Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL COGLIONAVIRUS
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
GLI UNTORI
INDICE PRIMA PARTE
IL VIRUS
Introduzione.
Le differenze tra epidemia e pandemia.
I 10 virus più letali di sempre.
Le Pandemie nella storia.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
La Temperatura Corporea.
L’Influenza.
La Sars-Cov.
Glossario del nuovo Coronavirus.
Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.
Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Alla ricerca dell’untore zero.
Le tappe della diffusione del coronavirus.
I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
A Futura Memoria.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Fattori di rischio.
Cosa risulta dalle Autopsie.
Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
L’Incubazione.
La Trasmissione del Virus.
L'Indice di Contagio.
Il Tasso di Letalità del Virus.
Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
Morti: chi meno, chi più.
Morti “per” o morti “con”?
…e senza Autopsia.
Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
La Sopravvivenza del Virus.
L’Identificazione del Virus.
Il test per la diagnosi.
Guarigione ed immunità.
Il Paese dell’Immunità.
La Ricaduta.
Il Contagio di Ritorno.
I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Come si affronta l’emergenza.
Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Lo Scarto Infetto.
INDICE SECONDA PARTE
LE VITTIME
I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.
Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.
Eroi o Untori?
Contagio come Infortunio sul Lavoro.
Onore ai caduti in battaglia.
Gli Eroi ed il Caporalato.
USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
Covid. Quanto ci costi?
La Sanità tagliata.
La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.
Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?
Una Generazione a perdere.
Non solo anziani. Chi sono le vittime?
Andati senza salutarci.
Spariti nel Nulla.
I Funerali ai tempi del Coronavirus.
La "Tassa della morte".
Epidemia e Case di Riposo.
I Derubati.
Loro denunciano…
Le ritorsioni.
Chi denuncia chi?
L’Impunità dei medici.
Imprenditori: vittime sacrificali.
La Voce dei Malati.
Gli altri malati.
INDICE TERZA PARTE
IL VIRUS NEL MONDO
L’epidemia ed il numero verde.
Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri?
Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.
Il Coronavirus in Italia.
Coronavirus nel Mondo.
Schengen, di fatto, è stato sospeso.
Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.
…in Africa.
…in India.
…in Turchia.
…in Iran.
…in Israele.
…nel Regno Unito.
…in Albania.
…in Romania.
…in Polonia.
…in Svizzera.
…in Austria.
…in Germania.
…in Francia.
…in Belgio.
…in Olanda.
…nei Paesi Scandinavi.
…in Spagna.
…in Portogallo.
…negli Usa.
…in Argentina.
…in Brasile.
…in Colombia.
…in Paraguay.
…in Ecuador.
…in Perù.
…in Messico.
…in Russia.
…in Cina.
…in Giappone.
…in Corea del Sud.
A morte gli amici dell’Unione Europea.
A morte gli amici della Cina.
A morte gli amici della Russia.
A morte gli amici degli Usa.
INDICE QUARTA PARTE
LA CURA
La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
L'Immunità di Gregge.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.
Meglio l'App o le cellule telefoniche?
L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
Epidemia e precauzioni.
Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.
La sanificazione degli ambienti.
Contagio, Paura e Razzismo.
I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?
Tamponi negati: il business.
Il Tampone della discriminazione.
Tamponateli…non rinchiudeteli!
Epidemia e Vaccini.
Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.
Il Costo del Vaccino.
Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.
Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..
Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.
Gli anticorpi monoclonali.
Le Para-Cure.
L’epidemia e la tecnologia.
Coronavirus e le mascherine.
Coronavirus e l’amuchina.
Coronavirus e le macchine salvavita.
Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.
Attaccati all’Ossigeno.
INDICE QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
La Psicosi e le follie.
Epidemia e Privacy.
L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Epidemia ed Ignoranza.
Epidemie e Profezie.
Le Previsioni.
Epidemia e Fake News.
Epidemia e Smart Working.
La necessità e lo sciacallaggio.
Epidemia e Danno Economico.
La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Il Supply Shock.
Epidemia e Finanza.
L’epidemia e le banche.
L’epidemia ed i benefattori.
Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Mes/Sure vs Coronabond.
La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
"Il Recovery Fund urgente".
Il Piano Marshall.
Storia del crollo del 1929.
Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
Un Presidente umano.
Le misure di sostegno.
…e le prese per il Culo.
Morire di Fame o di Virus?
Quando per disperazione il popolo si ribella.
Il Virus della discriminazione.
Le misure di sostegno altrui.
Il Lockdown del Petrolio.
Il Lockdown delle Banche.
Il Lockdown della RCA.
INDICE SESTA PARTE
LA SOCIETA’
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.
I Volti della Pandemia.
Partorire durante la pandemia.
Epidemia ed animali.
Epidemia ed ambiente.
Epidemia e Terremoto.
Coronavirus e sport.
Il sesso al tempo del coronavirus.
L’epidemia e l’Immigrazione.
Epidemia e Volontariato.
Il Virus Femminista.
Il Virus Comunista.
Pandemia e Vaticano.
Pandemia ed altre religioni.
Epidemia e Spot elettorale.
La Quarantena e gli Influencers.
I Contagiati vip.
Quando lo Sport si arrende.
L’Epidemia e le scuole.
L’Epidemia e la Giustizia.
L’Epidemia ed il Carcere.
Il Virus e la Criminalità.
Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.
Il Virus ed il Terrorismo.
La filastrocca anti-coronavirus.
Le letture al tempo del Coronavirus.
L’Arte al tempo del Coronavirus.
INDICE SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
Un Virus Cinese.
Un Virus Americano.
Un Virus Norvegese.
Un Virus Svedese.
Un Virus Transalpino.
Un Virus Teutonico.
Un Virus Serbo.
Un Virus Spagnolo.
Un Virus Ligure.
Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.
La Bergamasca, dove tutto si è propagato.
Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.
Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.
Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.
La Caduta degli Dei.
La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
La Televisione che attacca il Sud.
I Mantenuti…
Ecco la Sanità Modello.
Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.
INDICE OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
L’Infodemia.
Lo Scientismo.
L’Epidemia Mafiosa.
Gli Sciacalli della Sanità.
La Dittatura Sanitaria.
La Santa Inquisizione in camice bianco.
Gli esperti con le stellette.
Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Le nuove star sono i virologi.
In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
Giri e Giravolte della Scienza.
Giri e Giravolte della Politica.
Giri e Giravolte della stampa.
INDICE NONA PARTE
GLI IMPROVVISATORI
La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.
Un popolo di coglioni…
L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.
Conta più la salute pubblica o l’economia?
Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.
“State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.
Stare a Casa.
Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.
Non comprate le cazzate.
Quarantena e disabilità.
Quarantena e Bambini.
Epidemia e Pelo.
Epidemia e Violenza Domestica.
Epidemia e Porno.
Quarantena e sesso.
Epidemia e dipendenza.
La Quarantena.
La Quarantena ed i morti in casa.
Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.
Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.
Cosa si può e cosa non si può fare.
L’Emergenza non è uguale per tutti.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Dipende tutto da chi ti ferma.
Il ricorso Antiabusi.
Gli Improvvisatori.
Il Reato di Passeggiata.
Morte all’untore Runner.
Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.
INDICE DECIMA PARTE
SENZA SPERANZA
TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE
In che mani siamo!
Fase 2? No, 1 ed un quarto.
Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.
Fase 2? No, 1 e mezza.
A Morte la Movida.
L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.
I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.
“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.
Le oche starnazzanti.
La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.
I Bisogni.
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Non sarà più come prima.
La prossima Egemonia Culturale.
La Secessione Pandemica Lombarda.
Fermate gli infettati!!!
Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.
Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?
Gli Errori.
Epidemia e Burocrazia.
Pandemia e speculazione.
Pandemia ed Anarchia.
Coronavirus: serve uno che comanda.
Addio Stato di diritto.
Gli anti-italiani.
Gli Esempi da seguire.
Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…
I disertori della vergogna.
Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus.
Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.
Grazie coronavirus.
IL COGLIONAVIRUS
SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
· Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
2020: un anno in ostaggio di Covid-19. Simone Valesini su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Da Wuhan a Codogno. I mesi del lockdown. E oggi, i vaccini con la uce in fondo al tunnel. 12 mesi terribili, ma da non dimenticare. E chi se lo dimenticherà, questo 2020. Un anno strano, scandito da preoccupazioni, sacrifici, paure, distanze e nuove abitudini. Un anno di vita sospesa, che in molti vorremmo solamente lasciarci alle spalle e dimenticare al più presto. E che invece sarà importante ricordare, non solo per rispetto verso le tante vittime di questa pandemia, ma anche per assicurarci di aver imparato qualcosa dai successi e dagli errori fatti negli scorsi mesi. Così da farci trovare pronti quando il prossimo, maledetto, virus epidemico tornerà a colpire le nostre società. Per aiutare la memoria, ecco una timeline degli eventi più significativi in questo anno dominato da Covid-19.
31 dicembre 2019, prime avvisaglie. In questa data l’Oms comunica ufficialmente la comparsa dei primi casi di polmoniti anomale nella città di Wuhan, dopo che per giorni il governo cinese ha cercato di silenziare le voci di una possibile nuova malattia diffuse dall’oculista Li Wenliang (che a febbraio morirà proprio a causa di Covid). Si tratta di 41 infezioni riconducibili ad un mercato cittadino, uno dei cosiddetti wet market dove si vendono pesci e animali vivi, che diviene così l’epicentro del primo focolaio della nuova epidemia (anche se le ricerche successive hanno iniziato a mettere in dubbio la questione), e sarà chiuso dalle autorità il primo gennaio del 2020.
9 gennaio, il mondo riscopre i coronavirus. L’Oms annuncia che le autorità sanitarie cinesi hanno identificato il patogeno responsabile delle misteriose polmoniti di Wuhan: si tratta di un nuovo coronavirus ancora sconosciuto, battezzato inizialmente 2019 nCov (nuovo coronavirus del 2019). Il virus inizia subito a fare paura, perché appartiene alla stessa famiglia di Sars e Mers, due delle più pericolose malattie infettive diffusesi negli ultimi decenni. Ma in questa fase i timori sono contenuti, non ci sono ancora conferme che il virus possa trasmettersi da uomo a uomo e anzi, il 14 gennaio il governo cinese (con l’appoggio dell’Oms) annuncia che le indagini svolte sembrano negare il rischio. Il 10 gennaio viene pubblicata la sequenza genetica del virus, e nei giorni successivi in tutto il mondo iniziano gli sforzi per produrre kit diagnostici basati sulla Pcr (i famosi “tamponi”).
21 gennaio, si inizia a parlare di epidemia. Dopo aver smentito per settimane i rischi, il 21 gennaio il governo cinese ammette che il virus è trasmissibile tra esseri umani, e risulta anzi anche particolarmente infettivo. A questo punto ha già ucciso 4 persone e i casi confermati sono saliti a circa 200. Diversi casi sono ormai stati identificati anche fuori dal paese (in Thailandia, Giappone, Corea, Stati Uniti e Francia). Il 23 gennaio il governo cinese decide di agire, e sceglie la linea dura: arriva il primo lockdown, che chiude a casa oltre 18 milioni di cinesi a Wuhan e nelle città limitrofe.
30 gennaio, primi pazienti in Italia. Il presidente del Consiglio Conte e il ministro della Salute Speranza annunciano che sono stati identificati i primi pazienti anche in Italia. Si tratta di una coppia di coniugi cinesi in viaggio nel nostro paese, ricoverati il 29 gennaio in isolamento allo Spallanzani di Roma. Il ministro Speranza annuncia la chiusura del traffico aereo da e per la Cina. Il giorno seguente, 31 gennaio, l’Oms dichiara che la nuova malattia, ancora senza nome, è ora classificata come emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale. Il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza sanitaria in Italia.
10 febbraio, la malattia ha un nome. I decessi in Cina superano ufficialmente quelli provocati dalla Sars nel 2003, raggiungendo quota 908 (contro le 774 morti registrate durante la precedente epidemia). L’11 febbraio l’Oms annuncia che il nuovo virus, e la malattia che provoca, hanno finalmente un nome: sentiamo parlare per la prima volta di Covid 19 (Coronavirus disease 2019) e del suo agente eziologico, il virus Sars-Cov-2. Il 12 febbraio viene confermata l’infezione di 175 persone a bordo della nave da crociera Diamond Princess, attraccata nel porto di Yokohama, in Giappone. Nelle settimane seguenti 700 passeggeri isolati a bordo della nave verranno contagiati da Sars-Cov-2, e 14 moriranno a causa della malattia.
20 febbraio, inizia l’epidemia italiana. Il paziente italiano numero uno si presenta all’ospedale di Codogno il 17 febbraio con i sintomi di una leggera polmonite. Viene rimandato a casa con una prescrizione di antibiotici, perché in quel momento i criteri per sottoporre i pazienti ad un tampone richiedevano un contatto sospetto con qualcuno proveniente dalla Cina. Nei giorni seguenti le sue condizioni peggiorano, viene sottoposto a tampone molecolare nonostante le prescrizioni contrarie del Ministero e viene trovato positivo. Si iniziano a sottoporre a tampone altri casi sospetti, e il 20 vengono confermati 16 casi autoctoni di Covid 19, 14 in Lombardia e 2 in Veneto. Il 23 marzo arriva il primo decreto legge che impone l’isolamento nei comuni colpiti dall’epidemia: sono 10 nella provincia di Lodi e uno in provincia di Padova. Inizia ufficialmente la stagione dei dpcm: il 5 marzo viene sospesa la didattica nelle scuole e nelle università di tutta la penisola, l’8 marzo si estende la zona ad altre 26 province del Nord Italia, e il 9 marzo viene annunciato il primo lockdown nazionale, che andrà avanti fino al 3 maggio.
11 marzo, Covid è ufficialmente una pandemia. Dopo settimane di attesa e di critiche, l’11 marzo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, annuncia che Covid 19 è stata dichiarata ufficialmente una pandemia. Dall’inizio dell’epidemia nel mondo sono già morte più di 4mila persone, e i casi registrati sono quasi 120mila.
18 marzo, il giorno peggiore. L’Italia finisce sulle prime pagine di tutto il mondo. A fare scalpore è la foto dei camion militari che sfilano per il centro di Bergamo, carichi di bare dirette verso i forni crematori di altre regioni perché la camera mortuaria cittadina non è più in grado da giorni di accogliere nuovi feretri. I morti nel nostro paese hanno quasi raggiunto quota 3mila. Per la fine del mese i morti italiani raggiungeranno la cifra record di 12mila, i casi totali saliranno a 105mila. Non a caso, il 23 luglio il governo decide di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia, da celebrare il 18 marzo di ogni anno.
2 aprile, il mondo è in ginocchio. In questa data viene superata ufficialmente la soglia del milione di contagi in tutto il mondo. I morti sono oltre 53mila, e il virus ha raggiunto ormai i quattro angoli del globo. Dal 27 marzo gli Usa hanno superato i 100mila casi, diventando il nuovo epicentro dell’epidemia: l’11 aprile i morti americani raggiungono quota 20mila, strappando al nostro paese il triste primato dei decessi legati a Covid 19, che detenevamo da metà marzo quando i morti italiani hanno superato quelli cinesi. Entro la fine del mese nel mondo si superano i 200mila morti per Covid 19.
29 aprile, il primo farmaco. Un trial dell’Nih suggerisce l’efficacia del remdesivir, farmaco che dai dati dell’agenzia americana velocizzerebbe del 31% i tempi di dimissione dei pazienti Covid. Il primo maggio il farmaco è il primo (e attualmente ancora l’unico) a ricevere l’approvazione di emergenza dell’Fda per il trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. L’Europa segue a stretto giro, e il farmaco viene approvato dall’Ema a luglio. Nonostante l’alto prezzo deciso dall’azienda produttrice (che in America supera i 3mila dollari per paziente) il medicinale non ha mostrato però benefici sulla sopravvivenza dei pazienti all’interno dello studio solidarity dell’Oms, e l’agenzia mondiale della sanità al momento non ne raccomanda l’utilizzo nei pazienti ospedalizzati.
4 maggio, finisce il lockdown. Con l’ennesimo dpcm il 4 maggio l’Italia esce dal lockdown. Il calo dei contagi permette finalmente di allentare le regole, anche se il ritorno alla normalità è lento, e progressivo. Inizialmente riaprono solamente le attività essenziali, e si torna a poter uscire di casa per incontrare parenti e amici, previo il rigido rispetto delle regole di distanziamento sociale. Il 18 riaprono negozi, musei, bar e ristoranti, e si tornano a celebrare le funzioni religiose. Il 25 è la volta dei centri sportivi, dal 3 giugno si torna a circolare tra regioni.
4 giugno, la ricerca traballa. Due delle principali riviste mediche del pianeta, Lancet e New England Journal of Medicine, annunciano il ritiro di due studi sull’efficacia dell’idrossiclorochina, il farmaco delle meraviglie sponsorizzato dallo stesso presidente Trump. Il problema riguarda i dati, forniti da un’azienda privata, la Surgisphere, che non è in grado di offrire garanzie sufficienti sulla loro accuratezza. È la prima avvisaglia dei problemi che funesteranno la ricerca scientifica su Covid19: conciliare rigore e velocità non è facile, e non è un caso se per la fine dell’anno le ricerche di peso ritirate sul tema dell’epidemia siano arrivati quasi a 40.
15 giugno, arriva Immuni. Voluta dal governo, e presentata come asset strategico per gestire la fase 2 dell’epidemia, il 15 giugno viene finalmente lanciata su tutto il territorio nazionale Immuni, la app per il contact tracing realizzata gratuitamente dalla società Bending Spoons. Nonostante la pubblicità la app stenta però a decollare: ad agosto sono appena 5 milioni gli utenti che l’hanno installata sul proprio smartphone. A ottobre siamo a circa 7 milioni. Si scopre inoltre che le Asl non avevano l’obbligo di inserire i codici dei pazienti positivi nel database, rendendo di fatto inutile l’applicazione. Conte pone rimedio al problema il 18 ottobre, ma ormai la app si era rivelata un fallimento, almeno per prevenire l’arrivo della seconda ondata epidemica nel nostro Paese.
17 luglio, l’epidemia indiana. Dopo aver superato la prima ondata, iniziata a marzo, senza troppi danni, l’India ha visto risalire l’indice dei contagi durante il periodo estivo. Il 17 luglio i casi nel paese hanno superato quota un milione, con oltre 25mila decessi. Molte aree della nazione tornano in lockdown, e il mondo assiste impotente mentre l’epidemia fa il suo corso chiedendo un costo altissimo in vite umane: ad oggi l’India è il secondo paese più colpito al mondo, con oltre 10 milioni di casi confermati e più di 140mila decessi.
21 luglio, arriva il recovery fund. Dopo giorni di trattative tesissime, il 21 luglio i leader Ue hanno trovato l’accordo sul piano straordinario di aiuti per i paesi maggiormente colpiti dall’epidemia. Una vittoria per l’Italia, che si vede destinare oltre 200 miliardi sui 750 messi a disposizione dal piano.
22 agosto, nuovo record di morti. L’estate ha visto l’epidemia procedere a singhiozzo, con nazioni in cui la situazione è migliorata fino a spingere i più ottimisti a ritenerla storia passata (come in Italia) e altre in cui il virus non ha mai lasciato la presa. Il 22 agosto nel mondo si è superata la soglia degli 800mila morti, soprattutto sulla spinta dell’alto numero di decessi registrati in Usa, India, Sud Africa, Brasile e altre nazioni del Sud America.
28 settembre, un milione di morti. A 10 mesi dall’inizio della pandemia il mondo ha raggiunto il milione di morti per Covid 19. Una soglia psicologica importante: il nuovo coronavirus ha ucciso più persone di quante ne abbiano uccise influenza, Hiv, dissenteria, malaria e morbillo sommate assieme.
2 ottobre, si ammala anche Trump. Dopo aver annunciato che la first lady è risultata positiva a Sars-Cov-2, anche il presidente degli Stati Uniti si ammala e viene ricoverato. Viene dimesso dopo appena tre giorni, dopo aver ricevuto un cocktail di farmaci sperimentali tra cui spiccano gli anticorpi monoclonali della Regeneron (che in Usa hanno ricevuto l’approvazione emergenziale a metà novembre). Non è il primo né l’ultimo uomo politico colpito dalla malattia: prima di lui era capitato a Boris Johnson nel Regno Unito (finito anche in terapia intensiva) e al presidente brasiliano Bolsonaro, e nei mesi seguenti succederà anche a Emmanuel Macron in Francia.
8 ottobre, seconda ondata. Dopo un’estate tranquilla, molti paesi europei hanno visto tornare alla carica il virus con l’inizio dell’autunno. L’Italia inizialmente ha sembrato reggere meglio dei vicini, ma la curva epidemica ha iniziato a impennarsi verso i primi di ottobre. Dall’8 ottobre si corre ai ripari, imponendo l’utilizzo delle mascherine anche all’aperto sull’intero territorio nazionale. Non è sufficiente: la corsa del virus continua inarrestabile, e verso primi di dicembre si arriva al nuovo record di decessi, con quasi mille morti al giorno.
3 novembre, l’Italia a zone. Per cercare di arginare la seconda ondata epidemica, il nuovo dpcm del 3 novembre stabilisce un sistema di semafori regionali che divide il paese in zone rosse, arancioni e gialle, in ordine decrescente di gravità dell’epidemia. In tutta la nazione viene instaurato un coprifuoco notturno tra le 22:00 e le 5:00 di mattina.
9 novembre, arrivano i dati sui vaccini. Finalmente, novembre riserva anche le prime buone notizie dell’anno. Pfizer annuncia infatti i risultati del trial di fase 3 per il suo vaccino anti covid. L’efficacia sembra aggirarsi attorno al 90%. Pochi giorni e arriva anche l’annuncio della rivale Moderna: vaccino efficace oltre il 95%. È quindi la volta di Astrazeneca, produttrice del vaccino realizzato in collaborazione con l’Università di Oxford su cui l’Europa (e l’Italia) puntano maggiormente per uscire dall’epidemia. In questo caso l’efficacia sembra minore, vicino al 70%, ma durante lo studio è emerso, grazie ad un errore, che un dosaggio minore del preparato potrebbe risultare ben più efficace di quella prevista, raggiungendo una protezione vicina al 90%. Un risultato promettente, che obbliga però a nuovi trial, e ritarda l’approvazione del vaccino.
8 dicembre, il Regno Unito si smarca. Bandendo gli indugi e le precauzioni seguite dal resto dei paesi europei, il Regno Unito decide di approvare il vaccino anticovid della Pfizer senza attendere il parere dell’Ema. Il 9 dicembre è la prima nazione occidentale a iniziare la campagna di vaccinazioni di massa contro Covid 19. Seguono gli Usa, che l’11 dicembre concedono l’approvazione emergenziale al vaccino di Pfizer, e danno inizio alle somministrazioni il 15 dicembre.
21 dicembre, arriva l’ok dell’Europa. A pochi giorni da Natale arriva finalmente l’annuncio della Commissione Europea: a seguito del parere positivo espresso dall’Ema il vaccino di Pfizer riceve l’autorizzazione (condizionale) per l’immissione in commercio nei paesi Ue. Le danze si aprono il 27 dicembre, con una grande giornata di vaccinazioni in tutta Europa. In Italia vengono effettuate le prime 9.700 iniezioni. Dal 29 dovrebbero iniziare ad arrivare le altre 459mila dosi previste per il nostro Paese dal contratto sottoscritto dall’Unione Europea con Pfizer. Il 4 gennaio 2021 si attende quindi l’approvazione del vaccino Moderna, e l’arrivo di nuove dosi e nuove vaccinazioni. La strada è ancora lunga, e se tutto andrà come sperato i vaccini dovrebbero arrivare a garantire l’immunità di gregge (e quindi la fine dell’epidemia) per il prossimo autunno. Ma se non altro, sembra che finalmente il vento stia cambiando.
2020, l’anno da dimenticare che non cancelleremo mai dalle nostre vite. Francesco Leone su Notizie.it il 26/12/2020. Dalla terza guerra mondiale alla pandemia: il 2020 è stato un anno difficile, da dimenticare ma il cui segno rimarrà indelebile sulla nostra pelle. Lo schiaffo del Papa nella notte di San Silvestro, l’uccisione nel raid statunitense a Bagdad del generale Qassem Soleimani e l’alba di una fantomatica terza guerra mondiale. Il 2020 iniziava così, non con il migliore dei presupposti, e avanzava nelle vite di tutto il mondo insinuando lentamente la minaccia di un’emergenza di cui ancora oggi stentiamo a definirne la natura, gli effetti e la capacità di intimorire intere popolazioni, governi ed economie. Era il tempo dell’elezioni regionali, quelle in cui la sfida era tra centrodestra e centrosinistra: una partita a scacchi nel nome delle nuove amministrazioni locali, quelle che ancora in un immaginario dal retaggio democristiano erano considerate come territori da conquistare in vista di instillare il declino del governo centrale. E chi se lo dimentica Salvini che citofona a Yaya nella periferia di Bologna. O ancora il cavaliere Berlusconi che rassicura gli elettori ai banchetti della Santelli a suon di “Lei in 26 anni che la conosco non me l’ha mai data”. Eppure quella corsa elettorale ci aveva fatto provare un non modesto interesse. Le sardine sono solo un esempio. Piccoli pesci in un mare di giovani vecchi che per la prima volta, o di nuovo, carpivano l’importanza del voto, quella che avrebbero successivamente perso più tardi: più precisamente nel referendum costituzionale di settembre quando a fare da padrona del seggio è stata la rabbia, sapientemente mixata nei pregiudizi populisti verso la casta parlamentare promossa da chi voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, ma che alla fine un po’ la figura del tonno l’ha fatta. Viaggiava come sempre tutto rapidamente. Il processo Gregoretti prendeva forma, l’Australia soccombeva al maltempo dopo i grandi incendi che ne avevano devastato gran parte del territorio, Kobe Bryant si spegneva insieme alla piccola Gianna Maria in un incidente in elicottero prima di una celebrazione sportiva provocando l’estremo cordoglio di tutto il mondo dello sport. Scorreva tutto così, rapidamente. Una sequela di vicende, cronaca, politica, lotta per i diritti e battaglie contro il cambiamento climatico. A fare da sottofondo moderato c’era ciò che stava accadendo in Cina: troppo lontano per impensierirci, troppo tardi per poterne comprendere il fenomeno in modo tale da non soccombervi. Così mentre da Wuhan, Nancino e Hong Kong ci arrivavano le immagini di una delle epidemie più bestiali di sempre, noi dichiaravamo lo stato d’emergenza, discriminavamo prima e poi difendevamo la comunità, la ristorazione e la cultura cinese. La verità è che eravamo troppo intenti a non perderci la faida sanremese di Morgan e Bugo e pensavamo (come Zingaretti) che in fondo fare un aperitivo a Milano non era poi un’idea così malvagia, nonostante nella gara alla sicurezza sanitaria, i primi casi e l’allerta del contagio fossero già in pole. L’Italia non si ferma, Milano non si ferma. Poi è stata la volta di Vo’ Euganeo e di Codogno, prima la zona rossa localizzata poi il lockdown generalizzato. Italia zona protetta. Mentre si consumava una strage silenziosa all’interno delle Rsa di tutto il paese, a Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro i morti non si contavano più. L’esodo dei fuorisede viaggiava sulle rotaie delle ferrovie di stato, in barba ai commenti dei governatori del sud che mai come allora hanno desiderato la fuga dei cervelli indigeni. Dalle carceri di tutta Italia giungeva il primo presentimento della tolleranza zero nei confronti delle norme anti-covid. Col tempo abbiamo imparato (chi più, chi meno) a conoscere la schiettezza dei termini "assembramento", "quarantena", "restrizioni". Abbiamo assistito alla politica dei decreti del presidente del Consiglio dei Ministri mentre cercavamo in mascherine il lievito sugli scaffali dei supermercati a entrata contingentata. Abbiamo cantato sui balconi, scoperto lo smart working e le atrocità della pandemia di coronavirus. Ci eravamo fermati, e fermandoci abbiamo scoperto che la nostra non è una società che sopravvive in stasi. La quarantena passa così, tra un fuorionda di Mattarella, una gaffe di Fontana e Gallera e il dolce augurio di Vincenzo De Luca di una vampata di lanciafiamme durante qualche festa di laurea. Quello che è venuto dopo è stata la caccia in elicottero al rider occasionale, al passeggiatore di cani domenicale, al nostalgico dell’aperitivo. L’era dei “governatori sceriffo”. Di seguito la corsa alle terapie intensive, gli eroi in corsia, le storie dalla prima linea e la gara delle regioni al “chi contiene meglio vince e non può essere contestato”. I casi raggiungevano il picco della curva epidemiologica, le vite spezzate erano diventate numeri nel continuo aggiornamento del bollettino della Protezione Civile. La cassa integrazione, i posti di lavoro a rischio e intere categorie abbandonate prima e soccorse poi da provvedimenti in continuo emendamento. Il plateau, il tempo per ragionare sulla riapertura, sull’accesso al Mes per sostentare la crisi economica che veniva alimentata, erta sulle colonne rette dall’emergenza sanitaria vestita da Atlante. Quel 4 maggio sembrava che tutto fosse passato. Silvia Romano era stata liberata e riportata in Italia e con lei era tornata anche la polemica sterile all’italiana. Trascorsi i mesi più bui, la falsa partenza italiana si muoveva in un’estate di sana perdizione (a confronto col tenore di vita osservato in lockdown) giustificata dalle scelte del governo e alternata al caldo delle piazze italiane infervorate dalle proteste di innumerevoli categorie e rappresentanze dei lavoratori. Tra questi balenava in sordina anche il pensiero negazionista: un complottismo che altro non poteva che far scivolare la disperazione dei tanti nel calderone del fanatismo scellerato dei molti. Dall’altra parte del mondo intanto cresceva il movimento Black Lives Matter. Oltreatlantico dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta per mano di un agente di polizia, si mobilitavano attivisti per i diritti civili, folle che facevano scricchiolare la poltrona di Donald Trump prossimo alle nuove elezioni presidenziali. Un tema complesso quello dell’uguaglianza negli Stati Uniti, che vedeva dibattere le parti attorno a scogli generazionali che affondano ancora oggi le radici in differenze culturali appartenenti a epoche ormai abbandonate. Qualcosa di stupidamente difficile. In Italia invece, nella grande complessità situazionale della pandemia, la fase 2 era riuscita a rendere tutto più stupidamente semplice. Distanziamento a scuola? Bando del ministero per i banchi a rotelle. Distanziamento nei locali? Plexiglass, massimo 6 persone al tavolo ma nessuna mascherina indossata una volta seduti. Sostentamento alle partite iva? Assegno da 600 euro da corrispondere con qualche mese di ritardo. Nota bene: nessuna di queste è stata una soluzione, ma col senno di poi, in effetti, è troppo facile asserirlo (o forse no?). C’è chi aveva detto che il virus era morto, clinicamente s’intende. C’era anche chi aveva detto che ci sarebbe stata una seconda ondata nel periodo autunnale. Al tempo erano solo opinioni, voci stampate sulle pagine cartacee e digitali che si sfogliavano di tanto in tanto in vacanza. Settembre ha sancito il crocevia di quella che doveva essere la vera rinascita. Di fatto, mentre inorriditi ascoltavamo la storia di Willy, giovane ragazzo capoverdiano ucciso in una rissa a Colleferro, assistevamo alla volontà dell’elettorato sul taglio dei parlamentari, alla poco preparazione di alcune regioni nella campagna vaccinale e ai mancati controlli sui trasporti, lì dove brulicava il contagio. Distratti, magari dall’incredibile vittoria di Joe Biden e Kamala Harris alle presidenziali in Usa, passavamo i nostri giorni attorniati dall’ombra di un nuovo lockdown mentre i contagi continuavano a crescere a dismisura. Scontavamo le colpe di un’estate passata all’insegna di quella libertà che ci era stata limitata in primavera. Le regioni prendevano colore, le nuove restrizioni richiamavano gli appuntamenti dei dpcm alle luci della ribalta e le piazze delle città pativano il nuovo coprifuoco. L’incubo della Dad è tornato, così come la chiusura dei ristoranti e il timore di doversi ritrovare a contare ancora nuovi morti per covid in Italia. Così è stato. Di nuovo in prima linea, ancora una volta a rincorrere una curva epidemica che ormai c’era sfuggita dalle mani. Ci siamo fermati di nuovo. Abbiamo salutato due eterni campioni come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, ricordandoci che questo poco poetico 2020 ci ha portato via anche Ezio Bosso, Ennio Morricone, Franca Valeri e Gigi Proietti. Adesso tiriamo le somme e attendiamo di capire se almeno a Natale non dovremmo sentirci dei criminali mentre sediamo al tavolo del cenone con le nostre famiglie, nonostante vestiremo una mascherina e stringeremo in mano il referto di un tampone covid negativo.
C’è rimasta una speranza, quella del vaccino, che di certo non redimerà niente di quanto terribilmente inaccettabile sia accaduto in questo 2020. Però magari, stigmatizzando il passaggio di quest’anno nefasto, sorrideremo. E alla domanda che chiede se il 2021 potrà mai essere peggiore dell’anno che lasciamo alle nostre spalle, amaramente risponderemo “Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è“.
Nel 2020 i morti sono diventati solo un numero. Natale Cassano su Notizie.it il 28/12/2020. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. Un numero. Fredde cifre che a volte fatichiamo a ricollegare a vite reali, affetti, sentimenti, problemi e gioie della vita quotidiana. Com’è cambiata l’idea della morte in questo difficile 2020, da quando la pandemia è entrata nella nostra vita? Finché la parola “Covid” era ancora estranea al nostro vocabolario, finché questa infezione misteriosa sembrava circoscritta a qualche lontana città d’oriente, la perdita di una vita è sempre stata vissuta in maniera empatica, anche quando la persona coinvolta non era strettamente legata a noi. Leggendo i giornali o navigando sui social network, era facile immedesimarsi nel dolore dei parenti e provare noi stessi quella sofferenza, sempre consapevoli del classico “poteva accadere a noi”. Eppure da quando a marzo la parola “pandemia” ha cominciato a entrare, silenziosa, nella nostra quotidianità, quel meccanismo si è lentamente spezzato. Con un risultato tragicamente noto: oggi, a quasi un anno di distanza, si nota una maggiore difficoltà nel provare empatia davanti a un decesso che non ci tocca direttamente. E questo è legato direttamente a come la gestione del Covid-19 ha trasformato la nostra percezione della morte. Sembrano infatti lontane anni luce quelle immagini strazianti della fila delle camionette dell’Esercito che attraversano Bergamo con all’interno le salme dei deceduti della prima ondata. Un’immagine che è stata riproposta ciclicamente da TG e giornali, anche per mantenere l’attenzione alta sulla pericolosità del virus, quando al termine della quarantena è scattato il “liberi tutti”. Improvvisamente il Covid non sembrava più un pericolo, bensì un dramma del passato da esorcizzare. Ma dopo i bagordi dell’estate la seconda ondata del virus ci ha investito come un tifone, obbligandoci a tornare a quelle restrizioni a cui così difficilmente ci eravamo abituati. Al contempo, però, diversamente da quello che si diceva (tutti ricordiamo il “ne usciremo migliori”, motto della prima fase, vero?), si è assistito a una deumanizzazione della morte, perché questa si è trasformata in un freddo numero. Lo vediamo ogni giorno nel bollettino, regionale e nazionale, che leggiamo sulla stampa. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. E in questo marasma, l’unico elemento che ci preoccupa è il capire se la curva è in discesa o in risalita. Torniamo così a pensare a noi stessi e a non provare empatia. Un ragionamento che si ritrova anche nelle dichiarazioni pubbliche. Pensiamo alle parole di Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, che davanti alle telecamere ha ricordato la necessità di aprire, perché “le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”. Ecco, in quel “pazienza” si rivede perfettamente il quadro della situazione: il bene della popolazione che supera quello del singolo; la morte giustificata come danno collaterale alla vita di altri.Una situazione che da molti viene accettata, anche a causa dell’effettiva sciatteria che si ritrova nei famosi bollettini della Protezione civile: i decessi direttamente legati al virus non vengono distinti da quelli legati anche ad altre patologie e finiscono nel calderone della statistica, facendo inevitabilmente crescere le fila dei negazionisti, che cercano continui appigli per confermare la confortante ipotesi del “virus che non esiste, è tutto un complotto“. E neppure il Natale ci ha reso, se non più buoni, almeno più empatici. Il gigantesco dibattito sulle aperture che ha preceduto le festività si lega a doppio filo a questo triste risultato: del rischio della morte (soprattutto degli altri) ci interessa poco, l’importante era (ed è) poter respirare un istante di normalità, almeno in un periodo che da sempre è sinonimo di felicità. Doveva essere un Merry Christmas, a tutti costi, in attesa di brindare a un (si spera) felice anno nuovo. E se questo comporta conseguenze per la salute degli altri? Il pensiero comune si riassume in quell’unica parola: “Pazienza”. E allora come si inverte la tendenza, in vista del 2021 ormai alle porte? Difficile dirlo, ma un buon punto di partenza sarebbe tornare a legare quei numeri dei morti a un viso, a una storia, a un particolare che possa nuovamente renderli umani. Qualcuno ci sta provando, ripercorrendo questo 2020 da dimenticare ma che mai cancelleremo dalla nostra memoria, raccontando quelle vite spezzate dalla malattia, nonostante i commenti poco empatici di chi continua imperterrito a sottolineare che “la persona era anziana” oppure che “soffriva di patologie pregresse”. Dimenticandosi che la perdita di un affetto fa male comunque, qualunque sia la causa che l’ha allontanato da noi per sempre.
Il contagio, la quarantena, la morte. E la speranza. Il racconto di un anno di pandemia. Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia. E poi Codogno, Nembro, Bergamo, Jesolo, Milano. Nel diario di una cronista l’Italia in zona rossa. Ognuno con la sua linea di confine. Elena Testi su L'Espresso il 26 dicembre 2020. Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il...
Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il 30 gennaio. Sono le 22.00 dello stesso giorno, di fronte all’hotel Palatino di Roma, due turisti cinesi vengono messi dentro a un’ambulanza e portati all’ospedale Spallanzani. Entriamo nella grande hall dell’albergo. Il direttore fa cenno con una mano che non può parlare. Un gruppo di inglesi entra e nascosti tra loro ci infiliamo nell’hotel. Tutto è normale, tutto è placido. La notizia del Covid -19 arrivato in Italia è un timido accenno che si disperde in una manciata di ore. C’è vita, c’è normalità, ci sono le persone ammassate per strada. C’è la crisi di Governo con un Matteo Renzi intento a scarnificare il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede. C’è Matteo Salvini con i selfie. C’è la prescrizione. Ci sono i bambini che vanno a scuola. C’è una Wuhan lontana che mormora con gente affacciata ai balconi. C’è un mese. Nulla accade. I treni sono bloccati, la stazione di Bologna è persa in un vociare di persone che tentano di raggiungere Milano. A Casalpusterlengo un macchinista è risultato positivo al Covid-19, hanno deciso di bloccare quella tratta per precauzione. È il 24 febbraio, tre giorni fa un ragazzo di Codogno, paesino di 15mila abitanti è il primo positivo accertato. «La prego mi faccia salire», urla una ragazza a un controllore di Trenitalia, l’uomo fa cenno con la testa. Ci infiliamo tutti dentro l’unico treno pronto a partire per il nord. Non c’è spazio, non c’è aria. Alcuni sono seduti dove si impilano le valigie. È un’Italia schizofrenica. Quando il treno parte ci sentiamo vittoriosi. Passiamo per il Veneto, Casalpusterlengo è ancora chiusa, qualcuno si chiede se il virus non sia nell’aria, ma il pensiero da guerra batteriologica viene schizzato via dalla mente. Le forze dell’ordine in quei tre giorni si sono già piazzate. Nessuno deve uscire. C’è un fuori e un dentro. Un noi e un loro. Sono 47mila quelli in area rossa, l’area del lodigiano. Gli “infetti”, c’è chi li chiama così. Per raggiungere i check-point basta prendere Google maps. I segni rossi nella mappa sono il confine invalicabile. I militari non parlano, rimangono con il mitra a metà. I “quarantenati” si affacciano alla frontiera, una donna ferma l’auto, attende le provviste. Un altro gruppo di persone ha una ruspa, sulla pala viene caricato cibo per animali portato da un paesino vicino, libero dalle restrizioni. Ai check-point arriva di tutto: detersivi, sigarette, cibo. Viene lasciato a pochi metri e poi preso da chi è bloccato dentro. Un ragazzo si nasconde, esce fuori quando vede arrivare un’auto, è la fidanzata. Si scambiano un abbraccio. Lei piange, lui la bacia. Le ambulanze corrono dentro. Sono tante. Non sono ambulanze normali, dentro hanno tutti una tuta bianca che li copre. La gente muore mentre fuori si parla di banale influenza. Una bambina di 14 anni di Codogno rimane sola con la sorella di 12, i genitori sono in terapia intensiva. Ha paura degli assistenti sociali. C’è caos, rimangono sole per dieci giorni. Senza cibo. La protezione civile è sopraffatta, deve consegnare le mascherine che non ci sono, deve organizzare, trovare ossigeno per salvare chi ha crisi respiratorie. Dopo dieci giorni c’è chi si accorge di loro, mentre la vita scivola via. Sono denutrite ma si salvano. Un miracolo nella tragedia. Sembra un paese spezzato da verità diverse. Milano si sente intoccabile, il sindaco Beppe Sala invoca normalità. Arriva il segretario del Pd Nicola Zingaretti da Roma, lo accogliamo circondandolo, tutte le domande sono su Matteo Renzi e la tenuta del Governo. Il simbolo della normalità è uno Spritz, mentre la morte silenziosamente miete centinaia di lodigiani. Ci rendiamo conto che il virus è diffuso più di quanto non si voglia credere quando iniziamo a schivare quarantene. Parte la conta degli incontri. Le distanze e la diffidenza. Ad Alzano Lombardo e Nembro, comuni a pochi chilometri da Bergamo, un’ondata si porta via anime inconsapevoli. Si discute se fare una cinta di protezione per evitare che Bergamo diventi un focolaio. I giorni passano e nulla viene fatto, ancora è da capire il perché, visto che le forze dell’ordine sono già schierate per chiudere l’intera area. Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano, ha uno schema nel suo ufficio. Su un cartellone di carta bianca ci sono le frecce che indicano cosa fare ogni volta che mancano le bombole d’ossigeno. Nell’unica agenzie di pompe funebri di Alzano, le urne sono una accanto all’altra. «Questi fogli – dice la proprietaria – dove c’è data di nascita, luogo e riferimenti, sono persone che noi conosciamo personalmente. Hanno avuto una vita e una storia». Le ceneri sono in barattoli ovali neri con sopra il nome di chi non c’è più. Sono stati messi nei forni crematori dentro un sacco nero. Nudi e con i segni della malattia cicatrizzati sui propri corpi, a cancellare quei segni sono le fiamme. Donne e uomini, giovani e anziani. Sono passati attraverso la malattia. Sono caduti, si sono rialzati, ma anime e corpi sono ancora prigionieri del virus. Le loro storie, gli incubi e le speranze. È il 7 marzo, un sabato, sono le 18. Trapelano notizie di una Lombardia quarantenata. Milano scopre di essere in mezzo a un focolaio. La gente corre verso la Stazione Centrale. È l’inizio del domani e la fine improvvisa dell’oggi. Dopo un giorno l’Italia intera viene dichiarata zona rossa. Alcuni giorni dopo la serrata generale sul Pirellone le luce accese delle finestre scrivono “Restate a casa”, mentre davanti al cimitero di Bergamo c’è la fila di carri funebri. Non ci sono parenti. Il cancello si apre, entrano dentro, lasciano la bara e ripartono. Quel giorno in un’ora ne arrivano dodici. Dodici corpi. In una chiesa non distante uomini con le tute di bio-contenimento disinfettano i feretri. Il sole si è già eclissato, i carri dell’esercito si fermano, i militari escono composti e silenziosi, prendono le bare. Non c’è più spazio nella piccola cappella, sono oltre sessanta. Nessuno in quel momento sa chi ci sia dentro, neanche le famiglie. Non hanno un nome i morti che lasciano la città. Si percorrono chilometri di autostrada senza incontrare nessuno. Le uniche vite che incroci guidano ambulanze o carri funebri. Sono così tanti da farti venire la nausea. Il covid in Lombardia si è infilato ovunque, anche a Milano. La gente alza il volume dei televisori, dello stereo. Ogni casa ha una colonna sonora per coprire il suono della paura. Tutto è avvenuto all’improvviso, senza preavviso. Un frangente che segna il prima e il dopo, ma ognuno ha il suo frangente. Per alcuni è la morte di un parente, per altri è la quarantena, per altri ancora la fine della libertà avvolta dal terrore del contagio. E quei contagi arrivano in corsia. Fuori dall’ospedale di Cremona ci sono dei tendoni bianchi. I malati scendono dalle ambulanze sopra una barella. Fissiamo i loro visi che spariscono nella zona sporca allestita all’aperto, prima di entrare nella tensostruttura riscaldata. Se rimani in silenzio senti la loro tosse e credi di morire con loro. Per istinto ti allontani. Una signora sui sessanta anni arriva, attende e fa cenno a un medico. Poco dopo un uomo con un sacchetto dell’immondizia in mano le si avvicina. «Finalmente», dice la donna all’uomo. Il marito è lì da un tempo infinito: quaranta giorni. «Lo riporto a casa», fa cenno con la mano e vanno via abbracciati. Non capiamo, difficile farlo. Sappiamo che l’ossigeno è finito. Conosciamo le procedure perché le vediamo. Le ambulanze arrivano impacchettano i malati dentro delle coperte termiche dorate. Un colore strano per il dolore, ti viene da pensare ogni volta che i soccorritori li portano via. Poi ci sono i vigili del fuoco che vanno a sfondare le porte delle persone morte da sole in casa. Sono tante e noi lo sappiamo perché vicino casa c’è una caserma dei vigili del fuoco. Stanno proprio davanti. Sulla finestra c’è scritto “FORZA GIACOMO” a lettere grandi e colorate. Dicono che è in terapia intensiva, ma che ce la farà. Dicono tante cose, ma sono terrorizzati negli occhi, nelle smorfie della bocca. Entrano nelle case vuote, avvertiti da qualche vicino. Entrano nei ricordi. La maggior parte sono sui loro letti. Intorno il vuoto. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera. Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. I contagi sono iniziati a calare mentre il numero dei medici morti è salito. Giacomo Grisetti vive a Como, lui il Covid lo ha preso per visitare un paziente, parla dalla taverna dove è stato confinato. La moglie gli lascia un vassoio con il cibo. Ricorda l’amico, medico anche lui, prima di essere intubato ha spedito un messaggio nella chat whatsapp «Si mette male, saturo poco». Quando parla di lui la voce si strozza. A volte ti capita di tornare negli ospedali, di cercare alcuni medici per salutarli e di scoprire che non ci sono più. Hanno perso la loro battaglia con il Covid, ma prima ne hanno vinte tante altre salvando la vita dei loro pazienti. Abbiamo capito che la prima ondata se ne stava andando quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è apparso a Lodi. Dopo, l’estate è passata senza che nessuno si fermasse. Non c’è stato un momento di silenzio per le perdite. Eppure ricordiamo quei medici mentre percorrono i corridoi bianchi. Il momento in cui riuscivano a staccarsi la mascherina dal viso, non avevano segni ma solchi. I vestiti zuppi di sudore per le tute. I turni infiniti. Tutto cancellato, coperto dal suono delle discoteche. Ma il covid è un virus subdolo. Cammina con noi. E lo abbiamo tenuto per mano fino a ottobre. Vicino al Michelangelo, il covid hotel della prima ondata, sulla ringhiera di una terrazza c’è un cartello, c’è scritto “andrà tutto bene”. È sbiadito, la luce dell’appartamento è sempre spenta. Abbassi lo sguardo e vedi le auto circolare. Le persone camminano per strada, ammassate in metro arrivano al lavoro. Per un attimo ricordi i corpi degli anziani portati fuori da una Rsa con un telo bianco sopra. La gente sui balconi. La protezione civile che con il megafono intima a stare in case, a indossare la mascherina. Tempi dimenticati. È metà ottobre quando fuori dall’ospedale Niguarda di Milano i pazienti covid-19 iniziano ad essere troppi. Il responsabile del Pronto Soccorso, Andrea Bellone, ha la faccia preoccupata: «Dobbiamo limitare gli spostamenti o non ce la faremo». Il responsabile della terapia intensiva Roberto Fumagalli si commuove pensando a quando avevano chiuso ai covid il suo reparto, perché non ce ne erano più. All’ospedale Sacco, sempre di Milano, Pietro Olivieri, direttore medico, ha già riconvertito metà struttura «e il peggio se continuiamo così, deve ancora arrivare». Il peggio alla fine è arrivato. All’ospedale di Magenta il reparto di terapia sub-intensiva, gestito dal primario Nicola Mumoli, è stracolmo, dentro ci sono 240 pazienti. Se la terapia intensiva è impressionante quello che accade dentro una sub-intensiva è agghiacciante. Il casco che li aiuta a respirare fa un rumore assordante, sono sempre coscienti. Stanno a pancia in giù nella speranza di far entrare più aria possibile nei polmoni. La sensazione è tentare di respirare con il getto della doccia sparato in bocca. Quando chiedi a un medico cosa provano i pazienti che dalla sub-intensiva passano all’intensiva, in molti ti rispondono: «Sollievo, così possono avere una tregua». I reparti si riempiono, i medici per alcuni diventano degli aguzzini, accusati di esagerare. «Tutta una montatura, il Covid non esiste». E così capita che qualche negazionista entri in una farmacia e dica a Cristina Longhini: «I carri dell’esercito non esistono», proprio a lei che ha visto il padre dentro un sacco e che ha saputo qualche mese dopo che quei carri avevano portato via il suo papà a Ferrara. È successo anche a Diego Federici che ha perso entrambi i genitori: «Coppia inseparabile». Soccorritori, volontari che sacrificano la propria vita, inseguiti e insultati perché accusati di creare allarmismo. Presidenti di Regione impegnati a farsi colorare la regione con una tinta che non metta a repentaglio la propria reputazione, il tutto mentre noi contiamo i morti della seconda ondata che superano quelli della prima. È successo in Lombardia, è successo in Veneto, nel Lazio. Nell’Italia intera che parla di vite “non indispensabili” per poi scusarsi. Non c’è solo il Covid, c’è la mancata prevenzioni, le persone morte d’infarto perché non vogliono andare in ospedale. È successo anche a Tonina, portiera a Milano. Sempre sull’attenti appena arrivava un estraneo nel palazzo. Il cuore le si è fermato, ma lei di andare in ospedale con questo covid non voleva proprio saperne. Di Tonina rimane il ricordo della pasta al forno appena sfornata e un cartello con su scritto compianta. L’emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell’ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Non abbiamo atteso la fine della seconda ondata, siamo a dicembre, e in provincia di Verona montano i container per stipare le salme. Dentro la terapia intensiva dell’ospedale di Jesolo si sente una voce: «Urgente, terapia intensiva». Un medico entra con una barella. Con poche mosse la paziente viene intubata, mentre un’altra, la “numero 1”, forse non ce la farà, perché come spiega il direttore Fabio Tuffoletto: «Con il covid il 50% vive, l’altro muore. La verità è che ancora non si è capito bene il motivo». È come tirare una monetina per aria. Per quasi 70mila italiani quella monetina è caduta dalla parte sbagliata. Alle loro famiglie dimenticate dalle Istituzioni un felice anno nuovo. Seppur difficile.
I nostri morti non se ne sono mai andati. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera. Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. Giuseppe Genna su L'Espresso il 22 dicembre 2020. L'immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece...
L’immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati, l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta, accecarci mentre vediamo la scena – questo no, non ce lo aspettavamo. Non dimenticheremo il 2020: dodici mesi segnati dal contagio, dalla paura e dalla solitudine. Ma anche dalla consapevolezza che se cambiamo ripartiremo. «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti, noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia. Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori privilegiati. L’uomo che cade, geometrico e minuscolo, newyorkese, lanciatosi da una delle Torri Gemelle – ci ha riguardato e infatti lo abbiamo guardato e riguardato, più volte. Ma non era l’immagine che implicava il rischio per tutti. Era forse la fine di un’idea di occidente o di un capitalismo, il tabù infranto della guerra su suolo americano, una scena in qualche film. Ricaricavamo il video, l’uomo tornava a cadere. Potevamo godere oscenamente di questo spettacolo di morte, perché anzitutto era tale: c’era una dose di spettacolarità. Chi aveva ideato ed eseguito quell’attentato aveva pensato alla risonanza spettacolare. Il che non accade qui, a Bergamo, seconda metà di marzo, nella notte che sa di neve schiacciata nella mota dai pneumatici. Qui non c’è spettacolo. I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorità del tempo, rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a manifestarsi con i caratteri della modernità. L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest’ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi. La bomba ieri, come il virus oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male, sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi affilitti dal male, è nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i sarcofaghi dei deceduti…Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci sarà sempre.
Esclusivo - Troppi morti in Veneto. Si riempiono i container.
L'emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell'ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 dicembre 2020. Dopo il triste corteo dei camion militari in marzo a Bergamo, le foto choc della seconda ondata arrivano dalla provincia di Verona: un container frigorifero sistemato nel cortile di un ospedale, per accogliere le salme delle troppe vittime del covid. Succede a Legnago, la cittadina di 25 mila abitanti dove ha sede il secondo polo sanitario pubblico della provincia. L'ospedale non riesce più a gestire il record dei contagi, ricoveri e decessi: l’obitorio è pieno, per cui le bare vengono spostate nel contenitore d'acciaio collocato all'esterno. Verona è la provincia più colpita dal coronavirus, con più di 1.300 morti e quasi 20 mila persone attualmente positive. E gli ospedali scoppiano, come testimonia il il chirurgo Ivano Dal Dosso, segretario veronese del sindacato dei medici Anaao: «Siamo in una situazione di estremo stress, a Legnago l’altro giorno in pronto soccorso c’erano 49 pazienti, di cui 20 in attesa di un letto. Ormai si gestiscono i malati direttamente lì, con il casco Cpap, come se fosse una terapia semi-intensiva. E questi pazienti non risultano nemmeno censiti nei bollettini della Regione, perché tecnicamente non sono ricoverati». Non va meglio nelle altre province venete, come raccontano gli altri rappresentati degli operatori sanitari ormai stremati. Stefano Polato, medico dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, registra una «situazione decisamente preoccupante: sia le terapie intensive che i reparti attualmente disponibili sono pieni, basta un soffio di vento perché tutto precipiti». Anche a Vicenza, conferma l’ematologo Enrico Di Bona, «il quadro è grave e se continua così si arriverà al collasso, perché tutti gli ospedali dovranno essere riconvertiti esclusivamente al covid». A Treviso il chirurgo ortopedico Pasquale Santoriello, dell’ospedale cittadino Ca’ Foncello, parla di «personale distrutto, sfinito dai turni di 12 ore nelle tute di plastica, e sempre più soggetto al contagio. Poco fa ho incrociato un amico infermiere che mi ha riferito di essere appena risultato positivo al test: stava scappando dall’ospedale passando per gli scantinati, per cercare di non contagiare nessuno». In Veneto si era registrata, il 21 febbraio, la prima vittima italiana della pandemia. Nei mesi successivi della prima ondata questa regione, grazie alla massiccia campagna di controlli con tamponi molecolari avviata dall'ospedale universitario di Padova, ha limitato i contagi e i decessi rispetto al resto del nord Italia. Le riaperture incontrollate di questi mesi in zona gialla, però, hanno fatto esplodere i contagi e i decessi nella seconda ondata. E anche oggi, come ormai da settimane, il Veneto registra il record nazionale di nuovi contagiati (oltre 4.400) e delle vittime: altri 92 morti in 24 ore. Il primo a lanciare l’allarme era stato il segretario regionale dell’Anaao, il dottor Adriano Benazzato, che aveva contestato i criteri utilizzati dalla Regione Veneto per conteggiare i posti disponibili nelle terapie intensive: «In realtà sono soltanto 639, per attivarne 500 in più bisognerebbe assumere almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati e preparati, che in Veneto non ci sono». Gli fa eco il suo vice, Andrea Rossi, geriatra dell’ospedale Borgo Trento di Verona: «In Veneto iniziamo a raschiare il fondo del barile. Qui o la regione cambia colore, oppure rischiamo di trovarci in un'emergenza ancora peggiore. Tra poco il covid potrebbe sommarsi al picco dell’influenza. E se non si corre subito ai ripari, la nave andrà a picco come era successo a Brescia e a Bergamo nella prima ondata».
Da "ilmessaggero.it" il 27 dicembre 2020. Vaccino Covid: via ufficiale alle prime vaccinazioni in Italia all'ospedale Spallanzani di Roma, blindato dalle forze dell'ordine che presidiano gli ingressi. La professoressa Maria Rosaria Capobianchi, una delle ricercatrici che isolò il virus SARS-CoV-2, l'infermiera Claudia Alivernini e l'operatore sociosanitario Omar Altobelli, alle ore 7,20 sono stati i primi in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. «Oggi l'Italia si risveglia. È il #VaccineDay. Questa data ci rimarrà per sempre impressa. Partiamo dagli operatori sanitari e dalle fasce più fragili per poi estendere a tutta la popolazione la possibilità di conseguire l'immunità e sconfiggere definitivamente questo virus». Così il premier Giuseppe Conte su Twitter a proposito del Vax Day. «Questo vaccino è la strada che serve per chiudere una stagione difficile. Oggi è una giornata che aspettavamo, è un giorno bello, ci da fiducia ma serve ancora tanta cautela e attenzione. Non è finita abbiamo ancora molto da fare e bisogna resistere e rispettare le regoleì». Così il ministro della Salute Roberto Speranza presente allo Spallanzani di Roma con il commissario straordinario per l'emergenza covid Domenico Arcuri, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, l'assessore alla Sanità del Lazio Alessio d'Amato e il direttore sanitario dello Spallanzani Francesco Vaia.
Le dosi. Le 9.750 dosi di vaccino Pfizer-BioNTech consegnate a tutti i Paesi europei oggi per il vaccino day sono in numero «simbolico». La distribuzione vera e propria - fa sapere il ministero della Salute in una nota - partirà dalla settimana che inizia il 28 dicembre e all'Italia arriveranno circa 470mila dosi ogni settimana. «Non è la fine, è ancora lunga ma è l'inizio della fine. Passo dopo passo, grazie agli operatori sanitari, è l'inizio della fine», ha detto Nicola Zingaretti.
Il piano vaccinale. «La prossima settimana verranno vaccinati medici, infermieri e personale sanitario», ha precisato il commissario straordinario per l'emergenza covid Domenico Arcuri.
Da "ilmessaggero.it" il 27 dicembre 2020. «Mi sento benissimo, sono emozionata, ma ancora più che emozionata sono inorgoglita». Lo ha detto ai giornalisti Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell'Inmi Spallanzani, la quale è stata tra le prime tre persone in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. «Spero che questo privilegio sia esteso presto a tutti», ha aggiunto sottolineando che «non dobbiamo ancora cantare vittoria». Tra i primi vaccinati che l'infermiera Claudia Alivernini: «Ringrazio il direttore sanitario, dottor Francesco Vaia e la dirigenza delle professioni sanitarie, la dottoressa De Angelis, per avermi dato l'opportunità di essere qui oggi. Con profondo orgoglio con grande senso di responsabilità che oggi ho fatto il vaccino: piccolo gesto ma fondamentale per tutti noi». Romana di 29 anni, volto simbolo del personale sanitario in prima linea da mesi nella battaglia contro il coronavirus, questa mattina ha ricevuto il vaccino anti Covid allo Spallanzani. «Oggi sono qui come cittadina ma soprattutto come infermiera a rappresentare la mia categoria e tutti gli operatori sanitari che hanno scelto di credere nella scienza - ha detto l'infermiera -. Ho toccato con mano e visto con i miei occhi quanto sia difficile combattere questo virus, essendo stata in prima linea dall'inizio dell'emergenza: è stato doloroso assistere alle sconfitte che questo virus sha causato. Ma oggi c'è la consapevolezza che è un giorno importante e decisivo. La scienza la medicina sono l'unico mezzo insieme al senso civico di ognuno di noi che ci permetteranno di uscire vincitori da questa battaglia così dura. Lo dico col cuore: vacciniamoci, per noi per i nostri cari e per la collettività». Dello stesso avviso l'infettivologa Alessandra D'Abramo: «Mi sento una privilegiata. Fare in Italia per prima il vaccino contro questa brutta bestia non è una cosa da tutti i giorni. Il vaccino va fatto, è il primo passo, per il cambio di rotta, per battere questo virus maledetto. Per sconfiggerlo. Soltanto chi è stato qui a lavorare può comprendere ciò che abbiamo visto e passato. Dico a tutti di vaccinarsi. Abbiamo passato mesi duri, difficili, complicati anche da spiegare. L'incubo è iniziato il 29 gennaio con una coppia di cinesi. Da quel giorno non ci siamo più fermati. Oggi è un giorno di speranza. Ripartiamo da qui, insieme», ha concluso.
Coronavirus, allo Spallanzani la prima vaccinata italiana. Giuseppe Conte: "Oggi si fa la storia", ma le dosi sono poche. su Libero Quotidiano il 27 dicembre 2020. Un giorno storico: allo Spallanzani di Roma, i primi vaccinati italiani al coronavirus. Il tutto a partire dalle 7.20 di oggi, domenica 27 dicembre. I primi ad ottenere il siero Pfizer sono stati la professoressa Maria Rosaria Capobianchi, l'infermiera Claudia Alivernini e l'operatore socio-sanitario Omar Altobelli. Dunque due medici infettivologi sempre dell'Inmi: Alessandra Vergori e Alessandra D'Abramo. Si scrive una pagina importante nell battaglia contro il coronavirus. "Mi sento benissimo, sono emozionata, ma ancora più che emozionata sono inorgoglita" ha detto ai giornalisti Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell'Inmi Spallanzani, la quale è stata tra le prime tre persone in Italia a ricevere il vaccino anti Covid-19 questa mattina. "Spero che questo privilegio sia esteso presto a tutti", ha aggiunto sottolineando che "non dobbiamo ancora cantare vittoria". "Lo dico col cuore: vacciniamoci per noi, per i nostri cari e per la comunità". Queste le prime parole di Claudia Alivernini, l'infermiera 29enne dello Spallanzani che ha ricevuto questa mattina il vaccino anti Covid-19. Nel frattempo, su Twitter, Giuseppe Conte cinguettava: "Oggi l'Italia si risveglia. È il #VaccineDay. Questa data ci rimarrà per sempre impressa. Partiamo dagli operatori sanitari e dalle fasce più fragili per poi estendere a tutta la popolazione la possibilità di conseguire l'immunità e sconfiggere definitivamente questo virus". Tutto vero, anche se Conte non dà risposte circa l'ultimo fallimento, ossia il fatto che in questa primissima fornitura di vaccini l'Italia ottiene molte meno dosi rispetto a Germania e Spagna, così come denunciato ieri da Roberto Burioni.
Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Il suo volto è diventato un simbolo della campagna vaccinale contro il covid e i no-vax l’hanno adesso presa di mira sui social. “Ora vediamo quando muori” si legge in uno dei commenti rivolti a Claudia Alivernini, l’infermiera 29enne dello Spallanzani di Roma, prima vaccinata in Italia contro il coronavirus. Prima dell’iniezione, Alivernini aveva bloccato i suoi profili social per tutelarsi, ma gli attacchi sono comunque arrivati sui profili istituzionali che diffondevano la notizia della vaccinazione. Su Instagram sono apparsi due profili fake a suo nome.
Si legge sul Messaggero: Chi la conosce bene sa quanto sia rimasta scioccata, chiedendone subito la rimozione. L’infermiera che ha accettato di sottoporsi al vaccino «con profondo orgoglio e grande senso di responsabilità», ribadendo di «credere nella scienza», sta valutando in queste ore di denunciare l’accaduto alla polizia postale, probabilmente lo farà già questa mattina. Il reato paventato è quello di furto di identità, senza contare le eventuali minacce.
Clarida Salvatori per il Corriere della Sera il 30 dicembre 2020. «Davvero mi insultano sui social perché ho fatto il vaccino?»: Claudia Alivernini, infermiera 29enne del reparto di Malattie infettive dello Spallanzani, incredula chiede agli amici. Lei che alla vigilia dell' ufficializzazione del suo nome come prima vaccinata d' Italia, si era cancellata da tutti i social network per evitare pressioni e contatti indesiderati. Eppure dopo il V-day di domenica, il livore dei messaggi dei no vax si è riversato contro di lei e contro l' Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma. Prendendo letteralmente d' assalto i profili social istituzionali. Lei, con la discrezione che la contraddistingue, si è trincerata nel silenzio. A parlare è il direttore sanitario, Francesco Vaia, dal suo profilo Facebook: «Ho incontrato Claudia per incoraggiarla dopo le fake news e gli attacchi. Non ce n' è stato bisogno. Claudia sta bene, come tutti gli altri vaccinati, è di ottimo umore ed è sempre più convinta della sua scelta».
I commenti più sgradevoli sono quelli che le augurano reazioni avverse e la morte.
«Perché si tiene il braccio in quel modo? Fra 3, 2, 1...», «Questo non è il giorno dell' inizio, è il giorno della bella inc...», «Eroe di cosa? Ora si aspetta gli effetti indesiderati». Qualcuno si sconvolge persino per il messaggio che Claudia ha voluto mandare al Paese, ovvero che fare il vaccino sia un atto d' amore: «Vada ad ingozzarsi di panettone perché a lei che frega se c' è gente che muore. Egoista», o «Cosa non si fa per la fama». Ma a essere ricoperto di insulti è lo Spallanzani tutto. E i contrari all' antidoto al coronavirus attaccano con termini non proprio eleganti. «Bisognava per forza farne un film?», «Siete ridicoli, dovete fare spettacolo per invogliare, spero che la gente non si vaccini», «Povera ragazza», «Perché non l' hanno fatto per primi i politici visto che si parano sempre il c...», e ancora «Le cavie umane» o «Come stanno i volontari che avete pagato 700 euro per partecipare al test sul vaccino?». C' è persino chi si lancia in teorie sull' obbligatorietà dell' inoculazione: «Ci dicono che non è obbligatorio, ma se poi non lo fai non ti fanno andare da nessuna parte. Ditemi se non è dittatura». Le reazioni di questo tono sono comunque una minoranza. La maggior parte dei commenti è infatti in difesa di Claudia e del centro di eccellenza che combatte il Covid. Uno su tutti: «Siete un orgoglio. Avete brillato in mezzo a tutto questo buio». Allo Spallanzani e ai suoi operatori è giunta la solidarietà del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, come dell' assessore regionale alla Sanità, Alessio D' Amato: «Claudia è la prima vaccinata in Italia contro il Covid. È stata travolta da messaggi e attacchi no vax. Il suo sorriso ci ha raccontato una storia di forza e speranza. Una professionista che ha combattuto il Covid, come tante e tanti giovani che si sono trovati in prima linea. Chi la sta minacciando dovrebbe vergognarsi. Siamo con te Claudia e con tutto il personale sanitario che ha lottato in questi mesi! Un grande abbraccio».
Covid, l’infermiera Claudia Alivernini smentisce di essere stata minacciata. Notizie.it il 31/12/2020. Claudia Alivernini, infermiera che ha effettuato per prima il vaccino anti-Covid allo Spallanzani, ha smentito di essere stata insultata dai no-vax. Claudia Alivernini ha smentito la notizia che la voleva vittima di insulti e minacce sui social network da parte delle frange più irriducibili dei cosiddetti no-vax. L’infermiera dello Spallanzani di Roma non sarebbe quindi mai stata insultata dopo essere stata la prima persona in Italia ad aver ricevuto la vaccinazione anti Covid. Falsa anche la notizia della cancellazione dei suoi profili social.
Il messaggio dello studio legale. Nel commentare la falsa notizia, lo studio legale a cui l’infermiera si è rivolta ha dichiarato: “Vi rappresentiamo che in data odierna lo scrivente studio legale ha provveduto a diffidare il Messaggero alla immediata rimozione e/o cancellazione dell’articolo apparso nell’edizione odierna a pag. 9, a firma della giornalista Alessia Marani, giacché la ns. assistita non ha mai rilasciato le dichiarazioni ivi riportate (né altre dichiarazioni di sorta), né ha tantomeno mai autorizzato chicchessia a rivolgersi alla stampa e/o a terzi per suo conto per rilasciare dichiarazione alcuna. L’infermiera non ha dunque mai rilasciato alcuna dichiarazione al quotidiano romano Il Messaggero, che ha poi diffuso la notizia corredandola del commento della donna. Nonostante la notizia delle minacce di morte non fosse vera, con la sua diffusione l’infermiera ha subito ricevuto moltissima solidarietà da parte delle istituzioni. Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, ha sottolineato che i “no vax in questi giorni stanno mostrando il loro lato peggiore, tra ignoranza e cattiveria“.
Articolo 32 della Costituzione.
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Mirabelli: “Vaccino può essere reso obbligatorio con decreto legge”. Notizie.it il 30/12/2020. Il vaccino anti coronavirus può essere reso obbligatorio con un decreto legge: lo ha chiarito il giurista Cesare Mirabelli. Il giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli ha spiegato che per rendere obbligatorio il vaccino anti Covid è possibile adottare una decreto legge che il Parlamento dovrà convertire in legge entro sessanta giorni. Intervistato dal Messaggero, l’esperto ha ribadito come la Costituzione italiana ammette i trattamenti sanitari obbligatori che devono però essere adeguatamente giustificati e disposti con un’apposita legge. Per procedere con tempi ristretti, ha continuato, il governo ha a disposizione lo strumento del decreto legge che poi dovrà essere convertito in legge dalla Camera e dal Senato. “Abbiamo altre esperienze di obbligo di vaccinazione che hanno portato alla sconfitta di malattie gravi per l’individuo e per la comunità, basti pensare al vaiolo e alla poliomielite“, ha aggiunto. Se si decidesse di agire in questo modo, la legge dovrà essere precisa, perimetrata al caso Covid-19 e non generica. Se poi nell’immediato dovesse emergere un’adesione spontanea e si arrivasse all’immunità di gregge, cadrebbe l’obbligatorietà. Inoltre qualora il vaccino dovesse produrre ad un soggetto effetti collaterali dannosi, “questo può essere inteso come un sacrificio che viene imposto, un rischio per il bene della collettività“. Occorre dunque che chi subisce un danno sia indennizzato: nell’interesse della comunità deve avere un ristoro. Mirabelli è anche intervenuto sulla possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente che rifiuti di sottoporsi al vaccino, spiegando che se l’obbligatorietà non è stabilita dalla legge non può essere imposta da poteri privati. “Potrà nella propria organizzazione, per tutelare altri dipendenti, collocare diversamente il lavoratore“, ha chiarito.
Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Per un dipendente che rifiuta di vaccinarsi contro il Covid si può arrivare al licenziamento: a sostenerlo è il professor Pietro Ichino, giurista esperto di diritto del lavoro, che in un’intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che non solo si può rendere obbligatorio il vaccino, “ma in molte situazione è previsto”. “L’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda, il loro benessere”, ha ricordato l’ex senatore Pd e deputato di Scelta civica. Quindi il datore di lavoro non solo può imporlo, aggiunge Ichino, “ma deve farlo”. “Ovviamente se è ragionevole”, ha precisato, “in questo momento non lo sarebbe, perché non è ancora possibile vaccinarsi. Ma, via via che la vaccinazione sarà ottenibile per determinate categorie - per esempio i medici e gli infermieri - diventerà ragionevole imporre questa misura, finché l’epidemia di Covid sarà in corso”, chiarisce Ichino. A suo dire, “chiunque potrà rifiutare la vaccinazione; ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. Quindi, o ti vaccini o ti licenzio? “Sì. Perché la protezione del tuo interesse alla prosecuzione del rapporto cede di fronte alla protezione della salute altrui”.
Inchiesta dell’Ordine su medici negazionisti e No Vax. La pandemia fa strage tra gli operatori sanitari: quasi 90mila contagi e 273 medici morti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Dicembre 2020. Dall’inizio della pandemia su 2.019.660 casi di contagio da Coronavirus avvenuti in Italia, 89.879 hanno riguardato gli operatori sanitari. Sempre in prima linea per combattere contro il nemico invisibile, sono anche quelli più esposti e a rischio e che non possono esimersi dal lavorare. Per questo motivo in tutta Europa le vaccinazioni sono iniziate proprio da questa categoria della popolazione. Basti pensare che negli ultimi 30 giorni i contagi sono stati oltre 16mila. È quanto rilevano gli ultimi dati della Sorveglianza integrata Covd-19 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), aggiornati al 27 dicembre. Rispetto agli ultimi 30 giorni, invece, 413.381 sono stati i casi totali di positività diagnosticati nel nostro Paese, di cui 16.923 tra gli operatori sanitari. Secondo altri dati, quelli raccolti dalla Fnomceo e aggiornati al 28 dicembre, sono 273 i medici morti in Italia durante la pandemia. Gli ultimi in ordine di tempo sono Raffaele Antonio Brancadoro, medico ospedaliero in pensione, Leonardo Nargi, ginecologo, e Stefano Simpatico, neurochirurgo. “I nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante”, è il commento del presidente della Fnomceo, Filippo Anelli. “Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati”. Intanto l’Ordine dei medici di Roma ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di 13 loro colleghi antivaccinisti, scettici o negazionisti del Covid. Si tratta di professionisti che hanno sostenuto sui social network – o addirittura in tv – posizioni volte a sminuire o negare la gravità del Coronavirus come anche l’efficacia del vaccino in tutte le sue forme. Come spiega all’Ansa il presidente Antonio Magi, per 10 di loro il procedimento si è già concluso, mentre per altri tre è ancora in corso. “Si tratta di 10 colleghi che hanno espresso posizioni no vax, e tre invece negazionisti sul Covid”, ha precisato Magi. “La procedura disciplinare è partita dopo che abbiamo ricevuto da cittadini e colleghi degli esposti, corredati da documentazione”. L’iter del procedimento prevede che i medici in questione giustifichino e presentino delle spiegazioni scientifiche a supporto di quanto affermato, che vengono poi valutate da un’apposita commissione dell’Ordine. La commissione, a quel punto, dovrà decidere se procedere con una sanzione o archiviare il caso. “Per alcuni di loro c’è stata l’archiviazione – ha detto Magi – perché si sono pentiti». Per altri, invece, è già scattata la sanzione, «che è andata dalla censura all’ammonimento fino alla sospensione per 1-2 mesi”. Per i tre negazionisti del Covid, invece, il procedimento è ancora aperto. “Uno ha presentato una spiegazione, ma con il Covid i tempi disciplinari si allungano. Per questo tipo di procedimenti serve infatti la convocazione in presenza. Comunque la prima parte dell’iter è stata completata, e credo che per gennaio il nuovo consiglio, che dovrà insediarsi, riuscirà a terminare la procedura”. Ma l’obbligo di vaccino per medici potrebbe essere possibile. Il principio di base dell’ordinamento giuridico “è che ognuno è libero di fare ciò che vuole, a patto di non arrecare danno agli altri. I medici che non vogliono essere vaccinati contro il Covid, possono rimanere liberi di non vaccinarsi ma non possono esporre gli altri a rischio, lavorando a contatto con persone deboli”. Da qui può scattare l’obbligatorietà. In caso contrario “il loro datore di lavoro può non essere obbligato a farli lavorare”. A spiegarlo all’ANSA è Amedeo Santosuosso professore di diritto, scienza e nuove tecnologie presso l’Università degli studi di Pavia. Un principio questo che vale, precisa il giurista, “per tutti coloro che lavorano a contatto con il pubblico, come ad esempio gli insegnanti nella scuola”. La coazione, cioè l’obbligare fisicamente qualcuno dunque è da escludere, ma l’obbligatorietà “può scattare come conseguenza indiretta del non volersi fare vaccinare per una pura questione ideologica. Diverso sarebbe il caso – continua Santosuosso – di una persona che non può sottoporsi a vaccinazione per motivi sanitari. In quel caso il datore di lavoro è obbligato a trovargli un’altra collocazione”.
Ippolito, medici devono vaccinarsi o sospensione da servizio. (ANSA il 29 dicembre 2020) "Tutti gli operatori sanitari, a partire dai medici, devono vaccinarsi contro il Covid e se non vogliono essere vaccinati devono essere sospesi dal servizio perchè, appunto, non possono essere idonei al servizio che svolgono". E' la posizione espressa all'ANSA da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. Ci sono cioè, sottolinea Ippolito, "delle categorie professionali che devono essere vaccinate assolutamente; questo per proteggere se stessi ma anche gli altri, per i contatti estesi che le stesse categorie devono avere con la popolazione. Chi non lo accetta non può esercitare quelle determinate professioni". Per questo, spiega, "tutti gli operatori sanitari non possono esimersi dall'essere vaccinati, poichè rappresentano fonti di rischio per gli altri". Dinanzi ad un rifiuto della vaccinazione anti-Covid, conclude il direttore scientifico dello Spallanzani, "andrebbero sospesi dal servizio, poichè non idonei al suo svolgimento". (ANSA).
Covid: medico negazionista, Asl gli taglia stipendio. (ANSA il 29 dicembre 2020) Una sanzione disciplinare per aver diffuso sul web teorie negazioniste sulla pandemia. E' quanto ha deciso l'Asl To4 nei confronti di Giuseppe Delicati, medico di famiglia con studio a Borgaro, nel Torinese. In un video il medico sollevava forti dubbi sull'esistenza della pandemia e sull'efficacia del vaccino antinfluenzale, citando fonti non meglio specificate del Pentagono. Dopo l'inchiesta della procura di Ivrea per procurato allarme e la segnalazione all'ordine dei medici, l'Asl ha disposto la sanzione disciplinare che consiste nella riduzione dello stipendio "nella misura del 20% per 5 mesi cinque" a partire dal 31 dicembre.
Le imprecisioni dell'uomo di Conte. La matematica secondo Arcuri: il commissario “dà i numeri” sulle dosi di vaccino in Italia e Germania. Carmine Di Niro su il Riformista il 27 Dicembre 2020. Qualcuno aiuti il supercommissario Domenico Arcuri con la matematica. L’uomo preferito dal premier Giuseppe Conte, che gli ha affidato nel corso del 2020 tutte le emergenze legate al Coronavirus (più l’Ilva per il suo ruolo di AD di Invitalia) in una intervista al Corriere della Sera è incappato in dubbie giustificazioni per commentare la disparità di numeri tra Italia e Germania sul numero di dosi di vaccino a disposizione oggi per il V-Day. In Italia sono arrivate 9750 dosi di vaccino Pfizer-Biontech, mentre nei prossimi giorni ne arriveranno 470mila. Un numero notevolmente più basso rispetto a quanto accaduto in altri Paesi dell’Unione Europea: come ricostruito da Reuters la Germania ha ottenuto 156mila dosi, la Spagna 350mila, la Francia 19.500, in Danimarca 40mila. Perché questo trattamento diverso? Secondo Arcuri “il numero di dosi simboliche per partire tutti assieme il 27 dicembre è proporzionale alla popolazione, la Germania dalla Ue ha avuto le stesse dosi o poco più”. Parole che sono facilmente smentibili: l’Italia ha 60 milioni di abitanti, la Germania 83 milioni, circa 23 milioni di cittadini in più rispetto al nostro Paese. Delle due l’una: o Arcuri non conosce la matematica, o non conosce la geografia. Le 156mila dosi arrivate in Germania sono circa 15 volte quelle disponibili oggi in Italia, quindi secondo la ‘proporzione Arcuri’ i teutonici dovrebbero essere circa 900 milioni.
Perché la Germania ha ricevuto così tante dosi di vaccino. Federico Giuliani su Inside Over il 27 dicembre 2020. Il confronto è impari, si nota subito e non deve essere accompagnato da alcuna spiegazione. Il 26 dicembre l’Italia ha ricevuto le prime 9.750 dosi del vaccino anti Covid-19 realizzato da Pfizer-BioNTech. Una quantità minima, per avviare una campagna di vaccinazione irrisoria più che “simbolica”, come era stata definita dal commissario all’emergenza sanitaria Domenico Arcuri. La sensazione è che il governo italiano, grazie a una narrazione roboante, abbia trasformato in una vittoria trionfale quella che in realtà assomiglia molto a una chiara sconfitta sul campo. D’altronde, basta fare i conti in tasca agli altri Paesi europei per rendersene conto. Giusto per fare un esempio, c’è un abisso tra le poco meno di 10mila dosi di vaccino ottenute dall’Italia e le oltre 150mila (151.125 per l’esattezza) della Germania. Secondo Arcuri, il numero di dosi spettanti a ciascuna nazione avrebbe dovuto essere proporzionale alla popolazione presente in quegli Stati. La Germania, dall’Unione europea, “ha avuto le stesse dosi o poco più” dell’Italia e di tutti gli altri Paesi, ha dichiarato il supercommissario.
Un confronto impari. Se è importante considerare la popolazione, allora l’Italia conta circa 60 milioni di abitanti mentre la Germania 83 milioni. Il problema, come abbiamo visto, è che Roma ha ottenuto la miseria di 9.750 dosi. Importanti quanto vogliamo per lanciare un messaggio di speranza, per celebrare il primo passo di un percorso lunghissimo e via dicendo. Ma nettamente inferiori alle 150mila e passa dosi ricevute da Berlino. Calcolatrice alla mano, se la matematica non è un’opinione – e se davvero la variabile da considerare è la popolazione di una nazione – l’Italia avrebbe dovuto avere circa 10mila dosi, a fronte delle 12mila della Germania. E in effetti, per il Belpaese, così è stato. Ma per quale motivo i tedeschi hanno incamerato quasi 140mila dosi in più rispetto a quanto dovuto? Prima di provare a rispondere alla domanda, è utile fare un ulteriore confronto. Il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, è stato chiaro, parlando di un primo carico in arrivo il 26 dicembre (le famose 150mila dosi) e di altri tre carichi (per un totale di 1,9 milioni di dosi) in arrivo il 28 dicembre, il 30 dello stesso mese e nel corso della prima settimana di gennaio. Discorso completamente diverso per l’Italia, con le famigerate 9.750 dosi iniziali, a cui vanno aggiunte 470mila dosi a settimana a partire dal 28 dicembre. Per un totale di 8,749 milioni di dosi nel primo trimestre 2021 provenienti da Pfizer-BioNTech e 1,346 milioni da Moderna.
Due versioni. Facciamo un passo indietro. Il settimanale tedesco Der Spiegel aveva sollevato un polverone in merito a un presunto errore commesso dall’Europa in fase di acquisizione dei vaccini. Nei mesi scorsi Bruxelles ha stretto accordi con più aziende farmaceutiche per ottenere quanti più vaccini anti Covid possibili. La strategia seguita consisteva nel diversificare l’offerta, accordandosi con i player più promettenti in campo. Sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che la Commissione europea abbia scelto di non acquistare 340 milioni di dosi dei due vaccini più promettenti, quelli di Pfizer-BioNTech e Moderna, per rispettare le logiche commerciali. Dal momento che l’Ue intendeva suddividere le fette della torta dei vaccini in modo tale da garantire adeguate quote dell’affare a tutte le case farmaceutiche in corsa, l’inghippo capitato a uno dei player in gara, Sanofi, avrebbe mandato all’aria tutti i piani. Già, perché i francesi di Sano, che avrebbero dovuto ottenere la stessa quota degli altri, hanno riscontrato dei problemi. Morale della favola: il loro vaccino riceverà l’approvazione soltanto nel quarto trimestre del 2021. Risultato: l’Europa, di fatto, non ha acquistato diverse centinaia di milioni di vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna, nel frattempo prelevate da altri. L’indiscrezione è stata respinta dalla Commissione europea. Intanto però, secondo quanto riportato dalla Bild, il governo tedesco, probabilmente alla luce di quanto accaduto con Sano e per paura di restare all’asciutto, avrebbe acquistato più dosi dei vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna (altra indiscrezione per la quale conviene usare il condizionale). Detto altrimenti, in barba ai piani europei, Berlino potrebbe aver prelevato, per i fatti suoi, un bel po’ di vaccini. E questo mentre il resto dei Paesi europei stava aspettando (e rispettando) la suddivisione delle quote tra le case farmaceutiche in corsa. Arcuri ha tuttavia fornito un’altra spiegazione. L’ufficio del Commissario, ha sottolineato il Corsera, ha scritto in una nota che le dosi ricevute dalla Germania non sarebbero state 150mila, bensì 11mila. “Le 150mila che sono state consegnate fanno parte delle forniture successive che nel nostro Paese arriveranno a partire dal 28 dicembre. L’assegnazione è stata fatta a livello Ue sulla percentuale di popolazione, sia per il vax day sia per le forniture successive a regime. Il nostro piano di distribuzione prevede di avere 450mila dosi a settimana a partire da domani, che arriveranno direttamente nei luoghi di somministrazione”, si legge nella nota.
Corriere.it il 27 dicembre 2020. La campagna vaccinale contro il Covid — la malattia scatenata dal coronavirus — è cominciata oggi in tutta l’Unione europea, con qualche giorno di ritardo rispetto alla Gran Bretagna (che, pur essendo ancora parte dell’Ue, è partita in anticipo: e qui spieghiamo perché). Sta causando qualche polemica il numero di dosi ordinate da (e consegnate a) l’Italia per il primo giorno, e il confronto tra i diversi Paesi europei. In particolare, il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha parlato di un primo carico per il suo Paese di 151.125 dosi, arrivate il 26 dicembre. Tre altri carichi, per un totale di 1,9 milioni di dosi, dovrebbero arrivare in Germania il 28 dicembre, il 30 dicembre e durante la prima settimana di gennaio. In Italia sono arrivate, al momento, le prime 9.750 dosi. Il ministero della Salute ha però chiarito che le dosi consegnate a tutti i Paesi europei per il 27 dicembre sono in numero «simbolico»: la distribuzione vera e propria inizierà dalla settimana che inizia il 28 dicembre, e all’Italia arriveranno circa 470mila dosi ogni settimana. Secondo contratto, Pfizer-BionTech e Moderna dovrebbero consegnare all’Italia, nel primo trimestre 2021 rispettivamente 8,749 milioni di dosi e 1,346 dosi. Alla domanda sulla differenza sul numero iniziale di dosi tra l’Italia e la Germania, il Commissario Domenico Arcuri ha risposto al Corriere che «il numero di dosi simboliche per partire tutti assieme il 27 dicembre è proporzionale alla popolazione, la Germania dalla Ue ha avuto le stesse dosi o poco più». Di fronte ai dati forniti dalle autorità tedesche, che sembravano contrastare con questa affermazione, nel pomeriggio di domenica 27 dicembre l’ufficio del Commissario ha scritto in una nota che, per il vax day, la Germania avrebbe avuto non 150 mila ma 11mila dosi: «Le 150mila che sono state consegnate», si legge, «fanno parte delle forniture successive che nel nostro Paese arriveranno a partire dal 28 dicembre. L’assegnazione è stata fatta a livello Ue sulla percentuale di popolazione, sia per il vax day sia per le forniture successive a regime. Il nostro piano di distribuzione prevede di avere 450mila dosi a settimana a partire da domani, che arriveranno direttamente nei luoghi di somministrazione». Nei giorni scorsi, il settimanale tedesco Der Spiegel aveva sostenuto che l’Unione europea avesse «limitato» il numero di dosi prenotate a Pfizer e BioNTech — case farmaceutiche Usa e tedesche — per non sfavorire la francese Sanofi. La notizia era stata smentita dalla Commissione europea. In Germania, però, è cresciuta la pressione perché venissero acquistate più dosi di quel vaccino, anche al di fuori dei piani europei, e la Bild Zeitung aveva parlato di un orientamento in questo senso del governo. Queste dosi però non potrebbero arrivare prima della primavera: non è dunque questa la ragione dietro al numero così elevato di dosi con le quali la Germania inizia la sua campagna vaccinale rispetto ad altri Paesi europei. L’agenzia Reuters, il 24 dicembre, ha ricostruito la situazione delle prime consegne in diversi Paesi europei. Eccole:
Germania. Le dosi consegnate in una fase iniziale saranno, come detto, oltre 150 mila: poco meno di 10 mila per ognuno dei 16 Land. Secondo Arcuri, però, la Germania avrebbe usato per il primo giorno solo 11 mila dosi, in linea con il principio di proporzionalità rispetto alla popolazione. Entro la prima settimana di gennaio, la Germania riceverà 1,9 milioni di dosi.
Italia. Le prime dosi arrivate sono 9.750. Le prossime dosi saranno 470 mila ogni settimana.
Francia. In Francia, il 26 dicembre, sono arrivate 19.500 dosi. La Francia ha 67 milioni di abitanti.
Spagna. Secondo l’agenzia Reuters, la Spagna riceverà 350mila dosi la settimana, a partire dal 26 dicembre.
Svizzera. La Svizzera — che non fa parte dell’Unione europea — ha iniziato la sua campagna vaccinale contando su 107 mila dosi.
Portogallo. Entro la fine dell’anno saranno consegnate 80 mila dosi di vaccino.
Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Bulgaria. Le prime dosi - circa 10 mila — sono arrivate il 26 dicembre.
Ungheria. Il primo ministro, Viktor Orban, ha parlato di un primo carico di dosi di vaccino «sufficiente a vaccinare 35mila persone».
Danimarca. In Danimarca il primo carico è di 40 mila dosi.
Norvegia e Svezia. Il primo carico è di circa 10 mila dosi.
Serbia. La premier Ana Brnabic — che ha ricevuto la prima dose di vaccino del Paese il 24 dicembre — ha parlato di un primo carico di 4,875 dosi.
Questo articolo è stato aggiornato per dare conto della precisazione dell’ufficio del Commissario Domenico Arcuri.
Berlino, accordo bilaterale con Biontech per 30 mln dosi. (ANSA il 28 dicembre 2020. ) - "E' noto che la Germania abbia proceduto a un'ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la Biontech". Lo ha detto la portavoce del ministero della Salute tedesco rispondendo ad una domanda nel corso della conferenza stampa di governo a Berlino. (ANSA).
Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 28 dicembre 2020. Una quota simbolo uguale per tutti i 27 stati della Ue: 9.750 dosi per il V-day. Così era stato deciso, ma la Germania è riuscita a farsene consegnare 9.750 per ognuno dei 16 land. E quelle 151.125 fiale (una enormità rispetto agli altri Paesi ) che il ministro della Salute tedesco Jens Spahn ha annunciato di aver ricevuto il 26 dicembre hanno scatenato un putiferio di polemiche appena placato dalle rassicurazioni di Bruxelles («I vaccini saranno distribuiti entro dicembre seguendo la quota percentuale in base alla popolazione ») e dalle parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: «Presto avremo dosi sufficienti per tutti noi». Nessun chiarimento sulle quote extra per la Germania. Ma per il governo italiano non esiste nessun caso: le oltre 150.000 dosi già inviate in Germania sarebbero solo un anticipo sulla prima vera fornitura prevista tra oggi e domani in tutta Europa e non certo la quota tedesca per il V-day. Il rapporto tra dosi e popolazione previsto dal contratto tra Ue e Pfizer non è stato rispettato nella primissima fornitura non solo per la Germania ma anche per la Francia che di vaccini ne ha già ricevuti il doppio dell'Italia, 19.500, anche se da un sondaggio sembra che un francese su due non voglia usufruirne. «La trovo veramente una polemica assurda, mi sembra il complesso di Calimero, il numero di dosi assegnato alla Germania per il Vax-day era di 11.000 dosi e non 150.000. Che si riferiscono evidentemente alla prima vera fornitura che anche da noi arriverà oggi», taglia corto la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa. Dal ministero della Salute sottolineano: «I contratti con le aziende produttrici dei vaccini sono stipulati direttamente dalla Commissione europea per conto di tutti i Paesi membri dell'Unione. Ogni Paese riceve la quota percentuale di dosi in proporzione alla popolazione secondo le stime Eurostat. All'Italia è destinato il 13,46% di ogni fornitura. Questo equivale a 26,92 milioni di dosi dal contratto con Pfizer-Biontech, di cui 8,749 milioni nel primo trimestre. La consegna della prima delle forniture da 470 mila dosi settimanali è per la settimana che sta per iniziare». Insomma, il contratto è unico, le quote sono state stabilite, tutti riceveranno in proporzione alla popolazione e se qualcuno ha già avuto consegnate più dosi ne riceverà meno in seguito. Di certo, la Germania nei mesi scorsi aveva opzionato un numero ben più alto del vaccino prodotto dalla Pfizer con la tedesca Biontech, rilasciandone poi (quando sembrava che Astrazeneca tagliasse per prima il traguardo) una parte che è stata redistribuita tra tutti i 27 Stati membri della Ue. E, con 410 punti di vaccinazione già pronti, il governo tedesco ha fatto pressione per anticipare i tempi e, probabilmente, per ottenere prima di tutti una fornitura vera: quelle 151.125 dosi che - secondo il ministro Spahn diventeranno quasi due milioni entro la prima settimana di gennaio con tre nuove consegne. Anche se ieri, per un problema alla catena del freddo, in alcuni comuni della Baviera non si è riuscit i ad avviare le vaccinazioni. Saranno 12,5 milioni le dosi della Pfizer che la Ue dovrebbe distribuire entro la fine del 2020, 300 milioni quelle già ordinate all'azienda farmaceutica americana in attesa del verdetto dell'agenzia europea del farmaco sul vaccino di Moderna che potrebbe arrivare il 6 gennaio.
Liberoquotidiano.it il 28 dicembre 2020. La Germania se ne infischia delle regole e si accaparra 30 milioni di dosi di vaccino contro il coronavirus. Il Paese di Angela Merkel ha ammesso l'accordo bilaterale con Biontech (Pfizer) per l'acquisto dell'antidoto che tutti i paesi bramano. Di fatto la Germania ha rotto il patto suggellato tra la Commissione Ue e i Paesi membri per un acquisto collettivo dei vaccini. Alla faccia degli altri - è la sostanza - la Merkel si è portata avanti. Il tutto accade mentre l'Italia è alle prese con un procedimento disciplinare nei confronti di 13 camici bianchi. Questi sotto accusa per aver sostenuto su social e tv l'inutilità dei vaccini, o per aver espresso dubbi sull'esistenza del Covid.
Bruno Vespa, strepitoso vaffa alla Merkel per i vaccini: "Solo i tedeschi", così umiliano gli italiani. Libero Quotidiano il 29 dicembre 2020. L'Europa? Solo balle, solo belle parole. L'ultima drammatica e lampante dimostrazione è arrivata poche ore fa, con la Germania di Angela Merkel che ha rotto a tempo record il patto europeo sull'acquisto di vaccini agendo da sola, con patti ed acquisti privati, in barba a quanto era stabilito a livello comunitario nella battaglia contro il coronavirus. Come sempre, Berlino mostra i muscoli e gli altri, muti, subiscono. Una fastidiosa vergogna. Un caso che mette in luce tutti i limiti, eufemismo, di questa Unione Europea. Un caso che per inciso scatena anche Bruno Vespa, che punta il dito su Twitter, laddove cinguetta: "I naufraghi europei aspettano disciplinatamente in fila di salire sulle scialuppe di salvataggio. Poi arriva un panfilo e salgono a bordo solo i tedeschi...", conclude allusivo. E chi ha orecchie per intendere, intenda.
Mauro Evangelisti per ''Il Messaggero'' il 29 dicembre 2020. La Germania ha già vaccinato più del doppio di persone dell’Italia. Secondo la tabella diffusa sul sito dell’Istituto Robert Koch (l’ente ufficiale che si occupa di malattie infettive in Germania) sono già 21.566, nel nostro Paese siamo a 9.750. Qualcosa non torna. «È noto che la Germania abbia proceduto a un’ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la BioNTech» dice il portavoce del Ministero della Salute tedesco. Basta questa frase a gettare altra benzina sul fuoco della polemica, iniziata già il giorno prima, in occasione del Vaccine day, quando in Italia sono state inviate 9.750 dosi, in Germania 150.000. Interviene la Commissione europea che precisa: «Tutti gli Stati membri riceveranno le dosi del vaccino contro la Covid-19 prodotto da Pfizer e BionTech in dicembre, sulla base della stessa allocazione pro quota, che viene stabilita utilizzando una chiave di distribuzione basata sulla popolazione». All’Italia, proprio in base al numero di abitanti, deve arrivare dunque il 13,4 per cento delle dosi acquistate dalla Commissione europea. Sulla carta funziona così, non ci dovrebbero essere eccezioni, nella pratica la frase del Ministero della Salute della Germana sulle «30 milioni di dosi» sembra dire altro. Certo, BioNTech è tedesca, è stata sostenuta dal governo della Merkel e ha annunciato altri investimenti: a febbraio farà partire la produzione del vaccino anti Covid, realizzato insieme a Pfizer, anche in un nuovo stabilimento a Magdeburgo. Questa corsia preferenziale con il governo tedesco non sorprende. Però, se venisse confermata, violerebbe quanto scritto il 18 giugno in un documento della Commissione europea («Accordo degli stati membri per il reperimento del vaccino contro Covid-19»). Allora si decise un’azione congiunta dei 27 paesi, in modo da avere una maggiore forza contrattuale. All’articolo 7 c’è scritto chiaramente: «Obbligo di non negoziare separatamente». Se la Germania ha siglato un accordo bilaterale con BioNTech, quell’intesa non è stata rispettata, salvo che il contratto con l’azienda tedesca non sia precedente. L’Italia, con i vaccini promessi fino da Pfizer-BioNTech (l’unico ad oggi autorizzato dall’Ema, l’agenzia europea) e da Moderna (il via libera dovrebbe arrivare il 4 gennaio) non ha scorte sufficienti per immunizzare in tempi rapidi il 70 per cento della popolazione. Rischia di restare a guardare altri Paesi, come Germania e Regno Unito, che potrebbero vaccinare più rapidamente i propri cittadini, uscire prima dalla morsa della pandemia e dalla crisi dell’economia. Il governo italiano sta sostenendo la trattativa, sempre a livello di Commissione europea, per aumentare la fornitura di Pfizer-BioNTech del 50 per cento. Nuovo flash-back: l’11 novembre la Commissione europea firmò un contratto con le due aziende per 200 milioni di dosi (27 milioni destinate all’Italia), ma c’era una opzione per altre 100 milioni (e se si riuscirà a ottenerle, aumenterà per il nostro Paese il quantitativo di 13 milioni). La stessa trattativa è in corso con Moderna. Ma se la Germania si smarca, sfruttando il rapporto privilegiato con BioNTech, tutto si complica. Anche Moderna, finanziata pesantemente dall’amministrazione Trump, ha un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e non sarà semplice incrementare la fornitura già prevista che per l’Italia è di 10,8 milioni di dosi. Perfino più labirintico il percorso verso AstraZeneca, colosso anglosvedese con il quale l’Italia aveva un rapporto privilegiato, visto che il vaccino è stato sviluppato dall’Università di Oxford in collaborazione con un’azienda del nostro Paese, Irbm. Il 13 giugno fu annunciato da Italia, Olanda, Francia e Germania un accordo con AstraZeneca per 400 milioni di dosi. Successivamente (ed ecco il documento della Commissione europea della settimana successiva) fu però decisa una linea di azione comune per tutti i Paesi Ue. Oggi AstraZeneca, dopo alcuni intoppi della sperimentazione, non ha ancora l’autorizzazione. Nel Regno Unito danno per scontato che in queste ore arriverà il via libera dell’autorità regolatoria britannica. I media parlano di 10 mila operatori pronti a fare partire, dal 4 gennaio, la campagna di vaccinazione con AstraZeneca (100 milioni di dosi), in parallelo a quella con le fiale di Pfizer-BioNTech. In sintesi: Usa e Regno Unito corrono, la Germania mette la freccia, l’Italia non sa quante dosi, realmente, avrà a disposizione nei prossimi mesi. Molto dipende da cosa dicono i documenti sull’esito della sperimentazione, ma se Ema autorizzerà AstraZeneca, entro fine gennaio saranno consegnate almeno 5 milioni di dosi preparate in uno stabilimento di Anagni. Il lotto totale destinato, sulla carta, all’Italia è di 40 milioni.
Vaccino Covid, sugli acquisti della Germania è intervenuta l’Ue. Per l’Italia 13,5 milioni di dosi in più. Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 30/12/2020. Un giallo che ricorda i tempi della Guerra fredda. C’è stato un momento, ieri mattina, in cui siamo arrivati a un passo dall’incidente diplomatico. Se non di più. Il governo italiano stava pensando di protestare formalmente con la Germania, per la scelta di acquistare 30 milioni di dosi del vaccino anti Covid prodotto dalla Pfizer-BioNTech. Una decisione che rischiava di far saltare il principio di solidarietà tra i Paesi europei, costruito faticosamente con gli acquisti centralizzati da parte di Bruxelles, da dividere poi tra gli Stati membri. Una linea sempre predicata a favore di telecamere ma poi spesso sacrificata al primo refolo di interesse nazionale. L’incidente alla fine non c’è stato. Ma le proteste dell’Italia, assieme a quelle di molti altri Paesi europei, sono arrivate alla commissione europea. E forse le nostre sono state più accese di altre. Se la corsa al vaccino si trasformasse davvero in un liberi tutti e ognuno per sé, per l’Italia sarebbe un disastro. È vero che il governo sarebbe pronto a seguire la stessa strada imboccata dalla Germania, con accordi separati che portino dosi aggiuntive rispetto ai 202 milioni già opzionati via Bruxelles. Ma è vero anche che la dote aggiuntiva della Germania può contare sul fatto che un ramo di Pfizer—BioNTech è tedesco. Mentre l’Italia, almeno per ora, non ha aziende nazionali che producano il vaccino.
Ma nel primo pomeriggio arriva il colpo di scena. . Anzi, la toppa. A parlare è la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, non a caso tedesca: «Abbiamo deciso di prendere altre 100 milioni di dosi aggiuntive del vaccino Pfizer-BioNTech, già in uso. Avremo quindi 300 milioni di dosi di questo vaccino, che è stato valutato sicuro ed efficace. Altri vaccini seguiranno».
Non solo. Perché poche ore dopo un portavoce della commissione dice che «per quanto ne sappiamo nessuno si è assicurato dosi addizionali fuori dall’accordo Ue».
Cosa è successo, allora?
Versione buonista, la Germania si sarebbe portata avanti, bruciando l’annuncio della commissione perché quei 30 milioni, in realtà 27, rientrano nel nuovo accordo europeo. Oppure, versione a telecamere spente, la commissione è intervenuta per evitare che la fuga in avanti della Germania facesse saltare tutto. In realtà la quota tedesca sui 100 milioni aggiuntivi annunciati da Von der Leyen sarebbe più bassa: circa 20 milioni contro i 30 che hanno fatto esplodere il caso. Ma in ogni toppa i segni della cucitura restano visibili. Mancano solo lo spionaggio e il controspionaggio. E non è detto che non ci siano stati.
Germania oppure no, per l’Italia resta la necessità di accelerare sulle forniture. Tra stanotte e domattina, dopo l’ultima modifica del calendario da parte di Pfizer-BioNTech, dovrebbero arrivare altre 470 mila dosi nei 203 siti attivi per ora. Nelle quattro settimane di gennaio la media dovrebbe restare quella, 470 mila dosi. Resta il nodo degli altri vaccini. Per AstraZeneca le notizie non sono positive visto che Ema, l’ente regolatorio europeo, ha confermato che il via libera non arriverà entro gennaio. Noi ne abbiamo opzionato 40,38 milioni di dosi. Il 6 gennaio, invece, dovrebbe arrivare il via libera per Moderna. Abbiamo opzionato 10,7 milioni di dosi e, proprio per compensare in parte il ritardo di AstraZeneca, abbiamo chiesto di raddoppiarle. Due buone notizie arrivano invece sul vaccino Pfizer-BioNTech, l’unico utilizzabile al momento. Intanto i 13,5 milioni di dosi aggiuntive, la fetta italiana dei 100 milioni annunciati ieri da Von der Leyen. Non solo. Il fatto che in ogni fiala ci siano non 5 ma 6 dosi significa che potremo avere Le sei dosi, però, possono essere estratte solo con le siringhe di precisione, le famose luer lock raccomandate dalla stessa Pfizer. Le stesse che ha scelto di acquistare il commissario Domenico Arcuri, a suo tempo contestato visto che sono più costose di quelle normali, scelte da altri Paesi, che però consentono di estrarre solo cinque dosi. Per le siringhe più costose abbiamo speso 1,7 milioni in più. Ma le dosi aggiuntive ci consentono di risparmiare 63 milioni. A conti fatti, conviene.
V-DAY FLOP IN BAVIERA. Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio dell’Arti” il 29 dicembre 2020. Mille dosi del vaccino contro il Covid, destinate ad alcuni distretti della Baviera, erano in contenitori frigo che non avrebbero conservato la temperatura necessaria al trasporto del preparato. Il preparato di Pfizer e BioNTech – che, come quello di Moderna, si basa sulla rivoluzionaria tecnologia mRna, cioè Rna messaggero – va conservato a una temperatura di -70 gradi centigradi. Ora gli amministratori di alcuni distretti della Baviera hanno chiesto a Pfizer e BioNTech se il vaccino possa ancora essere utilizzato senza problemi. In caso di risposta negativa, hanno assicurato, i lotti non saranno inoculati.
Vaccino, errore in Germania: 5 dosi a testa per 8 persone. Notizie.it il 28/12/2020. In Germania è stato commesso un errore molto grave durante il V-Day: la somministrazione di 5 dosi a testa per 8 dipendenti di una casa di riposo. In una casa di riposo di Stralsund, in Germania, otto dipendenti hanno ricevuto cinque dosi di vaccino anti-Covid Pfizer BioNTech a testa, per errore. Lo ha reso noto il quotidiano tedesco Spiegel, spiegando che l’incidente è avvenuto proprio durante il V-Day, giornata in cui l’Europa si è dedicata alle prime vaccinazioni. Secondo quanto reso noto da Stefan Kerth, amministratore del distretto di Vorpommern-Rügen, otto dipendenti della casa di riposo hanno ricevuto cinque dosi di vaccino a testa e quattro di loro sono stati ricoverati in ospedale a scopo precauzionale dopo aver manifestato sintomi simil-influenzali non gravi. Le loro condizioni per il momento non destano preoccupazione e sono monitorati dai medici. Come hanno dichiarato i dirigenti sanitari del distretto di Vorpommern-Rügen, il produttore del vaccino Pfizer-BioNTech ha spiegato che dosi maggiori del farmaco erano state testate su soggetti di prova durante la fase 1 senza gravi conseguenze.
Per il momento l’unica reazione è stata caratterizzata da sintomi simili ad un influenza, da lievi a moderati. Si tratta di eventi avversi di carattere transitorio, mentre non sono stati segnalati degli eventi permanenti. Gli otto dipendenti della Rsa possono stare tranquilli. Nonostante la dose di vaccino anti-Covid moltiplicata per cinque, gli effetti collaterali sembrano non essere preoccupanti, almeno per il momento. Tutti i vaccinati sono sotto costante monitoraggio medico. Una portavoce di BioNTech ha voluto rassicurare spiegando che nei test sono state somministrate quantità di farmaco fino a 100 microgrammi senza avere conseguenze. La dose abituale di vaccinazione è di 30 microgrammi.
Iniettate cinque dosi di vaccino Cos'è successo dopo le punture. Dalla Biontech si sono affrettati a far sapere che i sovradosaggi non hanno mai prodotto gravi effetti collaterali, anche se in effetti si parla di 100 microgrammi contro i 150 che sarebbero stati inoculati agli 8 dipendenti. Federico Garau, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. La campagna di vaccinazione in Germania non ha fatto neppure in tempo ad iniziare che si sono registrati prontamente i primi inconvenienti. Stando a quanto riportato dalle principali agenzie di stampa e confermato poi da Stefan Kerth, amministratore del distretto di Vorpommern-Rügen (nella Germania nordorientale), ad otto dipendenti di una casa di riposo sarebbe stata somministrata una dose di vaccino ben cinque volte superiore al normale, quantificabile in 30 microgrammi. In parole povere, praticamente, alle vittime è stato inoculato l'intero contenuto di una delle fiale in cui viene trasportato e distribuito il siero prodotto da Pfizer-Biontech, ognuna delle quali contiene, per l'appunto, cinque dosi. L'incidente, come riportato da Der Spiegel, ha visto coinvolti otto dipendenti di una casa di riposo di Stralsund (città del Land tedesco del Meclemburgo-Pomerania Anteriore) e si è verificato proprio nella giornata di ieri, vale a dire quella dedicata in tutta Europa alle prime e sperimentali vaccinazioni anti Covid-19 operate su personale medico e sanitario. In realtà in Germania le prime inoculazioni sono avvenute nel corso di sabato 27 dicembre, ma è proprio durante la sessione di domenica che si sono registrati, come riferisce Agi, i primi inconvenienti. L'amministratore del distretto ha riferito alla stampa che le vittime sono state prontamente informate dell'incidente ed hanno ricevuto immediata assistenza sanitaria. Quattro di esse sono state trattenute in ospedale per effettuare ulteriori accertamenti, in quanto lamentavano la comparsa di effetti influenzali. I restanti quattro dipendenti della casa di riposo, invece, avrebbero potuto far ritorno a casa dall'ospedale, non avendo per il momento manifestato alcun sintomo preoccupante. "Sono profondamente dispiaciuto per questo incidente", ha dichiarato Stefan Kerth, garantendo ai giornalisti che si sarebbe trattato di un caso isolato. A correre ai ripari con dichiarazioni accomodanti la stessa casa farmaceutica produttrice del siero. Il produttore Pfizer-Biontech ha infatti spiegato che anche durante le fasi sperimentali del vaccino (nella fase 1, per la precisione), era stato testato un sovradosaggio del medicinale sulle cavie umane, senza che queste ultime sviluppassero degli effetti collaterali con gravi conseguenze. Per ora, dato che la sperimentazione si è forzatamente dovuta arrestare al breve-medio termine, si è assistito a effetti collaterali di carattere passeggero, con sintomi influenzali di non grave entità. Il portavoce della Biontech ha comunque parlato di test effettuati su dosi fino a 100 microgrammi, mentre le 5 contenute nel flacone dovrebbero raggiungere i 150 (come detto, la dose per un individuo corrisponde a 30 microgrammi). Nei prossimi giorni si potrà, probabilmente, sapere di più.
Cristina Marrone per corriere.it il 29 dicembre 2020. Un’infermiera spagnola è risultata positiva al coronavirus 24 ore dopo aver ricevuto la prima dose del vaccino di Pfizer/BioNTech. Lo riporta El Pais. La donna fa parte della squadra di vaccinatori che ha iniziato domenica scorsa a iniettare il siero ai residenti di una casa di riposo a Lleida, in Catalogna. Un test per il coronavirus effettuato il giorno successivo ha dato esito positivo. Le altre quattro infermiere dell’equipe e i 66 ospiti della struttura sono stati posti in isolamento precauzionale. Un’altra infermiera impiegata nella casa di riposo è risultata positiva ieri ma il dipartimento della Salute catalano ha spiegato che non c’è relazione tra i due casi. Le autorità non sanno spiegare cosa abbia originato il contagio. Le infermiere indossavano tute, guanti e doppia mascherina e non erano state a contatto con gli anziani per i 15 minuti che i protocolli medici definiscono contatto stretto con un positivo. Il Dipartimento della Salute non ha eseguito test diagnostici prima dell’inizio della vaccinazione sugli oltre 2.000 infermieri che partecipano al programma di immunizzazione di massa. Secondo una portavoce di Sanità si tratta di professionisti che seguono i protocolli dei rispettivi centri sanitari.
Che cosa può esser successo?
Prima di tutto è da chiarire che la protezione dal coronavirus nei primi 7 giorni dall’inoculo della prima dose del vaccino Pfizer è nulla. La protezione aumenta nel tempo ed è «completa» una settimana dopo l’inoculo della seconda dose (che avviene a distanza di 21 giorni dalla prima). Quindi nei primi giorni dopo il vaccino, come avviene anche con gli altri vaccini, non si è protetti. Ma c’è di più. L’infermiera si è positivizzata 24 ore dopo la vaccinazione: questo significa che si è infettata 1-2 giorni prima dell’immunizzazione. Insomma quando si è vaccinata era già infetta e nulla può fare il vaccino (che è preventivo) a infezione avvenuta. Il caso insomma — come spiega Silvio Garattini, presidente dell’IStituto Mario Negri — «non sorprende e non deve allarmare. Il vaccino Pfizer, l’unico distribuito al momento in Europa, ha bisogno per essere efficace di due dosi: la prima e poi un richiamo dopo 21 giorni. Quindi visto che la donna ha ricevuto solo la prima dose è chiaro che non ha ancora sviluppato immunità. E dal giorno della prima dose ne devono passare 28 per essere ragionevolmente tranquilli». La raccomandazione — spiega all’Agi — «è quella di mantenere le misure prudenziali, a partire dalle mascherine, anche una volta vaccinati. Perché sappiamo che il vaccino nel 90-95% dei casi protegge sicuramente dallo sviluppare i sintomi della malattia, che ovviamente è la cosa più importante, ma non si esclude che ci si possa comunque infettare, seppure con una carica virale bassissima. Servirà un numero di persone vaccinate sufficiente, e un lasso di tempo congruo, per scoprirlo».
(ANSA il 30 dicembre 2020) Un'infermiera che faceva parte di una squadra per la vaccinazione contro il Covid in Spagna è risultata positiva circa 24 ore dopo avere inoculato il farmaco ad alcuni anziani di una casa di riposo nella città di Lleida. Lo riferisce El Pais, aggiungendo che le quattro colleghe che la accompagnavano sono state messe in isolamento a scopo preventivo, insieme ai 66 ospiti della struttura. L'infermiera aveva iniettato il vaccino agli anziani domenica nella casa di riposo Balàfia I. Fonti del Dipartimento della Salute hanno assicurato che il rischio di contagio per i pazienti che sono stati vaccinati è minimo, perché le infermiere che facevano parte della squadra erano adeguatamente protette con camici, guanti e doppia mascherina e non sono rimaste in contatto con gli anziani ospiti più di 15 minuti. (ANSA).
Mauro Evangelisti e Antonio Pollio Salimbeni per “Il Messaggero” il 30 dicembre 2020. Dati di ieri: la Germania ha vaccinato oltre 41mila persone, l’Italia poco più di 8mila. Basterebbero questi due numeri per spiegare che la ritrovata armonia dell'Europa, nella sfida del secolo contro il coronavirus, non è così tanto solida. E a Berlino già in partenza sono arrivate più fiale. L'altro giorno il portavoce del ministero della Salute tedesco ha confermato che la Germania balla anche da sola: ha acquistato 30 milioni di dosi di Pfizer-BioNTech, al di fuori del patto dei 27 Paesi della Ue. Ma le nuvole vengono da lontano, da quando la Germania aveva guardato con diffidenza alle pressioni della Francia di Macron per non superare il quantitativo corposo di dosi di vaccino sviluppato dalla transalpina Sanofi. Ma l'11 dicembre il colosso farmaceutico ha annunciato: la sperimentazione si è rivelata insoddisfacente, se ne riparlerà a fine 2021. Der Spiegel, settimanale tedesco, ha spiegato che il governo federale era stato critico verso la scelta della Commissione europea di chiudere il negoziato con BioNTech-Pfizer (consorzio tedesco-americano) per 300 milioni di dosi a fronte di un'offerta di mezzo miliardo. Il ministro Spahn avrebbe chiesto un incremento ma, secondo il settimanale, sono emerse resistenze di altri Paesi leggasi Francia perché la commessa Sanofi/GSK, consorzio franco-britannico, prevedeva 300 milioni di dosi, e non poteva essere superata da altri gruppi. Tesi respinta come falsa da Bruxelles. Der Spiegel: «L'Unione europea ha comprato pochi vaccini, in ritardo e dai produttori sbagliati».
LE TAPPE
Promemoria: l'Europa per i Paesi membri ha opzionato 6 tipi differenti di vaccini anti Covid, per un totale di 2 miliardi di dosi. Il quantitativo più rilevante è di Johnson&Johnson (che però sta completando la sperimentazione), seguono AstraZeneca (non si sa quando ci sarà l'autorizzazione) e appunto Sanofi/Gsk. Paradossalmente i due vaccini che si sono dimostrati vincenti - Pfizer-BioNTech e Moderna - sono quelli per i quali la Commissione europea ha acquistato meno dosi. Angela Merkel, che su BioNTech (centro di eccellenza di biotecnologie fondato da due scienziati tedeschi di origine turca) ha investito molte risorse, e pressata anche dalle critiche, ha deciso di passare al contrattacco. Ha concluso un acquisto di altre 30 milioni di dosi da Pfizer-BioNTech, che si aggiungono ai 55,8 milioni di cui ha diritto dalla fornitura acquisita dalla Ue. La Germania sta trattando anche con Moderna. Pensare che l'Italia alla strategia unitaria dell'Europa ha creduto: il 13 giugno, con squilli di trombe, aveva annunciato che, insieme proprio a Germania, ma anche a Francia e Olanda, aveva raggiunto un accordo con AstraZeneca. Successivamente si è ampliata l'alleanza a tutti i 27 Paesi membri, ed ecco il famoso documento del 18 giugno: decisione della Commissione sull'approvazione dell'accordo con gli Stati membri sulla fornitura di vaccini Covid-19. Viene dato mandato alla Commissione di trattare. E all'articolo 7 si legge: «Obbligo di non negoziare separatamente. Firmando il presente accordo, gli Stati membri partecipanti confermano la loro partecipazione alla procedura e concordano di non avviare le proprie procedure in anticipo per l'acquisto del vaccino con gli stessi produttori». Una volta siglato il contratto da parte della Commissione europea, però, i Paesi membri possono concluderne altri con lo stesso produttore. Questo ha fatto la Germania, mentre l'Italia ha preferito restare sotto il solo e stretto ombrello della Commissione europea. Angela Merkel non ha violato formalmente l'intesa, ma certo il problema politico permane.
REAZIONI.
E la Commissione Europea come reagisce? «Per quanto ne sappiamo nessuno si è assicurato dosi aggiuntive al di fuori dell'accordo Ue» fa sapere. Per Bruxelles non c'è alcun problema e, d'altra parte, nessun Paese ha criticato quantomeno pubblicamente la mossa di Berlino. Si sapeva che la Germania si stava muovendo, ma aveva anche assicurato che le trattative sarebbero cominciate solo dopo aver accertato che le aziende sarebbero state in grado di soddisfare la domanda di tutti gli Stati membri della Ue. Sta di fatto che la scelta tedesca ha creato malumore a Roma e Madrid, anche se non lo hanno indicato apertamente. Dell'arrivo in Ungheria di 6 mila dosi del vaccino russo che non ha il via libera dell'autorità farmaceutica Ue, intanto, non si occupa nessuno.
Così le Forze armate hanno evitato problemi. Ma la passerella ci è costata 500mila euro. Per il trasporto utilizzati aerei di Aeronautica, Marina ed Esercito. Arcuri non ha avvertito quale valico presidiare per l'ingresso delle dosi in Italia. Chiara Giannini, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. Lo show mediatico del commissario Domenico Arcuri è partito già al confine con l'Italia, dove un furgoncino simile a quello dei surgelati, con due pinguini disegnati sopra, è arrivato (senza scorta dal Belgio) per raggiungere l'ospedale Spallanzani di Roma. In Italia ci devono essere potenti terroristi no vax, visto il grande dispiegamento di forze (dell'ordine) messo in campo. Ciò che non sapete è che l'organizzazione era così carente che da dove arrivasse il camioncino neanche chi doveva accoglierlo lo sapeva. La versione ufficiale è che per depistare eventuali malintenzionati ai tre valichi alpini sono state schierate intere pattuglie dei carabinieri. In realtà, la task force del ministro della Sanità non è stata neanche in grado di avvertire da dove arrivassero i vaccini, poi passati per il Brennero. Santi uomini in divisa, che hanno sempre una soluzione a tutto e che hanno previsto un piano per ogni emergenza. Il furgoncino è arrivato a Roma a tarda serata del 25, giorno di Natale. Ma qualcuno dice che lo stesso Arcuri avesse indicato il 24, creando confusione tra chi doveva accogliere. Perché dirottare il convoglio sulla caserma dei carabinieri di Tor di Quinto, orgogliosamente scortata dal Nucleo radiomobile dell'Arma di Roma e dalla Sos (squadra operativa di supporto) Lazio? Non è dato di saperlo. Ma l'impressione è che l'intero Ambaradan puntasse ai tg nazionali, tanto che orde di giornalisti, la mattina del 26 dicembre, si sono schierate a partire dalle 8 di fronte allo Spallanzani per aspettare un convoglio arrivato alle 11.15. Stessa scena nel pomeriggio, con i cronisti pronti dalle 16 a Pratica di Mare per vedere la partenza delle circa 7.500 dosi destinate alle varie regioni. I mezzi sono arrivati intorno alle 20. Le ragioni? Arcuri e i suoi non davano l'ok alla partenza dall'istituto di malattie infettive. E vogliamo parlare delle spese? Tutto a carico della Pfizer, dal Belgio a qui, ma non i costi degli aerei. Circa 10mila euro per ora di volo solo per i C-27 dell'Aeronautica. Circa 7mila euro per i Dornier dell'Esercito e poco più di 1.500 euro a ora per il P-180 della Marina. Solo per il carburante. Aggiungete costi del personale, manutenzione e usura dei mezzi e i 500mila euro sono raggiunti. Per il trasporto di 6 scatole ad aereo. Molti si chiederanno perché il furgoncino non si sia fermato a Milano o Torino. Sarebbe stato più semplice (e meno costoso) da lì, trasportare i vaccini alle destinazioni del nord. La risposta? «Lo Spallanzani è simbolo della lotta al Covid». Insomma, una conferma dello show nello show, come se l'Italia, in periodo di crisi, avesse soldi da spendere. Mettete, inoltre, che Arcuri al Corriere della sera ha detto che la Germania ha avuto 150mila dosi e noi solo 9.750 perché il calcolo va in base «alla popolazione» e capirete che il commissario pensa che in Germania risiedano 900 milioni di tedeschi. La verità è che la task force di Arcuri fa acqua da tutti i buchi. Buchi tappati da quelle forze armate che da inizio emergenza danno il sangue per garantire la sicurezza degli italiani. «Si dovrebbero ricordare tutti i giorni delle Forze armate - chiarisce il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri - non solo quando devono soccorrere persone e popolazioni. Vedere che la Folgore deve portare quattro vaccini in giro mi pare una volontà di spettacolarizzare la questione». La domanda è d'obbligo: perché con un sistema così efficiente come quello della Difesa il governo non ha affidato ai militari l'intera gestione dell'emergenza? La risposta sta in una politica fatta di ritardi, show mediatici tutti italiani (ne avete visto uno simile in qualsiasi a altro Paese d'Europa?) e pressappochismo che danneggia un'Italia che non ne può più. Usi un C-27 che può trasportare fino a 11,6 tonnellate di materiale per qualche chilo di vaccini? Ti devi dimettere. E lasciare spazio a chi l'emergenza la sa gestire davvero. Senza bisogno di primi piani da grande schermo.
FA per “il Giornale” il 28 dicembre 2020. Efficace, sicuro e molto più economico. Dopo il simbolico V-day europeo l'Italia aspetta le altre dosi Pfizer e quelle di Moderna che è in dirittura d'arrivo ma guarda soprattutto al via libera alla profilassi di Astrazeneca. Non soltanto perché una fiala costa meno di 3 euro ma anche perché il nostro paese ha opzionato 40 milioni di dosi dell'antidoto prodotto in collaborazione con l'università di Oxford. E dalla Gran Bretagna arriva la conferma di un probabile ok entro il 31 dicembre per poi partire con la somministrazione di massa già il 4 gennaio. Ieri Pascal Soriot, amministratore delegato della società farmaceutica, ha ribadito che è stata trovata «la formula vincente» per un vaccino efficace al 95 per cento. E l'efficacia varrebbe per tutti: la conferma dopo una sperimentazione sulla popolazione over 70 che quindi sgombererebbe il campo dai timori che il vaccino non sarebbe adatto per la popolazione più anziana che è poi quella che ne ha più bisogno. Il vaccino di Oxford, sviluppato in collaborazione con la Irbm di Pomezia, assicura Soriot, «è in grado di eliminare al 100 per cento i sintomi gravi di Covid19». Si eviterebbero dunque le complicazioni respiratorie che sono poi quelle che portano i contagiati in rianimazione. «Finora riteniamo che il vaccino sia efficace anche contro la variante inglese del virus, ma non possiamo esserne certi, così condurremo dei test», ha precisato l'ad. Il vaccino messo a punto da Astrazeneca sfrutta un meccanismo tradizionale utilizzando un virus che causa il raffreddore negli scimpanzè, reso innocuo. Al virus viene agganciata la proteina Spike di Sars Cov2. Una volta iniettato il vaccino, il nostro sistema immunitario riconosce la proteina e impara a debellarla, proteggendosi così da una eventuale infezione. La profilassi di Oxford resta stabile ad una temperatura molto più gestibile di quella necessaria per il vaccino Pfizer- BioNtech. Può essere stoccato, trasportato e maneggiato tra i 2 e gli 8 gradi centigradi e non a meno 70 come richiesto dal concorrente Pfizer. AstraZeneca si è impegnata a distribuire l'antidoto al costo di produzione: 2,8 euro a dose. Si tratta di circa un decimo del prezzo di mercato di Moderna e Pfizer. Per questo potrà essere facilmente acquistato e utilizzato nei Paesi più poveri. Il ritardo nell'arrivo del vaccino è conseguente ad un errore nella somministrazione che ha poi però rivelato che mezza dose seguita da una intera protegge in modo più efficace dal virus. Dunque dopo essere stato il primo paese occidentale ad aver dato il via alle vaccinazioni con Pfizer- BioNtech all'inizio di dicembre, il Regno Unito partirà in pole position anche con Astrazeneca. Se le sperimentazioni in atto andranno a buon fine l'Italia potrà contare su 26,92 milioni di dosi per il contratto con Johnson&Johnson; 40,38 milioni di dosi da Sanofi; 30,28 milioni di dosi da CureVac. Ma tutte queste sperimentazioni procedono molto più a rilento. Dovrebbe invece arrivare forse entro l'estate anche il vaccino tutto italiano di Reithera in collaborazione con lo Spallanzani. Uno dei 65 vaccini in fase clinica che ha completato la fase 1.
ANSA il 29 dicembre 2020. Un carico di 470mila dosi che rischia per ora di restare in Belgio a causa del maltempo, bloccato per la neve. Slitta almeno di un giorno nelle varie regioni l'arrivo del vaccino anti-Covid della Pfizer, con le regioni che al momento restano in attesa di riempire di scorte i loro hub, per poi rifornire ospedali ed Rsa, che saranno sorvegliati speciali per le forze dell'ordine. Per le strutture sono infatti pianificati dei Piani dei Prefetti, pronti a mettere al sicuro i carichi da qualsiasi tentativo di furto. Dalle 65mila dosi in Lombardia alle 44mila del Lazio, 40mila in Piemonte e 16mila in Liguria, in queste ore è comunque tutto pronto per "inondare i sistemi sanitari di vaccini", così come annunciato due mesi fa dal governo. Dopo il V-Day, in tutte le Regioni il secondo carico era previsto in queste ore, ma Piemonte e Liguria hanno già ufficializzato lo slittamento: "ragioni logistiche legate all'ondata di neve in tutta Europa", spiegano dalle due Regioni dopo una riunione in videoconferenza con il Commissario per l'Emergenza, Domenico Arcuri. Le prime dosi del nuovo lotto dovrebbero comunque arrivare entro il 30 dicembre ed essere distribuite fino al 31. E restano un giallo i tempi annunciati dalla Pfizer, che consegnerà con i propri mezzi i vaccini in 300 punti sparsi sul territorio. Il colosso farmaceutico, alcune ore prima che trapelassero i rischi di uno slittamento anche in Italia, aveva annunciato ritardi di un giorno anche in Spagna "a causa di problemi logistici" della società in Belgio smentendo le ipotesi di ritardo per l'Italia. Secondo alcune voci nelle prossime ore l'arrivo delle dosi era previsto, attraverso la gestione di una società di spedizioni tedesca, in diversi aeroporti italiani. Ma dalla struttura commissariale per l'Emergenza confermano che le fiale saranno in viaggio custodite su furgoni che partiranno da Lipsia. Il Commissario Arcuri ha avuto "conferma dalla Pfizer che le prime 469.950 dosi del vaccino, previste per l'Italia dal contratto sottoscritto dall'Unione Europea in questa settimana, arriveranno nel nostro Paese a partire da domani". La consegna, effettuata direttamente dalla Pfizer presso i primi 203 siti di somministrazione individuati dal Commissario Straordinario in accordo con le Regioni, proseguirà come comunicato da Pfizer, "nella giornata del 30 dicembre e si concluderà il 31 dicembre", aveva spiegato il Commissario Domenico Arcuri dopo aver avuto la conferma dell'arrivo di 469.950 dosi già i queste ore. E ad essere blindati saranno ospedali e reparti farmaceutici delle strutture dove saranno conservate le fiale. Prefetti e Comitati provinciali per l'ordine pubblico entreranno a breve in campo per la copertura dei servizi di sorveglianza e di scorta delle dosi nei vari territori, da parte di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza: dalla fase di distribuzione delle dosi una volta uscite dagli hub militari a quella di stoccaggio nelle strutture sanitarie. Il Viminale ha un canale aperto con il Commissario attraverso precisi protocolli. La società di spedizione e la stessa Pfizer comunicano con il Commissario, che a sua volta riferisce il calendario e la destinazione agli Interni, pronti a coordinare il tutto sui territori con una serie di staffette degli agenti nei vari luoghi, anche durante il viaggio dei vari carichi. E non si esclude che nelle prossime ore possa essere diffusa una circolare ai Prefetti in merito. Le forze dell'ordine daranno il proprio supporto anche per le vaccinazioni: 310 medici della Polizia sono a disposizione per le somministrazioni a tutto il Corpo, ma anche a semplici cittadini qualora fosse necessario. Ad attrezzarsi sono comunque anche gli ospedali, che in alcuni casi hanno comunicato ai Prefetti di aver potenziato il sistemi di sicurezza con vigilanza privata e telecamere interne. L'arrivo delle 350 mila dosi di vaccini, atteso per lunedì, è slittato in Spagna. Intanto il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha spiegato che in Germania aumenteranno i centri di produzione del vaccino Biontech-Pfizer. "Stiamo lavorando insieme alla Biontech-Pfizer, affinché ci possano essere degli ulteriori centri di produzione del vaccino a Marburgo e in Assia", ha affermato alla ZDF. Biontech ha acquisito il centro di produzione di Marburgo della Novartis. E stando all'impresa tedesca serviranno adesso solo piccoli adeguamenti, per partire con la produzione del vaccino anticovid. "E' noto che la Germania abbia proceduto a un'ordinazione di 30 milioni di dosi, per via bilaterale, con la Biontech", ha detto la portavoce del ministero della Salute tedesco rispondendo ad una domanda nel corso della conferenza stampa di governo a Berlino.
L'obiettivo è finire entro settembre. La soglia dei 42 milioni di vaccinati. Lorenzo Salvia per il "Corriere della Sera" il 27 dicembre 2020. Oggi il debutto simbolico, in contemporanea in tutta Europa. Ma poi? Il piano vaccini dell'Italia ha un obiettivo ambizioso, chiudere la campagna entro l'estate. L'idea è raggiungere l'immunità di gregge, che basta a coprire tutti, prima della riapertura delle scuole a settembre. Ma lungo la strada ci sono ancora diversi punti interrogativi: dalla data di arrivo degli altri vaccini alla effettiva distribuzione delle dosi, dalla durata dell'immunizzazione al numero delle persone che accetteranno di vaccinarsi. In base agli accordi preliminari d'acquisto, nel 2021 l'Italia avrà diritto a oltre 202 milioni di dosi. Una quantità che consentirà di coprire tutta la popolazione e di avere una scorta di riserva. Ma ci sono diversi ma. Al momento l'unico vaccino autorizzato dagli enti regolatori europeo e italiano, l'Ema e l'Aifa, è proprio quello della Pfizer con cui si comincia oggi. E che però è più complicato da distribuire visto che va conservato a una temperatura di 70 gradi sotto zero. Per gli altri vaccini una data di sbarco ancora non c'è. Il primo dovrebbe essere quello di Moderna, che non ha bisogno di una catena di distribuzione in ultra freddo, e per il quale l'Ema ha anticipato dal 12 al 6 gennaio la valutazione. Sugli altri è tutto da vedere. Per questo il quadro delle forniture resta variabile. Dovremmo avere 28 milioni di dosi nel primo trimestre del 2021, tra gennaio e marzo. Poi dovremmo salire al doppio, 57 milioni di dosi, tra aprile e giugno per poi stabilizzarci a 53 milioni tra luglio e settembre. Poi inizierebbe la discesa, restando comunque su volumi importanti, fino ai 20 milioni di dosi nel secondo trimestre del 2022. La date restano flessibili. Ma il percorso per allargare progressivamente la comunità dei vaccinati è stato disegnato. Da metà gennaio si procederà con medici, infermieri, personale e ospiti delle Rsa, le residenze sanitarie per anziani. In tutto quasi 2 milioni di persone. Subito dopo - nelle intenzioni già a febbraio ma più probabilmente verso fine marzo - si passerà alle persone con più di 80 anni, quasi 4 milioni e mezzo. Da aprile si dovrebbe procedere mano a mano verso le persone meno fragili. Prima i quasi 13 milioni e mezzo di persone che hanno tra i 60 e i 79 anni, poi i quasi 7 milioni e mezzo che hanno una comorbilità cronica, cioè la presenza di almeno due patologie. Entro l'inizio dell'estate si passerà poi al resto della popolazione, ma anche qui ci sarà un ordine di precedenza. Il piano vaccinale cita espressamente le categorie appartenenti ai «servizi essenziali come gli insegnanti e il personale scolastico, le forze dell'ordine, il personale delle carceri». In ogni caso saranno sempre possibili delle varianti in corso d'opera. La «strategia di tipo adattivo» dice che le liste di vaccinazione potrebbero essere cambiate nel caso in cui venissero identificate particolari categorie a rischio oppure si sviluppassero focolai in specifiche aree del Paese. Se il calendario vaccinale è ancora mobile i veri punti interrogativi sono due. Il primo è capire quanto durerà l'immunità dei singoli vaccini. Una risposta vera ancora non c'è. Ma resta la possibilità che la più grande campagna vaccinale della storia si debba trasformare in un'operazione di routine, da ripetere ogni anno come per l'antinfluenzale. Naturalmente con il vantaggio di non dover ripartire da zero. Il secondo punto interrogativo è la percentuale di adesione al vaccino. Per arrivare all'immunità di gregge - o meglio solidale, perché protegge anche chi il vaccino non lo può o non lo vuole fare - bisogna raggiungere circa il 70% degli italiani. A spanne 42 milioni su 60. Ci arriveremo? Il vaccino è gratuito ma non obbligatorio. Pochi giorni fa il matematico Piergiorgio Odifreddi ha proposto di dare un piccolo contributo in denaro a chi decide per il sì. Una provocazione, ma neanche troppo perché con una percentuale bassa l'intera operazione sarebbe un buco nell'acqua. Per questo si dovrebbe arrivare alla patente di immunità, la possibilità di viaggiare e di accedere ad alcuni luoghi, come gli stadi, solo se si è vaccinati.
Umberto Rapetto per infosec.news il 29 dicembre 2020. Da anni i grillini aspettavano di replicare il loro fatidico V-Day. Complice la pandemia, il “Vaffa” è stato sostituito dall’italianissima espressione “Vaccination” che ha cercato di entusiasmare una popolazione stremata dalle promesse di una soluzione al terribile “momento” che dura dal febbraio scorso. Quasi si trattasse di un prodotto di consumo, i geni della comunicazione istituzionale – non contenti di aver scelto un logo che incrocia graficamente quello di un supermercato del “Persone oltre le cose” e quello del SuperEnalotto che simboleggia l’alea – hanno suggerito persino l’individuazione di “testimonial” come negli spot promozionali. Mentre la gente continua a morire pagando il più doloroso prezzo della disorganizzazione e dell’incapacità a gestire la drammatica emergenza, si parla con eccitazione del piano di vaccinazione dimenticando di fare banali conti capaci di smontare inutili esaltazioni. Chi plaude alla fatidica notizia delle 470mila dosi di vaccino che arriveranno ogni settimana in Italia, potrebbe prendere carta e penna. Se non si dimentica che servono due dosi per ogni vaccinando e che ci sono 52 settimane in un anno, ci si accorge che – con queste cifre – per completare la missione occorrono circa 220 settimane e quindi oltre quattro anni. Prima che qualcuno si affretti a dire che “arriveranno anche i vaccini delle altre aziende”, varrebbe la pena vedere “se, come, quanti e quando” questi verranno consegnati nel nostro Paese. La spettacolarizzazione di una impegnativa e fondamentale operazione probabilmente nuoce alla sua buona riuscita. Dopo aver visto un osannato leader trebbiare a torso nudo il grano, ci prepariamo a rimirare qualche politico esibire il braccio scoperto per ricevere la fatidica iniezione. L’esibizionismo si è sempre rivelato inutile ma mai come in questi tempi c’è chi non ne può fare a meno. Impera il “mamma, sono felice di essere arrivato «uno»…” del ciclista interpretato da Walter Chiari e non ci si accorge che la sovraesposizione mediatica espone a inevitabili “meme” ogni volta che non si centra l’obiettivo. Una curiosità. Chi cerca su Google “vaccino dosi settimana” trova proprio la cifra delle 470mila dosi sul sito del Ministero della Salute. Chi fa clic, arriva su una pagina che non esiste più e viene indirizzato alla homepage del dicastero… Perché la pagina è stata rimossa?
Mancano celle frigorifere in 9 regioni Gli ostacoli nella campagna di massa. Niccolò Carratelli per "La Stampa" il 27 dicembre 2020. Essere pronti per quando si inizierà a fare sul serio. Terminate le foto ricordo del Vaccino Day, smaltite in pochi giorni le prime dosi spedite dalla Pfizer, tutte le Regioni dovranno essere in grado di ricevere e stoccare in modo sicuro una fornitura di fiale ben più consistente. Nella settimana che comincia domani, infatti, sono attese altre 450mila dosi, che diventeranno 1 milione e 834mila per la metà di gennaio. Non saranno inviate tutte a Roma e poi distribuite dall'Esercito, come avvenuto in questo assaggio di fine anno. L'azienda farmaceutica americana si è impegnata a recapitare il vaccino direttamente nei 294 punti di somministrazione individuati da Regioni e Province autonome per questa prima fase della campagna. Si tratta in gran parte di ospedali, i luoghi naturali dove procedere alla vaccinazione di medici e infermieri. Le dotazioni Di queste 294 sedi, solo 222 sono dotate delle celle ULT (ultra low temperature), necessarie per la conservazione del vaccino a -75 gradi nel lungo periodo. Secondo il piano del Commissario per l'emergenza, Domenico Arcuri, dovrebbero diventare 289 dopo il 7 gennaio, riuscendo di fatto a soddisfare il fabbisogno. Nella tabella pubblicata dalla struttura commissariale, aggiornata a dieci giorni fa, ben 9 regioni riscontravano difetti nella dotazione. In particolare in Lombardia sono documentate 38 celle su 65 punti di somministrazione, in Liguria 10 su 15, in Sardegna 8 su 12, in Sicilia 22 su 38. «Arriveremo a 27 da qui al 15 gennaio - spiegano dallo staff del presidente siciliano Musumeci - ma non è necessario avere le celle frigorifere in tutti i punti di somministrazione». I numeri sono in continuo aggiornamento. Dalla Puglia, ad esempio, dicono di aver recuperato la cella ULT mancante e ora tutti e 11 i centri di vaccinazione regionali ne sono provvisti. Sapere dove mettere il prezioso siero non è un dettaglio da poco. Gli speciali contenitori in cui verranno spedite le fiale (ognuno contiene circa 5mila dosi) possono mantenere la temperatura a -75 gradi per 10 giorni. Tra l'altro in ogni «scatola» è stato installato un sensore termico Gps, per monitorare la temperatura e la posizione di ogni pacco 24 ore su 24. Una volta tirate fuori, però, le fiale vanno usate entro 5 giorni, conservandole in frigo tra i 2 e gli 8 gradi. Oppure si possono tenere a temperatura all'interno degli stessi contenitori di trasporto, aggiungendo ghiaccio secco ogni 5 giorni, per al massimo un mese. Con le celle ULT, invece, viene garantita la conservazione in sicurezza fino a sei mesi. D'altra parte, la stessa Pfizer scommette sul fatto che la vaccinazione in una situazione di pandemia «dovrebbe essere rapida e non crediamo che il prodotto debba essere conservato per più di 30 giorni». Inoltre, la distribuzione del vaccino «si basa su un sistema flessibile just-in-time, in grado di spedire rapidamente le fiale congelate al momento del bisogno, riducendo al minimo la necessità di lunga conservazione». Facile da applicare quando i numeri, delle dosi e delle persone da vaccinare, sono nell'ordine delle migliaia, meno quando si inizierà a ragionare nell'ordine dei milioni. La seconda fornitura garantita da Pfizer sarà di 2 milioni e 507mila dosi, in totale ne dovremmo ricevere 8 milioni e 700mila nel primo trimestre del 2021. Modulare le tempistiche delle consegne nelle varie Regioni sarà fondamentale. E sarà meglio non restare senza ghiaccio secco, la cui disponibilità sul mercato nelle ultime settimane è stata messa in dubbio dagli stessi addetti ai lavori. «Per la movimentazione di milioni di vaccini il ghiaccio secco attualmente disponibile in Italia non è sufficiente», dice a La Stampa Giulio Locatelli, titolare della Locatelli Meccanica di Subbiano, in provincia di Arezzo. Comprarlo ora può costare caro, spiega, meglio produrlo in casa, «una produzione gestita dallo Stato e magari affidata all'Esercito sarebbe la soluzione più logica».
Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” l'1 gennaio 2021.
1. Cosa devo sapere prima di andare a fare il vaccino?
Il digiuno è previsto solo per le somministrazioni in ambiente protetto (ad esempio per persone che in passato abbiano avuto reazioni anafilattiche). Al momento le donne in gravidanza non sono contemplate perché non si hanno dati sui rischi. Chi ha fatto il vaccino contro l’influenza entro due settimane prima, o debba farlo nelle due settimane dopo, è invitato a spostare la vaccinazione anti-Covid.
2. Quanto dura la vaccinazione? Cosa devo fare dopo la puntura?
L’operazione di vaccinazione prevede tempi brevi di permanenza nei punti vaccinali: «Nello specifico una fase di accettazione (5 minuti), la somministrazione (5 minuti) e un periodo di osservazione, in un sala separata e vigilata, di 15 minuti», spiegano Loretta Casolari, medico di igiene ospedaliera e del lavoro del policlinico di Modena, e Vanni Borghi, infettivologo in pensione che fa parte del team vaccinale.
3. Possono esserci reazioni avverse dopo che viene somministrato?
Sì, come per ogni vaccino. Reazioni immediate, come il dolore dovuto all’iniezione, o una reazione allergica. Quest’ultima può essere lieve e si risolve con antistaminici. O grave (anafilassi): in genere si manifesta subito e si risolve con l’intervento del medico. Sono noti sei casi su due milioni. Altri eventi in ordine di frequenza: dolore per l’iniezione, febbricola, cefalea, linfonodi ingrossati, paralisi del nervo facciale.
4. Quanti giorni devono passare tra la prima e la seconda dose?
«Il vaccino è un campanello che suona nella casa del sistema immunitario, lo sveglia e lo attiva nei confronti del patogeno. Due scampanellate svegliano di più», dice Pierluigi Viale, docente universitario e direttore delle Malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna. Serve un richiamo a tre settimane dalla prima dose per aumentare la risposta immunitaria.
5. Servono nuovi controlli a distanza di tempo?
«Siamo all’inizio di una storia, la prima coorte di persone vaccinata», premette il professor Viale. Dunque, in questa fase, ci sarà una sorveglianza post vaccinale attenta. «I pazienti saranno rivalutati. Probabilmente, per qualche sottogruppo di vaccinati, faremo dei tamponi per capire se il vaccino previene la malattia o anche l’infezione».
6. Dopo che l’ho fatto mi posso considerare immune?
«Ci si può considerare immuni dopo una settimana dalla seconda dose e quindi a un mese circa dopo la prima somministrazione», dicono Casolari e Borghi. Dopo si è “protetti” nel 95% dei casi: non si hanno manifestazioni cliniche legate al Covid. «Non vi sono ancora dati sul periodo di protezione da una successiva infezione». Ma è noto che gli anticorpi in chi si è ammalato restano nell’organismo per 9-12 mesi.
7 Devo continuare a indossare la mascherina dopo il vaccino?
Assolutamente sì. «Non sappiamo con certezza se il vaccinato può infettare oppure no. Riteniamo di no, ma non è stato dimostrato. Teoricamente, dunque, potrebbe essere portatore asintomatico e, a maggior ragione, deve mettere la mascherina», spiega Viale. In generale, «il vaccinato a maggior ragione deve portarla perché è una persona fortunata che è arrivata prima al vaccino prima».
8. Dopo che ci saremo vaccinati avremo una “patente”?
Secondo il docente, oggi non ha senso parlare di patente d’immunità. «Ha senso il discorso che il vaccinato sia tracciato, ma soprattutto che sia tracciato il non vaccinato. Durante il prossimo anno ci comporteremo col Covid come adesso in termini di comportamenti personali, affinché chi non ha potuto vaccinarsi non sia un cittadino di serie B. E noi medici valuteremo i pazienti per capire l’impatto del vaccino sulla malattia».
Tutte le risposte dell'Aifa sul vaccino anticovid. Trentacinque risposte alle domande più comuni sul vaccino Pfizer Comirnaty rilasciate dall'Aifa l'agenzia italiana del farmaco. Tutto quello che c'è da sapere prima di sottoporsi alla vaccinazione. Roberta Damiata, Sabato 26/12/2020 su Il Giornale. Da domani, 27 dicembre, inizierà la vaccinazione contro il Covid-19 con il primo vaccino (Pfeizer-Niontech) che ha avuto l'approvazione dell'Agenzia Europea del farmaco l'Ema e di quella italiana l'Aifa. Le prime dosi verranno somminsistrate a medici e ad infermieri da sempre in prima linea dall'inizio della pandemia. Le domande su questa vacccinazione sono comunque molte. Dopo la nostra pubblicazione in esclusiva del foglietto illustrativo del vaccino Pfeizer, oggi l'Aifa, ha stilato 35 Faq, ovvero le domande pià frequenti, dando tutte le risposte necessarie che è importante conoscere prima di procedere alla vaccinazione.
Caratteristiche del vaccino Vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty).
Vaccino a mRNA contro COVID-19.
1. Che cos’è e a che cosa serve?
Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è un vaccino destinato a prevenire la malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) nei soggetti di età pari o superiore a 16 anni. Contiene una molecola denominata RNA messaggero (mRNA) con le istruzioni per produrre una proteina presente su SARS-CoV-2, il virus responsabile di COVID-19. Il vaccino non contiene il virus e non può provocare la malattia.
2. Come viene somministrato?
Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) viene somministrato in due iniezioni, solitamente nel muscolo della parte superiore del braccio, a distanza di almeno 21 giorni l’una dall’altra.
3. Come agisce?
I virus SARS-CoV-2 infettano le persone utilizzando una proteina di superficie, denominata Spike, che agisce come una chiave permettendo l’accesso dei virus nelle cellule, in cui poi si possono riprodurre. Tutti i vaccini attualmente in studio sono stati messi a punto per indurre una risposta che blocca la proteina Spike e quindi impedisce l’infezione delle cellule. Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è fatto con molecole di acido ribonucleico messaggero (mRNA) che contengono le istruzioni perché le cellule della persona che si è vaccinata sintetizzino le proteine Spike. Nel vaccino le molecole di mRNA sono inserite in una microscopica vescicola lipidica che permette l’ingresso del mRNA nelle cellule. Una volta iniettato, l’mRNA viene assorbito nel citoplasma delle cellule e avvia la sintesi delle proteine Spike. Le proteine prodotte stimolano il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici. In chi si è vaccinato e viene esposto al contagio virale, gli anticorpi così prodotti bloccano le proteine Spike e ne impediscono l’ingresso nelle cellule. La vaccinazione, inoltre, attiva anche le cellule T che preparano il sistema immunitario a rispondere a ulteriori esposizioni a SARS-CoV-2.Il vaccino, quindi, non introduce nelle cellule di chi si vaccina il virus vero e proprio, ma solo l’informazione genetica che serve alla cellula per costruire copie della proteina Spike. Se, in un momento successivo, la persona vaccinata dovesse entrare nuovamente in contatto con il SARS-CoV-2, il suo sistema immunitario riconoscerà il virus e sarà pronto a combatterlo. L’mRNA del vaccino non resta nell’organismo ma si degrada poco dopo la vaccinazione.
4. Che cosa contiene?
Il COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) contiene un RNA messaggero che non può propagare se stesso nelle cellule dell’ospite, ma induce la sintesi di antigeni del virus SARS-CoV-2 (che esso stesso codifica). Gli antigeni S del virus stimolano la risposta anticorpale della persona vaccinata con produzione di anticorpi neutralizzanti. L’RNA messaggero è racchiuso in liposomi formati da ALC-0315 ((4-idrossibutil)azanediil)bis(esano-6,1-diil)bis(2-esildecanoato) e ALC-0159 (2-[(polietilenglicole)-2000]-N,N-ditetradecilacetammide) per facilitare l’ingresso nelle cellule. Il vaccino contiene inoltre altri eccipienti:
1,2-Distearoyl-sn-glycero-3-phosphocholine
colesterolo
Potassio cloruro
Potassio diidrogeno fosfato
Sodio cloruro
Fosfato disodico diidrato
saccarosio
acqua per preparazioni iniettabili
Efficacia e sicurezza della vaccinazione
5. La sperimentazione è stata abbreviata per avere presto il prodotto?
Gli studi sui vaccini anti COVID-19, compreso il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), sono iniziati nella primavera 2020, perciò sono durati pochi mesi rispetto ai tempi abituali, ma hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di persone: dieci volte superiore agli standard degli studi analoghi per lo sviluppo dei vaccini. Perciò è stato possibile realizzare uno studio di grandi dimensioni, sufficienti per dimostrare efficacia e sicurezza. Non è stata saltata nessuna delle regolari fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza del vaccino: i tempi brevi che hanno portato alla registrazione rapida sono stati resi possibili grazie alle ricerche già condotte da molti anni sui vaccini a RNA, alle grandi risorse umane ed economiche messe a disposizione in tempi rapidissimi e alla valutazione delle agenzie regolatorie dei risultati ottenuti man mano che questi venivano prodotti e non, come si usa fare, soltanto quando tutti gli studi sono completati. Queste semplici misure hanno portato a risparmiare anni sui tempi di approvazione.
6. Come sono stati condotti gli studi clinici?
Uno studio clinico di dimensioni molto ampie ha dimostrato che il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) è efficace nella prevenzione di COVID-19 nei soggetti a partire dai 16 anni di età. Il profilo di sicurezza ed efficacia di questo vaccino è stato valutato nel corso di ricerche svolte in sei paesi: Stati Uniti, Germania, Brasile, Argentina, Sudafrica e Turchia, con la partecipazione di oltre 44.000 persone. La metà dei partecipanti ha ricevuto il vaccino, l’altra metà ha ricevuto un placebo, un prodotto identico in tutto e per tutto al vaccino, ma non attivo. L’efficacia è stata calcolata su oltre 36.000 persone a partire dai 16 anni di età (compresi soggetti di età superiore ai 75 anni) che non presentavano segni di precedente infezione. Lo studio ha mostrato che il numero di casi sintomatici di COVID-19 si è ridotto del 95% nei soggetti che hanno ricevuto il vaccino (8 casi su 18.198 avevano sintomi di COVID-19) rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo (162 casi su 18.325 avevano sintomi di COVID-19).
7. Quanto è efficace?
I risultati di questi studi hanno dimostrato che due dosi del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) somministrate a distanza di 21 giorni l’una dall’altra possono impedire al 95% degli adulti dai 16 anni in poi di sviluppare la malattia COVID-19 con risultati sostanzialmente omogenei per classi di età, genere ed etnie. Il 95% di riduzione si referisce alla differenza tra i 162 casi che si sono avuti nel gruppo degli oltre 18mila che hanno ricevuto il placebo e i soli 8 casi che si sono avuti negli oltre 18mila che hanno ricevuto il vaccino.
8. La protezione è efficace subito dopo l’iniezione?
No, l’efficacia è stata dimostrata dopo una settimana dalla seconda dose.
9. Quanto dura la protezione indotta dal vaccino?
La durata della protezione non è ancora definita con certezza perché il periodo di osservazione è stato necessariamente di pochi mesi, ma le conoscenze sugli altri tipi di coronavirus indicano che la protezione dovrebbe essere di almeno 9-12 mesi.
10. Il vaccino può provocare la malattia COVID-19 o altre alterazioni genetiche?
Questo vaccino non utilizza virus attivi, ma solo una componente genetica che porta nell’organismo di chi si vaccina l’informazione per produrre anticorpi specifici. Non sono coinvolti virus interi o vivi, perciò il vaccino non può causare malattie. L’mRNA del vaccino come tutti gli mRNA prodotti dalle cellule si degrada naturalmente dopo pochi giorni nella persona che lo riceve.
11. Le persone vaccinate posso trasmettere comunque l’infezione ad altre persone?
Gli studi clinici condotti finora hanno permesso di valutare l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) sulle forme clinicamente manifeste di COVID-19 ed è necessario più tempo per ottenere dati significativi per dimostrare se i vaccinati si possono infettare in modo asintomatico e contagiare altre persone. Sebbene sia plausibile che la vaccinazione protegga dall’infezione, i vaccinati e le persone che sono in contatto con loro devono continuare ad adottare le misure di protezione anti COVID-19.
12. Chi esegue la prima dose con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), può fare la seconda con un altro vaccino anti Covid-19, qualora disponibile?
Non ci sono ancora dati sulla intercambiabilità tra diversi vaccini, per cui chi si sottopone alla vaccinazione alla prima dose con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty), continuerà a utilizzare il medesimo vaccino anche per la seconda dose.
13. Quali reazioni avverse sono state osservate?
Le reazioni avverse osservate più frequentemente (più di 1 persona su 10) nello studio sul vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) sono stati in genere di entità lieve o moderata e si sono risolte entro pochi giorni dalla vaccinazione. Tra queste figuravano dolore e gonfiore nel sito di iniezione, stanchezza, mal di testa, dolore ai muscoli e alle articolazioni, brividi e febbre. Arrossamento nel sito di iniezione e nausea si sono verificati in meno di 1 persona su 10. Prurito nel sito di iniezione, dolore agli arti, ingrossamento dei linfonodi, difficoltà ad addormentarsi e sensazione di malessere sono stati effetti non comuni, che hanno interessato meno di 1 persona su 100. Debolezza nei muscoli di un lato del viso (paralisi facciale periferica acuta) si è verificata raramente, in meno di 1 persona su 1000.
14. Quali reazioni avverse gravi sono state osservate durante la sperimentazione?
L’unica reazione avversa severa più frequente nei vaccinati che nel gruppo placebo è stato l’ingrossamento delle ghiandole linfatiche. Si tratta, comunque, di una patologia benigna che guarisce da sola. In generale, le reazioni sistemiche sono state più frequenti e pronunciate dopo la seconda dose. Nei Paesi dove è già stata avviata la somministrazione di massa del vaccino sono cominciate anche le segnalazioni delle reazioni avverse, da quelle meno gravi a quelle più significative, comprese le reazioni allergiche. Tutti i Paesi che avviano la somministrazione del vaccino estesa a tutta la popolazione raccoglieranno e valuteranno ogni segnalazione pervenuta al sistema di farmaco vigilanza delle reazioni averse al vaccino, così da poter definire con sempre maggior precisione il tipo di profilo di rischio legato alla vaccinazione.
15. Chi sviluppa una reazione alla somministrazione a chi lo può comunicare?
La segnalazione di una qualsiasi reazione alla somministrazione del vaccino può essere fatta al proprio medico di famiglia o alla ASL di appartenenza, così come per tutte le altre reazioni avverse a qualunque farmaco, secondo il sistema nazionale di farmacovigilanza attivo da tempo in tutto il Paese.
Inoltre, chiunque può segnalare in prima persona una reazione avversa da vaccino utilizzando i moduli pubblicati sul sito AIFA.
16. Come viene rilevata l’assenza di controindicazioni?
Prima della vaccinazione il personale sanitario pone alla persona da vaccinare una serie di precise e semplici domande, utilizzando una scheda standardizzata. Se l’operatore sanitario rileva risposte significative alle domande, valuta se la vaccinazione possa essere effettuata o rinviata. Inoltre l’operatore verifica la presenza di controindicazioni o precauzioni particolari, come riportato anche nella scheda tecnica del vaccino.
17. È stata segnalata una nuova variante del virus SARS-CoV-2: il vaccino sarà efficace anche verso questa nuova variante?
I virus a RNA come SARS-CoV-2 sono soggetti a frequenti mutazioni, la maggioranza delle quali non altera significativamente l’assetto e le componenti del virus. Molte varianti di SARS-CoV-2 sono state segnalate nel 2020, ma finora queste varianti non hanno alterato il comportamento naturale del virus. La variante segnalata in Inghilterra è il risultato di una serie di mutazioni di proteine della superfice del virus e sono in corso valutazioni sugli effetti che queste possono avere sull’andamento dell’epidemia, mentre appare improbabile un effetto negativo sulla vaccinazione.
Condizioni particolari
18. Chi ha già avuto un’infezione da COVID-19, confermata, deve o può vaccinarsi?
La vaccinazione non contrasta con una precedente infezione da COVID-19, anzi potenzia la sua memoria immunitaria, per cui non è utile alcun test prima della vaccinazione. Tuttavia, coloro che hanno avuto una diagnosi di positività a COVID-19 non necessitano di una vaccinazione nella prima fase della campagna vaccinale, mentre potrebbe essere considerata quando si otterranno dati sulla durata della protezione immunitaria.
19. Le persone che soffrono di allergie possono vaccinarsi con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty)?
Le persone con una storia di gravi reazioni anafilattiche o di grave allergia, o che sono già a conoscenza di essere allergiche a uno dei componenti del vaccino mRNA BNT162b2 (Comirnaty) dovranno consultarsi col proprio medico prima di sottoporsi alla vaccinazione. Come per tutti i vaccini, anche questo deve essere somministrato sotto stretta supervisione medica. Le persone che manifestano una reazione allergica grave dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino non devono ricevere la seconda dose. Nei soggetti a cui è stato somministrato il vaccino sono state osservate reazioni allergiche (ipersensibilità). Da quando il vaccino ha iniziato a essere utilizzato nelle campagne di vaccinazione, si sono verificati pochissimi casi di anafilassi (grave reazione allergica).
20. Le donne in gravidanza o che stanno allattando possono vaccinarsi?
I dati sull’uso del vaccino durante la gravidanza sono tuttora molto limitati, tuttavia studi di laboratorio su modelli animali non hanno mostrato effetti dannosi in gravidanza. Il vaccino non è controindicato e non esclude le donne in gravidanza dalla vaccinazione, perché la gravidanza, soprattutto se combinata con altri fattori di rischio come il diabete, le malattie cardiovascolari e l'obesità, potrebbe renderle maggiormente a rischio di COVID-19 grave. L'Istituto Superiore di Sanità ha in atto un sistema di sorveglianza sulle donne gravide in rapporto a COVID-19 che potrebbe offrire ulteriori utili informazioni. Sebbene non ci siano studi sull'allattamento al seno, sulla base della plausibilità biologica non è previsto alcun rischio che impedisca di continuare l’allattamento al seno. In generale, l'uso del vaccino durante la gravidanza e l’allattamento dovrebbe essere deciso in stretta consultazione con un operatore sanitario dopo aver considerato i benefici e i rischi.
21. I bambini possono essere vaccinati con il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty)?
Questo vaccino non è al momento raccomandato nei bambini di età inferiore a 16 anni. L’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha concordato con l’azienda produttrice un piano per la sperimentazione del vaccino nei bambini in una fase successiva.
22. Le persone con una documentata immunodeficienza o con malattie autoimmuni possono vaccinarsi?
Non sono ancora disponibili dati sulla sicurezza e l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) nelle persone con malattie autoimmuni, che sono comunque state incluse nelle sperimentazioni iniziali. Durante gli studi clinici non si sono osservate differenze circa la comparsa di sintomi riconducibili a malattie autoimmuni o infiammatorie tra vaccinati e soggetti trattati con placebo. Le persone con malattie autoimmuni che non abbiano controindicazioni possono ricevere il vaccino. I dati relativi all’uso nelle persone immunocompromesse (il cui sistema immunitario è indebolito) sono in numero limitato. Sebbene queste persone possano non rispondere altrettanto bene al vaccino, non vi sono particolari problemi di sicurezza. Le persone immunocompromesse possono essere vaccinate in quanto potrebbero essere ad alto rischio di COVID-19.
23. Le persone con malattie croniche, diabete, tumori, malattie cardiovascolari possono vaccinarsi?
Sono proprio queste le persone più a rischio di una evoluzione grave in caso di contagio da SARS-CoV-2, proprio a loro, quindi, si darà priorità nell’invito alla vaccinazione.
24.Le persone in trattamento con anticoagulanti possono vaccinarsi?
Le persone in cura con una terapia anticoagulante hanno una generica controindicazione a qualsiasi iniezione, per loro la vaccinazione deve essere valutata caso per caso dal proprio medico per il rischio di emorragie dal sito di iniezione.
25. Le persone che hanno fatto la vaccinazione anti influenzale da poco tempo possono vaccinarsi contro il COVID-19?
Non vi sono ancora dati sull’interferenza tra vaccinazione anti COVID-19 e altre vaccinazioni, tuttavia la natura del vaccinoCOVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) suggerisce che sia improbabile che interferisca con altri vaccini. Comunque il distanziamento di un paio di settimane può essere una misura precauzionale.
Procedure di vaccinazione
26. Chi somministrerà il vaccino?
La vaccinazione sarà effettuata da medici e infermieri dei servizi vaccinali pubblici, persone che da tempo praticano vaccinazioni e sono esperte nelle tecniche di vaccinazione. Inoltre, in considerazione della particolarità di questo vaccino, gli operatori sanitari hanno ricevuto ulteriori informazioni tecniche specifiche sulla preparazione e somministrazione del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty).
27. A chi bisogna rivolgersi per vaccinarsi?
La campagna di vaccinazione di svolgerà in più fasi successive, i cittadini saranno invitati ad effettuare la vaccinazione in un ordine di priorità definito dal rischio per le persone di infettarsi e di sviluppare la malattia con conseguenze gravi. Nella fase iniziale la vaccinazione sarà riservata al personale sanitario e al personale e agli ospiti delle residenze per anziani e le vaccinazioni saranno effettuate dal personale dei servizi vaccinali nei 286 ospedali definiti dal Piano nazionale di vaccinazione COVID-19. Lo stesso personale vaccinatore si recherà nelle residenze per anziani per la vaccinazione.
28. Quanto costa la vaccinazione?
La vaccinazione è gratuita per tutti.
29. È possibile vaccinarsi privatamente a pagamento?
No, i vaccini disponibili attualmente saranno utilizzati soltanto nei presidi definiti dal Piano vaccini e non saranno disponibili nelle farmacie o nel mercato privato. È altamente sconsigliato cercare di procurarsi il vaccino per vie alternative o su internet. Questi canali non danno nessuna garanzia sulla qualità del prodotto, che potrebbe essere, oltre che inefficace, pericoloso per la salute.
30. Il vaccino protegge solo la persona vaccinata o anche i suoi familiari?
Il vaccino protegge la singola persona, ma se siamo in tanti a vaccinarci, potremmo ridurre in parte la circolazione del virus e quindi proteggere anche tutte le persone che non si possono vaccinare: la vaccinazione si fa per proteggere se stessi, ma anche la comunità in cui viviamo.
31. La vaccinazione consente di tornare alla vita di prima?
Anche se l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 è molto alta (oltre il 90%) vi sarà sempre una porzione di vaccinati che non svilupperà la difesa immunitaria, inoltre, ancora non sappiamo in maniera definitiva se la vaccinazione impedisce solo la manifestazione della malattia o anche il trasmettersi dell’infezione. Ecco perché essere vaccinati non conferisce un “certificato di libertà” ma occorre continuare ad adottare comportamenti corretti e misure di contenimento del rischio di infezione.
32. Ci sarà vaccino per tutti?
Il Governo italiano, tramite le procedure europee, ha prenotato l’acquisto di oltre duecento milioni di dosi di vaccini anti COVID-19 da sei diversi produttori. Non ci sarà libera scelta su quale vaccino preferire: il vaccino disponibile al tempo e al luogo sarà offerto dai servizi vaccinali in piena garanzia di equivalente sicurezza ed efficacia.
33. Che tipo di siringhe verrà utilizzato?
La vaccinazione sarà effettuata con una speciale siringa sterile monouso dotata di sistema di bloccaggio dell'ago (Luer Lock) per evitare distacchi accidentali; gli aghi sterili monouso sono anche dotati di attacco di bloccaggio: le siringhe usate non vanno reincappucciate (DM 28/9/89) e saranno immediatamente depositate in appositi contenitori di smaltimento.
34. Saranno vaccinati soltanto i cittadini italiani?
Secondo lo schema di priorità definito nel Piano vaccini saranno vaccinate tutte le persone presenti sul territorio italiano, residenti, con o senza permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione.
35. Che documenti sono richiesti per effettuare la vaccinazione?
Un documento di identità valido e la tessera sanitaria. Può essere utile avere con sé anche l’eventuale documentazione sanitaria che possa aiutare il medico vaccinatore a valutare lo stato fisico.
L’ Istituto Superiore Sanità smonta le “fake news” sul vaccino anti covid. Il Corriere del Giorno il 28 Dicembre 2020. Sono tante le fake news sui vaccini, puntualmente elencate e smontate dall’Istituto Superiore di Sanità. I rischi per la salute, le paventate modifiche al nostro codice genetico, l’efficacia: sono tante le fake news sui vaccini, puntualmente elencate e smontate dall’Istituto Superiore di Sanità in un contributo pubblicato su una nuova sezione del suo sito dedicata interamente al vaccino nel giorno del V-Day.
Ecco le principali fake news:
– I vaccini anti Sars-CoV-2 sono stati preparati troppo in fretta e non sono sicuri. FALSO. I vaccini sono approvati dalle Autorità competenti solo dopo averne verificato i requisiti di qualità e sicurezza. L’Ema, l’Agenzia europea per i farmaci, ha approvato oggi il primo vaccino contro SARS-Cov-2.
– E’ inutile vaccinarsi contro il Sars CoV-2 perché il virus è già mutato e il vaccino è inefficace. FALSO. Non vi è alcuna evidenza al momento che la mutazione del virus rilevata nel Regno Unito possa avere effetti sull’efficacia della vaccinazione. I vaccini determinano la formazione di una risposta immunitaria contro molti frammenti della proteina cosiddetta Spike, quella, per intenderci, prodotta dal virus per attaccarsi alle cellule e infettarle. Quindi anche se ci fosse stata una mutazione in alcuni frammenti della proteina Spike è improbabile che possa essere sufficiente a rendere il vaccino inefficace.
– I vaccini costano tanto, potranno vaccinarsi solo i ricchi. FALSO. I vaccini in Italia saranno resi disponibili gratuitamente per tutti i cittadini, a partire dalle categorie individuate come prioritarie. La vaccinazione, seppur con tempi diversi, sarà offerta a tutti.
– Il vaccino a RNA è pericoloso perché modifica il codice genetico. FALSO. Il compito dell’RNA è solo quello di trasportare le istruzioni per la produzione delle proteine da una parte all’altra della cellula, per questo si chiama “messaggero”. In questo caso l’RNA trasporta le istruzioni per la produzione della proteina utilizzata dal virus per attaccarsi alle cellule, la proteina denominata Spike. L’organismo grazie alla vaccinazione produce anticorpi specifici prima di venire in contatto con il virus e si immunizza contro di esso.
– Il vaccino è inutile perché l’immunità dura solo poche settimane. FALSO. La protezione indotta dai vaccini, sulla base dei dati emersi durante le sperimentazioni, durerà alcuni mesi. Solo quando il vaccino sarà somministrato a larghe fasce di popolazione sarà possibile verificare se l’immunità durerà un anno, come accade con l’influenza, più anni, come accade con la vaccinazione antipneumococcica o se sarà necessario sottoporsi a richiami.
– Il vaccino è inutile perché non uccide il virus e non ferma l’epidemia. FALSO. Lo scopo del vaccino è quello di attivare il sistema di difesa dell’organismo contro il virus in modo che qualora dovesse venirne in contatto sia già pronto ad aggredirlo e renderlo inefficace.
– Dopo la vaccinazione potrò finalmente evitare di indossare la mascherina e potrò incontrare parenti e amici in libertà. FALSO. Anche dopo essersi sottoposti alla vaccinazione bisognerà continuare a osservare misure di protezione nei confronti degli altri, come la mascherina, il distanziamento sociale e il lavaggio accurato delle mani. Ciò sarà necessario finché i dati sull’immunizzazione non mostreranno con certezza che oltre a proteggere sé stessi il vaccino impedisce anche la trasmissione del virus ad altri.
Niccolò Carratelli per ''La Stampa'' il 30 dicembre 2020. Le ultime parole famose. Quelle del ministro della Salute, Roberto Speranza, l'altro ieri sul nostro giornale: «Se arriva subito al traguardo anche AstraZeneca - aveva spiegato - entro il primo trimestre si aggiungeranno 16 milioni di dosi e già dal primo aprile potremmo avere 13 milioni di vaccinati». Rischia seriamente di non andare così, se davvero passerà un altro mese prima che il vaccino sviluppato dall'università di Oxford, in collaborazione con la società Irbm di Pomezia, venga approvato dall'Agenzia europea per i medicinali. Dal ministero della Salute predicano calma: «Aspettiamo, vediamo cosa succede nei prossimi giorni - è l'invito - se ora per AstraZeneca arriva l'ok dell'autorità britannica e subito dopo di quella canadese, potrebbero crearsi condizioni favorevoli per un via libera più rapido anche da parte dell'Ema. Ricordiamoci com'è andata con il vaccino Pfizer, autorizzato in anticipo». Ottimismo che va di pari passo con il piano B annunciato dalla Commissione europea: «Dei 100 milioni di dosi aggiuntive Pfizer comprate da Bruxelles, 13 e mezzo arriveranno in Italia - spiegano dallo staff di Speranza - andando a compensare in buona parte l'eventuale ritardo di AstraZeneca. E ci sarà un ulteriore rifornimento anche del vaccino di Moderna, che dovrebbe ricevere l'autorizzazione dell'Ema il 6 gennaio».
La preoccupazione. Dobbiamo affidarci a questi numeri e a questi contratti europei, perché l'Italia non ha un asso nella manica autonomo. Non ha, cioè, accordi separati per l'acquisto dei vaccini, come quello (non confermato ufficialmente) tra il governo tedesco e la BioNTech, che dovrebbe garantire alla Germania altre 30 milioni di dosi dell'unico siero finora approvato a livello europeo, prodotto dall'azienda con sede a Magonza insieme all'americana Pfizer. Nonostante l'attuale incertezza sulle forniture, il Commissario per l'emergenza Covid, Domenico Arcuri, si mostra fiducioso: «L'annuncio di Ursula von der Leyen ci fa guardare con più serenità all'attuazione del nostro piano vaccinale - dice a La Stampa - anche in presenza di un ritardo delle dosi di AstraZeneca, per le quali si potrebbero profilare tempi più lunghi del previsto». In realtà, dalla struttura commissariale fanno filtrare una certa preoccupazione, non solo per i probabili ritardi, ma anche per il rischio che il via libera dell'Ema ad AstraZeneca arrivi alla fine con alcune limitazioni, per esempio sul fronte dell'età, rendendolo utilizzabile solo al di sotto dei 55 anni, cioè per la fascia anagrafica in cui è stata riscontrata la maggiore efficacia. Con i suoi collaboratori il commissario Arcuri ha ragionato sulle fasi della distribuzione, sottolineando margini di manovra comunque favorevoli: se anche il disco verde dell'Ema arrivasse a febbraio, saremmo ugualmente nei tempi previsti, con la fornitura entro fine marzo. Per il semplice fatto che, a quel punto, giocheremmo in casa. Al Commissario, infatti, risulta che i vaccini AstraZeneca siano già pronti nell'impianto di Anagni e potrebbero arrivare molto velocemente all'aeroporto di Pratica di Mare, per far scattare la distribuzione.
L’autorizzazione. Il dramma sarebbe un stop prolungato o un (improbabile) no secco all'autorizzazione, perché «avremmo 40 milioni di vaccini in meno e dovremmo correre ai ripari per rimpiazzarli, cosa non semplice nel breve periodo». L'azienda britannica, tra l'altro, è stata la prima a firmare un contratto con la Commissione Ue, per un totale di 300 milioni di dosi, con un'opzione per ulteriori 100 milioni. Questi ultimi, alla luce dei ritardi, rischiano di sfumare, sostituiti dai 100 milioni in più che Bruxelles ha appena ordinato a Pfizer. Impossibile non considerare le enormi ripercussioni economiche legate all'arrivo sul mercato con un mese di ritardo. Lo sanno bene all'Agenzia europea, obbligata a restare sempre al di sopra delle parti: «Non ha il potere di alterare i tempi e di dare un vantaggio competitivo a una azienda rispetto a un'altra - spiega l'ex direttore esecutivo dell'Ema Guido Rasi - anche per questo pubblica online le date di presentazione delle richieste di autorizzazione dei vaccini». La domanda di AstraZeneca sembra sempre sul punto di arrivare e poi non arriva. È stata annunciata più volte, l'ultima a inizio dicembre, senza nessun seguito concreto. Del resto, aggiunge Rasi, «una multinazionale, come Pfizer o Moderna, si muove più rapidamente rispetto a una alleanza che va da Oxford a Pomezia, con diversi interlocutori che devono comunicare e confrontarsi». Ma in ballo ci sono milioni. Di dosi e di euro.
Vaccino Covid, perché è bene parlare degli effetti collaterali. Giuliano Aluffi su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Febbre, mal di testa, brividi: Antonella Viola spiega i sintomi più frequenti. Che non sono causati dalla puntura: semmai sono il segnale che il sistema immunitario si sta attivando in modo vigoroso. Ed è meglio evitare di prendere antipiretici per abbassare la temperatura. Ieri avete ricevuto il vaccino e oggi avete febbre, mal di testa, brividi, annebbiamento mentale. Che cosa significa e cosa bisogna fare? Le risposte sono rassicuranti: quelli che avvertite sono soltanto gli effetti collaterali più citati da chi ha ricevuto il vaccino anti Covid di Pfizer, e non bisogna fare nulla di particolare, solo aspettare un giorno o due per tornare alla normalità. Perché questa è la breve durata dei sintomi, che comunque, oltre ad infastidire, possono impedire lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Ma per poco: è un piccolo e sopportabile sacrificio utile al benessere proprio e della comunità. Ma soprattutto bisogna considerare questi sintomi una buona notizia: perché indicano che il vaccino sta funzionando come dovrebbe. “Non dovremmo nemmeno chiamarli effetti collaterali, perché in realtà sono normali effetti immunologici”, spiega a Repubblica l’immunologo Paul Offit, direttore del Vaccine Education Center al Children’s Hospital di Philadelphia. “Quando il tuo sistema immunitario è stimolato, in questo caso per preparare una risposta immunitaria contro la proteina “spike” del Sars-Cov-2, una parte di questo include i sintomi. Quindi potresti avere una febbricciola, potresti avere affaticamento, potresti avere dolori muscolari o articolari. Ma durerebbero poco. Io mi sono vaccinato sabato scorso, e due giorni dopo ho avuto febbre e affaticamento. Ma non è stato un dramma, e soprattutto ero felice che il mio sistema immunitario rispondesse in quel modo al vaccino: perché è il segno di una immunità vigorosa. In genere chi ha questa reazione ha meno di 55 anni, e di solito la seconda dose ha più effetto della prima. E questo vuol dire che le persone più anziane non hanno questi effetti collaterali perché il loro sistema immunitario non è vigoroso quanto quello dei più giovani”. Gli effetti collaterali del vaccino anti Covid non sono una sorpresa: “Quello che dobbiamo dire molto chiaramente è che questi sintomi ci sono, e sono anche piuttosto frequenti. Più frequenti che con i vaccini normali: questo va detto alle persone. Che ci sia un 16% di persone che dopo la seconda iniezione avrà la febbre che supera i 38 gradi, è un’informazione che va data. Altrimenti, se succede, poi si rimane spiazzati. Questa percentuale è alta perché i vaccini anti Covid attivano molto la risposta immunitaria” spiega l’immunologa Antonella Viola, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica e docente all’università di Padova. “Però quelli che si stanno vedendo oggi sono gli stessi effetti collaterali che si conoscevano già e che erano stati riportati dettagliatamente da Pfizer nel report di conclusione degli studi di fase 3. Quindi sono cose che già si sapevano. L’unica novità che è emersa da questa campagna di vaccinazione, dopo l’approvazione del vaccino, sono i casi di allergia grave, che invece non erano stati riportati nella sperimentazione Pfizer. Questa è stata l’unica sorpresa, e dipende dal fatto che dalla sperimentazione di fase 3 si escludono le persone che hanno problemi di allergie molto gravi”. Ma tutti gli altri sintomi li conoscevamo già, e sappiamo che sono causati dall’infiammazione, ossia dalla risposta del sistema immunitario. In alcune persone il sistema immunitario reagisce più che negli altri, e quindi causa anche la febbre, il dolore alle ossa, il mal di testa. “Sono effetti delle molecole dell’infiammazione che viaggiano nell’organismo e agiscono causando dolore e febbre. Sia le citochine che altri mediatori dell’infiammazione vengono prodotti e vanno in circolo a creare questi sintomi. È un po’ quello che ci succede con le infezioni”, spiega Antonella Viola. “Quando abbiamo un’infezione, come l’influenza, non è il virus di per sé che ci sta causando il mal di testa o la febbre. Ma è la risposta del sistema immunitario che lo sta combattendo. E qui succede la stessa cosa. Quindi i sintomi che si hanno sono una conseguenza dell’attivazione del sistema immunitario. E infatti sono più frequenti e saranno più frequenti nelle seconde somministrazioni del vaccino. Perché il sistema immunitario sarà più pronto a combattere”.
Effetti collaterali più marcati con la seconda dose. Un dato che sta emergendo dalle vaccinazioni di massa che sono iniziate in molti Paesi, seppure per ora riservate soprattutto al personale sanitario, è che la seconda dose del vaccino provoca una reazione immunitaria più forte. E quindi effetti collaterali più forti. “Anche questo è normale: succede perché quando ti somministrano la seconda dose hai già i linfociti B e i linfociti T predisposti (per effetto della prima dose) per riconoscere la proteina” spiega Paul Offit. “E quindi possono reagire più velocemente e proliferare, e produrre le loro citochine, le proteine immunologiche associate a effetti collaterali come la febbre”. Febbre associata magari a brividi, come riporta un articolo recente del New York Times che intervista cittadini americani appena vaccinati. “Sono sempre i mediatori dell’infiammazione che causano i brividi”, puntualizza Antonella Viola. “Il brivido è un sistema che utilizziamo per far alzare la temperatura del nostro corpo. Facciamo così perché la temperatura aiuta a combattere le infezioni. Sono effetti del tutto normali”.
Viva la febbre. Insomma la febbre post vaccino dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti un buon segno, da accogliere con un minimo di spirito di sopportazione e un più lungimirante senso di sollievo: “Perché ogni essere che cammina, striscia, nuota o vola sulla faccia del pianeta può avere la febbre? La ragione è semplice: perché il sistema immunitario lavora meglio se la temperatura è più alta del normale - spiega Offit - se guardi alle persone che si vaccinano e poi trattano la loro febbre con antipiretici, vedi che hanno anche una minor risposta immunitaria al vaccino. Similmente, se guardi alle persone che hanno una varietà di malattie infettive, vedrai che chi di loro riduce la febbre con antipiretici tende ad avere malattie che durano più a lungo. Questo per dire che non dovremmo essere così veloci nel trattare la febbre”.
Mi è venuta la febbre: colpa del vaccino o del virus? Chi fosse particolarmente ipocondriaco e scambiasse i sintomi dell’immunizzazione con i sintomi dell’infezione dal virus – magari perché teme di essersi contagiato per un contatto occasionale con qualcuno nel luogo dove ha ricevuto il vaccino - ha un modo per discernere tra realtà e ombre dell’immaginazione: “Se viene la febbre il giorno dopo il vaccino, e nel giro di 24 ore questa febbre sparisce, la logica ci fa pensare che sia a causa del vaccino” spiega Antonella Viola. “Se viene la tosse, invece, no: quella non può essere effetto del vaccino, perché viene a causa della replicazione del virus nei polmoni”.
Dolore al braccio. Un sintomo che è inequivocabilmente legato al vaccino, invece, è il dolore al braccio vaccinato. “Questa è la cosa più normale: è l’effetto locale dell’infiammazione - spiega Viola - quando c’è un’infiammazione, si producono delle molecole che vanno a stimolare i nostri nervi sensoriali e quindi causano la sensazione di dolore. Quindi è dovuto chiaramente a un effetto locale, che poi passa. Del resto la sensazione di indolenzimento nella zona in cui il vaccino è inoculato si ha anche con gli altri vaccini”.
La nebbia mentale. Uno dei sintomi più citati nell’immediato periodo post-vaccino è una sorta di annebbiamento delle proprie capacità cognitive, che rende difficile concentrarsi ed eseguire compiti di una certa complessità. “Anche questa sensazione di confusione dipende dall'attivazione della risposta immunitaria, quindi da queste molecole che riescono ad arrivare al livello del sistema nervoso centrale e che ci causano una sensazione di stanchezza e confusione” ci rassicura Antonella Viola. “Lo abbiamo tutti sperimentato quando abbiamo l’influenza: ci sono volte in cui abbiamo la febbre, altre in cui ci fanno male le ossa e i muscoli, e altre in cui siamo stanchi, confusi e abbiamo più bisogno del solito di dormire. Sono tutte manifestazioni della risposta del sistema immunitario”.
Reazioni allergiche. Se si esclude dalla vaccinazione chi soffre di allergie serie, come quelle alimentari, per il rischio di shock anafilattico, non dovrebbero esserci particolari motivi d’allarme riguardo alle reazioni allergiche in soggetti sani. “In genere per tutti i vaccini c’è circa una persona su un milione che ha una seria reazione allergica. È il motivo per cui a chiunque si vaccini è raccomandato di rimanere in ambulatorio per 15 minuti, proprio per assicurarsi che non si abbia quella reazione” spiega Offit. “Riguardo ai vaccini Covid, non so cosa succederà quando decine di milioni di dosi saranno somministrate: magari potrebbe esserci una seria reazione allergica un po’ più frequente rispetto alla norma: lo scopriremo. Ma in ogni caso le serie reazioni allergiche sono facilmente riconoscibili e trattabili.
Vale senz’altro la pena di vaccinarsi. È importante ricordare che tutte le reazioni che abbiamo descritto sono temporanee: “Scompaiono nel giro di un giorno. E sono di gran lunga preferibili al rischio di contrarre il Covid” spiega Antonella Viola. “Tra l’altro non toccheranno a tutti: capiterà all’incirca al 13% - 16% delle persone di avere mal di testa o febbre. È un piccolo sacrificio che ci viene richiesto per proteggere noi stessi, i nostri cari e la comunità da un problema ben più grave. Perché è vero che da un punto di vista statistico nei giovani il Covid non fa gravi danni. Ma capita anche di vedere dei giovani in terapia intensiva. Nessuno può considerarsi completamente al sicuro dal Covid: il vaccino è l’unico modo per uscirne”. Quindi sì, sono effetti collaterali, ma non è niente di grave. “Se non nel caso di persone fortemente allergiche, non c’è al momento nessun effetto grave riportato” chiosa Antonella Viola. ”E, in ogni caso, questi pazienti con episodi precedenti di anafilassi sono stati esclusi dalla vaccinazione”.
Quali rischi per il vaccino anti-Covid? Dalla gravidanza all’allergia, come essere sicuri. Elena Dusi su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Le donne in gravidanza e gli allergici gravi non sono esclusi dalla campagna. Ma dovranno valutare con il proprio medico il rapporto fra rischi e benefici. Nuovi test sui bambini diranno se l'immunizzazione è adatta anche a loro. In caso di mutazioni estese del virus, il vaccino andrebbe riprogrammato. Con il metodo dell'Rna è possibile farlo in tempi brevi.
1 - Esiste un'età massima per fare il vaccino?
Il vaccino è indicato anche per i grandi anziani. "Anzi, è importante che proprio loro siano i primi a riceverlo", sostiene Roberto Bernabei, responsabile della geriatria del Policlinico Gemelli a Roma e membro del Cts. "Il vaccino per l'influenza, che è il metro di paragone più pertinente, può essere somministrato a ogni età, senza controindicazioni". L'unico problema "è la minore capacità di attivazione del sistema immunitario degli anziani, che è diverso da quello dei giovani". Il vaccino Pfizer-BioNTech ha comunque mostrato un'efficacia del 94% anche fra gli over 65.
2 - Cosa è previsto per le donne in gravidanza o che allattano?
La scelta è lasciata alle donne e ai medici. Il problema è che i test iniziali non possono arruolare fasce a rischio come le gestanti. Le uniche informazioni arrivano dai test sugli animali, che non hanno mostrato alcun danno. Anche se il vaccino non è formalmente autorizzato, l'Aifa (Autorità italiana del farmaco) riconosce che i rischi del Covid, per le future madri, sono più alti della media. Prevede dunque che "l'uso del vaccino durante gravidanza e allattamento dovrebbe essere deciso in stretta consultazione con un operatore sanitario dopo aver considerato i benefici e i rischi".
3 - Vaccinare i bambini non aiuterebbe a tenere aperte le scuole?
Come le donne in gravidanza, anche i bambini sono una categoria protetta che non può essere arruolata nelle sperimentazioni dei nuovi farmaci. Nessuno dei vaccini attuali, dunque, può essere somministrato sotto ai 16 anni. Anche dopo l'approvazione, comunque, le aziende produttrici proseguiranno i test, coinvolgendo in futuro anche i bambini. Questi nuovi test sono espressamente richiesti dall'Ema, l'Autorità europea dei medicinali. Le aziende non possono esimersi. Nel caso del Covid, i bambini sono considerati a rischio basso. Non avere un vaccino per loro subito non è un grave problema.
4 - Cosa saremo liberi di fare subito dopo l'iniezione?
I vaccinati in realtà non potranno fare nulla di diverso, nell'immediato. L'immunità si attiva una settimana dopo la seconda dose. L'efficacia del vaccino, per quanto alta, non è del 100%. È sempre possibile che un vaccinato ricada nella categoria, pur esigua, dei non protetti. Per saperlo, sarebbe necessario eseguire un test sierologico e verificare la presenza degli anticorpi. Non sapendo poi se i vaccinati sono riparati dai sintomi del Covid, ma restano contagiosi, bisogna mantenere mascherine e distanze per proteggere gli altri.
5 - Si può scegliere il vaccino o riceverne due diversi?
Non si può scegliere il vaccino, soprattutto in questa prima fase in cui le dosi sono molto scarse. Non è possibile ricevere la prima dose con un prodotto e la seconda con un altro: servirebbero dei test per capire se due vaccini diversi sono interscambiabili, e nessuno ha ancora avuto il tempo di farli. Chi invece riceve un vaccino in entrambe le dosi, poi aspetta una settimana, esegue un test sierologico e non mostra gli anticorpi, potrà effettuare un secondo ciclo di vaccinazione con un prodotto diverso nella speranza che il risultato sia migliore.
6 - Cosa rischia chi soffre in modo serio di allergie?
Come tutti i vaccini, anche quelli per il Covid possono causare allergie. Negli Usa l'anno scorso si sono contate 1,31 reazioni anafilattiche ogni milione di vaccinati, senza vittime. Al momento della somministrazione del vaccino contro il Covid, l'operatore sanitario chiederà al paziente se soffre di allergie ai vaccini o ai suoi eccipienti e deciderà con lui se procedere o meno. L'importante è che l'iniezione avvenga in ambiente protetto: farmaci e presidi per contrastare le reazioni anafilattiche devono essere immediatamente disponibili e il vaccinato deve restare sotto osservazione per 15-20 minuti.
7 - E se le mutazioni dovessero rendere il vaccino inefficace?
I vaccini sono stati messi a punto prendendo come modello il virus di Wuhan. Nel frattempo sulla proteina spike usata come antigene si sono accumulate alcune mutazioni. Queste variazioni potrebbero rendere il vaccino un po' meno efficace. Difficilmente lo renderanno inutile. Soprattutto con il metodo dell'Rna, ricalibrare il vaccino per adattarlo al virus mutato non è difficile. Ugur Sahin di BioNTech, in un'intervista al Financial Times ha detto che servirebbero sei settimane. Andrebbero però ripetute le sperimentazioni, almeno la fase tre. In tutto ci vorrebbero circa tre mesi.
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la lettura di questo articolo è aperta anche a chi non è abbonato a Repubblica, in considerazione dell'argomento trattato e della necessità di divulgare un'informazione corretta sul tema dei vaccini.
Giuseppe Remuzzi per corriere.it il 30 dicembre 2020. La lettera Y dell’alfabeto d’autore con cui il numero di 7, eccezionalmente in edicola giovedì 24 e poi per due settimane, prende commiato dal 2020 e guarda alla vita che verrà. Ogni lettera dell’alfabeto è affidata a una grande firma del «Corriere». Interviste, spigolature, ritratti: ritroverete quello che è accaduto a noi e nel mondo, quello che vi ha colpito e commosso. Con uno sguardo già rivolto ai protagonisti del 2021. Ecco il racconto di Giuseppe Remuzzi del Cromosoma Y. Chissà quante volte nel corso di questa pandemia avrete sentito dire che gli scienziati sono divisi. Ma è proprio vero? Sì, ma solo un po’; di fatto sappiamo talmente poco di quello che sta succedendo che non ci si può meravigliare che fra gli addetti ai lavori ci siano punti di vista diversi ed è solo cercando di ricomporli che riusciremo prima o poi a venirne a capo. A domande semplicissime - come: da dove arriva questo virus? (da Wuhan, sì ma dove?); la mascherina serve solo per proteggere gli altri o è utile anche a chi la indossa?; perché gli anziani delle case di cura sono così vulnerabili? - non siamo ancora in grado di rispondere. E ancora: perché gli uomini si ammalano più facilmente delle donne? Lo si era visto già con la SARS del 2003, ma il perché sia così non lo sappiamo ancora, per quanto in questi mesi qualche idea ce la siamo fatta. La prima cosa che è venuta in mente a chi ha cercato di approfondire questo tema sono stati, come potete immaginare, i cromosomi sessuali (XY per il maschio e XX per la femmina).
Questione di cromosomi. «Allora guardiamo ai geni che alloggiano su questi cromosomi», si è chiesto qualcun altro, ed è venuto fuori che degli oltre 100 geni del cromosoma X ce ne sono almeno dieci coinvolti nella risposta immune (e di X gli uomini ne hanno uno solo!). Sul cromosoma X, per esempio, c’è il gene che codifica per una proteina - TLR7 - che sa scovare i virus a singola elica di RNA proprio come è Sars-CoV-2, responsabile della malattia che chiamiamo Covid-19. Di quella proteina gli uomini, con un solo X, ne hanno la metà rispetto alle donne (galeotto fu l’Y, è il caso di dire) e così il loro sistema immune fa molta più fatica a difendersi da questo virus. E non ditemi che nelle donne uno degli X si inattiva nella vita adulta, è vero, ma non in certe cellule del sistema immune e non per il gene TLR7. C’è un’altra considerazione da fare a proposito di X e Y: il virus Sars CoV-2 entra nelle nostre cellule attraverso un recettore, come una chiave che entra nella sua serratura e solo in quella. Ebbene, per questo virus il recettore è un enzima, si chiama Ace-2 e, guarda caso, il gene che forma quell’enzima si trova sul cromosoma X. Averne due di questi geni per le donne, è una bella fortuna, uno forma le proteine che legano il virus (e gli consentono di entrare nelle cellule) mentre l’Ace-2 in eccesso, quello che viene dal secondo X, le proteggerà dai danni al cuore e ai polmoni se si dovessero ammalare. Ma la cosa che mi ha colpito di più degli studi sui rapporti fra geni e Covid - 19 è l’associazione fra gravità della malattia e rischio di morirne e una regione molto particolare del cromosoma 3 che ospita sei geni molto speciali.
Dai Neanderthal a noi. Siamo lontani da XY ma è una storia che vale la pena di raccontare: quel pezzo di cromosoma contiene un certo numero di varianti genetiche - aplotipo - che sono arrivate fino a noi dai Neanderthal con cui l’uomo moderno si è accoppiato fra 35 mila e 85 mila anni fa, probabilmente in Medioriente dopo aver lasciato l’Africa. Questo gruppo di geni ai Neanderthal serviva eccome: è verosimile che li proteggesse da infezioni batteriche o virali altrimenti fatali. Ma oggi quelle terribili malattie sono scomparse ed ecco l’altra faccia della medaglia, chi di noi ha ereditato quell’aplotipo rischia, se si infetta con Sars-CoV-2, di avere una risposta immune esagerata (troppa grazia, Sant’Antonio insomma) che, non solo non lo protegge, ma lo espone a una malattia più severa. Di certo quando i nostri antenati hanno fatto l’amore con i Neanderthal non pensavano che i loro amplessi avrebbero fatto morire qualcuno di noi... cinquanta mila anni dopo.
Dagospia il 31 dicembre 2020. COME HANNO FATTO I CINESI A SOMMINISTRARE 3 MILIONI DI VACCINI SE IL SIERO DELLA SINOPHARM È STATO APPROVATO SOLO OGGI?
COVID: CINA, AUTORITÀ APPROVANO VACCINO SINOPHARM. (ANSA il 31 dicembre 2020) - Le autorità cinesi hanno approvato il vaccino anti-Covid messo a punto dalla società farmaceutica statale Sinopharm: lo riporta la Cnn che cita funzionari del governo. Ieri la Sinopharm ha reso noto che il suo vaccino è efficace al 79,34%. La Cina ha somministrato oltre tre milioni di dosi di vaccino anti-Covid dal 15 dicembre scorso: lo hanno reso noto oggi funzionari del governo nel dare l'annuncio dell'approvazione da parte delle autorità sanitarie nazionali del vaccino sviluppato dalla casa farmaceutica statale Sinopharm. Secondo quanto riporta la Cnn, il vice ministro della Commissione sanitaria nazionale cinese, Zeng Yixin, ha spiegato che i vaccini sono stati somministrati finora a "gruppi chiave" della popolazione, senza però entrare nei dettagli. La Cina ha avviato un controverso programma d'emergenza di vaccinazioni lo scorso luglio con l'uso di vaccini sperimentali: al 30 novembre, ha precisato Zeng, erano già state vaccinate oltre 1,5 milioni di persone considerate "ad alto rischio".
Filippo Santelli per "la Repubblica" il 31 dicembre 2020. Dopo lunga attesa un numero è finalmente arrivato: il vaccino di Sinopharm, uno dei cinque composti cinesi all' ultima fase di sperimentazione, ha un' efficacia del 79%. Ad annunciare ieri il risultato preliminare è stata la stessa azienda farmaceutica di Stato, aggiungendo di avere chiesto alle autorità il via libera alla commercializzazione. Il dato è promettente: colloca il vaccino made in China sotto a quelli di Pfizer e Moderna, oltre quota 90%, ma ben sopra la soglia del 50% considerata minima dall' Oms. Solo che quel numero e le poche righe a corredo non bastano ancora a cancellare l' alone di opacità che circonda la corsa cinese al vaccino. Nel comunicato di Sinopharm manca ogni altro indicatore utile alla comunità scientifica per valutare il composto, come il numero di persone testate o i dati sugli effetti collaterali. E in attesa di capire quando le informazioni saranno rivelate, i prodotti del Dragone continuano a essere somministrati sia in Cina che all' estero. Fin dall' inizio dell' epidemia il regime ha indicato il vaccino contro Sars-Cov-2 come un' assoluta priorità. L' obiettivo è immunizzare i cittadini, ma anche usare il preparato come strumento geopolitico: Xi Jinping ha assicurato che verrà distribuito come «bene pubblico globale », milioni di dosi sono già state vendute o promesse a decine di Paesi. Con il passare delle settimane però il ritardo dei risultati è diventato un problema. Paradosso dei paradossi: a fornire i primi via libera sono stati una serie di governi stranieri, coinvolti a vario titolo nelle sperimentazioni. Gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato ad inoculare il vaccino Sinopharm parlando di efficacia all' 86%, ma senza dettagli. Più frammentari ancora sono stati gli annunci sull' altro composto cinese, quella dell' azienda privata Sinovac: la Turchia ha fissato l' efficacia al 91%, il Brasile si è limitato a dire che è sopra il 50%. La comunicazione di Sinopharm è la prima ufficiale che viene dalla Cina, ma resta comunque incompleta, perfino al confronto con quelle della Russia in merito al suo Sputnik V. Si vedrà quanto tempo impiegheranno le autorità per l' approvazione, probabilmente pochi giorni, e se a quel punto i dati verranno integrati. Già da giugno il governo ha consentito l' utilizzo d' emergenza, cioè per categorie a rischio, di tre vaccini, inoculati a oltre un milione di persone. Diversi esperti hanno messo in guardia sui rischi di procedere prima di avere dei risultati completi, ma le autorità comuniste hanno dichiarato di non aver riscontrato gravi reazioni avverse. Il livello di pressione per il via libera sale ogni giorno di più, anche in Cina: alcuni piccoli focolai sono spuntati in varie parti del Paese, tra cui Pechino, mentre si avvicina il Capodanno lunare, 12 febbraio, quando decine di milioni di cittadini si sposteranno verso i villaggi d' origine su mezzi sovraffollati. Per scongiurare il rischio che la festa riaccenda il contagio, le autorità vogliono vaccinare entro fine gennaio 50 milioni di persone a rischio, come medici, poliziotti e lavoratori della logistica. Le linee produttive sono state rafforzate, pronte a produrre centinaia di milioni di dosi. La scorsa settimana le autorità hanno anche fatto le prove generali della distribuzione. Ma sull' efficacia delle formule il giudizio resta ancora sospeso.
DIETRO I VACCINI, UNA INDECENTE GUERRA DA 50 MILIARDI DI DOLLARI SULLA NOSTRA PELLE. DAGOREPORT: L’ANTIDOTO INGLESE DI ASTRAZENECA, PRONTO A OTTOBRE, FU “CONGELATO”: CHI AVREBBE COMPRATO IL VACCINO TEDESCO-AMERICANO DI PFIZER-BIONTECH A 20 EURO A DOSE (CON TRASPORTO A -80 GRADI) MENTRE UNA DOSE DI OXFORD COSTA 2,80 EURO E PUÒ ESSERE CONSERVATO ANCHE IN FRIGORIFERO?
DAGOREPORT il 31 dicembre 2020. Come mai il via libera al vaccino AstraZeneca non c'è ancora? Eppure Oxford ha presentato la richiesta per l'autorizzazione in largo anticipo, a ottobre. Chiamatela geo-politica. Meglio: la grande truffa del vaccino. Intanto, il vaccino Pfizer-Biontech, prodotto in duplex dagli Stati Uniti di Biden e dalla Germania della Merkel, costa 20 euro a dose (con trasporto a -80 gradi), mentre quello britannico di AstraZeneca 2,80 euro a dose senza problemi di logistica (può essere conservato anche in un frigorifero di una farmacia). Dato che Oxford era pronta a ottobre mentre quello tedesco-americano era in ritardo, occorreva “bloccare” quello britannico: chi avrebbe comprato il vaccino Pfizer-Biontech a 20 euro a dose quando era già in circolazione quello a 2,80 euro? L’affare economico del Covid è mostruoso: ci sono in ballo 50 miliardi di dollari. E qui scende in campo l'agenzia del farmaco europea Ema (dove la Germania ha il suo peso: la Merkel ha investito 400 milioni in Biontech), che ogni giorno trova un cavillo per non dare il suo via libera al vaccino inglese, in attesa che sia pronto quello tedesco-americano. A questo punto, sorge spontanea la domanda: perché Boris Johnson, con la Gran Bretagna flagellata dal virus, non ha subito dato il via ,ad ottobre, alla vaccinazione con AstraZeneca? Qui entra in ballo la spregiudicatezza politica di Boris Johnson che si trova in mezzo a due guai: la sconfitta dell’amico Trump e la complessa chiusura della Brexit. Due fronti troppo pesanti per le sue spalle. Quindi, per ingraziarsi politicamente Biden e Merkel, Johnson fa “ritardare” dalla Mhra, l'agenzia del farmaco del Regno Unito, il nulla osta ad AstraZeneca. Infatti, il vaccino di Oxford (2,80 euro a dose) ottiene l'approvazione da parte della Mhra, l'agenzia del farmaco del Regno Unito, del vaccino anti Covid di Oxford AstraZeneca, solo dopo che mezzo mondo ha già acquistato a 20 euro a dose quello di Pfizer-Biontech e la trattativa della Brexit si è conclusa. Però, con una fava, Boris ha preso due piccioni. Scrive Maria Sorbi sul “Giornale”: “se l'Inghilterra avesse approvato lo studio AstraZeneca a ottobre, quando ha ricevuto i documenti, avrebbe dovuto dividere le dosi con il resto dell' Europa. Ora che può agire secondo Brexit, si può tenere le dosi prodotte tutte per sé, fino all' autorizzazione alla distribuzione in Europa. Quindi non è da escludere che mettere AstraZeneca in coda a Pfizer abbia avuto i suoi vantaggi per molti” (vedi articolo a seguire).
Maria Sorbi per "il Giornale" il 31 dicembre 2020. L'autorizzazione dell' agenzia del farmaco europea Ema per il vaccino di AstraZeneca dovrebbe arrivare entro l' Epifania. Prima rispetto alle ipotesi degli ultimi giorni (si temeva uno slittamento dell' ok alla fine di gennaio) ma comunque in coda rispetto alla concorrenza di Pfizer. Eppure Oxford ha presentato la richiesta per l' autorizzazione in largo anticipo, a ottobre. Come mai il via libera non c'è ancora? Possibile che il «giallo» della mezza dose in meno in grado di rendere più efficace il vaccino richieda così tante verifiche da lasciare al palo proprio l' azienda che sembrava in pole position? Viene il sospetto che dietro al congelamento delle pratiche AstraZeneca ci siano ragioni più politiche che prettamente scientifiche, come è facile immaginare quando in ballo ci sono così tanti soldi e quello che è stato ribattezzato dal' Oms «l' oro liquido». Anche perché, pur non essendo scienziati, è facile intuire che se AstraZeneca avesse realmente ottenuto per prima l' autorizzazione, Pfizer - che ha realizzato un vaccino molto più costoso e infinitamente meno agevole da conservare - avrebbe faticato parecchio a piazzare anche solo un lotto di dosi. E allora cosa è accaduto nel dietro le quinte del braccio di ferro internazionale? C' è un disegno politico sulle autorizzazioni dei vaccini e sulla loro distribuzione? In fondo Pfizer è stata la chiave della campagna elettorale americana e dal suo operato dipende tuttora la credibilità del neopresidente Joe Biden, che ha promesso un milione di dosi al giorno agli americani. Punto numero due: se l' Inghilterra avesse approvato lo studio AstraZeneca a ottobre, quando ha ricevuto i documenti, avrebbe dovuto dividere le dosi con il resto dell' Europa. Ora che può agire secondo Brexit, si può tenere le dosi prodotte tutte per sé, fino all' autorizzazione alla distribuzione in Europa. Quindi non è da escludere che mettere AstraZeneca in coda a Pfizer abbia avuto i suoi vantaggi per molti. Non certo per l' Italia, che nel progetto di Oxford/AstraZeneca ha invece creduto fin dall' inizio e ha opzionato già da mesi 16 milioni di dosi per i primi tre mesi dell' anno e altri 24 milioni per il trimestre successivo. Cosa succederà se con lo slittamento dell' autorizzazione Ema queste dosi non dovessero essere disponibili nei tempi previsti? Il commissario straordinario Domenico Arcuri nei giorni scorsi ha confermato che la Ue sta negoziando un' ulteriore fornitura del vaccino Pfizer. Per l' Italia si tradurrebbe in ulteriori 13,8 milioni di dosi e permetterebbe di «tirare avanti» nonostante i rallentamenti sui tempi di AstraZeneca. Si tratta tuttavia di un nulla rispetto ai 30 milioni di dosi extra chiesti dalla Germania. Una fornitura che va oltre le quote fissate da Bruxelles per ogni stato in base alla sua popolazione. Ma il ministro tedesco Spahn usa un binario parallelo e prende accordi direttamente con le case farmaceutiche per accelerare i tempi e non creare intoppi nel piano vaccini. Come è possibile? Il premier Giuseppe Conte sostiene che non sia consentito negoziare forniture extra accordi Ue ma i fatti lo smentiscono. «Gli acquisti nazionali del vaccino anti Covid sono previsti dall' accordo-quadro dell' Ue», fa notare il ministro tedesco. E dietro la corsia preferenziale, ça va sans dire, c' è anche un governo che dei 750 milioni di euro investiti nelle aziende tedesche impegnate nello sviluppo del vaccino, ne ha dati la metà a BioNTech, che opera assieme a Pfizer.
Mic. All. per "il Messaggero" il 31 dicembre 2020. I cyber-attacchi sono iniziati quando è stato reso pubblico il prezzo di vendita del vaccino: 2,80 euro a dose. E sono proseguiti per giorni, violentissimi, lanciati parte di hacker professionisti. Hacker che ora la Procura di Roma sta cercando di individuare. I pm coordinati dal procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli hanno aperto un fascicolo per accesso abusivo al sistema informatico sul caso degli attacchi web all'Irbm di Pomezia, l'azienda che sta collaborando insieme all'università di Oxford alla messa a punto del vaccino anti-Covid prodotto e commercializzato su vasta scala da AstraZeneca. Le indagini sono state delegate al Cnaipic, Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia Postale. Nei giorni scorsi era stata l'azienda a dare l'allarme, denunciando che le incursioni dei pirati informatici nei loro software si erano intensificate quando era stata comunicata la quantità - oltre tre miliardi - di dosi che sarebbe stata prodotta. «Abbiamo avuto almeno sette attacchi molto pesanti», ha dichiarato in un' intervista Piero Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato dell' Irbm Pomezia. Solo una certezza, per il momento: gli attacchi sono stati lanciati dall' estero, o almeno così sembra. L' obiettivo dei pirati informatici, in tutte le occasioni, era accedere abusivamente ai server dell' Irbm, rubare i dati sensibili dell' operazione vaccino, probabilmente con l' obiettivo di venderli o divulgarli. «Non possiamo più utilizzare mail e telefoni per tutte le comunicazioni di dati sensibili», ha aggiunto Di Lorenzo. Si tratta di uno dei capitoli di una campagna di phishing globale denunciata nelle scorse settimane dall' Ibm, che ha come bersagli aziende e organizzazioni impegnate nello sviluppo della catena del freddo per distribuire i vaccini contro Sars-CoV-2. Secondo CybergON, azienda che si occupa di sicurezza informatica, in questi mesi è stata scatenata una vera e propria cyber-guerra per sottrarre informazioni riservate che ruotano intorno allo sviluppo e alle sperimentazioni dei vaccini, in tutto il mondo. Dal report 2020 di Enisa, l' Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell' informazione, questa attività di spionaggio industriale e informatico è aumentata tra luglio e novembre e si è incrementata in modo esponenziale quando sono arrivati gli annunci delle case farmaceutiche e sono iniziate le somministrazioni in diversi Paesi. Secondo chi indaga, diversi gruppi criminali avrebbero pianificato attacchi mirati ai server delle case farmaceutiche e ai database dei laboratori di ricerca dalla scorsa primavera, quando le ricerche sui vaccini hanno iniziato a dare i primi risultati concreti. In maggio sul dark web era già possibile reperire vaccini falsi e plasma di pazienti Covid-19. Mentre in luglio è arrivato il primo attacco a diversi laboratori americani, inglesi e canadesi da parte del gruppo Cozy Bear, conosciuto anche come Apt29. Secondo gli investigatori una parte degli attacchi sarebbe finanziato dal Paese di provenienza e dai suoi reparti di intelligence. Ma nella maggioranza dei casi i protagonisti sarebbero criminali informatici che puntano a fare montagne di soldi con informazioni riservate.
Vaccino AstraZeneca approvato in Regno Unito: ok dall’agenzia. Notizie.it il 30/12/2020. Il Regno Unito ha approvato l'utilizzo del vaccino Oxford-AstraZeneca: al via le somministrazioni insieme a quelli di Moderna e Pfizer. L’Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari del Regno Unito (MHRA) ha approvato l’utilizzo del vaccino sviluppato da AstraZeneca e dall’Università di Oxford. Si tratta del primo stato ad autorizzarne la somministrazione come già successo per l’antidoto della Pfizer, la cui approvazione era giunta prima di tutto il resto del continente. La notizia è giunta dopo la frenata da parte dell’Agenza europea del farmaco (Ema) che aveva parlato di un possibile ritardo nell’approvazione dell’antidoto originariamente prevista per gennaio. Il vicedirettore Noel Wathio aveva infatti definito improbabile il via libera entro il primo mese dell’anno. “Non hanno ancora fatto domanda, servono altri dati sulla qualità del vaccino“, aveva aggiunto. Il ministro della Salute britannico Matt Hancock ha invece affermato di aver già ricevuto da AstraZeneca e Oxford tutti i dati necessari. Tanto che a poca distanza è giunta l’autorizzazione. Secondo organi d’informazione del Regno Unito, le prime dosi potrebbero essere somministrate a partire dal 4 gennaio 2021. Sono dunque tre allo stato attuale gli antidoti anti Covid approvati e somministrati in territorio britannico: Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca-Oxford. Sono già migliaia le persone che hanno ricevuto il vaccino. L’Unione europea ne ha invece autorizzato soltanto uno (Pfizer-BioNTech) e sul vaccino di Moderna, già approvato anche in Canada e Stati Uniti, l’Ema si pronuncerà il 6 gennaio 2021.
(ANSA il 30 dicembre 2020) - Via libera nel Regno Unito al vaccino Oxford - AstraZeneca. L'ok è arrivato dall'Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari (MHRA), come riferiscono i media locali. E' il secondo vaccino ad essere approvato nell'isola dopo quello della Pfizer. La Bbc rileva che l'approvazione del vaccino Oxford-AstraZeneca costituisce un importante punto di svolta e porterà a una massiccia espansione della campagna di immunizzazione del Regno Unito, dove sono state già ordinate 100 milioni di dosi, sufficienti per vaccinare 50 milioni di persone. Il vaccino Oxford-AstraZeneca è stato progettato nei primi mesi del 2020, testato sul primo volontario ad aprile e da allora è stato sottoposto a studi clinici su larga scala che hanno coinvolto migliaia di persone. È il secondo prodotto ad essere approvato nel Regno Unito dopo quello della Pfizer-BioNTech. Ma a differenza di quest'ultimo, il farmaco Oxford-AstraZeneca è più facile da conservare perché non necessità di temperature sotto i 70 gradi. Proprio ieri l'Ema, l'agenzia europea del farmaco, aveva stimato che fosse "improbabile" l'approvazione del vaccino AstraZeneca in Europa a gennaio.
Vaccino coronavirus, AstraZeneca chiede l'ok all'Ema che replica: "Servono più informazioni". La Repubblica il 30 dicembre 2020. L'Agenzia europea per i medicinali chiede "dati scientifici addizionali rispetto alla qualità, sicurezza ed efficacia". Al via la fase due del piano vaccini: arrivato in Italia il 75% delle dosi Pfizer, l'altro 25% atteso per domani. "Possiamo confermare di aver presentato un pacchetto completo di dati a sostegno di una domanda di autorizzazione all'immissione in commercio condizionale per il vaccino AstraZeneca Covid-19 all'Agenzia europea per i medicinali". A confermarlo è un portavoce di AstraZeneca, la multinazionale che, insieme all'Università di Oxford e a Irbm Pomezia, ha progettato uno dei candidati vaccini anti-Covid. "AstraZeneca - spiega l'azienda - ha inviato i dati su base continuativa e continuerà a lavorare a stretto contatto con l'Ema per supportare l'inizio di un processo formale di richiesta Cma. Un approccio simile alla fornitura di dati su base continuativa è stato adottato con altre autorità di regolamentazione in tutto il mondo". Una notizia che segue di poche ore il via libera da parte del Regno Unito al vaccino di Oxford. Ulteriori informazioni sul candidato vaccino anti-Covid Oxford-AstraZeneca sono state ricevute dall'Agenzia europea per i medicinali Ema da parte dell'azienda "durante il periodo di Natale, in risposta alle domande dei team di valutazione sui dati". Lo apprende l'ANSA da fonti Ema, che sottolineano come "la valutazione di queste informazioni è in corso". La task force Ema su Covid-19 discuterà a breve dei dati con il Comitato Ema per i medicinali ad uso umano (CHMP). La stessa Ema annuncia proprio sito che sono necessarie "informazioni scientifiche addizionali rispetto alla qualità, sicurezza ed efficacia" del candidato vaccino anti-Covid Oxford-AstraZeneca. "Informazioni ritenute necessarie per supportare il rigore richiesto per una autorizzazione al mercato condizionata".
Vaccini, ecco perché la Gran Bretagna ha già approvato quello di Astra-Zeneca. Luca Fraioli su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Londra dà il via libera mentre l'Unione Europea aspetterà fino a fine gennaio: i motivi di una decisione che ha risvolti politici oltre che scientifici. Nel Regno Unito condotti studi più specifici sul preparato di Oxford già da mesi. UK-Europa due a zero. Dopo il vaccino Pfizer, Londra approva prima degli altri (e soprattutto prima della Ue) il ritrovato Astra-Zeneca a cui ha lavorato l’Università di Oxford. C’è da chiedersi: come mai? I funzionari britannici della Medicines and Healthcare products Regulatory Authority (MHRA) sono più efficienti e capaci dei loro colleghi dell’EMA, l’agenzia del farmaco europea? O forse sono più accondiscendenti con una politica che preme per avere in fretta una soluzione all’emergenza Covid da spendere con l’opinione pubblica? Difficile districarsi in una vicenda che intreccia verità scientifiche e battaglie politiche come quella appena conclusasi della Brexit. Ecco però alcune risposte.
La MHRA è una istituzione seria? Nella comunità scientifica l’Agenzia regolatori britannica è considerata una delle più rigorose. Difficile che abbia approvato i vaccini Pfizer e Astra-Zeneca per accondiscendenza al governo. Certamente però, in pieno spirito Brexit, ha proceduto autonomamente senza coordinarsi con le equivalenti autori europee.
Come mai gli inglesi hanno approvato i vaccini per primi? Ancora non si conoscono i dettagli della procedura che ha portato all’ok per il vaccino Astra-Zeneca, anche se la decisione di approvare il vaccino ha fatto seguito a "rigorosi studi clinici e un'analisi approfondita dei dati da parte di esperti dell'MHRA, che ha concluso che il vaccino ha soddisfatto i suoi rigorosi standard di sicurezza, qualità ed efficacia”. Sappiamo però qual è stato il metodo seguito per il vaccino Pfizer: anche in quel caso il Regno Unito fu il primo paese al mondo ad approvarlo, il 2 dicembre. Quel giorno June Raine, direttrice della MHRA, spiegò il processo usando la metafora di una scalata: “Abbiamo abbiamo iniziato a prepararci nel giugno scorso. Lavorando sui dati parziali fornitici dall’azienda il 10 novembre scorso eravamo al campo base. Poi con le analisi finali abbiamo fatto l’ultimo sprint e oggi siamo arrivati in vetta”. Il segreto inglese sarebbe dunque l’aver lavorato in parallelo con le case farmaceutiche impegnate nella caccia al vaccino. Senza attendere, come si fa normalmente, che tutte le fasi della sperimentazione di un farmaco siano state completate perché le agenzie inizino l’iter che porterà alla sua approvazione.
Nel Regno Unito sono stati condotti studi più specifici? Sì. Lo studio più ampio relativo al vaccino Astra-Zeneca è stato condotto su 11.636 volontari e ha portato a concludere che il vaccino dà una copertura del 62%. Un secondo studio realizzato solo in Gran Bretagna su 2.741 persone a cui è stata iniettata mezza dose e poi una dose intera quattro settimane dopo, ha invece dimostrato una efficacia del 90%.
A che punto è la procedura europea per il vaccino Astra-Zeneca? La riunione per l’eventuale via libera è prevista il 6 gennaio. Ma ieri l’Ema ha fatto sapere che i dati forniti da Astra-Zeneca sono considerati insufficienti anche per una licenza provvisoria. L’azienda, una multinazionale con il quartier generale nel Regno Unito, avrebbe consegnato solo le informazioni relative ai propri studi clinici, mentre ne servirebbero di aggiuntivi sulla qualità del vaccino. Inoltre, la compagnia non avrebbe neppure fatto domanda formale di approvazione all’Ema.
Gli europei sono gli unici in ritardo? No, anche la più importante e rigorosa agenzia del farmaco mondiale, la Food and Drug Administration (FDA) americana non ha ancora approvato il vaccino Astra-Zeneca. La multinazionale sta conducendo un ampio studio negli Stati Uniti e probabilmente solo quando sarà stato completato la FDA si esprimerà. In particolare l’Agenzia Americana vuole più dati sulla protezione che il vaccino offre alle persone anziane e alle minoranze etniche.
Un mix esplosivo contro il Covid: ora studiano il super-vaccino. AstraZeneca e i russi del vaccino "Spuntik V" uniranno le forze per trial congiunti che potranno dar vita ad un super vaccino contro il Covid. Alessandro Ferro, Domenica 27/12/2020 su Il Giornale. L'unione fa la forza: in tempi di Covid vale anche per i vaccini. Oltre alla "corsa" che decine di aziende nel mondo, ognuna per la sua strada, stanno facendo per mettere a punto il prodotto migliore per bloccare il virus, c'è anche un caso che non si verifica spesso: AstraZeneca e Sputnik V hanno deciso di unire le forze e miscelare i loro vaccini.
La nota di AstraZeneca. L'azienda biofarmaceutica britannico-svedese AstraZeneca ha detto che proverà il suo vaccino anti-Covid in combinazione con quello russo dopo che il mese scorso alcuni scienziati russi avevano suggerito che l'unione dei due preparati potrebbe aumentarne l'efficacia. Per saperne di più, abbiamo provato a metterci in contatto con le rispettive aziende: l'Istituto Gamaleya con sede a Mosca non ha mai risposto, AstraZeneca ci ha inviato una nota in cui viene sottolineato come, per "superare la pandemia COVID-19, sarà necessario più di un vaccino e dato che diversi vaccini sono in fase di sperimentazione e/o approvazione, è importante capire come possono essere utilizzati, la loro intercambiabilità o il loro potenziamento. Essere in grado di combinare diversi vaccini può essere utile per migliorare la protezione e/o l'accesso ai vaccini e per questa ragione è importante esplorare diverse combinazioni al fine di contribuire a rendere i programmi di immunizzazione più flessibili, consentendo ai medici una scelta più ampia al momento della somministrazione". "Unione anche con altri vaccini". La nota di AstraZeneca si conclude con una riflessione che spiana la strada nel "valutare combinazioni eterologhe di diversi vaccini, lavorando con partner industriali, governi e istituti di ricerca in tutto il mondo, e presto inizierà a collaborare con il Gamaleya Research Institute in Russia per capire se due vaccini a base di adenovirus possono essere combinati con successo". In pratica, non è escluso che possa esserci l'unione anche con vaccini di altre aziende. Kirill Dmitriev, capo del fondo sovrano russo RDIF (Fondo russo per gli investimenti diretti) che ha finanziato lo Sputnik V, ha dichiarato "la forza della tecnologia Sputnik V e la nostra volontà e desiderio di collaborare con altri vaccini per combattere insieme Covid", secondo quanto riportato dal Messaggero.
Come funzionano. Le prove inizieranno a giorni, sono previste entro la fine dell'anno. Ma cos'hanno in comune i due vaccini anti-Covid? Intanto, l'italo-inglese sviluppato da AstraZeneca assieme all'azienda Irmb di Pomezia, chiamato AZD1222, ha dimostrato di avere un'efficacia del 62,1% se somministrato in due dosi intere ma l'efficacia aumenta fino al 90% nei volontari che hanno ricevuto mezza dose seguita da una dose intera. È quanto emerso dall'analisi provvisoria degli studi di fase tre, pubblicata sulla rivista Lancet. Nel vaccino è stato sviluppato un tipo di vettore virale non replicante che utilizza un virus innocuo per stimolare il sistema immunitario di un ricevente a sviluppare anticorpi. Rispetto ai vaccini ad mRNA di Pfizer e Moderna, l’iniezione di AstraZeneca è più facile ed economica da produrre, trasportare e conservare (in frigo tra 5 ed 8 gradi). L'Italia punta molto su questo vaccino: ne ha acquistato ben 40,38 milioni di dosi, secondo soltanto a quelli dell'azienda Johnson & Johnson con 53,84 milioni. Ecco lo Sputnik V. Come il vaccino Oxford-Pomezia, anche lo Sputnik V russo si basa su una versione modificata dell'adenovirus, un comune virus del raffreddore. Questo "vettore" viene privato di tutti i geni che causano malattie e modificato per trasportare le istruzioni genetiche per produrre la proteina del coronavirus, che passa alle cellule umane. La proteina spike prodotta dal coronavirus innesca, quindi, una risposta immunitaria che protegge dalla malattia Covid-19.
L'errore di AstraZeneca. E se il sodalizio fosse nato perché uno, o entrambi i vaccini, non hanno dimostrato l'efficacia sperata? Dubbio più che legittimo, dal momento che AstraZenenca ha subito un forte stop a causa di un errore nel dosaggio: ai volontari, infatti, era stata somministrata soltanto mezza dose la quale, a sorpresa, si è rivelata più efficace di quella intera (due dosi intere 62% di efficacia, mezza dose più una 90%). "Non lo so, credo siano logiche aziendali che coinvolgono, semmai, le agenzie regolatorie e alcuni Stati. Quello che è probabile è che, essendo molto simile la piattaforma tecnologica, abbiano pensato ad una sodalizio di sinergia per la produzione e per la messa a punto", ha detto in esclusiva per ilgiornale.it il professore Massimo Clementi, Direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale San Raffaele di Milano, che ci ha spiegato le difficoltà del vaccino italo-inglese. "Errore gravissimo". "AstraZeneca era partita molto velocemente, poi si è trovata in grossa difficoltà per l'errore del dosaggio, errore gravissimo per un'industria farmaceutica, cioè quello di dimezzare la dose. Ci sono varie teorie sul perché sia successo, forse non ha funzionato bene un rilevatore ma è qualcosa che non deve accadere", ha spiegato Clementi. L'Italia, come spiegato prima, ha puntato molto su questo vaccino che, al momento, non dà le garanzie di altre case farmaceutiche. "Se i dati sono quelli che abbiamo visto, a parte il 90% della dose dimezzata, il 70% era ciò che veniva considerato accettabile come efficacia minima ma, allo stato attuale, è notevolmente inferiore rispetto a quelli di Pfizer e Moderna, ben sopra il 90%. Penso, quindi, che ci sia una sorta di difficoltà", ci ha detto il professore Oltre al vaccino, però, l'azienda britannica ha messo a punto uno studio sugli anticorpi monoclonali come profilassi all'infezione. "Mi sembra un'ottima cosa, non tutti i soggetti risponderanno ai vaccini, una piccola quota non risponderà o non potranno essere vaccinati. Avere un'alternativa è sempre una cosa valida", sottolinea Clementi.
L'immunità anti-vettore. Un potenziale problema con questa tipologia di vaccini riguarda l' "immunità anti-vettore": se il sistema immunitario ha precedentemente incontrato il tipo di adenovirus utilizzato nel vaccino, può distruggerlo prima che il vaccino possa innescare una risposta immunitaria. Questo è il motivo per cui il gruppo dell'Università di Oxford ha scelto di utilizzare un adenovirus scimpanzé piuttosto che uno umano. Tuttavia, l'immunità anti-vettore potrebbe anche ridurre l'efficacia dei colpi di richiamo, se ciò comporta l'iniezione dello stesso virus per una seconda o terza volta. Mescolare e abbinare diversi vaccini potrebbe, quindi, fornire una soluzione. Questo concetto è noto come "potenziamento primario eterologo" ed è stato utilizzato nei programmi di vaccinazione contro altre malattie. Differenze con vaccini ad mRna. "L'adenovirus è un vettore inerte, il suo unico compito è portare all'interno delle cellune l'Rna che veicola: molti adenovirus, però, sono diffusi nella specie umana e sceglierne uno umano poteva essere rischioso perché poteva causare una risposta di anticorpi nei confronti del vettore che impediva al vaccino di entrare dentro le cellule", ha spiegato Clementi. È per questo che è stato scelto il vettore di un primate, in questo caso di una scimmia. "Questo problema non c'è con i vaccini ad mRna i quali vengono veicolati da piccole particelle di lipidi, i grassi, che vanno dentro le cellule e sono totalmente inerti". Alcuni dubbi. A differenza di AstraZeneca, Sputnik V utilizza due diversi vettori di adenovirus umani per cercare di innescare una risposta immunitaria più forte e a lungo termine. Non è ancora chiaro quale di questi componenti sarà testato insieme al vaccino AstraZeneca. Come riportato dal TheGuardian, l'immunità anti-vettore potrebbe anche fornire una possibile spiegazione del motivo per cui il vaccino AstraZeneca sembra funzionare meglio se somministrato come mezza dose seguita da una completa, piuttosto che due dosi complete.
Qual è la situazione attuale. Il vaccino sviluppato da Oxford e dall'azienda italiana Irbm di Pomezia, nonostante il brusco stop è già in fase tre e nei prossimi giorni si attende il via libera dell'agenzia del farmaco del Regno Unito per l'uso sulla popolazione inglese. Nelle prime settimane del 2021 potrebbe essere validato anche per l'Italia se ci sarà l'ok di Ema ed Aifa. Di contro, invece, i russi hanno iniziato la somministrazione del loro Sputnik V già il 10 dicembre scorso nonostante molte perplessità da parte del mondo scientifico per la fretta con il quale è stato approvato e la mancanza di un numero di dati sufficiente per l'ok definitivo (ne abbiamo parlato su InsideOver). Nelle ultime ore, però, il ministero della Sanità della Russia ha autorizzato per la vaccinazione di massa anche le persone al di sopra dei 60 anni d'età. Il ministro della salute, Mikhail Murashko, ha sottolineato che le ultime analisi hanno confermato che l'uso dello Sputnik V "non comporta alcun rischio per gli anziani".
Che cosa è e che cosa vuole. Il virus inglese è più forte dell’altro ed è destinato a prenderne il posto. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. È norma universale che niente in Natura resta immutabile. L’evoluzione di ogni forma vivente è incessantemente soggetta a questa legge. Non bisogna infatti pensare che la teoria di Darwin si applichi solo ai dinosauri o agli ominidi discesi dalle scimmie antropomorfe. Al contrario, proprio in questo momento, sotto i nostri occhi, per quanto incapaci di cogliere le minime differenze delle nuove generazioni rispetto alle precedenti, tutte le specie stanno mutando. Tali mutazioni della prole rispetto ai genitori sono assolutamente aleatorie. Nella maggior parte dei casi le mutazioni sono irrilevanti e la prole ha le stesse capacità dei genitori di adattamento all’ambiente, e quindi le loro stesse probabilità di sopravvivenza. Spesso le mutazioni sono sfavorevoli e ciò pregiudica l’aspettativa di vita degli individui che la presentano. Aspettativa di vita più breve, corrisponde a una minore capacità di riproduzione e, perciò, a una minore possibilità di generare una prole che erediti quella particolare mutazione. A volte invece la mutazione casuale comporta un vantaggio. L’individuo che la possiede avrà maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi, dando origine a una progenie più numerosa, che diffonderà a sua volta questa mutazione. Vediamo in pratica come funziona. Dobbiamo arrivare al Coronavirus inglese, ma è bene arrivarci passando per la savana. Anche un bambino riconosce a prima vista l’anomalia della giraffa. Ci sono sì animali col collo lungo, ma lei esagera… Charles Darwin diede una spiegazione di questa caratteristica che si dimostrò corretta alla prova dei fatti, quando in seguito vennero ritrovati fossili di animali simili alla giraffa, ma con collo più corto. Darwin immaginò che inizialmente le giraffe avessero un collo proporzionato alla loro corporatura ma che, pian piano, generazione dopo generazione, le giraffe nate casualmente col collo un po’ più lungo delle altre avessero maggiore probabilità di sopravvivere e quindi di trasmettere alla progenie questa utile prerogativa. Siccome i germogli più succosi e nutrienti delle piante spinose di cui si nutrono le giraffe si trovano in alto, le giraffe dal collo lungo potevano raggiungerli con più facilità, alimentarsi meglio, essere più robuste, resistere meglio alle carestie e difendersi più efficacemente dagli attacchi dei leoni. Bene, le giraffe possono andare. Veniamo ai virus. Il virus non si può classificare tout court come essere vivente. A differenza degli esseri viventi propriamente detti, il virus nasce, ma non cresce, non ha organi interni, non si muove da solo, non svolge funzioni metaboliche, e quindi non si nutre e non respira, e non si riproduce autonomamente. Come lo definii altrove, è un pacchetto regalo -indesiderato- per cellule. Nella scatola, un guscio rigido di materiale proteico, è contenuto il suo patrimonio genetico, che viene introdotto in modo truffaldino nella cellula. La cellula a quel punto si comporta allo stesso modo dell’uccellino che si ritrova nel nido un pulcino di cuculo: come l’uccellino, ingannato, è indotto ad alimentare il cuculo, così la cellula è indotta a fungere da “ovulo” per il virus che la feconda. Tutta la macchina riproduttiva cellulare, originariamente predisposta per generare altre cellule, si mette a procreare tanti gemelli, figli del virus che l’ha infettata. E, nello specifico, come fa il Coronavirus a ingannare la cellula e indurla ad “aprirgli la porta” e ad accoglierlo al suo interno? Con un inganno, appunto. Lo strumento che il Coronavirus usa per perpetrare l’inganno sono le spine che spuntano dalla sua superficie e che i biologi definiscono “spikes”, spine. Il sistema è simile a quello dei dispositivi elettronici che consentono l’accesso all’utente tramite il riconoscimento della sua impronta digitale. Alla cellula servono alcune sostanze nutrienti che si trovano nel flusso sanguigno e che la cellula riconosce dalla loro composizione chimica: Invece di pronunciare la parola d’ordine, la sostanza nutriente arriva in corrispondenza di una porzione della superficie cellulare preposta al riconoscimento di una certa molecola che deve essere fatta entrare. Questa molecola è contraddistinta da una particolare struttura chimica, proprio come fosse un’impronta digitale. La cellula identifica l’impronta digitale della molecola e consente l’ingresso. Il Coronavirus ha creato un’impronta digitale contraffatta. Le spikes infatti simulano la struttura chimica di una molecola necessaria alla cellula. Il Coronavirus si avvicina alla cellula, espone una delle sue spine a quella parte della parete cellulare predisposta al riconoscimento e il gioco è fatto! Il sensore controlla l’identità attraverso l’esame dell’impronta digitale e viene turlupinato. La parete cellulare si apre e il gran nemico entra senza guerra, anzi accolto come un benefattore. Se solo Dante avesse conosciuto il Coronavirus, non avrebbe mai sostenuto che la “frode è dell’uom proprio male” (Inf. XI, 25)… Ora abbiamo tutti gli elementi per capire la variante inglese del virus, il pericolo che rappresenta e rispondere alle domande e ai legittimi timori sullo sviluppo della pandemia e su possibili nuove ondate. L’arma segreta del Coronavirus sono quindi le spikes. La battaglia si combatte, da parte del virus, affinando il meccanismo delle spikes e, dalla nostra parte, cercando di disattivare le spikes. Anche in questo c’è un’analogia stringente con la guerra di intelligence: c’è chi cerca di affinare gli strumenti di intrusione e chi cerca di bloccarli, il primo per infiltrarsi, l’altro per impedire l’infiltrazione. Il meccanismo delle spikes è efficiente, ma non è infallibile. In natura nulla è infallibile e tutto è perfettibile. Anche il predatore più abile e potente non ha affatto la certezza di riuscire a catturare la preda. Al contrario, generalmente, la preda riesce a sfuggire all’attacco. Il Coronavirus non fa eccezione. Le sue spikes sono proprio un bel meccanismo insidioso, ma si può fare di meglio. Tuttavia un virus non può migliorare da solo le proprie armi, anzi è incapace di fare qualunque cosa, a parte parassitare le cellule. Però il caso può lavorare in suo favore. Generazione dopo generazione, i virus mutano, come le giraffe. Le mutazioni possono essere irrilevanti, dannose, o vantaggiose. Le mutazioni irrilevanti lasciano inalterate le caratteristiche del virus; le mutazioni dannose fanno sì che quel ceppo virale tenda a soccombere e scomparire; le mutazioni vantaggiose, che quel ceppo tenda a imporsi sui suoi cugini meno attrezzati nella lotta per la sopravvivenza. La variante inglese è un ceppo del terzo tipo, che presenta una mutazione utile alla sua diffusione, consistente in una modifica delle sue spikes. Dai primi studi condotti, sembra che le spikes della variante inglese abbiano infatti una capacità di infezione superiore. Sono state messe in vitro colture di cellule infettabili da Coronavirus, si sono introdotti sia il Coronavirus originario, che quello inglese, e quest’ultimo ha prevalso. Alla fine, nella coltura si sono trovati solo Coronavirus inglesi. Anche tra i virus c’è rivalità, perfino tra parenti! Domani vedremo cosa comporta la comparsa del ceppo inglese e la ripercussione sulla campagna vaccinale ormai alle porte.
"Hanno taciuto per tre mesi...". Il virus mutato e i sospetti su Londra. Dai primi di dicembre la circolazione fuori controllo nel Sud Est dell'Inghilterra. E Ricciardi inchioda Johnson: "Sapeva da settembre". Perché lo ha tirato fuori soltanto ora? Andrea Indini, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. Sembra un brutto film già visto. Prima l'allarme: identificata a Londra una variante più contagiosa del Covid-19. Quindi, la decisione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio di chiudere tutti i voli provenienti dall'Inghilterra (ma solo quelli provenienti dall'Inghilterra e non quelli in arrivo dall'Olanda e dalla Danimarca nonostante ne sia certa la circolazione in quei Paesi). Poi la doccia fredda (dopo pochissime ore): la mutazione è già presente in Italia, i medici dell’ospedale militare del Celio hanno sequenziato il genoma della nuova versione in una paziente. Infine il solito dibattito tra virologi che si dividono tra chi crede che non inciderà sull'efficacia del vaccino e chi invece teme che potrebbe metterlo a rischio.
La nuova variante del Covid-19. Questa mattina, intervenuto a Buongiorno su SkyTg24, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, si è congratulato con il governo per aver sbarrato la strada ai voli inglesi "in modo straordinariamente tempestivo". Ma è stato davvero così? La decisione, come sappiamo, è arrivata ieri pomeriggio dopo che nelle ultime ore Boris Johnson aveva optato per un nuovo lockdown totale al fine di frenare la nuova variante del Covid-19. "Non è possibile ignorare la velocità di trasmissione della nuova variante - aveva spiegato il primo ministro - quando il virus cambia il suo metodo di attacco, dobbiamo cambiare il nostro metodo di difesa". Che in Inghilterra circolasse una nuova forma di coronavirus molto più aggressiva, lo si sapeva da mesi. In un grafico pubblicato ieri dall'European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) si vede molto bene l'impennata di ottobre. Tuttavia è stato solo dai primi di dicembre ad accendere l'interesse di Downing Street. Perché? Lo scorso 14 dicembre il segretario alla Salute Matt Hancock aveva ammesso che già una sessantina di autorità locali avevano registrato infezioni da Covid-19 causate da questa nuova variante. Non solo. In quell'occasione Hancock aveva anche fatto sapere che non solo gli scienziati del laboratorio di Porton Down si erano già messi a fare nuovi, dettagliati studi ma che il dossier era stato inviato in modo tempestivo all'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Interrogato sull'argomento lo stesso giorno, durante una conferenza stampa a Ginevra, Mike Ryan, capo delle operazioni di emergenza dell'Oms, aveva messo le mani avanti spiegando che "sono state segnalate molte varianti diverse di coronavirus". Quella inglese, quindi, era solo una in più da monitorare. "Ora la questione è - puntualizzava Ryan in quelle ore - è diffusa a livello internazionale? Rende il virus più serio? Interferisce con farmaci e vaccini? Al momento non abbiamo informazioni in questo senso - concludeva - dunque è importante studiare questa variante, per capire se è significativa".
I silenzi di Boris Johnson. La notizia era circolata anche sulla stampa italiana. Il 14 dicembre ne aveva dato conto anche ilGiornale.it spiegando che l'area maggiormente colpita era quella del Sud-Est (due giorni dopo verrà infatti sottoposta a restrizioni più rigide, quelle di livello 3) e che aveva contagiato almeno un migliaio di persone. "Ad oggi non ci sono prove che si comporti in modo diverso dalle altre già note", spiegava Maria Van Kerkhove dell'Oms rassicurando che la pratica era stata affidata al Virus Evolution Working Group all'interno del più ampio studio delle mutazioni scoperte nei visoni in diverse parti del mondo. Capitolo chiuso. Fino al 19 dicembre quando Johnson aveva indetto una riunione d'emergenza con il suo gabinetto. A preoccuparlo erano state le conclusioni a cui era giunto il New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (Nervtag) dopo aver analizzato i dati dei modelli preliminari della nuova variante e i tassi di incidenza in rapido aumento nel Sud-Est. Le misure erano state immediatamente alzate dal "livello 3" a "livello 4", prevedendo una "zona super-rossa" per limitare anche le riunioni di famiglia. Da quel momento la notizia ha ripreso a circolare anche sulla stampa italiana e a suscitare un qualche interesse del governo Conte. Quello che, però, Johnson non ha detto in quella riunione d'urgenza è che, come rivelato da Walter Ricciardi in una intervista al Messaggero, era a conoscenza di questa minaccia da almeno tre mesi. "Ciò che mi fa arrabbiare è che gli inglesi sapevano già da settembre che era in circolazione questa variante", denuncia il consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza. "Hanno taciuto, non ci hanno avvertito...". Secondo il virologo Andrea Crisanti, la versione britannica del Covid-19 "è apparsa in Spagna" la scorsa estate e "da lì, probabilmente a causa dei flussi turistici, si è spostata in Gran Bretagna". Nessuno, però, ancora sa dirci perché si è diffusa in modo diverso.
Le misure tardive dell'Italia. In Europa il primo Stato a sospendere i voli dall'Inghilterra è stato l'Olanda. La decisione è arrivata sabato mattina. Nelle stesse ore il Belgio faceva lo stesso fermando anche i collegamenti ferroviari con la Gran Bretagna. Era però già tardi: oltre che nel Regno Unito la variante ormai circolava in Australia, Danimarca e Olanda. Per questo quando ieri mattina Di Maio ha deciso di sospendere solo i voli provenienti dall'Inghilterra, la misura è apparsa tardiva e inutile. Esattamente come era stato quando lo scorso gennaio aveva deciso di bloccare gli aerei provenienti da Wuhan senza pensare, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), che i cittadini cinesi potessero fare scalo in altri Paesi e quindi arrivare in Italia in altro modo. "Chiudere i voli con il Regno Unito è una buona mossa se lo fanno tutti gli altri Paesi - fa, infatti, notare Ricciardi nell'intervista al Messaggero - se lo fa solo uno non serve, bisogna farlo in tutta Europa". Non solo. Scoperto già il primo paziente contagiato dalla variante inglese viene da chiedersi quante possano essere le persone già arrivate in Italia dai Paesi indicati dall'Oms come luoghi di incubazione del Covid 19 "mutato". Secondo una stima del Giornale, abbiamo a che fare con circa 45mila possibili "untori". Non pochi vista la velocità con cui si diffonde il nuovo virus. Ma il punto non è questo o per lo meno non è solo questo: se si sapeva già mesi dell'esistenza di una variante più contagiosa, perché si è deciso di intervenire soltanto adesso? Ora tutti a cercare la stessa variante in Italia. Appena ci si sono messi hanno subito trovato un caso. "Più si cerca, più si trova", spiega Crisanti all'agenzia Agi facendo notare che "l'Inghilterra è il Paese in cui si fanno più sequenziamenti al mondo". Tutta la baraonda delle ultime ore, insomma, risulta parecchio difficile da spiegarsi. Anche perché la nuova mutazione (una delle tante) non solo non è più virulenta ma non inficerà nemmeno gli effetti del vaccino.
Coronavirus, Gianluca Veneziani contro i sinistri: "Mangiavano involtini cinesi e ora processano Londra". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 23 dicembre 2020. Deve essere la nuova forma di politicamente corretto, che potremmo definire geopoliticamente corretto: se l'epidemia arriva da Wuhan, guai a parlare di «virus cinese» e ad addossare responsabilità alla Cina; se invece una sua mutazione attecchisce in Gran Bretagna, non si fa che parlare di «variante inglese» e di quanto essa sia contagiosa. Che dio stramaledica gli inglesi, perché ci hanno mandato la versione aggiornata, 2.0, del Corona, chissà se per negligenza della Corona. Si vede che ai britannici non abbiamo ancora perdonato la Brexit, lo smacco insopportabile di aver lasciato ciò che resta dell'Unione europea; o si vede che, da quando al comando c'è Boris Johnson, che di Trump ricorda le politiche oltreché il taglio dei capelli, delle popolazioni d'Oltremanica si può dire peste e corna. Fatto sta che, non appena si è scoperto che una forma mutata del virus dilagava a Londra e dintorni, tutti in Europa, e soprattutto in Italia, si sono preoccupati non solo di chiudere le frontiere alla Gran Bretagna, come ragionevole, ma anche di sottolineare l'inglesità di questa variante. Evidentemente, per poter girare il mondo, il virus ha imparato l'inglese con accento british Basti vedere i titoli dei giornaloni e dei media mainstream. Ieri il Tg1 delle 13.30 apriva con queste parole: «Covid, la variante inglese del virus è in Italia». Il Corriere della Sera teneva a specificare sotto il titolo ansiogeno «Virus cambiato» che il riferimento era alla «variante inglese»; e poi, sul sito, ripresentava in modo ossessivo l'espressione «variante inglese» nei titoli del pezzo di apertura e di due video. Faceva lo stesso Repubblica, ribadendo in modo seriale che si trattava della «variante inglese». E che dire degli esperti, o presunti tali. Walter Ricciardi, il consigliere del ministro della Salute Speranza, colui che l'altro giorno ha riconosciuto il fallimento della nostra gestione di contrasto alla pandemia, ieri ha gettato la croce addosso alla Gran Bretagna: «Purtroppo», ha tuonato, «il governo inglese ha avvertito tardi della variante del coronavirus e questo non è bello». Massì, dagli contro agli inglesi, per far dimenticare responsabilità altrui Anche il coro dei virologi da salotto tv non può fare a meno di sottolineare che la variante speaks English. Massimo Galli rileva: «Questa variante è in Gran Bretagna dal 20-21 settembre. Temo che da Oltremanica ne sia passata un bel po' da allora»; Giovanni Rezza parla di una variante che «sta circolando a Londra e nel sud-est dell'Inghilterra»; Franco Locatelli di «mutazioni segnalate in Gran Bretagna». Chissà perché nessuno ricorda che questa variante è stata individuata anche in Danimarca, Australia e Olanda, come ha reso noto l'Oms. Del resto, non c'era stata un'indicazione così puntuale di "nazionalità" quando si trattava di definire il ceppo originario del Corona. L'unico ad aver parlato di «virus cinese» era stato Trump, ma per questa ragione era stato accusato di xenofobia, tra gli altri dal Corriere che aveva scritto di un aumento degli «episodi di razzismo contro gli asioamericani», come conseguenza della sua strategia comunicativa. Ora invece additare i britannici di essere scellerati propagatori di virus non è discriminazione, ma forma di legittima difesa. Della serie: insulta la Perfida Albione, ma lascia stare il Dragone.
Covid, che cos’è la «variante sudafricana» e cosa sappiamo delle mutazioni. Silvia Turin e Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 24/12/2020. Che cos’è la variante sudafricana del SARS-CoV-2? È chiamata «501.V2» ed è stata rilevata in quasi 200 campioni raccolti da oltre 50 diverse strutture sanitarie in Sudafrica, dove è stata identificata per la prima volta nella Nelson Mandela Bay. Sembra che sia responsabile della seconda ondata nel Paese. Sono due varianti nate separatamente, ma condividono la stessa mutazione, la «N501Y», nella proteina spike(quella che il virus usa per attaccare le cellule umane).
Quali sono le caratteristiche di queste varianti? Sono simili. Avrebbero maggior potere di diffondere il virus. Nel caso di quella britannica, gli scienziati hanno stimato potrebbe arrivare al 50-70% in più di capacità di trasmissione (anche nei bambini). Anche il virus sequenziato in Sudafrica sarebbe molto contagioso e associato a una maggiore carica virale. Servono ulteriori ricerche perché il nesso tra facilità di trasmissione e le varianti presenti nei due territori potrebbe anche essere casuale.
Il virus sarà più letale? Non sembra che entrambe le varianti possano causare malattia più grave.
Cosa sono le varianti? È normale che un virus, quando si replica milioni di volte, in alcuni casi faccia quelli che possiamo definire, con un paragone, «errori di battitura». I virus che utilizzano l’RNA come materiale genetico, come SARS-CoV-2, sono vulnerabili alle mutazioni, ma il più delle volte queste non sono importanti.
Ci sono altre varianti significative di SARS-CoV-2? Le mutazioni mappate sono già più di 12mila, ma solo pochissime sono rilevanti. Tra queste, quella che distingue il virus di Wuhan da quello che si è diffuso in Europa lo scorso inverno: la mutazione «D614G», diventata dominante in tutto il mondo, con capacità di trasmissione fino a dieci volte maggiore rispetto all’originario lignaggio cinese.
L’efficacia del vaccino è in pericolo? È considerato altamente improbabile che i vaccini progettati finora possano avere difficoltà per questo tipo di mutazioni. Le case farmaceutiche, comunque, hanno iniziato i test di controllo e gli scienziati della University of Texas Medical Branch hanno trovato (ma sono studi preliminari) che gli anticorpi che neutralizzano il ceppo più comune del virus hanno neutralizzato anche ceppi con la mutazione «N501Y».
Dobbiamo preoccuparci? SARS-CoV-2 è un virus che muta relativamente poco, ma dato che è pandemico, le variazioni si moltiplicano milioni di volte e non solo nell’uomo, visto che il Covid-19 può infettare anche i mammiferi (come si è visto nel caso dei visoni) e ritornare all’uomo in forme differenti. È quindi di primaria importanza limitarne la diffusione arrivando all’immunità di gregge.
Come si identificano le varianti del coronavirus? Occorrono sequenze genomiche: esami di laboratorio complessi che non vengono eseguiti spesso, basti pensare che gli Stati Uniti hanno sequenziato solo 51mila test sui 18 milioni di casi di coronavirus mappati, mentre il Regno Unito mira a sequenziarne 10mila a settimana. Dopo l’allarme lanciato dalla Gran Bretagna, i Paesi stanno moltiplicando gli sforzi per i sequenziamenti e così si moltiplicano le segnalazioni, ma non sono esami di routine.
Come contrastare la diffusione delle varianti? Sappiamo già come agire: cercando di limitare i contagi come abbiamo sempre fatto, anzi, con maggiore attenzione, ora che sappiamo che ci sono forme del virus particolarmente «efficienti».
Coronavirus, scoperta "variante italiana simile a quella inglese". Circola da agosto. Arnaldo Caruso, presidente della società italiana di virologia: "Il vaccino dovrebbe contrastarla comunque ma gli studi sono in corso". La Repubblica il 28 dicembre 2020. "Circola dai primi di agosto in Italia una variante" di coronavirus Sars-CoV-2 "molto simile alla famigerata variante inglese". Una "variante italiana" scoperta a Brescia, "che precede la variante emersa solo a fine settembre nel Regno Unito per poi diffondersi in Europa, Italia inclusa, e potrebbe anche esserne un precursore". Lo annuncia all'Adnkronos Salute Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia (Siv-Isv), ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica all'università degli Studi di Brescia, direttore del Laboratorio di microbiologia dell'Asst Spedali Civili. La variante individuata, spiega, "ha diversi punti di mutazione nella proteina Spike. Come quella inglese, anche la variante italiana ha una mutazione in un punto nevralgico dell'interazione Spike/recettore cellulare, più precisamente in posizione 501". Ma a differenza del mutante Gb, "la variante italiana ha anche una seconda mutazione in posizione 493, che rende la sua proteina Spike leggermente diversa da quella del virus pandemico che tutti oggi conosciamo". Ma come si è arrivati a descrivere la variante italiana? "Casualmente - racconta Caruso - osservando una persistenza virale anomala in un paziente che aveva sofferto di Covid-19 in aprile. Anche dopo la guarigione, i tamponi effettuati da agosto in poi avevano sempre dato esito positivo con virus ad alta carica. A novembre ci siamo decisi a sequenziare il virus per capire il perché di questa persistenza, e con nostra sorpresa ci siamo resi conto di avere identificato una nuova variante, simile ma non identica alla variante inglese che iniziava a circolare anche in Italia. A questo punto abbiamo sequenziato anche un campione dello stesso paziente ottenuto ad agosto", scoprendo che "la Spike variata era già presente allora, con tutte le sue mutazioni". "Non sappiamo se la variante inglese è emersa esattamente a fine settembre, così come la nostra ai primi di agosto - precisa il numero uno dei virologi - Un'analisi temporale delle sequenze di Sars-CoV-2, effettuata dal gruppo di Massimo Ciccozzi", epidemiologo dell'università Campus BioMedico di Roma, "ci dice che questa nuova variante italiana potrebbe essersi generata intorno ai primi di luglio. Quel che possiamo affermare dagli studi del collega Ciccozzi è che la nostra è di certo la prima evidenza di mutazioni nella proteina Spike a livello della posizione 501 in Italia e forse, almeno ad oggi, in Europa. L'omologia di sequenza tra la variante da noi identificata e quella inglese porta a pensare che la prima possa avere di fatto generato le altre che oggi stanno emergendo nel nostro continente. Ma per affermare questo è necessario ricostruirne i passaggi, e servono tante analisi del genoma virale ancora non disponibili". Ma c'è timore che il vaccino anti-Covid possa non funzionare sulla variante italiana? "Teoricamente no - risponde Caruso - Il vaccino genera una risposta complessa verso tante aree della proteina Spike", per cui, "anche se vi fossero alcuni anticorpi non in grado di riconoscere una zona mutata come quella in posizione 501 o 493, ce ne sarebbero sicuramente altri in grado di legarsi a porzioni non mutate della proteina. Il loro legame sarebbe sufficiente a impedire l'interazione tra Spike e recettore cellulare, anche solo per una sorta di "ingombro sterico" che gli anticorpi creerebbero sulla superficie del virus. In poco tempo avremo comunque una risposta certa a questa domanda". "L'alta carica virale presente nei tamponi di agosto e novembre" eseguiti sul paziente che non si negativizzava "ci ha permesso di isolare a Brescia i mutanti virali. Questo - sostiene Caruso - ci permetterà di cimentare questi virus con i sieri di pazienti Covid-19 ottenuti durante la prima ondata pandemica, e di valutare la capacità degli anticorpi di neutralizzare questa variante rispetto ai ceppi virali circolanti in precedenza. Appena disponibili, verranno valutati in modo analogo anche sieri di pazienti vaccinati. Io resto al momento ottimista", conclude il presidente dei virologi italiani. La nuova mutazione del Covid-19 a Londra. Andrea Walton su Inside Over il 20 dicembre 2020. La variante del virus Sars-Cov-2 che si è diffusa nell’Inghilterra sudorientale e nella città di Londra ha sconvolto i piani natalizi fatti dall’esecutivo di Boris Johnson. La versione mutata è molto più contagiosa (fino al 70 per cento in più) di quella presente nel Regno Unito e costituisce una minaccia da affrontare nel più breve tempo possibile. La variante è stata individuata per la la prima volta nel mese di settembre nell’Inghilterra sudorientale. Le contee dell’Inghilterra orientale, sudorientale e la città di Londra subiranno restrizioni molto dure a partire da questa domenica ed entreranno, di fatto, in lockdown. Queste aree verranno incluse nel Tier 4, il livello più alto di allarme tra quelli in cui sono suddivise le contee dell’Inghilterra ed i residenti, salvo alcuni casi specifici, non potranno uscire dalle proprie abitazioni. I negozi non essenziali, le palestre ed i luoghi di svago dovranno chiudere, non si potrà incontrare più di una persona non convivente ed unicamente all’aperto ed in un luogo pubblico, i cittadini dovranno lavorare da casa a meno che ciò non sia impossibile e non si potrà uscire ed entrare da queste aree. La variante della discordia. La comparsa della nuova variante può spaventare ma non bisogna dimenticare che, anche nel recente passato, ci sono state altre mutazioni del Covid-19. Tra queste c’è quella comparsa tra i visoni in Danimarca, che ha portato all’abbattimento di milioni di questi animali. Questa mutazione ha suscitato una forte preoccupazione perché gli anticorpi delle persone guarite non sembravano in grado di neutralizzare in maniera efficace questa variante. I virus varianti, che come suggerisce il nome divergono da quelli in circolazione in precedenza, sono però del tutto comuni nel corso di una pandemia e la maggior parte delle mutazioni subite da un virus tende, inevitabilmente, ad autoestinguersi. “Nulla sembra suggerire”, come riferito dal Ministro della Salute inglese Matt Hancock (e riportato dall’Huffington Post) , “che la variante possa essere responsabile di forme più severe di Covid-19 o che possa essere resistente ai vaccini“. Secondo Emma Hodcroft, esperta di genetica virale presso l’Università di Berna, il nuovo ceppo avrebbe tre mutazioni nella proteina spike che il coronavirus utilizza per entrare nelle cellule umane e la scienziata rassicura sul fatto che “Non c’è nulla che suggerisca che la variante abbia maggiori probabilità di causare malattie gravi, e l’ultimo quadro clinico dice che è altamente improbabile che questa mutazione non possa rispondere a un vaccino“. Non è però da escludere che la velocità con cui si è propagata la seconda ondata pandemica in Europa possa essere dovuta proprio ad una mutazione e tra le principali indiziate c’è la 20A.EU1, individuata ad ottobre e diffusa dai lavoratori agricoli spagnoli in gran parte del Vecchio Continente. La variante D614G è invece, al momento, l’unica che ha influenzato in maniera significativa il comportamento del coronavirus e ne ha aumentato la capacità di trasmissione. Il futuro può rivelarsi complesso. Alcuni scienziati sembrano, però, decisamente allarmati da quanto sta accadendo nel Regno Unito. Giorgio Gilestro, neurobiologo e professore associato dell’Imperial College di Londra, ha dichiarato che “più che una variante, si tratta di una famiglia di varianti con una cosa in comune e che sono probabilmente tentativi riusciti del ceppo virale di scappare dagli anticorpi di chi ha sviluppato immunità e sono immuni, ad esempio, alle terapia al plasma”. Gilestro chiarisce come “Questi sono ceppi che si sono sviluppati per pressione evolutiva” e ciò “vuol dire che appena un numero sufficiente di persone inizia ad avere anticorpi contro il virus per immunità acquisita direttamente o per via vaccinale, nuovi ceppi emergono”. Gilestro conclude la sua spiegazione affermando che “Vista la contagiosità, visto il numero di immigrati Ee a Londra, visto il periodo (Natale), temo che sia ormai scontato che questa variante si diffonderà velocemente nel resto d’Europa”. Le parole del neurobiologo potrebbero rivelarsi profetiche, per lo meno per ciò che riguarda la diffusione del virus in Europa. I Paesi Bassi hanno annunciato la sospensione di tutti i voli con il Regno Unito sino al primo gennaio dopo aver scoperto un caso della nuova variante britannica del coronavirus nel proprio territorio nazionale. La variante britannica potrebbe essere già presente in diverse nazioni europee ed è persino possibile che il forte aumento di casi registrato nelle ultime settimane in Europa (ed anche in alcune regioni italiane come il Veneto) possa esservi legato. I governi europei rischiano, proprio come accaduto nel mese di febbraio quando si riteneva che il Covid-19 non fosse presente in Europa ma ancora confinato in Asia, di agire con ritardo eccessivo e quando il danno è ormai stato compiuto.
Spunta la "variante italiana" Come è nata e cosa può fare. Questa mutazione del virus, come sostengono i ricercatori, avrebbe anticipato quella inglese: qui da agosto. Francesca Galici, Lunedì 28/12/2020 su Il Giornale. Che la variante inglese del coronavirus non sia l'unica in circolazione non è una novità. Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia (Siv-Isv), ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica all'università degli Studi di Brescia, direttore del Laboratorio di microbiologia dell'Asst Spedali Civili, ne ha dato la conferma con un'intervista all'Adnkronos. Il medico ha riferito di una variante italiana simile a quella inglese, che si sarebbe però sviluppata prima: "Precede la variante emersa solo a fine settembre nel Regno Unito per poi diffondersi in Europa, Italia inclusa, e potrebbe anche esserne un precursore". I punti di contatto delle due mutazioni sembrano essere molto simili: "Ha diversi punti di mutazione nella proteina Spike. Come quella inglese, anche la variante italiana ha una mutazione in un punto nevralgico dell'interazione Spike/recettore cellulare, più precisamente in posizione 501". Le varianti si distinguono perché quella italiana "ha anche una seconda mutazione in posizione 493, che rende la sua proteina Spike leggermente diversa da quella del virus pandemico che tutti oggi conosciamo". Come spesso accade nella scienza, la mutazione italiana del coronavirus è stata scoperta casualmente "osservando una persistenza virale anomala in un paziente che aveva sofferto di Covid-19 in aprile". Quello analizzato dal professor Caruso è uno di quei casi di cui si è spesso raccontato. Il paziente, nonostante la guarigione clinica, continuava a manifestare tamponi positivi con elevata carica virale anche a distanza di mesi. A novembre si è deciso di sequenziare il virus, ottenendo il risultato descritto. Già in una campionatura di coronavirus dello stesso paziente prelevata in agosto si manifestava la mutazione. "Questa nuova variante italiana potrebbe essersi generata intorno ai primi di luglio. Quel che possiamo affermare dagli studi del collega Ciccozzi è che la nostra è di certo la prima evidenza di mutazioni nella proteina Spike a livello della posizione 501 in Italia e forse, almeno ad oggi, in Europa", afferma Caruso. Alla luce degli studi effettuati, la domanda sulla possibile inefficacia del vaccino attualmente in commercio è d'obbligo. Ma il professor Caruso rassicura: "Il vaccino genera una risposta complessa verso tante aree della proteina Spike. Anche se vi fossero alcuni anticorpi non in grado di riconoscere una zona mutata come quella in posizione 501 o 493, ce ne sarebbero sicuramente altri in grado di legarsi a porzioni non mutate della proteina". Questo legame sarebbe sufficiente per ottenere l'effetto desiderato. Le sequenze dei mutanti virali ottenute a Brescia potranno ora essere cimentate con i sieri dei pazienti negativizzati della prima ondata. Questo permetterà di capire la rispota anticorpale dei diversi ceppi in circolazione. "Appena disponibili, verranno valutati in modo analogo anche sieri di pazienti vaccinati. Io resto al momento ottimista", ha concluso Arnaldo Caruso. Poco fa l'infettivologo Matteo Bassetti ha commentato: "Variante italiana causa picco casi novembre".
Perché in Cina si dice che il virus è stato importato. Matteo Carnieletto su Inside Over il 30 novembre 2020. Sono molti i misteri che ruotano attorno al Covid-19: quando è nato, dove, e come si è verificato il cosiddetto spillover, il salto di specie, ovvero il passaggio del virus dall’animale all’uomo. A lungo, gli esperti hanno affermato che, molto probabilmente, il virus era nato a Wuhan, una città per i nostri standard enorme, che si trova nella provincia dello Hubei, non lontano dal Guandong, una regione molto particolare della Cina. Una terra al contempo benedetta – è infatti uno dei motori della crescita del Dragone – e maledetta in quanto molti focolai epidemici sono nati proprio qui. Per quasi un anno, la vulgata è quindi stata una sola e prevedeva che il virus avesse passaporto cinese. Una cosa non da poco. Questa epidemia sta infatti provocando danni enormi – sia a livello di perdite umane sia a livello economico – a tutto il mondo. Se davvero la Cina è colpevole, allora, questo è per esempio il pensiero di Donald Trump, dovrebbe pagare per i danni che sta provocando a molti Stati. Rivelare qual è davvero l’origine del virus ha dunque un forte significato non solo a livello epidemiologico, ma anche politico. Per questo motivo, negli ultimi tempi in Cina stanno uscendo diversi report volti a creare una nuova narrazione secondo cui il virus non sarebbe nato nell’impero celeste, ma altrove. L’ultima ipotesi – sostenuta da un team di ricercatori cinesi guidati dal dottor Shen Libing, dello Shanghai Institute for Biological Sciences – ritiene che il Covid-19 sarebbe nato in Bangladesh e, solo in un secondo momento, importato in Cina. Secondo i ricercatori cinesi, “sia le informazioni geografiche del ceppo meno mutato sia la diversità del ceppo, suggeriscono che il subcontinente indiano potrebbe essere il luogo in cui si è verificata la prima trasmissione da uomo a uomo di Sars-CoV-2”. E questo perché la terribile siccità che ha colpito l’India nel 2019 ha fatto sì che uomini e animali si abbeverassero dalle stesse fonti. Da qui lo spillover, il salto di specie il contagio umano. Nei primi mesi il virus si sarebbe mosso silente, a causa della bassa età media in India, fino a quando non è arrivato in Cina, esplodendo. Ma non solo. Lo scorso giugno, per esempio, è emerso un focolaio nel mercato di Xinfadi, a Pechino. Prontamente il governo centrale ha bloccato ventinove comunità e, soprattutto, i media hanno cominciato ad affermare che il contagio sarebbe partito da un salmone importato. Uno scenario non dissimile, si è poi verificato nella città di Qingdao, nella provincia dello Shandong, dove è esploso un mini cluster tra alcuni lavoratori impegnati nell’industria della catena del freddo. Anche in questa occasione, le autorità hanno puntato il dito contro le confezioni di alimenti congelati importati dall’estero, sulle cui superfici sarebbero state rinvenute tracce di virus. Verità o propaganda? Difficile dirlo. Un lungo studio del Global Times, pubblicato ieri, sottolineava come i pochi casi di Coronavirus che si sono registrati negli ultimi mesi in Cina, dopo la vittoria di Xi Jinping sul virus, sono da collegare alla “catena del freddo”. Il giornale cinese riporta inoltre che, “dopo uno studio approfondito del sequenziamento degli acidi nucleici e del sequenziamento del genoma virale dei pazienti Covid-19 con campioni ambientali e alimentari del mercato Xinfadi, che è stato collegato a un’epidemia di giugno, gli scienziati cinesi hanno concluso a ottobre che il coronavirus da alimenti importati sarebbe molto probabilmente la causa dell’epidemia di Pechino e che il trasporto della catena del freddo è diventato una nuova via per la trasmissione virale”. Sulla stessa scia, anche Il Quotidiano del Popolo, secondo cui “ogni prova disponibile” induce a sospettare che il coronavirus sia solo emerso e non partito da Wuhan e che la trasmissione tra persone si sarebbe verificata nel “subcontinente indiano”. Il mercato di Wuhan sarebbe dunque stato solo un “amplificatore” del contagio arrivato da fuori. Wu Zunyou, dirigente del Centro per il controllo delle malattie infettive di Pechino, sostiene inoltre che “i primi contagiati di Wuhan lavoravano nell’area del pesce surgelato del mercato Huanan”. Ma tutto questo è possibile? Nessuno, ad oggi, ha confermato o smentito la nascita del Covid-19 in Cina. Anzi, un recente studio realizzato dall’Istituto dei tumori di Milano ha trovato delle tracce del nuovo Coronavirus tra gli italiani già nell’estate del 2019, ben prima dunque che scoppiasse a Wuhan. Siamo dunque noi gli untori del mondo? Improbabile. Anche perché, a livello statistico, molti virus sono nati in Cina, più precisamente nel Guandong. La più temibile delle malattie, la peste, non a caso ribattezzata “morte nera“, è nata in Cina nel 1334, come ricorda Mark Honigsbaum in Pandemie. Dalla spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (Ponte alle Grazie). Da qui si mosse lentamente verso l’Occidente fino ad arrivare prima in Europa e poi in Italia, nel 1348. Stesso discorso anche per l’epidemia che scoppiò ad inizio Novecento, “molto probabilmente provocata dalla marmotta tarbagan – prosegue Honigsbaum – una specie di marmotta che si trova in Mongolia e in Siberia, apprezzata per la pelliccia pregiata, l’epidemia sembra fosse cominciata a Manzhouli, situata al confine tra Cina e Siberia, nell’ottobre del 1910, prima di diffondersi attraverso la linea ferroviaria transmanciuriana a Harbin e ad altri centri lungo il percorso. I principali responsabili furono cacciatori cinesi inesperti che, attirati in Manciuria dall’alto prezzo delle pellicce, non avevano avuto la stessa accortezza dei cacciatori manciuriani nel trattare le marmotte tarbagan malate. Con l’accorciarsi delle giornate invernali in Manciuria, i cacciatori ripresero la strada per la Cina e si mescolarono ai lavoratori agricoli che tornavano e ai ‘coolie’, affollando carrozze ferroviarie stipate e locande. Presto, gli ospedali furono sommersi di pazienti, e nel febbraio del 1911 già si contavano circa 50.000 morti. Molti corpi furono cremati o fatti saltare con la dinamite nelle fosse comuni”. Il professor Giorgio Palù, in un’intervista all’Università di Padova, ha spiegato il perché: “Ci sono molte risaie, e gli uccelli che planano in queste zone possono essere portatori sani dell’influenza aviaria che viene trasmessa anche tramite le feci: in quegli stagni ci sono miliardi di virus, e lì vicino vengono allevati maiali e altri animali domestici, anche uccelli. Così i virus si propagano: c’è una commistione tra animali domestici e selvatici e tra loro e l’uomo”. Ma non solo. A provocare la diffusione dei virus sono anche i cambiamenti climatici, tema su cui la Cina sta facendo poco o nulla: “Il 20% dei virus è trasmesso da vettori come zanzare, zecche e flebotomi che stanno migrando a causa dei cambiamenti di temperatura, si pensi a West Nile”. Non sappiamo ancora dove è nato il virus, ma ci sono grandi probabilità che sia nato in Cina. La partita “revisionista” di Pechino ha un unico obiettivo: togliersi anche la più piccola ombra di colpa affinché nessuno si presenti per battere cassa.
Che fine ha fatto il mercato del pesce di Wuhan? Federico Giuliani su Inside Over l'1 dicembre 2020. ”Wuhan Huanan Haixian Pifa Shichang”. La scritta bianca su sfondo blu sopra il cartello posto all’ingresso del famoso mercato del pesce di Wuhan, dove è stato rilevato il primo focolaio di Covid-19 al mondo, è sparita. Le serrande dei piccoli negozietti, in passato affollati da clienti desiderosi di comprare alimenti freschi, sono abbassate dallo scorso primo gennaio. Siamo nel cuore del capoluogo dello Hubei, di fronte a quel che rimane dell’ormai ex Huanan Seafood Wholesale Market, all’incrocio tra New China Road e Development Road, due delle strade più trafficate della città. Il presunto Ground Zero della pandemia di Covid-19 è circondato dai palazzoni dello scintillante Tangjiaduncun Residential District. A pochi passi da qui troviamo la stazione ferroviaria Hankou, il Wuhan museum, banche di ogni tipo, locali Starbucks e McDonald’s. È quasi passato un anno da quando il focolaio di un misterioso virus è scoppiato all’interno del mercato ittico di Huanan. Quelle polmoniti atipiche che colpivano i clienti del bazar non erano altro che il biglietto da visita del Sars-CoV-2, un nuovo coronavirus emerso chissà come, chissà quando e chissà dove. Nonostante siano trascorsi mesi dai primi casi accertati, gli scienziati non sono ancora riusciti a ricostruire la genesi di questo strano agente patogeno. Sul tavolo ci sono varie ipotesi, la più probabile delle quali, la zoonosi (ovvero il salto di specie da un animale all’essere umano), considera il pipistrello il serbatoio del virus e il pangolino l’eventuale ospite intermedio. Non vi sono neppure certezze sull’esatto luogo d’origine del virus. Anche se molti indizi portano alla Cina, gli esperti cinesi hanno recentemente pubblicato alcuni report fornendo supposizioni alternative.
Pesci e occhiali. Che sia o meno il luogo di nascita del virus, il mercato del pesce di Huanan può essere considerato a tutti gli effetti il Ground Zero della pandemia di Covid-19. I primi pazienti di Wuhan affetti dal coronavirus avevano una sola cosa in comune: l’aver transitato tra i banchi del wet market cittadino. Non sappiamo se in quelle concitate settimane di fine dicembre 2019 c’erano già altri focolai in Cina o in altre parti del mondo. Sappiamo soltanto che le fonti certe partono dallo Huanan Seafood Wholesale Market. Oggi l’area a piano terra in cui sorgeva il mercato è sigillata, ma l’edificio in cui era ubicato è tornato operativo. Il secondo piano del mercato ospita varie attività commerciali che vendono e riparano occhiali. Per accedere al livello superiore è necessario registrarsi con un apposito Qr Code, proprio come avviene in gran parte dei luoghi pubblici di tutta la Cina. ”Norme anti coronavirus”, spiegano alcuni. In ogni caso, ai tempi d’oro, il mercato era così organizzato: il pianterreno era adibito alla vendita di pesce e altri alimenti, il primo piano a quella di lenti e occhiali. La strana accoppiata pesci-occhiali ha una lunga storia: circa 15 anni fa, alcuni commercianti di occhiali, attratti dai bassi affitti dell’edificio, decisero di trasferire allo Huanan il loro business.
Un salone illegale. Il primo di gennaio 2020 gli operatori sanitari, bardati con scafandri e tute spaziali, hanno iniziato a prelevare campioni tra i banchi del pesce, chiusi, che sorgevano a piano terra. Prima della serrata, ogni giorno più di mille bancarelle vendevano frutti di mare, pesce, carni e anche animali selvatici vivi. Mentre al primo piano i commercianti continuavano a vendere occhiali, sotto di loro era partita la disinfestazione del sito. Dopo il lockdown che ha coinvolto tutta Wuhan, il mercato ha riaperto i battenti lo scorso 12 maggio. “Ho provato a chiamare i vecchi clienti, dicendo loro che è il posto è sicuro – ha spiegato un venditore di occhiali al The New Yorker – ma ovviamente molti di loro non sono voluti venire”. Lo stesso negoziante ha raccontato che nessuno dei suoi conoscenti era stato infettato nel ”mercato degli occhiali”. “Non era come al piano di sotto”, ha aggiunto, raccontando che è ”lì che si è diffusa la malattia”. Per capire come si è originato il focolaio dello Huanan è dunque necessario scendere ”al piano di sotto”. Dove, accanto alle bancherelle del pesce, sarebbe sorta anche una stanza segreta di mahjong, illegale, ben nascosta e ubicata nei pressi del bagno pubblico. “Ho sentito che quattro persone stavano giocando a un tavolo, e tutti e quattro si sono ammalati”, ha aggiunto il solito negoziante. Impossibile sapere se la malattia infettiva si sia diffusa da questo locale, piccolo e non ventilato, probabilmente portata da un ignoto paziente zero, o tra i pesci esposti. Al momento i negozi di occhiali sono aperti. Ma il nome del luogo è rovinato e la clientela scarseggia. Il destino dello stabilimento è ancora tutto da scrivere. Due le ipotesi: la demolizione del sito per fare spazio a nuovi grattacieli oppure la trasformazione del complesso in una sorta di museo commemorativo per ricordare l’eroica lotta di Wuhan contro il coronavirus. Rimuovere il ricordo del virus e guardare avanti o guardare avanti forti di quel ricordo: le autorità devono ancora decidere il da farsi.
La ricerca finanziata dalla Regione Campania. Coronavirus, al Ceinge di Napoli scoperte le 5 varianti del virus in Italia: “Ha grande capacità di replicarsi”. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2020. Per definirle mutazioni vere e proprie serviranno più dati statistici, ma al momento grazie ai dati a disposizione della Task force coronavirus attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge di Napoli sarebbero cinque le varianti del nuovo coronavirus identificate in Italia. La ricerca, finanziata dalla Regione Campania, evidenzia che il virus non è meno aggressivo rispetto all’inizio dell’anno, ma grazie alle varianti riesce a replicarsi anche in modo più efficace. A riportare la notizia all’Ansa è responsabile scientifico della task force, il genetista Massimo Zollo, docente dell’Università Federico II di Napoli: “Dai dati finora a nostra disposizione, basati su 246 genomi sequenziati da pazienti con Covid-19 emerge che esistono cinque varianti di virus”. Per Zollo “sappiamo che le varianti, identificate con le sigle 19A, 19B, 20A, 20B e 20C, sono presenti in tutta Italia, ma adesso si tratta di capire quale sia la loro incidenza nelle regioni”.
Interrogazione presentata da Maurizio Gasparri. Grillo con la mascherina già a dicembre: il caso finisce in Senato. Redazione de Il Riformista il 29 Maggio 2020. “La mascherina è per proteggermi da voi giornalisti, dai vostri virus. Con quei microfoni siete pieni di batteri”. Era il 17 dicembre scorso quando il comico genovese Beppe Grillo si presentò davanti ai giornalisti con una mascherina nera. Un evento che, allora, sembrò insolito ai giornalisti tanto che chiesero al fondatore del Movimento 5 stelle il perché di quella scelta. “Sono un antiemorragico – rispose il comico – fatemi fare il mio lavoro… La mascherina è per proteggermi da voi“. La notizia è tornata in auge in questi giorni tanto che il senatore di Forza italia Maurizio Gasparri ha presentato un’interrogazione in Senato ai ministri dell’Interno Lamorgese e degli Esteri Di Maio. “Beppe Grillo – si legge nell’interrogazione presentata da Forza Italia – a fine novembre, sarebbe stato in ben due occasioni, nel giro di 24 ore, a colloquio con l’ambasciatore cinese a Roma, una delle quali in una cena riservata e già dalla metà del mese di novembre (per la precisione dal giorno 17), vi era stato un primo caso di contagio da COVID-19 in Cina”. L’episodio viene messo in relazione con i rapporti tra Cina e il Movimento 5 Stelle.”I dubbi e le perplessità su ciò che sarebbe accaduto a Roma appaiono più che legittimi, in particolare circa il livello di conoscenza da parte del leader del principale partito politico di governo in Parlamento, in merito all’epidemia che aveva colpito Wuhan e la regione dell’Hubei”, scrive Gasparri. E aggiunge: “I rapporti di Beppe Grillo con la Cina non sono poi così recenti ma risalgono almeno al 24 giugno 2013 allorquando, insieme a Gianroberto Casaleggio, si recò in visita all’ambasciatore cinese a Roma”.
Da corrieredellosport.it il 25 maggio 2020. La partita di Champions tra Liverpool e Atletico Madrid dello scorso 11 marzo non sarà ricordata soltanto per l’eliminazione della corazzata di Klopp: uno studio condotto da Edge Healt - società che analizza i dati per il servizio sanitario britannico - ha rivelato che quel match fu una vera e propria ‘bomba’ virologica provocando ben 41 morti da Coronavirus. Gli spettatori ad Anfield furono 52 mila, 3000 dei quali giunti da Madrid che aveva già adottato un blocco parziale. In Spagna, in quel momento, si registravano secondo la ricerca circa 640 mila persone infette, un dato davvero impressionante: 100 mila, invece, il bilancio inglese. I decessi sarebbero avvenuti tra i 25 e i 35 giorni successivi alla partita, già finita da mesi sotto osservazione perché considerata - insieme ad Atalanta-Valencia - veicolo di diffusione del Covid-19.
L’accusa del sindaco di Liverpool. Il mese scorso erano arrivate le parole del sindaco dell’area metropolitano di Liverpool, il laburista Steve Rotheram: “È scandaloso se le persone hanno contratto il Coronavirus come risultato diretto di un evento sportivo che crediamo non avrebbe dovuto aver luogo. Ciò ha messo in pericolo non solo quelle persone, ma anche il personale in prima linea del SSN e altri nelle loro stesse famiglie che potrebbero averlo contratto. Abbiamo osservato un aumento della curva di infezione. Dobbiamo capire se alcune di queste infezioni sono dovute direttamente ai sostenitori dell'Atletico. Non è stato permesso loro di radunarsi nel proprio paese, ma 3.000 sono arrivati nel nostro e potrebbero aver diffuso il Coronavirus. Il Governo si deve assumersi la responsabilità di non averli bloccati prima".
Dagospia il 26 maggio 2020. Luca Parmitano su Facebook: È stato portato alla mia attenzione un errore da me commesso durante un’intervista rilasciata a una trasmissione televisiva. Nell’episodio in questione, parlando delle precauzioni prese durante il rientro dalla Stazione Spaziale Internazionale, ho erroneamente affermato che, come equipaggio, fossimo al corrente dell’inizio del contagio pandemico già a novembre. Errare è umano, e mi spiace molto vedere che in questo caso il mio lapsus sia stato strumentalizzato. L’errore è dovuto a vari fattori, e qui di seguito ne riporto alcuni.
1) a bordo della ISS non utilizziamo il calendario, ma il Coordinated Universal Time (UTC). L’anno inizia con il giorno 1 e finisce con il giorno 365, e gli eventi vengono eseguiti in base a questa pianificazione. Di conseguenza è possibile confondere un mese con un altro poichè non vi facciamo mai riferimento, ma utilizziamo il giorno UTC;
2) ricordo che, intorno alla fine della missione, parlavamo con l’equipaggio di varie crisi in corso sulla Terra. Nel ripensare agli eventi intorno a quel periodo, ho fatto confusione tra le diverse conversazioni, e nel ricordare gli eventi ho collegato le prime notizie di contagio a un contesto temporale precedente. A bordo, abbiamo appreso del contagio insieme al resto del mondo, quando le agenzie giornalistiche e le grandi testate televisive hanno iniziato a parlarne;
3) tutto questo è facilmente verificabile: le comunicazioni Terra – bordo – Terra sono soggette al Freedom Of Information Act, una legge che impone totale trasparenza e che tutte le comunicazioni siano registrate. Non è possibile ricevere informazioni riservate. Inoltre, l’idea che fossimo già al corrente di un contagio pandemico è smentita dai fatti: le operazioni di rientro della Spedizione 61 sono state svolte normalmente, senza alcuna ulteriore precauzione. Al contrario, quando la situazione pandemica si è rivelata in tutta la sua gravità, l’equipaggio rientrato dalla Spedizione 62 è stato isolato in quarantena per evitare possibili contagi.
Mi scuso, con umiltà, per l’errore e per le conseguenze (del tutto inaspettate): me ne assumo ogni responsabilità.
ALCUNI COMMENTI:
Paola Riccucci: Luca, grazie per la delucidazione. Sicuramente per te era dovere morale e professionale pubblicare questa spiegazione. Per me sei un essere umano, capitano di una navicella spaziale che ha portato l'orgoglio italiano nello spazio. Bravo ????
Mauro Bacheca: Lo ha commesso 3 volte lo stesso errore e ritratta dopo un mese dalla sua prima dichiarazione: diciamo che è un militare e quindi soggetto a rispondere a dei superiori. Comunque non bisogna scusarsi per aver detto la verità, anche perché non ha comunque nociuto a nessuno se non a chi sapeva e non ha fatto nulla per fermare questo casino.
Salvo Vaiasicca: vabbe' ti è scappata la verita' che non dovevi dire, non ci pensare...... in questo mondo di bombardamento mediatico dove le notizie sono super filtrate questa è una vera notizia.
Marcus Fin: Una Persona con skill e addestramento come i Suoi non può commettere questo genere di errori. Vedo invece onore per la divisa che ancora porta e amore per la verità. Credo che dopo la Sua Collega Samantha potremmo assistere ad una nuova defezione dall'Arma Azzurra anche se per motivi diversi ma non meno rispettabili. Complimenti per i risultati raggiunti fino ad ora e non si pieghi alle imposizioni.
Marco Paglia: Pazzesco che il comandante della ISS debba giustificarsi per gli attacchi di qualche complottista che a malapena riesce ad entra su Facebook.
David Rossi per difesaonline.it il 25 maggio 2020. “…a bordo abbiamo un collegamento quotidiano con le realtà terrestri; abbiamo anche accesso alla rete internet; possiamo comunicare con i centri di controllo e già da novembre, avevamo iniziato a seguire i primi contagi, inizialmente soltanto nei paesi asiatici, poi al mio rientro i primi contagi in Europa…” (25 aprile 2020 - trasmissione Petrolio, Rai 1) “…sulla stazione abbiamo seguito quello che stava succedendo sulla Terra: anche prima del mio rientro già da novembre eravamo al corrente di questo probabile contagio pandemico e soprattutto la gravità che si andava allargando a macchia d’occhio proprio in Europa poco prima del mio rientro” (9 maggio 2020 - TG2 storie) Così si è espresso ben due volte nell’ultimo mese Luca Parmitano. Anzi, il colonnello Luca Parmitano, ufficiale dell’Aeronautica Militare con 25 anni di servizio e la bellezza di sei missioni spaziali alle spalle. Non parliamo di una recluta emotiva, né di un uomo a caccia di visibilità mediatica (avrebbe usato altri mezzi…), tantomeno di uno con i nervi fragili: siamo di fronte a uno dei motivi di orgoglio di questo Paese, di un militare che è stato il primo italiano ad effettuare un'attività extraveicolare il 9 luglio 2013, con 6 ore e 7 minuti di passeggiata spaziale, e il primo italiano (e il terzo europeo) al comando della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) durante la Expedition 61. Non parliamo, quindi, di uno che confonde novembre con gennaio per ben due volte. Ebbene, ha detto qualcosa di grosso, anzi di enorme, nel quasi totale silenzio dei media italiani. Innanzitutto, il colonnello Parmitano per primo in Italia e con l’autorevolezza della sua persona e del suo grado, ha confermato ciò che all’estero riportano persino media mainstream1,2, cioè che l’intelligence americana avvertì gli alleati e altri governi, fra cui quello israeliano, già a novembre 2019, mentre ancora ufficialmente la Cina comunista non dichiarava alcuna epidemia da coronavirus. Quello stesso rapporto, sicuramente già disponibile per tutti i leader prima del 28 novembre, secondo tutte le fonti avvertiva che il dilagare di una siffatta pandemia avrebbe provocato “un evento catastrofico”. Lo faceva, con dovizia di prove, molte settimane prima che il compianto dottor Li Wenliang, martire per la libertà assassinato da funzionari comunisti (in Rolls Royce) della Cina continentale, annunciasse al mondo il pericolo imminente. Sarebbe interessante chiedere a Parmitano chi lo teneva informato: se direttamente gli USA o le autorità italiane o anche una pluralità di governi, come pare più probabile (in quanto comandante della ISS). Nelle interviste fa capire che dette informazioni circolavano normalmente fra tutti i membri della missione, anche costituita da cosmonauti russi: pare, quindi, ovvio dedurre che anche Mosca sapesse o fosse stata informata. All’epoca, la Corea del Sud e il Giappone avevano ricevuto le stesse comunicazioni - e forse di più - e si erano adeguati perché avevano fatto le terribili esperienze della SARS e della MERS molto da vicino e, per ragioni storiche e geopolitiche, si fidano della Repubblica Popolare Cinese molto poco. In Occidente, gli avvertimenti non sono stati ritenuti meritevoli di reazione, a parte averli fatti circolare come pare di capire, fra gli stessi governanti che poi hanno, più o meno maldestramente, gestito la crisi. Poi, Parmitano parla di un fenomeno grave che, prima del 6 febbraio, nel nostro Continente “si andava allargando a macchia d’olio”. Si noti bene: non ha usato l’espressione “a macchia di leopardo”, cioè con tante modeste localizzazioni separate fra di loro come appariva a qualunque osservatore in quel periodo, ma a “a macchia d’olio”, cioè con la dinamica che il fenomeno davvero aveva, ma che le cronache e i ministeri della salute hanno scoperto solo nella seconda metà di marzo. Esistono uno o più rapporti o studi dei servizi americani - o di un altro Paese che ha partecipato alla missione Expedition 61 - sull’andamento probabile del contagio da COVID-19 che non sono stati resi pubblici ma sono circolati fra le persone in posizione apicale, fra cui appunto il comandante della ISS? Se sì, ne è stato tenuto conto al momento in cui si sono impostate le prime strategie di gestione della pandemia? Francamente, pare ovvio che gli stessi servizi che avevano elaborato il primo rapporto siano, per così dire, rimasti sul pezzo, anche quando la Repubblica Popolare ha ammesso l’esistenza dell’epidemia e di averla messa sotto controllo. Verrebbe da chiedere al Governo italiano (la delega ai servizi è nelle mani del presidente del consiglio) se una volta informato - ci rifiutiamo di credere che il premier Conte a novembre ne sapesse meno del comandante della ISS - abbia preso misure cautelative, come sottoporre a visita medica i militari che avevano partecipato ai giochi di Wuhan il 18-27 ottobre (v.articolo), appunto il territorio da cui stava dilagando un’epidemia potenzialmente catastrofica. Se sì, con quali risultati? Se no, perché? Tante domande, tantissimi morti e un danno economico incalcolabile. Per adesso, nessuna risposta. Ma una luce si è accesa in fondo al tunnel…
Se Pechino sapeva del virus prima di gennaio, come scrive pure la stampa cinese, allora lo sapevano pure i servizi occidentali, statene certi. E da lì alla Stazione Spaziale Internazionale il passo è più breve di quanto sembri. E le comunicazioni riservate...David Rossi per difesaonline.it il 29 maggio 2020. Dove eravamo rimasti tre giorni fa? Ricominciamo dai famosi video di cui molti hanno scritto e che pochi hanno visto: lasciamo ai lettori la libertà, guardandoli direttamente, di farsi un’idea (v.link o vai a fine articolo). Partiamo con ordine, dalla necessità di chiarimenti dopo che “qualcuno” ha portato all'attenzione dell'ex comandante della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) il fatto di "aver commesso un errore durante un'intervista rilasciata a una trasmissione televisiva": a dire il vero, come potete vedere, le interviste sono DUE e ben distinte. In entrambe, il colonnello Parmitano fornisce sempre e con schiettezza la stessa risposta: a NOVEMBRE lui e l’equipaggio della ISS erano già informati del pericolo rappresentato dal Sars-CoV-2 (che allora non aveva ancora questo nome) come potenziale pandemia. Ricordiamo anche, prima di procedere, lo scenario del giorno del ritorno. Il 6 febbraio c’erano già 31.439 casi, di cui 31.161 nella Repubblica Popolare Cinese, 20 sulla nave da crociera Diamond Princess e il resto in vari Paesi di tre continenti: in un'intervista Parmitano parla della “gravità che si andava allargando a macchia d’olio proprio in Europa poco prima del rientro”. Prima di elencare varie scusanti il colonnello dell'aeronautica afferma: “Errare è umano, e mi spiace molto vedere che in questo caso il mio lapsus sia stato strumentalizzato”. Dopo aver visionato il video, con la strage in corso su tutto il Pianeta - siamo ad oltre 350.000 morti ufficiali -, non credete sia semplicemente legittimo, anzi doveroso, porsi e porre certi interrogativi?
Passiamo ora alle giustificazioni addotte da Parmitano. Dal 1965 Omega, oggi di proprietà di Swatch Group, mette al polso degli astronauti delle missioni a partecipazione umana dei capolavori di eccellenza orologiaia svizzera. Uno fra questi è lo Speedmaster Skywalker X-33, progettato appositamente per gli esploratori dello spazio e testato e qualificato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA). È stato sviluppato per soddisfare quanti, come gli astronauti, sfruttano funzioni speciali come: tre diversi fusi orari, cronografo, timer, MET (Mission Elapsed Time), PET (Phase Elapsed Time) tre sveglie e, ultimo ma non meno importante, il calendario perpetuo. L'orologio è chiaramente visibile al polso del colonnello Luca Parmitano in occasione di almeno tre interviste dallo spazio durante la missione Expedition 61. L’ufficiale, tuttavia, nel comunicato dell'ESA (v.link) afferma che “a bordo della ISS non utilizziamo il calendario, ma il Coordinated Universal Time (UTC). L’anno inizia con il giorno 1 e finisce con il giorno 365, e gli eventi vengono eseguiti in base a questa pianificazione. Di conseguenza è possibile confondere un mese con un altro poiché non vi facciamo mai riferimento, ma utilizziamo il giorno UTC”. Vuol forse dire che non guardava mai e non utilizzava le funzioni del suo orologio sviluppato appositamente per le esigenze degli astronauti? Il colonnello Luca Parmitano afferma, quindi, che a bordo della ISS aveva accesso alle “agenzie giornalistiche e alle grandi testate televisive”. Davvero non ha mai fatto caso che queste gli portavano le notizie indicando in un angolo date e orari, per così dire, terrestri, permettendogli a ogni fruizione di collegare facilmente gli avvenimenti a mesi specifici? Non ha fatto caso alla data nemmeno mentre postava su Facebook per ben 35 volte a novembre e 41 a dicembre come un “terrestre” qualsiasi? Non ha tratto motivo di distinguere NOVEMBRE dagli altri mesi nonostante in quei trenta giorni siano arrivati due nuovi compagni di missione, un’astronauta dalla NASA e un cosmonauta dall’agenzia spaziale russa? Non è valsa, a stimolargli la memoria, l’eccezionale - per certi versi storica - serie di attività extraveicolari (in gergo, EVA) svolte in quel mese, di tale complessità, ricordano le agenzie spaziali americana ed europea, come non si vedevano dai tempi della manutenzione del telescopio spaziale Hubble? E pensare che c’è gente che si ricorda il mese del primo esame o del primo bacio…A tre mesi dal rientro non riusciva - dobbiamo credere - a mettere a fuoco NOVEMBRE, nonostante a bordo della ISS non siano mancate le occasioni per imprimersi nella memoria eventi davvero speciali e collegarli a date specifiche. Come non ricordare gli auguri per il Natale e il pensiero “a chi è lontano dalla famiglia”, fatti a bordo della ISS poco prima della Festa? E la videochiamata augurale fatta al cantante Jovanotti alla fine di dicembre? E ancora prima non si è emozionato a parlare con una star del calibro di Paul McCartney all’inizio di dicembre? Forse non gli sono venuti i brividi ma sicuramente si sarà inorgoglito quando, a inizio NOVEMBRE, ha avuto un collegamento col nostro presidente e suo conterraneo, Sergio Mattarella? Noterete che ho omesso volutamente i giorni: questo perché al di là delle date precise, ognuno di noi fa esperienza del fatto che è molto difficile confondersi con i mesi. Puoi sbagliare il giorno, ma il mese mai e se succede puoi confonderti col mese immediatamente precedente o quello successivo, non prendere NOVEMBRE per FEBBRAIO! Sarebbe bastato dire: “ho erroneamente (sic) affermato che, come equipaggio, fossimo al corrente dell’inizio del contagio pandemico già a novembre. Errare è umano”. Invece, ha cominciato ad arrampicarsi sugli specchi spiegandoci i “vari fattori” a cui il così detto errore sarebbe dovuto e che abbiamo smontato pezzo per pezzo. Sarebbe ora inutile chiedere chi ha “portato alla sua attenzione un errore commesso”. A più di un lettore sarà però venuto il dubbio che chi gli ha chiesto di “riparare” ne avesse interesse e volesse una smentita “a ogni costo”. Nell'ultimo punto Parmitano afferma poi “tutto questo è facilmente verificabile: le comunicazioni Terra – bordo – Terra sono soggette al Freedom Of Information Act, una legge che impone totale trasparenza..." Mi spiace far notare che, mentre scrivo, per l’Italia il Freedom of Information Act a cui fa riferimento lo stesso colonnello per avere maggiori informazioni è stato sospeso dal governo in carica a causa della crisi da COVID-191: la trasparenza è quindi ancora in stato di lockdown! Cari lettori, ci sembra come minimo strano che solo in Italia si neghi quello che media internazionali di specchiata affidabilità affermano: i grandi di questo mondo furono informati - parafrasando le parole di Parmitano - del pericolo di un “probabile contagio pandemico” fin da NOVEMBRE. A noi dispiace disturbare un concittadino come il colonnello Parmitano che gode della nostra stima e ammiriamo, ma il COVID-19 è arrivato a fare stragi di innocenti a marzo senza che le autorità avessero attuato alcuna forma di preparazione. Non possiamo dunque esimerci dal domandare chi sapeva e che cosa: lo dobbiamo ai vivi… e ai morti!
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid? Federico Giuliani il 26 maggio 2020 su Inside Over. Quando all’interno di un Paese scoppia un’epidemia è importante agire in modo tempestivo per evitare che la piaga sanitaria possa diffondersi senza controllo. Il procedimento, solitamente, è sempre lo stesso. Una volta che viene riscontrata la presenza di un focolaio, gli esperti delimitano quell’area alla ricerca della radice dalla quale tutto è partito. È il cosiddetto ”paziente zero”, figura che negli ultimi mesi abbiamo più volte sentito rammentare all’interno dei notiziari televisivi. La descrizione del paziente zero medio può così essere riassunta: si tratta del primo soggetto a essere colpito dalla malattia infettiva, quello attraverso cui l’infezione comincia, nonché il primo a diffonderla agli altri. Da un punto di vista tecnico-scientifico è tuttavia importante distinguere tra ”index case” e ”primary case”. Già, perché l”’index case”, o caso indice, è il primo caso di paziente infetto registrato dalle autorità mediche di un determinato luogo; il ”primary case” è invece la persona che effettivamente introduce un’infezione all’interno di un gruppo sociale (ospedale, scuola o perfino Paese). Non sempre index case e primary case coincidono nella stessa persona. Anzi: il più delle volte è proprio l’opposto, tanto che in numerose epidemie del passato il primary case è tutt’ora sconosciuto. Tornando alla definizione di paziente zero, la sua individuazione è quanto mai fondamentale per ricostruire l’albero genealogico dei contagi.
Il paziente zero italiano. Nel caso della pandemia di Covid-19 è molto complicato risalire al paziente zero. Il motivo è semplice: non abbiamo ancora alcuna certezza sul luogo e sulla data di origine dell’infezione. Sul tavolo ci sono varie ipotesi, ma non prove certe che garantiscano l’ufficialità. La Sars-CoV-2 è nata a Wuhan? È apparsa in autunno, come sostengono alcune indiscrezioni, oppure la misteriosa malattia era già in circolazione dall’estate 2019? Va da sé che senza avere punti fermi resta difficile, se non impossibile, risalire all’esatto paziente zero dal quale è partito tutto. Inoltre, dal momento che il Covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, ogni Paese ha imparato a fare i conti con la ricerca del proprio paziente zero. Partiamo dall’Italia. Il paziente zero non ha ancora un’identità, anche se, in base all’ipotesi avanzata dall’infettivologo Massimo Galli, primario all’ospedale Sacco di Milano nonché docente di Malattie infettive all’università Statale del capoluogo lombardo, tutto potrebbe essere partito da un tedesco. Lo scorso 11 marzo, Galli spiegava all’agenzia AdnKronos che ”gran parte, se non tutta l’epidemia del Lodigiano sia partita da qualcuno che si è infettato in Germania verosimilmente intorno al 24, 25 o 26 di gennaio e che poi è venuto in quella zona dove ha seminato l’infezione, del tutto inconsapevolmente o perché completamente asintomatico o perché ha scambiato i sintomi di Covid-19 per quelli di una normale influenza”. Il primo paziente infetto registrato ufficialmente in Italia, invece, è Mattia, il 38enne di Codogno che per settimane si pensava potesse essere il paziente zero.
Il manager tedesco. La caccia al paziente zero europeo ci porta allora in Germania. Come hanno scritto alcuni medici locali in una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine, un tedesco di 33 anni potrebbe essere stato il primo cittadino europeo ad aver contratto la Sars-CoV-2. La teoria è stata confermata da uno studio operato da Trevor Bedford, professore associato al Department of Genome Sciences e al Department of Epidemiology all’Università di Washington. Scendendo nel dettaglio, il presunto paziente zero europeo ha manifestato i primi sintomi il 24 gennaio. Tre giorni dopo torna a lavoro, in un’azienda a Monaco. Piccolo particolare: tra il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting al quale era presente anche una collega di Shanghai. La donna, in perfetta salute, aveva soggiornato in Germania dal 19 al 22 gennaio ma, il 26 gennaio, una volta rientrata a Shanghai, sul volo di ritorno verso la Cina, inizia a star male. Si tratta del Covid-19. Il 27 gennaio la donna avvisa i tedeschi di quanto accaduto, e quel giorno l’azienda effettua subito test su tutti i lavoratori dello stabilimento. Il nostro 33enne risulta ovviamente positivo; il 28 altri tre colleghi vengono trovati positivi.
Il pescivendolo francese. Anche in Francia mancano alcune tessere per completare il mosaico. Certo è che alcuni scienziati mettono in discussione la timeline ufficiale della pandemia. Michel Schmitt, capo del Dipartimento di radiologia nell’ospedale di Colmar, nella regione dell’Alsazia, ha un’illuminazione. Sentendo l’apocalisse in corso a Wuhan, Schmitt si ricorda dei numerosi pazienti ricoverati nell’autunno del 2019 e sottoposti a tac e radiografie al torace. Dai referti pare che centinaia e centinaia di quei pazienti (per l’esattezza 482) – ha scritto Repubblica dopo aver consultato una ricerca – fossero probabilmente positivi al virus. Il paziente zero? Forse una francese di 28 anni, mai stata in Cina e ricoverata il 16 novembre. Se così fosse, significa che l’epidemia stava circolando in Francia mesi e mesi prima dell’inizio ”ufficiale” dell’epidemia di Wuhan, presumibilmente durante l’estate 2019. In ogni caso i primi tre casi di pazienti francesi infettati dal Covid-19 vengono annunciati soltanto il 24 gennaio. Eppure c’è un altro caso misterioso: quello di Amirouche Hammar, un pescivendolo 43enne che vive a Bobigny e che per alcuni potrebbe essere il paziente zero francese. Si ammala intorno al 20 dicembre, dopo che sua moglie aveva già manifestato sintomi compatibili con il nuovo coronavirus, ben prima che Parigi si trovasse a fare i conti con migliaia di infezioni al giorno. Hammar non aveva effettuato recenti viaggi all’estero: da dove ha contratto il virus? Forse dalla moglie, addetta in un Carrefour situato nei pressi dell’aeroporto di Roissy, uno scalo che fino allo scorso gennaio ha ospitato voli giornalieri provenienti da Wuhan.
L’enigma cinese e il paziente zero americano. Rintracciare il paziente zero cinese equivale a trovare un ago in mezzo a un pagliaio. Tra versioni contrastanti, errori più o meno volontari e silenzi vari, ci sono al meno tre versioni da prendere in considerazione. Secondo le autorità cinesi il primo caso di Sars-CoV-2 si sarebbe verificato lo scorso 31 dicembre. I malati successivi sono stati collegati al Mercato ittico di Huanan, un wet market a Wuhan, capoluogo dello Hubei ed epicentro della pandemia globale. Uno studio condotto da alcuni ricercatori cinesi pubblicato su Lancet sostiene invece che la prima persona affetta da Covid-19, il primo dicembre 2019, fosse un uomo anziano che soffriva di Alzheimer. Non aveva alcun contatto con il mercato del pesce di Wuhan, anche se viveva poco distante da quel luogo. La terza versione è quella riportata dal South China Morning Post, secondo cui il primo a contrarre il virus potrebbe essere stato un 55enne dello Hubei, precisamente il 17 novembre. Impossibile tuttavia avere la certezza assoluta, visto che alcuni casi sono stati retrodatati. E negli Stati Uniti? Il primo infetto negli Usa dovrebbe essere un 35enne di Seattle. Il 19 gennaio, pochi giorni dopo essere rientrato da Wuhan assieme alla famiglia, accusa febbre e tosse. Decide quindi di recarsi in una clinica di pronto soccorso, munito di mascherina e delle adeguate protezioni. Il test, pressoché immediato, dà esito positivo. Le autorità rintracciano immediatamente le persone che hanno avuto contatti con lui o con il resto della sua famiglia. Tutto sembra filare liscio, visto che, a distanza di settimane, nessuno di quei soggetti ha ancora manifestato il Covid-19. Qualcuno, evidentemente, è però sfuggito al controllo. Intanto il paziente zero della Sars-CoV-2 non ha ancora un’identità. Molto probabilmente non ce l’avrà mai.
· Un Virus Cinese.
L’autorizzazione mancante, il laboratorio e i pipistrelli: il mistero sulle origini del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 26 dicembre 2020. Una missione, quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Wuhan, per studiare le origini della Sars-CoV-2, tanto attesa quanto “spuntata” a causa del fiato sul collo delle autorità di Pechino. L’autorizzazione a poter visitare i corridoi del famigerato Wuhan Institute of Virology (WIV) mai richiesta dall’Oms al governo cinese (il quale tuttavia, con ogni probabilità, non l’avrebbe mai concessa). Lo strano invito della “Bat woman” Shi Zhengli al team di esperti stranieri di entrare in laboratorio; un assist presto smussato e ridimensionato dai piani alti della struttura o, chissà, dal governo cinese. E ancora: i pipistrelli che tornano al centro dell’indagine come possibili serbatoi del nuovo coronavirus. E, infine, il tentativo da parte di alcuni giornalisti della Bbc di visitare le grotte dello Yunnan, dove qualche anno fa la signora Shi aveva trovato un virus proveniente proprio da un pipistrello e molto simile alla Sars-Cov-2. Un tentativo non andato purtroppo a buon fine a causa di misteriosi ostacoli riscontrati sul cammino dei reporter. Sul tavolo ci sono tutti gli elementi per ricostruire, in versione aggiornata, il mistero sulle origini del Sars-CoV-2. Un enigma che lega il laboratorio di Wuhan, la Bat woman cinese, i pipistrelli e le grotte dello Yunnan. È in uno scenario del genere che si ritroverà presto a lavorare la squadra di esperti allestita dall’Oms.
Ipotesi smentita. Partiamo dal recente contatto avuto tra Shi Zhengli e la Bbc. Miss Shi, in Cina, non ha bisogno di presentazioni. È una delle virologhe più importanti del Paese. Da 16 anni visita le grotte più inaccessibili dell’ex Impero di Mezzo a caccia pipistrelli, dai quali preleva campioni di tessuto e sangue con l’obiettivo di identificare decine di virus mortali. La sua prima missione degna di nota risale al 2004, quando Shi effettua una spedizione nelle caverne situate nei pressi di Nanning, nel Guanxi, per raccogliere tracce dalle colonie di pipistrelli che abitano quei luoghi oscuri. Il suo obiettivo: trovare il colpevole che, soltanto un anno prima, aveva scatenato l’epidemia di Sars. In ogni caso, tornando al presente, Bat woman, grazie alla sua minuziosa caccia ai pipistrelli, è riuscita a formare uno dei più grandi archivi di coronavirus esistenti al mondo. All’interno di questo particolare album fotografico trova spazio anche il CoV ZC45, virus appartenente alla famiglia della Sars rinvenuto nei pipistrelli Rhinolophus affinis, presenti nelle province dello Yunnan e dello Zhejiang. Secondo alcune indiscrezioni, il team di Miss Shi scoprì che il 96,2% del genoma di Sars-CoV-2 si sovrapponeva a un virus presente già in archivio: proprio il CoV ZC45. A pandemia scoppiata, la signora dei pipistrelli rilasciò una lunga intervista alla rivista Scientific American, accennando all’ipotesi che il virus potesse essere sfuggito dall’istituto in cui la donna prestava (e presta tutt’ora) servizio. D’altronde, secondo gli studi di Shi, le aree in cui vi era maggiore probabilità di assistere a una zoonosi erano quelle dello Yunnan, del Guandong e del Guanxi. Non certo le strade di una megalopoli come Wuhan. Un dubbio inizia ad attanagliare la mente della donna: se i responsabili delle polmoniti atipiche erano i coronavirus, questi “potevano forse essere arrivati dal nostro laboratorio?”. A un’idea del genere – soltanto un’ipotesi, in seguito ufficialmente smentita – Miss Shi ha dichiarato di non aver “chiuso occhio per giorni”.
L’invito di Batwoman. Passano i mesi e di Shi Zhengli non c’è traccia. Improvvisamente riappare sui radar con alcune dichiarazioni rilasciate, via mail, alla Bbc. La missione dell’Oms sta per approdare a Wuhan, e i giornalisti le chiedono se non sarebbe il caso di invitare gli esperti nel suo laboratorio, così da escludere, una volta per tutte, la speculazione sulla possibile fuoriuscita del virus dall’istituto. “Ho espresso personalmente e chiaramente che li accoglierei a visitare il WIV”, ha risposto Miss Shi, salvo poi fare retromarcia. “Personalmente apprezzerei qualsiasi forma di visita, basata su un dialogo aperto, trasparente, fiducioso, affidabile e ragionevole”, ha aggiunto la virologa in merito all’accesso della task force dell’Oms ai dati sperimentali e alle registrazioni di laboratorio. Il punto è che “il piano specifico” non dipende da lei. Ovvero: non a lei che spetta decidere se concedere o meno l’autorizzazione di visitare il laboratorio agli esperti internazionali. In un secondo momento, la Bbc ha ricevuto una telefonata dall’ufficio stampa del laboratorio, in cui si diceva che Miss Shi stava parlando a titolo personale e che le sue risposte non erano state approvate dalla struttura. Certo è che l’Oms non ha minimamente preso in considerazione la teoria della fuoriuscita dal laboratorio. E che i membri della squadra inviata a Wuhan, secondo le ultime indiscrezioni, non hanno presentato alcuna richiesta per visitare il laboratorio. Detto in altre parole, il Wuhan Institute of Virology non sembrerebbe interessare a nessuno.
Strada sbarrata. L’ultimo tassello del puzzle riguarda alcune stranezze riscontrate dai giornalisti della Bbc, intenti a visitare il distretto di Tongguan, nella provincia dello Yunnan. Esatto: proprio il luogo in cui Miss Shi aveva recuperato il virus molto simile al Sars-CoV-2. Ebbene, nella ricostruzione offerta dall’emittente inglese, i giornalisti che hanno cercato di raggiungere la meta hanno dovuto fare i conti con una serie di impedimenti. Agenti di polizia in borghese e altri funzionari in auto, senza contrassegni, li hanno seguiti per miglia lungo le strade polverose e sconnesse. A un certo punto i giornalisti sono stati costretti a tornare indietro, visto che il percorso era sbarrato da un camion apparentemente in panne, probabilmente messo appositamente di traverso da qualcuno per scoraggiare gli stranieri a continuare il loro viaggio. La gente del posto, ha aggiunto la Bbc, ha in seguito confermato che quel mezzo era stato posizionato lì in mezzo pochi minuti prima dell’arrivo della troupe giornalistica. Come se non bastasse, gli inviati si sono imbattuti in posti di blocco in cui uomini non identificati hanno spiegato che il loro compito era di tenerli “lontani”. Lontani da cosa? Lontani da dove?
Da adnkronos.com l'1 dicembre 2020. La Cina non avrebbe diffuso, almeno nelle prime fasi dell'emergenza, i dati reali sull'epidemia di coronavirus, che si sarebbe inizialmente manifestato nella megalopoli di Wuhan, e avrebbe gestito male le prime fasi di quella che sarebbe poi diventata una pandemia. Lo sostiene la Cnn specificando di basarsi su informazioni contenute in documenti interni di cui, afferma, è venuta in possesso grazie a un 'whistleblower' (una fonte interna al sistema sanitario cinese) e che precisa di aver verificato con sei esperti indipendenti, aggiungendo di non aver ricevuto risposte dal ministero degli Esteri di Pechino, dalla Commissione sanitaria nazionale e dalla Commissione sanitaria di Hubei, di cui Wuhan è capoluogo. La Cina ha più volte negato le accuse di poca trasparenza e difeso la sua risposta all'emergenza. A un anno da quando il primo paziente noto mostrò i sintomi a Wuhan, secondo una ricostruzione delle prime fasi dell'epidemia pubblicata da Lancet, la Cnn cita un "rapporto contrassegnato come 'documento interno da mantenere riservato' in cui le autorità sanitarie della provincia di Hubei segnalano il 10 febbraio un totale di 5.918 nuovi contagi" (di cui 2.345 "casi confermati" e gli altri tra "diagnosticati clinicamente" e "sospetti"), più del doppio - sottolinea l'inchiesta 'The Wuhan files' - dei dati ufficiali sui casi confermati. Era il giorno in cui da Pechino il presidente Xi Jinping parlava di situazione "molto grave" e il giorno in cui le autorità sanitarie del gigante asiatico riportavano di 2.478 nuovi casi confermati in tutto il gigante asiatico. I dati, sottolinea la Cnn, fanno parte di una serie di "rivelazioni" contenute nelle 117 pagine di documenti 'usciti' dal Centro provinciale di Hubei per il controllo e la prevenzione delle malattie che aprono una 'finestra' su quanto avvenuto tra ottobre 2019 e lo scorso aprile. I documenti, puntualizza la Cnn, non sono prove di un "deliberato tentativo di offuscare quanto scoperto, ma rivelano varie incongruenze tra ciò che le autorità credevano stesse accadendo e ciò che è stato rivelato all'opinione pubblica". Le "discrepanze più nette" emergono secondo la Cnn dai bilanci delle vittime riportati nei documenti: il 7 marzo il bollettino da Hubei parlava di un totale di 2.986 decessi, mentre nel "rapporto interno" vengono "segnalati 3.456 morti, di cui 2.675 decessi confermati, 647 'diagnosticati clinicamente' e 126 'sospetti'". Stando alle rivelazioni, inoltre, un documento di inizio marzo indicherebbe che passavano in media 23,3 giorni da quando un paziente mostrava i primi sintomi alla conferma della diagnosi. I documenti parlano anche di un'altra emergenza sanitaria esplosa lo scorso dicembre: la provincia di Hubei avrebbe fatto i conti con un'epidemia di influenza con un numero di casi 20 volte superiore rispetto all'anno precedente, un'epidemia diffusa non solo a Wuhan ma soprattutto nelle vicine città di Yichang e Xianning. Restano poco chiari, sottolinea la Cnn, l'impatto o le relazioni con l'epidemia di Covid-19. Oggi, secondo l'agenzia ufficiale cinese Xinhua, la Commissione sanitaria nazionale ha confermato quattro casi di trasmissione locale del coronavirus nella Mongolia Interna (che portano il bollettino ufficiale a 86.542 contagi con 4.634 decessi) e otto casi "importati" (per un totale di 3.866). I dati della Johns Hopkins University parlano di un totale di oltre 63 milioni di contagi a livello globale con più di 1,4 milioni di decessi. Gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di casi e vittime.
Articolo di “Le Monde” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'1 dicembre 2020. Almeno una mezza dozzina di persone sono state arrestate, scrive Le Monde. Questa ondata di repressione rivela la paranoia di Pechino nei confronti di qualsiasi versione non conforme alla verità ufficiale su Covid-19. Ne avevano fatto la loro passione: l'archiviazione su un sistema ospitato all'estero, la piattaforma americana GitHub, i contenuti - articoli di stampa o di social network - che scomparivano dal web cinese ad ogni incursione censoria. Le autorità non sembravano preoccuparsi delle loro attività fino a quando l'epidemia di Covid-19 a Wuhan non ha ampliato il loro sito con centinaia di pagine di documenti. In aprile, Chen Mei e Cai Wei, due ventisettenni cinesi, sono stati arrestati a Pechino e tenuti in isolamento per 55 giorni prima di essere formalmente accusati. Sono in attesa del processo, che è imminente, con l'accusa di "opposizione e disordini", un reato che vale fino a quattro anni di reclusione, che viene regolarmente utilizzato per punire gli attivisti. Assieme a questi due storici in erba, sono stati arrestati almeno una mezza dozzina di cittadini giornalisti che si erano mobilitati per documentare il confinamento di Wuhan dal 23 gennaio. Come Chen Qiushi, che all'inizio dell'epidemia pubblicava i suoi rapporti negli ospedali di Wuhan su YouTube e che è stato tenuto in isolamento per quasi 300 giorni. O Zhang Zhan, un avvocato di Shanghai, anch'egli andato a Wuhan per filmare i suoi abitanti, che è stato arrestato a maggio e che presto sarà processato per "opposizione e disordini". Ha respinto le accuse a suo carico e ha fatto più volte lo sciopero della fame.
Paranoia delle autorità. Questa ondata di repressione rivela la paranoia delle autorità cinesi e la loro accresciuta vigilanza contro qualsiasi versione non conforme alla verità ufficiale sul Covid-19 a Wuhan. Dimostra anche quanto si sia ridotto il margine di manovra in Cina per un'intera generazione di giovani idealisti che ancora credevano di potersi impegnare in missioni civili. Chen Mei era uno di loro. Tecnico informatico in un'associazione per bambini ipoacusici e autistici di Pechino, aveva chiamato Terminus2049 il sito creato nel 2018 con il suo compagno Cai Wei, in omaggio al pianeta Terminus, sul quale, nei romanzi di fantascienza dello scrittore americano Isaac Asimov, uno scienziato conserva la conoscenza dell'umanità in via di estinzione. Tra gli articoli di stampa, ma anche libri vietati in Cina, un documentario sul massacro di Tienanmen, il contenuto di un sito di notizie di Hong Kong e un forum dove gli abbonati potevano scambiarsi in forma anonima collegandosi a una VPN, lo strumento che permette l'accesso a siti stranieri. Quando la trasmissione da uomo a uomo del virus è stata ufficialmente confermata a Wuhan il 20 gennaio, la rete cinese è esplosa con speculazioni, dubbi e rabbia. In un forum di discussione riservato agli intellettuali, è stato ampiamente diffuso un saggio che spiega che i cinesi stanno ora pagando il prezzo di non aver difeso la libertà di stampa per 50 anni. Lo Youth Daily, un giornale ufficiale progressista, pubblica una delle prime interviste dell'informatore Li Wenliang, l'oculista che poi è morto a causa di Covid-19. Sul servizio di messaggistica WeChat ci sono tutti i tipi di forum aperti. I residenti di Wuhan stanno indagando: uno di loro invia a WeChat le immagini di otto morti in un ospedale che sostiene di non avere alcun caso. Tutti questi contenuti, anche quelli della stampa ufficiale, saranno completamente eliminati dal web dai censori, come a lavare via ogni traccia dell'effervescenza che sta poi agitando la società cinese. Questi documenti sono archiviati su Terminus2049 e rimangono lì per la consultazione. Oggi, hanno fatto guadagnare a Chen Mei e alla sua compagna l'accusa di "diffondere informazioni false che hanno un effetto negativo sulla società", spiega il fratello maggiore del giovane archivista, Chen Kun, 33 anni. Ex attivista della comunità, ha lasciato la Cina per l'Indonesia all'inizio dell'epidemia, alla fine di gennaio, e poi è venuto a studiare in Francia, dove Le Monde lo ha incontrato. Da allora, ha cercato di tracciare i fili dell'indagine che ha portato suo fratello in prigione. In particolare, aveva aderito a un'iniziativa collettiva per cercare di determinare il numero reale dei morti di Covid-19. "Il governo cinese vuole che la gente ricordi solo una cosa, la sua vittoria sull'epidemia, dice Chen Kun. Se la gente lo mette in dubbio, può rivelare alcuni problemi della società, e loro non vogliono questo."
"Informazioni sensibili". La sua stessa partenza dalla Cina, crede Chen Kun, ha alimentato i sospetti della polizia su suo fratello: un suo conoscente gli ha detto di essere stato interrogato, poche settimane prima del suo arresto, sul fatto che qualcuno vicino a Chen Mei all'estero potrebbe aver ricevuto "informazioni sensibili". In realtà, Chen Kun non era a conoscenza della società di archiviazione del fratello minore. L'informazione in questione, ha sottolineato, non era un segreto di Stato. Ha lasciato la Cina con la moglie e la figlia come misura precauzionale: "Sapevamo che l'obiettivo di sradicare la pandemia a tutti i costi avrebbe portato a molte azioni che avrebbero ignorato i diritti umani. Che chiunque fosse contagiato si sarebbe trovato completamente alla mercé del governo locale", dice. L'ex attivista e sua moglie erano già stati duramente colpiti dalla prima svolta autoritaria di Xi Jinping sei anni prima. Un'ondata di repressione contro gli ambienti associativi ha poi fatto guadagnare loro diversi mesi di "sorveglianza in un luogo designato", lo stesso prolungato regime di detenzione in isolamento, equivalente alla tortura, che Chen Mei ha subito. Per Chen Kun, arrestato il 6 ottobre 2014, la detenzione ha avuto luogo in una base militare vicino a Pechino. È stato interrogato per tre mesi e due guardie lo hanno tenuto di guardia nella sua cella giorno e notte. "È cento volte peggio di una prigione. Immaginare un giorno di tornare a casa era diventato un sogno stravagante. Mi era rimasto solo un desiderio, quello di chiacchierare con un altro essere umano", dice. Sua moglie, che era stata arrestata qualche giorno prima, vi ha trascorso ottanta giorni. La sequenza di circostanze che li ha portati a questa situazione è grottesca. Chen Kun era allora direttore del Liren College, laboratori educativi legati ad una ONG, Liren (in cinese, "in piedi"), che gestisce librerie per i bambini poveri delle zone rurali. La coppia fa parte di un'intera rete di attivisti, volontari e imprenditori che lavorano ai margini dell'impegno politico, impegnandosi nell'azione dei cittadini. La moglie di Chen Kun, Ling Lisha, fotocopia un giorno di settembre documenti relativi al "movimento ombrello", l'occupazione dei quartieri di Hong Kong da parte dei manifestanti, in una farmacia vicino a un'università di Pechino. La fotocopiatrice è collegata alla polizia segreta e la ricevuta, rilasciata a nome di una delle associazioni, sarà usata come pretesto per l'arresto di un noto attivista per i diritti umani, Guo Yushan, il cui assistente è Chen Kun. Il signor Guo sconterà un anno di carcere, mentre il suo stesso avvocato è condannato a dieci anni. La maggior parte delle associazioni saranno smantellate. Al suo rilascio, la coppia ha un figlio, si trasferisce al Sud e allestisce un asilo nido, rassegnandosi, dicono, a un lavoro "normale". Diverse ondate successive di repressione hanno poi prosciugato il terreno fertile da cui, all'inizio del decennio 2010, erano emerse queste buone volontà, determinate a far avanzare la Cina verso lo stato di diritto. Nel 2015, 300 avvocati sono stati arrestati e circa dieci di loro hanno ricevuto pesanti condanne. Tanto che il periodo in cui tutti si mobilitavano su Internet quando un attivista era detenuto, coinvolgendo avvocati indipendenti, aiutando le famiglie, è in gran parte finito. "Ho scelto un avvocato indipendente per mio fratello. Ma è stato costretto a ricorrere a difensori pubblici. Questi avvocati si rifiutano di parlare con me. La procedura è una scatola nera. Ripetono quello che la polizia dice - che mio fratello ha commesso un crimine - invece di difenderlo. L'obiettivo è quello di impedire ai veri avvocati di fare il loro lavoro", dice Chen Kun. Ma è riuscito a convincere i primi due avvocati ufficiali a ritirarsi, minacciando di informare i loro clienti internazionali, le grandi aziende, del loro inganno. Una prima vittoria simbolica, anche se altri due sono stati nominati per sostituirli.
Da corrieredellosport.it il 7 maggio 2020. Ai mondiali militari di Wuhan "ci siamo ammalati tutti, 6 su 6 nell'appartamento e moltissimi anche di altre delegazioni. Tanto che al presidio medico avevano quasi finito le scorte di medicine". Così Matteo Tagliariol, uno dei campioni della scherma azzurra racconta quanto accaduto lo scorso ottobre e il possibile contatto col coronavirus già allora. "Ho avuto febbre e tosse per 3 settimane - dice lo spadista azzurro - e gli antibiotici non hanno fatto niente; poi è toccato a mio figlio e alla mia compagna. Non sono un medico, ma i sintomi sembrano quelli del covid-19". A questo punto il sospetto è che il coronavirus sia scoppiato in Cina già addirittura ad ottobre. Alle parole di Tagliariol sono seguite quelle della pentatleta francese Elodie Clouvel che all'emittente televisiva Loire7 ha dichiarato: "Abbiamo sicuramente già avuto il coronavirus perché eravamo a Wuhan per i Giochi Militari. Ci siamo ammalati praticamente tutti e io ho avuto problemi mai avuti prima con un'influenza fortissima, quasi terrificante".
Michelangelo Cocco e Gianluca Cordella per “il Messaggero” l'8 maggio 2020. L'epidemia di coronavirus era esplosa a Wuhan due mesi prima che il governo di Pechino e l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) rivelassero al mondo l'esistenza della nuova malattia? È lo scenario che sembra emergere dalle testimonianze di alcuni atleti che dal 18 al 27 di ottobre parteciparono ai Giochi mondiali militari nella metropoli cinese. Lo schermidore Matteo Tagliarol ha raccontato che «moltissimi nella delegazione italiana si sono ammalati di influenza, tanto che c'erano problemi con le scorte di medicine. Quando sono rientrato ho avuto la tosse, la febbre, per tre settimane». «A Wuhan eravamo in sei nello stesso appartamento continua la testimonianza dello spadista azzurro - e ci siamo ammalati tutti». Ma Valerio Aspromonte, il campione di fioretto delle Fiamme Gialle che era nella stessa stanza di Tagliarol, ha ricordi differenti: «Non ho avuto alcun sintomo influenzale: febbre, tosse, niente... E posso dire lo stesso dei miei compagni di stanza. Compreso Matteo che non mi sembra stesse male. Non ho visto atleti moribondi in giro per il villaggio. Che era enorme e pulitissimo, compresi bar e mensa». Sbagliato pensare che il villaggio potesse essere una sorta di isola felice rispetto al resto della città. «In centro si stava bene. Su dieci sere almeno otto le abbiamo passate fuori, compresa l'ultima: siamo andati a cena insieme, tutti noi della scherma, la sera prima di ripartire e poi siamo stati a ballare fino alle 4. Difficile per delle persone che stanno male...». «I controlli erano davvero meticolosi, forse come non mi è capitato mai di vedere in altre competizioni - racconta Kevin Ojiaku, specialista del salto in lungo delle Fiamme Gialle - Per questo le parole di Tagliarol mi hanno sorpreso. Addirittura, a livello ambientale, mi aveva fatto impressione sapere che avevano chiuso le fabbriche tre mesi prima per far abbassare i livelli di smog nell'aria e facilitare le prestazioni sportive. Si vedeva il cielo limpido e mi dicevano che non è usuale da quelle parti». A mettere un tombale sulle parole di Tagliarol è poi arrivata la nota dello Stato Maggiore della Difesa che ha sottolineato come «il personale sanitario militare ha sempre monitorato lo stato di salute della delegazione (...) e non ha riscontrato alcuna criticità sanitaria individuale o collettiva». Eppure secondo uno studio (basato sull'esame di 7.000 sequenze genetiche raccolte in giro per il mondo) che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista scientifica Infection Genetics and Evolution, il virus sarebbe passato dagli animali agli esseri umani proprio tra il 6 ottobre e l'11 dicembre 2019. E, in base a documenti visionati dal quotidiano hongkonghese South China Morning Post, il governo cinese registrò il primo caso del misterioso virus il 17 novembre scorso. Aumenta dunque la pressione internazionale su Pechino per fare chiarezza sull'origine del Covid-19, sulla cui diffusione il presidente cinese, Xi Jinping, e l'Oms lanciarono l'allarme il 30 dicembre. L'Unione Europea ha una posizione diversa dall'Amministrazione statunitense (che continua a insinuare che Pechino avrebbe fabbricato il virus in laboratorio) ma appoggia comunque un'inchiesta internazionale. Pressioni mal sopportate da Pechino, la cui immagine nel mondo hanno rivelato uno studio cinese e uno statunitense è scesa ai minimi dalla repressione di Tiananmen nel 1989. Ieri gli ambasciatori dell'UE si sono visti respingere la pubblicazione di un loro intervento sull'edizione cinese del China Daily, mentre su quella in lingua inglese è stata censurata la frase: «L'esplosione del coronavirus in Cina e la conseguente diffusione nel resto del mondo ci ha costretti a mettere da parte momentaneamente gli incontri programmati». Ieri la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, ha sottolineato che Pechino respinge qualsiasi «presunzione di colpevolezza» ma, nello stesso tempo, ha aperto a un'inchiesta dell'Oms, affermando che la Cina appoggerà un'indagine sulla diffusione del virus «al momento opportuno». Maria Van Kerkhove, epidemiologa dell'Oms, ha confermato che «stiamo discutendo con la controparte cinese su un'ulteriore missione, più accademica rispetto alla precedente, per fare luce su cosa è successo all'inizio». Al contrario «la Cina si oppone alle nazioni, come gli Stati Uniti, che politicizzano la questione dell'origine del virus e fanno pressione per un'inchiesta internazionale con la presunzione di colpevolezza» ha chiarito Hua. È altamente improbabile che la leadership cinese acconsenta a un'inchiesta internazionale indipendente, che potrebbe evidenziare ritardi e mancanze nel contrasto dell'epidemia. Da un paio di mesi Pechino ha infatti mobilitato il suo apparato di propaganda per lanciare il messaggio opposto, e cioè che il successo delle sue misure di contenimento a Wuhan, dimostrerebbe la superiorità rispetto alle democrazie liberali.
Da gazzetta.it il 7 maggio 2020. Valerio Aspromonte risponde a Matteo Tagliariol. Una replica a sorpresa, che smentisce seccamente quanto detto dal compagno azzurro di Nazionale di fioretto ai Mondiali militari di Wuhan di fine ottobre. Tagliariol aveva detto: “Mai stato così male, ho avuto tanta tosse, con me in tanti, compreso il mio compagno di stanza Aspromonte”, ipotizzando un contagio generale al Covid-19. Il fiorettista ha spiegato: “Io ho fatto un viaggio intercontinentale, dopo 16-18 ore sono arrivato al Villaggio di Wuhan, poi ho dormito tanto per la stanchezza e il jet lag ma è normale. Non ho avuto sintomi influenzali, nè febbre, nè tosse particolare. Ero nella stessa camera di Matteo Tagliariol e non capisco perché sia uscito tutto questo a mesi di distanza. Io non ho avuto nulla e la gara si è svolta nel modo più normale possibile”. Aspromonte ha poi continuato: “Siamo stati 11 giorni dentro il Villaggio che era pulito e ordinato, atleti moribondi per il villaggio non ne ho visti, ho sempre mangiato nella mensa del Villaggio, era tutto nella norma. A me dispiace che escano certe cose a distanza di mesi. La mia famiglia e io siamo stati benissimo, nessuno di quelli che è stato intorno a me è stato male, tantomeno io. Poi i tempi di incubazione del coronavirus dicono che sia dai 5 ai 15 giorni, non puoi stare subito male quando arrivi a meno che non lo hai preso prima di partire”, ha proseguito il campione azzurro che si sta allenando ancora a casa. “Non sono mai uscito di casa. Ho fatto una quarantena vera. Ho sempre fatto ginnastica con mio figlio. Ora ho iniziato un po’ di attività all’esterno ma ancora non sono entrato in sala scherma, stiamo aspettando le linee guida della Federazione per iniziare la parte più tecnica. Con le Olimpiadi slittate e le gare che per i prossimi 4-5 mesi non ci saranno, credo sia anche il caso di aspettare, magari una settimana in più, per fare andare tutto per il verso migliore. L’importante è ripartire e fare le cose senza rifermarsi subito”.
Marco Bonarrigo per corriere.it l'8 maggio 2020. Dell’edizione dei Giochi Sportivi Militari 2019, le «olimpiadi» a stellette, si era finora parlato come di una bomba batteriologica fortunatamente disinnescata in tempo utile. Diecimila tra atleti e accompagnatori di 110 nazioni a stretto contatto tra loro (e con la popolazione cinese) dal 18 al 27 ottobre scorso a Wuhan, epicentro mondiale della pandemia. Tutti a casa, sani e salvi, un attimo prima che il contagio iniziasse e senza portare il virus nei 110 paesi di provenienza. Ma ora, in parallelo alla retrodatazione dei primi casi da parte degli scienziati, si moltiplicano le testimonianze di chi, al ritorno dalle gare (tra il 29 ottobre e il 3 novembre), avrebbe manifestato seri problemi di salute che, in almeno un caso, sarebbero stati coperti dalle autorità militari. Ieri la vicenda è esplosa anche in Italia ma le prime testimonianze sono state raccolte a metà aprile dal Norrländska Socialdemokraten (Ns), antico quotidiano del nord della Svezia. L’infettivologo del servizio sanitario regionale Anders Nystedt e alcune infermiere hanno riferito che almeno 12 militari, dai 20 ai 45 anni, presenti alla spedizione (gli svedesi erano 118) hanno manifestato gravi problemi respiratori. Nystedt inviò alla responsabile medica del corpo, Helena Stjärnholm, campioni di sangue dei malati per test sierologici di cui non ha mai avuto i risultati. I reduci di Wuhan sono poi stati confinati nella base militare di Boden e obbligati a non parlare con nessuno del caso. Alcuni si sarebbero ristabiliti completamente solo a febbraio, tre mesi dopo i fatti. Dalla Svezia alla Francia, dove le testimonianze — raccolte dall’Équipe — di due stelle del pentathlon moderno, Elodie Clouvel (argento olimpico) e Valentin Belaud, 5 volte campione del mondo, rivelano problemi respiratori che un medico militare avrebbe diagnosticato come «evidenti sintomi di coronavirus, simili a quelli mostrati da altri partecipanti». La Difesa francese ha affermato di non conoscere i fatti e di «non aver effettuato test», imponendo il silenzio alla coppia. Il fronte italiano si è aperto ieri con Matteo Tagliariol, (aviere, oro olimpico individuale e bronzo a squadre nella spada a Pechino 2008) con un’intervista alla Gazzetta dello Sport e un video su Instagram. Tagliariol ha descritto un forte stato influenzale e seri problemi respiratori sia in Cina che al ritorno in Italia, estendendoli a un’altra stella della scherma, Valerio Aspromonte, finanziere, oro a Londra 2012. Aspromonte però ha negato: «La mia salute era ottimale. A letto ho passato solo poche ore dopo l’arrivo in Cina per recuperare il fuso orario. Mai avuto febbre». I gruppi sportivi militari (200 gli azzurri presenti a Wuhan, tra atleti e accompagnatori) hanno imposto diffuso un comunicato in serata: «Non è stata riscontrata alcuna criticità individuale o collettiva collegabile al contagio da coronavirus». Il generale Vincenzo Parrinello, comandante delle Fiamme Gialle: «Tutti i finanzieri in gara a Wuhan sono sempre stati bene, Aspromonte compreso, e quindi non è stato necessario fare test per il virus». I postumi del mondiale militare hanno avvelenato l’atmosfera negli Usa. Clamoroso il caso di Maatje Benassi, riservista americana di 52 anni, che a Wuhan ha gareggiato nel ciclismo. Da settimane Maatje vive blindata nella sua casa in Virginia, inseguita da minacce di morte. Secondo un gruppo di complottisti deliranti che hanno largo seguito sul web, Maatje sarebbe la «paziente 0» scelta dai cinesi per portare il virus negli Usa, complice l’assenza di controlli del governo statunitense. A sostenere la più realistica voce di positività occultate tra i 280 membri della spedizione americana c’è Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, che chiede al governo americano trasparenza sui positivi per disegnare una geografia corretta del contagio. Il Pentagono? Tace.
· Un Virus Americano.
Coronavirus: il primo focolaio negli Usa? Le Iene News il 23 giugno 2020. Per gli Stati Uniti il Covid-19 nasce in Cina, nei laboratori di Wuhan. Per i cinesi lo hanno portato a Wuhan alcuni militari americani. Le due ipotesi, come vi raccontiamo, potrebbero essere collegate. E se il primo focolaio al mondo di Covid non fosse stato in Cina, a Wuhan, ma negli Stati Uniti d’America? Ce lo chiediamo dopo aver analizzato e messo in fila una serie di strane coincidenze. Ma partiamo dall’inizio. Ufficialmente, almeno fino a oggi, il Covid sarebbe nato dai pipistrelli presenti in gran quantità nelle grotte del sud della Cina. Sempre in Cina, proprio nella metropoli di Wuhan, c’è il laboratorio di ricerca sui virus da cui, secondo il presidente Usa Donald Trump, sarebbe uscito il Sars-CoV-2 all’origine della pandemia. Per il portavoce del ministero degli Esteri cinese invece, la colpa potrebbe essere proprio dell’esercito americano, presente in gran numero a ottobre del 2019 a Wuhan durante le olimpiadi militari. Le due circostanze, il laboratorio di Wuhan e le olimpiadi militari, potrebbero avere una connessione. Vediamo perché. Il laboratorio di Wuhan è classificato dal gennaio 2018 al massimo livello di sicurezza biologica, il livello 4. Abbiamo scoperto che c’è più di una correlazione tra il laboratorio di Wuhan e analoghi laboratori americani. A partire da quello di Fort Detrick nel Maryland che ospita i due più importanti laboratori di biosicurezza di livello 4 al mondo. Il primo è il Niaid, l’agenzia federale per le ricerche sulle malattie infettive diretta da 35 anni da Anthony Fauci, immunologo tra i più influenti al mondo e oggi a capo della task force governativa americana per affrontare l’emergenza Coronavirus. L’altro edificio ospita Usamriid, il principale centro militare americano per la ricerca sulle contromisure da adottare in caso di “guerra biologica”. Ma cosa c’entrano questi due laboratori con quello di Wuhan? Per capirlo facciamo un passo indietro e torniamo in Cina, quando nel febbraio del 2018 la rivista di virologia del laboratorio di Wuhan pubblica uno studio proprio sul coronavirus dei pipistrelli. Parliamo di una ricerca svolta a Wuhan su campioni di virus e sangue umano prelevati nella città di Jinning, a più di mille chilometri di distanza. Gli scienziati cinesi, già 2 anni prima, avrebbero scoperto un nuovo Sars Coronavirus del pipistrello che infetta direttamente l’essere umano senza bisogno di passare attraverso un ospite intermedio. Nello studio cinese ci sono alcune frasi che fanno pensare a una possibile correlazione con il Covid-19 di oggi. Il professor Matteo Bassetti, virologo dell'ospedale San Martino di Genova, spiega: “I ricercatori cinesi sono andati a valutare 220 persone che vivevano nella zona di Jinning e hanno fatto uno studio sierologico. Hanno trovato sei persone che avevano gli anticorpi per il Sars Coronavirus dei pipistrelli”. Gli chiediamo se uno di questi virus scoperti nel 2018 possa essere un progenitore del Sars-Cov-2 e Bassetti risponde: “Non si può escludere che non possa essere un progenitore, d’altronde si è detto da principio che questo virus viene dai pipistrelli, quindi è evidente che potrebbe appartenere agli stessi virus che erano stati isolati precedentemente”. Insomma i virus isolati 2 anni fa a Wuhan potrebbero essere i nonni o i genitori del covid19. Ma la cosa si fa ancora più interessante, come ci spiega Basetti: “Alla fine dello stesso studio cinese sono stati indicati i finanziatori della ricerca. Tra questi c’è proprio il Niaid di Fort Detrick, ovvero l'Istituto nazionale di allergie e malattie infettive degli Stati Uniti, con un finanziamento che ammonta a più di 3 milioni di dollari erogati tra il 2014 e il 2018”. Se poi andiamo a vedere la lista dei membri del comitato scientifico della rivista di Virologia del laboratorio di Wuhan che ha pubblicato questo studio, troviamo niente meno che il Professor Sina Bavari, lo scienziato militare a capo del laboratorio americano di Usamriid. Quindi, a quanto emergerebbe, gli americani sarebbero sia i finanziatori che i valutatori dello studio cinese. E che gli americani siano interessati in prima persona a lavorare su quei virus lo dimostra il fatto che nei laboratori di biosicurezza di Livello 4 di Fort Detrick, che tramite Fauci e Bavari abbiamo visto collegati alle ricerche cinesi, si svolgono particolari ricerche denominate “GOF”. Si tratta di “esperimenti di guadagno di funzione” che coinvolgono la sindrome respiratoria da coronavirus, ricerche sospese da Barack Obama nel 2014 per motivi di sicurezza e riprese solo nel 2017 con Donald Trump. Esperimenti che riguardano “la creazione, il trasferimento o l'uso di agenti patogeni dal potenziale pandemico potenziato”. In parole povere si sviluppa e si fa evolvere la pericolosità del virus a scopi scientifici per poi poterlo combattere con degli antivirali o dei vaccini. Quindi gli americani a Fort Detrick potrebbero aver studiato gli stessi virus che hanno studiato prima di loro i cinesi di Wuhan. Bassetti aggiunge: “Il laboratorio per vedere se un antivirale funziona deve avere il virus o devi avere una coltura del virus e testare i nuovi farmaci. Guardi quello che è successo per esempio con il Redemsivir, che è un farmaco che è stato sviluppato per Ebola. Ha dimostrato di avere attività nei confronti del Sars-CoV-2, perché i ricercatori hanno testato l’attività anche nei confronti di questo virus”. E infatti l’8 Marzo 2019 il Professor Sina Bavari, Direttore scientifico Usamriid pubblica uno studio proprio sul Redemsivir dal titolo: “Scoperta di farmaci antivirali ad ampio spettro coronavirus”. Uno studio nel quale sostiene che “questi coronavirus sono associati a nuove sindromi respiratorie”. Insomma i virus del pipistrello scoperti a Wuhan con il finanziamento di Niaid potrebbero essere stati tra quelli studiati e potenziati a Fort Detrick da Sina Bavari per testare il Redemsevir. Ci chiediamo se un virus di questo genere, liberato in una zona abitata, possa diffondersi tra la popolazione. “Dipende”, aggiunge Bassetti, “ci vuole sempre un ospite che lo possa trasmettere. Non è che basta che io lo spruzzo nell’ambiente e in qualche modo io me lo prendo. Cioè i virus per poter in qualche modo trasmettersi hanno bisogno, come abbiamo detto prima, di un ospite intermedio che può essere anche un essere umano”. Quindi perché si scateni un’epidemia ci deve essere almeno un essere umano infettato per trasmettere il virus. Che è esattamente quello che gli americani sostengono che sia accaduto nel laboratorio di Wuhan. Ma se invece questa trasmissione fosse avvenuta proprio a Fort Detrick? A luglio 2019 con un ordine del Cdc, il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie del governo americano, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid è stato chiuso per un incidente di biocontenimento. La notizia era trapelata solo il 2 agosto, come riportano i media: “Il laboratorio Fort Detrick è stato chiuso a tempo indeterminato”. Ma il New York Times, 3 giorni dopo, aggiunge un dettaglio che dà la misura del problema: nell’ordine di chiusura, il Cdc, l’ha giustificato con "motivi di sicurezza nazionale" che è un modo per mettere il segreto di Stato alla vicenda e così non dare spiegazioni. Secondo un quotidiano locale: “Usamriid ha ricevuto la lettera con l’ordine di cessare di ogni attività dal CDC il 15 luglio dopo un'ispezione di giugno". Ma quattro giorni prima, il telegiornale della rete Abc racconta: “Stasera una malattia mortale in Virginia ha portato due morti e dozzine di residenti infettati di una malattia respiratoria qui nella comunità di pensionamento di Green Spring. Negli ultimi 11 giorni, 54 persone si sono ammalate con sintomi che vanno da una brutta tosse alla polmonite senza indizi chiave su come sia scoppiata la malattia improvvisa”. Passano due giorni e la strana epidemia compare anche in un’altra casa di riposo li vicino. È sempre il tg a raccontarlo: “Un misterioso virus respiratorio ha colpito una seconda casa di riposo nella contea di Fairfax”. L’unica cosa chiara al momento è che, due giorni dopo la seconda epidemia a poche decine di miglia di distanza, con un ordine del Cdc, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid a Fort Detrick nel Maryland, viene chiuso per un incidente di biocontenimento. È sempre il tg a raccontare le paure degli abitanti di quella zona: “Gli abitanti che vivono vicino a Fort Detrick vogliono sapere perché il laboratorio top di Army Germ, uno dei più noti, è stato chiuso così velocemente”. A Fort Detrick infatti gli scienziati Usa gestiscono alcuni degli agenti biologici più sensibili e conducono ricerche mediche all’interno di esso. Ricerche anche su cellule virali molto pericolose, come Ebola e Antrace. Dentro quel laboratorio i militari americani insomma stavano facendo le stesse ricerche sugli stessi virus potenziati di coronavirus trovati nei pipistrelli di Cina. E allora non possiamo che porci una domanda: c’è forse una correlazione tra la fuga di biocontenimento di Fort Detrick e le epidemie anomale dentro le due case di riposo di Green Spring? È sufficiente osservare la mappa per vedere che vicinissima alle due case di riposo, c’è Fort Belvoir, un ospedale per i militari che tra gli altri assiste anche quelli di Fort Detrick. Ma come sarebbe arrivato il contagio da Fort Belvoir alle due case di riposo? Il fatto è che proprio questo ospedale assiste anche i veterani di guerra delle forze armate americane che vivono anche dentro le due case di riposo. Vi mostriamo alcune immagini, nelle quali si vedono i marines festeggiare nella casa di riposo di Burke i numerosi veterani della seconda guerra mondiale per l’anniversario di fondazione del loro corpo. Può dunque esistere un filo che lega l’incidente di biocontenimento di Fort Detrick, l’ospedale militare di Fort Belvoir e le case di riposo in cui si manifesta l’anomala l’epidemia di luglio? È una domanda a cui hanno cercato di dare risposta anche al Congresso degli Stati Uniti. Le autorità cinesi intanto hanno più volte sostenuto che l’epidemia sarebbe arrivata a Wuhan con i militari dell’esercito americano che partecipavano alle gare del “World Military Games 2019”, in programma dal 12 al 28 ottobre. Noi ovviamente non lo sappiamo ma dal periodico delle forze armate americane scopriamo che alcuni militari di Fort Belvoir hanno partecipato a quei Giochi. Tra questi il sergente di prima classe Maatje Benassi e il capitano dell'esercito Justine Stremick, che serve come medico di medicina di emergenza dell'esercito a Fort Belvoir in Virginia. Quindi almeno due atleti dell’ospedale militare situato vicino alle case di riposo dove c’è stata l’epidemia sospetta di luglio sarebbero andati a Wuhan per le olimpiadi di ottobre 2019. Ma se anche dei militari americani, inconsapevolmente, avessero portato un virus potenziato a Wuhan, si sarebbe dovuta registrare una prima diffusione del contagio tra i 10.000 militari presenti al villaggio olimpico. E allora fate attenzione alla testimonianza del militare Matteo Tagliariol, che ha partecipato per i nostri colori nazionali ai giochi di Wuhan nella specialità della scherma. “A fine ottobre siamo stati come delegazione italiana ai giochi mondiali militari a Wuhan. Fatalità dopo pochi giorni, moltissime persone della delegazione italiana, e poi ho scoperto anche di altre delegazioni, si sono ammalate di influenza. Dopo un po’ di giorni avevo molta tosse. Quando sono stato là sono andato dal medico, e il medico mi ha detto che in quei giorni là c’era moltissima gente che aveva questa forma virale influenzale, tant’è che c’erano un pò di problemi con le scorte di medicine perché le avevano richieste tantissimi atleti. Per quello che riguarda il mio appartamento a Wuhan, tutti gli atleti si sono ammalati e tutti quanti con più o meno gli stessi sintomi e quindi, tosse e tutti abbiamo avuto 2 o 3 giorni di febbre molto alta, però dopo è rimasta tra 37 e mezzo e 38 per tantissimo tempo, più di due settimane. Nessuno si è mai più ammalato di coronavirus”. Davvero una strana coincidenza. L’unica cosa che però ci sembra di aver capito in tutta questa storia è che se il Sars-Coronavirus del pipistrello di Jinning presente da sempre in natura, antenato del Covid-19 modificato in laboratorio, fosse rimasto nella sua grotta, nella remota zona rurale distante 1.000 km da Wuhan, forse non avrebbe mai infettato nessuno e magari si sarebbe evoluto in tutt’altra direzione…
· Un Virus Norvegese.
Guido Santevecchi per corriere.it il 19 giugno 2020. Con grande rapidità gli scienziati cinesi hanno decodificato il genoma del Covid-19 che ha scatenato il focolaio di Pechino (messo sotto controllo in una settimana esatta). I dati del genoma sono stati comunicati all’Oms e la stampa cinese sottolinea che provano l’origine europea di questo nuovo scoppio epidemico individuato nel mercato di frutta, verdura, carne e soprattutto pesce di Xinfadi che rifornisce il 90 per cento della capitale. Un altro sviluppo importante: questo “coronavirus di ceppo europeo” sarebbe più vecchio di quello che circola attualmente in Europa, dicono i ricercatori cinesi e quindi sarebbe arrivato e si sarebbe stabilito al mercato di Pechino da diverso tempo, prima di essere scoperto. La narrazione delle autorità tende a dimostrare che l’epidemia è stata messa sotto controllo in Cina è che il coronavirus ormai è solo “importato” (quindi esportato da quell’Occidente che a febbraio accusò i cinesi di averlo diffuso nel mondo, dopo averlo sottovalutato e occultato a Wuhan). Sono passati sei mesi, sono morte più di 400 mila persone nel mondo e invece di costituire una coalizione globale per sconfiggere la pandemia, il virus dominante è diventato il sospetto, la mancanza di chiarezza scientifica, la disinformazione. Nelle ispezioni a tappeto nell’area di Xinfadi (vasta come 160 campi di calcio) sono state rilevate 40 tracce di Covid-19 e altre fuori dal mercato, in un raggio di 2 chilometri. Però, quella più suggestiva e utile alla propaganda, è stata la traccia trovata in un campione isolato nella zona dei salmoni. Questa mattina la stampa di Pechino scrive che è stato fatto il “tampone in gola” anche a un salmone, risultato positivo (Il Global Times che cavalca il neonazionalismo sanitario lo ha twittato con soddisfazione). Nei giorni scorsi i cinesi hanno dato grande risalto a un rilevamento di coronavirus sull’asse usato per sezionare i salmoni di importazione nel mercato. Ne è nata una fobia a Pechino, dove il pesce è stato ritirato dai supermercati. La Norvegia, esportatrice del prodotto ittico, ha protestato; i virologi internazionali hanno detto che il salmone e il cibo in genere non portano il contagio ma che il coronavirus passa da tra umani; alla fine anche gli epidemiologi cinesi hanno ammesso che aver trovato quelle tracce nell’area della lavorazione dei salmoni non provava come ci fossero arrivate. Però, tanto per non sbagliare, il tampone al salmone ora gli esperti del Centro di controllo delle malattie pechinese lo hanno fatto. In questo gioco di indizi e speculazioni, le autorità cinesi si dicono certe dell’origine straniera del coronavirus che da una settimana ha messo Pechino in semi lockdown, ma avvertono che bisogna indagare ancora. Spiega il dottor Liu Jun, del Centro nazionale di prevenzione virale: se la partita di salmone è arrivata sigillata e surgelata dall’Europa, il Covid-19 potrebbe aver viaggiato con quelle casse. Se però a Xinfadi era stato aperto per la lavorazione, può essere stato contaminato da un operatore del mercato, con un semplice colpo di tosse o uno starnuto. Prudentemente, per non smentire la narrazione ufficiale, il ricercatore non dice in quale delle due condizioni si trovasse il salmone sottoposto a tampone: surgelato o a temperatura ambiente? Il dato sicuramente positivo è che anche oggi a Pechino il numero dei contagiati è basso: 25. Il focolaio di Xintadi ha causato 183 casi dall’11 giugno. La Fortezza Pechino ha resistito all’assalto del “nemico invisibile”.
· Un Virus Svedese.
I primi contagi Ue già in autunno: l'ipotesi infezione ai Giochi di Wuhan. Ufficiale in Svezia: "Da noi il virus almeno da novembre". Dopo le olimpiadi militari. Daniel Mosseri, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. Da settimane la Svezia fa notizia per il suo approccio relativamente morbido al coronavirus, con i cittadini responsabilizzati dalle autorità e incaricati di agire con «buon senso» per evitare il contagio. La novità in arrivo da Stoccolma è tuttavia un'altra. Ad annunciarla è stato Anders Tegnell, epidemiologo dell'Agenzia svedese per la salute pubblica (Folkhälsomyndigheten). «Credo che potremmo trovare casi individuali (di coronavirus) fra le persone che hanno viaggiato a Wuhan a novembre e dicembre dell'anno scorso: non mi sembrerebbe per niente strano, anzi del tutto prevedibile». Tegnell ha così commentato con l'agenzia svedese TT la notizia secondo cui il coronavirus era già in Francia lo scorso Natale. Il primo caso di Sars-CoV-2 registrato in Svezia risale ufficialmente a un mese dopo: era il 31 gennaio quando una giovane donna di Jönköping, nello Småland, risultò positiva al tampone per il virus. La ventenne aveva contatto le autorità sanitarie dopo aver sviluppato una brutta tosse al suo ritorno da un suo viaggio in Cina con tappa a Wuhan. La donna non è stata tuttavia l'unica svedese a viaggiare nel capoluogo della provincia di Hubei: dal 18 al 27 ottobre 2019 Wuhan ha ospitato anche la settima edizione dei Giochi militari mondiali una manifestazione sportiva riservata ad atleti militari di tutto il mondo alla quale la Svezia ha partecipato con una delegazione di oltre 100 persone. Al momento non risulta che alcuno degli atleti svedesi presenti in Cina sia stato trovato positivo al coronavirus né Tegnell ritiene necessario fare una ricerca epidemiologica che scavi nel passato. «Al momento non vogliamo caricare ulteriormente il sistema sanitario con questo tipo di indagine che comunque non porterebbe ad alcuna nuova misura», ha affermato dando prova di pragmatismo. Con oltre 23mila casi accertati e 2854 decessi, di cui la metà solo a Stoccolma, i medici e i laboratori del regno scandinavo hanno altro a cui pensare. Secondo l'epidemiologo sarebbe invece interessante scoprire come il virus si è diffuso in Cina, come si è comportato nelle prime fasi della diffusione e, ancora, se si è trattato di una diffusione individuale da un animale a una persona o se si è diffuso a un gruppo di persone per un periodo più lungo. Non è comunque escluso che nella gara a ritroso alla ricerca del paziente zero di tutta Europa la Svezia batta la Francia. È stata un'analisi retrospettiva di campioni prelevati da 14 pazienti in terapia intensiva con sintomi simili all'influenza presso gli ospedali Avicenne e Jean-Verdier nella banlieu parigina a riaprire il dibattito. Il capo della rianimazione nei due ospedali, il dottor Yves Cohen, ha spiegato ai media francesi che dei 14 campioni prelevati da altrettanti malati di polmonite, uno era positivo al Covid-19. Il 42enne all'epoca positivo a sua insaputa oggi sta bene ma ancora non si sa dove abbia preso il virus visto che l'uomo non ha mai viaggiato in Cina. I sospetti sono allora caduti sulla moglie che lavora al banco pesce di un supermercato: la donna, hanno spiegato i medici, potrebbe aver contratto il virus in maniera asintomatica e poi aver infettato il marito, «che il 27 dicembre 2019 aveva il coronavirus», ha chiarito il dottor Cohen. La sue parole retrodatano di un mese l'annuncio del ministro francese della Salute, Agnès Buzyn, che il 24 gennaio aveva confermato tre casi di Covid 19 fra Bordeaux e Parigi. Al momento resta invece fermo al 27 gennaio scorso il primo caso di coronavirus registrato in Germania (il secondo paese dopo la Francia a denunciare la presenza del virus): è quello di un uomo nel distretto di Starnberg, a ovest di Monaco, che avrebbe contratto il virus in azienda (Webasto, un fornitore di componenti per auto) dopo la visita da parte di una collega in arrivo dalla Cina. Quanto ai Giochi militari mondiali di Wuhan, anche l'Italia ha partecipato «con oltre 200 persone fra atleti, staff tecnico e dirigenti accompagnatori», secondo una nota di fine ottobre della Difesa. Nel medagliere italiano si sono contati cinque ori, 13 argenti e dodici bronzi. Ma resta ancora da capire se qualcuno sia tornato a casa con il coronavirus.
· Un Virus Transalpino.
Francia, il primo caso di coronavirus già a dicembre. Anais Ginori per repubblica.it il 4 maggio 2020. A poche ore dal nuovo affondo americano contro la Cina sull'origine del virus, arriva dalla Francia una notizia che potrebbe rafforzare i sospetti. E' stato infatti accertato un caso di Covid 19 già il 27 dicembre, quasi un mese prima del primo contagio ufficiale (24 gennaio) registrato Oltralpe. L'ha scoperto l'ospedale Jean-Verdier di Bondy, nella banlieue di Parigi, dove sono stati riesaminati i tamponi di pazienti ricoverati con polmonite a dicembre. Andando a cercare negli archivi dei test fatti all'epoca per cercare altri virus, sono state trovate a sorpresa tracce del Covid 19. "Abbiamo verificato a posteriori 24 pazienti affetti da polmonite ed è stato trovato un positivo" ha raccontato Yves Cohen, responsabile del reparto di terapia intensiva dell'ospedale della regione parigina e autore della ricerca che sarà pubblicata su una rivista scientifica. Si tratta di un francese di cinquant'anni che non aveva mai viaggiato in Cina. Nel frattempo l'uomo è guarito e sta bene. "Ha contagiato i suoi due figli ma anche loro stanno bene" ha detto Cohen. La moglie non è stata malata, i medici ipotizzano che sia stata portatrice sana del virus. La donna lavora infatti in un supermercato accanto a un reparto sushi in cui sono presenti anche dipendenti cinesi. E' da riscrivere dunque la cronologia dell'epidemia in Francia, primo Paese europeo a dichiarare il 24 gennaio il ricovero di pazienti Covid 19. All'epoca si trattava di cittadini cinesi: una coppia di turisti e un imprenditore curati tra Parigi e Bordeaux. Per molto tempo le ricerche del paziente zero si erano concentrate nell'Oise, a nord di Parigi, dove c'è stato uno dei primi focolai: l'inchiesta epidemiologica era risalita a casi fino a metà gennaio. Già l'Institut Pasteur aveva concluso da studi sulle caratteristiche genetiche del virus che la circolazione "silenziosa" era cominciata a gennaio. Ora la catena di trasmissione risale addirittura al mese di dicembre. Sarebbe la conferma che il virus aveva cominciato a diffondersi in Europa ben prima dell'allerta di Pechino all'Oms.
· Un Virus Teutonico.
Silvia Turin per corriere.it il 20 luglio 2020. Nuova relazione da parte di un’equipe dell’Università Statale di Milano con lo studio di 59 nuovi genomi virali ottenuti da pazienti italiani dai primi giorni della manifestazione dell’epidemia fino alla seconda metà di aprile, quando la curva epidemica ha iniziato a declinare. L’esame dei nuovi genomi virali, che vengono messi a disposizione della comunità scientifica nelle banche dati pubbliche, incrementa significativamente il numero delle sequenze ottenute in Italia da infezioni autoctone disponibili ad oggi e confermano i dati di un precedente studio dello stesso team per cui il ceppo «italiano» del virus proveniva dalla Germania (il famoso «paziente 1» tedesco che aveva avuto contatti con una persona proveniente da Shangai).
Paziente zero europeo in Germania. Dall’indagine emerge infatti la netta prevalenza in Italia di un singolo lignaggio virale (e di suoi lignaggi discendenti), ascrivibile, secondo uno dei sistemi di classificazione più largamente impiegati, al lignaggio B1 e correlabile al primo cluster Europeo, che ha avuto luogo in Germania attorno al 20 gennaio ed è stato causato dalla documentata importazione di un ceppo circolante a Shanghai. La nuova ricerca è frutto della collaborazione tra il Laboratorio di Malattie Infettive dell’Università Statale di Milano e più di 10 tra Centri Clinici e Università del Centro e Nord Italia (tra cui Bergamo, Brescia, Cremona, Milano, Padova, Ancona, Siena) e definisce, con un numero maggiore di sequenze, su un’area geografica non limitata alla Lombardia e una temporizzazione più ampia, la dinamica evolutiva e le caratteristiche epidemiologico molecolari del virus SARS-CoV-2 in Italia.
Da noi la variante più contagiosa. Un po’ misteriosamente, un solo lignaggio isolato, ottenuto da un paziente italiano residente in Veneto che non ha riferito viaggi o contatti con persone provenienti dalla Cina, si è rivelato appartenere invece al lignaggio ancestrale B, simile quindi a quello isolato in Italia alla fine di gennaio per diretta importazione dalla città di Wuhan con i due turisti cinesi poi assistiti allo Spallanzani. La divergenza tra gli isolati B1 è risultata relativamente modesta. Tutti i genomi «italiani» mostrano la mutazione 614G nella proteina Spike, che caratterizza ormai la gran parte dei genomi virali isolati in Europa e al mondo, non solo quelli del ceppo B1 ma anche l’unico appartenente al ceppo B, e che sarebbe responsabile della maggior contagiosità dell’agente patogeno. I ricercatori da più parti hanno osservato che questa mutazione ha avuto l’effetto di aumentare notevolmente il numero di picchi (spike) “funzionali” (che possono penetrare nelle cellule) sulla superficie del virus, con l’effetto che ogni particella virale con questa mutazione ha una maggiore capacità di infettare le cellule bersaglio. Una ricerca ha anche scoperto che la mutazione è quasi 10 volte più infettiva in un ambiente di laboratorio rispetto ad altri ceppi. Le analisi genomiche, disponibili grazie alla volontà dei ricercatori di tutto il mondo di caricare i propri dati in un database comune, mostrano che questa varietà è diventata quella dominante dopo l’avvio in Cina dell’epidemia e potrebbe spiegare perché il coronavirus si è diffuso così ampiamente in Europa, Stati Uniti e America Latina.
Altre conclusioni da un altro studio lombardo. Le conclusioni dello studio sono in parte in contraddizione con quanto trovato da un’altra ricerca simile, anticipata qualche giorno fa per il Corriere da Milena Gabanelli e Simona Ravizza: due équipe, del Niguarda di Milano guidata da Carlo Federico Perno, e del San Matteo di Pavia con Fausto Baldanti, hanno esaminato le sequenze di genoma di 350 pazienti. Il confronto del profilo genetico riconosce una provenienza dalla Germania ma poi evidenzia una «figliazione» europea con ben 4 ceppi arrivati in Italia con caratteristiche proprie. In Lombardia sono arrivati il ceppo A e il ceppo B, che a sua volta ne ha generati altri due. Il ceppo A, era più «incendiario» degli altri. Secondo la ricostruzione il ceppo B ha travolto il lodigiano e quello A la bergamasca. I dati spiegherebbero la differenza fra le due zone.
Il vuoto tedesco. LA VERSIONE SUL VIRUS NON REGGE. Inchiesta di: Alessandra Benignetti, Andrea Indini il 26 giugno 2020 su Inside Over. Il Covid-19 può annidarsi ovunque. Persino in una saliera. Così anche il gesto più semplice, come quello di passare il sale ad un collega a mensa può diventare un pericoloso veicolo di contagio. È in questo modo che il paziente 5 e il paziente 4 del cluster della Webasto si sono infettati il 22 gennaio nella sede dell’azienda che produce componenti di ricambio per auto a Stockford, una zona residenziale di 4mila anime ad ovest di Monaco, in Baviera. Forse non si sono neppure guardati. Si davano la schiena, seduti a due tavoli diversi. Eppure due giorni dopo il paziente 5 già mostrava i primi sintomi: febbre, nausea, vomito, tosse, dolori al petto, stanchezza e perdita di appetito. Le vie del Covid sono infinite, e per quanto accurato possa essere il “contact tracing”, resta sempre una percentuale di incertezza. “Uno dei limiti del nostro studio è che naturalmente non tutti gli incontri degli infetti possono essere ricostruiti”, scrivevano in un articolo pubblicato lo scorso 15 maggio sulla rivista scientifica The Lancet, gli specialisti dell’Autorità bavarese per la Salute e la Sicurezza Alimentare, dell’Istituto Robert Koch, dell’ospedale universitario della Charité di Berlino e di altre istituzioni sanitarie tedesche. Gli stessi che hanno seguito gli sviluppi del cluster in Baviera. Finora, il primo esempio di trasmissione da uomo a uomo in Europa. Durante il “periodo di esposizione”, quello seguito all’arrivo da Shangai a Stockdorf il 19 gennaio, per una serie di riunioni, di una dipendente della filiale cinese della società, che già presentava i primi sintomi del Sars-Cov-2, “l’azienda ha tenuto riunioni ed eventi estesi”. “È possibile – continuano gli infettivologi su Lancet – che un caso infetto abbia incontrato un caso successivo talmente velocemente che nessuno dei due si ricordi dell’incontro”. Per questo chi come Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, crede che il virus sia arrivato in Lombardia a fine gennaio passando proprio dal cluster di Stockdorf, preferisce affidarsi alla “pista genetica” più che a quella del tracciamento. Stando alle conclusioni dei colleghi tedeschi il focolaio sarebbe stato isolato nel giro di qualche settimana con un totale di 16 infettati, tra cui 10 dipendenti dell’azienda. Secondo l’infettivologo del Sacco, invece, il virus potrebbe essere andato oltre, viaggiando fino al Lodigiano, una delle prime zone rosse d’Italia. “I dati evidenziano che il Sars-Cov-2 che ha infettato i pazienti italiani coinvolti nella prima epidemia nel Nord Italia e quello isolato negli altri pazienti europei e latino americani che hanno riferito di contatti con l’Italia, è strettamente collegato alla specie del virus isolato in uno dei primi cluster europei osservati in Baviera alla fine di gennaio 2020”, si legge in uno studio intitolato Genomic characterization and phylogenetic analysis of SARS‐COV‐2 in Italy, pubblicato da Galli sul Journal of Medical Virology il 24 marzo scorso. Dalla Webasto però contestano la versione di Galli, assicurando che “nessuno dei dipendenti contagiati” abbia viaggiato in Italia “nei mesi di gennaio e febbraio”. In una nota diffusa il 10 marzo l’azienda, in realtà, chiarisce come “nessuno dei colleghi infettati, né i loro contatti diretti, sia stato in Italia dal 27 gennaio 2020”. Non è chiaro se qualcuno lo abbia fatto prima di quella data. Abbiamo provato a capirne di più interpellando direttamente la società bavarese. Ma alla nostra precisa domanda sulla possibilità di escludere qualsiasi viaggio di lavoro o svago in Italia antecedente alla data del 27 gennaio, giorno in cui la dipendente di Shanghai risulta positiva al test per il coronavirus, la risposta è stata quantomai vaga. “Sappiamo che ci sono delle pubblicazioni in Italia sulla teoria che il virus sia arrivato in Italia dalla Webasto, ci sono altre tesi mediche, ad esempio della Charité di Berlino, che dicono che quella parte del virus è troppo diversa per avere la stessa origine”. Anche i numeri forniti dall’azienda sui contagi non tornano. In una nota dell’11 febbraio si parla di otto casi ospedalizzati: ma il 4 febbraio, secondo i dati forniti dal report pubblicato su Lancet i pazienti contagiati erano già 16, di cui 10 dipendenti della società di Stockdorf. E poi c’è un altro particolare che attira la nostra attenzione. In una serie di interviste agli impiegati contagiati raccolte dall’azienda e forniteci dalla stessa Webasto, uno dei dipendenti descrive le emozioni provate dopo aver scoperto di essere risultato positivo al tampone. “Non ero troppo preoccupato per me – racconta – ma per i miei contatti, compresa la mia nipotina, mia moglie, mia figlia, e gli amici con cui ho ero stato in vacanza sulla neve“. Abbiamo chiesto alla società se sapesse di preciso dove l’impiegato fosse andato a sciare, ma al momento non abbiamo ricevuto chiarimenti in merito. Certo è che se tra le mete sciistiche low cost amate dai tedeschi c’è la Repubblica Ceca e, se la Svizzera non è alla portata di tutti i portafogli, l’Austria e l’Italia restano le destinazioni più gettonate per chi vive in Baviera. Che il virus si sia potuto propagare sulle piste da sci resta una supposizione grossolana, ma rimane il fatto che a preoccuparsene è proprio uno dei dipendenti infettati. Insomma, come il Covid sia arrivato a Codogno, ad oggi, resta un mistero. La versione tedesca, però, che rigetta a priori l’ipotesi che il virus sia approdato nel Lodigiano proprio dalla Baviera, presenta ancora parecchi punti da chiarire. Come è ancora da chiarire cosa sia stato fatto in sede europea per avvertire gli Stati membri del pericolo che stavano per correre. Inchiesta di: Alessandra Benignetti, Andrea Indini.
Covid-19, ecco come e perché la Lombardia è stata travolta. Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 6 luglio 2020 su Corriere della Sera. Uno studio scientifico di Niguarda e San Matteo individua l’ingresso di 4 ceppi differenti a metà gennaio, il più cattivo a Bergamo. L’ipotesi di arrivo dalla Germania su gomma.
Comporre la foto prima dell’incidente. Questo è l’obiettivo ambizioso delle équipe del Niguarda di Milano guidata da Carlo Federico Perno e del San Matteo di Pavia con Fausto Baldanti. alle ore 20, quando all’ospedale di Codogno viene diagnosticato il primo caso di Covid-19. All’improvviso siamo messi davanti allo scenario peggiore: epidemia senza un’origine facilmente identificabile. A oggi manca il «Paziente Zero». Calmate un po’ le acque, i due ospedali pubblici hanno lavorato a un corposo studio scientifico che tenta di mettere qualche punto fermo. Il primo: stabilire quando il virus è entrato in Lombardia. Il secondo: perché si è accanito su questa regione, e ancor di più sulle valli bergamasche. Terzo: è arrivato direttamente dalla Cina o è passato da altre rotte? E quali? Non sono curiosità da virologi. È utile a comprendere meglio cosa è successo e come sorvegliare in futuro.
L’ingresso del virus in Lombardia. Mettiamo da parte le date ufficiali perché ormai abbiamo capito che c’è un’evidente responsabilità della Cina nel rilascio tardivo e parziale delle informazioni epidemiologiche (il primo ricovero all’ospedale di Wuhan di un malato di Covid-19 è dell’8 dicembre 2019, probabilmente anche prima, ma i funzionari cinesi riferiscono dell’esistenza di casi atipici di polmonite il 31 dicembre agli uffici Oms di Pechino che a sua volta prende tempo). Un ritardo di un mese che si è abbattuto come un flagello sul mondo intero. Ma quando è entrato il Covid-19 in Lombardia? Per stabilirlo Niguarda e San Matteo hanno analizzato le sacche di sangue dei donatori Avis di Lodi a partire da gennaio. Nel periodo 12-17 febbraio sono trovati i primi cinque soggetti con gli anticorpi neutralizzanti, cioè quella risposta che si sviluppa in chi è entrato in contatto con il Coronavirus mediamente 3-4 settimane dopo il contagio. Questo dato permette di stimare la presenza del Covid-19 nella Bassa lodigiana a partire almeno dalla seconda metà di gennaio.
La tappa in Europa. Da dove è arrivato il virus in Lombardia? Lo studio (finanziato dalla Fondazione Cariplo che lo presenterà a giorni) ha esaminato le sequenze di genoma di 350 pazienti. Il confronto del profilo genetico permette di individuare i ceppi virali e ricostruire la loro relazione: se sono correlati, se derivano da un unico progenitore, quali rapporti hanno con i ceppi degli altri Paesi. Un modo per tracciare le differenze è misurare la cosiddetta «distanza genetica», cioè com’è cambiato il virus rispetto a quello originario. Più generazioni sono passate, maggiore è il numero di variazioni, un po’ come quando si ricostruisce un albero genealogico. Ebbene, mediante l’analisi comparativa si evidenzia che le sequenze genomiche del virus lombardo sono parenti del progenitore cinese, ma c’è una «distanza genetica», intermediata da altri Paesi europei. Presumibilmente dalla Germania, primo grande scalo europeo dei voli in arrivo dalla Cina. Il New Journal of England Medicine riporta che a metà gennaio una manager proveniente da Shanghai ha avuto due meeting con 4 persone; tutte risultate positive a fine gennaio, inclusa la manager, che si era curata la febbre con antipiretici. Secondo la ricostruzione delle due équipe lombarde, la tappa europea ha «figliato» e i ceppi arrivati in Italia con caratteristiche proprie sono più d’uno.
A Bergamo il ceppo più veloce. In Lombardia sono arrivati il ceppo A e il ceppo B, che a sua volta ne ha generati altri due. In altre parole: al 20 febbraio non c’era un incendio appiccato da un singolo piromane, ma i piromani erano ben quattro, e al lavoro già da un mese. Uno di loro, il ceppo A, era più incendiario degli altri. Questa è la prova che in Lombardia ci sono stati due focolai di matrice diversa (A e B). Ma il punto più delicato dello studio è quello di «misurare» la differenza fra questi ceppi, ed è possibile solo fermando il tempo a ridosso dell’intervento umano, arrivato con la chiusura. Il primo focolaio è quello dei 10 Comuni intorno a Codogno, Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda, con 59 casi il 25 febbraio (pari allo 0,15% della popolazione). Il secondo è quello della Val Seriana, che alla stessa data conta 137 casi. Da lì in poi i numeri cambiano perché il Lodigiano diventa «Zona rossa», mentre la Valle Seriana chiuderà insieme alla Lombardia solo l’8 marzo. Ricostruendo il numero di persone che avevano manifestato sintomi compatibili con il Covid-19 a partire dal 31 gennaio, sembra chiaro che il ceppo che poi ha travolto la Bergamasca (quello A) sia più veloce nella diffusione. I risultati sono ancora in fase di validazione, ma i primi riscontri fanno pensare che nella provincia di Bergamo un contagiato ne infettava 3,5. Mentre il ceppo di Lodi (con i suoi due figli) è un po’ più lento: 1 ne infettava 2. I dati spiegano la differenza fra le due zone, aggravata dall’irresponsabile decisione di escludere dalla «Zona rossa» la Val Seriana, con le conseguenze devastanti che ne sono seguite.
Il virus ha viaggiato su gomma. L’ultimo quesito riguarda il perché i virus si sono concentrati proprio in quelle aree della Lombardia. Qui la scienza non ha risposte, ma fa solo ipotesi, sulla base di caratteristiche comuni che portano verso la logistica e i trasporti. Sono 463 le imprese lodigiane che si occupano di trasporto e logistica e con i loro oltre tremila lavoratori rappresentano la concentrazione percentuale più alta della Lombardia (7%). La loro attività si concentra a Lodi (69 imprese, di cui 17 nel magazzinaggio) e Casalpusterlengo (34). Seguono Sant’Angelo Lodigiano e Codogno rispettivamente con 29 e 23 imprese. Accanto a Piacenza (la città di confine dove si è diffuso lo stesso focolaio di Codogno) ci sono i più grandi magazzini del Nord con la loro logistica: Ikea con circa 1.000 addetti (fra cui 900 di cooperative esterne), e Amazon con 1.600 addetti. A Bergamo le aziende di trasporto e logistica sono oltre duemila, di queste 348 si occupano di attività di magazzinaggio. A Nembro ce ne sono 23, ad Alzano lombardo 20. Vanno presi anche in considerazione i rapporti di import-export con Cina e Germania. A Lodi (seconda solo a Milano) è concentrato il 16% dell’import con la Cina, mentre quello con la Germania è al 5%. Nella provincia bergamasca ci sono 66 grandi aziende manifatturiere legate a Cina e Germania. Per quel che riguarda l’import con la Cina, Bergamo è invece all’11% (terza), e al 10% di quello con la Germania (seconda solo a Milano). Ovviamente in numeri assoluti svetta la città Milano, ma la concentrazione di imprese che potenzialmente possono avere importato il virus è senza dubbio significativa sia a Bergamo che nella Bassa lodigiana. Insomma, mentre a fine gennaio eravamo concentrati a chiudere i voli con la Cina, il virus era già arrivato in Lombardia, pronto a sparare da due fronti, mentre la Regione era senza elmetti. Il resto è la cronaca che conosciamo.
Come Covid-19 è arrivato in Italia. Francesco Boezi il 19 giugno 2020 su Inside Over. Da dove è arrivato il Sars-Cov2? Davvero è partito tutto per via dei contatti tra la Cina e l’Italia? Le sequenze genetiche studiate dal professor Massimo Ciccozzi sembrerebbero raccontare una storia diversa. Ciccozzi è un epidemiologo molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Con il professore abbiamo voluto indagare alcuni aspetti della pandemia lasciati in sospeso, con uno sguardo specifico su quello che sta accadendo a Pechino, dove il contagio sta di nuovo facendo parlare di sé.
Il Sud Italia è stato coinvolto o no nella pandemia? E se sì, in che misura? Medesima domanda per il Centro…
«Anche il Centro-Sud è stato interessato. Abbiamo avuto dei casi, dunque il virus è circolato, ma è circolato di meno. E i motivi sono differenti. La Lombardia ha subito uno tsunami eccezionale, un evento non calcolabile. Noi potremmo essere stati aiutati, per così dire, dal ricovero della coppia cinese presso lo Spallanzani. Sembra un film di Alberto Sordi: “C’erano due cinesi a Roma”. Ma quel ricovero ha comportato il suono di un campanello d’allarme. Questo è avvenuto attorno alla fine di gennaio. A tre settimane circa dal primo caso di Codogno. Le persone potrebbero aver percepito un pericolo, dando vita a quarantene volontarie. Un episodio – quello dei cinesi – che potrebbe essere stato importante. Però il virus nel Centro-Sud è arrivato, come testimoniato anche dagli ultimi focolai del Lazio. Quelli con cui ci siamo confrontati in questi giorni. Il virus ha girato. Il problema più preoccupante deriva dagli asintomatici che non vediamo. Non sappiamo quanti ce ne siano e quanti ce ne siano stati nel Centro-Sud. Ma non c’è una maggiore o una minore suscettibilità. O almeno non possiamo parlarne finché non abbiamo il quadro degli asintomatici».
Lei conferma il fatto che il Sars-Cov2 sia entrato in Italia attraverso due porte differenti?
«Sì. Noi, mesi fa, abbiamo fatto una prima analisi filogenetica, basandoci sul genoma del virus isolato dai pazienti e, tramite questi genomi, abbiamo visto che l’Italia era stata interessata da due differenti ingressi epidemici: uno derivante dalla Germania e uno più europeo in senso lato. Qualcosa che interessava l’Inghilterra ed il Nord Europa e che, in qualche modo, aveva fatto la sua comparsa nel Belpaese. Due fenomeni che, con ogni probabilità, sono avvenuti in due momenti temporali differenti».
Scusi se la interrompo, ma ora sorge spontanea una domanda: quale di questi due eventi è avvenuto prima?
«Credo quello dall’Europa e subito dopo qualche giorno dalla Germania. Ma ora diviene più interessante la nuova analisi filogenetica. Prima avevamo solo tre sequenze del virus italiano. Ora ne esistono molte di più, e quindi abbiamo una possibilità maggiore di dare informazioni precise. Abbiamo individuato almeno cinque cluster epidemici. Non più due quindi, ma cinque. Li stiamo analizzando. Vediamo se sono cluster importanti mediante analisi approfondite. Restiamo per ora sicuri del fatto che gli ingressi epidemici fossero almeno due. Questa e una sorta di rivincita su chi affermava che noi eravamo gli untori d’Europa: noi siamo stati in realtà quelli che hanno subito un flusso virale proveniente dall’Europa».
Attraverso le sequenze filogenetiche possiamo affermare con certezza che il contagio europeo non è derivato dall’Italia. Giusto?
«Assolutamente. L’analisi filogenetica è chiara. Torno a ripetere: una volta terminato questo nuovo lavoro, saremo in grado di dirvi molto di più. Intanto siamo arroccati sul lavoro precedente, che non è poca cosa».
Scusi se la interrompo, ma ora sorge spontanea una domanda: il Sars-Cov2 ci è piovuto addosso dalla Germania?
«Il virus tedesco sembra sia quello che ha infettato la Lombardia. L’altro forse ha interessato il Centro-Sud, o forse sempre la Lombardia. Di sicuro c’è che il virus tedesco ha determinato l’epidemia in Lombardia. La cosa interessante è questa: il Sars-Cov2 è arrivato in Italia attraverso l’Europa. Non siamo stati noi a “regalare” il virus all’Europa. Semmai è il contrario».
Oggi il virus sta cambiando? Cosa raccontano le sequenze?
«Il virus subisce mutazioni. Noi ne abbiamo osservate alcune tra quelle importanti. Esistono mutazioni rilevanti e mutazioni meno rilevanti. Quelle che al virus servono per sopravvivere vengono mantenute e difficilmente perdute. Poi ci sono quelle provvisorie, perché non danno nessun vantaggio al virus, che le perde. Tre mutazioni sono state molto importanti. Una che interessava l’autofagia cellulare (che riguardava la proteina non strutturale Np6), mentre un’altra ha riguardato la polimerasi: questa seconda mutazione ha fatto in modo di poter distinguere almeno tre lineaggi differenti del virus. Parlo di un lavoro che abbiamo fatto con il professor Robert Gallo. La frequenza del numero di mutazioni su questo enzima è nulla nel ceppo asiatico, alta nel ceppo europeo e mitigata nel Nord America. Si trattava di una mutazione che distingueva tre ceppi virali in modo inderogabili. L’ultima mutazione – quella che abbiamo affrontato con il professor Antonio Cassone e il professor Cauda denominata D614G – ci ha fatto comprendere come il virus sia divenuto molto contagioso. La malattia ora è diversa da quella di febbraio e di marzo, ma la contagiosità è rimasta. Nel momento in cui noi abbassiamo la guarda, ecco che arriva il focolaio. Basta una stupidaggine fatta in maniera inavvertita. Questo dipende dalla natura contagiosa del virus. Una natura acquisita mediante questa mutazione che il Sars-Cov2 non ha smarrito per strada. La mutazione che sembra abbia determinato questa contagiosità può essere anche rintracciabile nei pazienti asintomatici e paucisintomatici. Ma la contagiosità è un concetto che prescinde dalla gravità della malattia. Il virus, dopo lo Spillover, ha operato come una falciatrice, togliendo purtroppo di mezzo i soggetti più deboli: coloro che sono deceduti. Una volta finita questa prima fase, il virus ha cercato di adattarsi a noi, convivendo con noi, mentre noi con il lockdown e le mascherine abbiamo favorito la sua recessione. Lo scopo del virus, a livello evolutivo, non è quello di ucciderci, altrimenti morirebbe con noi che siamo il suo nuovo ospite. Per cui lui adesso sta cercando di adattarsi».
La preoccupa la situazione di Pechino?
«Sì, sono preoccupato. Mi preoccupa perché il focolaio è in Cina, da cui e iniziato tutto. E non capisco come sia potuto succedere, considerando che la Cina è un Paese molto attento a questo tipo di eventi. La situazione sarà sicuramente sotto controllo, ma non ho idea del perché stia capitando a Pechino. Spero che sia lo stesso ceppo di Wuhan e non un ceppo mutato. Perché nel caso non fosse lo stesso ceppo, mi preoccuperebbe molto di più. Lo trovo strano: i cinesi sono molto ferrei. Abbiamo avuto modo di conoscere le loro capacità di chiudere tutto in due secondi. Bisognerà aspettare almeno due settimane per indagare la natura di questo focolaio. Onestamente non me lo aspettavo».
Epidemiologicamente parlando, se la sente di dire che Codogno non è stato il primo cluster del virus in Italia? Da dove dovrebbe/potrebbe essere arrivato?
«Codogno ha subito, come ha subito la Lombardia e come ha subito tutta l’Italia. Poi potremmo dire che in Lombardia non se ne sono accorti subito. Così come potremmo dire che in Lombardia hanno avuto magari una epidemiologia di territorio non pronta. O magari hanno aspettato troppo per intervenire. Ma su Codogno non scherziamo: è una vittima dei flussi virali provenienti dall’Europa».
Il caldo è o non è un fattore che influisce sul comportamento del Sars-Cov2?
«Ne discutevo ieri sera col professor Davide Zella. Abbiamo notato che il caldo diminuisce la mortalità. Noi potevamo ragionare sulla mortalità, perché non abbiamo dati certi sulla letalità. Difettiamo del numero di asintomatici, per cui non possiamo ragionare con un denominatore certo. Quello che è certo, purtroppo, sono i morti. E questo abbiamo già potuto verificarlo. Quello che non riusciamo a spiegarci è questo: perché nei Paesi del Centro America, che comunque presentano una temperatura abbastanza alta, il Sars-Cov2 si sta diffondendo? Bisogna vedere qual è la capacità di diffusione. Probabilmente è diversa dalla nostra. Probabilmente loro sono all’inizio della pandemia. Si presuppone che loro siano almeno un mese indietro rispetto a noi e che ora si siano infettati e stiano soccombendo i soggetti più deboli. Il Brasile poi non ha predisposto contromisure come le nostre. E guardi che il lockdown e le mascherine sono state salvifiche per noi. Noi siamo stati bravi. Non so gli altri. La pericolosità del virus, almeno nelle fasi iniziali, dipende molto dal mancato rispetto dalle norme di distanziamento sociale».
Quali altre mutazioni potrebbero avvenire nel futuro prossimo?
«Bella domanda. Dal punto di vista epidemiologico direi che potremmo aspettarci qualunque cosa. Questo virus lo conosciamo solo in parte. Guardi: questo è come un grande puzzle, ogni tanto inseriamo un pezzetto. Possiamo aspettarci un pezzetto che non si incastra. Ma evolutivamente il virus deve adattarsi sempre di più a noi. La storia di questo virus è questa. Ricordiamoci della scomparsa della Sars. Semmai il problema di questo virus potrebbe dipendere dalla sua contagiosità. Più che sparire come la Sars, quindi, penso che, per via della contagiosità, il Sars-Cov2 ci accompagnerà come compagno di viaggio. Ecco perché il vaccino è decisivo».
Laura Cuppini per corriere.it il 5 maggio 2020. Come scrive lo pneumologo Sergio Harari oggi sul Corriere, «Sars-CoV-2 è un grande sconosciuto, una immensa incognita che pesa sul nostro futuro e di cui sappiamo poco, molto poco. Ad oggi sono, infatti, più i punti interrogativi che le risposte certe che la scienza è in grado di dare su questo nuovo virus». Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, ha provato a mettere dei punti fermi durante un’audizione alla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Secondo Ciccozzi, «il virus sta perdendo potenza e sta continuando a mutare. Ma sta facendo mutazioni che a lui non sono più utili». Dunque evolve, ma perde «contagiosità e, probabilmente, letalità». Un dato che secondo l’epidemiologo trova riscontro nel «minor numero di decessi (dovuti alle infezioni pregresse) e nel minor numero di persone in terapia intensiva», risultati possibili grazie alle terapie ma anche alla perdita di potenza del virus. «È un virus nuovo — ha aggiunto l’esperto —, lo stiamo studiando. Non sappiamo, per esempio, quanto dura l’immunità. Anche se sappiamo che c’è».
Nel Nord uno tsunami imprevisto. Nella sua ricostruzione, Ciccozzi ha affermato che «già intorno a dicembre questo virus avrebbe potuto circolare nelle persone». «Il Nord ha avuto uno tsunami assurdo, imprevisto e imprevedibile — ha detto —. In Italia abbiamo avuto due ingressi epidemici diversi, a due settimane di distanza, come abbiamo visto in un nostro lavoro: uno, con ceppi virali dalla Cina, attraverso l’Europa è andato al centro Italia. Successivamente un ceppo tedesco è andato a infettare la Lombardia e il Nord del Paese. Probabilmente si andavano a cercare i cinesi — ha aggiunto l’esperto — e non facevamo caso ad altre parti dell’Europa. E questo è stato uno degli elementi che non ha frenato l’epidemia». Ciccozzi ha poi ipotizzato che il centro-sud Italia si sia salvato da un’epidemia più intensa anche per il caso della coppia cinese ricoverata allo Spallanzani, primo impatto del nostro Paese con la malattia, che ha indotto a comportamenti di autotutela. «La coppia — ha ricordato — è arrivata il 31 gennaio, mentre il primo caso a Codogno è avvenuto il 21 febbraio. Questo ha fatto sì che le persone fossero più preparate: vedendo il caso dei due cittadini cinesi hanno cominciato da sé a distanziarsi, ad avere le mascherine. Hanno cominciato in qualche modo ad elaborare quello che poi è stato fatto durante il lockdown».
I rischi di un secondo lockdown. Sui possibili rischi della fase 2 fa il punto Paolo Bonanni, epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. «Sars-CoV-2 potrebbe mutare il proprio assetto, ma al momento non ha dato prova di grandi cambiamenti — spiega Bonanni —. In questa fase di semi-libertà servono attenzione e cautela. Certamente le fonti di contagio sono ridotte nel nostro Paese, perché il numero di persone infette è calato, ma se i comportamenti individuali non saranno responsabili i contagi torneranno a crescere in maniera esponenziale. Il problema è che questo succederà tra 2-3 settimane o anche un mese: a quel punto un secondo lockdown sarebbe davvero doloroso. Di questo virus sappiamo con certezza due cose: la prima è che gli asintomatici sono molto numerosi e la seconda è che l’incubazione può durare molti giorni». Cosa si può fare per scongiurare il rischio di un secondo lockdown? «Il primo punto è essere responsabili a livello individuale, evitando per esempio gli assembramenti. In secondo luogo credo sia necessario creare una task force per il tracciamento dei contatti dei contagiati — afferma Bonanni —, non possiamo fidarci solo delle app. Nel caso si sviluppino piccoli focolai, saranno utili chiusure mirate».
Raffaello Binelli per il Giornale il 6 marzo 2020. Dopo aver scoperto che il primo contagio del coronavirus in Europa sarebbe avvenuto in Germania tra il 20 e il 21 gennaio (il paziente 1 potrebbe essere un uomo d'affari di Monaco venuto in contatto con una collega tornata dalla Cina), i tedeschi continuano a puntare il dito contro l'Italia. Il ministero degli Esteri tedesco sconsiglia tutti i viaggi non essenziali in Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna e a Vo', in Veneto. Oltre alle zone a rischio già note c'è anche l'Alto Adige. Perché? L’Istituto epidemiologico "Robert Koch" di Berlino afferma che "un terzo dei casi portati in Germania dall’Italia proviene dall’Alto Adige con 36 casi". Non si è fatta attendere la replica della Provincia Autonoma di Bolzano, che definisce questa affermazione "incomprensibile". Ma per quale motivo l’istituto della capitale tedesca ha inserito l’Alto Adige nella lista delle zone a rischio contagio coronavirus, insieme alle già note Lombardia e Veneto? Secondo il presidente della RKI, Lothar Wieler, alla base di questa decisione vi sarebbero tre criteri: il numero delle infezioni, la dinamica dei casi (numeri crescenti) e il numero di infezioni portate dall’area di rischio ad altri Paesi. La tesi lanciata da Berlino potrebbe avere pesantissime ripercussioni sul turismo, già colpito dagli effetti del virus. L’assessore provinciale altoatesino all’Economia, Philipp Achammer, osserva che una "decisione affrettata è incomprensibile e che non ci sono prove che questi vacanzieri siano stati davvero infettati qui". I media tedeschi giorni fa avevano parlato di cinque persone rientrate dall’Alto Adige risultate positive al test del Covid-19, dopo aver soggiornato nelle località sciistiche di Obereggen e Selva Val Gardena. Le montagne altoatesine sono meta di vacanze per la popolazione tedesca, sia d'inverno che d'estate. Lo stesso presidente federale della Germania, Frank-Walter Steinmeier, trascorre diversi periodi di vacanza sull’altopiano del Renon.
Tutta la verità sui contagi: "Il virus? Così l'Italia è stata colpita alle spalle". Il professor Galli punta il dito contro il paziente 1 della Germania: "Tutta l'epidemia iniziale nella zona rossa viene da quel contatto lì". Luca Sablone, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. La situazione Coronavirus in Italia continua a essere delicata: l'ultimo bollettino diramato dal capo del Dipartimento della protezione Civile, Angelo Borrelli, parla di 2.470 nuovi positivi (23.073 totali) e di 349 nuovi decessi (2.158 in totale). Il nostro Paese è ancora martoriato dal Covid-19. Ma da dove è partito tutto questo? L'ultima forte accusa è rivolta a un "altro Paese europeo" che ci avrebbe "presi alle spalle dopo aver chiuso gli accessi dalla Cina". Uno scenario descritto senza mezzi termini dal professore Massimo Galli, che incentra la sua tesi sul paziente 1 tedesco: "Una persona infettatasi malauguratamente, e del tutto casualmente, nel contesto di un episodio epidemico avvenuto nei giorni tra il 20 e il 24 gennaio a Monaco di Baviera, dopo il contatto avvenuto con una signora cinese venuta a fare delle riunioni di lavoro da Shangai, ha portato l'infezione in Italia nella cosiddetta zona rossa". Intervenuto nel corso della trasmissione Centocittà su Radio 1, il responsabile del reparto di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano ha spiegato come la diffusione del contagio in tutto il Nord Italia potrebbe essere attribuita proprio a quel singolo caso: "Tutta l'epidemia iniziale nella zona rossa viene da quel contatto lì, che ha potuto consentire al virus di aggirarsi di nascosto e sottotraccia per quasi 4 settimane prima che si scoprisse l'esistenza del problema in quell'area geografica e anche oltre".
Quel paziente 1 della Germania. Come riportato dall'edizione odierna de La Verità, l'agente patogeno si sarebbe diffuso a macchia d'olio in Veneto, in Piemonte, in Liguria, in Emilia-Romagna e forse anche nelle Marche. Perciò il docente all'Università Statale del capoluogo lombardo ha lanciato un avvertimento agli altri Paesi, dopo che l'Italia è stata descritta come focolaio a livello globale: "Quell'agghiacciante situazione che ha creato tutti questi lutti e tutti questi problemi è un monito anche per le altre nazioni, che cerchino di capire come può funzionare". Galli già diversi giorni fa aveva spiegato che "le nostre evidenze molecolari sull'analisi del virus dicono che quello circolato nella famigerata zona rossa è un virus strettamente imparentato con uno isolato a Monaco di Baviera". Proprio qui qualcuno "se l'è beccato" per poi "tornare a vivere e a lavorare nelle zone intorno a Codogno, o in qualsiasi altra maniera del tutto non percepita". Pure gli esiti delle ricerche del dottor Trevis Bedford, ricercatore al centro Fred Hutch di Seattle, parlavano del virus sequenziato in Germania come il "diretto progenitore degli altri virus comparsi successivamente, e che risultano collegati a una certa frazione dell'epidemia che circola in Europa oggi". Il giovane manager dell'azienda di componentistica per auto Webasto avrebbe contratto il Coroanvirus dopo essere stato a contatto con una collega proveniente dalla Cina, che in seguito al suo rientro in patria avrebbe mostrato i primi sintomi risultando infine positiva al test. L'uomo il 27 gennaio è stato dichiarato contagiato.
E se fosse la Germania la culla del coronavirus in Europa? Paolo Mauri su Inside Over il 5 marzo 2020. Per i media stranieri non c’è ombra di dubbio: l’Italia è la responsabile principale dell’epidemia del nuovo coronavirus Covid-19 in mezzo mondo, proprio a cominciare dall’Europa. I casi riscontrati in Austria, Croazia, Grecia, Svizzera e poi ancora in Danimarca, Estonia, Lituania, Paesi Bassi sino ad arrivare a quelli in Nigeria, India e Messico, sarebbero tutti legati in qualche modo al nostro Paese, o per colpa di turisti italiani o per stranieri che hanno soggiornato per qualche tempo da noi. Il “Bel Paese” sarebbe quindi una sorta di fucina di untori per l’intero globo, almeno secondo una certa stampa estera e anche per qualche avventato – e forse ideologizzato – intellettuale o giornalista di casa nostra, che spesso e volentieri sembra dimenticare l’origine cinese di questa infezione così come ci si dimentica dell’atteggiamento minimizzante e oltremodo rassicurante del governo all’esplodere dell’epidemia in Cina, quando venivano bloccati i voli diretti ma non quelli facenti scalo, mentre altrove, come ad esempio negli Stati Uniti, si imponeva immediatamente la quarantena per chiunque arrivasse da quel Paese . Ma è davvero così? Siamo davvero noi italiani i primi ad aver diffuso il virus in Europa e poi in buona parte del mondo? Ancora prima che ci si affannasse nella ricerca del famoso “paziente 0”, ovvero il primo contagiato sul territorio nazionale, poco meno di dieci giorni fa, c’era però chi stava studiando l’arrivo e la diffusione di Covid-19 grazie alla mappatura del suo genoma, e i risultati sono a dir poco sorprendenti. Cominciamo quindi la nostra disamina da un articolo apparso sul New England Journal of Medicine il 30 gennaio scorso. Nella ricerca scientifica viene descritto quanto capitato in Germania, a Monaco di Baviera, pochi giorni prima, intorno al 24 gennaio, quando un uomo d’affari di 33 anni ha cominciato ad accusare malori, tosse e febbre alta, ma poi si è quasi subito sentito meglio tornando così a lavoro il giorno 27. L’articolo scientifico prosegue notando che il primo caso tedesco, prima dell’insorgere dei sintomi, ha partecipato a diverse riunioni con una partner cinese della sua compagnia vicino a Monaco il 20 e 21 gennaio. La donna, originaria di Shangai, ha visitato la Germania tra il 19 ed il 22 senza aver alcun tipo di sintomo, palesatosi solamente una volta ritornata in Cina, dove è stata trovata positiva al test per il Covid-19 il giorno 26. Il 28 gennaio altri tre impiegati della ditta tedesca sono risultati positivi per il virus e di questi uno ha avuto contatto diretto con il “paziente 2”, il manager tedesco, gli altri due con il “paziente 1”, la donna cinese. Lo studio scientifico, oltre a certificare come la malattia sia sbarcata in Europa passando dalla Germania, che insieme alla Francia ha visto i primissimi casi di Covid-19 certificati, illustra anche un altro fattore molto importante per la nostra narrazione, ovvero la possibilità di contagio da parte di soggetti asintomatici. Basta questo per dire che sia stata la Germania a essere il focolaio principale per l’epidemia? No, ma in questo caso ci viene in soccorso proprio la scienza. L’averne mappato la sequenza genetica, infatti, ci ha permesso di ricostruire “l’albero genealogico” del virus e di individuare quindi i ceppi originari da cui si sono separati i ceppi locali, e nel grafico c’è una sorpresa: il virus italiano, indicato come CDG1/2020, sembra discendere, così come altri ceppi tra cui quello svizzero, finlandese, scozzese, brasiliano e messicano, proprio da quello tedesco originatosi nella Baviera, indicato come BavPat1/2020, o comunque avere un “parente comune”, ragionevolmente derivante dalla cinese sbarcata a Monaco. Possiamo quindi ipotizzare, con una notevole probabilità di certezza, che l’infezione che sta costringendo migliaia di persone in casa e che ha costretto alla chiusura delle scuole – proprio oggi prolungata almeno sino al 15 marzo – si sia diffusa proprio dalla Germania e da quel contatto con la manager cinese. Le tempistiche del resto parlano chiaro e sollevano più di un sospetto anche perché, come la stessa televisione di Stato tedesca Deutsche Welle ha riportato il 20 febbraio scorso, i casi di “influenza” in Germania sono raddoppiati, passando dai 40mila di inizio stagione a 80mila, in appena due settimane. Facendo un po’ di conti, e coi tempi di incubazione di Covid-19 alla mano (dati per 14 giorni), risaliamo circa all’inizio di febbraio, ovvero in un periodo stranamente concomitante col primo caso tedesco accertato e oggetto di studio da parte dei ricercatori.
Coronavirus, in Germania a gennaio il primo contagiato europeo: "Da lui l'infezione fino in Italia". Lo dice una lettera dei medici tedeschi pubblicata dal New England Journal of Medicine. Il contagio sarebbe avvenuto durante il periodo di incubazione. "Virus trasmissibile anche dopo il termine dei sintomi". La Repubblica il 05 marzo 2020. Un uomo di 33 anni di Monaco, in Germania, potrebbe essere il primo europeo ad aver contratto l'infezione del nuovo coronavirus e ad averla trasmessa. Lo comunica una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine del 5 marzo. L'uomo ha manifestato sintomi respiratori e febbre alta il 24 gennaio. I sintomi sono migliorati e il 27 gennaio è tornato al lavoro. Il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting in cui era presente una collega di Shanghai, che è rimasta in Germania dal 19 al 22 gennaio senza accusare alcun disturbo. Secondo una mappa genetica pubblicata sul sito Netxstrain, che ricostruisce una sorta di albero genealogico del virus, il focolaio tedesco potrebbe avere alimentato silenziosamente la catena di contagi al punto da essere collegato a molti casi in Europa e in Italia. Analizzando il percorso e le mutazioni genetiche del coronavirus, gli studiosi hanno rilevato che è entrato in Europa più volte. "Dal primo febbraio circa un quarto delle nuove infezioni in Messico, Finlandia, Scozia e Italia, come i primi casi in Brasile, appaiono geneticamente simili al focolaio di Monaco", rileva Bedford. Il paziente 1 di Monaco aveva mostrato i primi sintomi il 24 gennaio, dopo aver incontrato una collega proveniente da Shangai, poi risultata positiva. Nei quattro giorni seguenti sono risultati positivi anche molti dipendenti della stessa azienda tedesca. Il caso era diventato celebre a fine gennaio come esempio della capacità del coronavirus di trasmettersi anche in assenza di sintomi. Sebbene la sede dell'azienda fosse stata chiusa dopo la comparsa dei primi casi, i ricercatori ritengono che il focolaio di Monaco possa essere collegato a una buona parte dell'epidemia in Europa, compresa l'Italia. "Il messaggio importante - rileva Bedford - è che il fatto che un focolaio sia stati identificato e contenuto non significa che questo caso non abbia continuato ad alimentare una catena di trasmissione che non è stata rilevata finché non è cresciuta al punto da avere dimensioni consistenti". La donna ha però cominciato a stare male durante il volo di ritorno in Cina, dove è stata trovata positiva al virus 2019-nCov il 26 gennaio. Il 27 ha informato i partner tedeschi delle propria positività e in Germania sono iniziati i test sui colleghi che l'avevano incontrata, fra cui l'uomo di 33 anni, che è stato trovato positivo al virus sebbene ormai asintomatico. Il 28 gennaio sono stati trovati positivi altri tre impiegati della stessa compagnia, che avevano avuto contatti con l'uomo quando era asintomatico. "È da notare - scrivono gli autori della comunicazione - che l'infezione sembra essere stata trasmessa durante il periodo di incubazione, quando i sintomi erano lievi e non specifici" e aggiungono: "In questo contesto il fatto che il virus sia stato trovato in quantità rilevanti nell'espettorato dell'uomo anche nel suo periodo di convalescenza pone il problema della trasmissibilità del virus anche dopo il termine dei sintomi, sebbene tale carica virale rilevata con il test sia ancora da confermare attraverso una coltura del virus". "Il fatto che la viremia possa essere presente anche dopo la scomparsa dei sintomi era già noto" conferma Walter Ricciardi, rappresentante del Comitato esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e consigliere del ministro Speranza. "e ci deve indurre alla sorveglianza dei pazienti dimessi dopo ospedalizzazione, ai quali è consigliabile fare un tampone anche dopo le dimissioni".
"Dalla Cina l'epidemia ha seguito tre vie". "Va sfatato il mito che l'Italia abbia diffuso il virus", ha detto Ilaria Capua, direttrice del centro 'One Health' dell'università della Florida. A partire dall'epicentro dell'epidemia, in Cina, - sostiene la virologa sulla base delle oltre 150 sequenze genetiche dei coronavirus finora pubblicate - il coronavirus ha seguito tra vie per diffondersi nel resto del mondo: una diretta in Europa, una verso gli Stati Uniti e la terza verso Sud, verso Corea e Australia. "Il dato evidente - ha proseguito Capua - è che la dinamica dell'infezione in Europa è diversa da quella raccontata finora". Le sequenze genetiche del coronavirus ottenute in Italia sono ancora poche, ma sufficienti per capire che "non sono stati gli italiani a diffondere l'infezione". E' comunque inutile cercare ancora di rintracciare il paziente zero: potrebbe essere uno, ma potrebbero essere centinaia. Quello che sappiamo - ha proseguito la virologa - è che il nuovo coronavirus è arrivato in Europa dalla Cina probabilmente in gennaio, portato da centinaia di persone. Adesso stiamo cercando di ricostruire gli ingressi multipli in Europa grazie alle sequenze genetiche". Queste ultime sono depositate nelle due grandi banche dati chiamate Gisaid e GeneBank, a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo per essere analizzate. Somiglianze e differenze che emergono dal confronto delle mappe genetiche indicano che "l'Europa si comporta come un'area unica", ha osservato. E' probabile che "una massa critica di persone con il virus arrivata in Europa abbia contribuito a diffonderlo. Non è stata soltanto l'Italia - ha concluso - a fare da cassa di amplificazione".
Il primo caso di Covid-19 in Europa descritto in Germania il 24 gennaio. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Un uomo di 33 anni, tedesco, potrebbe essere il primo europeo ad aver contratto l’infezione del nuovo coronavirus e ad averla trasmessa . Lo comunica una lettera di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine del 5 marzo. L’uomo ha manifestato sintomi respiratori e febbre alta il 24 gennaio. I sintomi sono migliorati e il 27 gennaio è tornato al lavoro. Il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato a un meeting in cui era presente una collega di Shanghai, che è rimasta in Germania dal 19 al 22 gennaio senza accusare alcun disturbo. La donna ha però cominciato a stare male durante il volo di ritorno in Cina, dove è stata trovata positiva al virus 2019-nCov il 26 gennaio. Il 27 ha informato i partner tedeschi delle propria positività e in Germania sono iniziati i test sui colleghi che l’avevano incontrata, fra cui l’uomo di 33 anni, che è stato trovato positivo al virus sebbene ormai asintomatico. Il 28 gennaio sono stati trovati positivi altri tre impiegati della stessa compagnia, che avevano avuto contatti con l’uomo quando era asintomatico. «È da notare—scrivono gli autori della comunicazione— che l’infezione sembra essere stata trasmessa durante il periodo di incubazione, quando i sintomi erano lievi e non specifici» e aggiungono: «In questo contesto il fatto che il virus sia stato trovato in quantità rilevanti nell’espettorato dell’uomo anche nel suo periodo di convalescenza pone il problema della trasmissibilità del virus anche dopo il termine dei sintomi, sebbene tale carica virale rilevata con il test sia ancora da confermare attraverso una cultura del virus».
Coronavirus in Germania, qui il primo focolaio europeo: ma perché così pochi casi? Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. E’ salito a 318 alle 17 di oggi e tende a crescere, il numero delle persone infettate dal Coronavirus in Germania. Il ministro della Sanità, Jens Spahn, è intervenuto al Bundestag, parlando dell’inizio di un’epidemia e ammettendo che la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi giorni: «Il picco non è stato ancora raggiunto». Spahn non ha escluso che si possa passare a un 2secondio livello” nella lotta al contagio: in quel caso anche le operazioni di routine negli ospedali verrebbero rinviate per concentrarsi sul Sars-CoV-2. Tutti i Land federali, tranne la Sassonia-Anhalt, registrano casi di infezione. Il numero maggiore di contagiati si registra nel Nord Reno-Vestfalia, che è anche quello più popoloso, con 172 casi. Il Robert Koch Institut, responsabile del monitoraggio e della valutazione dell’emergenza Coronavirus in Germania, valuta il pericolo per la popolazione ancora come «misurato», poiché la maggior parte dei casi conosciuti o sono collegati al passaggio in una delle aree di rischio o sono concentrati in zone circoscritte. Per questo la strategia rimane ancora quella del contenimento. Il ministero della Salute ha imposto come misura precauzionale il divieto di esportazione di mascherine, maschere per respirare e altri strumenti di protezione, come guanti sterili e tute protettive. «Tutti i mezzi di difesa devono essere messi a disposizione del nostro sistema sanitario nazionale», è stata la motivazione del governo. Eccezioni saranno previste solo nel caso di azioni di aiuto internazionale. In tutto il Paese sono stati cancellati importanti eventi economici e culturali: non si terranno l’ITB, la Borsa Internazionale del Turismo di Berlino; la Book Messe, la fiera del libro di Lipsia e la Hannover Messe, la più importante fiera industriale del mondo. Rischia di essere un danno economico forte per il sistema Germania e il ministro dell’Economia, Olaf Scholz, si è detto pronto, nel caso di una crisi congiunturale, a mobilitare miliardi di euro per contrastarla. La compagnia di bandiera Lufthansa ha sospeso i voli su altre tratte, dopo quelle dall’Asia: in tutto sono 150 su 770 gli aerei del vettore tedesco che in questo momento non volano. Per i passeggeri che vengono dalle zone a rischio (Cina, Iran, Italia, Giappone, Corea del Sud) alle compagnie aeree, navali, ferroviarie e al personale di aeroporti, stazioni viene richiesto di osservare i passeggeri per notare eventuali sintomi di malattia e riportarli. Chiunque arrivi in Germania in treno, aereo o nave dalle zone a rischio (è successo anche a chi scrive questa mattina) deve compilare un formulario, fornendo recapiti e numeri di telefono, per assicurare la reperibilità in qualsiasi momento. I dati verranno custoditi per trenta giorni. Gli ospedali si stanno attrezzando per intensificare il numero dei test ed eventualmente far fronte a una ondata improvvisa di richieste. A Berlino, dove finora si registrano 8 casi di Coronavirus, la Charité, il più grande policlinico d’Europa, ha attrezzato una tenda per i test in un prato interno, in modo da separare gli eventuali infettati da altri pazienti. L’esempio viene seguito in altri ospedali in tutto il Paese.
Coronavirus, l'azienda tedesca del focolaio 1 ha due sedi in Italia. Webasto ha una sede a Torino e una Bologna. Il primo focolaio di coronavirus in Europa si sarebbe registrato nella casa madre a Stockdof. In Italia assicurano: nessun caso e zero contatti con la divisione tedesca colpita. Federico Giuliani, Venerdì 06/03/2020 su Il Giornale. Si chiama Webasto, è un colosso tedesco che possiede oltre 50 sedi in tutto il mondo e più di 30 stabilimenti produttivi. La casa madre ha il suo quartier generale a Stockdof, a due passi da Monaco di Baviera. Qui, lo scorso 28 gennaio, l'azienda ha comunicato prima tramite una mail interna poi sul sito web che un manager era risultato positivo al coronavirus. Ebbene, settimane dopo il primo caso, sono emersi particolari interessanti per capire meglio la storia della diffusione del virus in Europa. Innanzitutto il focolaio 1, cioè l'area in cui si è manifestato per la prima volta il Covid-19 in territorio europeo, sembrerebbe proprio essere la sede Webasto in Germania. Inoltre il paziente 0, come ha sottolineato il quotidiano La Verità, sarebbe una dipendente cinese che aveva raggiunto Stockdof da Wuhan per una riunione tra il 20 e il 21 gennaio scorso. Secondo la ricostruzione dei fatti la signora, in quel momento asintomatica, ha incontrato il manager tedesco per poi ripartire, pochi giorni dopo, in direzione Wuhan, dove tra l'altro l'azienda ha pure una sede produttiva. Non solo: Webasto ha 12 stabilimenti in Cina e 1,2 miliardi dei 3,5 miliardi complessivi di fatturato derivano dal business cinese. In ogni caso, una volta arrivata all'aeroporto, la dipendente scopre di avere il coronavirus. Webasto, dopo 10 giorni dalla visita della signora, decide di isolare 14 giorni l'intero quartiere generale per evitare la diffusione della malattia tra gli altri addetti e predispone test a tappeto per tutti. Tornando al manager, l'uomo infetta tutta la sua famiglia. In breve tempo e nonostante le misure di sicurezza prese, il coronavirus riesce comunque a diffondersi nell'azienda colpendo altre 14 persone. Adesso stanno tutti bene ma il vaso di Pandora, in quei giorni convulsi, era già stato scoperchiato.
Due sedi in Italia ma nessun caso. In Italia la Webasto ha due sedi, una a Torino e una a Bologna, e può contare su 541 dipendenti. Secondo quanto riferito dall'ufficio stampa, tutti stanno bene e "non sono stati segnalati casi di contagio" anche se “non risulta che siano stati fatti i tamponi”. È stato poi spiegato che le sedi italiane “non hanno avuto relazioni con la divisione colpita in Germania da coronavirus”. Da quanto emerge l'azienda “è stata da subito molto trasparente”; i dipendenti sono stati informati con un sistema di comunicazione interno mentre gli aggiornamenti sui contagi apparivano sul sito aziendale. Gli stabilimenti italiani hanno adottato tutte le precauzioni disposte da Stockdof: niente viaggi né trasferte e nessun contatto con i contagiati. È per questo motivo che sarebbe stata presa la scelta di non effettuare test su tutto il personale.
· Un Virus Serbo.
In Veneto isolato ceppo serbo. Zaia: "È una mutazione più aggressiva''. Zaia ha fatto sequenziare il virus serbo trovato sull'imprenditore vicentino rientrato in Veneto dai Balcani: "Ceppo diverso e più aggressivo rispetto a quello italiano''. Federico Giuliani, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. Un nuovo ceppo di coronavirus, mutato e più aggressivo rispetto a quello rintracciato in Italia, potrebbe essere alla base del focolaio di Covid esploso in Veneto e collegato all'imprenditore vicentino rientrato dalla Serbia. Il governatore veneto, Luca Zaia, ha spiegato nel corso di un punto stampa straordinario presso la sede della Protezione civile di Marghera, a Venezia, che sono state riscontrate sostanziali differenze tra il virus ''importato'' dai balcani e quello circolante in Italia.
Il ceppo serbo. Scendendo nel dettaglio, Zaia ha dichiarato di aver fatto sequenziare il virus serbo trovato sui soggetti entrati in contatto con il dirigente di una storica acciaieria con sede a Pojana Maggiore, partito alla volta della Serbia lo scorso 18 giugno e rientrato in Italia il 25 con quattro operai. "Io, senza dire niente a nessuno, ho fatto sequenziare il virus serbo trovato sull'imprenditore vicentino che ha portato qui il virus dopo il viaggio di lavoro, sui suoi colleghi e sulla donna cinese di Padova'', ha riferito il governatore del Veneto. Il risultato dell'indagine è che ''nei quattro tamponi la carica virale era molto elevata''. Ciò significa, ha ribadito Zaia, che il virus è appartenente al cluster serbo ed è ''ben diverso da quello isolato in Veneto e in Italia''. In altre parole, ''si tratta di una mutazione", visto che ''il virus non autoctono è diverso, ha la sua storia ed è più aggressivo" ha concluso il governatore. Dal momento che il ceppo serbo sembrerebbe essere molto più contagioso del virus circolante in Italia, la situazione veneta deve essere monitorata con la massima attenzione. Anche perché l'imprenditore dal quale si è originato il focolaio, prima di essere ricoverato, ha agito con molta sufficienza.
Una vicenda assurda. Riavvolgiamo brevemente il nastro. L'uomo, non appena sono state riaperte le frontiere, è partito alla volta della Serbia per effettuare un viaggio di lavoro. Nei Balcani l'imprenditore sarebbe entrato in contatto con un 70enne del posto, positivo e, secondo quanto riferito dallo stesso Zaia, deceduto nei giorni scorsi. Una volta terminata la sua missione, l'italiano sarebbe rientrato in Italia, dove avrebbe iniziato ad accusare i primi sintomi, tra cui febbre alta e malessere generale. L'uomo non si sarebbe fermato né avrebbe pensato di mettersi in isolamento.
Il viaggio nei Balcani e il no al ricovero: così è nato il focolaio a Vicenza. Dalle prime ricostruzioni è emerso che avrebbe continuato a lavorare come se niente fosse, effettuato vari spostamenti, incontrato una massaggiatrice, partecipato a un funerale e preso parte perfino a una festa di compleanno. Adesso l'imprenditore, che aveva rifiutato l'isolamento, è ricoverato nel reparto di terapia intensiva.
La situazione in Veneto. Tornando al virus, Zaia ha comunque precisato che in Veneto la situazione è sotto controllo. "Siamo in una fase di stabilità – ha sottolineato ancora il governatore - Abbiamo dei focolai domestici che non ci preoccupano, ci preoccupano un pò di più ceppi di virus portati da fuori per i quali abbiamo intensificato i controlli. È un pò la storia da inizio luglio ad oggi, la storia delle badanti moldave, dei parenti dall'Australia, dei cittadini di Congo, Bangladesh...". "In questo contesto - ha concluso - noi abbiamo ormai la certezza che il nostro ceppo di virus è meno virulento e c'è un nuovo fenomeno che magari qualcuno non aveva ben compreso e pensava che fosse solo un discorso da leghisti".
· Un Virus Spagnolo.
Dalla rassegna stampa di ''Epr Comunicazione'' il 29 ottobre 2020. Una variante del coronavirus che ha avuto origine dai lavoratori agricoli spagnoli si è diffusa rapidamente in gran parte dell'Europa a partire dall'estate, e ora rappresenta la maggior parte dei nuovi casi di Covid-19 in diversi paesi - e più dell'80% nel Regno Unito. Un team internazionale di scienziati che ha seguito il virus attraverso le sue mutazioni genetiche ha descritto la straordinaria diffusione della variante, chiamata 20A.EU1, in un documento di ricerca che sarà pubblicato oggi – riporta il FT. Il loro lavoro suggerisce che le persone di ritorno dalle vacanze in Spagna hanno giocato un ruolo chiave nella trasmissione del virus in tutta Europa, sollevando la questione se la seconda ondata che sta spazzando il continente avrebbe potuto essere ridotta migliorando i controlli negli aeroporti e in altri hub di trasporto. Poiché ogni variante ha una propria firma genetica, è possibile risalire al luogo di origine. "Dalla diffusione di 20A.EU1, sembra chiaro che le misure di prevenzione del virus in atto spesso non sono state sufficienti a fermare la trasmissione delle varianti introdotte quest'estate", ha detto Emma Hodcroft, una genetista evoluzionista dell'Università di Basilea e autrice principale dello studio che deve ancora essere pubblicato su una rivista peer-reviewed. I team scientifici in Svizzera e Spagna si stanno affrettando ad esaminare il comportamento della variante per stabilire se può essere più letale o più contagiosa di altri ceppi. Il dottor Hodcroft ha sottolineato che "non vi sono prove che la diffusione [rapida] della variante sia dovuta a una mutazione che aumenta la trasmissione o influisce sul risultato clinico". Ma ha sottolineato che 20A.EU1 è diverso da qualsiasi versione di virus Covid-19 che aveva incontrato in precedenza. "Non ho visto alcuna variante con questo tipo di dinamica per tutto il tempo che ho osservato le sequenze genomiche del coronavirus in Europa", ha detto. In particolare, i team stanno lavorando con i laboratori di virologia per stabilire se 20A.EU1 porta una particolare mutazione, nella "proteina spike" che il virus usa per entrare nelle cellule umane, che potrebbe alterarne il comportamento. Tutti i virus sviluppano mutazioni - cambiamenti nelle singole lettere del loro codice genetico - che possono raggrupparsi in nuove varianti e ceppi. Un'altra mutazione in Sars-Cov-2, chiamata D614G, è stata identificata che si ritiene renda il virus più contagioso. Joseph Fauver, un epidemiologo genetico dell'Università di Yale che non è stato coinvolto nella ricerca , ha detto: "Abbiamo bisogno di più studi come questo per trovare mutazioni che sono aumentate ad alta frequenza nella popolazione, e poi vedere se rendono il virus più trasmissibile". La nuova variante, che ha sei mutazioni genetiche distintive, è emersa tra i lavoratori agricoli del nord-est della Spagna a giugno e si è spostata rapidamente nella popolazione locale, secondo lo studio. Tanja Stadler, docente di evoluzione computazionale al Politecnico di Zurigo che fa parte del progetto, ha affermato che l'analisi di campioni di virus prelevati in tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato che derivano da questa stessa variante. "Possiamo vedere che il virus è stato introdotto più volte in diversi paesi e che molte di queste introduzioni sono andate a diffondersi tra la popolazione", ha detto il Prof. Stadler. Iñaki Comas, capo del consorzio SeqCovid-Spagna che sta studiando il virus e co-autore dello studio, ha aggiunto: "Una variante, aiutata da un evento iniziale di superdiffusione, può diventare rapidamente prevalente". I ricercatori hanno concluso che il "comportamento a rischio" dei vacanzieri in Spagna - come l'ignorare le linee guida per l'allontanamento sociale - che "continuano ad impegnarsi in tale comportamento a casa" ha aiutato la diffusione della nuova variante. La ricerca ha dimostrato che la nuova variante rappresenta più di otto casi su dieci nel Regno Unito, l'80% dei casi in Spagna, il 60% in Irlanda e fino al 40% in Svizzera e Francia. Le severe misure di blocco all'inizio dell'anno hanno contribuito a tenere sotto controllo l'ondata iniziale di Covid-19, con una sostanziale riduzione dei nuovi casi nel corso dell'estate. Ma il virus si è diffuso rapidamente in Europa nelle ultime settimane in una rinascita che ha costretto i leader nazionali a introdurre nuove e dolorose restrizioni alle attività social.
Lo studio shock sul coronavirus: "Era in Europa da marzo 2019". Secondo l'università di Barcellona, il coronavirus è stato rintracciato nelle acque reflue nel marzo dello scorso anno. I ricercatori italiani invitano alla prudenza. Valentina Dardari, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Una ricerca dell’Università di Barcellona smonterebbe la tesi di Wuhan affermando che il coronavirus già circolava in Europa a marzo del 2019.
Coronavirus in Europa il 12 marzo 2019. Analizzando le acque reflue della città spagnola, la data esatta della sua comparsa sarebbe il 12 marzo dello scorso anno. Se questo fosse vero, la tesi di Wuhan sarebbe nulla. Gli studiosi italiani hanno però invitato alla prudenza. Mancano ancora diverse conferme che attestino i risultati degli scienziati catalani. C’è comunque da sottolineare che l’Iss aveva rivelato, sempre attraverso lo stesso sistema, che in Lombardia il Covid-19 era già presente a dicembre. Ulteriori esami, questa volta analizzando il sangue di alcuni pazienti, concentravano la comparsa del coronavirus in Liguria sempre nel mese di dicembre. L’ultimo studio effettuato dall’ateneo catalano porterebbe a rivedere tutta la cronologia del virus, la cui comparsa a Wuhan,fino a questo momento, è datata dicembre 2019. A gennaio sarebbe poi giunto in Europa e a febbraio il primo caso in Italia registrato a Codogno.
Lo studio catalano. Lo studio di Barcellona collocherebbe la sua presenza in Europa addirittura un anno prima rispetto a quanto affermato dalla Cina. “Il lavoro, a cui hanno preso parte ricercatori del gruppo di virus enterico UB Gemma Chavarria-Miró, Eduard Anfruns-Estrada e Susana Guix, guidati da Rosa Maria Pintó e Albert Bosch, fa parte del progetto di sorveglianza sentinella SARS -CoV-2. Sebbene COVID-19 sia una malattia respiratoria, è stato dimostrato che nelle feci si trovano grandi quantità del genoma del coronavirus che successivamente raggiungono le acque reflue” è quanto riportato sul sito ufficiale dell’università. Gli studiosi hanno poi analizzato dei campioni congelati del periodo compreso tra gennaio 2018 e dicembre 2019. Ebbene, sono stati trovati dei genomi Covid in quelli di marzo 2019, quando ancora in nessuna parte del mondo su parlava di coronavirus. Inoltre, come ha spiegato Albert Bosch, “tutti i campioni sono risultati negativi per la presenza di genomi SARS-CoV-2 ad eccezione del 12 marzo 2019, dove i livelli di SARS-CoV-2 erano molto bassi ma chiaramente positivi per la PCR e, in più, usando due obiettivi diversi”. La città catalana, sia per motivi turistici che lavorativi, accoglie ogni anno moltissimi stranieri. Sicuramente lo stesso è avvenuto anche in altre città del mondo. Dato che la maggior parte dei soggetti affetti da coronavirus ha sintomi molto simili a quelli dell’influenza, probabilmente all’inizio il primo caso non era stato diagnosticato.
Esperti italiani invitano alla cautela. Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ha sottolineato la differenza con gli studi fatti in Liguria. In questo caso gli esperti avevano dimostrato che alcuni pazienti avevano prodotto anticorpi già a dicembre. Mentre a Barcellona, la ricerca si basa sulle analisi delle acque reflue, dove sono state rinvenute tracce del virus. Per questo motivo il virologo invita alla prudenza, anche se è comunque un risultato interessante. Della stessa idea il professor Luigi Lopalco che ha così commentato la notizia: “Mi pare molto strano, suggerisco cautela”.
Mauro Evangelisti per "ilmessaggero.it" il 26 giugno 2020. Sars-CoV-2 era presente in Europa già a marzo del 2019. Lo sostiene una ricerca dell’Università di Barcellona, già pubblicata, che ha analizzato le acque reflue della città catalana e che ha fissato nel 12 marzo del 2019 la data di comparsa del nuovo coronavirus. Gli scienziati italiani, però, invitano alla prudenza e all'attesa di ulteriori conferme. Ricordiamo, che l’Istituto superiore di sanità aveva già rilevato, con lo stesso sistema, la presenza di Sars-CoV-2 in Lombardia a dicembre; uno studio analogo (in questo caso sulle donazioni del sangue) aveva fissato la stessa finestra temporale di dicembre 2019 in Liguria. Queste ricerche potrebbero portare a riscrivere la storia di Sars-CoV-2, rilevato a Wuhan a inizio dicembre 2019 in Cina, dove è cominciata l’emergenza sanitaria, e successivamente segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità. Si era sempre pensato che il nuovo coronavirus fosse poi arrivato in Europa a gennaio, il caso di Codogno è di febbraio. Ormai è certo che circolasse da prima, ma lo studio dell’Università di Barcellona rischia di mettere in discussione molte certezze. Si legge sul sito ufficiale dell’ateneo catalano: «Il lavoro, a cui hanno preso parte ricercatori del gruppo di virus enterico UB Gemma Chavarria-Miró, Eduard Anfruns-Estrada e Susana Guix, guidati da Rosa Maria Pintó e Albert Bosch, fa parte del progetto di sorveglianza sentinella SARS -CoV-2. Sebbene COVID-19 sia una malattia respiratoria, è stato dimostrato che nelle feci si trovano grandi quantità del genoma del coronavirus che successivamente raggiungono le acque reflue».
Ancora: «I ricercatori hanno analizzato alcuni campioni congelati tra gennaio 2018 e dicembre 2019 con il sorprendente risultato della presenza di genomi SARS-CoV-2 a marzo 2019, molto prima della notifica di qualsiasi caso di COVID-19 in tutto il mondo». «Tutti i campioni sono risultati negativi per la presenza di genomi SARS-CoV-2 ad eccezione del 12 marzo 2019, dove i livelli di SARS-CoV-2 erano molto bassi ma chiaramente positivi per la PCR e, in più, usando due obiettivi diversi. Barcellona riceve molti visitatori per motivi turistici o professionali - continua Albert Bosch - ed è più che probabile che si sia verificata una situazione simile in altre parti del mondo. Poiché la maggior parte dei casi di COVID-19 mostra sintomi simil-influenzali, il primo avrebbe dovuto essere mascherato da casi di influenza non diagnosticata».
Commenta il professor Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova: «In Liguria abbiamo dimostrato che già a dicembre c'erano persone che avevano sviluppato gli anticorpi. In questo caso, a Barcellona, si parla di altro, di acque reflue con tracce di virus, per cui bisogna essere molto prudenti. Serve grande cautela, ma certo è un dato interessante». Prudente anche il professore Pierluigi Lopalco: «Mi pare molto strano, suggerisco cautela».
Origine del coronavirus, trovate tracce nelle fogne di Barcellona a marzo 2019? Parla il prof. Jefferson. Le Iene News il 18 luglio 2020. Intorno alla ricerca sul coronavirus negli ultimi mesi si è creata un’attenzione spasmodica da parte di tutti: “C’è una grande confusione, che rende difficile distinguere quello che sappiamo già dalle ipotesi di studio”. E sulla nascita del coronavirus lontano da Wuhan: “Non l’ho mai detto. E’ un esempio di disinformazione”. Se c’è una cosa che in questi mesi di pandemia ci ha fatto compagnia, è stata l’ossessiva pubblicazione di ricerche, studi e analisi sulle origini del coronavirus. Un bombardamento di informazioni tali che è difficile distinguere tra ciò che è dimostrato e ciò che invece si sta ancora studiando. In questi giorni in particolare è tornata alla ribalta una teoria: il coronavirus non sarebbe nato a Wuhan tra fine 2019 e inizio 2020, ma ben prima. Parliamo però di ipotesi o certezza? “Non sappiamo con certezza se il coronavirus sia davvero nato a Wuhan”. A parlare con Iene.it è Tom Jefferson, epidemiologo inglese e Senior Associate Tutor del Centre for Evidence Based Medicine dell'Università di Oxford. “C’è uno studio, ancora da confermare, che indica la presenza di tracce di coronavirus nelle fognature della città di Barcellona a marzo del 2019”. La notizia di questo studio aveva già fatto scalpore a fine giugno, quando ne era stata pubblicata la prima versione. Anche perché altri studi, più o meno nello stesso periodo, indicavano la presenza del coronavirus nelle acque di scarico di Milano e Torino a dicembre del 2019, “e ne esiste uno simile anche in Brasile”, ci spiega il professor Jefferson. Quindi, come abbiamo letto in questi giorni su alcuni media italiani, il coronavirus non è nato a Wuhan? “Non si può dire questo, gli studi devono essere confermati”, ci dice il professor Jefferson. “E’ possibile che il virus circolasse già prima di quanto si è pensato inizialmente, ma per affermarlo con certezza servono conferme che al momento non ci sono ancora”. “Il punto è che un microrganismo lo trovi solo quando sai che esiste, se non lo sai non puoi nemmeno cercarlo”, ci spiega ancora Jefferson. “Quando un virus come questo inizia a dare problemi all’umanità, allora parte la ricerca. Per sapere da dove arriva però è necessario studiare approfonditamente la storia di questo coronavirus: capire davvero quando è nato, quali sono i fattori che ne hanno facilitato il passaggio, eccetera”. Una questione cruciale come dicevamo all’inizio, perché su un virus conosciuto da così poco tempo la ricerca difficilmente può dare risposte granitiche nel giro di alcuni mesi: “Ci sono diversi studi che ipotizzano una circolazione del coronavirus precedente a quella a noi nota, non è una teoria campata per aria. Però deve essere ancora confermata”, ci dice Jefferson. Come si fa quindi a districarsi tra le tantissime informazioni sul coronavirus? “C’è un grande problema, cioè il livello di confusione e attenzione mediatica che rende la vita molto difficile ai ricercatori. E’ difficile distinguere i fatti dalle ipotesi”. E anche le sue parole, recentemente, sono state travisate: “Non ho mai detto che il coronavirus non viene da Wuhan, non sappiamo ancora con certezza da dove sia venuto. E’ un esempio di disinformazione”. E’ possibile allora avere certezze su questo coronavirus? “Per farlo penso si dovrebbe scrivere una storia della pandemia”, aggiunge ancora il professore. “Nei prossimi mesi mi aspetto che ci sia una ‘corsa all’indietro’, una ricostruzione quasi storica di quanto accaduto. E’ molto difficile ma essenziale, non per colpevolizzare ma per capire se ci sono stati eventi che potrebbero aver scatenato questa pandemia. Ci sono cause concomitanti? Le ipotesi sono le più disparate, dall’inquinamento all’affollamento”. Un altro esempio? “Ci sono molti focolai nei macelli, anche in Italia Codogno è vicina a un grande stabilimento. C’è un possibile legame? Si può passare il coronavirus per via orofecale? Non si sa con certezza, serve approfondire per capire”. E per evitare di scrivere cose che potrebbero non essere vere.
· Un Virus Ligure.
l coronavirus è arrivato in Liguria molto prima del “paziente zero” di Codogno. Lo rivela lo studio di Alisa effettuato su un campione di donatori di sangue Redazione genova 24.it il 22 Maggio 2020. Genova. Il coronavirus è arrivato in Liguria a dicembre, ben prima che il primo paziente venisse trovato positivo a Codogno il 21 febbraio. Lo rivela lo studio di Alisa effettuato su un campione di donatori di sangue in regione. “Da una prima analisi sui campioni raccolti nel mese di gennaio emerge che 13 campioni erano positivi agli anticorpi IgG, che compaiono almeno sette giorni dopo il contagio. Dati recentissimi dimostrano che i primi casi si sono verificati a dicembre, 5 nella città metropolitana di Genova e 4 a Savona. È estremamente probabile che già a dicembre ci fossero casi di Covid nella nostra regione“, ha spiegato Filippo Ansaldi, direttore della prevenzione Alisa. Già il 27 dicembre, rivela lo studio, una Tac polmonare aveva evidenziato un caso che oggi risulterebbe sospetto coronavirus. Il primo caso era stato registrato il 25 febbraio, una turista arrivata ad Alassio da Castelnuovo d’Adda, uno dei paesi della prima “zona rossa”.
“Grazie alle indagini previsionali epidemiologiche e alle ricerche coordinate dalla nostra task force di Alisa possiamo confermare che la presenza del Covid-19 in Liguria risale a dicembre, ben prima quindi del cosiddetto ‘paziente zero’ di Codogno. Questo significa che siamo stati investiti molto presto da questa pandemia, ma abbiamo reagito bene, garantendo una risposta efficace con tutti i posti letto necessari a curare i nostri pazienti, sia nelle terapie intensive sia nei reparti di media intensità”, ha commentato il presidente Giovanni Toti. Filippo Ansaldi ha spiegato che “il dubbio che il coronavirus circolasse già prima del 25 febbraio 2020 (data del primo caso ufficiale riscontrato ad Alassio) è emerso con la definizione del modello previsionale epidemiologico, realizzato da Alisa per dare una risposta sanitaria efficiente alla nuova emergenza in termini di posti letto e misure di prevenzione. Quel modello ha messo mette a confronto i pazienti Covid ricoverati nei reparti a media e alta intensità e quelli previsti: il quadro emerso ha fatto pensare che la circolazione del virus fosse verosimilmente antecedente la rilevazione dei primi casi confermati di Covid-19 in Liguria e riconducibile alla fine del 2019. La successiva ricerca sulle tac polmonari e le indagini sierologiche sulla popolazione di donatori hanno evidenziato che verosimilmente la circolazione del Covid in Liguria sia iniziata a partire da dicembre 2019″. L’indagine sulle tac, ancora in corso, ha coinvolto i tre centri radiologici più rilevanti sistema sanitario regionale (Asl 2, ospedale Galliera e Policlinico San Martino) che hanno analizzato un campione di tac polmonari eseguite a partire da dicembre 2019: le tac polmonari, osservate attraverso valutazioni incrociate e secondo la classificazione della società olandese di radiologia, hanno evidenziato che i primi casi sospetti risalgono alla fine del 2019: a dicembre 2019 sono stati rilevati 5 casi suggestivi e un caso molto probabile, a gennaio 16 casi suggestivi e 42 casi molto probabili. Inoltre da circa un mese sono in corso le indagini sierologiche sulla popolazione dei donatori di sangue: si osserva che nel mese di dicembre 2019 già 9 donatori avevano le IgG positive (anticorpo specifico al covid-19 che evidenzia l’entrata in contatto con il virus) mentre nel mese di gennaio 2020 i donatori con IgG positive sono 13.
Coronavirus circolava già a dicembre in Liguria, ora ci sono le prove mediche. Redazione Liguria Oggi il 23 Maggio 2020. Genova – Il coronavirus circolava in Liguria già a dicembre 2019 e quello del 25 febbraio non sarebbe il primo caso registrato. Il sospetto che la malattia fosse presente in Liguria ben prima di quanto scoperto era già sorto da qualche settimana ma ora ci sarebbero evidenze scientifiche grazie a esami particolari, studio degli esami radiologici effettuati ed esami sierologici che lasciano pensare ad una prima ondata di coronavirus in Liguria già a fine anno
“Grazie alle indagini previsionali epidemiologiche e alle ricerche coordinate dalla nostra task force di Alisa, l’Azienda ligure sanitaria, possiamo confermare che la presenza del Covid-19 in Liguria risale a dicembre, ben prima quindi del cosiddetto ‘paziente zero’ di Codogno. Questo significa che siamo stati investiti molto presto da questa pandemia, ma abbiamo reagito bene, garantendo una risposta efficace con tutti i posti letto necessari a curare i nostri pazienti, sia nelle terapie intensive sia nei reparti di media intensità. È la dimostrazione dello straordinario livello di capacità e preparazione dei nostri esperti, insieme ai quali siamo riusciti ad affrontare al meglio la fase più critica della pandemia e con i quali continuiamo a lavorare per il monitoraggio in questa delicata fase2, con dati che anche questa sera sono confortanti”. Così il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha fatto il punto questa sera sulla pandemia da coronavirus in Liguria.
Filippo Ansaldi, responsabile Prevenzione di Alisa, ha spiegato che “il dubbio che il coronavirus circolasse già prima del 25 febbraio 2020 (data del 1° caso ufficiale riscontrato ad Alassio) è emerso con la definizione del modello previsionale epidemiologico, realizzato da Alisa per dare una risposta sanitaria efficiente alla nuova emergenza in termini di posti letto e misure di prevenzione. Quel modello ha messo mette a confronto i pazienti Covid ricoverati nei reparti a media e alta intensità e quelli previsti: il quadro emerso ha fatto pensare che la circolazione del virus fosse verosimilmente antecedente la rilevazione dei primi casi confermati di Covid-19 in Liguria e riconducibile alla fine del 2019. La successiva ricerca sulle tac polmonari e le indagini sierologiche sulla popolazione di donatori hanno evidenziato che verosimilmente la circolazione del Covid in Liguria sia iniziata a partire da dicembre 2019”.
L’indagine sulle tac, ancora in corso, ha coinvolto i tre centri radiologici più rilevanti sistema sanitario regionale (Asl 2, ospedale Galliera e Policlinico San Martino) che hanno analizzato un campione di tac polmonari eseguite a partire da dicembre 2019: le tac polmonari, osservate attraverso valutazioni incrociate e secondo la classificazione della società olandese di radiologia, hanno evidenziato che i primi casi sospetti risalgono alla fine del 2019: a dicembre 2019 sono stati rilevati 5 casi suggestivi e un caso molto probabile, a gennaio 16 casi suggestivi e 42 casi molto probabili.
Inoltre da circa un mese sono in corso le indagini sierologiche sulla popolazione dei donatori di sangue: si osserva che nel mese di dicembre 2019 già 9 donatori avevano le IgG positive (anticorpo specifico al covid-19 che evidenzia l’entrata in contatto con il virus) mentre nel mese di gennaio 2020 i donatori con IgG positive sono 13.
· Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Da adnkronos.com l'11 dicembre 2020. "L'Italia ha potenzialmente avuto una diffusione del covid-19 prima di Wuhan". E' quanto si legge sul sito del Global Times, tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, l'organo del partito comunista cinese. L'articolo parte dalla notizia del bambino italiano di 4 anni per il quale è stato riscontrato un'infezione da coronavirus risalente al novembre 2019. "Alcuni esperti - scrive il quotidiano - ritengono ciò indichi che l'epidemia di covid 19 è iniziata in Italia prima che a Wuhan, dove sono stati riscontrati i primi sintomi in un paziente l'8 dicembre 2019". "Tuttavia ciò non indica l'Italia come origine del virus, perché determinare la fonte è un lavoro complicato", continua il giornale, secondo il quale "gli esperti suggeriscono che paesi come l'Italia e gli Stati Uniti lavorino con l'Organizzazione Mondiale della Sanità per analizzare e indagare sull'origine del virus". Il sito cita Wang Guangfa, esperto del Primo ospedale dell'università di Pechino, secondo il quale le nuove prove "rivelano che il virus circolava ampiamente in Italia prima che Wuhan confermasse il primo paziente e l'Italia è stata un altro paese colpito all'inizio, come Wuhan". Secondo Wang, gli esperti cinesi non hanno inizialmente cercato una fonte straniera all'epidemia di Wuhan, facendo sforzi per trovare un'origine animale. "Tuttavia la Cina non è riuscita a trovare una fonte interna" e le nuove prove "suggeriscono che il virus possa essere stato portato a Wuhan da altri paesi, anche se non abbiamo prove su esattamente quale paese", afferma ancora Wang. Il giornale cita anche casi di coronavirus confermati in Usa a metà dicembre e in Francia a fine 2019, prima o attorno al momento in cui il virus è stato identificato in Cina.
Da it.insideover.com il 12 dicembre 2020. Il coronavirus? Era in Italia prima che a Wuhan. L’ultimo studio italiano condotto dall’Università Statale di Milano, in cui si ipotizza che un bambino di quattro anni potesse aver contratto il Covid-19 già a novembre, è stato sventolato da alcuni media cinesi come prova volta a scagionare la megalopoli situata nella provincia dello Hubei. “L’Italia ha potenzialmente avuto una diffusione del Covid-19 prima di Wuhan”, si legge sulle colonne del quotidiano Global Times, che sottolineano proprio il caso del piccolo appena citato. “Alcuni esperti – riporta il giornale – ritengono ciò indichi che l’epidemia di Covid-19 è iniziata in Italia prima che a Wuhan, dove sono stati riscontrati i primi sintomi in un paziente l’8 dicembre 2019″. In merito a questo articolo si è fatta molta confusione, tra chi, in Occidente, ha accusato la Cina di voler scaricare le “colpe” della pandemia sull’Italia e chi, sui social cinesi, è convinto che il proprio Paese sia stato ingiustamente demonizzato.
La posizione cinese.
Punto primo: il governo cinese non ha mai accusato l’Italia di essere il primo focolaio di coronavirus. A sostenere tale ipotesi – che, come tale, deve comunque essere presa con le pinze – sono semmai alcuni media d’Oltre Muraglia e altrettanti netizens cinesi. Stiamo dunque parlando di attori che, pur contribuendo a ripulire l’immagine della Cina, niente hanno a che vedere con il governo in senso lato.
Punto secondo: i più accesi nazionalisti cinesi non vedono l’ora di avere tra le mani studi o ricerche che possano ripulire l’immagine della loro nazione. Già, perché il primo focolaio a esser stato registrato è quello di Wuhan, nella provincia dello Hubei. Per mesi la narrazione ufficiale dei media è stata chiara: il virus è nato a Wuhan, chissà come e chissà quando, e da lì si è diffuso in tutto il mondo. Il punto è che non vi sono certezze che il focolaio scoppiato presso il mercato ittico Huanan, nel cuore della megalopoli cinese da 11 milioni di abitanti, sia effettivamente il primo in assoluto. È probabile che potesse essere soltanto la punta dell’iceberg. E che altrove, in Cina o magari nel subcontinente indiano – come ha sostenuto una ricerca cinese -, potessero esserci casi precedenti. A detta di alcune voci il primo contagio registrato dalle autorità cinesi risalirebbe agli inizi di novembre, anche se la questione è alquanto opaca e le supposizioni si perdono nella nebbia.
La strumentalizzazione del virus. La seconda Guerra Fredda in corso tra Stati Uniti e Cina ha polarizzato ogni settore: dall’economia alla politica passando per la cultura. Anche l’origine del virus è finita sul banco degli imputati. Il presidente americano Donald Trump, soprattutto prima delle elezioni americane, accusava ogni giorno la Cina di essere colpevole di aver nascosto le prove sul Covid. Dall’altra alcuni rappresentanti cinesi hanno tirato in ballo l’eventualità che il virus possa essere stato trasportato in Cina lo scorso ottobre dagli atleti militari impegnati nei Giochi Olimpici di Wuhan. Tornando all’articolo del Global Times, si legge che il caso del bambino di quattro anni “non indica l’Italia come origine del virus, perché determinare la fonte è un lavoro complicato”. Il sito del giornale cita Wang Guangfa, esperto del Primo ospedale dell’università di Pechino, secondo cui le nuove prove “rivelano che il virus circolava ampiamente in Italia prima che Wuhan confermasse il primo paziente e l’Italia è stata un altro paese colpito all’inizio, come Wuhan”. Per Wang, ha aggiunto l’Adnkronos, gli esperti cinesi non hanno inizialmente cercato una fonte straniera all’epidemia di Wuhan, facendo sforzi per trovare un’origine animale. “Tuttavia la Cina non è riuscita a trovare una fonte interna” e le nuove prove “suggeriscono che il virus possa essere stato portato a Wuhan da altri paesi, anche se non abbiamo prove su esattamente quale paese”, ha concluso Wang.
Il virus era già in Italia a novembre del 2019? La scoperta sul bimbo. Un nuovo studio sul Covid dimostra che il virus circolasse in Lombardia già da novembre 2019. Il caso di un bimbo positivo ne darebbe conferma. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Il Covid-19 circolava a Milano già ad inizio dicembre del 2019, ancor prima che a Codogno, il 21 febbraio 2020, fosse accertato il caso del "paziente 1". Lo dimostra uno studio condotto all'Università Statale di Milano i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases nella giornata di mercoledì 9 dicembre. La ricerca vanta la firma del Professor Gian Vincenzo Zuccotti, presidente del Comitato di direzione della Facoltà di medicina e chirurgia, a capo del team in seno al Laboratorio subnazionale accreditato Oms per la sorveglianza di morbillo e rosolia (nel Crc EpiSoMI Epidemiologia e sorveglianza molecolare delle infezioni). All'attenzione degli esperti il caso di un bimbo di 4 anni che, a ridosso a novembre 2019, aveva manifestato sintomi rinconducibili a quelli dell'infezione Sars-Cov-2 pur non avendo mai viaggiato fuori dall'Italia. Attraverso l'analisi di un tampone oro-faringeo a cui era stato sottoposto il giovanissimo paziente, i ricercatori hanno potuto appurare la circolazione del virus in Lombardia in un periodo precedente a quello ufficiale. Sebbene l'identificazione del ceppo virale non sia stata determinabile, è fuori dubbio che la catena di contagi in Italia fosse cominciata in tempi pregressi a quelli stimati dalle successive evidenze cliniche (i primi casi positivi accertati).
Il caso del bimbo di 4 anni. Stando a quanto si apprende dallo studio, un bambino di appena 4 anni avrebbe manifestato i sintomi da infenzione respiratoria acuta - quelli del Covid, per intenderci - a fine dello scorso anno pur non avendo mai viaggiato fuori dall'Italia. Il 21 novembre 2019, il piccolo ha cominciato a soffrire di tosse e rinite; il giorno 30 è stato trasportato al pronto soccorso per via di una severa difficoltà respiratorie seguita da conati di vomito. Il 1° dicembre, ha avuto inizio di un'eruzione cutanea simile al morbillo; il 5 dicembre (14 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi), è stato prelevato il campione di tampone orofaringeo per la diagnosi clinica di sospetto morbillo. Il decorso clinico del piccolo paziente, che comprendeva manifestazioni cutanee tardive, assomiglia a quanto riportato da altri autori; le lesioni maculopapulari (le chiazze rosse sul corpo) sono state tra le manifestazioni cutanee più diffuse osservate durante la pandemia COVID-19 e diversi studi hanno notato un esordio successivo nei pazienti più giovani. "L'idea - dichiara la ricercatrice Silvia Bianchi ad Adnkronos Salute -è stata quella di indagare retrospettivamente tutti i casi di malattia esantematica identificati a Milano dalla rete di sorveglianza di morbillo e rosolia nel periodo settembre 2019-febbraio 2020, risultati negativi alle indagini di laboratorio per la conferma di morbillo". L'infezione da Sars-CoV-2 può infatti dar luogo a sindrome Kawasaki-like e a manifestazioni cutanee, spesso comuni ad altre infezioni virali, come il morbillo. Le iniziali descrizioni di tali sintomatologie associate a Covid-19 sono arrivate proprio dai dermatologi della Lombardia, prima area duramente colpita dalla pandemia.
I risultati della ricerca. A seguito delle evidenze raccolte, i ricercatori hanno pouto accertare che il Covid circolasse in Lombardia almeno 3 mesi prima del "caso uno" di Codogno. "Questi risultati, in accordo con altre prove della diffusione precoce del COVID-19 in Europa, anticipano l'inizio dell'epidemia fino alla fine dell'autunno 2019 . - scrivono gli autori dello studio - Tuttavia, ceppi precedenti potrebbero anche essere stati occasionalmente importati in Italia e in altri paesi europei durante questo periodo, manifestandosi con casi sporadici o piccoli cluster auto-limitanti. Queste importazioni avrebbero potuto essere diverse dal ceppo che si è diffuso in Italia durante i primi mesi del 2020. Sfortunatamente, il campione di tampone, che è stato raccolto per la diagnosi del morbillo, non era ottimale per il rilevamento della SARS-CoV-2 perché era piuttosto un orofaringeo rispetto a un campione su tampone rinofaringeo ed è stato raccolto 14 giorni dopo la comparsa dei sintomi, quando la diffusione virale è ridotta". Che il virus circolasse indisturbato già in tempi non sospetti, era ipotizzabile dall'impatto brusco e repentino con cui si è manifestata la pandemia e dalle successive evidenze scientifiche, prima fra tutte quella relativa al ritrovamento del virus nelle acque reflue di Milano a metà dicembre 2019. La lunga e non riconosciuta diffusione di Sars-CoV-2 nel Nord Italia potrebbe spiegare, almeno in una piccola, l'impatto devastante e la rapida trasmissione virale durante la prima ondata di Covid-19, osservano ancora i ricercatori. "Un sistema di sorveglianza virologica sensibile e di qualità - afferma Antonella Amendola, responsabile dell'attività di sorveglianza del morbillo nel laboratorio MoRoNET ad Adnkronos - è uno strumento fondamentale per identificare tempestivamente i patogeni emergenti e per monitorare l'evolversi dei focolai in una popolazione. I risultati dello studio forniscono indicazioni sui futuri sforzi da mettere in atto per il controllo delle malattie infettive e sulla necessità di implementare la sorveglianza virologica a livello territoriale come strategia prioritaria per un'adeguata risposta alle emergenze pandemiche".
Il mistero irrisolto sull’origine temporale della pandemia. Federico Giuliani su Inside Over il 17 novembre 2020. Siamo tornati al punto di partenza? A distanza di ormai di quasi un anno dai primi casi di Sars-CoV-2 accertati a Wuhan, in Cina, una nuova ricerca scientifica potrebbe cambiare, per l’ennesima volta, la narrazione ufficiale della pandemia. In base a quanto accaduto nella provincia cinese dello Hubei, il mondo intero ha iniziato a prendere familiarità con il nuovo virus all’inizio del 2020. L’Italia, dopo settimane intere in cui un buon numero di virologi e molti politici ripetevano che il nostro Paese era al sicuro e che non vi era alcun rischio sanitario, ha identificato ufficialmente il primo paziente Covid-19 lo scorso 20 febbraio nella provincia di Lodi. Ci sono tuttavia tre enormi misteri rimasti ancora irrisolti. Primo: al momento non conosciamo il paziente 0 italiano, ovvero il soggetto infetto che, suo malgrado, ha portato l’infezione in Italia. Secondo: non sappiamo neppure quand’è che il virus ha iniziato a circolare tra le valli della Bergamasca e la Pianura Padana, trasformando la Lombardia nell’epicentro della prima ondata italiana. Terzo elemento, forse più importante: ignoriamo la provenienza del misterioso agente patogeno, che per alcuni sarebbe arrivato in Italia direttamente da Wuhan, per altri sempre dalla Cina ma via Germania. Lo studio “Unexpected detection of SARS-Cove2 antibodies in the pre-pandemic period in Italy”, pubblicato l’11 novembre sul Tumori Journal e firmata da Giovanni Apolone, direttore dell’Istituto tumori di Milano, ha contribuito a chiarire un paio di aspetti legati alla cronologia della pandemia.
Da settembre a febbraio 2019. La ricerca pubblicata dall’Istituto, in collaborazione con l’Università di Siena, ha dimostrato che il coronavirus circolava in Italia sin dal settembre 2019. Quindi cinque mesi prima rispetto al primo caso accertato dalle autorità sanitarie. Il paper confermerebbe quindi il sospetto sulla circolazione precoce del Sars-CoV-2 all’interno del nostro Paese. Lo studio ha inoltre evidenziato un’altra questione rilevante: nel novembre 2019 molti medici di medicina generale avevano notato la comparsa di strani e gravi sintomi respiratori nei pazienti più anziani, collegati a forme aggressive di influenza stagionale. Una volta scoperta l’esistenza del Covid-19, tutte quelle polmoniti atipiche sono state ricollegate al coronavirus. A questo punto la narrazione pandemica va incontro a un’inevitabile trasformazione. Se è vero che l’Italia ha avuto a che fare con il Sars-CoV-2 ben prima dei casi rilevati in Cina, allora l’apocalisse di Wuhan, avvenuta a gennaio, non può essere la causa scatenante della pandemia. O meglio: quanto accaduto nel capoluogo della provincia dello Hubei tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 potrebbe essere soltanto la punta dell’iceberg di un processo epidemico in corso da chissà quanto. Ma soprattutto di un processo endemico partito da chissà dove.
Origine spazio-temporale sconosciuta. Oltre allo studio dell’Istituto Tumori di Milano, ci sono altre ricerche che accendono spie e sollevano dubbi. Nella narrazione comunemente accettata tutto sarebbe partito da Wuhan il 31 dicembre 2019, giorno in cui sarebbero stati accertati i primi casi di una “polmonite di origine sconosciuta”. Nel giro di poche settimane sarebbero quindi stati rilevati casi analoghi della medesima malattia in tutti i continenti. Eppure il mercato ittico di Huanan, situato nel cuore della megalopoli di Wuhan, potrebbe essere soltanto il primo epicentro noto della pandemia. Il condizionale è d’obbligo, visto che stiamo parlando di ipotesi non ancora scientificamente confermate. Uno studio in via di pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità italiano (Iss) ha scoperto che nelle acque di scarico di Milano e Torino erano presenti tracce del virus Sars-CoV-2 già nel dicembre 2019. In una ricerca condotta dall’Università di Barcellona, con la collaborazione di Aigües de Barcelona, i ricercatori hanno rilevato la presenza del virus Sars-CoV-2 nei campioni di acque reflue di Barcellona raccolti il 12 marzo 2019. C’è poi la considerazione fatta dall’epidemiologo Tom Jefferson del Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), presso l’Università di Oxford, secondo cui molti virus resterebbero inattivi fino a quando non si presenterebbero “condizioni ambientali favorevoli”. Stando alla sua ipotesi, Sars-CoV-2 potrebbe non essersi necessariamente originato a Wuhan. Al contrario, avrebbe potuto trovarsi in modalità “dormiente” in tutto il mondo in attesa delle condizioni favorevoli per potersi diffondere.
Ferruccio Pinotti per il ''Corriere della Sera'' il 16 novembre 2020. Che non fosse iniziato tutto in Cina a dicembre lo sapevamo, ma ora uno studio pubblicato a novembre con prima firma il direttore dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, Giovanni Apolone, ci dice qualcosa di assolutamente inaspettato: a settembre 2019, il 14% del campione di volontari entrati in una ricerca sul cancro al polmone presentava anticorpi per il nuovo Coronavirus. In altre parole, il SARS-Cov-2 circolava in Italia già ben prima di febbraio, e probabilmente fin dall’estate 2019.
L’origine della ricerca. Tutto nasce nell’ambito dello screening per il tumore al polmone «Smile», che da settembre 2019 a marzo 2020 ha arruolato 959 volontari sani per sottoporli a Tac spirale ai polmoni e analisi del sangue. La notizia dell’epidemia cinese a gennaio e quindi l’arrivo in Italia a febbraio deve aver acceso una lampadina nei ricercatori dell’Istituto nazionale dei tumori, che insieme ai colleghi delle università di Milano e Siena hanno fatto il test sierologico a tutti i campioni di sangue conservati. Risultato: su 959 campioni, 111 sono risultati positivi all’immunoglobulina G (16 casi) o all’immunoglobulina M (97 casi). Di questi 111 positivi, 23 risalgono a settembre, 27 ottobre, 26 a novembre, 11 a dicembre, 30 gennaio e 21 febbraio. I positivi provengono da 13 regioni, la metà dalla Lombardia seguita da Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto.
I dati sugli anticorpi neutralizzanti. Dei 111 casi (su 959 campioni), 6 sono risultati positivi anche agli anticorpi neutralizzanti il virus, 4 dei quali già a inizio ottobre. E forse questo dato è il più significativo. Una prevalenza di positivi maggiori del 10%, infatti non sembra accordarsi con i successivi studi sierologici, come quello nazionale Istat-ISS del 2,5% della popolazione. Come spiega Giovanni Apolone: «La prevalenza si riduce quando si guarda ai casi validati del test di neutralizzazione, pari a 6 positivi, di cui 4 in ottobre. Il dato rilevante è questo, non la proporzione di positivi, comunque suggestiva data la corrispondenza con le note prevalenze regionali».
Il virus in pista già l’estate scorsa e le malattie polmonari atipiche. Questi dati confermano i sospetti della circolazione del virus in Italia ben prima del 20 febbraio, probabilmente dall’estate 2019. «Già da novembre del 2019, molti medici di medicina generale hanno iniziato a segnalare la comparsa di gravi sintomi respiratori in persone anziane e fragili con bronchite bilaterale atipica, che è stata attribuita, in assenza di notizie sul nuovo virus, a forme aggressive di influenza stagionale», ricorda lo studio. Ebbene, ora lo possiamo affermare con più sicurezza: non era influenza, ma le prime avvisaglie di Covid, una nuova malattia di cui non si è accorto nessuno fino al tardivo allarme lanciato dalla Cina a fine dicembre. Gli autori dello studio sono gli studiosi e ricercatori Giovanni Apolone, Emanuele Montopoli, Alessandro Manenti, Mattia Boeri, Federica Sabia, Inesa Hyeseni, Livia Mazzini, Donata Martinuzzi, Laura Cantone, Gianluca milanese, Stefano Sestini, Paola Suatoni, Alfonso Marchianò, Valentina Bollati, Gabriella Sozzi, Ugo Pastorino. Il titolo della ricerca è Unexpected detection of SARS-Cove2 antibodies in the pre-pandemic period in Italy, pubblicato su Tumori Journal, uscito l’11 novembre. 2020.
SCETTICISMO DEI COLLEGHI. Da rainews.it il 16 novembre 2020. Ma sia il biologo della Temple University di Philadelphia Enrico Bucci, sia l'immunologa dell'Università di Padova Antonella Viola affermano che quello che i ricercatori hanno trovato è solo la cross reattività del 10% della popolazione mondiale che incontra uno degli altri coronavirus del raffreddore e sviluppa una qualche protezione contro SarsCov2. Come peraltro già noto da uno studio americano pubblicato su Science. Inoltre il test usato a Milano per rintracciare anticorpi non è validato. Scettico anche Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano. "Vediamo di avere delle conferme reali. È veramente difficile pensare che il virus sia così vecchio. Se lo fosse, bisogna chiedersi perché non ha creato molto prima focolai. Che si parli di questo virus in termini di così forte anticipazione uno la domanda se la pone. A Milano si dice più piano, più adagio", dice Galli.
In radio parte la "Caccia al lombardo rosso": bufera sulla Rai. Nel programma di Rai Radio2 Caterpillar è partita la "Caccia al lombardo rosso", con gli ascoltatori invitati a trasformarsi in delatori per segnalare la presenza dei milanesi fuori regione. Francesca Galici, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. La satira è sacra, la satira va protetta e tutelata. Queste sono le basi per un Paese civile e democratico. Caterpillar è uno dei più noti programmi radiofonici del Paese, una vera istituzione nella trasmissione radio Rai, che da quasi vent'anni allieta soprattutto i viaggi degli automobilisti incolonnati al ritorno dal lavoro. La sua impronta è sempre stata satirica e politicamente scorretta ma i radioascoltatori hanno lamentato un atteggiamento che negli ultimi giorni è andato un po' oltre il limite. Il Covid si sa, ormai da mesi è al centro della cronaca e della maggior parte dei discorsi ed è inevitabile, ma soprattutto lecito e doveroso, cercare anche di scherzarci sopra. I conduttori Massimo Cirri e Sara Zambotti hanno però attirato su di sé le ire dei loro affezionati ascoltatori lombardi. Tra le risate e con un conclamato sottofondo ironico, i due speaker pochi giorni fa hanno lanciato la campagna goliardica Caccia al lombardo rosso. Un'iniziativa che prende spunto dall'ultimo Dpcm di Giuseppe Conte con il quale l'Italia è stata divisa in tre macro regioni di rischio e che vede proprio la Lombardia inserita tra quelle con maggiori restrizioni per l'alta diffusione del virus. Quello che, da Cirri e Zambotti, è stato presentato come un gioco radiofonico consiste nel segnalare in maniera anonima in radio i cittadini lombardi e milanesi che si trovano fuori dai loro confini regionali col rischio di infettare le regioni, a loro dire, più salubri. Una vera e propria azione delatoria nata con intenti ironici, che però è stata presa seriamente dagli ascoltatori, che a quel punto hanno iniziato a telefonare ai centralini di Radio2, emittente del programma. "Vogliamo fare denuncia dell'invasione dei milanesi nelle zone più salubri. Dobbiamo difenderci dall'invasione dei milanesi che arrivano coi loro Suv e ci fanno ammalare tutti", incitava Sara Zambotti dai microfoni di Caterpillar, fomentando ancor gli ascoltatori. La semplice azione delatoria richiesta inizialmente, però, si è trasformata in qualcosa di più importante quando Massimo Cirri ha suggerito alle persone in ascolto di passare dalle parole ai fatti. Certo, stiamo ancora qui a sottolineare lo sfondo ironico e satirico della trasmissione, ma le parole utilizzate dai conduttori hanno un loro peso specifico importante. E così, mentre gli ascoltatori segnalavano la presenza dei lombardi in svariate regioni, Cirri parlava di "forconi, fiaccole e pece per fare giustizia", suggeriva "pick-up con persone sopra armate" e richiamava vecchi adagi storici: "Ricacciare a mare il lombardo invasore". Chi in quel momento si trovava sintonizzato su Radio2 ha potuto anche ascoltare frasi come: "Accatastare le fascine per bruciare i lombardi". "A me piace molto incitare all'odio sociale", scherzava Massimo Cirri mentre i suoi ascoltatori continuavano a chiamare, supportato dalla Zambotti: "Verso i milanesi c'è un certo gusto a farlo". Qualcuno potrebbe obiettare che i due conduttori stessero facendo autoironia, vivendo loro a Milano. Si potrebbero ancora sottolineare il registro satirico di Caterpillar e tante altre giustificazioni a quello che Cirri ha definito "odio sociale". Resta il fatto che da febbraio i lombardi vengono additati, e non per scherzo, come untori del Paese. Sono stati segnalati episodi discriminatori nei confronti di milanesi e lombardi in generale, che non sono riusciti a prenotare le vacanze quando ancora si poteva. Perché alimentare questo sentimento? In questo clima così infuocato è facile che qualcuno prenda sul serio certi suggerimenti, tanto più se vengono trasmessi in uno dei principali canali radiofonici del servizio pubblico nazionale. La Rai dovrebbe unire l'Italia, invece di dividerla. Inoltre, in zona rossa con la Lombardia ci sono Piemonte e Val d'Aosta ma, soprattutto, la Calabria. Perché prendere di mira solo i lombardi che ormai sono etichettati come untori e senza ironia? E sorge anche il dubbio che al centro della satira ci fosse stata una qualunque regione del sud, oggi si parlerebbe di più di quanto accaduto sulle frequenze di Rai Radio2.
"Assalti multipli di ceppi diversi". Così il virus ha piegato l'Italia. Lo studio condotto dai ricercatori del Niguarda e dell'Irccs pavese rivela la presenza di due ceppi diversi nella Regione, presenti già da metà gennaio. Francesca Bernasconi, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. "Una pioggia di meteoriti", che ha colpito la Lombardia all'inizio del 2020. Così, il presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, aveva descritto la pandemia di Sars-CoV-2 arrivata in Italia. Una descrizione riferita allo studio (presentato oggi) promosso dalla Fondazione Cariplo e condotto dai ricercatori dell'Asst Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano e dell'Irccs pavese, secondo cui il nuovo coronavirus ha attaccato la Regione con un "assalto multiplo e concentrico". È la fotografia di quanto accaduto dall'inizio dell'anno in Lombardia. Per metterla a fuoco, i ricercatori hanno analizzato le sequenze genomiche virali da circa 350 pazienti, provenienti da aree diverse del territorio regionale. I dati, come spiega il responsabile scientifico dello studio Carlo Federico Perno, "mostrano inequivocabilmente che il virus è entrato in Lombardia prima di quel che si pensasse in origine e, soprattutto, lo ha fatto con assalti multipli e concentrici di ceppi virali diversi, in luoghi diversi, ma in tempi molto vicini tra loro".
In Lombardia già a metà gennaio. Lo studio ha evidenziato la presenza di catene di trasmissione virali già a partire dalla seconda metà di gennaio. "Il punto nodale che emerge dalla nostra ricerca è che abbiamo evidenza chiara del virus Sars-CoV-2 presente in Lombardia in più punti alla metà di gennaio, il che non esclude che fosse presente un pochino prima, ma non dopo", precisa il virologo Carlo Federico Perno. L'analisi comparativa dei genomi virali, derivati dai tamponi effettuati dal 22 febbraio al 4 aprile 2020, ha permesso di identificare l'ingresso del nuovo coronavirus in Lombardia verso la seconda metà di gennaio. Il dato è rafforzato anche dalla valutazione di sieroprevalenza di anticorpi neutralizzanti contro il patogeno, individuati nei donatori di sangue della zona rossa di Lodi che, come riferisce AdnKronos, oltre che a consentire di stimare precisamente la diffusione dell'infezione, ha identificato 5 soggetti sieropositivi nel periodo tra il 12 e il 17 febbraio 2020. Dato che gli anticorpi si sviluppano circa 3-4 settimane dopo l'infezione, questo dato rafforza la convinzione dei ricercatori, secondo cui il nuovo coronavirus era presente in Lombardia già dalla seconda metà di gennaio 2020.
La doppia epidemia. Sono almeno 2 i ceppi di nuovo coronavirus che hanno iniziato a circolare in Lombardia da metà gennaio. E 2 sono le maggiori catene di trasmissione, rilevate a Nord e a Sud della regione. "Quando è stato riscontrato il primo caso a Codogno, in una forma leggermente diversa, lo stesso era già presente nella zona nord (includente Alzano e Nembro)", spiega Fausto Baldanti, responsabile del Laboratorio di virologia molecolare del San Matteo e professore dell'università di Pavia. Secondo quanto emerso dallo studio, la scoperta del virus nel paziente 1 "è tardiva. In realtà il virus già c'era e non solo a Lodi. C'era anche ad Alzano, a Nembro e in varie altre parti della Lombardia". Quando è stato isolato il nuovo coronavirus a Codogno, "ad Alzano già c'era. Osserviamo 2 cluster, 2 ceppi per semplificare, che sono molto simili, ma diversi quanto basta per dire che uno ha infettato il centro nord e un altro ha infettato il sud. Codogno e Alzano-Nembro hanno camminato in parallelo come è successo in altre parti della Lombardia, ma ad Alzano-Nembro ha camminato più rapido". Gli scienziati sono riusciti a identificare due maggiori catene di trasmissione virale, definite A e B: "La catena A, caratterizzata da 131 sequenze, si è diffusa principalmente nel Nord della Lombardia a partire dal 24 gennaio", nei territori di Bergamo, Alzano e Nembro. La catena B, invece, "composta da 211 sequenze, più variabile, ha caratterizzato l'epidemia del Sud della Lombardia almeno a partire dal 27 gennaio, con le province di Lodi e Cremona investite maggiormente". Secondo i ricercatori, "non è possibile escludere che la circolazione silente, multipla e simultanea di ceppi diversi, possa aver esacerbato la già elevatissima trasmissibilità del virus e aver creato così una vera tempesta virale in una regione così densamente popolata, come la Lombardia, rendendo difficili gli interventi di contenimento della diffusione stessa". E, ad oggi, riferisce il virologo Perno, il Sars-CoV-2 "è il virus più infettivo che abbia mai visto e sembra fatto per restare, da un punto di vista biologico". Per questo, "un vaccino efficace è cruciale".
Claudia Guasco per “il Messaggero” l'1 luglio 2020. Tra novembre e gennaio, quando il Covid-19 era una minaccia esotica confinata in Hubei, all'ospedale di Alzano Lombardo sono stati ricoverati 110 pazienti colpiti da polmonite con «agente non specificato». Era il primo attacco del virus, non riconosciuto e sottovalutato? Oppure solo polmoniti anomale, come accade ogni anno? Di certo l'impennata di contagi impressiona: nel 2018 i casi sono stati 196 in tutto, l'anno dopo 256, il 30% in più. I dati, forniti dall'Ats Bergamo e dall'Asst Bergamo Est, sono confluiti nel fascicolo della procura che indaga per epidemia colposa sulla mancata chiusura dell'ospedale di Alzano e sulla zona rossa mai decretata nell'area della bassa Val Seriana. Al centro delle indagini le polmoniti anomale «registrate - secondo i pm - tra dicembre e febbraio». Dalle relazioni firmate dall'assessore regionale Massimo Gallera, dal direttore generale di Ats Bergamo Massimo Giupponi e dal dg dell'ospedale di Alzano Francesco Locati non si evince se quei numeri, che avrebbero potuto far scattare l'allarme pandemia, siano stati comunicati alla Regione già a novembre. Il Covid entra ufficialmente nella bergamasca domenica 23 febbraio, certificato dai tamponi positivi dei primi due pazienti, ma nei mesi precedenti si sono intensificati i ricoveri con diagnosi in codice 486: termine medico per descrivere una «polmonite con agente non specificato». La crescita è netta: 18 malati a novembre, 40 a dicembre quando il picco dovrebbe destare più di un sospetto, altri 52 a gennaio. Il 23 febbraio è il giorno in cui alle cartelle si è aggiunta la voce «polmonite da Sars - coronavirus associato». Nel rapporto di Giupponi si legge che «dal 1 dicembre al 23 febbraio al Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo risultano 145 dimessi con diagnosi comprese tra i diversi codici utilizzati nella classificazione delle malattie di polmonite. La semplice analisi della Scheda di dimissione ospedaliera non permette di poter ascrivere tale diagnosi a casi di infezione misconosciuta da Sars Cov-2». E ora l'Ats precisa che «non sono riscontrabili evidenze statistiche» che facciano sospettare «una presenza precoce di ricoveri per polmoniti» da Covid in provincia di Bergamo nel «dicembre 2019 e a gennaio e febbraio 2020: il trend è coerente con il passato». I magistrati vogliono capire se è davvero così. E fanno anche un passo in più: la diagnosi dei casi di Covid-19 avviene solo tramite tampone e due circolari ministeriali indicano i protocolli da seguire negli ospedali. La prima bozza del 22 gennaio prevedeva controlli in caso di decorso clinico sospetto, dal 27 gennaio questo criterio sparisce e le direttive del Ministero della Sanità impongono il test solo per chi arriva dalla Cina o è stato in contatto con cinesi. «Studi sierologici e lettura a posteriori delle cartelle cliniche confermano la presenza del virus sul territorio già da diversi mesi. I medici hanno fatto il loro dovere. I protocolli erano sbagliati», afferma il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Un attacco al governo. Se su tutti i malati sospetti dal 22 gennaio in poi fosse stato effettuato il tampone e la bergamasca isolata, è l'ipotesi dei pm, forse ora non si piangerebbero 6.000 morti. È questo il momento cruciale della pandemia e secondo il professor Massimo Galli, direttore del reparto di malattie infettive al Sacco di Milano, quell'esplosione di polmoniti all'inizio dell'inverno va presa con le molle. «Il virus cinese arriva in Italia dalla Germania tra il 18 e il 19 gennaio, il focolaio è stato riconosciuto il 22-23 gennaio - spiega - Noi, sulla base di più di 100 sequenze, abbiamo riconfermato che verosimilmente il Covid entra nel nostro Paese attorno al 26 gennaio. Se fosse comparso a novembre, per le caratteristiche violente che ha, avrebbe provocato un disastro già a dicembre».
Isaia invernizzi per ecodibergamo.it il 30 giugno 2020. Nei primi giorni di marzo quante volte le è capitato di pensare a quelle «strane» polmoniti di due mesi prima. «Strane». Le ha definite così Graziella Seghezzi, medico di Albino, che in questi giorni convulsi rispondeva a 150 chiamate al giorno. In Valle Seriana era esploso il coronavirus. Ma nelle settimane che hanno preceduto l’epidemia stava già succedendo qualcosa. «A gennaio tutti noi abbiamo visto bronchiti e polmoniti strane che non rispondevano ai farmaci abituali - ha dichiarato in un’intervista a L’Eco -. A posteriori, credo di poter dire che fossero Covid-19». Altri medici, in valle, avevano avuto il sospetto. Nessuno però poteva sapere che sarebbe finita così, con migliaia di bergamaschi ricoverati in gravi condizioni. O peggio, morti.
La crescita già a dicembre. Eppure i dati per far suonare un primo segnale d’allarme c’erano. Sono stati resi pubblici solo oggi nei documenti che Ats Bergamo e Asst Bergamo Est hanno fornito al consigliere regionale di Azione Niccolò Carretta, autore di una richiesta di accesso agli atti relativi all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano lombardo. Numeri che mostrano con chiarezza l’impennata di polmoniti «sconosciute» già lo scorso dicembre. E ancora più marcata tra gennaio e febbraio prima di domenica 23, giorno in cui il coronavirus è stato individuato ufficialmente in provincia di Bergamo. Prima dei due pazienti scoperti ad Alzano c’erano stati molti ricoveri con diagnosi in codice 486: «polmonite, agente non specificato». Centodieci tra novembre e il 23 febbraio, giorno in cui al conto si è aggiunto la voce «polmonite da Sars- coronavirus associato». Una crescita netta. Dalle 18 di novembre si passa alle 40 di dicembre, più del doppio. E a gennaio se ne aggiungono altre 52. Da marzo in poi i casi si moltiplicano in modo esponenziale. Le polmoniti sconosciute non sono un unicum dell’ultimo inverno. Come si può osservare dagli stessi dati resi noti da Ats, i codici 486 ci sono sempre stati nell’ospedale di Alzano Lombardo. Ma dall’andamento mensile l’anomalia è chiara, così come è chiara dal confronto tra i ricoveri del 2019 e quelli del 2018: 196 polmoniti non riconosciute nel 2018, ben 256 tra gennaio e dicembre 2019. Il 30% in più, a emergenza ancora molto lontana. Ed è bene specificare che questi numeri ufficiali contemplano solo i ricoveri, non i semplici accessi al pronto soccorso (esclusi da questa statistica), né tanto meno le diagnosi di polmonite fatte dai medici. È logico pensare che, con tutti i dati a disposizione, l’allarme sarebbe stato ancor più lampante.
Protocolli rispettati. Nella relazione firmata dal direttore generale di Ats Bergamo Massimo Giupponi si legge che «dall’analisi del flusso SDO relativo al periodo 1 dicembre - 23 febbraio, nel presidio ospedaliero “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo risultano 145 dimessi con diagnosi ricomprese tra i diversi codici utilizzati dal sistema di classificazione delle malattie di polmonite. La maggior parte di queste tuttavia, risultano avere in diagnosi principale il codice 486 “Polmonite agente non specificato”. La semplice analisi della “Scheda di Dimissione Ospedaliera” non consente di poter ascrivere tale diagnosi a casi di infezione misconosciuta da Sars Cov-2». Su questi dati si è posata anche la lente della procura di Bergamo. Sia per indagare sulle procedure messe in atto all’ospedale di Alzano lombardo nei giorni roventi dell’emergenza, sia per ricostruire se e come sono sfuggiti questi casi sospetti. E qui in gioco entra non tanto solo Alzano o la provincia di Bergamo, ma il ministero della Salute. Come è già emerso, i magistrati bergamaschi che indagano per epidemia colposa hanno acquisito le circolari emanate dal ministero con i criteri scelti per procedere con il tampone e quindi individuare i casi di coronavirus. Nelle prime linee guida, pubblicate il 22 gennaio, raccomandavano di considerare un caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica». Un criterio che è stato poi rivisto nella circolare pubblicata il 27 gennaio che ha introdotto una variabile fondamentale: i casi sospetti, oltre ad avere sintomi, devono anche avere «una storia di viaggi nella città di Wuhan (e nella provincia di Hubei), Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia» oppure aver «visitato o ha lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan e/o nella provincia di Hubei, Cina». Oggi è incredibile pensare che i primi casi italiani, anche i due di Alzano lombardo, sono stati individuati contraddicendo le circolari ufficiali. Lo spiega lo stesso direttore di Ats Massimo Giupponi, che spiega come i primi due tamponi siano stati eseguiti «pur in assenza dei parametri definiti dalla Circolare del Ministero della Salute del 27/01/2020 per la definizione di “caso sospetto”». Se fosse stato fatto il tampone a qualcuna delle 110 polmoniti sospette registrate ad Alzano si sarebbe potuto evitare il disastro? Solo la procura potrà dare una risposta.
La replica all'inchiesta. Bergamo, polmoniti sospette già a dicembre: l’Ats smentisce. Redazione su Il Riformista il 30 Giugno 2020. “Gli esiti del lavoro sui ricoveri consentono di affermare con discreta ragionevolezza come non siano riscontrabili evidenze statistiche”. L’ATS (Azienda di Tutela della Salute) Bergamo ha diffuso una nota per smentire una probabile diffusione del coronavirus già a novembre. La procura di Bergamo oggi aveva infatti aperto un’inchiesta in quanto tra novembre 2019 e gennaio 2020 all’ospedale di Alzano Lombardo sarebbero state segnalate 110 polmoniti sospette. Le statistiche però, secondo quanto si legge nel comunicato dell’ATS, non fanno sospettare a “una presenza precoce di ricoveri per polmoniti” da Covid in Provincia di Bergamo nel “dicembre 2019 e nel bimestre gennaio e febbraio 2020” confrontati con il 2017 e 2018 e “si evidenzia inoltre un chiaro effetto di stagionalità in tutti e tre gli anni” precedenti il 2020. “La struttura di Alzano Lombardo mostra un trend coerente” con tale “valutazione”, ha aggiunto l’azienda. La bergamasca è stata per lunghi tratti dell’emergenza coronavirus l’area più colpita della regione più colpita, la Lombardia, dove a causa del virus sono morte 16.644 persone delle oltre 34mila a livello nazionale. Solo nella provincia di Bergamo sono morte circa seimila persone. Domenica 28 giugno, presso il cimitero monumentale di Bergamo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha partecipato a una cerimonia in memoria di tutte le vittime, molte delle quali non avevano avuto possibilità di un ultimo saluto.
L’Iss: «Coronavirus nelle acque di scarico di Milano e Torino già a dicembre». su Il Dubbio il 19 giugno 2020. Lo studio: i campioni prelevati nei depuratori di centri urbani del nord Italia, sono stati utilizzati come “spia” della circolazione del virus nella popolazione. Nelle acque di scarico di Milano e Torino c’erano già tracce del virus Sars-CoV-2 a dicembre 2019. A scoprirlo uno studio in via di pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità realizzato attraverso l’analisi di acque di scarico raccolte in tempi antecedenti al manifestarsi della Covid-19 in Italia. I campioni prelevati nei depuratori di centri urbani del nord Italia, sono stati utilizzati come “spia” della circolazione del virus nella popolazione. «Dal 2007 con il mio gruppo portiamo avanti attività di ricerca in virologia ambientale e raccogliamo e analizziamo campioni di acque reflue prelevati all’ingresso di impianti di depurazione», spiega Giuseppina La Rosa, del Reparto di Qualità dell’Acqua e Salute del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha condotto lo studio in collaborazione con Elisabetta Suffredini del Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria. «Lo studio – prosegue La Rosa – ha preso in esame 40 campioni di acqua reflua raccolti da ottobre 2019 a febbraio 2020, e 24 campioni di controllo per i quali la data di prelievo (settembre 2018 – giugno 2019) consentiva di escludere con certezza la presenza del virus. I risultati, confermati nei due diversi laboratori con due differenti metodiche, hanno evidenziato presenza di Rna di Sars-CoV-2 nei campioni prelevati a Milano e Torino il 18/12/2019 e a Bologna il 29/01/2020. Nelle stesse città sono stati trovati campioni positivi anche nei mesi successivi di gennaio e febbraio 2020, mentre i campioni di ottobre e novembre 2019, come pure tutti i campioni di controllo, hanno dato esiti negativi». Questa ricerca può contribuire a comprendere l’inizio della circolazione del virus in Italia e fornisce informazioni coerenti rispetto ad altri risultati ottenuti dall’analisi retrospettiva su campioni di pazienti ospedalizzati in Francia, che identificavano un positivo al Sars-CoV-2 in un campione respiratorio, quindi clinico, risalente alla fine di dicembre 2019, e ad un recente lavoro spagnolo che ha rinvenuto Rna di Sars-CoV-2 in campioni di acque reflue raccolte nella metà di gennaio a Barcellona, circa 40 giorni prima della notifica del primo caso autoctono». «I nostri risultati – sottolinea Luca Lucentini, direttore del Reparto Qualità dell’Acqua e Salute – confermano le evidenze consolidate ormai a livello internazionale sulla funzione strategica del monitoraggio del virus in campioni prelevati regolarmente nelle fognature e in ingresso agli impianti di depurazione, come strumento in grado di individuare precocemente e monitorare la circolazione del virus nei diversi territori, supportando le fondamentali informazioni della sorveglianza integrata, microbiologica ed epidemiologica. Bisogna evidenziare che il ritrovamento del virus non implica automaticamente che le catene di trasmissione principali che hanno portato poi allo sviluppo dell’epidemia nel nostro paese si siano originate proprio da questi primi casi, ma, in prospettiva, una rete di sorveglianza sul territorio può rivelarsi preziosa per controllare l’epidemia. Attraverso l’attività condotta nei nostri laboratori, si sta sviluppando una rete di sorveglianza ambientale che può già contare sulla disponibilità e affidabilità di strutture sanitarie e ambientali di eccellenza a livello regionale e sull’apporto fondamentale e la collaborazione dei gestori idrici che possono ancor più contribuirne ad uno sviluppo capillare e tempestivo». «Passando dalla ricerca alla sorveglianza – va avanti Lucentini – sarà indispensabile arrivare ad una standardizzazione dei metodi e dei campionamenti poiché sulla positività dei campioni incidono molte variabili quali per esempio il periodo di campionamento, eventuali precipitazioni metereologiche, l’emissione di reflui da attività industriali che possono influire sui risultati di attività ad oggi condotte da diversi gruppi. Lavoriamo per dare al paese una rete di sorveglianza insieme ad Arpa e ad Ispra». «In questo senso – conclude Lucia Bonadonna, direttrice del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità – abbiamo presentato una proposta di azione al Ministero della Salute per l’avvio di una rete di sorveglianza su Sars-CoV-2 in reflui, e già nel luglio prossimo avvieremo uno studio pilota su siti prioritari individuati in località turistiche. Sulla base dei risultati dello studio pilota, contiamo di essere pronti per la sorveglianza sull’intero territorio nazionale nei periodi potenzialmente più critici del prossimo autunno».
Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 28 giugno 2020. Scandisce le parole con il tono di chi ha visto le cose e ne è rimasto impressionato. «Tra febbraio e marzo ho fatto 3mila e 700 chilometri. Ho preso imprenditori della Val Seriana di ritorno dalla Cina e li ho accompagnati dall'aeroporto a casa. Arrivavano a Orio al Serio, Linate, Malpensa. Quando, con il lockdown, gli aeroporti hanno chiuso, sono andato a recuperare i clienti in Svizzera - a Zurigo, o a Lugano per i jet privati - e a Nizza. Perché tanti clienti di rientro hanno dovuto volare su questi scali. Poi macchina fino a Bergamo». Si ferma un attimo. Aggiunge: «Mi chiedevo - visto che presto si è capito che il coronavirus girava nella Bergamasca ben prima del 21 febbraio e che le aziende della Val Seriana hanno rapporti stretti con la Cina - perché queste persone, che tornavano da Pechino, Shanghai, Wuhan, Shenzhen, non venissero messe in quarantena. La stessa domanda se la sono fatta anche i miei colleghi». M.C. è un autista privato: un Ncc. Fa questo mestiere da 30 anni. Ha un van da sette posti («Adesso, con il distanziamento, sono diventati quattro») e una berlina. Ma usa quasi sempre il primo. «La mia media è di 12 mila chilometri l'anno. L'80% del lavoro è sugli aeroporti. Tra i miei clienti fissi: imprenditori, uomini d'affari, dirigenti, personaggi pubblici. Anche famiglie e persone sole che vogliono essere accompagnate nelle seconde case». Il driver ha osservato e assistito alla strage orobica del Covid 19 (6mila morti, di cui 670 in città, ndr) da una prospettiva particolare: il suo posto di guida. «Non abbiamo mai smesso di lavorare». Già. Perché dalla chiusura decisa dal governo e entrata in vigore il 10 marzo era esentato anche il trasporto pubblico non di linea, taxi e Ncc. M.C. accetta di raccontare a Repubblica il suo lavoro di febbraio e di marzo: i due mesi durante i quali la falce del virus, nella Wuhan italiana con epicentro la Val Seriana, ha colpito più duro. «Le aziende hanno continuato a lavorare fino al blocco delle attività non essenziali. Alcune hanno iniziato a rallentare già prima. Però per tutto febbraio ho trasportato clienti business. Tanti di ritorno dall'Oriente. Via Francoforte, Berlino, Monaco, Londra. Imprenditori della Val Seriana e che in valle abitano anche». Gli ultimi dieci giorni di febbraio sono quelli che decidono i giochi sulla roulette del Covid 19: nella provincia di Bergamo i contagi s' impennano, a partire proprio da Alzano e Nembro, i due paesi che tra il 5 e l'8 marzo il governo era pronto a cinturare ma poi non se n'è più fatto nulla. «Ho iniziato a prendere precauzioni: sanificazione dell'auto, niente strette di mano, distanza per quanto possibile». Lo stupore dell'autista - per come lo descrive ora - non era solo riferito ai mancati "filtri" su imprenditori e uomini d'affari di rientro dalle aree da dove il coronavirus è partito. «Ho visto tantissimi studenti, Erasmus e non, che atterravano a Orio al Serio, accolti dalle famiglie al completo. Mamme, papà, fratelli, nonni. Baci e abbracci e zero controlli». Siamo ancora a febbraio. «Ho fatto 3mila chilometri in un mese». Il 12 marzo il governo chiude 23 aeroporti italiani. Come cambia, a quel punto, il lavoro degli Ncc che caricano clienti per 90 centesimi a chilometro? «Nizza, Zurigo, Lugano. Molti si sono fatti venire a prendere lì. Anche al confine. Un'auto dall'aeroporto. Un'altra, la mia, dal confine. Hanno rivisto i piani di viaggio in base a divieti e chiusure». Quanto hanno contribuito questi "ritorni" non mappati - un combinato aereo-auto Ncc - a diffondere il virus a febbraio nelle valli bergamasche? E che succede quando i contagi impazzano? Sono alcune delle domande a cui l'inchiesta aperta dalla procura di Bergamo dovrà trovare delle risposte. Mancata zona rossa, caos Rsa, la vicenda dell'ospedale di Alzano Lombardo. «A marzo - racconta M.C., che è stato convocato dagli inquirenti, sono già decine i lavoratori che hanno consegnato lo loro testimonianza per aiutare a far luce - ho iniziato ad accompagnare anche clienti Covid a Milano per fare esami». Anche qualche imprenditore di febbraio? «Può darsi». Il van scuro oggi ha una parete di plexiglass che separa l'autista dai clienti. «Sono stato tra i primi a mettere il sanificatore ad ozono. Il lavoro, con la crisi post covid, si è ridotto moltissimo. Oggi è il 5%. Ma se penso a chi non c'è più, ai loro familiari, e a cosa hanno passato i medici e gli infermieri, mi ritengo fortunato».
L’autista degli imprenditori di Bergamo che tornavano da Wuhan senza controlli. Next Quotidiano il 28/6/2020. L’uomo è stato sentito dalla procura di Bergamo. E ha raccontato di aver portato a casa tantissime persone che arrivavano da zone a rischio senza controlli: «Ho iniziato ad accompagnare anche clienti Covid a Milano per fare esami». Paolo Berizzi racconta oggi su Repubblica la storia di un autista di Noleggio con conducente (NCC) chiamato solo con le iniziali M. C. che racconta il suo lavoro di febbraio e di marzo: i due mesi durante i quali la falce del virus, nella Wuhan italiana con epicentro la Val Seriana, ha colpito più duro. L’uomo è stato sentito dalla procura di Bergamo. «Tra febbraio e marzo ho fatto 3mila e 700 chilometri. Ho preso imprenditori della Val Seriana di ritorno dalla Cina e li ho accompagnati dall’aeroporto a casa. Arrivavano a Orio al Serio, Linate, Malpensa. Quando, con il lockdown, gli aeroporti hanno chiuso, sono andato a recuperare i clienti in Svizzera — a Zurigo, o a Lugano per i jet privati — e a Nizza. Perché tanti clienti di rientro hanno dovuto volare su questi scali. Poi macchina fino a Bergamo». Si ferma un attimo. Aggiunge: «Mi chiedevo — visto che presto si è capito che il coronavirus girava nella Bergamasca ben prima del 21 febbraio e che le aziende della Val Seriana hanno rapporti stretti con la Cina — perché queste persone, che tornavano da Pechino, Shanghai, Wuhan, Shenzhen, non venissero messe in quarantena. La stessa domanda se la sono fatta anche i miei colleghi». Il driver ha osservato e assistito alla strage orobica del Covid 19 (6mila morti, di cui 670 in città, ndr) da una prospettiva particolare: il suo posto di guida. «Non abbiamo mai smesso di lavorare». Già. Perché dalla chiusura decisa dal governo e entrata in vigore il 10 marzo era esentato anche il trasporto pubblico non di linea, taxi e Ncc. Lo stupore dell’autista — per come lo descrive ora — non era solo riferito ai mancati “filtri” su imprenditori e uomini d’affari di rientro dalle aree da dove il coronavirus è partito. «Ho visto tantissimi studenti, Erasmus e non, che atterravano a Orio al Serio, accolti dalle famiglie al completo. Mamme, papà, fratelli, nonni. Baci e abbracci e zero controlli». Siamo ancora a febbraio. «Ho fatto 3mila chilometri in un mese». Il 12 marzo il governo chiude 23 aeroporti italiani. Come cambia, a quel punto, il lavoro degli Ncc che caricano clienti per 90 centesimi a chilometro? «Nizza, Zurigo, Lugano. Molti si sono fatti venire a prendere lì. Anche al confine. Un’auto dall’aeroporto. Un’altra, la mia, dal confine. Hanno rivisto i piani di viaggio in base a divieti e chiusure». Quanto hanno contribuito questi “ritorni” non mappati — un combinato aereo-auto Ncc — a diffondere il virus a febbraio nelle valli bergamasche? E che succede quando i contagi impazzano?
Prima del paziente 1: “Ricoverato il 2 febbraio a Lodi: avevo il coronavirus?” Le Iene News il 28 maggio 2020. Xhoni Mustafaraj, calciatore professionista di 18 anni che vive a 15 chilometri da Codogno, ci ha contattato per raccontarci la sua storia. Con febbre alta, difficoltà a respirare, perdita di gusto e olfatto è stato ricoverato il 2 febbraio a Lodi, rimanendo per due settimane con la maschera di ossigeno in terapia intensiva. La settimana scorsa ha fatto il test sierologico: ha sviluppato gli anticorpi al Covid. Si parla sempre più spesso, analisi epidemiologiche alla mano, del fatto che ci potrebbero essere stati già casi di coronavirus in particolare nella “zona rossa” in Lombardia prima del paziente 1, Mattia, che il 21 febbraio a Codogno (Lodi) ha segnato l’inizio dell’epidemia in Italia. Xhoni Mustafaraj, 18 anni, ricoverato venti giorni prima, il 2 febbraio a Lodi, con febbre alta, difficoltà a respirare e perdita di gusto e olfatto e rimasto per due settimane in terapia intensiva (foto sopra) può essere uno di questi? Può avere contagiato qualcuno visto che per lui non sarebbero state applicate le procedure anti Covid dato che la pandemia in Italia non era ancora iniziata, almeno ufficialmente e lui non aveva avuto contatti con persone provenienti dalla Cina? Sono i suoi dubbi, per questo ci ha contattato, “per essere utile”. Xhoni o “Johnny”, come si pronuncia il suo nome in albanese secondo le origini dei genitori, ci ha contatto dopo che il 20 maggio proprio per questi dubbi si è sottoposto al test sierologico ed è risultato che non ha il Covid ora ma che in passato ha sviluppato gli anticorpi. Insomma avrebbe avuto la malattia, anche se il test sierologico non dà ancora certezze assolute. Vive a San Martino in Strada a 15 chilometri da Codogno con i genitori che hanno un ristorante, studia e fa il calciatore professionista nella Pergolettese in serie C.
Cosa è successo Xhoni?
“Già il giorno prima non mi sentivo benissimo. Era sabato primo febbraio: ho giocato e fatto anche un goal, dopo però ho iniziato a sentirmi male, avevo 38 e mezzo di febbre, soprattutto facevo fatica a respirare e non ce la facevo a muovermi. I miei genitori mi sono venuti a prendere, mi hanno portato letteralmente in braccio a letto e poi hanno chiamato il 118, mi hanno ricoverato nella notte”.
All’ospedale com’è andata?
“In ambulanza mi hanno messo una mascherina, ma nessuno pensava ancora al coronavirus. Solo un infermiere una volta ha chiesto a un altro: ‘Ma quali sono i protocolli per il Covid?’. Avevo alcuni valori del sangue sballati e non respiravo bene: mi hanno ricoverato per due settimane in terapia intensiva con la maschera per l’ossigeno. Sono rimasto cosciente ma stavo malissimo. Avevo perso anche il gusto e l’olfatto”.
Poi?
“In terapia intensiva sono venuti a trovarmi amici e parenti, potevano entrare senza mascherina. Dopo sono stato altre due settimane in reparto, in una stanza da solo. Non vorrei aver contagiato qualcuno e spero che il mio racconto possa essere utile. Mi hanno dimesso il 26 febbraio, la diagnosi era rabdomiolisi (dovuta alla rottura di alcune cellule muscolari e al loro rilascio nel sangue, ndr).
Non ti hanno fatto un tampone?
“No, ormai l’emergenza era esplosa, lo capisco. Ci ho messo due mei a riprendermi, ero spossato. Mio padre ha accusato sintomi simili con febbre alta e gli hanno detto al telefono di stare almeno due settimane a casa. Anche per questo voglio capire se ho avuto il coronavirus”.
Quando hai fatto il test sierologico?
“Il 2o maggio. Risulta che non ho il Covid ma che ho sviluppato gli anticorpi, quindi l’avrei avuto. Devo fare anche il tampone per sicurezza. Ho mandato l’esame anche all’ospedale di Lodi, che mi ha confermato la presenza degli anticorpi: hanno detto che mi daranno una risposta”.
"Il focolaio non era Codogno" Le rivelazioni sulle zona rosse. Codogno, Cremona e la Val Seriana. Il retroscena sulle chiusure mancate. E quei sintomi molto tempo prima del paziente 1. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Non è partito tutto da Codogno. Non è esploso a fine febbraio. E chissà se le "zone rosse" avrebbero cambiato il corso degli eventi. La storia dell’epidemia da coronavirus in Italia è tutta da scrivere, e molti capitoli restano ancora oscuri. Ma quel che ormai appare chiaro è che le convinzioni sin qui radicate, sia sull’evoluzione temporale del contagio che sui luoghi colpiti dal coronavirus, sono probabilmente da rivedere. Se ci basiamo infatti sui dati ufficiali riportati dalla Protezione Civile, la storia dell’epidemia italiana sembra avere una data di inizio (il 20 febbraio) e un luogo preciso (Codogno). È la cronaca che tutti conosciamo e che abbiamo osservato ogni giorno seguendo le (inutili) dirette del commissario Angelo Borrelli. Eppure esiste un prequel oscuro che ci costringe a volgere lo sguardo più indietro. Nello studio intitolato "The early phase of the Covid-19 outbreak in Lombardy, Italy", un gruppo di scienziati ha studiato i "primi 5.830 casi confermati in laboratorio" in Lombardia e ha scoperto che "l'epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020". "Al momento del rilevamento del primo caso Covid-19 - si legge - l'epidemia si era già diffusa nella maggior parte dei comuni del sud-Lombardia". Gli analisti hanno chiesto alle persone sottoposte a tampone e positive al coronavirus di provare a ricordare quando erano sorti i primi sintomi e i risultati sono sorprendenti. Non solo l'epidemia era "in corso prima dell'identificazione del paziente 1", ma addirittura il primo caso di coronavius è del 1 gennaio 2020, un mese e mezzo prima l'esplosione del focolaio a Codogno. A dire il vero, i test sierologici di questi giorni stanno spostando la lancetta addirittura all'ultima decade dello scorso anno. Quel che è certo, comunque, è che tra il 24 gennaio e l'inizio di febbraio in Italia comparivano numeri sempre più consistenti di persone con sintomatologia da Covid-19. Tanto che, quando il 20 febbraio l’Italia scopre il caso nel Lodigiano, circa 1.200 di persone soffrivano già tutti i sintomi da infezione da coronavirus.
Data di insorgenza dei sintomi nei primi casi positivi. È da qui che occorre partire per valutare le scelte del governo in quei primi drammatici giorni e capire se i vari lockdown sono stati tempestivi oppure no. La prima decisione è quella di blindare dieci Comuni nel Lodigiano (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia e Terranova dei Passerini) e Vo' Euganeo in Veneto. La speranza è di contenere l'infezione e di circoscrivere i contagi, ma in poche ore comincia ad apparire evidente che bisogna fare qualcosa in più. "Noi avevamo chiaro che il problema si stava diffondendo anche oltre Codogno - racconta una fonte nella task force lombarda - e in sede tecnica avevamo fatto tantissime ipotesi su come agire". All'inizio, come il Giornale.it è in grado di ricostruire, si pensa di allargare le zone rosse nel Lodigiano. "Avevamo pensato di includere tutti i Comuni che avevano avuto almeno due casi, poi quelli confinanti, in modo da creare una corona un po' più ampia. Questa ipotesi però è stata scartata quando le inchieste sul paziente 1 hanno evidenziato che l'infezione si era ormai propagata e iniziavano ad emergere i primi casi a Bergamo". In quel momento gli epidemiologi ancora non lo sanno, ma in Val Seriana, a Cremona e a Piacenza i contagi si stavano già moltiplicando da giorni. Senza che nessuno se ne accorgesse. Gli studiosi lo capiranno solo diverse settimane dopo, quando le analisi dimostreranno che Codogno non sarebbe neppure il luogo d'inizio della tragedia. Andando a ritroso, la task force lombarda ha infatti scoperto che i primi segnali dell'epidemia sarebbero sorti ad Arese e a Conegliano Laudense, due Comuni di 20mila e 3mila abitanti. E solo in un secondo momento l'infezione si sarebbe allargata alle zone del Lodigiano (il 24 gennaio), di Bergamo e di Cremona (il 31 gennaio). "Se il focolaio fosse stato Codogno - dice la fonte - penso che saremmo riusciti a bloccarlo. Invece una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei giorni lo era un po' meno, è che la nostra velocità di analisi della catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus". Quello che molti si chiedono è perché, una volta appurato che l'infezione era ormai sfuggita dalla cittadella lodigiana, non si sia deciso di chiudere anche le altre aree più colpite (Bergamo, la Val Seriana o Brescia) non appena queste si "accendevano" come nuovi focolai. La successione degli eventi è ormai nota: la Lombardia chiede a Roma di istituire nuove zone rosse, il governo chiede lumi al comitato tecnico scientifico e poi temporeggia. Il 2 marzo, come rivelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità consiglia a Conte di estendere la serrata ai comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e a quello bresciano di Orzinuovi. Ma Palazzo Chigi non si muove. Perché? Difficile dirlo. Sono ore convulse. Anche gli epidemiologi navigano a vista. Quel che è certo è che la decisione andava presa nell'immediato. Tanto che dopo pochi giorni di attesa (tra il 27 febbraio e l'8 marzo), gli esperti iniziano a capire che è già troppo tardi e che l'unica soluzione è chiudere l'intera Lombardia. "Quando è venuto il ministro speranza a Milano (il 4 marzo, ndr), la relazione della task foce già affermava che le zone rosse probabilmente non avevano più senso e che ormai bisognava fermare tutto". Quattro giorni dopo arriverà il Dpcm che chiuderà l'intera Lombardia e altre 14 province del Nord. I tentennamenti di quelle due settimane hanno avuto effetti nefasti, permettendo al virus di insinuarsi nei treni stipati di pendolari, nei pronto soccorso degli ospedali affollati da pazienti in crisi respiratoria convinti di avere una "banale influenza", negli uffici e nelle residenze per anziani. "Sulle zone rosse - dice la fonte nella task force - penso che se anche l'avessimo realizzata non credo che avremmo ottenuto risultati sul contenimento dell'infezione. Ma sicuramente avrebbe permesso di spegnere quei focolai un po' più in fretta, come successo a Codogno. Forse se io e i miei colleghi fossimo stati più convincenti, magari avremmo anticipato anche solo di 3 o 4 giorni la decisione del governo e forse avremmo limitato i danni".
Paolo Mastrolilli per “la Stampa” l'8 maggio 2020. La Camera dei deputati americani punta il dito contro l’Italia. Ci accusa di non aver fatto, o non aver fatto bene, i controlli che avevamo promesso sui passeggeri in partenza verso gli Usa, quando all’inizio di marzo l’epidemia di coronavirus stava esplodendo. Così ci mette in imbarazzo davanti al mondo, ci rimprovera di aver contribuito a diffondere la malattia in America, e rischia di provocare il risentimento del presidente Trump, che si era fidato del nostro governo, e in base all’impegno preso non aveva bloccato i voli da Roma e Milano. La storia comincia alla fine di febbraio, quando davanti al drammatico aumento dei contagi, Washington considera di estendere all’Europa lo stop del traffico aereo già decretato il 31 gennaio per la Cina. Il primo marzo l’ambasciata di Via Veneto discute con le autorità italiane le alternative, puntando sull’idea che noi potremmo garantire gli screening sui passeggeri in partenza, evitando che i malati raggiungano gli Usa. In cambio dei controlli, loro lascerebbero aperto il traffico aereo. Il 2 marzo l’intesa viene suggellata con una telefonata tra il segretario di Stato Pompeo e il ministro degli Esteri Di Maio, e il giorno dopo il vice presidente Pence annuncia che le verifiche sono già attive sul 100% dei viaggiatori in decollo da Fiumicino e Malpensa. Il ministero della Salute sostiene in realtà di aver dato l’ordine di avviare gli screening il 4 marzo, contraddicendo Pence. Questa sui tempi precisi dell’attuazione è un’altra storia da indagare, ma non rappresenta il focus dell’inchiesta congressuale, che invece si concentra sulle modalità dei controlli, aldilà del fatto che siano partiti in tempo o in ritardo. Le cose infatti non funzionano, e l’11 marzo Trump ordina il blocco dei voli dall’Italia, lasciando aperto solo un collegamento fra Roma e New York per i cittadini che vogliono rientrare nei rispettivi Paesi, ora sospeso dall’Alitalia per mancanza di passeggeri.
Le testimonianze giurate. Tutto nasce da alcune denunce ricevute dal Committee on Oversight and Reform, in particolare il presidente del Subcommittee on Economic and Consumer Policy Raja Krishnamoorthi, diventate nel frattempo testimonianze giurate. Chelsea Connelly, ad esempio, scrive: «Sono candidata al Ph.D. in Storia dell’Arte all’università di Yale, e sono rientrata di recente da un viaggio di ricerca in Italia. In origine il mio itinerario durava oltre tre settimane, durante cui intendevo visitare musei, biblioteche e chiese a Milano, Venezia, Ravenna, Firenze, Roma e Napoli». Chelsea racconta di essere atterrata a Malpensa il 24 febbraio, proveniente da Lisbona, proprio mentre i casi raddoppiavano ogni giorno: «All’arrivo mi hanno misurato la temperatura e lasciato entrare. Ho preso un treno per la stazione, dove è seguito il caos più completo». La studentessa spiega che il suo treno per Ravenna era stato cancellato, e quindi aveva preso quello per Roma, sperando di cambiare a Bologna. Alla fine però tutti i piani saltano. Gli spostamenti diventano impossibili, e quindi Chelsea va a Roma con l’obiettivo di rientrare: «Il 4 marzo ricevo una mail dall’ambasciata, che dice che “tutti i passeggeri diretti negli Usa la cui temperatura è più alta di 99.5 gradi Fahrenheit non sono ammessi a bordo”. Il 5 marzo, indossando una mascherina, lascio l’hotel e prendo il treno per Fiumicino. L’aeroporto è piuttosto vuoto, ma non ricevo alcun controllo del passaporto, domande, o misurazione della temperatura. Non vedo neppure un’area dedicata agli screening». Forse ciò dipende dal fatto che Chelsea non vola direttamente negli Usa, ma parte per il Portogallo, Paese membro di Shengen dove le verifiche sono più rilassate. Poi però racconta che a Lisbona incontra un altro passeggero americano, proveniente da Roma come lei: «Mi dice che non si sente bene, e allora mi allontano». Una producer di Vice News racconta una storia diversa: «Il 2 marzo sono andata in Lombardia per seguire l’epidemia di coronavirus. Sono rientrata il 5 marzo, via Roma. Nel volo interno da Malpensa a Fiumicino non sono passata attraverso controlli di sicurezza aggiuntivi. Però a Roma, i passeggeri sul mio volo per New York hanno dovuto riempire un formulario. L’ho consegnato con la mia carta d’imbarco. Subito dopo, gli agenti mi hanno fatta fermare per un paio di secondi, prima di procedere verso l’aereo». La producer suppone che in quel momento le abbiano fatto un controllo della temperatura a distanza, ma non ne è sicura. Un altro passeggero racconta di essere partito il 3 marzo dall’aeroporto di Peretola, per tornare negli Usa via Lisbona: «Non mi è stata posta alcuna domanda riguardo la mia salute e miei viaggi, e non mi hanno misurato la temperatura».
Il rapporto finale. Sulla base di queste testimonianze, il 19 marzo Krishnamoorthi apre l’inchiesta, di cui La Stampa ha ricevuto in esclusiva per l’Italia tutti i documenti. Scrive una lettera al segretario di Stato Pompeo, al Commissioner della Customs and Border Protection Mark Morgan, e al direttore dei Centers for Disease Control and Prevent Robert Redfield, chiedendo chiarimenti: «Purtroppo abbiamo ottenuto rapporti sulle carenze degli screening. Abbiamo ricevuto lettere da cinque cittadini che sollevano serie preoccupazioni, e riportano di non essere stati sottoposti ad alcun controllo rientrando dall’Italia e dalla Corea del Sud». Krishnamoorthi chiede di essere contattato entro il 23 marzo. Il dipartimento di Stato risponde alle 10 e 3 minuti del 4 maggio, con una lunga mail che scende nei dettagli. Il 7, cioé ieri, la commissione pubblica i risultati dell’inchiesta: «L’indagine ha rivelato un’altra opportunità persa dall’amministrazione per mitigare l’impatto del coronavirus». Quindi aggiunge: «La decisione di affidarsi all’Italia e la Corea del Sud per condurre gli screening è stata presa al livello dei Policy Coordination Committees del Consiglio per la sicurezza nazionale», ossia dalla Casa Bianca. Ma è stato un errore: «Italiani e sudcoreani non hanno praticamente fermato alcun passeggero che volava verso gli Usa. In base alle risposte del dipartimento di Stato, «gli italiani hanno bloccato 13 viaggiatori. Il 5 marzo quattro passeggeri sono stati fermati a Fiumicino, e il 9 marzo altri nove sempre a Roma. Nessun passeggero è stato bloccato a Malpensa», nonostante allora Milano fosse l’epicentro globale della pandemia. La Corea del Sud ha fatto poco meglio, fermando 56 viaggiatori. I Centers for Disease Control ammettono che dal 3 al 14 marzo, quando l’amministrazione si era affidata all’Italia per gli screening, non sapevano come il governo italiano conducesse i controlli e non aveva personale sul terreno per osservarli. L’ambasciata di Via Veneto e il consolato di Milano confermano di aver seguito le operazioni sul posto e telefonando, ma «il dipartimento di Stato non ha conservato i record di queste supervisioni». Il rapporto poi denuncia che le persone in arrivo da Italia e Corea del Sud non sono state controllate neanche all’arrivo negli Usa. Quindi sottolinea che tra il 17 gennaio e il 29 marzo, circa 250.000 passeggeri sono atterrati negli Usa da paesi sottoposti alle restrizioni di viaggio, ma meno di 1.500 sono stati riportati ai CDC per fare screening. Se si considera che ormai gli scienziati hanno appurato come il ceppo di Covid-19 che ha contaminato New York non sia venuto dalla Cina, ma dall’Europa, si capisce la gravità del potenziale ruolo avuto anche dall’Italia nella diffusione della malattia.
Casa Bianca sotto accusa. L’Oversight Committee è guidato dai democratici, che hanno l’obiettivo politico di colpire l’amministrazione Usa, non Roma. Il nostro governo però fa la figura di essere inaffidabile, e ciò rischia di urtare Trump, perché si è fidato di noi, e per questo ora viene colpito dai suoi avversari.
Anticipazione da “Oggi” il 15 aprile 2020. «Il virus era già arrivato fra noi prima di Natale. Non l’abbiamo capito. E non potevamo neppure sospettarlo perché allora, dicembre 2019, dalla Cina non c’era stato ancora un allarme e neanche una segnalazione. Eppure loro, i cinesi, sapevano, perché a metà novembre avevano avuto proprio a Wuhan già 266 persone infettate. Lo ammettono solo adesso, cinque mesi dopo». Così Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico di ricerca Mario Negri, al settimanale OGGI, in edicola da domani. Aggiunge lo scienziato: «Noi sappiamo che fra novembre e dicembre 2019 fra la Cina, in particolare la zona di Wuhan, e la Bergamasca si sono spostate, in andata e ritorno diciamo così, almeno 30 mila persone. Alzano e Nembro sono capitali industriali con contatti da ogni parte del mondo. E ora, dopo le rivelazioni dei nostri medici, i cinesi sostengono che il Coronavirus non è esploso a Wuhan ma è arrivato in Cina dalla Bergamasca. Gli untori saremmo noi! Una stupidaggine assoluta perché il genoma del virus parla chiaro».
Decessi in Lombardia, cresce il sospetto che il coronavirus Covid-19 ci fosse già in autunno. Michelangelo Bonessa il 24 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pompe funebri, medici e professori universitari. Tutti hanno in comune il sospetto che il Covid19 sia arrivato in Italia prima del 2020. E soprattutto in Lombardia. «Non ho mai lavorato così tanto come lo scorso autunno» afferma Stefano Turati, titolare di una storica aziende di pompe funebri milanese, a proposito dell’ultimo trimestre 2019: nei mesi da settembre a dicembre la sua impresa ha letteralmente raddoppiato i ritmi di lavoro. Un incremento mai registrato con questi numeri e per un periodo così lungo che gli ha suscitato il dubbio che il problema potesse risalire a prima dell’allarme Coronavirus. Allo stesso tempo secondo l’agenzia Reuters anche alcuni ricercatori italiani stanno indagando per capire se il numero insolitamente alto di casi di grave polmonite e influenza registrati in Lombardia nell’ultimo trimestre del 2019 possa indicare che il nuovo coronavirus fosse arrivato dalla Cina prima di quanto originariamente pensato. Brescia, Mantova, Crema, Gera D’Adda e altri comuni hanno infatti registrato picchi di polmoniti inusuali già l’anno scorso. Adriano Decarli, epidemiologo dell’università Statale di Milano, ha detto a Reuters di non poter fornire dati esatti, ma negli ultimi tre mesi del 2019 sono stati registrati “centinaia” di ricoveri in ospedale in più rispetto alla norma nelle due città, due dei maggiori focolai dell’epidemia in Lombardia. I ricoverati mostravano sintomi compatibili con polmonite e influenza. I ricercatori – ha spiegato Decarli – stanno controllando i registri ospedalieri e altri dettagli clinici di quei casi, includendo anche persone morte poi nelle loro case, per cercare di comprendere se l’epidemia di coronavirus si era già diffusa allora in Italia. Un’indagine che sarà lunga vista l’emergenza in corso e i cui risultati arriveranno forse prima del vaccino. Intanto anche dalle zone colpite alcuni casi particolari erano stati segnalati anche dai medici di base, come confermato da Mirko Tassinari, responsabile per Bergamo della Federazione italiana medici di famiglia. Alcuni suoi colleghi avevano segnalato infatti casi di polmoniti fuori dall’ordinario. «Da medico – precisa Tassinari – dico però che mi sembra strano che si possano ricongiungere i due fenomeni: la virulenza dimostrata dal Covid19 quando sono esplosi i focolai di Codogno e Bergamo è stata molto più alta, forse, ma non sono un esperto del tema, c’è stata una mutazione del virus». Anche alcune prime rilevazioni sembrano ricondurre la maggior parte dei focolai, compresi quelli nella zona di Brescia e Mantova, a un genere diverso di polmonite causata spesso dal batterio della Legionella, ma da Regione e altri enti territoriali non risultano al momento indagini epidemiologiche complete. Dubbi e sospetti si sommano in un momento in cui anche sui dati ufficiali dell’epidemia in pochi riescono a vederci chiaro. Il fatto poi che i primi contagi e focolai mondiali noti siano quelli cinesi non aiuta perché la Cina non gode di grande fama a livello internazionale. L’unica soluzione potrebbe essere effettuare una serie di analisi sugli scomparsi di quel periodo, come suggerito da altri esperti internazionali: Paul Hunter, professore di medicina all’Università di East Anglia nel Regno Unito, ha detto che a meno che gli scienziati italiani non ottengano risultati positivi dai campioni presi e conservati allora, l’ipotesi non dovrebbe essere considerata perché al momento pare improbabile. Un dubbio che potrebbe essere risolto con delle analisi che però non si sa se si riuscirebbero a svolgere ora: la Lombardia già non riesce a uscire del tutto dalla fase emergenziale e ancora in tantissimi lamentano di non aver potuto ottenere un tampone, nonostante i sintomi da Covid19. L’unico metodo sicuro è rivolgersi alla sanità privata che al prezzo di 120 euro fornisce rapidamente e a chiunque il tampone, però in periodo di non lavoro sono pochi quelli che possono pagare quella cifra. I tempi per un’analisi sui casi sospetti dell’autunno sembrano dunque destinati a dilatarsi.
Coronavirus e bambini, quelle polmoniti sospette a Milano a gennaio: «Forse è stato l’inizio». La ricerca all’ospedale pediatrico Buzzi per capire se il virus si è diffuso prima tra i pazienti più piccoli. I dottori: tanti i quadri clinici che non ci spiegavamo. Zuccotti: «Penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica». Sara Bettoni il 29 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Le tracce iniziali del Covid-19 in Lombardia risalgono forse ai primi di gennaio. Sono diversi gli studi che supportano l’analisi fatta dalla Regione e pubblicata ieri dal Corriere, in cui si contano 1.200 lombardi che hanno accusato sintomi da coronavirus prima del 21 febbraio (quando è stato identificato il primo caso a Codogno). Il virus circolava già. Forse anche tra i bambini. Più di un pediatra a Milano ha visto polmoniti insolite a gennaio e ora l’ospedale dei Bambini «Buzzi» cercherà gli «indizi» per capire se il Covid si sia diffuso prima tra i pazienti in età pediatrica. In uno studio in fase di pubblicazione gli esperti della task force lombarda identificano una fase iniziale dell’epidemia che va dal 1° gennaio al 19 febbraio. Spiega l’epidemiologo Marcello Tirani: «A partire dal “paziente 1” le Ats lombarde si sono adoperate per identificare i contatti stretti. Ai 5.800 testati abbiamo chiesto di ricordare l’esordio dei sintomi e abbiamo ricostruito l’andamento». L’esperto avverte che le date sono indicative, perché basate sulla memoria dei pazienti che potrebbe non essere precisa oppure attribuire al coronavirus i sintomi dell’influenza. «Ma sono tutti risultati positivi. E fin dai primi giorni la progressione del contagio indicava che c’erano altri casi prima del “paziente 1”». Anche l’infettivologo Massimo Gallidell’ospedale Sacco di Milano ha più volte sottolineato che l’epidemia va retrodatata. Primari e medici di famiglia ricordano polmoniti particolari a gennaio, ma solo ora è possibile ricollegarle al virus. «Avevamo avuto l’impressione che ci fossero più casi — conferma Francesco Blasi, a capo della Pneumologia del Policlinico di Milano —, ma era inverno, pensavamo fossero causate dall’influenza». La stessa impressione che hanno avuto i medici di famiglia del Lodigiano e del Milanese. Guardando ai mesi passati, anche i pediatri ricordano «quadri clinici a cui non si riusciva a dare nome e cognome» spiega Gian Vincenzo Zuccotti, direttore responsabile della Pediatria e del pronto soccorso pediatrico del «Buzzi». «Tosse e febbre che non passavano mai. Penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica». Il primario sta sottoponendo a test sierologico il personale dell’area materno-infantile, per verificare se la percentuale di chi ha sviluppato gli anticorpi al virus è più alta rispetto a quella nei reparti per adulti. Silvia Decarlis, pediatra con studio a Sud di Milano, ricorda nei piccoli pazienti visitati a gennaio polmoniti dallo strano decorso, anche se non grave. A suo avviso, però, potrebbero essere stati contagiati dai genitori che hanno continuato a lavorare anche dopo la chiusura delle scuole.
Coronavirus, i bambini potrebbero essere gli untori: "Strane polmoniti già a gennaio", lo studio dei pediatri. Libero Quotidiano il 30 aprile 2020. Il coronavirus circolava già a gennaio e forse si è diffuso prima tra i bambini. È quanto emerge dalla ricerca dell’ospedale Buzzi: più di un pediatra a Milano ha riscontrato polmoniti insolite a gennaio. Difficile individuare una data precisa, ma di sicuro c’è che l’epidemia va retrodatata rispetto al paziente 1 riscontrato verso la fine di febbraio. Primari e medici di famiglia, scrive il Corriere della Sera, ricordano polmoniti particolari a gennaio, ma solo ora è possibile ricollegarle al coronavirus: prima era normale ricondurle all’influenza. Però “tosse e febbre non passavano mai - ha dichiarato Gian Vincenzo Zuccotti, direttore responsabile della pediatria del Buzzi - penso che l’epidemia possa essere partita prima in età pediatrica”. Il primario sta sottoponendo ai test sierologici il personale dell’area materno-infantile per verificare se la percentuale di chi ha sviluppato gli anticorpi al virus è più alta rispetto a quella nei reparti per adulti. In attesa di dati certi, resta in piedi l’ipotesi che i bambini siano stati gli untori: una tesi plausibile perché, salvo rari casi, nei pazienti più piccoli la polmonite non è grave e quindi potrebbero essere loro i responsabili del contagio di genitori e nonni, all’insaputa di tutti.
Coronavirus, il momento sconosciuto dell’epidemia: la mappa del contagio tra Milano e Lodi prima del «paziente 1». I primi malati in Lombardia risalgono al 15 gennaio nei comuni di Arese e Cornegliano Laudense. Gli epidemiologi: è importane capire cosa è successo. Sara Bettoni e Gianni Santucci l'1 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. L’epidemia «oscura» diventa visibile. Rappresentata a colori. Il coronavirus prima del «Paziente 1». Arese e Cornegliano Laudense. Questi due Comuni, in provincia di Milano e Lodi, sono i primi che appaiono nella mappa elaborata dalla task force di Regione Lombardia per ricostruire la diffusione del Covid-19. Già al 15 gennaio tra i loro abitanti (quasi 20 mila il primo, 3 mila il secondo) c’erano i primi malati. Dopo il «Paziente 1» scoperto il 21 febbraio a Codogno, è partita l’operazione di tracciamento dei contatti per individuare i focolai del virus. Successivamente, ai positivi al tampone è stato chiesto di ricordare quando fossero comparsi i sintomi. Attraverso queste indagini su 5.800 casi la squadra regionale è andata a ritroso nel tempo e individuato già a gennaio la comparsa del virus. La mappa e altre informazioni sulle prime due settimane di epidemia, pubblicate nei giorni scorsi dal Corriere, sono state inserite in uno studio dei tecnici del Pirellone in corso di pubblicazione.
Le mappe. «Le mappe riportano i numeri assoluti dei contagi — spiega l’epidemiologo Marcello Tirani, che fa parte della squadra regionale —, col passare dei giorni evidenziano i cluster del contagi nella bassa Lodigiana, a Cremona e nella Bergamasca». I primi segnali a Codogno, riporta il documento, risalgono alla fine di gennaio. Nelle settimane iniziali gli esperti hanno calcolato un intervallo di 6,6 giorni tra la comparsa dei sintomi in un paziente e quella nelle persone da lui contagiate, in linea con il dato cinese. Nella fase esponenziale dell’epidemia hanno calcolato che ciascun malato ha trasmesso il virus in media a 2,3-3,1 altre persone. Numeri e curve sono serviti e servono tuttora a pianificare le strategie per arginare il virus, spiega Tirani, cosicché gli interventi abbiano una base scientifica. Lo studio è in via di aggiornamento, con i dati relativi a 60 mila pazienti. Nelle mappe future verrà inserita anche Milano.
Il momento sconosciuto dell’epidemia. Molti epidemiologi consultati dal Corriere ritengono che sia fondamentale fare luce sull’epidemia nel suo momento sconosciuto (pre-Codogno) per capire se ci siano meccanismi utili per verificare come agire e come intervenire su nuovi focolai quando si accenderanno nelle prossime settimane. Il punto chiave sta nella individuazione rapida, nel tracciamento e nel contenimento: una catena di azioni che, per tempi, andrà accorciata il più possibile. E si potrà fare anche avendo una più chiara visione del perché il virus all’inizio è circolato per quasi due mesi senza essere intercettato.
Coronavirus Milano, la 41enne con la febbre il 22 dicembre: «Ora hanno trovato gli anticorpi al Covid». Gianni Santucci il 30 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. «È iniziata con una febbre poco sopra il 37. Era il 22 dicembre. Poi la febbre è salita. La sera del 26 ha sballato i 39. Ho chiamato la guardia medica. Il giorno dopo, prescritto dal sostituto del medico di base, ho iniziato il primo antibiotico». Professionista milanese, 41 anni: di antibiotici ne prenderà tre diversi, nel tentativo di contrastare una malattia che all’inizio sembrava un’influenza e che invece ha avuto una pesante deriva. La sequenza è stata questa. La febbre continua altalenante e poi scende. Il primo gennaio però iniziano delle fitte violentissime tra le costole, alla schiena. Altra chiamata alla guardia medica. Altra visita in ambulatorio. Secondo antibiotico. Primo sospetto di polmonite. E una tosse talmente pesante che quel giorno il medico fa anche un’altra ipotesi: «Tossendo in modo così forte, potrebbe essersi incrinata una costola». Il 6 gennaio, in pronto soccorso, «ancora piegata da quel dolore tra le costole», alla donna fanno la prima lastra. Esito: «Probabile polmonite». Solo che il versamento è talmente ampio che non si può fare in quel momento la diagnosi con certezza. La (terza) lastra che certifica la guarigione arriverà dopo quasi un mese: il 5 febbraio (in tutto questo percorso, gli ospedali e i medici milanesi non avevano ancora sospetti sulla presenza del coronavirus in città e si facevano pochi tamponi). La donna guarisce. E ha già ricominciato a lavorare quando esplode l’epidemia di Covid-19, col paziente ricoverato a Codogno (21 febbraio). Quella della professionista milanese resterebbe una delle tante «polmoniti anomale» curate dai medici tra fine dicembre e inizio febbraio. Alla fine di questa storia però c’è un aspetto decisivo, che cambia la prospettiva. Qualche giorno fa la donna fa il test sierologico (quello che cerca gli anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta al virus). Risultato: immunoglobuline IgM (quelle prodotte per prime in caso di infezione) «negative». Significa che la donna a fine aprile non è infetta. Le IgG, invece, sono «positive», segno che la professionista ha avuto l’infezione qualche tempo prima. Domanda: lei, dopo quella polmonite di inizio gennaio, è più stata male? «No». Esiste dunque un’alta probabilità che la donna si sia ammalata di coronavirus, a Milano, a fine dicembre. Sarebbe dunque una di quelle persone che ha contratto il virus quando l’epidemia era «sommersa», si credeva lontana e confinata in Cina (le informazioni sul nuovo ceppo di coronavirus scoperto a Wuhan sono state diffuse al mondo tra 31 dicembre e 10-15 gennaio). Secondo la più recente analisi della Regione su quando sono iniziati i sintomi dei «positivi» certificati con tampone, almeno 1.200 lombardi potrebbero aver avuto il Covid-19 tra fine gennaio e 20 febbraio (prima che l’epidemia venisse intercettata in Italia). Potrebbero essere molti di più. E potrebbero essersi ammalati ancor prima. Come la professionista che racconta al Corriere: «Sono guarita e ho ripreso la mia vita di sempre. Ma credo che sia importante raccontare quel che mi è accaduto anche per dare un contributo alla conoscenza del virus». In questo percorso clinico c’è stato solo un momento di sospetto, quando la professionista si è fatta visitare, intorno a metà gennaio, da uno pneumologo. È stato l’unico a chiederle se fosse stata in Cina, cosa che non era avvenuta. In quel momento, per le direttive di politica sanitaria, era quello l’unico alert che veniva valutato per pensare a un contagio da coronavirus (non la presenza di sintomi compatibili, come è stato dopo). Resta da chiarire che in questa storia esiste un margine di incertezza, e che dunque (pur in un quadro di compatibilità come riferito da più esperti consultati dal Corriere) non si può definitivamente affermare che la donna sia stata malata di coronavirus. Sia perché i versamenti hanno sempre «coperto» il focolaio di polmonite, sia perché le è stata diagnosticata anche una pleurite (piuttosto rara nel Covid), sia perché potrebbe essersi infettata (rimanendo asintomatica) dopo la sua malattia di dicembre/gennaio.
IL DOSSIER. Coronavirus, a Milano i contagi già a gennaio: 1.200 lombardi positivi prima del «Paziente 1». L’analisi della Regione sulla comparsa dei sintomi: a partire dal 26/1 il virus inizia a diffondersi a Milano. La ricostruzione della fase sconosciuta dell’epidemia. Gianni Santucci il 29 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Il Covid-19 circolava a Milano già da fine gennaio. Nei 26 giorni precedenti alla scoperta del primo caso «positivo» a Codogno (21 febbraio), almeno 160 persone avevano già contratto il coronavirus tra Milano e provincia (su circa 1.200 in tutta la Lombardia). Eccola, la prima radiografia del mese «oscuro»: quello in cui la catena di contagio s’era già innescata, confondendo all’inizio i suoi sintomi con la coda dell’influenza, e la malattia si diffondeva senza essere intercettata. La fotografia della «Fase 0», quella dell’epidemia sconosciuta, prende forma nella più recente analisi della task-force sanitaria della Regione Lombardia. E se era nella logica che la scoperta del «paziente 1» e del focolaio nel Lodigiano non potessero segnare il vero inizio dell’epidemia in Italia, è ora possibile andare a ritroso e svelare nel dettaglio il quadro precedente.
Il «Giorno 0». Ruota tutto intorno a una data: il 26 gennaio. È altamente probabile che già in quel momento, una sorta di «Giorno 0», solo a Milano ci fossero già i primi 46 casi di Covid-19 (su 543 in tutta la Lombardia). L’analisi è contenuta in un complesso grafico che analizza la «distribuzione della curva di inizio dei sintomi per i casi positivi». Cosa significa? I tamponi per la ricerca del coronavirus iniziano a registrare casi «positivi» dal 21 febbraio, quando il Paese si sveglia e realizza che l’epidemia è «arrivata». Se si guarda dunque al progressivo aumento dei contagiati, la curva comincia a salire appunto dal 21 febbraio e s’impenna rapidamente fino ai 74.348 infettati in Lombardia al 28 aprile. Mano a mano che i pazienti «positivi» sono stati scoperti e certificati con i tamponi, è stato però chiesto loro quando avessero avuto primi sintomi. Ovviamente, non tutti sono stati in grado di dare un’indicazione precisa: qualcuno lo avrà fatto nel dettaglio, altri l’avranno collegata a una visita dal medico di base o a un accesso in pronto soccorso, altri infine saranno stati più approssimativi.
Le «sentinelle». Si tratta comunque di dati essenziali per la conoscenza dell’epidemia: scremati della dose di incertezza grazie all’analisi medica e statistica, permettono ora di raccontare la storia ignota del Covid-19 a Milano e in Lombardia, quella del mese in cui per tutti il coronavirus era ancora un nemico alieno, minaccioso ma confinato nel capoluogo di una provincia cinese. In quel periodo, tutti gli sforzi del sistema antivirus italiano erano concentrati sulle frontiere aeree, e dunque soprattutto su Malpensa e Fiumicino. Un arco di quasi quattro settimane in cui le «sentinelle» scrutavano fuori dalle mura e controllavano le porte d’accesso, mentre il nemico era già entrato in città: 46 (all’epoca ignari) milanesi, secondo le autorità sanitarie, hanno iniziato a manifestare la malattia (dunque erano già infettati) a fine gennaio, e poi sempre ad aumentare: 9 persone che collocano i primi sintomi il 12 febbraio, 13 il 15 febbraio, 10 il 18 febbraio, 35 il 20 febbraio (il giorno prima della notte di Codogno). Il grafico correlato a quello che identifica l’inizio dei sintomi è quello del numero dei contagi giornalieri per «data di ricevimento del tampone in laboratorio», e dunque non per il momento in cui è arrivato l’esito (in qualche caso, nei periodi più critici, anche dopo 72 ore). In quest’ottica, i casi di «positivi» a Milano sono stati: 1 il 21 febbraio, 2 il 22 febbraio, 2 il 23, 9 il 24, fino ai 25 del 29 febbraio e ai 778 del 10 marzo. Tra le due serie di dati, si coglie la cesura tra il primo tempo dell’epidemia nascosta e il secondo tempo dell’epidemia emersa. Ora che sta per essere allentato il lockdown , e dunque all’inizio di una condizione assai simile a quella di gennaio (dipenderà tutto da quanto il servizio sanitario avrà imparato e sarà attrezzato per identificare e isolare al più presto possibile i nuovi «positivi»), diventa fondamentale descrivere le dinamiche dell’epidemia nella sua fase «sconosciuta», avanzata per quasi un mese in modo sommerso. E allora si torna a quella data, il 26 gennaio.
L’epidemia sommersa. Il fatto che i tecnici della Regione Lombardia collochino proprio in quel singolo giorno l’inizio dei sintomi per un numero di pazienti molto alto rispetto alle tre settimane successive è probabilmente frutto di un «arrotondamento». Come dire, per tutti i pazienti certificati Covid-positivi a fine febbraio e che, nella loro memoria, collocavano l’inizio dei sintomi molto indietro nel tempo, sarebbe stata identificata quella data come termine massimo oltre il quale non era possibile retrocedere i primi sintomi. Una data dunque, in qualche modo, «convenzionale». Pur con questi limiti, per analizzare la vera storia del coronavirus in Italia, il 26 gennaio resta comunque una data chiave. E per capirne l’importanza, bisogna collocarla su un quadro globale: solo così ci si rende conto che Milano e Wuhan fossero legate da un destino comune già molto tempo prima che l’Italia se ne rendesse conto. La cronologia offre la prospettiva di un tempo a scansione ultra rapida. Il 31 dicembre i responsabili del sistema sanitario di Wuhan parlano per la prima volta di «polmoniti anomale». Il 7 gennaio le autorità cinesi confermano di aver identificato un nuovo ceppo di coronavirus. Il 10 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità diffonde la notizia dell’epidemia. Il 22 gennaio, infine, Wuhan entra in quarantena. E solo 4 giorni dopo, proprio il 26 gennaio, senza che nessuno in quel momento se ne rendesse conto, 46 milanesi e 543 lombardi collocano i primi sintomi di quella «remota» malattia. Il 29 gennaio vengono infine ricoverati allo «Spallanzani» di Roma i primi due turisti cinesi «positivi», e il giorno dopo l’Italia blocca i voli dalla Cina. Da quel momento, il Covid-19 non arriverà più a Malpensa in aereo. Ma, tranne che a Sondrio, già circola a Milano e in tutta la Lombardia.
Ilaria Capua a DiMartedì: "Coronavirus mutato? Perché non pubblicano le sequenze italiane?". Pesantissimo sospetto. Libero Quotidiano il 22 aprile 2020. Il coronavirus è mutato? Ilaria Capua, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì, prova a far luce su un "buco nero" inquietante nella comuncazione scientifica sulla pandemia in Italia. "Ad oggi non abbiamo informazioni, possiamo dire poco - premette la virologa, dalla Florida -. Ci sono 10mila sequenze di cui 40 italiane, come mai queste sequenze italiane non si pubblicano?". Secondo la Capua è importante avere una fotografia globale, altrimenti non potremo mai combatterlo ad armi pari. C'è bisogno di combatterlo con tutte le forze e le angolazioni possibili". Le stesse mancanze, suggerisce la professoressa, potrebbero caratterizzare anche le scelte politiche sulla Fase 2: "Le decisioni devono essere prese ascoltando le ragioni della salute e poi dell'economia". Dunque? "Occorre effettuare test sierologici per tutti da ripetere dopo una ventina di giorni per capire la dinamica della diffusione". Il suo giudizio è preoccupante: "Siamo ancora in ritardo sulla Fase 2, non abbiamo ancora una idea chiara su come la malattia si sia trasmessa nel Paese. Manca capire com'è messo il Paese".
Coronavirus, dall'ospedale Sacco di Milano le foto del Covid lombardo che sta facendo una strage. Libero Quotidiano il 2 aprile 2020. Sono le prime straordinarie immagini del coronavirus lombardo che sta facendo una strage nella regione e che sono state pubblicate dal sito dell'Adnkronos. Arrivano da Milano e sono state catturate al microscopio elettronico nel Laboratorio di Malattie infettive dell'università Statale-ospedale Sacco, coordinato da Massimo Galli e Gianguglielmo Zehender, in collaborazione con l'Anatomia patologica diretta da Manuela Nebuloni del Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche Luigi Sacco. Hanno ottenuto gli isolamenti - ricordano da UniMi - i ricercatori Alessia Lai, Annalisa Bergna, Arianna Gabrieli (tre giovani scienziate precarie) e Maciej Tarkowski (ricercatore polacco in forze a Milano), mentre hanno effettuato le osservazioni al microscopio elettronico e prodotto le immagini Antonella Tosoni e Beatrice Marchini. In una fotografia, spiegano dall'ateneo, "si osservano chiaramente, ad un ingrandimento di 30000X, le particelle virali di Sars-CoV-2, adese alle membrane sulla superficie e all'interno di cellule Vero E6 utilizzate per l'isolamento". Una seconda foto è invece "la combinazione di 2 immagini a diverso ingrandimento (50000X e 140000X) che mostra le particelle virali con la tipica ultrastruttura caratterizzata dalla corona di glicoproteine superficiali".
Quelle sei "lettere" del virus che hanno scatenato l'inferno. Il ceppo di provenienza del nuovo coronavirus è unico ma in Italia sono state registrate quattro variazioni del suo codice genetico. Federico Giuliani, Lunedì 06/04/2020 su Il Giornale. Lo studio del codice genetico del nuovo coronavirus ha consentito ai ricercatori di fare altre due importanti scoperte. La prima: il ceppo di provenienza del Covid-19 è unico. La seconda: nel territorio italiano l'agente patogeno subito alcune variazioni. A questo proposito il direttore del dipartimento scientifico del Policlinico Militare del Celio, il Colonnello dell'Esercito Florigio Lista, ha spiegato all'agenzia Adnkronos che "il nuovo coronavirus possiede 29 mila lettere che caratterizzano la sua sequenza genetica. Per un confronto, l'uomo ne possiede 3,3 miliardi, i batteri qualche milione. Sono proprio come lettere messe in sequenza dalla prima all'ultima, che abbiamo potuto contare e studiare per schedarne ogni caratteristica, in collaborazione con l'Istituto superiore di sanità". Da qui, prosegue Lista, “abbiamo scoperto che il ceppo di provenienza è unico, ma in Italia si sono registrate alcune variazioni. Sono informazioni importanti soprattutto per studiare un vaccino efficace". L'Iss ha isolato in laboratorio il coronavirus e poi il dipartimento scientifico lo ha sequenziato e analizzato. Lo studio del Sars-Cov-2, pubblicato su Eurosurvelliance insieme a una serie di altri autori da varie istituzioni sanitarie italiane, è avvenuto attraverso "l'analisi di tamponi positivi - evidenzia Lista - dai quali si estrae l'Rna e si sequenzia. In questo caso abbiamo confrontato i campioni del paziente 1 di Codogno e della coppia di coniugi cinesi provenienti da Wuhan, ricoverati all'ospedale Spallanzani di Roma. In entrambi i casi, nella sequenza genetica virale, ci sono delle variazioni: 4 variazioni che differenziano il ceppo di Codogno da quello di riferimento cinese e 6 variazioni fra il ceppo di Codogno e quello del turista cinese".
La variazione del genoma e "i quattro mattoncini diversi". Il racconto del direttore entra nel vivo: “Abbiamo dunque osservato una variazione del genoma del virus italiano sia rispetto al virus rilevato in Cina, sia a quello del paziente cinese a Roma. È come se ci fossero quattro mattoncini diversi all'interno dei 29mila totali. Ed è come se il virus avesse fatto scalo in Europa e abbia metaforicamente indossato delle collane speciali. Così si traccia il viaggio del coronavirus e da qui si comprende anche che abbia fatto una tappa in Germania prima di arrivare da noi". "Il dipartimento scientifico - spiega il direttore - da circa 10 anni è inserito in una rete dei più avanzati laboratori europei che si occupano di biodifesa (tracciamento genetico degli aggressivi biologici e dei virus rari). Il dipartimento del Policlinico Militare dipende dal Comando Logistico dell'Esercito ed è costituito da circa 40 unità (tra medici, biologi, ricercatori e tecnici) di tutte le Forze Armate e alla sue dipendenze vi è anche il neocostituito Centro Veterani della Difesa". Ricordiamo che sono oltre 220 tra medici e infermieri della sanità militare impiegati su disposizione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini nei vari ospedali civili (in particolare in Lombardia) e in alcuni degli ospedali da campo costruiti (Piacenza, Jesi, Crema, Cremona, Bergamo). Inoltre, altro personale sanitario è impiegato nell'ospedale militare del Celio di Roma e nel dipartimento Militare di medicina di Milano.
Davide Milosa per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2020. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, un signore che vive e lavora a Milano inizia ad avere febbre e tosse. Il 10 febbraio viene ricoverato in un importante ospedale del capoluogo lombardo. Diagnosi: "Coinvolgimento polmonare bilaterale con opacità del vetro smerigliato, che ha richiesto cure intensive". È Covid-19. La sua positività sarà però identificata il 20 febbraio, giorno in cui all' ospedale di Codogno il tampone rinofaringeo certifica in un 38enne del posto il primo paziente Covid in Italia. Si chiama Mattia. Da ieri, però, il primato non spetta più a lui, ma al signore di Milano, la cui storia clinica è coperta da uno stretto riserbo. Il dato, che il Fatto è in grado di svelare, implica diverse conseguenze decisive. Le vedremo. La scoperta di un nuovo paziente 1, che retrodata con certezza il contagio, arriva da uno studio scientifico messo insieme dai ricercatori di diversi enti, dall' Istituto superiore di sanità al Laboratorio di microbiologia del Sacco di Milano diretto dalla professoressa Maria Rita Gismondo. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Eurosurveillance. I ricercatori hanno così analizzato le sequenze complete di due ceppi di Sars-Cov2 isolati in due pazienti. La prima risale alla fine di gennaio e riguarda un turista cinese di Wuhan, la seconda e più importante è di un milanese che mostra un contagio autoctono senza collegamenti diretti né con la Cina né con persone rientrate da quel Paese. L' analisi delle sequenze ha dato una prima certezza: l' ingresso multiplo della nuova Sars in Europa e anche in Italia. Il virus del cittadino di Wuhan, infatti, è sovrapponibile ad altri due riferibili a turisti cinesi ricoverati in gennaio allo Spallanzani di Roma. Queste tre sequenze, si legge nel documento, "sono situate in un cluster con genomi principalmente dall' Europa (Inghilterra, Francia, Italia, Svezia), ma anche uno dall' Australia". La sequenza del signore di Milano invece si trova "in un diverso cluster comprendente due sequenze di genomi provenienti dalla Germania (Monaco di Baviera e Baden-Württemberg) e una sequenza del genoma dal Messico". Di più: dall' analisi sulla composizione degli amminoacidi del virus, i ricercatori hanno individuato alcune differenze tra il ceppo del paziente milanese e il virus di Wuhan. Questo potrebbe ipotizzare la mutazione verso una maggiore aggressività. Il dato che al momento appare però rilevante è la retrodatazione del cosiddetto "paziente 1" ai primi giorni di febbraio con una dislocazione geografica che da Codogno ci conduce alle porte di Milano. Un dato in linea con il recente studio dell' Unità di crisi della Regione Lombardia che indica in 385 i sospetti casi di Covid-19 prima dell' inizio formale dell' emergenza. Gli esperti delle Ast regionali collocano persone sintomatiche a partire dal primo gennaio con un andamento prima lieve e poi sempre più veloce. Le mappe allegate indicano attorno alla metà di gennaio due primi casi, uno individuato nell' area di Codogno, il secondo invece proprio a ridosso della periferia nord-ovest di Milano. L' obiettivo ora è comprendere se il genoma del paziente milanese sia sovrapponibile o meno a quello dei ceppi isolati sempre all' ospedale Sacco nei primi tre pazienti arrivati da Codogno. Il dato è rilevante perché un mancato match indicherebbe in Lombardia un secondo ingresso del virus che in parte giustificherebbe la diffusione esponenziale registrata in oltre un mese di emergenza. Il virus dei tre pazienti del Lodigiano mostra un primo errore di replicazione il 26 gennaio, data che al momento viene fissata come ingresso in Lombardia di Sars-Cov2. Questo grazie al lavoro dell' equipe coordinata dal professor Massimo Galli. Le tre sequenze di Codogno sono poi sovrapponibili a una isolata in Baviera attorno al 22 gennaio. Oggi le sequenze complete sono diventate almeno 30. Alcune arrivano dalla zona di Bergamo ed è su queste che i ricercatori stanno lavorando. Anche qua l' obiettivo è capire se il virus circolato in Val Seriana sia lo stesso di Codogno o rappresenti un ennesimo ingresso autonomo. Allo stato dunque, il paziente zero italiano resta un cittadino lombardo, forse del Basso lodigiano che, contratto il virus in Germania, lo ha portato qua. Quello che invece si può dire con certezza, seguendo lo studio pubblicato su Eurosurveillance, è che il nuovo paziente 1 è di Milano e non di Codogno.
Francesco Bechis per formiche.net il 22 marzo 2020. Quasi amici. Il Partito comunista cinese (Pcc) ha trovato il vero responsabile della pandemia globale del coronavirus: l’Italia. Lo fa sapere con un fuoco di fila sui suoi quotidiani ufficiali, rilanciando un’intervista rilasciata alla National Public Radio (Npr), popolare emittente statunitense, dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto ricerche farmacologiche Mario Negri. In un passaggio, il medico ricorda di “aver osservato polmoniti molto strane, e molto gravi, soprattutto fra persone anziane già a dicembre e perfino a novembre”. “Questo vuol dire – prosegue Remuzzi – che il virus circolava, almeno in Lombardia, e prima che fossimo a conoscenza della crisi in Cina”. Le parole di Remuzzi sono ora al centro di un tam-tam sui media ufficiali della Città Proibita, che con toni allusori lascia intendere che l’Italia sia stata il primo epicentro della crisi mondiale. Ecco che allora sul profilo twitter del Global Times, megafono inglese del partito, appare un cinguettio, senza link di rimando né fonti citate: “L’Italia potrebbe aver avuto una strana casistica di polmoniti già a novembre e dicembre del 2019 con sintomi altamente sospetti del Covid19, viene riportato”. Si accoda il Jiefang Daily, il foglio ufficiale del Comitato del Pcc a Shanghai, noto alle cronache per aver coniato, nel lontano 1943, la frase-motto dell’epopea comunista cinese: “Senza il Partito comunista, non esisterebbe una nuova Cina”. “Famoso esperto italiano: il virus potrebbe essersi diffuso in Italia prima dello scoppio in Cina” recita il titolo con cui viene lanciata la notizia. Nel corpo, l’articolo riporta le dichiarazioni di Remuzzi con una cura particolare delle sue affiliazioni, a sottolineare l’autorevolezza della fonte. Peccato che Remuzzi abbia alluso alla possibilità che in Italia circolasse il virus prima che si “fosse a conoscenza” del virus in Cina, non prima che “scoppiasse”. Questa però è ormai la linea ufficiale del Pcc. T-House, blog molto popolare della Cgtn (China global television network), emittente controllata dalla tv statale Cctv (China central television), si spinge oltre. “Come riportato da Npr, il dottor Giuseppe Remuzzi sostiene che i medici ricordano di aver visto strani polmoniti già a novembre, il che può voler dire che il virus circolava in Italia prima ancora che i dottori in Cina ne fossero a conoscenza”. Un capovolgimento a 360°: erano i medici cinesi, spiega il blog della tv pubblica, a non essere a conoscenza del virus in Italia. Dopo il complotto contro gli Stati Uniti, che sono stati accusati prima dal portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian e poi quotidianamente dai media di Stato cinesi di aver diffuso il virus a Wuhan, ora c’è l’Italia nel mirino. La stessa Italia che la Cina da settimane promette di soccorrere con aiuti umanitari e una nuova collaborazione nel settore sanitario con una “Via della Salute”, ma anche nel 5G, raccogliendo un certo successo fra i palazzi della politica.
Coronavirus, svolta con lo studio dell'Ospedale Sacco: "C'è una deriva genetica con importazioni multiple". Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Il coronavirus nel nostro Paese avrebbe avuto più di un "paziente zero". A confermarlo, oltre all'elevato numero di contagi, anche lo studio sui tre ceppi del virus dell'équipe di ricercatori coordinata dal professor Massimo Galli, primario di malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano. Da una delle tre sequenze italiane - spiega Il Fatto Quotidiano - complete comparate con 157 sequenze isolate a livello mondiale, emerge una "deriva genetica" del virus, cioé la sua capacità di mutare e di replicarsi attraverso la creazione di ceppi diversi. Ma le novità non finiscono qui. Il genoma ottenuto dai primi pazienti del Lodigiano, poi deceduti, viene così messo a confronto con quelli cinesi e non solo, al fine di identificare "ultimo antenato comune". Risultato? I tre ceppi italiani stanno in uno stesso cluster (gruppo) assieme ad altri cinque provenienti da Germania, Finlandia, Messico e Brasile. Tutti hanno come antenato il virus cinese che viene datato al 23 ottobre 2019. Diversa invece la data del primo nodo del cluster, quello che comprende i ceppi italiani, legata al 20 gennaio (Baviera), il 26 dello stesso mese è la data del secondo nodo (Codogno).
Coronavirus, da made in China a made in Italy. Antonio Selvatici de Il Riformista l'11 Marzo 2020. Coronavirus: da Made in China a Made in Italy. Vittime e untori, siamo secondi in classifica come numero di decessi e primi in quella mediatica degli untori. Secondi e primi nel globo. Germania, Francia, Belgio, Olanda e gli altri paesi dell’Europa stanno in fondo alla classifica quasi in zona retrocessione, come se il Coronavirus fosse attratto dai sapori dell’Italia. Un morbo buongustaio, ma poco democratico. Che s’accanisce contro gli abitanti della penisola. In pochi giorni l’Italia è diventata l’unica colpevole da trascinare sul rogo mediatico. La Cina ora sia d’esempio: è l’eroe nazione che con determinazione sta sconfiggendo il male. Anzi, l’ha già debellato. Eroi loro, criminali noi. Ma allora, come ha testimoniato il giornalista cinese Li Zehua prima di essere arrestato, per quale ragione i settantaquattro forni crematori di Wuhan lavorano da mesi ventiquattro ore al giorno? Perché il coraggioso ragazzo è stato seguito dalla polizia dopo avere filmato l’esterno dei laboratori del Wuhan Institute of Virology? Argomento scomodo (in solitudine il Riformista l’ha già più volte trattato) che attiva complottistiche fantasie sulla rete. Analizziamo i fatti, senza inseguire fantasmi. I pipistrelli nel 2003, come scrive il nostro Istituto Superiore di Sanità, «furono indicati come i serbatoi del Coronavirus della SARS in quanto vennero identificati nei pipistrelli diversi Coronavirus geneticamente molto simili al virus SARS-CoV isolato dai casi umani». È dunque sensato che in Cina, il paese più colpito dalla SARS, si sia iniziato a studiare con grande attenzione i vari coronavirus e i pipistrelli. Tali mammiferi sono i portatori sani anche dell’attuale Coronavirus. Ed è allo Wuhan Institute of Virology che si compiono studi e sperimentazioni. Così il comunicato stampa dell’istituto cinese del febbraio 2015: «La Commissione Nazionale di Pianificazione Sanitaria e Familiare della RPC e l’Accademia delle scienze cinese hanno inaugurato il laboratorio di biocontenimento livello 4 (P4) a Wuhan, nella provincia di Hubei, il 31 gennaio. Riferendosi agli standard di costruzione internazionali del laboratorio di livello 4 di biocontenimento e alla costruzione relativa della Cina standard, il laboratorio, che è una delle mega strutture scientifiche finanziate dalla National Development and Reform Commission, è stato progettato da Francia e Cina, ed è stato installato e costruito da parte cinese. La struttura è una piattaforma essenziale per la ricerca e lo sviluppo contro le malattie contagiose, la prima entità nella storia della Cina dalla sua fondazione». La rivista scientifica medica Nature Medicine pubblica le scoperte più importanti degli studiosi dei laboratori di Wuhan. Ed è un articolo del 2013 (Isolation and characterization of a bat SARS-like coronavirus in the ACE2 receptor) che oggi appare molto interessante in quanto, come hanno scritto gli studiosi, «si scopre che questo virus condivide» quasi totalmente il genoma che è all’origine dell’attuale epidemia di Coronavirus. Considerando quanto pubblicato negli ultimi anni, sembra proprio che nei blindati laboratori di Wuhan avessero buone cognizioni anche riguardo l’attuale Coronavirus. Inoltre, l’autore della citata pubblicazione è lo stesso che lo scorso a febbraio, sempre su Nature Medicine, pubblica uno dei primi articoli scientifici sul Coronavirus in Cina. Ancora una volta: il coronavirus in quel centro ricerche cinese era di casa. Sarebbe semplice trarre affrettate conclusioni però, supportati da evidenti prove, possiamo affermare che nel Wuhan Institute of Virology, dopo l’epidemia della SARS del 2002-2003, si sono studiati e sperimentati vari coronavirus (le risultanze pubblicate su blasonate riviste medico scientifiche) di cui alcuni sembra abbiano un genoma quasi totalmente compatibile con il nostro Coronavirus. Ciò che più incuriosisce è l’aspetto geografico: sappiamo tutti che Wuhan è la città focolaio. Riprendiamo il comunicato stampa sull’inaugurazione del laboratorio di biocontenimento di livello quattro: «L’attuazione del programma congiunto P4 non solo ha incarnato in modo vivido la profondità e la forza del legame tra Francia e Cina, ma anche la responsabilità nei confronti della comunità mondiale. Aiutando i colleghi cinesi con la tecnologia di progettazione e architettura di livello mondiale delle strutture di biocontenimento, la Francia ha ampliato la sua prima linea di prevenzione e controllo delle malattie […] Secondo il Wuhan Institute of Virology, il laboratorio P4 è una struttura di base specializzata per studi su malattie altamente contagiose e mortali come la malattia da virus Ebola». Globalizzazione delle produzioni, delle merci, della finanza della ricerca e adesso del Coronavirus. Ma allora in quanti sapevano di questo Coronavirus? Tutto all’insegna dello sfrenato neoliberismo che, Coronavirus a parte, ha impostato questo modello di globalizzazione. Quale l’impatto sanitario, sociale ed economico? Quei paesi dove al pronto soccorso ti devi presentare con la carta di credito o con il certificato d’assicurazione sanitaria, come affronteranno la malattia? Non parliamo solo degli Stati Uniti, ma anche dell’Olanda. Forse verrà dichiarato lo stato d’emergenza e quindi l’intervento dello Stato? Ed ecco che il pubblico diventa il salvagente nel mare in burrasca. E la burrasca è anche finanziaria. Ed ecco che l’Italia sta scalando in solitaria la vetta per numero di decessi e appestati. I medici, gli operatori sanitari si stanno prodigando per salvare vite e contrastare il fenomeno. Intanto è passato il messaggio che l’Italia sia il malato d’Europa, la Cenerentola del Coronavirus. Da Made in China, in Made in Italy.
Il treno Frecciarossa deragliato a Lodi e il virus: la linea del contagio. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Galli. Dobbiamo partire da una data. Lo scorso 6 febbraio. È il giovedì del deragliamento del Frecciarossa a Ospedaletto Lodigiano. Il contenimento delle morti (due vittime, i macchinisti, nessun ferito grave fra i pochi passeggeri), non evita, come da prassi in caso di disastro, l’arrivo dei reparti di pronto intervento di carabinieri, finanzieri e poliziotti (solitamente, su una scala da zero a cento, sono ripartiti in 40-20-40 unità). Il personale gravita sulla scena dell’incidente, venendo in contatto con i colleghi incaricati dell’inchiesta, i curiosi che via via migrano dai vicini paesi, i rappresentanti istituzionali; ma gravita anche negli ospedali e negli esercizi commerciali. Il virus, in quella che, a brevissima distanza di chilometri, diventerà la prima «zona rossa», è già in circolo. E tra gli otto e i dodici giorni successivi, le forze dell’0rdine accusano i primi malati. L’inizio di una lunga scia che ci porta fino a oggi e fino a Milano, Bergamo e Brescia. I sintomi sono identici: dolori muscolari, febbre anche sopra i 39 che abbatte i corpi, gola secca e fatica a deglutire, tosse. Pur se con una portata superiore alla norma, gli indebolimenti vengono catalogati come influenza di stagione. È pur sempre il momento durante il quale l’intera Italia, per niente aiutata da catastrofici slogan a uscire il più possibile di casa, sottovaluta la futura pandemia. Non è ancora la fase dei tamponi e così quei carabinieri, finanzieri e poliziotti dormono in caserma insieme agli altri, mangiano in caserma insieme agli altri, e appena si riprendono tornano sui mezzi e in azione insieme agli altri. Fino a quando — e arriviamo al 23 febbraio, domenica — bisogna iniziare a garantire la sorveglianza ai confini di quella «zona rossa» nel Lodigiano. E il personale torna a stretto contatto con il virus. Il Corriere ha ascoltato sette differenti testimonianze. Coincidono. Coincidono a cominciare dall’assenza di protezioni. In questo periodo, febbraio, manca la consapevolezza, lo ripetiamo, della gravità della situazione, e permangono indecisioni nelle scelte governative e di conseguenze su quanto sia importante garantire la sicurezza personale. Ascoltiamo uno dei testimoni: «Ci sono stati anche contatti ravvicinati con i residenti. Parecchie volte. Non so quanto sia filtrato alla stampa, ma in certe situazioni è capitato di spingere via, anche fisicamente, chi a tutti i costi voleva “evadere”. Dopodiché, dobbiamo essere onesti: le mascherine erano poche. Pochissime. E sicuramente con leggerezza noi per primi, ce le scambiavamo: chi smontava dal turno le consegnava al collega che attaccava dopo di lui...». Nel flusso dell’organico inviato ai lembi della «zona rossa», nell’ambito del turnover, ci sono anche uomini che in precedenza, il 19 febbraio, mercoledì — altra data centrale, ferale — sono impiegati nell’ordine pubblico della partita di Champions League, giocata al Meazza tra Atalanta e Valencia, in quella che i medici hanno definito una «bomba biologica», un terrificante vettore del virus per strade e mezzi pubblici di Milano. L’assenza di una decisa «regia» da Roma, al netto delle sollecitazioni dei vertici locali delle forze dell’ordine, genera ulteriori peggioramenti. Oggi reparti dei finanzieri sono a casa, malati o in quarantena; ci sono comandi provinciali chiusi. E ci sono carabinieri e poliziotti in isolamento, probabilmente colpiti dalla pandemia. Scriviamo probabilmente in quanto l’assenza di tamponi non permette d’avere la certezza, un «vuoto» che permane anche per le sorti del personale una volta cessata la febbre: riprendere il servizio come se niente fosse stato? Con quali garanzie per se stessi e i colleghi? La linea del contagio ha avuto un’ulteriore estensione nella Bergamasca e nel Bresciano, viaggiando con le forze dell’ordine. Notizia di venerdì sera è l’aggravamento di un agente del reparto mobile della Questura.
Mascherine usate e quel treno deragliato a Lodi: così nell’Arma si è diffuso il virus. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. Gli agenti sono stati lasciati senza tutele e nel giorno dell’incidente ferroviario si è creato un cortocircuito “pandemico”. Toglieteci tutto ma non la bandoliera. In piena emergenza Covid-19, i carabinieri continuano a svolgere servizio con la tradizionale uniforme con la banda rossa sui pantaloni. E’ al momento caduta nel vuoto, infatti, la richiesta dei sindacati dell’Arma al comandante generale Giovanni Nistri di autorizzare l’uso della tuta normalmente impiegata per le attività di ordine pubblico. “La tuta – scrive questa settimana il Cocer in una nota – garantisce una maggiore sicurezza sanitaria poiché lavabile in lavatrice con qualsiasi disinfettante, al contrario dell’uniforme che deve essere portata in tintoria, dove molte sono chiuse o non garantiscono la pronta consegna”. Richiesta irrealizzabile per i vertici di viale Romania in quanto non ci sarebbero adesso tute sufficienti. Affermazione subito smentita dal Cocer secondo cui “in molte zone sono in dotazione e addirittura nelle aree terremotate ce ne sono in abbondanza”. Ma oltre alle tute mancherebbero i dispositivi di protezione individuale, ad iniziare dalle mascherine il cui utilizzo sarebbe stato limitato da Roma ai soli “casi eccezionali”. “La tutela del lavoro e della sicurezza non può permettersi in questo momento, la cura del tratto e della forma e questo il ministro della Difesa lo deve chiarire e ribadire con fermezza”, replica il Cocer. A dare manforte ai sindacalisti con le stellette, i parlamentati di Fratelli d’Italia. “Ho ritenuto opportuno sollecitare, insieme ai colleghi della Commissione Difesa Wanda Ferro e Davide Galantino, i ministri dell’Interno, della Difesa e della Salute, affinché siano presi immediatamente provvedimenti e vengano fornite tutte le dotazioni necessarie in modo da salvaguardare la tutela della salute del personale”, ha dichiarato ieri il capogruppo di Fd’I in Commissione Difesa alla Camera, Salvatore Deidda. Fra i motivi del dilagare del virus in Lombardia, da alcuni giorni si sta facendo strada l’ipotesi che siano state proprio le forze dell’ordine uno degli acceleratori del contagio. L’episodio scatenante verrebbe fatto risalire al deragliamento del Frecciarossa avvenuto lo scorso 6 febbraio ad Ospedaletto Lodigiano (LO) quando, come ormai da più parti accertato, il virus pare fosse già in circolo. Nei giorni seguenti al deragliamento, fra le centinaia di carabinieri e poliziotti intervenuti sul posto, molti iniziarono ad accusare gli stessi sintomi: febbre, tosse secca, dispenea. Si pensò ad una normale influenza di stagione e nessuno fece il tampone per il Covid-19. I militari, oltre che da Lodi, venivano dalle caserme delle province confinati: Milano, Bergamo, Brescia. Chi si era ammalato, passata la febbre, riprese subito servizio per essere impiegato, dal 23 febbraio e sempre nel lodigiano, ai controlli della prima zona rossa. Inizialmente, poi, l’uso mascherine era raccomandato soltanto a chi avesse contratto il Covid-19 in quanto ai “sani” veniva detto che era inutile. Le disposizioni da Roma in tal senso erano rassicuranti. In un tutorial della fine di febbraio del Comando generale dell’Arma si prevedeva l’uso delle mascherine da parte dei militari solo in presenza di “casi sospetti”. Nei giorni successivi, agli inizi di marzo, accadde l’irreparabile. Tutti iniziarono ad utilizzare le mascherine che, non essendo tante, venivano però indossate per più giorni e scambiate fra i militari in servizio. Quando ci si accorse dell’errore era ormai troppo tardi ed il virus stava dilagando nelle tre province, costringendo l’Arma a mettere in quarantena interi reparti, ad iniziare dal comando provinciale di Bergamo, e a chiudere molte caserme.
Coronavirus, studio-choc dell'Iss: "Il contagio non arriva dalla Cina", l'ipotesi sul paziente 0. Libero Quotidiano il 10 marzo 2020. Un ribaltone? I cinesi non c'entrano? Si parla della diffusione del coronavirus in Italia e degli ultimi studi dell'Istituto superiore di sanità, contenuti nell'indagine epidemiologica contenuta nell'approfondimento pubblicato tra oggi e venerdì 13 marzo sul sito Epicentro. Secondo quanto messo in evidenza dall'Iss, il contagio in Italia non arriverebbe dalla Cina. Nessun caso dell'epidemia avrebbe a che fare con il Dragone. I tre malati - due turisti e un italiano rientrato da Wuhan, che si è infettato in quel Paese - erano stati infatti immediatamente isolati e non hanno trasmesso a nessuno la malattia. Nel report si legge che "è stata poi segnalata dalla regione Lombardia una persona di nazionalità iraniana, tuttavia non è stato indicato dove possa essere avvenuto il contagio anche se la persone si è infettata in Iran". E ancora, l'Iss mette in evidenza che ci sono diverse conferme relative al fatto che il Covid-19 circolasse in Italia da molto tempo, ben prima di quando è esploso il problema a Codogno: in quel comune, i positivi erano già malati di seconda o terza generazione. Questo è quanto sostiene l'Iss, che considera i dati fino al 9 marzo. Un clamoroso cambio di paradigma che apre scenari che però potrebbero restare oscuri, senza risposta.
Da ilsole24ore.com l'11 marzo 2020. La trasmissione dell’infezione da Covid-19 «è avvenuta in Italia per tutti i casi, ad eccezione dei primi tre segnalati dalla Regione Lazio che si sono verosimilmente infettati in Cina». È quanto conclude un'indagine epidemiologica sul coronavirus condotta dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss) e contenuta nell'approfondimento che pubblicato sul portale dell'epidemiologia per la Sanità pubblica Epicentro.
La catena dei contagi parte dall’Italia. È stata poi segnalata dalla Regione Lombardia, rileva l’Iss, «una persona di nazionalità iraniana, tuttavia non è stato indicato dove possa essere avvenuto il contagio anche se la persona si è verosimilmente infettata in Iran». Attualmente, si legge nel documento basato sulla situazione alle ore 10 del 9 marzo 2020, «non è possibile ricostruire, per tutti i pazienti, la catena di trasmissione dell’infezione. La maggior parte dei casi segnalati in Italia riportano un collegamento epidemiologico con altri casi diagnosticati in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, le zone più colpite dall'epidemia». Lo stato clinico è disponibile solo per 2.539 casi, di cui 518 (9,8%) asintomatici, 270 (5,1%) pauci-sintomatici, 1.622 (30,7%) con sintomi per cui non viene specificato il livello di gravità, 1.593 (30,1%) con sintomi lievi, 297 (5,6%) con sintomi severi, 985 (18,6%) critici. Il 21% dei casi risulta ospedalizzato, e tra quelli di cui si conosce il reparto di ricovero (1.545) il 12% risulta in terapia intensiva. L'età mediana è di 69 anni (0-18 anni: 0%; 19-50 anni: 10%; 51-70 anni: 46%; >70 anni: 44%).
Contagi sotto i 30 anni. In attesa di ulteriori approfondimenti, l'indagine chiarisce dunque la natura sostanzialmente “autoctona” dell'infezione da coronavirus in Italia smentendo le ipotesi di una sua “importazione” da un altro Paese Ue, in particolare la Germania. Non solo. Lo studio registra anche una percentuale significativa di casi sotto i 30 anni. Un dato, sottolinea il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro, «che conferma quanto questa fascia di età sia cruciale nella trasmissione del virus». Dopo tre giorni consecutivi nei quali si è registrato un aumento di oltre mille casi, gli 8.514 registrati il 10 marzo indicano solo 529 unità in più. La flessione, in attesa che la stretta generalizzata agli spostamenti imposta dal Governo mostri i suoi frutti, conferma l’importanza dei comportamenti individuali: «Speriamo che gli stessi dati aiutino a orientare i comportamenti di tutti e a capire meglio la situazione - sottolinea Brusaferro -. Se si terranno comportamenti non coerenti con le indicazioni, sarà molto difficile riuscire a modificare le curve: i nostri comportamenti sono veramente l'elemento decisivo», insiste.
Quando gli effetti delle misure restrittive. Gli effetti delle misure restrittive, conclude, non saranno istantanei, ma «coerenti con i tempi di incubazione, che raggiungono 14 giorni e che raggiungono il valore più frequente in cinque giorni». Tuttavia «se rispetteremo le regole vedremo le curve appiattirsi: questo significherà dare la possibilità a chi si ammala e necessita di un supporto ventilatorio di poterlo ricevere nel miglior modo possibile».
La mappa della Cnn mette l’Italia al centro dei contagi. La protesta di Di Maio. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Alla fine è intervenuto anche il ministro degli esteri Luigi Di Maio sul caso della mappa mostrata dalla Cnn: la più diffusa rete tv americana ha mostrato una grafica, a proposito di coronavirus che mette l’Italia al centro del contagio planetario, ignorando la Cina. L’intento era quello di rendere visibile come una serie di persone, dopo un soggiorno nella penisola, avessero esportato la malattia nei loro paesi di origine, generando un effetto domino. Ma dopo il caso dell’emittente francese Canal+ e della «pizza al coronavirus», anche il ser vizio della Cnn non è passato inosservato e ha provocato la prevedibile ondata di polemiche. Luigi Di Maio è intervenuto con un post su Facebook dopo che molti altri utenti italiani sui social avevano segnalato e stigmatizzato il caso. «La cartina della cnn fornisce un’immagine distorta della realtà» afferma il capo della Farnesina. Che subito dopo commenta così: «Mi chiedo quale sia l’intento. Discriminare un Paese che ha una sanità pubblica e che sta gestendo al meglio, nonostante decenni di tagli, una situazione complessa ed emergenziale in alcune zone ? l’Italia è la nazione che sta gestendo con più rigore questa emergenza, che, come sappiamo, si è sviluppata in Cina». Sulla sponda del Pacifico, intanto, è bastato un decesso, uno solo, di coronavirus perché la California il più popolato degli Stati degli Usa (40 milioni di abitanti) , dichiarasse lo stato di emergenza. La decisione è stata annunciata dal governatore Gavin Newsom: ««Si tratta di una misura a tutela delle nostre risorse» e per favorire questioni logistiche» ha dichiarato in un discorso trasmesso in tv. «Con 53 casi positivi, non si tratta più di una questione limitata a una parte del nostro Stato», ha aggiunto Newsom. In tutti gli Stati Uniti il numero dei morti ha raggiunto quota 11. Il decesso che ha determinato la decisione del governatore Newsom ha riguardato un passeggero settantunenne di una nave da crociera sbarcato un mese fa. E non a caso questa mattina (ora italiana) a San Francisco le autorità hanno vietato lo sbarco ai passeggeri di uno di questi «giganti del mare, la Grand Princess. Le autorità sanitarie californiane stanno in queste ore cercando di contattare tutti i passeggeri sbarcati un mese fa da una crociera della stessa nave, proveniente dal Messico. Per il momento lo stato di emergenza non ha effetti di grande impatto sulla vita della popolazione: grazie a questa dichiarazione le strutture e le agenzie dello Stato potranno acquistare beni e serviti con più facilità, condividere informazioni sui pazienti, «Dobbiamo avere più strumenti per affrontare il caso» ha spiegato sempre Newsom in una conferenza stampa. La linea intransigente della California non pare essere condivisa al momento dalla casa Bianca. Le ultime parole del presidente Donald Trump sul pericolo del contagio da coronavirus stanno provocando polemiche. «Molte persone l’avranno e sarà molto lieve, staranno meglio molto rapidamente, non dovranno andare dal dottore, non sentiremo nessuna notizia su di loro», ha detto in un’intervista a Fox News. «Se noi abbiamo migliaia o centinaia di persone che guariscono solo aspettando e andando persino al lavoro, alcuni di loro andranno al lavoro, ma guariranno», ha aggiunto. I centri federali avevano invece raccomandato che anche chi ha sintomi lievi deve rimanere a casa.
Coronavirus in Lombardia, quel buco di cinque giorni che ha infettato tutta l’Italia. La ricostruzione del caso: è stata l’anestesista ad accorgersi della gravità e a forzare i protocolli ma solo dopo che il virus ormai già circolava. Francesco Specchia il 7 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’’ignoto. Il Coronavirus si era nascosto proprio qui…”. Così, con una frase rubata a Sherlock Holmes – “scartato il probabile e il possibile, l’impossibile dev’essere vero- Annalisa Malara, 38 anni, coraggiosa anestesista di Cremona ha commentato sul quotidiano Repubblica la scoperta del “paziente 1”, il primo portatore del Coronavirus in Italia. La dottoressa Malara è quella cocciuta allieva d’Ippocrate che, forzando tutti i protocolli, è riuscita, il 19 febbraio scorso, ad individuare nella “polmonite gravissima e impossibile “ di Mattia -l’omone sportivissismo ancora intubato in terapia intensiva- il silenzioso esordio del virus probabilmente arrivato dalla Cina via Germania. Ma dalla sua intervista viene confermato ufficialmente quel che già si sapeva: Mattia era già arrivato in Pronto Soccorso all’Ospedale di Codogno il 14 con un’influenza durevole e perturbante e l’hanno mandato a casa probabilmente con un’aspirina. Poi è tornato il 18, gli hanno fatto le lastre che evidenziavano “una leggera polmonite”. Infine, il 19 è rientrato nello stesso ospedale, a polmonite già gravissima. “Dalla medicina Mattia è arrivato in rianimazione- afferma il medico- Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso”. Sicché “il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato”. Nel senso che il virus è scivolato sui guanti e sulle mascherine indossate in tutta fretta dall’equipe medica, e non ha contagiato nessuno di loro. Ed è finita che Mattia non ha perso la vita solo grazie alla zelante anestesista, il cui intervento ha fatto ricoverare d’urgenza il paziente al San Matteo di Pavia per “sottoporlo a terapia sperimentale”. E ha fatto certamente guadagnare giorni preziosi rispetto al contrasto all’epidemia. Alla domanda sull’inefficienza del protocollo sanitario che è stata costretta a violare, l’anestesista esprime un dissenso fra le righe: “Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. E ha ragione. Il virus, invece, grazie a lei, è girato indisturbato solo per una settimana scarsa. Che è bastata a sprofondarci in questo gorgo di malattia misto a tensione, a senso d’impotenza e a timore sulla tenuta delle nostre strutture sanitarie. Eppure, passata questa maledetta buriana, noi ci ricorderemo di questi sei giorni e mezzo che hanno sconvolto il nostro mondo, di questo buco d’inefficienza dovuto ad imperizia burocratica di un governo centrale non ancora preparato alla botta e a un piccolo ospedale che probabilmente -all’inizio- troppo s’è fidato del proprio dinamismo lombardo. Ad evitare che le cose andassero ancora peggio è servita l’iniziativa e la rapidità di decisione di un singolo. Di una scienziata che, evidentemente, ha passato più tempo a leggere Conan Doyle che i decreti e le ordinanze della politica. E meno male.
Coronavirus, De Magistris: “Se fosse partito dal Sud ci avrebbero sparato”. Debora Faravelli 12/03/2020 su Notizie.it. Vena polemica da parte del sindaco di Napoli Luigi De Magistris sulla questione coronavirus. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris si è espresso sull’emergenza coronavirus che sta interessando l’Italia chiedendosi in tono polemico cosa fosse successo se l’infezione si fosse propagata a partire dal Sud. Intervistato in radio, il primo cittadino napoletano ha dichiarato che se si fosse verificata quella circostanza “il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista qualsiasi meridionale“. Un tono evidentemente contestativo che ha però subito lasciato spazio alla gestione della situazione nella sua città. Dopo l’assalto ai supermercati seguito all’emanazione del DPCM del 9 marzo 2020, i cittadini stanno in linea di massima rispettando le norme previste. La maggior parte esce infatti soltanto lo stretto necessario tanto che il capoluogo campano si presenta deserto rispetto all’abitudine. Dal centro storico ai quartieri più collinari così come nelle periferie, le persone in strada sono sempre meno. Vuote o quasi le tradizionali vie affollate come via Toledo, via Scarlatti, via Luca Giordano, ma anche piazza Plebiscito, piazza Bellini e altri luoghi della città.
Non mancano però coloro che sono venuti meno alle disposizioni e che le forze dell’ordine hanno provveduto a multare. Si tratta di persone trovate raggruppate in assembramenti oppure fuori di casa senza una motivazione valida. Vi sono poi stati alcuni esercizi commerciali che non hanno rispettato la chiusura o non hanno provveduto a sanificare gli ambienti.
LA LEZIONE DEL VIRUS A UN CERTO NORD: “L’ALTRO” SEI PURE TU, PRIMA O POI.… E, SFIDANDO IL RIDICOLO, GRIDA AL “RAZZISMO”! Pino Aprile il 4 Marzo 2020. ‘O munn è cagnate! Chelle ca stev ‘ngopp è gghiute sotte, e chelle cha stev sott è gghiute ‘ngopp! Un certo Nord (la cui prima vittima è il resto del Nord, coinvolto in un grossolano giudizio che tutti accomuna nel peggio) fa i conti con i suoi comportamenti e scopre di non stare simpatico e, anzi, proprio sulle palle. I fenomeni sociali sono di lenta costruzione, ma di fulminea espansione: decenni di insulti padani, di supponenza, prepotenza, arroganza, presunzione, “Prima il Nord” e presunto diritto etnico all’offesa dell’altro, sino all’aggressione (zingaro, terrone, migrante, poco importa), hanno tanto caricato il piatto della bilancia, che l’arrivo di coronavirus (il “Cigno nero” l’imprevisto che sconvolge gli assetti consolidati), lo ha fatto calare, ribaltando l’equilibrio.
INSULTATI E PICCHIATI CINESI AL NORD, QUANDO IL VIRUS “ERA CINESE”. E SE DIVENTA PADANO?
Ribaltare, vuol dire che le cose vengono viste e valutate al contrario. Per esempio: Ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di cinesi (presunti colpevoli di virus), alcuni di loro cittadini italiani, ma di origine orientale. In qualche caso, l’inciviltà è giunta ad atti di violenza. Un cinese che gestisce con la moglie un bar a Bassano del Grappa è stato picchiato da un avventore in un locale, a Cassola; altri sono stati offesi, dileggiati (una donna e i figli al supermercato), un adolescente aggredito durante la partita, perché orientale… Poi si scopre che il ceppo di coronavirus che imperversa in Lombardia e Veneto, e da lì dilaga, potrebbe essere padano: autoctono. E se gli incivili che han “fatto pagare” ai cinesi la presunta provenienza del virus fossero insultati, aggrediti, solo perché lombardo-veneti? Razzismo? Chiamatelo come volete, ma sarebbe quella roba di prima, all’incontrario (ricordando che l’imbecillità è universale e se l’aggressore a Cassola è stato aiutato a dileguarsi, a Bassano il cinese aggredito e sua moglie hanno avuto la solidarietà dei loro clienti).
LA PIÙ FLORIDA INDUSTRIA LOMBARDO-VENETA È QUELLA DEI “RISARCIMENTI”, ANCHE PER I DANNI PROVOCATI AD ALTRI.
Con il virus, puntuale come le tasse, è riapparso il riflesso condizionato padano: l’Italia ci copra di miliardi, per risarcirci (modello di moderazione, si accontenterebbero di quattro volte quel che Trump ha chiesto per tutti gli Stati Uniti). Perché loro “producono” e qualunque cosa interrompa o rallenti il flusso ininterrotto di denaro pubblico, scatta il diritto a essere sovvenzionati (Tav, Mose, Expo, Human Technopole, Pedemontane…, ora virus). Nella corsa a chi la spara più grossa, politici di ogni schieramento, ma ugualmente privi di vergogna e senso del ridicolo, si sono rincorsi nel reclamare “risarcimenti”: abolire tasse, non pagare i mutui… Per ora, vince il campionato delle cazzate il Cazzaro Magno, Matteo Salvini, arrivato (per adesso) a 50 miliardi, venti volte la cifra per gli Stati Uniti (2,5 miliardi di dollari). Ma se gli date tempo (e altri mojitos?) vedrete che saprà superarsi. Avviso: stabilite voi la cifra; al Sud chiederemo il doppio, per i danni provocati dalla gestione dell’epidemia, che ne ha favorito l’espansione al Sud.
DOPO FONTANA CON LA MASCHERINA E ZAIA CHE INSULTA I CINESI, CHI INVESTE IN ITALIA?
Perché, se sono i presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia a distruggere la nostra economia con le loro cretinate, si può chiedere a Lombardia e Veneto di pagare i danni o no? Ha fatto il giro del mondo la foto di Fontana con la mascherina (vabbe’ che è carnevale…) che si autodenuncia a rischio infezione, perché una sua collaboratrice è stata (dice, e noi ci crediamo. Non dovremmo?) trovata positiva al coronavirus. Che dite: ci viene ora uno In Italia o ci pensa? Le esternazioni di Zaia su presunte, discutibili abitudini alimentari dei cinesi mangiatori di i topi vivi hanno arricchito lo stupidario della stampa internazionale e indotto Pechino a intervenire. I veneti (“l’anno della fame”) i topi li preferivano essiccati (forse per evitare che tale riserva alimentare si assottigliasse, altri veneti sono mangiagatti)? Come vedete, a sparare cazzate siamo bravi tutti. Il guaio è prenderle sul serio. E quelle da cabaret dei due presidenti sono state un danno serio. Che fanno: ci risarciscono?
FAVORITA LA SANITÀ PRIVATA, QUANDO ARRIVA L’EPIDEMIA E QUELLA PUBBLICA SOFFRE…
I lombardoveneti hanno sempre vantato l’eccellenza della loro sanità regionale, privilegiando, però (specie la Lombardia) quella privata. Ma quando arriva l’epidemia, la sanità pubblica va in apnea e si cercano posti letto per carità a Sud, in strutture pubbliche, confermandosi l’eccellenza padana speculazione pura. E ora mandiamo fatture maggiorate come successo per i nostri malati costretti a farsi curare al Nord? I campioni della diffamazione del Sud via tv e carta (igienica) stampata si sono scatenati nella “denuncia del razzismo” meridionale contro il Nord (certe facce non dovrebbero andare in giro senza mutande). Hanno scatenato l’inferno contro “l’odio razziale” di chi, a Ischia, protestò per l’arrivo di 150 turisti lombardi a rischio virus. I sindaci dell’isola avevano vietato l’accesso; il prefetto lo ha imposto. Brutto sentirsi discriminati, eh? Rita Dalla Chiesa, perdendo una buona occasione per tacere ha criticato l’autodifesa dell’isola invitando a boicottarla come meta turistica. Ma vogliamo scherzare: lombardi trattati come fossero terroni, migranti?
SI È IMPEDITO A ISCHIA DI TUTELARSI E FRA I TURISTI PADANI FATTI SBARCARE A FORZA CE N’ERA UNO A RICHIO VIRUS. ECONOMIA DISTRUTTA
Poi si scopre che uno di quei turisti potrebbe essere positivo al virus. Ischia ha un ospedale con 60 letti, per 60mila persone, vive di solo turismo e ora è considerata l’equivalente di un lazzaretto. Chi paga? Salvini fu accolto con entusiasmo, da molti ischitani, ma i risarcimenti li chiede solo per il Nord, anche quando è il Nord (inconsapevole: mica vorremo prendercela con i turisti lombardi) a rovinare l’economia di una delle capitali turistiche italiane e del Mezzogiorno. La Lega (punta di diamante di una comunità in larga parte consenziente, visti i voti che prende) faceva le campagne contro i terroni che portano sporcizia al Nord, i migranti con la peste, la lebbra, il colera e la scabbia, e chiedeva protezione e…?: risarcimenti (come avete fatto a indovinare?); ora dal Nord arriva al Sud l’epidemia e la distruzione di un sistema economico basato sul turismo, e la Lega chiede risarcimenti. Ma al Nord, anche per i danni che produce agli altri (mentre i governatori del Sud tacciono, come da costume coloniale e gregario).
MA NESSUNO HA CANTATO: “SENTI CHE PUZZA/ SCAPPANO ANCHE I CANI/ ARRIVANO I PADANI”. PER NAPOLI, INVECE…
Ci si stupisce che gli altri si siano rotti i coglioni di un Nord la cui capofila, la Lombardia (più il Veneto, ora), è entrata nell’Italia unita con poco più dell’un per cento del denaro circolante nella Penisola (contro il 66 del Regno delle Due Sicilie) e da allora cresce a spese del Paese, vantando un credito inestinguibile e inesistente. Presumendo di maturare su questo pure un diritto all’insulto, alla denigrazione. Che ora si rivolta contro. Alle persone perbene (e non c’è latitudine che le distingua) chiedo un giudizio sulla colpevole tolleranza verso “il folclore” leghista (vera anima del peggior Nord, con propaggini coloniali a Sud); per farmi meglio capire, applico la legge della reciprocità: immaginate che oggi un terrone un po’ cretino (o… folcloristico?), si mettesse a cantare: “Senti che puzza/ scappano anche i cani/ dal Lombardo-Veneto/ arrivano i padani/ contagiosi, alluvionati/ con l’amuchina/ non vi siete mai lavati/ coronavirus (o Po, a scelta) pensaci tu!”. È ancora folclore? Brucia? E agli altri no? Immaginate di esser chiamati da ministri: porci, topi da derattizzare, merdacce, colerosi…, sol perché padani. E vedere quei figuri rimanere al loro posto, rispettati e riveriti. Brucia? E agli altri no? (A proposito, se quel terrone cretino dovesse davvero parodiare un “grande leader” del Nord e delle sue propaggini coloniali del Sud, prima di censurarlo, pensateci bene: potreste ritrovarvelo vice presidente del Consiglio). Ma io ho fiducia nella potente legge della reciprocità che il virus sta ricordando a chi pensava che toccasse il peggio sempre agli altri, perché gli altri se lo meritano; e ho fiducia nella gente per bene, che se si vede e si sente poco, nel casino dei cialtroni (gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto a far rumore. Vale pure per i cervelli). C’è chi mi oppone che il mio è una sorta di atto di fede. Non è vero: è un fatto di cui si scorgono tracce. Ve ne suggerisco una: un’offesa al giornalismo ha titolato “Virus alla conquista del Sud”. E millanta questo (godendoci, pare) come “Unità d’Italia: ora sì che siamo tutti fratelli”. E capite cosa vuol dire: nel bene, noi siamo il Nord e voi merdacce; diventiamo “fratelli” quando il male che vi abbiamo portato ci accomuna (come nel 1860-61, con l’“Unità” intesa quale bagno di sangue a Sud, carcerazioni, deportazioni, trasferimento a Nord delle industrie, delle commesse e dell’oro meridionali).
MA I CAMPIONI DELLA DIFFAMAZIONE DEL SUD PERDONO COPIE IN EDICOLA E ARRANCANO IN TV
Quella schifezza stampata è un insulto quotidiano al Sud e suscita reazioni disgustate dei terroni. I quali, sbagliando, rischiano di considerarla “la voce del Nord”. Non è così: il giudizio dei lettori si misura in edicola. Sotto la guida del campione di tanto livore nei confronti dei meridionali, la tiratura del fogliaccio è scesa da 120mila a meno di 25mila copie. Ed è il Nord ad averlo schifato. Mentre i programmi di “approfondimento” anti-Sud vedono boicottati i loro inserzionisti. Quindi, qualcuno sa e comprende. Ora forse anche chi non sa e non comprende potrebbe porsi qualche domanda. La reciprocità (a volte, anche tramite un virus) questo dice: attento, che “l’altro” prima o poi, sei tu.
"Polmoniti anomale a metà gennaio, così è nato il focolaio di Codogno”. La svolta della task force di medici sul boom di influenze che retrodata la propagazione del contagio. “Solo con più infetti inconsapevoli in circolazione per molti giorni, si spiegano diffusione e velocità del virus. Giuseppe Visetti il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. CODOGNO - Il focolaio italiano del coronavirus covava sotto la cenere «almeno dalla metà di gennaio». Da questa conclusione si trova «ormai a un passo» la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell’ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio. Grazie alla genetica, poche conferme separano ormai gli scienziati anche dalla ricostruzione del nesso tra «il principale epicentro dell’epidemia», individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito «secondario» di Vo’, nel Padovano. A una settimana dalla prima diagnosi nell’ospedale di Codogno, l’individuazione del «paziente zero» resta incerta. A vacillare però è in particolare, secondo chi segue il dossier, anche l’ipotesi che il dipendente dell’Unilever di Casalpusterlengo sia il «paziente uno». L’uomo, 38 anni di Castiglione, ha diffuso il Covid-19 nell’ospedale del primo ricovero a Codogno e tra coloro che ha frequentato per giorni una volta infetto, al lavoro a facendo sport. La caccia a chi ha involontariamente trasformato l’area ora sigillata in Lombardia in una sorta di «Wuhan italiana», dilagata poi nel resto della regione, nelle zone confinanti dell’Emilia e del Nord Italia, ha registrato una svolta grazie a medici, operatori delle case di riposo e farmacisti dei centri dove si concentra l’origine di oltre il 90% dei casi di positività. Dopo l’esplosione dell’emergenza tra Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio «sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze». Fino al 20 febbraio, giorno in cui il primo caso è stato accertato nell’ospedale di Codogno grazie all’intuizione di una anestesista, nessun italiano privo di rapporti anche indiretti con la Cina, era risultato positivo ai test. Nel Basso Lodigiano già in gennaio c’era però un boom, non inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali l’ha ricondotto «a fattori estranei alla stagionalità». «Eravamo tutti convinti — dice Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti — che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici». Ora il quadro è cambiato e la verità emerge da cartelle cliniche e ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti «normali». La maggioranza è guarita, ma nel sangue sono rimaste le tracce degli anticorpi contro il Covid-19. Dopo l’isolamento del «ceppo lombardo» del coronavirus a Milano, queste vengono ora incrociate geneticamente tra loro. In laboratorio, anche a Roma e a Pavia, prende così forma una rete sempre più precisa di relazioni personali anche non dichiarate, o che gli stessi contagiati non ricordano. «Tra giovedì 20 e lunedì 24 febbraio — spiega uno dei ricercatori — siamo improvvisamente passati da zero a oltre 200 casi di coronavirus tra 50 mila persone di un unico territorio. Effetto di tamponi fatti a tappeto, ma una simile accelerazione non ha precedenti nemmeno in Cina e non trova riscontri nei tempi d’incubazione del Covid-19». Per questo nelle ultime ore viene retrodatata la «diffusione silente» del contagio nel Lodigiano e chi cerca la verità sull’epidemia in Italia tende a concludere che il «paziente uno», stabile e ancora intubato al San Matteo di Pavia, possa non essere tale. Soltanto «con più infetti inconsapevoli in circolazione per parecchi giorni» si spiegano «diffusione, velocità e trasversalità» del contagio infine scoperto giovedì 20 nell’attuale «zona rossa». Area che, pur con crescenti deroghe per consentire una ripresa parziale di aziende e servizi, potrebbe vedere prolungato l’isolamento. All’inizio la cintura sanitaria, presidiata dai posti di blocco, era fissata fino al 4 marzo. Da ieri le autorità temono di doverla prorogare «come minimo fino a metà mese». Più probabile «almeno fino a fine marzo».
Coronavirus, boom di "strane polmoniti" a Codogno già a metà gennaio: il contagio va retrodatato? Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Il focolaio a Codogno e dintorni scoperto con grosso ritardo? È questa la conclusione a cui, secondo quanto riportato da Repubblica in un decisivo retroscena, si trova "ormai a un passo" la task force di epidemiologi, ricercatori, forze dell'ordine e inquirenti al lavoro a Milano e dentro la zona rossa del contagio da coronavirus. L'ipotesi è che quel focolaio covasse "almeno dalla metà di gennaio". Una discrepanza clamorosa, se si pensa che l'emergenza è esplosa venerdì 21 febbraio. Secondo quanto riporta Repubblica, grazie a test genetici, mancano ormai pochi tasselli per arrivare a ricostruire il nesso tra "il principale epicentro dell'epidemia", individuato tra i dieci Comuni isolati nel Basso Lodigiano, e quello definito "secondario di Vo', nel Padovano. Ma non solo. Crescono altri dubbi. Non solo quello sul "paziente zero", non individuato a una settimane dalla prima diagnosi all'ospedale di Codogno. Vacilla infatti anche l'ipotesi che il "paziente uno" sia il dipendente dell' Unilever di Casalpusterlengo. Si parla del 38enne di Castiglione, che ha diffuso il Covid-19 nell'ospedale del primo ricovero a Codogno e tra le persone che ha frequentato per giorni dopo essere stato infettato, al lavoro a facendo sport. Il punto principale, però, è che come detto l'emergenza coronavirus è vicino ad essere retrodatata dalla task-force di esperti. Come ricorda sempre Repubblica, dopo l'esplosione dell'emergenza tra Codogno, Castiglione d'Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio "sono stati colpiti da strane polmoniti, febbri altissime e sindromi influenzali associate a inspiegabili complicanze". Si arriva poi al 20 febbraio, giorno in cui era stato accertato a Codogno il primo caso, il tutto grazie all'intuizione di una anestesista. Ma nel Basso Lodigiano, si apprende, già in gennaio c'era stato un boom, che non era passato inosservato, di influenze e polmoniti. Purtroppo nessun elemento previsto dai protocolli sanitari internazionali è riuscito a ricondurre questa serie di casi "a fattori estranei alla stagionalità". "Eravamo tutti convinti - dice a Repubblica Alberto Gandolfi, medico di base in quarantena a Codogno con vari assistiti infetti - che quelle polmoniti fossero favorite da freddo e assenza di pioggia. Rivelate dalle lastre, sono state curate con i consueti antibiotici". Adesso, ovviamente, il quadro è cambiato. E la verità si mostra dalle cartelle cliniche e dalle ricette farmaceutiche di tutti i pazienti della zona rossa, che per oltre un mese sono stati curati per influenze e polmoniti "normali". La maggior parte di loro è guarita, ma nel sangue sono rimaste tracce di Covid-19. La prova del fatto che l'emergenza-coronavirus era iniziata ancor prima che ce ne rendessimo conto.
Coronavirus, Forchielli a Otto e mezzo: "Italia come Wuhan? I numeri dicono che siamo messi peggio della Cina". Libero Quotidiano il 05 marzo 2020. A Otto e mezzo in collegamento con Lilli Gruber c'è Alberto Forchielli, un imprenditore che è rientrato in Italia lo scorso novembre e che è soprattutto un esperto di Cina, avendo vissuto e fatto fortuna lì per lungo tempo. "L'Italia farà la fine di Wuhan?", è la domanda della conduttrice di La7. E la risposta di Forchielli non è affatto rassicurante: "Noi dovremmo essere messi peggio della Cina. Se facciamo le proporzioni, loro sono un miliardo e 400 milioni, noi 60 milioni, quindi la nostra popolazione è circa 23 volte inferiore. Noi siamo a circa 4mila casi di contagio, moltiplicati per 23 diventano 92mila e la Cina ne ha avuti 80mila. Quindi come intensità di contagio siamo messi peggio". Antonio Grizzuti per “la Verità” il 5 marzo 2020. Ormai l' Italia è la nuova «colonna infame» del mondo. Solo ieri, una grottesca infografica - della quale ieri si è lamentato in Senato il leghista Alberto Bagnai - mandata in onda dalla blasonata Cnn titolava: «Casi di coronavirus legati all' Italia». Dal centro del mappamondo, a indicare le località infettate, una miriade di linee rosse da Roma in direzione dei cinque continenti. Dagli Stati Uniti all' India, dal Brasile alla Nigeria, passando per la Finlandia e la Malesia, l' etichetta di untori del mondo non ce la toglie più nessuno. Già da diversi giorni, molti governi hanno inserito i comuni della zona rossa nella lista dei luoghi a rischio, una scelta che di fatto ci mette sullo stesso piano di Wuhan. E anche Pechino ha deciso di imporre la quarantena ai viaggiatori in arrivo dall' Italia. D' altronde, i fatti dicono che oggi il nostro è il primo Paese in Europa per numero di contagi e decessi. Ma se è vero - come amano ripetere gli amanti della globalizzazione - che i virus non conoscono confini, chi può dire con certezza che l' Italia rappresenti il «paziente zero» del nostro continente? E che magari il Covid-19 non sia atterrato altrove in Europa per poi approdare solo successivamente dalle nostre parti? Sono le stesse domande che si pongono gli scienziati al lavoro in queste settimane per studiare a fondo l' evoluzione del virus sul piano genetico. Comprendere la nomenclatura degli agenti patogeni come il Covid-19 serve a tracciare gli spostamenti del virus, valutarne la gravità e tenere sotto controllo le sue (potenzialmente pericolose) mutazioni. Insomma, tutti elementi utili a contrastarne gli effetti e limitarne la diffusione. E i primi risultati di questa ricerca, ribaltando la narrazione attuale che addita la piccola Codogno come caput mundi dell' epidemia in corso, lasciano davvero a bocca aperta. Nella mattinata di ieri Trevor Bedford, ricercatore alla divisione Vaccini e malattie infettiva del prestigioso centro di ricerca americano Fred Hutch, ha twittato: «Grazie alla rapida condivisione globale dei dati sul Sars-CoV2 (questo il nome tecnico del coronavirus), possiamo ricostruirne su grande e piccola scala gli schemi di diffusione». Per farla semplice, grazie ai dati condivisi dagli scienziati, sulla piattaforma Nexstrain.org è disponibile l' albero filogenetico del Covid-19. Ognuno dei 161 rami che lo compongono rappresenta uno dei ceppi finora sequenziati. Veniamo a noi. Esiste una «linea comune che contiene i campioni di virus prelevati in Germania, Svizzera, Finlandia, Italia, Brasile e Messico», scrive Bedford. «Il campione italiano proviene dalla Lombardia, e ciò suggerisce che questo ramo sia responsabile di una parte significativa dell' epidemia italiana». Ma le sorprese devono ancora arrivare. Nel tweet successivo il ricercatore spiega che «alla base di queste linee c' è il campione "Germany/BavPat1/2020", riconducibile al "paziente 1" che è stato infettato in Baviera da un collega in viaggio dalla Cina». Anche lo stesso scienziato si mostra stupito: «Incredibilmente, sembra che questo cluster che contiene il ceppo tedesco sia il diretto progenitore degli altri virus comparsi successivamente, e che risultano collegati a una certa frazione dell' epidemia che circola in Europa oggi». Più tardi, lo stesso Bedford preciserà che «i risultati della ricerca non sono definitivi» e che «un maggior numero di campioni dai casi lombardi potrebbero mostrare un ingresso differente». Dunque, come sembrano suggerire gli studi filogenetici, nessuno può escludere che in realtà il cammino del virus sia partito in Germania. Vi immaginate se, anziché dall' Italia, le linee rosse tracciate dalla Cnn fossero partite da Berlino? La storia del «paziente 1» tedesco, in effetti, desta più di un sospetto. Lo scorso 29 gennaio, un dipendente dell' azienda di componenti auto Webasto era risultato positivo al Coronavirus. Nessuna storia di viaggio in Cina né in altre aree a rischio. Pochi giorni prima, intorno al 24 gennaio, aveva avuto un meeting di lavoro con una donna cinese, risultata anche lei positiva al test. Poi i sintomi classici del virus: febbre, tosse, dolori articolari. Rientrato al lavoro, prima di effettuare il tampone l' uomo contagerà diversi colleghi, dando origine a un focolaio in Baviera. Se gli studi sulla genetica del virus messi in luce da Bedford dovessero rivelarsi corretti, forse saremmo in presenza del fantomatico «paziente zero». Come abbia potuto viaggiare il virus dalla Germania fino a noi, ovviamente non è dato saperlo. Gli scambi commerciali con il nord Italia sono molto fitti. Uno studio sui primi casi di Covid-19 in Sudamerica ha messo in luce la similitudine tra il ceppo che ha causato un contagio in Brasile e quello bavarese. Ma dal momento che l' uomo ha viaggiato in Italia, i media si sono affrettati ad attribuirci l' origine del caso. Nuno Faria, professore a Oxford e autore della pubblicazione, ha spiegato alla Verità che «è ancora presto per stabilire se il virus sia arrivato in Italia dalla Germania, dalla Cina o altrove», dal momento che «servono ancora altri dati». Proprio ieri, intanto, una ricerca dell' ospedale Sacco ha confermato che in Italia circolano tre ceppi del virus, i quali presentano forti analogie con quelli circolanti negli altri Paesi europei. Confermata anche l' origine cinese del patogeno. Il virus, inoltre, sarebbe in Italia «diverse settimane» prima che emergesse il focolaio di Codogno. Altro che colonna: se c' è una aspetto infame nella vicenda del coronavirus, perciò, è proprio la delirante campagna mediatica orchestrata ai danni dell' Italia.
Coronavirus, due ceppi diversi: il tipo-L è più contagioso e letale. Secondo un gruppo di ricercatori cinesi esisterebbero due differenti tipologie di coronavirus: un Tipo-L, più contagioso e letale, e un Tipo-S, molto meno aggressivo. Federico Giuliani, Giovedì 05/03/2020 su Il Giornale. Due ceppi diversi di coronavirus. Due tipologie della stessa malattia con distinte caratteristiche ed effetti: è questa l'ultima scoperta di un gruppo di scienziati cinesi. I ricercatori della School of Life Sciences dell'Università di Pechino e dell'Institut Pasteur di Shanghai, sotto la supervisione dell'Accademia cinese delle scienze, affermano di aver scoperto l'esistenza di due versioni di Covid-19. Nel loro studio, pubblicato sulla National Science Review, il giornale della stessa Accademia delle scienze cinese, l'équipe illustra le due tipologie distinte del coronavirus: una definita di Tipo-L, l'altra di Tipo-S. La prima, il Tipo-L, molto più contagiosa e letale della seconda, in un primo momento sarebbe stata la più diffusa. Successivamente un processo di selezione l'avrebbe soppressa in favore del Tipo-S, meno contagiosa. Basandosi su una gamma limitata di dati – e ribadendo la necessità di effettuare studi su una scala più vasta per confermare la teoria – lo studio preliminare ha scoperto che il 70% dei casi analizzati a Wuhan apparteneva al ceppo più aggressivo mentre il rimanente 30% a uno meno aggressivo. La prevalenza del tipo più aggressivo sarebbe diminuita dopo l'inizio di gennaio 2020.
Tipo-S e Tipo-L. Scendendo nel dettaglio, nel paper si legge che “analisi genetiche di popolazione di 103 genomi SARS-CoV-2 hanno indicato che questi virus si sono evoluti in due tipi principali (designati L e S), che sono ben definiti da due diversi polimorfismi a singolo nucleotide”. Detto del Tipo-S e del Tipo-L, nella ricerca viene affrontato un altro aspetto interessante: “L'intervento umano potrebbe aver esercitato una pressione selettiva più pesante sul tipo L, che potrebbe essere più aggressivo e diffusosi più velocemente. D'altra parte, il tipo S, che è evolutivamente più vecchio e meno aggressivo, potrebbe essere aumentato nella frequenza relativa a causa della pressione selettiva relativamente più debole”. "Questi risultati supportano fortemente la necessità urgente di ulteriori studi immediati e completi che combinano dati genomici, dati epidemiologici e record grafici dei sintomi clinici dei pazienti con malattia coronavirus 2019 (COVID-19)", hanno quindi scritto i ricercatori. Come riferisce Reuters, altri esperti non sono del tutto convinti di quanto affermato dai colleghi cinesi. "È difficile confermare studi come questo senza un confronto diretto diretto della patogenicità e diffondersi, idealmente, in un modello animale o almeno in uno studio epidemiologico molto esteso", ha affermato Stephen Griffin, professore ed esperto di infezione e immunità alla britannica Leeds University.
DALLA CINA CONFERMANO: ESISTONO DUE CEPPI, UNO PIÙ VIOLENTO E UNO PIÙ DEBOLE. DAGONEWS il 4 marzo 2020 - Ceppo Laqualunque: le ipotesi suggerite da Vincenzo D'Anna, presidente dei biologi italiani, lo scorso sabato su Dagospia (ci sono più ceppi del virus, uno dei quali presente in Italia prima che il ''paziente 1'' si facesse ricoverare), trovano conferma sia da uno studio cinese pubblicato oggi sulla ''National Science Review'' (qui sotto link e abstract da noi tradotto in italiano), sia dagli scienziati dell'Ospedale Sacco e dall'Università di Milano, che hanno dimostrato come esistano tre diverse sequenze genetiche, e una o più di esse circolava nel Nord Italia ''diverse settimane'' prima dell'esplosione, o meglio dell'emersione, dell'epidemia. L'articolo cinese dice, in parole poverissime, che esistono due tipi di SARS-CoV-2, come si chiama anche il coronavirus di cui parliamo da settimane. Uno che gira da più tempo, più debole e dunque più contagioso: gli infettati hanno sintomi lievi e perciò continuano nelle loro attività quotidiane, vanno in giro, stringono mani, tossiscono in ufficio, e ''colpiscono'' molte più persone (che poi è l'obiettivo finale dei virus). Il secondo invece è molto più aggressivo, ti fa venire la febbre altissima, polmonite, in poche parole ti spedisce in pochi giorni all'ospedale o addirittura al cimitero, cosa che impedisce al virus di propagarsi: se vieni ricoverato, non fai altri contagi (salvo i casi di contagio IN OSPEDALE, come accaduto a Codogno e in Veneto, che sono una tempesta perfetta perché il personale medico si ammala e a sua volta contagia - ignaro - pazienti già indeboliti da altri malanni). Questo NON È l'obiettivo di un virus, che vuole invece viaggiare di ospite in ospite, riproducendosi il più possibile e surfando felice nei nostri sternuti e sputazzi. Per quanto stronzo, il virus non vuole finire isolato in terapia intensiva né al camposanto. Ecco perché nelle scorse epidemie di SARS e MeRS, ci furono molte vittime in pochissimo tempo ma una scarsa diffusione: l'elevata gravità dei sintomi portava i malati a essere individuati e isolati velocemente. Buone notizie quindi? Sì, perché il SARS-CoV-2 tenderà a diventare meno letale col passare delle settimane: lui stesso cercherà di non ammazzare i suoi ospiti così da poterne infettare di più. Come ogni influenza stagionale. Meno buono il fatto che ancora sappiamo molto poco di questo virus, e perché non è chiaro se dal tampone emerga questa differenza: andrebbero ricoverati o isolati subito quelli che hanno il secondo tipo, e forse più ''liberi'' quelli che hanno il primo. Trattare tutti i contagi allo stesso modo sta portando alla paralisi di interi paesi.
Dagospia il 4 marzo 2020 L'ABSTRACT DI UN IMPORTANTE ARTICOLO PUBBLICATO DALLA ''NATIONAL SCIENCE REVIEW'', PUBBLICAZIONE CINESE. L'epidemia di SARS-CoV-2 è iniziata alla fine di dicembre 2019 a Wuhan, in Cina, e da allora ha avuto un impatto su gran parte della Cina e ha sollevato importanti preoccupazioni a livello globale. In questo studio, abbiamo studiato l'estensione della divergenza molecolare tra SARS-CoV-2 e altri coronavirus correlati. Sebbene abbiamo riscontrato solo una variabilità del 4% nei nucleotidi genomici tra SARS-CoV-2 e un coronavirus legato alla SAR di pipistrello (SARSr-CoV; RaTG13), la differenza nei siti neutri era del 17%, suggerendo che la divergenza tra i due virus è molto maggiore di quanto precedentemente stimato. I nostri risultati suggeriscono che lo sviluppo di nuove variazioni nei siti funzionali nel dominio di legame del recettore (RBD) dello spike osservato in SARS-CoV-2 e nei virus da SARSr-CoV di pangolino sono probabilmente causati da mutazioni e selezione naturale oltre alla ricombinazione. Analisi genetiche di popolazione di 103 genomi SARS-CoV-2 hanno indicato che questi virus si sono evoluti in due tipi principali (designati L e S), che sono ben definiti da due diversi polimorfismi a singolo nucleotide che mostrano un legame quasi completo attraverso i ceppi virali sequenziati fino ad oggi. Sebbene il tipo L (che ha colpito circa il 70% dei malati) sia più prevalente del tipo S (circa il 30%), il tipo S è risultato essere la versione ancestrale. Mentre il tipo L era più diffuso nelle prime fasi dell'epidemia a Wuhan, la frequenza del tipo L è diminuita dall'inizio di gennaio 2020. L'intervento umano potrebbe aver esercitato una pressione selettiva più pesante sul tipo L, che potrebbe essere più aggressivo e diffuso più velocemente. D'altra parte, il tipo S, che è evolutivamente più vecchio e meno aggressivo, potrebbe essere aumentato nella frequenza relativa a causa della pressione selettiva relativamente più debole. Questi risultati suggeriscono fortemente la necessità urgente di ulteriori studi immediati e completi che combinano dati genomici, dati epidemiologici e record grafici dei sintomi clinici dei pazienti con malattia di coronavirus 2019 (COVID-19).
(ANSA il 4 marzo 2020) - E' stata ottenuta in Italia la mappa genetica completa dei ceppi del coronavirus SarsCoV2 in circolazione in Italia. Il risultato è stato ottenuto dal gruppo dell'Università Statale di Milano e dall'Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli, lo stesso che aveva isolato i 3 ceppi del virus nell'area di Codogno. Lo rende noto la stessa università. Dalla sequenza genetica emerge la parentela con i virus in circolazione in altri Paesi europei e conferma l'origine dalla Cina. Dalla prima analisi è emerso infatti che il coronavirus isolato da tre persone in Lombardia ha forti analogie con le sequenze genetiche del coronavirus del primo caso rilevato in Italia, quello del turista cinese ricoverato nell'ospedale Spallanzani di Roma con la moglie, e del paziente uno di Codogno, entrambe ottenute da Istituto Superiore di Sanità (Iss) e Policlinico Militare Celio di Roma. Forti anche le analogie con i virus isolati in Europa, soprattutto in Germania e in Finlandia, e in America Centrale e Meridionale. L'analisi, rileva l'ospedale Sacco, conferma comunque l'origine cinese dell'infezione. C'è la prima prova che il coronavirus circolava in Italia diverse settimane prima che ci fosse la diagnosi del paziente uno di Codogno. E' contenuta nelle 3 sequenze genetiche del virus in circolazione in Lombardia, ottenute dal gruppo di Università Statale di Milano e Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli. L'analisi di ulteriori genomi, in corso, potrà fornire stime più precise su ingresso del virus in Italia e possibili vie di diffusione.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 6 marzo 2020. L’Italia è in quarantena a causa del Coronavirus: da oggi, infatti, le scuole sono chiuse su tutto il territorio nazionale, cinema e teatri hanno abbassato le saracinesche, mentre nei prossimi giorni tutti gli eventi sportivi si disputeranno senza spettatori. Sono solo alcune delle misure prese dal Governo, insieme alle raccomandazioni igienico sanitarie, per contrastare l’epidemia di COVID-19 nel nostro Paese. Basteranno per contenere la diffusione del virus in Italia? TPI lo ha chiesto al professor Nino Cartabellotta, tra i più autorevoli metodologi italiani. Medico chirurgo, Cartabellotta è presidente della Fondazione Gimbe, Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze, nata con l’obiettivo di diffondere in Italia la cultura e gli strumenti dell’EBM attraverso iniziative di formazione, editoria e ricerca. Cartabellotta ha spiegato, attraverso i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe, quali sono le criticità attuali e cosa bisogna fare per vincere la sfida contro il Coronavirus.
I valori della Lombardia hanno un incremento più rapido di quello delle altre Regioni. Perché?
«Per varie ragioni: innanzitutto la bassa lodigiana è il focolaio principale, in sostanza la nostra Wuhan; in secondo luogo perché l’epidemia si è sviluppata in ambito ospedaliero con rapida identificazione dei soggetti infetti; infine perché sono stati eseguiti numerosi tamponi (12.138)».
Quello che fa più impressione è che i valori assoluti per l’Italia sono gli stessi dalla Cina (considerando come giorno 1 italiano il 20 febbraio e giorno 1 cinese il 15 gennaio), ma abbiamo meno di 1/20 degli abitanti della Cina. E cosa comporta?
«I numeri della Cina sino a fine gennaio sono da prendere con cautela, nel senso che è verosimile fossero molto più elevati. In ogni caso l’impennata del numero di casi in Italia è molto più ripida di quella cinese e molto simile a quella della Corea, dove i 31 casi del 18 febbraio sono diventati 5.328 il 4 marzo. Le conseguenze della rapida impennata purtroppo le stiamo già toccando con mano: nell’impossibilità di contenere l’incremento percentuale dei casi l’assistenza sanitaria rischia di andare in tilt».
Stando ai dati di ieri ci sono 295 persone in terapia intensiva. Quanti sono i posti letto in terapia intensiva in tutta Italia? Con questa tendenza, quanti giorni abbiamo prima che siano tutti esauriti?
«Secondo i dati del ministero della Salute aggiornati al 2018 in Italia i posti letto di terapia intensiva sono 5.293 tra pubblici e privati accreditati. La situazione è particolarmente critica in Lombardia: ha una dotazione di 859 posti letto di terapia intensiva, ma ben 209 sono occupati da pazienti affetti da Coronavirus. Il ministero della Salute ha già emanato una circolare per aumentare del 50% il numero dei posti letto in terapia intensiva, ma non potrà essere una misura immediata».
Quindi quanto tempo abbiamo?
«In Lombardia se si mantiene il trend attuale (+20-25% al giorno), in assenza di adeguate contromisure (rimandare interventi chirurgici non programmati, attivare posti di semi-intensiva, coinvolgere il privato accreditato), il tempo è quasi scaduto, anche perché le terapie intensive devono accogliere anche altri pazienti gravi».
Qual è l’identikit del paziente ricoverato in terapia intensiva? È la stessa della Cina, della Corea, o c’è differenza?
«Non lo conosciamo. Non conosciamo nulla dei pazienti che stanno dietro ai numeri snocciolati ogni sera dal capo della Protezione Civile Borrelli. Non è nemmeno stata standardizzata una scheda di raccolta dati per i pazienti positivi al Coronavirus. Di cui oggi non sappiamo assolutamente NULLA».
Perché in Corea il tasso di mortalità è molto più basso che quello italiano?
«Il dato è impressionante: in Corea 32 decessi su 5.328 casi, in Italia 107/3.089. Ovvero per tasso di letalità Italia batte Corea 3,4% a 0,6%. Un dato che sicuramente gioca a nostro sfavore è la popolazione più anziana, ma non credo spieghi una differenza sul tasso di letalità di 5-6 volte superiore. Purtroppo, in assenza di dati sulle caratteristiche cliniche, epidemiologiche e assistenziali dei pazienti è molto azzardato fornire spiegazioni certe».
È ancora possibile contenere la diffusione all’interno dei focolai? Se sì, cosa bisogna fare? Oppure tutta l’Italia è già esposta al contagio?
«La Cina ha insegnato a tutto il mondo come si trasmette e come si debella il virus. Europa, America e altri sono stati a guardare pensando di essere immuni senza preparare strutture sanitarie e popolazione allo tsunami. Il virus è già ampiamente diffuso in tutta Italia: escludendo Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, ieri il numero totale dei casi nelle altre regioni era 365, quasi il 12%. Emblematico il caso delle Marche: il 26 febbraio ha registrato il primo caso, il 4 marzo ne ha riportati 84, di cui 34 ricoverati con sintomi e 15 in terapia intensiva. Il contagio può essere rallentato solo con misure di distanziamento sociale: dall’isolamento dei malati alla tracciatura dei contatti, dalla quarantena delle persone esposte al virus alla chiusura delle scuole, dalle misure relative ai luoghi di lavoro (es. smart working) all’evitare gli assembramenti di persone. Misure estese (in ritardo) a tutta Italia dal DPCM pubblicato il 4 marzo. Le precedenti esperienze di pandemie influenzali, in particolare quella del 2009-2010, hanno dimostrato che è impossibile contenerle nel focolaio iniziale, né prevenire a medio termine la diffusione internazionale dell’infezione. In assenza di vaccini e di farmaci antivirali efficaci, le uniche misure per rallentare la diffusione del Coronavirus sono quelle di distanziamento sociale che permettono di ottenere 3 risultati. Anzitutto ritardare il picco epidemico guadagnando tempo per preparare adeguatamente il sistema sanitario; in secondo luogo ridurre l’entità del picco epidemico per evitare il collasso del sistema sanitario; infine distribuire le infezioni su un arco temporale più lungo, per consentire una migliore gestione dei casi. In altri termini per evitare che una mareggiata (area azzurra) si trasformi in tsunami (area arancione). Ovviamente se le regole dettate dal Governo a livello nazionale sono condicio sine qua non per contenere il COVID-19, serve la massima attenzione delle amministrazioni locali e, soprattutto, il senso di responsabilità dei cittadini: dobbiamo accettare che servono rinunce individuali, tempo e pazienza».
È possibile che in regioni con un sistema sanitario meno efficiente i numeri possano aumentare con una frequenza più rapida?
«La regola generale è “chi cerca trova”: ovvero il numero dei casi è condizionata anche dal numero di tamponi effettuati. Nel meridione quello che più preoccupa non è l’aumento dei casi lievi, ma quello dei casi gravi che richiedono ospedalizzazione o addirittura terapia intensiva. Per essere molto franchi, nessuna Regione del sud è in condizioni di affrontare un’emergenza come quella che sta cercando, con grande difficoltà, di fronteggiare la Lombardia».
Si può immaginare un modello simile a quello della Cina, con i contagi in diminuzione dopo 45 giorni dall’inizio “ufficiale” dell’epidemia? Cosa ci dicono i numeri? Oppure le misure attuate in Italia sono diverse e quindi diverso il decorso?
«È presto per fare ipotesi e vedere i risultati delle misure attuate. Ma ribadisco, la Cina ci ha insegnato come combattere con successo il COVID-19. Noi la lezione l’abbiamo imparata solo a metà».
UN VIRUS PADANO. Coronavirus, l'ipotesi del presidente dei biologi: "Il nostro è un virus padano, non c'entra con la Cina". Libero Quotidiano l'1 Marzo 2020. Il ceppo isolato a Milano di coronavirus per Vincenzo D'Anna, è un "virus padano" che esiste negli animali allevati nelle terre "ultra concimate con i fanghi industriali del Nord". Secondo il presidente dell'Ordine dei biologi italiani esistono due contagi in circolazione nel nostro Paese: il primo - come confermato a Dagospia - cinese, mentre un altro sarebbe locale e sarebbe quello scoperto all'ospedale Sacco di Milano. "Sembra - scende nei dettagli l'esperto - che tale virus sia domestico e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli". Per D'Anna si tratta infatti di un virus para-influenzale, "senza nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione" e per questo impossibilitato a trasmettersi altrove. "Bisognerebbe parlare alla gente - afferma proprio per la dichiarazione precedente - in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. Cominciamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina". Quella del presidente è però un'ipotesi che solo i laboratori potranno confermare o meno.
Il presidente dei biologi ha un'altra teoria "Ma quale Cina, il Coronavirus è padano". D'Anna: «Viene dai nostri rifiuti industriali». Poi frena: «Solo un'ipotesi». Enza Cusmai, Domenica 01/03/2020 su Il Giornale. Il ceppo isolato a Milano di coronavirus? É un «virus padano» che esiste negli animali allevati nelle terre «ultra concimate con i fanghi industriali del Nord». Sembra una provocazione, ma la dichiarazione vale la pena di essere registrata visto che proviene dal presidente dell'Ordine dei biologi italiani, Vincenzo D'Anna. Ieri ha infatti dichiarato a Dagospia che attualmente esistono due contagi in circolazione nel nostro Paese: il primo, cinese, che ha una diffusione lenta attraverso i viaggi e gli spostamenti degli infettati, mentre un altro sarebbe locale e sarebbe quello scoperto dall'equipe del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano che ha isolato un nuovo ceppo del Covid-19. Il presidente dell'Ordine dei biologi italiani ha inoltre spiegato anche perché il Coronavirus non si trovava in altri stati europei: «Semplicemente, si riteneva inutile cercarlo». Ma come si giustificano le coincidenze di tempistica tra i due virus? E come mai al Sacco non è stato detto nulla sull'argomento? In attesa di chiarimenti da parte dello stesso laboratorio, ecco la valutazione del biologo. «Sembra che tale virus sia domestico ha dichiarato e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli». In sostanza sarebbe un «virus padano» che quindi non circola nelle altre regioni. Anche sulla sua pericolosità, smorza i toni. «É poco più che un virus para-influenzale, senza nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione». Ma non è finita qui. Siccome questo virus padano è localizzato e poco pericoloso, D'Anna critica la gestione pubblica della vicenda e la considera «una delle più grandi cantonate che la politica italiana ha preso, nel solco di quella approssimazione che la caratterizza tutti i giorni». Quindi, sostiene che ne escano «male le istituzioni sanitarie statali troppi asservite al conformismo, il silenzio di migliaia di scienziati, ricercatori ed accademici». Il biologo infine invita tutti ad abbassare i toni. «Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. Cominciamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo coloro per i quali esista un fondato sospetto di contagio. E si tratta comunque sempre del contagio di un virus influenzale. Un virus che ha una mortalità che è ancora più bassa di un virus influenzale La Borsa l'altro giorno ha bruciato circa quaranta miliardi di euro». In serata un'ulteriore «frenata»: «È La mia è solo un'ipotesi. Servono conferme. Se ne potrà parlare solo quando ci saranno risultati di laboratorio».
Dagospia il 29 marzo 2020. Dichiarazione di Vincenzo D’Anna, presidente ordine dei biologi italiani, raccolta da Dagospia. Ecco allora un nuovo colpo di scena destinato a rendere ridicoli sia il panico che il caos sociale ed economico provocato dal nuovo Coronavirus: l'equipe del laboratorio dell'Ospedale Sacco di Milano ha isolato un nuovo ceppo del Covid-19 detto "italiano Ebbene, sembra che tale virus sia domestico e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Un virus padano, per dirla tutta, esistente negli animali allevati nelle terre ultra concimate con fanghi industriali del Nord!! Ecco spiegato perché nelle altre regioni il virus latita, come già noto in letteratura (vedi Wu et al. Cell Host & Microbe doi:10.2016 j.chom.2020.02.001,2020). Insomma i contagi sarebbero due: uno pandemico a diffusione lenta attraverso i viaggi degli infettati, e l'altro locale. Quest'ultimo poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte "a rischio" della popolazione. La stessa OMS ridimensiona il tiro e declassa il virus a poco più che un influenza, batte in ritirata anche Burioni che si scusa. In altri stati europei il virus non lo si trovava perché, semplicemente, si riteneva inutile cercarlo. Ma non è’ finita: si aggiunge la specificità territoriale del Coronavirus italiano che rende ancora più specifica la beffa nordista. Ci troviamo innanzi ad una delle più grandi cantonate che la politica italiana ha preso, nel solco di quella approssimazione che la caratterizza tutti i giorni. Ne escono male le istituzioni sanitarie statali troppi asservite al conformismo, il silenzio di migliaia di scienziati, ricercatori ed accademici.
Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici. Vincenzo D'Anna, presidente dell'ordine nazionale dei biologi, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha detto la sua sul Coronavirus: "Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. E la borsa ieri ha bruciato circa quaranta miliardi di euro. Ricchezza che se ne va. E' tutto fermo, tutto paralizzato, per un virus che è poco più di un virus influenzale. Iniziamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo quelli per i quali esista un fondato sospetto di contagio. Ma si tratta sempre del contagio di un virus influenzale. Un virus che ha una mortalità che se vogliamo è ancora più bassa di un virus influenzale". D'Anna ha proseguito: "Il coronavirus non è più grave o più mortale di una influenza. I nostri stessi morti, e dispiace sempre quando una persona decede, erano ottuagenari, o persone già malate, di cancro o con malattie croniche di tipo cardiorespiratorio. Avrebbe potuto ucciderle anche un virus influenzale. Questa è la verità. Non possiamo sparare alle mosche col cannone. Mi aspetto che gli scienziati comincino a parlare. Molti hanno paura di essere aggrediti, di essere tacciati come superficiali, perché le brutte notizie sono sempre più gradite delle buone notizie, le brutte notizie fanno i titoloni sui giornali. Ne abbiamo lette tante in questi giorni". Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha concluso: "Diciamoci la verità, noi non abbiamo degli scienziati molto coraggiosi in Italia. Ognuno quando può si esime dal mettersi sotto i riflettori, mentre in pochi inseguono come una star la luce dei fari. Mi auguro e spero che questa frenesia finisca, che la gente si cominci a rendere conto che contrarre il coronavirus è come contrarre un virus influenzale. In Europa non ci sono molti contagiati perché molte nazioni il virus non lo cercano".
Coronavirus, “l’ospedale Sacco non ha depositato il genoma”. Recnews.it il 19/03/2020. Il presidente dell’Ordine nazionale dei biologi Vincenzo D’Anna è intervenuto sulla presunta epidemia chiarendo alcuni aspetti. Vincenzo D’Anna, presidente dell’Ordine nazionale dei biologi, è tornato indietro sulle dimissioni dopo aver – ha riferito – ricevuto attestati di stima trasversali. E meno male: senza di lui, in tempi di dittatura mediatica, si saprebbe di sicuro meno sui vaccini e anche sul Coronavirus. Su quest’ultimo argomento, il presidente dell’Onb ha chiarito numerose questioni nel corso di un’intervista rilasciata al divulgatore indipendente Marcello Pamio.
Il “ceppo italiano scoperto” dall’ospedale Sacco. Ne abbiamo parlato a ridosso dell’ufficializzazione della notizia da parte di Massimo Galli. Il medico affermava che l’ospedale Sacco di Milano avesse scoperto il “ceppo italiano del Coronavirus, lasciando tuttavia spazio a una serie di quesiti tuttora senza risposta. Sull’argomento è intervenuto lo stesso D’Anna, che ha chiesto lumi su un deposito che, allo stato, risulterebbe inesistente: “Un collega genetista iscritto all’Ordine dei biologi, mi ha detto che il virus non risulta nelle banche dati dove si depositano i codici genetici dei virus per metterli a disposizione degli studiosi”, ha riferito.
“Due decessi su cento riconducibili al Coronavirus”. Non è l’unica cosa che non torna sulla presunta emergenza. Altri aspetti sono costituiti dai falsi positivi, citati dallo stesso presidente dell’Onb, e dai recenti dati forniti dall’ISS di cui nessun sito, giornale, tg e programma allarmista parla. Cosa dicono? Che “solo – chiosa l’esperto – due decessi su cento sono realmente attribuibili al Coronavirus”. Il che equivale a 60 morti su 3000. Sessanta-morti-su-tremila.
L’Iss, i falsi positivi e la “scienza politicizzata”. Ma perché non si sente parlare più di tanto di aspetti del genere? A una prima lettura, sarebbe facile credere che l’Iss – che fa i dati, decide e divulga– possa cedere a input esterni. Del resto l’organismo presieduto da Brusaferro, salvo modiche con l’ultimo decreto si beccherá dodici milioni aggiuntivi in tre anni. L’Iss è l’Istituto che per l’emergenza coronavirus passa in rassegna e mette il suo “timbro” praticamente su tutto. Anche sui falsi positivi spariti dal dibattito pubblico. “Viviamo in una Nazione – è stato il commento rassegnato di D’Anna – in cui la scienza è asservita alla politica”.
Le caratteristiche del Coronavirus. “Il virus – ha detto il presidente dell’Ordine nazionale dei biologi – per il 50% è asintomatico. È come il virus dell’herpes: c’è ma non ce ne accorgiamo, perché abbiamo nel nostro organismo anticorpi per decine di migliaia di virus. Nove infetti su dieci da coronavirus, non hanno problemi”, il che equivale a 900 persone su 1000. “La percentuale di casi problematici – focalizza ulteriormente D’Anna – equivale allo 0,56% del totale”.
Il procurato allarme di media mainstream e politica. Eppure dei dati rassicuranti non parla quasi nessuno. “Stiamo giocando – riflette il presidente dell’Onb – ad allarmare la gente. Perché abbiamo questa esigenza di allarmare la gente? I tedeschi non hanno avuto l’esigenza di taroccare l’informazione”.
Il caldo. I focolai di Brescia e Bergamo. Il fatto che il virus tema il caldo è stato bollato dalla stampa commerciale come una fake news. Non è d’accordo, forte dei dati presenti nelle pubblicazioni scientifiche, Vincenzo D’Anna: “Il coronavirus – ha detto – ha un suo limite di attività, che va dai +2° ai +27°” (gradi centigradi). Il dato, domanda Pamio, può avere analogia con lo sviluppo maggiore del coronavirus a nord, che comunque come spiegato è da ridimensionare “Ci dobbiamo spiegare – la risposta – i focolai del Bresciano e del Bergamasco. La Lombardia è l’unica regione che consente di spargere i fanghi industriali nel terreno, anche quelli di derivazione farmaceutica. La provincia di Brescia, inoltre, è la più inquinata d’Italia per quanto riguarda le polveri sottili”.
Le altre vittime da coronavirus. Cardiopatici, persone con problemi circolatori, obesi. A causa dell’emergenza (costruita?) potrebbero vedersi ridotte le possibilità di camminare, nonostante per loro si tratti di un gesto vitale. Lo è, in realtà, per tutti, perché solo ciò che è inerte e senza vita può stare fermo e al chiuso. Eppure in queste ore il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’influente ministro dello Sport Spadafora, stanno invocando chiusure totali per vietare completamente le uscite. Gli anziani, i senzatetto che ricevevano provviste dai volontari, gli animali non domestici? Abbandonati per un decreto che paradossalmente è stato battezzato “Cura Italia”. E gli altri non stanno meglio: “Così facendo – chiude D’Anna – riempiremo i reparti di Neurologia”. Inseguendo psicoreati che solo Orwell avrebbe potuto immaginare.
Perché le dimissioni (ritirate) del presidente dei Biologi erano una buona notizia per la scienza. Dai vaccini al coronavirus, tutte le controversie su Vincenzo D'Anna, che lascia la guida dell'ordine dei biologi. Enrico Cicchetti su Il Foglio il 15 Marzo 2020. Vincenzo D’Anna ha annunciato ieri sera con una lettera di avere ritirato le sue dimissioni da presidente dell’ordine dei biologi. “In esito ad un approfondimento sull’art. 39 della legge 396/1967, cioé la norma che disciplina le modalità di nomina delle varie cariche in seno al Consiglio dell’Ordine mi è stato fatto rilevare che la legge non prevede alcun meccanismo di sostituzione del Presidente se non per assenza o impedimento, il che fa anche dubitare della stessa ammissibilità delle dimissioni da tale carica slegate dalla contestuale rinuncia anche a quella di consigliere. [...] al fine di non provocare disorientamento nella comunità dei biologi, comunico di ritirare formalmente le mie dimissioni così come presentate in data 14 marzo 2020, confermando in toto quanto reso noto nella lettera inviata in pari data al componenti del Consiglio dell’Ordine dei biologi”. Il politico e biologo Vincenzo D’Anna, che aveva diffuso notizie false sul coronavirus, si è dimesso dalla carica di presidente dell’ordine nazionale dei biologi, che ricopriva dall'autunno 2017. Il sito dell'ordine però non lo cita e segnala invece “divergenze sulla linea politica, con particolare riguardo al ruolo ed alla funzione che l’Ente deve svolgere in relazione agli eventi di particolare rilevanza scientifica e sociale". "Il casus belli", riporta Quotidiano sanità "è il tema del momento: il coronavirus. Sulla questione era infatti in cantiere un numero della rivista ufficiale dell’Onb. Ma sui contenuti del numero non c'è stato accordo con i membri del Consiglio Direttivo che hanno scritto a D’Anna per chiedergli di 'interrompere l'edizione di un numero speciale sul Coronavirus... e ciò per evitare di comunicare in modo conflittuale con le comunicazioni degli organi governativi e scientifici accreditati, nel rispetto della dipendenza di Onb dal ministero della Salute”. D'Anna, ex deputato e senatore, aveva pubblicato a fine febbraio sul suo sito e sulla sua pagina Facebook un messaggio in cui sosteneva che i ricercatori avessero scoperto un nuovo ceppo del Covid-19 detto “italiano”. Il ceppo, secondo lui, domestico non avrebbe "cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Un virus padano, per dirla tutta, esistente negli animali allevati nelle terre ultra concimate con fanghi industriali del Nord!!". Una fake news: l’Ospedale Sacco di Milano ha infatti isolato i ceppi in circolazione in Italia ma non significa che il virus abbia avuto origine qui, come sostiene D’Anna, bensì è una delle tante varianti del virus identificato a Wuhan. Secondo D'Anna il ceppo "italiano" sarebbe "poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione". Un'altra affermazione pericolosa (perché nel sottovalutare i rischi induce le persone a non prendere le dovute precauzioni) e priva di riscontri clinici. E Ancora, per l'ex presidente dei biologi, "la stessa Oms ridimensiona il tiro e declassa il virus a poco più che un’influenza, batte in ritirata anche Burioni che si scusa". Due falsità in una frase. L'Organizzazione mondiale della sanità non ha mai ridimensionato la minaccia e in realtà ha da poco dichiarato la pandemia. E il virologo Burioni non ha certo smesso di mettere all'erta la cittadinanza sui rischi di questa nuova forma virale. D’Anna, in un’intervista al programma “I Lunatici“, in onda su Rai Radio 2, ha sostenuto che il coronavirus è "un virus influenzale e poco più" con "se vogliamo una mortalità ancora più bassa dell'influenza". Una ulteriore falsità, smentita da tanti importanti e autorevoli medici e ricercatori, tra gli altri anche il consulente del ministero della Salute, il dottor Walter Ricciardi che ha precisato che Covid-19 "non è come una normale influenza, ha un tasso di letalità più alto. E soprattutto, se non la fermiamo rapidamente, rischia di richiedere un numero di posti di terapia intensiva superiore a quelli che ci sono nei nostri ospedali" pure suggerendo di "ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5 per cento muore". Nel febbraio 2019, i docenti dell’università di Pavia hanno bloccato gli esami di stato per i biologi per protesta contro le posizioni sui vaccini espresse dall’Ordine nazionale e dal suo presidente. D’Anna aveva infatti deciso di donare diecimila euro all’associazione “free-vax” Corvelva per finanziare non meglio precisate ricerche sui vaccini. L'allora presidente ha in un primo momento difeso la decisione di finanziare l'associazione, che ha definito “un’associazione meritoria”, e annunciato di volere fare causa per diffamazione contro l'università. Salvo, pochi giorni dopo, ritrattare: ha dichiarato infatti di aver tolto i fondi a Corvelva. Non perché finanziare gli antivaccinisti sia sbagliato, ma perché l'associazione aveva anticipato i risultati dei suoi studi al Tempo. La stessa Corvelva, per altro, il giorno prima aveva già deciso di restituire la donazione dell’Ordine dei Biologi, e l'aveva comunicato su Facebook. Ancora: D’Anna, in diverse occasioni (anche sul Foglio), ha rilasciato dichiarazioni sulla presenza di “metalli pesanti” all’interno dei vaccini. A marzo 2018 ha organizzato il convegno "Nuove frontiere della biologia" al quale partecipavano alcuni dei guru dei no-vax e al quale venne dedicato un articolo sul British Medical Journal. Nel gennaio 2019, ne ha organizzato un altro, "Vaccinare in sicurezza", con altri idoli del mondo free vax.
Coronavirus, l'esperta del Sacco Maria Rita Gismondo: "Vi dico io perché non è stato trovato il paziente zero". Libero Quotidiano l'1 Marzo 2020. "Nel nostro Paese il virus si è diffuso in modo silente almeno dall'inizio di gennaio". Parola di Maria Rita Gismondo, la professoressa che dirige il laboratorio di microbiologia, virologia e bio-emergenze all'ospedale Sacco di Milano. Per lei sarebbe proprio questo il motivo - così come spiega al Fatto Quotidiano - per il quale ancora "non è stato trovato il cosiddetto paziente zero". Non solo, perché sempre seguendo questo ragionamento pare plausibile supporre che molti casi di polmonite verificatisi in Italia e nella zona del Basso Lodigiano già dopo Natale possano essere contagi concreti da Covid-19. "Già a fine dicembre - specifica la Gismondo - noi abbiamo iniziato a lavorare sulla base di strane polmoniti cinesi segnalate dall'Oms. In quel momento avevamo sintomi influenzali simili al Covid, per di più concentrati in un picco stagionale normale". L'itinerario del virus risulta ancora un obiettivo da dover raggiungere a tutti i costi: "Stiamo raccogliendo e studiando i genotipi di Cov 2 per fare la sequenza totale del virus e paragonarla con quella messa già in rete dai colleghi cinesi, poi in base alle mutazioni rilevate si traccia la mappatura". Una situazione che, secondo l'esperta, si delineerà nelle prossime settimane.
Galli: «Il Coronavirus in Italia da settimane. Uno tsunami per il sistema sanitario». Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Mentre parliamo al telefono per analizzare l’impennata dei casi di Covid-19, il professor Massimo Galli— primario infettivologo dell’ospedale «Sacco» di Milano — è in reparto, costretto a interrompere tre volte la conversazione per rispondere ai colleghi di altre strutture che chiedono di potergli inviare pazienti gravi: «Quello che lei sta ascoltando in tempo reale vale più delle mie risposte. Siamo in piena emergenza. Sì, sono preoccupato».
Come si spiega questa impennata di contagi?
«È accaduto quello che molti di noi temevano e speravano non accadesse. Il virus ha dimostrato di aver eluso i criteri di sorveglianza. L’epidemia ha a tutti gli effetti conquistato una parte d’Italia. Ci troviamo a dover gestire una grande quantità di malati con quadri clinici importanti. Sta succedendo qualcosa di grave, non soltanto da noi ma anche in Germania e Francia, che potrebbero ritrovarsi presto nelle nostre stesse condizioni e non glielo auguro. Stiamo trattando una marea montante di pazienti impegnativi».
A cosa è dovuta questa esplosione di casi?
«I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente. È verosimile che i ricoverati abbiamo alle spalle dalle due alle quattro settimane di tempo intercorso dal momento in cui hanno preso il virus allo sviluppo di sintomi molto seri, dalla semplice necessità di aiutarli con l’ossigeno fino a doverli assistere completamente nella respirazione».
C’è chi ha paragonato questa malattia all’influenza. Accostamento incauto?
«Chi ha cercato di infondere tranquillità, e li capisco, non ha considerato le potenzialità di questo virus. In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive. La situazione è francamente emergenziale dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria. È l’equivalente dello tsunami per numero di pazienti con patologie importanti ricoverati tutti insieme. Le descrivo la giornata di venerdì, prima che arrivasse la nuova ondata di casi. In Lombardia erano 85 i posti letto occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Per non contare il rischio di contagio al quale sono esposti gli operatori. Un carico di lavoro abnorme».
Le misure predisposte dal governo italiano hanno funzionato?
«È stato fatto tutto ciò che era possibile e adesso bisogna continuare con le restrizioni, cercando di evitare il più possibile l’affollamento. Purtroppo il virus è entrato in Italia prima che si cominciasse a ostruirgli la strada con la chiusura dei voli dalla Cina. La penetrazione nel nostro Paese è precedente, circolava già prima della fine di gennaio anche a giudicare dall’impennata di questi ultimi giorni. Sono tutti contagi vecchi per la maggior parte. Risalgono agli inizi di febbraio, qualcuno anche a prima».
Significa che questa malattia si sviluppa lentamente a cominciare dal contagio?
«È esattamente così. Ha più fasi e si esprime nella sua massima gravità anche a 7-10 giorni dalla comparsa dei primi sintomi. È molto probabile che dietro tutti i pazienti gravi ce ne siano altrettanti infetti ma meno gravi. Per usare un termine tipico dell’epidemiologia, questa è solo la punta dell’iceberg. Anche la migliore organizzazione sanitaria del mondo, e noi siamo tra queste, rischia di non reggere un tale impatto».
L’Italia sembra per ora divisa in due. Al Nord l’emergenza, al Centro-Sud un’apparente calma. Come mai?
«Poteva capitare ovunque e non ci sarebbe stata differenza. Qualcuno, forse una sola persona, è arrivato a Codogno e ha sparso l’infezione senza che ce ne accorgessimo. Un fenomeno casuale con l’aggravante che il focolaio è partito in ospedale. Mi auguro che non accada di nuovo quello che è successo in Lombardia dove un paziente infetto si è presentato al Pronto soccorso e non è stato riconosciuto perché i criteri di classificazione dei sospetti dettati dall’Organizzazione mondiale della sanità erano già superati. Credo che grazie a questo precedente gli ospedali siano allertati».
Lei cosa prevede?
«La maggior parte dei malati guariscono ma ce ne sono tanti, troppi, da assistere. Le aree metropolitane finora sono rimaste fuori dalla zona rossa e speriamo restino così».
Il nuovo coronavirus era in Italia già da settimane prima del 21 febbraio. Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Lo studio sulle tre sequenze genetiche del virus in circolazione in Lombardia, ottenute dal gruppo di Università Statale di Milano e Ospedale Sacco, coordinato da Gianguglielmo Zehender, Claudia Balotta e Massimo Galli, ha confermato quel che i medici sospettavano da tempo: il coronavirus circolava in Italia diverse settimane prima che ci fosse la diagnosi del paziente 1 a Codogno. L’analisi di ulteriori genomi, in corso, potrà fornire stime più precise su ingresso del virus in Italia e sulle possibili vie di diffusione, visto che l’indagine epidemiologica non è riuscita a risalire alla catena dei contagi per arrivare al paziente 0, evidentemente proprio perché il virus era già nel nostro Paese, ma non veniva rilevato anche perché i tamponi venivano fatti solo a persone provenienti dalla Cina o che avessero avuto contatti diretti con positivi. Massimo Galli (direttore malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano) al Corriere aveva dichiarato: «Il virus è “sfuggito” prima ancora della misura di chiusura dei voli dalla Cina. È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci conto della sua situazione». I dati per arrivare a questa considerazione erano stati i tanti quadri clinici gravi e tutti assieme del focolaio di Codogno che «fanno pensare che l’infezione abbia iniziato a diffondersi nella cosiddetta zona rossa da abbastanza tempo. Forse è arrivata addirittura prima che fossero sospesi i voli diretti da Wuhan. È verosimile che i ricoverati negli ultimi giorni si siano contagiati da due a quattro settimane fa per poi sviluppare progressivamente i sintomi respiratori in base ai quali molti hanno avuto necessità di ricorrere a procedure intensive», affermava Galli. Ci siamo ammalati per primi in Europa, ne usciremo per primi? «Io spero proprio di sì. Anche per il grosso lavoro che è stato fatto e che è molto valido. È un sacrificio ma nella giusta direzione», conclude l’esperto. «I numeri che vediamo oggi sono i contagi di 10 giorni fa, quando erroneamente pensavamo che il coronavirus non ci fosse anche perché ancora nessuno lo aveva cercato, nessuno immaginava che fosse già arrivato nel nostro Paese e nessuna restrizione era stata messa in atto. La verità è che il trend è ancora in crescita. Non sappiamo che cosa succederà nei prossimi giorni», ha affermato Roberto Burion, virologo dell’ospedale San Raffaele di Milano. Precedentemente un altro studio dello stesso team aveva scoperto che il coronavirus era nato in Cina già a ottobre-novembre, alcune settimane prima quindi rispetto ai primi casi di polmonite anomale identificati e segnalati dal “medico eroe”, Li Wenliang, morto in Cina per il virus. E ricordiamo che nel lodigiano, dopo l’esplosione dell’emergenza tra Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo, i sanitari hanno ricollegato tra loro decine di pazienti, non solo anziani, che da metà gennaio erano stati colpiti da “strane polmoniti”. «È vero, quest’inverno c’è stata un’impennata di forme polmonari a lunghissima durata, già da dicembre», riferisce all’Ansa Massimo Vajani, presidente dell’ordine dei medici di Lodi.
"Virus in circolo da tempo, inutile la ricerca del paziente zero". Ad affermarlo è la dottoressa alla guida dalla Direzione prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto. "I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente", afferma anche il primario infettivologo del Sacco. Anna Russo, Domenica 01/03/2020 su Il Giornale. "Il virus circola in Europa da molto tempo, almeno da un mese prima rispetto a venerdì 21 febbraio, quando sono stati diagnosticati i due casi di Vo'. E questo, ora, rende del tutto inutile la ricerca del paziente zero". Ad affermarlo in un’intervista rilasciata a Repubblica è Francesca Russo, la dottoressa alla guida dalla Direzione prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto. È il caso dei due anziani contagiati a Vo’ che fa pensare che il Covid-19 già circolasse sotto traccia da settimane prima della rilevazione del primo contagio in Italia. I due anziani, di 86 e 88 anni, vivono da soli in due diversi quartieri del centro storico di Vo’. Non sono mai stati in Cina, non sono entrati in contatto con persone provenienti dalla Cina, non hanno frequentato luoghi a rischio. I loro parenti sono risultati tutti negativi al Covid-19. Un mistero, che dovrà chiarire l’indagine epidemiologica dei cacciatori del paziente zero. Francesca Russo, che guida i medici dei Servizi di igiene e sanità pubblica delle Asl coinvolte nell’epidemia, ipotizza che il contagio a Vo’ possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, “perché – spiega - il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico". Ma, secondo quanto afferma, sarà impossibile confermarlo: "Riteniamo che il virus circolasse sotto traccia da tempo, insieme con il normale virus influenzale. Nei soggetti debilitati, però, ha provocato polmoniti. Il virus è arrivato in Europa in un momento imprecisato e ha dato luogo ai primi contagi in Germania, poi in Francia, e poi abbiamo avuto i nostri. Può essere stato portato in Italia da chiunque". L’ipotesi è che a Vo’ il contagio (confermati 78 casi ad oggi), “possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, perché il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico". Sono otto i soggetti di origine cinese residenti a Vo’, e sono risultati tutti negativi al test. "Sì, ma è anche vero – dice Russo - che due di loro erano tornati dalla Cina appena venti giorni prima dell'esame. Potrebbero essersi negativizzati, quindi stiamo facendo ulteriori approfondimenti". Vanno avanti a ritmo serrato le indagini del suo team a Marghera, presso l’Unità di crisi della Protezione civile. "In questo momento – chiarisce la dottoressa - rileviamo due situazioni di contagio: la prima è legata al criterio epidemiologico, cioè riguarda soggetti infetti che provengono dalla Cina oppure che si sono contagiati qui stando a contatto con loro; la seconda riguarda i casi che si sono manifestati perché il virus circola in Europa. Non è corretto dire in Italia, meglio dire in Europa". L’idea di Russo è che sarebbe stato impossibile bloccare il virus, perché - sostiene - “Essendo presente anche negli asintomatici, cioè in persone che stanno bene e non hanno tosse o febbre, non c'erano misure realistiche per proteggere il Paese dall'epidemia. E non sappiamo chi sia il paziente zero dell'Italia: può essere uno straniero, ad esempio un turista tedesco, francese o cinese, oppure un italiano di rientro dall'estero”. Che il Coronavirus sia arrivato in Italia da settimane prima che si individuasse il paziente 1, lo pensa anche il professor Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano: “I quadri clinici gravi non fanno pensare che l’infezione sia recente. È verosimile che i ricoverati abbiano alle spalle dalle due alle quattro settimane di tempo intercorso dal momento in cui hanno preso il virus allo sviluppo di sintomi molto seri, dalla semplice necessità di aiutarli con l’ossigeno fino a doverli assistere completamente nella respirazione”. Lo dichiara a il Corriere della Sera, a cui esprime le sue preoccupazioni per l’emergenza sanitaria in corso: “Chi ha cercato di infondere tranquillità, e li capisco, non ha considerato le potenzialità di questo virus. In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive. La situazione è francamente emergenziale dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria. È l’equivalente dello tsunami per numero di pazienti con patologie importanti ricoverati tutti insieme”. E per rendere l’idea descrive la giornata di venerdì: “In Lombardia erano 85 i posti letto occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Per non contare il rischio di contagio al quale sono esposti gli operatori. Un carico di lavoro abnorme”.
Per Galli "bisogna continuare con le restrizioni, cercando di evitare il più possibile l’affollamento. Purtroppo il virus è entrato in Italia prima che si cominciasse a ostruirgli la strada con la chiusura dei voli dalla Cina. La penetrazione nel nostro Paese è precedente, circolava già prima della fine di gennaio anche a giudicare dall’impennata di questi ultimi giorni. Sono tutti contagi vecchi per la maggior parte. Risalgono agli inizi di febbraio, qualcuno anche a prima». Il primario spiega che la malattia ha uno sviluppo lento: “Ha più fasi e si esprime nella sua massima gravità anche a 7-10 giorni dalla comparsa dei primi sintomi. È molto probabile che dietro tutti i pazienti gravi ce ne siano altrettanti infetti ma meno gravi. Per usare un termine tipico dell’epidemiologia, questa è solo la punta dell’iceberg. Anche la migliore organizzazione sanitaria del mondo, e noi siamo tra queste, rischia di non reggere un tale impatto”.
Coronavirus, la cacciatrice del paziente zero: "Il virus circolava da molto tempo, ora non serve più cercare chi l'ha portato". Un posto di blocco dell'esercito al confine della zona rossa a Vo' (agf). Francesca Russo dirige il team di medici delle Asl venete coinvolte nell'epidemia: "Può essere stato portato da chiunque in Europa, se è arrivato senza sintomi quando non c'erano ancora misure stringenti. Il contagio di Vo' causato forse da qualcuno arrivato dalla Cina, al momento non è legato al focolaio di Codogno". Fabio Tonacci il 29 febbraio 2020 su La Repubblica. Non hanno fatto viaggi in Cina. Non hanno avuto contatti con persone tornate dalla Cina. Raramente escono di casa. Vivono da soli. Non hanno frequentato luoghi a rischio. Tutti i loro famigliari sono negativi al virus. E allora, com'è che i due anziani di Venezia - il primo di 86 anni, il secondo di 88, residenti in due quartieri distinti del centro storico e ora ricoverati all'ospedale Civile - hanno il Coronavirus? Nove giorni dopo la scoperta del focolaio veneto, questo è il più oscuro dei misteri che l'indagine epidemiologica dei "cacciatori di virus" dovrà chiarire. "Una spiegazione plausibile c'è...", dice la dottoressa Francesca Russo, mentre in un ufficio dell'Unità di crisi della Protezione civile a Marghera scartabella i report della diffusione del contagio (dati aggiornati a sabato 29 febbraio, ore 18: 195 casi confermati a Vo', Mirano, Venezia, Limena, Treviso e Vicenza, uno a Belluno). "La storia dei due anziani dimostra che il virus circola in Europa da molto tempo, almeno da un mese prima rispetto a venerdì 21 febbraio, quando sono stati diagnosticati i due casi di Vo'. E questo, ora, rende del tutto inutile la ricerca del paziente zero". La dottoressa Russo guida la Direzione Prevenzione e sicurezza alimentare del Veneto, a lei fa capo il team di medici dei Servizi di Igiene e Sanità Pubblica (Sisp) delle Asl coinvolte dall'epidemia.
Può spiegare meglio?
"Riteniamo che il virus circolasse sotto traccia da tempo, insieme con il normale virus influenzale. Nei soggetti debilitati, però, ha provocato polmoniti. Il virus è arrivato in Europa in un momento imprecisato e ha dato luogo ai primi contagi in Germania, poi in Francia, e poi abbiamo avuto i nostri. Può essere stato portato in Italia da chiunque".
Sta dicendo che era impossibile bloccarlo?
"Esatto. Essendo presente anche negli asintomatici, cioè in persone che stanno bene e non hanno tosse o febbre, non c'erano misure realistiche per proteggere il Paese dall'epidemia. E non sappiamo chi sia il paziente zero dell'Italia: può essere uno straniero, ad esempio un turista tedesco, francese o cinese, oppure un italiano di rientro dall'estero".
La vostra indagine a cosa è arrivata?
"In questo momento rileviamo due situazioni di contagio: la prima è legata al criterio epidemiologico, cioè riguarda soggetti infetti che provengono dalla Cina oppure che si sono contagiati qui stando a contatto con loro; la seconda riguarda i casi che si sono manifestati perché il virus circola in Europa. Non è corretto dire in Italia, meglio dire in Europa".
E perché non serve più trovare il paziente zero?
"Perché il livello di attenzione si è alzato su entrambi i fronti".
Adesso i tamponi vengono fatti solo a pazienti con sintomi, prima li facevate a tutti. È stato un errore?
"Ci siamo attenuti alle direttive ministeriali. E fare i tamponi agli asintomatici ci ha comunque fatto capire che può risultare positiva anche la persona che non ha viaggiato e sta benissimo".
Come è nato il contagio a Vo', dove ad oggi ci sono 78 casi confermati?
"Ipotizziamo che possa essere stato causato da qualcuno proveniente dalla Cina, perché il cluster è molto ampio ed è legato alla frequentazione di un locale pubblico".
Però gli otto cinesi del paese sono risultati negativi al test.
"Sì, ma è anche vero che due di loro erano tornati dalla Cina appena venti giorni prima dell'esame. Potrebbero essersi 'negativizzati', quindi stiamo facendo ulteriori approfondimenti".
Il locale pubblico in questione è un B&B. Può essere che a portare il virus sia stato un turista di passaggio?
"Sì. Una ventina di clienti è stata rintracciata dal ministero della Salute per essere sottoposta al tampone".
Il cluster di Vò è collegato agli altri del Veneto o a quello di Codogno?
"Al momento non ci risulta".
La Lombardia ed il Veneto hanno contagiato tutta l'Italia. I focolai nelle altre regioni sono spesso riconducibili ad infettati provenienti dalle zone rosse dell’Italia del Nord.
(ANSA il 3 marzo 2020) - Un settantunenne positivo al Coronavirus è scappato dall'ospedale Sant'Anna di Como ed è ritornato a casa in taxi nella provincia di Bergamo. Il tutto, riferiscono i media locali, è successo ieri mattina. L'uomo era stato trasferito dalla Bergamasca a Como ed era ricoverato in isolamento nel reparto di malattie infettive. Ma ormai si sentiva bene e quindi, dopo il controllo di primo mattino, ha preso le sue cose, chiamato un taxi ed è tornato a casa a Casnigo. Quando in ospedale si sono accorti della sua assenza, durante il giro di visite, hanno avvisato i carabinieri. I militari di Bergamo sono andati nella sua abitazione e lo hanno denunciato per inosservanza ai provvedimenti dell'autorità. Il tassista che, ignaro, lo ha accompagnato a casa ha deciso di mettersi in auto quarantena e sta valutando di denunciarlo.
L'OMS ALZA IL LIVELLO D'ALLERTA 14 PAESI CONTAGIATI DALL'ITALIA. Cristiana Mangani per “il Messaggero”. L'epidemia globale di coronavirus continua ad allarmare. Ieri l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso di alzare l'allerta sulla sua minaccia, portandola da alta a «molto alta». Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha ammesso che l'aumento di casi nei Paesi colpiti è motivo di enorme preoccupazione, dopo aver già parlato di «potenziale pandemico» del Covid-19. A Ginevra, sede dell'Oms, è stato annullato il Salone dell'auto, in programma dal 5 al 15 marzo con 600.000 visitatori previsti. Stessa cosa a Berlino, dove si doveva svolgere dal 4 all'8 marzo la fiera del Turismo: i contagi in Germania sono raddoppiati e continuano a crescere anche in Francia, con 19 nuovi casi. Il ministro della Salute di Parigi ha raccomandato di evitare le strette di mano. «Non abbiamo ancora evidenze che il virus si stia diffondendo liberamente nelle comunità. Fin quando la situazione è questa, abbiamo ancora una chance di contenerlo», ha dichiarato Tedros, ricordando che ci sono più di 20 vaccini globalmente sotto sviluppo e trattamenti molteplici nella fase clinica, con risultati attesi «in poche settimane». Lo scenario di sicuro diventa sempre più complesso perché, come ha aggiunto il direttore generale dell'Oms, ci sono da giovedì «i primi casi in Danimarca, Estonia, Lituania, Paesi Bassi, Nigeria. Tutti legati all'Italia» e «24 casi sono stati esportati dall'Italia in 14 Paesi, mentre 97 dall'Iran in 11 Paesi». A fronte di questo quadro gli Usa hanno elevato l'allerta nei confronti dell'Italia al livello 3 - lo stesso di Cina e Corea del Sud - con la quale si raccomanda ai cittadini americani di riconsiderare tutti i viaggi verso il nostro Paese a causa dell'emergenza coronavirus, evitando quelli che non sono necessari. Così mentre la Cina comincia a diffondere dati incoraggianti: 44 morti e 327 casi aggiuntivi di contagio, al livello più basso da oltre un mese, altrove la situazione è preoccupante. Da ieri nella black list del contagio è entrata anche l'Islanda, con un ottantenne tornato dal Nord Italia. Sono già quasi una ventina gli Stati interessati. Alcuni riguardano persone che hanno fatto viaggi all'estero per lavoro, o per turismo. E ci sono anche stranieri che hanno soggiornato nelle regioni italiane colpite e hanno portato con loro il coronavirus. A dare l'annuncio di una presenza della malattia in Nigeria, è stato il ministero della salute: «Riguarda un cittadino italiano che è tornato da Milano a Lagos dove lavora, il 25 febbraio - è stato spiegato - Il paziente è clinicamente stabile, senza sintomi gravi». Ma la notizia preoccupa particolarmente, perché la Nigeria è il Paese più popoloso dell'Africa, con circa 200 milioni di abitanti, prima nazione al mondo con più abitanti in povertà estrema, davanti all'India. Con un sistema sanitario, certamente non in grado di sopportare una epidemia. Anche l'Olanda ha annunciato il primo caso: una persona a Tilburg che era rientrata dal Nord Italia. Un turista danese, invece, aveva trascorso una vacanza vicino a Sondrio. Un italiano di 34 anni è il primo con l'infezione in Messico. Una donna tornata da Verona il 24 febbraio è in isolamento in Lituania, un dipendente dell'Eni è il primo caso accertato in Algeria. L'elenco continua con la Romania, la Croazia, l'Austria, e molti altri ancora. Infine, si aggrava il bilancio dell'epidemia in Iran, dove da ieri il Parlamento è chiuso sine die dopo che l'infezione ha colpito diversi deputati e alti funzionari, tra cui la vice presidente Masume Ibtikar: altre 8 persone sono morte nelle ultime 24 ore, portando il totale a 34, il numero più alto fuori dalla Cina, che ha inviato un suo team di gestione delle emergenze in soccorso di Teheran. Il numero di contagiati è salito inoltre a 388, cioè 143 in più di ieri, secondo il ministero della Salute. Ma fonti interne al sistema sanitario locale hanno riferito alla Bbc che le vittime sarebbero almeno 210 con migliaia di contagi.
(ANSA il 2 marzo 2020) - La provincia cinese orientale dello Zhejiang segna il primo caso di "contagio di ritorno" del coronavirus dall'Italia, dopo quelli quasi tutti legati all'Iran di Pechino, del Guangdong e della regione autonoma Ningxia Hui. La commissione sanitaria locale, scrive il Global Times, ha riferito che la positività ai test è maturata ieri: Wang, questo il cognome della donna di 31 anni, era rientrata da Milano a Qingtian, contea della Zhejiang, il 28 febbraio. La paziente ha preso medicine dal 16 febbraio ai primi sintomi di febbre, tosse e diarrea.
Adnkronos 21/02/2020. "Sono a 15 km da Codogno? Sono tranquillo, c'è una buona sanità sia in Lombardia che in Emilia Romagna".
Bersani: “E se il virus lo avessimo già avuto in casa prima che scoppiasse in Cina?” Bersani: "Correvamo dietro ai cinesi ma lo stavano propagando gli italiani". La7.it 27/02/2020. Pierluigi Bersani si collega con L'aria che tira dalla sua casa di Piacenza, che dista una quindicina di km da Codogno, comune sotto i riflettori per i casi di coronavirus individuati in Lombardia. "La cosa è seria ma bisogna prenderla senza panico", dice Bersani. Pier Luigi Bersani a Piazza Pulita del 27 Febbraio 2020 : “In quelle zone lì il rapporto di attività e di scambio con la Cina è quotidiano. Il primo contagio potrebbe essere anche avvenuto a dicembre…” “Io non sono un virologo e nemmeno un infettivologo, ma ragiono. Di tutti i contagiati che abbiamo trovato in Italia non ce n’è uno che venisse dalla Cina o che avesse avuto a che fare con un cinese”.
Queste le parole di Pierluigi Bersani, ospite di Mario Giordano nella trasmissione di Rete 4, Fuori dal Coro del 25 febbraio 2020. “Mi viene il dubbio – conclude Bersani – che il virus ce l’avessimo già in casa prima dell’allarme, che noi corressimo dietro ai cinesi mentre lo stavano già propagando gli italiani”.
Coronavirus, il sindaco di Borgonovo Valtidone infetto: "Non mi spiego come possa essere stato contagiato". Libero Quotidiano il 2 Marzo 2020. Tra i nuovi contagiati dal coronavirus c'è anche il vicesindaco di Borgonovo Val Tidone, comune del Piacentino in quarantena. E insieme a Domenico Mazzocchi, si è presentato in ospedale anche il suo sindaco, l'omonimo Pietro Mazzocchi. Ha febbre alta da una settimana, "fissa sui 39. Speravo passasse e invece non è andata così. A peggiorare il quadro un gran mal di testa. Sono in queste condizioni dal 23 febbraio. Poi non ce l'ho più fatta", ha spiegato al Quotidiano nazionale. Il sindaco è stato dimesso, ma la paura resta così come i dubbi. "Non me lo spiego, semplicemente. Da sette giorni ho 39 di febbre e non capisco come ho fatto a contrarre il virus perché se si fa eccezione per qualche impegno di lavoro a Piacenza, sono sempre stato qui: non mi sono mai mosso da Borgonovo. Ho ripercorso tutti gli spostamenti delle ultime settimane ma niente: non riesco a risalire a un possibile contagio". Anche nel piccolo Comune piacentino, dunque, si scatena la caccia all'untore, il "paziente zero", proprio come accaduto ormai 10 giorni fa a Codogno. "Il fatto di non sapere come l' infezione sia arrivata in paese mette un po' di ansia. Ribadisco: né io né i miei collaboratori siamo stati nelle zone del focolaio. Inspiegabile". Anche il resto della giunta è in quarantena, mentre per alcuni dipendenti è stato disposto il test del tampone. "È una settimana che sono a pezzi, sto male sul serio e posso dirle che, prima di recarmi in ospedale, essendo rimasto sempre in casa non ho avuto bisogno di alcun tipo di protezione", conclude il sindaco.
Zone rosse attorno ai focolai, il governo invia oltre 500 agenti. Personale di polizia, carabinieri e finanza ai varchi organizzati attorno alle città. E resta l’opzione di utilizzare l’Esercito. Posti di blocco della polizia nelle vicinanze di Casalpusterlengo. La Stampa il 24 Febbraio 2020. Il governo, e i presidenti delle Regioni Veneto e Lombardia, hanno preso le loro decisioni. Alle 17 in punto di ieri, con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale, è scattata l’ora X. E da quel momento spetta alle forze di polizia far rispettare la zona rossa attorno ai focolai dell’infezione. Il Capo della polizia, Franco Gabrielli, che al mattino ha presieduto una riunione operativa, ha mobilitato chi poteva partire. E perciò nel corso della giornata i prefetti di Lodi e di Padova hanno ottenuto i rinforzi. Sono 500 tra agenti finanzieri e carabinieri, uomini e donne, che andranno a presidiare le due «cinture sanitarie». Coronavirus, a Casalpusterlengo scattano i posti di blocco. Come comunicato da prefetti e questori, per rendere invalicabili le due aree, è stato necessario organizzare 8 posti di blocco attorno a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, e 35 altri posti di blocco nel Lodigiano. Ogni punto di entrata richiederà almeno 10 persone nell’arco delle 24 ore. Le forze provengono dai reparti mobili e dai reparti di prevenzione del crimine. Sono quei reparti che abitualmente possono spostarsi sul territorio nazionale con agilità. Mai prima, però, era stato necessario uno sforzo così massiccio, da protrarsi come minimo per i prossimi quindici giorni, e senza interruzione nella notte. Quindi al Dipartimento di Pubblica sicurezza non si fanno illusioni: per il momento non è stato necessario ricorrere all’esercito, ma un domani, se saltasse fuori che occorre rinchiudere altre aree-focolaio, le tre forze di polizia non ce la faranno più. Il ricorso all’esercito, però, è un’extrema ratio che il governo vorrebbe scongiurare per ovvi motivi politici e d’immagine. Anche internazionale. All’interno delle due zone rosse, comunque, non è vietato muoversi anche se ci saranno più autopattuglie del solito per i controlli. I prefetti hanno subito fatto presente al governo che però non sarebbero stati mai in grado di garantire gli approvvigionamenti alimentari e sanitari per così tanta gente. È stata prevista, allora, nella regola generale di chiudere scuole e punti di aggregazione, un’eccezione per i rifornimenti: i furgoni avranno deroghe speciali, la polizia garantirà dei “corridoi dedicati” in orari e tragitti indicati, e così i negozi di alimentari e le farmacie potranno e dovranno lavorare anche in condizioni di emergenza. Unica prescrizione obbligatoria: sia chi avrà rapporti con il pubblico, sia gli autisti privati, dovranno dotarsi della strumentazione sanitaria di prevenzione. Anche gli agenti e i carabinieri impegnati nelle aree del contagio dovranno essere protetti adeguatamente. Lo ha richiesto il sindacato (ad esempio Daniele Tissone, del Silp-Cgil, che ha scritto al prefetto Gabrielli chiedendo «garanzie») e lo prevede una circolare emessa dalla Direzione centrale di sanità della Ps. E quindi gli agenti dovranno indossare i «dispositivi di protezione individuale», ovvero guanti e mascherine. Che però non sono infiniti e andranno preferibilmente alle pattuglie impegnate sulla strada, per i «servizi ad immediato contatto con il pubblico». Gli agenti sono stati anche istruiti, al primo sintomo di influenza, anche lieve, di segnalarlo telefonicamente ai superiori, ai propri medici curanti, e all’ufficio sanitario della polizia. Non dovranno assolutamente recarsi in un pronto soccorso, o in ufficio sanitario della polizia, perché altrimenti si presterebbero a diffondere il virus. Più in generale, la polizia cercherà di allestire uffici protetti per il contatto con il pubblico, in primis gli uffici per stranieri o quelli per la concessione dei passaporti. E anche il personale in servizio nelle stazioni, negli aeroporti, e sui treni, dovranno indossare la mascherina. I treni, infatti, e le stazioni, vengono considerati luoghi di potenziale rischio. Trenitalia a sua volta ha disposto che il personale viaggiante dovrà portare l’equipaggiamento protettivo; sui treni saranno installati i dispenser di disinfettante per le mani, si provvederà a pulire e disinfettare meglio i vagoni di tutti i treni, sia le Frecce che le linee dei pendolari. Chi ha già comprato un biglietto e voglia annullare il viaggio, ne avrà la possibilità senza rimetterci. E anche per il personale ferroviario si consiglia di rimanere a casa se ci sono sintomi influenzali. Le forze armate, intanto, sono state focalizzate sulla seconda emergenza del coronavirus, ossia le strutture per la quarantena di chi ha avuto contatti stretti con i contagiati. Tra esercito e aeronautica sono stati messi a disposizione della Protezione civile circa 5000 posti letto in diverse caserme nelle regioni del Nord. In tutta evidenza ci si prepara al picco dei contagi e ciò comporta, a cascata, che andranno isolate migliaia di persone, potenzialmente a rischio per sé e per gli altri. Le sistemazioni non saranno confortevoli come nella palazzina per gli sportivi militari della Cecchignola, non in stanze singole, ma in camere multiple, e molti uomini si ritroveranno a vivere l’esperienza di quando hanno prestato il servizio di leva.
Puglia, deputato leghista: "Chi ha autorizzato il paziente di Torricella a lasciare Codogno?" A chiederlo è l'onorevole barese della Lega, Rossano Sasso, in riferimento al primo caso di covid 19 della regione. Il caso dopo un post su Facebook del medico e consigliere regionale Giuseppe Turco. Emanuela Carucci, Lunedì 02/03/2020, su Il Giornale. Il caso del primo paziente di Coronavirus in Puglia ha creato molto scalpore. A parlarne in Parlamento anche l'onorevole pugliese della Lega, Rossano Sasso, che ha depositato un'interrogazione all'attenzione del ministro della salute, Roberto Speranza, e del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. Quello che non è chiaro al deputato barese è chi ha autorizzato il 33enne di Torricella, un Comune in provincia di Taranto, primo caso di covid 19 in Puglia, a ripartire da Codogno dove si era recato per trovare la mamma malata di Alzheimer e ricoverata in un centro medico specializzato (come specificato da lui stesso in una lettera pubblicata su un giornale locale). "Tutto è partito perché ho letto un post su Facebook di un consigliere regionale in quota ad una lista civica di Michele Emiliano che si chiama Giuseppe Turco, medico di Torricella. - dichiara a ilGiornale.it, Rossano Sasso -Lui stesso ha dichiarato che il 33enne il 24 febbraio scorso sarebbe uscito dalla zona rossa (di Codogno) e ho chiesto (nell'interrogazione) come mai una persona in pieno divieto sia riuscita a tornare a casa.". Nel suo post, Giuseppe Turco ha scritto: "Un nostro concittadino dal 19 al 24 febbraio ha soggiornato a Codogno. Da Codogno lo hanno tranquillizzato a ripartire per Torricella rispettando la quarantena". "Il 33enne ha preso un aereo da Milano diretto a Brindisi. E proprio pochi giorni prima avevo fatto approvare un ordine del giorno con cui lamentavo il fatto che venissero effettuati i controlli con il termoscan (si tratta di termometri di ultima generazione, ndr), soltanto per chi proveniva da voli internazionali o da Roma. Guarda caso due giorni dopo, uno che ha preso il volo da Milano non è stato monitorato, libero di andare in giro e infettare chiunque". Come è riportato nell'interrogazione parlamentare, "è notorio a tutti che vi era l'assoluto divieto per chiunque a lasciare Codogno già a partire dal 23 febbraio". A questo punto l'onorevole Sasso, che ha comunque augurato una pronta guarigione al 33enne di Torricella, ha chiesto ai ministri Lamorgese e Speranza, "se corrisponda al vero che l'uomo sia stato autorizzato a lasciare il comune di Codogno in vigenza del decreto del presidente del consiglio dei ministri del 23 febbraio 2020 e come sia stato possibile il suo allontanamento da tale zona, infine, alla luce di quanto accaduto, quali iniziative intendano assumere, ognuno per quanto di propria competenza, a tale riguardo.". Effettivamente, il 23 febbraio il governo ha approvato il decreto legge per "prevenire e contrastare l'ulteriore trasmissione del virus". Il 24 febbraio, poi, il governatore della Puglia, Michele Emiliano, come accaduto anche in altre regioni, ha emesso un'ordinanza secondo cui chiunque fosse rientrato dalla Lombardia, dall'Emilia Romagna, dal Piemonte e dal Veneto avrebbe dovuto comunicarlo alle autorità competenti. "Secondo quanto riferito dal consigliere regionale, - continua l'interrogazione posta all'attenzione dei due ministri - l’uomo sarebbe stato autorizzato a lasciare Codogno il giorno successivo all’entrata in vigore del decreto. Pertanto, se fosse vero, tutto ciò sarebbe avvenuto in violazione di legge oltre che senza alcun riguardo al più elementare senso civico e di rispetto della comunità locale." L'uomo per rientrare a Torricella ha, infatti, utilizzato diversi mezzi di trasporto, tra cui un volo aereo, venendo, quindi, a contatto con molte persone. Rimane, dunque, il dubbio su chi ha permesso al 33enne di partire dopo essere stato a Codogno.
"Fuori cinesi, lombardi e veneti". Il Sud si barrica (e teme il contagio). Dopo il Molise, anche Ischia «respinge» i turisti Ordinanza cancellata, ma cresce il malumore. Paola Fucilieri, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. «Alla biglietteria del porto di Napoli, davanti al nostro accento marcato, ci hanno chiesto da dove arriviamo. E quando abbiamo dichiarato di essere veneti di Mestre, ci hanno fatto parlare prima con la polizia e poi con il capitano. Che, più possibilista degli agenti, ha fatto salire me e mia moglie sul traghetto diretto a Ischia. Dal quale siamo dovuti però scendere in fretta e furia perché a quel punto tra gli isolani a bordo è scoppiata una vera e propria rivolta. Praticamente ci hanno mandati via. Trattati come untori, abbiamo rinunciato a una vacanza prenotata (e pagata) da due mesi. Avviliti, siamo tornati a casa. Cos'altro potevamo fare?». Contagiati e pronti a infettare tutti. Così ci vedono nelle zone d'Italia (finora) non colpite dal Coronavirus e così non ci vogliono, in particolare al sud. Certo: proteggersi è sacrosanto e serrare i ranghi in situazioni di pericolo più che giustificabile. Consapevoli però che certe paure, molte delle quali davvero eccessive e premature, rischiano di offuscare i veri problemi meritevoli di maggiore attenzione. Tra questi, facendo i dovuti scongiuri, anche l'eventualità purtroppo tutt'altro che remota, che il virus si espanda anche in Meridione. Ieri alle 17 la coppia di mestrini che hanno parlato con noi (69 anni lui, 67enne lei) sono dovuti rientrare in Veneto dopo che l'ordinanza dei sindaci di Ischia dalla mattina aveva imposto il divieto di sbarco temporaneo sull'«isola verde», oltre ai cinesi provenienti dalle aree dell'epidemia e a chi vi abbia soggiornato negli ultimi 14 giorni - esplicitamente a tutti «i residenti in Lombardia e in Veneto». Giustificando il provvedimento, attraverso frasi ben costruite e zeppe di ridondante prudenza, con «l'elevato volume di arrivi turistici» anche d'inverno e «le difficoltà che comporterebbe dover fronteggiare casi di contagio» nel loro territorio «che dispone di un solo ospedale e ed è svantaggiato dal punto di vista dei collegamenti». Un divieto annullato in serata (purtroppo poco dopo che la nostra coppia era salita in treno per tornarsene in Veneto) dal prefetto di Napoli, Marco Valentini. Con la preoccupazione rivolta ai concittadini isolani, ma anche l'attenzione a non scadere in una immotivata forma di isteria collettiva che già fa parlare molti di una forma di razzismo, il prefetto ha disposto che le forze dell'ordine identifichino sì in ambito portuale i cittadini provenienti da Lombardia e Veneto e diretti a Ischia, ma solo per accertare la loro eventuale residenza «nei comuni già individuati dall'autorità sanitaria, nei quali sussiste un cluster di infezione di virus». E, solo in quel caso, impedirne l'imbarco. Mentre la Regione Puglia prepara un'ordinanza per la segnalazione preventiva al medico di base di tutti coloro che stanno rientrando dal Nord e lancia un appello a non presentarsi in ospedale, ma a contattare i numeri di emergenza, vero primatista si rivela il sindaco di Montefusco (Avellino). Che già sabato sera ha timbrato l'«invito» a non lasciare il domicilio irpino e a seguire rigorosamente le disposizioni profilattiche nei confronti di un concittadino 27enne che fa il cameriere nel comune lodigiano dove si annida il focolaio del contagio, Codogno. Il ragazzo aveva appena raggiunto la casa dei genitori dopo aver viaggiato tutta la notte in auto, eludendo gli obblighi di chi si trova nelle zone colpite dal Coronavirus. Stesso trattamento ieri per altri due fratelli irpini, anche loro operai a Codogno, località che hanno abbandonato per tornare in autobus in famiglia, a Lauro. Così il sindaco ha disposto la quarantena per tutte le famiglie che abitano nello stesso condominio e l'azienda trasporti locale ha disinfestato, senza eccezioni, tutti i mezzi della sua flotta. Fa riflettere infine il provvedimento del sindaco di Praia a Mare (Cosenza). Nel quale si ordina che «tutti gli interessati da spostamenti da e per le zone del Nord Italia coinvolte dal focolaio, lo comunichino con urgenza» all'amministrazione comunale. Precisando, tanto per non sbagliare, che per aree di diffusione del Coronavirus, sono da intendere «anche le città di Milano e Torino». E Padova? Mah!
Coronavirus, Rita Dalla Chiesa: "Gli insulti dalla signora? Fuori di testa, stop vacanze ad Ischia". Libero Quotidiano il 29 Febbraio 2020. Continua a tenere banco il caso di Ischia, dove domenica scorsa una donna aveva inveito contro alcuni turisti arrivati da Lombardia e Veneto. Un caso isolato che però ha avuto una lunga scia di polemiche, soprattutto per via della dura presa di posizione di Rita Dalla Chiesa. La quale su Twitter si è espressa così: "Ma la signora di Ischia? Amici del Nord ci sono tanti di quei posti belli in Italia che possiamo vivere anche se non andiamo a Ischia. Ricordiamocelo soprattutto per le vacanze estive... Anche se non è giusto che per colpa di una fuori di testa paghino anche gli altri". L'appello a boicottare Ischia è circolato velocemente in rete, ma il sindaco Enzo Ferrandino ha provato a correre ai ripari: "Nessuna discriminazione razzista, la nostra terra è votata da sempre all'accoglienza e la nostra intenzione è esclusivamente quella di tutelare il diritto alla salute di isolani e turisti". E sul post di Rita Della Chiesa il primo cittadino si è detto sorpreso: "La invito presto a Ischia per farle toccare con mano il nostro millenario spirito di accoglienza".
Coronavirus a Ischia: “I miei genitori a contatto con l'uomo risultato positivo e senza tampone”. Monica Skripka su Le iene News il 06 marzo 2020. Iene.it raccoglie la testimonianza di Cristiano (nome di fantasia), figlio di una coppia di anziani in viaggio di gruppo a Ischia a contatto con un contagiato dal coronavirus. La soluzione della Protezione civile sarebbe stata quella di imbarcarli e rispedirli nelle loro città di origine insieme alla moglie dell’uomo risultato positivo. Le immagini degli ischitani che cercavano di impedire l’arrivo dei pullman carichi di turisti settentrionali hanno fatto il giro del web. E come ci aveva spiegato Teresa, intervistata da Giulia Innocenzi a Iene.it, “la paura è che arrivi il coronavirus: sulla nostra isola non saremmo attrezzati con il nostro unico ospedale”. Ma era solo una questione di tempo, perché il coronavirus è davvero sbarcato sull’isola. Cristiano (nome di fantasia) ci ha contattato per raccontarci la disavventura, e la paura, che hanno vissuto i suoi anziani genitori. La coppia bresciana parte per una vacanza organizzata con destinazione Ischia, proprio il giorno successivo allo scoppio dell’emergenza coronavirus. E appena sbarcano sull’isola un turista del gruppo si sente male, e dopo il ricovero presso l’ospedale di Ischia si scopre che ha il coronavirus. “Il paziente risultato positivo al coronavirus viene trasferito nell’ospedale di Napoli”, ci spiega Cristiano. “I miei genitori”, continua, “insieme agli altri turisti, circa un centinaio, sono stati convocati nell’albergo dove alloggiavano da una persona in tuta bianca e mascherina. A tutti è stata misurata la temperatura e, finita la riunione, hanno chiesto di rimanere in camera fino a nuove istruzioni”. L’operazione si chiude con un applauso, come potete vedere nel video sopra. La Protezione civile però non avrebbe sottoposto nessuno di loro a un tampone perché “non sarebbe stato necessario farlo”. Le direttive vigenti, infatti, consiglierebbero di fare il tampone soltanto a chi presenti i sintomi. Qualche ora dopo, la madre del ragazzo l’ha chiamato dicendo: “Ci hanno imbarcati e rispediti verso Milano. Con noi c’è anche la moglie dell’uomo risultato positivo!”. La preoccupazione di Cristiano, oltre che ovviamente per i suoi genitori, è anche per se stesso e la sua famiglia: “Perché li hanno messi tutti insieme? Se una struttura per il contenimento era già disponibile con tanto di hotel pagato fino a domenica, non sarebbe stato meglio fare analisi più approfondite prima di raggrupparli tutti per il trasferimento?”. Infatti la decisione che è stata presa è stata quella di fornirli di più mascherine a testa e di imbarcali prima su un traghetto speciale per Napoli e poi su bus della Croce Rossa per riportarli a casa. "Ma bastano le mascherine quando si è a contatto con tante altre persone in un interminabile viaggio di 10 ore?", continua Cristiano. Perché arrivati alle porte di Milano, si sarebbe poi proceduto allo smistamento con bus più piccoli, con ogni membro del gruppo che sarebbe stato accompagnato alla propria abitazione.
Oggi, come ci racconta, sono stati contattati dall’Asl locale e gli hanno detto di rimanere in isolamento per 7/14 giorni. E il tampone? “Niente tampone, a meno che non mostrino febbre o segni di malattia”, ci dice Cristiano.
Coronavirus, l'appello di Musumeci: "Meglio che i turisti dal nord non vengano". Il governatore Musumeci ha invitato i turisti provenienti dalle regioni di Lombardia e Veneto a rimandare il viaggio in Sicilia per evitare di trasmettere il virus. Roberto Chifari, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. Dopo l'appello al premier Conte, il governatore regionale Nello Musumeci ha commentato il contagio di coronavirus che ha colpito l'Isola. I casi acclarati a Palermo e Catania, dimostrano che il virus sarebbe arrivato da persone in viaggio da Milano e Bergamo verso la Sicilia. E allora il numero uno della Regione ha voluto mettere le mani avanti. "Voi immaginate se il focolaio fosse nato in Sicilia e un siciliano avesse portato il coronavirus in Lombardia o in Veneto? Potevamo scappare". Il governatore è tornato a parlare dell'emergenza coronavirus in occasione della presentazione del progetto Garanzia giovani 2. "Tutto può accadere, ma se ci fossero controlli minimi all'accesso in Sicilia eviteremo alcune situazioni - ha detto ai cronisti presenti -. Nessuno vuole alimentare polemiche ma è mai possibile che la gente arriva dalla Lombardia e dal Veneto e nessuno controlli? Quanta gente arriva dal Nord in treno e nessuno li controlla alla stazione di Messina. Eppure lo Stato ritiene di avere fatto tutto quanto era necessario nel controllo dei passeggeri in arrivo. Se un cittadino arriva dal Nord avverte il senso di responsabilità di comunicarlo alle autorità sanitarie, lo tengono sotto monitoraggio. Intanto sarebbe bene non arrivassero turisti dal Nord". Dopo un'ora dalle parole del presidente è arrivata una nota ufficiale dalla presidenza della Regione. Un modo anche per spegnere sul nascere eventuali polemiche. "L'ho detto, e lo ripeto, i turisti provenienti dalle zone gialle farebbero meglio a rimandare di qualche settimana il loro arrivo in Sicilia. Il mio è un appello alla prudenza, nell'interesse di tutti. La Sicilia è e resta, finora, una regione sicura, dove trascorrere la vacanza in un clima assai propizio. Per questo da giorni invito tutti, anche certa stampa, a non fare terrorismo psicologico. In ogni caso, chi arriva da una zona colpita dall'epidemia ha il dovere di informare le autorità sanitarie siciliane, come stabilito dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri". Appena tre giorni fa, il governatore aveva avvisato tutti sul rischio contagio. "Migliaia di altri cittadini italiani e stranieri sono arrivati in Sicilia senza un'accurata azione di controllo. Non c'è un allarme, ma qualcuno deve darci risposte e garanzie". Ieri invece la stoccata è stata per limitare, voi possibile lo sbarco dei migranti in tutti i porti dell'Isola. Un appello che il governo Conte non ha preso in considerazione. "Viviamo una condizione di assoluta difficoltà - ha aggiunto - ed è probabile che l'emergenza possa provocare ulteriori negative ricadute sul mondo delle imprese. Guardiamo con attenzione ma anche qualche apprensione alle iniziative che il governo nazionale vorrà promuovere a sostegno di quelle imprese - ha proseguito Musumeci -. Penso, ad esempio, a quelle turistiche, che già vedono l'annullamento di decine di prenotazioni da ogni parte del mondo. Abbiamo il dovere e anche la responsabilità di dire che la Sicilia non è una terra in cui non si può sbarcare, non si può atterrare - ha ribadito - Semmai servono controlli per i professionisti, turisti, studenti e per i migranti", conclude.
Invettiva di Tania Pontrelli (DB) contro gli untori mass-mediatici. Redazione siciliaogginotizie.it il 29 Febbraio 2020. La Sicilia non è fortunatamente in stato di emergenza in tema di Coronavirus, non essendosi sviluppati focolai autoctoni ma – diciamo così – solo d’importazione. Eppure, basti pensare a quello che sta accadendo in Lombardia dove, in alcuni ospedali, si comincia a vedere il "vero rischio potenziale" del virus, la problematicità nel contrastare il contagio che ne deriverebbe se questo dovesse assumere proporzioni insostenibili. È del tutto ovvio, quindi, che il buon senso e la prudenza in un contesto che potenzialmente potrebbe trasformarsi in vera e propria emergenza sanitaria, dovrebbero suggerire maggiori controlli sugli arrivi in Sicilia, siano essi via mare, via terra, via aerea. E il buon senso, atteggiamento che ultimamente un po’ tutti ignoriamo, dovrebbe imporre alla classe dirigente del Paese di limitare il più possibile la diffusione del virus. Che, in quest’ottica, il Presidente della Regione Siciliana rivendichi maggiori controlli al porto di Messina (dove arrivano con i traghetti gran parte dei viaggiatori provenienti dal Continente), negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, è quindi sacrosanto. Oltre che logico, opportuno, sensato, dentro le righe della legittimità e del ruolo. Che, in quest’ottica, il Presidente della Regione Siciliana inviti alla prudenza ed al senso di responsabilità di ognuno di noi, richiamando il principio della autodeterminazione laddove ciascuno dovesse accusare sintomi preoccupanti, è altrettanto sacrosanto, logico, opportuno, sensato, dentro le righe della legittimità e del ruolo. Ciò che invece risulta inaccettabile, mostruoso, ipocrita e schifoso è che (a fronte di questo invito alla prudenza e di una legittima rivendicazione di maggiori controlli) si sia alzata una levata di scudi contro quell’affermazione che certa stampa ha preferito decontestualizzare da un discorso più ampio e generale e che attraverso i social si sia propagata più velocemente del virus: “… è meglio che i turisti del Nord non vengano per ora in Sicilia”, hanno scritto gli untori mass-mediatici. Ed ecco che improvvisati sciacalli, finti buonisti, “novelli Cavour”, riemersi dall’anonimato delle loro esistenze non hanno esitato un solo istante, per un’ora di visibilità mediatica, giusto il tempo di acchiappare qualche like, per strumentalizzare il senso di quella dichiarazione e tentare di massacrare politicamente il Presidente. Ancora più inaccettabile che questa “indignazione” sia giunta da taluni elementi del centrodestra o presunti tali, magari animati dalla voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa nei confronti di un Presidente che non risponde esattamente ai loro desiderata. In quest’orgia di isteria collettiva, al ritmo ossessivo di notizie più o meno incoraggianti che trapelano attraverso i media, l’unico dato certo è che Nello Musumeci è il Presidente dei Siciliani, sta difendendo la salute dei Siciliani medesimi. Trasformare questa sacrosanta legittima difesa, addirittura in una diatriba Nord–Sud, rivendicando strumentalmente il ruolo della Nazione unita, come pure è stato detto ieri sera da qualche esponente politico, è fuorviante, ridicolo e offensivo. Significa manipolare per comunicare. Significa decontestualizzare e manipolare per un’oncia di visibilità mediatica o, peggio ancora, per finalità oscure di chi ama agire affidandosi a manipolazioni grossolane e vigliacche, frutto di disonestà intellettuale. “La Sicilia non è una terra in cui non si può sbarcare e non si può atterrare: però servono controlli perché non è possibile che i due casi registrati di positività al coronavirus riguardano turisti del Nord perché nella nostra isola non c’è un focolaio. Sarebbe meglio che i turisti dal Nord non venissero”. «L’ho detto, e lo ripeto, i turisti provenienti dalle zone gialle farebbero meglio a rimandare di qualche settimana il loro arrivo in Sicilia. Il mio è un appello alla prudenza, nell’interesse di tutti. La Sicilia è e resta, finora, una regione sicura, dove trascorrere la vacanza in un clima assai propizio. Per questo da giorni invito tutti, anche certa stampa, a non fare terrorismo psicologico. In ogni caso, chi arriva da una zona colpita dall’epidemia ha il dovere di informare le autorità sanitarie siciliane, come stabilito dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri». Questo e solo questo è il senso di un ragionamento onesto, responsabile, che alcuni irresponsabili hanno inteso strumentalizzare per motivi che niente hanno da spartire col Coronavirus e con la salute dei siciliani. Questa è la schiena dritta di un Presidente che ha a cuore, invece, solo ed esclusivamente la salute e il benessere del popolo che lo ha scelto, eletto.
Termino con le parole di Giovanni Marinetti: “Chi non capisce il senso di queste parole è in malafede. E anche un po’ razzista coi meridionali”. Lo dichiara Tania Pontrelli del Direttivo regionale di Diventerà Bellissima.
Coronavirus, oltre mille contagi e 29 morti. Nel Foggiano 17 in isolamento volontario. Regione Puglia non condivide trasferta Atalanta. Scuole chiuse a Foggia fino al 4 marzo per sanificazione. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2020.
EMILIANO: REGIONE PUGLIA NON CONDIVIDE TRASFERTA ATALANTA - Per il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, «la decisione di consentire ai tifosi dell’Atalanta la trasferta a Lecce non è condivisa dalla Regione Puglia, perché si teme che questo esponga a inutili rischi di contagio. Condivido invece il comunicato del sindaco di Lecce Carlo Salvemini. La decisione del Ministero dello Sport, della Figc e del Coni di rinviare solo cinque delle partite del campionato di serie A previste per domenica 1 marzo è di difficile comprensione. Sarebbe stato preferibile procedere per tempo al rinvio dell’intera giornata calcistica con una motivazione unitaria di prevenzione».
«Il Governo ha deciso che si giocheranno regolarmente a porte aperte Lecce-Atalanta, Lazio-Bologna, Napoli-Torino senza alcun divieto di trasferta per i tifosi ospiti, di cui pure si è parlato nei giorni scorsi come provvedimento chiaramente auspicato dalla Regione Puglia e dal Comune di Lecce. La Regione Puglia, la Prefettura, la Asl territoriale, il Comune di Lecce e le altre autorità locali hanno dovuto prendere atto di questa decisione del Governo, e si attiveranno per fronteggiare al meglio la situazione prevedendo, in caso di riscontro di sintomi coerenti, l’attivazione di rigorosi protocolli sanitari. A tal fine saranno installate agli ingressi dello stadio dalla Asl di Lecce postazioni per uno screening sanitario di base destinato agli spettatori della partita sul modello di ció che accade negli aeroporti». «Postazioni - conclude - che provvederanno all’accoglienza degli ospiti cui saranno notificati gli interventi preventivi previsti dalle disposizioni ministeriali».
Io, "l'untore" tornato da Milano. Giacomo Susca, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Dove non sono riuscite le politiche del lavoro, a nulla è servito lo sbarco di una multinazionale o il reddito di cittadinanza, di sicuro ha potuto lo spettro del Coronavirus. Ma quale «Resto al Sud», semmai «Mi rifugio al Sud». Il Paese si ribalta di colpo e una buona fetta di emigrati al Nord va all'inseguimento di lidi fantastici immuni al contagio. Con scuole, università, cinema e perfino il baretto sotto casa chiusi, il coprifuoco imposto lassù in Padania si contrappone al buen retiro consentito a certe latitudini, dove almeno non sei costretto a girare per le strade in mascherina, anche se è Carnevale. Chi non si sente sicuro nel suo ufficio milanese non apre il sito dell'Oms in cerca di spiegazioni scientifiche, ma quello di Ryanair a caccia di un volo per riabbracciare la famiglia d'origine. Prendete in queste ore il ritorno in Puglia di tanti «cervelli in fuga», ma il discorso vale per tutte le altre regioni del Mezzogiorno. In tutti i paesi si rivedono facce che in genere incroci soltanto a Natale e nelle altre feste comandate, solo che stavolta la gente del posto quando incontra l'amico che vive a Lodi ci pensa su due volte prima di dargli la mano. E dentro casa l'entusiasmo per la sorpresa fuori stagione scema al primo starnuto, e se potessero le mamme di tanti fuorisede farebbero rassettare la stanza del figliol prodigo dall'équipe dello Spallanzani. Ma se a milanesi, torinesi e bergamaschi di momentaneo ritorno viene riservata un'accoglienza degna di un appestato (fino a tampone contrario), la colpa non è soltanto di chi, preso dall'ansia, in questi giorni sta guardando troppi speciali in tv. In Puglia è arrivata la «disposizione urgente in materia di Covid-19» firmata dal governatore Michele Emiliano, con cui tra le altre cose si invitano «tutti i cittadini che comunque rientrano in Puglia provenienti dal Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni, a comunicare la propria presenza nel territorio... al fine di permettere l'esercizio dei poteri di sorveglianza». Col risultato che ieri mattina era più facile riuscire a contattare il presidente cinese Xi che parlare al cellulare con il proprio medico di base. Studenti, impiegati di banca, operai e zie in visita ai nipotini si sono messi in coda negli uffici di Igiene e sanità pubblica dal Gargano al Salento, dove hanno diligentemente rilasciato nome, cognome, domicilio, data di arrivo e di partenza presunta alla fine dell'epidemia. «Mi raccomando, se nei prossimi giorni dovessero comparire sintomi influenzali, non esitate ad avvertirci... ma per telefono eh...!», spiegavano prudenti agli sportelli delle Asl. Tra prevenzione e psicosi, il contagio più veloce è quello del sospetto che trasforma in potenziali untori tutti coloro che studiano e lavorano al Nord, in regioni già dilaniate dalla frattura tra chi è partito e chi è rimasto. Forse il «paziente 0» del Coronavirus è proprio il buonsenso. E oggi non si sente tanto bene.
Post razzista (poi cancellato) del consigliere di Pavia: «Lombardi schifati da chi vive nei rifiuti». Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it. Lo ha scritto, pubblicato, e poi - dopo aver visto la bufera che ha scatenato - cancellato. Ma scripta manent, soprattutto nell’era dei social. E il post che il consigliere comunale di Pavia Niccolò Fraschini ha condiviso su Facebook sta facendo il giro del web. Un insulto gratuito contro i napoletani, implicita risposta a chi sta suggerendo ai lombardi di non recarsi al Sud per evitare di diffondere l’epidemia di coronavirus, come il governatore della Sicilia Musumeci. O da chi ha imposto la quarantena a chi viene dal Nord, come la Basilicata. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all’immondizia (napoletani et similia)», denuncia il consigliere, eletto con la lista di centrodestra Pavia prima e addetto stampa del Consiglio regionale della Lombardia. Il Consigliere Fraschini ne ha un po’ per tutti. Dopo l’attacco ai meridionali, continua «...da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati». Insomma chi osa imporre restrizioni a chi vive al Nord si prende il suo insulto. «Da queste persone non accettiamo lezioni di igiene - conclude — tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». Le risposte degli utenti al post non tardano ad arrivare. E non solo nei commenti — cancellati insieme alle stesse parole di Fraschini dopo poche ore — ma in tutta la sua pagina Facebook. Scrive uno: «Napoli come tutto il meridione ti può insegnare il senso civico..ho vissuto in lombardia per 8 anni quasi..meno male che non sono tutti come te».
Coronavirus, Fraschini (Prima Pavia) se la prende con i napoletani. Polemiche per un post su Facebook del consigliere comunale. "Noi lombardi trattati come untori. Non accetto lezioni da chi vive nell'immondizia". Il sindaco: "Inaccettabile, mi dissocio". Manuela Marziani su Il Giorno il 29 febbraio 2020. Sta sollevando un vespaio il post pubblicato su Facebook dal consigliere comunale di Pavia Prima, Niccolò Fraschini. "Ci è voluto il coronavirus - scrive Fraschini - per far sì che noi lombardi ottenessimo finalmente la #secessione. L'unica differenza è che sono gli altri a secedere da noi appestati e non viceversa!". E ha anche aggiunto: "Noi lombardi veniamo schifati da gente che vive nell'immondizia (napoletani et similia) o che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest ha le fogne popolare da bambini abbandonati". Immediatamente il sindaco Mario Fabrizio Fracassi, esponente della Lega, ha replicato a Fraschini (che in consiglio comunale sostiene la maggioranza di centrodestra): "Come primo cittadino di Pavia e come italiano - ha detto il sindaco Fracassi -, mi dissocio senza se e senza ma dalle dichiarazioni di Niccolò Fraschini, consigliere della lista civica 'Pavia Prima', così come si sono dissociati per intero la mia giunta e i consiglieri di maggioranza. Vorrei considerala solo un'uscita infelice, ma la denigrazione è inaccettabile e va sempre respinta. In questi giorni, poi, in cui dovrebbe prevalere l'unità nazionale di fronte alla crisi, fa ancora più male leggere certe frasi di italiani del Nord contro italiani del Sud e di italiani del Sud contro italiani del Nord, come avvenuto dopo i primi casi del coronavirus in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Il rispetto si deve a tutti. E attaccarci tra di noi, che siamo un unico popolo, è ancora più triste". E Fraschini ha provato a gettare acqua sul fuoco: "Sono sinceramente dispiaciuto - ha commentato - se qualcuno si è sentito offeso dai toni da me utilizzati. Il mio post era dettato da una comprensibile e diffusa esasperazione: da giorni noi lombardi siamo additati come untori e appestati nel resto del Paese e in altri Stati".
Antonio Folle per ilmessaggero.it il 29 marzo 2020. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». È il post della vergogna lanciato sui social poche ore fa da Niccolò Fraschini, consigliere comunale di Pavia, eletto in una lista di centrodestra in appoggio al sindaco Fabrizio Fracassi. Un vero e proprio uragano di insulti ha costretto l'esponente del consiglio comunale a rimuovere il post incriminato e a "chiudere" la bacheca. Il web, però, non perdona e ormai da diverse ore lo screenshot del post sta circolando su Facebook, suscitando rabbia e indignazione. Una carriera all'insegna del "prima il nord" quella del trentaquattrenne esponente del consiglio comunale di Pavia che, sui suoi profili social - dove si definisce Europeista, liberale, attivo nel volontariato, sciatore, corridore, ottimista, testardo e juventino - mette spesso e volentieri nel mirino proprio i meridionali e le città del sud. Un chiodo fisso che non lo ha messo al riparo da dichiarazioni spesso al limite del razzismo e della discriminazione territoriale. «Sicilia e Sardegna - si legge in un suo commento relativo all'autonomia differenziata delle Regioni - le commissarierei e metterei solo commissari brianzoli per 10 anni, con poteri da stato d'assedio». Una comunicazione social decisamente sopra le righe quella del giovane consigliere comunale lombardo che, a chi gli faceva notare il contenuto razzista di alcuni commenti, poche settimane fa replicava: «Per me razzista non è un insulto. Forse non vi è chiaro. Ho ben altri difetti». Lo stesso Fraschini, che accusa i napoletani di vivere tra i rifiuti, durante la sua campagna elettorale - è stato eletto con 250 preferenze - denunciava il pessimo stato igienico di alcune periferie di Pavia. Uno dei suoi "bersagli" preferiti sembra essere il leader della Lega Matteo Salvini, che Fraschini addita più volte come traditore della causa dell'autonomia della Lombardia. Non mancano gli insulti a Luigi di Maio, all'epoca ministro del lavoro, paragonato ad un asino. La psicosi da Coronavirus ha contribuito a mettere a nudo ancora una volta l'atavica insofferenza tra il nord e il sud del paese. Il vergognoso post di Fraschini - molto pesanti gli insulti rivolti alla Romania - fa il pari con le altrettanto vergognose immagini della cittadina di Ischia che insultava una carovana di turisti provenienti dal nord.
Gli untori. Alessandro Guardamagna il 28 Febbraio 2020 su comedonchisciotte.org. Prima della diffusione della cosiddetta “peste di Atene” nel 430. A.C. nessuna città della Grecia aveva mai sperimentato nulla di vagamente simile. Era il maggio del secondo anno della Guerra del Peloponneso, e Atene aveva visto raddoppiare in poco tempo la propria popolazione, raccogliendo masse di profughi dalle campagne in fuga di fronte all’avanzata dell’armata della nemica Sparta. Circa 200.000 persone si erano rifugiate nella città, dove spuntarono da subito baracche, tende e sistemazioni improvvisate erette dai nuovi venuti, che brulicavano come formicai ai piedi dell’Acropoli e nello spazio fra le grandi doppie mura lunghe oltre 27 chilometri che univano la città al porto del Pireo e che avrebbero dovuto garantire ai suoi abitanti protezione contro qualsiasi nemico esterno. Nessuna città della Grecia, neppure la possente Tebe, aveva difese tanto estese, e non a caso il governo ateniese affermava con adamantina sicurezza che la città aveva il sistema difensivo migliore della Grecia. Eppure la peste entrò in città e si diffuse. Le scarse condizioni igieniche e la mancanza di acqua potabile e pulita, unita al sovraffollamento creatosi nel caldo dei mesi estivi, favorirono la propagazione di un morbo sconosciuto. Tucidide, che ne dettagliò l’escalation, racconta come molti morirono nell’abbandono, e altri nonostante le numerose cure prestate loro. Nessun trattamento particolare sembrava funzionare e ciò che apparentemente migliorava le condizioni di alcuni, peggiorava quelle di altri. Sia i forti che i deboli, giovani e meno giovani perirono. Terribile era la vista di coloro che si ammalarono dopo aver cercato di aiutare i propri concittadini e in breve tempo morivano come mosche. I sintomi erano diversi, accomunati da febbre che inizialmente si accompagnava a raffreddore e tosse acuta e all’indebolimento dell’apparato intestinale. Il progredire portava a convulsioni e al blocco dell’apparato respiratorio. Tucidide, più interessato alle implicazioni militari della vicenda, si limitò a speculare sulla natura “bellica” della malattia, mentre Diodoro cercò di considerare i possibili agenti di trasmissione, arrivando a sostenere che l’affollamento aveva inquinato l’aria e questo finì poi col colpire la popolazione. Seppur l’aria avesse poca attinenza con il contagio, le sue osservazioni empiriche non erano del tutto errate quando pensiamo che i virus, e il Coronavirus non fa eccezione, si trasmettono tramite piccole gocce espulse e diffuse nell’ambiente mentre parliamo, tossiamo, starnutiamo, e più un ambiente è affollato e maggiori diventano le probabilità di essere esposti al contagio. Le poche centinaia di ateniesi che erano caduti durante il primo anno del conflitto erano stati celebrati con tutti gli onori, mentre le migliaia di donne e bambini che morirono nell’epidemia furono lasciati spesso a marcire nelle strade nell’abbandono più totale. Inizialmente nessuno sapeva spiegarsi il propagarsi del morbo, che continuò a mietere vittime fra la popolazione. Un po’ come oggi di fronte all’estendersi del contagio del Coronavirus nessuno ha saputo ancora chiarire come un agente patogeno dalle pianure dello Yangtze e del Fiume Giallo a 9.000 km di distanza sia atterrato indisturbato nel mezzo del Nord Italia. E questo nonostante l’Italia “avrebbe, secondo il governo, il sistema di controlli e prevenzione migliore d’Europa“, sul modello delle dichiarazioni del governatore dell’ER che ritiene la sanità della sua regione una delle migliori al mondo. La Germania ha un volume di rapporti commerciali con la Cina di circa tre volte superiore a quello dell’Italia, e finora ha evitato il focolaio del contagio. Secondo alcuni facciamo troppi tamponi, a differenza di quanto avviene in altre nazioni europee. Ed è per questo che noi abbiamo registrato un focolaio ed altri no. Quindi, secondo la stessa logica, nelle regioni d’Italia dove non vi sono focolai è forse perché non vengono fatti controlli sufficienti? Vi erano molti abitanti di Atene che – come molti Italiani di oggi – ritenevano che il contagio non fosse assolutamente casuale. E anzi fosse il diretto risultato di azioni compiute dagli Spartani per colpire i propri nemici. Tale logica, per quanto apparentemente paranoica, aveva un suo senso. Infatti epidemie di tale virulenza erano praticamente sconosciute nella Grecia del V secolo A.C., cosa che induceva gli ateniesi a credere a qualsiasi congettura pur di darsi una spiegazione. In compenso la guerra batteriologica era invece già ampiamente praticata. Un secolo prima Solone avrebbe contaminato le acque utilizzate dalla popolazione di Cirra, indebolendone la guarnigione che capitolò. Alcuni fra gli ateniesi ricordavano come loro stessi avessero avvelenato i pozzi della propria città prima di abbandonarla di fronte all’avanzata dell’armata persiana di Serse nell’estate del 480 A.C. Successivamente in Sicilia gli stessi ateniesi tentarono di avvelenare l’acquedotto di Siracusa per costringere la città alla resa. A rafforzare l’idea che gli Spartani fossero responsabili contribuì probabilmente quanto avvenne l’anno successivo durante l’assedio di Platea, alleata di Atene, quando i soldati di Sparta bruciarono una pira enorme intrisa di pece e zolfo accatastata fuori dalle mura della città. Le fiamme sprigionarono gas mortali di anidride solforosa sui difensori, che per non finire intossicati dovettero abbandonare le difese. La malattia, chiamata impropriamente peste, fu con ogni probabilità una forma di tifo, la cui diffusione fu favorita dalle scarse condizioni igieniche combinate con l’indebolimento fisico di molti dovuto a ristrettezze alimentari del tempo di guerra, o forse un agente patogeno epidemico proveniente dall’Africa, come pensava Tucidide, entrato nel Mediterraneo orientale dalla vicina Persia, e che potrebbe essere assimilato all’ebola. Ma soprattutto a radicare la convinzione che si trattasse di un morbo diffuso dagli Spartani fu semplicemente il fatto che la comparsa della malattia concise con l’invasione dell’armata Spartana in Attica nella primavera del 430 A.C. Un po’ come la diffusione del Coronavirus in Asia coincide con un periodo di continuo braccio di ferro su dazi ed interessi commerciali globali che vede gli USA e l’Europa contrapporsi alla Cina. E in Atene i sostenitori e teorici della cospirazione ebbero ulteriori prove a conferma della propria tesi perché i primi ad essere colpiti e a perire per il morbo furono coloro che si trovarono nei pressi delle cisterne del Pireo, che, si diceva, fossero state avvelenate dagli Spartani. In realtà gli Spartani si avvicinarono alle mura quando l’epidemia era già in corso, e visto da lontano il fumo che si alzava dalle pire dove si bruciavano mucchi di cadaveri ne rimasero ben lontani, accontentandosi di devastare le campagne e razziare il razziabile. Il morbo si diffonderà invece poi nelle zone che videro il passaggio degli opliti o della flotta di Atene, ma non a Sparta, e nel Peloponneso toccherà solo Epidauro, dove gli abitanti si ammaleranno dopo essere entrati in contatto con i soldati ateniesi chiaramente infetti. La popolazione dell’Attica di allora, non ritenendo che la combinazione di condizioni quali sovraffollamento urbano nel caldo estivo e la carenza di igiene fossero fattori scatenanti, si limitò alla semplice equazione che la peste colpiva Atene dove gli abitanti morivano in massa, ma risparmiava “stranamente” Sparta, per cui Sparta doveva esserne in qualche modo responsabile. E’ la stessa idea che di fronte ad epidemie odierne si rafforza in chi è consapevole che le forze armate di molti stati hanno messo a punto nei propri laboratori schiere di germi killer che possono essere utilizzati come armi di distruzione di massa. Sono economici da produrre, letali, assolutamente non ingombranti e possono essere facilmente trasportati, al punto che una valigetta può contenere un arsenale di gas e virus in grado di sterminare la popolazione di stati confinanti e annullare i vantaggi che un esercito più numeroso o un’economia più sviluppata hanno sulla carta contro un avversario più debole. Per cui se il morbo colpisce A ma non B, allora B, se dotato di armi batteriologiche, potrebbe avere realisticamente qualcosa a che fare con l’accaduto. Se poi B dall’indebolimento di A ci guadagna, ecco che l’ipotesi può diventare certezza e ancora più difficile da scalfire. Si calcola che l’Attica abbia avuto tra le 70.000 e le 80.000 vittime, la maggioranza delle quali morirono dopo un paio di settimane dopo aver contratto il morbo. 10.000 di questi servivano nella falange o nella flotta ateniese. Complessivamente circa il 34% della popolazione perì, la maggioranza nei primi anni due anni delle ostilità. Non meno devastante fu il contraccolpo economico. E’ stato calcolato che solo nel primo anno la perdita per le casse dello stato dovute alla mancata tassazione e al collasso dei redditi ammontò a circa 500 milioni di euro del giorno d’oggi. Nonostante Atene continuasse la guerra, non fu prima del 415 A.C., ben 15 anni dopo l’epidemia, che riuscì a organizzare nuovamente operazioni ad ampio raggio, con una forza militare rinnovata e una nuova riorganizzazione finanziaria. Non a caso è stato osservato che in termini relativi il danno causato dall’epidemia si rivelò per Atene pari al disastro che la Germania subì con Stalingrado. Nessuna sconfitta campale contro Sparta avrebbe potuto ridurla in simili condizioni. Nei primi anni di ostilità le invasioni Spartane dell’Attica non raggiunsero lo scopo di attirare il nemico in una grande battaglia in campo aperto e distruggerlo, nonostante l’indebolimento causato dal morbo. Né gli Ateniesi, colpiti duramente, si limiteranno più a restare all’interno delle mura della città per trovarvi la morte. Ciascun contendente dovette quindi ridefinire le proprie strategie per il futuro. Alla fine la peste di Atene, raggiunto il culmine, si arrestò per inerzia. Anche il Coronavirus, misteriosamente arrivato in Italia, potrebbe esaurire la sua forza di diffusione semplicemente per inerzia, se non lo ferma prima la propaganda, che ieri mattina confermava 480 casi e 12 morti, e ieri sera aveva ridotto i casi di contagio confermati a 282, risaliti oggi a 655. Intanto mentre i numeri fluttuano e cambiano a seconda delle circostanze, il virus continua a propagarsi. A differenza di Atene dove i morti per le strade non si potevano nascondere, qui la diffusione e i decessi sono in numero più contenuto, per fortuna, ma questo non significa che il virus non aumenti nelle aree del contagio. Non abbiamo a che fare con il capitano Trips, ma neppure con un raffreddore, visto che questo virus uccide, e il raffreddore no. La terribile epidemia che mise in ginocchio Atene non solo causò la morte di decine di migliaia di persone, incluso Pericle, ma anche il declino della più antica democrazia del mondo. Non si possono ancora conoscere con esattezza le conseguenze che il Coronavirus avrà per l’Italia e per l’attuale governo che, nonostante le ripetute rassicurazioni sul sistema di controllo e prevenzione migliore d’Europa, qualcosa deve aver sottovalutato, purtroppo, visto che l’infezione è esplosa e il nostro è al momento il terzo stato al mondo per contagiati e deceduti, primo paese con un focolaio al di fuori dell’Asia. Sembra anche verosimile che non sarà necessario sperimentare le tragiche morti di 1/3 della popolazione (per fortuna), come avvenne ad Atene 2450 anni fa, per subire un arresto economico. I mercati di oggi si spaventano per molto meno. In Italia coloro che già un mese fa avvertivano sulle possibili conseguenze del contagio ed invitavano il governo ad adottare misure più stringenti erano tacciati di essere sciacalli e per alcuni membri del governo rimangono tali – “Salvini? Si sta veramente comportando da sciacallo“. Secondo altri membri dell’esecutivo ora sono diventati anche untori, cioè diffusori della malattia. Chissà tra poco qualcuno potrebbe suggerire che la peste di Milano del 1630 è stata scatenata da Matteo Salvini e schiere di leghisti. Non erano ancora nati allora, e l’accusa non servirà a fermare il Coronavirus sospettato di mire populiste, ma è poi importante? Anche la CNN ieri consigliava al governo Italiano di adottare misure più severe, ma nessun esponente dell’esecutivo si è scomodato a parlare di stampa affetta da sciacallaggio. Quando tutto sarà finito potrebbe venire anche la curiosità di visitare Codogno, luogo che alcuni media presentano come pullulante di locali, feste e balli continui e con un via vai da far invidia a Las Vegas, e che secondo il presidente del consiglio è anche sede di un ospedale che non rispetterebbe i protocolli, anche se resta da capire come. Ad Atene, mentre si cercavano i colpevoli e cresceva l’odio contro Sparta, vi erano anche coloro che credevano che l’epidemia fosse stata provocata da un’antica profezia. Almeno loro, pur nella sventura, sapevano essere originali.
Alessandro Guardamagna lavora come insegnante d’inglese e auditor qualità a Parma, in precedenza ha ottenuto un PhD in Storia e un Master in American Studies presso University College Dublin, in Irlanda, dove ha lavorato e vissuto per 10 anni. Da sempre sovranista, scrive articoli di politica e storia su ComeDonChisciotte dal 2017.
L’eterna caccia all’untore. Ilario Ammendolia su Larivieraonline.com l'1 marzo 2020. Uno spettro si aggira per il mondo: il Coronavirus. Non è lecito scherzare sulla malattia anche perché le paure sono umane e nessuno è immune. Poi però c’è una specie mutante del virus che si è diffusa a velocità della luce e che aggredisce il cervello. Gli studiosi l’hanno classificato come “Coglionavirus”, perché fa rincoglionire la gente. Noi calabresi l’abbiamo già sperimentato a nostre spese quando, nell’estate del 1867, si diffuse a Napoli una grave epidemia di colera. Nei paesi della Locride dapprima si riempirono le Chiese chiedendo a Dio, alla Vergine e ai Santi di risparmiarci dal morbo, ma quando il colera incominciò a mietere vittime si cercò il “Nemico”. La ricerca venne effettuata dappertutto, ma ebbe effetti tragici proprio nel nostro comprensorio. Era il 4 settembre, infatti, quando la campana suonò nel villaggio di San Nicola di Ardore e una massa irrazionale e superstiziosa, sobillata da una parte delle classi dirigenti, tra cui l’arciprete del paese, si riversò nelle strade per “vendicare i morti di colera”, come scrive Filippo Racco ne “I fatti di Ardore”. Non debellarono, né potevano debellare, il vibrione colerico, ma fecero una strage di innocenti. Gli untori vennero individuati nei componenti della famiglia Lo Schiavo che, sentendosi accerchiati, tentarono la salvezza rifugiandosi nella caserma. Inutile! La folla s’era trasformata in un’immensa a travolgente onda di rabbia e di odio che non esitò a circondare l’edificio e a dargli fuoco. I militari si salvarono con una sortita che provocò feriti, tra cui una donna appartenente alla famiglia Lo Schiavo che, il giorno dopo, fu trovata dalla folla mentre giaceva dolorante su un pagliericcio. Trasportata sulla pubblica strada, fu finita con un colpo di schioppo. Nello stesso modo furono ammazzati i bambini innocenti “scovati” nei loro nascondigli. Alla fine di quelle giornate si contarono 13 vittime di cui ben 6 appartenenti alla famiglia Lo Schiavo. Numerosi furono i feriti e molti gli edifici bruciati, tra cui la farmacia del paese. Cercavano un “nemico” che non c’era. Avevano però l'alibi dell'ignoranza e delle miseria che oggi non dovremmo avere e, dall’assurdo massacro del 1867, giunge un monito rivolto a tutti noi ma, soprattutto, alle classi dirigenti che avrebbero il dovere della serietà e della compostezza, che tuttavia spesso non hanno. Per esempio molti giornalisti hanno trasformato la giusta esigenza di informazione in sventagliate di mitraglia cariche di terrore e continuano a comportarsi come i monaci dell’anno Mille che giravano i paesi per annunciare l’imminente fine del mondo. Onestamente provo rabbia e vergogna dinanzi alle manifestazioni razziste di Ischia o di altri paesi che vorrebbero vietare l'ingresso ai "nordici", così come dinanzi al magistrato che non entra in aula perché l’avvocato è milanese. La rabbia e vergogna che, in passato, ho provato dinanzi alle tantissime manifestazioni razziste contro i bambini “rom” o contro gli immigrati di colore. “Meridionalismo” da secoli significa ospitalità, generosità, accoglienza. Quindi, se potessi dare un consiglio, direi ad alcuni sindaci e presidenti di Regioni del Sud di smetterla di diffondere allarmismo e di emettere ordinanze illegittime, strampalate, divisive quanto inutili. Altro è il messaggio che, in questi giorni, dovremmo mandare ai nostri fratelli che vivono e lavorano nelle Regioni del Nord. Siamo complementari e non contrapposti, malgrado la storica miopia delle classi dirigenti del Nord e del Sud. Questo è il momento dell’Unità e di affrontare spalla a spalla ogni possibile emergenza mettendo sin da subito, pur con le dovute cautele, tutte le strutture ricettive della Calabria e del Sud a disposizione delle Regioni del Nord. Verrà poi il tempo per riparlare della “questione meridionale”, della “diffamazione calcolata del Sud”, della necessità di abolire il titolo V e di attuare con urgenza l’articolo 3 della Costituzione. Oggi no! Oggi siamo un unico popolo… parte dell’Umanità.
Se all’improvviso la cinese sull’autobus diventa l’untore che innesca la pandemia. Fulvio Giuliani il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il corto circuito con venature razziste che scatta inesorabile: stop agli involtini primavera e ai barconi che traboccano di cinesi e asiatici. Roberto Burioni, ben noto uomo di scienza a cui dobbiamo una consistente fetta della battaglia di civiltà in favore dei vaccini, sostiene che le notizie dei sospetti casi di contagio da nuovo coronavirus non andrebbero neanche date. Perché innescherebbero un inevitabile circolo vizioso di allarmismo. Calandomi nel punto di vista dello scienziato, non posso non riconoscerne le ragioni, ma da giornalista provo sempre un brivido di diffidenza, davanti alle notizie taciute, anche con le migliori intenzioni. Resto dell’idea che un’informazione quanto più completa possibile, intellettualmente onesta e sostenuta da robuste collaborazioni scientifiche, soprattutto in casi come questo, sia il modo migliore per contrastare l’insorgere di ondate di panico. Se è vero che non sentir parlare di un caso sospetto, nell’immediato possa evitare ( o ritardare…) l’insorgere di un senso di paura, a medio termine può innescare il dubbio che le autorità stiano nascondendo qualcosa. Che non ci dicano tutto. Da che mondo è mondo, davanti alle pandemie la reazione della pubblica opinione si muove sostanzialmente su un doppio binario. Da una parte, il timore di essere inghiottiti in un incubo non gestibile, l’ancestrale terrore della morte senza volto, che arriva a sconvolgere le nostre esistenze. Dall’altra, la necessità di scaricare la paura che si fa rabbia. Ci mettono poco le persone a sentire l’esigenza di trovare un colpevole. Non potendosela prendere con un virus, è facile rivolgere la propria attenzione a chi detiene il potere, identificandolo istintivamente come un’entità interessata solo a mantenere l’ordine pubblico, anche a costo di raccontare bugie clamorose. Del resto, anche in queste ore, i sospetti sul comportamento del governo cinese si moltiplicano e non solo in ambienti sensibili al Complottismo. Tacere, per farla breve, non conviene mai. Quello che conviene è invitare le persone a ragionare, spiegando loro – ad esempio – che boicottare i ristoranti o i negozi cinesi è poco più di un riflesso condizionato. In teoria, l’unica cosa utile che dovremmo fare è informarci su eventuali e recenti viaggi in patria di chef o personale cinese di ciascun locale, per tacere delle visite che ciascuno di loro potrebbe aver ricevuto dal paese natale. Evidentemente, una follia, senza dimenticare che il temuto portatore ( magari sano) del coronavirus potrebbe essere dalle fattezze caucasiche…Escludendo, pertanto, di chiudersi in casa e aspettare o l’Armageddon o che passi la paura, conviene approfittare di questi giorni concitati per qualche riflessione sul nostro tempo. Comincerei da questa: spesso possiamo intere settimane a dibattere, accalorandoci, sulle proposte di nuove barriere fisiche e ideali, dividendoci fra chi propugna la difesa anche fisica del nostro piccolo mondo e chi considera tutto questo solo una perdita di tempo. Poi, arriva il nuovo coronavirus, svelando l’imbarazzante inconsistenza di certi dibattiti. In un mondo interconnesso come quello di oggi, semplicemente dobbiamo prendere atto che le nostre fortune e sfortune dipendono anche da una miriade di relazioni, a cui rinunciare è semplicemente impensabile, perché troppo costoso. Ne andrebbe del nostro stesso stile di vita. I problemi, da quelli relativamente imprevedibili come le pandemie ai grandi temi che caratterizzano la nostra epoca, meritano massima razionalità e decisioni a un tempo rapide e strategiche. i tocca sentir parlare, invece, di rischi di diffusione in Italia del virus, collegati alle tratte dei migranti. Una lettura che sfida contemporaneamente senso del ridicolo e della realtà. Con la fabbrica del mondo che rischia di andare in tilt – di questo dovremmo aver paura, non di fantasmi agitati per motivi elettorali il dibattito in Italia si ferma al boicottaggio dell’involtino primavera o al confronto social sui barconi nel Mediterraneo, che notoriamente traboccano di cinesi. Amo il mio Paese, anche quando la farsa sembra prendere il sopravvento, eppure proprio per questo amore sento la necessità di un dibattito più maturo. Davanti all’idea stessa di una pandemia, è umano che la reazione della pubblica opinione non sia improntata ad una ferrea logica. Che però l’irrazionalità rischi di entrare anche in ben altre sfere, per meri calcoli politici, è abbastanza insopportabile. Lasciamo parlare gli esperti, ascoltiamoli e affidiamoci a loro. Non sono un’élite, è gente che ha studiato. L’alternativa mi spaventa, ad oggi, molto di più del coronavirus.
Laura Anello per “la Stampa” l'11 marzo 2020. «Liberaci, Santuzza nostra». «Santuzza, pensaci tu». Bisogna venire quassù, a cinquecento metri di altezza sulla città, fino al santuario di Monte Pellegrino, per raccontare Palermo ai tempi del virus. Qui, sul promontorio che Goethe definì il più bello del mondo, una vertigine di azzurro e di mare, c' è una continua processione di fedeli che chiedono a Santa Rosalia il secondo miracolo. «La liberazione dalla nuova peste», come scrive una delle tante mani sul librone posto all' ingresso della grotta con le reliquie. Il primo le riuscì nel Seicento, quando Palermo era piegata dal bubbone sbarcato con un vascello arrivato da Tunisi, gravido dei doni del sovrano d' Africa. La peste già dilaga nel Mediterraneo, ma il viceré di Sicilia, Emanuele Filiberto, non resiste alla cupidigia per quel tesoro e apre le porte alla rovina. È il 7 maggio del 1624. Due mesi dopo (siamo al 15 luglio) si ritrovano su Monte Pellegrino le ossa che la commissione di esperti - in cerca di qualsiasi segno dal Cielo - si affretta ad attribuire a Rosalia, la giovane nobile eremita vissuta cinque secoli prima, tra il 1130 e il 1170. «Santa Rosalia, salvaci tu», implora il popolo di allora. «Santa Rosalia, salvaci tu», implorano i palermitani di oggi che arrivano ogni giorno quassù al santuario dopo avere scalato il promontorio, o in macchina quando la salita è troppo dura. «Otto su dieci lasciano sul nostro libro un' invocazione alla santa perché ci liberi dal coronavirus», dice don Gaetano Ceravolo, attivissimo reggente del santuario, che da ieri ha sospeso le messe pubbliche, come disposto dalla diocesi, ma tiene aperti il santuario e la grotta zeppa di reliquie, dove grandi cartelli avvertono della distanza di sicurezza da tenere. E già. Perché, neanche un anno dopo il ritrovamento delle ossa su questo monte, la peste fu sconfitta, al passaggio della processione che il 9 giugno 1625 vide sfilare in città i resti della santa, con gli ammalati che guarirono sotto gli occhi di tutti. Santa Rosalia diventò patrona di Palermo a furor di Chiesa e di popolo, scalzando senza troppi complimenti le quattro sante che fino ad allora si erano divise la tutela della città. «Ho spostato le due reliquie della santa, un osso e un dente, più vicino al flusso dei pellegrini», dice don Gaetano. Ci sono scritte in italiano: «Santa Rosalia, fai che ci possano ridare la casa e liberaci da questo virus come hai già fatto tanto tempo fa». Ma ci sono anche messaggi in inglese e in tamil, la lingua della comunità che a Palermo ha adottato la santa come sua protettrice. Percorsi i tornanti che portano giù dal monte, Palermo è silenziosa e attonita. Deserta piazza Massimo, quasi deserta la via Maqueda, che fino alla scorsa settimana era gremita dai turisti. Chiusa l' Assemblea regionale siciliana, il Parlamento più antico d' Europa, nel palazzo che un tempo ospitava l' imperatore Federico II, chiuso il Consiglio comunale, blindata la procura, chiusi gli uffici giudiziari. File ordinate davanti ai supermercati, dopo gli assalti nella notte: qualcuno contingenta gli ingressi. File davanti alle farmacie, con i cartelli fuori: «Finiti amuchina, gel, alcol, mascherine». Tutti con il fiato sospeso, aspettando la batosta del virus che finora si è fermato a 64 contagi ma che inevitabilmente crescerà: si spera più tardi possibile, per dare il tempo di attrezzare gli ospedali a corto di posti. Nei bar è il deserto. «Pensavo che la Palermo popolare, quella che di solito se ne frega di tutto perché tutto ha visto e a tutto è sopravvissuta, se ne fregasse anche del coronavirus - commenta Francesco Massaro, titolare di uno dei più grandi bar della città, quaranta dipendenti - e invece la gente è spaventata, e i clienti sono al lumicino. Io, come gli altri, ho perso il 60 per cento di fatturato". Alle 18 chiude la saracinesca, come da decreto. Pattuglie di polizia sorvegliano l' ingresso alla città, sulla statale che arriva da Messina. Chiedono l' autocertificazione che autorizza a circolare per ragioni di lavoro o per motivi indifferibili. Sembra una dogana di un altro secolo. «Chi siete?», «Cosa portate?», scherza qualcuno parafrasando Benigni e Troisi di «Non ci resta che piangere», precipitati loro malgrado nel Medioevo da un momento all' altro. Come loro, tutti vorrebbero svegliarsi e scoprire che è solo un film.
Eyam, il paese inglese che nel Seicento si sacrificò per fermare la grande peste di Londra. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. I provvedimenti della Cina per evitare il diffondersi del coronavirus ricordano la storia del villaggio che nel 1665 fu colpito dalla peste: per evitare il propagarsi dell’epidemia, gli abitanti si misero in quarantena. Niente più tour di gruppo all’estero dalla Cina. È questa la nuova, drastica misura disposta dalle autorità di Pechino per fermare l’epidemia di coronavirus. Da lunedì 27 gennaio tutti i servizi per i viaggi di agenzie cinesi sono stati sospesi, comprese le prenotazioni di alberghi e biglietti aerei. Una vicenda che, ricorda il New York Times, ad alcuni lettori britannici potrebbe riportare alla mente la storia di Eyam, un villaggio della contea del Derbyshire, che oggi conta meno di mille abitanti. Nel Seicento, Eyam divenne il simbolo del «sacrificio» cui fu chiamata tutta la Gran Bretagna: nel settembre del 1665, infatti, il villaggio fu colpito da un’epidemia di peste bubbonica causata dall’arrivo di alcuni abiti infestati da pulci, portati da Londra da un sarto locale, George Viccars, la prima vittima della pestilenza (qui la sua storia nella sezione «Local Legends» della Bbc). Per evitare il propagarsi dell’epidemia anche nelle località limitrofe, gli abitanti di Eyam — su consiglio del parroco, William Mompesson e del suo predecessore, Thomas Stanley — si misero «spontaneamente» in quarantena: venne impedito a chiunque di entrare o uscire durante i quattordici mesi nei quali la peste si diffuse. Acqua e viveri vennero mandati dalle campagne: come ricorda sempre il NyT, i soldi venivano lasciati in un pozzo riempito di acqua e aceto «disinfettante». L’emergenza cessò nel novembre del 1666: dei 350 abitanti ne morirono 250-260 (anche la moglie di Mompesson, ndr), mentre i villaggi vicini furono appena sfiorati dall’epidemia. La «Grande peste» di Londra venne raccontata, tra gli altri, anche da Daniel Defoe: nel 1722 uscì in forma anonima il romanzo «Diario dell’anno della peste» («The Journal of the Plague Year»), una cronaca fedele degli effetti dell’epidemia di peste bubbonica che colpì la City tra il 1664 e il 1666 (Defoe aveva all’epoca solo 5 anni). I più curiosi troveranno un richiamo all’incipit dell’opera di Defoe in Fruttero & Lucentini, «Íncipit» (1993): «Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra, e anch’io ne intesi parlare nel mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste».
Accadde nel 600. Ma sembrano le cronache di oggi, scrive Piero Sansonetti il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Ecco perchè sul giornale pubblichiamo la "Storia della Colonna infame" di Alessandro Manzoni. Iniziamo la pubblicazione a puntate di una delle principali opere letterarie di Alessandro Manzoni: "Storia della Colonna Infame", pubblicata come appendice nell'ultima edizione, quella definitiva, dei Promessi Sposi. E' il racconto, commentato, di un avvenimento vero, accaduto nel 1630 ma - purtroppo - mai realmente concluso. Sette capitoli, più un'introduzione. Perché dico: mai realmente conclusa? Perché assomiglia maledettamente a tante storie di malagiustizia di oggi. La trama, riassunta in due righe, è questa: alcuni testimoni accusano un signore di avere sparso sui muri degli unguenti che diffondevano la peste. Questo signore viene arrestato e torturato e infine indotto ad accusare un secondo signore, un barbiere. I due vengono condannati a morte e prima al supplizio. Naturalmente sono innocenti, anche perché gli untori (cioè dei presunti mascalzoni che diffondevano la peste ungendo i muri) non esistono, non sono esistiti mai. Le testimonianze che hanno inchiodato i due poveretti, assomigliano tremendamente alle deposizioni dei pentiti moderni. O alle famose intercettazioni per sentito dire. La tortura, usata per estorcere confessioni assurde, assomiglia invece al carcere preventivo e all'uso che se ne fa oggi come strumento di indagine. La smania dei giudici del seicento di assecondare le credenze popolari sembra uguale alle smanie che oggi hanno i giudici di soddisfare lo spettacolo di massa. E Alessandro Manzoni, quando scriveva la sua furia per queste ignominie, era isolato e sbeffeggiato dalle classi dominanti dell'epoca, come succede oggi a chiunque voglia esprimere un punto di vista garantista. Untori, roba del seicento? E allora - chiedo - il processo agli scienziati che non seppero prevedere il terremoto dell'Aquila? E quello alla scienziata - Ilaria Capua - accusata di aver diffuso il morbo dell'aviaria per arricchirsi? "Storia della Colonna infame", ci è sembrato - più che una vecchia opera di letteratura - una riflessione, pacata e attualissima, sulla giustizia di oggi. Per questo vi consigliamo di leggerla.
Flavia Perina per linkiesta.it il 25 febbraio 2020. Chiuse le scuole, le università, i musei e i cinema, sospese le manifestazioni sportive, sconsigliate (in Lombardia) o proibite (in Veneto e Friuli) le feste private e «qualsiasi tipo di aggregazione». Isolati undici comuni a Nord; proibito l’accesso ai turisti del Nord in sei comuni del Sud (Ischia). Niente messe in tutta la Lombardia. Niente Carnevale a Venezia. Fermi gli esami di ammissione al Campus Biomedico a Roma. È solo una cronaca parziale dei giorni della Grande Paura, della World War Z italiana che ha spianato ogni altra preoccupazione – non c’è più politica né cronaca fuori dal dibattito sul Coronavirus – e cancellato ogni domanda al di là del fatidico: quanti sono oggi i contagiati? E i morti? «Panico», scrivono i giornali, «Il morbo è tra noi», «Avanza il virus», e il tam-tam sui social si regola di conseguenza costruendo un’emergenza diversa da tutte perché orizzontale, egalitaria, condivisa, oltre la destra e la sinistra, e per di più apocalittica e vagamente vendicativa verso la parte di umanità che ci sta più antipatica: quelli che viaggiano molto, che escono molto, i potenziali “pazienti zero” con l’agenda piena di appuntamenti mondani, sportivi, amorosi, ora finalmente costretti a casa come noi gente comune. Siamo il Paese dei “Promessi Sposi”, il grande romanzo italiano che tutti hanno citato in questi giorni per il capitolo sugli untori e sull’approccio superstizioso alla malattia – «Non ci cascate, non siamo più nel Seicento» – ma andrebbe ricordato soprattutto per altro. Nel racconto manzoniano è il flagello, il virus, il contagio, il grande giustiziere della Storia, l’agente provvidenziale che fa fuori Don Rodrigo e il Conte Arrigo e restituisce la libertà ai protagonisti. L’idea del morbo palingenetico, insomma, è scritta nel DNA nazionale ed è elemento centrale dell’educazione scolastica italiana, che spesso esaurisce pure ogni percorso di formazione culturale del cittadino medio. Anche per questo il Coronavirus è spaventoso ma al tempo stesso popolare, suscita ansia ma anche una diabolica attrazione. Anche per questo tra chi sostiene «è solo un’influenza» (Maria Rita Gismondo, capo dei virologi all’ospedale Sacco di Milano) e chi dice il contrario (il virologo Roberto Burioni), la gran parte delle persone sceglie d’istinto il secondo che pure, quando ammoniva sul morbillo e sui vaccini, era diventato bersaglio fisso del polemismo nazionale. Il Coronavirus è, in versione attenuata ma promettente, la Spagnola e l’Atomica, l’invasione zombie e il riscaldamento globale messi insieme. Restituisce corpo a un confortevole sentimento millenarista, cancella le diseguaglianze nel modo più semplice e diretto. Corrisponde, in fondo, a un desiderio ed è per questo che risulta un agente emotivo così potente e di successo rispetto a ogni altra emergenza reale o potenziale. Gli esperti fanno notare che, a fronte delle 2.500 vittime certificate della nuova malattia, il cambiamento climatico ha prodotto negli ultimi vent’anni mezzo miliardo di vittime nel mondo. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è causa di 80mila decessi ogni dodici mesi. Avremmo, insomma, ben altri guai per cui preoccuparci e ben altri motivi per rivoltare come un calzino le nostre città e le nostre abitudini, ma questo nuovo virus ci soddisfa intimamente più di tutti. Ci consegna alla paura ma anche al brivido di una inaspettata avventura collettiva, proietta un film nazionale finalmente condiviso. Le strade deserte di Castiglione e Codogno. I talk show in onda senza pubblico. Il Duomo di Milano, simbolo della milanesità e quindi dell’operosità del Nord, interdetto alle visite e persino alla preghiera. Il possibile stop alle scadenze fiscali e alle bollette. Leggiamo e ci sentiamo tutti Renzo e Lucia, tutti preoccupatissimi, tutti perversamente affascinati da un’epidemia che spiana le ordinarie preoccupazioni della vita in nome di timori più grandi e collettivi.
La peste di Milano: inchiesta su un caso di cronaca di 400 anni fa. Negazionismo della cittadinanza, ritardi della politica, provvedimenti contraddittori, caccia all'untore straniero. Ecco perché dal flagello del 1629-1630, ricostruito dalle testimonianze storiche, i meccanismi sono rimasti gli stessi. Francesco Turano il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Lo scopo dell'inchiesta che segue è raccontare un fatto di cronaca di 390 anni fa. Il risultato dell'inchiesta è che lo sviluppo psicoevolutivo dell'essere umano, a differenza della scienza e della tecnologia, non avviene per anni o secoli ma attraverso le ere della filogenesi (decine di migliaia di anni). L'evento è la peste di Milano del 1629-1630, come raccontato dagli storiografi Ripamonti, Lampugnano e Tadino, da Manzoni e da altri che per lo più oggi sono fermate della metropolitana o strade. La risposta dei cittadini, delle istituzioni e della comunità internazionale non è diversa, negli schemi di fondo, da quella data al Cov-Sars-2. Ma ecco il racconto.
A settembre 1629, in piena Guerra dei Trent'anni (1618-1648), i lanzichenecchi di Albrecht von Wallenstein e le truppe di Rambaldo di Collalto scendono in Italia attraverso la Valtellina e la zona del lago di Lecco per sostenere la causa del Sacro Romano Impero, alleato con la Spagna e con i Savoia nella guerra di successione di Mantova e Monferrato. Gli avversari sono la Francia e la Repubblica Serenissima.
Il 20 ottobre 1629 Lodovico Settala segnala al Tribunale della sanità di Milano che fra il lecchese e la bergamasca, nel corridoio dove sono passati i soldati, vengono segnalati presunti casi di peste. Settala è il protofisico ossia, in termini moderni, il presidente dell'Ordine dei medici. È nato nel 1552 e ha 77 anni. Quando ne aveva 24, già medico, ha vissuto la pestilenza dell'anno 1576. Ha quindi esperienza teorica e di campo. Avvertito da Settala, il Tribunale della sanità spedisce un commissario – figura radicata nella storia italiana – a indagare, accompagnato a un medico di Como. I due si fanno abbindolare dal negazionismo locale che attribuisce i decessi alle febbri autunnali e al paludismo o malaria.
Il 30 ottobre, appena dieci giorni dopo l'ispezione, i casi si sono moltiplicati al punto tale che le autorità decidono di controllare gli ingressi entro le mura di Milano, una delle città più popolate nell'Europa del tempo, sviluppatissima nei commerci, con residenti calcolati fra 200 e 250 mila. I responsabili della sanità redigono una grida per affrontare l'emergenza. Ma il decreto non viene pubblicato per le esitazioni di chi teme conseguenze economiche e le misure restano lettera morta per quasi un mese.
Il 14 novembre i magistrati di sanità fanno un passo in più ed espongono la gravità della situazione al governatore Ambrogio Spinola, rappresentante della corona di Spagna e veterano della guerra delle Fiandre. Il genovese Spinola è impegnato nell'assedio di Casale Monferrato e non solo non presta troppa attenzione al contagio ma peggiora la situazione attivamente.
Il 18 novembre, infatti, il governatore ordina grandi celebrazioni pubbliche per la nascita del primogenito di Filippo IV di Spagna, il principe Carlo. Decine di migliaia di milanesi scendono in strada a festeggiare.
Il 29 novembre, quando finalmente è pubblicata la grida del 30 ottobre, la peste è già in città. Secondo il Tadino, medico prima che storiografo, si individua anche il paziente 1. È un soldato italiano dal nome incerto che combatte con l'esercito spagnolo. Morto lui, vengono bruciati il suo letto e i suoi vestiti. I suoi parenti vengono spediti in quarantena al Lazzaretto che sorge all'incirca dov'è oggi la via omonima, una parallela di corso Buenos Aires nei pressi di Porta Venezia, l'antica Porta orientale.
E poi cominciò la caccia all’untore. Nessun paragone tra il coronavirus e la peste del 1630. Ma rileggere i due capitoli dei Promessi Sposi dedicati all’epidemia può essere lo stesso utile. Le misure di legge sembrano portare qualche esito e l'inverno passa con danni limitati. Le basse temperature dell'inverno lombardo potrebbero essere state meno favorevoli al contagio dato che la peste nelle sue varie forme (bubbonica, setticemica e polmonare) è causata dal batterio Yersinia pestis. Il morbo è diffuso dal ratto, portatore spesso asintomatico. Pulci o zanzare, che d'inverno sopravvivono con maggiore difficoltà, lo trasferiscono all'uomo. Ma c'è un altro fattore. Nei mesi fra la fine del 1629 e l'inizio del 1630 si è diffuso un senso di omertà da parte di chi ha un parente malato o moribondo e preferisce non denunciarlo per evitare quarantene, sequestri, blocco dell'attività. Per chi ancora non ha conosciuto direttamente il morbo, consigli e divieti delle autorità sanitarie sono interpretati come limitazioni alla libertà civile e alle necessità lavorative, quando non come vessazioni insensate. I medici Alessandro Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico, vengono insultati per strada. Settala senior, riconosciuto mentre circola per la città con una portantina, viene preso a pietrate e si salva di giustezza perché i servitori riescono a infilarsi nel portone di un amico del dottore. Mentre il contagio cresce e il Lazzaretto supera la sua capienza massima di duemila posti (arriverà a sedicimila), si celebrano le festività di Pasqua (31 marzo 1630) come se niente fosse. Ad aprile la situazione continua a peggiorare. lazzaretto-milano-720x0-c-defaultDurante la Pentecoste, in una bella domenica di maggio scelta dai milanesi per una scampagnata fuori Porta orientale nei pressi del cimitero di San Gregorio e dunque del Lazzaretto (stampa accanto), i magistrati cittadini organizzano una messinscena terrificante per scuotere le coscienze. Fanno sfilare una carretta carica dei corpi nudi di un'intera famiglia sterminata dal morbo nella notte. La paura, invece di prendere la strada dell'ammaestramento, si incammina verso la superstizione.
Il 17 maggio si sparge voce che qualcuno abbia unto gli assiti del Duomo con materiali venefici. Le panche vengono portate fuori e lavate. È l'inizio della caccia all'untore, approvata in qualche modo dalla grida del tribunale della sanità del 19 maggio che impone di segnalare chiunque abbia un comportamento sospetto.
Nei giorni successivi i momenti di tensione e di violenza si moltiplicano. Un vecchio che spolvera con il mantello la panca della chiesa viene trascinato fuori e massacrato di botte sotto gli occhi dello storico Giuseppe Ripamonti. È testimoniato oltre ogni ragionevole dubbio che i muri vengono effettivamente imbrattati con una materia giallognola. Non si saprà se questo luridume viene sparso da agenti di poteri stranieri o da semplici imbecilli in vena di scherzi. Dalla Spagna si denunciano quattro untori francesi che vagherebbero per un'Europa già molto internazionale, a diffondere il morbo come forma di guerra chimica. Un gruppetto di francesi viene identificato per strada a Milano. Si salvano per miracolo dal linciaggio e, per un miracolo ancora maggiore, vengono assolti dalle accuse.
L'11 giugno, dopo giorni di pressioni da parte dell'autorità temporale che vuole offrire conforto alla popolazione, l'arcivescovo Federico Borromeo mette da parte le sue perplessità e accetta di guidare una processione alla quale partecipano decine di migliaia di fedeli di ogni classe sociale. Il corteo parte all'alba dal Duomo con il feretro di San Carlo Borromeo, cugino di Federico. La reliquia viene portata in giro per tutti i quartieri della città, con fermate nelle piazze principali. La diffusione del contagio dopo la processione nella calca estiva è devastante. Due secoli dopo persino il fanatico cattolico Manzoni, devoto di San Carlo Borromeo e ammiratore di Federico, faticherà a trovare scusanti per il suo amato cardinale. Poiché però San Carlo non può essere colpevole e monsignor Federico nemmeno, la furia collettiva si accanisce ancora di più contro gli untori.
Il 21 giugno poco prima dell'alba, nel quartiere della Vetra de' Cittadini, l'attuale zona San Lorenzo-Porta Ticinese, “una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia a una finestra” (Manzoni, Storia della colonna infame) vede un uomo che strofina qualcosa contro i muri e denuncia il fatto. L'individuo sospetto sarà trovato in poco tempo. È Guglielmo Piazza, da circa un mese eletto commissario della sanità. È l'untore ideale proprio perché appartiene alla schiera dei vessatori, coloro che spediscono la gente a morire al lazzaretto. Viene torturato. Non resiste. Denuncia come complice e produttore del veleno il barbiere Giangiacomo Mora, più altri. Settimane di interrogatori feroci e confessioni estorte porteranno all'identificazione come mandante di don Juan Cayetano de Padilla. Grazie ai suoi mezzi, l'hidalgo spagnolo sarà l'unico a salvarsi da un'esecuzione capitale di indimenticabile atrocità. Unknown-1Con sentenza del 27 luglio Mora e Piazza vengono “messi su un carro, condotti al luogo del supplizio, tanagliati con ferro rovente per la strada; tagliata loro la mano destra; spezzata l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di fabbricare in quel luogo”. Secondo i censimenti dell'epoca, alla fine della pestilenza Milano conta 64 mila abitanti da 200-250 mila. Tre su quattro sono morti di peste. Fra loro, come sembra altamente probabile, anche il governatore Spinola (settembre 1630).
Di quanto raccontato, a distanza di quattro secoli, sono cambiate le technicalities. La tortura è vietata, come la pena di morte. La peste è un fattore di contagio presente (fra 1000 e 3000 casi all'anno secondo l'Oms) ma controllato grazie agli antibiotici e alla profilassi dopo l'ultima epidemia a fine Ottocento iniziata in Cina e conclusa con 12 milioni di morti.
La risposta psicologica al morbo invece segue le solite fasi.
1. Negazionismo assoluto. Secondo Manzoni (I promessi sposi, cap. XXXI), chi metteva in guardia “veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Insomma, è solo un'influenza.
2. Inizia a circolare la paura, sotto traccia. Timore dei provvedimenti delle autorità sanitarie da parte “della Nobiltà, delli Mercanti, della plebe”. Le nuove norme, che obbligano a cambiare comportamento, sono identificate a costrizioni inutili.
3. Con l'avanzare del contagio il negazionismo retrocede ma ancora combatte con quella che Manzoni chiama “trufferia di parole”. Il lavoro di mistificazione e falsificazione arriva a produrre neologismi: “febbri maligne” e “febbri pestilenti”. Si incomincia però a comprendere che il contagio non è limitato a una categoria di popolazione. In questo caso, i poveri.
4. Non si può più negare la realtà. Allora, in una situazione di panico generalizzato, si cerca di falsificare il nesso causa-effetto. Colpa dei francesi, degli alemanni, degli spagnoli. Infine, colpa degli untori.
L'untore può essere chiunque, allora come oggi. Un alemanno, un cinese, un vecchio. Tutti ma non noi.
Eterno ritorno. Quando Giuseppe Belli raccontò in romanesco l’epidemia in cui morì anche Leopardi. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 21 marzo 2020. Il poeta fissò in versi “Er collera mòribbus”, il contagio che colpì tutta Italia tra il 1835 e il 1837. Gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente, Roma senza messe e senza feste per l’epidemia e lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?» La gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente. Roma senza messe e senza feste per l’epidemia. I lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?». I politici che prendono misure di cui non si sa l’efficacia. Le informazioni nascoste. Le polemiche su quanto sta succedendo all’estero. E i Social scatenati in cui si scambiano notizie vere e fake: queste ultime anche in chiave di improbabili “dritte” su chi ci sia veramente dietro, o sui modi più infallibili per non infettarsi o per guarire…No. Non stiamo parlando del coronavirus, è a essere fiscali nell’epoca di cui stiamo parlando non c’erano i social di oggi, stile Facebook o Whatsapp. Però c’era l’osteria, che in qualche modo ne faceva le funzioni. Anzi, sono i social d oggi a ricostruire in senso virtuale quello che una volta si diceva davanti a un boccale di vino. Ed è appunto una «Converzazzione a l’Osteria de la Genzola Indisposta e ariccontata co trentaquattro sonetti, e tutti de grinza» che Giuseppe Gioacchino Belli utilizzò per raccontare Er collera mòribbus. Quell’epidemia in cui il 14 giugno 1837 morì pure Giacomo Leopardi. Copia e incolla dal Vocabolario Treccani: «Cholera morbus ‹kòlera …› locuz. lat. scient., usata in ital. come s. m. (anche semplicem. cholera). – Nome, oggi non più in uso, del colèra, che ebbe in passato, anche in ital., le varianti grafiche e fonetiche chòlera e cholèra». Ma cholera nella espressiva storpiatura popolare romana diventava «collera»: sottinteso «di Dio contro i peccatori», il che serviva alle autorità pontificie per alleviare in qualche modo le proprie responsabilità, e anche alla gente per farsene una ragione. E «Mòribus significa se more», scrive Belli in nota. Quel romanesco pre-Unità nazionale era molto meno italianizzato di quello di oggi: il confronto con i versi di Cesare Pascarella e poi di Trilussa permette di cogliere bene l’evoluzione. Anche un romano dell’anno 2020 può dunque avere bisogno della traduzione: «Conversazione all’Osteria della Giuggiola», che si trovava in Trastevere. «Disposta e raccontata in trentaquattro sonetti e tutti di vaglia». Scritti tra 4 agosto 1835 e 24 dicembre 1836, nelle raccolte di Sonetti di Belli sono però messi in genere in appendice, dopo l’ultimo del 21 febbraio 1849. Cominciano con un avventore che spiega con tono ben informato che il «còllera o o collèra», comunque lo si chiami, «qui da noi nun ce viè, sippuro è vera». Sì, dicono che a Nizza sta facendo «piazza pulita». Ma è «seggno che questi matti maledetti/ Nun ze sanno avé cura della vita». Non è che mangino topi vivi come i cinesi, ma non hanno quella cura della pratica religiosa che a Roma il governo pontificio impone, e che tiene lontani dalla «collera» divina. Invece la «collera» si scatena lo stesso, e costringe tutti a stare chiusi dentro. «Adesso ha da venì sto serra-serra/ De porcaccia infamaccia ammalatia», annota l’ultimo sonetto, del 24 dicembre 1836. Già il 30 agosto 1835 il Sonetto 26 ci informa che sono stati chiusi i teatri. «Inibbì le commedie?! E che magnnera/ V’immaginate sta leggiaccia infame?/ Tanto bene, sor faccia de tigame/ S’apre er teatro, e sta notizia è vera». Ed è tragedia per il poveraccio che facendo la comparsa si guadagnava il minimo per sopravvivere: «Un povero garzon de falegname/ Che ciabbusca du’ pavoli pe ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?». Impagabile il racconto del «sentito dire» sui rimedi che funzionano. «Sapete er fijo de Monzù Boietto», che sarebbe il farmacista di Nîmes Monsieur Boyer, «Ha scoperto che un po’ de corallina/ È la vera e fficaccia medicina/ Pe guarì sto fraggello benedetto», informa sicuro il Sonetto 19 del 31 agosto. Ma già il 2 settembre il Sonetto 20 sentenzia che «Già è scartato er rimedio der Bojetto/ Adesso tutto era gran preservativo/ Conziste in un tamtin d’argento-vivo/ Drent’una penna che sse porta in petto». E l’11 settembre il Sonetto 21 osserva: «È una scena! Qua ognuno ha er zu’ segreto/ Chi vò er cannello, chi vò la patacca/ Chi era làvudon, chi er thè; chi una casacca/ De fanella, chi era vischio de l’abbetto». Tra le varie cure proposte, «Una canfora, uno ojo, e un antro aceto: Questo vò che sse dormi co ‘na vacca:», la più curioosa è quella secondo cui il colera non viene alle donne incinte. «Quello dice ch’er male nun z’attacca/ A le donne che in corpo abbino er feto». Conseguenza prevedibile: «Sta vertù che ppò avè la gravidanza/ Mo ha cresciuta la rtabbia in ne le donne/ De fasselo infilà drent’a a la panza/ Per cui mariti, amichi e confessori/ Nun arriveno a ttempo a corrisponne/ A ttante ordinazioni de lavori». Anche allora ce se la prendeva con l’Europa. «Ma tutt’a tempi nostri! E caristìa/ E libbertà, e diluvi, e ppeste, e guerra/ e la Spaggna, e la Francia, e l’Inghlterra», attacca il Sonetto della vigilia di Natale. E conclude: «Chi sta peggio di tutti è Gesucristo/ Ch’ha pperzo la novena de Natale/ Haii tempo a ffà ppresepi e accenne artari:/ Questo è er primo Natale che ss’è visto/ Senza manco un boccon de piferari». E spiega Belli in nota: «non fu dato accesso nei nostri stati ai pifferari, gente regnicola, che vengono, ogni anno a far novene». Gli zampognari venivano dal Regno delle Due Sicilie, e il confine politico permetteva di bloccare la gente in modo molto più efficace di quanto non abbiano provato a fare governatori e sindaci prima che Conte mettesse l’intera Italia ai domiciliari. In effetti Belli scrisse quando il male ancora non era arrivato a Roma. Lettere di amici – altro Social dell’epoca – gli avevano dato però notizia che proprio in quell’agosto 1835 la «porca malattia infernale» in poche ore aveva provocato ad Ancona sette morti, con un seguito di centinaia di morti a settembre. «Er collèra sta a Napoli, fratelli», informa il primo novembre 1836 il Sonetto 33. «E sta a Gaeta e in tre o quattr’anrri lochi/ E ppe tutto li morti non zò pochi/ E l’imballeno a sson de campanelli». Il sinistro suono dei campanelli che avvisavano dell’avvicinarsi del carro dei morti: spettacolo che descrive anche Manzoni parlando dell’epidemia a Milano del 1630, in quei Promessi Sposi che escono la prima volta nel 1827 ma sono da noi conosciuti soprattutto nella edizione ampiamente rivista del 1840. Pure Pulcinella è morto, ci informa l’ulimo Sonetto. Il 20 settembre, nel più assoluto silenzio per non allarmare la cittadinanza, a Roma è stata istituita «una commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’ occasione che vi si manifestasse il cholera asiatico». Da cui il Natale senza zampognari, e il 14 gennaio del 1837 la proibizione anche del Carnevale. Ira popolare, e pazciale marcia indietro con l’autorizzazione alla Festa dei Moccoletti, che ovviamente ridiffuse il contagio. Non manca il disagio nell carceri, tant’è che posti di fronte alla possibilità di scegliere il 9 febbraio 114 detenuti politici dello Stato Pontificio preferirono l’esilio in Brasile al restare in prigione in casa al rischio di ammalarsi. Ma il riconoscimento ufficiale della presenza del colera in città ci sarà solo il 18 agosto 1837 sul Diario di Roma, con la precisazione che l’indole dell’ epidemia «si mostra finora molto meno maligna di quella che nella maggior parte delle capitali europee». All’epoca lo Stato Pontificio era anche meno trasparente di quanto non lo siano oggi la Russia di Putin o la Cina di Xi Jinping. La dichiarazione ufficiale della fine dell’ epidemia sarà il 3 novembre, e ufficialmente i morti sono 5.419. Ma il censimento di Pasqua dà nel 1837 una cittadinanza di 156.552 abitanti e nel 1838 di 148.903, per una differenza di 7.649.
Il Coronavirus riporta in vita Manzoni, gli untori e i giudici compiacenti. Walter Siti de Il Riformista il 13 Marzo 2020. In questo periodo si è abusato della parola “untori”: ricavata, evidentemente, dal ricordo scolastico dei Promessi sposi. Ma se rileggiamo i capitoli 31 e 32 del libro, vero saggio illuministico inserito nel romanzo, scopriamo che gli untori (nella fantasia popolare) diffondevano la peste consapevolmente e a pagamento; su mandato del cardinale Richelieu o di altre potenze straniere. I due capitoli sono una requisitoria contro l’inerzia dei politici, contro i “sogni” degli intellettuali (basandosi su Aristotele negavano la peste, o l’ammettevano attribuendola a influssi astrali) e contro la credulità di «quello che i poeti chiamano volgo profano, e i capocomici rispettabile pubblico», insomma delle masse. L’invenzione seicentesca degli untori assomiglia a certe ricostruzioni complottistiche che circolano oggi in Rete: che il virus sia stato costruito in laboratorio dagli Usa per mettere in ginocchio la Cina, o che la Cina si sia offerta, in cambio di una riduzione dei dazi, per eliminare un bel po’ di anziani occidentali, riequilibrando il welfare. In un’epoca come la nostra, in cui sono migliorati i processi decisionali e la fiducia nella scienza, si spera che queste bufale restino relegate nel recinto innocuo degli ignoranti che si sfogano con like indignati – ma se davvero l’epidemia dovesse estendersi e aggravarsi, non è escluso che tali fandonie possano condurre ad atti di violenza. Pur nella distanza tra le due situazioni storiche, alcuni meccanismi universalmente umani si ritrovano identici: prima di tutto, il pendolo psicologico che oscilla tra la negazione del flagello e la sua enfatizzazione, con conseguente panico. È fastidioso ammetterlo, ma il nostro cervello e la nostra psiche non sono come volontà li desidera, né possono evitare che l’emotività disordinata prevalga sulla ragione. «Il povero senno umano cozzava coi fantasmi creati da sé», scrive Manzoni, e aggiunge: «Parlare è talmente più facile che pensare». Pietà e compassione nei confronti dei nostri simili, che è anche pietà per noi. Ma questo non significa non poter giudicare gli errori e le manchevolezze, sia morali che civili; nel proseguire la lotta contro il virus bastardo, ci saranno da registrare anche oggi, come allora, «l’imperfezione degli editti, la trascuranza nell’eseguirli, la destrezza nell’eluderli». Don Alessandro fa nomi e cognomi, di politici, di popolani, di medici e magistrati. È duro soprattutto con questi ultimi, non nei due capitoli sopraddetti ma nella Storia della colonna infame, che al romanzo avrebbe dovuto essere allegata; è la storia di come i giudici abbiano ottenuto molte confessioni di sedicenti untori mediante la tortura. Ma, ed è la parte più interessante, non sempre le confessioni furono estorte – alcuni infelici si convincevano di essere untori o, nel delirio della malattia, ripetevano incoscienti il gesto dell’ungere di cui avevano piena la testa. La colpa dei magistrati sta nell’averli voluti colpevoli, tortura a parte: per timore, scrive Manzoni, «di mancare a un’aspettativa generale», di sembrare «meno abili, se scoprivano degli innocenti» – i giudici sono portati a «mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa». Come non riflettere sui rischi analoghi che corrono i magistrati di oggi, e anche i media che talvolta si sostituiscono ai giudici? Dopo aver visto le sorprendenti analogie, vediamo le grandi differenze. Prima di tutto per l’entità materiale della tragedia: Milano prima della peste contava 250 mila abitanti, dopo la peste 64 mila – significa che era morto il 75% della popolazione, una cifra oggi impensabile. Gli sciacallaggi, le violenze dei monatti, l’imbestiarsi dei rapporti umani avevano assunto tinte cupe e selvagge – oggi siamo civilizzati, globalizzati, informatizzati. Di fronte a una mortalità diecimila volte minore, quel che pare insopportabile è la necessità di cambiare “stile di vita”; vige ormai un’inerzia, nelle nostre abitudini, che fa parere un sacrificio anche rinunciare al cinema, o alla partita di calcio, o all’happy hour e alla festa di compleanno; siamo viziati, abbiamo nascosto sotto i rituali quotidiani le fratture profonde che non vogliamo ammettere. Poi, certo, c’è l’economia che va male e può peggiorare non si sa ancora quanto: lo spettro della recessione, il turismo al collasso, i negozi e le aziende che rischiano di chiudere. Il cambiamento che cerchiamo di evitare sarà forse coatto, forse dovremo capire che la globalizzazione trionfante ha qualche bug; forse ci sarà una forte spinta alla digitalizzazione della vita intera, forse rinnegheremo Arcelor Mittal ma non Google; finita l’emergenza, tutti si accapiglieranno di nuovo su come cambiare, e lasciare che le cose vadano “naturalmente” sembrerà come sempre la soluzione migliore, in attesa di un altro scossone. Nel racconto di Manzoni c’è un conflitto interessante tra religione e prudenza sanitaria: i medici sconsigliano gli assembramenti, ma il clero preme per chiedere tutti uniti a Dio (o a san Carlo) di allontanare la peste; perfino il cardinal Federigo, mente illuminata, cede alle insistenze per una solenne processione a piedi scalzi che moltiplicherà il numero dei contagi. Ora la religione è più saggia ma l’economia ha preso il suo posto, sottolineando il conflitto tra lavoro e salute; come se l’economia fosse la nostra nuova religione, e la povertà l’inferno. Si naviga purtroppo a vista, lasciando molto alla responsabilità individuale, come è obbligatorio in democrazia; sarà interessante vedere, nell’evolversi della situazione, come una società dello spettacolo saprà reagire alla privazione degli spettacoli, quanto saprà rinunciare all’intrattenimento e ai fantasmi d’onnipotenza che porta con sé. Chi potrà impedire ai ragazzi di riunirsi nei rave party? O forse loro, i nativi digitali, vinceranno perché il digitale non contagia: riusciremo a tenere a freno la frenesia di mobilità consegnandoci ancora di più all’irrealtà quotidiana, e alle multinazionali che la comandano?
Dalla peste al Coronavirus: la «seconda volta» della Lombardia. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Modeo. È stato evocato subito, ai primi segni tangibili dell’epidemia. Già il 26 febbraio, con la situazione ancora relativamente perimetrata, il preside del liceo Volta di Milano, Domenico Squillace, esortava i suoi ragazzi a «condurre una vita normale» e a «leggere Manzoni» (i capitoli sulla peste), sintetizzandone con esemplare concisione i tratti di una «straordinaria modernità». Ma i teenager, com’è noto e in parte comprensibile, di norma rigettano Manzoni; e anche per molti di noi — che pure istintivamente l’avrebbero accolto —quell’invito suonava come un riflesso pavloviano, un (doveroso) ricorso a un Padre Fondatore, e trasmetteva un certo disagio, come succede spesso quando si accostano eventi remoti e «attuali», un testo «letterario» (anche se, nella fattispecie, permeato di verità storica) e fatti «reali». Per qualche purista, accostamenti simili sono ai limiti del kitsch. Poi, più o meno a partire dallo scorso week-end, un accumularsi di fatti, cifre, percezioni, immagini sembrava mutare tutto. Domenica 8 marzo era una giornata radiosa: chi si fosse spostato in macchina dalla città e dalla sua periferia verso Monza e la Brianza avrebbe potuto vedere aprirsi per gradi, tra lo scorrere laterale dei palazzi, il cielo e i monti dei Promessi sposi («Quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello…») in una risoluzione da 4K «naturale», dovuta all’azione del vento. Ma quello scenario — che in momenti ordinari può esaltare o consolare come pochi altri — interagiva coi numeri dell’epidemia e con gli allarmi reiterati via-WhatsApp di medici e anestesisti (dai reparti di terapia intensiva), producendo un contrappunto spietato, e inducendo a una muta disperazione. Disperazione che si è declinata in commozione il giorno dopo, all’apparire della foto di un’infermiera dell’Ospedale Maggiore di Cremona, Elena Pagliarini, accasciata su un pc dopo 10 ore di servizio ininterrotto, con guanti, mascherina e camice monouso ancora indossati. Come avrebbe spiegato il giorno dopo l’autrice della foto, la dottoressa Francesca Mangiatordi — medico del Pronto Soccorso allo stesso ospedale — quello scatto voleva essere un omaggio, un «abbraccio» ideale alla dedizione di un’operatrice al termine di una notte in cui non si riusciva, per insufficienza di erogatori, a «ossigenare» tutti i 50 pazienti arrivati in quelle ore; e che Elena assisteva come poteva, spesso «con le lacrime agli occhi». Quell’immagine — come succede qualche volta in situazioni simili — riusciva a condensare in sé la tensione crescente di tutti, a risolvere in una sintesi fulminea la paura e il desiderio di vincerla. Da lì, da quei giorni e da quell’immagine — cui se ne sarebbero sovrapposte molte altre, come quelle delle bare bergamasche ospitate nelle chiese o caricate sui camion dell’esercito — l’accostamento con Manzoni è sembrato via via più fondato. Al punto da divampare in decine di articoli. Eppure, qualcosa continuava e continua — ostinatamente — a non tornare: prima e più che per la narrazione manzoniana, per il raffronto troppo sbrigativo tra la «prima volta» della Lombardia e del Nord — la prima esposizione di quelle aree a uno shock epidemico in età moderna, almeno di quell’ intensità e di quella portata simbolica — e la «seconda», cioè l’esposizione in corso allo shock epidemico e psicosociale (comunque devastante) di SARS-CoV-2. Una disinvoltura che sembra fondere i due shock in un’indistinzione ambigua, negando le loro specificità a ogni livello, da quello microbiologico a quello dello stress e della sofferenza sociale e individuale. Per verificare il loro grado di comparabilità e per tornare a Manzoni in modo meno automatico, bisogna forse partire da lontano. Quando si dice «peste», si intende di norma la forma «bubbonica», che pure in certe fasi (come nel Medioevo) appare in alternanza con quella «polmonare» (invernale e più letale). Osservata «in lunga durata», la peste bubbonica si articola in tre cicli pandemici: il primo, nell’Alto Medioevo, come «peste di Giustiniano», che produce «venti ondate», tra 542 e 767, lungo la tratta Mar Rosso-Costantinopoli- Roma; il secondo esteso tra la Morte Nera del ‘300 e le pestilenze secentesche, ultima ondata prima del declino della malattia; il terzo relativo alla fase asiatica, a partire dalla seconda metà dell’800. Con un’ulteriore, più ampia ciclicità o meglio circolarità: quella che unisce l’innesco della Morte Nera (dall’Asia all’Europa) e il «rientro» dall’Europa all’Asia. L’innesco ha un iter tortuoso: penetrando nello Yunnan e in Birmania, gli eserciti mongoli vengono a contatto col patogeno attraverso gli «ospiti serbatoio», i roditori selvatici (ratti neri) diffusi alle pendici dell’Himalaya; quindi, lo trasportano prima nelle steppe dell’Asia Centrale (dove si stabilisce nei roditori locali), poi verso l’Europa, passaggio decisivo l’assedio del khan Djanisberg e dell’Orda d’Oro (1347) alla base commerciale genovese di Kaffa, sul Mar Nero, coi cadaveri dei pestilenti gettati oltre le mura per contagiare e fiaccare il nemico. Il «rientro» — dopo cinque secoli di esplosioni periodiche in Occidente, ogni dieci-dodici anni — avviene intorno al 1855 nelle aree di Hong Kong, dove nel 1894 il batteriologo Alexandre Yersin isola l’agente patogeno, cioè il batterio Yersinia pestis, arrivato all’uomo per spillover o «salto di specie» dall’ospite serbatoio (il ratto) ma soprattutto da ospiti intermedi come la pulce parassita dei ratti stessi (Xenopsilla cheopis) o il pidocchio. Le pestilenze secentesche condividono con quelle trecentesche molti tratti epidemiologici e culturali: il carattere «endemico» tra quiescenze e esplosioni, che si attenuano solo con le prime reazioni di contenimento (la quarantena escogitata a Dubrovnik nel 1377, durante la peste «veneziana»); la «triangolazione» fatale con le guerre (uno dei principali veicoli di trasmissione) e le carestie (che espongono al patogeno organismi debilitati e immunodepressi), tale da ispirare una litania diffusa («A peste, fame et bello/ libera nos, Domine»); e soprattutto l’insinuarsi traumatico a livello psicosociale e esistenziale, come mostrano in un senso l’iconografia medievale (il diffondersi di «danze macabre» e «Trionfi della Morte», come negli affreschi dell’Oratorio de’ Disciplini a Clusone), nell’altro la statuaria barocca di piazza, le tante «colonne» votive «della peste» in tante aree della futura Mitteleuropa (celebre quella viennese, ma non ne mancano nel Nord Italia, come a Concorezzo). Il discrimine principale, invece, tra il ciclo trecentesco e quello secentesco consiste nei tassi di letalità e nell’impatto demografico. La Morte Nera uccide in cinque anni (tra 1347 e ’52) 25 milioni di europei, e da un terzo alla metà della popolazione eurasiatica e africana, che ammontava a 500 milioni di persone. Per quanto devastanti, i numeri delle pesti secentesche sono di molto inferiori, anche se vanno integrati con quelli di molte altre epidemie (tubercolosi, scorbuto, dissenteria) che si diffondono seguendo i continui sposamenti militari nel contesto della Guerra dei Trent’anni (1618-48), il conflitto decisivo dell’Europa moderna, innescato dalla contrapposizione tra cattolici e protestanti ma presto dilatato in ennesima sequenza del contrasto franco-asburgico per l’egemonia continentale. «Affluente» secondario del conflitto, la guerra di successione di Mantova e del Monferrato dopo la morte di Vincenzo II Gonzaga (1627), fondale della pestilenza lombarda anche nella narrazione manzoniana. A loro volta, i dati della peste secentesca in Nord Italia sembrano abnormi se paragonati ai giorni e alle ore che stiamo vivendo. Non si hanno dati precisi sul periodo complessivo (1629-33); ma sul biennio centrale (1630-31, i picchi nel Carnevale del ’30 — con le «misure» allentate — e nell’estate del ’31) Manzoni stesso valuta per le sei «regioni» coinvolte (Lombardia, Piemonte, Repubblica di Venezia, Trentino, Emilia-Romagna, Toscana) un milione di morti, vicino al dato oggi diffuso (che è superiore di 100.000). A sorprendere, è la distribuzione, per cui decisive sono le due fonti principali di Manzoni, il medico Alessandro Tadino e il medico-canonico Giuseppe Ripamonti. Il dato-monstre di Milano quanto a decessi sembrerebbe infatti fuori discussione: secondo Tadino, resterebbero a fine epidemia 64.000 abitanti su 250.000, con una perdita del 74%); secondo Ripamonti, i morti sarebbero 140.000 su 200.000 (con percentuale simile, 70%); anche se studi recenti, pur mantenendo alta la mortalità (46%), ridimensionano di molto la demografia (60.000 su 130.000). Percentuali altrettanto se non più alte appaiono in Veneto (Verona perde il 61% degli abitanti, Padova il 59) e in Emilia (Modena il 55, Parma il 50); e comunque distruttive in tutta l’odierna Lombardia (Cremona 46%, Brescia 45, Como 42, Bergamo 40). Nel Ducato di Milano, com’è noto, l’irruzione dell’epidemia viene «favorita» dal crash economico-produttivo del biennio precedente (’28-’29), in cui centrali sono la crisi del tessile (per via della concorrenza fiamminga) e la penuria di grano, alle origini di disordini sociali (come quelli descritti nei «tumulti del pane»), tali da costringere gli Asburgo a chiamare in soccorso i Lanzichenecchi, le «bande alemanne» portatrici del patogeno in mezza Europa. Con ovvi effetti di circolarità viziosa: a Busto Arsizio, ad esempio, la crisi post-pestilenza sui brand locali (cotone e seta del mitico baco, il filugello) diverrà parossistica. Milano, per la verità, aveva già patito tra ‘400 e ‘500 diverse irruzioni di peste o di altre epidemie: nel 1447 una non meglio precisata «febbre» mieteva 22.000 morti e provocava nei contagiati deliri tanto intensi da indurli a gettarsi dalle finestre; nemmeno 40 anni dopo (1484) la cosiddetta «epidemia magna» portava all’edificazione del Lazzaretto fuori Porta Venezia (opera avveniristica — 288 stanze — di Lazzaro Palazzi) e impressionava Leonardo al punto, forse, da fargli concepire una «nuova “città aperta», in grado di disperdere «la tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno»; infine, un secolo più tardi, la non meno celebre «peste di San Carlo», che «cinquantatrè anni avanti» al 1630 (cioè nel 1576) aveva «desolata» «una buona parte d’Italia». Ma nonostante quei precedenti — è uno dei tratti più controintuitivi della narrazione manzoniana sull’epidemia — quando il morbo irrompe a macchia «in questo o quel paese» sembra dovuto a «mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Solo ai più anziani, che ricordano la peste di San Carlo — pochi, in una comunità dall’aspettativa di vita piuttosto bassa — quei segni non risultano «nuovi». Per i più — come per noi oggi con SARS- CoV-2 — la peste è l’incontro con l’«unfamiliar», con una dimensione frastornante. A questo punto, dovrebbe emergere «oltre ogni ragionevole dubbio» l’impossibilità di un accostamento frontale tra la peste del 1630 e l’impatto di SARS-CoV-2, che pure ha di nuovo investito in modo drammatico la Lombardia come «avamposto», come nucleo di sofferenza di un’epidemia-pandemia. Non si tratta solo di cifre, che parlano da sé. Si tratta anche di una configurazione socioeconomica molto diversa, in cui la presenza/assenza di guerre, carestie e condizioni sanitarie disperate esercita un discrimine molto marcato. Così che molto diversi diventano anche gli ambienti, i paesaggi materiali e sociali. Per rendersene conto, sarebbe sufficiente andare a rileggersi alcune sequenze del romanzo: l’attraversamento di Milano da parte di Renzo per raggiungere il lazzaretto (XXXIV, con un’allucinata classificazione somatica e neuropsichiatrica degli «sbandati» nelle strade); le condizioni igienico-sanitarie e l’atmosfera allucinata del lazzaretto stesso (XXXV); il celebre «funerale» della piccola Cecilia (di nuovo XXXIV), per inciso uno dei vertici formali del romanzo, dolente e penetrante come l’aria di una Passione bachiana o di un Oratorio di Händel. Questi ultimi esempi dimostrano come in Manzoni lo scrittore e lo storico non siano mai davvero separabili. Nei capitoli iniziali sulla peste, però (XXXI-XXXII), il Manzoni «storico», pur non potendosene distaccare, prevale temporaneamente sullo scrittore, come mostra il grande lavoro sulle fonti. Lì, è come se gareggiasse coi modelli classici di storici-scrittori, Tucidide o l’amato Tacito. Sono quindi soprattutto quei due capitoli a fare del romanzo una possibile interfaccia tra le due epidemie (peste e SARS-CoV-2), a permettere di andare oltre (a lato) della loro incomparabilità attraverso una serie di relazioni (per analogia o differenza) a livello di «invarianze» politico-economiche o comportamenti individuali e collettivi. Con un’aggiunta, non scontata. Manzoni adotta il romanzo storico anche per poter «parlare a nuora perché suocera intenda» (descrivere le sopraffazioni degli occupanti secenteschi per alludere a quelle degli occupanti suoi contemporanei, aggirando i rischi censori); e lo colloca in quel periodo proprio perché la peste gli permette di risolvere la complessità dell’intreccio e completare il suo scavo sulla natura umana e la psicologia sociale. Questo finisce per collocare il libro, ai nostri occhi, in un’ideale posizione «mediana», in una sacca temporale equidistante, 200 anni dopo la peste e 200 prima di SARS-CoV-2. Diverse tra quelle relazioni sono state già evidenziate, a partire proprio da quelle psicosociali (vedi l’epidemia come scrematura di comportamenti solidali o egoico-criminali). Qui ne proponiamo altre. Alcune sono incidentali e esterne, come quelle sull’esordio del contagio. L’analogia consiste nella possibile coincidenza dei «pazienti zero»: un soldato delle «bande alemanne» (lanzichenecchi mandati a Milano per controllare i tumulti) e un asintomatico tedesco, un impiegato della bavarese Webasto che passa nel lodigiano tra 24 e 26 gennaio, a sua volta contagiato da una collega di Shanghai in un «meeting» aziendale inter-continentale a Monaco). La differenza, nell’area del focolaio primario, nel ‘600 situata a nord di Milano (area lecchese-brianzola), oggi a sud (Codogno, Lodi e la bassa tutta). Altre sono più profonde, strutturali. Proviamo a individuarne qualcuna: un paio di analogie e un paio di differenze, con l’ovvia asimmetria — a tratti — tra una realtà «regionale» e una «nazionale».
La prima analogia riguarda il «contenimento» dell’epidemia, le pratiche e i provvedimenti per separare contagiati e suscettibili, che deve affrontare comuni impasse e problemi, anche se con gradazioni diverse. Nella Milano secentesca, il rigetto-rimozione iniziale sulla gravità della situazione dovuto alla «comune miscredenza» di popolo e istituzioni (le «beffe incredule» e il «disprezzo iracondo» del primo; la «cecità» delle altre) si traduce in una letargia complice («l’imperfezion degli editti», «la trascuranza nell’eseguirli», «la destrezza nell’eluderli») che fa precipitare la situazione. Né servirà il tardivo destarsi «da un profondo sonno» dei Magistrati, che cercano di rendere operative le proposte del tribunale della sanità («i sequestri ordinati, le quarantene prescritte»); tribunale e, a sua volta, aveva implorato «cooperazione» e ottenuto «poco o niente». Anche nella reazione al primo diffondersi di SARS-CoV-2 ci sono stati rigetti di massa (incredulità e scetticismo irridente da bar) e esitazioni/contraddizioni nei provvedimenti, tra poca coordinazione (Governo, Regioni, Comuni) e contraddittorietà sia di atteggiamento (oscillante tra rassicurazione e allarme) sia di provvedimenti, così come non sono mancati sabotaggi nell’eseguirli, con momenti della più classica strafottenza anarcoide nazionale (gli affollamenti delle piste di sci al nord, gli assembramenti al centro-sud, gli assalti ai treni). Sabotaggi che stanno proseguendo tuttora, nonostante una situazione ospedaliera oltre ogni limite, rendendo impossibile ogni contrasto davvero risolutivo alla diffusione del patogeno.
La seconda riguarda il rapporto epidemia/economia, cui Manzoni dedica ampio spazio e che è subito emersa come la complicanza principale nel gestore SARS-CoV-2. Nella Milano colpita dalla peste, i problemi principali sono il reperimento di cibo, i costi sanitari e «il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori». Quindi, dato il bilancio drammatico dello Stato («le casse vòte»), si procede in due modi: da un lato (come già nella peste di San Carlo) si cerca di ottenere dalla Camera la sospensione delle sue «imposizioni»; dall’altro, i Decurioni cercano «di far danari per via d’imprestiti», distribuendoli poi «un po’ alla Sanità, un po’a’ poveri» e acquistando il grano per il pane. Quadro non dissimile da quello di questi giorni, con provvedimenti interni (esenzioni per tasse e mutui, bonus per categorie mirate) e un patto con la Ue e la Bce per una flessibilità (leggi: un indebitamento) eccezionali, che compensi le spese immani (in primis sanitarie) e l’arresto di Pil.
Le due differenze sono altrettanto rilevanti. Una è l’incidenza sociosanitaria e psicosociale del clero (regolare e secolare), inconcepibile in una società come la nostra. Nei Promessi sposi, quasi tutte le figure centrali nella gestione dell’epidemia- cui i politici si rivolgono impotenti- sono ecclesiastici: il padre cappuccino Felice Casati, che segue 50.000 ricoverati nel Lazzaretto; il suo collega Michele Pozzobonelli, che soddisfa una richiesta disperata dei magistrati e della Sanità (la sepoltura di migliaia di cadaveri lasciati nelle strade) reclutando 200 contadini; e il contributo di 60 parroci che accettano di ricoprire funzioni «temporali» (surrogare la penuria di operatori sanitari) al prezzo della vita (ne moriranno infatti «otto noni»). Solo un anticlericalismo volgare potrebbe disconoscere un simile contributo. Ai nostri occhi, a quella perdita corrisponde — nell’altra differenza — un guadagno. Perché sarebbe altrettanto inconcepibile, per noi — almeno per le maggioranze — la riconduzione causale di un’epidemia a interventi divino/demoniaci o all’azione venefica degli untori. Certo, anche allora in tanti erano intimamente orientati a spiegazioni più logiche (l’incidenza del contagio/contatto), come riassume il memorabile aforisma manzoniano sul conformismo delle masse: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune», dove per «buon senso» si intende il versante «popolare» di quel disincanto razionale condiviso da Manzoni col «congiunto» Pietro Verri. Ma un vero superamento della visione metafisica» delle epidemie avrebbe dovuto passare per la concezione microbica, che vede accumularsi alcune delle sue tappe più spettacolari pochi anni dopo la morte di Manzoni: i «postulati di Koch» per mostrare il legame tra un microorganismo specifico e una determinata malattia infettiva (1884); lo stesso isolamento di Yersina pestis da parte di Yersin (1894); quello del primo virus (del «mosaico del tabacco») attraverso i contributi di Ivanovskij e Bijerinck (1892 e 1898).
Da quel momento — nel nostro scontro tra specie con i patogeni — non solo cominciamo a morire meno (per cure sempre più efficaci); sappiamo anche perché moriamo. Il break della concezione microbica delle epidemie ci ricorda quanto la Lombardia del 2020 sia lontana (aliena) rispetto a quella della peste. Certo, in tutti e due i casi parliamo di vaste aree (comprendendo il Nord) densamente abitate e altamente produttive, assetto predisponente in un contagio. Ma quella era una proto-regione spartita tra il Ducato e la Serenissima; questa una regione-mondo innervata e plasmata da flussi migratori interni e internazionali, con un capoluogo tra i più «mixed» del pianeta; il che non esclude perverse continuità, coi ‘ndranghetisti infiltrati al posto dei Bravi. Quella era un’area di peso tra altre in una Nazione a venire; questa una regione-traino che produce il 22% del Pil nazionale: il che spiega, tra l’altro, la grande cautela iniziale nell’«isolarla» (così come tutto il Nord): la Cina ha potuto blindare la megalopoli Wuhan e l’Hubei in scenari da Andromeda perché il resto della Repubblica continuava a produrre e esportare: congelare la Lombardia equivale a congelare l’Italia.
Diverse sono poi le caratteristiche dei due patogeni: perché è vero che tutti e due sono stati «cercati» dall’uomo (i topi himalayani dai Mongoli e i pipistrelli-reservoirs di SARS CoV-2 da qualche mercato di animali selvatici» in Cina); ma il mondo medievale-moderno della peste (che procede verso «l’unificazione microbica») è lontano dall’essere connesso e veloce come il nostro, sintetizzato dall’«effetto Lorenz», quell’effetto— ricordiamo — per cui «il battito d’ali d’una farfalla a Pechino può scatenare un uragano a New York» e in cui basta sostituire il pipistrello alla farfalla per vederne il «dark side». Così come molto diversa, infine, è la parabola evolutivo-epidemiologica. La peste del 1630-31 è al tramonto occidentale: si ritrae già a partire dal 1640 (scomparirà nel 1722, dopo fiammate come Londra), tanto che si è ipotizzata un’immunità di gruppo maturata proprio nelle pestilenze precedenti; in realtà, il batterio regredisce da un lato per la nuova profilassi (il sapone di Marsiglia) dall’altro- soprattutto- per mutamenti climatici che introducono al posto del ratto nero quello grigio (surmolotto), molto più resistente al bacillo. Il coronavirus di SARS-CoV-2 è antico per il pipistrello ma nuovo per l’uomo, e nessuno ne conosce i «comportamenti». Se la proiezione inglese di queste ore fosse esatta (una curva estesa al 2021, lì si una vaga simmetria con la peste del 1630-31), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato.
Se la proiezione inglese di queste ore fosse esatta (una curva estesa al 2021 e agli anni a venire), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato, almeno in attesa del vaccino. (una curva estesa al 2021, lì si una vaga simmetria con la peste del 1630-31), ci aspetterebbe uno stress-test di specie molto elevato. Il che introduce «il» tema: il fatto che SARS-CoV-2 «non sia la peste» (e qui si è cercato di mostrarlo in modo definitivo), non significa che sia un virus di impatto lieve («poco più che un’influenza»). Sicuramente non ora, a sistema immunitario scoperto.
E proprio il caso lombardo è lì dimostrarlo. Un caso la cui entità eccezionale, tra l’altro, non è facile da esplicare (ci vorranno mesi), con diversi cofattori possibili: il fatto di costituire il «fronte» dell’incontro col patogeno; il tratto citato che unisce densità demografica e connessione commerciale-soci