapie non farmacologiche con particolare attenzione nella cura delle persone affette da demenza. Di Genova, da anni a Cene, è morto nella notte tra domenica e lunedì: era positivo al coronavirus. Per la sua corporatura era «il gigante buono». Quella non aiuta, ma Cilesi aveva 61 anni, non 80. E stava bene martedì, quando era andato a Salsomaggiore per uno dei suoi numerosi progetti. Le sue condizioni sono precipitate in tre giorni: una crisi respiratoria giovedì notte, il ricovero a Fidenza venerdì, il tampone positivo, sabato il trasferimento all’ospedale di Parma dove è morto. A Genova c’è una sorella, a Salsomaggiore la compagna e, alle Terme, il Centro Ammonis per le cure senza farmaci. «Abbiamo scherzato fino a giovedì. Oggi (ieri ndr) ho ricevuto duecento telefonate, siamo sconvolti. Dica che Ivo era un grande uomo». Paola Brignoli è la vice presidente del centro Innovative Elder Research di San Paolo d’Argon, Cilesi era il presidente. «Era il massimo studioso delle terapie non farmacologiche, l’ideatore della doll therapy e della terapia del viaggio. Un personaggio con grande umiltà che non metteva i manifesti di quello che faceva». Un curriculum lungo, il suo, iniziato con una laurea in scienze dell’educazione e pedagogia. Le consulenze al centro Alzheimer d’eccellenza dell’ospedale Briolini di Gazzaniga e alla fondazione Santa Maria ausiliatrice (il Gleno). La collaborazione con il politecnico di Milano, sempre sull’Alzheimer, e un progetto con l’Università di Bergamo sulla doll therapy a domicilio. Consulenze e insegnamenti anche in Svizzera, in Svezia e a Cuba. «Fino a martedì era stato qui, in Bergamasca. Non si sa come abbia preso il virus — sempre Brignoli —. Anche noi, in quattro-cinque, siamo in quarantena». Di recente si era sentito con Manuela Berardinelli, presidente della onlus Alzheimer Uniti Italia: «Erano state donate delle bambole alle case di riposo del Maceratese e non potevamo che rivolgerci a Ivo, dotato di competenza e cuore. Era il maestro, un gigante buono». È impossibile elencare le associazioni e le persone che hanno scritto sulla sua pagina. E in tutto questo, lui aveva trovato anche il tempo per la politica. Nel 2018 come candidato alle regionali in Lombardia Ideale, con il presidente Attilio Fontana. Nel 2019, in Bergamo Ideale, con Giacomo Stucchi.

Gabriele Laganà per il Giornale il 3 marzo 2020. Il coronavirus ha portato via per sempre Ivo Cilesi, uno dei massimi esperti italiani nella lotta all’Alzheimer. Il dottore, originario di Genova ma che da tempo viveva nel piccolo comune della Bergamasca di Cene, era conosciuto perché “padre” della cosiddetta "Doll Terhapy", o "Terapia della Bambola", metodo che aiuta ad attenuare alcuni dei più frequenti disturbi comportamentali dei malati di Alzheimer, come il wandering (il vagare senza meta), l’aggressività, l’agitazione, la depressione, l’apatia o i disturbi del sonno. Questa particolare terapia si è diffusa nel mondo dopo la sperimentazione e le prime applicazioni al centro Alzheimer del Ferb di Gazzaniga del quale lo stesso Cilesi era un apprezzato consulente. Come ricorda Bergamonews, il medico era anche responsabile del Servizio terapie non farmaco logiche e riabilitazione cognitiva dell’Area Alzheimer della Fondazione Santa Maria Ausiliatrice di Bergamo e responsabile per l’inserimento di terapie non farmacologiche alla Fondazione "Cardinal Gusmini" di Vertova, e non solo. Cilesi era anche pedagogista, musicoterapeuta, esperto di terapie non farmacologiche e presidente dell'Innovative Elder Research di San Paolo d’Argon, di cui il medico era presidente. Cilesi, 61 anni, si era sentito male lo scorso venerdì mentre si trovava a Salsomaggiore Terme, località dove vive la compagna e collaboratrice che attualmente si trova in quarantena. Le sue condizioni sono apparse subito molto serie tanto che si è reso necessario il ricovero prima a Fidenza, dove è risultato positivo al coronavirus, e poi a Parma in medicina d'urgenza a causa di una crisi respiratoria. Purtroppo, tutto è precipitato nel giro di pochi giorni. Cilesi è morto nella notte tra domenica a lunedì all’ospedale Maggiore. Tanti i messaggi di cordoglio. Tra questi vi è quello della onlus Alzheimer Uniti Italia: "Ne ricordiamo le grandi doti umane e professionali. Avremo sempre il suo esempio come guida, esprimiamo inoltre gratitudine per la vicinanza e sensibilità sempre dimostrate verso la nostra associazione e tutte le persone fragili". Paola Brignoli, vicepresidente dell’Innovative Elder Research di San Paolo d’Argon, ha scritto: "Caro Ivo, ci lasci tutti frastornati e addolorati! Sei un grande e io ho avuto una grande fortuna quella di averti nel cammino della mia vita! Una guida competente, silenziosa, garbata, umile ....un grande amico! Farò tesoro dei tuoi insegnamenti! Tanti progetti insieme e tranquillo...sento la tua voce che mi dice “vai avanti”....non mi fermerò! Continuerò il tuo lavoro...te lo devo! Vola in alto amico mio e stammi a fianco!".

Giuliana Ubbiali per bergamo.corriere.it il 3 marzo 2020. La compagna di Ivo Cilesi, il medico morto di coronavirus: «Dicono che siano gli anziani i più a rischio, invece è successo a lui». Giovanna Lucchelli è in quarantena a Salsomaggiore. È la compagna e collaboratrice di Ivo Cilesi, che a 61 anni, nel giro di tre giorni, è passato da mille progetti sulle terapie non farmacologiche, in particolare con le persone con l’Alzheimer, alla morte. È risultato positivo al Coronavirus. «Mi sembra tutto surreale, come se guardassi una vicenda da lontano — parla la compagna al telefono —. Hanno sempre detto che le persone più esposte erano anziane, invece è successo a lui, un uomo instancabile che era sempre in giro per i suoi progetti». Si conoscevano da 27 anni, ma lei non l’ha più potuto vedere da quando l’hanno messo in isolamento. Era sceso martedì da Bergamo, viveva a Cene. «Martedì era arrivato un po’ stanco, ma avevamo pensato che fosse normale per i suoi numerosi impegni. Non diceva mai no a nessuno. Ma non aveva febbre o tosse. Venerdì mattina faticava a respirare e tremava. Ho chiamato il 118 ma nessuno pensava al coronavirus. All’ospedale di Fidenza, dalle lastre è risultata la polmonite. È stato messo in isolamento e gli hanno fatto il tampone. Sabato l’esito: positivo. Non l’ho più potuto vedere, è stato trasferito all’ospedale di Parma. Lunedì mattina mi hanno telefonato per comunicarmi il decesso». Avevano tanti progetti insieme, il centro Ammonis nelle terme di Salsomaggiore era uno. «Ivo era indistruttibile, la sola consolazione è sapere che nella vita ha fatto quello che desiderava».

SARDEGNA.

Monia Melis per lettera43.it il 28 marzo 2020. Dalla caccia all’untore arrivato dal Nord alla corsa al controllo individuale, anche a suon di macabri slogan. Così la Sardegna, l’isola del turismo (ora fuori stagione), si ritrova a fare i conti con l‘emergenza da Covid-19. Ufficialmente 1 milione e 600 mila abitanti, con un’età media 45 anni, la regione ha un sistema sanitario fragilissimo e sbilanciato, che ha subito uno smantellamento della rete dei piccoli ospedali in favore del privato convenzionato, tra tutti il Mater Olbia finanziato dal Qatar e destinato ora proprio ai contagiati. Un equilibrio delicato difeso, ora, con confini ancora più blindati perché fino al 3 aprile si entra ed esce solo con l’autorizzazione del presidente della Regione. Tutto chiuso per decreto, come nel resto d’Italia, isolamento retroattivo per gli ultimi arrivati, ma non è bastato. Perché, per ora, i focolai veri, di contagio, sono e restano le corsie degli ospedali. Nonché le case di riposo. E le procure sarde sono già al lavoro a Cagliari e Sassari. Diciannove i decessi (al 27 marzo), 492 i positivi di cui almeno 330 nel nord della regione, in un territorio che va da Sassari a Olbia, in gran parte tra i sanitari, appunto. Gli addetti ai lavori stimano siano almeno la metà, anche se per la Regione sono un quarto, il 26%. È iniziato a Cagliari con il primissimo contagio, poi Nuoro, nell’ospedale San Francesco, un caso da manuale poi miracolosamente disinnescato quando l’esercito era già pronto ad allestire un ospedale da campo. Medici, infermieri e oss contagiati, pazienti poi trasportati nell’ospedale di Tempio, in Gallura. Protocolli non rispettati o assenti, come i dispositivi di sicurezza: così il reparto di Cardiologia del Santissima Annunziata di Sassari è diventato crocevia di destini di pazienti e professionisti (anche di rientro da Milano), chiusi dentro per tre giorni. Per fare i tamponi (a singhiozzo) a ospiti e dipendenti della locale casa di riposo, a gestione comunale, Casa Serena (140 gli anziani, tra cui una vittima e 26 positivi) sono dovuti arrivare i medici militari da Roma. Per i sindacati è «una polveriera». E non è l’unica: succede nelle residenze sanitarie, e in altri centri del Medio Campidano e della Barbagia. Dove la guardia medica – infetta – è passata per più paesi. Le infermiere fanno il bucato con le mascherine riciclate e condividono le foto via chat, altri denunciano di avere «Panni swiffer sulla bocca». Per tutti loro vige il diktat del silenzio imposto dalla Regione alle aziende: chi parla rischia provvedimenti disciplinari. Eppure, senza nome, fioccano i racconti e le interviste. Il piano d’emergenza prevede il reclutamento di 600 sanitari per dare il cambio a chi è in quarantena, per 200 infermieri – però – chiamata a partita Iva. Si fattura per sei mesi, sotto turnazione, e poi chissà. La Regione guidata dal sardista leghista Christian Solinas è riuscita ad accentrare tutta la comunicazione delle singole aziende sanitarie locali. Ma qualcosa è sfuggito: le esternazioni di un assessore, non uno a caso ma quello alla Sanità, Mario Nieddu, in quota Lega. Sul record di contagi tra i sanitari (in proporzione ai “civili”) in un’intervista a Videolina ha dichiarato che «ci può stare». E al primo scivolone il 17 marzo si è aggiunta la citazione di un’azienda, la Tema srl, a cui sarebbero stati commissionati dei test rapidi. Prodotti definiti pochi giorni dopo dallo stesso assessore «poco affidabili». Da lì la reazione della società che ha annunciato azioni penali, e negato di aver ricevuto gli ordini a quella data. E se i medici continuano a denunciare carenze, dalla Regione arrivano assicurazioni sulle dotazioni (450 mila mascherine distribuite dalla Protezione civile) oltre ai doni quotidiani di imprenditori cinesi. Per il futuro, però, si punta sull‘high tech: tamponi per tutti, stile Veneto e Corea del Sud, app per tracciare gli spostamenti e sperimentali braccialetti- saturimetri da assegnare agli asintomatici in isolamento. Il tam tam dei sindaci (anche di micro comuni) riuniti nell’Anci Sardegna ha spinto verso la chiusura dell’Isola. Parole di apprensione, da Pula a San Teodoro, di fronte agli arrivi, specie nei comuni costieri, nei primi giorni dell’emergenza. Sono gli stessi primi cittadini a comunicare la presenza di positivi su Facebook, spesso denunciano senza alcun coordinamento regionale. Ed è quindi caccia alle uscite inutili, seppur in solitaria o con il cane come lasciapassare. Fino all’ultima mossa del sindaco di Cagliari, Paolo Truzzu (Fdi) che a inizio marzo aveva assicurato: «La città è aperta». La campagna di comunicazione ha dato il via a una controcampagna sui social. Sui muri urbani sono apparsi tre diversi messaggi istituzionali su cartelloni 6 metri per 3. «Quando hanno portato mia madre in ospedale ho capito che dovevo rinunciare alla corsa», e ancora «Quando hanno intubato mio padre ho pensato a quella passeggiata che non dovevo fare». Un registro colpevolizzante contestato dall’opposizione di centrosinistra e diventato nel giro di poche ore bersaglio dei meme. I cartelloni apparsi a Cagliari voluti dall’amministrazione. Fondo bianco, caratteri cubitali rossi e neri come gli originali – al punto da essere facilmente confusi – hanno creato una controcampagna social, una rivolta collettiva. Tra tutti, questo: «Quando mi hanno portato in ospedale, non pensavo che mi sarei ammalato proprio lì», una sardonica – e amara – verità.

MARCHE.

Le Marche «disobbediscono» a Conte:  scuole chiuse, ma non ci sono contagi. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Salvia. La Regione Marche va per conto suo, di nuovo. Mentre il governo sta per emanare un’ordinanza tipo, valida per tutte le Regioni che non hanno avuto al momento casi di contagiato, e che non prevede la chiusura delle scuole, il governatore Luca Ceriscioli prende una strada diversa. E annuncia che nella Regione «dalla mezzanotte di oggi scattano provvedimenti che prevedono la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e la sospensione delle manifestazioni di pubblico spettacolo» fino al 4 marzo. Il presidente della Regione, del Pd, dice di aver «appena firmato l’ordinanza che aumenta le misure nei confronti del contenimento del Coronavirus». E questo perché un «contagio al confine della nostra regione, a Cattolica (in Emilia Romagna, ndr) ci segnala che sono sempre più urgenti misure di contenimento». Già ieri il governatore della Marche aveva disposto la chiusura delle scuole ma l’ordinanza era stata sospesa dopo una telefonata del presidente del consiglio Giuseppe Conte, che aveva chiesto un maggiore coordinamento a livello nazionale.

Marco Antonellis per Dagospia il 26 febbraio 2020. Nel governo ce l’hanno tutti col Presidente delle Marche, il piddino Luca Ceriscioli e con la sua ordinanza che ieri ha chiuso tutte le scuole della Regione. C’era un accordo che questi provvedimenti fossero coordinati e concordati con Palazzo Chigi, e dovessero avvenire solo in presenza di focolai accertati di Coronavirus. E nelle Marche non c’è nessun focolaio. Anche tre giorni fa Ceriscioli aveva provato a chiudere le scuole, ma in quel caso Conte era riuscito a bloccare l’iniziativa. Evidentemente al Presidente delle Marche questo stop così plateale di fronte a tutta Italia (e specialmente di fronte ai suoi concittadini) non era piaciuto, e dopo poche ore l’ha rimesso in campo e siglato. Il Governo ora ricorrerà, ma prima dello stop chissà quanto tempo passerà. Qualcuno a Palazzo Chigi sospetta che questo mostrare i muscoli di Ceriscioli sia legato anche alla prossima campagna elettorale. Nelle Marche si vota a maggio, ma per ora Ceriscioli non ha ottenuto il via libera del Pd e dei suoi alleati per un nuovo tentativo. I sondaggi bassi alla base della mancata indicazione. Magari ora, dopo la scelta di chiudere le scuole e ingaggiare una “battaglia” contro Conte, risaliranno. Intanto il Pd, a livello nazionale, nei sondaggi si avvicina addirittura alla Lega. Secondo l'ultimo sondaggio Ixè, realizzato per Cartabianca, i dem arrivano al 21,6%. Con il Carroccio quotato al 27,7% la distanza è di soli 6,1 punti percentuali.

LAZIO.

Da lastampa.it l'11 novembre 2020. Un video che arriva dall'ospedale San Camillo di Roma, con il reparto Covid  più grande della capitale, mostra come i clochard che dormono all'interno della struttura rubano il cibo dai carrelli destinati ai pazienti ricoverati. L'ospedale è diventato punto Covid e la tensione è alle stelle tanto che, alcuni giorni fa, un clochard è stato massacrato di botte in un bagno.

Domenico Zurlo per leggo.it il 30 ottobre 2020. Caos a Roma al cimitero Flaminio a Prima Porta, dove la camera mortuaria è ormai satura e si sta creando una vera e propria “fila di salme”. Un disagio e un costo aggiuntivo per le famiglie, dato che le salme in attesa di cremazione dovranno essere depositate al cimitero del Verano, per poi essere riportate al Flaminio, un doppio trasporto con le spese che ne conseguono. La decisione è arrivata dall’Ama Cimiteri Capitolini e sarà effettiva dal 2 novembre: nella circolare dell’Ama si legge di un presunto picco di mortalità registrato a ottobre 2020, e si imputano le nuove misure al rispetto delle norme riguardanti il contenimento del contagio da coronavirus. A ottobre sarebbero stati 500 i defunti in più rispetto al 2019 (+20%). Attualmente ci sarebbero al Flaminio 900 salme e 250 resti in attesa di cremazione, afferma l’Ama. Perciò per quanto riguarda le cremazioni dal 2 novembre le agenzie funebri dovranno trasportare le salme prima al Verano, poi nuovamente al Flaminio 48 prima della data di cremazione. Una novità che ha fatto infuriare i titolari delle agenzie funebri e chi lavora nel campo, che sostengono invece come siano altre le cause del caos e non certo il picco di mortalità. «Cinquecento morti in più in un mese è un numero importante ma non così tanto da giustificare un caos del genere - fa sapere una società di servizi che lavora con diverse agenzie funebri di Roma -. Il problema è storico, l’Ama non riesce a svolgere le attività quotidiane per diversi motivi e il risultato è che le camere mortuarie sono piene». Le cause sono molteplici secondo quanto l'operatore racconta a Leggo: «Le operazioni cimiteriali vengono effettuate fino alle 13.30, quindi chi arriva nel pomeriggio va in camera mortuaria. Idem per le tumulazioni private, per via della carenza di personale. In più il cimitero Laurentino è esaurito». E infine, l’Ama 7 mesi fa «ha licenziato 16 persone per problemi comportamentali, e non ha ancora assunto nessuno al loro posto». In più c’è da aggiungere che se un romano volesse farsi cremare altrove, dovrebbe pagare una tassa di 250 euro: «Permettere la cremazione fuori impianto servirebbe a decongestionare i cimiteri romani, ma ovviamente se i costi sono questi non lo fa nessuno - conclude - Riguardo la circolare, una cosa non chiara è questa: chi fa il secondo trasporto? Noi non abbiamo i mezzi. Lunedì andremo a parlare col direttore del cimitero, sperando che ci riceva».

Mauro Evangelisti per ilmessaggero.it il 16 aprile 2020. A Roma nel marzo del 2018 sono morte 2.783 persone, nel marzo del 2019 2.721, nel marzo del 2020, vale a dire il mese scorso, 2.753. Come è possibile? L’epidemia del coronavirus era già cominciata, nel Lazio siamo già a 300 decessi. Eppure, sulla Capitale i numeri sembrano raccontare altro. Spiegano gli esperti: stiamo parlando di una tragedia, di ospedali sotto pressione, di vittime anche giovani e del dolore di molte famiglie a Roma e nel Lazio, ma se si guardano i numeri ci sono altri fattori che vanno considerati: tra i decessi da Covid-19 probabilmente vi erano anche pazienti con patologie già avanzate che, detto in modo brutale, purtroppo sarebbero morte comunque e dunque a livello statistico non mutano il conto finale. «Inoltre - spiega il vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Roma, Pierluigi Bartoletti - quest’anno gli effetti dell’influenza sono stati meno forti e probabilmente anche questo ha inciso sul dato dei decessi. Teniamo conto anche del fatto che più persone si sono vaccinate quest’anno per l’influenza e questo ha limitato le conseguenze. Per questo diciamo che per le fasce a rischio il vaccino anti influenza in autunno dovrà essere obbligatorio». I numeri, comunque, confermano che a Roma non c’è stato un effetto tsunami del coronavirus, ma solo perché il lockdown ha evitato un contagio troppo rapido e dunque fuori controllo. Per questo continua a essere importantissimo rispettare le regole e restare in casa. Paradossalmente, il lockdown (di fatto dalla seconda settimana di marzo), potrebbe avere inciso anche su altre cause di morte, a partire dagli incidenti stradali. Un grafico elaborato dalla Fondazione Gimbe mostra anche come il Lazio sia una delle regioni con il tasso di letalità più basso in Italia. Quanti pazienti muoiono per Covid-19 ogni 100 infetti? In Lombardia quel tasso è altissimo, 18,2 decessi ogni 100 infetti. In Emilia-Romagna scende a 13, in Toscana a 7, nel Lazio a 5,9, solo in Molise e in Umbria è più basso, rispettivamente a 5,8 e 4. Si stanno anche affinando le terapie domiciliari, che consente di limitare il numero dei pazienti di Covid-19 ricoverati. Si è capito che è una malattia che può peggiorare rapidamente ed è importantissimo iniziare la terapia sin dai primi giorni. Oggi a Roma il 62 per cento dei pazienti viene curato a casa. «Cominciamo finalmente ad avere risultati importanti con due tipi di farmaci - osserva Bartoletti -, sempre tenendo conto che è necessario lo stretto controllo medico e che vanno valutate le caratteristiche dei pazienti. Da una parte ci sono buon risultati con l’idrossiclorochina, che dà spesso un sollievo immediato. Dall’altra anche noi, come in altre parti d’Italia, stiamo intervenendo con l’eparina, un farmaco che serve a evitare la trombosi venosa, l’embolia polmonare. Abbiamo visto molti referti autoptici e purtroppo chi muore quasi sempre è devastato dal punto di vista cardiovascolare. Ci sono danni incredibili a tutti gli organi, non solo polmoni, ma anche cuore e reni. Danni dovuti a micro embolie distali». L’eparina, che è un anticoagulante, aiuta a prevenire tutto questo.

Coronavirus, la testimonianza di un 60enne: "Dieci giorni a chiedere invano un tampone". Così si spiegano i tanti morti in casa? Libero Quotidiano il 28 marzo 2020. “Ho rischiato di finire in rianimazione e non ci potevo credere dopo tanti giorni passati con la febbre a chiedere invano un tampone”. È la storia di un 60enne, intervistato da Repubblica direttamente dal reparto di terapia semi-intensiva dell’ospedale Umberto I di Roma. L’uomo ha raccontato i dieci giorni da paura passati da solo in casa con il virus, senza che nessuno accogliesse la sua insistente richiesta di sottoporsi al tampone. “Il 7 marzo mi è venuta la febbre - ha rivelato - e ho seguito le istruzioni. Il 9 sono stato messo in contatto con lo Spallanzani per il monitoraggio a distanza, ogni quattro ore mandavo temperatura e sintomi: febbre tra 37,5 e 38, tosse ma non avevo problemi respiratori ancora. E ritenevano che non fosse il caso di farmi il tampone”. La storia è andata avanti per una settimana, poi la febbre è salita ancora ed è arrivata la visita a casa, con conseguente diagnosi di broncopolmonite. A quel punto il 60enne ha implorato di fare il test, ma la risposta è stata ancora negativa. E si arriva così a lunedì 23 marzo, quando la situazione è precipitata: “Ho avuto un attacco di 30 minuti di tosse e sono andato nel panico. Mercoledì mi sono svegliato con la febbre a 39,7 e facevo fatica a parlare. Di pomeriggio hanno deciso di ricoverarmi”. In ospedale finalmente l’uomo è stato sottoposto al tampone, ovviamente positivo, ed è stato necessario anche l’intubazione. Adesso è fuori pericolo: “Faccio fatica a parlare ma sto meglio. Questa bestia è insidiosa, ti entra dentro e in poche ore ti devasta. Restare a casa con il virus per dieci giorni non si può. Forse è per questo che muore tanta gente”.  

Franco Bechis per “il Tempo” il 27 marzo 2020. Oggi a Roma al Nomentana Hospital ci sono forse malati di coronavirus nella stanza di chi contagiato ancora non era. Un dramma che nasce da un incredibile pasticcio combinato dalla sanità della Regione Lazio. La scorsa notte sono stati trasferiti lì 49 anziani che arrivavano dalla casa di riposo Maria Immacolata di Nerola, ma nel passaggio da una struttura all' altra sono state smarrite le loro cartelle cliniche, e quindi anche le informazioni sulla positività al virus dei singoli. La denuncia è partita dal sindaco del piccolo comune a una quarantina di km da Roma, Sabina Granieri, che disperatamente cercava notizie da fornire ai parenti di quegli anziani cui non è stato detto più nulla dei loro cari. In molte case di cura della Regione purtroppo sono accaduti episodi simili anche se non così grotteschi. Come alla Giovanni XXIII di Roma, passata sotto il controllo diretto della sanità laziale dopo i primi contagiati. Il figlio di un ricoverato malato ha chiesto notizie del padre alle autorità sanitarie che avevano in mano la casa di cura, e si è sentito rispondere che era stato trasferito al Covid 2 della Columbus. Non era così: il genitore era morto la notte pri ma nella casa di cura. Il racconto di altri istituti quasi sempre coincidente: al primo caso sospetto all' interno della struttura si rivolgono alla As1 di zona che sempre finge di non sen della sanità raccontano malati già in carico degli ospedali tradizionali. I numeri dei contagi nel Lazio crescono ogni giorno come quelli purtroppo delle persone che non ce l' hanno fatta. All' anagrafe del comune di Roma da metà marzo i decessi registrati (anche se non classificati nelle cause) sono cresciuti di 15-20 al giorno rispetto al trend delle settimane precedenti e di più ancora rispetto allo stesso periodo dell' anno scorso. Ma non siamo affatto alla emergenza delle altre Regioni, e se con numeri limitati la sanità regionale è già nel caos, figuriamoci quando quei numeri aumenteranno. Differentemente da altre Regioni in questa si sono fatti però pochissimi tamponi (cifre imparagonabili a quelle della Lombardia, del Veneto, del Piemonte e della Emilia Romagna). Gli unici a cui non si negano sono quelli effettuati ai personaggi noti, ma per i comuni cittadini non c' è possibilità di effettuare test nemmeno quando si avvertono i primi sintomi del virus. Con il risultato che l' intervento rischia di essere tardi vo, e la sola speranza che l' isolamento collettivo imposto dal governo abbia la stesa efficacia. E vero che le occasioni di contatto con altri sono assai rarefatte oggi, ma comunque ci sono ad esempio nei supermercati dove è impossibile evitare gli altri avventori cercando beni di prima necessità da mettere nei carrelli della spesa. E il contagio esplode come un incendio in strutture chiuse dove i contatti inevitabilmente ci sono: case di cure, cliniche, conventi come abbiamo visto nei casi recenti di cronaca. Il virus si può anche sconfiggere, ma il fattore tempo è essenziale. E le armi per fronteggiarlo pure. Certo respiratori e terapie intensive, ma prima di quelle guanti e mascherine per chi lavora in quelle strutture chiuse. E non ci sono, o sono fornite in modo limitato e inutile: si tratta di protezioni usa e getta, e se non ne hai a disposizione ogni giorno nel numero necessario, è inutile averne ricevuto un pacchetto come ha fatto la Regione solo in alcuni posti. Ma il fattore tempo - almeno la stessa rapidità con cui la giunta Regionale laziale sforna a firma di Nicola Zingaretti anche in queste ore nomine e promozioni di stipendio nei propri staff essenziale anche per un altro motivo: se ci si salverà del virus, bisogna evitare di morire di fame perché si perderà il lavoro e chiuderanno migliaia e migliaia di aziende. Se si tiene chiuso tutto ancora per settimane, quella fine sarà certa. Più terribile e ben più estesa del contagio che tanto spaventa in queste ore.

Federico Bosi per affaritaliani.it il 27 marzo 2020. A Roma e nel Lazio aumentano i casi di Coronavirus ed aumentano i medici contagiati: in tutta la Regione sono 108, ben 94 nella sola Capitale. L'Ordine dei Medici si scaglia contro la Regione Lazio, rea di non aver ancora iniziato con i tamponi agli operatori sanitari promessi, e lancia l'allarme: “Se ospedali diventano come le case di riposo sarà una strage”. Il grido di protesta arriva direttamente dalla voce del presidente dell'Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Roma, Antonio Magi.

Dottor Magi, ad oggi quanti sono i medici contagiati a Roma e nel Lazio?

“La situazione si fa ogni giorno sempre più grave e nessuno fa niente per arginarla. Al 26 marzo ci risultano 108 medici contagiati nel Lazio. Nel dettaglio ce ne sono 94 a Roma, 6 a Latina, 6 a Viterbo, 2 a Frosinone e nessuno a Rieti”.

Quanti di loro sono attualmente ricoverati?

“Dei 108 medici positivi, quattro sono ricoverati in ospedale mentre i restanti 104 sono tutti in isolamento domiciliare”.

La Regione lunedì aveva detto che avrebbe iniziato a fare i tamponi a tutto il personale sanitario a rischio. È stato così? Quanti ne sono stati fatti?

“Zero, non è stato fatto ancora niente. Non sappiamo più come dirlo, abbiamo bisogno urgente che vengano fatti i tamponi. Non è possibile andare avanti in questa situazione. Se non vengono fatti al più presto anche gli ospedali rischiano di fare la fine delle case di riposi e diventano dei mega focolai. Tra noi operatori sanitari vengono registrati in media 509 nuovi positivi al giorno. E non lo dico io, ma lo dicono i numeri: il 18 marzo gli operatori sanitari contagiati erano 2890, al 25 marzo sono 6205. Questo è poi il numero dei casi censiti dall'Istituto Superiore di Sanità, ma immagini quanti operatori possono aver contratto il virus e non lo sanno, e nel frattempo visitano ed hanno contatati con migliaia di pazienti e persone. Se non vengono tutelati i medici sarà una strage. Nessuno ci pensa ma questi medici trovati positivi hanno passato la loro incubazione nei reparti e potrebbero aver infettato il mondo”.

E per quanto riguarda le mascherine? Come è la situazione?

“Qualcosa dalla Regione è stata consegnata, ma è poca roba rispetto quanta ne serve e per lo più inadeguata. Per lo più sono state consegnate mascherine chirurgiche, che in alcune situazioni possono anche andare bene, ma ai medici che hanno a che fare con i malati di Covid-19 hanno bisogno delle Ffp2 e delle Ffp3. Ripeto, se ci ammaliamo noi facciamo una strage”.

L'Ordine dei Medici ha inviato un camper attrezzato per dare supporto al Comune di Nerola. La situazione nel piccolo paese è grave?

“Con la zona rossa è stato arginato il problema. Con il nostro camper, su cui lavorano 6 volontari della Federazione Italiana Medici di Famiglia, ci siamo messi in piazza e stiamo eseguendo tamponi su tutte quei cittadini di Nerola a rischio contagio”.

Gianluca Marziani per Dagospia il 24 marzo 2020. Mai avrei pensato, durante la mia missione terrestre, di vivere un evento dal carisma biblico e dalle ascendenze hollywoodiane. Pochi giorni sono bastati per uniformare sguardi e azioni su scala globale, un reset ad altissimo impatto provocato da un agente invisibile che avvolge l’intera scala del visibile. COVID-19 entra nei nomi maiuscoli che riscrivono la Storia, uno di quei passaggi cruciali in cui percepisci sulla tua pelle il limbo tra un prima e un dopo, sentendo la densità viscosa del presente, in attesa che il domani ci riporti addosso gli altri come parte di noi. Così, mentre l’umanità si domesticalizza per decreto, la Natura ci grazia con una primavera che scalda dove non riesce la vita reale. Gli animali ascoltano le stagioni come non facevano da decenni. E l’aria perde la solita miopia atmosferica, ritrovando I dieci decimi della sua bellezza limpida. ROMA è la città in cui ho scelto di trascorrere la mia esperienza terrestre. Oggi soggiorno a casa come (quasi) tutti ma osservo da “chirurgo” il mio quartiere, le fotografie social degli amici, I filmati virali che mostrano una Capitale ad elevata ossigenazione, dove l’architettura si dispone come un palcoscenico, dove le piazze diventano teatri, dove le statue parlano un esperanto di armonie invisibili. Sto immaginando l’elefante di Bernini che, dopo secoli d’impegno statuario, scende dal plinto di Piazza della Minerva e cammina verso il Pantheon, libero di sgranchire la proboscide e tagliare verso il Senato. Lo immagino passeggiare sul Lungotevere mentre altre sculture viventi si avvicinano a lui, condividendo l’emozione di una libertà che stura le arterie dell’inorganico. Li penso, come in un Gay Pride festante, mentre arrivano al giardino zoologico per incontrare I compagni di una lunga vicenda chiamata Storia. Eccolo l’elefante di Bernini, senza pesi sulla schiena, che ritrova i due elefanti anziani dello zoo: un triplo barrito verso il cielo blu cobalto, un’eco che riempie il silenzio romano e rimette la Natura al vertice e gli uomini in basso, dove gli errori dell’arroganza non si trasformeranno più in danni collettivi. Oggi la città svela il suo guardaroba migliore, le sue anomalie raggianti, la sua sagacia creativa. Roma è una festa dolorosa senza invitati umani, a porte aperte per tutti gli animali in libertà non vigilata, un campo infinito per le scie di pollini senza meta, una geografia della liberazione atmosferica, del silenzio armonico, delle notti per gabbiani padroni. Roma ci ricorda anche che non puoi chiudere la sua attitudine da museo del mondo, qui non ci sono orari per la fruizione del sublime, semmai esistono occhi aperti o chiusi, sguardi che colgono e sguardi che scivolano, cuori che accelerano e cuori che non cambiano ritmo. La Capitale ci ricorda I sapori dolci delle vittorie e quelli amari delle sconfitte; tutto è scritto sulla sua pelle multietnica, tutto permane negli hard disk di pietre e stoffe, tele e marmi, gessi e bronzi… Roma è la sacra scrittura delle arti libere, il Talmud della Bellezza declinabile, il grande libro che ha digerito tragedie, drammi e grandiosità. Se qui è cresciuto e morto il suono epico dell’Impero, scomparirà anche il piccolo suono senza suoni, quel silenzio rotolante di un virus che fa il suo giro come un vento temporaneo. Così, mentre l’assurdo ha ricreato il nuovo reale di un intero popolo, vedo frammenti urbani che richiamano la mia attenzione. Sono brandelli, lacerazioni, anomalie dello scarto, piccoli abbandoni: oggetti e pezzi urbani che diventano installazione viva, materia dal cuore pompante, priva di valore mercantile, spontanea come sa esserlo l’esistente senza aggettivi. Il contesto ci assicura che non si tratta di arte eppure il pensiero, più libero di qualsiasi opera, suggerisce altre letture della città, nuovi parametri critici, rinnovati moti del giudizio. Una panchina piegata che sembra gomma elastica, un cartello fasciato dal nastro biancorosso, un albergo con un nome da Biennale, un tronco a terra perimetrato dal nastro, due biciclette spastiche, una finestra col suo ovale onirico, tubi da puro minimalismo... Frammenti spontanei che somigliano ad opere di Loris Cecchini, Kendell Geers, Maurizio Cattelan, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, David Hammons, Jan Dibbets… artisti che amiamo e vorremmo attorno a noi, ipotesi possibili di opere “altre” nel derma urbano, a riprova di quanto l’arte sia una storia di fantasmi eterni che riparano I viventi. Oggi scoviamo richiami che ricordano l’importanza di gallerie, musei, fondazioni e tutti quei luoghi in cui l’arte trova sosta e condivisione. Spazi chiusi che anch’io, come voi terrestri, voglio rivedere aperti e inclusivi, affinché l’esperienza di un interno non sia solo “prigionia” ma volo libero ad assetto variabile. Cammino idealmente in questa Roma di anime vive, di ricordi che sono sculture del tempo, di immagini che sembrano cartoline oniriche… è la Roma di Alberto Arbasino con la sua archeologia viva dell’umana specie… è la Roma di Remo Remotti, Valentino Zeichen, Franco Califano, Dario Bellezza, Victor Cavallo e di tutte le voci zingare che declamavano parole di pietra morbida… è la Roma proletaria e libera di Vincenzo Cerami… è la Roma notturna di Gino De Dominicis, Franco Angeli, Pino Pascali, Mario Ceroli, Enzo Cucchi… è la Roma dei grandi galleristi, dei grandi registi, dei grandi scrittori, del teatro sperimentale, degli architetti a Valle Giulia… è la Roma di Riccardo Schicchi, Cicciolina, Moana e di tutti coloro che hanno levato la benda al sesso… è la Roma dei ristoratori “registi” come Natalino a Corso Francia e Bartolo alla Pace… è la Roma di Remigio Leonardis, l’uomo con la cuffia che salutava il mondo da Piazza Barberini… è la Roma di Fausto Delle Chiaie con le sue sculture faidame a Piazza Augusto Imperatore… è la Roma di Massimo Marino con le sue pacche sui culi della notte…  è la Roma di Giorgio Chinaglia con la sua Lazio del 1974... è la Roma melanconica ma mai rassegnata, ferita ma mai morta, puttana ma sempre onesta nei confronti dei suoi viventi. Oggi in città tornano a passeggiare i fantasmi “giovani” della sua lunga storia: Federico Fellini si sfila la sciarpa rossa e cammina a via Margutta con Giulietta Masina, vera regina degli spiriti colorati; a Piazza del Popolo c’è Ennio Flaiano che sussurra a Marco Ferreri l’aforisma geniale sul virus; a pochi metri ecco Mario Schifano in jeans bianchi e maglietta nera, impaziente e incendiario anche da fantasma; poco più avanti passeggiano Ettore Scola e Marcello Mastroianni, morbidi e indolenti come solo I fuoriclasse creativi sanno essere; a Piazza di Spagna si vede Giorgio de Chirico che finalmente ha una metafisica sotto lo studio, senza obbligo di fughe ferraresi; Pier Paolo Pasolini siede in solitaria da Ciampini a Piazza in Lucina, occhiali neri e sguardo di chi assolve ma non perdona… davanti al Caffè Greco è un viavai di fantasmi che abbiamo amato e lodato, l’intero centro storico pare un gigantesco party a cielo aperto, popolato da animali vivi e fantasmi amichevoli…dal Tridente a Trastevere, da Monti a San Giovanni, dall’Aventino all’Appia Antica, da Monteverde a Testaccio, ovunque ritroviamo spiriti che dipingono, scrivono, osservano, declamano, insegnano, filmano, disegnano, condividono… fanno le cose che Mamma Roma ha sempre accolto nel suo ventre generoso: inventano i colori del tempo, suonano le note dello spazio, divorano il presente con la fame dei veggenti, scrivono la saggezza con la grammatica della vita vera.

Lorenzo D'Albergo e Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 20 marzo 2020. Fondi come Codogno. Zona rossa. Il centro della provincia di Latina, a causa di una doppia festa per anziani organizzata il 25 febbraio scorso, a cui ha preso parte il nonno di una ragazza contagiata dal coronavirus a Milano, ha continuato in questi giorni a rappresentare la fonte principale di contagio in terra pontina. Tanto che giovedì scorso delle 135 positività riscontrate in provincia di Latina ben 47 erano legate al cluster di Fondi, dove c’è stato anche un decesso, a cui va aggiunto un secondo decesso legato al cluster, quello di una donna di Lenola. Senza contare le 192 persone in sorveglianza attiva e le 760 in isolamento domiciliare. Troppi casi, in aumento. Un focolaio che ha portato contagi da coronavirus anche nelle vicine Terracina, Formia e Lenola. La Regione Lazio, sentito il prefetto di Latina e il sindaco di Fondi, come chiesto dall’Asl è quindi intervenuta con un’ordinanza, firmata dal vicepresidente Daniele Leodori e dall’assessore alla sanità Alessio D’Amato, stabilendo ulteriori “misure urgenti di tutela della salute pubblica”, disponendo anche la sottoposizione a Tac di tutte le persone a rischio contagio, utilizzando una Tac presente nel locale ospedale e una in un centro sanitario privato. Vietato quindi per i residenti allontanarsi dalla città, vietato entrare nella città, bloccati tutti gli uffici e gli spazi pubblici, tutte le attività commerciali ad eccezione di quelle fondamenta come alimentari e farmacie, bloccato il trasporto pubblico e vietato uscire da casa anche per andare a lavoro. Considerando poi che a Fondi c’è il Mof, il principale mercato ortofrutticolo d’Italia e il secondo più grande d’Europa, consentita l’apertura della struttura soltanto il lunedì è il venerdì, dalle 6 alle 14, e il martedi, il giovedì e la domenica, dalle 5 alle 14, sanificando ogni sabato lo stesso mercato, contingentando gli ingressi, facendo entrare gli operatori solo con mascherine e guanti e controllando quotidianamente il personale con termoscanner. Una misura eccezionale, presa prevedendo anche l’intervento dell’Esercito per i controlli e fondamentale per porre un argine al dilagare del Covid-19.

Coronavirus, il sospetto di Franco Bechis: "La Regione Lazio non dice la verità sul numero di contagi". Libero Quotidiano il 18 marzo 2020. Franco Bechis ne è certo: qualcosa non torna nel numero dei contagi da coronavirus a Roma. Qualche giorno fa, il direttore del Tempo ha ricevuto la notizia da esponenti delle istituzioni che "prevedevano l'esplosione del contagio a Roma nei prossimi giorni". Eppure i giorni sono passati e l'esplosione - come spiega Bechis sul suo quotidiano - non c'è stata. "Ho sentito dire in tv dal ministro della Salute, Roberto Speranza 'io credo che l'indice complessivo del numero dei contagiati sia superiore a quello che appare', e allora ho iniziato ad avere qualche dubbio". Secondo il direttore la Regione Lazio starebbe fornendo dati molto calmierati. "Mi è capitato - prosegue - qualche giorno di ricevere segnalazioni, da lettori e conoscenti, assai superiori a quelle censite nel bollettino del giorno e credo proprio che molti dati del contagio qui più che altrove non vengano classificati nei bollettini quotidiani". Il motivo appare banale: non ci sono posti necessari al ricovero di tutti i malati.  Non solo, perché secondo la testimonianza di una donna che presentava tutti i sintomi assimilabili al Cocid-19, il 118 non richiama i cittadini che invano tentano di farsi ascoltare. Ecco dunque spiegato tutto. "Temo che questo non sia un caso isolato. E che proprio per questo i numeri siano assai più elevati di quanto non ci venga detto. A Roma il coronavirus ha colpito seriamente la politica, sono ammalati anche i vigili urbani, autisti Atac, la gente comune. E il contagio è assai facile". Insomma, i numeri non possono tornare: "La Regione sul contagio nel Lazio non dice la verità e sottovaluta di molto la realtà".

"Coronavirus? Il Lazio pronto ma resta l'incognita asintomatici". Rocco Bellantone, preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ci parla del Columbus Covid 2 Hospital, struttura realizzazione in tempi record per curare i malati di coronavirus. Francesco Curridori, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. “Gli operatori sanitari hanno risposto con molta passione, sono pronti ad affrontare l’emergenza coronavirus”. Rocco Bellantone, direttore del Governo clinico del Gemelli e preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, mostra soddisfazione per il traguardo raggiunto: la realizzazione in tempi record del Columbus Covid 2 Hospital, la struttura che ieri ha accolto i primi pazienti affetti dal Covid-19 arrivati dal Policlinico Gemelli.

Il Columbus Covid2 Hospital si unisce allo Spallanzani nella lotta al coronavirus. Pensa che il Lazio sarà in grado di vincere o teme l’arrivo del picco di contagi?

"Sul picco abbiamo solo previsioni, ma nessuno di noi ha certezze. Speriamo che la crescita di positivi continui in maniera lenta perché questo ci permetterà di dare una cura adeguata a tutti. Per capire cosa succederà nel Lazio e in Italia in genere bisognerà attendere fine di questa settimana e l’inizio della prossima".

Non sarà necessario, quindi, riaprire il Forlanini come chiede la sindaca Raggi?

"Non so in che condizione sia il Forlanini, ma la Regione ha annunciato che, oltre alla Columbus e al Gemelli, sta per aprire altre due strutture. Al momento il Lazio sta reagendo molto bene e sta affrontando in maniera molto rapida l’esigenza di creare dei nuovi posti".

Qual è l’iter per accedere alla Columbus?

"La Columbus non ha un pronto soccorso. Le indicazioni sono quelle valide per tutta Italia: se qualcuno presenta dei sintomi da coronavirus deve chiamare i numeri verdi nazionali o regionali e, in base ai sintomi, verrà fatto un primo triage telefonico. Qualora ci fosse un caso sospetto le autorità competenti provvederanno al trasferimento del malato nella struttura più adeguata. Il presidio della Columbus rimarrà a disposizione del pronto soccorso del Gemelli e di tutte le ambulanze che arriveranno su indicazione della task force regionale".

Ora i pazienti che prima venivano seguiti in questa struttura a chi si devono rivolgere?

"Noi abbiamo trasferito le attività della Columbus al Gemelli, ma, ora come ora, è prevista solo un’attività d’urgenza o per pazienti, come gli oncologici, che presentano diagnostiche urgenti. Chi non ha delle problematiche urgenti deve rimandare".

Chi è più esposto al Covid-19?

"Le categorie a rischio sono gli immunodepressi e coloro che hanno patologie concomitanti che indeboliscono gli organi e che, in caso di malattia, sono i più colpiti da una polmonite interstiziale. Chiunque abbia il diabete o malattie cardiache è più suscettibile però, in questo momento, dobbiamo stare attenti tutti ed evitare al minimo i contatti. Le passeggiate devono essere molto limitate".

Perché è così importante stare a casa?

"Se noi stiamo tutti a casa chi è infettato non ha possibilità di contagiare altri per cui si riduce il numero di persone ammalate. Riducendo il numero di ammalati si riesce a evitare l’arrivo simultaneo di una gran moltitudine di persone negli ospedali che, a quel punto, potrebbero non reggere l’impatto".

Quanti sono realmente i contagiati nel Lazio?

"È ovvio che, nel Lazio, ci sono ben più di 500 contagiati anche perché oggi i test vengono eseguiti sono a chi presenta dei sintomi".

Ritiene che il Veneto sbagli a effettuare tamponi a tappetto oppure potrebbe essere efficace anche il metodo inizialmente proposto dalla Gb della immunizzazione di gregge?

"In presenza di risorse adeguate l’aumento del numero di tamponi può essere una strategia efficace. Il permettere una diffusione incontrollata per una teorica immunizzazione di gregge rappresenta una via pericolosissima incurante degli effetti catastrofici sui singoli e sul sistema sanitario".

Quindi sono pericolosi anche gli asintomatici?

"Questo virus, nella maggior parte dei casi, ha un decorso asintomatico e benigno. Resta, però, il rischio che gli asintomatici contagino chi, ora come ora, è sano. Se ci fosse un rigido rispetto delle regole il numero dei contagi calerebbe tantissimo. Stiamo tutti cercando di guadagnare tempo perché prima o poi si spera che esca fuori il vaccino e delle cure adeguate. Ora queste cose non ci sono perciò meno contagiati abbiamo e più si riduce la mortalità da coronavirus".

Coronavirus, nel Lazio multe a chi arriva dal Nord e non avvisa le Asl. Oltre alle pratiche igieniche e al piano di pulizia per i mezzi pubblici, l'ordinanza del Lazio prevede multe a chi è stato nei comuni del focolaio e non avvisa la Asl.  Giorgia Baroncini, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. I contagi aumentano di giorno in giorno e con loro la paura. In tutta Italia, le autorità stanno adottando una serie di misure per contenere la diffusione del coronavirus. In Lombardia, Veneto e nelle altre regioni coinvolte sono state chiuse scuole e Università e sospesi tutti gli eventi e le manifestazioni. Più di dieci i comuni in quarantena dai quali non si può entrare o uscire. E mentre il Nord si blinda, anche nel resto del Paese vengono prese importanti misure. Bonifiche sui mezzi pubblici, disinfettante per gli autisti, mascherine e guanti alle guardie private delle stazioni. E soprattutto, multe a chi è stato nei comuni del focolaio e non avvisa immediatamente la Asl. Sono queste alcune delle misure prese nella Capitale per contrastare il coronavirus. Tra le indicazioni, anche quella di non recarsi al pronto soccorso e chiamare invece il numero unico per le emergenze 112 o il 1500. Ieri, come ricorda il Messaggero, si è tenuto in Prefettura un vertice con Campidoglio e Regione proprio per rafforzare la prevenzione. L'obiettivo, ha spiegato il governatore della Regione, Nicola Zingaretti, è "alzare la vigilanza ma anche aumentare il buonsenso e abbassare la tensione e le polemiche. Allo stato attuale nel Lazio c'è un caso ancora di infezione e non c'è nessun caso autoctono, cioè nessun cittadino del Lazio in questo momento è stato affetto dal coronavirus". Ma questo non fa stare tranquilli. L'attenzione è alta e si lavora sulla prevenzione. "Se la situazione dovesse evolversi ci saranno altre iniziative", ha dichiarato il prefetto, Gerarda Pantalone. Dopo la riunione di ieri, oggi sarà pubblicata l'ordinanza della Regione. Oltre alle misure di prevenzione già diffuse dal governo (come quelle che riguardano le buone pratiche igieniche) e allo stop di concorsi pubblici e gite scolastiche, c'è una novità. Per chi arriva dalle zone del focolaio del coronavirus, cioè dai comuni in quarantena del Nord, scatterà l'obbligo di contattare la Asl. "Chi non rispetta l'ordinanza e le disposizioni nazionali, rischia sanzioni", ha dichiarato l'assessore alla Sanità, Alessio D'Amato. Multe salate per tutti coloro che arriveranno nel Lazio dalle zone rosse: scatta infatti l'obbligo di avviso alle Asl che, se non sarà immediato, comporterà sanzioni importanti. L'ordinanza inoltre include la creazione di una rete di comunicazione con tutti i sindaci della regione con l'obiettivo di scambiarsi informazioni in tempo utile per bloccare qualsiasi probabilità di diffusione del Covid-19.

Carlo Picozza per repubblica.it. il 10 marzo 2020. Nel silenzio generale, almeno sette medici dell'Umberto l sono risultati positivi al coronavirus dopo aver avuto contatti con centinaia di persone, tra pazienti, parenti di questi, studenti e colleghi. Tra i camici bianchi affetti dal Covid 19, dopo il governatore-commissario alla Sanità regionale, Nicola Zingaretti, c'è un'altra figura di spicco nel panorama dell'assistenza sanitaria pubblica, l'oncologo Enrico Cortesi. Con lui, hanno contratto il virus un altro collega di reparto e tre specializzandi, tutti in forza nel dipartimento di Oncologia B, e due  dirigenti medici di un altro dipartimento. Sono in quarantena nelle loro abitazioni, dopo aver fornito alla direzione sanitaria del policlinico universitario la lista dettagliata dei loro contatti delle ultime due settimane. "Lunedì 2 marzo", racconta la paziente Clara Colucci di Latina, "accompagnata da mia sorella, sono stata visitata dal professor Cortesi che, come sempre è stato bravo professionalmente e cordiale sul piano umano, ma attento a evitare contatti come la stretta di mano". "Finora, però", spiega Colucci, "non ci è stata segnalata da alcuno la necessità di stare in quarantena né, tantomeno, di sottoporci al test evitando contatti con familiari e conoscenti". Già, il silenzio. Anche se Cortesi si era sottoposto al tampone faringeo sin da sabato scorso, 7 marzo. Ieri mattina la direzione sanitaria gli ha comunicato l'esito del test e lui si è messo in quarantena dopo aver fornito la lista dei contatti avuti negli ultimi quindici giorni. Umberto l e non solo: "Le ultime stime disponibili", spiega il  presidente dell'Ordine dei medici di Roma, Antonio Magi, "riferiscono di oltre 40 medici in quarantena; undici sono risultati positivi al test". Si tratta di professionisti del Policlinico, del Pertini, del San Filippo Neri, del San Camillo. "Oltre a tre medici di famiglia", aggiunge il vicepresidente, Pier Luigi Bartoletti, "due a Roma e uno a Torvajanica". Anche se, spiegano Bartoletti e Magi, "si tratta di numeri al di sotto dei dati reali" Pure perciò, "il personale sanitario, esposto com'è ai rischi del Covid 19, deve poter contare su protezioni che oggi sappiamo essere carenti".

Marco Lodoli per "la Repubblica" il 2 marzo 2020. A quanto pare anche Roma sta subendo l' attacco psicologico del coronavirus: i casi di contagio per ora sono pochissimi, sembra che le mura reali o immaginarie della nostra città siano in grado, almeno per ora, di respingere l' attacco del morbo, ma qualcosa si è incrinato nella mente dei nostri concittadini, a poco a poco la paura sta sbriciolando la fiducia, l' inquietudine ha fatto più di una breccia e gira minacciosa per piazze e strade. Molti concerti sono stati annullati, i ristoranti e i locali sono mezzi vuoti, sembra che la gente, psicologicamente indebolita dalle notizie che grandinano da tutti canali televisivi, preferisca rimanere chiusa a casa, aspettando tempi migliori. Gli appuntamenti vengono rimandati, le belle serate con gli amici a bere in qualche pub sono annullate, si scherza e si sorride per tenere a bada l' ansia, ma intanto si preferisce stare alla larga dai luoghi dove s' immagina possa alitare il contagio. Vicino casa mia, quartiere Trieste, ad esempio, c' è un grande ristorante cinese sempre affollatissimo: adesso è deserto. Ma tutte le attività gestite dai cinesi sono in ginocchio, parrucchieri, empori, caffè vengono evitati con cura, come se fossero rischi che è meglio non correre. Ma la paura colpisce ogni luogo. L' abituale noncuranza dei romani, che idealmente hanno visto tutto, dalle invasioni barbariche ai bombardamenti, le mille giravolte della Storia, l' andirivieni della buona e della cattiva sorte, sembra non essere più sufficiente per continuare a condurre la solita vita di ogni giorno. La città è ancora indenne, eppure i romani percepiscono le fantasmatiche nuvole nere che lentamente si ammassano in cielo. Così Piazza Navona, piazza del Popolo, via del Corso, piazza di Spagna si svuotano, pare che nessuno abbia più voglia di passeggiare per il centro della città, di distrarsi per un poco: la preoccupazione martella, non molla un attimo, non si fa dimenticare nemmeno per il tempo di un giro spensierato. Anche i luoghi della movida notturna si stanno spopolando, a Campo de' Fiori, a Ponte Milvio, al Pigneto o a San Lorenzo si bevono molte meno birre, non si festeggia più la fine del giorno e l' inizio dell' allegria. È come se la città trattenesse il fiato, rannicchiata su se stessa, in attesa. Si sa che tantissimi turisti hanno rinunciato al loro viaggio romano, le disdette si moltiplicano, alberghi di lusso o semplici pensioncine contano le stanze vuote e tutta l' economia della città langue tremendamente: però ormai appare chiaro, e queste foto lo dimostrano perfettamente, che anche i romani in una settimana hanno cambiato radicalmente le loro abitudini. Certo, la situazione di Roma non è quella di Milano, qui la vita non si è paralizzata del tutto, le scuole restano aperte, i supermercati non sono presi d' assalto, allo stadio per Lazio- Bologna ci sono stati quarantamila spettatori (e io e i miei figli tra loro!), però la prudenza sta diventando timore e si preferisce non sfidare la sorte. «Cautela nun preggiudica» , recita un antico proverbio romano. «Magari è solo n' artra influenza, appena appena più incazzata » , mi dice un barista, «però noi che ne sappiamo? Sappiamo gnente, noi. Ma manco i capoccioni ce stanno a capì gnente, e allora per adesso mejo lavasse cento volte le mano e restà a casa a guardà Netflix, i telegiornali no, che te fanno salì l' ansia». È un momento di passaggio, come si dice in questi casi, ma per le strade e per le piazze del centro passa sempre meno gente. In periferia le cose sembrano andare diversamente, la vita continua a scorrere più o meno come sempre: i problemi di ogni giorno sono tanti, non è il caso di caricarsi anche di quelli ancora lontani.

Il giallo del test all'agente: tampone rifiutato anche se aveva i sintomi. Dopo una notte al pronto soccorso viene richiesto per il poliziotto il test allo Spallanzani. Questo sarebbe stato rifiutato in quanto non vi erano i presupposti. Michele Di Lollo, Martesdì 03/03/2020 su Il Giornale. Un piccolo giallo si apre sul caso del poliziotto del commissariato di Spinaceto, periferia sud della Capitale, risultato positivo al coronavirus. Ha trascorso la notte tra il 26 e il 27 febbraio nel triage del Policlinico di Tor Vergata prima di essere dimesso e rimandato a casa il giorno dopo. Per questo ieri, la direzione sanitaria e il Seresmi (Servizio Regionale Epidemiologia, Sorveglianza e controllo Malattie Infettive) hanno richiamato le 98 persone che hanno avuto accesso al pronto soccorso nei due giorni. E che sono potenzialmente venute a contatto con il sovrintendente di 52 anni ora ricoverato allo Spallanzani. Lo scrive il Messaggero. Ecco i particolari. L’agente va a Tor Vergata dove rimane nel pomeriggio e dove passa la notte nel pronto soccorso. Nel frattempo, viene sottoposto a esami clinici e radiologici. Fonti ospedaliere sostengono che il giorno successivo è stato richiesto il test allo Spallanzani. Fatto strano è che il test in questione sarebbe stato rifiutato in quanto non vi erano i presupposti. Particolare non di poco conto: al policlinico avrebbero voluto farlo il tampone. C’è un reparto di malattie infettive, ma non sono delegati, così si è perso tempo. Il contatto dell’agente con una persona proveniente dalla Lombardia, del resto non sarebbe emerso subito. Il 27, dunque, il poliziotto viene dimesso e torna a casa. Solo il sabato, quando le sue condizioni di salute si aggravano e va al Gemelli, viene mandato allo Spallanzani. Anche la moglie, la cognata e i due figli del poliziotto, la più grande che frequenta il primo anno di Informatica all’università La Sapienza e il più piccolo che studia al liceo Pascal di Pomezia, sono contagiati. Ieri, intanto, sono stati raggiunti telefonicamente dalla Asl Roma 6, tutti i ragazzi, i genitori e gli insegnanti della III C dell’istituto Pascal. Sono tutti asintomatici e sono in sorveglianza domiciliare. È stato, inoltre, contattato il maestro di pianoforte dei ragazzi anche lui asintomatico e in sorveglianza domiciliare. Gli operatori della Asl continuano a lavorare per rintracciare tutti i contatti stretti del nucleo familiare. Il ministero della Salute e lo Spallanzani ribadiscono l’appello affinché in presenza di sintomi e di un link epidemiologico è sconsigliato recarsi ai pronto soccorso, ma è necessario chiamare il numero verde 800.118.800. Ieri la segreteria provinciale del Coisp, a cui l’agente è iscritto, era in contatto con il collega: "È provato, ma confidiamo in una sua guarigione", fa sapere il segretario generale Domenico Pianese. "Il Covid-19 colpisce i poliziotti come i cittadini, non siamo immuni - afferma Stefano Paoloni del Sap - l’importante è che siano adottate tutte le cautele perché in servizio non ci siano contagi".

Coronavirus, due casi a Roma: contagiati un vigile del fuoco e un poliziotto. L'assessore alla Sanità: "Nel Lazio non abbiamo casi autoctoni". Il liceo Pascal evacuato a Pomezia a scopo precauzionale. Positivi un giovane allievo pompiere proveniente da Piacenza sotto sorveglianza sanitaria nella caserma di Capannelle e un agente di polizia ricoverato allo Spallanzani, che aveva ospitato un amico lombardo. Positivo al virus anche il suo nucleo familiare: scuola evacuata a Pomezia e sospese lezioni universitarie alla Sapienza frequentate dai figli. Dall'inizio della crisi a Roma e provincia accertati 12 casi. La Asl: "Riaprite la chiesa di San Luigi dei Francesi". Clemente Pistilli il 02 marzo 2020 su La Repubblica. Coronavirus, due persone risultate positive a Roma. L'ultimo in ordine di tempo è un giovane allievo vigile del fuoco dell'87° corso proveniente da Piacenza ed ora sotto sorveglianza sanitaria presso la caserma dei vigili del fuoco di Capannelle dove alloggia. Ieri in tarda serata era risultato contagiato, ma si attendeva il doppio riscontro che si è avuto in nottata, anche un agente della Questura di Roma. L'uomo, originario di Pomezia dove risiede la famiglia, era assente dal lavoro dal 25 febbraio scorso per sintomi influenzali e nei giorni precedenti aveva ospitato un amico lombardo. Stamani, in via precauzionale, è stata prima evacuata la scuola di Pomezia frequentata da un figlio e, qualche ora dopo, sono state sospese anche le lezioni del corso di Laurea in informatica della università La Sapienza di Roma, canale frequentato dall'altro figlio. Nel corso di ulteriori test, è risultato positivo l'intero nucleo familiare del poliziotto: la moglie, due figli e la cognata. Il poliziotto - e la sua famiglia, che però non ha sintomi - avrebbero contratto il virus in seguito ad una visita ricevuta da un amico proveniente da una delle zone della Lombardia da cui si è diffuso il coronavirus. Si conferma quindi il link epidemiologico con il focolaio della Lombardia. Il presidio medico di polizia ha avviato verifiche sui colleghi che hanno avuto contatti con l'agente. Il poliziotto lavora al commissariato Spinaceto e svolge servizio in un ufficio che si occupa di pratiche di polizia giudiziaria, dunque non ha normalmente contatti con il pubblico. I suoi colleghi più stretti, due persone, sono stati già sottoposti a isolamento fiduciario domiciliare mentre è in corso la sanificazione dei luoghi al commissariato dove lavora, nella zona sud di Roma. Il poliziotto era in malattia e ieri si era recato per controlli al Policlinico Gemelli. I medici, in base ai sintomi che aveva, lo hanno fatto trasferire allo Spallanzani ma "non è grave, è in reparto ed è sottoposto a terapia antivirale". Della vicenda sono stati informati Prefetto e Questura di Roma. Nel Lazio sono in totale sei i casi di coronavirus ricoverati allo Spallanzani, tutti riconducibili ai focolai del nord, sottolinea l'assessorato alla sanità della Regione Lazio: il giovane allievo vigile del fuoco di Piacenza, collega di un altro allievo dell'87/esimo corso dei vigili del fuoco che era risultato positivo ai primi test sul coronavirus in Umbria e che aveva lasciato la scuola centrale di Capannelle lo scorso 21 febbraio e da allora non vi aveva fatto rientro. Il poliziotto originario di Pomezia che lavora a Roma e che ha ospitato un lombardo. La donna di Fiumicino ricoverata allo Spallanzani e risultata positiva dopo aver soggiornato qualche giorno a Bergamo: con lei sono allo Spallanzani anche il marito e un figlio. L'ultimo bollettino emesso dall'ospedale Spallanzani parla anche di "un ulteriore caso positivo, con un link epidemiologico veneto". Tutti i ricoverati, prosegue la nota dell'ospedale, "sono in condizioni cliniche che non destano preoccupazioni ad eccezione di un caso che presenta una polmonite interstiziale bilaterale in terapia antivirale".

L'assessore alla Sanità: "Nel Lazio non abbiamo casi autoctoni, tutti legati a focolai delle regioni al nord". "Sicuramente in questa settimana abbiamo un oggettivo incremento dei numeri. Ma la cosa importante è che sono incrementi derivanti da link riconducibili a zone di provenienza in cui ci sono focolai". Lo ha sottolineato l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. "Non abbiamo focolai autoctoni a livello regionale - ha proseguito D'Amato - perchè tutti i casi che sono stati finora esaminati hanno dei link riconducibili a zone della Lombardia, a zone del Veneto e da oggi anche a zone dell'Emilia Romagna, con il giovane vigile del fuoco proveniente da Piacenza che lavora nella caserma di Capannelle".

Dall'inizio della crisi, a Roma e provincia accertati 12 casi. "Sono 12, dall'inizio della crisi coronavirus, i casi positivi accertati a Roma e provincia dall'Istituto Spallanzani. Nella struttura sono ricoverati 7 pazienti, compresa la coppia cinese ormai negativa, l'agente di polizia arrivato ieri, la coppia di Fiumicino con la figlia e, ultimo, un caso di cui non si conosce l'identità arrivato oggi con un link epidemiologico Veneto". Lo rende noto il bollettino odierno dello Spallanzani. A questi casi vanno aggiunti, ma non sono ricoverati allo Spallanzani, il nucleo familiare del poliziotto, composto dalla moglie, due figli e cognata, in sorveglianza sanitaria domiciliare a Pomezia e il vigile del fuoco positivo al test e in sorveglianza nella caserma di Capannelle. Tre le persone guarite: si tratta della coppia di nazionalità cinese proveniente da Wuhan, ancora ricoverata per terminare il periodo di riabilitazione e il ricercatore italiano di 29 anni anche lui proveniente dalla Cina.  Diverso il caso del prete della centralissima chiesa San Luigi dei Francesi, che il 15 febbraio si è recato da Roma a Parigi in auto, facendo una sosta nel nord Italia. I primi sintomi si sono manifestati a

Parigi e ora l'uomo è ricoverato nell'ospedale parigino di Bichat. Secondo la tempistica diffusa dall'ambasciata francese, il sacerdote ha lasciato Roma il 15 febbraio, il 25 è stato riscontrato positivo al coronavirus e il 28 febbraio è stato ricoverato. "Le sue condizioni non destano preoccupazione". Disposto l'isolamento a titolo precauzionale degli altri sacerdoti residenti nella chiesa.

"Riaprite la chiesa di San Luigi dei Francesi". "Da fonti dell'Ambasciata Francese la Asl competente ha acquisito che il parroco parigino che aveva lasciato Roma a metà febbraio era asintomatico. La situazione da un punto di vista sanitario non desta preoccupazioni. La Asl Roma 1 questa mattina richiederà la riapertura della chiesa San Luigi dei Francesi di Roma e di procedere a una pulizia del luogo di culto". Lo dichiara in una nota l'Assessorato alla Sanità e l'Integrazione Sociosanitaria della Regione Lazio.

Mauro Evangelisti per ilmessaggero.it il 29 marzo 2020. Sono tre in totale i positivi al Coronavirus a Fiumicino. La conferma arriva dai test dello Spallanzani. Oltre alla donna di 38 anni che aveva viaggiato in provincia di Bergamo, sono risultati contagiati anche uno dei due figli e il marito. Lo ha annunciato il bollettino ufficiale dello Spallanzani letto dal direttore sanitario Francesco Vaia. 

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 29 marzo 2020. Primo caso di coronavirus in provincia di Roma. È una donna di 38 anni, che abita a Fiumicino, ha due figli di 5 e 10 anni e di recente ha viaggiato nel Bergamasco. È stata ricoverata allo Spallanzani, la famiglia è in isolamento sorvegliato, raggiunte tutte le persone che hanno avuto contatti con lei. Sono in corso verifiche più approfondite sul marito e su una figlia. Va detto che la donna è tornata dalla Lombardia una decina di giorni fa, ma correttamente, visto che aveva i primi sintomi dell' influenza, ha informato l' Asl e rispettato da subito una forma rigorosa di auto isolamento. Poi, visto che l' influenza peggiorava, sono state eseguite le verifiche sul coronavirus. L' ufficialità arriva con un comunicato alle 21.30: «L' esito dei test effettuati in data odierna dall' Istituto Spallanzani conferma un caso di positività al COVID-19. I test sono stati inviati all' Istituto Superiore di Sanità (Iss) per la convalida. Il nucleo famigliare del caso positivo è stato portato allo Spallanzani in sorveglianza attiva». Altri tre casi in realtà sono stati trattati e guariti a Roma: i due turisti cinesi di Wuhan che stavano in un hotel di via Cavour e un emiliano tornato dalla provincia di Hubei. La paziente di ieri è però la prima italiana rilevata nella Città metropolitana di Roma. Quel viaggio in provincia di Bergamo può rappresentare un elemento rassicurante: non si tratta di un focolaio locale, ma il contagio sarebbe comunque collegato alla diffusione del virus in una parte della Lombardia. Conferma l' assessore regionale alla Salute, Alessio D' Amato: «La donna riferisce di aver viaggiato e soggiornato in zone del Bergamasco. Immediatamente è stata avviata l' indagine epidemiologica per la verifica dei contatti stretti che sono stati posti in sorveglianza sanitaria. I test sono stati inviati all' Istituto Superiore di Sanità per la convalida. Sono stati prontamente avvisati anche il sindaco e il prefetto». Vale la pena ripeterlo: non è un focolaio locale. Stesso discorso per i due positivi rilevati in Umbria: un 31enne di un piccolo comune in provincia di Terni che a Roma aveva pranzato durante un corso di formazione con un collega di Castiglione d' Adda (Lodi), l' altro è un uomo di Foligno che era stato in Emilia. Per tutta la giornata era stato uno dei tanti «casi sospetti» su cui, da giorni, stanno lavorando allo Spallanzani. Ora dopo ora, però, l' attenzione è aumentata, perché si è saputo che il primo test aveva dato un esito positivo al coronavirus. Di per sé questo responso iniziale non vale nulla, senza la conferma del secondo esame dello Spallanzani, ma intanto le procedure per mettere in sicurezza le persone che avevano avuto dei contatti si erano attivate. Va precisato che la donna non ha legami con l' aeroporto internazionale, ma che nei giorni scorsi ha viaggiato in provincia di Bergamo. Non stava bene, lei stessa ha chiamato il numero per questo tipo di segnalazioni voluto dalla Regione Lazio. E' stata prelevata direttamente a casa ed è stata sottoposta al primo test, uno fra i tanti della quarantena in attesa di giudizio all' Istituto Spallanzani. Il primo responso ha convinto gli esperti della Regione Lazio, a partire dal pool di medici-detective che gestiscono le indagini per le malattie infettive, a iniziare una prima investigazione per ricostruire i movimenti della paziente. Nel frattempo, proseguiva il lavoro senza sosta del laboratorio dello Spallanzani, aperto 24 ore su 24, per verificare che il primo responso non fosse un finto positivo. Allertato anche il comune di Fiumicino. In realtà, Roma e il Lazio avevano già individuato due contagiati ed avevano saputo isolare persone che avevano avuto contatti diretti con chi era stato infettato: i due turisti arrivati da Wuhan, recuperati dall' ambulanza con le dotazioni per il bio-contenimento in un hotel di via Cavour, il 29 gennaio, però erano stati contagiati in Cina. Hanno 66 e 65 anni, dopo avere rischiato di morire ed essere stati trasportati in rianimazione, sono guariti e oggi sono entrambi negativi al coronavirus. Chi li aveva incrociati, a partire da alcuni dipendenti degli hotel, era stato messo in isolamento e per fortuna nessuno è risultato positivo. Da allora, allo Spallanzani è passato solo un altro caso - un 29enne della provincia di Reggio Emilia rimpatriato da Wuhan e già dimesso perché guarito - ma anche questa volta il contagio non era avvenuto in Italia. Tutto cambia con l' ultimo caso di ieri, perché è necessario circoscrivere nell' immediato una possibile diffusione della Sars-Cov-2.

CAMPANIA.

Da "Ansa" il 27 dicembre 2020. Al governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca è stato somministrato stamattina il vaccino anticovid. De Luca ha seguito l'avvio delle vaccinazioni nella tenda allestita all'esterno dell'Ospedale Cotugno di Napoli e poi è andato in riunione con il direttore generale Maurizio Di Mauro. Al termine dell'incontro, De Luca si è sottoposto al vaccino nella direzione dell'ospedale napoletano, come si apprende da fonti della Regione Campania. "Trovo davvero inqualificabile e indegno l'abuso di potere del Presidente De Luca che approfitta del suo ruolo istituzionale per vaccinarsi quando il vaccino, nelle prime settimane, deve essere destinato esclusivamente, considerate le pochissime quantità disponibili, a medici, infermieri, operatori sanitari ed anziani. La salute del Presidente De Luca viene purtroppo prima del popolo campano. Si dovrebbe vergognare e chiedere scusa". Lo dice il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. De Luca: "Distribuzione vax sia seria, non da mercato nero" - "Questa è una giornata simbolica, ma quando inizia la vaccinazione di massa dei cittadini ci vogliono criteri seri, rapportati alla popolazione, ogni altro criterio sarebbe da mercato nero". Lo ha detto il governatore Vincenzo De Luca, nei giorni scorsi critico sul numero di dosi assegnate in prima battuta alla Campania. "Quando comincia a metà gennaio la vaccinazione per tutti - ha detto in occasione del vax day - pretenderemo la distribuzione del vaccino alle Regioni proporzionale alla popolazione residente, niente di più o niente meno". "Viviamoci questa giornata dimostrativa, che forse è stata anche troppo sovraccaricata dal punto di vista mediatico, sembrava lo sbarco in Normandia invece che l'arrivo di borse del vaccino, ma si capisce che si voleva dare un segnale di speranza", ha detto ancora il governatore della Campania. "Sento - ha evidenziato a proposito della scuola - che si parla della riapertura dell'anno scolastico il 7 gennaio, queste sono cose che mi fanno impazzire. Come si fa a dire 'si apre' senza verificare il 3, il 4 gennaio la situazione? In Campania non apriamo tutto il 7". "Si devono valutare i dati - ha detto - e l'idea di mandare a scuola il 50% degli studenti è un'idea che la Campania non condivide, valutiamo un passo alla volta il rientro, ma certamente non mandiamo in blocco il 50% a scuola".

La polemica nel Vax-Day. De Luca vaccinato, altro che privilegio: l’imboscata di buonsenso del governatore. Vito Califano su il Riformista il 27 Dicembre 2020. Altro, nuovo, eclatante colpo di teatro del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Il giorno del Vaccine-Day, della partenza della campagna a livello europeo, dell’arrivo in pompa magna, scortate, monitorate e accompagnate da militari e telecamere delle scatole con le dosi del vaccino Pfizer-BioNTech in tutta Italia, il governatore “sceriffo” si è presentato all’ospedale Cotugno di Napoli, avamposto contro la pandemia, e si è fatto iniettare il farmaco. Non c’era mica nelle grafiche e nelle info-grafiche dei giornali, il governatore, tra i primi a ricevere l’inoculazione. Avrebbe dovuto aspettare il suo turno: le prime 9.750 dosi del farmaco toccavano a operatori sanitari, personale e ospiti delle Rsa. Apriti cielo. L’imboscata di De Luca ha dato stura allo sfogo del sindaco Luigi de Magistris (“Indegno abuso di potere”), di Matteo Salvini (“Salta la fila e toglie il vaccino a chi ne ha bisogno”), di Giorgia Meloni (“Immediata chiarezza”), del Movimento 5 Stelle (“Inaccettabile”), di Nicola Fratoianni (“Arroganza inaccettabile”), e chissà di quanti altri. Avranno chi più chi meno preso poco e niente in considerazione un sondaggio SWG: il 34% degli italiani è contrario al vaccino, più di uno su tre. Chi non si sofferma (e come dargli torto) sui commenti sui social a post e notizie sul vaccino, non avrà letto sparate del tipo: “Lo prenda per primo Conte”, “Cominci Speranza”, “Lo facciano prima i politici”, e via dicendo. L’iniezione che serve a un Paese per anni sobillato e allevato a dosi di scie chimiche e rettiliani è di fiducia, e in questo caso non è un modo di dire. De Luca da mesi continua a rivendicare un miracolo campano da 186.131 contagiati e 2.686 morti. Durante l’emergenza ha giocato a fare lo showman nelle consuete dirette del venerdì, ha collezionato sparate memorabili e grottesche, ha costretto a sorbirsi i vari lanciafiamme, i fratacchione, i cinghialoni, ha usato tratti truculenti per descrivere la situazione scadendo spesso nell’allarmismo, ha minacciato un nuovo lockdown totale scatenando una guerriglia di strada per poi fare marcia indietro, ha spinto il dibattito su toni via via più aggressivi contro gli oppositori, ha negato la Zona Gialla prima di Natale con un’ordinanza intorno alle 15:00 del giorno precedente al passaggio causando nuove proteste di piazza da parte dei ristoratori che hanno bloccato le strade. E ha paragonato, sarcastico e non proprio coerente, la campagna mediatica sul vaccino in arrivo allo sbarco in Normandia. De Luca, comunque, stamattina se n’è andato al Cotugno. Il carico di 720 dosi era arrivato intorno alle 8:00 all’Ospedale del Mare. “Mi sono vaccinato – ha scritto su Facebook – Dobbiamo farlo tutti nelle prossime settimane. È importante per vincere la battaglia contro il covid-19 e tornare alla vita normale. Senza abbassare la guardia e rispettando le norme”. Ha postato una foto. Apriti cielo, dicevamo. Pur esprimendo solidarietà all’operatore X (probabilmente all’oscuro) che avrà dovuto cedere il suo posto al governatore, si comunica che secondo un sondaggio fresco fresco di Le Journal du Dimanche il 56% dei francesi non vuole farsi inoculare il farmaco, si ricorda che il generale Antonio Pappalardo è tornato oggi a esporre teorie a dir poco complottiste sul vaccino, si riporta la notizia di Repubblica secondo la quale nelle Rsa ci sono tanti operatori obiettori. E soprattutto si sottolinea che il vaccino non sarà obbligatorio. E anche giustamente. Questa è la situazione. “De Luca si è vaccinato? Ha fatto benissimo, ogni polemica è pretestuosa – ha detto tra i pochi non indignati Vittorio Sgarbi ad Adn-Kronos – Le persone che hanno responsabilità pubblica non possono permettersi di ammalarsi e quindi non parliamo di privilegio. Mi sembra logico che dal presidente della Repubblica ai ministri, dai parlamentari a tutti coloro che hanno una rappresentanza abbiano una linea più veloce per vaccinarsi, che poi non è solo per la propria persona, ma proprio per un senso di responsabilità visto che non possono stare 20 giorni, per dire, malati”. E l’impressione è proprio quella: se a vaccinarsi fosse stato per primo il premier Conte o il Capo dello Stato Mattarella si sarebbe parlato di privilegio. Sgarbi la mette su un piano esecutivo. Il primo italiano a ricevere il vaccino è stata Claudia Alivernini, infermiera, 29enne, dell’Ospedale Spallanzani di Roma. Una scelta simbolica, ricaduta sulla prima linea del contrasto alla pandemia, sulla stessa falsariga di quelle adottate in Canada e Stati Uniti. E quando è arrivato il turno di Joe Biden, prossimo Presidente USA, non è volata neanche una mosca. La scelta di De Luca se formalmente non è corretta, simbolicamente non è niente di scandaloso. Anzi.

Vincenzo De Luca ha fatto bene a vaccinarsi, perché Conte e Speranza non l’hanno fatto? Deborah Bergamini su Il Riformista il 29 Dicembre 2020. Lo hanno attaccato, sbertucciato, accusato di aver compiuto un abuso, una sorta di favoritismo ad uso proprio. Ma De Luca ha fatto bene a vaccinarsi contro il Covid e a farlo in modo pubblico. E la ragione è chiara: ha voluto dare l’esempio. Ha fatto quello che il ministro Speranza e il premier Conte avrebbero già dovuto fare e non hanno fatto, forse timorosi proprio di ciò che è accaduto a De Luca. Il quale ha fatto esattamente ciò che il Presidente eletto americano, Joe Biden, e il Presidente israeliano, Benjamin Netanyahu, espressioni di due grandi democrazie, hanno fatto: utilizzare, anche simbolicamente, la propria immagine ed il proprio ruolo per mostrare ai propri concittadini che sì, ci si può vaccinare in assoluta sicurezza. E c’è anche una piccola curiosità, rispetto alla scelta fatta da questi due leader politici: Netanyahu si è ironicamente rifiutato di farsi iniettare il vaccino sul braccio sinistro, facendosi pungere a destra; a Biden, invece, il vaccino è stato inoculato a sinistra, non sappiamo se per caso o per scelta. Non so in quale Italia vivano coloro che hanno criticato il Presidente della Regione Campania, ma l’Italia in cui vive De Luca è probabilmente quella che tutte le persone con i piedi per terra vedono attorno a sé. È un’Italia in cui c’è tanta gente che ha ancora dubbi sul vaccino. E questi dubbi vanno rispettati e tenuti da conto, non demonizzati. È un’Italia in cui c’è gente che nonostante l’immane tragedia che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo, non crede necessariamente alla scienza ed ai suoi moderni sviluppi, anzi la identifica con una corsa matta al profitto a scapito della sicurezza sanitaria, e quindi non vuole vaccinarsi perché ha paura. E in effetti, dobbiamo dirlo, non è che dallo scoppio della pandemia la scienza – o meglio gli scienziati o esperti che hanno inondato trasmissioni tv, radio e giornali – abbia offerto al pubblico la parte migliore di sé. Forse la parte migliore era ed è rimasta chiusa nei laboratori ad alta tecnologia in cerca della cura contro il Covid. Sui vaccini anti-Covid, come su qualunque altra cosa che attenga alla realtà umana, girano le informazioni più disparate e incredibili, ma ormai il credibile e l’incredibile hanno pari dignità e trattamento nel mare magno del sentito dire digitale. E così è perfettamente normale che ci siano persone a cui basta sentire di un piccolo effetto collaterale manifestatosi su un vaccinato in qualche sperduto angolo del mondo, per essere portate a mettere in dubbio gli effetti positivi che questi farmaci potranno avere sulla popolazione. Nonostante i quasi 81 milioni di casi e il milione e 760mila decessi, c’è chi ritiene che i vaccini prodotti non siano sicuri. E questo “chi” non va liquidato con l’etichetta di “negazionista”, ma capito e convinto che il vaccino è totalmente affidabile anche se realizzato a tempi di record e che non provoca scompensi, allergie o addirittura patologie gravi. È una responsabilità della politica, non solo della scienza, quella di informare e rassicurare una popolazione che convive ormai con la minaccia quotidiana alla propria salute. Se non lo fa, si assume il costo sociale (e sanitario) di questa mancanza. Ecco perché il gesto simbolico di De Luca, se lo sottraiamo alla nostra ormai connaturata abitudine di giudicare l’altro secondo criteri bassi che più bassi non si può, ha un valore positivo e molto politico. Se c’è una cosa che dovremmo aver imparato da questa pandemia è che siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri, interdipendenti, e che questo inevitabilmente – e tristemente – limita le nostre libertà e anche il nostro ricorso alla stupidità o alla superficialità. De Luca, che nella sua veste istituzionale non rappresenta se stesso, ma un’intera comunità sociale, ha dato il buon esempio vaccinandosi. In guerra, e questa è una guerra, i generali guidano l’esercito stando in testa e non nascondendosi in coda per timore delle critiche o delle stupidità altrui. Adesso anche Conte e i suoi ministri dovrebbero muoversi sulla stessa falsariga.

La campagna anti-covid. Tutti i De Luca d’Europa: i politici che si sono vaccinati nel V-Day. Redazione su Il Riformista il 28 Dicembre 2020. È stata un’imboscata quella del Presidente della Regione Campania. Non si è lasciato sfuggire il Vaccine-Day il governatore Vincenzo De Luca. Si è presentato all’Ospedale Cotugno di Napoli, centro specializzato in malattie infettive e avamposto contro la pandemia, e si è fatto inoculare il farmaco Pfizer-BioNTech. Un coup de theatre imprevisto: il primo giorno, un appuntamento simbolico, il Vax-Day del 27 dicembre, doveva essere dedicato soltanto a operatori sanitari e ospiti delle Rsa. Il gesto di De Luca ha scatenato polemiche ancora in piena. Il governatore, che non era previsto nelle grafiche dei giornali, non è stato però l’unico politico a farsi somministrare il vaccino il primo giorno utile. A “saltare la fila”, come hanno scritto quasi tutti, sono stati anche dei leader europei. Il Premier della Repubblica Ceca Andrej Babis, per esempio. Anche conosciuto come “Babisconi”, imprenditore sceso in politica, si è fatto inoculare il farmaco a Praga. È stato tra i primissimi nel Paese. Stessa scelta da parte da parte della presidente della Slovacchia Zuzana Caputova. “Nei momenti più difficili, è la ricerca scientifica che porta buone notizie”, ha scritto in un post su Twitter. Un gesto che ha voluto dare il buon esempio, come ha spiegato, vista anche l’ancora alta soglia di No-Vax o diffidenti. De Luca, più che come un esempio, è stato invece percepito come un usurpatore, nel primo giorno delle vaccinazioni riservate a operatori e anziani. Proprio per non apparire tale, il presidente della Romania Klaus Iohannis ha fatto marcia indietro sulla sua iniziale decisione di sottomettersi al vaccino. Il premier della Grecia Kyriakos Mitsotakis è stato invece tra i primi a ricevere il farmaco proprio come il ministro della Salute della Bulgaria Kostadin Angelov. In Europa, proprio nel giorno del V-Day, non sono mancate polemiche per i numeri delle dosi ottenute dai Paesi: la Germania ha ottenuto 151.125 flaconi: 9.750 per ciascuno dei suoi 16 Land, eccetto il più piccolo (Brema). Lo stesso numero, 9.750 è quello delle dosi consegnate a molti Stati europei, Italia compresa. In Francia sono arrivate invece 19.500 dosi. La Presidene della Commissione Ursula Von der Leyen aveva definito il V-Day come “un toccante momento di unità” che quindi non è stato esule da critiche. Prossimamente, come anticipato ieri dal Cremlino, anche il Presidente russo Vladimir Putin riceverà il vaccino Sputnik V anti-covid. Lo ha fatto sapere il portavoce Dmitry Peskov. Mosca ha avviato il suo piano di vaccinazione volontaria all’inizio di dicembre. Anche in Russia si è partiti dalla popolazione più vulnerabile. Da oggi potranno vaccinarsi i cittadini over 60, dopo la conclusione di una sperimentazione specifica sugli anziani. La Russia è stato il primo Paese al mondo a presentare un vaccino. Lo scorso agosto Putin aveva detto che una delle figlie aveva partecipato alla sperimentazione e che le sue condizioni era buone dopo l’inoculazione. Oltreoceano anche il prossimo Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è sottomesso alla vaccinazione in diretta tv – anche se non nei primi giorni. Biden ha invitato tutti gli americani a farlo. Oltre al farmaco Pfizer-BioNTech, la Food And Drug Administration ha dato il via libera anche al farmaco Moderna. AstraZeneca, che ha collaborato a un vaccino con l’Università di Oxford, ha fatto sapere ieri che il suo farmaco, dopo studi supplementari, ha un’efficacia del 95%, del 100% sui sintomi più gravi.

Tutti gli uomini del presidente. Report Rai PUNTATA DEL 21/12/2020 di Danilo Procaccianti, collaborazione di Edoardo Garibaldi e Roberto Persia.  Il presidente De Luca ha condotto la sua campagna elettorale puntando tutto sui suoi presunti successi nella gestione della prima ondata della pandemia. Presunti, sì, perché l’indagine siero-epidemiologica condotta dall’Istat ha dimostrato che tutto il centro sud è stato graziato dal virus per via dei provvedimenti di lockdown. Poi è arrivata la seconda ondata e gli ospedali campani si sono trovati completamente impreparati. Addirittura il San Giovanni Bosco, un ospedale di Napoli che doveva essere completamente dedicato a Covid-19, è stato chiuso per lavori fino al 5 novembre.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora passiamo ad un governatore, che per togliersi qualche sassolino dalle scarpe, il sassolino sarei io, ha scomodato addirittura la saga dei Nibelunghi.

CLIP CHE TEMPO CHE FA VINCENZO DE LUCA- PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA Ho visto che è venuto da lei, qualche minuto fa, un suo collega dal nome nibelungico, diciamo. C’è uno dei sui collaboratori, che ha detto qualche mese fa, che l’Asl Napoli 1 era stata commissariata per infiltrazione camorristica, era un falso clamoroso.

FABIO FAZIO Ah Sigfrido.

VINCENZO DE LUCA - PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA Volevo domandare a quel signore se quel giornalista è stato licenziato o meno.

TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE di Danilo Procaccianti Collaborazione di Edoardo Garibaldi e Roberto Persia Immagini di Cristiano Forti Montaggio e grafica di Monica Cesarani.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sempre muscolare il governatore, però vorremmo sapere se il metro che invoca è lo stesso che usa con i suoi collaboratori, che ogni tanto lo mettono nei guai. Perché se così fosse, molto probabilmente, come vedremo stasera rimarrebbe da solo. Tuttavia sul mancato scioglimento della Asl Napoli 1 per infiltrazione mafiosa aveva ragione lui. Noi ci siamo corretti immediatamente e abbiamo anche chiesto scusa. Però in questi giorni è arrivato il pronunciamento della ministra dell’Interno, Lamorgese, la quale ha detto che non va sciolta la Asl Napoli 1 perché la magistratura aveva già fatto pulizia e allo stato attuale “mancano elementi concreti su collegamenti diretti e indiretti con la mafia, con la criminalità organizzata”. Tuttavia, non è che va tutto bene perché gli ispettori hanno rilevato delle irregolarità dal punto adi vista amministrativo nella gestione dei servizi erogati dall’azienda sanitaria, in particolare dall’ ospedale San Giovanni Bosco. Hanno informato il prefetto, che a sua volta deve informare il Governatore De Luca perché venga ripristinata la legalità amministrativa. Il governatore ha passato l’estate a dire: guardate quanto siamo stati bravi e ha raccolto il consenso dei suoi elettori. Ma una indagine siero/epidemiologica ha dimostrato che il virus nella prima ondata della pandemia al sud non c’è proprio stato. Quando ha bussato, in autunno, al centro-sud tutti i governatori si sono dimostrati nudi, compreso il muscolare sistema di De Luca. Il quale nelle more estive aveva anche istituito i covid center, ma dietro il nome inglese, che evoca anche un certo efficientismo sono spuntate le criticità croniche del sistema sanitario campano. Al di là dei monologhi Facebook del governatore, non c’è stato un provvedimento che l’ha reso diverso dagli altri governatori, da quelli delle altre regioni, tranne uno che ha impedito sistematicamente ai giornalisti di porre domande e ha impedito a infermieri e medici di parlare. Lo hanno fatto in maniera anonima. Lui li definisce “gli uomini mascherati”, però nessuno si è posto se quello che dicevano questi uomini mascherati fosse falso o vero. Il nostro Danilo Procaccianti.

 RAPPRESENTANTE CONFEDERAZIONE ITALIANA AGRICOLTORI CAMPANIA Ogni cosa che succedeva la Campania era vista come una regione.. la pecora nera dell'Italia. Oggi con il Covid quando ci muoviamo ogni volta che andiamo a Roma andiamo a Firenze. Madonna mia che grande lavoro che avete fatto in Campania, siamo diventati i primi, grazie a chi? Grazie al nostro presidente…

VINCENZO DE LUCA - PRESIDENTE REGIONE CAMPANIA (14/9/2020) Oggi se andate a Roma, a Milano, a Bologna, a Venezia non ci sono più persone che fanno i sorrisini. Quando si parla della Campania si alzano in piedi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Grazie a questo tipo di comunicazione, Vincenzo De luca, è stato rieletto presidente della Regione Campania con un consenso bulgaro. Tra i simboli della narrazione del presidente De Luca ci sono senza dubbio le strutture modulari, pensate per aumentare i posti letto in terapia intensiva. Partiti da Padova la mattina del 6 aprile scorso, sono arrivati nella serata a Napoli tra gli applausi... L’apice del consenso per il governatore. Strutture disposte nell’area parcheggio dell’ospedale del mare di Napoli, ma anche a Salerno e Caserta… Ma dopo qualche mese da quello che vediamo almeno uno dei prefabbricati di Napoli era completamente abbandonato e chiuso. Lo si intuisce dai monitor e dai ventilatori accatastati nelle varie stanze. Quelli di Caserta e Salerno, invece, fino a settembre inoltrato erano chiusi perché senza collaudo.

DANILO PROCACCIANTI Non ha più detto niente sui Covid hospital chiusi, a Salerno e Caserta. SCONOSCIUTO Levati, un attimo solo.

DANILO PROCACCIANTI Ci dice qualcosa? Perché sono chiusi senza collaudo?

SCONOSCIUTO Un attimo solo quando facciamo, poi potete fare tutto quello che volete.

DANILO PROCACCIANTI Presidente sono stati spesi comunque dei milioni di euro insomma se ci dice perché sono ancora chiusi… Presidente… Presidente ci dà qualche risposta sugli ospedali chiusi?

SCONOSCIUTO Un attimo solo, un attimo solo.

ANTONIO MUSELLA - GIORNALISTA FANPAGE Questi Covid center sono stati anche protagonisti di situazioni tragicomiche, no. Vengono acquistati i ventilatori polmonari, che sono indispensabili per la terapia intensiva. I ventilatori non hanno passato il collaudo perché il programma il software che gira sui ventilatori è solo in tedesco. Medici e infermieri o conoscono il tedesco o non si può far funzionare.

VOCE DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con reparti di terapia intensiva abbandonati e ventilatori non utilizzabili da medici che non conoscevano la lingua tedesca, il virus nella seconda ondata pandemica ha infilato il dito nelle piaghe croniche della sanità campana.

VIDEO FACEBOOK - 11/11/2020 Questo è deceduto, questo è l’ospedale Cardarelli.

VOCE DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ospedale Cardarelli di Napoli 11 novembre un uomo di 84 anni viene trovato morto nei bagni del pronto soccorso.

AUDIO INFERMIERE (CAMUFFARE VOCE) Sì è possibile. E’ possibile che una persona muore in bagno e nessuno se ne accorge perché il personale è pochissimo. Ormai siamo completamente fuori controllo. La situazione già è diventata critica e già siamo nella merda più totale.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In sole tre settimane tra ottobre e novembre gli ospedali napoletani sono stati travolti. La Campania per numero di contagi è seconda solo alla Lombardia.

PIERINO DI SILVERIO- VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANAAO ASSOMED Perché non si è provveduto a fare dei concorsi sacrosanti. C'è una legge ad hoc che ti permette di assumere con tutti i diritti e le tutele specializzandi degli ultimi due anni. Sa quanti ce ne sono oggi in Campania specializzandi? Ce ne sono più di 300 degli ultimi due anni più di 300 solo negli ultimi giorni si sono specializzati 42 anestesisti 20 pneumologi. Potrei andare avanti.

VOCE DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Per incrementare il personale sanitario in Campania si è chiesto aiuto alla Protezione civile. È vero che hanno risposto in pochi, ma anche chi aveva accettato poi è scappato via, per le condizioni che ha trovato negli ospedali campani.

DANILO PROCACCIANTI Mancavano pure i farmaci.

GAIA COSTANTINO, INFERMIERA Mancavano i farmaci…anche attrezzatura per poter intubare o ventilare in emergenza un paziente. I turni iniziavano alle 8, io ero arrivata alle sette e mezza, e ho aspettato fino alle otto perché mi mancava la roba per vestirmi. La prima cosa che faccio entro in stanze di questa paziente perché era una paziente che avevo assistito il giorno prima e l'ho trovata morta. So che hanno fatto un turno di notte allucinante probabilmente questa signora si è ritrovata magari agitata non so si è tolta l'ossigeno.

DANILO PROCACCIANTI E nessuno se n'è accorto.

GAIA COSTANTINO, INFERMIERA E nessuno se n'è accorto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L'ospedale San Paolo secondo i piani iniziali, non doveva ricevere pazienti Covid, anche perché privo di percorsi differenziati per i pazienti colpiti dal virus. Ma l’emergenza ha fatto saltare i programmi, tanto che la responsabile della Medicina d'urgenza l'11 novembre ha minacciato le dimissioni per ‘impossibilità di accogliere i pazienti in sicurezza.

CARMINE FERRUZZI, INFERMIERE OSPEDALE SAN PAOLO NAPOLI Abbiamo dei percorsi quasi inesistenti. Io ieri lavoravo in terapia intensiva, non abbiamo una barella di contenimento.

DANILO PROCACCIANTI Cioè vi manca la barella di biocontenimento.

CARMINE FERRUZZI- INFERMIERE OSPEDALE SAN PAOLO NAPOLI Bravo, siamo usciti, sono dal reparto seguiti da un operatore con uno spruzzino che butta un po’ di disinfettante. Questa sarebbe la…

DANILO PROCACCIANTI Lo spruzzino quello per togliere la polvere.

CARMINE FERRUZZI, INFERMIERE OSPEDALE SAN PAOLO NAPOLI Di casa, lo spruzzino quello che butta un po’ di detergente, di amuchina.

VOCE DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Se l’ospedale San Paolo non doveva ricevere pazienti Covid, quello che secondo i piani doveva essere totalmente dedicato al Covid, il San Giovanni Bosco, fino alla prima settimana di novembre è ancora chiuso per via dei lavori in corso, che si sarebbero potuti fare nei mesi estivi. Invece si è aspettato l'autunno, il risultato è che sono stati sottratti decine e decine di posti letto preziosi. E all'ospedale Cotugno i pazienti vengono visitati addirittura in auto. Dentro è tutto esaurito e gli operatori delle ambulanze costretti a ore e ore di attesa con i malati a bordo.

SOCCORRITORE 118 NAPOLI (ANONIMO) Stiamo parlando anche di 12-24 ore. Alcuni colleghi, che non mi vergogno a dire, che mi è capitato anche a me, ci siamo fatti la pipì addosso.

DANILO PROCACCIANTI Chissà quanti ne sono morti invece a casa in attesa di un'ambulanza.

SOCCORRITORE 118 NAPOLI (ANONIMO) Anche questo sì, possono morire a casa. Perché l'ambulanza di tizio è stata bloccata 12 ore.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L'ospedale del Mare di Napoli che doveva essere il fiore all'occhiello per la gestione dei pazienti Covid aveva il pronto soccorso che si presentava così: barelle ovunque, semplici tendine per separare pazienti Covid e non Covid e pochissimo personale.

INFERMIERE 1-OSPEDALE DEL MARE IN ANONIMATO C’è un solo medico che copre di notte, a volte capita anche nei turni diurni, l'area sospetti covid del pronto soccorso e il reparto di fianco la medicina d'urgenza.

EZIO ROMANO Non ce la faccio più mi stanno facendo morire mi hanno tolto da dove stavo e mi hanno portato in uno sgabuzzino. E lui…papà è morto di paura.

DANILO PROCACCIANTI In queste telefonate dice anche delle cose gravi.

EZIO ROMANO Papà dice che non aveva più l'ossigeno, che gli avevano tolto l'ossigeno e l'avevano portato in questa stanza senza più ossigeno.

DANILO PROCACCIANTI Certo la sensazione è quella di che si comincia a scegliere chi deve vivere chi deve morire.

EZIO ROMANO Hanno scelto che mio padre, e non so quante persone come mio padre, a 84 anni bisogna morire a 84 anni e non ti può dare più niente. A 84 anni non si serve più, ma questo è quello che pensano gli altri a noi mio padre serviva a noi mio padre manca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Procura di Napoli ha disposto la riesumazione di alcuni pazienti morti con il Covid all'ospedale Cardarelli. Quello dell’ottantaquattrenne trovato in bagno morto senza che nessuno se ne accorgesse, non sarebbe l’unico caso. A riprova ci sono numerose denunce, arrivate sui tavoli dei magistrati, di familiari che denunciano proprio questo: la scomparsa di cari in totale assenza di cure. Nelle more dell’estate avrebbero potuto assumere più medici, più infermieri, comprare più caschi per l’ossigeno, magari con i manuali di istruzione in italiano, e invece hanno preferito una narrazione dei dati edulcorata. Quando invece c’è una sparizione di pazienti deceduti dai server e posti letto che vengono aumentati in base all’aggettivo che gli metti vicino. Questi numeri poi non puoi neanche smentirli perché chi li custodisce sono gli angeli che sono stati messi lì apposta da De Luca. Sono bastate invece poche ore agli ispettori, inviati dal ministro della salute Speranza, passate negli ospedali più impostanti della Campania, per rendersi conto di quale fosse la situazione. Hanno stilato una relazione e il ministro Speranza ha decretato che la Campania doveva diventare zona rossa. Questo ha provocato l’ira di De Luca, che ha detto: guardate che anche le altre regioni falsificano i dati, non danno dati reali. Poi che cosa è successo? Che proprio un membro dell’unità di crisi della Campania ha candidamente svelato, al nostro Danilo Procaccianti, “guardate che i posti letto covid sono ipotetici”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La Campania fino al 15 novembre è rimasta zona gialla a rischio moderato. Questo perché probabilmente i dati inviati al ministero, a cominciare dall’indice di trasmissione del virus, l’ormai famoso RT, non fornivano una rappresentazione reale di quello che avveniva sul territorio.

NINO CARTABELLOTTA - PRESIDENTE FONDAZIONE GIMBE Tutti i dati vengono dalle aziende sanitarie che poi li trasmettono alle regioni che poi le trasmettono a livello centrale. Per calcolare l’Rt serve la data inizio sintomi da inizio sintomi alla diagnosi e in Campania questo dato viene riportato per una percentuale non elevatissima dei pazienti determinando artificiosamente un abbassamento del valore Rt.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A certificare la data di inizio sintomi ma anche a dichiarare guarito un paziente dovrebbero essere i medici di famiglia che dovrebbero essere confortati dai risultati del tampone. Ma a causa dell’incomunicabilità tra le diverse piattaforme regionali, si perdono le tracce dei pazienti.

ANTONIO AMBROSANIO - MEDICO DI FAMIGLIA Metto i dati e segnalo la possibilità o di un sospetto contagio o di un contatto stretto con il paziente. Mi chiede se ha fatto il tampone in altra struttura? Se lo ha fatto metto sì. Se non ha fatto il tampone, io aspetto che qualcuno glielo vada a fare e spesso e volentieri dopo due, tre giorni io questo paziente non l'ho più trovato. Mi dice addirittura codice fiscale già esistente, ma io non lo trovo. VIDEO DE LUCA 20/11/2020 La Campania è stata, è e rimarrà su una linea di assoluta trasparenza per i dati e per le cose di cui parliamo. La Campania è una casa di vetro… La Campania!

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Una casa più che con i vetri, con gli specchi, in grado di dare l’illusione di avere più posti letto di quelli reali. E non è un dato di poco conto perché è anche su questo che il governo decide quale colore darti. Il bollettino regionale il 10 ottobre riportava 110 posti di terapia intensiva e 820 di degenza. Il 22 ottobre diventano 227 di terapia intensiva e 1.114 di degenza. Poi cambiano una parolina, e per magia il giorno dopo i posti letto lievitano. Non si parla di più di posti complessivi, ma di attivati e quelli di degenza diventano 1.500, 400 posti in più dal giorno alla notte. E il 26 ottobre non sono più attivati ma attivabili. Il 5 novembre un altro colpo di scena. Si passa da attivabili a disponibili e i posti diventano 590 in terapia intensiva e ben 3160 di degenza.

PIETRO DI CICCO - PRIMARIO MEDICINA D’URGENZA OSP. CASTELLAMMARE DI STABIA (TELEFONATA) Non capisco dove qualcuno affermi che ci sono posti liberi in Campania, me lo dica perché io… probabilmente sono incapace io ma non riesco a trovarli da venti giorni i posti liberi. Mandiamo tre volte al giorno il flusso richiedendo posti letto… Però negli ultimi giorni nessun posto letto da nessuna parte in Campania.

PIERINO DI SILVERIO- VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANAAO ASSOMED Se io vedo il bollettino regionale mi rendo conto che la situazione, dal bollettino, non è così grave. Poi, però, quando viviamo quotidianamente il nostro lavoro e ascoltiamo con le nostre orecchie che non è possibile trasferire un paziente Covid perché non c'è un posto in Regione, ci chiediamo: ma i 590 posti attivabili della terapia intensiva dove sono? I 3180 posti di lungodegenza dove sono?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La notizia incredibile che la Regione avrebbe mentito sui posti letto ci arriva da una fonte interna all’unità di crisi. Il responsabile del 118 ci conferma che quei posti che la regione riporta come disponibili in realtà sarebbero solo ipotetici.

GIUSEPPE GALANO - RESPONSABILE 118 REGIONE CAMPANIA (AL TELEFONO) Devono essere riconvertiti.

DANILO PROCACCIANTI Quindi diciamo per parlare di Covid non ci sono cioè…

GIUSEPPE GALANO - RESPONSABILE 118 REGIONE CAMPANIA (AL TELEFONO) No.

DANILO PROCACCIANTI Quando vediamo le file delle ambulanze perché quei posti non ci sono.

GIUSEPPE GALANO - RESPONSABILE 118 REGIONE CAMPANIA (AL TELEFONO) Assolutamente, è così è. Ossia sono posti che la Regione porta come utili, però non sono posti disponibili in questo momento Covid.

DANILO PROCACCIANTI Però vengono dati in relazione al Covid, cioè è questo che mi sfugge.

GIUSEPPE GALANO - RESPONSABILE 118 REGIONE CAMPANIA (AL TELEFONO) E questo però non lo deve chiedere a me purtroppo.

DANILO PROCACCIANTI Ma lei è il capo della task force non ci può dire qualcosa su questi posti letto. Insomma se ci sono, se non ci sono.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA La prego.

DANILO PROCACCIANTI No, no, ma la prego io... Non ci date risposte.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA Deve aspettare. L'unico modo è aspettare.

DANILO PROCACCIANTI Ma non mi può dire questa cosa dei posti letto perché voi nel bollettino ci sono poi le ambulanze stanno fuori.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA La prego, potete evitare di molestare in questo modo?

DANILO PROCACCIANTI Non la sto molestando, sto facendo delle domande.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA Sono le due. Dovrei mangiare qualcosa che tra poco comincia una riunione. Se me lo consente.

DANILO PROCACCIANTI Sì, io la faccio mangiare, ma lei ci dia delle risposte.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA Perché voi non potete prendere uno che cammina.

DANILO PROCACCIANTI Lei non è uno che cammina, lei è il capo dell'unità di crisi se nessuno ci dà una risposta.

ITALO GIULIVO - COOORDINATORE UNITA’ DI CRISI REGIONE CAMPANIA Fate una richiesta. Puoi evitare di fare riprese posso prendere un pasticcino o devo essere molestato in questo modo?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un pasticcino non lo neghiamo a nessuno, però loro le interviste sì. Noi abbiamo chiesto spiegazioni sulla lotteria dei posti letto dedicati al covid, ma non ci hanno dato risposta. Secondo i bollettini regionali ce ne sarebbero 3000 di posti letto disponibili, ma quando poi vai a parlare con i primari ti dicono, ma noi abbiamo difficoltà a trovarne, insomma qualcosa non torna. Candidamente il velo poi lo ha tolto uno dei responsabili, il responsabile del 118 e delle emergenze della Regione Campania, il dott. Giuseppe Galano, che ci conferma che i posti letto covid sono ipotetici. Anche sul numero dei deceduti per virus c’è qualcosa che non torna. Secondo i dati, aggiornati dalla Regione Campania al 1 dicembre, sono 1764, per l’ Istituto superiore della Sanità sono invece 2.154, quasi 400 in più, perché? Sarebbe importante saperlo, perché proprio sulla partita dei numeri, che si decide il futuro di una regione. Per la Campania chi le decide è il dott. Enrico Coscioni: consulente del Governatore De Luca, e anche cardiochirurgo al Ruggi, primario part-time, ma è anche capo dell’Agenas. Una agenzia nazionale il cui compito è quello di sorvegliare, monitorare e vigilare sui dati del sistema sanitario nazionale. Insomma, Coscioni vigila attraverso Agenas su Coscioni operatore e consulente.

DANILO PROCACCIANTI Io volevo fare solo una domanda veloce se non c'è un conflitto di interessi visti i suoi tanti incarichi.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Nessun incarico io sono soltanto un consulente, non ho nessun ruolo operativo.

DANILO PROCACCIANTI Però è consulente della sanità.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Faccio il consigliere del presidente sì ma senza un incarico operative.

DANILO PROCACCIANTI Poi è presidente di Agenas in questo momento in cui…

 ENRICO COSCIONI, PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Di Agenas, del cda.

DANILO PROCACCIANTI Però visto che appunto sulla Campania c’è questo problema dei numeri forse era inopportuno…

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Nessun problema sui numeri, non ci risulta, nessun problema dei numeri.

DANILO PROCACCIANTI Non c’è chiarezza insomma su questi numeri…

 ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA E chi lo dice, lo dite voi?

DANILO PROCACCIANTI No lo vediamo dalle file delle ambulanze insomma.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Che c’entra le file delle ambulanze arriva molta gente perché c’è molta infezione.

DANILO PROCACCIANTI Però i primari ci dicono che non si trovano posti mentre dai numeri…

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Sono due mesi che dicono che non ci sono posti e ogni volta c’è sempre il posto.

DANILO PROCACCIANTI Però è vero perché si parte il primo ottobre con 110 posti di terapia intensiva c’è scritto nel bollettino.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Dedicati al Covid.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Noi partiamo a febbraio con 335 posti letto di terapia intensiva in tutta la regione e sono adesso 656.

DANILO PROCACCIANTI Ma i 656 di oggi sono solo Covid…

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA No, complessivi.

DANILO PROCACCIANTI E quindi avete fatto un po’ di confusione nei bollettini.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA No, mai.

DANILO PROCACCIANTI Eh scusi il primo ottobre ce n’erano 110, bollettino del primo ottobre.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA E perché poi è cambiata la normative.

DANILO PROCACCIANTI E perché per esempio c’è stato un giorno che da 243 attivabili all’indomani diventano attivati? dal giorno alla note.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Guardi le assicuro che tutti i numeri sono… lei capisce che è una cosa molto pericolosa che sta dicendo, che qualcuno abbia giocato con i numeri… io non lo so perché.

DANILO PROCACCIANTI Io lo sto chiedendo visto che dal giorno alla notte diventano da attivabili ad attivati.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Io le sto rispondendo che i dati sono chiarissimi e trasparenti, non scherziamo.

DANILO PROCACCIANTI E poi li monitora lei da presidente di Agenas... insomma c’è un po’.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Agenas fa la trasparenza, se lei va sul sito di Agenas.

DANILO PROCACCIANTI Fa il monitoraggio e la vigilanza c’è scritto pure.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Si ma lo fa… il monitoraggio mica sui posti letto Covid.

DANILO PROCACCIANTI Vabbè su tutti i numeri che arrivano dalle regioni.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA È sempre stato così, l’Agenzia ha fatto sempre questo lavoro.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Enrico Coscioni, uno e trino, nelle more occupa anche il ruolo di primario di cardiochirurgia d’urgenza all’ospedale Ruggi di Salerno. Un ruolo che ha raggiunto dopo che per ben tre anni, 2010, 2011, 2012 ha avuto valutazioni negative da parte del suo primario dell'epoca, il professor Di Benedetto. Tuttavia, Coscioni incassa la cardiochirurgia di Salerno, dopo che fu scissa in due reparti e fu bandito un concorso. Quando Coscioni se lo aggiudica, era già consigliere per la sanità di De Luca. Una bella anomalia tanto che il direttore generale del Ruggi aveva scelto un altro primario, il secondo classificato. Ma il direttore generale fu rimosso.

NICOLA CANTONE - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE RUGGI SALERNO (AL TELEFONO) Quello che le posso dire è che non c'erano solo questioni di opportunità diciamo politica. Il dottore Coscioni all'epoca aveva un provvedimento di distacco in Regione e quindi era presente in azienda in virtù di questo provvedimento solo due volte a settimana.

DANILO PROCACCIANTI E il fatto che subito sia stato rimosso. Lei ci vede un legame?

NICOLA CANTONE - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE RUGGI SALERNO (AL TELEFONO) Su questo non lo dovrebbe chiedere a me non ne ho la più pallida idea.

DANILO PROCACCIANTI la Regione perché l'ha rimossa?

NICOLA CANTONE - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE RUGGI SALERNO (AL TELEFONO) Per asserita mancanza di titoli.

DANILO PROCACCIANTI In che data lei non fece Coscioni primario?

NICOLA CANTONE - EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE RUGGI SALERNO (AL TELEFONO) Novembre 2017.

DANILO PROCACCIANTI E sempre a novembre fu rimosso.

NICOLA CANTONE, EX DIRETTORE GENERALE OSPEDALE RUGGI SALERNO (AL TELEFONO) Quattro giorni dopo.

DANILO PROCACCIANTI Rispetto a quando lei è diventato primario, no? molti ci dicono che è stato fatto proprio spacchettato un reparto proprio per farla primario, ho letto insomma.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Non è così mi dispiace.

DANILO PROCACCIANTI C’era addirittura l’ex direttore del reparto cuore che invece l’aveva valutata negativamente, diceva che lei era un individualista.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Non so di che cosa sta parlando.

DANILO PROCACCIANTI Il professor Di Benedetto.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Lo chieda al Professor Di Benedetto.

DANILO PROCACCIANTI Per due tre anni consecutivi lei ha avuto…

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Credo di essere stato uno dei suoi allievi migliori, chieda al Professor Di Benedetto.

PROF. GIUSEPPE DI BENEDETTO - EX PRIMARIO CARDIOCHIRURGIA OSPEDALE SALERNO (AL TELEFONO) Tutti gli altri miei allievi poco poco hanno avuto la sufficienza piena, quindi… se mi sono espresso così in questi termini con lui evidentemente i motivi ci saranno stati no?

DANILO PROCACCIANTI Evidentemente non era uno dei suoi migliori allievi.

PROF. GIUSEPPE DI BENEDETTO - EX PRIMARIO CARDIOCHIRURGIA OSPEDALE SALERNO (AL TELEFONO) Evidentemente… credo di no.

DANILO PROCACCIANTI Ma scusi quindi tutto.

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Adesso è proprietà privata…

DANILO PROCACCIANTI Quindi scusi, mi dica solo va tutto bene in Campania?

ENRICO COSCIONI - PRESIDENTE AGENAS E CONSIGLIERE SANITA’ PRESIDENTE DE LUCA Benissimo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non c’è problema. Dire che la Campania ha barato sui numeri dice Coscioni, è un’affermazione grave. È vero, la pensiamo come lui. È per questo abbiamo cercato di capire qualcosa di più. Poi lungo il percorso della nostra inchiesta Danilo ha anche scoperto che non siamo i soli a sospettare questo, ma c’è anche l’Anaao, il sindacato dei dirigenti medici, “ha il forte sospetto che i dati sulla terapia intensiva siano stati manipolati”. Poi c’è anche il Nursind, del sindacato degli infermieri, che ha presentato un esposto in procura e ha diffidando la regione “dal persistere nell’ illecita condotta omissiva”. Se non hanno barato sui numeri e probabile che lo abbiano fatto invece sugli aggettivi, che accompagnavano il numero dei posti letto. Mano a mano che li cambiavano i posti aumentavano. Chi gestisce, o comunque controlla, questi dati è Enrico Coscioni uomo sicuramente di qualità perché de Luca lo ha scelto come suo consulente e qualità che si riconosce anche lui stesso: “io sono stato il migliore o tra i migliori della cucciolata del prof. Di Benedetto”. Di Benedetto, invece, da noi consultato, ha detto no, io ne avevo altri di migliori. Anche il prof. Cantone, che era direttore generale dell’ospedale Ruggi di Salerno, quando c’era da nominare Coscioni a primario di un reparto di cardiochirurgia aveva scelto un altro al suo posto. Questo perché Coscioni aveva già l’incarico di consulente con De Luca e in reparto avrebbe potuto esserci soltanto due volte a settimana. Dopo aver preso questa scelta, quattro giorni dopo, il professor Cantone è stato rimosso dalla Regione dal ruolo di direttore generale, perché dice, non ha i titoli per farlo. Cosa che è stata poi smentita dal ministero della salute. Oggi comunque il professor Cantone non c’è più al Ruggi, ma c’è il professor Coscioni che fa il cardiochirurgo part-time. Coscioni non è l’unico uomo del governatore che è finito alla ribalta della cronaca, ci sono finiti anche tutti quelli della prima linea della sanità che sono rimasti coinvolti in una vicenda di una ditta, che deve avere delle doti di preveggenza o addirittura la palla di vetro perché ha pubblicato un video dove sta facendo dei lavori che ancora nessuno gli aveva assegnato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche gli ospedali modulari arrivati da Padova tra gli applausi sono finiti sotto la lente della magistratura. I colleghi di Fanpage avevano scoperto grazie a un video pubblicato dalla ditta che i lavori di sbancamento dell'area erano cominciati circa una settimana prima che l'appalto fosse assegnato.

GAIA MARTIGNETTI - GIORNALISTA FANPAGE Questi lavori iniziano scopriamo il 22 marzo perché viene pubblicato un video su Facebook da una ditta sub appaltatrice dell’affidataria diretta. Tuttavia, però ricostruendo i documenti scopriamo che l'affido diretto dall'Asl Napoli 1 a Siram che era la ditta scelta quasi ad personam potremmo dire è avvenuto soltanto il 27 marzo. Allora la domanda che ci siamo posti è come è possibile che il 22 marzo siano già iniziati i lavori?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con l’accusa di turbativa d’asta e frode in pubbliche forniture la Procura di Napoli ha messo sotto inchiesta Ciro Verdoliva, direttore dell'Asl Napoli; Corrado Cuccurullo, presidente di Soresa, la stazione appaltante della Regione; Roberta Santaniello, dirigente dell'ufficio di gabinetto del presidente De Luca e Luca Cascone, consigliere regionale vicinissimo al presidente De Luca. Finisce sotto la lente della giustizia tutta la prima linea della sanità campana. Anche il capo del Dipartimento Salute della Regione, Antonio Postiglione. La procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiesto il processo per aver favorito le cliniche private. In particolare, la Pineta Grande di Castelvolturno.

DANILO PROCACCIANTI 424 posti letto in più senza averne l'autorizzazione.

MARIA ANTONIETTA TRONCONE - PROCURATRICE DELLA REPUBBLICA SANTA MARIA CAPUA VETERE Si, devo anche precisare, che se i posti ufficiali erano 150 già di fatto la critica usufruiva senza autorizzazione di altri 40 posti e chiedeva quindi anche rimborsi su questo numero di posti ulteriori.

DANILO PROCACCIANTI E la Regione pagava.

MARIA ANTONIETTA TRONCONE - PROCURATRICE DELLA REPUBBLICA SANTA MARIA CAPUA VETERE Sì.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il proprietario della clinica Vincenzo Schiavone e il presidente dell'associazione delle cliniche private Sergio Crispino, da soggetti controllati avrebbero addirittura scritto di loro pugno la circolare al posto del controllore Postiglione, che avrebbe solo posto la firma.

ANTONIO POSTIGLIONE - DIRETTORE DIPARTIMENTO SALURE REGIONE CAMPANIA Per favore.

DANILO PROCACCIANTI Ma lei ha un ruolo importante.

ANTONIO POSTIGLIONE - DIRETTORE DIPARTIMENTO SALURE REGIONE CAMPANIA Anche lei. Se lo sapesse fare.

DANILO PROCACCIANTI Io ci provo, ci dice qualcosa di questa inchiesta che la riguarda insomma avrebbe favorito la sanità privata. Non pensa di avere qualche responsabilità visto che i magistrati dicono che ha depotenziato la sanità pubblica in favore di quella privata. Si sarebbe fatto scrivere la circolare dai rappresentanti della sanità privata, ci dica qualcosa dottore…Dottore ci risponde? Dottore… Ci date qualche risposta? Dottore, ma perché scappa dottore?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Per la procura anche il presidente De Luca avrebbe firmato quella circolare ma, si legge, probabilmente non ha neanche compreso tecnicamente ciò che ha firmato. Nelle carte si parla di collusioni che avrebbero depotenziato la sanità pubblica a favore di quella privata.

MARIA ANTONIETTA TRONCONE - PROCURATRICE DELLA REPUBBLICA SANTA MARIA CAPUA VETERE E così nel momento in cui vengono operate delle previsioni di spesa che rendono possibile alla clinica in oggetto di ottenere un budget per gli anni 2018-19 pari a complessivi circa 60 milioni di euro, lasciando però i tetti di spesa invariati, è facile intuire che vi è stato un dirottamento delle risorse in favore del privato e in pregiudizio del pubblico.

DANILO PROCCACCIANTI Con i tetti di spesa inalterati significa io tolgo soldi agli ospedali pubblici, al settore pubblico, per girarlo su quello privato.

MARIA ANTONIETTA TRONCONE - PROCURATRICE DELLA REPUBBLICA SANTA MARIA CAPUA VETERE Di fatto è così.

DANILO PROCACCIANTI Voi contestate appunto dinamiche collusive sia a livello comunale sia a livello regionale. Hanno ottenuto che cosa in cambio i funzionari regionali, comunali?

MARIA ANTONIETTA TRONCONE - PROCURATRICE DELLA REPUBBLICA SANTA MARIA CAPUA VETERE Per lo più si tratta di un reticolo di assunzioni di favori che consentono quindi di creare una compiacenza.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella lista dei fedelissimi del governatore De Luca spicca Nello Mastursi, l’uomo delle liste, nominato pochi giorni fa capo dello Staff del Governatore. Ne era uscito nel 2015 quando era arrivato un avviso di garanzia perché secondo i magistrati avrebbe promesso indebitamente una nomina dirigenziale nella sanità campana. Per questo De Luca lo aveva immediatamente scaricato.

VIDEO DE LUCA 12/11/2015 Se mi chiede ha sbagliato il collaboratore… sì… e in maniera credo anche grave. Posso dirle quello che non è Mastursi, non è Winston Churchill l’ho già detto, non è Camillo Benso di Cavour, che le devo dire? Potrà Mastursi fare come quel personaggio di Cervantes, che sarà in questo momento molto orgoglioso della sua fama per quanto infame.

DANILO PROCACCIANTI Mastursi ci dice qualcosa, ma De Luca quindi l’ha perdonata che lei adesso è qua? Se ci dice qualcosa.

NELLO MASTURSI – CAPO SEGRETERIA REGIONE CAMPANIA Non ho Interesse a rilasciare un'intervista perché lei mi dà fastidio.

DANILO PROCACCIANTI Cinque anni fa l’aveva scaricato.

NELLO MASTURSI – CAPO SEGRETERIA REGIONE CAMPANIA Non mi ha scaricato nessuno, nessuno è stato scaricato nessun’altra cosa. Perché mi deve dare per forza fastidio. Le sembra che lei è una persona educata? ma è una persona educata? non penso. ho detto di no.

DANILO PROCACCIANTI Faccio delle domande.

NELLO MASTURSI – CAPO SEGRETERIA REGIONE CAMPANIA E dovrebbe dire al suo collega di non riprendermi semplicemente questo.

DANILO PROCACCIANTI Ma visto che è qui avrà un ruolo pubblico in queste elezioni?

NELLO MASTURSI – CAPO SEGRETERIA REGIONE CAMPANIA Noi siamo in una democrazia dove una persona può avere il diritto di non essere disturbato e lei dovrebbe rispettare una persona.

DANILO PROCACCIANTI Io le ho fatto una domanda se vuole rispondere risponda.

NELLO MASTURSI – CAPO SEGRETERIA REGIONE CAMPANIA Le ho detto di no ma continua a riprendermi il suo collega, vede come è educato lei. Lei è una persona scostumata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bisogna sopportalo Il nostro Danilo. Ha il vizio di fare domande. Se uno vuole beneficiare di un bene inestimabile, come quello della libertà di stampa, deve anche sopportarne i mali che suscita” Era il pensiero di ALEXIS DE TOCQUEVILLE, filosofo, magistrato, politico. A distanza di 200 anni, circa, hanno ancora fastidio se uno gli pone delle domande. Mastursi, è rientrato nuovamente a far parte dello staff di De Luca. Perché non ne faceva più parte? Nel 2015 il governatore De Luca vince le elezioni, ma incappa nella legge Severino, che ne impedirebbe la candidatura e addirittura lo renderebbe incompatibile in quanto De Luca all’epoca era stato condannato in primo grado per l’abuso di ufficio per una vicenda che riguardava la costruzione di un termovalorizzatore a Salerno, poi il governatore è stato assolto in appello. Mastursi cosa c’entra in questa vicenda? All’epoca era l’uomo che faceva le liste per le campagne elettorali del governatore. Secondo i magistrati avrebbe brigato per condizionare il giudizio del magistrato, che avrebbe dovuto esprimersi sulla presunta incompatibilità di De Luca. Avrebbe offerto al marito una nomina nell’ambito della sanità campana. Quando però arriva l’avviso di garanzia De Luca lo scarica, usando anche parole pesantissime, scomoda addirittura Don Chisciotte Cervantes e dice del suo capo staff “è come quel personaggio che può essere “orgoglioso della fama per quanto è infame”. Nel 2017 Mastursi viene condannato a un anno e sei mesi e secondo i magistrati che scrivono, che i base agli interrogatori, avrebbe tentato di salvare De Luca all’insaputa di De Luca stesso. Il governatore che lo aveva cacciato, allontanato, quando Mastursi era indagato lo accoglie nel momento in cui è stato condannato e lo mette addirittura a capo del suo staff. È un gesto che sicuramente viene apprezzato dagli uomini della sua squadra che si sentono, in qualche modo, tutelati dal governatore, anche se gli arrecano qualche guaio. Per esempio, c’è anche il caso di Ciro Verdoliva, che è a capo della Asl più importante della Campania, Napoli 1, che è stato già, per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per favoreggiamento e soppressione di atti. È stato anche, è finito sotto indagine per turbativa d’asta e frode in pubblica fornitura per la vicenda degli ospedali modulari. Per quella ditta che aveva postato il video dei lavori prima che gli venissero assegnati. Poi c’è anche un altro uomo della sanità campana, è impostante, Antonio Postiglione, accusato di corruzione: avrebbe favorito i privati a discapito del pubblico, come? I privati, che dovevano essere quelli controllati, avrebbero preparato di loro mano una circolare che li avrebbe favoriti. Li avrebbero sottoposti alla firma del controllore Postiglione, che avrebbe firmato, anzi avrebbe portato anche la circolare a De Luca che ha a sua volta firmato, ma secondo i magistrati avrebbe firmato la circolare senza comprendere tecnicamente ciò che ha firmato. Gli uomini del presidente si sentono in qualche modo garantiti dal presidente perché sentono la sua fiducia ed è anche per questo che non vogliono parlare con noi. E anche perché, sempre scomodando Cervantes, che tanto piace al governatore, “nelle bocche chiuse non entrano le mosche.”

Mario Fabbroni per leggo.it il 17 novembre 2020. Il quartiere è lo stesso della citazione nei libri della tradizione napoletana: «Al Rione Sanità, quando uno era felice, pagava due caffè: uno per sè, l’altro per il prossimo cliente. È il gesto filantropico del “caffè sospeso”. Un modo per offrire un caffè all’umanità». Da oggi, sempre al Rione Sanità, c’è invece il “tampone sospeso”. Duemila test che il farmacista di quartiere Ersilio Mele ha messo a disposizione dell’associazione “Sa.Di.Sa” (Sanità, Diritti in Salute” guidata dall’avvocato Angelo Melone) e della Fondazione San Gennaro Onlus presieduta dal parroco don Antonio Loffredo, con la collaborazione della III Municipalità (presidente Ivo Poggiani). Due turni (ore 8-14 e 15-20), la Basilica di San Severo fuori le mura (piazzetta san Severo a Capodimonte, Rione Sanità di Napoli) si trasforma in un laboratorio (con tanto di file separate per evitare ogni incrocio tra le persone) per la somministrazione dei tamponi che scovano il Covid grazie al lavoro volontario di tre medici (Stefano Viglione, Mario Russo, Armando Monfregola), un biologo (Salvatore Sommella), tre infermieri e 20 giovani. Una “macchina da guerra” coordinata dalla 27enne Giada Filippetti Della Rocca, origini bolognesi ma trasferitasi a Napoli per avviare una start up nel settore turistico-immobiliare. «Ma ora sono soltanto la vicepresidente dell’associazione Sa.Di.Sa., che intende aiutare la gente meno fortunata che abita nel Rione Sanità - racconta -. Questi tamponi li faremo al costo di 18 euro anziché al prezzo di mercato pari a 60 euro. Ma aspettiamo tanti “tamponi sospesi”. Anzi, chiunque può donare tamponi a chi non può sostenerne il costo». Una rivoluzionaria campagna di covid-screening dal forte valore sociale. Cinquecento le persone già prenotate in appena due giorni di apertura del numero dedicato 3792151320, ci sono perfino richieste da Roma. I pazienti verranno accolti al ritmo di 50 al giorno, 5 per ogni ora.

L'iniziativa solidale al Rione Sanità. Tampone Sospeso, il cuore grande dei napoletani per la salute di tutti: “Oltre 500 prenotazioni da chi non può permetterselo”. Amedeo Junod su Il Riformista il 17 Novembre 2020. “Il caffè sospeso è nato proprio alla Sanità, e anche il "Tampone sospeso" nasce qui, sulla falsariga di una tradizione nata durante la guerra e che oggi con il Covid si tinge di un senso civico rinnovato”. Commenta così Angelo Melone il successo del “tampone solidale”, iniziativa dell’Associazione che presiede, la “Sa.Di.Sa. – SANITÀ, Diritti in Salute”, che assieme alla “Fondazione Comunità di San Gennaro Onlus” e alla Farmacia Mele ha dato un contributo concreto allo screening di massa, a partire da uno dei quartieri più popolosi di Napoli, la Sanità. Il Tampone è “Solidale” perchè offerto ad un costo contenuto, 18 euro: “spinti dalla convinzione che il Covid si possa combattere solo con gli screening di massa della popolazione”, continua Melone, “siamo altrettanto consapevoli che uno screening di massa sia plausibile solo a prezzi solidali. C’è poi la possibilità per gli utenti di donare dei tamponi “sospesi“, da indirizzare a chi ha più bisogno ma meno possibilità. Il successo dell’iniziativa è dovuto anche al passaparola dei cittadini”. Accogliendo simbolicamente il messaggio della Fondazione San Gennaro espresso con la recente installazione dell’opera di Yago che raffigura un bambino in posizione fetale e che invita a “guardare verso il basso e verso gli ultimi (“look down” il nome dell’opera), “abbiamo iniziato questa attività di screening nella Basilica di San Severo, partendo proprio dagli ultimi, offrendo nella giornata di ieri tamponi sospesi per i senza fissa dimora”, conclude Melone. Stefano Viglione, Medico Responsabile di Sa.Di.Sa, ciricorda inoltre che “partire da qui significa cominciare da un territorio difficile in cui anche fare un tampone può risultare più proibitivo rispetto ad altre zone della città”. Grazie a Sa.Di,Sa chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, può prenotare un tampone all’apposito numero, e la gestione delle prenotazioni è affidata ad uno staff che lavora H24.In poco più di 48 ore l’Associazione ha registrato oltre 500 prenotazioni. Al momento il numero di tamponi che riescono a processare è di circa 70 al giorno, ma si punta a raggiungere la quota di 100 tamponi quotidiani. Giada Filippetti, Vice Presidente di Sa.Di.Sa., ci spiega infine di quale tipologia di tampone stiamo parlando, considerando il susseguirsi compulsivo di metodi diagnostici: “Il tampone che effettuiamo qui è un tampone rapido, antigenico, naso-farigeneo. Segue la stessa procedura del tampone molecolare, con un’attendibilità leggermente più bassa (87%). I risultati si ottengono in 10 minuti, grazie alla nostra equipe composta da 3 infermieri, due medici e un biologo. I risultati vengono infine caricati all’interno della piattaforma della Asl regionale”. Il caffè sospeso è un’abitudine, un vezzo di generosità tipicamente partenopeo, e risale al periodo delle guerre mondiali. Ora che la pandemia inginocchia stati e popoli come e più di una guerra, la possibilità di un “tampone solidale” vale come un messaggio di alta solidarietà e senso civico, un messaggio che sta già ottenendo un benefico effetto virale: a breve, ad affermarlo il Presidente Melone, potrebbe aderire all’iniziativa l’ordine dei farmacisti campano.

Gennaro Morra per ilmattino.it il 10 novembre 2020. Tra indiscrezioni, ipotesi, precisazioni e smentite ormai sembra che un nuovo lockdown sia inevitabile. E se da parte del governo c’è l’intenzione di evitare a tutti i costi un altro blocco che coinvolga l’Italia intera, l’andamento dei numeri del contagio da Covid-19 a Napoli e in Campania lascia facilmente presagire che almeno nel capoluogo, se non in tutta la regione, una chiusura totale di tutte le attività non essenziali sia imminente. Uno scenario davanti al quale questa volta le persone non vogliono farsi cogliere impreparate, scegliendo preventivamente, avendone facoltà, il luogo dove trascorrere il prossimo lockdown e i coinquilini con cui condividerlo. Se poi si ha una certa disponibilità economica, la nuova quarantena, che scatterebbe per arginare la diffusione del nuovo coronavirus a Napoli e provincia, potrebbe trasformarsi in un’esperienza molto eccitante. È questa l’idea di Paola Saulino, che nel corso de La Radiazza, trasmissione in onda su Radio Marte, ha lanciato una proposta indecente: «Sarei disposta a trascorrere il periodo del lockdown con chi mi offrisse una cifra adeguata, l’equivalente di una casa al centro di Roma. Non ci trovo nulla di volgare nell’accettare denaro in cambio di sesso». Sembrava solo una provocazione lanciata per scherzare un po’ sull’argomento “sesso e pandemia” e sdrammatizzare, com’è del resto nel suo stile, invece la sexy influencer napoletana, che vanta più di un milione e 100mila follower sui social network, ora precisa: «Prendo in considerazione solo offerte dal milione di euro in su. E più dura il lockdown, più la cifra sale». Una proposta destinata a scandalizzare chi è contrario alla mercificazione del corpo umano, ma la Saulino sulla questione ha un’idea diametralmente opposta: «Credo che in un rapporto di coppia il denaro possa evitare complicazioni e grandi sofferenze – sostiene –. Il fatto che ci sia un accordo in cui le due parti effettuano uno scambio, sesso per ottenere soldi o viceversa, metta subito in chiaro che oltre quel confine non si può andare, non ci deve essere alcun coinvolgimento sentimentale. Si paga o si prendono soldi per non oltrepassare quel confine ed è così che funziona. Molti giudicano male un rapporto basato sul baratto sesso in cambio di soldi o di un bene, io al contrario ci vedo molta poesia». Laureata in scienze della comunicazione, Paola Saulino è diventata famosa sui social network per i suoi post trasgressivi e provocatori: fotografie e video, più o meno espliciti, in cui mette in mostra il suo corpo sensuale, suggerendo ai tanti follower modi e strategie per avere rapporti sessuali soddisfacenti. Il tutto condito con grande ironia. E anche stavolta ha un pensiero per chi non potrà permettersi la sua compagnia durante il prossimo lockdown e dovrà addirittura starsene da solo: «Io sono un’accanita sostenitrice della masturbazione e spesso incito le persone ad amarsi, a conoscersi esplorando il proprio corpo, a connettersi con loro stesse anche mediante l’uso dei tanti sex toys che si trovano in commercio – spiega –. Ma il mio invito è di non masturbarsi davanti a un film porno, bensì di attivare la propria fantasia e creare nella propria testa storie eccitanti e pornografiche in cui i protagonisti sono loro stesse, fantasie che possono portare a un piacere fisico molto intenso. Un piacere che può essere amplificato con l’utilizzo di giocattolini erotici». Poi c’è chi sarà costretto a barricarsi in casa con altre persone, magari non molto desiderate, e non potrà avere molta intimità. Anche per queste “vittime” della quarantena collettiva c’è una soluzione: «Anche in questo caso ritorna l’importanza dell’indipendenza economica, che consentirebbe di trascorrere questo periodo di sospensione dove e con chi si vuole – sostiene la Saulino –. Ma nel caso in cui si sia costretti a condividere casa col partner con cui non si va più d’accordo, o con genitori troppo opprimenti, o con fratelli invadenti, il mio consiglio è di cercare di raggiungere il benessere psicofisico alimentando la mente e lo spirito, magari seguendo un bel corso motivazionale su Youtube. Oppure impiegare questo tempo, apparentemente vuoto, per leggere e imparare. Anche in questo caso la Rete offre molteplici opportunità, selezionando bene le fonti. In generale, cerchiamo di trasformare questo dramma in una possibilità di crescita».

Vincenzo De Luca, la pediatra scrive a Libero: "Ho lavorato con lui. Usa la sanità soltanto per il potere". Maria Teresa Baione (medico pediatra) su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2020. Gentile direttore Senaldi, sono campana, salernitana, sono un medico pediatra che ha lavorato in ospedale e nell'università della mia città, sono stata consigliere comunale con delega alla Sanità, sindaco l'onorevole Vincenzo De Luca, per due legislature. Posso dire, con certezza, che nessuna empatia ha caratterizzato l'azione di De Luca rispetto alla Sanità pubblica, se non l'occupazione politica di postazioni nel settore (apicali e non), come del resto facevano e fanno tutte le forze politiche, a seconda del loro peso elettorale. Questo è, e dobbiamo dirlo con franchezza. In Campania l'inefficienza delle strutture sanitarie pubbliche, anche se ci sono alcune eccellenze alle quali va tutto il nostro rispetto, è abbastanza evidente e se la zoppia, in tempi normali, si può bilanciare con le stampelle, in tempi di Covid-19 tutto precipita. La preoccupazione del presidente De Luca è quindi legittima e, però, è giusto chiedersi: dov' era quando il disastro della Campania, sotto l'aspetto sanitario e l'aspetto economico, era ampiamente previsto? Il presidente della giunta regionale della Campania non si è reso conto che dopo tanti anni di inefficienze - per carità, non tutte attribuibili a lui -, doveva chiedere con forza, al "governo amico", di potenziare gli organici ospedalieri, i posti letto, la medicina del territorio, le terapie intensive e sub-intensive. Sembrerebbe che tali richieste al governo nazionale siano state fatte, ma i bandi per l'arruolamento di personale sanitario e para-sanitario sono stati approvati solo nella prima settimana di ottobre; e all'appello nei nostri ospedali mancano ancora un centinaio di terapie intensive rispetto a quelle che dovevano essere attivate. Non si possono sempre far pagare ai cittadini lo spreco e le inefficienze di un sistema che dovrebbe rappresentare l'orgoglio di ogni buona amministrazione. A cosa serve sbraitare, mostrare la Tac di un ammalato, chiedere ulteriori restrizioni, l'esercito nelle strade, le forze dell'ordine, solo perché la paura che il sistema sanitario campano non regga attanaglia, ora, la coscienza, come la perdita dei consensi? È assolutamente vero che la Regione Campania riceve quote per la sanità inferiori a quelle di altre regioni, e che i criteri di ripartizione dei fondi sono sbagliati, ma stabilire le priorità e scegliere dove indirizzare quei fondi è compito della programmazione regionale. Dunque, "battere cassa" e soddisfare la domanda di salute dei cittadini resta l'obiettivo prioritario. Ciò non è stato e non è! Un governo totalmente incapace di gestire questa epidemia con gravi ripercussioni su tutte le regioni italiane crea i presupposti per un "fai da te" che è quanto di più tragico possa capitare alla Nazione. Dunque, perché meravigliarsi se la pazienza dei cittadini è finita? Perché voler dare connotati "politici" a una protesta popolare che, per quanto violenta, ha le sue buone ragioni? Ho trovato molto pertinente a riguardo il titolo dato l'altro giorno da Libero, «Hanno ragione i napoletani» Il disastro parte da lontano e l'epidemia soffia sul fuoco e alimenta le fiamme di un dissenso che può diventare incontrollabile. Eppure, nella nostra quotidiana tragedia, nella sofferenza di centinaia di persone cui hanno sottratto, già da tempo, il diritto a molte prestazioni sanitarie, non si è mai registrata una parola di scusa, un gesto di umiltà, che avrebbe potuto stabilire un "nuovo patto" tra potere e cittadino e rendere magari più accettabili nuovi sacrifici. 

Da video.corriere.it il 17 aprile 2020. "Se dovessimo avere corse in avanti in regioni dove c'è il contagio così forte, la Campania chiuderà i suoi confini. Faremo una ordinanza per vietare l'ingresso dei cittadini provenienti da quelle regioni" Il Governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca nel corso della conferenza stampa per fare il punto sull’emergenza coronavirus. agenziavista.it

Coronavirus, il presidente De Luca: “Anticipando il governo abbiamo salvato la Campania”. Redazione de Il Riformista il 17 Aprile 2020. La Campania potrebbe essere la prima regione a uscire dal tunnel. Lo ha detto in una diretta Facebook il presidente della Regione Vincenzo De Luca. “In Regione abbiamo registrato un tasso di decessi, in relazione alla popolazione, che è il più basso d’Italia insieme a Basilicata e Sicilia. È evidente, però, che abbiamo pagato un prezzo anche noi. Con estrema convinzione devo dire che noi abbiamo salvato la Campania assumendo decisioni in anticipo rispetto al governo nazionale “, ha osservato De Luca. “Se qualche Regione accelera per riaprire in maniera non coerente coi dati epidemiologici – ha continuato De Luca – il rischio è di rovinare l’Italia intera. Se dovessimo avere una fuga in avanti di qualcuno, chiuderemo la Campania. Vieteremo l’accesso in Regione a chi viene da zone a rischio. Abbiamo conosciuto già l’emergenza quando sono rientrati cittadini campani dal Nord. Pensare di dover riaffrontare ancora una volta il problema sarebbe un atto di irresponsabilità”. “Non possiamo fare anche la corsa ad aprire tutto. Le limitazioni ovviamente pesano. Sarebbe drammatico però riaprire le attività economiche in maniera indiscriminata e dopo due settimane essere costretti a richiudere tutto. Così non reggeremmo più e crollerebbe l’Italia”, ha detto De Luca specificando che a una ripresa dell’economia si debba accompagnare un piano di sicurezza sanitaria. La Regione ha cominciato ad incontrare alcune categorie di produttori come costruttori, balneatori, cantieri navali. La settimana prossima sarà il turno del comparto turistico. “Tutti quelli che, nella politica nazionale, erano grandi produttori di tweet sono tornati in campo ed hanno riaperto la fabbrica dei tweet. Quei pochi scienziati competenti che hanno dato indicazioni di merito rischiano di essere travolti da una ripresa di chiacchierificio nazionale. Il senso di coesione che abbiamo conosciuto settimane fa sembra scomparire: la fase 2 si è aperta all’insegna della politica politicante. Il dibattito sul Mes ne è stato un esempio sconcertante“, ha aggiunto De Luca. “Il bisogno di posti in terapia intensiva è diminuito – ha continuato il Presidente – Utilizzeremo gli ospedali modulari per i pazienti covid così non avremo più promiscuità tra pazienti covid e pazienti normali e sgraveremo gli ospedali. Stiamo distribuendo 3 milioni di mascherine. Oggi è iniziata la distribuzione delle mascherine della regione alle farmacie. è stata raggiunta l’intesa con Poste Italiane che gratuitamente farà arrivare una confezione da 2 mascherine a famiglia in maniera gratuita. E dal 3 maggio saranno in vendita le mascehrine comprate dalla regione Campania nei tabacchini e nelle farmacie a metà prezzo”. De Luca ha anche detto di aver sentito personalmente il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte per sollecitare, visti i “ritardi sconcertanti” dal ministero del Mezzogiorno, le risorse del Fondo Sviluppo e Coesione. Sulla situazione sanitaria il governatore ha ripercorso i dati del mese di aprile. Dai 225 positivi del primo aprile fino ai 64 del 16. “Se manteniamo questo rigore a metà maggio potremmo dire di aver sconfitto il coronavirus in Campania. Ma dobbiamo avere forza di mantenere comportamenti corretti”, ha commentato De Luca. “Regione Campania è stata anche un modello, di efficienza operativa e di rigore dei concittadini. Ancora oggi qualcuno sembra quasi dispiaciuto delle prove di serietà che ha dato la regione. Ogni tanto qualcuno a livello nazionale cerca di sporcare l’immagine di Napoli e della Campania, sono veramente in crisi di astinenza. Sembra non riescano ad abbandonare la vecchia abitudine a offendere la nostra immagine”.

Il direttore del Cotugno denuncia la vergogna: “I nostri dipendenti trattati come appestati”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso de Il Riformista il 9 Aprile 2020. “Stiamo ricevendo tanta solidarietà ma devo registrare anche qualche atto discriminatorio che stanno subendo i nostri dipendenti”. E’ quanto denuncia Maurizio De Mauro, direttore dell’Azienda dei Colli di Napoli che comprende gli ospedali Monaldi-Cotugno-Cto. “Qualcuno li ha considerati appestati – spiega al Riformista -, mi stringo vicino ai miei medici, infermieri e oss perché sono degli eroi, andrebbero abbracciati e non discriminati”. Il riferimento è ai problemi che hanno alcuni operatori dell’ospedale quando rientrano nelle proprie abitazioni e, dopo una giornata di duro lavoro, vengono considerati possibili untori dai loro vicini di casa. Un altro episodio assai spiacevole è andato in scena stamattina. Un dipendente dell’Azienda dei Colli è arrivato in taxi in ospedale: quando il tassista si è reso conto della destinazione ha iniziato a insultarlo pesantemente. Dura la reazione di Di Mauro: “C’è stato qualche nostro operatore discriminato perché lavora nei reparti dove si trattano malattie infettive. Questo non è corretto, non è giusto, anche perché abbiamo dimostrato al mondo di usare le tutele necessarie per non infettare noi stessi e non creare alcun disagio agli altri”. Intanto la lotta al coronavirus prosegue nel migliore dei modi: “Anche oggi  – spiega Di Mauro – abbiamo dimesso diversi pazienti, qualcuno è uscito dalla terapia intensiva ed è entrato in reparto. Tutto questo supporta il dato generale in cui vediamo una diminuzione dei contagi. Questo è un motivo in più per continuare a rispettare le disposizioni e restare a casa, soprattutto per Pasqua e Pasquetta. Bisogna stare attenti e su questo puntiamo sul senso di responsabilità dei cittadini. Solo così riusciremo a vincere”. “La Campania – sottolinea – ha fatto dei miracoli, uno sforzo incredibile. Questa mattina leggevo un dato purtroppo drammatico nel numero perché questo mese abbiamo avuto circa 260 decessi nella nostra regione però è pure vero che questi decessi in altre regioni sono stati fatti in un giorno. Questo vuol dire che si è creata una rete incredibile, si sta facendo un lavoro enorme nell’andare a circoscrivere tutti i soggetti che sono venuti a contatto con pazienti positivi al coronavirus: facendo i tamponi a domicilio, lo screening di massa a tutti gli operatori sanitari con i test rapidi. Io penso che tutta questa regia ha portato al risultato che vediamo oggi, con la curva dei contagi già in parte discendere”. Dai test rapidi effettuati nell’ultima settimana su gli operatori sanitari degli ospedali napoletani arrivano notizie confortanti: “I test rapidi ci consentono di proteggerli perché sanno nel giro di poco tempo se possono essere loro stessi portatori della patologia. Sono migliaia quelli fatti – precisa Di Mauro – ed è emersa una percentuale bassissima di soggetti che hanno manifestato anticorpi presenti e per i quali si è fatto il tampone e un ulteriore accertamento”. Risultati esaltanti arrivano anche dalla sperimentazione del Tocilizumab: “Funziona bene, agisce con questa azione disinfiammante del polmone, per cui queste polmoniti regrediscono più velocemente. Il dramma di questa patologia virale è però l’insufficienza respiratoria, quindi se questo farmaco riesce ad incidere  sull’attività respiratoria si evita che i pazienti vengano intubati”. “Al momento abbiamo poco meno di 100 pazienti trattati con questo farmaco con risultati davvero esaltanti però il dato definitivo lo sapremo alla fine di aprile quando avremo la valutazione di tutti i pazienti trattati in Italia”. “E’ stata una grande intuizione del dottor Ascierto e del dottor Montesarchio, quella di usare un farmaco anti-artritico che potesse agire sull’attività respiratoria. Qui al Cotugno abbiamo una percentuale davvero bassa di pazienti che sono arrivati in terapia intensiva. Oggi abbiamo dimesso altri tre pazienti trattati con il Tocilizumab”.  

Infermiera sfinita sviene, lo scatto che racconta la solidarietà negli ospedali. Redazione de Il Riformista il 9 Aprile 2020. Una fotografia di Mario Spada scattata presso il Covid Hospital di Boscotrecase, in provincia di Napoli, lo scorso 25 marzo racchiude tutta la solidarietà che in questi giorni si sta manifestando negli ospedali tra il personale sanitario. Un “istante perfetto” in cui racchiude tutta la forza dei medici a lavoro in prima linea contro l’emergenza.  Scrive il fotografo: “un’infermiera, sfinita, sviene. Questo lo scatto che cattura il momento in cui sta per rinvenire. I tagli alla Sanità non sono riusciti ad annientare il senso di solidarietà fra il personale medico infermieristico in prima fila nei reparti COVID di terapia intensiva”. La foto è il contributo di Mario Spada alla call to action #iorestoacasa | A call to action or, how to change the world from your living room, promossa dal Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina nell’ambito della campagna nazionale #iorestoacasa.

Da liberoquotidiano.it il 28 marzo 2020. Il primo cittadino di Ercolano ha deciso che nel suo comune al supermercato la spesa si fa in ordine alfabetico. Lo chiarisce in una intervista su Repubblica "Ho adottato misure estreme perché noi non siamo in grado di sostenere una crisi sanitaria come quella della Lombardia. Ora temo gli effetti economico-sociali: potrebbero riprendere piede usura, spaccio di droga, camorra. La spesa in ordine alfabetico non è una misura popolare, ma salva le nostre vite", spiega Ciro Buonajuto più volte minacciato dalla camorra, da poco passato dal Pd a Italia Viva. "La misura sta funzionando. Mi sono accorto che una stessa persona o le persone della stessa famiglia uscivano alle 10 a comprare il pane, alle 11 il latte, nel pomeriggio le sigarette... le file ai supermercati e negli alimentari si allungavano. Ma noi non possiamo farci venire addosso una emergenza sanitaria come quella lombarda. Non saremmo in grado di fronteggiarla". Il primo cittadino si schiera anche con il governatore campano De Luca e il suo allarme sulla Campania: "Ha fatto molto bene. Per fare capire il reale pericolo bisogna talvolta alzare la voce. Il nostro sistema sanitario ha bisogno di aiuti, altrimenti non reggiamo". Il governatore Vincenzo De Luca ha alzato i toni con il governo, lanciando l'allarme-Campania. Ha esagerato? "Ha fatto molto bene. Per fare capire il reale pericolo bisogna talvolta alzare la voce. Il nostro sistema sanitario ha bisogno di aiuti, altrimenti non reggiamo".

Vincenzo Grasso per “il Mattino” il 27 marzo 2020. Ad Ariano è polemica continua. E adesso esplode il malessere dei primari dell'ospedale «Frangipane».  In un lungo e dettagliato rapporto, destinato a fare rumore, inviato al Presidente della Regione, al Prefetto di Avellino e alla Deputazione irpina, ma non al direttore Generale dell'Asl di Avellino Maria Morgante, senza usare mezzi termini i responsabili delle varie unità operative complesse descrivono ciò che non va, ma individuano anche ciò che va fatto, al più presto, per dare veramente una funzione al nosocomio arianese, trasformato in questi giorni in una struttura dedicata solo alla lotta al Coronavirus. Una vera e propria rivolta contro i vertici dell'Asl. «Nei giorni trascorsi - comincia l'elenco delle disfunzioni indicate dai primari - abbiamo assistito a situazioni di particolare gravità: notevole carenza di dispositivi di protezione per il personale impegnato nell'ospedale, compresi coloro che operano nelle zone ad alto rischio biologico (aree Covid-19); assenza di percorsi e protocolli diagnostico-terapeutici specifici chiaramente codificati, o al più realizzati in maniera estemporanea; assenza di una chiara strategia identificativa di potenziali portatori dell'infezione, sia fra i ricoverati apparentemente affetti da altre patologie sia soprattutto fra gli operatori sanitari; assenza di una quotidiana e capillare sanificazione ambientale e di corretta e periodica disinfezione di tutti gli ambienti interni ed esterni; assenza di formazione per tutto il personale esposto in prima linea di formazione per la corretta vestizione e svestizione dei dispositivi; assenza di contenitori biologici all'interno e all'esterno dell'ospedale per lo smaltimento di dispositivi usati infetti o potenzialmente tali; assenza di figure professionali quali uno specialista infettivologo e uno pneumologo con maturata e sicura esperienza». Non solo. Nonostante parte del personale sia stato colpito dal Coronavirus, «ancora oggi - continuano - non si è addivenuti alla determinazione di sottoporre tutti gli operatori e i pazienti attualmente ricoverati anche per patologie no-Covid-19 all'esame del tampone nasofaringeo, al fine di isolare tutti gli eventuali portatori del virus». I primari, in altri termini, sono preoccupati, perché alle problematiche indicate si sta rispondendo con una strategia organizzativa affidata a due colleghi: il Direttore Sanitario ad interim Angelo Frieri, e il neo Direttore di Anestesia e Rianimazione Maurizio Ferrara, giunto da pochi mesi sul Tricolle. «Allo stato attuale - dicono i primari (tra cui figura anche quello di cardiologia Gennaro Bellizzi, fino a pochi giorni fa direttore di presidio, poi revocato dalla Morgante) - non è dato assolutamente sapere quale possa essere l'assetto presente e tantomeno quello futuro dell'Ospedale e al proposito lascia francamente quantomeno sconcertati l'assenza totale del Direttore Sanitario Aziendale (Elvira Bianco, ndr), mai visto al Frangipane, sia prima che durante l'emergenza Covid-19». Di questo passo il nosocomio rischia non potrebbe mai svolgere la funzione di Dea (dipartimento emergenza e accettazione) di primo livello. Di qui la necessità, da parte dei medici in agitazione, di indicare i punti di intervento: una robusta «iniezione di dispositivi di protezione individuale onnicomprensivi; immediata assunzione di personale medico nella misura di almeno 30 unità; immediata assunzione di almeno 70 fra infermieri ed Oss; individuare per i presìdi ospedalieri Asl un unico Pronto Soccorso, da prevedere al Frangipane, già in possesso, tra l'altro, della tenda della Protezione Civile, con attivazione, all'esterno del presidio di una strumentazione di Tac mobile, dedicata ai pazienti sospetti Covid-19; individuare nel Frangipane il Centro Covid ad alta intensità di cure da destinare oltre che nei locali della Rianimazione e altri locali destinando a tale struttura le attrezzature ad alta tecnologia, con il risultato di avere una disponibilità complessiva non inferiore a 30-35 posti. Inoltre è necessaria una immediata esecuzione dei test di screening del Coronavirus, soprattutto di quelli a risposta rapida, su tutto il personale operante nel Frangipane e sui ricoverati attuali e futuri; un laboratorio attrezzato e la riattivazione di tutti i reparti». Sulla questione interviene anche il deputato di Forza Italia Cosimo Sibilia: «Il grido di allarme dei medici non viene raccolto da chi di competenza. Non è possibile che nell'ospedale di Ariano si lamentino gravi carenze dalla mancanza di dispositivi di protezione al personale. Chi preposto scenda dal Colle e in modo fattivo e nell'immediato dia la giusta attenzione ai problemi sollevati invece di pensare a stravolgere le normali funzionalità della rete assistenziale presente in Irpinia».

GIUSEPPE DEL BELLO per repubblica.it il 27 marzo 2020. I contagi aumentano e servono letti, Covid e non Covid. Per istituirne un numero congruo ieri la Regione ha chiuso un accordo che sarà sottoscritto oggi con i privati convenzionati per tremila posti. Ci saranno anche pazienti in terapia intensiva. Si parte da subito. Con la nota di indirizzo che prescrive una netta separazione tra le strutture: quelle che accoglieranno pazienti affetti da coronavirus non potranno ricoverare soggetti affetti da altre patologie. Un'esigenza che tutela gli un e gli altri, oltre che le cliniche. Mentre si lavora per fronteggiare l'emergenza, però, un vile raid è stato messo a segno l'altra notte al Loreto Mare. Mascherine chirurgiche, tute, camici e anche oggetti personali. Rubati. Di notte, al pian terreno del Covid-Loreto, negli spogliatoi degli infermieri. Un furto imprevedibile, messo a segno mentre il nuovo centro di riferimento sta faticosamente partendo, da balordi probabilmente intenzionati a impadronirsi di materiale specifico anti-Covid-19. Un errore di valutazione, visto che i presìdi di sicurezza sono custoditi in un locale attiguo alla Rianimazione. Sono stati gli stessi infermieri ad accorgersi, durante il cambio turno, degli armadietti scassinati. Indaga la polizia. Pochi danni, tanta rabbia. Ieri nella Rianimazione erano ricoverati otto pazienti, trasferiti da altri ospedali con diagnosi di certezza. All'appello per riempire il reparto mancano ancora due posti letto. Al completo invece il primo piano appena ristrutturato. Accoglie 10 pazienti Covid, in buone condizioni. Le camere, singole o a due letti, sono state riallestite grazie all'impegno di 75 operai che hanno lavorato giorno e notte, trasformando le vecchie corsie del Loreto. Ogni stanza è dotata di un circuito telefonico interno che permette di comunicare con il personale della Medicheria. Dopo l'apertura della Rianimazione e del reparto degenze, ai primi di aprile dovrebbe partire la Terapia subintensiva. Di non facile soluzione invece la carenza di anestesisti: ce ne sono nove, ne occorrerebbero altri sei. Ma identificarli non è facile, nonostante i tentativi di arruolamento della Asl Napoli 1. Sempre ieri, il manager Ciro Verdoliva ha, indirettamente, replicato all'ex assessore alla Sanità Angelo Montemarano intervenuto su Repubblica sulla situazione emergenziale. "Ascalesi, San Gennaro, Incurabili e San Giovanni Bosco - scrive Verdoliva - non sono impiegabili per offrire in tempi utili una risposta alle esigenze di salute dei cittadini minacciati dal virus". Un'osservazione che però non dirime i dubbi, visto che San Gennaro e Ascalesi non ricoverano da tempo, ma svolgono tutt'ora altre funzioni. Senza contare che l'Ascalesi è stato ceduto al Pascale e che quindi non è più pertinenza della Napoli 1. A riguardo, un camice bianco: "Ma se è passato al polo oncologico vuol dire che non era in condizioni disastrose, tanto che c'era già la rianimazione, funzionante fino a due anni fa". Dal Loreto al Cardarelli, dove finalmente sono arrivati i "caschi" per supporto CPap e i ventilatori. A questo punto i presìdi peri pazienti sono disponibili, mentre ancora mancano i dispositivi di protezione individuale e un numero infermieri idoneo a far partire la Palazzina M. Forse entro lunedì. Intanto la Germania ha dato la disponibilità a inviare in Campania un supporto con un team sanitario. Ieri sono stati effettuati 1061 tamponi, 145 dei quali risultati positivi. Il totale in regione è 1454. E non si fermano i decessi: ieri il virus ha stroncato un funzionario economico in servizio negli uffici di via Vespucci della prefettura. Aveva 65 anni, dai primi di marzo non andava al lavoro.

Il governatore contro chi aggira i divieti. De Luca, i lanciafiamme e l’attacco ai giovani: “Voi ai baretti, i vostri genitori in ospedale”. Redazione de il Riformista il 20 Marzo 2020. “Volevano essere lieti e se ne sono andati lietamente negli ospedali e hanno mandato in ospedale lietamente le loro mamme, i loro papà, i loro nonni. Possiamo decidere di vivere allegramente, ma il risultato dopo dieci giorni è questo: se ne vanno all’ospedale“. Non fa sconti a nessuno il presidente della Regione Campania che, in diretta sulla sua pagina Facebook, fa il punto sulle misure prese, e quelle richieste, per arginare la diffusione del Coronavirus. “Voi ricordate quello che è successo una decina di giorni fa? – continua il governatore -. Noi avevamo già avviato la chiusura dei locali, e c’erano i giovani che facevano la movida, allegri, ammucchiati. Magari dopo aver bevuto dallo stesso bicchiere? Tutti allegri,  all’insegna del “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”.  Il riferimento del presidente De Luca è al primo weekend de mese quando, nonostante fossero state emanate le prime disposizioni su locali e distanziamento tra clienti le strade della movida napoletana si riempirono lo stesso di giovani. Nel suo j’accuse il governatore ricorda anche quei giovani, studenti fuorisede, che dopo il primo decreto del governo, hanno deciso di prendere d’assalto i treni verso casa, incuranti del pericolo contagio. “Non hanno avuto il senso di responsabilità di mettersi in auto isolamento e ora stanno producendo i primi effetti. Stiamo arrivando al picco dei contagi”, attacca De Luca. Sempre rivolto ai giovani, il presidente De Luca mette in guardia gli studenti che, in periodo di lauree, stavano pensando di festeggiare il traguardo incuranti dei divieti.”C’e’ una stagione nella quale avremo centinaia di ragazzi che si laureano. Mi arrivano notizie che qualcuno vorrebbe preparare una festa di laurea“, dice il governatore. E aggiunge: “Mandiamo i carabinieri, ma mandiamoli con il lanciafiamme“. Infine, il governatore aggiunge una postilla anche per coloro che ieri, fedeli alla tradizioni, hanno acquistato da ambulanti in strada le zeppole di san Giuseppe. “C’è stata la festa del papà – dice De Luca – e abbiamo avuto a Napoli dei buontemponi che vendevano per strada le zeppole di san Giuseppe, che portavano in omaggio al papà. La zeppola condita  con una bella crema al coronavirus. Una bestialità totale”.

Ciro Pellegrino per napoli.fanpage.it il 20 marzo 2020. Chiudono tutti i cantieri in Campania tranne quelli indispensabili e chiudono le funzioni di 550 comuni del territorio. Lo disporrà il presidente Vincenzo De Luca con due ordinanze che saranno emanate fra poche ore.  De Luca in una diretta Facebook ha spiegato i numeri del contagio in regione proiettando la situazione fino a maggio e annunciando nuove prese di posizione. Attacco duro anche ad alcuni esponenti delle Forze dell'ordine che non avrebbero applicato le disposizioni della Regione Campania: "In una caserma un ufficiale delle forze dell'ordine, non dico quali per carità di patria – spiega De Luca –  ha fatto un ordine di servizio in cui ha detto che "si devono applicare solo le disposizioni emanate a livello nazionale. In pratica e a titolo esemplificativo non sarà denunciato chi  va a correre né si andrà a informare Asl di trasgressioni accertate". Un ufficiale delle Forze Armate si è permesso di fare tutto ciò. Noi lo denunceremo alla Procura. L'ordinanza del Presidente della Regione vale come quella del governo, dal punto di vista sanitario vale di più. Chi non la fa applicare sta vìolando la legge e sta facendo reato di omissione e sta prendendo iniziative volte a eludere indicazione dell'autorità". Primum vivere deinde philosophari: cita Orazio, De Luca , rispondendo a chi giudica anti-costituzionali le ordinanze locali. "Avere un 20% di cittadini in Campania che continua a vivere come se niente fosse equivale ad avere in casa una bomba che può esplodere nel giro di pochi giorni". De Luca ha rivolto un appello "ai miei concittadini della Campania e soprattutto dell'area metropolitana di Napoli: cari amici, potete comportarvi come volete, ma dovete sapere che se continua questo andazzo tra una settimana conteremo i morti e rischiamo di non avere più posti neanche per ospitare i vostri padri e le vostre madri. Arrivano dalla Lombardia immagini drammatiche, provate a immaginare cosa può significare nell'area metropolitana campana imboccare questa discesa verso il contagio incontrollato".

Ettore Mautone per leggo.it il 27 febbraio 2020. Sono tre i casi di positività al coronavirus individuati ieri in Campania in base al test effettuato al Cotugno e ora in attesa di conferma dall’Istituto superiore di Sanità. Il laboratorio del Cotugno, diretto da Luigi Atripaldi fa parte della rete nazionale autorizzata dal Ministero e coordinata a livello centrale dal super laboratorio dell'Istituto superiore di Sanità che è autorizzato a fornire ufficialità ai casi risultati positivi al test nelle varie regioni. Tutti i pazienti campani  sono di rientro dalla Lombardia e sono in buone condizioni di salute. La prima è una donna di 24 anni della provincia di Caserta (Ruviano) e l’altra un tecnico di laboratorio della provincia di Salerno attualmente entrambe ricoverate al Cotugno in isolamento. Il terzo è un professionista che abita nella zona di Piazza Carlo III in quarantena in sorveglianza attiva da parte della Asl Napoli 1. Tutti come detto sono rientrati di recente dalla Lombardia e accusano sintomi sfumati. Ma andiamo con ordine. Il primo caso individuato riguarda una ragazza di 24 anni che si è presentata martedì sera al Cotugno con una congiuntivite e altre alterazioni alle alte vie respiratorie. In ambulatorio il medico del pronto soccorso ha intuito, in base alla ricostruzione degli spostamenti della ragazza (andata in auto a Milano insieme al fidanzato e a un’amica e rientrata dopo pochi giorni) che potesse esserci qualcosa di sospetto. E per questo le ha praticato il tampone. Dopodiché è rientrata a casa con i mezzi propri. Appreso della positività al test tramite un’ambulanza attrezzata del 118 è stata riportata nell’ospedale specializzato per le malattie infettive e ricoverata in isolamento. Le sue condizioni sono buone. Sono in corso esami sui contatti. Anche il fidanzato ha la febbre e sono in corso gli esami. L’altra donna è un tecnico di laboratorio della provincia di Salerno di origini ucraine che lavora a Cremona e tornata nel Cilento a Montano Antilia dove ci sono i suoi familiari, per un periodo di ferie. Dopo aver accusato febbre e faringite si è recata all’ospedale di Vallo della Lucania dove è stata ricoverata in isolamento e richiesto il test al Cotugno risultato poi positivo. E’ stata disposta la quarantena per il personale sanitario venuto in contatto con lei e richiesto il tampone per tutti i contatti stretti. Probabile che alcuni saranno messi in quarantena secondo le direttive del governo che prevede tamponi solo per i casi sospetti che accusano sintomi. La mamma e la figlia della biologa, ricoverate a Battipaglia per controlli, sono risultate entrambe negative al tampone. Il terzo caso, individuato nella tarda serata di ieri, riguarda un professionista napoletano residente nella zona del centro storico e di rientro da Milano. Accusando faringite e decimi di febbre si è recato di sua spontanea volontà e con mezzi propri al Cotugno per controlli. Effettuato il tampone è stato rispedito a casa. Il test è risultato positivo ed è stato pertanto preso in carico dalla Asl e dal dipartimento di prevenzione per una sorveglianza attiva in quarantena che durerà 20 giorni. I sintomi che accusa non sono gravi e dunque si è deciso di non ricoverarlo in ospedale. Per tutti sono attesi in giornata i riscontri dall’Istituto superiore di Sanità.

Da tgcom24.mediaset.it il 23 febbraio 2020. Ha attraversato l’Italia e si è portato dietro un terribile dubbio: il potenziale contagio da coronavirus. Un 27enne residente a Codogno non ha rispettato le direttive del sindaco del Lodigiano ed è tornato a casa dai genitori. La coppia vive a Montefusco, centro abitato in provincia di Avellino.  E adesso la quarantena è scattata per tutta la famiglia. Massimo riserbo sull’identità del giovane e del nucleo familiare ma il sindaco di Montefusco, Gaetano Zaccaria, non ha potuto far altrimenti che blindare l’abitazione della famiglia. Il primo cittadino ha firmato ha firmato un'ordinanza, trasmessa al Prefetto di Avellino e alla Asl, che obbliga giovane e familiari a non uscire di casa e a non avere contatti con altre persone per il periodo di due settimane. L'ordinanza sindacale è stata emessa precauzionalmente per consentire tutte le verifiche del caso. Nel piccolo comune alle porte di Avellino, con un migliaio di abitanti, la notizia del rientro da Codogno del 27enne ha causato profonda preoccupazione. Resta da capire in che modo il giovane abbia fatto ritorno in Irpinia, vale a dire se a bordo di  un’auto, di un treno o di un autobus.

Gianni Colucci per “il Messaggero” il 24 febbraio 2020. Sono tre gli insegnanti di scuola superiore che da Codogno sono «scappati» in provincia di Avellino presso le loro famiglie. Si aggiungono al cameriere che l'altro giorno è tornato a casa a Montefusco, in provincia di Avellino: pure lui lavorava a Codogno, e ora viene attaccato su Facebook dagli «odiatori». Ha preso l'auto ed è partito, appena è scattato l'allarme Coronavirus. Arturo Bonito, amico del giovane e della famiglia, ex presidente del Forum dei Giovani del borgo irpino, spiega: « È già provato per quello che è successo a questo poi, nelle ultime ore, si sono aggiunti commenti sgradevoli e persino minacce esplicite pubblicate su Facebook». Degli altri tre preoccupa la modalità scelta da due fratelli di Lauro che si sono fatti il viaggio in treno. Un ventisettenne di Taurano invece ha viaggiato da solo in auto. Per tutti comunque sono scattate le misure di profilassi che prevedono l'isolamento fiduciario in casa. I parenti che li hanno accolti sono anch'essi in quarantena: complessivamente sono una ventina le persone che sono finite sotto stretta osservazione e dovranno rimanere in isolamento nelle proprie abitazioni. Per nessuna delle persone sottoposte alla profilassi è stato accertato alcun tipo di contagio, nessuno di essi manifesta sintomi. Protagonista della fuga da Codogno è un 27enne di Taurano, insegnante tecnico-pratico presso un Istituto superiore dello stesso paese. Il sindaco di Taurano, Salvatore Maffettone, saputo del suo rientro, ha invitato il giovane a non uscire dalla sua abitazione per quattordici giorni oltre a seguire tutte le disposizioni profilattiche relative all'emergenza Coronavirus. Allo stesso tempo ha informato la Prefettura e l'Asl di Avellino. Con il giovane sotto osservazione i suoi familiari: la madre nonché altri tre parenti stretti e la fidanzata con i suoi genitori, che risiedono a Moschiano. Spediti in quarantena anche due fratelli di Lauro, di 27 e 29 anni, fuggiti da Codogno tre giorni fa. Anche loro sono insegnanti tecnico-pratici in due scuole superiori del Lodigiano. Risiedono da anni a Codogno assieme ai genitori, originari di Lauro: la madre insegna in una scuola primaria del Lodigiano; il padre invece, fa il macellaio a Piacenza dopo aver lavorato alcuni anni presso un macello a Somaglia, vicino Codogno. A differenza del giovane di Taurano, loro hanno preso il treno nel pomeriggio scendendo alla stazione di Napoli Centrale. Ad attenderli in piazza Garibaldi c'erano lo zio e un suo amico. I quattro hanno così preso l'auto facendo ritorno nel Vallo. I due giovani sono stati accompagnati a Casola, frazione di Domicella, per passare la serata con due parenti stretti. Lo zio e l'amico hanno poi deciso chiudere la serata mangiando una pizza a casa. La notizia dell'arrivo dei due fratelli è giunta ieri al sindaco di Lauro, Antonio Bossone, che ha subito contattato i due fratelli invitandoli a chiudersi in casa per quattordici giorni e a seguire tutte le disposizioni profilattiche relative all'emergenza Coronavirus. Il giovane di Montefusco è invece difeso dagli odiatori di Facebook che l'hanno preso di mira: «Non sapeva delle misure adottate, è partito prima che si disponesse il cordone sanitario», dicono. Da oggi saranno sospese nel Vallo di Lauro le manifestazioni programmate per il carnevale, il prefetto di Avellino Paola Spena terrà un comitato ordine e sicurezza pubblica allargato ai manager di Asl e Ospedale. I sindaci del Nolano hanno invitato i cittadini ad osservare alcune regole per «ridurre le possibilità di esposizione al contagio e limitare il raggio di trasmissione di patologie».

Chi sono le due donne contagiate dal coronavirus in Campania. Redazione de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. Sono di due giovani donne campane i tamponi risultati positivi al test del coronavirus e inviati dall’ospedale Cotugno all’Istituto superiore di Sanità a Roma, cui spetta l’ufficialità definitiva (che arriverà, o meno, nella mattinata di domani, giovedì 27 febbraio. A dare l’annuncio, nel corso di una conferenza stampa, dal presidente della regione Vincenzo De Luca: “E’ di pochi minuti fa la notizia che abbiamo inviato dalla Campania a Roma un tampone risultato positivo e di un altro per il quale attendiamo riscontro. Sarà il Ministero, com’è giusto che sia, a dare comunicazione ufficiale”.

CHI SONO – Le due donne, una originaria di Caserta, l’altra residente a Montano Antilia, piccolo comune cilentano in provincia di Salerno, sono rientrate nei giorni scorsi dalla Lombardia. La prima, poco più che ventenne, è rientrata da Milano e si è presentata ieri sera, martedì 25  febbraio, all’ospedale Cotugno di Napoli, esperto in malattie infettive e centro di riferimento regionale per il coronavirus. Il test è risultato positivo ed è stato inviato allo Spallanzani di Roma per la conferma definitiva.

L’altra ragazza, un 25enne di origini ucraine residente nel comune cilentano, è rientrata nei giorni scorsi in Campania da Cremona, città dove lavorava. Da ieri sera è ricoverata all’ospedale San Luca di Vallo della Lucania e in queste ore è in corso il trasferimento al Cotugno dopo l’esito positivo del tampone analizzato dall’ospedale napoletano. “La paziente è in fase di trasferimento al Cotugno di Napoli con un’ambulanza protetta”, ha spiegato all’AGI il direttore sanitario dell’ospedale ‘San Luca’ di Vallo della Lucania, Adriano De Vita, sottolineando che la donna “è in condizioni non critiche”. “Al pronto soccorso – aggiunge De Vita – e’ stata posta in isolamento, ha svolto tutte le indagini in quella stanza, non ha mai lasciato quella stanza”. Intanto, dal presidio ospedaliero vallese è stata fatta la segnalazione al sindaco del piccolo Comune dell’entroterra cilentano e al Dipartimento di prevenzione dell’Asl Salerno. Il primo cittadino di Montano Antilia, Luciano Trivelli, in una diretta social di questa mattina, quando ancora il caso era definito sospetto, ha evidenziato di aver già “posto in quarantena tutto il nucleo familiare che appartiene al soggetto in questione”. Al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli sono state allestite due tende, all’esterno della struttura, per gestire in maniera separata gli eventuali casi di pazienti affetti da coronavirus. “Le tende sono una misura preventiva per evitare che gli altri pazienti contraggano il Covid-19 – spiega Fiorella Paladino, direttore del Pronto Soccorso O.B.I. del Cardarelli – Non sono assolutamente una scelta di emergenza. Siamo operativi con le tende da stamattina ma ancora non abbiamo trattato alcun caso sospetto. Preparati anche per gestire una eventuale emergenza”.

Coronavirus, dalla Campania due casi positivi: sono due donne giunte dal Nord. Si tratta di una 24enne del casertano e di una donna originaria di Vallo della Lucania, i tamponi inviati all'Istituto superiore di Sanità di Roma che farà la comunicazione ufficiale. Il direttore generale dell'Ospedale dei Colli: "Non sono focolai campani". Giuseppe Del Bello il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Coronavirus, due tamponi positivi inviati dalla Campania all'Istituto superiore di Sanità. Si tratta di due donne, una italiana del casertano di 24 anni, senza febbre, già visitata una volta e mandata a casa perchè stava bene ed era asintomatica. L'altra è una ragazza di origini ucraine di 25 anni proveniente da Cremona, arrivata al pronto soccorso di Vallo della Lucania. Entrambe le pazienti dovranno essere trasferite al Cotugno, dove saranno poste in isolamento. L'Isituto superiore di Sanità darà comunicazione ufficiale come da procedura. Le due pazienti sono arrivate dal Nord. La 24enne proveniva da un'area della Lombardia e già ieri si era recata al Cotugno. I sanitari dopo averla visitata, non avendo riscontrato alcun sintomo e in assenza di febbre, le hanno praticato comunque il tampone oro-faringeo, prescrivendole l'auto isolamento ( per 14 giorni) in attesa dei risultati del test. "Al momento la situazione è sotto controllo - spiega il direttore generale dell'Asl di Caserta Ferdinando Russo - in quanto la ragazza, ricoverata al Cotugno, ha solo mal di gola e niente febbre o altri sintomi particolari". La positività ha fatto scattare immediatamente le procedure previste dal protocollo sanitario e sono state rintracciate le persone con cui la 24enne, residente nel capoluogo, è venuta in contatto. Sono stati così sottoposti a controllo i genitori della 24enne, due amici che erano scesi con la ragazza da Milano, entrambi residenti a Ruviano, comune dell'Alto-Casertano; si tratta di un'amica della 24enne e del fidanzato. "In tutto abbiamo sottoposti a controlli sanitari sei persone con cui la ragazza è venuta in contatto" spiega Russo. "Per loro ci sarà la quarantena in casa" conclude. L'altra è una ragazza di origini ucraine di 25 anni proveniente da Cremona, arrivata al pronto soccorso di Vallo della Lucania. E' un tecnico di laboratorio. La donna "è in condizioni non critiche": è rientrata dalla famiglia che risiede a Montano Antilia, nel Salernitano, dalla città lombarda il 15 febbraio scorso e ha iniziato a presentare i primi sintomi cinque giorni dopo. Nella notte si è sentita male accusando uno stato febbrile e si è recata al pronto soccorso locale, dove le è stato effettuato il tampone poi smistato al laboratorio di riferimento del Cotugno. "Al pronto soccorso - spiega il direttore sanitario dell'ospedale 'San Luca' di Vallo della Lucania, Adriano De Vita - è stata posta in isolamento, ha svolto tutte le indagini in quella stanza, non ha mai lasciato quella stanza". Intanto, dal presidio ospedaliero vallese è stata fatta la segnalazione al sindaco del piccolo Comune dell'entroterra cilentano e al Dipartimento di prevenzione dell'Asl Salerno. Il primo cittadino di Montano Antilia, Luciano Trivelli, in una diretta social di questa mattina, quando ancora il caso era definito sospetto, ha evidenziato di aver gia' "posto in quarantena tutto il nucleo familiare che appartiene al soggetto in questione". Il presidente della Regione Vincenzo De Luca è stato tra i primi a dare la notizia dei due tamponi positivi sulla sua pagina Facebook, sottolineando che il tampone è risultato positivo e che da protocollo sarà il Ministero, "com'è giusto che sia, a dare comunicazione ufficiale".

Coronavirus, il direttore generale: "Non sono focolai campani". "Non sono focolai campani, ma da migrazione". Lo ha detto Maurizio Di Mauro, direttore generale dell'Ospedale dei Colli, a Napoli, che comprende anche il Cotugno, centro di riferimento per le malattie infettive "Una delle due pazienti verrà trasferita all'ospedale Cotugno di Napoli - ha affermato - l'altra, la paziente dell'ospedale di Vallo della Lucania, è al momento in isolamento, e non so se sarà trasferita da noi, al momento non abbiamo notizie in questo senso, probabilmente potrebbe essere disposto domani". Le pazienti presentavano sintomi blandi quando si sono recate in ospedale. Le loro condizioni non preoccupano.

Casi di coronavirus, in Campania tende da campo fuori agli ospedali. "Stiamo attrezzando tende all'esterno degli ospedali per il triage dei casi sospetti, attendiamo in settimana la fornitura di 400 mila mascherine protettiva ed acquisteremo una seconda ambulanza attrezzata per il trasporto di pazienti positivi al coronavirus, in aggiunta a quella in dotazione all' Ospedale dei Colli", annuncia Vincenzo De Luca, governatore della Campania. Il presidente della Regione ha voluto "raccomandare i cittadini di non andare al pronto soccorso per motivi inutili".

Coronavirus, a Napoli scuole chiuse fino a sabato per igienizzazione. Scuole chiuse a Napoli fino alla giornata di sabato per effettuare azioni straordinarie di pulizia. "Non c'è da avere paura o panico. Questa massiccia attività di igienizzazione e sanificazione è un modo per alzare ancora di più la sicurezza e la serenità nel nostro territorio", ha spiegato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris.

ABRUZZO.

Il Coronavirus arriva anche in Abruzzo: primo contagiato a Teramo. È un turista della bassa Brianza; intanto la famiglia dell'uomo è in quarantena. Il sindaco sospende le attività didattiche. Luca Sablone, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale.  Il Coronavirus avanza e arriva in Abruzzo. Dopo aver raggiunto le Marche e la Puglia, il Covid-19 è giunto anche nella regione abruzzese: nello specifico un caso è stato registrato a Roseto degli Abruzzi, in provincia di Teramo, dove un uomo residente nella bassa Brianza venerdì era arrivato insieme alla famiglia per trascorrere qualche giorno di vacanza nella loro abitazione di villeggiatura. Il paziente, al presentarsi dei sintomi della malattia, è stato subito ricoverato e sottoposto al primo test che - eseguito a Pescara - ha dato esito positivo. L'uomo intanto è ricoverato nel reparto di malattie infettive dell'ospedale di Teramo: la conferma ufficiale del contagio arriverà solamente in seguito agli esiti del secondo esame che sarà eseguito all'Istituto Spallanzani di Roma. Nel frattempo la famiglia è in quarantena. In accordo con la protezione civile, sono già state messe in atto tutte le procedure previste e la famiglia messa in isolamento. Sabatino Di Girolamo, il sindaco di Roseto, per cautela sta provvedendo alla sospensione delle attività didattiche. Sul profilo Facebook del primo cittadino si legge: "Buongiorno. Debbo purtroppo comunicare che la Asl mi ha appena informato di un caso di paziente positivo al Coronavirus ricoverato in ospedale a Teramo. Per cautela sto disponendo la chiusura delle attività didattiche, in attesa di confrontarmi con l'autorità sanitaria e la Regione". A Napoli pare ci sia un probabile caso di positività al Coronavirus: stando a quanto si apprende da fonti sanitarie, si tratterebbe di una persona del posto. Il tampone è stato inviato a Roma per la controprova e dunque ora si attende l'eventuale conferma da parte dell'istituto superiore di Sanità. Oggi sono attese ulteriori verifiche sui due casi verificatisi nella giornata di ieri in Campania, nel Casertano e nel Salernitano. Ieri in Abruzzo sono stati eseguiti dei test su 12 tamponi relativi a persone provenienti dalle aree a rischio del Nord o dell'estero: tra queste vi erano 5 di Pescara (una delle quali rientrata di recente dalla Thailandia), una di Roseto degli Abruzzi tornata da Piacenza, una della Marsica e una coppia di coniugi di Vo' Euganeo in vacanza. Tutti hanno dato esito negativo.

PUGLIA.

Covid 19, Fitto attacca Emiliano: «Invece di andare in tv spieghi perché in Puglia c'è un triste primato». L'europarlamentare: Bisogna accendere i riflettori su questi numeri per capire da cosa sono determinati, cosa sta accadendo e pretendere delle risposte chiare. La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 Maggio 2020. «Aver rispettato il lockdown in maniera diligente e seria ha fatto la differenza tra le regioni del Sud e quelle del Nord. Ma ora che ci apprestiamo a vivere la Fase 2 non possiamo cullarci anche per l’allarme lanciato da molti esperti su una possibile ricaduta autunnale. Per questo è fondamentale, proprio ora, analizzare i dati per capire e porsi alcune domande e pretendere delle risposte». Lo afferma l'europarlamentare Raffaele Fitto, co-presidente del gruppo Ecr-Fratelli d’Italia.

«Stando ai dati ufficiali - prosegue - la Puglia è l’ultima regione in Italia per guariti (17,83%); è la penultima regione in Italia per tamponi effettuati 1,59 ogni 100 abitanti (peggio di noi solo la Campania 1,73); è la penultima regione in Italia per il rischio contagio con valore 0,78 (ultimo il Molise 0,84). Nei giorni scorsi avevo anche lanciato l’allarme su altri numeri, quelli sulla mortalità sia grezza sia specifica e in questi giorni è andata anche peggio: in Puglia si muore di più che nelle altre regioni del Sud, delle isole, del Lazio e dell’Umbria, vale a dire 1 pugliese ogni 10.000 abitanti (mortalità grezza) e 10,23 decessi ogni 100 casi positivi (mortalità specifica). Peraltro oggi è squillato un campanello d’allarme: ad un numero notevolmente inferiore di tamponi (quasi la metà rispetto a ieri) corrisponde un numero di casi positivi superiore!». «Senza fare terrorismo - sottolinea Fitto - perché non è questo il mio intento, bisogna accendere i riflettori su questi numeri per capire da cosa sono determinati, cosa sta accadendo e pretendere delle risposte chiare. Lunedì prossimo, 4 maggio, per quanto discutibile nelle modalità, si ripartirà ed è necessario ed urgente dare delle risposte a questi numeri. Emiliano piuttosto che imperversare, spesso anche commuovendosi, in tutte le tv a spiegare le sue spesso inutili e confuse ordinanze - che da giorni stanno creando scompiglio tra i sindaci pugliesi e ilarità su alcuni questioni - si preoccupi di spiegare perché in Puglia abbiamo questi dati così allarmanti». «Giorni fa - aggiunge - il professore Lopalco su twitter mi rispose che fare tamponi a tutti gli operatori sanitari non era la stessa cosa che farli ai turisti che venivano in Puglia, la differenza me l’avrebbe spiegata non con un tweet&amp;#8230; sono ancora in attesa, spero che prima o poi trovi il tempo, tra le tante trasmissioni televisive alle quali partecipa, di rispondere anche alle domande di oggi». «Mi appello, infine, anche agli organi di informazione - continua Fitto - perché aprano, anche con il coinvolgimento di tutto il mondo scientifico pugliese (spesso inspiegabilmente tenuto ai margini) un dibattito: i numeri (non miei, ma diramati ufficialmente e quotidianamente dalla Regione Puglia) in questo caso non sono opinioni o strategie politiche o polemiche strumentali ma sono fatti oggettivi probabilmente leggermente più importanti ed urgenti della discussione su chi può andare a pescare, tre giorni prima di quanto già stabilito, e cosa può pescare».

Lopalco contro Fitto: «Replico punto per punto: in Puglia intere province appena sfiorate dal virus». Le risposte del capo della task force anti Covid pugliese all'europarlamentare. La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 Maggio 2020. Il prof. Pier Luigi Lopalco, a capo della task force regionale anti-Covid replica punto per punto alle affermazioni odierne dell'onorevole Raffaele Fitto che definisce la Puglia una regione con un triste primato a livello nazionale per quanto riguarda l'emergenza Coronavirus. Nella nota Lopalco elenca punto per punto le questioni facendole seguire dalla sua replica:

1) Stando ai dati ufficiali, la Puglia è l’ultima regione in Italia per guariti (17,83%); è la penultima regione in Italia per tamponi effettuati 1,59 ogni 100 abitanti (peggio di noi solo la Campania 1,73). «Innanzitutto - scrive Lopalco - il numero di tamponi effettuati è proporzionale alla diffusione della malattia. Ci sono intere province in Puglia che sono state appena sfiorate dal virus. Questo dato preso da solo non hanno valore. Anzi, in relazione ai risultati ottenuti, l’aver fatto un numero adeguato di tamponi è segno di efficacia del sistema della prevenzione. In Puglia il contact-tracing funziona molto bene e non è necessario fare tamponi a tappeto. Grazie ad un uso mirato della diagnostica in Puglia ben il 43% dei casi individuati sono ASINTOMATICI ed il 21% PAUCISINTOMATICI. Automaticamente il numero di guariti sembra artificialmente basso, poiché il dato viene registrato sistematicamente per coloro che hanno sintomi, ma lo stesso non avviene certo per gli asintomatici (per i quali, ovviamente, non ci sarà guarigione clinica non avendo proprio sintomi). Pertanto sul 43% dei casi asintomatici, nella piattaforma informatica non sono ancora riportati tutti i dati del doppio tampone negativo che certifica la guarigione di questi casi».

2) È la PENULTIMA REGIONE in Italia per il rischio contagio con valore 0,78 (ultimo il Molise 0,84). «Il fatto che il Molise (la regione meno colpita d’Italia) stia dietro la Puglia - afferma Lopalco - è sintomatico del fatto che questo valore (Rt) preso da solo non ha senso. La scorsa settimana il valore Rt della Sardegna era superiore a quello della Lombardia. Nell’ultima settimana solo 198 pugliesi si sono infettati, appena 5 su 100.000 abitanti. Il trend della curva Pugliese è decisamente in discesa dal 11 aprile».

3) Nei giorni scorsi avevo anche lanciato l’allarme su altri numeri, quelli sulla mortalità sia grezza sia specifica e in questi giorni è andata anche peggio: in Puglia si muore di più che nelle altre regioni del SUD, delle ISOLE, del Lazio e dell’Umbria, vale a dire 1 pugliese ogni 10.000 abitanti (mortalità grezza) e 10,23 decessi ogni 100 casi positivi (mortalità specifica). "I dati di mortalità grezza - risponde Lopalco - non sono confrontabili fra regione e regione. Se si va a valutare il tasso di letalità in ogni fascia di età (numero di morti su numero di casi) si osserva che è ben più basso della media nazionale. La mortalità grezza va quindi standardizzata quando si fanno confronti fra regioni. Inoltre il paragone può essere falsato avendo ciascuna regione sistemi diversi di ricerca dei casi, di diagnostica e di data di inizio epidemia. Il dato andrà valutato ad epidemia conclusa. Quello che possiamo vedere chiaramente è che la proporzione di ricoverati è decisamente più bassa della media nazionale e anche della maggior parte delle regioni meridionali, noi siamo dietro Basilicata, Sicilia, Campania ed Abruzzo».

4) Peraltro oggi è squillato un campanello d’allarme: ad un numero notevolmente inferiore di tamponi (quasi la metà rispetto a ieri) corrisponde un numero di casi positivi superiore! "I campanelli di allarme - conclude Lopalco - suonano osservando ben altri indicatori, di certo non la fluttuazione giornaliera di un singolo giorno che è assolutamente fisiologica in un sistema di sorveglianza di questo tipo».

Covid 19, Regione Puglia ferma gli ospedali: «Non fate tamponi a tappeto». La circolare. Stop a Policlinico e Bat: inutile fare troppi test sul personale. Massimiliano Scagliarini il 21 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «La esecuzione sistematica di tamponi agli operatori sanitari asintomatici, senza evidenza di esposizione al contagio, non aumenta i livelli di sicurezza per gli operatori sanitari e non contribuisce in nessuna misura al controllo dell’epidemia». Traduzione: le campagne di tamponi a tappeto in corso in alcuni ospedali sono state avviate «in modo difforme» dalle linee guida ministeriali e devono essere fermate, anche perché «la capacità diagnostica della rete dei laboratori regionali non è illimitata e deve soddisfare esclusivamente le esigenze del sistema di sorveglianza epidemiologica». È durissima la circolare diramata ieri dalla Regione: «L’esecuzione di test al di fuori degli schemi di prescrizione appropriata - scrivono il capo dipartimento Vito Montanaro e l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco - pone dunque un serio problema di sicurezza per la salute pubblica nella gestione dell’epidemia in quanto distrae preziose risorse diagnostiche». La lettera è stata inviata a tutti i direttori generali, ma nel mirino sono il Policlinico di Bari e la Asl Bat. L’ospedale universitario ha infatti avviato una vera e propria campagna di tamponi a tappeto sul proprio personale sanitario che prevede anche la ripetizione del test ogni 7-15 giorni nonostante il «no» esplicito della Regione. La Bat sta effettuando tamponi in tutte le residenze sanitarie, anche agli asintomatici. Il problema è duplice: da un lato - dice Lopalco - il tampone fatto senza rispettare i criteri epidemiologici (la presenza dei sintomi, o il contatto con un caso positivo) non serve ed è uno spreco di risorse, dall’altro la enorme quantità di tamponi al personale sanitario del Policlinico sta creando problemi a Bari perché riduce la capacità del sistema dei laboratori (c’è solo quello del Di Venere a reggere l’intero carico). Proprio questo enorme numero di tamponi sul personale sanitario del Policlinico spiegherebbe il picco di test registrato in Puglia negli ultimi due giorni. La circolare di ieri è anche una risposta indiretta al presidente della Fnomceo, Filippo Anelli, che ancora ieri è tornato a chiedere alla Regione «tamponi di routine eseguiti ogni settimana su tutti gli operatori sanitari per tutelare loro e gli stessi pazienti». Non servono, secondo Lopalco, che nella circolare ricorda come «il test diagnostico per covid-19 deve rispondere a criteri di appropriatezza prescrittiva». E se se ne fanno troppi senza motivo, si potrebbero generare «pericolosi ritardi nel controllo dei focolai epidemici» perché i tamponi effettuati seguendo i criteri rischiano di finire in coda. Per questo la Regione ha richiamato i direttori generali a rispettare «pedissequamente» le linee guida ministeriali e quelle messe a punto in sede pugliese il 4 aprile scorso. La circolare aprirà ovviamente una feroce polemica. Ma da giorni il personale ospedaliero non barese è in fermento, non comprendendo perché solo il Policlinico stia testando i dipendenti a tappeto. A questo si somma il disorientamento del cittadino comune, che spesso deve attendere anche più di un giorno per ottenere il risultato del test. Non significa, naturalmente, che non vada garantita la sicurezza dei medici. Ma secondo Lopalco «il tampone non è un buon test di screening e utilizzarlo a questo scopo andrebbe contro ogni logica scientifica. Il tampone negativo ha un significato solo transitorio, l’operatore potrebbe positivizzarsi dopo poche ore: per questo tamponi di massa o sistematici agli operatori sanitari non sono solo inutili ma anche dannosi».

Bari, tamponi al personale del Policlinico, insorge l’università di Medicina: «Devono proseguire». In risposta alla Regione Puglia che di fatto sospendeva l'attività di analisi massiccia sugli operatori sanitari. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2020. Tamponi a tappeto al personale del Policlinico di Bari, sì o no? Dopo la nota della Regione Puglia che di fatto sospendeva le attività, interviene ora l'Università con una nota a firma, tra gli altri, del Presidente della Scuola di Medicina Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Prof. Loreto Gesualdo, del Consigliere del Magnifico Rettore per la Sanità, Prof. Angelo Vacca, e dei direttori di Dipartimento. Nella nota viene evidenziata l'utilità del tampone nella diagnosi del Covid-19, e si invita a proseguire con l'analisi: «I dati più recenti forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, relativi alla diffusione dell’infezione in Italia, mostrano che attualmente, tra i casi totali di COVID-19, il numero di operatori sanitari affetti è circa l’11% del totale. A tal proposito, la Occupational Safety and Health Act (OSHA) nel Documento “Guidance on Preparing Workplaces for COVID-19” del marzo 2020, ha realizzato una piramide del rischio professionale, che suddivide i lavoratori in differenti livelli di rischio, a seconda del grado di esposizione. Tale classificazione, elaborata al fine di fornire un valido supporto ai datori di lavoro affinché adottino opportune precauzioni, vede ai vertici della piramide gli operatori sanitari, inquadrati come lavoratori a rischio molto elevato». «Dalle prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2 non è mai stata esclusa la possibilità di trasmissione del virus da soggetti asintomatici. Recenti studi epidemiologici condotti in 375 città cinesi, tra il 10 gennaio e il 23 gennaio 2020, mostrano che circa l’86% dei casi era “non documentato”, ovvero asintomatico o paucisintomatico e si è ipotizzato che tali “positivi invisibili” siano stati verosimilmente responsabili di circa l’80% di ulteriori contagi. Situazione analoga è quella verificatasi nel Comune di Vo’, in Veneto, ove il totale della popolazione è stato sottoposto ad accertamenti diagnostici con test molecolari, con stime parziali che rivelano come la percentuale dei positivi asintomatici si aggiri intorno al 50 % del totale dei positivi. Nella fattispecie, il “caso Vo’ ” mostra come l’attuazione di screening di massa abbia, non solo consentito di porre le basi per una serie di studi di prevalenza, ma allo stesso tempo si sia rivelata estremamente utile, in combinazione con un efficace contact tracing, ai fini dell’interruzione della catena di contagio». Con queste premesse - continua la nota - si è ritenuto indispensabile pianificare un monitoraggio periodico di tutti gli operatori sanitari mediante esecuzione del tampone finalizzato al contenimento della diffusione del SARS-CoV-2 all’interno dell’Azienda: «È doveroso evidenziare che tutte le procedure adottate rispondono a quanto previsto dalla normativa vigente (D. L. 81/2008 o “Testo unico in materia della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” e sue s.m.i.), che relativamente al rischio biologico (Titolo X) stabilisce, tra l’altro, che il datore di lavoro, in collaborazione con il Medico Competente, è tenuto ad attuare, ai sensi dell’art. 272 del medesimo Decreto “misure tecniche organizzative e procedurali, per evitare ogni esposizione degli stessi ad agenti biologici”; nel caso specifico si fa riferimento agli operatori sanitari ed all’obbligo di sottoporli ai più appropriati accertamenti diagnostici, che rientrano a pieno titolo nel protocollo di sorveglianza sanitaria da adottarsi». «Si ritiene, pertanto, che la procedura adottata dall’AOUC Policlinico di Bari sugli operatori sanitari debba proseguire al fine del raggiungimento degli obiettivi. Inoltre, lo screening degli operatori sanitari, oltre a tutelare gli stessi, rappresenta una forma di garanzia a tutela della salute di tutti i pazienti, soprattutto i più fragili che sono esposti alle gravi conseguenze dell’infezione. Si rimarca, infine, come questa attività di monitoraggio e screening sugli operatori sanitari non debba, ovviamente, condizionare il regolare accertamento diagnostico sui tutti i soggetti con sintomatologia suggestiva di infezione da SARS-CoV-2. L’auspicio è che, come in altre realtà europee, si possa incrementare la capacità di esecuzione dei test molecolari sui tamponi al fine di contribuire all’ulteriore contenimento della diffusione del virus nella popolazione». La nota porta le firme del Presidente della Scuola di Medicina Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Prof. Loreto Gesualdo, del Direttore del Dipartimento Interdisciplinare di Medicina, Prof. Carlo Sabbà, del Direttore del Dipartimento dell’emergenza e dei trapianti di organi, Prof. Francesco Giorgino, del Direttore del Dipartimento scienze biomediche e oncologia umana, Prof.ssa Maria Rosaria Carratù, del Direttore del Dipartimento scienze mediche di base, neuroscienze e organi di senso, Prof. Alessandro Bertolino, del Consigliere del Magnifico Rettore per la Sanità, Prof. Angelo Vacca, del Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato di Emergenza Urgenza, Prof. Gianfranco Favia, del Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato di Neuroscienze, Organi di Senso e Apparato Locomotore, Prof. Nicola Quaranta, del Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato di Cardio-Toraco-Vascolare, Prof. Onofrio Resta, del Direttore del Dipartimento Interaziendale Trapianto Rene, Prof. Michele Battaglia, del Direttore U.O.C. Igiene, Prof. Michele Quarto, del Direttore U.O.C. Medicina del Lavoro Universitaria, Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro, Prof. Luigi Vimercati, del Responsabile del Laboratorio di Biologia Molecolare U.O.C. Igiene, Prof.ssa Maria Chironna, del Direttore del Dipartimento Interaziendale di Oncologia del Barese, Prof. Antonio Moschetta, del Direttore Unità di Gestione del Rischio Clinico, Prof. Alessandro Dell’Erba.

ORDINE MEDICI: «TAMPONI NECESSARI» - «La sicurezza degli operatori sanitari è a un livello di tale criticità che anche la Scuola di Medicina dell’Università di Bari è dovuta scendere in campo per ribadire l’utilità dei tamponi per arginare l’epidemia da Covid-19": commenta così Filippo Anelli, presidente dell’Ordine dei medici di Bari, la lettera inviata da 15 professori della facoltà di Medicina di Bari alla Regione per replicare alla disposizione del professore Pierluigi Lopalco, coordinatore scientifico della task force, che ha sospeso i tamponi sugli operatori sanitari di Policlinico e ospedali Bat. 

Puglia, con i tamponi a tappeto al Policlinico trovati 3 positivi su 2mila test. Il dg dell'azienda ospedaliera: l'ospedale è «pulito». L'obiettivo è seguire le indicazioni della Regione: no a screening generalizzati. E Bari avvia i test sierologici. Massimiliano Scagliarini il 25 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Difficilmente la Puglia potrà arrivare ad analizzare i 5mila tamponi al giorno indicati qualche giorno fa dal presidente Michele Emiliano. I 2.000-2.200 esami attuali potranno essere incrementati ancora di un 10-15% dall’attuale rete di laboratori, e l’attivazione delle macchine Poct (che effettuano l’analisi in 45-70 minuti) potrebbe garantire altri 1.000-1.500 tamponi. I laboratori privati - ha spiegato ieri il capo dipartimento Vito Montanaro nel corso dell’audizione in commissione Salute - hanno invece finora dato disponibilità solo per piccole quote. Anche per questo la Regione è intenzionata a mantenere la barra dritta sull’indicazione arrivata lunedì dall’epidemiologo Pier Luigi Lopalco: non si devono fare tamponi a tappeto nelle strutture sanitarie in mancanza di sospetti o di situazioni di rischio. Non a caso le Asl pugliesi (ha iniziato ieri Bari, sta per partire Lecce) faranno gli screening attraverso i test sierologici (quelli sul sangue), così come previsto dalle linee guida del ministero della Salute: se la ricerca degli anticorpi darà esito positivo, si procederà poi con il tampone per ottenere la conferma. Sulla questione dei tamponi a tappeto (meglio: dei tamponi periodici) è in corso uno scontro tra la Regione e i medici universitari del Policlinico di Bari, che chiedono di «continuare» lo studio scientifico iniziato il 2 aprile. Lo studio prevede di effettuare il test sierologico su tutti gli operatori sanitari in parallelo al tampone ed ha l’obiettivo di valutare l’affidabilità degli esami rapidi sul campione di sangue e si esaurirà nei primi giorni di maggio: andare avanti ulteriormente (e ripetere il tampone) secondo Lopalco e le linee guida ministeriali è contrario alle evidenze scientifiche e oltretutto potrebbe ingenerare una falsa sensazione di sicurezza. I primi esiti del monitoraggio a tappeto del Policlinico parlano di tre casi di positività su quasi 2mila tamponi. Nella Bat (dove sono stati effettuati tamponi a tappeto nelle strutture aziendali) nessun caso su 400 tamponi. Dal punto di vista del Policlinico questo è un ottimo risultato perché conferma la sicurezza dell’ospedale. «Lo scopo del test - spiega il professor Silvio Tafuri, responsabile della control room covid del Policlinico - è validare i test rapidi attraverso una verifica sul nostro personale. Sono state messe in atto procedure, è stata fatta formazione e sono stati creati percorsi per separare l’attività covid: volevamo capire se il Policlinico rimaneva un ospedale “pulito” dal virus. Nell’arco di un periodo di tempo assolutamente limitato abbiamo dimostrato che la risposta è positiva. Abbiamo trovato casi covid incidentali in ambienti a elevato rischio, spegnendo così potenziali rischi: queste persone infatti non hanno contagiato nessuno. Ed è questa sicurezza che permette qui di continuare a fare trapianti di rene e di fegato nonostante si tratti di un ospedale covid». Un successo anche secondo il direttore generale Giovanni Migliore: «I risultati dello studio - dice - finora sono esattamente quelli che ci aspettavamo e siamo molto soddisfatti, anche per aver messo su in proco tempo una control room che fa sorveglianza. Lo studio? La lettera dei è di alcuni docenti universitari e non del Policlinico. Nessuno ha chiesto di fare tamponi ripetuti sul personale. La direzione ha chiesto indicazioni alla Regione, da cui ci è stato risposto che si poteva andare avanti con lo studio che era stato condiviso». La Regione teme tuttavia che troppi tamponi fatti al di fuori delle linee guida possano mettere in crisi il sistema dei laboratori che si regge proprio (si veda il grafico in alto) su Policlinico e Di Venere. Da mercoledì è partito anche l’Ipz di Putignano, che potrà aumentare le quantità una volta risolto il problema dell’approvvigionamento dei reagenti. Sui laboratori del barese pesano anche i pazienti di Brindisi, mentre l’Ipz di Foggia processa una parte dei tamponi provenienti dal Salento.

Buste di plastica al posto dei calzari, così assistiamo i pazienti Covid. In Puglia i dispositivi per gli equipaggi del 118 sono composti da tute non idonee, mascherine senza filtro e calzari fai da te. Roberta Grima, Martedì 21/04/2020 su Il Giornale. Buste di plastica ai piedi al posto dei calzari e tute da imbianchino. Così gli equipaggi del 118 del Salento soccorrono i pazienti Covid o sospetti tali. Da diversi giorni oramai medici, infermieri, soccorritori si arrangiano come possono, perché i dispositivi di protezione che servono per evitare un'eventuale contaminazione, non arrivano o non sono idonei. "È strano che l'Asl non abbia i calzari da distribuire, forse è più facile pensare che ci sia stato un errore nell'ordinarli, come accaduto per le tute anche queste non idonee", ci dice un medico. Si tratta di tute acquistate da una ditta cinese, probabilmente quelle che il presidente Michele Emiliano ha voluto comprare in 120 mila pezzi, ma che sulle confezioni riportano in inglese la seguente avvertenza: "È severamente vietato impiegare la tuta in ambienti posti a rigorosi controlli dell'indice microbiologico e isolati dal reparto di sorveglianza delle malattie gravi". In sostanza non sono tute da utilizzare per proteggersi da contaminazione biologica. Eppure gli operatori sanitari del 118 sono i primi ad essere esposti al rischio contagio, sono loro che intervengono a casa delle persone positive e in alcuni casi sono i primi ad eseguire manovre di primo soccorso che a volte comportano la produzione di areosol, come la ventilazione. Basta anche solo allacciarsi le scarpe per portare le goccioline di saliva (il cosiddetto droplets) che possono depositarsi sulle calzature, verso il viso e quindi le vie aeree e il rischio contagio é altissimo. Ecco perché è importante avere dei calzari idonei, oltre naturalmente a tute protettive verso la contaminazione biologica o camici idrorepellenti, visiere e cuffiette. Gli uomini del 118 salentino però, raccontano un'altra realtà: "Da diversi giorni - dichiara un medico - i calzari che arrivano sono inadatti, i primi si strappavano al minimo movimento, gli ultimi sono simili a quelli impiegati nelle piscine e ricoprono soltanto le suole , non l'intera scarpa". Così molti di loro hanno escogitato la protezione con buste di plastica. "Io cerco di usare i bustoni neri per la spazzatura - spiega il medico - perché sono più doppi e non si rompono". "Ci aspettavamo - continua l'operatore sanitario - che il nostro responsabile di centrale, il dottor Scardia, prendesse una posizione a nostra tutela scrivendo alla direzione dell'Asl. Invece chiede a noi lavoratori di scrivere una relazione per poi girarla ai vertici dell'azienda sanitaria, ma lui sa benissimo cosa ci consegna prima di lasciarci nelle nostre postazioni". Quanto alle tute cinesi, una decina di giorni fa l'ordine dei medici di Bari, per voce del presidente Filippo Anelli, ha invitato i direttori delle Asl pugliesi, a sospendere la distribuzione visto che i dispositivi non sarebbero in uso soltanto nel 118 salentino, ma anche nei reparti Covid dei vari ospedali della Puglia. Anelli. presidente della federazione nazionale degli ordini dei medici, ha ripreso la segnalazione fatta precedentemente da Saverio Andreula, presidente dell'ordine delle professioni infermieristiche di Bari che per primo ha reso noto l'inadeguatezza delle tute cinesi distribuite alle strutture del sistema sanitario pugliese, che sarebbero adatte invece alla sola protezione meccanica. In una circolare inviata il 9 aprile al presidente Michele Emiliano e al Dipartimento Regionale Salute, a firma del medico del lavoro Donato Sivo, coordinatore del sistema regionale di gestione integrata della sicurezza sul lavoro, viene evidenziato che "le tute di protezione sono state certificate secondo gli standard in vigore nella Repubblica Popolare Cinese". Tali standard sono sovrapponibili a quelli in vigore in Italia" e "si sono rilevati adeguati al contenimento dell'epidemia". Nel documento viene sottolineato che vista "l'assoluta indisponibilità di tute protettive della categoria 4 per rischio biologico certificate secondo gli standard europei", l'utilizzo degli indumenti protettivi acquistati e arrivati dalla Cina, "non può che ridurre i rischi". Come dire meglio queste che niente.

Puglia, si ammalano più giovani e muoiono più anziani. Ma per 30enni e 40enni letalità superiore a media nazionale. Infezioni tra bambini, adolescenti, giovani e over 40 superiori al dato di tutta la Penisola. La nostra regione ha una media di età di contagio di 4 anni inferiore a quella italiana. Finora 15 vittime sotto i 60 anni: 9 hanno meno di 50 anni. Nicola Pepe il 5 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Due contagiati su 3 hanno meno di 70 anni, mentre due morti su 3 hanno più di 70 anni. Si ammalano molto di più i «giovani, muoiono sempre di più gli anziani. Ma le vittime 30enni e 40enni, purtroppo, muoiono di più che nel resto d'Italia. E' questa la fotografia che emerge dall'ultimo bollettino regionale sul Coronavirus che in Puglia ha contagiato - dati ufficiali alla mano - 2.317 persone. Il report statistico della Regione accorpa gli infetti per 4 fasce di età: 0-18 anni, 19-50 anni, 51-70 anni e over 70 anni mentre per i decessi segue la classificazione completa che va per classi di età (di 10 anni alla volta) da o a 90 anni. Per avere qualche dettaglio in più bisogna andare al report della «sorveglianza integrata» pubblicato dall'Istituto superiore di sanità cui confluiscono i dati della Regionale Puglia. I due aggiornamenti viaggiano a velocità differenti, nel senso che l'ultimo - quello dell'Iss - è un po' più in ritardo rispetto al report regionale.

IN PUGLIA SI AMMALANO PIU' GIOVANI. L'età media dei contagiati pugliesi è di 58 anni, rispetto ai 62 anni del dato complessivo nazionale. Il dato Iss (pubblicato il 3 aprile e relativo a un campione di 2.077 casi pugliesi che mette a fuoco la situazione al 2 aprile), fa emergere come nel tacco d'Italia, a infettarsi non sono solo gli adulti. Analizzando i dati (i 2.077), si scopre che 21 casi riguardano bambini fino a 9 anni, altro 34 fino a 19 anni, 117 nella fascia superiore tra 20 e 29 anni, per passare ai 195 tra 30 e 39 anni, ai 298 in quella che arriva sotto i 50 anni, fino ad arrivare al range che registra il maggior numero di contagi (445) quello compreso tra 50 e 59 anni (21,4%). Seguono 353 tra le persone di età compresa tra 60 e 69 anni, 271 in quella successiva 70-79 anni, per finire con i 260 casi nella fascia di età 80-89 anni e i 78 ultra 90enni. In Puglia, però, i dati dei contagi nelle fasce più giovani sono superiori a quelle nazionali. Come si evince nella tabella sotto riportata (fonte Iss), se si confronta con quella della Regione Puglia (sopra) si nota come la nostra regione sia al di sopra del dato italiano: l'1% contro lo 0,7 nazionale per i bimbi; l'1,6% contro lo 0,9% italiano per la fascia di adolescenti 10-19 anni; il 5,6% contro il 4,3% per il range tra 20 e 29 anni; il 9,4% pugliese contro il 7% italiano nel range 30-39 anni; il 14,3% contro il 12,9 per i 40-49enni; il 21,4% contro il 19,7 nazionale per i 50-59enni. Nessuna differenza per la fascia 60-69 anni (17% a livello regionale e nazionale), mentre crescendo con l'età la forchetta si allarga con un trend differente: nel range 70-79 anni il dato nazionale è del 18,1% mentre in Puglia è il 13%; idem nella fascia 80-89 anni: in Puglia è il 12,5% a livello nazionale il 15,3%; nella fascia over 90 il dato è molto vicino (3,8 in Puglia contro il 4,1% italiano).

LA DISTRIBUZIONE PER ETA' A LIVELLO NAZIONALE. Dunque se un contagiato su 5 si colloca nella fascia tra i 50 e i 59 anni, discorso a parte meritano i decessi. A livello nazionale circa l'83% ha più di 70 anni  e l'indice di letalità è pari al 12%. In Puglia, invece, la fascia di decessi over 70 registra un trend percentuale un tantino più basso intorno al 76% con un indice di letalità meno elevato (circa l'8%) che al contrario aumenta invece per fasce di età non anziane. A condizionare tali dati sono appunto i decessi delle persone più «giovani» a causa di una letalità che è di gran lunga superiore alla media nazionale.

LETALITA' 30ENNI E 40 ANNI SUPERIORE AL DATO ITALIANO. Vediamo nello specifico. In Puglia non si registrano vittime di età inferiore ai 30 anni. Prendendo in considerazione i dati delle vittime di età compresa tra 30-39 anni e 40-49 anni, e paragonandoli con quelli nazionali della sorveglianza integrata Iss (aggiornamento al 5 aprile) riscontriamo valori percentuali più alti. Cominciamo col dire che delle 182 vittime, in Puglia 15 hanno meno di 60 anni (come da tabella sopra riportata): di queste 9 hanno una età compresa tra 30 e 39 anni (5 casi) e 40-49 anni (4 casi). Rispetto allo 0,4% di letalità registrato a livello nazionale nella fascia 30-49 anni e dello 0,8% in quella successiva 40-49 anni, in Puglia la situazione è del 2,3% per la fascia più giovane e dell'1,2% per quella tra 40-49 anni. Quest'ultima si avvicina a quella nazionale (lo scostamento è di scarso mezzo punto) mentre per la fascia dei trentenni il dato va molto al di sopra attestandosi appunto al 2,3% rispetto allo 0,4 nazionale.

DATI ISS AL 5 APRILE - DECESSI PER FASCIA DI ETA'. «Al 2 aprile - scrive l'Iss - sono 145 dei 12.550 (1,2%) i pazienti deceduti COVID-19 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 35 di questi avevano meno di 40 ed erano 26 persone di sesso maschile e 9 di sesso femminile con età compresa tra i 24 ed i 39 anni). Di 14 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche, gli altri 18 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e in 3 non sono state diagnosticate patologie di rilievo». In Puglia, l'incidenza cumulativa per 100mila abitanti si colloca in un range medio a livello nazionale. La regione, infatti, registra un tasso pari al 2% che corrisponde a 55 casi per 100mila abitanti. Tale proiezione ha consentito alla Regione di tarare il suo Piano sanitario di emergenza inizialmente su mille posti letto (la metà della platea di infettati da ospedalizzare) e successivamente con una integrazione basata su un numero di contagi pari a 3.500 casi in previsione di un picco lungo. Tuttavia i dati di questi ultimi giorni sembrano far sperare in una inversione di tendenza. Ma per raggiungere il traguardo è necessario continuare a mantenere alta la guardia e conservare le misure di distanziamento sociale.

Cresce la task force Coronavirus in Puglia: da Bologna arriva il prof. Ranieri. Si tratta dell'ideatore del ventilatore che supporta la respirazione artificiale di due pazienti contemporaneamente. Redazione Bologna Today il 22 marzo 2020. Il professor Marco Ranieri, barese attualmente in forza all'Università Alma Mater di Bologna, oggi, 22 marzo, inzia la collaborazione con la Regione Puglia, "rafforzando la nostra squadra per affrontare l'emergenza Covid-19 - ricorda il presidente Emiliano - con il compito di coordinare e integrare la rete delle terapie intensive". Lo riferisce Bari Today.  Ranieri è anche un innovatore: è stato lui a ideare un ventilatore che supporta la respirazione artificiale di due pazienti contemporaneamente. Un'esperienza fondamentale, come ricorda il Michele Emiliano, che già era attivo per fronteggiare il Covid-19 in Emilia Romagna e che ora potrà anticipare le mosse che devono essere compiute sul territorio. L’incarico è stato affidato a Ranieri nell’ambito di un più ampio accordo di collaborazione tra Regione Puglia e Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell'Alma Mater Studiorum. In particolare sono tre le funzioni previste dall'accordo: 1) organizzazione di una rete regionale delle terapie intensive e implementazione dei modelli gestionali; 2) integrazione della rete delle terapie intensive con le medicine d’urgenza e le pneumologie delle Regione al fine di integrare l’attività ad alta intensità di cura (le terapie intensive) con l’attività a media intensità di cura (medicine d’urgenza e le pneumologie) strutturando dal punto di visto organizzativo e strutturale la continuità assistenziale tra prevenzione (medicina d’urgenza) - cura (terapia intensiva) e svezzamento (pneumologia) dei malati con insufficienza respiratoria acuta da COVID e 3) condivisione di protocolli attuativi di ricerche condotte dal DIMEC in modelli organizzativi e clinici da implementare nel sistema regionale e condividere tra i diversi operatori.

Chi è Marco Ranieri. Marco Ranieri è nato a Bari a luglio del 1959 dove si è laureato in Medicina e Chirurgia e si è specializzato in anestesia e Rianimazione. Dopo un lungo periodo alla McGill University di Montreal e alla University of Toronto (CANADA) ha cominciato la sua carriera come Ricercatore dell’Università di Bari e medico del centro di rianimazione del Policlinico di Bari. Ordinario dal 2002, ha diretto i dipartimenti di anestesia e rianimazione degli ospedali Molinette (Università di Torino) e Policlinico UMBERTO I (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 è Prof. Ordinario dell’Alma Mater di Bologna e dirige la terapia intensiva del Sant’Orsola di Bologna. È stato presidente della European Society of Intensive Care Medicine, è titolare di finanziamenti di ricerca erogati da agenzie nazionali ed internazionali e ha pubblicato i risultati delle sue ricerche nell’ambito della terapia intensiva sulle più importanti riviste scientifiche internazionali. 

Maddalena Momgiò per ilmessaggero.it il 2 aprile 2020. È arrivata la bastonata. Salento a lutto, ieri, con 5 morti per coronavirus. E le brutte notizie non finiscono qui. Ieri in serata è stato ricoverato un bimbo di 2 anni nel reparto di Malattie infettive del Vito Fazzi di Lecce. Invece, all'ospedale di Galatina, è stata riscontrata la positività di un altro infermiere del reparto Infettivi: ora il bilancio del personale sanitario positivo, al Santa Caterina Novella, è di due infermieri oltre alla caposala del reparto. E, infine, il caso Cannole: il piccolo centro fa i conti con quello che gli esperti definiscono «rischio focolaio». La mappa, dunque. Mentre il numero dei contagi è in lieve calo con una curva sostanzialmente stabile che lascia ben sperare (sia pur nella prudenza) ecco che nel Salento arriva un numero di decessi mai toccato prima: 5 in tutto nelle ultime 24 ore. Si tratta di una centenaria e di un'altra vittima di 86 anni, entrambe ricoverate nella casa di riposo di Soleto. Un'altra vittima è un senzatetto originario di Monteroni che vive fuori dalla Puglia: è deceduto nelle scorse ore in un ospedale salentino. Un'altra vittima è di Copertino: si tratta di un 81enne. Ma torniamo al secondo caso di contagio di un bimbo, questa volta di 2 anni. La mamma era in via di guarigione e per questo ricoverata nell'ospedale di San Cesario che, insieme a Copertino, è stato destinato ad essere un presidio Covid post acuzie. Il bambino, dopo il ricovero della sua mamma, stava con i nonni. Dopo il ricovero nel reparto Infettivi del Fazzi, anche la mamma è stata nuovamente trasferita da San Cesario in modo che possa stare con il suo piccolo. È il secondo caso di coronavirus di un bambino dopo la neonata di pochi mesi ormai guarita e dimessa insieme alla madre, anche lei positiva al coronavirus. Nel Bollettino di ieri, per la provincia di Lecce, si contano 15 contagi. E c'è un focolaio a Cannole, pare collegato a contatti stretti con il caso Soleto: 7 i positivi nel piccolo centro, 5 i casi sospetti in attesa di tampone e in quarantena. Il sindaco, Leandro Rubichi, ha reso nota la chiusura del Poliambulatorio, per sanificazione e riaperto dopo l'intervento mentre ieri sera è stato fatto un intervento radicale di disinfezione in tutto il paese. Un sistema quello di procedere a sanificazione ampie utilizzato al Nord dove si procede alla disinfezione di interi condomini dopo che si registrano casi di positività. Con il Bollettino di ieri i casi totali sono saliti a quota 321, mentre il report di marzo dell'Asl Lecce ne contava 300 fino all'altro ieri. E diminuiscono i comuni liberi dal contagio: il 26 uno su due non aveva alcun positivo, il 31 sono saliti a 62 i comuni toccati dal coronavirus. In pratica sette comuni su tre hanno da 1 a molti casi. Dal 20 marzo, quando si contavano 85 contagiati, in tutto il Salento, si è avuto dopo una settimana (il 26 marzo) un incremento di 91 casi. Nel confronto fra il 20 e il 31 la crescita dei casi è di 236 contagiati, mentre dal 26 al 31 sono aumentati di 147 positivi al coronavirus. Zona rosse per Lecce (44 casi), Copertino (34), Soleto (20) in questo caso riconducibili alla casa di riposo al momento gestita dalla Asl di Lecce. La cintura dell'area critica riguarda il Nord e il Centro del Salento e quindi contigue alla fascia rossa Monteroni (13), Leverano (11), Surbo (10), Nardò (10). Carmiano con 9 casi è vicino a passare nella fascia più critica, al pari di Giuggianello. Tra i 62 comuni della mappa dei contagi, 21 al momento contano solo un caso. Solo una settimana fa il cerchio della criticità era concentrato tra i centri salentini del Nord Salento. In una settimana Lecce e Copertino rimangono nella fascia tra i 21 e i 50 casi, ma aumentano i positivi. Tanti i comuni sotto la decina. Arnesano rimane ferma ad un solo caso, al pari di Alezio, Caprarica, Castrì, Castrignano, Collepasso, Corigliano, Cursi, Giuggianello, Lizzanello, Melissano, Porto Cesareo, Racale, Salice, Santa Cesarea, Spongano, Sternatia, Supersano, Taviano, Trepuzzi, Tricase, Ugento. Una settimana fa erano 57 i comuni liberi dal Covid, ora sono 45. Dall'inizio dell'epidemia, sono stati effettuati 1.500 tamponi di cui 300 sono risultati positivi al coronavirus. La quarantena (monitorata dal Servizio di Igiene pubblica della Asl) ha riguardato 4mila persone, al momento 1.110 ancora in isolamento.

Dagospia il 6 aprile 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. A La Zanzara su Radio 24 parla Vincenzo Refolo, 58 anni, il medico-picchiatore di Calimera, in provincia di Lecce, immortalato in un video nel quale colpisce al volto e con alcuni calci un paziente appena uscito dal suo studio. Attualmente Refolo, che è medico di medicina generale, si trova agli arresti domiciliari. “Voi – dice Refolo - non avete visto quello che  è successo nell’ambulatorio. Sono stato aggredito io. Ha tirato in aria due sedie, togliendo l’intonaco. Poi io l’ho accompagnato vicino alla porta. E comunque sto saltando tanti passaggi. Questo è mio paziente solo da sette giorni, dal 30 marzo”.

Cosa è successo in questo periodo?: “Il 30 marzo è venuto dicendo che era caduto tre, quattro mesi fa. Ed è stato 45 minuti in ambulatorio. Non può nemmeno stare in ambulatorio per il fatto del coronavirus. L’ho fatto accomodare perché lamentava dei dolori in seguito ad una caduta. Diceva di essere stato rovinato dal suo medico. E’ venuto dunque il 30 marzo e gli ho prescritto una visita ortopedica non urgente. Poi pochi giorni dopo si è presentato…”.

E che è successo?: “E’ una persona che non ti fa parlare. Era violento, mica sono impazzito. Io non ho mai alzato una mano su nessuno. Ha sbattuto queste sedie, l’ho accompagnato alla porta, gli ho detto guarda, trova un altro medico. Io sono una persona pacifica, tanti anni fa sono stato il principale accusatore di don Cesare Lodeserto…”.

Ok, ma torniamo al fatto. Se le cose sono andate come dici perché non hai chiamato la polizia?: “L’ha chiamata un paziente che aspettava dietro a lui. Ma non rispondevano. Alla fine sono venuti i carabinieri quando oramai era successo il fattaccio”.

Ma tu fuori gli dai uno schiaffo e calci: “Si, non posso negarlo e me ne rammarico. Ma Emiliano che parla di radiazione, si dovrebbe pulire la bocca. Ma stiamo scherzando? Ho subito una violenza dentro l’ambulatorio, mi ha dato tre stampellate. La sua stampella è di alluminio, quella lega leggera che mi ha fatto male”.

Ma tu con uno schiaffone lo hai fatto cadere: “Calma, era caduto già da prima. Perché quando ha tolto la stampella, è caduto. La prima volta è caduto da solo”.

Questo comunque non è un comportamento da medico: “Sono d’accordo con voi. Ma non è che posso riavvolgere il nastro. Chi si riempie la bocca dicendo che gli altri medici lavorano, lavoro pure io quattordici ore al giorno”.

Perché l’hai picchiato?: “Non lo so, non lo so. Ma voi siete prevenuti, voi non mi volete credere. Lui ha le borse sotto gli occhi perché penso che prenda degli anti coagulanti. Quando è caduto sul selciato, si è lacerata la pellicina di una persona anziana di 87 anni. Ha quelle ecchimosi, ma nessuno gli ha dato un pugno”.

Però si è vista una manata, uno schiaffo: “Lo schiaffo gli ha fatto volare le cartellette. Gli ho dato tre pedate sulla gamba, posso negarlo?”.

Ma è un comportamento da medico?: “Ma assolutamente no”.

Cosa ti è preso?: “E non lo so. Se uno non vuole uscire dall’ambulatorio, se uno non ti vuol far parlare…”.

Dovevi chiamare la polizia: “L’ho chiamata. L’ho chiamata. Non rispondeva, non veniva. L’ha chiamata il paziente che era in attesa. Poi uno si esaspera. Più che essere rammaricato e chiedere scusa…mi sembra ci sia una sproporzione fra il fatto e quello che chiede Emiliano…ma non mettiamo i medici in queste condizioni, dico io. Il problema va visto anche da altra angolatura. Io sono senza mascherina, io ho la mascherina che mi sono pagato da solo. Parlate di questo con il signor Emiliano...”. 

“Quel signore – racconta ancora il medico parlando del paziente colpito - ha bisogno di una perizia psichiatrica perché uno che ti ripete per quarantacinque minuti che l’ha rovinato il suo medico precedente…”.

Ti vergogni di quello che hai fatto?: “Molto, molto. Chi verrà adesso da me dopo quello che è successo? Ma a voi non è mai successo di perdere le staffe? Io non ho mai avuto reazioni di questo tipo. Né con giovani, né con bambini. Io ho 58 anni, non posso andare in pensione adesso. E quando spaccano la testa ai medici? Voi fate due trafiletti, è la prima volta che mi succede”.

Ma lei ha delle prove di quello che è successo dentro?: “No, assolutamente. In due ore lui non se ne andava da lì dentro. Io sono stressato, in prospettiva la vedo nera. Col signor Foca mi sono già scusato Mentre lo accompagnavano con la macchina, gli ho fatto tu tu al finestrino e gli ho detto ciao, Foca. E’ un gesto inqualificabile. E’ una reazione che uno non dovrebbe avere, indipendentemente da quanto successo prima. Ormai è successo a mio discapito. Ma una persona non si giudica in trenta secondi su 58 anni di vita. Quei trenta secondi saranno purtroppo una macchia indelebile nella mia vita. Io in quell’ambulatorio ho fatto anche del bene alle persone….”

Valeria D’Autilia per “la Stampa” il 30 marzo 2020. Il coronavirus entra nello stabilimento ex Ilva di Taranto. C’è il primo operaio positivo e ora si teme per una possibile esplosione di contagi. Rabbia tra i cittadini e timore tra i lavoratori di questa città, dove la contraddizione tra economia e salute è questione irrisolta da decenni. I sindacati avevano chiesto di portare al minimo l’operatività. Al momento, ogni giorno, entrano in fabbrica in 3.500, a cui si aggiungono i 2.000 dell’indotto. «Un numero così elevato- dicono Fiom, Fim, Uilm e Usb- rappresenta un grande rischio di contagio». Cifre stabilite dal prefetto, che le organizzazioni dei metalmeccanici vogliono ridurre ulteriormente. «Bisogna tenere i lavoratori a casa, diretti e indiretti non fa differenza- denuncia il sindacalista Franco Rizzo- preservando gli stessi da un rischio che ovviamente aumenta in luoghi di lavoro particolarmente affollati». Intanto, ArcelorMittal ha chiesto la cassa integrazione per tutti e la discussione inizierà oggi. Al momento, sono 99 i casi di persone positive confermati tra la città e la provincia: adesso il timore è che la più grande acciaieria d’Europa possa diventare un nuovo focolaio. «Questa attività - ribadisce il sindaco Rinaldo Melucci - non è essenziale e tra poche settimane Mittal dovrà comunque provvedere al fermo di molti impianti in base alla nostra ordinanza sindacale sulle emissioni inquinanti. Non c'è alcun valido motivo per andare avanti». Sulla tenuta sociale e sanitaria, preoccupazione dei medici Isde. «Non abbiamo le efficienti strutture del nord. Conte chiude negozi, aziende, paesini e lascia aperta una fabbrica grande quanto una città. Chiediamo anche qui le misure massime di prevenzione previste dai decreti per il resto d’Italia. Per quanto tempo saremo condannati a essere diversi dagli altri»?.

Coronavirus: morto l'ingegnere della Cisa di Massafra ricoverato a Taranto. Il Corriere del Giorno il 30 Marzo 2020. A seguito del caso di Conavirus riscontrato nel defunto dirigente della CISA  anche altri dipendenti della stessa società erano risultate contagiate e  quindi positive al Covid19 , venendo sottoposte allo stesso specifico protocollo. All’interno dell’ articolo la ricostruzione da parte della CISA per voce di Teresa Albanese, che contiene delle gravi accuse nei confronti dei medici dell’ Ospedale S.S. Annunziata di Taranto. ROMA – Si è spento  la scorsa notte l’ingegnere Antonio Corriero, 66 anni, dirigente della Cisa spa di Massafra, azienda che si occupa di ambiente e smaltimento rifiuti, che era stato ricoverato all’ospedale Moscati di Taranto lo scorso 11 marzo dopo esser risultato positivo al Covid19. A seguito del caso di Conavirus riscontrato nel dirigente della CISA  anche altri dipendenti della stessa società sono risultate contagiate e  quindi positive al Covid19 , venendo sottoposte allo specifico protocollo. Teresa Albanese moglie del proprietario della CISA, il rag. Antonio (per tutti Tonino) Albanese lo scorso 17 marzo aveva pubblicato sulla pagina Facebook dell’azienda di famiglia un video a dir poco imbarazzante su dei presunti comportamenti a suo dire superficiali del personale medico dell’ Ospedale S.S. Annunziata, accusato di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere.

Le gravi accuse della famiglia Albanese al personale medico dell’Ospedale S.S. Annunziata di Taranto sui casi di Corona Virus. La sintesi delle dichiarazioni della CISA: Questa la ricostruzione dei fatti fatta su Facebook dalla moglie di Albanese:

“il 26 e il 27 febbraio scorso, un ingegnere di Torino si reca nei nostri uffici della Cogeam e lavora a stretto contatto con un nostro dirigente. Dopo la sua partenza, cioè il 28 febbraio, il nostro dirigente ha cominciato ad accusare un malessere generale e si assenta dagli uffici dal 29 febbraio. Gli viene diagnosticata un’influenza e quindi curata come un’influenza. Verso fine settimana (siamo al 28/29 febbraio – n.d.r.) , visto che comunque non riusciva a migliorare e il fiato diventava sempre più corto, lui e la moglie si recano all’ospedale Santissima Annunziata per fare una TAC. Qui gli viene diagnosticata una polmonite batterica e non virale. La moglie chiede ed implora i dottori di fare il tampone ma loro ritengono che non sia necessario perché non ha i sintomi del COVID-19.  La moglie non aveva un’idea, non aveva nulla di certo in mano, ha fatto questo tipo di richiesta solo perchè si sentiva parlare in Italia, ormai da giorni, solo di CoronaVirus e quindi voleva eliminare questa possibilità. Ma i medici si sono rifiutati.

Sono quindi tornati a casa e lunedì, siamo già al 9 marzo, il fiato era diventato sempre più corto: e si sono recati nuovamente al Santissima Annunziata dove è stato ricoverato nel reparto di Medicina, e sottolinea Medicina per farvi capire come i medici non avevano nessuna intenzione di fargli un tampone e non lo consideravano possibile contagio.

E’ stato lì fino al 10 marzo quando, finalmente grazie a Dio a questo punto, devo dire, l’ingegnere di Torino ci invia il 10 marzo alle ore 18 via sms, un messaggio con il quale ci dice che è affetto da Coronavirus. A questo punto allertiamo tutti quanti e avviamo il protocollo legale. Chiudiamo la palazzina, mandiamo i nostri dipendenti e i nostri collaboratori Cisa e Cogeam a casa e sanifichiamo la stessa sera gli ambienti. 

Avvertiamo la moglie del nostro dirigente, la quale parla con i dottori (dell’ Ospedale S.S. Annunziata n.d.r.) ed il giorno seguente, quindi siamo già all’ 11 marzo, il tampone viene finalmente eseguito.

Il risultato “positivo” purtroppo arriva dopo 13 ore: la sera dell’undici marzo.

Il nostro dipendente (cioè l’ing. Antonio Carriero – n.d.r.) , intanto, il 10 marzo era stato nel frattempo trasferito dal Santissima Annunziata al reparto Infetti dell’ospedale Moscati.

Il giorno successivo, quindi il giovedì 12 marzo, l’ASL Taranto ci contatta e comincia ad eseguire una serie di tamponi su persone che potevano essere venute a contatto con il nostro dirigente. Attendiamo i risultati e questi risultati sono tutti negativi. L’ ASL, poi, comunica il tutto al primo cittadino di Massafra, e la vicenda diviene “mediatica”.

Tra i tamponi eseguiti, però, c’era anche quello fatto al nostro collaboratore di Laterza che, nel frattempo il 9 mattina, avverte spossatezza: non ha febbre, non ha ancora tosse. Ha fatto anche lui il tampone insieme agli altri il giovedì mattina (quindi il 5 marzo – n.d.r.) e anche lui è risultato “negativo“.

L’unico tampone a non essere eseguito il giovedì, perchè un infermiere non aveva avuto il tempo, viene eseguito il venerdì mattina – (cioè il 6 marzo n.d.r.)  – sul nostro collaboratore che vive a Crispiano,il cui risultato lo riceviamo il sabato mattina  (quindi il 7 marzo n.d.r.) : positivo.

A questo punto l’ASL contatta tutti gli altri colleghi, eventualmente possibili contagiati, venuti a contatto con il nostro dipendente di Crispiano.

Quindi, inizia tutta un’altra serie di tamponi. I risultati si sono avuti, chiaramente, dopo un giorno e tra questi c’è anche la signora (di Massafra n.d.r.) di cui si è parlato e che ha fatto un solo tampone in vita sua, risultato “positivo“.

“Tengo a precisare –  chiarisce Teresa Albanese – che questi nostri dipendenti, oltre ad un po’ di tosse iniziale non hanno sintomi, stanno benissimo, non hanno febbre, non hanno nulla. Quindi nulla ci poteva far pensare che fossero positivi, nè tanto meno sono mai usciti di casa dal 10 marzo, come da protocollo di legge.

Questo nostro collaboratore di Laterza, risultato negativo insieme a noi a questo punto comincia a preoccuparsi: “come è possibile – pensava – che un collega con cui sono stato a contatto per tutto il giorno è positivo ed io negativo?”. A questo punto chiede all’ospedale di eseguire un altro tampone. Il tampone gli viene rifatto, risultando questa volta “positivo“.

Stamattina ( e siamo al 17 marzo n.d.r.)  infine, stanno eseguendo un altro tampone sempre sulla stessa persona (il nostro collaboratore di Laterza).

Il nostro collaboratore di Laterza, risultato negativo il venerdì, sarebbe stato spostato nel reparto di Medicina di Castellaneta e grazie al nostro sostegno morale, si è imputato, rifiutando il trasferimento per evitare di contagiare altri ambienti, finché non avesse avuto il risultato del successivo tampone.  Questo significa impegno e responsabilità civica.

Concludo il discorso dicendo che altri tamponi, probabilmente, l’ASL continuerà a farli, e che parte nostra c’è stato sempre il massimo impegno.  Chiedo a tutta la cittadinanza – la chiosa- di attenersi solo ed esclusivamente ai dati ufficiali. Grazie”. E così finisce il video messaggio sulla pagina Facebook della CISA.

Adesso alla luce di queste gravissime accuse nei confronti di qualcuno che non avrebbe fatto i doverosi controlli del caso, spetterà all’ Autorità Giudiziaria accertare eventuali responsabilità o omissioni e siamo certi che non mancherà la dovuta attenzione ad un evento del genere dinnanzi a tali accuse circostanziate da parte della moglie di Albanese.

Coronavirus, muore primo medico in Puglia: è un 59enne foggiano. Fimmg: combattiamo senza strumenti. Ieri, tra gli altri decessi, anche un docente, sempre della provincia di Foggia, e un brindisino. La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2020. Un medico di San Severo (Fg) in servizio a Torremaggiore, risultato positivo al Coronavirus, è morto ieri sera nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. L’uomo, Antonio Maghernino, operava nella guardia medica, aveva 59 anni ed era ricoverato nel reparto di rianimazione del nosocomio foggiano voluto a San Pio. La notizia ha fatto rapidamente il giro di tutta la collettività e ha avuto la conferma dal sindaco di San Severo, Francesco Miglio. Si tratta del primo medico vittima del coronavirus in Puglia. Decine i messaggi di cordoglio provenienti da ogni parte della provincia, soprattutto dalla zona in cui il medico operava.

LA FIMMG: MA CI SERVONO GLI STRUMENTI. «Con quella di Antonio - scrive Donato Monopoli, Segretario Fimmg Puglia, la Federazione medici di medicina generale - l’Italia registra 34 morti tra gli operatori sanitari, di cui 18 medici di medicina generale. I medici di famiglia e di continuità assistenziale seguitano infatti a combattere l’epidemia a mani nude, senza alcuna tutela, senza i dispositivi di protezione indispensabili. Nella nostra regione continuano ad essere drammaticamente insufficienti anche i dispositivi messi a disposizione delle guardie mediche. E pure i medici del 118 lamentano una dotazione di presidi di protezione individuale non sempre idonei e conformi alle prescrizioni dell'Istituto superiore di sanità». I medici di famiglia hanno ampliato le ore di reperibilità telefonica, hanno attivato la possibilità di essere raggiunti dai pazienti tramite videochiamate, messaggistica Whatsapp o altre piattaforme telematiche già presenti sui sistemi gestionali della medicina generale. Ma in alcuni casi il contatto con il paziente è indispensabile per offrire assistenza, soprattutto nel momento in cui l’attività ordinaria degli ambulatori è stata sospesa dalle ASL. Inoltre, dato che oltre il 50% dei pazienti Covid-19 vengono assistiti a domicilio, «il ruolo dei medici di famiglia e di continuità assistenziale è fondamentale proprio per combattere l’epidemia. La battaglia contro il coronavirus si vince sul territorio, trattando a domicilio in modo adeguato i casi meno gravi, in modo da evitare che peggiorino e vadano ad intasare le strutture ospedaliere. Ma per vincere questa battaglia non basta la dedizione e il sacrificio dei medici - pagati a prezzo carissimo da colleghi come Antonio Maghernino. Servono anche per l’assistenza domiciliare  i saturimetri, strumento di facile impiego per misurare la saturazione dell'ossigeno nel sangue e aiutare il medico a prendere le opportune decisioni terapeutiche. Altrimenti, il sacrificio di Antonio e dei tanti altri colleghi che hanno perso la vita facendo il loro lavoro sarà inutile». “Diventa strategico un modello operativo del territorio non solo nella fase pandemica, ma anche in quella successiva, onde evitare reinfezioni e quindi nuovi focolai. - prosegue Monopoli - tutti i medici di medicina generale si stanno impegnando nel contenimento del contagio, monitorando a distanza i soggetti in quarantena e garantendo il miglior sostegno assistenziale possibile ai pazienti. Ma se vogliamo vincere il Covid-19 serve un’attenzione al territorio che finora è mancata”.

L'ALLARME DEI CONTAGI OSPEDALIERI E LE MASCHERINE. Quello dei contagi tra gli operatori sanitari è una delle maggiori criticità di questa emergenza: purtroppo in tutta la regione si registrano focolai in strutture sanitarie che rischiano di mettere a dura prova la tenuta di un sistema sanitario già di per sè fragile perchè non tarato su un fenomeno di queste proporzioni. Per tale motivo le rappresentanze dei medici e degli operatori sanitari lamentano la carenza di dispositivi di protezione (mascherine, tute, ecc.) che, come ha denunciato lo stesso governatore Emiliano, in Puglia tardano ad arrivare.

IERI ALTRI DECESSI - Due tragedie accomunate dal maledetto virus Covd-19. Due 54enni deceduti a a causa della pandemia. È successo al Perrino di Brindisi e nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. Nel Brindisino è morto Raffaele De Giovanni, da oltre 25 anni riferimento della Cia Agricoltori Italiani sul territorio di Carovigno. De Giovanni era perito agrario ed aveva 54 anni, e da domenica 8 marzo si trovava ricoverato in terapia intensiva nell’ospedale «Perrino» di Brindisi, in quanto risultato positivo al Covid-19.  Apprezzato e stimato tecnico agrario, da sempre ha rappresentato un importante e valido punto di riferimento per i tecnici e i dirigenti Cia a livello provinciale e regionale, oltre che per le tantissime aziende agricole da lui assistite ed anche per le Amministrazioni comunali che si sono susseguite alla guida del Comune di Carovigno. Da diversi anni era anche impegnato nei progetti di valorizzazione dell’olio di oliva, e negli ultimi anni si era dedicato anima e corpo alla lotta alla Xylella fastidiosa, sostenendo da sempre le ragioni della scienza e battendosi per far valere i diritti degli agricoltori. Lascia la moglie e due figli, ai quali in questo momento i dirigenti, i tecnici, i collaboratori e il personale del sistema CIA di Puglia e della provincia CIA Due Mari (Taranto-Brindisi) si stringono affranti. Nel Foggiano, invece è morto all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo un docente di San Nicandro Garganico) risultato positivo al Coronavirus. Ne dà conferma il primo cittadino del comune Garganico, Costantino Ciavarella. L’uomo di 54 anni era ricoverato dallo scorso 2 marzo e - a quanto si apprende - era affetto da patologie pregresse.

Coronavirus, primo paziente positivo in Puglia. È un uomo di 43 anni di Taranto tornato da Codogno. L'annuncio su Facebook del presidente della Regione Emiliano. L'uomo ha sintomi influenzali e ha spiegato ai medici di essersi allontanato dalla zona rossa non rispettando le prescrizioni. Il test sarà trasmesso all'Istituto superiore di sanità per la conferma. Cenzio Di Zanni il 26 febbraio 2020 su La Repubblica.  Un uomo di 43 anni di Torricella in provincia di Taranto è risultato positivo al test del coronavirus:aveva sintomi influenzali e ha spiegato ai medici di essere arrivato domenica 23 febbraio a casa dopo essersi allontanato dalla zona rossa di Codogno. L'uomo è ricoverato all'ospedale Moscati di Taranto. A dare l'annuncio del primo caso di contagio da coronavirus in Puglia è stato il governatore Michele Emiliano su Facebook. "Come avevamo previsto abbiamo il primo soggetto influenzato residente nella provincia di Taranto, sembra proveniente da Codogno in Lombardia, ove si era recato in visita, positivo al test coronavirus. Il test verrà domani trasmesso all'Istituto Superiore di Sanità per la conferma di seconda istanza". Il presidente della Regione Puglia ha dato per primo la notizia sui social. "Il paziente - si legge nel post - è isolato sin a ieri in stanza a pressione negativa, è stato prelevato dal domicilio nel quale viveva a suo dire da solo in ambulanza del 118 dedicata da personale dotato dei necessari Dispositivi di Protezione". Emiliano nel posto ha poi spiegato: "Il decorso dell'influenza è regolare e allo stato senza complicazioni. Tutte le persone con le quali il soggetto è stato in contatto dopo il soggiorno a Codogno verranno sottoposte a tampone e poste in quarantena nelle prossime ore secondo i protocolli previsti".

Coronavirus a Taranto: 33enne di Torricella tornato in aereo lunedì da Codogno. La lettera del contagiato: «Non mi odiate». Livello di allerta alto, ma non c'è panico. Graziano Capurso il 26 Febbraio 2020. Il Coronavirus arriva in Puglia, precisamente a Taranto. Non avrebbe più febbre e al momento sarebbe asintomatico il 33enne di Torricella (Taranto) risultato positivo. Lo riferiscono fonti dell’Asl di Taranto precisando che alcuni parenti del giovane sono stati sottoposti a controlli e messi in isolamento, e si è ancora in attesa dei primi risultati delle loro analisi. L’uomo resta ricoverato nella stanza a pressione negativa dell’ospedale Moscati di Taranto. Il giovane era rientrato pochi giorni fa da Codogno, zona focolaio del virus in Lombardia, ed è arrivato lunedì sera in aereo da Malpensa a Brindisi, con il volo Easyjet delle 15, partito il 24 febbraio, dopo esser andato a trovare alcuni parenti. Dall'aeroporto è stato accompagnato dal fratello a casa dove sarebbe entrato in contatto solo con la moglie. Già il giorno dopo i primi sintomi riconducibili agli effetti del virus, tanto da spingere le autorità sanitarie a trasferirlo in ambulanza con la massima cautela all’ospedale Moscati, nel reparto Malattie Infettive, dove gli è stato praticato il tampone per la ricerca del virus.

Dopo una serie di test, è arrivata la conferma definitiva delle varie analisi effettuate presso il Policlinico di Bari. I medici con tutti i DPI dell'ospedale di Taranto e il paziente sono in isolamento in stanza a pressione negativa. Tutte le procedure sono state rispettate. Intanto il pronto soccorso del Moscati è stato chiuso al pubblico. Il paziente, secondo quanto specificato dal dottor Peppe Turco (medico di Torricella e primo a riconoscere telefonicamente i sintomi del virus nel giovane) è asintomatico e ha superato il picco febbrile. Sarebbe in condizioni stabili e per ulteriore precauzione sono stati messi in quarantena tutti i suoi familiari che hanno avuto contatti con il contagiato numero uno pugliese. Il giovane - secondo quanto raccontato da Turco - avrebbe allertato immediatamente il sindaco di Torricella al suo rientro e il medico che gli ha consigliato di restare in quarantena volontaria. «Non so come abbia fatto ad allontanarsi da Codogno quando era già zona rossa - commenta Turco - lui sostiene di aver chiamato un numero verde per avvisare del suo spostamento». A dare notizia ufficiale del caso è il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano che informa su Facebook: “Come avevamo previsto abbiamo il primo soggetto influenzato residente nella provincia di Taranto, sembra proveniente da Codogno in Lombardia, ove si era recato in visita, positivo al test Coronavirus. Il test verrà domani trasmesso all’Istituto Superiore di Sanità per la conferma di seconda istanza. Il paziente è isolato sin da ieri al reparto infettivi dell’Ospedale Moscati in stanza a pressione negativa, è stato prelevato dal domicilio nel quale viveva a suo dire da solo in ambulanza del 118 dedicata da personale dotato dei necessari Dispositivi di Protezione. Il decorso dell’influenza è regolare e allo stato senza complicazioni. Tutte le persone con le quali il soggetto è stato in contatto dopo il soggiorno a Codogno verranno sottoposte a tampone e poste in quarantena nelle prossime ore secondo i protocolli previsti.”

LA LETTERA DEL PAZIENTE 1: SONO QUELLO CHE PIU' ODIATE - «Sono io la persona che più odiate in questo momento, il primo caso di coronavirus in Puglia». Si sfoga così su Facebook il 33enne di Torricella da ieri ricoverato al Moscati di Taranto perché risultato positivo al Covid-19. L’uomo ricostruisce i giorni in cui è stato in Lombardia, nel Lodigiano, per far visita ad alcuni parenti. Sulla veridicità del post garantisce il consigliere regionale Giuseppe Turco, il medico al quale per primo il ragazzo si è rivolto dopo essere rientrato in Puglia. Il 33enne replica a chi sui social lo ha accusato di essere un «untore» perché rientrato da una “zona rossa”. E spiega che prima di tornare in Puglia ha chiamato un numero verde al quale gli hanno detto che poteva partire perché non era «stato a contatto con persone malate». Nel suo racconto il 33enne spiega: «Sono salito il 19 febbraio con volo Ryanair delle 14.55. Arrivato a Lodi ho soggiornato presso casa di mio fratello in un comune chiamato Caselle Lurani. Il giorno successivo sono rimasto tutto il tempo a casa, poi mi sono recato nel comune di Codogno a trovare mia madre che era stata ricoverata in un centro per l’Alzheimer». L'uomo ricorda che si preparavano «per andare a trovarla» quando sentono in televisione le notizie relative alla situazione a Codogno e, quindi, decidono di contattare «la struttura» dalla quale ricevono «rassicurazioni» sul fatto «che potevamo andare a trovare la mamma». Ma, «arrivati lì - sottolinea - ci comunicano via telefono che non era possibile accedere» e ci dicono «di tornare a casa: quello che abbiamo fatto». «Un giorno prima di partire» per la Puglia, prosegue, «ho chiamato i numeri messi a disposizione» per riferire tutto quello che aveva fatto. E al numero verde «mi hanno detto di partire perché non ero stato a contatto con le persone malate». "Per una premura mia - conclude - abbiamo chiamato il medico di base di mia cognata il 23 febbraio, che mi ha mandato la mail con tutte le indicazioni che ho seguito alla lettera. Ho preso il volo easyJet del 24 febbraio alle ore 15 da Malpensa e sono partito. Nessun blocco, nessuna strada chiusa, nessun controllo all’aeroporto».

LIVELLO DI ALLERTA ALTO, MA NIENTE PANICO - In Puglia questa mattina c'è stato un "ulteriore innalzamento del livello di guardia che deriva dal fatto che il caso numero uno da infezione da Coronavirus si è verificato ieri», in provincia di Taranto. Lo ha detto il direttore del dipartimento Salute regionale, Vito Montanaro, durante l’audizione nella commissione Sanità del Consiglio regionale pugliese. «Ad ora non ci sono altri casi di positività da Coronavirus in Puglia», lo ha comunicato Vito Montanaro, direttore del dipartimento Salute della Regione Puglia, durante l’audizione in commissione Sanità del Consiglio regionale pugliese. Montanaro ha comunicato che ad oggi sono stati effettuati «250 test, 11 dei quali trasmessi all’istituto Spallanzani e all’Istituto superiore della sanità». Un «provvedimento che stiamo immaginando a livello comunicativo è di far capire che la Puglia non è un focolaio pericoloso, quindi non c'è nessuna motivazione per disdire le prenotazioni». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, durante l’audizione in commissione Sanità del consiglio regionale, sull'emergenza Coronavirus. Emiliano ha anche detto che «stiamo pensando di invitare tutti i soggetti che gestiscono luoghi che accolgono molte persone, negozi, ristoranti, a fare sanificazioni periodiche, consultando i propri consulenti». Il governatore ha precisato che «non si tratta di un’ordinanza». Ai pazienti affetti da coronavirus verranno riservati «due posti letto in ogni rianimazione presente negli ospedali della Puglia». Lo ha detto Vito Montanaro, direttore del dipartimento Salute della Regione Puglia, durante l’audizione in commissione Salute del Consiglio regionale pugliese. Montanaro ha specificato che il Policlinico di Bari e il Riuniti di Foggia ne «riserveranno quattro». Anche gli istituti ospedalieri privati accreditati «hanno dato la loro disponibilità a prendere in carico eventuali pazienti». La misura rientra nell’ordinanza che la Regione Puglia si appresta a emettere.

CHIUSURA SCUOLE A TARANTO, ATTIVITA' UNIVERSITA' SOSPESA - Le scuole di ogni ordine e grado della Provincia di Taranto saranno chiuse fino a sabato 29 febbraio 2020 per effettuare interventi straordinari di igienizzazione e sanificazione, con l’obiettivo di aumentare la sicurezza e garantire la serenità nel territorio. Lo conferma in un altro nota la Regione Puglia. L’Università degli Studi di Bari Aldo Moro per consentire gli interventi di igienizzazione e sanificazione delle strutture universitarie di Taranto ha disposto «con effetto immediato e per tutta la giornata di domani 28 febbraio, la sospensione delle attività didattiche, di ricerca e amministrative che riprenderanno lunedì 2 marzo 2020». Lo comunica l’ateneo barese dopo il caso di un tarantino di 33 anni risultato positivo al Coronavirus. «In relazione alla sospensione delle attività di tirocinio pre-laurea, le attività professionalizzanti e le attività elettive a piccoli gruppi dei Corsi di Studio dell’area medico-sanitaria che prevedono la frequenza presso le unità operative e gli ambulatori, l’Università di Bari - prosegue il comunicato - rende noto che, al fine di non recare nocumento alla carriera degli studenti coinvolti dalla misura, la Scuola di Medicina e i Direttori di Dipartimento di Area Medica hanno comunicato che con successive disposizioni saranno rese note le modalità di riconoscimento e/o recupero delle attività suddette».

ASL TARANTO: OSPEDALE PRONTO DA GIORNI - La Asl di Taranto comunica che l’uomo risultato positivo al test Coronavirus, un 33enne di Torricella, "in attesa di conferma da parte dell’Istituto superiore di sanità al quale il test verrà trasferito, proviene da Codogno dove si era recato in visita prima del suo rientro in Puglia». Il triage, aggiunge l’Asl, «è stato svolto dal 118, che ha immediatamente ricoverato il caso sospetto presso il Reparto di Malattie Infettive dell’Ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Il trasporto è avvenuto in sicurezza con l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale già nelle disponibilità del 118 e delle quattro associazioni convenzionate ad hoc per l'eventuale trasporto di pazienti casi sospetti da COVID-19». Giunto al Reparto di Malattie Infettive, «reparto - puntualizza l’Azienda sanitaria locale - preparato da diversi giorni in ottemperanza alle normative vigenti e alle disposizioni regionali e ministeriali - il paziente ha seguito il percorso previsto dal protocollo per la stanza a pressione negativa dov'è attualmente ricoverato». I sanitari del reparto, «costantemente in contatto con gli organismi regionali, svolgono ogni attività clinica sanitaria - conclude l’Asl - secondo quanto previsto dal protocollo». 

LE PAROLE DEL VESCOVO SANTORO - «La nostra Arcidiocesi si adeguerà con grande rispetto ad ogni indicazione che verrà dalle autorità competenti. Ad oggi mi sento solo di raccomandare tutto ciò che attiene al buon senso, bandendo ogni forma estremista dettata dalla disinformazione, soprattutto quando certi comportamenti sono causa di allarmismo, di offesa e peggio ancora di razzismo». Lo sottolinea l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro nel messaggio alla Diocesi per la quaresima, riferendosi all’emergenza Coronavirus. «Consiglio ai parroci - aggiunge - di lasciare vuote le acquasantiere, di invitare i fedeli a scambiarsi il gesto di pace evitando il contatto fisico e che la Comunione sia distribuita sulle mani. In comunione con i nostri fratelli e sorelle che vivono la malattia o l’isolamento il nostro primo compito è quello di pregare». Mons. Santoro raccomanda «perciò la preghiera del Rosario, in famiglia e nelle nostre parrocchie, con l’intenzione per i contagiati, per le persone che vivono i disagi correlati, per le istituzioni, per i medici, per gli operatori sanitari e per gli scienziati ricercatori. Rechiamoci tutti, anche se solo spiritualmente, con la preghiera, nel nostro santuario diocesano di Taranto vecchia, dove veneriamo l’icona di Maria Salute degli infermi, la Madonna della Salute». In questo «momento particolare - conclude - abbiamo bisogno di ricorrere alla sua intercessione. A lei affidiamo ogni nostra necessità, a lei affidiamo questo tempo santo». 

Quel piccolo comune pugliese dove è arrivato l'incubo virus. Nel piccolo Comune in provincia di Taranto un giovane uomo è risultato positivo al tampone del coronavirus, poca gente per strada e tanta paura. Emanuela Carucci, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Ci sono tre casi accertati in Puglia di coronavirus. Ad aver contratto per primo il morbo è un giovane uomo di 33 anni di Torricella, in provincia di Taranto, che ha soggiornato a Codogno, il Comune lombardo focolaio della malattia, dal 19 al 24 febbraio scorsi. Dopo di lui, ieri, sono risultati positivi al tampone anche la moglie e il fratello dell'uomo. Da tre giorni i pazienti sono in isolamento. Il 33enne è in una stanza a pressione negativa nel reparto infettivi dell'ospedale "San Giuseppe Moscati" di Taranto. Anche per gli altri due verrà applicata, probabilmente, la stessa terapia. "ilGiornale.it" è andato a Torricella raccogliendo gli umori del paese, tra strade deserte e negozi chiusi. La piccola cittadina conta poco più di 4mila abitanti ed è stata invasa da questa notizia giunta in maniera inattesa. Per strada poca gente, ma la vita continua nonostante tutto. Alcuni uomini, come ogni mattina, prendono il caffè al bancone di un bar sul corso centrale del paese che costeggia la chiesa e il castello in piazza Lacaita. Alcune donne con le buste della spesa si affrettano a tornare a casa per cucinare il pranzo. Le tapparelle alle finestre sono abbassate, le porte delle case a pianterreno sono chiuse. Solo una porta troviamo aperta ed è quella della chiesa di "San Paolo Apostolo". Ci avviciniamo nella speranza di trovare qualche fedele da intervistare, ma i banchi sono vuoti. A tutti è permesso di entrare oggi per una preghiera (siamo in Quaresima), ma davanti alla statua di Gesù non c'è nessuno. C'è chi scappa dalle telecamere, di questo virus non vuole più sentir parlare, ma in realtà scappa da se stesso, perché questo morbo, ormai, fa parte di noi nella sua inclinazione di allarmismo mediatico. "Se ti ammali muori, se ci pensi muori lo stesso, tanto vale vivere" commenta un uomo per strada a ilGiornale.it. Intanto le scuole sono chiuse e non solo a Torricella, ma in tutta la provincia di Taranto. Michele Schifone, sindaco di Torricella, ha disposto per la giornata di oggi, "e fino a quando non sarà fatta chiarezza sulla questione", la chiusura degli istituti didattici. Il provvedimento, ci tiene a sottolineare il primo cittadino, è preso "a titolo precauzionale ed esclusivamente cautelativo. Non creiamo allarmismi, - ha concluso il sindaco - non fomentiamo notizie false e non facciamo girare audio, foto, video se non provengono da fonti ufficiali". In ogni caso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, di concerto con la Provincia di Taranto, il sindaco del capoluogo pugliese, Rinaldo Melucci e l'ufficio scolastico regionale ha decretato la sanificazione di tutte le scuole della provincia fino al primo marzo prossimo. La cosa che lascia molto riflettere è l'ira che sui social e non solo si è diffusa ai danni del paziente risultato positivo al primo tampone di coronavirus. In tanti, infatti, accusano il 33enne di non aver allertato subito la Asl come disposto dall'ordinanza emessa lunedì scorso dal governatore. A difenderlo sui social, in particolare su Facebook, il suo medico, Giuseppe Turco. "Da Codogno lo hanno tranquillizzato a ripartire per Torricella rispettando la quarantena. - racconta in un post il medico -Il 24 sera (il paziente) ha raggiunto Torricella con il fratello e ha allertato l'amministrazione e il sottoscritto quando era asintomatico. Gli ho detto di stare in isolamento con la famiglia del fratello e di avvertirmi in presenza di sintomi, tranquillizzandolo per il giorno dopo. Alle 7 del mattino presentava febbre, abbiamo contattato il 112 e il 118 ed è seguito il ricovero. Per il paziente è stato rispettato in toto l'isolamento. Chiedo cortesemente a tutti come medico e amico la massima collaborazione, in primis non facciamoci prendere dal panico e rimaniamo tranquilli. Il paziente l'ho sentito 30 minuti fa,ed è asintomatico. Per cortesia evitate di pubblicare nomi e cognomi di cittadini, è un vero peccato, poteva accadere a tutti. Sono a vostra completa disposizione, come ho detto in questi giorni le epidemie virali si possono rallentare, ma non è possibile bloccarle." Il medico, ha così, tranquillizzato tutti dopo essere stato attaccato. "Purtroppo ho la cattiva abitudine di rispondere al telefono h 24 ,così è successo quella sera. Per eccessivo zelo e per non procurare ulteriori ritardi ho seguito il caso, fino al momento del ricovero. - specifica Turco in un altro post - Mi ritrovo ad essere umiliato e criticato come se avessi raccontato delle falsità o manipolato il tutto.". Ora non si può far altro che aspettare la conferma del morbo da parte dell'istituto superiore di sanità al quale i tamponi sono stati inviati. Ai primi tamponi il 33enne di Torricella, la moglie e il fratello sono risultati positivi.

Coronavirus. I fatti smentiscono Emiliano e Turco: anche la moglie ed il fratello del carpentiere di Torricella sono "positivi".  Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2020. Salgono a tre i casi in Puglia: il primo contagiato è un uomo di 43 anni di Torricella rientrato da Codogno con un volo easyJet il 24 febbraio. Positivi al tampone anche la moglie e il fratello, i passeggeri del suo volo saranno sottoposti a permanenza domiciliare. Due nuovi contagiati in Puglia del Coronavirus: sono il fratello e la moglie di Massimo Mezzolla, un carpentiere 43enne originario di Manduria e residente a Torricella,  risultato “positivo” al test dopo il suo rientro con un volo EasyJet  da Milano Malpensa a Brindisi, lo scorso 24 febbraio, dopo una breve permanenza a Codogno, “focalaio” del virus in Lombardia . Dall’aeroporto è stato accompagnato a casa dove sarebbe entrato in contatto con pochissime persone. Il carpentiere era partito il 19 febbraio dalla Puglia per la Lombardia recandosi un primo momento a casa di suo fratello residente in un comune del Lodigiano, e successivamente il 21 febbraio è andato a trovare la madre a Codogno, una delle principali zone-focolaio del virus. Il carpentiere di Torricella si trova attualmente sottoposto a terapia, come da protocollo, ed è ricoverato nella stanza a pressione negativa dell’ Ospedale Moscati di Taranto, dove è giunto nella mattinata del 25 febbraio scorso, accompagnato da un’ambulanza del 118. “Ho fatto il tampone e sto bene – scrive Mezzolla sui social network  – voi sapete tutto e io ancora devo avere conferma. Sono io la persona che più odiate in questo momento, il primo caso del coronavirus in Puglia“. “Sono salito il giorno 19, con volo Ryanair delle 14,55 – continua il racconto  – arrivato a Lodi ho soggiornato presso casa di mio fratello in un comune chiamato Caselle Lurani. Il giorno successivo sono rimasto tutto il tempo a casa. Poi mi sono recato a Codogno (non all’ospedale dove sono stati poi successivamente individuati i casi) ma nello stesso comune, a trovare mia madre, che era stata ricoverata in un centro nelle vicinanze“. Il suo commento  ha le sembianze più che di una riflessione, bensì di uno sfogo, con il quale si rivolge direttamente ai tanti utenti dei social che alla diffusione della notizia l’hanno attaccato, reputandolo a ragione secondo noi uno sconsiderato poiché ha lasciato la zona rossa ed è tornato in Puglia. A comunicare la positività dei tamponi degli altri due contagiati pugliesi è stato il governatore Michele Emiliano attraverso una nota : “L’indagine epidemiologica condotta dal Dipartimento di Prevenzione della ASL della Provincia di Taranto ha identificato i soggetti con i quali è entrato in contatto il paziente di Torricella. Si tratta della moglie e del fratello, ai quali è stato effettuato il test risultato positivo. Entrambi sono in quarantena fiduciaria da ieri. Anche per questi due casi sospetti si provvederà ad effettuare il test di seconda istanza da parte dell’Istituto superiore di sanità. Attualmente sono in corso le attività per sottoporre a permanenza domiciliare con sorveglianza attiva domiciliare i passeggeri del volo con il quale il paziente è rientrato da Milano Malpensa. L’elenco ed i relativi numeri di telefono è stato ricevuto nel pomeriggio dalla compagnia aerea e fatto oggetto di una apposita ordinanza contingibile ed urgente, che sarà notificata attraverso i Carabinieri dei NAS del Comando Provinciale di Bari”. Nel frattempo sono in corso le attività per sottoporre a permanenza domiciliare con sorveglianza attiva tutti i passeggeri del volo con il quale il 33enne tarantino è rientrato in Puglia dimostrando una irresponsabilità ogni oltre limite. L’elenco ed i relativi numeri di telefono è stato ricevuto nel pomeriggio dalla compagnia aerea e fatto oggetto di una apposita ordinanza urgente, che sarà notificata attraverso i Carabinieri dei Nas del Comando Provinciale di Bari. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha reso noto inoltre che i tamponi dei 20 casi faringei dei casi sospetti giunti al Laboratorio di riferimento regionale, sono risultati tutti negativi al test per SarsCoV-2, l’agente eziologico del COVID-19,  , ad eccezione dei due parenti stretti del cittadino di Torricella, proveniente dalla città di Codogno. Il livello di allerta resta molto elevato e l’attività di screening per il nuovo virus dei casi sospetti continua incessantemente. Sulla questione è intervenuta anche Francesca Franzoso  consigliere regionale di Forza Italia, con una nota “La gestione di un virus è una cosa seria, non un cruciverba o un gioco di parole. In pieno caos Coronavirus la Regione, anziché emanare ordinanze urgenti per gestire l’emergenza, va avanti a colpi di inviti e raccomandazioni e vara la quarantena fiduciaria. Ordini, direttive e disposizioni, insomma ciò che serve, è ciò che manca: una grande assunzione di responsabilità”. “In Puglia le disposizioni urgenti in materia di coronavirus – prosegue la Franzoso –  si declinano in un semplice, inutile e quasi offensivo, ‘invito’ del Presidente della Regione ai cittadini provenienti dalle zone rosse a comunicare la propria presenza al medico di medicina generale.  I medici di famiglia, a loro volta, sono allo sbando – senza istruzioni né coordinamento – perché non sanno cos’altro fare oltre che invitare alla quarantena volontaria, o come l’ha creativamente definita oggi il responsabile del Dipartimento Salute, fiduciaria.  Insomma, la prevenzione, in Puglia è affidata al buon senso dei cittadini. Peccato che qui il buon senso c’entri poco. In tanti, semplicemente, non sanno cosa fare in mancanza di direttive univoche e di controlli rigidi e serrati“. E così accade che il primo caso di Coronavirus, gestito in ‘quarantena fiduciaria’ abbia paralizzato un intero paese preoccupata dall’esito degli esami effettuati ai familiari di Massimo Mezzolla il ‘paziente 1’  pugliese, “considerato che per loro l’isolamento non c’è stato, ma hanno continuato la loro normale attività quotidiana, le ripercussioni saranno molto più serie” conclude la Franzoso.

Soltanto dalle 18 di questo pomeriggio la Regione Puglia si è degnata di attivare un numero verde informativo sul Coronavirus. Gli operatori del servizio rispondono al numero 800- 713931 tutti i giorni dalle 8 alle 22.

Coronavirus. L'on. Sasso (Lega) interroga il ministro Lamorgese sul "caso Taranto". Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2020. “Esprimo ferma condanna per l’atteggiamento del cittadino che ha infranto le più elementari norme del vivere civile e sto valutando di presentare anche un esposto alla Procura della Repubblica” il commento del parlamentare della Lega. “Ho presentato questa mattina una interrogazione parlamentare al ministro Lamorgese, affinché si chiariscano modi e tempi dell’allontanamento dalla zona rossa del giovane di Torricella (Taranto)“, rientrato in Puglia da Codogno e “che, stando a quanto dichiarato dalle autorità competenti, avrebbe contratto il Coronavirus“. Lo comunica in una nota il deputato pugliese della LEGA, Rossano Sasso. “Augurandomi che questo paziente possa guarire al più presto – prosegue – non posso rimanere indifferente dinanzi a una condotta irresponsabile che, laddove verificata, avrebbe messo a rischio la salute di centinaia di persone”. “Dalla ricostruzione del medico curante del paziente nonché consigliere regionale Giuseppe Turco (eletto nelle liste civiche di Emiliano – n.d.r.) – rileva Sasso – il giovane avrebbe preso l’aereo Milano-Brindisi, in violazione di legge ma soprattutto non curandosi del fatto di esporre la salute altrui al rischio contagio“. “Esprimo ferma condanna per l’atteggiamento del cittadino che ha infranto le più elementari norme del vivere civile – prosegue il parlamentare della Lega – e sto valutando di presentare anche un esposto alla Procura della Repubblica“. Coronavirus, l'appello del medico di Codogno: "Fuori i nomi e le foto dei malati, serve arginare l'epidemia". Libero Quotidiano il 24 Febbraio 2020. "Fuori i nomi e le foto dei malati di coronavirus". Questo l'appello di Ezio Scarpanti, medico di Codogno che avverte sull'unico modo "per sapere se si è stati in contatto con loro e arginare virus". Per l'esperto bisogna abolire la legge sulla privacy, perché nei focolai d'Italia - dove al primo posto spuntano la Lombardia e il Veneto - ci sono numerosi cittadini sottoposti alla quarantena, molti dei quali non sanno se sono a rischio o meno. Il motivo? I cittadini non sono a conoscenza né di chi sia il "paziente zero", il soggetto che per primo ha diffuso il virus, né di chi sia stato contagiato. Una situazione che non permette alle persone di risalire ai vari contatti avuti in precedenza e facilitare le ricerche di medici e non solo. 

"Nessun controllo, mi hanno detto che potevo partire", parla il pugliese positivo al Covid-19. Nella lettera l’uomo descrive sinteticamente il tragitto fatto nei cinque giorni in cui è stato nel piccolo comune di Caselle Lurani, in provincia di Lodi, da dove si è poi recato a Codogno. La Voce di Manduria giovedì 27 febbraio 2020. «Mi hanno detto di partire perchè non sono stato a contatto con le persone malate. Ho preso il volo Easy Jet del 24 alle ore 15 da Malpensa e sono partito: nessun blocco nessuna strada chiusa nessun controllo all’aeroporto». A parlare, attraverso una lettera che ha fatto uscire dall’ospedale di Taranto dove è ricoverato da due giorni in isolamento, e pubblicata su Manduriaoggi.it, è il torricellese positivo al primo tampone del coronavirus e per il quale si attende conferma dallo Spallanzani di Roma. Nella lettera l’uomo descrive sinteticamente il tragitto fatto nei cinque giorni in cui è stato nel piccolo comune di Caselle Lurani, in provincia di Lodi, da dove si è poi recato a Codogno, epicentro della diffusione del virus, per andare a trovare sua madre ricoverata in una struttura per malati di Alzheimer. «Mentre ci prepariamo per andare a trovarla – scrive il torricellese - sentiamo in tv le notizie relative alla situazione di Codogno e contattiamo la struttura (dove è ospitata sua madre, NdR), la quale ci rassicura e ci dice che potevamo andare a trovare la mamma. Arrivati li – prosegue - ci comunicano via telefono che non era possibile accedere e di tornare a casa: è proprio quello che abbiamo fatto. In serata poi apprendiamo dalla tv che tutto il paese era bloccato. Abbiamo chiamato per conferma e comunque non ci siamo più recati li. Un giorno prima di partire ho chiamato i numeri messi a disposizione, dicendo ciò che vi scrivo qui ora». Il 23 febbraio, quindi il giorno dopo il decreto ministeriale che blinda i comuni della cosiddetta cerchia rossa lodigiana, il torricellese avrebbe chiamato il medico curante della cognata il quale gli avrebbe inviato una email «con tutte le indicazioni che ho seguito alla lettera e nella quale diceva, essendo io asintomatico – fa sapere l’interessato -, potevo partire, ma in via precauzionale di mettermi in quarantena». Così alle ore 15 del giorno dopo, 24 febbraio, il torricellese ha preso il volo da Milano Malpensa ed è tornato in Puglia dove avrebbe rispettato la quarantena e avvisato le autorità cittadine. «Come sono arrivato ho contattato i vigili – racconta -, non sapendo qual era la situazione. Mi è stato riferito che, essendo stato a contatto a casa da mio fratello, dovevo stare in un periodo di quarantena anche se non ho avuto nessun contatto con lui. Ho allora chiamato i vigili, gli unici ad avermi risposto: a loro ho raccontato tutto». Durante la notte ha avuto brividi di febbre così ha informato il suo medico di fiducia, Giuseppe Turco, il quale ha attivato le procedure previste. Nella parte finale della lettera lo sfortunato protagonista esprime la sua amarezza per le reazioni scomposte di molti cittadini che soprattutto sui social lo hanno già condannato come un appestato diffusore del virus. «Vivo isolato – scrive - ma evidentemente non abbastanza, e spero di avere le spalle forti per sopportare tutta la cattiveria che sapete esprimere. Scatenatevi, dai, potete qui dire e giudicare tutti. Voi avreste fatto ciò che ho fatto io: queste erano le direttive. Spero solo che adesso ho saziato la vostra immonda curiosità, visto che io di ufficiale sono in attesa del secondo tampone. Ora potete pure sfogarvi!».

Coronavirus: i retroscena sul caso del 33enne di Torricella risultato positivo dopo un viaggio a Codogno. Il Corriere del Giorno il 26 Febbraio 2020. Secondo le prime informazioni il 33enne di Torricella è stato prelevato all’ Aeroporto di Brindisi e riportato a casa dove sarebbe entrato in contatto solo con la moglie. Da accertare chi abbia consentito al cittadino di Torricella di lasciare la “zona rossa” e prendere un aereo mettendo a rischio anche gli altri passeggeri. E’ arrivato in Puglia,  a Taranto il “Coronavirus“. A portarlo, risultando positivo un uomo di 33 anni, Massimo M. originario di Manduria e residente a Torricella (entrambe località in provincia di Taranto)  rientrato in Puglia pochi giorni fa da Codogno, zona “focolaio” del virus in Lombardia, dopo esser andato a trovare alcuni parenti,  volando in aereo lunedì sera da Milano Malpensa a Brindisi  per fare rientro a casa. Secondo le prime informazioni il 33enne di Torricella è stato prelevato all’ Aeroporto di Brindisi e riportato a casa dove sarebbe entrato in contatto solo con la moglie. Doveroso a questo punto accertare chi abbia consentito al cittadino di Torricella di lasciare la “zona rossa” e prendere un aereo mettendo a rischio anche gli altri passeggeri. Secondo notizie circolanti e mai smentite la persona ricoverata, sarebbe stato “consigliato” dal suo medico curante, tale Peppo Turco che è anche un consigliere regionale del centrosinistra, ed il 33enne affetto dal virus, il quale ancora prima di farsi ricoverare in Ospedale, si sarebbe rinchiuso nella sua villetta a Trullo di Mare sul litorale jonico, in una specie di “quarantena” autogestita, sino a quando le sue condizioni non sono peggiorate ed è stato allora che è scattato l’allarme sanitario anche in Puglia. Sui socialnetwork corre voce che il consigliere regionale Peppo Turco, in passato già sindaco di Torricella sarebbe stato al corrente di tutto, quale medico curante di Massimo M. (il 33enne originario di Manduria e residente a Torricella) ma si sarebbe preoccupato esclusivamente di “tutelare la nostra comunità”, cioè il paese in questione, senza rendersi conto che invece stava facendo esattamente l’opposto. Ma qualcosa non quadra, in quanto il 24 febbraio il Comune di Codogno (il “focolaio” principale del CoronaVirus) si trovava già in isolamento per decreto ministeriale. E giustamente qualcuno fa notare l’incongruenza con le dichiarazioni del medico curante Peppo Turco che è anche consigliere regionale eletto nelle liste civiche di Emiliano. Qualcuno quindi sta mentendo. Ci auguriamo a questo punto che la Procura di Taranto, segua l’esempio di quelle di Lodi e faccia la dovuta chiarezza sulla vicenda piena di contraddizioni, che definire inquiete, è dire poco. Dopo aver verificato gli avanzati sintomi riconducibili agli effetti del virus  le autorità sanitarie intervenute hanno trasferito Massimo M. con la massima cautela in ambulanza  all’Ospedale Moscati, ricoverandolo nel reparto Malattie Infettive, dove gli è stato praticato il tampone per la ricerca del virus. Incredibilmente il governatore pugliese Michele Emiliano che ricopre anche il ruolo di assessore alla sanità pugliese preso dalla foga di dare la notizia, ha persino sbagliato il nome dell’ ospedale indicandolo in un primo momento come il S.S. Annunziata di Taranto. Ma non solo, infatti Emiliano scrive nel suo comunicato stampa sopra riportato, che il 33enne affetto dal CoronaVirus avrebbe dichiarato di vivere da solo, quando invece sui socialnetwork si dichiara “sposato“. Dopo una serie di controlli medico-sanitari, ieri sera è arrivata  la conferma definitiva delle varie analisi effettuate presso il Policlinico di Bari . Tutte le procedure previste sono state applicare e rispettate. I medici con tutti i dispositivi di protezione dell’Ospedale di Taranto e il paziente sono attualmente  in isolamento in stanza a pressione negativa.  Conseguentemente il pronto soccorso dell’ Ospedale Moscati è stato chiuso al pubblico. Il test verrà domani trasmesso all’Istituto Superiore di Sanità per la conferma di seconda istanza. Tutte le persone con le quali il soggetto è stato in contatto dopo il soggiorno a Codogno verranno sottoposte a tampone e poste in quarantena nelle prossime ore secondo i protocolli previsti. La Regione Puglia a seguito dell’individuazione del caso sospetto in Provincia di Taranto ha reso noto, di concerto con il presidente della Provincia di Taranto, col sindaco di Taranto, col prefetto di Bari coordinatore dei prefetti pugliesi, con il direttore dell’ufficio scolastico regionale che, a partire dalla giornata di oggi e sino a domenica 1 marzo verranno effettuate in tutte le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Taranto, operazioni sanitarie di sanificazione, in attesa di concordare con il Governo una specifica ordinanza che contenga ulteriori provvedimenti di prevenzione sanitaria. A tal fine il presidente della Provincia di Taranto  e i sindaci dei vari comuni poichè il presidente della Regione Puglia non ha alcun potere per poter disporre la chiusura delle scuole, hanno emesso dei provvedimenti di chiusura degli istituti scolastici al fine di consentire di poter procedere alle necessarie operazioni di sanificazione.

TORRICELLA. Caso sospetto di coronavirus. “INCAPACITA’, SUPERFICIALITA’, INCOSCIENZA O ALTRO?” Viva Voce web il 2 marzo 2020. Da un post su facebook di Luigi Cannarile, cittadino torricillese, pubblichiamo questo articolo che mette in evidenza alcune anomalie sulla gestione amministrativa. “Chi mi conosce sa che prima di parlare o scrivere, cerco sempre di documentare la veridicità e la fondatezza di ciò che dovrò scrivere o dire. Sono attonito, frastornato e frustato dalle dichiarazioni pubbliche del sindaco Schifone e del Consigliere regionale Turco, componente la V commissione sanità del Consiglio regionale, nonchè medico, riguardo il modo di agire nella gestione dei casi di coronavirus verificatisi nella nostra comunità, che mi auguro qui restino confinati, senza ulteriore propagazione, sia nel nostro paese che in altre località della Regione Puglia.

Ora andiamo con ordine. Giorno 23/2020 il Governo Italiano approva un Decreto Legge nel quale si descrivono i comportamenti da adottare da parte di TUTTI, sia privati cittadini che Istituzioni preposte al contenimento del contagio da coronavirus; il 24/2/2020 tutte le regioni d’Italia, tra cui la Puglia, per volontà del Presidente Emiliano, adottano con proprio provvedimento le medesime indicazioni, in modo che ci sia uniformità di comportamento su tutto il territorio nazionale. Il 24/2/2020 alle ore 18.50 il Comune di Torricella pubblica sul profilo fb le disposizioni impartite dal Presidente Emiliano, evidenziando che tutti coloro che sono transitati dal focolaio di coronavirus lombardo-veneto HANNO L’OBBLIGO di comunicarlo alla ASL di appartenenza.

Nel tardo pomeriggio del 24/2/2020, con volo diretto Milano-Malpensa/Brindisi sbarca nella regione un nostro concittadino, il quale viene prelevato dall’aereoporto e portato a casa dal fratello. Successivamente, per stessa ammissione e ricostruzione dei fatti del Consigliere regionale Turco, il nostro concittadino telefona all’Amministrazione comunale e al Consigliere regionale, chiedendo lumi sul comportamento da seguire.

E qui cominciano i guai, perché qualcuno, sentendosi la Santissima Trinità, si arroga competenze non sue, consigliando al concittadino di isolarsi in casa insieme ai famigliari venuti in contatto, nonostante provenisse dalla ZONA ROSSA, cosi dichiarata dal Governo, avvisando l’ASL solo il giorno successivo, con il sopraggiungere dei primi sintomi di febbre.

Tale superficiale comportamento, disattendendo precisi obblighi di legge, ha fatto sì che l’ASL, quale organo sanitario preposto alla trattazione del caso, abbia agito e messo in campo il protocollo sanitario adatto alla situazione con estremo ritardo, non isolando immediatamente tutti i contatti del nostro concittadino, sia familiari, ma sopratutto, poichè più numerosi, i passeggeri del volo Milano-Malpensa/Brindisi, i quali, avendo una vita sociale come tutti noi, il giorno successivo hanno ripreso la loro vita quotidiana. Io mi auguro, io vi auguro, noi tutti ci auguriamo che i casi di coronavirus restino circoscritti alle sole unità finora dichiarati, ma se ciò non si avverasse, francamente non riesco a scorgere ombrello sotto il quale potersi riparare dalle future intemperie. Se vi è rimasta un po’ di dignità e amore per la comunità che vi ha cresciuto e fatto diventare ciò che siete, io ci aggiungo non meritandolo, dovreste dimettervi dalle funzioni alle quali siete stati chiamati con voto popolare e democratico, perchè non avete saputo tutelare, con la vostra incoscienza e superficialità, il bene più prezioso che un individuo abbia ricevuto dopo la vita, la SALUTE. “Messi rotta anzi na iamma” quel giorno del 2015 che sono andato a votare. E qui mi fermo”.

Coronavirus, è di Torricella il paziente zero della Puglia, positività da confermare a Bari. Il servizio del 118 che gestisce le ambulanze aggiuntive dedicate ai trasporti protetti dei casi sospetti, ha inviato sul posto il mezzo con autista e soccorritore. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 27 febbraio 2020. Ha trentacinque anni e fa il carpentiere il primo paziente affetto dal coronavirus in Puglia. Quando si è sentito male di trovava a Torricella da dove l’altro ieri, martedì 25 febbraio, è stato prelevato dall’ambulanza della Asl che lo ha trasportato in maniera protetta nel reparto malattie infettive dell’ospedale Moscati di Taranto. Sei giorni fa si trovava a Codogno, comune lombardo da dove è partita il focolaio che sta infestando il Nord Italia ed ore altre regioni italiane. Nello stesso reparto per infettivi di Taranto si trovano attualmente altri tre pazienti sotto osservazione, un orientale, un uomo e una donna italiani, quest’ultima proveniente da un comune dello stesso versante orientale della provincia jonica, rientrati da poco da un centro della zona rossa. A tutti e tre è stato eseguito il tampone inviato al policlinico di Bari per l’esame e la diagnosi che si saprà oggi. Il carpentiere già positivo, dopo il rientro dal lodigiano, soggiornava in un appartamento sulla costa, a Trullo di Mare, marina di Torricella, con un fratello e la cognata. Da quattro giorni aveva la febbre alta, inizialmente attribuita ad un ascesso dentario. Preoccupato di quanto sta accadendo nelle zone dove era stato sino alla settimana precedente, il trentacinquenne si è autodenunciato chiamando il numero del dipartimento di prevenzione esponendo i sintomi e comunicando di essere rientrato da poco dalla zona rossa. E così scattata la procedura prevista in questi casi.

Il servizio del 118 che gestisce le ambulanze aggiuntive dedicate ai trasporti protetti dei casi sospetti, ha inviato sul posto il mezzo con autista e soccorritore che hanno indossato i presidi di protezione individuale previsti, guanti, maschera, tuta di contenimento e occhiali. Nel frattempo il personale della centrale operativa del 118 ha dato istruzione al paziente e alle persone che erano eventualmente con lui, su come comportarsi. Di evitare contatti con l’esterno e a bendarsi la bocca con una maschera o, in mancanza, con un pezzo di stoffa qualsiasi. Ad entrare nella piccola casa sulla costa sono stati i due soccorritori. Ad aprire la porta è stata la donna che si è presentata con una sciarpa che le copriva il volto. Anche il marito aveva un asciugamano sulla bocca come protezione. Le sue condizioni, affermano i medici che lo hanno in cura, sono discrete, l’unico sintomo è la febbre alta che raggiunge i 38 gradi e mezzo nonostante la terapia antibiotica che il paziente assumeva già per via dell’ascesso ad un dente. Al suo ingresso in ospedale, il primario degli infettivi di Taranto, Giovanni Buccolieri, ha subito fatto eseguire il tampone che è stato inviato al Policlinico di Bari per l’esame. Ieri sera, intorno alle venti, è arrivata la risposta che ha confermato i sospetti. I sanitari del dipartimento di prevenzione ieri sera stavano prendendo contatti con i parenti con cui è è venuto in contatto in questi giorni che saranno sottoposti ad un isolamento. Gli specialisti studiano anche il percorso che l’uomo ha fatto per arrivare a Torricella. Voci, non confermate, affermano che a prenderlo da Codogno sia stato un suo parente. Nazareno Dinoi 

Coronavirus, da domani scuole chiuse in tutta la Provincia. La nota di Emiliano. E' la breve nota apparsa questa sera sulla pagina ufficiale Facebook della Provincia di Taranto. La Voce di Manduria mercoledì 26 febbraio 2020. «Le scuole di ogni ordine e grado della Provincia di Taranto saranno chiuse da domani e fino a sabato 29 febbraio 2020 per effettuare interventi straordinari di igienizzazione e sanificazione, con l’obiettivo di aumentare la sicurezza e garantire la serenità nel territorio». E' il breve post apparso questa sera sulla pagina ufficiale Facebook della Provincia di Taranto.

Ecco la nota completa: «I sindaci Jonici, la Asl, il Presidente della Provincia e la Prefettura, abbiamo seguito il caso sospetto del primo contagiato della nostra provincia a Torricella. Si tratta appunto di un caso sospetto che per essere accertato, come da protocollo dell’istituto superiore di sanità, deve risultare positivo anche al secondo tampone, risultato che avremo nella giornata di domani. Sentito il Prefetto, e attenendoci scrupolosamente alle direttive Ministeriali che suggeriscono di attuare misure precauzionali PROPORZIONATE abbiamo tutti condiviso il suggerimento responsabile di emettere ordinanze di chiusura delle scuole e relativa sanificazione fino a sabato 29 febbraio in attesa degli accertamenti del caso».

Il comunicato stampa del presidente Michele Emiliano: Il presidente della Regione Puglia a seguito dell'individuazione del caso sospetto in Provincia di Taranto comunica, di concerto con il presidente della Provincia di Taranto, col sindaco di Taranto, col prefetto di Bari coordinatore dei prefetti pugliesi, con il direttore dell'ufficio scolastico regionale che, a partire dalla giornata di oggi e sino a domenica 1 marzo verranno effettuate in tutte le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Taranto, operazioni sanitarie di sanificazione, in attesa di concordare con il Governo una specifica ordinanza che contenga ulteriori provvedimenti di prevenzione sanitaria. A tal fine il presidente della Provincia della Provincia e i sindaci emetteranno provvedimenti di chiusura degli istituti scolastici al fine di procedere alle operazioni suddette.

Coronavirus, 3 casi in tutto in Puglia: anche moglie e fratello del 33enne di Torricella. Quarantena per chi è stato in aereo con lui. I due erano già sottoposti a quarantena preventiva. Negativi gli altri test faringei eseguiti su presunti 20 casi sospetti. Graziana Capurso il 27 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Sono risultati positivi al test del Coronavirus anche il fratello e la moglie del contagiato numero uno in Puglia, il 33enne di Torricella (Taranto), rientrato lunedì sera da Codogno in aereo da Malpensa a Brindisi con volo easyjet 2827. Al momento i Nas stanno eseguendo i controlli a tutti gli altri passeggeri del velivolo, che sono stati messi in quarantena. Acquisiti già gli elenchi. I familiari del 33enne erano già in quarantena preventiva da ieri. Al momento sono ricoverati nel reparto di Malattie Infettive dell'ospedale Moscati di Taranto. I casi positivi in Puglia salgono quindi a tre. A comunicare la positività dei tamponi degli altri due contagiati pugliesi è il governatore Michele Emiliano che in una nota specifica: «L’indagine epidemiologica condotta dal Dipartimento di Prevenzione della ASL della Provincia di Taranto ha identificato i soggetti con i quali è entrato in contatto il paziente di Torricella. Si tratta della moglie e del fratello, ai quali è stato effettuato il test risultato positivo. Entrambi sono in quarantena fiduciaria da ieri. Anche per questi due casi sospetti si provvederà ad effettuare il test di seconda istanza da parte dell’Istituto superiore di sanità. Attualmente sono in corso le attività per sottoporre a permanenza domiciliare con sorveglianza attiva domiciliare i passeggeri del volo con il quale il paziente è rientrato da Milano Malpensa. L’elenco ed i relativi numeri di telefono è stato ricevuto nel pomeriggio dalla compagnia aerea e fatto oggetto di una apposita ordinanza contingibile ed urgente, che sarà notificata attraverso i Carabinieri dei NAS del Comando Provinciale di Bari». Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, informa anche che sono risultati tutti negativi al test per SarsCoV-2, l’agente eziologico del COVID-19,  i tamponi faringei dei casi sospetti giunti oggi al Laboratorio di riferimento regionale, in tutto 20 casi, tranne i due contatti stretti del caso di Torricella proveniente dalla città di Codogno. Il livello di allerta resta molto elevato e l’attività di screening per il nuovo virus dei casi sospetti continua incessantemente.

Sono tre i positivi a Torricella. Una ventina le famiglie in quarantena. E qualcuno comincia a chiedersi se è stato fatto il possibile per limitare il danno. La Voce di Manduria venerdì 28 febbraio 2020. L’Istituto superiore di sanità avrebbe confermato ieri la positività al coronavirus del primo torricellese ricoverato agli infettivi di Taranto. Ed è sempre di ieri la notizia che anche il fratello e la moglie del carpentiere sono risultati positivi al primo tampone che dovrà essere validato da Roma. Salgono quindi a tre i contagi in Puglia tutti di Torricella dove sono scattate le misure per contenere la diffusione del contagio. Si e cominciato dall’azienda dove lavora il fratello che è stata chiusa e tutto il personale, una ventina di persone, è stato invitato ad isolarsi in casa senza avere contatti con l’esterno. Resta da capire quanti e quali persone siano venute in contatto con i tre contagiati prima che tutto venisse a galla. E qualcuno comincia a chiedersi se è stato fatto il possibile per limitare il danno. In rete compaiono le foto delle chat tra il sospetto contagiato che sulla pagina ufficiale Facebook del comune di Torricella chiede di sapere a chi deve rivolgersi dal momento che è stato nella zona rossa di Lodi. Era lunedì 24 di pomeriggio. Chi gestisce la pagina del comune gli risponde di chiamare ai numeri nazionali e lui ribatte che lo ha già fatto senza successo, chiede ancora se ci sono «numeri di riferimento della Asl» locale ma dal comune rispondono di non avere altri numeri «se non quelli nazionali indicati dal Ministero». Eppure bastava ricordarsi dell’esistenza del 118 se non proprio quello più appropriato al caso del Dipartimento di Prevenzione della stessa Asl che nel frattempo si era già attivata per fronteggiare la crisi.

Per una corretta informazione sul “Covid-19”. Appello del sindaco di Torricella: "se avete avuto contatti con il paziente uno, contattatemi". "Noi lo escludiamo, ma per maggiore tranquillità e per il bene della nostra comunità....La Voce di Manduria venerdì 28 febbraio 2020. «Se ritenete di avere avuto contatti con il signore positivo al coronavirus siete pregati di contattarmi immediatamente e attiveremo le procedure del caso». È l’appello che il sindaco di Torricella, Michele Schifone, ha lanciato alla sua comunità attraverso un video messaggio fatto girare sui social. «Qualcuno sostiene di avere avuto contatti con il signore in questione, noi lo escludiamo, ma per maggiore tranquillità e per il bene della nostra comunità, se ciò è accaduto vi invito a contattarmi personalmente per attivare il protocollo previsto per fare i tamponi ed accertarci che non è avvenuto il contagio». Attualmente a Torricella si trovano in quarantena fiduciaria al proprio domicilio, perché positivi al tampone, la moglie e il fratello del paziente uno, il carpentiere tuttora ricoverato nel reparto infettivi del Moscati di Taranto. Un’altra ventina di famiglie di dipendenti dell’impresa metalmeccanica di Torricella dove ha lavorato il fratello del paziente uno, si trovano in permanenza domiciliare in attesa di comunicazioni da parte delle autorità sanitarie. Nessuno sinora avrebbe mostrato sintomi dell’infezione.

Morta a Codogno la madre del primo contagiato dal coronavirus di Torricella. Era già malata e ricoverata in una clinica. La Voce di Manduria sabato 07 marzo 2020. E’ morta nella clinica di Codogno specializzata nella cura all’Alzheimer la mamma del primo contagiato pugliese dal coronavirus, il 43enne di Torricella ricoverato ancora in isolamento a Taranto. La brutta notizia gli è stata comunicata nella notte nel reparto di malattie infettive del Moscati dove l’uomo si trova dal 26 febbraio scorso. Le condizioni del figlio, seppure in fase di miglioramento, non gli consentiranno di essere presente ai funerali che si terranno domani nel comune di Codogno dove, tra l’altro, non potrebbe nemmeno arrivare perché ancora interdetto a causa dell’epidemia. L'anziana madre era già malata e per questo ricoverata in clinica. L’uomo si era recato a Codogno proprio per farle visita senza riuscirci perché nel frattempo la clinica aveva chiuso gli accessi agli esterni per prevenire possibili contagi. Da ieri è ricoverata in rianimazione anche la moglie del 43enne, positiva anche lei al virus.

A casa il primo contagiato di Torricella: "Finalmente respiro, ora aspetto mia moglie". Massimo Mezzolla lascia il reparto infettivi dopo sedici giorni di isolamento. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 13 marzo 2020. «Sto molto bene, finalmente posso respirare aria pura di casa mia». Dopo sedici giorni di isolamento in ospedale e due a casa prima del ricovero protetto nel reparto infettivi per la comparsa dei sintomi, il primo pugliese contagiato dal coronavirus contratto a Codogno, è stato dimesso ed ha potuto così far rientro a Trullo di Mare, piccola frazione marina di Torricella, in provincia di Taranto. Per la prima fa cadere l’anonimato sul suo nome. Si chiama Massimo Mezzolla, ha 43 anni e lavora come carpentiere in una piccola impresa di Torricella che «non non vede l’ora di riprendermi a lavoro», dice lui, soddisfatto. Ha lasciato da poco il reparto dell’ospedale Moscati di Taranto che dal 26 febbraio scorso è stato la sua prigione. «Mi hanno trattato tutti benissimo, sia medici che infermieri e ausiliari e per questo li ringrazio tutti con una stretta di mano virtuale. Penso ai ragazzi delle pulizie che non so come facessero a lavorare con tutte quelle cose addosso così ingombranti; un ringraziamento particolare ai primi che mi hanno soccorso con l’ambulanza, sono stati bravi e mi molto gentili». Per quanto confortevole sia stata la sua permanenza e per quanto cortesi siano stati coloro che lo hanno tenuto in cura, l’aria di casa è sempre un’altra cosa. «Mi mancava l’aria del mare – dice - mi mancava l’aria di casa mia; anche se dovrò stare ancora in quarantena, mi consolerà questa meravigliosa aria pulita». Inevitabile, poi, il pensiero alla moglie che, contagiata da lui, è ancora ricoverata nella rianimazione dello stesso ospedale Moscati. «Povera, ne avrà ancora per una decina di giorni ma sta migliorando lentamente», afferma Mezzolla che oltre alla moglie ha contagiato anche il fratello e una nipote, entrambi al momento senza sintomi. Il quarantatreenne ha voglia di parlare per rifarsi di tutte le ore vissute in solitudine quando l’unico contatto con l’esterno era assicurato dallo smartphone e dai social. «Vorrei dare un messaggio di speranza per tutti, vorrei dire che andrà tutto bene, che dobbiamo essere pazienti perché quando sarà passato saremo tutti più consapevoli e più forti nell'affrontare le difficoltà della vita con la giusta attenzione; ce la faremo, ne sono certo». La gioia di tornare a casa non basta però a cancellare le amarezze di questa sua esperienza. «Ho ricevuto minacce sui social dove mi hanno dipinto come l’untore della Puglia quando la verità è che sono stato l'unico a rispettare un protocollo che ancora non era in vigore nella nostra regione». Il tono del carpentiere diventa più cupo. «La gente mi ha massacrato senza conoscere i fatti, sono sicuro che se avessero potuto mi avrebbero ammazzato non solo nella vita virtuale ma anche fisicamente». In effetti sui social è accaduto di tutto. «Le minacce sono state tante – dice Mezzolla -, sia a me, sia alla mia famiglia e ora che la verità si conosce, invito tutti a meditare perché oggi il dito è stato puntato contro di me, domani potrebbe accadere a chiunque la stessa cosa». Alcuni, pochi per la verità, si sono anche scusati con lui. «Non so che farmene delle scuse di molti», afferma il torricellese che fa un paragone di natura geografica. «In questi giorni in cui ho pensato molto a ciò che mi stava accadendo, mi chiedevo perché il trattamento ostile che mi è stato riservato per essere stato il primo contagiato pugliese, non è stato uguale per il primo contagiato di Codogno?». Un interrogativo che rimane senza risposta perchè ora Massimo Mezzolla, l’«untore pugliese», deve pensare a riprendersi pensando al giorno che anche la moglie tornerà a casa. Nazareno Dinoi 

Ecco come la sanità pugliese gestita da Emiliano non controlla il CoronaVirus. Il Corriere del Giorno il 12 Marzo 2020. La realtà dei fatti è  che in molte strutture ospedaliere il personale medico non effettua i tamponi esclusivamente per motivi economici, circostanza questa che dimostra l’incapacità del governatore Emiliano di garantire gli standard previsti per tutelare la popolazione pugliese dal rischio di contagio. Vi raccontiamo cosa è accaduto ad un operatore sanitario in un ospedale pugliese. Nella struttura presso cui presta servizio è stata ricoverata nei giorni scorsi una anziana signora affetta da disturbi polmonari, alla quale però nessuno ha mai pensato di effettuare un tampone. L’operatore sanitario si è immediatamente preoccupato di una eventuale contaminazione ed ha quindi allertato i settori competenti, ma tutti i medici hanno preso alla leggera la vicenda, escludendo qualsiasi tipo di rischio e nessuno loro si è mai sognato di effettuare alcun controllo sulle condizioni di salute dell’ anziana signora ricoverata. Qualche giorno dopo l’operatore sanitario ha iniziato ad avere dei disturbi, ed ha contattato il numero verde previsto dal ministero e cioè il 1500, dove è stato risposto di rivolgersi al medico di base o alla guardia medica, o viceversa di continuare a lavorare a proprio rischio e pericolo  nel proprio reparto in ospedale mantenendo però una distanza di almeno 2 metri da tutte le altre persone. Resta da capire però come questo operatore sanitario avrebbe mai potuto continuare lavorare! Sono 90 al momento casi di infezione da CoronaVirus accertati in Puglia, 25 in più nelle ultime 24 ore, ed aumento il numero dei medici che si ammalano, o che sono costretti alla quarantena. Sono il Foggiano e il Salento le aree con più contagiate, ma preoccupa la situazione anche in provincia di Brindisi. Ieri a Cisternino  il virus è stato rilevato in altri cinque pazienti, tutte persone rientrate dal Nord in Puglia per un funerale. Un altro caso di positività è stato registrato a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi e riguarderebbe un’ insegnante di una scuola superiore, che è stata ricoverata presso il locale Ospedale Perrino. Preoccupazione a Bari per il contagio di un barista che lavorava in un bar molto frequentato  del quartiere San Paolo i cui proprietari hanno deciso di chiudere per precauzione e hanno invitato tutti coloro che frequentano il locale a restare in isolamento.  Non ci risultano accertamenti sanitari in corso anche per questo episodio. Attenendosi ai numeri ufficiali  i casi di positività riscontrati ed accertati dal laboratorio del Policlinico sono stati come dicevamo sopra 25.  Si tratta il numero più alto dall’inizio del contagio nella Regione Puglia. A Bari e in altri comuni della stessa provincia sono stati rilevati 4 casi;  nella Bat 2 casi; in provincia di Brindisi 4 casi,  così come  nel Foggiano, che resta l’area più colpita. Altri 2 nuovi casi, anche in questo risalenti ai giorni scorsi riscontrati a Gagliano del Capo (Lecce), uno in provincia di Taranto. Quest’ultimo riguarda una  donna di Torricella, parente delle altre tre persone contagiate nello stesso paese, che è la nipote del 43enne Massimo Mezzolla, un carpentiere 33enne originario di Manduria, rientrato da Codogno lo scorso 24 febbraio,  ricoverato all’ospedale Moscati da cui è stato dimesso proprio oggi. Invece la moglie del portatore del CoronaVirus nel tarantino, inizialmente asintomatica, nei giorni successivi è stata ricoverata  nello stesso ospedale per per complicazioni di una crisi respiratoria , e ora si trova sottoposta a ventilazione controllata. Il fratello del Mezzolla appena dimesso non presenta sintomi particolari e si trova attualmente n quarantena fiduciaria nella sua abitazione. E pensare che il consigliere regionale-medico di base Peppo Turco sosteneva che il suo assistito non fosse stato a contattato con nessuno al suo rientro da Milano Malpensa! Nella tarda serata di ieri il sindaco di Massafra (Taranto) ha reso noto della positività al virus  accertata ad un tarantino che lavora a Massafra. Il sindaco ha anche aggiunto che l’ASL Taranto starebbe mettendo in atto la profilassi necessaria che prevede l’imposizione alla famiglia e i colleghi di lavoro del contagiato nelle prossime ore di sorveglianza sanitaria obbligatoria. Il paziente infetto in realtà risiede a Taranto e lavora a Massafra  alle  dipendente della CISA  spa, è stato ricoverato in medicina al SS Annunziata prima di essere trasferito al Moscati. Si era presentato all’ Ospedale SS Annunziata per una polmonite senza dire niente di essere stato in contatto con una persona di Torino infetto dal CoronaVirus . Poi la moglie ha confessato. I dipendenti della CISA al momento sono in quarantena ed aspettano l’esito di altri quattro tamponi. La realtà dei fatti è  che in molte strutture ospedaliere il personale medico non effettua i tamponi esclusivamente per motivi economici, circostanza questa che dimostra l’incapacità del governatore Emiliano di garantire gli standard previsti per tutelare la popolazione pugliese dal rischio di contagio. Sarebbe interessante accertare quante chiamate dalla Puglia sono pervenute ai numeri previsti dal Ministero della Salute, e sopratutto capire il grave ritardo con cui la Regione Puglia ha istituito il numero verde locale da contattate. Non a caso come potete vedere con i vostri occhi, nel prospetto iniziale diramato dal Ministero della Salute, fra i numeri verdi delle varie regioni non compariva la Puglia. La domanda legittima da porsi a questo punto è questa: ma in Puglia dovevamo aspettare che un incosciente di Torricella (Taranto) recatosi a Codogno, il principale focolaio di CoronaVirus in Italia, rientrasse in aereo da Milano Malpensa a Brindisi senza sottoporsi ad alcun controllo fidandosi soltanto dei consigli scellerati del proprio medico di base Peppo Turco che come spiegavamo, è anche un consigliere regionale eletto nelle liste civiche di Emiliano. Per non parlare poi del personale sanitario ospedaliero abbandonato a se stesso senza mascherine, come quello di Andria (Bari) e Manduria (Taranto) che ha dovuto farsi realizzare a proprie spese dalle sarte locali delle mascherine, visto che la Regione Puglia e le ASL territoriali non le hanno fornite ! Emiliano se preferisce, può rispondere al suo compagno di partito Ludovico Vico che con un nota chiede  come mai, a tutt’oggi, non a tutto il personale ospedaliero è stato ancora fornito il Dispositivo di Protezione Individuale ( mascherine Ffp3 e Ffp2, occhiali, tute, ecc) per poter svolgere serenamente il proprio lavoro. O forse vuole querelare anche lui ? Risultato finale: il CoronaVirus ha invaso Puglia ringraziando la mancanza di controlli effettuata su tutte le persone provenienti dalle zone a rischio di contagio. Non a caso l’assessore regionale alla salute si chiama Michele Emiliano. Speriamo,  ancora per poco.

Coronavirus, positivo al test un medico dell'ospedale di Copertino. Contagiata anche la moglie del 58enne di Aradeo. Maddalena Mongiò su Il Quotidiano di Puglia Giovedì 5 Marzo 2020. Ci sono due nuovi casi di coronavirus nel Salento: un medico di Copertino e la moglie del 58enne di Aradeo. A Copertino il contagiato un medico che lavora nell’ospedale “San Giuseppe da Copertino”, risultato positivo al test effettuato a Lecce. L'ospedale ha bloccato i ricoveri.

Il primo esame del tampone è stato fatto nel Laboratorio di microbiologia del Vito Fazzi e ora il campione sarà analizzato nuovamente al Policlinico di Bari, come prevede il protocollo sanitario previsto. Le sale operatorie dell’ospedale sono chiuse per la sanificazione. Medici e infermieri della sala operatoria di Copertino sono stati messi in quarantena. Un caso, questo di Copertino, che ha destato grande preoccupazione tra i sanitari dell’ospedale, ma che preoccupa anche per il fatto che, stando alle prime ricostruzioni, il medico non rientrerebbe tra coloro che hanno avuto contatti stretti con il caso 1 del Salento, il 58enne di Aradeo. Il secondo caso ruguarda infatti proprio Aradeo, dove è risultata positiva al Civd - 19 la moglie del 58enne contagiato. La donna, insieme ai familiari più stretti si trovava già in isolamento.

Coronavirus, parla il contagiato del Salento: «Insulti e minacce, non sono un untore». E si prepara alla battaglia legale. Il Quotidiano di Puglia Giovedì 3 Marzo 2020. «Non sono uno sprovveduto. E non merito questo linciaggio, mi dispiace aver provocato questa confusione, ma non sono un irresponsabile». Provato dagli insulti piovuti in queste ore sui social, a centinaia, l'artigiano 58enne di Aradeo - che chiameremo Marco - contagiato dal coronavirus, si sfoga, contatta il suo avvocato annunciando querele e, nel pomeriggio, sfiancato, chiede rispetto: «Ho bisogno di riposare, di staccare la spina». Insulti, minacce e offese sono cominciati lunedì, nel tardo pomeriggio, quando le autorità sanitarie hanno confermato che il tampone effettuato su Marco ha dato esito positivo. «Non è per me che mi preoccupo, ma per i miei figli, che hanno 21 e 25 anni e che stanno subendo questa situazione. Mi dispiace sinceramente per tutto quanto accaduto, ma siamo tutti sotto lo stesso cielo: non sono un untore». Marco è partito per Milano sabato 22 febbraio, 24 ore dopo la notizia del primo contagiato da Covid-19 in Italia: un 38enne lombardo ancora ricoverato in gravi condizioni all'ospedale di Codogno. In poche ore i contagiati diventano 132. Marco non si preoccupa, non si trova nella zona rossa e non ha tempo di leggere i giornali, ha degli impegni cui tenere fede. Insieme alla moglie rispetta il suo programma settimanale: si presenta a un appuntamento di lavoro, poi si sposta a Como e lunedì 24 febbraio rientra nel Salento con un volo low cost, atterrato a Brindisi in serata. «A quel punto racconta ho chiamato il 112 e comunicato che rientravo dalla Lombardia. Mi hanno ringraziato e mi hanno detto di tenermi in contatto con il medico di base. E così ho fatto. Stavo bene, sono andato a lavorare, come sempre. Non avevo nulla, nemmeno la febbre». Sabato sera, 29 febbraio, va ad una festa privata, a casa di un'amica. «Una festicciola privata precisa il 58enne non veglioni o feste di piazza come pure ho letto su Facebook. Sono stato sempre bene. Poi domenica ho avuto una febbricola, la temperatura è arrivata a 37.4. Ho preso una tachipirina e un'altra la sera. Ho dormito senza problemi e la mattina, per precauzione, ne ho presa una terza ma più forte, una tachipirina 1000. A quel punto mi sono sentito male, sono svenuto. Mia moglie si è preoccupata tantissimo e ha insistito perché andassimo al Pronto soccorso». Marco, insomma, si presenta in ospedale senza pensare a quella febbriciattola del giorno precedente, ma invece preoccupandosi del malore che lo aveva colto così, improvviso, e che, gli diranno poi i medici, potrebbe essere stato causato dal medicinale troppo forte. I medici dell'ospedale di Galatina effettuano tutti gli accertamenti (uno di loro finirà in isolamento, dopo la visita, ndr), domandano a Marco dove fosse stato e, scoperto il viaggio a Milano, gli fanno un tampone. Il risultato è positivo, il ricovero immediato nel reparto di Malattie infettive. «Ma io continua l'uomo di Aradeo sono sempre stato bene. E penso di aver fatto il mio dovere: ho avvisato del rientro e stavo bene, sono andato avanti con la mia vita di sempre. Chi poteva mai pensare che quella febbre, così bassa, fosse da coronavirus?». Lo stesso interrogativo che oggi serpeggia fra i cittadini, nel Salento e oltre, perché sintomi e manifestazioni del Covid-19 variano da persona a persona e se ci sono stati e ci sono casi di contagiati finiti in terapia intensiva, ce ne sono stati e ce ne sono altri di persone che hanno contratto il virus e sono guarite restando sul divano di casa e utilizzando normali antipiretici. «Non pensavo davvero di avere qualcosa conclude Marco e sì, sono venuto in contatto con tante persone in salone e fuori, ma non sono sprovveduto: stavo bene. E sono stato inondato di offese e menzogne». Amareggiato da insulti e minacce ricevuti, soprattutto via social, Marco ha contattato anche il suo avvocato, Roberto Tarantino. «Si devono fermare dice il legale -, Marco sta ricevendo da ore centinaia di insulti e offese, per di più senza che nessuno sappia come sono realmente andate le cose. Non appena avremo modo di confrontarci con maggiore serenità e calma, decideremo insieme il da farsi, ma certamente questa situazione è intollerabile». Intanto l'imprenditore di Galatina tirato in ballo come datore di lavoro della moglie del 58enne contagiato da coronavirus ha smentito, via social, di avere la donna tra i suoi dipendenti o collaboratori. Anche questa notizia ha preso a circolare via social - su Facebook e Whatsapp - senza trovare alcun riscontro e alimentando invece il mare magnum di fake news montate in queste ore di confusione e apprensione generalizzate. 

Coronavirus, manduriano tenuto in isolamento (ma è prassi). ​Nella bufera creata dalla notizia dei tre torricellesi positivi al coronavirus, primi casi in Puglia, ha preso spazio a Manduria un’altra storia legata sempre al virus che spaventando il mondo intero e che non risparmia la città. La Voce di Manduria venerdì 28 febbraio 2020. Nella bufera creata dalla notizia dei tre torricellesi positivi al coronavirus, primi casi in Puglia, ha preso spazio a Manduria un’altra storia legata sempre al virus che sta spaventando il mondo intero e che non risparmia la città Messapica. Si tratta di un tecnico manduriano che per lavoro nei giorni scorsi è stato proprio a Codogno dove si è fermato dal 18 al 21 febbraio. Nei confronti dell’uomo che sta perfettamente bene e non presenta sintomi, il comune di Manduria ha emesso un’ordinanza di permanenza domiciliare che lo obbliga a restare in casa in un «isolamento fiduciario» sino a quando non lo si riterrà fuori pericolo. L’uomo che periodicamente riceve la visita dei vigili urbani che controllano il rispetto della quarantena opportunamente coperti dai dispositivi di protezione individuale, tiene a far sapere che la misura adottata nei suoi confronti rientra tra le procedure di prevenzione standard e che non presenta nessun sintomo. Il tecnico ha lasciato Codogno il giorno prima che scattasse il divieto di abbandono della città. «Mi trovavo nel treno di rientro a Lecce – racconta –, quando ho scoperto quello che stava accadendo a Codogno che avevo appena lasciato». Sempre durante il viaggio il sessantaduenne manduriano ha potuto informarsi del decreto ministeriale che lo obbligava a comunicare alle autorità sanitarie del proprio paese di essere stato nel centro del lodigiano. «Così ho fatto, prima ai vigli urbani e poi al 118 dove ho ricevuto le informazioni necessarie». Poi l’altro ieri sera la visita dei vigili urbani che gli hanno notificato l’ordinanza di permanenza domiciliare. Intanto una buona notizia che tranquillizzerà quanti in queste ore hanno inseguito le voci di una donna manduriana ricoverata agli infettivi con il sospetto del contagio. Il tampone è negativo. Il suo era uno de venti tamponi «sani» annunciati ieri dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, nello stesso post in cui ha comunicato invece la positività del fratello e della moglie del carpentiere di Torricella ricoverato da martedì a Taranto. Salgono quindi a tre i positivi a Torricella, di cui uno, il primo, già confermato anche dal Ministero mentre per gli altri due si attende la conferma dell’Istituto superiore di Sanità di Roma.

C’è chi si chiede quanti, tra i numerosi studenti e imprenditori rientrarti a Manduria dalle zone rosse del Nord, abbiamo comunicato il proprio stato alle autorità del posto così come ha fatto il tecnico che attualmente si trova «agli arresti domiciliari». Il flusso degli arrivi in aumento lo si è potuto vedere dagli arrivi dei pullman pieni della Marozzi ed altre compagnie di trasporto che quotidianamente scaricano passeggeri al capolinea di Sant’Antonio.

Dagospia il 28 febbraio 2020. Da video.lastampa.it. In Puglia non è stato registrato alcun contagio da coronavirus, ma nonostante ciò a Bari le mascherine e l’amuchina sono introvabili in molte farmacie. Gli abitanti intervistati dalla tv locale Antenna Sud, però, non sembrano troppo preoccupati. La reazione di alcuni di loro è spiazzante: le risposte sono rimbalzate sui social, provocando ilarità. «Quando vuole venire questa malattia, venisse pure», risponde un anziano all’intervistatore. «Io ho mangiato le cozze e il polpo quando c’era il colera», replica invece un’altra donna.

Sei avetranesi in quarantena, erano sul volo Milano-Brindisi dove viaggiava il paziente 1 pugliese. Redazione De La Voce di Maruggio l'1 Marzo 2020. Sono sei passeggeri di Avetrana che erano a bordo del volo Milano-Brindisi che hanno viaggiato il 24 febbraio scorso col paziente di Torricella. I sei, una famiglia composta da 4 persone e una composta da 2 sorelle, sono stati messi in quarantena precauzionale. Ai due gruppi di avetranesi è stata notificata l’ordinanza da parte dei carabinieri del Nas per le disposizioni di quarantena (permanenza domiciliare) disposta dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Al momento stanno tutti bene e nessuno di loro presenta sintomi che possano. «Ai passeggeri del volo Milano-Brindisi che hanno viaggiato col paziente di Torricella  – scrive Michele Emiliano – è stata notificata la mia ordinanza da parte dei Carabinieri del NAS per le disposizioni di quarantena (permanenza domiciliare). I Servizi di Igiene Pubblica dei Dipartimenti di Prevenzione delle ASL di Taranto, Brindisi e Lecce hanno rintracciato e posto in sorveglianza attiva sanitaria rispettivamente i 32, 33 e 35 residenti nelle sopraindicate province, che si sono imbarcati su quel volo. Sono state, altresì, spiegate le misure precauzionali che devono adottare. Sono in corso  – conclude il Governatore dell Regione Puglia – ulteriori approfondimenti su alcuni passeggeri che risulta non abbiano più viaggiato su quel volo e su alcuni passeggeri stranieri e/o turisti non residenti in Puglia».

Finalmente i dati sul coronavirus: a Manduria 12 positivi e due decessi. I comuni del circondario manduriano segna questa situazione di contagiati: Sava 5, Torricella 5 e Avetrana 2. Con zero positivi vince la medaglia il comune di Maruggio. La Voce di Manduria venerdì 22 maggio 2020. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus in Puglia, i manduriani contagiati dal virus sono stati 12, due dei quali sono morti. Il dato aggiornato al 20 maggio è stato fornito ieri dal Dipartimento di prevenzione della Asl di Taranto che ha finalmente fornito la statistica ufficiale del fenomeno comune per comune. A Manduria abbiamo avuto 12 Covid positivi, 9 uomini e 3 donne. Numeri più o meno noti tranne quello dei lutti, due secondo il bollettino Asl che sono completamente sfuggiti alle cronache locali fatta eccezione per un solo caso di cui si era anche ipotizzato ma seccamente escluso dagli stessi parenti. I comuni del circondario manduriano segna questa situazione di contagiati: Sava 5, Torricella 5 e Avetrana 2. Con zero positivi vince la medaglia il comune di Maruggio rimasto ancora immacolato. Con due decessi per Covid, la città Messapica conquista il terzo posto nel podio provinciale dove il secondo è occupato da Castellaneta e Martina Franca parimerito con 4 morti a testa e primo a Taranto con 11 lutti.

«Voli dal Nord? Nessun controllo». Polemica sull’aeroporto di Bari. La replica di Adp: protocolli rispettati regolarmente. Ninni Perchiazzi il 26 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno.  Schizofrenia Coronavirus. Aumentano i casi al Nord Italia, s’impennano timori, fobie e suggestioni, che autorizzano ogni tipo di cattivo pensiero e illazione, a volte con ipotesi sensate, in altri casi con iperboli tendenti anche alla catastrofe. Così, porti, aeroporti e stazioni (ferroviarie e marittime), possibili crocevia, con effetto moltiplicatore, della diffusione dell’infezione, sono giustamente oggetto di specifica attenzione, anche se i controlli, al momento sono previsti solo negli scali aerei. A chiedere lumi sui protocolli sanitari adoperati all’aeroporto Karol Wojtyla di Palese è un lettore della Gazzetta che, in una lettera firmata rivela l’assenza di controlli sui viaggiatori di alcune tratte nazionali provenienti dalle regioni colpite dal terribile «Covid-19». «Un amico è partito ieri mattina per lavoro a Milano, è stato in giro per tutta la città da clienti ed è rientrato in serata a Bari, dove, in aeroporto non è stato effettuato alcun controllo sui passeggeri del suo volo», scrive. «Inoltre non è stato informato di restare a casa o di segnalare al medico curante di essere stato in una delle regioni in cui è presente il virus. Stessa cosa è successa venerdì sera ad amici proveniente dal Veneto (abitano in provincia di Padova). È possibile che non venga fatto nessun controllo e che non ci siano medici o informatori in aeroporto?», dice ancora, non senza un pizzico di polemica. La risposta Aeroporti di Puglia non fa attendere la replica, assicurando di adoperare «la massima e dovuta attenzione» nel seguire la vicenda. «In coordinamento con il Ministero della Salute, Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera), il dipartimento nazionale della Protezione Civile, Enac , Assaeroporti , Regione Puglia, Protezione Civile regionale, vengono rigorosamente applicati i protocolli al momento previsti in materia di controlli ai passeggeri in arrivo che allo stato attuale interessano i voli internazionali e, in ambito nazionale, solo ed esclusivamente quelli provenienti dall’aeroporto di Roma», si spiega in una nota. In pratica, chi decide i controlli è l’Usmaf, che per ora non reputa di dover estendere il raggio di ispezioni e verifiche ai voli provenienti da Lombardia, Veneto e Piemonte , come spiegano da Adp. «Nessuna nuova indicazione è al momento stata impartita dal ministero della Salute per il tramite dei competenti uffici dell’Usmaf per estendere i controlli di cui sopra», scrivono, non senza assicurare che «la struttura di Aeroporti di Puglia, ad ogni livello, è costantemente impegnata nel monitorare la situazione e pronta a porre tempestivamente in essere ogni iniziativa utile alla salvaguardia della salute pubblica, rendendo immediatamente operative eventuali nuove determinazioni che dovessero essere assunte dalle Autorità nazionali competenti, anche in ordine all’estensione dei controlli sanitari attualmente eseguiti».

Passeggeri del volo preso dal torricellese, undici di Carosino in quarantena. Lo fa sapere il sindaco di Carosino, Onofrio Di Cillo che è in continuo contatto con il Direttore dell’ASL competente territorialmente oltre che con il Governatore Emiliano. La Voce di Manduria lunedì 02 marzo 2020. Dopo Avetrana, anche Carosino all’attenzione dell’opinione pubblica per il “caso” coronavirus. Personale dei Servizi di Igiene Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’ASL di Taranto ha posto, in via precauzionale, in quarantena fiduciaria undici cittadini di Carosino che si trovavano a bordo dello stesso aereo che il 24 febbraio scorso ha portato a Brindisi il 43enne di Torricella, primo caso pugliese risultato positivo al tampone relativo il Coronavirus. I concittadini destinatari dell’ordinanza notificata da parte dei carabinieri del Nas al momento non presentano sintomi influenzali o altri disturbi. Lo fa sapere il sindaco di Carosino, Onofrio Di Cillo che è in continuo contatto con il Direttore dell’ASL competente territorialmente oltre che con il Governatore Emiliano. Secondo il Sindaco Di Cillo “éimportante rassicurare i cittadini in quanto non vi sono motivi per creare panico ed allarmismo. I concittadini sottoposti a permanenza domiciliare – fa sapere - stanno bene e sono monitorati attivamente, almeno due volte al giorno, da parte del personale dell’Asl competente. Tuttavia – aggiunge il sindaco - invito tutti al rispetto delle regole già imposte a livello nazionale, al solo scopo precauzionale e a rivolgersi alle autorità competenti per qualsivoglia dubbio». Detto questo, il primo cittadino smentisce le voci diffuse su possibili contagi nel suo comune. «Non vi è nessun caso di contagio ma si tratta solo di misure adottate a scopo preventivo, sarà comunque mia cura informare costantemente i cittadini sull’evolversi della vicenda», conclude Di Cillo.

Corona Virus, secondo caso a Bari: è la moglie del militare 29enne che lavora all'aereoporto di Bergamo. In Puglia 7 positivi. La donna è risultato positiva al Policlinico. E l'uomo di Aradeo è un parrucchiere. Nicola Pepe il 03 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Diventano 7 i contagiati da coronavirus in Puglia, il secondo nella città di Bari. Com’era prevedibile, nella serata di ieri, al Policlinico di Bari è risultata positiva al virus la moglie del militare 29enne barese ricoverato al Reparto malattie infettive al suo rientro dalla Lombardia dove lavora (è un rappresentante delle forze dell’ordine) all’Aeroporto di Bergamo. Il giovane, da quanto si è appreso, è rientrato nello scorso week end con un aereo Ryanair, poi ha accusato malore e alla prima comparsa della febbre è andato direttamente in ospedale. Si è attivata la procedura per la notifica e verifica ai passeggeri che erano con lui sul volo e il gas è stato notificato alla struttura sanitaria che gestisce gli Aeroporti. La moglie, come detto, è stata contagiata anche lei e attualmente si trova in isolamento fiduciario presso l’abitazione (non abitano in un condominio). Il caso è stato notificato, come peraltro prevede la nuova ordinanza del Governo, al medico di famiglia. A Bari, intanto, il sindaco Decaro ha attivato il Coc, il centro operativo comunale previsto dal Piano di Protezione civile per gestire l'emergenza e prevenire contagi. Una misura necessaria alla luce dei nuovi casi e del rischio di potenziali diffusioni del virus nella collettività barese. Salgono così a sette, dunque, i casi positivi al coronavirus in Puglia. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello di di un 58enne di Aradeo, in provincia di Lecce ricoverato all’ospedale di Galatina. L’uomo, si è appreso, è un parrucchiere che è stato in Lombardia per un corso di aggiornamento. Sarebbe rientrato oltre una settimana fa, e ha continuato regolarmente a lavorare, anche in casa di alcune clienti. Attualmente sono in corso le indagini epidemiologiche per ricostruire la catena di contatti e verificare eventuali altri contagi. I sindaci di Aradeo, Galatina e Nardò hanno disposto per oggi la chiusura delle scuole per garantire la sanificazione degli ambienti. 

Bari, il racconto della moglie (malata) del militare ricoverato per coronavirus: rispettate le regole, ma su di noi insulti e minacce. La donna sta bene ma è in isolamento fiduciario, mentre il marito è al Policlinico. Hanno seguito tutte le indicazioni previste al rientro dalla Lombardia. Flavio Campanella il 04 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. È stato il sito internet della «Gazzetta del Mezzogiorno» a informarla ieri mattina, mentre spalmava della marmellata su un fetta biscottata. Stefania (nome di fantasia per non renderla identificabile), 27 anni, è la seconda affetta da Covid-19 a Bari, un esito da lei preventivato dopo la positività (accertata domenica) al virus Sars-CoV- 2 del marito, un 29enne militare di stanza a Bergamo dal 2005 e arruolato da 10 anni. «Sto benissimo - dice al telefono dalla villetta situata in uno dei quartieri della città - non ho alcun sintomo. A preoccuparmi più che la malattia sono i commenti assurdi che sto leggendo a corredo delle notizie che circolano in Rete, frasi di una violenza inaudita senza che si conoscano realmente i fatti. Pensi che ho ricevuto da una collega un audio in cui qualcuno invitava la gente a evitare tutti i luoghi che io e mio marito siamo soliti frequentare. Volevo rassicurare tutti: da quando è tornato a Bari non abbiamo avuto contatti con nessuno, nemmeno con i nostri parenti più stretti».

TAMPONE - La voce del popolo ha cominciato a diffondersi nel pomeriggio di avanti ieri, quando gli operatori sanitari sono giunti davanti all’abitazione per farle il tampone. «Qualcuno si è accorto della vettura ospedaliera - racconta - ed è cominciato il passaparola. Ero molto tesa, temevo in effetti un riconoscimento dopo aver letto insulti e minacce. Del resto, per procedura, gli addetti hanno indossato le tute di protezione una volta scesi dall'auto e prima di entrare. Quindi è stato facile associare la presenza in zona di un caso come minimo presunto. Ora dovrò a maggior ragione rimanere in isolamento domiciliare, ma dal punto di vista della salute sono tranquilla, così come lo è mio marito ricoverato al Policlinico».

AMORE - La storia di Stefania e Marco (lo chiameremo così) è una di quelle che vale davvero la pena di raccontare perché evidenzia quanto siano pericolosi i virus dell’ignoranza, dell’inciviltà, della ferocia verbale e dell’ingiuria gratuita e quanto, invece, in una situazione di emergenza, come quella che stiamo vivendo, ci siano persone previdenti, serie, altruiste e pronte a seguire pedissequamente le indicazioni delle autorità. «Io e Marco siamo sposati da tre anni - inizia Stefania -. Vivevamo e lavoravamo a Bergamo. Dal momento in cui sono rientrata a Bari per motivi familiari (nella famiglia del marito c’è un componente che necessita di assistenza - n.d.r.), lasciando il mio vecchio impiego (non c’è stato mai contatto con nessuno dei colleghi dell’attuale azienda da quando il marito è rientrato - n.d.r.), Marco mi raggiunge tutti i fine settimana».

VIAGGIO - L’ultimo weekend resterà nella loro memoria. In attesa di tornare a sorridere, e magari di allargare la famiglia, Stefania vuole spiegare per filo e per segno quel che è accaduto a partire da giovedì scorso, il giorno in cui ha raggiunto l’aeroporto di Palese per prendere Marco. «È uscito dallo scalo con la mascherina, non una qualsiasi, ma la FFP2, una di quelle utilizzate anche negli ospedali. Aveva deciso di indossarla - ricapitola - per evitare di essere contagiato sull’aereo ed eventualmente di infettare gli altri. Avremmo dovuto uscire quella sera, poi abbiamo deciso di rinunciare, sebbene lui non avesse alcun sintomo sospetto. Abbiamo, però subito interpellato il medico di base per comunicargli l’arrivo. Ci ha rassicurato consigliandoci di restare isolati».

FEBBRE - Mai indicazione è più opportuna. In serata, infatti, compaiono alcune linee di febbre. «Abbiamo rilevato una temperatura poco superiore ai 38 gradi. A questo punto - continua - abbiamo ricontattato il medico di medicina generale. Marco, però, non aveva tosse. Ci ha detto: “fino a quando non compaiono sintomi respiratori” restate dove siete. Nonostante le rassicurazioni, mio marito ha voluto comunque telefonare al numero 1500 e la mattina dopo abbiamo raggiunto il reparto Malattie infettive del Policlinico, dove lo hanno visitato e rimandato a casa perché, pur avendo la febbre e rispondendo al criterio epidemiologico (la provenienza dalla Lombardia - n.d.r.), il torace era a posto, i polmoni erano liberi. Per scrupolo abbiamo indossato guanti in lattice e mascherina sia all’andata sia al ritorno. Saremmo dovuti rimanere in quarantena cautelativa per 14 giorni. Poi, però, la sintomatologia è cambiata».

TOSSE - Domenica mattina compare una tosse leggera, ma per i due coniugi è abbastanza per interpellare nuovamente gli specialisti e concordare un ritorno al Policlinico, anche perché la febbre cominciava a non scendere più con la tachipirina, pur restando sempre al di sotto dei 39 gradi. «Una volta arrivati, ho salutato mio marito, portato immediatamente in isolamento. Gli operatori con l’equipaggiamento di protezione (tuta, guanti e mascherina – n.d.r.) gli hanno fatto immediatamente il tampone, il prelievo del sangue, una radiografia toracica. In serata ho saputo della positività e dell'inizio della terapia a base di antibiotici e antivirali. Io, sola in casa, non avevo alcun sintomo (al quinto giorno dal contatto con Marco, Stefania è tuttora asintomatica – n.d.r). Lui è assolutamente tranquillo. Devo davvero ringraziare i medici, gli infermieri e tutto il personale dell’Unità operativa (diretta dal professor Gioacchino Angarano – n.d.r.). Tutto lo staff è gentilissimo. Lo supportano anche psicologicamente. Lo scoraggia solo leggere i commenti di chi non sa come sono andate le cose. Ora sapranno».

FUTURO - Il primo step, in questo combattimento con il virus, è far sfebbrare Marco. Poi, si potrà pensare al futuro, al ritorno alla normalità, alla speciale sensazione di essere liberi di muoversi ovunque si voglia, azioni date spesso per scontate da tutti.  Per ora Marco potrà guardare soltanto un piccolissimo spicchio del quartiere ospedaliero. «Può guardare l'esterno solo dalla finestra - conferma Stefania - così come può interagire con i genitori durante le visite solo dall’altra parte del vetro di sbarramento. Ma sentiamo la vicinanza di tutti, di parenti e amici. I miei genitori e i miei suoceri mi raggiungono spesso, anche per lasciarmi quanto è necessario. Posano le buste all'esterno, poi io esco e ritiro. Questo periodo passerà. Ho già detto a mio marito che quando sarà tutto finito, prima di pensare ad allargare la famiglia, faremo un altro dei nostri viaggi, magari a Dubai oppure lungo la costa ovest degli Stati Uniti».

Coronavirus, altri due casi in Puglia. A Bari in isolamento un militare che lavora in Lombardia, a Foggia una 74enne. Rinviato Consiglio Regionale. A Bari si tratterebbe di un appartenente alle forze dell'ordine. Ad Ascoli Satriano l'ammalata è sorella di un contagiato a Cremona. Nicola Pepe l'01 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Spuntano altri due casi di coronavirus in Puglia Portando così a 5 il numero dei casi positivi finora accertati. La conferma è arrivata domenica sera dopo l'esecuzione dei test nel laboratorio di riferimento regionale presso il reparto di Malattie infettive del Policlinico di Bari  e degli Ospedali Riuniti di Foggia. Nel capoluogo pugliese è ricoverato in isolamento un militare 29enne residente in città (è un appartenente alle forze dell'ordine) che lavora in Lombardia, il territorio con il più alto numero di contagiati (e vittime) dal Covid-19. A Foggia, invece, il Laboratorio degli Ospedale Riuniti ha accertato un caso positivo su una donna di 74 anni, di Ascoli Satriano, sorella di un uomo contagiato all’ospedale di Cremona che era stato in visita in Puglia. Un altro fratello del contagiato in Lombardia è risultato negativo. L'anziana non è stata ricoverata ed è in isolamento al proprio domicilio mentre le altre persone che sono state in contatto con lei si trovano in quarantena presso i rispettivi domicili e la catena dei possibili contagi è stata così circoscritta. Il caso era già sotto stretta osservazione da parte della Asl di Foggia e circoscritto da qualche giorno perché il sindaco del Comune di residenza, appena informato, con sua ordinanza aveva disposto la quarantena dei soggetti interessati.

BARI, LA FEBBRE E IL RICOVERO IN ISOLAMENTO - Il giovane militare barese - che vive da solo e non abita in un condominio - è stato colto da malore al suo rientro da Nord. Al termine del servizio, nonostante pare stesse male, si è mosso per tornare a Bari. Al momento del suo arrivo in città ha iniziato ad avvertire febbre e quindi ha deciso di andare in ospedale dove è stato visitato, sottoposto al tampone oro faringeo e successivamente ricoverato in isolamento. L’ufficio di Prevenzione della Asl di Bari ha avviato l’acquisizione delle notizie anamnestiche ed epidemiologiche e l’attività di contact tracing per provvedere all’isolamento fiduciario domiciliare di eventuali contatti stretti. Non è ancora chiaro quale mezzo abbia utilizzato il 29enne per tornare in Puglia e, visto che si tratta di un uomo delle Forze dell'ordine, dovrebbero scattare protocolli di accertamenti anche per colleghi.

Coronavirus, oltre mille contagi e 29 morti. Nel Foggiano 17 in isolamento volontario. Regione Puglia non condivide trasferta Atalanta. Scuole chiuse a Foggia fino al 4 marzo per sanificazione. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2020.

Superati i mille contagi da Coronavirus in Italia. Sono 1.049 le persone positive, 29 i morti e 50 i guariti. È il bilancio della

Protezione civile. Prorogata fino all’8 marzo la chiusura delle scuole solo nelle Regioni con zone rosse: Lombardia, Veneto e

Emilia-Romagna. In Piemonte si riapre mercoledì, in Liguria classi vuote solo a Savona, ritorno all’attività anche in Friuli

Venezia Giulia e Marche. Oggi sarà adottato il nuovo decreto del presidente del Consiglio: via le 'zone gialle' e singole città equiparate allo status delle tre Regioni più colpite, con le stesse restrizioni. Oltre Savona, anche Pesaro-Urbino. 

In Puglia la situazione è ferma ai tre casi di Torricella, nel Tarantino, e i 131 passeggeri che hanno viaggiato con il paziente 1, sono stati messi in quarantena. 

OLTRE MILLE CHIAMATE AL NUMERO VERDE ATTIVATO DA REGIONE PUGLIA - E sono già state oltre mille le chiamate nelle prime 24 ore da quando la Regione ha attivato il numero verde, 800-713931: telefonando vengono fornite ai cittadini tutte le informazioni sul Coronavirus. Gli operatori del servizio rispondono tutti i giorni dalle 8 alle 22.

Per informazioni generali sul Coronavirus, sulle misure  in atto e sui numeri da contattare per segnalare il transito o il contatto con persone provenienti da aree a rischio è online la sezione del portale istituzionale: regione.puglia.it/coronavirus. ASCOLI SATRIANO (FG), ISOLAMENTO VOLONTARIO PER 17 - Diciassette cittadini del comune foggiano di Ascoli Satriano sono in isolamento fiduciario, su indicazione della Asl di Foggia, perché hanno avuto «contatti con un caso accertato di Covid 19». Il paziente affetto da Coronavirus è di Soresina (Cremona) e dal 21 al 24 febbraio è stato ad Ascoli Satriano a far visita ai parenti: una volta rientrato in Lombardia è risultato positivo al test. Per questo il primo cittadino di Ascoli Satriano, Vincenzo Sarcone, ha ordinato «la chiusura al pubblico nei giorni 2 e 3 marzo» dell’Istituto comprensivo 'Nicholas Green' e la sezione distaccata del liceo classico Lanza, allo scopo di "eseguire la sanificazione degli edifici e dei mezzi di trasporto scolastici; ed ha imposto il divieto di eventi pubblici e privati di natura culturale, ludico e sportiva svolti sia al chiuso che in luoghi aperti, prevedendo la sorveglianza attiva degli organi di polizia, per la durata di 14 giorni a partire da oggi». Lo comunica lo stesso sindaco foggiano in una ordinanza nella quale informa di aver segnalato: «in data 24 febbraio al Dipartimento prevenzione servizio igiene e sanità pubblica di Foggia una persona proveniente da aree interessate dalle misure urgenti di contenimento del contagio da Coronavirus Covid 19».

Nell’ordinanza si legge che: «con nota del 28 febbraio lo stesso Dipartimento ha comunicato che per 17 cittadini sono risultati contatti esposti a caso accertato di Covid 19». A tal riguardo l’Asl Foggia precisa che: «attualmente il servizio di Igiene e Sanità Pubblica della ASL Foggia sta ricostruendo la catena dei contatti avuti dal paziente di Soresina, risultato positivo ai test per coronavirus che, dal 21 al 24 febbraio, è stato in visita da parenti ad Ascoli Satriano. La positività del paziente di Soresina è stata ufficialmente comunicata ieri pomeriggio dall’Ospedale di Cremona alla Asl che si è immediatamente attivata».

Scuole superiori a Foggia chiuse fino al 4 marzo per sanificazione.

EMILIANO: REGIONE PUGLIA NON CONDIVIDE TRASFERTA ATALANTA - Per il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, «la decisione di consentire ai tifosi dell’Atalanta la trasferta a Lecce non è condivisa dalla Regione Puglia, perché si teme che questo esponga a inutili rischi di contagio. Condivido invece il comunicato del sindaco di Lecce Carlo Salvemini. La decisione del Ministero dello Sport, della Figc e del Coni di rinviare solo cinque delle partite del campionato di serie A previste per domenica 1 marzo è di difficile comprensione. Sarebbe stato preferibile procedere per tempo al rinvio dell’intera giornata calcistica con una motivazione unitaria di prevenzione».

«Il Governo ha deciso che si giocheranno regolarmente a porte aperte Lecce-Atalanta, Lazio-Bologna, Napoli-Torino senza alcun divieto di trasferta per i tifosi ospiti, di cui pure si è parlato nei giorni scorsi come provvedimento chiaramente auspicato dalla Regione Puglia e dal Comune di Lecce. La Regione Puglia, la Prefettura, la Asl territoriale, il Comune di Lecce e le altre autorità locali hanno dovuto prendere atto di questa decisione del Governo, e si attiveranno per fronteggiare al meglio la situazione prevedendo, in caso di riscontro di sintomi coerenti, l’attivazione di rigorosi protocolli sanitari. A tal fine saranno installate agli ingressi dello stadio dalla Asl di Lecce postazioni per uno screening sanitario di base destinato agli spettatori della partita sul modello di ció che accade negli aeroporti». «Postazioni - conclude - che provvederanno all’accoglienza degli ospiti cui saranno notificati gli interventi preventivi previsti dalle disposizioni ministeriali».

Coronavirus, in Italia 2706 malati e 107 morti. 5 contagi nel Foggiano, 14 casi in Puglia. Emiliano: «zona rossa» per San Marco in Lamis. Il Governo nega. Un uomo di San Nicandro Garganico ricoverato in terapia intensiva a San Giovanni Rotondo. Governatore: cadavere 75enne di San Marco in Lamis esposto a centinaia di persona. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Marzo 2020. In Puglia salgono a 14 i casi accertati di positività all’infezione provocata dal Coronavirus, compreso il 75enne morto nel foggiano. Lo comunica il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. I nuovi cinque pazienti di oggi sono tutti della provincia di Foggia, quattro hanno avuto contatti stretti col 75enne morto a San Marco il Lamis; il quinto è un professore di San Nicandro Garganico ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di San Giovanni Rotondo. Il pronto soccorso dello stesso ospedale è stato chiuso stamane per consentire la sanificazione ed poi riaperto. Dei 14 pazienti complessivi, cinque sono ricoverati. Altri 4 test sono in corso presso il laboratorio regionale di riferimento del Policlinico di Bari. I test sui cinque positivi sono stati effettuati ieri: si tratterebbe di 4 persone di San Marco in Lamis e uno di San Nicandro Garganico, ricoverato a San Giovanni Rotondo. Le condizioni dell’uomo, informa il sindaco di San Giovanni Rotondo, Michele Crisetti, sarebbero piuttosto delicate. «Tutto il personale medico-sanitario e i parenti entrati in contatto con il contagiato sono stati messi in quarantena al fine di circoscrivere la diffusione del virus», ha detto. Il sindaco del paese di origine dell’uomo, San Nicandro Graganico questa mattina, una volta appreso del contagio aveva disposto la chiusura delle scuole per consentire la sanificazione. Anche il pronto soccorso dell’ospedale di S.Giovanni Rotondo è stato chiuso temporaneamente per la sanificazione. Era stato qualche giorno tra fine gennaio e gli inizi di febbraio a Cremona, in Lombardia, l’uomo di 75 anni morto il 27 febbraio scorso a San Marco in Lamis nel Foggiano. Il risultato del test che ha rilevato la positività all’infezione da coronavirus si è avuto solo dopo che il funerale era stato celebrato e per questo oltre che per i parenti stretti, si teme che anche chi ha fatto loro le condoglianze possa essere stato contagiato. Da fonti dell’amministrazione è stato possibile ricostruire tutto il percorso compiuto dal 75enne pensionato dell’ufficio economato dell’Asl di Foggia. L’uomo, dopo il soggiorno in Lombardia, è tornato a San Marco in Lamis il 16 febbraio. Avrebbe comunicato subito al medico curante di essere stato nelle zona a rischio contagio e dopo il suo arrivo ha avvertito i primi malori: senso di spossatezza e inappetenza e qualche linea di febbre. E’ poi morto in casa la sera del 27 e l'indomani il corpo è stato portato all’ospedale di San Severo (Foggia) e successivamente nella sala mortuaria a San Marco in Lamis. Così ieri pomeriggio, poche ore prima che si conoscesse l'esito del test, sono stati celebrati i funerali nella chiesa «La Collegiata» di San Marco in Lamis. Da indiscrezioni si apprende che il contagio sarebbe avvenuto su quattro persone vicine alla vittima. Ripristinata invece la piena operatività del Pronto Soccorso dell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia) chiuso in mattinata per consentire la sanificazione dei locali dopo il transito, nel tardo pomeriggio di ieri, di un paziente risultato positivo al Coronavirus. Confermati i ricoveri, gli interventi programmati, tutte le visite e gli esami ambulatoriali. Inoltre dall’ospedale voluto da San Pio ribadiscono che sia il nosocomio sia il poliambulatorio Giovanni Paolo II sono aperti e pienamente operativi per assicurare all’utenza tutta la necessaria assistenza sanitaria. Emiliano - nel corso di una conferenza stampa in cui annunciava la sua ordinanza per aziende e scuole - ha parlato di “preoccupazione” per quanto avvenuto nel Nord della Puglia, dove ci potrebbero essere rischi. Il riferimento è alla vicenda del decesso del 74enne, che soffriva di patologie preesistenti ma con un tampone positivo: «A Foggia il corpo del 74enne morto è stato rilasciato per i funerali prima di avere l’esito del tampone. A fronte di un errore catastrofico del medico legale, per un motivo veramente inspiegabile, si è determinato un rischio di possibili contagi veramente diffusivi. Servono provvedimenti molto intensi che non voglio preannunciare perché sono di competenza del presidente del Consiglio». Per questo ha chiesto al prefetto di imporre la chiusura di San Marco in Lamis e dei paesi vicini. Il Governo però replica all'ipotesi di una «zona rossa» nel Foggiano lanciata dal governatore Michele Emiliano con un secco no. L'allarme contagio sarebbe ancora contenuto. 

Covid, contagiata intera famiglia di 5 persone nel Foggiano: l'untore un infermiere. Puglia, 11 nuovi casi. Dall'inizio dell'emergenza sono stati effettuati 103.570 test. Sono 2.178 i pazienti guariti. 1.793 sono i casi attualmente positivi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Maggio 2020. Nel Foggiano un’intera famiglia composta da cinque persone è risultata positiva al Covid-19 in provincia di Foggia. Lo comunica il direttore della Asl foggiana, Vito Piazzolla. La famiglia sarebbe stata contagiata, presumibilmente, da una sesta persona risultata positiva, che ha frequentato la famiglia e che è arrivata dal Nord. Si tratterebbe di un infermiere che era stato al Nord e che si occupava della cura della famiglia, migranti che soggiornano regolarmente in Puglia. Il caso si è registrato nel comune di Torremaggiore, come conferma il sindaco, Emilio Di Pumpo, che parla di sette contagi nel suo paese di cui 5 relativi a una intera famiglia. «È stata ricostruita la catena dei contagi sulla quale sono state disposte le verifiche necessarie a chiudere quanto prima la possibilità che il virus continui a diffondersi - afferma -. Purtroppo non siamo ancora fuori dall’emergenza Coronavirus e le imprudenza hanno prodotto questi risultati - scrive il primo cittadino sul proprio profilo Facebook -. Di Pumpo fa sapere che «sta valutando nuove soluzioni per incrementare i controlli per evitare assembramenti durante feste o party di qualunque natura assolutamente non consentiti».

Corononavirus, primo morto in Puglia: un 75enne del Foggiano. Altro caso nella Bat: un tranese che lavora a Barletta. L'annuncio del sindaco di Barletta in consiglio comunale: il nuovo ammalato ha 47 anni ed era stato al nord: è ricoverato a Bisceglie. Nicola Pepe il 03 Marzo 2020 su La Gazzetta del mezzogiorno. Prima vittima da coronavirus in Puglia. Si tratta di un anziano di 75 anni  affetto da cardiopatia e da altre patologie. Il decesso è avvenuto a casa - in un centro della provincia dauna - e la scoperta della positività è emersa dopo l'autopsia. Sarà l’Istituto Superiore di Sanità a dare la definitiva conferma e stabilire il nesso tra infezione da Covid-19 con il decesso. Pertanto, al momento, è corretto dire che l'uomo è morto «con» il coronavirus e non «per». Il Dipartimento di Prevenzione della Asl di Foggia, come da protocollo regionale, ha attivato tutte le procedure per l’acquisizione delle notizie anamnestiche ed epidemiologiche provvedendo a isolare tutti i contatti stretti. La notizia arriva in concomitanza con l'annuncio del primo caso di positivo al Covid-19 nella provincia Bat. A comunicarlo pubblicamente è stato il sindaco di Barletta, Cosimo Cannito, nel corso della riunione del consiglio comunale. Si tratta di un agente di commercio residente a Trani che opera a Barletta: l'uomo - che è ricoverato nel Reparto infettivi dell'ospedale di Bisceglie - era stato nei giorni scorsi in Lombardia e Veneto per lavoro. Anche in questo caso la Asl, come da protocollo, sta provvedendo a isolare parenti o persone con cui è venuto a contatto. Con questi due nuovi casi positivi sale dunque a 9 il numero di contagi accertati da COVID-19 in Puglia: si tratta dell'uomo di Torricella, insieme alla moglie e al fratello, del militare 29enne di Bari che lavora a Bergamo e della moglie, del parrucchiere di Aradeo, la 74enne di Ascoli Satriano, il commerciante di Trani e il 75enne della provincia di Foggia (deceduto).

LA VITTIMA ERA STATA NELLA ZONA ROSSA - Era stato qualche giorno tra fine gennaio e gli inizi di febbraio a Cremona, in Lombardia, l’uomo di 75 anni morto il 27 febbraio scorso a San Marco in Lamis nel Foggiano. Il risultato del test che ha rilevato la positività all’infezione da coronavirus si è avuto solo dopo che il funerale era stato celebrato e per questo oltre che per i parenti stretti, si teme che anche chi ha fatto loro le condoglianze possa essere stato contagiato. Da fonti dell’amministrazione è stato possibile ricostruire tutto il percorso compiuto dal 75enne pensionato dell’ufficio economato dell’Asl di Foggia. L’uomo, dopo il soggiorno in Lombardia, è tornato a San Marco in Lamis il 16 febbraio. Avrebbe comunicato subito al medico curante di essere stato nelle zona a rischio contagio e dopo il suo arrivo ha avvertito i primi malori: senso di spossatezza e inappetenza e qualche linea di febbre. E’ poi morto in casa la sera del 27 e l'indomani il corpo è stato portato all’ospedale di San Severo (Foggia) e successivamente nella sala mortuaria a San Marco in Lamis. Così ieri pomeriggio, poche ore prima che si conoscesse l'esito del test, sono stati celebrati i funerali nella chiesa «La Collegiata» di San Marco in Lamis.  Da indiscrezioni si apprende che il contagio sarebbe avvenuto su quattro persone vicine alla vittima.

PAOLO RUSSO per bari.repubblica.it il 4 marzo 2020. San Marco in Lamis può diventare, o è già diventata, la Codogno di Puglia. Tutta colpa del "catastrofico errore" di un medico legale che rilasciato l'autorizzazione ai funerali di un 75enne prima che fosse noto l'esito del tampone svolto sull'uomo per verificare la presenza del virus. Quei funerali si sono celebrati e il virus si sarebbe così propagato in maniera incontrallata, provocando un numero ancora imprecisato di contagi. Quelli ufficiali sono quattro (due parenti della vittima, il medico di base e sua moglie) ma è una cifra destinata a crescere. "Per una serie di assurdità era stato effettuato il tampone e poi in maniera incredibile il cadavere era stato rilasciato per i funerali prima di avere l'esito del tampone. Chiaro che di fronte a un catastrofico errore del medico legale di questo tipo non c'è rimedio" ha ammesso il governatore Michele Emiliano. L'ex dipendente pubblico, tra fine gennaio e gli inizi di febbraio si è recato a Cremona, in Lombardia. L'uomo è tornato in Puglia il 16 febbraio e ha comunicato al suo medico curante di essere stato nella zona a rischio contagio. Qualche giorno dopo il suo rientro ha avvertito i primi malori e la sera del 27 febbraio è deceduto in casa. L'indomani il corpo è stato portato all'ospedale di San Severo (Foggia) e successivamente nella sala mortuaria a San Marco in Lamis. Il 3 marzo, poche ore prima che si conoscesse l'esito del tampone, sono stati celebrati i funerali nella chiesa "La Collegiata" di San Marco in Lamis. A rito funebre concluso, il Policlinico di Bari ha comunicato la positività al coronavirus, ma ormai era troppo tardi. L'uomo era molto conosciuto, al funerale hanno partecipato centinaia di persone, abbracci, strette di mano. Per tutti, almeno per quelli che è stato possibile raggiungere, è scattata la quarantena, le scuole sono state chiuse e il mercato rinviato. Si teme che il virus possa diffondersi rapidamente e, nel pomeriggio, un altro uomo di San Nicandro Garganico, un insegnante, è risultato positivo al Coronavirus ed è ora ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale di San Giovanni Rotondo. Il pronto soccorso è stato chiuso a scopo precauzionale. "Nel Nord della Puglia ci sono situazioni che abbiamo difficoltà a controllare" ha detto ancora Emiliano. Il riferimento è a questo paese sulle alture del Gargano che conta poco meno di 14mila abitanti. "Servono provvedimenti molto intensi. Ho chiesto al presidente del consiglio interventi intensivi nel Foggiano - ha proseguito Emiliano - bisogna agire in fretta ma abbiamo difficoltà a chiudere il cluster". La Regione Puglia ha chiesto l'istituzione di un zona rossa.

Coronavirus, il contagio  al funerale: 300 a rischio, aperta un’indagine. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Due ore. Bastava aspettare due ore e si sarebbe evitato il rischio della Codogno del Sud sul Gargano. Quel Sud dove il premier Giuseppe Conte vuole (o avrebbe voluto) evitare la diffusione del coronavirus a causa di una sanità meno preparata, strutturalmente, a reggere una eventuale crescita esponenziale dei contagiati. E invece il primo morto positivo al coronavirus del Mezzogiorno è stato contabilizzato proprio nel paese dove Conte ha studiato e si è diplomato, quel San Marco in Lamis che dista 17 chilometri da San Giovanni Rotondo, il paese di Padre Pio dove ancora vive la famiglia di origine del premier. Tutto è accaduto lo scorso 3 marzo, quando si sono celebrati i funerali del ragioniere Raimondo, il 75enne con una vita lavorativa trascorsa alla Asl, che tutti conoscevano a Sand Marc, come viene chiamato in dialetto il centro garganico dai suoi abitanti. Il ragioniere è morto nella notte tra il 27 e il 28 febbraio e, avendo patologie pregresse, il nesso tra decesso e Covid-19, al momento, non è stato provato neanche dall’autopsia (l’ultima parola spetta all’Istituto superiore di sanità che esaminerà i campioni clinici e gli esami autoptici). Però il ragioniere della Asl a febbraio era stato in provincia di Cremona, a trovare dei parenti. Quando Cremona era soltanto la provincia dei violini e dei torroni e non uno dei centri al confine con la prima zona rossa italiana del coronavirus. Il 16 febbraio, rientrato a San Marco in Lamis, le condizioni del ragioniere sono peggiorate: scoppiato il caso di Codogno, il 75enne avvisò il medico di essere stato in Lombardia. Alla sua morte il medico di base avrebbe segnalato al medico legale il viaggio del ragioniere in provincia di Cremona, con conseguente tampone. Ma prima dell’esito delle controanalisi il medico legale avrebbe dato il via libera ai funerali: «Un errore catastrofico», lo ha definito il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Perché un’ora dopo il termine del funerale, affollato da 300 persone (e durato, a sua volta, circa un’ora), arriva l’esito delle controanalisi: il ragioniere, nel suo soggiorno al nord, aveva contratto il virus e da metà a fine febbraio lo ha trasmesso — si è saputo ieri — ad almeno altri 4 contatti stretti, tra cui la moglie. Che a loro volta hanno ovviamente partecipato al funerale (a cui non sono mancati i parenti cremonesi) , ricevendo, prima e dopo la funzione religiosa (e durante il tempo trascorso in camera ardente) le condoglianze di mezzo paese. Baci e abbracci, quanto di più sconsigliato ai tempi del coronavirus. «L’Asl di Foggia — spiega il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla — sta contattando tutte le persone che hanno preso parte ai funerali del pensionato chiedendo contezza sulle loro condizioni di salute». Ma la questione va chiarita: al momento la Procura di Foggia ha aperto una inchiesta senza ipotesi di reato né indagati. Ma il procuratore della Repubblica Ludovico Vaccaro aspetta un’informativa dei carabinieri e una relazione della Asl per capire come sono andate realmente le cose . In mattinata i sindaci di San Marco in Lamis, San Nicandro Garganico (dove si è verificato un altro caso di coronavirus), di San Giovanni Rotondo (nel cui ospedale è ricoverato il paziente di San Nicandro), San Severo (dove era stato ricoverato il ragioniere poi trasferito alla camera mortuaria di San Marco in Lamis) e Foggia si sono incontrati con il prefetto Raffaele Grassi e i vertici della Asl per fare il punto della situazione. Da monitorare, da oggi in poi, con un comitato permanente. La Regione Puglia ha già segnalato al premier Conte il caso perché possa essere istituita una zona rossa. Nel frattempo, a San Marco in Lamis, sono già stati effettuati una settantina di tamponi: i poco meno di 15 mila abitanti del centro garganico vogliono evitare di diventare come gli altrettanti cittadini di Codogno. E non maledire quelle due ore di anticipo.

Stefano Filippi per “la Verità” il 6 marzo 2020. Nell' Italia delle colpe, oggi il dito di tutti è puntato contro di lui, il medico legale. In ogni giallo che si rispetti ci vuole sempre il colpevole. E a San Marco in Lamis, paese del Foggiano a pochi chilometri dalla San Giovanni Rotondo di Padre Pio, il reo è il dottore che avrebbe dato un via libera intempestivo a un funerale. Dalle serie tv americane avevamo imparato ad apprezzare i medici legali come supereroi capaci di far parlare i morti. Una volta Maigret risolveva i suoi casi fumando la pipa al Quai des Orfèvres e interrogando fino allo sfinimento gli indagati; ora le inchieste subiscono le svolte nelle sale autopsie, dove si scoprono sui cadaveri indizi nascosti che immancabilmente portano a individuare l' assassino. Ma la vita reale non è un set di Csi. Ora il killer è un virus maledetto e inafferrabile e il medico legale un travet della sanità che per una svista rischia di trasformare un paesone del Gargano nella Codogno del Sud. Succede che a San Marco in Lamis muore un ragioniere conosciuto da tutti, l' ex responsabile dell' economato dell' Azienda sanitaria. Un uomo buono e pronto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Aveva 74 anni ed era in buona salute. Ai primi di febbraio era andato al Nord, a Cremona, per trovare alcuni parenti che non vedeva da tempo. Si era fermato qualche giorno ed era tornato a casa il 16 del mese. Erano giorni in cui ancora non si sapeva che la zona della Lombardia tra Lodi, Cremona e la Bassa bergamasca covava il coronavirus. Il ragioniere avverte qualche sintomo di influenza, tosse, raffreddore, un po' di febbre. Chiama il medico di base e gli spiega la situazione, compreso il fatto di essere reduce da quella che stava per trasformarsi nella zona rossa del contagio lombardo. Passa qualche giorno e la malattia degenera portando alla morte del ragioniere per una grave crisi respiratoria. È la notte tra il 27 e il 28 febbraio. A quel punto il medico di base segnala alle autorità sanitarie il sospetto che il suo assistito fosse contagiato dal coronavirus. Ed entra in scena il medico legale, che ordina di effettuare il tampone faringeo sul corpo del defunto. Qui accade qualcosa che dovrà essere chiarito dalla magistratura: la Procura di Foggia ha aperto un fascicolo conoscitivo chiedendo ragguagli all' Azienda sanitaria cittadina. Il tampone parte per l' ospedale Spallanzani di Roma dove vengono effettuate le controanalisi. Ma nel frattempo i familiari fremono e il medico legale, sempre lui, avrebbe autorizzato lo svolgimento delle esequie prima di conoscere gli esiti degli esami condotti nei laboratori della capitale. È il 3 marzo, martedì, quando il feretro parte dalle celle mortuarie dell' ospedale Umberto I di San Marco in Lamis per percorrere le poche centinaia di metri fino alla chiesa della Collegiata, dove una folla di 300 persone si è data appuntamento per dare l' ultimo saluto al ragioniere tanto amato e così repentinamente sottratto ai propri cari. La moglie, i figli, i parenti che hanno accompagnato gli ultimi giorni dello scomparso, senza mai staccarsi da lui, sono nei primi banchi, ancora increduli. Il parroco nell' omelia ne traccia un profilo che commuove tutti. E al termine della cerimonia, sul sagrato della basilica, nel cuore del paese della Daunia, centinaia di braccia stringono i congiunti affranti per rincuorarli e assicurare la loro vicinanza. Ma quel diavolo di virus incoronato è lì, negli abbracci, nelle strette di mano, nelle lacrime che rigano i volti l' uno dell' altro. Passano un paio d' ore e il dolore per la dipartita si trasforma nell' incubo dell' epidemia. L' ospedale Spallanzani fa sapere all' Azienda sanitaria di Foggia che il tampone sul ragioniere conferma l' infezione da coronavirus. I tecnici dell' Asl si precipitano a casa della vedova e sottopongono anche lei al prelievo in gola, precauzione che nessuno prima aveva suggerito. Assieme alla donna vengono controllati tutti coloro che erano stati a stretto contatto con il povero ragioniere, responsabile del contagio a sua insaputa. Risultato: due familiari sono risultati positivi, la moglie e una figlia, così come il medico di base e pure la moglie di quest' ultimo, dottoressa del 118. Quattro contagiati, 70 persone in isolamento domestico. E ora tutto il paese trema appena a qualcuno scappa uno starnuto. Il governatore dem, Michele Emiliano, in piena campagna elettorale, ha convocato una conferenza stampa indossando la maglietta non della salute ma della Protezione civile per tuonare che «è successa una cosa gravissima, un errore catastrofico», che «temiamo che la situazione ci sfugga di mano», che «il governo deve dichiarare San Marco in Lamis zona rossa». Il sindaco, Michele Merla, ha immediatamente chiuso scuole e mercato settimanale. La gente si è chiusa in casa in una quarantena autoinflitta. Il premier, Giuseppe Conte, che da quelle parti è di casa, si è interessato della situazione ma - per fortuna dei residenti - i numeri del contagio non sono ancora tali da autorizzare l' istituzione della zona rossa. Per ora, dunque, niente cordone sanitario stile Codogno nelle terre di Padre Pio, forse l' unico che può fare il miracolo di tenere lontano il virus.

BASILICATA.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 3 aprile 2020. “Il paziente uno in Basilicata? Se ne sta tranquillamente a casa a mangiarsi il suo piatto di pastasciutta con la mamma. Sdrammatizziamo”. Diceva così, il 3 marzo, ai giornalisti l’assessore alla Sanità della Regione Basilicata, Rocco Luigi Leone. Neanche un mese dopo, i lucani che non mangeranno mai più pastasciutta sono 11. E sono morti che pesano, perché in quello che sta accadendo in Basilicata si fatica a trovare un senso. La regione, infatti, per sua fortuna sembra essere abbastanza lontana dai numeri riscontrati in altri territori:  256 casi di positività in tutto, 2427 tamponi analizzati, di cui 2179 risultati negativi. I pazienti ricoverati negli ospedali lucani (ospedale San Carlo e ospedale Madonna delle Grazie) sono 57, di cui 19 in terapia Intensiva. Posti in terapia intensiva che sono 64, con la possibilità di diventare 90 nel caso in cui il virus si diffonda. Alla luce di questi dati, l’assessore Leone, che ai microfoni sembra sempre una specie di senatore Razzi in salsa lucana, aveva ulteriormente rassicurato i cittadini: “Per la terapia intensiva siamo addirittura più abbondanti del sistema sanitario nazionale, non serviranno, state tranquilli!”. “Noi i focolai li isoliamo bene. Quindi facciamo più tamponi di quanti ne servirebbero!”. “Ai diecimila test ordinati, che avevo annunciato nei giorni scorsi, ne abbiamo aggiunti altri diecimila!”. “Questa è solo un’influenza!”. “Sono numeri che non ci devono spaventare perché siamo attrezzati per sconfiggere questa epidemia!”. In effetti, aveva ragione: non erano i numeri a dover spaventare i lucani, ma la gestione di quei numeri da parte della sanità lucana. Una sanità con una vita devastata dal virus della politica, ora alle prese con un virus di altro tipo. Quasi un ceppo a parte, verrebbe da dire, quello lucano. Così a parte che nonostante i numeri contenuti, come dicevamo, la gente sta morendo mentre aspetta un tampone. L’ultimo caso, quello che riguarda la morte del giornalista Antonio Nicastro, grida vendetta. Potentino, il sessantasettenne Nicastro era un personaggio molto amato nella sua città. Si era ammalato il 5 marzo. Aveva la febbre e una tosse persistente che non passava. Il 13 marzo era stato al Pronto soccorso del San Carlo, ma lo avevano rimandato a casa, prescrivendo un antibiotico. Per due settimane aveva implorato un tampone, supportato dalla moglie e dal figlio Valerio. “Stiamo impazzendo” aveva scritto Valerio su fb. “Ore 12. Anche oggi la sanità lucana dei sta prendendo gioco di me”, aveva postato lo stesso Antonio sui social. A quel punto erano andati a fargli il tampone, la cui risposta è arrivata 48 ore dopo, mentre le condizioni di Antonio si aggravavano sempre più. Il 22 marzo, era stato dunque ricoverato. A leggere il referto del San Carlo, colpiscono aggettivi e avverbi scelti con cura: “E’ arrivato al San Carlo in condizioni gravi ma non critiche”. “Gli indici di infiammazione elevati inducevano a eseguire TEMPESTIVAMENTE (entro meno di 1 ora) HRCT polmonare”. “Si iniziava PRONTAMENTE la terapia”. A venti giorni dai primi sintomi e a 9 dalla visita al pronto soccorso, una tempestività commovente. E in effetti le sue condizioni erano così poco critiche, che già il giorno dopo il povero Antonio era intubato, in rianimazione. E la sua morte, avvenuta 10 giorni dopo, viene spiegata così: “L’esito infausto nonostante la messa in atto di tutte le linee di approccio terapeutico è purtroppo paradigmatico del processo di tumultuosa inarrestabile e in molti casi imprevedibile e solo parzialmente conosciuta evoluzione del quadro clinico. Sentite condoglianze”. Quindi la linea di approccio terapeutico, in Basilicata, prevede che nel pieno di una pandemia un paziente con febbre, tosse, malessere generale da settimane debba implorare un tampone su Facebook e giunga in ospedale quando ormai ha un piede nella fossa. Ma come, Leone non diceva che era un’influenza e che si finiva a mangiare tutti pastasciutta? Interessante anche il documento diffuso dall’Asp regionale: “Quand’anche non ricorressero tutti i criteri previsti per la candidabilità all’esecuzione del tampone, il giorno 20 IN TERMINI PRUDENZIALI l’Asp ha disposto l’effettuazione del tampone”. In pratica gli hanno fatto un favore, a fargli ‘sto tampone. Se non glielo avessero fatto in effetti avrebbe potuto provvedere il figlio a intubarlo con la pompa del giardino, magari. Il 30 marzo, due giorni prima della morte di Antonio, il presidente della regione Basilicata Bardi aveva dichiarato: “Se ci sono stati così tanti casi denunciati di malasanità ho dato disposizione di un’immediata immagine interna. (…) Il commissario per l’emergenza Covid c’è già e sono io”. In pratica, Bardi dovrebbe indagare su se stesso. E sarebbe un’interessante presa di coscienza, bisogna ammetterlo. Un altro uomo di soli 58 anni era morto pochi giorni fa sempre al San Carlo dopo che per 10 giorni aveva chiesto il tampone, con la febbre a 39 e “le dita viola”, come raccontato dalla moglie. Nel frattempo l’assessore del piccolo comune di Irsina, Anna Maria Amenta, su Fb scrive “A una settimana dall’ordinanza regionale che ci ha dichiarati zona rossa, siamo in attesa del risultato dei tamponi fatti ieri pomeriggio, un po’ pochi per una comunità dichiarata zona rossa. Se siamo zona rossa che si aumenti il numero dei tamponi”. Quindi chi sta male non viene curato se non quando le sue condizioni sono disperate e lo si lascia a casa, in compenso si chiude un intero comune senza neppure sapere quante siano le persone contagiate in quel comune. Il piano d’emergenza di Bardi, applicato che so, in Veneto, avrebbe mietuto più vittime della seconda guerra mondiale. Ma il meglio deve ancora venire. L’assessore alla sanità Leone, intervistato da Giusi Cavallo di Basilicata24 ha dichiarato: “I medici di famiglia hanno ceduto le armi. Non ha funzionato il sistema di monitoraggio del territorio da parte dei medici di medicina generale. Dicono che mancano i dispositivi di protezione personale, ma noi li abbiamo distribuiti, li abbiamo mandati nelle sedi opportune dove loro devono avere la compiacenza di andare a ritirarli”. E poi altre dichiarazioni quali: “I medici di medicina generale non leggono le brochure, tornate  fare i medici, tornate a occuparvi della salute dei cittadini!”. L’ordine dei medici di Potenza, tramite il presidente Rocco Paternò, ha risposto: “Sono dichiarazioni beffarde e irrispettose per la categoria. C’è stata scarsa o nulla dotazione delle protezioni per i medici, la classe medica non merita questo. Ci sono contagi tra medici di base e ospedalieri”. Insomma, la colpa per l’assessore alla sanità Leone è dei medici che sono un po’ codardi, un po’ svogliati, troppo poco desiderosi di andarsene a farsi contagiare porta a porta.  “Dobbiamo aspettare che mio padre muoia per capire chi deve prendersi la responsabilità di dirci cosa abbia?”, aveva scritto Valerio, il figlio di Antonio, il 20 marzo. E alla luce dei rimpalli di responsabilità a cui si sta assistendo, forse era stata una previsione perfino ottimistica. Quasi quanto quel “Coronavairus? E’ solo un’influenza stagionale”, pronunciato dall’assessore Leone nell’aula comunale il 27 febbraio. E ora una bella spaghettata per tutti.

Dagospia il 4 aprile 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Cara Selvaggia Lucarelli, caro Dago, ogni morte, anche una sola, è una immane tragedia. Ed ogni famiglia che sta vivendo in questi giorni questo dramma ha tutta la nostra solidarietà. Fra questi anche le famiglie degli 11 lucani che purtroppo ci hanno lasciato dopo aver contratto il virus del Covid-19. Il caso riportato nell’articolo pubblicato ieri (FURIA SELVAGGIA SULLA BASILICATA - GENTE CHE MUORE ASPETTANDO I TAMPONI, ASSESSORI CHE MINIMIZZANO: IL DISASTRO DELLA REGIONE - L’ULTIMO CASO, QUELLO CHE RIGUARDA LA MORTE DEL GIORNALISTA ANTONIO NICASTRO, GRIDA VENDETTA. PER DUE SETTIMANE AVEVA IMPLORATO UN TAMPONE, SUPPORTATO DALLA MOGLIE E DAL FIGLIO VALERIO. “STIAMO IMPAZZENDO”....) ha destato particolare allarme in Basilicata perché la famiglia della persona scomparsa lamenta ritardi, lunghe attese e disfunzioni che si sarebbero verificati quando si è rivolta al Servizio sanitario. Per questo motivo, anche sulla base di altre segnalazioni, prima ancora che la magistratura (come leggo sui giornali di oggi) decidesse di aprire una inchiesta giudiziaria, il presidente della Regione Basilicata Vito Bardi ha disposto una indagine amministrativa per capire se qualcosa non ha funzionato nelle procedure. Alla conclusione delle indagini, che in un caso e nell’altro seguiranno il loro corso, ognuno formulerà i suoi giudizi sul caso e adotterà le scelte più opportune, ma non credo sinceramente che basti questo per sentenziare che la sanità lucana sia allo sfascio. Voglio soltanto far notare che fino a questo momento il servizio sanitario regionale lucano, pur gravato da molti problemi in gran parte ereditati dal passato (ma questa è un’altra storia), ha risposto con efficacia pari o addirittura superiore a quanto si è verificato in altre realtà italiane. Fare la storia con mezze frasi estrapolate dal contesto è uno sport molto diffuso in Italia, e francamente non credo sia giusto. Anche perché, in una vicenda così dirompente e nuova come la pandemia in atto, verrebbe da dire “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Per carità di patria eviterò di richiamare le frasi ed i comportamenti rassicuranti che fino a un mese fa, molti politici e qualche tecnico, hanno tenuto e che si sono rivelati drammaticamente irresponsabili. A tutti vorrei ricordare che la sera del 23 febbraio, dopo che in Lombardia era stata annunciata la chiusura delle scuole e delle università, il presidente Bardi firmò un’ordinanza che disponeva l’obbligo di quarantena per gli studenti che stavano tornando in massa dal Nord Italia. Un provvedimento che ha solo anticipato, in realtà, misure ben più restrittive attuate su tutto il territorio nazionale, ma che fu accolto con ilarità, se non con fastidio. Ma non è il caso di recriminare. Oggi è il tempo delle scelte. E le scelte del governo regionale lucano, oggi come allora, sono improntate al principio che la salute viene prima di ogni altra cosa. Cordialmente Massimo Calenda Capo Ufficio Stampa Giunta regionale Basilicata

Potenza, sequestrata la salma del 67enne che aveva denunciato il ritardo del tampone. Sarà un’inchiesta giudiziaria a chiarire la cause che hanno portato alla morte l’uomo, risultato positivo al Covid-19. Antonella Inciso il 4 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Potenza ha disposto il sequestro della salma del pensionato potentino di 67 anni morto giovedì scorso nell’ospedale di Potenza per il coronavirus. Sarà un’inchiesta giudiziaria, dunque, a chiarire la cause che hanno portato alla morte l’uomo, risultato positivo al Coronavirus che, con i suoi familiari, aveva sollecitato per giorni l’effettuazione del tampone. Senza alcun risultato. Una vicenda terribile, un caso che ha sollevato indignazione ed interrogativi in Basilicata soprattutto perché il pensionato, dopo essere stato al Pronto Soccorso con febbre alta e tosse era stato rimandato a casa. Ritornando in ospedale dopo dieci giorni con una sintomatologia più acuta. L’inchiesta giudiziaria che ha disposto anche l’autopsia darà risposte. Ma risposte verranno anche dall ’inchiesta parallela interna disposta dal presidente della Regione Vito Bardi per individuare eventuali negligenze e responsabilità. Indagine che come viene spiegato dai vertici della task force regionale sull’emergenza coronavirus punta a verificare se vi sono state responsabilità nel percorso di cura e nei protocolli. «Abbiamo aperto un indagine e vogliamo verificare se vi sono state responsabilità nel percorso delle cure e se i protocolli in essere sono stati rispettati» sottolinea il direttore generale Ernesto Esposito, evidenziando come gli accertamenti riguardino l’ospedale «San Carlo», il nosocomio più grande della Basilicata, ed il suo Pronto soccorso con i controlli che durante la prima vista all’uomo sono stati fatti ed il rispetto del protocollo nazionale sul Coronavirus che, ad esempio, prima ancora dei risultati del tampone prevede che venga fatta una Tac o una ecografia per verificare se vi sono polmoniti in atto. Insomma, due inchieste diverse e parallele che andranno avanti, mentre in Basilicata si continuano a registrate nuovi contagi. Quindici gli ultimi registrati ieri, nella gran parte nel Materano, che hanno portato a 249 i casi totali di coronavirus (a cui si aggiungono 5 guariti ed 11 decessi). E proprio tra gli aspetti legati ai contagi una nuova vicenda riguarda il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Asp di Potenza (reparto che si trova nella struttura dell’ospedale San Carlo) dove sono risultati positivi 2 pazienti ma l’esito dei tamponi effettuati il 30 marzo scorso sarebbe stato comunicato con ritardo, incidendo sulla tempistica legata alle misure di contenimento del rischio di contagio per personale e pazienti. Un’altra storia complicata, dunque, che si somma anche alle polemiche sui tamponi effettuati senza che agli interessati sia stata data una risposta. Da tempo, la situazione era stata evidenziata sia da singoli cittadini sia dai sindacati. Ora, però, quello che sembrava una sorta di «mistero» legato alla gestione dei tamponi è stato in parte spiegato dalla stessa Regione. Ad esserci stato è un difetto di comunicazione, con «la negatività al tampone che non viene comunicata». Un errore, quindi, che ha provocato non poche tensioni e che dovrebbe essere risolto con un nuovo iter. Perché già da stamattina tutti i risultati dei tamponi verranno caricati sulla piattaforma dell’Osservatorio epidemiologico. In questo modo, sia i sindaci sia i medici curanti che hanno accesso alla piattaforma possono verificare i risultati e comunicarli.

CALABRIA.

Grazie a tutti quelli che hanno ridotto così la sanità calabrese. Rocco Valenti su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2020.

Grazie. Per la classificazione della Calabria zona rossa ai fini delle misure contro il Covid, cioè il massimo delle restrizioni che, ristori o non ristori, daranno inevitabilmente un altro durissimo colpo alla nostra economia, bisogna ringraziare tutti coloro che hanno gestito il sistema sanitario regionale negli ultimi decenni. Quelli di prima (cioè la Regione) e quelli intervenuti dopo in vesti di commissari che avrebbero dovuto risanare i conti di un bilancio disastrato, con un occhio, però, ai livelli delle prestazioni erogate ai cittadini. Dopo i complimenti per aver ridotto la sanità calabrese in condizioni pietose, senza peraltro risanare alcunché (ammesso che la priorità fosse quella di far quadrare i numerini nel capitolo di gran lunga più significativo del bilancio regionale), oggi è il momento dei ringraziamenti.

Serve a poco imbastire ragionamenti, indagare motivazioni, men che meno ipotizzare complotti. Inutile anche rimuginare sul perché la Calabria da domani chiude per Covid e molte altre regioni con situazioni di contagi ben più allarmanti (ma solo nei numeri) no. E, d’altra parte, che i timori degli esperti fossero in parte legati alla tenuta del sistema sanitario regionale si era detto e ridetto. Di chi, allora, la paternità di questo colpo al cuore della regione? Del sistema dei tracciamenti dei contagi saltato, delle unità territoriali di medicina fatte partire a metà, della capacità di processare tamponi in tempi utili per tracciare i contatti dei positivi non sufficiente… tutti figli di un sistema sanitario bucherellato e rattoppato male. Che continua, Covid a parte, a non garantire – le eccezioni e anche le eccellenze, che pure ci sono, non bastano – ai calabresi la “tranquillità” di poter essere curati con efficienza qui, senza dover fare – come tanti, ogni anno – le valigie con pigiama e speranza. Che vergogna.

Grazie, dunque, ai grandiosi amministratori e commissari che nell’arco di decenni non sono stati capaci di pensare a far funzionare meglio (in alcuni settori di far funzionare) questa sanità. Grazie anche a nome di chi si chiede come mai con così pochi contagi e, in raffronto ad altre regioni, con così pochi ricoveri, la Calabria è ritenuta zona critica nell’affrontare conseguenze e soprattutto pericoli legati alla pandemia. Grazie anche a nome di chi, smanettando sul sito di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), va a verificare regione per regione il tasso di occupazione dei posti letto in terapia intensiva e in reparti ordinari per Covid e scopre che la Calabria apparentemente è tra quelle messe meglio (proprio così), con il 7%, per esempio, dei posti di terapia intensiva occupati, rispetto a percentuali molto più alte in quasi tutti gli altri territori. Il problema, però, è che il numero dei posti di terapia intensiva disponibili rispetto alla popolazione è più basso rispetto alla soglia di sicurezza fissata dal governo. Perché non sono stati adeguati? Mancano mezzi, personale e via dicendo. Sono state avviate procedure, è vero, anche straordinarie, ma il risultato, all’evidenza dei fatti, non è stato sufficiente. Il tutto, è bene non dimenticarlo, nel bel mezzo di un vorticoso chiacchiericcio nazionale di rimbalzi di responsabilità, ventilatori polmonari rimasti imballati e compagnia cantando. Il risultato è che da domani molti dovranno chiudere la saracinesca, anche chi ha cercato di attenersi scrupolosamente alle misure di prevenzione del contagio, anche chi ha avuto il coraggio di rimproverare clienti che non indossavano la mascherina a dovere. La Calabria non poteva permetterselo. Ancora grazie, per questo lockdown e anche per tutto quello che, quando la pandemia sarà storia chiusa, ci ritroveremo per la recuperata “normalità”. C’è poco altro da aggiungere, se non che oggi più che mai la denuncia pubblica di tutto quello che per la sanità dei calabresi non viene fatto sarà costante. E almeno il giornale in edicola ci è consentito di andare a prenderlo.

P.s. Una “preghiera” al Governo: visto che è stato prorogato proprio ieri il commissariamento della sanità calabrese, si nomini un commissario che abbia una visione, da tecnico, di un sistema sanitario regionale. I conti sono importanti, ma i calabresi hanno diritto ad altro.

Calabria zona rossa ma non per i contagi. La Regione verso il lockdown non per i numeri assoluti quanto per una sanità disastrata che riesce a stento a rispettare i livelli minimi di assistenza. E un nuovo super-commissariamento è in arrivo. Alessia Candito su L'Espresso il 04 novembre 2020. Da regione sostanzialmente risparmiata dall’epidemia, per mesi fiera dei suoi contagi zero, a “sorvegliata speciale”, candidata al lockdown per almeno 15 giorni. Per la Calabria, il nuovo dpcm, che divide l’Italia in tre con regole e chiusure differenziate a seconda del livello di rischio, potrebbe essere un salto indietro nel tempo. Un ritorno – dai più inaspettato, dopo un’estate da cicala fra assessori regionali che plaudivano alla “movida responsabile” in un’affollata discoteca e una Giunta pronta a giurare che «qui il rischio è solo di ingrassare» – a quei mesi di strade vuote, negozi chiusi, serrande abbassate, mobilità limitata. Un’anomalia al Sud. Provvedimenti così severi sono allo studio solo per la Lombardia, fin dall’inizio della pandemia la “grande malata d’Italia” con in media 6mila casi giornalieri, e il Piemonte, che di nuovi contagi ne segna quotidianamente più di 3mila. In Calabria, non sono mai arrivati a 300 al giorno e in totale sono poco più di 3600.

CONTAGI IN CRESCITA, REPARTI AL COLLASSO. Ma i numeri assoluti sono bugiardi e i 21 indicatori individuati dal governo per elaborare la “classificazione complessiva del rischio” e “lo scenario” per la Calabria sono una condanna. Perché – è vero – i contagi sono relativamente pochi, sebbene quasi doppino i “casi chiusi” per guarigione o decesso dall’inizio della pandemia, ma già bastano per rischiare di mettere a rischio la tenuta del sistema. Anzi, spiegano gli esperti, se i trend di contagio dovessero essere confermati – recita il monitoraggio Iss del 24 ottobre – con un Rt pari all’1.66 e un’incidenza pari al 166.73 per 100mila, c’è più del 50% di possibilità che i posti di terapia intensiva siano occupati per oltre il 30% e quelli nei reparti per oltre il 40%. Sono le soglie oltre cui scatta l’allarme e per quanto riguarda i letti di pneumologia e malattie infettive, forse le proiezioni sono state anche ottimistiche. Da Reggio Calabria a Cosenza, è allarme. Cinque giorni fa, il Policlinico Universitario Mater Domini e l’ospedale Pugliese Ciaccio, entrambi di Catanzaro, hanno dovuto alzare bandiera bianca e dichiarare il “tutto esaurito” nei reparti di malattie infettive, incluso quello appena aperto. Lo stesso è successo due giorni fa con la Terapia Intensiva Covid al Mater Domini. Il 25 ottobre, stessa situazione critica si registrava a Cosenza, dove 33 ricoveri hanno saturato i reparti di Pneumologia e Malattie infettive. A Reggio Calabria, si è cercato in tutta fretta di correre ai ripari. Dai reparti dismessi e di recente trasferiti in un'altra struttura ospedaliera della città, sono stati ramazzati letti e attrezzature per allestire una nuova area Covid, mentre in tempi record è stata autorizzata l’assunzione a tempo determinato di 209 fra medici, infermieri, tecnici e oss. Il 26 ottobre, la direzione dell’ospedale ha pubblicato cinque avvisi pubblici per reclutare in tutta fretta infettivologi, chirurghi, pneumologi, radiologi e neuroradiologi, specializzati o specializzandi che siano. Gli aspiranti hanno avuto solo 7 giorni per presentare domanda e curriculum, perché c’è fretta di spedirli in reparto. Nelle stesse ore, sono partiti i telegrammi di convocazione per infermieri, tecnici e oss già in graduatoria. Ma la situazione è sotto controllo, assicurano dall’ospedale. Peccato che i nuovi 12 posti di terapia intensiva annunciati a mezzo stampa come “pronti” in realtà siano ancora un cantiere, con gli operai che continuano a uscire dai locali del vecchio centro trapianti per midollo osseo, non si sa bene chi li dovrà gestire, mentre a tutti i reparti è stato ordinato di comunicare i nomi di tre infermieri e un medico che dovranno aggiungere almeno un turno in area Covid alle loro normali mansioni. Nel frattempo, la commissaria dell’azienda ospedaliera Jole Fantozzi è stata costretta in tutta fretta a pubblicare anche una manifestazione di interesse per la fornitura urgente di 1.5 milioni di guanti di vario tipo.  

TRACCIAMENTO FUORI CONTROLLO. E se questa è la situazione negli ospedali, di certo non appare migliore quella sul fronte del tracciamento. Non più tardi di una settimana fa, il presidente facente funzioni Nino Spirlì, che ha assunto la guida della Regione dopo la morte improvvisa della governatrice Jole Santelli, ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente Puglia e Sicilia per aver ceduto alla Calabria i tamponi necessari per effettuare almeno 3mila test al giorno. E spesso neanche ci si arriva. Ma le Usca che da decreto governativo avrebbero dovuto occuparsi di assistenza domiciliare e trattamento per metà sono rimaste su carta, da tutta la regione i contatti di positivi denunciano un’attesa media di 5-7 giorni per il test e di altrettanti per i risultati. La sorveglianza attiva sui malati in assistenza domiciliare rimane spesso nel novero delle buone intenzioni, l’individuazione della rete di un contagiato il più delle volte è affidata alla buona volontà del singolo e l’annunciato screening sulle Rsa non deve funzionare benissimo se è vero che almeno due sono già diventate focolaio. In più, chi può si rivolge ai laboratori privati che da maggio hanno iniziato a fare tamponi e sierologici a pagamento, senza che nessuno si sia mai preoccupato né di verificare l’attendibilità dei test, né di pretendere la trasmissione dell’esito di quegli esami. Traduzione, i dati che ogni giorno finiscono nel bollettino regionale e vengono trasmessi a Roma, sono verosimili fino ad un certo punto. E questi non sono che alcuni dei motivi per cui l’Istituto superiore di sanità ha messo nero su bianco l’alta probabilità di una “trasmissione non gestibile in modo efficace con misure locali (zone rosse)” e il governo ha seriamente valutato il lockdown per la Calabria.  

L’EREDITA’ DEL COMMISSARIAMENTO. Certo, la Regione partiva zoppa. Commissariata da oltre un decennio, la rete degli ospedali calabresi paga tagli lineari di reparti, servizi e personale, un blocco del turnover che ha portato a oltre 3700 fra infermieri, medici e operatori sanitari mandati in pensione e mai rimpiazzati e solo 2,5 posti letto per ogni mille abitanti contro i 4 di media nazionale. Al conto sono da aggiungere, tre Asp commissariate per mafia e sommerse dai debiti, anche per l'abitudine di pagare più volte le prestazioni ai privati amici e convenzionati e un ritardo medio di circa 900 giorni nel pagamento dei fornitori. Un lasso di tempo buono a far maturare interessi e penali o funzionale a spregiudicate operazioni di cartolarizzazione di quei crediti, come quella che ha fatto finire in pancia ad un bond negoziato sui mercati finanziari internazionali fatture inevase vantate da aziende e cooperative in odor di mafia. Il risultato è uno scheletro sanitario esile e che tale è rimasto nonostante i decreti emanati dal governo Conte bis abbiano dato ampia possibilità di potenziare i reparti, in termini di mezzi e personale. Ma soprattutto, per la prima volta nella storia recente della regione, l’allora governatrice Jole Santelli ha avuto mano libera e sostanzialmente un assegno in bianco per farlo. Il risultato però è lungi dall’essere soddisfacente. Secondo il Sole24Ore, dall’inizio della fase 2 sono state create solo 6 postazioni in più di terapie intensive. Per la Regione invece sarebbero almeno 40, ma nel conto ci finiscono anche vecchi ventilatori ricondizionati o quelli nuovi spediti in fretta e furia da Roma. In totale, le terapie intensive in Calabria sono 146. Peccato che per le linee guida fissate dal ministero della Salute dovrebbero essere quasi il doppio.

IL LIBRO DEI SOGNI DELLA SANITA’ CALABRESE. Lo ha scritto chiaro il commissario ad acta per la sanità, il generale Saverio Cotticelli, che tra giugno e luglio ha firmato due decreti in cui, fra le altre, si indicavano come necessarie e urgenti la realizzazione di un centro Covid regionale, di Covid-hotel, l'assunzione di 500 unità di personale medico e paramedico a tempo determinato e indeterminato, la realizzazione di 136 nuovi posti di terapia intensiva e di 134 di sub-intensiva. È rimasto tutto su carta. Eppure i soldi c’erano, alla Calabria sono stati destinati 86milioni di euro. Ma nel rimpallo di responsabilità fra politica e struttura commissariale, non è stato possibile neanche capire come mai a un realistico piano Covid ci si è arrivati solo quando il super commissario Domenico Arcuri da Roma ha messo a lavorare Asp e Aziende ospedaliere. “Già il governo Conte con i Decreti 14/20, 18/20 e 34/20 della primavera scorsa aveva perentoriamente indicato alle Regioni come contrastare la Pandemia provocata dal COVID 19, che ha messo in crisi un’organizzazione della sanità ospedalocentrica obbligando, finalmente, a modificare la cifra culturale e organizzativa della sanità valorizzando la Medicina d’iniziativa e di prossimità che pone al centro il paziente e i suoi bisogni di salute, con un forte ruolo della Medicina Territoriale e della Prevenzione” tuona Comunità competente, un gruppo di associazioni di medici, specialisti, tecnici e operatori del terzo settore, che da mesi cerca di farsi ascoltare. Gli strumenti finanziari e normativi per riportare la sanità calabrese nel terzo millennio ci sono – spiegano -  basta immaginare un sistema diverso basato sulle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) attive h12 e le Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP) h 24, già programmate e finanziate e mai realmente realizzate. E poi bisogna attivare tutte le 37 Usca che il governo aveva previsto, acquistare le apparecchiature necessarie in ospedali e poliambulatori con gli 86milioni di euro già stanziati e assumere il personale per gestirle, insieme a quegli infermieri di famiglia e comunità previsti dal Dpcm del maggio scorso. Nessuno li ha mai presi in considerazione.

IL DECRETO CALABRIA BIS E IL NUOVO SUPERCOMMISSARIAMENTO. Il dato però è uno ed è certo. Rispetto a quanto previsto come necessario è stato fatto poco o nulla. Risultato, la Calabria non solo si è fatta trovare del tutto impreparata alla seconda ondata della pandemia, ma già da una settimana non riesce a garantire neanche l’ordinaria attività negli ospedali pubblici. Con ordinanza firmata di suo pugno, il leghista Spirlì ha sospeso attività ambulatoriali, visite e operazioni chirurgiche ordinarie e non urgenti. Era già successo durante il primo lockdown e mesi dopo è toccato a medici e pazienti raccogliere i cocci di diagnosi tardive, trattamenti dilazionati e all’Asp pagare i conti delle operazioni non differibili dirottate sulle cliniche private. Ecco perché insieme al possibile lockdown o a restrizioni meno severe, per la Calabria arriverà un nuovo super-commissariamento della sanità regionale, che di fatto esautora o rende marginale il ruolo della Regione. Obiettivo, ripianare il gigantesco debito accumulato anche a causa del continuo ricorso al privato convenzionato e alla necessità di sovvenzionare una gigantesca mobilità sanitaria, ma soprattutto mettere in atto il piano Covid e rafforzare una struttura sanitaria a stento in grado di rispettare i Lea – livelli minimi di assistenza – anche prima della pandemia. “Combatteremo per i diritti dei calabresi” tuona il leghista Spirlì, che contro il decreto Calabria fa appello a Mattarella e promette battaglia, parla di lesa maestà e scomoda persino il fantasma della governatrice, di recente deceduta, per affermare che “anche Jole aveva espresso la propria contrarietà al commissariamento”. Gli va dietro tutto il centrodestra, che sospende le ostilità interne per la definizione di liste e candidature in vista delle prossime regionali, nonostante la pandemia che infuria, invocate per gennaio e in coro tuona contro il nuovo super commissariamento e il possibile lockdown. “La Calabria abbandoni, da subito, la Conferenza Stato-Regioni” propone il presidente del Consiglio regionale, Domenico Tallini, parla di “regime dittatoriale” il deputato di Forza Italia, Domenico Torromini, insinua che “ii territori governati dalla sinistra abbiano dal governo nazionale un trattamento di favore” Roberto Occhiuto, altro deputato azzurro calabrese, per il suo collega leghista Domenico Furgiuele invece “la zona rossa offende e umilia la Calabria” e in fondo che “solo il 22% delle terapie intensive” sia occupato da malati Covid non è poi così preoccupante, mentre per la deputata di Fdi Wanda Ferro l’esecutivo “sacrifica la Calabria, mentre con il nuovo Decreto Calabria, continua a fare della sanità calabrese uno strumento di gestione del potere”. Nel frattempo però, sul fronte della pandemia, la maggioranza che governa la Regione sembra aver fatto poco. Se non tentare di giocare a nascondino con i dati. O almeno, questo è l’intento che sembra aver ispirato la tardiva correzione del bollettino regionale, che martedì sera, attorno alle 20, ha ritoccato al ribasso il numero delle terapie intensive. Improvvisamente sono passate da 26 a 10. E non perché ci sia stata un’ecatombe regionale in poche ore. La chiave sta nella nuova distinzione – introdotta proprio mentre da Roma venivano indicati i criteri per definire il livello di rischio delle Regioni – fra pazienti intubati e non intubati. Da martedì, per la Regione solo gli intubati vanno in conto alla terapia intensiva. O almeno, così funziona nella Calabria che cerca a tutti i costi di dribblare il lockdown.  

«I ventilatori? Non so cosa siano». Bufera sul capo della Prociv in Calabria. Il Dubbio il 31 marzo 2020. Domenico Pallaria ha rimesso il suo incarico nelle mani della presidente Jole Santelli. Domenico Pallaria si è dimesso. È bastata una inchiesta giornalista, condotta da Report, per spingere il capo della Protezione civile regionale calabrese a lasciare il suo incarico. L’intervista rilasciata da Pallaria al noto programma televisivo di Raitre e andata in onda nella serata di lunedì 30 marzo, in pochissime ore aveva fatto il giro del web scatenando dure polemiche e ironie social, seguite da numerose richieste di dimissioni di esponenti politici e sindacati. L’uomo, su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, nel corso dell’intervista ha dichiarato candidamente di non essersi mai interessato in vita sua di attrezzature sanitarie. «Mi occupo di altre cose – ha rivelato -, se lei mi chiede cos’è un ventilatore polmonare io non so dirglielo». Report era  entrata in possesso di una nota riservata del ministero della Salute in cui, già il 31 gennaio, veniva rivelato che la Calabria era la Regione con “maggiori difficoltà di gestione dell’emergenza epidemiologica”, non essendo dotata di strutture specifiche e che sarebbe stato opportuno “individuare una figura specificatamente incaricata di sovrintendere la situazione”. Chiamata a giustificare dalla cronista di Report la nomina di Pallaria, la neo governatrice calabrese Jole Santelli ha messo in mostra tutto il suo imbarazzo: «Insomma – ha detto – chi dovevo nominare? Chi è il responsabile oggi della Protezione Civile e chi è responsabile oggi del Dipartimento Salute». Sempre Pallaria, nel corso dell’intervista, aveva anche ammesso con tono sarcastico di occuparsi di altro: «C’ho anche i rifiuti». Pallaria ha  rimesso oggi il suo incarico di responsabile ad interim della Protezione civile nelle mani della presidente Santelli, chiedendo «scusa ai calabresi», per poi precisare che le sue parole sono state «estrapolate da un contesto» e che «la situazione ha dell’incredibile, è farsesca». Storico dirigente della Regione Calabria, a capo dei dipartimenti chiave quali infrastrutture, lavori pubblici, mobilità, traporti, protezione civile, ma anche sulla gestione dei rifiuti, a inguaiarlo è stato l’aver ammesso la sua scarsa conoscenza dei macchinari sanitari che dovrebbero essere utilizzati in piena emergenza: «I ventilatori (per la respirazione assistita, ndr)? Non so neppure cosa siano».

 (ANSA il 9 marzo 2020) - Sessanta medici di famiglia a Cosenza sono stati posti in quarantena dopo aver avuto contatti, negli ultimi giorni, con un informatore farmaceutico risultato positivo al nuovo coronavirus. Lo afferma all'ANSA Silvestro Scotti, segretario della Federazione dei Medici di Medicina Generale (Fimmg). La situazione, rileva, "è preoccupante. A seguito della quarantena per questi 60 colleghi, infatti, circa 70mila cittadini calabresi da oggi si ritroveranno sprovvisti del medico di base cui fare riferimento".

Marco Mologni per "corriere.it" il 16 marzo 2020. Negli ultimi giorni di febbraio era arrivato a Desio dalla provincia di Reggio Calabria, per assistere alla laurea della figlia Michela. Una festa che si è trasformata in tragedia. Domenico Crea, 57 anni, impiegato del Comune di Montebello Jonico e ministro straordinario dell’Eucaristia nella parrocchia dei Santi Cosma e Damiano, è morto venerdì dopo una crisi respiratoria provocata dal coronavirus, mentre i parenti lo stavano trasportando in ospedale. Indagini epidemiologiche sono in corso per accertare se l’uomo sia stato contagiato dal virus in Brianza. Momenti lieti, in cui ha potuto vedere per la prima volta il nipotino Antonio, abbracciare i parenti, assistere alla discussione di laurea della figlia. Ma appena è tornato a casa ha iniziato a sentirsi poco bene. Febbre alta, tosse. Da giorni faceva fatica a respirare. Un malessere che lo aveva spinto a rivolgersi al 118. Ma i medici non hanno fatto il tampone né disposto il ricovero. Fino a quando le sue condizioni sono diventate drammatiche. Moglie e figlia l’hanno trasportato all’ospedale di Melito Porto Salvo, dove però è giunto morto, dopo un arresto cardiaco per problemi respiratori. Il giorno dopo il decesso è arrivato l’esito del tampone: positivo al coronavirus. Ora anche i familiari, i medici e gli infermieri sono in quarantena.

SICILIA.

Coronavirus, Nello Musumeci a Libero: "Troppi immigrati, nessuno pensa all'epidemia". Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 15 aprile 2020. Mai avrebbe immaginato, nella sua lunga carriera, di dover tenere un popolo festoso - come sono i siciliani - chiuso in casa a Pasqua. «No, nessuno avrebbe mai potuto pensare a una calamità di questa portata. Eppure quello che abbiamo fatto ha sorpreso noi stessi, innanzitutto». Un mese dopo il lockdown Nello Musumeci, presidente della Regione siciliana, affida a Libero non un bilancio («è prematuro») ma un primo bollettino: «Siamo riusciti a gestire un' obiettiva situazione di emergenza con un sistema sanitario e organizzativo che non era tarato per eventi di questa portata». Tutto questo nonostante i tanti fronti a cui la sua Sicilia è esposta nella prevenzione del contagio: da Nord, con il nodo dei rientri sullo Stretto di Messina, e adesso dal Sud del mondo, con il primo caso di Covid-19 tra i migranti che in barba al decreto "porti chiusi" continuano indisturbati a sbarcare, in centinaia, sulle coste siciliane.

Presidente, come hanno reagito i suoi corregionali al coronavirus? 

«All' inizio con il disincanto "tipico" di noi siciliani e con un pizzico di ironia. Ma ci è voluto poco per comprendere e condividere la gravità del momento. Sono stati disciplinati, anche se la stanchezza adesso comincia ad avere il sopravvento ed il disagio economico ha messo tutti in ginocchio».

Con l' arrivo del bel tempo, è accaduto ciò che temeva: centinaia di arrivi in Sicilia, incluso il primo migrante contagiato. Il decreto del governo sui porti chiusi a quanto pare sta facendo acqua... 

«La posizione mia e del mio governo è chiara: riteniamo che l' unica soluzione possibile di fronte al paventato arrivo di migranti con sbarchi autonomi sia la quarantena su un' apposita, idonea nave ormeggiata in rada. In zone ben definite e sotto la sorveglianza sanitaria. Ricevo allarmate telefonate da sindaci e cittadini che temono l' incontrollata gestione della presenza di centinaia di migranti, sul piano della prevenzione sanitaria».

I sindaci siciliani di tutti i colori sono sul piede di guerra contro il governo nazionale. Stessa cosa gli imprenditori di Lampedusa. Alla fine questa nave se l' è dovuta procurare da solo... 

«Avverto per intero il peso della mia responsabilità. Abbiamo trovato in 24 ore una nave per 488 posti, dotata di protocolli sanitari e di tutte le autorizzazioni. Ma non sappiamo ancora cosa abbia deciso lo Stato dopo la nostra proposta. E così non va bene: la leale collaborazione non può essere unilaterale. Il governo non perda altro tempo. Tra la mia gente c' è già tanta tensione».

Il rischio è che ciò che si è riuscito a bloccare dal Nord, il Covid-19, potrebbe venire dal Sud verso la Sicilia? 

«Da uomo orgogliosamente di destra, prima ancora che da governatore, guardo al fenomeno migratorio sotto l' aspetto umanitario e organizzativo. Ed ho sempre denunciato il cinismo dell' Ue e la sua incapacità a dimostrare di essere anche un ideale, un valore e non soltanto una lobby finanziaria. I migranti vanno fermati prima ancora di partire e l' Europa avrebbe dovuto già da tempo prendere atto del fallimento della politica di cooperazione e di sviluppo con il continente africano».

Un mese dopo il lockdown è andata meglio di come temeva? 

«Non è ancora tempo per fare bilanci. Se guardiamo ai numeri, e tentiamo raffronti con altre regioni, ci consideriamo in una posizione certamente non drammatica. Merito sia di un sistema sanitario che ha saputo reggere l' impatto e programmare l' evoluzione dell' epidemia; e merito pure di una comunità che ha saputo e voluto rispettare le regole del rigore e della rinuncia. Ma è anche frutto di scelte tempestive, sofferte e coerenti, assunte con forte senso di responsabilità. Mi fa piacere che questo sia stato riconosciuto in questi giorni anche da Iss e da diversi commentatori».

Avete fatto da soli per ciò che riguarda il materiale perché ciò che è arrivato dal governo, come lei ha denunciato, sono state le mascherine modello "panni swiffer"? 

«Le polemiche tra istituzioni non sono nel mio stile. Grazie alla collaborazione con l' Università di Pittsburgh - che con noi gestisce l' Ismett a Palermo - abbiamo acquistato da soli quasi 300 tonnellate di dispositivi medici. Una grande prova di buona organizzazione. I ritardi dell' Unità di crisi centrale nella fase organizzativa, in termini di dispositivi, sono stati evidenti, dunque, e hanno messo a rischio di collasso l' intero sistema operativo italiano. Era necessario attrezzarsi in tempo».

Nei giorni clou dell' esodo da Nord verso Sud, lei aveva anticipato l' allarme. È finita con gli sbarchi incontrollati allo Stretto di Messina, dove è dovuto intervenire fisicamente... 

«Quando ho lanciato l' allarme degli arrivi dal Nord - intorno al 24 di febbraio - fui criticato da molti sindaci e dagli operatori commerciali. E, nonostante le ordinanze del presidente del Consiglio e mie, per diversi giorni i controlli sullo Stretto sono stati lacunosi e sporadici. Come è noto la funzione di controllo è dello Stato che si serve delle forze dell' ordine. Io ho richiamato l' attenzione del ministro dell' Interno, con toni anche forti, ma sempre rispettosi del garbo istituzionale: e solo dopo si è rafforzata la presenza delle pattuglie sul versante calabro e su quello messinese».

Il coronavirus rischia di falciare anche un pezzo importante di economia nazionale. I due decreti del governo sono sufficienti? 

«Credo che il secondo provvedimento sia corposo ma al di là della somma serve capire quale procedura si vuole seguire per evitare che le risorse rimangano a lungo congelate. Alle nuove disponibilità finanziare si debbono accompagnare nuove misure procedurali che evitino i lacci della burocrazia e consentano agli imprenditori di disporre presto delle risorse».

Conte ha utilizzato gran parte della conferenza stampa per attaccare le opposizioni... 

«Una caduta di stile che mi ha sorpreso. Anche il capo di un governo ha il diritto di replicare alle opposizioni, che avevano avanzato giuste critiche, ma c' è un tempo e un modo per farlo, non mentre ci si rivolge alla nazione. Quando ogni intervento deve essere improntato allo spirito di unità nazionale».

I suoi amici presidenti di Lombardia e Veneto rappresentano la trincea più avanzata sul fronte del contagio. Che cosa si sente di dirgli? 

«Quella siciliana è una comunità di grandi risorse: sa di poter contare su stessa ma sa tendere la mano a chi ne ha bisogno. E con orgoglio dico che le nostre strutture hanno ospitato pazienti bergamaschi in terapia intensiva trasferiteci dall' ospedale di Bergamo. Per fortuna sono stati dimessi dalla terapia intensiva e ora sono in corsia. Dico di più: ricordate la paziente zero? La donna bergamasca in visita a Palermo con la comitiva, ospitata nei nostri ospedali, poche ore fa è ripartita per la Lombardia. Un' altra bella notizia. Speriamo di poterli ospitare di nuovo in Sicilia, finita la tempesta».

Che cosa auspica pensando al 3 maggio? 

«Di avviare la ripartenza dei cantieri e una graduale riapertura delle attività commerciali».

Le Covidiadi. Report Rai PUNTATA DEL 06/04/2020 di Claudia Di Pasquale, collaborazione di Giulia Sabella e Lorenzo Vendemiale, immagini di Dario D'India. Lo scorso 23 marzo muore per coronavirus il direttore del parco archeologico di Siracusa, Calogero Rizzuto. Nei primi giorni di febbre gli viene negato il tampone. Viene ricoverato in ospedale solo quando è già molto grave. Intanto si contagia la sua più stretta collaboratrice, che morirà due giorni dopo di lui. Si contagiano anche altri colleghi, alcuni vengono ricoverati, altri restano in isolamento a casa. Ma quali sono le misure di contenimento e prevenzione prese dalle istituzioni? E come funziona il sistema dei laboratori accreditati per analizzare i tamponi?

LE COVIDIADI Di Claudia Di Pasquale Collaborazione di Giulia Sabella - Lorenzo Vendemiale. Immagini di Dario D’India. Montaggio Federico Tozzi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, siamo in Sicilia. Solo un mese fa su 5 milioni di abitanti c’erano 50 casi di Covid e potevano essere, la situazione sembrava assolutamente gestibile. Poi c’era la situazione al Nord quindi c’era tempo per capire quello che poteva succedere. Oggi invece il governatore Musumeci chiede poter speciali, di poter utilizzare la polizia e l’esercito. Che cosa è successo? Un piccolo manuale di tutto quello che non andrebbe fatto se si vuole contrastare la diffusione del virus, è stato messo in atto a Siracusa. La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Siracusa era la più bella delle città della Magna Grecia. Il suo teatro era il più importante edificio per spettacoli del mondo greco-occidentale. Ancora ogni anno qui nei mesi di maggio e giugno vengono rappresentate le tragedie greche. Ora però è tutto chiuso. E la tragedia si è già compiuta. Lo scorso 23 marzo è morto a causa del coronavirus il direttore del parco archeologico, Calogero Rizzuto, aveva 65 anni e nessuna malattia pregressa.

 AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Mio padre ha avuto i primi sintomi del coronavirus a partire dal primo di marzo. Comincia ad accusare una tosse persistente.

CLAUDIA DI PASQUALE La febbre inizia poi ad alzarsi.

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Sì. Mercoledì, quando si alza con la febbre che se non sbaglio era intorno ai 38 e mezzo, mia mamma decide di contattare il medico di famiglia e il medico attiva tutte le procedure per la richiesta del tampone.

CLAUDIA DI PASQUALE E questo tampone viene fatto?

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Il tampone nell’immediato non viene fatto. CLAUDIA DI PASQUALE E per quale motivo non viene fatto?

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Perché i sintomi che mostrava mio padre non erano sintomi del Covid-1,9 ma sintomi di una normale influenza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure solo pochi giorni prima, l’architetto Rizzuto aveva incontrato un gruppo di sudcoreani. È così che al salire della febbre fino a 39, la moglie lo porta direttamente in ospedale per fare il tampone.

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Viene fatto il tampone solo a mio padre e viene immediatamente mandato a casa senza una visita medica.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi voi fate il tampone che esito ha dato?

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Il medico purtroppo gli comunica che a quanto gli hanno detto dall’Asp non si è avuto alcun esito.

CLAUDIA DI PASQUALE Che significa?

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Non l’ho mai capito questo. L’ha dovuto rifare l’indomani mattina; cioè mia madre armata di pazienza, armata di borsoni, ricetta del medico per il ricovero, si vede costretta a riportare il marito nuovamente all’ospedale, hanno rifatto il tampone, entrambi, dopo che mio padre aveva avuto la febbre a 40, era stato visitato e stava davvero molto male, ha richiesto il ricovero di mio padre con il certificato in mano e gli è stato detto che fino a quando non si avesse avuto il risultato del tampone non poteva ricoverarsi. Quindi mia madre ha dovuto riportare mio padre a casa quel giorno.

CLAUDIA DI PASQUALE Con 40 di febbre?

AUDENZIO RIZZUTO - FIGLIO DI CALOGERO RIZZUTO Con 40 di febbre. L'indomani il risultato del tampone non si è avuto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il tampone finisce al Policlinico di Catania per essere analizzato. Sono passati però 12 giorni dalla comparsa dei sintomi e Rizzuto inizia ad avere crisi respiratorie. È così che interviene il suo migliore amico, Nello Dipasquale, che per una coincidenza, è anche un deputato della Regione.

NELLO DIPASQUALE - AMICO DI CALOGERO RIZZUTO E DEPUTATO ARS Quando io ormai non ho un responso da nessuno e quando io ormai ho solamente un contatto con la moglie che mi dice che la situazione si va ad aggravare minuto dopo un minuto, chiamo l'assessore alla Sanità.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei arriva a chiamare l'assessore alla Sanità per capire cosa stava succedendo.

NELLO DIPASQUALE - AMICO DI CALOGERO RIZZUTO E DEPUTATO ARS Chiamo l’assessore alla Sanità e gli dico “ma qua io non riesco a capire cosa sta succedendo: il giorno 6 non hanno un tampone, giorno 9 si fa un tampone, giorno 11 gli fanno fare un altro tampone… Siamo arrivati al giorno 12, il direttore sta morendo” e l'assessore mi risponde dicendo "Ma secondo me va ricoverato”. Mi manda un messaggio il pomeriggio, mi dice che è stato ricoverato; dopo un paio di ore, due - tre ore mi rimanda un altro messaggio che fanno la TAC e dove dalla TAC che si evince una grave polmonite. Alle 11 di sera mi scrive la moglie che mi dice che è con l'ossigeno.

CLAUDIA DI PASQUALE Alla fine Rizzuto riesce a ricoverarsi perché lei chiama l'assessore regionale alla Sanità?

NELLO DIPASQUALE - AMICO DI CALOGERO RIZZUTO E DEPUTATO ARS È assurdo, lo so. Non lo deve dire a me.

CLAUDIA DI PASQUALE In tutti questi giorni qualcuno ha detto alla moglie “non deve stare accanto a suo marito, si deve mettere in quarantena, deve prendere delle precauzioni”…

NELLO DIPASQUALE - AMICO DI CALOGERO RIZZUTO E DEPUTATO ARS La moglie, il dramma nel dramma.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il direttore del parco muore per coronavirus in ospedale. L'amico Nello Dipasquale e la famiglia denunciano i fatti. La procura apre un'inchiesta. Intanto il direttore generale dell’azienda sanitaria di Siracusa dichiara che Rizzuto avrebbe rifiutato il primo ricovero.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha dichiarato alla stampa che il dott. Rizzuto aveva rifiutato il ricovero.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Guardi lì c'è un'indagine e io non le posso rispondere.

CLAUDIA DI PASQUALE Siccome a me risulta che aveva chiesto un tampone non è stato fatto, ne è stato fatto uno il 9 marzo, ne ha fatto un altro l’11, aveva 40 di febbre, non è stato neanche ricoverato nonostante ci fosse la richiesta il medico…

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Lei non ha, non ha… non ha informazioni corrette.

CLAUDIA DI PASQUALE Me le dica lei quali sono le informazioni corrette.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Assolutamente no, guardi. Non ci arriva lei a farmi dire questa cosa. Dobbiamo rispettare sia la famiglia che gli organi che stanno facendo le indagini.

CLAUDIA DI PASQUALE Io non credo che la famiglia si sia sentita rispettata quando lei ha detto che Rizzuto ha rifiutato il ricovero.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Io non faccio ricoveri, né li rifiuto, né faccio i tamponi.

CLAUDIA DI PASQUALE Come ospedale dico.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Io ho fiducia nella struttura come ha gestito, punto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto, il 25 marzo, muore per coronavirus anche la collaboratrice di Rizzuto, la funzionaria Silvana Ruggeri. Aveva 51 anni. Non solo: dieci dipendenti del Parco Archeologico e della Soprintendenza dei Beni Culturali di Siracusa si contagiano. Alcuni finiscono ricoverati; un’altra ventina tra colleghi e familiari, ho inoltre dei sintomi influenzali, come Ferdinando, che ha avuto tosse e febbre fino a 39 già i primi di marzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha avuto la possibilità di fare un tampone per verificare se aveva il coronavirus?

FERDINANDO MESSINA - CATALOGATORE SOPRINTENDENZA - EX CONS. COMUNALE Attraverso la chiamata al 112, ho rappresentato tutte le patologie, ma alla domanda se provenissi dalla Lombardia o dal Veneto, alla quale io ho risposto negativamente, mi hanno detto che non rientravo nei soggetti per i quali era richiesto il tampone.

CLAUDIA DI PASQUALE Una volta che si scopre che il direttore del parco archeologico ha il coronavirus e che anche altri colleghi lo hanno, qualcuno l'ha chiamata?

FERDINANDO MESSINA - CATALOGATORE SOPRINTENDENZA - EX CONS. COMUNALE No, nessuno. Non ho mai avuto una effettuata nemmeno telefonicamente una visita.

CLAUDIA DI PASQUALE Una volta che le è finita la febbre, sente di stare meglio, lei si presenta autonomamente e fa il tampone.

FERDINANDO MESSINA - CATALOGATORE SOPRINTENDENZA - EX CONS. COMUNALE Faccio il tampone. CLAUDIA DI PASQUALE Giorno 26 marzo.

FERDINANDO MESSINA - CATALOGATORE SOPRINTENDENZA - EX CONS. COMUNALE Marzo. CLAUDIA DI PASQUALE E lei l'ha avuto risultato?

FERDINANDO MESSINA - CATALOGATORE SOPRINTENDENZA - EX CONS. COMUNALE No, sono in attesa del risultato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Stessa storia per Sandra: il 24 marzo ha fatto il tampone dopo essere stata a stretto contatto con due colleghe della Soprintendenza risultate positive.

SANDRA ROMANO - DIPENDENTE SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA Non so il risultato del tampone che io ho fatto su base volontaria, questo ci tengo a dirlo, perché l'Asp fino a ieri, non riteneva opportuno fare i tamponi a tutti i dipendenti della Soprintendenza e del Museo Paolo Orsi.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei invece è stata messa in quarantena?

SANDRA ROMANO - DIPENDENTE SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA Io sono stata messa in quarantena solamente… in realtà mi è stato comunicato due giorni prima della fine della quarantena.

CLAUDIA DI PASQUALE E questo come è stato possibile?

SANDRA ROMANO - DIPENDENTE SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA Io non lo so me lo chiedo ancora.

CESARE ALESSANDRO SPERANZA - FUNZIONARIO SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA Io il giorno 9 e il giorno 10 sono stato in contatto con almeno 6 di questi colleghi risultati poi positivi.

CLAUDIA DI PASQUALE L’azienda sanitaria l’ha poi messa in quarantena?

CESARE ALESSANDRO SPERANZA - FUNZIONARIO SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA No, non mi ha messo in quarantena. Acclarato il Covid-19 a Rizzuto, dovevano schiacciare un pulsante e dire: tutti gli elenchi di questo di questi uffici, tutti in quarantena.

CLAUDIA DI PASQUALE E questo non è stato fatto.

CESARE ALESSANDRO SPERANZA – FUNZIONARIO SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA E questa è la cosa grave, che questo non è stato fatto.

CLAUDIA DI PASQUALE E quali sono state poi le conseguenze?

CESARE ALESSANDRO SPERANZA – FUNZIONARIO SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI DI SIRACUSA Che colleghi nostri positivi hanno poi contaminato genitori o familiari.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I custodi del Museo Archeologico “paolo Orsi” hanno continuato a lavorare fino a pochi giorni fa.

CLAUDIA DI PASQUALE Che provvedimenti sono stati presi per i custodi?

VERA CARASI – SEGRETARIO GENERALE UST CISL SIRACUSA Nessuno, anzi, hanno ricevuto delle mail individuali dove si predisponeva il fatto che dovessero essere presenti nei loro posti di lavoro, malgrado qualcuno avvertisse già i malesseri, i sintomi del Covid-19, perché ogni bene del Parco Archeologico è più importante di una vita umana. Quindi alcuni si sono rifiutati, dopo di che come organizzazione sindacale siamo intervenuti noi della Cisl.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi per tutto questo tempo loro hanno continuato a lavorare?

VERA CARASI – SEGRETARIO GENERALE UST CISL SIRACUSA Hanno continuato a lavorare. Oggi noi abbiamo alcuni custodi ricoverati di Covid-19 all'ospedale Umberto Primo di Siracusa.

CLAUDIA DI PASQUALE Non pensa che se voi aveste fatto, diciamo, un lavoro di monitoraggio e mappatura preciso…

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Ribadisco, ribadisco che lei è libera di pensare quello che vuole.

CLAUDIA DI PASQUALE Avete chiesto di mettere in quarantena tutti i dipendenti?

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Io le ribadisco che notizie sanitarie non gliene do. E ho l'obbligo di difendere la mia azienda…

CLAUDIA DI PASQUALE La mia sensazione è che si poteva evitare la nascita di questo focolaio.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA È una sua sensazione. Poi vedremo se qua c’è, ci sono percentuali più alte o più basse del resto dell’Italia.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi stiamo analizzando un caso specifico.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Lei sta analizzando, non noi.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì, forse in effetti voi no. Sicuramente io mi sono messa a chiamare i vari dipendenti. A me non risulta che voi l’abbiate fatto.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Bene, è stata più brava di noi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Proprio pochi giorni fa scoppia il caso dell'ospedale Umberto I di Siracusa: risultano positivi al coronavirus il primario del pronto soccorso, tre medici e un infermiere. L'assessorato regionale alla Salute manda degli ispettori in ospedale. Prima che arrivino, l'azienda sanitaria realizza questo video:

DARIO CHIARAMIDA – DIRETTORE MEDICO PS OSPEDALE UMBERTO I SR Siamo pronti ad affrontare la nostra pandemia in maniera, in maniera adeguata. Quando il paziente affetto da sospetta sindrome da coronavirus ha necessità di afferire all’interno dei locali dell’Umberto I, sono stati creati dei percorsi preferenziali.

GIUSEPPE CAPODIECI – DIRETTORE DIPARTIMENTO RADIODIAGNOSTICA ASP SIRACUSA Per i pazienti sospetti o per i pazienti positivi, abbiamo tutto un’ala con tecnologie dedicate. In queste sale entra solamente persone che hanno sospetto covid o covid, in modo da non creare promiscuità.

ROBERTO ALOSI - SEGRETARIO GENERALE CGIL SIRACUSA Il video è un'offesa all'intelligenza media di questa città, è un tentativo becero di voler accreditare l'immagine di una azienda sanitaria direi quasi dello splendore di una clinica svizzera.

CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta che proprio oggi è stato depositato in Procura un esposto da parte della Cgil in cui si denuncia fondamentalmente che all'interno del Pronto Soccorso ci sia stata proprio promiscuità tra pazienti sospetti casi di coronavirus e pazienti normali che si sono recati al pronto soccorso.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Vedremo quando ci sono gli sviluppi. Cosa vuole che le dica? Io non lo so.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei mi garantisce che fino ad oggi non c'è stata una promiscuità?

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Io faccio il direttore generale. Ovviamente mi avvalgo di chi gestisce il pronto soccorso, quindi fino a prova contraria, penso che non è gente che opera diversamente da come dovrebbe operare.

ROBERTO ALOSI - SEGRETARIO GENERALE CGIL SIRACUSA Basta andare al Pronto Soccorso e capire esattamente come stanno le cose. I pazienti sospetti covid vengono accolti al pre-triage in una tenda, subito dopo vengono trasferiti al pronto soccorso, cioè nella stessa area dove sostano gli altri assistiti.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel video si cerca di dimostrare e di mostrare, che esistono dei percorsi isolati e dedicati solo ai pazienti sospetti casi di coronavirus.

ROBERTO ALOSI - SEGRETARIO GENERALE CGIL SIRACUSA La realtà è che l'ambiente è unico. Le stanze destinate ai sospetti Covid sono attigue e in comunicazione con gli ambienti collettivi e comuni, tant'è che si sono verificati contagi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È il 26 marzo quando il presidio ospedaliero di Siracusa fa questa circolare sui pazienti Covid-19 definiti “grigi”, cioè con polmonite interstiziale, ma ancora in attesa dell'esito del tampone. Vanno ricoverati al Pronto Soccorso o in Medicina D'urgenza.

CLAUDIA DI PASQUALE Accanto agli altri pazienti, basta che ci siano due metri di distanza, quindi proprio c'è scritto nella stessa circolare che sono negli stessi locali.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Beh, ha detto che c’è una denuncia, si vedranno gli sviluppi. Vedremo, ce lo sta segnalando, lo vedremo.

CLAUDIA DI PASQUALE Le faccio anche notare che i medici che si sono contagiati sono quelli della medicina d'urgenza.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Forse lei non sa una cosa: che si sono potuti contagiare anche per altri motivi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non va meglio negli altri ospedali della provincia di Siracusa: ecco cosa ci racconta un medico in forma anonima, per non rischiare il licenziamento.

MEDICO È previsto che tutti i pazienti che abbiano effettuato un tampone debbano permanere all’interno dei Pronto Soccorso. Ma i risultati dei tamponi non arrivano e quindi i potenziali positivi permangono in Pronto Soccorso per molti giorni, rimangono in contatto con i pazienti che arrivano per altre patologie. Non ci sono percorsi separati. Stanno tutti insieme.

CLAUDIA DI PASQUALE Il personale invece è dotato dei dispositivi?

MEDICO Io indosso la stessa mascherina e la stessa tuta monouso da più di una settimana. Ci facciamo sanificare con la lancia che usano per sanificare le stanze, quindi si immagini tutto questo liquido anche in faccia. Ci facciamo spruzzare addosso come si faceva con gli ebrei nei campi di concentramento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In tutto questo, a marzo vengono emanate due circolari in cui si vieta severamente l'uso improprio delle mascherine e dei dispositivi di protezione per non generare allarmismo: i trasgressori saranno passibili di provvedimento disciplinare.

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Vieta l’uso delle mascherine, perché, udite udite, non dobbiamo allarmare la popolazione? Di fronte ad un’epidemia che in senso centrifugo ha investito prima il Nord e ora è conclamata anche al Sud. Noi non dobbiamo nascondere, noi dobbiamo tutelare.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei cosa ne pensa di questa circolare?

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Una vergogna.

CLAUDIA DI PASQUALE Un altro dei problemi che è emerso è il fatto che vengono fatti dei tamponi che poi o si perdono o comunque i risultati arrivano sempre dopo diversi giorni…

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Stranamente non viene attrezzato il laboratorio dell'ospedale di Siracusa e vengono mandati i tamponi udite, udite dove? A Messina.

CLAUDIA DI PASQUALE Prima a Catania e poi a Messina.

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Eh! CLAUDIA DI PASQUALE Ma non ho capito, il laboratorio di virologia c’è all’interno dell’ospedale?

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Ma perché non ci dovrebbe essere? E se pure dovesse mancargli qualcosa, scusi siamo a febbraio.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei dice perché non è stato attrezzato il laboratorio in tempo.

ELINO ATTARDI - EX PRIMARIO PRONTO SOCCORSO UMBERTO I - SIRACUSA Esatto, perché?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Perché mancava l'autorizzazione dell'assessorato regionale della Salute, arrivata solo a fine marzo.

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA A Siracusa il giorno stesso che è stata autorizzata, ha provveduto ad adottare degli atti per l'acquisizione delle apparecchiature e dei reagenti.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi oggi finalmente voi avete l'autorizzazione da parte della Regione…

LUCIO SALVATORE FICARRA - DIRETTORE GENERALE ASP SIRACUSA Però la macchina… Però le ditte non forniscono i reagenti e la macchina perché c'è carenza, è stato assorbito tutto credo dal Nord Italia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma avevano un mese di vantaggio per prepararsi all'emergenza, non l’hanno fatto in Sicilia, ecco, pur guardando cosa stava accadendo al Nord. Ora Musumeci, il governatore, si appella all’articolo 31 dello statuto della Regione e chiede di poter utilizzare poteri speciali nella gestione della polizia e dell'esercito. L’iter è aperto, ma potrebbero volerci almeno sei mesi per l’approvazione. Mentre più velocemente, potrebbero essere approvati quegli emendamenti che sono stati presentati all’interno del Cura Italia, da tutti i partiti, dal Pd alla Lega. Erano nati con l’intento di depenalizzare le condotte di medici e infermieri in una situazione di emergenza, ma poi qualcuno ha pensato di allargarle e depenalizzare le condotte di politici, manager di aziende pubbliche e private, manager delle aziende sanitarie. Ecco alla fine non saranno ritenuti responsabili se causeranno danni a terzi, né penalmente, né civilmente. Salvini ha detto che lo vuole ritirare. Rivedeteli per cortesia questi emendamenti perché potrebbero essere utilizzati come salvagente anche da qualche manager incapace - e ne abbiamo visti - o qualcuno addirittura che potrebbe utilizzare l’emergenza per intrallazzare con gli appalti. Già stiamo assistendo impotenti ai danni del virus, anche questa per favore, anche no.

Viaggio al Cervello di Palermo: "Così combattiamo il virus". All'ospedale Cervello di Palermo vengono ricoverati i pazienti colpiti da coronavirus. Siamo andati a vedere cosa succede all'interno del reparto di Malattie infettive. Roberto Chifari, Sabato 11/04/2020 su Il Giornale. Da nord a sud, l'Italia sta combattendo la battaglia più dura contro il coronavirus. In prima linea ci sono loro: medici e infermieri che lottano contro il nemico invisibile. Siamo stati all'interno del reparto di Malattie infettive dell'ospedale Vincenzo Cervello di Palermo, da mesi impegnato nella difficile sfida contro il virus. Qui vengono curati i pazienti affetti da Covid-19. I primi sono arrivati a fine febbraio, tra questi la presunta paziente 1 di Palermo: la turista bergamasca che era nella comitiva lombarda in visita nel capoluogo siciliano. Da allora sono passate 6 settimane e il reparto è stato ridisegnato con percorsi ad hoc per isolare i pazienti. Adesso ci sono dell'aree "pulite" differenziate dalle aree a rischio contagio. Entriamo nella zona pretriage all'esterno del pronto soccorso: tenso-strutture montate all'esterno di tutti gli ospedali siciliani di secondo livello per filtrare i pazienti sospetti. Si tratta di una tenda riservata a coloro che presentano i sintomi da coronavirus e dove i sanitari effettuano il tampone. Vista l'eccezionalità del caso, le misure di sicurezza sono diventate sempre più stringenti. Per entrare all'interno del reparto è obbligatorio indossare una tuta di protezione, mascherina con valvola, occhiali protettivi e guanti. Dal pronto soccorso - ormai deserto - entriamo nel reparto di malattie infettive: operatori sanitari, medici, infermieri e ricercatori sono al lavoro ogni giorno per assistere i pazienti nel duro percorso per la riabilitazione. Ma non è stato sempre così. All'inizio la lotta più dura non è stata contro il virus ma contro la burocrazia. La Regione ha cercato di reperire i Dpi, i dispositivi di protezione individuale, sul mercato mondiale. Dopo settimane di attesa, domenica all'alba uno stock di 40 tonnellate è arrivato a Palermo dalla Cina. Fa parte della prima tranche di 260 tonnellate acquistate dalla Regione e che coprirà il fabbisogno delle prossime settimane. Domenica il governatore Musumeci si è recato direttamente allo scalo palermitano per verificare la qualità del materiale arrivato dalla Cina: temeva che il carico restasse bloccato in uno degli aeroporti, dove l'aereo ha fatto scalo. Una volta ricevuto l'ok dalla Protezione civile, i Dpi sono stati trasferiti dall'aeroporto Falcone Borsellino ai vari ospedali dell'isola. In Sicilia comunque si continua a lottare, soprattutto per limitare il numero dei contagi. La situazione appare ancora sotto controllo, ma non si può abbassare la guardia proprio perché tornano a crescere i positivi. Dopo i 34 casi in più registrati ieri, oggi sono 49 i contagi registrati in sole 24 ore nell'Isola facendo salire il numero delle persone affette da Covid-19 a 1.942. A fornire i dati è stata la Presidenza della Regione siciliana. Dall'inizio dei controlli, i tamponi effettuati sono stati 28.742 (+1.304 rispetto a ieri) e di questi sono risultati positivi 2.232 (+73). Complessivamente risultano guarite 152 persone (+19), mentre le vittime sono 138 (+5). Degli attuali 1.942 positivi, 629 pazienti (+1) sono ricoverati - di cui 63 in terapia intensiva (-2) - mentre 1.313 (+48) sono in isolamento domiciliare. Questa la divisione degli attuali positivi nelle varie province: Agrigento, 112 (0 ricoverati, 2 guariti e 1 deceduto); Caltanissetta, 99 (22, 5, 8); Catania, 574 (144, 33, 55); Enna, 282 (172, 2, 16); Messina, 347 (143, 23, 29); Palermo, 295 (72, 38, 13); Ragusa, 51 (9, 4, 3); Siracusa, 82 (48, 33, 9); Trapani, 100 (19, 12, 4).

Da ilfattoquotidiano.it il 24 marzo 2020. “Non faccio passare più nessuno nel mio Comune“. “Schiererò il mio esercito per far rispettare la mia ordinanza”. “Stasera blocco il porto“. “Non mi faccio pisciare addosso da Roma”. Il sindaco di Messina, Cateno De Luca, si è presentato al porto insieme ai suoi assessori per protestare contro l’arrivo di navi e di cittadini diretti in Sicilia e per contestare le misure adottate dal Viminale (nei giorni scorsi aveva detto: “Vaffanculo Viminale”). Ciò che chiede De Luca è “un database per i pendolari dello Stretto”, in modo da tracciare gli spostamenti. Stamattina il primo cittadino messinese si è recato nuovamente al porto, poi ha preso un traghetto in direzione Villa San Giovanni, sulla sponda calabrese, per verificare “se è tutto in regola”.

Il sindaco di Messina pronto a denunciare una comitiva di professionisti tornata dal nord. Rientrati in città da una settimana bianca a Madonna di Campiglio con un volo partito da Bergamo, non avrebbero seguito le norme: ora uno di loro è positivo. Fabio Albanese su La Stampa il 17 Marzo 2020. Prima che le maglie si chiudessero e tutto il Paese andasse in quarantena, un nutrito gruppo di professionisti messinesi è rientrato in città da una settimana bianca a Madonna di Campiglio, con un volo partito da Bergamo. Molti di questi vacanzieri non avrebbero mai segnalato all’Asp, alla Regione Siciliana o anche solo al proprio medico di base il loro rientro nè si sarebbero messi in quarantena.

Oggi, uno di loro, un medico cinquantenne in servizio al Policlinico di Messina, è stato trovato positivo al coronavirus. E in città è psicosi, con caccia ai nomi di chi era in quella comitiva, una cinquantina di persone, e che tornando non ha rispettato la basilare norma di restare in casa per 14 giorni. Il più arrabbiato è il sindaco, Cateno De Luca, pronto a denunciare tutti: «Per tutti coloro che non hanno rispettato queste norme scatterà ovviamente la denuncia ai sensi dell’art. 650 del codice penale e di seguito procederò anche a rendere noti i nomi dei soggetti denunciati - ha tuonato -. Ma nel frattempo, ciò che urge è assicurare la massima tutela alla salute pubblica, e per fare ciò è necessario che ogni persona sia posta nelle condizioni di valutare se è entrata in contatto con uno o più di questi soggetti provenienti da Madonna di Campiglio. Per questa ragione invito proprio i componenti della comitiva di sciatori che hanno fatto rientro da Madonna di Campiglio la scorsa settimana, a rendere noti i loro nomi e dichiarare se hanno seguito le norme anti-contagio, autorizzando il Comune di Messina a diffondere tale dato. Solo così sarà possibile arginare il più velocemente possibile il rischio di contagio». Da ore circolano su chat private e via Whatsapp elenchi, a volte differenti tra loro, di presunti partecipanti al viaggio. Quel che si sa per certo è che tra quelle persone ci sono professionisti, alcuni noti, di Messina: medici, avvocati, commercialisti. Il 7 marzo, il sabato in cui il governo chiudeva la Lombardia, hanno preso un aereo a Bergano Orio al Serio per rientrare a Messina. Solo alcuni avrebbero avvertito il dovere di segnalare il loro rientro da una zona altamente infetta e di mettersi in quarantena. Altri, sarebbero invece tornati alle loro attività come se nulla fosse. «Mi sarei aspettato più senso di responsabilità da soggetti che sono anche medici, professionisti e notabili della città - ha detto il sindaco De Luca - specie perché di ritorno dalle zone dei primi focolai del virus. Considerato il generale senso di imprudenza che continuiamo a registrare, sto valutando di fare un’altra ordinanza che impedisca a tutti di uscire da casa eccetto per motivi seri che vanno certificati». Il medico risultato positivo, ora a casa in isolamento visto che le sue condizioni non sono preoccupanti, aveva lavorato anche in un centro diagnostico a Santa Teresa Riva dove il Comune ha fatto sapere che «tutti i dipendenti, dopo le opportune comunicazioni, sono posti in stato di quarantena insieme ai familiari, così come è stato trasmesso sia a noi che all’Asp l’elenco delle persone che sono state visitate che abbiamo contattato per mettersi anche loro in quarantena». Il Policlinico di Messina, luogo principale di lavoro del medico, ha comunicato di «avere attivato immediatamente le misure di sanificazione e contenimento previste, anche in armonia con le disposizioni specifiche per gli operatori sanitari di cui al D.L. 9 marzo 2020, n. 14. Misure preventive sono state intraprese pure per pazienti e colleghi venuti a contatto con la persona risultata positiva».

Coronavirus, a Messina il picco di nuovi casi in Sicilia in 72 ore. I contagi: l’ipotesi della settimana bianca e i ritardi sui tamponi. Nella città sullo Stretto si sono registrati 92 casi in 72 ore: fino a giovedì erano 16, domenica sono saliti a 108. Risultati dei tamponi in ritardo perché all'ospedale Papardo mancava il reagente. Una decina di contagiati (compreso un medico) di ritorno dalle vacanze a Madonna di Campiglio: hanno comunicato all’Asp il loro rientro ma non hanno mai ricevuto risposta. Per il sindaco la struttura sanitaria ha mille mail in arretrato. Domencia panico per le file di auto che aspettano di imbarcarsi dalla Calabria: ma è il record negativo di mezzi arrivati negli ultimi giorni. Manuela Modica il 23 marzo su Il Fatto Quotidiano. Un centinaio di macchine in fila in attesa di attraversare lo Stretto. Alle 22 della domenica che precede l’entrata in vigore del nuovo decreto del presidente del consiglio (dalla mezzanotte del 23) – ma era già in vigore il decreto del ministro della Salute che prevedeva il divieto di muoversi – è questo lo scenario a Villa San Giovanni, punto di partenza dalla Calabria con direzione Sicilia. Un nuovo esodo, gridano in molti, mentre i numeri forniti dalla Caronte, la società che gestisce i traghetti, raccontano che domenica si è segnato il numero più basso nello Stretto dal 13 marzo: si è passati da 704 veicoli a 239 transitati verso Messina. Non sono pochi, ma comunque si tratta del record negativo dell’ultimo periodo. Le foto che mostrano la fila di auto sono dunque il risultato della riduzione delle corse, del rallentamento dovuto ai controlli su ogni passeggero, e con tutta probabilità anche il grido di allarme di una nuova esasperazione del clima già tesissimo al di qua dello Stretto. I nuovi rientrati sbarcheranno, infatti, in una città in cui i focolai aumentano di giorno in giorno. Sono numeri ancora esigui, soprattutto se paragonati alle regioni del Nord, ma il picco di 92 contagiati in 72 ore getta nel panico la città che fa da ingresso all’Isola: fino a giovedì erano 16, domenica sono saliti a 108. Negli stessi giorni i casi in più sono 74 di Catania e 29 di Palermo. La città dello Stretto era infatti fino a giovedì tra le ultime città in Sicilia per contagio, ma in 72 ore è schizzata in alto, seconda solo a Catania. Nelle altre 6 province, invece, gli incrementi sono stati molto più ridotti. Un’impennata improvvisa che ha scosso subito il governo regionali. Palermo ha inviato specialisti a Messina e lo stesso governatore, Nello Musumeci, si è precipitato sullo Stretto per un sopralluogo. A preoccupare sono almeno 4 focolai: il Centro Irccs Neurolesi Bonino Pulejo, la casa per anziani “Come d’incanto”, la casa di cura Cristo Re e lo stesso Policlinico dove un medico di ritorno da una settimana bianca a Madonna di Campiglio ha continuato a lavorare ed è poi risultato positivo. I padiglioni dell’azienda ospedaliera universitaria dove lavora l’uomo sono stati subito bonificati, il centro diagnostico di Santa Teresa, dove presta servizio periodico pure. Non è invece chiaro se abbia contagiato altri tra pazienti e colleghi. Di sicuro alcuni pazienti si sono autoisolati dopo avere saputo del contagio del medico. Svuotato, invece, quasi del tutto il Centro per Neurolesi, dove sono stati finora 17 i positivi al tampone: i pazienti sono stati quasi tutti trasferiti, restano solo i casi più gravi. Mentre sono 21 su 23 gli anziani del Centro Come d’incanto positivi al coronavirus, ma potrebbero essere molti di più: 23 è solo il numero dei sottoposti a tampone, gli anziani nella struttura sono 71 più una ventina di operatori. “Egregio assessore Razza sono la signora Scimone ossia l’unica figlia di una paziente che soggiorna nella casa di riposo Come d’incando, da stanotte è cominciato il mio incubo peggiore è in maniera non esattamente ufficiale per come si usa agire in questa città abbandonata e vilipesa ormai da decenni ho saputo che mamma è positiva al Covid19 “, così scrive Rosetta Scimone, rivolgendosi all’assessore alla Salute siciliano. Da giorni infatti i parenti degli anziani non hanno notizie dei genitori, precisamente da giovedì, cioè da quando personale e ospiti sono chiusi al centro: “Qualcuno degli anziani è stato trasferito, ma abbiamo perso il conto”, grida una delle operatrici del balcone di via Primo settembre, sede della struttura per anziani. Si sono affacciati ieri pomeriggio per fornire qualche notizia alla stampa: “Noi stessi abbiamo saputo dei positivi dai media”. Notizie frammentarie che gettano nel panico la cittadinanza e soprattutto i parenti: “Comincio così in preda alla disperazione a scrivere lettere e messaggi a tutto il mondo – continua Scimone – nella speranza (vana) di avere delle risposte precise e veritiere per poter organizzare eventualmente un trasporto presso strutture più adeguate (ma ne abbiamo?) ma non ottengo risposte brancolo nel buio più totale pervasa da una rabbia impotente insieme a mamma altri anziani probabilmente nelle stesse condizioni e 16 operatori abbandonati (solo il sindaco a sostegno) in preda ad una giustificata paura dell’abbandono. Allora io mi domando ma quante persone moriranno per leggerezza per inadempienza dei propri ruoli istituzionali e se mia madre morirà stanotte o domani chi pagherà?”. Tutto mentre si accende l’attenzione su un nuovo focolaio stavolta alla Casa di Cura Cristo Re, una delle più note in città, dove si sono registrati altri casi. Ma già da giorni in città la tensione si era innalzata proprio a causa del rientro dei vacanzieri di Madonna di Campiglio: “Almeno una decina tra loro sono positivi”, ha detto in diretta Facebook Cateno De Luca, primo cittadino di Messina. Un gruppo di 150 persone, circa, in vacanza in Trentino dal 29 febbraio al 7 marzo, che hanno fatto rientro in città senza rispettare la quarantena, perlomeno alcuni di loro, di cui almeno una trentina non hanno neanche comunicato all’Asp il passaggio da zone a rischio, come per esempio l’aeroporto di Treviso. Per questo il presidente dell’Ordine dei Medici, Giacomo Caudo, scrive per garantire intransigenza “nei confronti degli iscritti coinvolti nelle presunte vicende legate a ipotetici focolai di coronavirus o in merito al mancato rispetto di norme, anche deontologiche, in occasione dell’emergenza sanitaria”. Nel frattempo non sono stati pochi i ritardi: nella struttura di via primo settembre i risultati dei tamponi hanno tardato perché all’ospedale Papardo mancava il reagente. Molti dei rientrati da Madonna di Campiglio hanno lamentato di avere comunicato ufficialmente all’Asp il loro rientro ma non hanno mai ricevuto risposta. Durante una delle sue dirette su Fb, il sindaco aveva infatti sottolineato che l’Asp di Messina aveva un arretrato di 1000 mail ancora da leggere. Notizia mai smentita dal dirigente, Paolo La Paglia. Un vero e proprio caos quello sullo Stretto, aggravato da scontri istituzionali tra Asp, sindaco, prefetto e presidente della Regione. De Luca ha firmato una nuova ordinanza per lasciare aperti i supermercati di domenica, in linea con il governo nazionale, ma in contraddizione con quello regionale. Richiamato dalla prefetta di Messina, Maria Carmela Librizzi, il sindaco le ha risposto con toni affatto concilianti: “Non si rivolga più a me”.

Da "gds.it" il 25 marzo 2020. Le zone rosse in Sicilia adesso sono tre. Con un'ordinanza firmata questa mattina dal presidente della Regione Nello Musumeci, anche Villafrati, comune della provincia di Palermo, viene isolato, così come Salemi e Agira. Il boom di contagi nella casa di riposo ha portato la Regione a prendere provvedimenti per evitare che i casi si moltiplichino. Quindi fino al 15 aprile, nel piccolo centro palermitano ci sarà il divieto di accesso e di allontanamento dal territorio comunale e la sospensione di ogni attività degli uffici pubblici, ad eccezione dei servizi essenziali e di pubblica utilità. Potranno entrare e uscire dal paese solo gli operatori sanitari e socio-sanitari, il personale impegnato nell'assistenza alle attività inerenti l'emergenza, nonché esclusivamente per la fornitura delle attività essenziali del territorio comunale. Sono 69 i casi di coronavirus nella casa di riposo, diventata un focolaio. Lì era ospitato Carmelo Pecoraro, 90 anni, residente a Vicari, ma il ricovero al Covid Hospital di Partinico non è servito a evitargli la morte. Nello stesso ospedale sono ricoverati altri nove anziani della struttura di Villafrati. E adesso si indaga su come il virus sia arrivato all'interno della casa di riposo dove complessivamente sono assistiti 60 anziani e operano 75 dipendenti. In questo momento la pista privilegiata dagli investigatori porta alla nipote di un anziano, che dopo essere rientrata in paese ai primi di marzo, sarebbe andata a trovare il nonno, non rispettando dunque le norme di sicurezza che impongono la quarantena a chi rientra in Sicilia. Ma bisogna fare chiarezza sulla data esatta del suo rientro. Ma c'è un'altra ipotesi: il contagio potrebbe essere partito da un dipendente. I carabinieri hanno sentito i responsabili della struttura per raccogliere ulteriori elementi.

Fabio Albanese per “la Stampa” il 15 aprile 2020. Un corteo funebre attraversa alcune strade di Messina, nel sabato santo del lockdown. Quaranta, forse cinquanta persone dietro il carro che lentamente trasporta dall' abitazione al cimitero la bara di Rosario Sparacio, anziano fratello del boss di Giostra Gino, già capo della mafia messinese poi divenuto collaboratore di giustizia. Nessuno interviene a fermare quella sfilata che non dovrebbe esserci, tutto avviene come se si trattasse di un normale giorno di una normale situazione, senza coronavirus e senza limitazioni e divieti perfino per i funerali. Gli unici ad accorgersene e a chiedere un intervento sono alcuni messinesi che assistono stupiti dai balconi, e poi i giornalisti locali che, per averne scritto, per giorni hanno ricevuto insulti e offese sui social. Ora la procura di Messina ha deciso di aprire un fascicolo, al momento senza indagati, per capire cosa è accaduto, se ci sono state violazioni al decreto anti-coronavirus, e se tra le persone che hanno partecipato a quel corteo c' erano anche appartenenti a cosche mafiose. Il ringraziamento al sindaco Nel frattempo è la polemica politica a tenere banco, anche perché un nipote di Sparacio ha ringraziato pubblicamente il sindaco di Messina Cateno de Luca. Duro il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava: «Com' è stato possibile che in cento abbiano accompagnato al cimitero il feretro del fratello di un capomafia? Dietro la bara c' erano auto, moto, amici. Dal sindaco, sempre pronto a rumoreggiare con la fascia tricolore al petto, stavolta è venuto solo il silenzio». De Luca ha replicato sui social: «Non voglio essere ringraziato dalla famiglia Sparacio per una vicenda che ho appreso dalla stampa - ha scritto - e che ho avuto modo di approfondire con l' ufficio di gabinetto del Questore, con particolari che non posso svelare». De Luca, in questi giorni al centro delle cronache per la sua ruspante intransigenza nel controllo degli attraversamenti dello Stretto di Messina e per una polemica con la Chiesa locale sui suoi coloriti messaggi anti-scampagnata lanciati per le strade con i megafoni, ha detto che se avesse saputo, avrebbe «agito prontamente come sono solito fare», sottolineando di essere stato «sempre lontano dagli ambienti mafiosi». Il deputato Pd Fausto Raciti ha annunciato un' interrogazione parlamentare mentre alcuni consiglieri comunali di opposizione annunciano un atto ispettivo per verificare responsabilità ed eventuali connivenze di dipendenti comunali.

Da Codogno a Palermo: denunciato un uomo dalla Polizia municipale. Sorpreso dalla polizia municipale mentre passeggiava a Palermo. L'uomo però, doveva restare in isolamento obbligatorio. Era stato a Codogno fino a dieci giorni fa. Roberto Chifari, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Da Codogno a Palermo. L'episodio ha dell'incredibile ma è realmente accaduto oggi pomeriggio nel capoluogo siciliano. Una pattuglia della polizia municipale, in servizio di controllo del territorio, ha fermato un uomo, secondo le disposizioni del DPCM dell'11 marzo, che stava facendo una passeggiata nella zona residenziale di Palermo. Nulla di strano, se non fosse che l'uomo proveniva da Codogno, in provincia di Lodi. Una delle zone rosse più colpite dall'emergenza sanitaria legata al coronavirus. Gli agenti che lo hanno fermato gli hanno chiesto il documento d'identità e l'autocertificazione. Poi, l'incredibile scoperta avvenuta a seguito delle risposte fornite dall'uomo agli stessi agenti. Dai controlli è risultato che l'uomo, un cinquantenne domiciliato a Palermo, si era recato ad inizio di marzo in Lombardia, nello specifico proprio a Codogno. È rientrato a Palermo lo scorso 9 marzo e avrebbe dovuto trovarsi quindi, come previsto dalle ordinanze emanate dal presidente della Regione, in stato di isolamento fiduciario fino al 23 marzo prossimo. Ai vigili che gli hanno contestato lo spostamento, l'uomo ha spiegato di essersi allontanato dal domicilio per dar da mangiare ad un cane randagio della zona. Una versione che non ha convinto affatto la polizia municipale che non ha potuto fare altro che accompagnarlo al proprio domicilio e denunciarlo per la violazione dell'articolo 650 del codice penale. Cosa dice nello specifico l'articolo 650 del codice penale sull'inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità? L'articolo dispone che: "Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a duecentosei euro". In ogni caso è bene precisare che Codogno, dove tutto è iniziato, non è più zona rossa. Anzi nel lodigiano il sistema di isolamento e di chiusura totale di tutte le attività per 15 giorni ha funzionato e ha permesso di azzerare il numero dei contagi. Resta però, l'inosservanza di un'ordinanza regionale che prevede l'isolamento fiduciario per tutti coloro che arrivano dalle regioni del nord. Una disposizione che l'uomo non ha compreso affatto, dato che è stato sorpreso mentre passeggiava in città. Nell'Isola nelle ultime settimane sono rientrate oltre 33 mila persone. "Le misure restrittive sono imposte dalla situazione - dice il governatore Nello Musumeci -. Abbiamo già bloccato gli accessi in Sicilia, la prudenza e la prevenzione suggeriscono altre misure restrittive per l'accesso all'isola. Ma fra qualche ora anche ci saranno ulteriori restrizioni e l'ingresso sarà permesso solo per gravissimi motivi sanitari e personali, consentiamo l'accesso in Sicilia solo alle forze dell'ordine e agli operatori sanitari".

Da ilmessaggero.it il 6 marzo 2020. Coronavirus, scatta l'allarme in Sicilia. Un medico donna dell'ospedale di Sciacca è risultata positiva al Covid-19. Si tratta del primo caso di coronavirus nella provincia di Agrigento. In queste ore vengono eseguiti altri tamponi sulle persone che sono venuti a contatto con la dottoressa. Sembra che il medico sia tornata da poco dalla zona del Bergamasco. Chiuse alcune zone dell'ospedale San Giovanni di Sciacca, frequentate dalla dottoressa. Come apprende l'Adnkronos, sono in corso gli accertamenti di natura epidemiologica sul caso di sospetta positività al Coronavirus emerso a Sciacca. Si tratta di un dirigente medico che, come in altri casi finora rilevati in Sicilia, avrebbe avuto contatti con le zone di focolaio d'origine. Come nelle altre vicende analoghe, l'Asp di Agrigento «sta assumendo iniziative per circoscrivere il reparto di lavoro del professionista, effettuando il tampone sul personale sanitario e valutando tutte le successive azioni in relazione agli eventuali risultati». Si applicano, come per tutti casi analoghi, le linee guida diffuse dal ministero della Salute.

Panico su un treno Frecciarossa: “Voglio arrivare a Catania e sono fuggito”. Laura Pellegrini il 28/02/2020 su Notizie.it. Un passeggero annuncia la fuga dalla zona rossa della Lombardia e scoppia il panico da coronavirus su un treno Frecciarossa. Scoppia il panico tra i passeggeri del treno Frecciarossa partito da Milano e diretto a Roma dopo che un uomo ha annunciato: “Sono in fuga dalla zona rossa”. L’uomo avrebbe informato gli altri passeggeri sui suoi spostamenti: “Sto arrivando in Sicilia in treno – avrebbe detto -. Ho provato a partire in aereo ma mi hanno rimandato a casa, ero nella zona rossa del coronavirus e mi hanno detto che non potevo partire, ma a me non importa nulla dei divieti. Voglio arrivare a Catania e sono fuggito“. Le immagini riprese da un telefono cellulare mostrano paura e panico a bordo di un treno Frecciarossa Milano-Roma. Un passeggero, infatti, ha iniziato a discutere telefonicamente con un amico dicendo: “Chi se ne frega se sono positivo, io ne sono fuggito e via”. L’uomo avrebbe annunciato la fuga dalla zona rossa e avrebbe diffuso il gelo tra gli altri passeggeri. In seguito alcune persone si sono accertate e rivolte verso il presunto fuggitivo hanno chiesto: “Scusi ma abbiamo capito bene? Se è vero che si sta allontanando dalla zona contaminata lei è davvero un incosciente. Sta mettendo a rischio la salute di tutti noi”. Infine, la chiamata alla Polizia e l’arrivo degli agenti a bordo senza la mascherina. La carrozza è stata quindi isolata e al suo interno è rimasto soltanto l’uomo che ha scatenato il panico a bordo. Qualcuno ha iniziato a piangere, altri a pregare, qualcuno ha persino perso la pazienza. L’uomo sarebbe risultato negativo ai test, ma occorre attendere gli esiti ufficiali dei controlli. Nel caso in cui si trattasse di un falso allarme, però, “scatterà la denuncia per procurato allarme”, ha detto la Polizia.

Il racconto di un passeggero. “Siamo stati tutti schedati e rischiamo di finire in quarantena se quell’uomo è davvero passato per la zona rossa e ha deciso incoscientemente di fare un viaggio in treno senza precauzioni tra Milano e Roma”. Queste le prime parole di un passeggero a bordo del treno Frecciarossa dove è scoppiato il panico. “Ma la cosa più sconcertante – ha aggiunto ancora – è che quando siamo arrivati a Termini il treno è rimasto aperto, il personale di bordo sparito e altri passeggeri stavano salendo a bordo. Siamo stati noi a bloccarli sulle porte”.

Coronavirus, a Palermo chiusure, pulizie straordinarie e processi "light". Chiuso per disinfestazione fino a domenica Palazzo Reale con la Cappella Palatina, gli uffici Ars da venerdì. In tribunale "distanze di sicurezza", igienizzanti e limitazioni alle udienze. Francesco Patanè il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Chiusi o limitati per coronavirus. Dopo scuole, università e manifestazioni sportive, anche alcuni monumenti si fermano in via precauzionale a causa dei primi contagi. La fondazione Federico II ha deciso di sospendere da domani, giovedì 27 febbraio, a domenica 1 marzo compreso le visite al complesso monumentale di Palazzo Reale. Le visite riprenderanno lunedì 2 marzo con il consueti orari. Chiusa dunque anche la cappella Palatina alle visite dei turisti ma anche alle celebrazioni religiose. La chiusura è stata decisa per pulire e disinfettare tutti gli ambienti di palazzo Reale. Da domani anche l’Assemblea regionale siciliana verrà chiusa ai turisti, mentre da venerdì fino a domenica compresa anche ai dipendenti e onorevoli. Il normale funzionamento del parlamento siciliano riprenderà lunedì 2 marzo. Gli uffici giudiziari del distretto di corte d'appello di Palermo non sospendono l’attività ma applicano alcune restrizioni per il palazzo di giustizia di Palermo per la prevenzione della diffusione del contagio da coronavirus. I magistrati, il personale amministrativo, gli avvocati, gli ausiliari, le forze dell'ordine dovranno segnalare alle istituzioni sanitarie locali se negli ultimi quindici giorni si siano recati nelle aree a rischio o abbiano avuto contatti con persone provenienti da zone rosse. In caso positivo si valuterà l'opportunità di chiedere loro di astenersi dall'attività lavorativa. Le udienze civili dovranno essere tenute in base a fasce orarie determinate e potranno essere presenti solo le parti interessate. Per le udienze penali si deve valutare l'eventualità della trattazione a porte chiuse per ragioni di igiene. Gli avvocati devono ridurre all'essenziale l'accesso nelle cancellerie. Tutti devono mantenere, per quanto possibile, una distanza di sicurezza di un metro e mezzo. Infine sarà richiesto immediatamente un intervento di pulizia straordinaria negli uffici con l'adozione di prodotti igienizzanti a norma, si provvederà all'acquisto di guanti da destinare al personale amministrativo, che opera con frequenza a contatto con l'utenza e saranno installati in punti strategici, comprese le aule di udienza, dispenser automatici con prodotti igienizzanti per le mani. Ma nemmeno il tempo di vararla, che la Camera penale di Palermo critica, definendola "insufficiente", la direttiva di stamattina della Corte d'appello, sulla prevenzione nella diffusione del Coronavirus. Il direttivo dell'associazione dei penalisti sottolinea che l'obiettivo di assicurare "una distanza di sicurezza tra gli utenti che affollano il Tribunale" non e' stato e non può essere raggiunto nemmeno con la celebrazione dei processi penali a porte chiuse, "per motivi di igiene", così come raccomandato dalla nota del presidente della Corte, Matteo Frasca. "Gli utenti e gli avvocati - scrive in una nota la Camera penale Bellavista - sono costretti a stazionare, in condizioni di evidente violazione delle prospettate esigenze igienico-sanitarie, nello stretto corridoio che costeggia le aule del primo e del secondo piano del Palazzo di via Pagano. In altri termini lo svuotamento delle aule ha comportato il sovraffollamento dei corridoi, con la conseguenza della esposizione a potenziali agenti virali, per gli avvocati e il pubblico. Le norme di tutela invece vengono applicate, di fatto, soltanto al personale di cancelleria e ai magistrati". I penalisti sostengono ancora che "problemi ancora maggiori sono stati rappresentati per le aule e le zone attigue del tribunale per i minorenni, del giudice di pace penale, nonche' per lo spazio comune del tribunale di sorveglianza, da sempre insufficiente a contenere avvocati e utenti". Il presidente della Corte viene così invitato "a prendere ogni necessaria iniziativa affinchè venga garantito il diritto alla salute di tutti coloro che si recano presso gli uffici giudiziari. Le misure precauzionali oggi adottate si evidenziano insufficienti o di fatto oggettivamente discriminatorie. Qualora si dovesse prendere atto dell'impossibilità di poter garantire misure adeguate per tutti, si vorrà prendere in considerazione la possibilità di celebrare soltanto i processi con detenuti e consentire l'adempimento dei soli atti indifferibili". Annullata l'inaugurazione dell'anno giudiziario della sezione giurisdizionale della Corte dei conti siciliana. La cerimonia era fissata per il prossimo 5 marzo alle 10.30. La decisione, si legge in una nota firmata dal presidente Guido Carlino, è legata "all'evolversi della situazione epidemiologica da Covid-19 e alla luce delle disposizioni contenute nel decreto legge 6 del 23 febbraio 2020".