Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL COGLIONAVIRUS

 

QUARTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

LA CURA

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

Fase 2: finalmente!

 “Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia Culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

 

QUARTA PARTE

 

LA CURA

 

·         La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

La lotta al Covid-19 a Madrid passa (anche) dalle fogne. Andrea Walton su Inside Over il 25 ottobre 2020. L’analisi delle acque reflue come arma per combattere il Covid-19 ed evitare chiusure e lockdown generalizzati. Si tratta del cosiddetto modello Madrid, una strategia originale ed apparentemente efficace impiegata anche negli Stati Uniti per proteggere contesti circoscritti come quelli dei campus universitari. A spiegarne il funzionamento è stata Isabel Díaz Ayuso, presidente della Comunità Autonoma di Madrid e membro del Partito Popolare, che ne ha parlato con il Corriere della Sera. La Diaz Ayuso ha chiarito come l’individuazione di un certo quantitativo di virus nelle acque reflue fa comprendere che a breve scoppierà un focolaio di Covid-19 in una specifica zona della città. Questo consente di programmare chiusure geograficamente limitate, efficaci ed in grado di preservare quanto più possibile il tessuto economico e sociale dell’insediamento urbano. L’adozione di mini lockdown ha consentito di giungere ad un dimezzamento, nel periodo compreso tra il 27 settembre e l’11 ottobre, del tasso di diffusione del virus a Madrid, una delle città spagnole più colpite della pandemia. La capitale spagnola ha così visto migliorare il suo quadro epidemiologico ma l’approccio non è stato gradito, almeno inizialmente, dal governo nazionale, con cui ci sono stati numerosi contrasti.

Una sconfitta dolorosa. L’esecutivo progressista spagnolo, guidato dal premier Pedro Sanchez, ha riportato in vigore, nella giornata di domenica, lo stato di emergenza valido su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un provvedimento volto ad imporre misure restrittive per limitare la diffusione del virus SARS-CoV-2, con l’obiettivo di normalizzare il quadro epidemiologico in vista del Natale. Il provvedimento è articolato in diversi punti: dall’imposizione del coprifuoco, in vigore tra le undici di sera e le sei del mattino del giorno seguente alla possibilità per le regioni di chiudere i confini interni mentre gli incontri sociali tra privati non potranno avere più di sei partecipanti. Le amministrazioni locali potranno anticipare o posticipare di un’ora l’entrata in vigore del coprifuoco ma non potranno abolirlo del tutto. L’obiettivo del governo è quello di prorogare la durata delle misure restrittive almeno sino ad aprile. L’economia del Paese, già duramente provata dal lockdown primaverile, rischia di inabissarsi definitivamente anche a causa della cattiva gestione della pandemia. I casi giornalieri registrati nel Paese sono stati, nel periodo compreso tra il 3 settembre ed il 20 ottobre, circa 10-15 mila. Il numero di infezioni è però tornato a crescere con prepotenza nelle ultime settantadue ore ed ha toccato i 20.986 casi il 22 ottobre. Uno sviluppo preoccupante che potrebbe causare seri problemi al sistema sanitario e che evidenzia come l’approccio messo in campo dall’esecutivo si sia rivelato fallimentare.

Il ruolo delle fogne. La Comunità di Madrid aveva iniziato a monitorare, già nel mese di maggio, trecento collettori di acque reflue fognarie. La speranza è sempre stata quella di individuare precocemente eventuali focolai e di normalizzare la situazione epidemiologica nel più breve tempo possibile. Una tesi supportata dalle evidenze scoperte da una squadra di ricercatori dell’Università di Barcellona capeggiata da Albert Bosch. I ricercatori hanno individuato tracce del virus SARS-CoV-2 in campioni di acque reflue di Barcellona risalenti al marzo del 2019 e Bosch ha affermato che la scoperta precoce del virus avrebbe potuto portare ad una gestione diversa della pandemia. Il Covid-19, pur essendo molto contagioso, può essere contenuto efficacemente con l’adozione di un efficace sistema di tracciamento dei casi e dei contatti delle persone infette. Il problema è che il tracciamento, per essere valido, deve essere implementato nelle fasi iniziali della diffusione del morbo, altrimenti rischia di essere travolto dalla crescita esponenziale dei casi e di essere sostanzialmente inutile.

Gli esecutivi non vogliono ascoltare. La convivenza con il Covid-19 non dovrebbe portare ad uno stravolgimento delle vite quotidiane dei cittadini ne alla violazione delle loro libertà costituzionali in nome dell’emergenza sanitaria. Pochi governi, però, sembrano aver compreso questo principio di base e preferiscono adottare misure restrittive su vasta scala (che generano peraltro effetti recessivi a livello economico) piuttosto che cercare di circoscrivere i focolai a livello di edificio, di quartiere o di città. La Comunità di Madrid aveva individuato, con l’ordinanza entrata in vigore il 21 settembre, 37 aree urbane da sottoporre a restrizioni nella speranza di rallentare l’avanzata del virus. Il piano mirava a limitare la libertà di movimento dei cittadini residenti nelle aree in questione e ad imporre chiusure anticipate per i negozi ed i locali presenti in tali zone. Non un lockdown vero e proprio, dunque, ma una lotta strada per strada contro il virus nel tentativo di circoscriverlo. L’ordinanza non è stata apprezzata dal Primo Ministro Pedro Sánchez che ha ingaggiato una lunga battaglia con il governo locale nel tentativo di sottoporre la città a misure più dure. I prossimi mesi potrebbero però vedere un ritorno di un tentativo di convivenza morbida con il virus e la strategia di Madrid potrebbe così tornare in auge.

Mauro Evangelisti per ''Il Messaggero'' l'11 settembre 2020. Sulla scia di quanto deciso dalla Francia, l' Italia si appresta a ridurre il numero dei giorni di quarantena per i casi sospetti di Covid. Attualmente sono 14, a Parigi hanno deciso che 7 sono sufficienti, su richiesta del governo il Comitato tecnico scientifico martedì valuterà se tagliare il periodo di isolamento a 10. Ma c' è un altro numero da tenere d' occhio. Tra luglio e settembre i pazienti in terapia intensiva per Covid-19 sono quadruplicati. Siamo passati dal dato più basso del 29 luglio, 38, a quello molto più alto di ieri, 164, con un incremento di 14 unità rispetto al giorno precedente. E nell' ultima settimana c' è un più 40%. In sintesi: dimentichiamo la storia estiva del coronavirus scomparso e dei contagiati tutti asintomatici. La realtà è differente: i pazienti in terapia intensiva, in poco più di un mese e mezzo, sono quadruplicati. Siamo lontani dal picco del 3 aprile (4.068 pazienti nelle terapie intensive). Non c' è saturazione delle strutture sanitarie, anche perché i posti da poco più di 5.000 sono stati aumentati fino a superare quota 9.000. Però dagli ospedali segnali di difficoltà arrivano: al Santissima Trinità di Cagliari i posti Covid in terapia intensiva sono finiti, tanto che ieri è stato deciso di aprire la seconda unità. A fine agosto al Cotugno di Napoli hanno dovuto potenziare i posti di sub-intensiva. La Lombardia ha già 27 ricoverati per Covid nel reparto dei casi più gravi, la Sicilia 18. «Quanto campanello di allarme non va sottovalutato. Non significa che andremo in emergenza, ma tutti dobbiamo mantenere atteggiamenti virtuosi e prudenti: è vero che abbiamo imparato molte cose su come affrontare la malattia, ma dopo sei-sette mesi avrei sperato che ci fossero farmaci risolutivi che ancora non abbiamo» spiega il professor Massimo Andreoni, primario di Malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. Secondo Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva del San Raffaele, addirittura nei mesi scorsi Berlusconi avrebbe rischiato di morire. «La carica virale del tampone nasofaringeo di Berlusconi era talmente elevata che a marzo-aprile, sicuramente non avrebbe avuto l' esito che fortunatamente ha ora. Lo avrebbe ucciso? Assolutamente sì, molto probabilmente sì, e lui lo sa. E comunque decisiva è stata la tempestività con cui è andato in ospedale: dieci ore dopo poteva essere troppo tardi». Due Paesi vicini come Francia e Spagna avvertono la pressione sugli ospedali (in particolare la penisola iberica); va detto che l' Italia, pur segnando un aumento di nuovi casi positivi (ieri 1.597) resta tra i Paesi europei meno colpiti in questa fase: la Spagnaviaggia a 263,2 infetti ogni 100mila abitanti nelle ultime due settimane, la Francia a 135,1, l' Italia a 32. Sta crescendo, però, in Italia anche il dato dei ricoverati negli altri reparti, più che raddoppiato in un mese (da 800 a a 1.836). Ecco, di fronte a questi segnali ci si sta organizzando: il commissario Domenico Arcuri sta aggiudicando la gara per l' affitto 4 strutture mobili di terapia intensiva, ognuna avrà 75 posti letto. Ma come sono cambiati, rispetto a marzo e aprile, i pazienti che finiscono in terapia intensiva? E come sono state migliorate le cure? Analizza Andreoni: «La tipologia dei pazienti non è cambiata, sono soprattutto anziani e soggetti fragili. Ma questo non significa, esattamente come avveniva a inizio epidemia, che non vi siano anche persone giovani. Negli ultimi mesi abbiamo imparato a trattare i pazienti prima, più tempestivamente, affidandoci soprattutto a un medicinale come il Remdesivir, che si è dimostrato essere il più efficace. E poi cortisone e anticoagulanti. Altri farmaci, che invece sono risultati poco validi se non dannosi, sono stati abbandonati: penso alla idrossiclorochina e ad alcuni antivirali che inizialmente sembravano promettenti. Sulla ventilazione assistita, va detto che la usiamo meglio, non meno».

Mini quarantena, in Italia libererebbe 40 mila asintomatici. Notizie.it il 21/09/2020. Interpellata alcuni giorni fa sulla possibilità di una quarantena ridotta, il Comitato tecnico scientifico non se l’è sentita di fare un passo in avanti ed ha preferito prendere tempo. La mini quarantena, con la riduzione da 14 a 10 giorni dell‘obbligo di isolamento domiciliare libererebbe infatti in Italia ben 40.000 asintomatici ma sono diversi gli ambienti scientifici ufficiali che hanno, seppur timidamente, espresso aperture nell’ottica di una diminuzione dei giorni di quarantena.

Mini quarantena, opinioni contrastanti. Le opinioni scientifiche sono contrastanti. In Italia il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha sposato non più di due giorni fa la posizione del Cts riguardo alla quarantena ridotta riferendosi all’Italia come esempio di prudenza e avvertendo del rischio di aumento contagi Covid nel caso di riduzione del numero di giorni dell’isolamento fiduciario, tuttavia anche in ambito internazionale sembra che Oms e Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) stiano frenando nonostante le timide aperture di giugno. L’Organizzazione mondiale della Sanità, aveva infatti diffuso un dossier, dal titolo Criteria for releasing Covid-19 patients from isolation, in cui si riteneva fattibile la quarantena ridotta perché il Sars_CoV2 “risulta raramente presente nei campioni respiratori dei pazienti affetti dalla Covid-19 dopo nove giorni dall’esordio dei sintomi, specialmente nei pazienti con malattia lieve, solitamente accompagnati da livelli crescenti di anticorpi neutralizzanti e dalla risoluzione dei sintomi“. Il report Oms veniva inoltre accompagnato da una raccomandazione distintiva: quarantena di 10 giorni per pazienti sintomatici (a partire dalle prime manifestazioni dei sintomi) più 3 giorni di convalescenza post Coronavirus senza sintomi. Per gli asintomatici, invece, l’Oms indicava la possibilità di quarantena ridotta a 10 giorni a seguito di tampone positivo. Personalmente ne ho le tasche pine di questa storia degli asintomatici come se fossero untori come nella peste di Manzoniana memoria. Mi vengono in mente le parole della dottoressa Gismondo virologa di fama internazionale che ad un convegno disse che se faceva il test del citomegalovirus ai presenti in sala probabilmente il 70% sarebbe risultato positivo però nessuno aveva alcun sintomo.

Vincenzo Bruno. Classe 1980, originario di Diamante (CS), è laureato in Scienze delle Comunicazioni e si occupa di scrittura creativa per il web. Ha collaborato con diverse testate, sia cartacee (CalabriaOra e Il Meridione) che online. Scrive per Notizie.it e Actualidad.es.

Inglese, italiano, coreano e cinese: 4 strategie diverse per affrontare il virus, quale sarà la più efficace? La Stampa il 15 marzo 2020. Tutto il mondo sta affrontando il contagio del coronavirus e deve misurarsi con gli stessi problemi: un virus che si diffonde velocissimo nella popolazione, per cui non esiste ancora un vaccino, che ha sintomi quasi identici a quelli di una normale influenza, o addirittura si presenta in forma asintomatica in alcuni soggetti. Per contenere il contagio, tuttavia, sono state adottate diverse strategie. Regno Unito, Italia, Corea del Sud e Cina hanno adottato modelli diversi. Vediamo in cosa consistono e quali vantaggi o svantaggi hanno.

Cina, la militarizzazione del territorio. Dopo aver affrontato la Sars nel 2003, il governo di Pechino era pronto e ha mostrato al mondo una macchina tecnologica, logistica e organizzativa di grande potenza. Tutti siamo rimasti a bocca aperta nel veder costruire un ospedale da mille posti nel giro di tre giorni. L’isolamento fisico di intere città, l’uso dei droni per sorvegliare e controllare la popolazione, la militarizzazione dell’intero territorio sono state la risposta di un governo abituato a imporre ai propri cittadini misure di emergenza. E per imporre s’intende nel modo più draconiano immaginabile, con la chiusura di tutta la filiera produttiva e la pena di morte per chi fuggiva dalle zone rosse. Un modello inapplicabile nel mondo occidentale, che non tiene conto di alcun altro diritto dei cittadini se non quello della salute pubblica.

Italia, tutto chiuso ma con deroghe. Dal punto di vista sanitario il modello italiano è simile a quello cinese: chiusi gli uffici, le scuole, i locali, i luoghi pubblici per quindici giorni. Spostamenti solo se necessari e solo se giustificati da validi motivi come lavoro, spesa e salute. Anche in questo caso l’imposizione dei divieti è arrivata dall’alto, non senza polemiche iniziali. Ma alla fine le decisioni politiche sono state più partecipate, l’estensione della zona rossa a tutta l’Italia è stata chiesta dall’opposizione. Pur essendoci sanzioni nei confronti di chi viola i decreti, queste sono decisamente più blande di quelle cinesi. La reazione della popolazione è per adesso quella di una solidarietà nazionale e anche iniziative come i concerti dai balconi rispondono a un’esigenza di mitigare misure pesanti e mostrarsi vicini al prossimo. Molti diritti sono stati compressi nel nome di quello alla salute, dal punto di vista produttivo le aziende sono a terra e questo avrà conseguenze, per adesso non ancora prevedibili. Il modello italiano viene seguito anche da Francia e Spagna.

Corea, tecnologia e tracciamento. Completamente diversa la strategia della Corea del Sud. Seul ha infatti messo in campo un capillare monitoraggio degli spostamenti attraverso il tracciamento dei telefonini. L’idea è quella di riuscire a bloccare solo i soggetti che sono entrati in contatto con soggetti positivi al Covid-19 in modo da isolarli, tenendo però aperte le attività. Il modello coreano adotta una strategia sanitaria che fa grande impiego di tamponi. In pratica vengono fatti test a tutta la popolazione e si adotta in seguito un tipo di contenimento selettivo.

Regno Unito, cinismo e diritti individuali. Se il modello cinese è quello quasi orwelliano di controllo delle masse, Londra ha scelto una strategia opposta. La salute è un bene primario, ma non si possono comprimere i diritti individuali fino al punto di eliminarli. Impossibile nella mentalità inglese privare i suoi cittadini della libertà di scegliere (modello cinese) quanto privare i cittadini della loro privacy con campagne di contact tracing (modello coreano). Londra ha quindi annunciato in un discorso choc che il governo inglese non farà assolutamente nulla per contrastare la diffusione del virus. Meglio affrontare il virus e confidare che dopo una prima ondata con un elevato numero di decessi la popolazione possa sviluppare da sola gli anticorpi per tenere sotto controllo l’infezione. Passerà alla storia la frase del premier Boris Johnson: “Preparatevi ad avere lutti in famiglia”. God save the Queen.

Dal modello coreano all'Italia: tutte le "ricette" anti-Covid 19. Con più di 380mila contagiati e oltre 16mila morti il coronavirus spaventa ancora l’Europa (e non solo). Ecco i vari "modelli" a confronto. Francesco Curridori, Mercoledì 25/03/2020 su Il Giornale. Con più di 380mila contagiati e oltre 16mila morti il coronavirus continua a spaventare l’Europa e le potenze occidentali per i suoi risvolti sanitari ed economici. La pandemia, nata a Whuan e nella provincia dell’Hubei, ha colpito principalmente l’Italia.

Il (fallimentare) modello italiano. Il 22 febbraio il governo Conte mette in quarantena i residenti di Codogno e di altri 9 comuni della provincia di Lodi dove si è sviluppato il primo focolaio di persone infette dal Covid-19. L’esecutivo giallorosso procede con vari tentennamenti perseguendo la politica dei piccoli passi. Nel linguaggio dei media fa il suo ingresso il DPCM, acronimo del cosiddetto “decreto del presidente del Consiglio dei ministri”, lo strumento usato da Conte per chiudere progressivamente il Paese. Non si è trattato di una chiusura immediata e totale, come avevano suggerito molti infettivologi, ma un crescendo di restrizioni che inizialmente ha riguardato solo la Lombardia e il Veneto e, poi, dall’11 marzo, tutto il Paese. Dopo dieci giorni dal primo “lockdown” il premier Conte ne annuncia un altro che prevede anche la chiusura di tutte le fabbriche “non essenziali”, anche se le eccezioni sembrano essere ancora troppe. A livello internazionale si inizia a parlare di “modello italiano” che, in realtà, non è altro che l’applicazione graduale della quarantena attuata da Pechino che ha chiuso l’intera provincia dell’Hubei, una regione popolosa come l’Italia. Un modello che, finora, ha portato dei risultati deludenti dal momento che, in Italia, si registrano quasi 64mila contagiati e più 6mila decessi.

I soldi promessi da Bruxelles. Un “lockdown” che durerà fino al 3 aprile e che molto probabilmente, purtroppo, sarà prorogato con inevitabili conseguenze negative che si rifletteranno sull’economia italiana per i prossimi anni. A tal proposito il presidente della Bce Christine Lagarde, proprio nei giorni in cui il numero dei morti per coronavirus nel nostro Paese continuava a salire, annunciava di non aver nessuna intenzione di intervenire per ridurre lo spread italiano come fece Mario Draghi. Parole in netto contrasto con quelle usate dal presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen che, invece, si è mostrata molto solidale con l’Italia tanto da sospendere il patto di stabilità e costringere la Bce a mettere sul piatto ben 750 miliardi di euro per aiutare i Paesi europei colpiti dall’emergenza Covid-19.

Spagna, Francia e Germania copiano l'Italia. Un’iniziativa portata avanti per tranquillizzare anche gli altri Paesi europei come la Spagna e la Francia che hanno seguito il “modello italiano”. Il Paese iberico, quarto al mondo per numero di contagiati (quasi 35mila) e terzo per numero di decessi (più di 2300), si trova in stato di emergenza dal 14 marzo. Il governo socialista di Pedro Sanchez ha deciso di adottare per due settimane misure più restrittive di quelle italiane, vietando persino di fare jogging nei parchi e, due giorni dopo, ha di fatto sospeso la Convenzione di Schengen. Le scuole, ovviamente sono chiuse, mentre le aziende lavorano, ma a ritmi ridotti. I luoghi di culto, invece, sono aperti, ma devono garantire la distanza di un metro tra le persone. Il premier Sanchez ha, inoltre, annunciato l’acquisto di nuove forniture mediche e l’estensione dei test per trovare il maggior numero possibile di persone positive al Covid-19. Il suo governo stanzierà 200 miliardi di euro di cui la metà andranno a beneficio di prestiti e imprese, mentre 600 milioni serviranno per l’assistenza ai più deboli. La Francia, con oltre 20mila contagiati e 862 morti, è il terzo Paese europeo più colpito per numero di decessi da coronavirus. Il presidente Emmanuel Macron, lo scorso 16 marzo, ha dichiarato lo stato d’emergenza e imposto per due settimane una serie di limitazione “in stile italiano”, approvate per legge dall’Assemblea nazionale nella notte tra il 21 e il 22 marzo. Tra le misure entrate in vigore vi è la possibilità di uscire di casa solo per lavorare, fare la spesa, andare dal medico e fare esercizio fisico solo nei pressi della propria abitazione e a debita distanza dalle altre persone. Restano chiuse scuole, bar, ristoranti e negozi che non vendono beni di prima necessità, mentre i luoghi di culto sono aperti, ma la partecipazione alle funzioni religiose è interdetta ai fedeli. Dal punto di vista economico Macron ha stanziato 45 miliardi di cui 32 andranno per cancellare o rinviare le tasse delle imprese, mentre 2 miliardi finiranno in un fondo di solidarietà per i più deboli. Il resto verrà usato per ampliare i fondi per la disoccupazione. La Germania, con quasi 29mila positivi e poco più di un centinaio di morti, è stata colpita soprattutto in Baviera dove il lockdown è iniziato il 20 marzo scorso. Il governo guidato da Angela Merkel (anche lei si trova in quarantena), che il 16 marzo aveva imposto la chiusura delle scuole fin dopo Pasqua, ha adottato delle “misure senza precedenti” soltanto nel fine settimana. Berlino vieta gli assembramenti con più di due persone, "eccezion fatta per le famiglie e le persone che convivono nello stesso domicilio". Sarà possibile andare al lavoro e dal medico, fare la spesa, partecipare a esami o altre attività "necessarie" purché si mantenga una distanza minima di 1,5 metri. Lo sport all’aperto è consentito, ma pub, bar e ristoranti restano chiusi così come parrucchieri, studi di bellezza, di massaggi e di tatuaggi". L’apertura e la chiusura dei luoghi di culto è demandata ai singoli Lander. Dal punto di vista economico, il governo tedesco ha garantito con prestiti "illimitati" per 550 miliardi di euro e ha fatto cadere il tabù sul deficit, annunciando 156 miliardi di euro di aiuti a famiglie e imprese.

Il modello Sudcoreano. In Italia Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, ha invitato il governo ad “adottare il metodo coreano per rintracciare e isolare i positivi”. La Sud Corea, che finora ha registrato quasi 9mila contagiati e appena 111 decessi, è riuscita a contenere la diffusione del coronavirus facendo tesoro degli errori commessi durante l’epidemia di Mers che nel 2015 causò 200 contagi e 38 vittime. Da allora Seul ha deciso di adottare nuovi protocolli e una strategia che coniuga la possibilità di effettuare test a tappeto” e l’uso di app per monitorare gli spostamenti delle persone positive. Il governo di Seul non ha imposto una quarantena rigida come quella cinese, ma ha chiuso le scuole per tre settimane e vietato ogni manifestazione pubblica. I sudcoreani, infine, sono tenuti a indossare la mascherina nei luoghi pubblici e a rispettare le misure di distanziamento sociale che comprendono, ovviamente, anche il divieto di creare assembramenti. Il governo, infine, ha annunciato lo stanziamento di oltre 9,8 miliardi di dollari per affrontare l’emergenza sanitaria e finanziaria.

Il "caso russo": quarantene per turisti e poche restrizioni. Anche la Russia, dove finora si sono registrati 438 positivi e 1 solo decesso, ha deciso di usare i sistemi di geolocalizzazione per monitorare gli spostamenti dei russi che sono stati in contatto con persone affette da Covid-19. Qui le scuole sono state chiuse dal 21 marzo fino al 12 aprile, ma i collegamenti con la Cina sono stati interrotti già dai primi giorni di febbraio. Inizialmente tutti gli stranieri provenienti da Paesi in cui vi è stata una grande diffusione del virus sono sati messi subito in quarantena, mentre ora l’ingresso degli stranieri in Russia è stato proibito fino al primo maggio. Il governo ha fatto una serie di raccomandazioni (non baciarsi, abbracciarsi e non frequentare luoghi affollati), ma ha anche vietato di formare assembramenti o dar vita a manifestazioni pubbliche. Il sindaco di Mosca, invece, ha imposto l'auto-isolamento obbligatorio, valido dal 26 marzo al 14 aprile, per tutti i residenti over 65 anni e per le persone affette da malattie croniche, ad eccezione del presidente Vladimir Putin. Il governo si è impegnato a investire 86 milioni di euro in respiratori artificiali e altre strumentazioni sanitarie.

Regno Unito e Stati Uniti: dalla sottovalutazione ai lockdown. Il Regno Unito, con oltre 6mila contagiati e 336 decessi, sembra aver preso sottogamba il pericolo dettato dal coronavirus. Il premier conservatore Boris Johnson, inizialmente, era intenzionato ad affidarsi all’immunità di gregge, ma poi ha cambiato strategia dopo che i medici dell'Imperial College gli hanno prospettato che sarebbero potuti morire fino a 250mila britannici. Se il 16 marzo sono partite una serie di raccomandazioni volte ad evitare contatti sociali, quattro giorni dopo Johnson è stato costretto a chiudere le scuole, i cinema, i teatri, le palestre e tutti i locali di ristorazione, compresi gli amatissimi pub. Ieri, invece, è arrivata la svolta del governo conservatore che ha abbracciato il modello italiano, limitando all'osso la libertà di movimento degli inglesi. In compenso, il governo ha fornito garanzie statali per 330 miliardi di debiti delle imprese e ha annunciato altri aiuti per i disoccupati e per i lavoratori autonomi ai quali è stato concesso il rinvio del pagamento di 30 miliardi di sterline di IVA. Negli Stati Uniti, terzo Paese al mondo per numero di contagiati (oltre 43mila anche se i decessi sono solo 557), il presidente Donald Trump, dopo un’iniziale sottovalutazione del problema, ha sospeso tutti i voli da e per gli Stati Uniti a partire dal 13 marzo. E mentre in 8 Stati, tra cui New York e California, è partito il lockdown costringendo ben 100 milioni di americani a restare a casa, da Washington è arrivata la promessa di investire 2.000 miliardi di dollari che si tradurranno in assegni per i contribuenti e per le famiglie. Una misura sulla quale i parlamentari democratici e repubblicani devono ancora trovare un accordo.

Dallo sviluppo iniziale alla guarigione: le fasi del coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 15 marzo 2020. L’epidemia provocata dal nuovo coronavirus è diventata una pandemia. Questo significa, prima di tutto, che il Covid-19 ha superato ogni confine e fatto breccia praticamente ovunque: dall’Asia all’Europa, dalle Americhe all’Africa. Da un punto di vista tecnico, il nuovo livello di allerta comporta più limitazioni alla vita quotidiana e blocchi più stringenti. In altre parole le disposizioni a cui gli italiani sono già stati sottoposti verranno via via estese un po’ ovunque. Ma quando torneremo alla normalità? In Italia, a meno di ulteriori proroghe, la data segnata sul calendario è quella del 3 aprile. È tuttavia complicato individuare il momento esatto della fine della pandemia,. Non a caso esperti e ricercatori sono soliti adattare i loro ragionamenti sul lungo periodo (settimane o mesi, non certo giorni). Non solo. C’è un altro aspetto da considerare e riguarda le strategie adottate dai vari Paesi. Ogni governo applica misure differenti, quindi la velocità impiegata da ciascuno Stato per uscire dal tunnel dipende dall’efficacia della strategia perseguita. Detto altrimenti, è probabile che la quarantena forzata importa dalla Cina ai suoi abitanti sia più efficace dell’immunità di gregge proposta dal Regno Unito di Boris Johnson.

Dallo sviluppo iniziale alla guarigione. Tenuto conto di quanto appena detto, Jp Morgan ha realizzato un grafico interessante che incrocia due aspetti. Il primo: le settimane di epidemia trascorse da quando è stato rilevato il primo paziente infetto in un dato Paese. Il secondo: la fase di epidemia che sta attraversando attualmente ciascun Paese preso in esame, dallo sviluppo iniziale alla guarigione. Il quadro che emerge è una fotografia istantanea che dovrebbe aiutarci a capire chi è sulla via della vittoria e chi sta per iniziare la sua battaglia. La prima fase è quella dello “sviluppo iniziale” e la caratteristica che la contraddistingue è l’aumento dei nuovi casi di pazienti infetti. Lo step successivo è l’”accelerazione” dell’epidemia, con una crescita dei contagi e guarigioni limitate. Entriamo poi nella terza fase denominata “Late Accumulation”: qui iniziamo ad assistere a una diminuzione della crescita dell’infezione seppur con in presenza di nuovi contagi. I malati, per lo meno, iniziano ad aumentare. L’ultima fase è quella della “guarigione“, che si verifica quando ci sono pochissime infezioni e numerose guarigioni.

Fasi e Paesi. Il quadro è ovviamente dinamico anche se la ricerca si ferma a fotografare un dato istante. Al momento dello studio, Olanda e Regno Unito si trovano nella prima fase mentre Stati Uniti, Germania, Francia e Spagna in quella dell’accelerazione. Discorso a parte merita il Giappone che, dati alla mano, sembrerebbe essere arrivato alla guarigione saltando gli altri step. Iran e Italia sono vicini al picco e impegnati nella fase di massima salita. La Corea del Sud è invece in fase calante, così come la Cina: questi due Paesi asiatici sembrerebbero essersi lasciati il peggio alle spalle. La Cnn ha invece mostrato un altro grafico, sempre relativo alla spread trajectory del coronavirus. I dati più o meno coincidono con quelli proposti da Jp Morgan, anche se sono stati inclusi Hong Kong e Singapore. Date le piccole dimensioni di queste città-Stato, qui i danni provocati dal Covid-19 sono decisamente più limitati.

Coronavirus: cosa sta succedendo? Salvo Di Grazia su medbunker.it lunedì 9 marzo 2020. Nonostante cerchi di continuare a parlare di altri argomenti ormai (ovviamente) le cronache e le discussioni sono tutte incentrate sull'epidemia da Coronavirus. Di notizie ce ne sono tante, troppe e forse anche questo alimenta confusione e incertezza. Come sempre credo che i dati siano la base migliore dalla quale partire. Abbiamo un virus nuovo. Questo lo rende interessante dal punto di vista scientifico (per ovvi motivi), subdolo da quello clinico (non conoscendolo non sappiamo cosa possa causare). Essendo un virus che si diffonde ormai da settimane (prima in una regione confinata, la Cina, poi in tutto il mondo), cominciamo ad avere qualche notizie in più. Certo, la valanga di notizie, pareri, opinioni e lanci d'agenzia non ha aiutato nessuno e parole come "epidemia", "pandemia", "zona rossa", "quarantena", sembrano uscite da un film apocalittico e possono fare paura, cosa che non giova. Ma allora, cosa sta succedendo? Cosa possiamo dire e cosa sappiamo oggi? Sappiamo per esempio che la malattia causata da questo virus (si chiama Covid-19, CoronaVirus Disease) causa una sindrome simil influenzale con particolare coinvolgimento dei polmoni. Nei polmoni la malattia può causare una grave polmonite interstiziale che, in certi casi e soprattutto nelle persone a rischio, può essere persino letale. La classe che sembra più delicata e a rischio è quella degli anziani, dai 65 anni in poi con un rischio che aumenta parallelamente all'età (l'età media del decesso dei pazienti positivi al Coronavirus è 81 anni). Nei casi confermati in questa ondata epidemica quasi tutti (i due terzi) i decessi erano di persone con malattie preesistenti. La letalità (numero di morti tra i contagiati) di questa malattia non è altissima ma nemmeno trascurabile, siamo attorno al 3,5% ma si tratta di un dato discutibile e sicuramente non preciso. Per capirci: molto probabilmente questo numero è in realtà molto più basso perché i contagiati sono solo quelli che risultano positivi al test per la presenza del virus. È molto probabile che molti (moltissimi?) positivi non sono mai stati rilevati perché con pochi sintomi e quindi non si sono mai resi conto di essersi ammalati. Se i contagiati (reali) fossero, come probabile, molti di più, la letalità sarebbe notevolmente più bassa (forse simile a quella dell'influenza stagionale). C'è da dire un'altra cosa importante, legata alle fasce d'età. Come ho scritto, questa malattia è più pericolosa per le persone più anziane (a maggior ragione oltre gli 80 anni). Se consideriamo la letalità per fasce d'età vedremo che negli over 80 avremo 10,9% di letalità (altissima), mentre nella fascia 0-65 anni di età è dello 0,5% (bassissima). Come notate, questi dati bisogna saperli leggere e, anche sapendolo fare, possono essere molto variabili. Il dato della letalità generale (che sembra maggiore rispetto alla Cina contro quella delle varie fasce d'età), è una nota distorsione statistica dovuta al fatto che da noi ci sono più anziani, si chiama "Paradosso di Simpson". Detto questo c'è un grosso problema. Il virus, come tanti virus e come in tante epidemie, non "chiede il permesso" per infettare. Ha un'alta contagiosità (più di altre malattie infettive) e quindi se "entra" in una popolazione rischia di infettarne larga parte. Per popolazione, in epidemiologia, non si intende per forza una nazione o una regione ma "un gruppo". Il virus può infettare una regione, una "macroregione" (il nord Italia, ad esempio) o una nazione intera ma anche di più. Così è successo in Cina. Moltissimi contagiati, in pochissimo tempo e, anche se la letalità fosse bassissima, le vittime potrebbero essere tantissime (su grandi numeri, anche una piccola percentuale è in ogni caso numerosa). Questo, a prescindere dalla gravità dei sintomi della malattia, oltre a fare vittime, sovraccarica le strutture sanitarie. Migliaia di persone si riversano al pronto soccorso, centinaia di ricoverati, tanti in rianimazione. Serve personale, farmaci, posti letto, macchinari. Quando questo succede in sei mesi (come per l'influenza) si riesce a sopportare l'impatto (e supportare tutti), quando questo avviene in un mese potrebbe far crollare tutto. E poi diventa una reazione a catena. Se i reparti di rianimazione fossero pieni di pazienti con polmonite da Coronavirus, non potrebbero ricevere persone in insufficienza renale, con un infarto, chi ha avuto un incidente, una donna che ha avuto un'emorragia post partum, un uomo che ha avuto un ictus con conseguente diminuzione dell'assistenza, delle cure e quindi un aumento senza precedenti della mortalità e delle complicanze, oltre che un peggioramento improvviso e pesante del livello delle cure.

Ecco, il vero, principale rischio di questa epidemia è questo. Un contagio veloce, della maggior parte della popolazione metterebbe a rischio il sistema sanitario e questo non sarebbe un problema solo relativo all'epidemia ma a tutto il resto. A tutto questo si aggiunge il fatto che il virus è veramente pericoloso (come detto prima) nelle persone più anziane, cosa tipica delle malattie infettive a maggior ragione se con sintomi respiratori. Sono loro gli individui da proteggere perché, colpiti dalla malattia, avrebbero conseguenze gravi se non irreparabili.

E allora? I provvedimenti di contenimento e mitigazione? Le "zone rosse"? Sono doverose. Proprio per evitare quello che ho detto. Hanno funzionato, spesso funzionano e quindi dobbiamo usarle. Questo ci consentirà (nello scorso articolo ho fornito qualche spiegazione e pure la letteratura scientifica a supporto) di diminuire i casi il più possibile e, in ogni caso, di "spalmare" quelli che hanno bisogno di cure, diminuire il numero dei contagiati e quindi delle complicanze, evitare il contagio di persone fragili (anziani su tutti) e curare tutti, fino alla fine dell'ondata epidemica. Se non riuscissimo a contenere il numero di persone bisognose di cure si potrebbe assistere al collasso del sistema sanitario. L'obiettivo delle misure di contenimento e mitigazione, è proprio quello di limitare il più possibile (annullarlo è praticamente un'utopia) la contagiosità del virus e la cosa più evidente (anche da studi che hanno analizzato il caso cinese) è che le misure devono essere severissime, rigide e rispettate, altrimenti saranno praticamente inutili.

Vari scenari. Il valore R0 indica la "contagiosità" del virus. Se è molto alta o anche solo alta, potrebbe determinare il collasso dell'assistenza medica. Se la abbassiamo a valori molto più bassi questo collasso sarà almeno ritardato e contenuto. Unica soluzione quindi è quella di diminuire i contagi e subito. Il punto da capire è riflettere sulla conseguenza tra rischio individuale e rischio di popolazione (grazie a Luca De Fiore che mi ha fatto riflettere su questo punto decisivo). Questo può servire per fare capire a tutti, anche a chi non si rende conto della necessità delle misure di contenimento nonostante si parli di una malattia non grave, che siamo in un momento decisivo. Il rischio individuale di questa malattia (quindi il rischio che corre ogni persona, ogni singolo di ammalarsi e avere gravi danni dalla malattia) è basso. Bassissimo. Non significa nullo e non significa che non morirà nessuno, anzi. Il rischio di popolazione (le complicanze in generale, il peso su strutture mediche e lavoratori della sanità, lo stress sulla popolazione) è alto, altissimo. Capita questa differenza le cose saranno messe al loro posto più giusto.

Per capirci ancora meglio. Il rischio di ammalarsi oggi di difterite, in Italia, è molto basso, quasi nullo (anche perché ci vacciniamo). Ma allora perché ci vacciniamo ancora obbligatoriamente e ci battiamo per le vaccinazioni? Perché il rischio di popolazione è molto alto. Basterebbe UN caso di difterite per causare un caos totale, rappresenterebbe un problema di salute pubblica molto grave. La malattia è gravissima per tutti, soprattutto per le persone più fragili (bambini, anziani, immunodepressi), quindi l'obiettivo non è avere "pochi casi" (sarebbe un dramma!) ma zero. Neanche uno. Per questo, nonostante non si parli di una malattia diffusa, siamo così impegnati per mantenerla tale. Non farlo non è solo rischiare (poco per se, tanto per gli altri), non solo causare dolore e sofferenza (anche a una persona è sempre tanto) ma anche dimostrare un egoismo e una superficialità altissimi, oltre che un bassissimo senso civico. Le malattie infettive, tutte, influenza compresa, sono per definizione pericolose e dannose e se fino a oggi non lo abbiamo capito è perché abbiamo i vaccini, le cure, le strutture sanitarie. Nel caso del Coronavirus non abbiamo vaccini, cure e le strutture sanitarie rischiano di non reggere l'impatto. Ecco, la situazione attuale quindi non è un'apocalissi in corso e nemmeno sono prevedibili o pensabili stragi, si dovrà convivere per un po' con un problema che poteva accadere ed è accaduto. Calma e sangue freddo. Tutto il resto, lo spettacolo al quale abbiamo assistito in questi giorni, tra cui urla, il panico, il terrore sono invece ingiustificati, inutili, pericolosi. Sono la conseguenza di un mondo virtuale, connesso, nel quale tanti cercano una finestra dalla quale affacciarsi o farsi notare.

Cosa ci aspetterà? Un'epidemia ha un decorso quasi sempre tipico. Un aumento dei casi lineare (pochi casi, continuamente), poi esponenziale (tanti casi improvvisamente), poi si arriva al picco epidemico (tanti casi, il massimo raggiunto), una stabilizzazione (i nuovi casi restano simili per numero per un po' di tempo) per poi arrivare a un calo progressivo. Questo succede perché il virus trova sempre meno persone da infettare e condizioni sempre più sfavorevoli alla sua diffusione (più o meno dopo un 15%-20% di popolazione colpita si ha un picco epidemico). Probabilmente anche questa volta succederà questo e l'obiettivo è proprio quello di arrivarci nel migliore dei modi. Cosa fare quindi? Seguire con attenzione e precisione i consigli delle istituzioni sanitarie. Essere educati e rispettosi degli altri limitando i contatti e i comportamenti a rischio. Evitare luoghi affollati. Igiene ripetuta soprattutto delle mani. E poi calma, serietà, razionalità. Alla prossima.

PANDEMIA, SIAMO GIÀ AL “QUARTO PASSO”. ECCO COSA DOVREBBE ACCADERE. Redazione sicilia.opinione.it il 12 Marzo 2020. Dalla dichiarazione dell’inizio di un’ondata pandemica fino al picco e alla decelerazione, per prepararsi a una futura ondata: sono queste le fasi che è necessario affrontare ogni volta che un’epidemia si diffonde a livello globale. Adesso che ufficialmente l’Oms ha dichiarato la pandemia la gente di tutto il mondo si domanda che cosa potrebbe succedere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. E alcune nozioni, determinate dalle esperienze precedenti, possono essere utili per immaginare concretamente gli scenari futuri. La progressione verso una pandemia avviene in sei passi.

Il primo è la comparsa di un nuovo microrganismo pericoloso per l’uomo, come è accaduto alla fine del 2019 in Cina con il coronavirus SarsCoV2. In questa fase il primo obiettivo è valutare il livello di rischio e di aggressività.

Il secondo passo consiste nell’identificare tutti i casi di contagio per identificare il potenziale di diffusione e nell’adottare azioni tese al contenimento.

Il terzo passo segna l’inizio di un’infezione diffusa a livello globale, la pandemia.

Il quarto passo segna l’accelerazione dell’ondata pandemica, con una curva epidemiologica che punta verso l’alto. Le azioni di sanità pubblica si concentrano su interventi di contenimento, come la chiusura delle scuole e il distanziamento sociale, nonché l’uso di farmaci e la ricerca di un vaccino. L’obiettivo di queste azioni combinate è ridurre la diffusione della malattia.

Il quinto passo consiste nella progressiva e costante riduzione dei casi e, parallelamente, delle azioni di contenimento (come la chiusure delle scuole).

Il sesto e ultimo passo segna la fine della pandemia e contemporaneamente l’inizio di una fase di preparazione a ulteriori ondate.

L’effetto dell’isolamento contro il coronavirus, in una strepitosa grafica. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Elena Tebano. In queste settimane lo abbiamo sentito ripetere spesso: senza misure contenitive il coronavirus si diffonde a una velocità esponenziale. È la matematica del contagio, come Paolo Giordano ha spiegato magistralmente sul Corriere. Per permettere a tutti di visualizzare le differenze nel diffondersi dell’epidemia a seconda delle misure di «isolamento sociale» adottate, il Washington Post ha fatto adesso una bellissima simulazione grafica interattiva. La trovate qui (l’accesso è libero, basta premere il pulsante in nero sulla sinistra della schermata del paywall e dare l’assenso per la privacy). I grafici simulano il contagio per una malattia inventata (la «stimulitis») in quattro scenari diversi:

1. senza nessuna misura di contenimento;

2. con la quarantena assoluta (che comunque fa «scappare» qualche infetto);

3. con isolamento e «distanziamento sociale» che permettono di uscire solo a un cittadino su quattro e infine 4. con isolamento e «distanziamento sociale» che permettono di uscire solo a un cittadino su otto. L’ipotetica «stimulitis» è estremamente contagiosa: basta che una persona sana (il pallino celeste) entri in contatto con una persona malata (il pallino marrone) e si infetterà. Nella dinamica bisogna inoltre considerare coloro che guariscono (pallino rosa). Potete scorrere la pagina tenendo conto di queste indicazioni e otterrete la curva dei contagi (in marrone) e quella dei guariti (in rosa). Il risultati sono calcolati in modo che i contagi avvengano in modo casuale: ogni volta che visiterete la pagina darà una dinamica diversa. Ma in ogni caso la tendenza è sempre la stessa: più la curva è alta, più sono i malati in contemporanea, più è difficile per il sistema sanitario prendersene cura. Il messaggio è chiaro: l’«isolamento sociale» è fondamentale per contenere l’epidemia e migliorare la risposta sanitaria. Perché funzioni, però, ognuno di noi deve prendersi la responsabilità di seguire sempre le misure richieste.

Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Quanto tempo servirà per capire se le restrizioni funzionano? Uno studio che ha totalizzato più di 24 milioni di visualizzazioni ci può dare qualche spunto sull'andamento dell' epidemia qui in Italia. L' analisi in questione è stata fatta da Tomas Pueyo, 33 anni , Mba all' Università di Stanford, vicepresidente di «Course Hero», una piattaforma di insegnamento online oggi valutata 1,1 miliardi di dollari e si intitola: «Perché agire ora». Analizza gli andamenti del Covid-19 in tutto il mondo, soffermandosi su errori e strategie da adottare e partendo dalla Cina, non solo perché è il Paese (finora) più colpito, ma perché più avanti cronologicamente di tutti gli altri e in qualche modo già fuori dall' emergenza, uno scenario che può fornire dati più completi. Il dettagliato grafico ( si veda sopra, ndr ) riporta l' andamento (nella provincia di Hubei, la più colpita) del numero di casi confermati per ogni giorno. Le barre blu sono casi reali di coronavirus. I Cdc cinesi (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie) li hanno ricavati chiedendo ai pazienti in cura quando sono iniziati i sintomi. Le barre arancioni mostrano ciò che le autorità sapevano (i casi ufficialmente positivi), quelle grigie quello che stava realmente accadendo. Incrociando i numeri dei positivi con le misure intraprese dal governo cinese, si nota come tra il 23 e il 24 gennaio (chiusura di Wuhan e chiusura di 15 città dell' Hubei) i casi reali arrivino al picco, per poi iniziare a scendere due giorni dopo. Le colonnine arancioni, però, crescono ancora esponenzialmente per altri 12 giorni, ma nella realtà non era così. La discrepanza temporale è data dal ritardo tra l' insorgenza dei sintomi (in media 5 giorni dopo il contagio) e l' arrivo dei risultati dei tamponi. La crescita rappresenta le persone che, avendo sintomi più forti, vanno dal medico. Ebbene, si vede come i casi reali non sono subito noti, si possono scoprire solo guardando all' indietro. L' altro dato importante è che, all' inizio di un' epidemia, i casi reali possono essere molti di più di quelli che si stimano: quando a Wuhan pensavano di avere 444 positivi, ne avevano 27 volte di più. Il contrario succede quando la curva dei contagi diminuisce: sono ancora tantissimi quelli ufficiali, ma nella realtà stanno calando. E veniamo all' Italia: anche l' ISS (Istituto Superiore di Sanità) emette un bollettino che contiene un grafico analogo ( si veda sopra, ndr ): in blu i casi reali con la data di inizio dei sintomi e in azzurro i casi diagnosticati aggiornati al 14 marzo. Il problema con la nostra situazione è che è ancora troppo presto per costruire curve precise. Lo stesso ISS specifica in una nota che « i dati raccolti sono in continua fase di consolidamento e, come prevedibile in una situazione emergenziale, alcune informazioni sono incomplete. Il calo che si osserva nelle curve epidemiche negli ultimi due giorni, pertanto, deve essere interpretato come un ritardo di notifica e non come descrittivo dell' andamento dell' epidemia ». Non solo. Ogni Paese adotta policy diverse che regolano l' esecuzione dei tamponi (che tra l' altro cambiano nel tempo): in Italia ora i test si fanno solo a persone con sintomi evidenti e seri e con sospetto di essere entrate in contatto con malati di Covid-19. L' indagine sull' inizio dei sintomi, invece (colonne blu), parla di dati «raccolti dai laboratori di riferimento regionale»: non si capisce quanto rappresentino la popolazione che ha qualche sintomo leggero e che si confina in casa senza chiamare le autorità sanitarie. Quel che possiamo dire, e che rassicura, a partire dalla Cina, è che quando si «chiudono» le città i casi si arrestano subito e diminuiscono, ma lo si «scopre» solo 12 giorni dopo. Teoricamente la crescita che vediamo oggi, quindi, è l' effetto dei comportamenti di una settimana fa e tra una settimana (circa) vedremo a cosa è servita la chiusura «totale». Quello che sappiamo per certo è che in gran parte ora dipende da noi: come insegnano la Cina e Codogno, i risultati verranno.

Il tricolore contro il cinismo. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. In questa prova terribile viene fuori non solo il carattere delle persone, ma anche quello dei popoli. I latini si sono confermati più emotivi, sia nelle reazioni, sia nelle decisioni. Non è detto sia un male. L’Italia, colpita per prima, ha scelto la via drastica della chiusura totale. La Spagna l’ha seguita abbastanza rapidamente, compreso il blocco dei voli da e per l’Italia. Macron, dopo la clamorosa gaffe della Lagarde, ha fatto un discorso bellissimo: ha detto ai francesi che conta su di loro, che la crisi deve «risvegliare il meglio che è in noi», che «ognuno porta in sé una parte di responsabilità per la salute dell’altro»; poi ha annunciato la chiusura delle scuole, senza avere il coraggio di mettere il lucchetto pure a bar e ristoranti — come peraltro la Francia ha dovuto fare appena 24 ore dopo — e di sospendere le elezioni comunali. Il mondo anglosassone ha avuto una reazione del tutto diversa. Business as usual, ha detto in sostanza Boris Johnson: si lavora come sempre. «I casi sono molti di più di quelli scoperti. Preparatevi a perdere i vostri cari». Nessuna restrizione, però: chi ha febbre e tosse resti a casa; l’importante è non fermare l’economia. Una linea che è stata elogiata dai quotidiani vicini al governo, compreso il Times, ed è stata paragonata allo stoicismo churchilliano; ma che può costare carissimo sia agli inglesi, sia al mitico National Health Service, che non si è ancora ripreso dai tagli thatcheriani (e blairiani). C’è da scommettere che nel giro di giorni, se non di ore, la strategia sarà rivista: già ieri è stato consigliato agli over 70 di restare in casa. Di sicuro far giocare a porte aperte Liverpool-Atletico Madrid di Champions League, con tremila tifosi madrileni sugli spalti, è stato un rischio pazzesco: la capitale spagnola è anche il principale focolaio del Paese; del resto il virus colpisce innanzitutto le regioni più ricche, dinamiche, aperte al mondo. In Italia, la Lombardia; in Germania, il Nord Reno-Westfalia, il Land della Ruhr, che da solo sarebbe la quattordicesima economia del mondo. Anche Angela Merkel ha detto una frase spaventosa: il virus può contagiare il 60 per cento dei tedeschi. La sua strategia è meno cinica di quella di Johnson, ma in Germania il blocco è stato ritardato dal dogma federalista; ogni Land decide per sé. E la situazione dev’essere davvero grave, se la sparagnina Cancelliera ha annunciato un piano di spesa senza precedenti e ha chiuso le frontiere agli amici francesi. Donald Trump invece ha seguito un altro dogma: il sistema privato e il denaro. Sulle prime il presidente ha scelto una linea negazionista: «Ne uccide molti di più l’influenza». Poi ha capito che stava correndo verso il disastro, e ha corretto la rotta promettendo 50 miliardi di dollari, milioni di test, e la mobilitazione delle multinazionali, da Walmart a Google. Trump sa che la crisi da coronavirus può costargli la Casa Bianca, e non solo perché puntava sul buon andamento dell’economia e di Wall Street. La superpotenza con il Terzo Mondo in casa, con fasce poverissime di popolazione prive di assistenza medica, si scopre vulnerabile; la domanda di Stato, di governo, di sanità pubblica può favorire un candidato non esaltante come Joe Biden. Ma lo scenario cambia di giorno in giorno, e a volte i popoli smentiscono sé stessi. Gli inglesi ad esempio sono stati meno understated di quanto il loro premier vagheggiasse: Londra si è un po’ svuotata, chi poteva ha raggiunto la dimora di campagna, molti italiani sono rientrati, Alitalia — l’unica compagnia che ancora opera tra l’Inghilterra e Roma — ha aggiunto due voli supplementari. L’Italia invece è parsa seguire il paradigma della propria storia. Una classe dirigente impreparata, con poche eccezioni tra cui il presidente della Repubblica, che ha saputo tranquillizzare e anche farsi sentire quando la Lagarde ci ha mancato di rispetto. Per il resto l’oscillazione tra chiusure, riaperture, richiusure ha fatto perdere tempo prezioso. Appare assurdo che non ci siano abbastanza mascherine, che l’arrivo del virus ci abbia colti di sorpresa. Eppure, come nei momenti decisivi della storia, anche stavolta vengono fuori gli italiani solidali, lavoratori, coraggiosi. L’abnegazione di medici e infermieri è straordinaria. Le forze dell’ordine fanno la loro parte, mai difficile quanto ora. Categorie non amate come i politici e i giornalisti, che a dispetto dei luoghi comuni vivono una vita di relazione in mezzo alla gente, si scoprono particolarmente esposti. Le donazioni private crescono. Il patriottismo da balcone può non piacere; ma è anche questo il segno di un Paese che resiste. A Torino, a Milano e non solo si cominciano a vedere i tricolori alle finestre; a conferma che siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere. L’emotività può portare a commettere errori; ma può essere più razionale del cinismo. E può rappresentare anche una fonte inesauribile di energie morali. Alla fine della sua vita, Winston Churchill raccontò a Indro Montanelli di quando, passeggiando con i cronisti tra le macerie di un quartiere di Londra semidistrutto dai bombardamenti nazisti, vide «una botteguccia di barbiere» con un cartello che diceva «business as usual»: «Colpito, mi lanciai in una tirata patriottica sull’orgoglio di condurre un popolo che dava tali prove. Nessuno ebbe il coraggio di dirmi che il proprietario di quel negozio si chiamava Pasquale Esposito».

Paola Cipriani per "repubblica.it" il 21 marzo 2020. Da New York a Singapore, da Beirut a Tokyo, da Parigi a Venezia passando per Nairobi. Lo scenario è sempre lo stesso: il vuoto. L'effetto del coronavirus e, quindi, delle misure restrittive prese dai governi del mondo per contenere la pandemia mostrano metropoli, città, stazioni e strade deserte. Milioni di persone non escono più di casa. Ecco come si presenta il mondo nei giorni del Covid-19.

Quando la quarantena è utile: Newton scoprì la legge di gravità. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 18 marzo 2020. Il grande scienziato britannico si isolò a causa della grande peste: e fu il suo anno più fecondo. Lontano dalle aule del Trinity college, dai disprezzati colleghi, dall’imbolsita comunità accademica. Per un anno intero il grande scienziato Isaac Newton ha vissuto confinato nel suo cottage di Woolsthorpe, a nord di Londra. Era il 1665 e la capitale britannica era flagellata dall’epidemia della “grande peste” ( portata in città dalle navi mercantili olandesi che commerciavano cotone) che uccise 100mila persone, circa il 20% della popolazione. Paradossalmente fu un altro tragico evento a debellare il morbo: il grande incendio di Londra del 1666 che oltre a distruggere 15mila abitazioni segnò anche la fine della piaga, sterminando le colonie di topi, principali vettori della malattia. Le scene, infernali, di quell’ecatombe, sono raccontate in modo vivido dallo scrittore Daniel Defoe ( già autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders) nel toccante A Journal of the Plague Year. E’ stata l’ultima grande ondata di peste bubbonica nel Regno Unito e assieme all’analoga epidemia di Marsiglia nel 1712, rappresentò il primo tentativo di risposta su scala nazionale e con protocolli epidemiologici più o meno efficaci al contagio di massa. Nessuno ancora sapeva cosa diavolo fossero batteri e virus, ma il buon senso e i riscontri empirici suggerivano l’isolamento e i mantenimento delle distanze per attenuare le infezioni, gli stessi ragionevoli metodi che quattro secoli dopo continuiamo a seguire per proteggerci dal coronavirus. Così anche il giovane Newton ( all’epoca aveva 24 anni) decise di mettersi in “quarantena volontaria”, una condizione quasi ideale per una mente vorticosa e irrequieta come la sua; fu nel silenzio e nella bucolica calma di Woolsthorpe che Isaac mise a fuoco le sue intuizioni e concepì la rivoluzionaria teoria della gravitazione universale. Intanto divorava i libri di Wallis, Boyle, Hobbes e Descartes verso cui nutriva un sincero disprezzo, accusando il filosofo francese di «mescolare fisica e metafisica», con tutte quelle teorie sui vortici, sulla materia eterea e sugli animali definiti “macchine senz’anima” che secondo lo scienziato britannico sarebbero «ipotesi gratuite e pagane». Lo stesso Galileo Galilei, che Newton stimava per forza di cose, era a suo avviso ancora vittima di «incrostazioni metafisiche». La storiella della mela che cade giù dall’albero accendendo improvvisamente la luce del genio è probabilmente una leggenda apocrifa che i divulgatori diffondono per spiegare la fisica ai bambini. Ma come racconta il suo assistente personale John Conduitt , al centro della sua tenuta sorgeva un grande melo, sotto il quale Isaac si immergeva in profonde riflessioni sulla gravità: «Era seduto accanto al grande albero e confabulò tra sé e sé: “la stessa forza che fa cadere i frutti dagli alberi deve estendersi oltre i limiti della terra, oltre la luna e i pianeti”». Ed è sicuramente nel suo giardino di casa che affinò le capacità di osservazione e di calcolo, gettando le basi della legge di gravità che vent’anni più tardi verranno esposte nel grandioso Principi di matematica e filosofia naturale, uno dei libri più importanti della storia umana assieme a L’origine della specie di Darwin e L’interpretazione dei sogni di Freud. Newton era un genio matematico, come sapevano tutti a Cambridge, ma da buon pensatore britannico era anche un appassionato seguace del metodo sperimentale e del ragionamento induttivo, E in quello splendido isolamento, che lui stesso definì «anno delle meraviglie», realizzò centinaia di esperimenti cruciali, in particolare sulla natura della luce. Era nel pieno del vigore intellettuale e attraversato da un fervore a tratti incontenibile come scrisse al termine della sua vita: «Pensavo tutto il giorno alla matematica e alla filosofia, facevo questo più che in qualsiasi altro momento della mia vita». Osservando un raggio che attraversava un prisma di vetro stabilì le principali leggi dell’ottica e della rifrazione, scoprendo che i colori non sono una proprietà degli oggetti bensì della luce stessa. Ribaltò così le vaghe nozioni che all’epoca si erano raccolte intorno alla natura dei fenomeni luminosi. Nel 1667 la peste è finita Newton ritorna all’università e presenta agli accademici suoi lavori, nonostante la diffidenza per la sfrontatezza delle sue teorie nessuno può negare che quel giovane irruento abbia una mente brillante e superiore, così viene nominato professore associato e l’anno successivo ottiene una cattedra tutta sua diventando fellow professor.

Coronavirus, che cosa significa la parola Lockdown e gli eventi storici in cui c’è stato. Che cosa significa la parola “lockdown”? Ma soprattutto, in quali situazioni le autorità possono applicare questo protocollo di emergenza? Dall’attacco terroristico delle Torri Gemelle nel 2001 alla pandemia di Coronavirus, ecco tutti gli eventi della storia recente in cui si è parlato di “lockdown”. Fanpage il 12 marzo 2020. Lockdown è una parola inglese minacciosa. In questi mesi, con il nascere dell'epidemia da Coronavirus in Cina e poi con la sua diffusione nel nostro Paese, abbiamo imparato a conoscerla e poco alla volta stiamo imparando a conviverci. A maggior ragione dopo le drastiche misure decise dal Governo italiano per limitare gli effetti di quella che l'Oms ha definito ormai essere, in tutto il mondo una pandemia. Ma cosa significa precisamente lockdown?

Lockdown, il significato della parola inglese. Innanzitutto, c'è da dire che lockdown nasce dall'unione di due termini inglesi, "lock" e "down", cosa che genera un'unica parola. Lockdown, in inglese, si scrive di filato, senza interruzioni. In italiano i termini più adatti per tradurlo sono "isolamento", "blocco". Nel caso in cui venga usato come un verbo ("to lockdown") il modo più appropriato per tradurlo nella nostra lingua è "blindare", "bloccare".

Cosa succede con il lockdown di un luogo. Genericamente con la parola lockdown si definisce un protocollo di emergenza che impedisce alle persone o alle informazioni di muoversi da una determinata area per salvaguardarne la salute e, in taluni casi, la vita stessa. Che è quanto accaduto nei mesi scorsi a Whuan e nella provincia dello Hubei, in Cina, e quanto sta accadendo da noi in questi giorni. Anche se non con lo stesso grado di intensità. Di solito tale protocollo di emergenza viene avviato dalle autorità. I blocchi possono anche essere utilizzati per proteggere le persone all'interno di una struttura o, ad esempio, un sistema informatico da una minaccia o altro evento esterno. In casi meno gravi di quello a cui stiamo assistendo attualmente, si parla anche di lockdown di edifici, attraverso il blocco delle porte che conducono all'esterno sono chiuse in modo tale che nessuna persona possa entrare o uscire. Un blocco completo di solito significa che le persone devono rimanere dove sono e non possono entrare o uscire da un edificio o da stanze all'interno di un edificio. Se le persone si trovano in un corridoio, dovrebbero recarsi nella stanza chiusa e sicura più vicina.

Gli eventi storici in cui abbiamo avuto il lockdown. Nel settembre 2001, sulla scia degli attacchi dell'11 settembre allw Twin Towers di New York, fu avviato un blocco di tre giorni dello spazio aereo civile americano. Quattro anni dopo, nel dicembre 2005, la polizia del Nuovo Galles del Sud, in Australia, avviò un blocco della Sutherland Shire e di altre aree di spiaggia del Nuovo Galles per contenere la rivolta di Cronulla tra suprematisti bianchi e la polizia australiana. Un esempio di lockdown di un campus/scuola è stato dimostrato all'Università della British Columbia (UBC) il 30 gennaio 2008, quando è stata creata una minaccia sconosciuta e la Royal Canadian Mounted Police (RCMP) ha emesso un blocco su uno degli edifici del campus per sei ore, isolando l'area. Il 10 aprile 2008, due scuole secondarie in Canada sono state chiuse a causa di sospette minacce di armi da fuoco. La George S. Henry Academy fu rinchiusa a Toronto, in Ontario, mentre la New Westminster Secondary School fu chiusa a New Westminster, nella British Columbia. Il 19 aprile 2013, l'intera città di Boston è stata chiusa e tutti i trasporti pubblici sono stati fermati durante la caccia all'uomo del terrorista islamista Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev, i sospettati dell'attentato alla maratona di Boston, mentre la città di Watertown è rimasta sotto il pattugliamento della polizia armata, durante ricerche sistematiche casa per casa. Nel blocco di Bruxelles del 2015, la città è stata chiusa per giorni mentre i servizi di sicurezza hanno cercato sospetti coinvolti negli attacchi di Parigi del novembre nello stesso anno. Sempre nel 2015, una minaccia terroristica ha causato la chiusura del Distretto scolastico unificato di Los Angeles del 2015.

MEGLIO IL LOCKDOWN TOTALE O L'IMMUNITÀ DI GREGGE? MEGLIO LA VITA O L'ECONOMIA? Pasquale Lucio Scandizzo per formiche.net, professore dell'Università di Tor Vergata e già consigliere del ministro dell'Economia Giovanni Tria, il 16 marzo 2020. I modelli epidemiologici del coronavirus sono ancora speculazioni senza riscontri empirici sufficienti, ma alcuni risultati significativi emergono dalla esperienza cinese (Xinkai et al, 2020). Il tasso di gravità della malattia e il tasso di mortalità sono rimasti apparentemente invariati durante l’intera epidemia. L’intervento del governo ha avuto un effetto moderato sul tasso di incubazione, ma il tasso di guarigione ha subito un aumento continuo (fenomeno che cominciamo a vedere anche in Italia). Una riduzione significativa è stata osservata per il tasso di infezione che è passato da più di due contagiati per infetto a poco più di uno. In assenza di misure restrittive, questo significa che applicando i parametri iniziali dell’epidemia, il picco di infezioni a Wuhan avrebbe raggiunto 7,78 milioni (70% dell’intera popolazione) e il totale dei decessi avrebbe raggiunto 319.000 persone in base all’attuale tasso di mortalità. Per l’intera provincia, che ha una popolazione dello stesso ordine di grandezza di quella dell’Italia, queste cifre implicano 40 milioni di infetti e almeno un milione di morti. Dal punto di vista economico, le misure restrittive di isolamento della popolazione utilizzate in Cina sono un’ultima spiaggia equivalente a un investimento irreversibile in condizioni di incertezza. Applicando il metodo delle opzioni reali (Pennisi e Scandizzo, 2013), se queste misure di tipo “cinese” non vengono applicate, se si sfrutta cioè la cosiddetta “opzione di attesa” come sembra fare il governo Uk, si guadagnano con il trascorrere del tempo informazioni preziose per le decisioni successive, ma allo stesso tempo si affrontano rischi consistenti sulla base delle caratteristiche dell’epidemia note al momento. In caso di attesa, in Italia in particolare si potrebbe prevedere uno scenario credibile, e non eccessivamente pessimistico, per cui restando l’epidemia progredirebbe verso un traguardo (usando parametri cinesi) di 20- 25 milioni di contagi e almeno 1 milione di morti. Questi sarebbero soprattutto anziani, ammalati, poveri e immigrati. I benefici sarebbero, forse, un minor impatto negativo sull’economia, l’immunità di gregge e una popolazione più giovane e più affluente. L’economia potrebbe resistere nel breve periodo e rinascere più forte nel lungo periodo, come avvenne dopo la peste nera nel 1400. Se invece l’Italia esercitasse la sua versione dell’opzione cinese, possiamo prevedere che le conseguenze umanitarie negative sarebbero minori, ma l’economia risentirebbe di un danno temporaneo più grave, per riprendersi con maggior fatica nel medio periodo. Boris Johnson e il suo consigliere scientifico suggeriscono di sfruttare l’opzione di attesa: ossia non fare niente di drastico, almeno per il  momento, riservandosi di prendere misure più estreme solo se si raggiungesse un “trigger point” (un livello critico) in termini di morti e contagiati e quindi di vite umane che si spera di salvare attraverso le misure restrittive da intraprendere. Questo livello critico dipende dal grado di incertezza, ma sulla base dell’evidenza attuale, è ragionevole concludere che esso non è superiore al doppio degli investimenti e dei sacrifici economici richiesti. In altre parole, le misure restrittive estreme (di tipo cinese) sarebbero giustificate se il beneficio in termini di vite umane salvate fosse almeno pari al doppio dei costi economici e sociali delle restrizioni stesse. Nasce a questo punto un problema etico, perché la decisione dipende dal valore che diamo alla vita umana. Il cosiddetto valore statistico della vita calcolato per l’Italia è, secondo studi recenti (Viscusi e Masterman, 2017), pari a 5,6 milioni di dollari per la vita di una persona media. Questo non significa che una persona media sarebbe disposta a pagare 5,6 milioni per salvare la propria vita, ma che, sulla base delle preferenze espresse da un campione di intervistati, 60 milioni di persone (ossia la popolazione italiana) sarebbero disposte a pagare collettivamente 5,6 milioni di dollari, ossia 9 centesimi in media a testa, per ciascuna vita salvata da un programma pubblico di riduzione del rischio sul territorio nazionale. Questo valore statistico della vita, ovvero la disponibilità a pagare, cresce men che proporzionalmente rispetto al numero delle vite salvate, ma se un’aspettativa ragionevole delle misure di isolamento di tipo cinese è di risparmiare anche soltanto 100mila vite, il valore corrispondente sarebbe di qualche centinaio di miliardi di dollari. Analogamente, per un milione di vite, anche se si dimezzasse, il valore statistico della vita sarebbe comunque di un ordine di grandezza di 2.500 miliardi di dollari. Questi valori vanno paragonati con i costi economici delle misure restrittive, il calo della produzione, e il disagio sociale. Anche per stime molto ampie dei sacrifici economici (-5% del Pil), sulla base della valutazione precedente, sembra evidente che abbiamo già raggiunto da tempo il livello critico di beneficio atteso richiesto per investire nelle misure di isolamento. Ovvero, il governo sta operando correttamente dal punto di vista del razionale economico sottostante secondo un valore statistico della vita basato sulla disponibilità a pagare dei cittadini. Se si considera invece il valore del capitale umano secondo un parametro più oggettivo, ovvero in termini di produttività (circa 400mila dollari per persona, secondo l’Istat), per 100mila vite salvate, saremmo intorno a una cifra di circa 40 miliardi di dollari (400 miliardi di dollari se prendiamo come riferimento la cifra più estrema di 1.000.000 di vite salvate). Anche queste cifre, benché molto inferiori alle precedenti, seppur in modo più problematico, sembrano suggerire un livello critico del beneficio atteso che giustifica le misure adottate sinora dal governo italiano.

Modello cinese contro modello inglese: Chi sconfiggerà il coronavirus? Il Dubbio il 15 marzo 2020. Pechino ha militarizzato e abolito i diritti. L’Inghilterra punta sull’immunità di gregge e non tocca le libertà. Dai sistemi di tracciamento digitali dei coreani alla scelta di Boris Johnson di non voler fare nulla per contrastare la diffusione del virus, passando per le quarantene militarizzate dei cinesi e per quelle con le suonate dai balconi degli italiani, la reazione dei diversi paesi al coronavirus sta mostrando una serie di approcci molto diversi tra loro che si possono spiegare anche considerando le diverse attitudini culturali e politiche dei paesi interessati. Il coronavirus mette infatti in gioco le  nostre libertà e i nostri diritti e mostra in maniera plastica fino a che punto le nostre società siano disponibili a rinunciare alle libertà in cambio della sicurezza. Dall’estremo del regime cinese dove, in nome della lotta al virus, sono state letteralmente militarizzate intere regioni e ai cittadini è stato intimato l’isolamento a fronte di un sistema sanzionatorio durissimo, a quello del Regno Unito, patria dell’Habeas Corpus e della Magna Charta che preferisce affrontare il virus pur di rinunciare a una sola delle sue consolidate libertà. In mezzo la Corea del Sud con la sua democrazia tecnologica e l’Italia che, davanti alla minaccia del virus, ha chiesto di essere messa in quarantena.

Il modello cinese. In parte lo abbiamo seguito anche noi in Italia, dove le autorità, dopo un primo periodo di sbandamento, hanno avuto una reazione imperiosa che ha portato prima all’isolamento di Wuhan, una metropoli da undici milioni di abitanti e polo industriale di primaria importanza, e poi l’intera provincia dell’Hebei con tutti i suoi 56 milioni di abitanti. Le considerazioni che hanno spinto il governo di Pechino a stringere in maniera così forte e decisa non sono state solo di carattere sanitario. La Cina infatti sapeva che nella gestione del coronavirus si sarebbe giocata gran parte della solida reputazione che, nel corso degli anni ha costruito con abilità e con diplomazia. -Davanti alla sfida della sicurezza globale legata al rischio che il nuovo coronavirus potesse diffondersi nel mondo come era già avvenuto nel 2003 con la Sars, il governo di Pechino non ha mancato di far sfoggio agli occhi del mondo di tutta la sua potenza, economica, scientifica, organizzativa, logistica, tecnologica e persino militare. Tutti siamo rimasti meravigliati dalla capacità messa in campo di far fronte all’epidemia. Nessuno al mondo aveva mai costruito un ospedale da mille posti letto in soli tre giorni. La reazione è stata da grande potenza, così come la Cina vuole apparire anche se, con il coronavirus ormai in fase pandemica, i risultati sono stati discutibili. Il focolaio di Wuhan è spento, ma nel mondo ce ne sono ormai troppi ad essere accesi.

Il modello italiano. L’approccio italiano, è stato, almeno sotto il profilo sanitario simile a quello cinese, anche se, è stato decisamente meno autoritario e più partecipato: la decisione di estendere la zona rossa a tutto il paese è stata infatti richiesta dalla stessa opposizione e le misure adottate sono state poi, diluite da una serie di provvedimenti e deroghe in pieno stile italico. Tutti a casa per almeno 15 giorni, tutto chiuso, uffici, scuole, locali, luoghi pubblici. Vietato uscire, se non per urgenti motivi di lavoro, per fare la spesa o andare in farmacia. Isolamento per chi avverte i sintomi e aumento delle terapie intensive. Sulla strada italiana stanno virando la Spagna, forse la Francia, un plauso convinto è arrivato dagli Stati Uniti.

Il modello coreano. Completamente diverso, l’approccio dei coreani al Covid-19. La patria dei telefonini Samsung non poteva non mettere in campo la sua tecnologia per far fronte a questa minaccia. E i risultati sono stati davvero significativamente incoraggianti. Il governo coreano ha deciso infatti di non adottare misure di contenimento come in Cina e come in Italia, ma di tracciamento e profilazione dei soggetti infetti. E per farlo non hanno esitato ad utilizzare insieme a una campagna a tappeto di screening biologico (tamponi), proprio le tecnologie digitali. La strategia coreana ha puntato essenzialmente su una campagna di identificazione di tutti i soggetti venuti in contatto con il virus e di contenimento selettivo delle persone invece che delle città come in Cina o in Italia.

Il modello britannico. Radicalmente opposta all’approccio cinese e senza voler cadere nel rischio di una deriva orwelliana, la scelta del Premier Britannico Boris Johnson che, in un discorso destinato a rimanere nei libri di storia, ha annunciato ai sudditi di Sua Maestà che il governo non avrebbe fatto assolutamente nulla per provare a contrastare il virus e che le famiglie avrebbero dovuto prepararsi ad avere dei lutti. Impensabile per un governo, soprattutto per un governo conservatore pensare di costringere i sudditi a interventi coercitivi come quelli imposti in Cina. Men che meno invadere la privacy per avviare campagne di contact tracing in stile coreano. Meglio affrontare il virus e confidare che dopo una prima ondata con un elevato numero di decessi la popolazione possa sviluppare da sola gli anticorpi per tenere sotto controllo l’infezione. Il governo e con lui gli inglesi hanno insomma scelto di condividere il rischio invece di arroccarsi alla ricerca di una sicurezza, che, vista la diffusione del virus in tutto il mondo, potrebbe anche non essere così certa.

Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 14 marzo 2020. L' Italia potrebbe diventare l' Hubei d' occidente? L'impatto del Covid-19 potrebbe devastare solo il nostro Paese e scalfire gli altri come è avvenuto in Cina con la regione di Wuhan? Su 80.955 casi accertati dall' Organizzazione Mondiale della Sanità ( WHO ), in tutta la Cina (1,4 miliardi di abitanti) ben 67.773 sono concentrati in quella regione che conta 59 milioni di abitanti, più o meno come l' Italia. L' Usa, con il blocco degli ingressi dall' Europa, spera di salvarsi dall' UE che forse a sua volta spera di salvarsi dall' Italia. I dati dicono che, almeno per Francia e Spagna, è già troppo tardi. Il 4 febbraio scorso nell' Hubei, c' erano 13.522 casi, poco più del dato italiano di oggi. Mentre il vicino Henan, contava appena 675 casi su 97 milioni di abitanti. Nel rapporto dell' 11 marzo scorso, l' ultimo pubblicato dal WHO , l' Hubei è salito a 67.773 mentre l'Henan è arrivato appena a 1.272 casi. Frutto delle misure drastiche di isolamento della regione "malata". Oggi l' Italia cresce quasi a ritmi da Hubei mentre, sempre secondo il rapporto dell' 11 marzo del WHO , che riporta dati meno aggiornati di quelli dei media, i nostri alleati europei non sono riusciti a chiudere la circolazione del virus come fatto in Cina tra Hubei e resto del paese. Se è vero quindi che l' Italia ha raggiunto 10.149 casi e la Francia si ferma a 1.774, la Spagna a 1.639 e la Germania a 1.296, è vero anche che i ritmi di crescita sono simili a quelli italiani e non a quelli dello Henan : 615 casi nuovi in Spagna; 372 in Francia e 224 in Usa. Resta il fatto che l' Italia cresce a ritmi da primato mondiale. L' 11 marzo ci sono stati 31 nuovi casi in tutta la Cina, 977 in Italia su un totale mondiale di 4.627. Il 10 marzo erano addirittura 1.797. A oggi, su 37.371 casi fuori dalla Cina, noi ne vantiamo 10.149 e la situazione peggiora: siamo in vetta per nuovi contagi inseguiti dall' Iran. Di fronte a questi dati dobbiamo farci una domanda: dove abbiamo sbagliato? Nessuno può chiamarsi fuori. Sarebbe bello poter dire: gli scienziati lo avevano detto, ma i politici populisti, amici dei no-vax, non gli hanno creduto. Oppure: l' opinionista di destra lo aveva previsto, ma l' influencer di sinistra ha avuto più seguito. La verità è che gli errori sono stati tanti e di tutti. All' origine c' è la censura del Regime in Cina. A fine dicembre, il dottor Li Wenliang (morto a febbraio di Covid-19) fu accusato di diffondere voci pericolose e ammonito dalla polizia quando lanciò l' allarme. È bene ricordarlo ora che il regime comunista si fa bello offrendo all' Italia le mascherine. Poi c' è stato l' errore dei medici, non solo italiani, che hanno impiegato un po' a capire questo strano virus a due facce. Per l' 80% delle persone è una normale influenza e solo per il 20% il Covid-19 è un male molto pericoloso. Questa doppia natura ha reso il virus scivoloso da maneggiare per la politica e la comunicazione. Non è colpa del premier Giuseppe Conte o del governatore Attilio Fontana se le nostre prime mosse sono state sbagliate. Basta leggere i rapporti quotidiani, da gennaio a oggi, sul sito del WHO per scoprire come siano cambiate nei mesi le raccomandazioni ai governi e ai cittadini. La comunità medica italiana ha mutuato questa incertezza iniziale aggiungendo una buona dose di personalismo. Abbiamo assistito a derby inutili tra virologi e opinionisti. Purtroppo la logica dei talk show e dei tweet funziona per l' ascolto non per la prevenzione. Bisognava invece spiegare agli italiani che il Covid-19 per l' 80% (come diceva la dottoressa Maria Rita Gismondo del Sacco) è un' influenza, ma proprio per questo bisognava aggiungere che - come diceva Roberto Burioni - è pericolosissimo per il restante 20%. Queste persone indifese infatti devono essere curate con macchinari non disponibili in grande numero. Questo concetto chiaro è stato inserito dal Robert Koch Institute di Berlino nel suo decalogo. Però il 10 marzo. Non a fine gennaio. In quel momento si è persa la grande occasione. Allora bisognava comunicare a tutti l' obbligo di auto-quarantena in caso di influenza o tosse. Bisognava incentivare le mascherine e il telelavoro. Bisognava imporre di stare lontano dal pronto soccorso non solo a chi era stato in contatto diretto o indiretto con la Cina come facevano i virologi in tv allora. Invece solo l' 11 marzo i principali tabloid britannici, facendo tesoro dei morti italiani, sono usciti con un titolo a tutta pagina quasi identico: "Chi ha la tosse resti a casa". Il governo e le autorità sanitarie (quindi i giornali e le tv) avrebbero dovuto dirlo prima, quando in Germania è stato accertato il primo contagio che poi probabilmente è sceso in Italia. Nessuno ha detto allora di stare a casa a chi mostrava i sintomi di una comune influenza. L' errore condiviso da virologi e politici nella prima fase è stato quello di far credere che il Covid-19 fosse una sindrome cinese: un virus con gli occhi a mandorla. Non un virus bifronte che poteva essere asintomatico in quattro casi su cinque e avere il volto di un bavarese o bergamasco. Così nessuno lo ha identificato. Opinionisti e politici si dividevano su un fronte sbagliato. La sinistra applaudiva il presidente Mattarella che andava nelle scuole cinesi. Il sindaco di Bergamo (focolaio italiano) Giorgio Gori mangiava al ristorante cinese e Matteo Salvini attaccava il governatore Pd della Toscana Rossi che non metteva in quarantena i cinesi di ritorno. Nessuno pensava che il virus era già tra noi e che i cinesi di Prato erano meno rischiosi degli italiani di Codogno e Bergamo perché si mettevano in auto-quarantena, portavano la mascherina e si lavavano le mani. Noi no. Questo errore, tecnico prima che politico, è disceso nelle circolari delle Regioni e del ministero della Sanità di fine gennaio che si rivolgevano solo a chi era stato in Cina o aveva avuto contatti con chi ci era stato. Così il boom di polmoniti di inizio 2020 nel Lodigiano non ha fatto accendere nessuna lampadina e il pronto soccorso di Codogno è diventato un focolaio sì ma 'legale' osservando tutte le circolari vigenti. Anche i cinesi hanno fatto errori, ma sono stati recuperati grazie a importanti limitazioni delle libertà individuali. C' è però un secondo segreto del successo cinese che invece dovremmo copiare: il comportamento responsabile. I cinesi di Prato si mettevano in auto-quarantena mentre il medico di Codogno partiva con la moglie per una vacanza in India. A Hong Kong gli operatori sanitari si lavavano normalmente le mani tra una visita e l' altra e indossavano la mascherina e non si sono infettati. In Italia quelle regole all' inizio non sono state rispettate. Il contrappasso è crudele: il New York Times solo il 2 marzo pubblicava la storia della studentessa di Hong Kong, Ciara Lo, discriminata a Bologna. Chi scrive è tornato il 10 marzo da un viaggio in Canada dove quando sentono parlare italiano i tassisti (di ogni nazionalità) aprono i finestrini. A zero gradi. Agli studenti italiani a Vancouver gli affittacamere cinesi disdettano le prenotazioni. Questo pezzo è stato scritto nell' aeroporto di Londra dove British Airways ha cancellato il volo per Roma e l' unica compagnia che ha riportato a casa l' autore e i connazionali si chiama Alitalia. Ora che Macron e Trump, forse illudendosi, pensano di trasformare l' Italia nell' Hubei dell' occidente è arrivato il momento di smettere di dividersi tra tifosi di Burioni e Gismondo, Conte e Salvini per mostrare a tutti quel che l' Italia sa fare. La Cina ha sconfitto il virus con le regole autoritarie. Dobbiamo mostrare al mondo che siamo in grado di sconfiggere il virus a modo nostro, con la scelta individuale di essere responsabili, nella libertà. Perché il coronavirus passa ma la democrazia resta.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 14 marzo 2020. Il blocco prolungato dell'Italia, al punto in cui eravamo, era necessario. Ma non è detto che fermi in maniera definitiva il contagio, o l'epidemia. E' quanto sostengono, con una serie di analisi e studi italiani e internazionali, alcuni professori italiani - di economia, statistica, scienza dei dati, informatica. Secondo molti elementi e tante proiezioni sui dati, il modello Corea del sud sarebbe stato quello ottimale: big dati e tracciamento digitale mirato dei contagiati e di tutti i loro contatti. Quarantene mirate dei contagiati con sintomi lievi, o asintomatici (usando magari strutture ad hoc, diverse dagli ospedali riservati a malati più gravi). Il rischio della semplice chiusura disposta dal governo italiano è che, alla riapertura da un «lockdown» totale, «quattro nuovi infettati introdotti in un nuovo ambiente produrrebbero un rischio superiore al 50 per cento di una nuova epidemia», secondo quanto scrive per esempio la rivista scientifica Lancet (in un articolo dal titolo «Early dynamics of transmission and control of COVID-19: a mathematical modeling study»), firmato da Adam Kucharski, Timothy Rusell, Charlie Diamond, Yang Liu, John Edmonds, Sebastian Funk. Un Double Dip che sarebbe a quel punto devastante. Fabio Sabatini, professore di economia politica alla Sapienza, lo spiega in maniera assai chiara. Al momento in cui scriviamo, «in Corea del sud, dopo l'esplosione iniziale, la curva dei contagi ha già iniziato a flettere. Finora sono morti 66 pazienti su 7800, contro i nostri 827 morti su circa 12500 contagi. Perché? La Corea ha attuato una nuova strategia da cui possiamo imparare molto». Il ragionamento è lineare: «Primo pilastro coreano: la situazione è comunicata con grande trasparenza, l'enfasi sul social distancing è molto forte. I cittadini rispondono molto bene». Secondo pilastro: «Il Korean Center for Disease Control, KCDC, ha organizzato un formidabile sistema di raccolta di informazioni geolocalizzate per il tracciamento dei contatti dei contagiati». I potenziali contagiati e i viaggiatori che arrivano nel paese devono scaricare una app in cui volontariamente descrivono giorno per giorno la propria posizione, eventuali sintomi, e contatti tenuti. Naturalmente ciò è più semplice in un paese ordinato, un popolo anarchico come noi italiani ce la farebbe? La domanda è comprensibile, e non è detto abbia una risposta positiva, ma gli italiani nelle emergenze sanno sorprendere se stessi. Il terzo pilastro è: «Test mirati, rapidi e precoci. Il KCDC è in grado di effettuare fino a 20mila test rapidi al giorno». In questo modo, chi ha sintomi viene testato a casa, e in caso di contagio viene curato in isolamento, per evitare che contagi la sua famiglia. «Nessuno - spiega l'economista - è stato lasciato a casa a guarire da solo». Grazie a big dati e tracciamenti, e ovviamente rispettando consenso e privacy, la catena di contatti dei contagiati emerge molto bene, e così si interrompe la catena di nuovi contagi. Le preoccupazioni sulla privacy sarebbero risolte in questo caso dall'utilizzo esclusivamente sanitario dei dati, rigorosamente da parte di medici e ricercatori. I risultati finora sono eccellenti: il tasso di letalità (che in Lombardia sale all'8%), in Corea è dello 0, 7%. In Italia, sfuggita la possibilità del tracciamento e del controllo precoce (dobbiamo ammettere che la risposta su questo non è stata adeguata né rapida), la chiusura è ora necessaria. Però, avvisa Sabatini, «c'è il rischio che, se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti, al primo allentamento del lockdown l'epidemia riprenda a galoppare. Affiancare il sistema coreano al nostro lockdown aiuterebbe a conseguire risultati definitivi». L'Italia non è in grado di organizzare un tracciamento digitale usando smart data e app? Assolutamente falso. L'Italia poteva mettere in piedi un tracciamento del genere, ha le competenze per farlo. E' una decisione politica, per la quale sta spingendo molto Carlo Alberto Carnevale Maffè, della School of Management della Bocconi: «Senza cambiare i processi di testing e contact tracing a monte, imporre il lockdown al paese è non solo inutile, ma anche dannoso per salute ed economia. Dobbiamo ricominciare da capo, e imparare da chi ha fatto meglio di noi». La Tech Review del Mit di Boston ha scritto che il modello è Singapore (molto simile alla Corea del sud, nella sostanza): azione precoce, tantissimi test, tracciamento digitale indefesso, capillare. «La risposta degli Stati Uniti finora è stata essenzialmente l'opposto», scrive la rivista de Mit. Studi che altri professori italiani, come Alfonso Fuggetta (informatica al Politecnico), stanno rilanciando. Chiudere l'Italia e auto-isolarci tutti è stato saggio ma, se non usiamo il cervello e le vere potenzialità digitali di questa epoca, potrebbe drammaticamente non bastare. 

·         L'Immunità di Gregge.

Pierluigi Battista il 13 novembre 2020: Non so niente di virologia. Ma a scuola ho imparato somme e sottrazioni. Dicono: Svezia travolta. La Svezia 10 milioni di abitanti, l'Italia 60. Casi totali Svezia 171.000, Italia 1 milione, morti di Covid in Svezia 6122, in Italia 43.589. Ieri Svezia 4562, Italia 37.900.

Paolo Becchi a Piazzapulita: "Lockdown inutile, la Svezia ha un tasso di mortalità più basso del nostro". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. "Le pandemie non sono solo fenomeni medici, ma anche sociali". Paolo Becchi torna in tv a Piazzapulita e "scandalizza" Corrado Formigli e i suoi ospiti in studio con le sue posizioni "eretiche" sul coronavirus. "I virologi possono certo dire la loro, ma molti hanno cambiato idea, come Matteo Bassetti che qualche mese fa negava la possibilità di una seconda ondata e oggi invece chiede scusa per essersi sbagliato. Vogliamo creare uno Stato terapeutico?". La nuova Repubblica dei virologi non convince l'editorialista di Libero. "Si sta creando un clima di terrore e paura - sottolinea Becchi -. Noi non avevamo bisogno nemmeno del primo lockdown, l'unica cosa che è necessario fare, come in Israele e nei paesi nordici, sono lockdown molto localizzati e proteggere determinate categorie e lasciare agli altri la più alta libertà possibile. Quello che è successo in Svezia è esemplare: non hanno fatto lockdown e hanno un tasso di mortalità più basso del nostro". 

Coronavirus, 80 scienziati contro immunità gregge: “Grave errore, non scientifico”. Redazione su Il Riformista il  15 Ottobre 2020. “L’immunità di gregge per la pandemia Sars-Cov-2 è un errore pericoloso, non ci sono prove scientifiche”. A dirlo sono ottanta ricercatori da tutto il mondo in una lettera pubblicata ieri sulla prestigiosa rivista medica Lancet. Sono epidemiologi, virologi, esperti di malattie infettive e sanità pubblica: tutti sono coalizzati per comunicare la gravità della nuova ondata, soprattutto all’indomani della dichiarazione della Casa Bianca di non voler limitare la pandemia con delle restrizioni optando per l”immunità di gregge”. Questa, “suggerisce di consentire un ampio focolaio incontrollato nella popolazione a basso rischio proteggendo i più vulnerabili. I sostenitori – si legge sul portale del Lancet – suggeriscono che questo alla fine proteggerà i vulnerabili. Questo è un errore pericoloso non supportato da prove scientifiche. Qualsiasi strategia di gestione della pandemia basata sull’immunità da infezioni naturali per Covid-19 è difettosa. Oltre al costo umano – insistono gli scienziati nella lettera aperta – ciò avrebbe un impatto sulla forza lavoro nel suo complesso e sopraffarebbe la capacità dei sistemi sanitari di fornire cure intensive e di routine. Inoltre, non ci sono prove di un’immunità protettiva duratura alla Sars-Cov-2 a seguito di infezione naturale, e la trasmissione endemica derivata dal declino dell’immunità rappresenterebbe un rischio per le popolazioni vulnerabili per un tempo indefinito. Una strategia del genere non porrebbe fine alla pandemia ma si tradurrebbe in epidemie ricorrenti, come nel caso di numerose malattie infettive prima dell’avvento della vaccinazione”, dicono categorici gli ottanta esperti. Questa strategia, continuano gli scienziati, rappresenterebbe un “carico inaccettabile per l’economia e gli operatori sanitari, molti dei quali sono morti a causa del Covid-19 o hanno subito traumi a causa della pratica della medicina ‘catastrofica'”. Gli ottanta virologi, epidemiologi ed esperti medici hanno ricordato anche che si sa ancora chi effettivamente potrebbe soffrire di Covid-19, e che anche solo prendendo in considerazione le persone a rischio di malattie gravi “la percentuale di persone vulnerabili costituisce fino al 30% della popolazione in alcuni regioni. L’isolamento prolungato di ampie fasce della popolazione è praticamente impossibile e altamente immorale – sottolineano -. L’evidenza empirica di molti Paesi mostra che non è fattibile limitare i focolai incontrollati a particolari settori della società”. Hanno posto poi l’accento su una problematica ricorrente in più Paesi: la distribuzione del virus a seconda delle capacità economiche e culturali di una certa fascia di popolazione di difendersi. “Un simile approccio rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze socioeconomiche e le discriminazioni strutturali già messe a nudo dalla pandemia – dicono -. Sono essenziali sforzi speciali per proteggere i più vulnerabili, ma devono andare di pari passo con strategie su più fronti a livello di popolazione”. Con più di 35 milioni di positivi nel mondo e oltre un milione di decessi registrati dall’Oms lo scorso 12 ottobre, gli scienziati si focalizzano nell’articolo sull’importanza di una comunicazione chiara di cosa serva davvero per rallentare la trasmissione del virus. Questa, si legge, “può essere mitigata attraverso l’allontanamento fisico, uso di rivestimenti per il viso, igiene delle mani e delle vie respiratorie, evitando la folla e gli spazi poco ventilati. Anche test rapidi, tracciamento dei contatti e isolamento sono fondamentali per il controllo della trasmissione. L’Oms ha sostenuto queste misure sin dall’inizio della pandemia”, ricordano gli scienziati, che hanno evidenziato come i blocchi istituiti nei vari Paesi “sebbene abbiano avuto un impatto distruttivo sulla salute mentale e fisica e danneggiato l’economia” siano stati l’unico modo per porre freno ai contagi. “Il tasso di mortalità per infezione del Covid-19 – ricordano ancora gli studiosi nell’articolo, anche per smentire le molte notizie scorrette divulgate soprattutto negli Stati Uniti – è molte volte superiore a quello dell’influenza stagionale, e l’infezione può portare a malattie persistenti, anche in persone giovani e precedentemente sane. Non è chiaro per quanto tempo l’immunità protettiva dura e, come altri coronavirus stagionali, Sars-Cov-2 è in grado di reinfettare persone che hanno già avuto la malattia”.

Coronavirus: Bergamo e Brescia interpellano. Piccole Note su Il Giornale il 7 novembre 2020. È iniziata una nuova fase nell’affronto del coronavirus: si è passati a una gestione più convergente, nei limiti del possibile della dialettica politica, tra governo e opposizione, cosa che non può che aiutare il Paese, anche se i difetti di approccio pregressi restano e restano tante le domande e le perplessità sulle misure varate (e su quelle precedenti ancora inevase, come le tante casse integrazioni non pagate da mesi: cosa si aspetta a correggere?). Anche l’idea di fissare dei criteri per suddividere le zone a rischio o meno è un passo avanti, che certo avrebbe dovuto essere fatto molto prima, Tant’è. Dubbi, perplessità e conflittualità, anche tra Regioni e autorità centrali, restano, ma una minima razionalità di approccio inizia a riscontrarsi. I numeri del contagio continuano a salire, ma quel che vediamo oggi sono i contagi, le patologie e i decessi che vengono dai giorni precedenti. Per osservare i frutti delle misure di questi giorni occorre attendere. Si attendono, ovviamente, i vaccini, si spera che si sia iniziato a predisporre piani accurati per la produzione e la distribuzione, cosa che potrebbe accorciare, anche se di poco, il lungo inverno pandemico. Intanto si può osservare come Bergamo e Brescia, le province più colpite nella prima ondata, registrino una diffusione scarsa del virus, soprattutto in rapporto al resto della Lombardia. Di certo, la terribile esperienza del passato ha portato i cittadini delle due città a un rigore diverso che altrove. Ma si può comunque porre la domanda sulla possibilità che la larga diffusione del virus in passato abbia prodotto un qualche attutimento nella diffusione odierna. Di certo la diffusione nelle due province è stata massiva, molto più larga dei numeri registrati ufficialmente al tempo, dati i tanti asintomatici e pauci-sintomatici che nella scorsa stagione sono passati inosservati, anche perché la terribile emergenza costringeva a restringere le maglie degli accertamenti allo stretto necessario, dove si è potuto (e non a scanso di errori). Si è parlato diffusamente della possibilità di un’immunità di gregge, sulla quale c’è controversia, o della possibilità che le reinfezioni siano rare e per lo più meno gravi. Sul punto non c’è convergenza o evidenze scientifiche acclarate ed è inutile dilungarsi. Però sicuramente gli anticorpi sviluppati da quanti hanno attraversato la malattia durano nel tempo, anche se in maniera variabile. Ed è possibile anche che alla loro scomparsa, come spiegano taluni virologi, resti comunque una memoria nel sistema immunitario, che saprebbe a questo punto reagire, più o meno efficacemente, alla ricomparsa del virus. Domande tante, nessuna risposta scientificamente inattaccabile, anche per la difficoltà di trovare convergenze nell’ambito sanitario che dovrebbe darle. Resta però la constatazione della contagiosità ridotta nelle due province, un fenomeno che, almeno si presume, sarà studiato per capire anzitutto se sia stato prodotto da un più marcato rigore dei cittadini locali o se, invece, sia da ricondurre a una qualche forma di immunità raggiunta dopo il flagello pregresso. In attesa, c’è comunque da tirare un sospiro di sollievo per quanto sta accadendo, una delle poche buone nuove di questo anno nefasto. Sospiro di sollievo comunque a metà, perché, pur ridotte nel numero, le persone ammalate a causa di questa seconda non devono passare inosservate. Un malato o un decesso vale tanto, oggi come ieri.

Tarro all’attacco: «Le mascherine all’aperto non servono, la soluzione è l’immunità di gregge». Sara Gentile sabato 10 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. «La manifestazione a Roma? Non avevo alcuna intenzione di partecipare, ma smentisco categoricamente le voci che sostengono che dalla Regione mi abbiano imposto di non andare. In generale, sul coronavirus, credo che di base ci sia una mancanza di competenza». Così all’Adnkronos il virologo Giulio Tarro ha precisato che oggi non sarà nella Capitale per manifestare contro le misure anti covid 19 e parla poi di immunità di gregge. «L’ho già detto – ha spiegato Tarro – è l’unica soluzione in questo momento da adottare. L’approccio giusto al coronavirus dovrebbe essere questo. Facendo così si sviluppano poi gli anticorpi. Ma ormai seguo questa vicenda quasi con distacco, sono diventati tutti tuttologi». «La corrente negazionista? Per me non esiste – ha sostenuto Tarro – fa comodo crearla. Il virus c’è stato, c’è ancora in forma minore, è stato fotografato anche in laboratorio, ma si supera. Non vedo perché si debba creare questa contrapposizione tra chi semplicemente ha un approccio diverso e, nel mio caso, anche corrisposto da fatti. Ho risolto il colera a Napoli, qualcosa saprò». E poi ancora: «Le mascherine all’aperto per tutti non servono». Sul vaccino Tarro ha poi spiegato che «servirà, ma dovrà essere efficace e soprattutto sicuro. In generale – ha concluso il virologo – bisognerebbe vivere tutta questa situazione con molta più tranquillità». Qualche giorno anche Enrico Montesano si era schierato con la linea di Tarro sulla mascherina. «Ci sono tanti medici, esperti, da Montagnier alla dottoressa Gatti, a Tarro, a Citro, a Tirelli, che dicono che la mascherina all’aperto è inutile e dannosa. E io ho più fiducia in questi professionisti che non appaiono mai in televisione piuttosto che nel virologo da tv. Posso dirlo, o se lo dico sono “fascio-negazionista”, e ora anche no mask? Non c’è scampo».

Se la Svezia diventa un modello nella lotta al Covid-19. Francesco Boezi su Inside Over il 19 settembre 2020. La Svezia, simbolo di un approccio alternativo al contrasto alla diffusione del Covid-19, ha costretto molti media a rivalutare la sua strategia. Sono i numeri, in realtà, a raccontare una verità non smentibile: la situazione pandemica svedese è migliore rispetto a molte altre. Il Paese scandinavo è stato bersagliato in prima battuta da chi riteneva che la tutela delle vite umane dovesse essere il tratto caratteristico della tattica occidentale. Quella da contrapporre all’emersione del nuovo coronavirus. La Svezia, insomma, è stata presa di mira da chi pensava che la ricerca della “immunità di gregge” ed il mancato blocco delle attività economiche rappresentassero tanto un pericolo quanto una sconfitta per la cultura della vita, che è tipica invece dei contesti cattolici. Qualcosa di simile, almeno nelle prime fasi ed in termini di rimostranze, è accaduto al premier britannico Boris Johnson. Nel caso svedese, però, sono le statistiche a stupire attualmente i commentatori. Se non altro perché la seconda ondata, a Stoccolma, sembra essere già un fantasma del passato. Anzi, il ritorno del virus sembra un fenomeno che gli svedesi potranno dire dii non aver subito. Partiamo dalla casistica. Mentre scriviamo, in Svezia non si fa che parlare di come la pandemia sia stata sostanzialmente sconfitta. Forse è un po’presto per cantare vittoria, ma le cifre sono lì apposta per verificare. 188 casi il 15 settembre. Un quadro ben diverso rispetto a quello di giugno, quando le autorità mediche della nazione del Nord Europa erano costrette a contare quasi duemila positività giornaliere. Cos’è successo nel frattempo? Perché, durante i mesi in cui il resto del Vecchio continente è costretto a ragionare su un eventuale secondo lockdown, la Svezia sembra poter dormire tra due cuscini (almeno sino a questo momento)? Qualcosa di diverso dal resto d’Europa deve essere accaduto. Una spiegazione è stata fornita a France24 dal capo della task force. La Svezia è una di quelle nazioni in cui la voce della scienza, di quella ufficiale legata allo Stato, è una. E l’esito del meccanismo comunicativo, a differenza di altri contesti tipo il nostro, sembra meno confusionario. Sono parole semplici – quelle del dottor Anders Tegnell – . E forse anche questa presunta banalità è alla base del successo: “La nostra è una strategia più sostenibile – ha affermato al giornale francese, come riportato da Europa Today – , che puoi mantenere in atto per lungo tempo, invece della strategia che impone lockdown, poi riaperture, e poi di nuovo lockdown”. La ratio sta dunque nel dilatare nella prassi le regole stringenti imposte altrove. Poi c’è l’ordine mentale e sociale degli svedesi, che di certo – come l’adagio vorrebbe – avrà contribuito. Le persone hanno dunque rispettato in generale le indicazioni fornite, mentre quest’ultime – in relazione a quelle disposte per l’Italia – sono risultate meno invasive. Il trucco sarebbe tutto qui. Ma c’è un però, che anche Tegnell individua e che è legato al lungo termine: “Solo alla fine vedremo quanta differenza ha fatto”, ha ammesso. Le sentenze arriveranno a conti fatti, dunque. Ma intanto il quadro è agevole. La stessa Oms ha dovuto ammettere che la Svezia può essere d’esempio per le altre comunità nazionali. Prescindendo dalla bontà di questa o di quella strategia, sembra di poter dire che un ruolo decisivo l’abbia giocato la sinergia tra le disposizioni degli esperti e i comportamenti privati dei cittadini. Questo, almeno, è quello su cui Tegnell pone più di qualche accento. Un lockdown parziale ma prolungato nel tempo, in buona sostanza, sarebbe in grado di produrre effetti migliori rispetto ad un lockdown secco, stringente ma limitato da un punto di vista temporale. La conclusione che si può trarre per il regno svedese in relazione al Sars-Cov2 è questa. L’unico giudice – come premesso – sarà però il tempo che passa.

Da corriere.it il 5 settembre 2020. Ma se alla fine si scoprisse che la strategia della Svezia per fronteggiare il coronavirus non era così campata in aria e, anzi, sta dando il suoi frutti? Stoccolma, a differenza dei vicini scandinavi, non ha voluto varare misure di lockdown, facendo conto più sulla responsabilità dei singoli che sui divieti. E fino ad oggi ha pagato un prezzo altissimo con un tasso di contagi e mortalità di gran lunga superiore a quello di Norvegia e Danimarca avendo avuto 84.985 positivi e 5.835 morti.

La svolta. Oggi, però, la situazione appare diversa mentre molti Stati affrontano una ripresa della pandemia, a Stoccolma i dati sono saldamente discendenti. «La Svezia è passata dall’essere il Paese con più contagi in Europa a quello più sicuro — ha detto il dottor Anders Tegnell, l’epidemiologo maggiormente considerato dal governo —. La nostra politica può aver tardato a portare risultati ma alla fine sono arrivati e sono più stabili».

I dati. Secondo il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie la scorsa settimana la Svezia ha avuto 12 casi per milione di abitanti mentre la Danimarca ne ha 18 e la Norvegia 14. A differenza di metà aprile quando si registravano più di cento decessi al giorno, oggi non si superano i due o tre morti. Al contrario giovedì Copenaghen ha raggiunto il record degli ultimi 4 mesi con 179 infetti in 24 ore.

Il test. La scorsa settimana in Svezia circa 2.500 persone scelte a caso sono state sottoposte a tampone e nessuna è risultata positiva. Alla fine di aprile erano lo 0,9% e a maggio 0,3%. «Questo significa che non ci sono in giro persone asintomatiche» ha spiegato al Daily Telegraph Karin Tegmark Wisell dell’Agenzia di Sanità pubblica svedese (PHAS).

I dubbi. I dati, però, non mentono. La Svezia finora ha avuto 5.832 morti, sei volte di più di Danimarca (264) e Norvegia (626) messe insieme. Davanti a cifre del genere è difficile vedere il vantaggio. C’è anche da considerare che Stoccolma testa in media 1,2 persone ogni 1000 mentre la Norvegia è a quota 2,2 e la Danimarca a 5,9. «È impossibile che Oslo e Copenaghen raggiungano un numero così alto di decessi — ha spiegato al Daily Telegraph la virologa Lena Einhorn — , anche perché le cure stanno migliorando e all’inizio del prossimo anno dovremmo ottenere un vaccino»

Elena Tebano per "corriere.it" il 19 settembre 2020. E se la Svezia avesse ragione? Ci siamo occupati molto, nella Rassegna stampa del Corriere, della via svedese all’epidemia di Covid-19, e spesso con toni critici. Ma i nuovi dati che arrivano da Stoccolma inducono a una riconsiderazione: mentre in molti Paesi europei — primi fra tutte Spagna, Francia e Regno Unito — i contagi da Sars-Cov-2 sono tornati a crescere esponenzialmente, in Svezia rimangono bassi. «Secondo il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), i 14 giorni totali di nuovi casi nei paesi scandinavi martedì erano 22,2 ogni 100 mila abitanti, contro i 279 della Spagna, i 158,5 della Francia, i 118 della Repubblica Ceca, i 77 del Belgio e i 59 del Regno Unito, tutti casi che questa primavera hanno imposto il blocco — scrive il Guardian —. Ventidue dei 31 Paesi europei esaminati dall’ECDC hanno registrato tassi di infezione più elevati. I nuovi casi, ora segnalati in Svezia solo da martedì a venerdì, sono all’incirca al ritmo di fine marzo, mentre i dati dell’agenzia sanitaria nazionale hanno mostrato solo l’1,2% dei 120 mila test della settimana scorsa sono risultati positivi». «Non abbiamo la recrudescenza della malattia che molti Paesi hanno» ha detto, in un’intervista all’emittente France-24, Anders Tegnell, il principale epidemiologo del Paese e colui che ha guidato la risposta svedese al coronavirus. «Alla fine, vedremo che differenza farà avere una strategia più sostenibile, che si può mantenere a lungo, invece della strategia di chiudere, aprire e chiudere più e più volte» ha aggiunto. Nel complesso nel Paese ci sono stati 5.800 decessi attribuiti al Covid-19 su 10 milioni di abitanti. «Ovvero, una mortalità di circa lo 0.06%, praticamente uguale a quella dell’Italia» come spiega Ugo Bardi, docente presso il dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze, che fa il punto sul Caso svedese sulla pagina facebook Pillole di ottimismo. «Il rapporto fra risultati positivi e test si mantiene costante intorno a 1,3%, circa lo stesso valore che troviamo in Italia. Nemmeno in termini di ospedalizzazioni risulta che ci siano problemi» scrive ancora Bardi. Errori ce ne sono stati sicuramente anche in Svezia, come ammette lo stesso Tegnell: per esempio la mancata protezione delle case di cura per anziani, dove si è registrata la maggior parte dei decessi per Covid del Paese. Ma nel complesso la strategia leggera ha funzionato. Strategia che non era quella di cercare l’immunità di gregge, ma di rallentare l’epidemia in modo che non travolgesse il sistema sanitario: la Svezia per esempio ha chiuso le scuole per gli over 16, ha vietato i raduni con più di 50 persone e ha chiesto agli over 70 e ai gruppi a rischio di autoisolarsi, ma invece di imporre tutto questo per decreto, lo ha «consigliato», e ha avuto fiducia nel fatto che i suoi cittadini seguissero i consigli e le regole di prudenza. Lo hanno fatto. «Gli svedesi sono rimasti a casa il più possibile, come gli era stato raccomandato di fare — racconta ancora Bardi —. Nei momenti più difficili dell’epidemia, in Svezia nessuno cantava dai balconi ma l’atmosfera generale era molto simile a quella che c’era in Italia. Niente traffico, locali vuoti, poca gente in giro, distanziamento, eccetera. Fra le tante cose, i viaggi aerei interni alla Svezia sono stati praticamente azzerati durante l’emergenza, pur non essendo proibiti». Questo di per sé non significa che il lockdown sia stato inutile in Italia, un Paese dove l’epidemia è andata avanti per mesi senza che le autorità sanitarie se ne accorgessero (e come sia stato possibile è un problema di cui dovremmo occuparci) e in cui i contagi avevano già fatto saltare il sistema sanitario di una delle Regioni, la Lombardia, in teoria più attrezzate da questo punto di vista. Ma, come scrive Walter Münchau sul Financial Times, dalla via svedese all’epidemia possiamo trarre moltissime lezioni utili. La prima è che esistono delle alternative valide al lockdown duro di matrice cinese a cui quasi tutto il mondo si è ispirato (Münchau definisce «il riflesso automatico al lockdown» come «la più grande minaccia per le democrazie capitaliste occidentali» in questo momento). La seconda è che dobbiamo smettere di trarre conclusioni affrettate. «Ora, le nuove statistiche svedesi sulle infezioni sono migliori di quelle di gran parte dell’Ue. Ma non dovremmo ancora trarre conclusioni. È stato sbagliato due mesi fa condannare la strategia svedese basata su quei dati, e sarebbe altrettanto sbagliato trarre ora la conclusione opposta». Ci vorrà tempo per capire, perché il fenomeno è molto complesso e si sviluppa in un periodo medio-lungo. Intanto, aggiungo, la priorità è fare in modo che i sistemi sanitari non si sovraccarichino. Se c’è una cosa chiara è che nessuno vuole un altro lockdown: il costo, stavolta, sarebbe intollerabile sul piano economico, sociale e politico. Anche per questo dobbiamo essere prudenti.

Immunità di gregge, cos’è e perché si chiama cosi. Redazione de Il Riformista il 15 Marzo 2020. In gergo l’immunità di gregge viene indicato come un meccanismo per cui quanto più è elevato il numero di persone che non sono in grado di trasmettere una malattia infettiva, come il caso del coronavirus o in generale una malattia causata da un batterio, minore sarà la probabilità di essere contagiati. Questo significa che quando la maggior parte di una popolazione sviluppa l’immunità nei confronti di una infezione, o perché l’ha già contratta o perché è ricorsa al vaccino, l’agente patogeno non trova soggetti da infettare, proteggendo indirettamente anche i pochi che sono ancora ‘scoperti’. L’immunitá data dal gregge si ottiene normalmente grazie a un vaccino che provoca risposte immunitarie specifiche nella popolazione attraverso la produzione di anticorpi mirati contro la malattia in modo simile a come avverrebbe con l’infezione, ma con conseguenze minime.

LA SPIEGAZIONE– La strategia dell’immunità di gregge riguarda le malattie infettive contagiose. La sua esistenza è stata dimostrata in maniera indiretta in diversi casi come con l’eradicazione della rabbia in Germania alla fine del secolo scorso. Il numero di individui che devono essere vaccinati per tutelare le persone che non sono protette, o perché non possono essere vaccinati o perché non hanno sviluppato un’immunità totale al vaccino, varia in base all’agente patogeno. Per fare un esempio, nel caso di malattie infettive molto diffuse come il morbillo, è possibile considerare al sicuro l’intera popolazione quando almeno il 95 % di essa risulta vaccinata. L’immunità di gregge diventa cosí determinante per arrestare una malattia infettiva nel caso in cui avvenga un vaccinazione di massa, mentre ottenerla in maniera naturale può portare a conseguenze molto gravi.

Nel caso del nuovo coronavirus, l’immunità di gregge potrebbe risultare difficile da attuare in quanto in primis sarebbe complicato definire la soglia d’immunità di gregge visto che non si conosce ancora esattamente quanto sia contagioso il covid-19. Inoltre, non potendo quantificare l’immunità sviluppata dalle persone guarite è difficile calcolare l’orizzonte temporale della protezione indotta dal gregge.

IL CASO REGNO UNITO – In merito alla pandemia del coronavirus, il Regno Unito é stato l’unico Paese che ha tirato in ballo questo tipo di soluzione scatenando molte polemiche. Infatti, il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato in una conferenza stampa dedicata al tema del covid-19 che il popolo inglese dovrà abituarsi a perdere i propri cari e che la vita quotidiana continuerá normalmente senza chiusura di scuole, università o attività commerciali mirando, appunto, all’immunità di gregge. Il consigliere scientifico del governo britannico, Patrick Vallance, ha infatti dichiarato che la strategia per il contenimento del virus è quella di sviluppare una certa immunità nella popolazione e, per farlo, è necessario che il 60% della popolazione contragga il coronavirus. In linea generale, l’immunità di gregge non può essere indotta volontariamente lasciando infettare il maggior numero di persone, ma è più funzionale renderlo piuttosto un obiettivo da raggiungere tramite le campagne vaccinali sviluppando anticorpi anche per i più deboli o per i soggetti più inclini a contrarre l’infezione. La soluzione che quindi propone il governo inglese, almeno per una prima fase, è quella di provare a contenere l’epidemia attraverso l’immunità che le persone contagiate svilupperanno.

Ecco cos'è l'immunità di gregge a cui punta la Gran Bretagna. Il governo britannico potrebbe lasciare esposta al virus la maggior parte della popolazione, così da far ottenere l'immunità ai rimanenti. Ecco in cosa consiste l'immunità di gregge e come si raggiunge. Francesca Bernasconi, Lunedì 16/03/2020 su Il Giornale. Parole che hanno fatto molto discutere, quelle di Sir Patrick Vallance, che per superare la pandemia da coronavirus in Gran Bretagna potrebbe puntare sull'"immunità di gregge". Vallance, il primo consigliere scientifico del governo di Boris Johnson, aveva spiegato che il virus "sarà stagionale e tornerebbe anche il prossimo inverno". Per questo, per tenere sotto controllo il virus, sarebbe utile che la maggior parte della popolazione venisse contagiata: "Con il 60% della popolazione infetta dal virus- aveva detto- avremmo una immunità di gregge". Una teoria che ha fatto molto discurtere, in questi giorni, e che ha destato preoccupazione, soprattutto dopo la frase choc del presidente Boris Johnson: "Abituatevi a perdere i vostri cari".

Che cos'è l'immunità di gregge? Si tratta di un meccanismo che permette anche alle persone non vaccinate di resistere al virus. Questo, solitamente, succede quando la maggior parte della popolazione è vaccinata: l'agente patogeno non trova più "vittime" da infettare, perché protette dai vaccinati, e non attacca. Secondo quanto riporta l'Istituto superore di Sanità (Iss), "questo avviene grazie all'immunità di gregge per cui, se la percentuale di individui vaccinati all'interno di una popolazione è elevata si riduce la possibilità che le persone non vaccinate (o su cui la vaccinazione non è efficace) entrino in contatto con il virus e, di conseguenza, si riduce la trasmissione dell'agente infettivo". Così, si potrebbe impedire al virus di circolare, fino alla sua scomparsa. È un obiettivo che si può raggiungere con campagne vaccinali a tappeto, effettuate una volta trovato l'antidoto al virus, e non lasciando che la maggior parte della popolazione venga contagiata, così da proteggere la parte restante. Secondo Sir Vallance, è possibile che la maggior parte delle persone contraggano solamente dei sintomi lievi se contagiate dal Covid-19. Considerando il dato del 60% della popolazione del Regno Unito, che conta 66,4 milioni di abitanti, significherebbe il contagio di circa 40 milioni di persone. Durante il picco dell'epidemia, le persone più fragili verrebbero isolate, per evitare l'infezione con sintomi gravi e, una volta accumulata immunità dal resto della popolazione, la diffusione del virus dovrebbe rallentare. Ma secondo il professore di Igiene del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Firenze, Paolo Bonanni, intervistato dal Corriere della Sera, un'immunità di gregge "spontanea" sarebbe rischiosa: "Significherebbe lasciare circolare il virus senza misure di contenimento- spiega-e avere un carico di morti intollerabile, per non parlare della situazione degli ospedali". E ribadisce che, per il momento, le uniche armi a disposizione per tutelare la vita umana sono "l’isolamento e il distanziamento sociale". E conclude: "Con un virus di tipo nuovo entrano in gioco anche variabili sconosciute: non sappiamo se l’immunità sarà permanente e, anche se lo fosse, dovremmo valutare se il patogeno muti, come fa l’influenza stagionale (per la quale dobbiamo vaccinarci ogni anno)".

Ecco perché non possiamo ancora sperare in immunità di gregge. Secondo gli esperti, per raggiungere un'immutà naturale serve il il contagio del 60-70% della popolazione. Francesca Bernasconi, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Il primo a parlarne era stato il primo consigliere del governo di Boris Johnson, che l'aveva suggerita come arma per sconfiggere il nuovo coronavirus. Ma raggiungere l'"immunità di gregge" non è un processo così immediato. Secondo gli esperti, infatti, per arrivarci servirebbe che almeno il 60-70% della popolazione venisse contagiata. L'"immunità di gregge" è un meccanismo biologico che permette anche alle persone non vaccinate di resistere a un virus. Solitamente, si raggiunge grazie a un vaccino, ma può essere anche il risultato della risposta immunitaria delle persone che sono già state contagiate e l'hanno sconfitta. In questo modo, le persone immuni (per vaccino o per anticorpi) riescono a proteggere quelle che non sono ancora state infettate, perché il virus fa fatica a trovare chi attaccare e scompare. Un'immunità di questo genere, ottenuta con il metodo "naturale", quindi senza l'uso di un vaccino, non è semplice da raggiungere. Come spiega a La Stampa il direttore dell'istituto di genetica molecolare del Cnr, Giovanni Maga, per arrivare a questa condizione, il virus deve contagiare "un'alta percentuale della popolazione: almeno il 60-70%, come succede con le campagne di vaccinazione". I dati, però, "non suggeriscono uno scenario simile: se il valore R0, il tasso di contagiosità del virus, è di poco superiore a 2, mentre quello influenzale si attesta tra 1.5 e 2, possiamo ipotizzare che sia stato colpito all' incirca il 10% degli italiani e quindi circa 6 milioni di persone". Dello stesso parere è anche Carlo La Vecchia, epidemiologo dell'Università Statale di Milano che, insieme a Eva Negri, ha condotto l'indagine Doxa per stimare i casi sommersi positici al Covid-19. Gli scienziati hanno effettuato due stime. La prima, basata sul fatto che "soltanto metà dei sintomi riferiti fossero dovuti a Covid", il che ha portato i casi a 5 milioni in Italia. L'altra opzione, inceve, prevede che "tutti o larga parte lo fossero, e quindi si arrivasse a 10 milioni". A questi numeri, però, andrebbero aggiunti coloro che non vengono colti: "Arriviamo a stimare che in Italia possano esserci 5, 10 o anche 20 milioni di infettati se gli asintomatici fossero molto numerosi". Ma, anche con questi numeri, "siamo lontani dal raggiungimento dell'immunità naturale", per cui servirebbero i due terzi della popolazione, che in Italia è di 40 milioni (sui 60 milioni totali). Per questo, avvisa lo scienziato, "la ripresa dovrà essere fatta con attenzione".

L’immunità di gregge e i pericoli per l’Italia. La tentazione di Germania e Gran Bretagna. Geopoliticalcenter.com il 14 Marzo 2020. Il virus si può combattere in due modi: il primo è il metodo cinese e nei fatti, anche se messo in atto con ritardo ed incertezze, anche il metodo italiano. Un metodo che si basa sull’isolamento delle aree urbane, o comunque dei territori, dove la malattia imperversa, e che determina il crollo della possibilità di avere contatti sociali, limitando in questo modo la circolazione della malattia. Esiste poi un secondo metodo che è sicuramente meno “prudente” ma in presenza di determinate condizioni potrebbe essere più efficace delle quarantene. Il secondo metodo consiste nel far circolare liberamente il virus, far si che infetti rapidamente gran parte della popolazione ed raggiungere, dopo circa 3/4 mesi La cosiddetta immunità di gregge. Perché dunque l’Italia ha scelto il “metodo cinese”, mentre la Germania e la Gran Bretagna potrebbero valutare la seconda opzione, e cioè tentare di raggiungere rapidamente l’immunità di gruppo? A nostro avviso non è tanto l’Italia che ha scelto questo approccio, ma bensì è la Germania e la Gran Bretagna che hanno la possibilità, seppur non priva di incognite, di decidere come comportarsi. Perché? Perché la Germania dispone di circa 25000 posti letto in terapia intensiva, confrontati ai 5000 posti italiani. Se andiamo a considerare la differenza tra la popolazione italiana e quella tedesca scopriamo che, al netto di questo calcolo, la Germania dispone del quadruplo dei nostri posti in terapia intensiva. Grazie a questa caratteristica del sistema sanitario tedesco la Germania potrebbe scegliere di non paralizzare la sua economia e tentare di gestire la massa di pazienti che necessiteranno di assistenza ventilatoria. Ma quali sarebbero quindi i rischi per l’Italia? La spiegazione è un po’ complessa ma cercheremo di renderla semplice e sintetica. La nostra strategia mira a minimizzare il già alto numero di morti che stiamo osservando, ma limiterà molto anche il numero di italiani contagiati. Se per caso, alla fine del nostro sforzo di contenimento (verso la fine di aprile), riprendessero con l’usuale densità di traffico i nostri scambi con la Germania, o se durante il periodo estivo vedessimo il consueto afflusso di bagnanti teutonici, esiste la teorica possibilità che alcuni pazienti tedeschi affetti dal virus (in assenza di contenimento il virus sarà in circolo in Germania per mesi) potrebbero innescare nuovi cluster infettivi in Italia, riportandoci alla necessità di nuove chiusure e nuove quarantene. Ecco perché in questa condizione pandemica, tutto il continente europeo dovrebbe agire in maniera uniforme e utile a tutelare l’anello debole della catena. Non sappiamo perché ma siamo convinti che nessun paese della nostra Unione abbia intenzione di tutelare nient’altro che il proprio interesse nazionale, anche se ciò dovesse determinare un vero e proprio incubo sanitario, economico, produttivo e sociale, per un paese a caso: l’Italia. Ecco perché se la Germania dovesse optare per il raggiungimento “rapido” dell’immunità di gregge anche l’Italia dovrebbe riconsiderare tutto quanto finora è stato fatto, pena una débâcle che potrebbe affossare l’Italia come una sconfitta in un conflitto militare.

Addendum. Anche l’Italia disponeva un tempo di molti più posti letto di terapia intensiva, sub intensiva e di degenza ordinaria. Poi vennero le “razionalizzazioni”, le cure dimagranti, i tagli alla sanità. Benvenuti nell’era dell’austerità

DAGONEWS il 13 marzo 2020. La frase choc di Boris Johnson ha sortito i primi effetti in Gran Bretagna. Se è pur vero che il governo non ha alcuna intenzione di prendere misure draconiane, è altrettanto vero che i britannici hanno risposto svuotando le strade e rimanendo a casa. Oggi le vie, le piazze e i luoghi generalmente affollati da uomini d’affari e turisti erano deserti. Così come le stazioni delle metropolitane e i treni che viaggiavano con i vagoni vuoti. Poche ore fa il premier inglese aveva annunciato: «Molte famiglie perderanno i loro cari», aggiungendo che i casi di contagio potrebbero aver superato i diecimila. Una circostanza che non gli impedito di limitarsi a dare qualche consiglio tra i quali lavarsi le mani e rimanere a casa una settimana se si hanno sintomi. Nel Regno Unito il numero di persone contagiate con il nuovo coronavirus è salito a 798, cioè 208 in più di ieri, quando i casi erano 590. I morti per Covid-19 sono 10.

La maggior parte dei tedeschi verrà contagiata, ha detto Angela Merkel. Il Post mercoledì 11 marzo 2020. Infetterà «dal 60 al 70 per cento della popolazione», ha detto durante il suo primo intervento pubblico sulla diffusione del virus. Mercoledì la cancelliera tedesca Angela Merkel ha tenuto la sua prima conferenza stampa sull’epidemia di coronavirus. In Germania al momento sono stati rilevati 1.622 casi di contagio e 3 morti, ma secondo la cancelliera Merkel nei prossimi giorni il numero potrebbe salire molto, fino a contagiare gran parte della popolazione tedesca. «Gli esperti affermano che tra il 60 e il 70 per cento delle persone saranno contagiate», ha detto Merkel. La Germania ha circa 82 milioni di abitanti e, al momento, il coronavirus nel paese è risultato letale per lo 0,2 per cento delle persone contagiate (ma dipende anche dalle cause attribuite ai decessi). La newsletter del Post sul coronavirus arriva ogni sera e racconta molto di più di quello che trovi sui giornali: è gratuita e ci si iscrive qui. Merkel ha aggiunto che il suo governo si occuperà di limitare i danni all’economia, e solo in un secondo momento si occuperà di valutare gli effetti che questo ha avuto sul budget. Venerdì saranno annunciate le prime misure per contrastare gli effetti dell’epidemia. La dichiarazione ha suscitato molti commenti, visto che da anni la Germania mantiene un bilancio in pareggio, nonostante le numerose richieste da parte di istituzioni e partner europei di spendere di più per cercare di rivitalizzare l’economia del continente. Con Merkel alla conferenza stampa erano presenti il ministro della Salute Jens Spahn e Lothar Wieler, direttore dell’Istituto Koch, che si occupa del controllo e della prevenzione delle malattie infettive in Germania. Durante l’intervento, Merkel ha raccomandato ai governatori dei Lander di vietare gli eventi pubblici con più di 1.000 persone, e ha escluso che la chiusura dei confini possa essere una soluzione alla diffusione del virus in Europa, secondo molti un riferimento all’Austria che ieri ha approvato alcune misure restrittive per i cittadini italiani che per entrare nel paese avranno bisogno di un certificato medico o di avere un posto dove rimanere eventualmente in quarantena per due settimane.

Coronavirus, ministro francese: "Probabile che il 50% di noi si contagi". Il ministro dell'Istruzione francese, Jean-Michel Blanguer: "Probabilmente il Covid-19 contagerà più della metà della popolazione francese". Federico Giuliani, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Tra dubbi e incertezze anche la Francia si appresta a fare i conti con l'onda d'urto del nuovo coronavirus. Il ministro dell'Istruzione francese, Jean-Michel Blanguer, ha rilasciato un'intervista emblematica a Franceinfo nella quale ha sottolineato come “probabilmente” il Covid-19 contagerà più della metà della popolazione francese. "Come sapete, sin dall'inizio, la strategia non è stata quella di impedire il passaggio del virus. Sappiamo che probabilmente toccherà più della metà di noi. Quanto fatto è per assicurarsi che passi nel modo più diluito possibile nel tempo", ha affermato il ministro. E così, dopo Regno Unito, anche la Francia sembrerebbe voler seguire la strategia dell'immunità di gregge. Una strategia rischiosa, data la totale assenza di informazioni sul comportamento di questo virus, che comporta la decisione di lasciar seguire il suo corso all'epidemia, senza tentare di fermarla all'improvviso. Secondo quanto riportato dal quotidiano Le Figaro, questo non significherebbe tuttavia “non fare niente” bensì concentrare gli sforzi delle autorità “per rallentare la diffusione del virus” al fine di evitare “la congestione dei servizi di emergenza”. Detto altrimenti, Parigi punterebbe ad “appianare” la curva epidemica, limitando i contatti tra i cittadini.

Una strategia che non convince. Le parole del ministro Blanguer arrivano dopo un discorso di Emmanuel Macron in cui il presidente francese ha delineato indirettamente una strategia nel lungo periodo. Dichiarando che l'attuale epidemia di Covid-19 è "la più grave crisi sanitaria che la Francia abbia conosciuto per più di un secolo", il capo dell'Eliseo ha ovviamente pianificato per il futuro. Perché con 3661 casi identificati e 79 morti giovedì, non è la situazione attuale a essere drammatica, ma quella che ci aspetta: milioni di persone infette, centinaia di migliaia di casi gravi e decine di migliaia di morti potenziale. Nel frattempo 30 giornalisti francesi corrispondenti dall'Italia hanno scritto in una lettera aperta ai connazionali che “la Francia deve imparare la lezione dall'esperienza italiana”. L'avvertimento lanciato a cittadini e autorità, che sembrano sottovalutare i rischi della pandemia da nuovo coronavirus, è chiaro. "Osserviamo una lontananza notevole tra la situazione a cui assistiamo quotidianamente in Italia - scrivono i 30 - e la mancanza di preparazione dell'opinione pubblica francese per uno scenario che comporterà una diffusione consistente, se non massiccia, del nuovo coronavirus, come conferma la stragrande maggioranza degli esperti. Non c'è più tempo da perdere, anche fuori dall'Italia”. “Molti francesi - concludono i giornalisti - non si rendono conto che in caso di patologia grave diversa dal nuovo coronavirus non saranno curati come necessario per mancanza di posti disponibili, come accade in Italia ormai da giorni. Sottolineiamo infine che il sistema sanitario coinvolto è quello del nord della penisola, ovvero il migliore del paese e uno dei migliori d'Europa". quindi, per carità, sfruttate il vantaggio e imparate la lezione dall'esperienza italiana".

Coronavirus Inghilterra, il discorso di Boris Johnson: «Abituatevi a perdere i vostri cari». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. La frase è da choc: «Molte famiglie perderanno i loro cari». Ma la reazione è forse ancora più raggelante: non faremo nulla. Perché questa è la linea scelta dal governo di Boris Johnson: avanti come se niente fosse. La Gran Bretagna si smarca dal resto dell’Europa: mentre sul Continente i governi prendono misure sempre più drastiche, Londra letteralmente se ne lava le mani. Il consiglio fondamentale contro il coronavirus resta infatti quello di usare acqua e sapone; chi ha sintomi è invitato a starsene a casa per una settimana; ma per il resto è business as usual. Niente chiusure, niente emergenze: la vita a Londra continua a scorrere normale (e nessuno va in giro con la mascherina). Eppure il tono usato ieri da Johnson, nel suo intervento da Downing Street, è stato grave e solenne. Ha ammesso che il Paese si trova di fronte alla più seria emergenza sanitaria in una generazione e che il numero reale dei contagiati potrebbe aver già toccato i diecimila. Ma ha insistito che prendere misure «draconiane» non farebbe grande differenza e potrebbe addirittura risultare controproducente. Il premier era affiancato dai massimi esperti scientifici e sanitari britannici, che hanno spiegato che bloccare il virus è impossibile e che l’unica strategia è quella di spalmarne la diffusione nel tempo, in modo da consentire al sistema sanitario di gestire la situazione. Addirittura, hanno sostenuto che non è desiderabile che nessuno venga contagiato, perché è preferibile che la popolazione sviluppi da sé anticorpi al virus. Un approccio che è stato criticato da più parti, sia a livello sanitario che politico: ma che oggi il governo ha continuato a difendere. E non sono pochi quelli che apprezzano la linea di Johnson: il Times ha scritto che si sta comportando da statista, senza cedere alle pressioni populiste. E sono scattati i paragoni con Churchill - che prometteva «sangue, sudore e lacrime» - e con Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore che sfiancò Annibale. Addirittura c’è chi evoca lo spirito del 1940, con l’Europa che capitola, gli Stati Uniti che si isolano e la Gran Bretagna che resta in piedi da sola. La popolazione sta reagendo in ordine sparso. Alcuni eventi, come la Fiera del Libro, sono stati cancellati, ma il grosso degli appuntamenti va avanti. Nelle università qualche professore fa lezione a distanza, ma sono iniziative individuali: scuole e college restano aperti. C’è gente che si è data a fare scorte di generi di prima necessità (soprattutto carta igienica, che in qualche supermercato scarseggia) ma non ci sono scaffali vuoti. È anche una questione culturale: i britannici vanno fieri del loro stiff upper lip, il labbro superiore rigido, cioè lo stoicismo (fino all’indifferenza) di fronte alle difficoltà, senza abbandonarsi a reazioni emotive. E un altro concetto fondamentale è quello di grace under fire, la grazia sotto il fuoco nemico: ossia mai perdere la compostezza. Resisterà tutto questo all’infuriare del coronavirus? È presto per dirlo. Ma per ora, dopo la Brexit politica, si sta assistendo anche alla Brexit sanitaria.

British coglions. La migliore ricetta antivirus arriva da Londra e porta la firma del premier inglese Boris Johnson. Alessandro Sallusti, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Stupidi noi a non averci pensato prima. La migliore ricetta antivirus arriva da Londra e porta la firma del premier inglese Boris Johnson. Si chiama «immunità di gregge» e consiste nel non prendere alcuna precauzione in modo che la popolazione, dopo un numero imprecisato di morti, sviluppi per gli affari suoi gli anticorpi che renderanno immuni eventuali sopravvissuti. Semplice, no? La domanda a cui Johnson non ha ancora risposto, ma sono affari degli inglesi, è se i moribondi in arresto respiratorio verranno lasciati agonizzanti senza assistenza, per strada o in casa, in modo da accelerare il contagio e quindi la formazione delle autodifese personali in chi è loro vicino, o se viceversa intende in qualche modo occuparsene. Io chiamerei questa ricetta «British coglions», che l'inglese maccheronico a volte rende l'idea meglio di quello accademico e non c'è bisogno di traduzione. Se poi a questo aggiungiamo il fatto che Donald Trump, dopo averci scherzato sopra per settimane, solo nelle ultime ore a epidemia diffusa nel suo Paese è stato punto dal dubbio che in Italia non siamo pazzi e che il virus sia una cosa maledettamente seria, ecco che finalmente capisco in che senso «gli americani sono figli illegittimi degli inglesi»: tale padre, tali figli. Uscendo dal piano familiare ed entrando in quello politico, l'accoppiata Johnson-Trump sul Coronavirus dimostra anche che essere nazionalisti, populisti e antieuropeisti non è garanzia di maggiore intelligenza. Gli stolti pensiamo a madame Lagarde sull'altro fronte abbondano nei due schieramenti in modo equanime. Come ci spiega bene oggi Nicola Porro dal suo isolamento (è positivo, ma sta meglio di me), non è che qui le cose funzionino a meraviglia. Ma un conto è una ricetta giusta in mano a persone sbagliate, altro è se le ricette sono farlocche tipo quella di Boris. Se in Italia comincia (incrociamo le dita) a calare il numero dei morti e a crescere quello dei guariti, significa certo che abbiamo medici straordinari, ma anche che abbiamo imboccato la strada giusta nel modello di gestione dell'emergenza. Che, credetemi, è ancora una volta il modello Lombardia. Regione impegnata su due fronti di lotta: quello medico con il virus e quello politico con il governo centrale, lento e indeciso come sempre.

La strategia di Boris: “Il 60% degli inglesi si ammalerà così guadagneremo l’immunità di gregge”. Il Dubbio il 13 marzo 2020. Fanno discutere le parole del primo consulente scientifico del governo britannico. Circa il 60% della popolazione del Regno Unito dovrebbe essere infettato dal coronavirus per far sì che la società possa guadagnare una immunità di gregge dai futuri focolai, dato che l’infezione potrebbe tornare “di anno in anno”. Lo ha affermato ha detto a Sky News il principale consigliere scientifico del governo britannico, Sir Patrick Vallance. Il numero di casi confermati nel Regno Unito ha raggiunto quota 590 – un aumento di 134 in 24 ore, anche se Vallance ritiene che il numero effettivo di persone infette nel Paese, al momento, potrebbe essere compreso tra 5.000 e 10.000. Secondo l’esperto, che ha pronunciato parole destinate a far discutere, la maggioranza della popolazione inglese, pari a oltre 65 milioni di persone, dovrebbe essere infettata dal coronavirus per far sì che si riduca il rischio di diffusi focolai futuri. “Pensiamo che questo virus probabilmente si presenterà di anno in anno – ha fatto notare – diventando come un virus stagionale. Se la comunità ne diventerà immune, questa rappresenterà una parte importante del controllo a lungo termine. Circa il 60% è la percentuale necessaria a ottenere l’immunità di gregge”, che solitamente si raggiunge attraverso la vaccinazione di massa, non le infezioni dirette.

Antonello Guerrera per ''la Repubblica'' il 14 marzo 2020. È un azzardo. Per molti pericoloso, incosciente, nell' era coronavirus. Ma ora è ufficiale, dopo settimane di reticenze, semplici inviti a lavarsi le mani e keep calm and carry on , "state calmi e andiamo avanti". Perché ieri mattina, Sir Patrick Vallance, massimo consigliere scientifico del premier Boris Johnson, l' ha detto a Sky News : «Il 60% dei britannici avrà bisogno di contrarre il coronavirus per sviluppare l' immunità di gregge. Perché il virus sarà stagionale e tornerebbe in inverno. Sì, è una brutta malattia. Ma nella maggioranza dei casi comporta solo sintomi lievi». Una gaffe? No. In una successiva intervista alla Bbc , Vallance è andato oltre: «Se cerchi di sopprimerlo con misure molto dure e poi allenti la presa, il virus reagisce, magari in un momento sbagliato. Il nostro obiettivo è creare una sorta di immunità di gregge contro la trasmissione del virus a lungo termine, proteggendo i più vulnerabili». Anche perché un vaccino contro il Covid- 19 ancora non c' è, servirà almeno un anno e l' Oms ieri ha ammesso che si è in alto mare causa «mancanza di fondi». Ma la strategia estrema del governo Johnson potrebbe provocare la morte di centinaia di migliaia di persone. I britannici sono 67 milioni, il 60% circa 40 milioni. Con un tasso di mortalità (al ribasso) dell' 1%, questa "scommessa" potrebbe avere un "costo" iniziale di 400mila morti. La sanità rischia di collassare. Inoltre, il Covid-19 pare un virus mutevole e non c' è ancora la certezza assoluta che si ottenga l' immunità da guariti. Ma giovedì Johnson l' aveva accennato in conferenza stampa: «Purtroppo moriranno molti nostri cari». Eppure il premier è ancora contrario a ogni misura draconiana per contenere il virus, che a oggi in Regno Unito ha contagiato "solo" 708 persone su 32.771 testate, anche se i malati "nascosti" sarebbero 10mila. Le scuole restano aperte, pub e ristoranti sono stracolmi, il concertone di Glastonbury è stato confermato e per il governo pure il calcio sarebbe andato avanti - a porte aperte - se solo la Premier League ieri non si fosse opposta dopo vari contagi di giocatori e allenatori. Un approccio che sta spaventando anche i 700mila della comunità italiana oltremanica, nella morsa emotiva di una patria "chiusa a chiave" e un Regno Unito passivo contro il contagio: genitori preoccupati per i figli in classe, centinaia di turisti bloccati dallo stop ai voli, permesso di chiamare il numero speciale anti-virus solo se si hanno sintomi gravi. Altrimenti, lo ha detto Johnson stesso, restate in casa per una settimana senza assistenza. E però ieri il premier è stato comunque costretto a rinviare le elezioni locali di maggio, la maratona di Londra, mentre alcune università, come la London School of Economics, già si autogestiscono con corsi online. Anche la Regina ha cancellato i suoi appuntamenti. Ma il vero problema di Johnson è un altro. Sperando che il caldo limiti il Coronavirus, il premier non vuole bloccare il Paese allo scopo di preservare l' economia. Un azzardo che già l' Italia ha pagato a carissimo prezzo. La sola chiusura delle scuole costerebbe al Regno Unito il 3% di Pil, sussurrava ieri un sottosegretario. Figuriamoci uno stop totale all' italiana. Boris non può permetterselo nell' anno decisivo della Brexit. Perché, dopo infinite promesse, ora si gioca tutto: la carriera e il futuro del Regno Unito. In queste condizioni, il coronavirus potrebbe tornare in inverno, proprio nei mesi in cui si concretizzerà la Brexit, nel 2021. Ecco perché in molti, a Downing Street, si stanno convincendo sull' immunità di gregge preventiva. A ogni costo.

Michele Bocci per ''la Repubblica'' il 14 marzo 2020. È stupito da quello che sta succedendo in Inghilterra Walter Ricciardi, il consulente del ministero alla Salute per i rapporti con gli altri Paesi riguardo all' emergenza coronavirus.

«Hanno una delle più importanti scuole di epidemiologia del mondo eppure procedono in questo modo », dice il professore che è anche nel Comitato di esperti della Protezione civile.

Professore, che differenza c' è tra il nostro Paese e il Regno Unito?

«Il nostro governo ha semplicemente recepito le indicazioni della comunità scientifica, cosa che quello inglese non sta facendo. Eppure hanno gli epidemiologi dell' Imperial college, della London School of hygiene and tropical medicine e di una rivista come il Lancet. Sarebbero consiglieri di prim' ordine sul tema sanità pubblica che evidentemente stanno ignorando».

Perché le nostre misure di chiusura sono migliori?

«Intanto sottolineo che le stanno piano piano adottando tutti gli altri Stati, a partire da Spagna e Francia. Del resto hanno il nostro esempio da seguire, visto che siamo stati i primi a essere colpiti qui in Europa. Con un nuovo virus in circolazione l' unica cosa da fare è dilazionare e ritardare l' impatto sul sistema sanitario attraverso il contenimento, quindi il distanziamento sociale».

A cosa serve rallentare il virus?

«Intanto a non far soccombere le strutture sanitarie che devono curare i casi gravi e poi ad aspettare che si rafforzino gli strumenti di cura. Credo che vedremo prima una terapia più specifica rispetto a un vaccino. Non è assolutamente etico accettare che si ammalino le persone per creare una immunità di gregge che peraltro non è neanche sicura».

Come mai non è sicura?

«Perché si tratta di un virus nuovo e non ci sono ancora conferme scientifiche su una immunità duratura dopo la malattia. Chi è stato contagiato potrebbe anche riprenderlo per quanto si sa al momento».

Se un Paese si comporta in modo così diverso dagli altri, come può cambiare la storia dell' epidemia?

«Intanto corre il rischio di essere investito in modo più violento rispetto agli altri. E soprattutto può diventare l' area che mantiene l' infezione viva e latente, quando gli altri sono già riusciti a contenerla. Diventa così quello che nessuno vorrebbe essere considerato, l' untore del mondo».

L' Oms non può costringere a prendere provvedimenti i Paesi che non adottano misure di protezione?

«No, sono scelte sulle quali non può dire niente».

Le aree del mondo che si liberano del coronavirus, come ha fatto adesso la Cina, rischiano di essere di nuovo esposte in futuro?

«Certo, finché non si troveranno degli strumenti di cura efficaci oppure il vaccino. Se non ci sono, l' umanità resta sempre suscettibile».

Quando avranno effetto le misure prese dall' Italia?

«Ci vorrà tempo, ma la strada che abbiamo scelto è giusta e questa convinzione è rafforzata da quanto sta succedendo nella prima zona rossa della Lombardia, che in questi giorni sta vedendo i nuovi casi crollare in modo importante».

L’azzardo per bloccare il coronavirus: l’immunità di gregge. Federico Giuliani su Inside Over il 13 marzo 2020. Da un punto di vista medico la cosiddetta immunità di gregge (herd immunity) è una forma di protezione indiretta che si verifica quando una parte significativa di una popolazione è vaccinata contro una minaccia esterna, a tal punto da fornire una tutela anche a quei soggetti che non hanno sviluppato direttamente questa immunità. Alcuni Paesi del mondo stanno pensando di fare leva proprio sull’immunità di gregge per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus all’interno dei rispettivi territori. Nel caso del Covid-19 c’è tuttavia da prendere in considerazione un aspetto cruciale. Dal momento che non esiste ancora alcun vaccino da poter utilizzare contro questo agente patogeno, l’unico modo per immunizzare gli individui è fare in modo che le persone si infettino nella speranza gli organismi colpiti siano in grado di produrre validi anticorpi. L’idea, in linea teorica, sembra meritevole di essere approfondita. C’è tuttavia un interrogativo enorme: nessuno è in grado di affermare con certezza se l’infezione del nuovo coronavirus conferisce l’immunità ai pazienti colpiti. In altre parole, non sappiamo se le persone infettate possano essere contagiate di nuovo. Gli esperti spiegano infatti che l’immunità di gregge è valida e si verifica quando una fetta consistente di una certa popolazione può contare su anticorpi in grado di difenderla da una data malattia. In generale, una situazione del genere avviene con la vaccinazione. Senza antidoti, i dubbi sono tanti: bisogna ad esempio fare i conti con la mortalità del Covid-19 e la sua altissima contagiosità.

Inseguire l’immunità di gregge. Il Regno Unito sembrerebbe intenzionato a giocare il jolly dell’immunità di gregge. Il premier inglese, Boris Johnson, è stato chiaro: “Abituatevi a perdere i vostri cari”. Londra punta sugli anticorpi e spera che questi possano essere sufficienti per poter stoppare l’onda d’urto del nuovo coronavirus sul lungo periodo. Il fatto, come abbiamo spiegato, è che un organismo è in grado di produrre anticorpi a una malattia solo dopo averla contratta. La domanda è: quanti cittadini potranno resistere al Covid-19? Il ragionamento seguito dal governo britannico è più o meno il seguente: per ridurre al minimo l’impatto del nuovo coronavirus è necessario consentire al virus di passare attraverso l’intera popolazione, in modo da ottenere l’immunità di gregge. Questo dovrà però essere fatto a una velocità controllata, in modo tale da riservare cure specifiche ai soggetti con sintomi più acuti e da spedire in quarantena le persone con sintomi lievi.

Una strategia rischiosa. Due sono le considerazioni fatte dal Regno Unito. La prima: poiché non è possibile impedire al virus di diffondersi, questo rappresenterà sempre una minaccia costante e latente, almeno fino a quando non sarà disponibile un vaccino di massa. La seconda: far restare le persone in casa il più possibile non farebbe altro che bloccare il virus nelle abitazioni. Non appena i limiti alla libertà di movimento verranno sollevati, secondo questo ragionamento, il Covid-19 tornerà alla ribalta. Londra ha così scelto di limitare i danni puntando sull’immunità di gregge. Un discorso simile è stato fatto anche dai rappresentanti politici della Germania, che tuttavia potrebbe scegliere di imporre qualche misura più stringente rispetto ai britannici. In ogni caso, Patrick Vallance, una delle due massime autorità mediche del governo di Boris Johnson, ha detto chiaramente a Sky News che “il Coronavirus è una brutta malattia ma nella maggioranza dei casi ha soltanto sintomi lievi” e che ” il virus sarà stagionale e tornerebbe anche il prossimo inverno. Per questo è importante sviluppare un’immunità di gregge, per tenere sotto controllo il virus a lungo termine”. Un azzardo enorme, considerando che nel mondo la mortalità del Covid-19 oscilla tra l’1 e il 6%.

Burioni e Ricciardi: “Folle e non etica la strategia inglese sull’immunità di gregge”” – parola ai virologi, in aggiornamento. Burioni, Ricciardi, Gismondi, Bassetti e gli altri…parola ai virologi. Il Dubbio il 14 marzo 2020.

Maria Rosaria Capobianchi – Virologa dello Spallanzani. “In molte regioni la curva dell’epidemia” da nuovo coronavirus, “cominciata più tardi, è in salita”. Mentre “la crescita dei casi sta rallentando nelle regioni dove l’epidemia è cominciata, altrove invece c’è un aumento sostenuto. Potremmo raggiungere anche in altre zone gli stessi, attuali numeri di Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna in proporzione agli abitanti”. “Potrebbe essere un indizio favorevole” il fatto che “l’aumento generale dei casi”, secondo i dati dell’ultimo aggiornamento di ieri, sia “in effetti inferiore a quello del giorno precedente. Ma tanti fattori vanno considerati. L’apparente rallentamento nelle regioni del Nord epicentro dell’epidemia può essere un segnale incoraggiante ma, frena Capobianchi, “i dati hanno bisogno di consolidarsi nel tempo”. Quanto al virus Sars-Cov-2, “il confronto tra le sequenze dei genomi pubblicate sui database internazionali, a partire dal 10 gennaio, quando i ricercatori cinesi di Wuhan hanno reso pubblica la prima sequenza, non mostra cambiamenti sostanziali tali da rendere il virus diverso e quindi non più riconoscibile dal sistema diagnostico”. Il patogeno, aggiunge la virologa, ha “in comune l’80% del genoma” con il virus che ha causato in passato l’epidemia di Sars. Quel virus da un lato ha “avuto una mortalità maggiore”, circa il 10%, ma dall’altro “si trasmetteva meno subdolamente e non dava luogo a infezioni con sintomi lievi. Dunque le catene di trasmissione della Sars si potevano individuare e bloccare”, ed “era più facile arrestare la diffusione”.

Roberto Burioni – Virologo: “Immunità di gregge all’inglese è pura fantascienza”. “I virus umani, in generale, trovano un’equilibrio. Non infettano mai tutte le persone, rimane sempre qualcuno immune, finché l’infezione stessa non trova ulteriori soggetti, ovvero i nuovi nati, per alimentare il contagio. Cosa faceva il morbillo quando non c’era il vaccino? Infettava il 90 per cento dei bambini durante le epidemie, che si avvicendavano una volta ogni due o tre anni, per poi tra un anno e l’altro trasmettere a basso livello endemico il contagio su quei nuovi nati che, una volta cresciuti, continuavano a loro volta ad alimentare il ciclo epidemico. Per tale motivo, più che un boomerang, parlare oggi di immunità di gregge per il coronavirus è pura fantascienza”, ha detto Burioni a  Linkiesta.

Walter Ricciardi- Oms: “La strategia inglese di far ammalare le persone non è etica”.  “Il nostro governo ha semplicemente recepito le indicazioni della comunità scientifica, cosa che quello inglese non sta facendo. Eppure hanno gli epidemiologi dell’Imperial college, della London School of hygiene and tropical medicine e di una rivista come il Lancet. Sarebbero consiglieri di prim’ordine sul tema sanità pubblica che evidentemente stanno ignorando”. Ricciardi ha osservato che le misure italiane “le stanno piano piano adottando tutti gli altri Stati, a partire da Spagna e Francia”. “Del resto hanno il nostro esempio da seguire, visto che siamo stati i primi a essere colpiti qui in Europa. Con un nuovo virus in circolazione l’unica cosa da fare è dilazionare e ritardare l’impatto sul sistema sanitario attraverso il contenimento, quindi il distanziamento sociale”, ha aggiunto. “Non è assolutamente etico accettare che si ammalino le persone per creare una immunità di gregge che peraltro non è neanche sicura”, ha aggiunto alludendo all’approccio adottato finora dalla Gran Bretagna. Non è sicura “perché si tratta di un virus nuovo e non ci sono ancora conferme scientifiche su una immunità duratura dopo la malattia. Chi è stato contagiato potrebbe anche riprenderlo per quanto si sa al momento”.

Maria Rita Gismondo – Virologa ospedale Sacco. “Sappiamo tutti che questo virus è diffuso nella popolazione molto più rispetto a quello che stiamo vedendo. Tra poco il 60-70% della popolazione risulterà  positivo. Ma non dobbiamo preoccuparci. Con l’aumento dei numeri ci renderemo conto che questo virus è meno letale di quanto possiamo pensare adesso”. “Questo virus, nella gran parte dei casi, o è silente o ci dà sintomi simil influenzali, nel 90% dei casi”, continua, “C’è un 10% di persone che ha bisogno di essere ricoverato in ospedale. Borrelli ci ha detto più volte che le fasce più toccate sono anziani con 1 o 4 patologie. Il virus dunque è stato un aggravante. Ad oggi i dati di morte diretta per coronavirus sono molto scarsi, si parla di qualche unità”. La virologa parla anche dei giovani in terapia intensiva: “La medicina non è mai una scienza esatta, quindi non significa che non ci possano esserci casi di qualche giovane. Dobbiamo però vedere la curva, dobbiamo parlare della maggior parte dei casi. Dobbiamo andare a vedere se ci sono altre malattie. Oggi l’età media dei deceduti è 81-83 anni, i guariti sono quasi il doppio delle persone che vengono ricoverate in terapia intensiva. Io non dico che la situazione sia rosea”.

Roberto Burioni: “I positivi asintomatici sono molti di più. Stare a casa è unica soluzione”. “Concordo con quello che dice il professor Galli e molti altri colleghi, è realistico pensare che ci siano moltissimi positivi ignari di esserlo, e ognuno può inconsapevolmente contagiare”. Lo sottolinea il virologo Roberto Burioni, ribadendo che “di fronte a questa situazione c’è una sola soluzione: stare a casa. I dati di Codogno dicono che un periodo congruo di isolamento funziona, cerchiamo di tenere duro e fare altrettanto”. Quanto al farmaco antivirale remdesivir, su cui partirà la sperimentazione anche in Italia, secondo Burioni “abbiamo solo dati preliminari, quindi è presto per fare valutazioni. Diciamo che se si trovasse un antivirale già pronto, come il remdesivir ma non solo, che funziona anche contro il coronavirus sarebbe una bella fortuna, ma siamo solo all’inizio. Questi test sono ottimi punti di partenza, per l’arrivo ci vorrà tempo. Ma vorrei anche dire – conclude – visto che per anni mi sono impegnato nella battaglia per la cultura vaccinale contro chi considerava le case farmaceutiche alla stregua di mercanti d’armi, che Roche il suo farmaco lo mette a disposizione gratuitamente. Mi pare una cosa da sottolineare”.

Walter Riccardi – Oms: “Vinceremo, ma sarà una lunga battaglia”. “I virus nella storia hanno sempre perso. Vinceremo sicuramente, ma sarà battaglia di trincea non una guerra lampo, che si concluderà verso giugno”. Questa la possibile fine dell’emergenza covid-19 in Italia secondo il consigliere Oms e consulente del governo italiano Walter Ricciardi. “Noi non abbiamo metri di paragone se non quello con la Sars che era un virus simile, meno contagioso e la situazione si risolse verso maggio-giugno”, afferma durante un intervento mattutino in una trasmissione televisiva. “Questo è più contagioso quindi è probabile che almeno arriveremo fino a quei mesi e forse un po’ oltre”. Ricciardi definisce “per ora necessarie e sufficienti” le misure messe in campo dal governo, ricordando che Wuhan si bloccò totalmente sì, “ma è una provincia con tutt’attorno un paese che continuava ad andare avanti”.

Fabrizio Pregliasco, virolgo Università di Milano:  “Picco a fine marzo”. “E’ difficile fare previsioni, ma le proiezioni e gli scenari sono importanti per pianificare al meglio gli interventi. Ebbene, sulla base dell’andamento del coronavirus in Cina e dei dati italiani, possiamo stimare uno scenario con picco a fine marzo e la fine del problema in Italia tra maggio e giugno“. E’ lo scenario tratteggiato all’AdnKronos Salute dal virologo dell’università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco, che da anni monitora l’andamento della stagione influenzale nel nostro Paese. Un quadro un po’ diverso da quello tratteggiato da uno studio della Ragioneria generale, e anticipato dalla stampa, che fisserebbe il picco al 16-17 marzo e per fine aprile l’uscita dal tunnel. “Nel caso di Covid-19 – avverte però Pregliasco – si tratta di un virus nuovo, ma l’esperienza cinese e quello che sta accadendo nelle ex zone rosse può dirci molto. Tra gli elementi che possono influire su questo scenario” per l’esperto “c’è l’incognita rappresentata dal resto d’Europa e dalla Gran Bretagna. Stiamo vedendo mancanza di coordinamento e azioni disomogenee, che possono rovinare quello che si sta facendo in Italia”.

Massimo Galli, primario infettivologo del Sacco di Milano: “Tampone anche agli asintomatici”. “La politica del tampone solo a pazienti sintomatici potrebbe rivelarsi insufficiente”, e “la cartina di tornasole è il numero dei morti: 6,6%, più alto rispetto all’attuale 4,5% di Wuhan. Bisogna risalire a tutti coloro che sono stati in contatto con le persone malate, metterli in quarantena, seguire la comparsa o meno dei sintomi dell’infezione. L’impressione è che vere indagini epidemiologiche su tutti i contatti reali dei malati non vengano fatte”. Così Massimo Galli, primario infettivologo del Sacco di Milano, in un’intervista al Messaggero in cui sottolinea: “Il distanziamento sociale è fondamentale, ma il tracciamento è importante per uscirne prima”. Per Galli “c’è un po’ di confusione nelle indicazioni e sarebbe necessaria maggiore chiarezza a livello di articolazioni locali: quali vengono ritenute attività indispensabili tali da giustificare gli spostamenti? Inviterei chi di dovere a precisarlo alla svelta, in questo momento abbiamo bisogno di chiarezza e di unità. Le indicazioni generali vanno bene. La chiusura dei negozi, di bar e ristoranti è decisamente importante, ma la definizione delle attività che possono essere continuate va subito specificata”.

Coronavirus, Mantovani: «L’immunità di gregge è da irresponsabili: l’Italia deve essere fiera delle sue scelte coraggiose». Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Professor Mantovani, la Gran Bretagna ha scelto di non fare nulla contro il coronavirus, puntando sull’immunità di gregge naturale. Che idea si è fatto? «Ho un legame molto forte con la Gran Bretagna dove ho una cattedra e dove mio figlio vive con la sua famiglia. È socialmente difficile accettare di avere vittime in famiglia, ma fa parte del loro modo di affrontare le sfide più difficili. Fatta questa premessa sono sinceramente preoccupato da questa scelta e la trovo irresponsabile».

È davvero possibile raggiungere l’immunità lasciando correre il virus?

«Non amo molto il termine immunità di gregge, preferisco parlare di immunità di comunità, dove è insito il concetto di solidarietà. Non ritengo sia pensabile costruire l’immunità della comunità lasciando correre il virus, è da incoscienti. Bisogna ragionare sul prezzo di una immunità della comunità ottenuta non con un vaccino, ma esponendo come è stato detto, il 60% della popolazione britannica al virus. Ammettiamo, in modo forse ottimistico, una mortalità del 2%. Su un milione di persone vuol dire 20 mila morti; su 10 milioni, 200 mila morti. Ma facciamo un conto ancora più drammatico. Il 10% dei malati ha bisogno di terapia intensiva e respirazione assistita: su un milione di persone servirà a 100 mila pazienti. Nessun sistema sanitario al mondo è in grado di far fronte a un’emergenza del genere. Ci sarebbero troppe vittime e troppi pazienti non potrebbero essere curati».

Si profilano tre scenari: l’Italia blindata, la Gran Bretagna immobile, la Germania una via di mezzo. Come mai scelte così diverse?

«Ho l’impressione che in generale nessuno in Europa abbia imparato la lezione della Lombardia, che è una delle aree più ricche d’Europa, con uno dei sistemi sanitari più all’avanguardia. Gli altri Paesi stanno sottovalutando la portata di questa epidemia, come era già successo con la Cina. Farlo due volte mi sembra grave».

La Gran Bretagna sarà davvero impreparata?

«Se a Londra la metropolitana è piena, per quanto ho potuto sapere le strutture sanitarie e le università si stanno preparando all’arrivo dell’epidemia. La Gran Bretagna ha scelto una strategia di contenimento a fasi perché valuta di non poter sostenere misure draconiane nel lungo periodo».

L’Italia prima o poi sarà «liberata», ma la popolazione a quel punto non sarà immune. Rischiamo di ripartire da capo?

«Noi adesso dobbiamo risolvere il problema in casa. Queste domande ce le dobbiamo porre dopo. Se non fermiamo il più possibile la circolazione del virus al Nord e non lo blocchiamo sul nascere nelle regioni del Centro-Sud, più fragili, rischiamo di andare incontro a una situazione catastrofica».

Come si costruisce l’immunità?

«L’immunità di comunità si costruisce in due modi: con il vaccino o in qualche misura in modo spontaneo, come succede con l’influenza (per la quale esiste comunque un vaccino fatto da circa il 40% degli italiani). Non è una protezione totale perché i virus possono cambiare a ogni stagione e vorremmo un vaccino più efficace, ad ogni modo buona parte della popolazione è protetta in una certa misura e questo serve ad attutirne l’impatto. Ma non siamo nella stessa situazione con Sars-Cov 2 perché è un nemico ignoto, ben più aggressivo di un’influenza: non sappiamo quasi nulla di lui».

Ma come arriverà l’immunità al coronavirus?

«Alla fine l’immunità ce la darà il vaccino, ma noi dobbiamo guadagnare tempo per poterci arrivare. Anche l’Italia sta dando il suo contributo. Ricordiamoci che a Pomezia è nato il vaccino contro Ebola e il nostro Rino Rappuoli ha inventato il modo di creare il vaccino partendo dal genoma, senza dover tenere “l’orrenda cosa” in mano».

L’Italia sta facendo bene?

«Io sono profondamente convinto che dobbiamo essere fieri di aver scelto queste misure restrittive. Abbiamo avuto il coraggio, in un sistema democratico, di prendere misure draconiane. Nella storia non ci sono precedenti di Paesi che si autodefiniscono zona rossa per proteggere le parti più deboli e costruire una prima trincea per gli altri Stati. Siamo un Paese all’avanguardia e dobbiamo esserne orgogliosi».

Alberto Mantovani, 71 anni, è un immunologo di fama internazionale. È il direttore scientifico dell’Humanitas di Rozzano, docente all’Humanitas University

Giuliano Ferrara per ''Il Foglio'' il 14 marzo 2020. Una corrispondenza di Antonello Guerrera per Repubblica e una di Mark Landler per il Times, oltre alla visione della conferenza stampa di Boris Johnson e dei suoi consiglieri per la sanità Chris Whitty e per la scienza Patrick Vallance, rilanciano il tema della "grande scrematura" da noi affacciato una decina di giorni fa. Charles Darwin o il suo profilo caricaturale sogghigna, con la sua bella barba, i suoi complessi religiosi e fideisti, la sua teoria dell' evoluzione e della selezione. Certo, uno fa di tutto per evitare la morte delle persone, certo, ma il ricambio delle generazioni è il rinnovamento del mondo via sostituzione dei vecchi con i meno vecchi. Via, queste cose si sanno. Ci eravamo domandati qui poco fa, girando la domanda al professor Francesco Giavazzi: sarebbe migliore o comunque senza alternative civilmente superiori un mondo scremato di chi non ce la fa a resistere a una pandemia di polmonite che strozza le vie respiratorie con la violenza del coronavirus? La risposta, dall' alto del cinismo di gente implicata direttamente nel ricambio per via dell' età, era stata un agghiacciante e tecnico: sì. I costi della vecchiaia sono altissimi, quasi insopportabili, e non sarebbe la prima volta che civilizzazione e natura si trovano alleate in una selezione demografica spinta. Ora in Europa e in occidente un paio di conti non tornano. L' Italia, paese del melodramma e di una radicata quanto invisibile cattolicità, ha chiuso i battenti per impedire l' estensione del contagio, e chissenefrega dell' economia, del profitto, delle relazioni internazionali, non si balla sul Titanic, tutto va sulle spalle dello stato che impone la quarantena. Ma è sola. La Francia oscilla, paese latino cattolico e protestante, chiude scuole e università ma non rinvia come noi le elezioni locali (noi anche un referendum costituzionale). Macron offre un set di prescrizioni stringenti, ma ancora niente quarantena, teatri aperti e il resto socchiuso. Chissà quanto durerà ma per adesso è così. In Germania, paese da cui trapela pochissimo della realtà del contagio, in certo senso sembra la Cina del mese di dicembre o di gennaio 2020, la Merkel, che non è una passante, dice con linguaggio piano e medio, il suo, che il 60-70 per cento dei tedeschi quest' influenza prima o poi dovrà prendersela. Ma la strategia anticontagio è lasciata impregiudicata, non si capisce ancora bene che cosa faranno. Entra in gioco la Gran Bretagna. Ha appena riacquistato quella che considera la sua indipendenza. Ha ripreso la sua vocazione transatlantica e imperiale, multilaterale, marittima. Ha un primo ministro disinibito con una maggioranza di un' ottantina di deputati, il partito Tory avendo prevalso su un imbecille vecchio socialista che ha portato il Labour alla peggiore sconfitta dal 1935. Sul piano politico e d' immagine, la preparazione di questo grande paese, l' ora più buia eccetera, consiste in un appello del primo ministro di Sua Maestà: abituatevi all' idea che perderete prima del tempo alcuni dei vostri cari. Il che risuona come un sì alla "grande scrematura", e si noti l'accenno all' anticipo dei tempi (vogliamo mica vivere tutti fino a ottanta o novant' anni?). Sul piano scientifico, e sono molto curioso di sapere se questa intuizione empirica ha basi vere nella virologia e nell' epidemiologia all' ora del caro corona, il consigliere Vallance dice che se il 60 per cento dei 69 milioni di britannici (si notino le percentuali merkeliane) si becca l' influenza polmonitica, allora ci sarà l' immunità di gregge e il problema sarà per lo più risolto. Quattro, cinquecentomila morti in questo quadro non sono un problema, doloroso dirlo, ma la soluzione. Nel frattempo, salvo consigliare chi è malato di starsene a casa e vedere come va, salvo sconsigliare gite scolastiche e altri assembramenti da crocieristi, si esclude rigorosamente la chiusura delle scuole e delle Università e la paralisi della società commerciale finanziaria e produttiva (bè, per gli advisor di BoJo tutto questo sarebbe solo un palliativo). Bisognerebbe, pare di capire, puntare su una chiusura di un anno e mezzo, almeno, con conseguenze perniciose per il paese della Brexit in trattativa sul suo destino e con un futuro indipendente in costruzione, non se ne parla. Almeno per adesso. Ma chiudere per riaprire dopo aprile, che per Eliot era il più crudele dei mesi, è una bizzarria melodrammatica in tutto degna degli italiani. Ecco. Senza moralismi, anche magari evitando il burlesque del macabro, io vorrei veramente capire se sia vero che l' immunità di gregge il corona la dà. Poi si vedrebbe come comportarsi. O se sia consigliabile resistere fino a medicamento o vaccino disponibile, sacrificando quello che nel Regno Unito finora non è ritenuto disponibile. Mi rendo conto di non rendere un servizio civile opportuno alla curva demografica auspicabile, ma insomma, la "grande scrematura" può ben essere un po' più graduale. O no?

Boris Johnson avrebbe molto da imparare dalla storia di Enea e Anchise. Angela Azzaro  de Il Riformista il 17 Marzo 2020. Ho imparato a non giudicare le frasi dei politici per come vengono riportate dai media. Anche la frase più banale viene enfatizzata, spesso strumentalizzata, allo scopo di creare polemica, fare scalpore, ottenere più clic. E ho anche imparato a separare ciò che viene detto da chi lo dice: a non farne insomma una questione personale, moralistica. Anche se davanti hai il tuo avversario politico, è importante contestualizzare, non offendere, non fare la caricatura di chi hai davanti. La sinistra, da cui provengo, è piena zeppa di casi simili e sta pagando un prezzo molto alto. Eppure sentendo la frase di Boris Johnson sulle persone che il coronavirus si porterà via (“Dovete abituarvi alla morte dei vostri cari”) mi sono più che indignata, veramente incazzata. Vorrei capire perché un leader politico, a fronte di una pandemia che sta stravolgendo la vita delle persone in tutto il mondo, affermi che ci si deve abituare alla morte dei propri cari, come se nulla fosse. Come se non ci fosse spazio per il dolore, il lutto, la paura, l’attaccamento, il senso di colpa. Come se non fossimo qui, a parlare dal confine, forse labile ma ancora esistente, della cultura occidentale, anzi della cultura tout court. Del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Quella cultura che giustamente hanno ricordato in molti si fonda, tra gli altri miti, sull’immagine di Enea, che in fuga da Troia in fiamme, scappa con il vecchio Anchise, il padre, sulle spalle. È un’immagine potente, dolente, commovente. Ma davvero ce ne vogliamo e possiamo disfare? Sì, ecco, voglio capire perché. Perché a un certo punto della Storia, superate due guerre mondiali, mentre siamo ancora lì a fare i conti con l’orrore dei campi di sterminio, un leader politico molto popolare arrivi a dire questa cosa. Che cosa è successo? Che cosa ci è successo? Che cosa sta accadendo nel nostro mondo? Il governo inglese ha deciso di prendere una strada diversa dagli altri Paesi. Non chiuderà tutto, ma deciderà a singhiozzo quali zone o quali attività mettere in pausa. Non parlano più di “immunità di gregge” come avevano fatto all’inizio, ma l’obiettivo è quello di far contagiare più persone possibili e sacrificare chi non ce la fa. Non voglio neanche entrare nel merito di questa scelta. Ma ragionare sulla narrazione che Johnson ha costruito: una sorta di darwinismo applicato alla società e alla specie. È una forma di determinismo biologico (resiste chi resiste) che non solo è deprecabile di per sé, ma rappresenta l’esatto opposto del mondo che abbiamo creato, dove tutto, ma davvero TUTTO, si regge su una dinamica opposta. Viviamo più a lungo perché abbiamo scelto di investire nella scienza, nasciamo perché qualcuno sceglie per noi, viviamo in un modo piuttosto che in un altro perché scegliamo, per esempio investendo nella tecnologia. Anche quando subiamo una ingiustizia, c’è qualcuno o qualche istituzione che sceglie di perpetrarla. Siamo quel che siamo, umani, uomini e donne, perché abbiamo affrontato il caso e abbiamo costruito un cosmo, dando ordine a ciò che ci ricorda. Per molti questo cosmo è frutto anche dell’intervento divino, di qualunque dio esso sia. Ma se c’è una cosa che ci distingue dagli altri animali, è la possibilità di scegliere. Certo, mi si può dire che anche Johnson sta scegliendo. Ma è una scelta in contrasto con quanto di più importante abbiamo costruito: andare contro il cosiddetto stato di natura, darci delle regole, tra cui quella fondante è il rispetto della vita umana. In questi giorni si continua a ripetere che questo frangente è uno spartiacque nella storia dell’umanità. Vedremo. Io questo spartiacque lo ho visto iniziare da molto prima, da quando ci sono state alcune persone che hanno protestato perché l’allora premier Matteo Renzi aveva investito del denaro per recuperare i corpi del più grande naufragio del Mediterraneo. Era il 2015, a capo della missione c’era Cristina Cattaneo che ha identificato, per quel che ha potuto, le persone ritrovate in fondo al mare. Si voleva dare loro sepoltura. Un gesto che lega il presente al passato, al cuore stesso della nostra civiltà. Dare sepoltura a chi muore. Eppure in tanti protestarono. Erano migranti, erano neri, erano stranieri. Erano nulla. Lì ho visto lo spartiacque, lì ho intravisto il confine da non superare, lì ho capito che stiamo sull’orlo del baratro. Non oggi, ma già ieri davanti a quei corpi che perdevano valore, a quelle morti che non potevano avere un nome e un cognome, ho visto il rischio di una umanità che perde i suoi miti, i suoi valori, che dà un calcio nei fondelli alla sua Storia. Oggi, è vero, è un frangente complicatissimo da cui non sappiamo come usciremo, ma ancora una volta siamo chiamati a scegliere. E dobbiamo capire se davvero ci interessa un mondo che non preservi quei valori che ci hanno guidato finora, anche nelle differenze, permettendoci di stare insieme. Non credo che senza alcuni principi, chiamiamoli anche freudianamente tabù, potremmo andare avanti. Perché se si accetta che la morte non è sempre da contrastare, da sconfiggere, anche quando si sa che è impossibile, ci troveremo davanti solo macerie. Certo, si può obiettare che forse quello che dice Johnson è inevitabile, che il suo calcolo è realistico. Ma le parole, come i miti, sono importanti. Mi viene in mente Primo Levi. Per lui le parole erano così importanti, da chiedersi se era il caso, attraverso di loro, di raccontare Auschwitz. Sottolineava il loro valore in questo caso, per difetto. Ma così riconosceva alle parole un valore enorme, incredibile. Ogni singola sillaba la soppesava, la sentiva dentro di sé, anche misurandone lo scarto con l’orrore di ciò che aveva visto. Sì, le parole sono importanti. Possono liberare o condannare, possono chiudere o aprire. Quelle di Boris Johnson non avremmo mai volute sentirle.

Le parole di Johnson, la disonestà dei nostri fake media e il vero piano Uk contro il coronavirus. Daniele Meloni il 14 Marzo 2020 su Atlantico Quotidiano. Ci risiamo. Dopo il Johnson ignorante, quello che mette i piedi sul tavolo dell’Eliseo davanti a Macron – qualcuno ha davvero creduto non fosse uno sketch – e quello, ovviamente, razzista, siamo a una nuova puntata della sagra anti-Boris, quella che vede il premier britannico nella parte del Populista Senza Cuore (PSC) che vorrebbe addirittura che i suoi concittadini si “abituassero a vedere i loro parenti morire”. Peccato che la frase incriminata sia stata ben diversa: “More families will lose their loved ones”, “altre famiglie perderanno i loro cari”. Non, si abituino. Ma d’altronde, può il premier di una nazione come la Gran Bretagna auspicare un genocidio della sua stessa popolazione? In molti, specie sulla stampa sino-eurofila, stanno criticando la posizione assunta dal Governo Johnson nella lotta al coronavirus come se fossero tutti virologi, immunologi o avessero le risposte esatte alla drammatica crisi sanitaria in tasca. Alcuni accusano anche il premier di volere occultare la realtà, anche se allo stesso tempo lo accusano di essere troppo brutale nel comunicarla ai cittadini britannici. Il Regno Unito si sta comportando in modo diverso rispetto all’Italia e ad altri Paesi europei, vero. Nessuno può dire con certezza ora se le misure prese da noi o quelle che ha preso – e prenderà – l’Inghilterra porteranno a un contenimento dei contagi, dei decessi e dei guariti da Covid-19. È lecito sperare che in entrambi i casi le cose vadano per il meglio. Nella conferenza stampa di giovedì Johnson è stato affiancato dallo Scientific Advisor del governo, Sir Patrick Vallance, che ha esposto le motivazioni della strategia del Regno Unito nella lotta al virus. Siamo entrati nella seconda fase, definita delay, dopo che la prima denominata containment si è ritenuta superata. La fase delay prevede misure per ritardare il picco del virus – previsto in Uk tra 10/14 settimane – e l’imposizione di 7 giorni di auto-quarantena per tutti gli individui che soffrono di tosse, leggera febbre e raffreddore. Sono allo studio misure di restrizione dei movimenti e delle libertà personali come la chiusura di scuole, atenei e mezzi di trasporto, ma al momento il consiglio degli scienziati è quello di lasciare tutto così com’è. Critiche nei confronti di questo approccio – per alcuni troppo soft – sono state espresse anche all’interno dello stesso Parliamentary Party conservatore, con l’ex sfidante di Bojo alla leadership del partito, Jeremy Hunt, che ha manifestato la sua preoccupazione per la situazione. D’altronde, in democrazia funziona così. C’è una maggioranza e ci sono le opposizioni, e spesso anche dissonanze all’interno della stessa maggioranza. In questi giorni stiamo assistendo alla beatificazione della Cina e del modello cinese in un curioso ribaltamento della realtà reso possibile solamente grazie al Minculpop del governo che preferisce fare passare l’Italia come untore globale del coronavirus piuttosto che accusare Xi e compagnia comunisteggiante di poca trasparenza nella gestione e nella comunicazione dell’emergenza; che preferisce additare Johnson come Tiranno Senza Cuore della Perfida Albione – terra ribelle all’Unione più sgangherata che la storia ricordi e quindi da punire e sputtanare sotto ogni punto di vista – e non accorgersi che, al momento, purtroppo, a morire a migliaia sono i nostri cari (fortunatamente ci sono solo 10 vittime nel Regno Unito per il coronavirus); che preferisce, senza alcuna certezza, definire folle le idee non tanto di Johnson a cui sono attribuite, ma di un comitato di esperti medico-scientifici che sta affiancando il primo ministro in questa crisi. Johnson dice che non si tratta di una normal flu e tutti scrivono che la tratta come una normale influenza; Johnson impone 7 giorni di quarantena per chi è raffreddato e tossisce, e i media scrivono che la quarantena per il coronavirus è di 14 giorni (infatti: per il coronavirus, non per chi ha un semplice raffreddore). I professionisti della mistificazione non vedono l’ora di gridare Dio stramaledica gli inglesi! ma alla fine Dio – o chi ne fa le veci – dovrebbe stramaledire i propalatori di fake news: nei casi migliori mentono sapendo di mentire. In quelli peggiori finiscono per credere alle loro stesse bugie.

Il virologo Giulio Tarro: "Vi spiego perché l'immunità di gregge ha una sua logica". Il virologo due volte candidato al Premio Nobel racconta al Giornale.it perché la strategia inglese ha una spiegazione logica. Roberta Damiata, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. Premiato in America come “miglior virologo dell’anno” nel 2018, il prof. Giulio Tarro è forse uno dei virologi più importanti al mondo, candidato al Nobel per la Medicina nel 2015, già allievo del padre del vaccino contro la poliomelite Albert Sabin, fu lui a isolare il vibrione del colera quando scoppiò l’epidemia a Napoli. Quarant'anni fa inoltre, "sconfisse" il cosiddetto "male oscuro di Napoli", il virus respiratorio "sincinziale" che provocava un'elevata mortalità nei bimbi da zero a due anni affetti da bronchiolite . Lo abbiamo intervistato per avere delucidazioni sull’immunità di gregge, in merito alle ultime dichiarazioni del premier inglese Boris Johnson di portare ad infettare il 60% della popolazione inglese in modo fargli sviluppare anticorpi e quindi renderli immuni dal virus. Questa ipotesi ha scatenato enormi polemiche nella comunità mondiale, che ha preso questo come un atto irresponsabile e criminale. Il prof. Tarro ha una sua teoria in merito, se vogliamo un po’ fuori dal coro, a cui è comunque importante dar voce in questo periodo di poche certezze dove si va avanti a braccio vista la poca conoscenza del Covid-19.

Professore, può spiegarci chiaramente che cosa è l’”immunità di gregge”?

“E’ quella che normalmente si cerca di ottenere con una vaccinazione verso un determinato agente che può essere un virus o un batterio. Attraverso questa si riesce ad ottenere il 95% della risposta immunologica delle varie persone, per questo si parla di "gregge”. Il che vuol dire arrivare ad un numero che ci rende abbastanza tranquilli sul fatto che quell’agente non circolerà più, perché troverà gente vaccinata e quindi verrà bloccato. L’altro 5% che rimane, è legato o a situazioni in cui non vengono consigliate le vaccinazioni perché sono persone in stato di immunodepressione, quindi non avrebbero una risposta valida, oppure potrebbero avere motivi ideologici o di altra natura per cui non vogliono essere vaccinati”.

Come mai secondo lei Boris Johnson ha scelto questa opzione?

“Ovviamente nel caso del Covid-19 non stiamo parlando di vaccinazione, credo che però il primo ministro inglese non avrebbe mai preso una decisione così se non avesse consultato chi di dovere. Sono certo che alle spalle potrebbe esserci l’Università di Cambridge o quella di Londra, o gente molto valida sul campo che pensa, viste le caratteristiche del Coronavirus, che proteggendo le persone che potrebbero risentirne di più come gli anziani o quelli affetti da altre malattie, di far circolare liberamente il virus, non usando quindi le misure che stiamo attuando noi come il rigore e l’isolamento, per cercare di debellare quella che tutto sommato è una malattia che al 96% si risolve senza mortalità. Quindi in base a questo noi avremmo un’immunità di tutta la popolazione”.

Sorge però un dubbio, se il resto del mondo sta applicando, chi prima a o chi dopo, misure di isolamento, questa voce “fuori dal coro” dell’Inghilterra non potrebbe essere diciamo “azzardata”?

“C'è una logica in questo, Non bisogna fossilizzarsi su certe situazioni o perché sono di routine o perché sembrano più semplici, oppure perché fino ad allora si è fatto in quel modo. E' anche bene avere la mente che possa spaziare. Colombo ha scoperto l'America perché ha deciso che magari c'erano le Indie da quel lato”.

Non è un po' minimizzare? Già in questo caso noi abbiamo gli ospedali al collasso e un’alta mortalità. La Lombardia è già in ginocchio, e si teme per il sud del nostro paese forse non in grado di poter contenere un’epidemia simile.

“Diciamo pure che non lottiamo contro l’Ebola, per fare un esempio, o contro l’HIV prima che ci fosse la terapia. Lottiamo contro una malattia che quasi nel 96% dei casi non è mortale. Il problema è il rimanente 4% che si è scatenato contemporaneamente mettendo in difficoltà anche gli ospedali della Lombardia che sono il nostro fiore all’occhiello. Ma già questi, nell’inverno 2018, a causa di un’epidemia influenzale erano già sovraccarichi. Questo grazie ai tagli alla sanità compiuti negli anni. Di questo dovrebbero rendere conto anche secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, chi dal ’97 al 2015 ha dimezzato tutti i centri di terapia intensiva. E vedo che oggi non c’è tempestività per riparare a quegli errori. E’ una cosa molto seria. Mi chiedo, perché a gennaio quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi hanno subito raddoppiato la possibilità di avere questi centri di terapia intensiva, e noi no? Tutto questo porta poi, cosa che io non posso accettare, che si arrivi a scegliere tra un ragazzo di venti anni e uno di settanta. Noi, abbiamo insegnato la cultura a tutti e ora per i motivi detti sopra, arriviamo a ragionare così”.

Se l'Inghilterra dovesse attuare questo metodo, tutti gli altri paesi che invece sono stati in isolamento non rischierebbero invece di veder accesi nuovi focolai?

"Presumo di no, perché se il virus circola produrrà un'infezione e l'infezione porterà anche la risposta dell'organismo con degli anticorpi, quindi questi saranno soggetti che saranno immuni. Il 95% degli Inglesi sarà quindi protetta dal Coronavirus".

Rispetto agli inizi dell’epidemia c’è stato un abbassamento di età e si è passati da persone molto anziane con patologie pregresse a persone anche relativamente giovani c’è una spiegazione?

“Questa famosa fascia di età si basa a secondo delle condizioni fisiche. Abbiamo visto anche un altro aspetto, quello dei 'cofattori' di questa situazione che facilitano il virus. Vogliamo vedere ad esempio chi fuma e a chi no? Chi vive in un ambiente inquinato e così via? Le età sono relative a questo punto”.

Come mai c’è tanta confusione e pareri così discordanti? Forse per la poca conoscenza che si ha del virus?

“Posso permettermi di dire che ho esperienza nel campo della virologia e non tutti quelli che aprono bocca davanti ad un microfono hanno competenze per farlo, e quindi per dare informazioni utili a tutti”.

Affidandoci sua esperienza, ci spiega allora come si sta comportando questo virus?

“Sia il virus cinese, italiano, che quello che si è modificato, ha fatto ormai il suo passaggi dall'animale all'uomo, e quindi c'è questa diffusione interumana che è quella che assistiamo in qualsiasi altro virus di un'altra famiglia come quello influenzale, dall'aviaria alla suina, che ha circolato in questo secolo, o nel secolo scorso come la Spagnola o L’Asiatica. E' un fatto stagionale perché poi la gente produce gli anticorpi che servono a chi si ammala di questa influenza. Questa cosa è stata notata per la prima volta con l’Asiatica. Chi ha avuto l’influenza nel 1890, nel 1956 non si ammalava. E parliamo di nonni quindi”.

Come popolazione noi siamo da sempre bombardati dagli antibiotici, sia per l’uso sconsiderato che se ne fa, sia per il fatto che li assumiamo con il cibo, carne, omogenizzati etc. Questo ci ha indebolito come specie?

“Diciamo che si prevede che la resistenza agli antibiotici diventi la prima causa di mortalità. Ecco perché c’è una ricerca costante di nuovi ceppi e nuove forme per evitare questa resistenza. Sarebbe utile e importante non abusarne, e utilizzarli solo quando servono. Altresì sarebbe ancora più importante non usarli come anabolizzanti nei polli e nei maiali”.

Si dice che i virus non spariscono e rimangono in natura, un po' come se andassero in letargo per poi riuscire nuovamente…

“Questo riguarda solo determinate famiglie come quelle degli Herpes virus dove il virus si latinizza e può rimanere per tutta la vita silente, salvo poi ricomparire magari sotto forma di 'Fuoco di Sant’Antonio'. Per altri virus però, c’è la possibilità una volta sviluppati gli anticorpi, non soltanto di non averlo più, ma anche in caso di ‘riavvicinamento’ o ‘richiamo’ che è ancora più potente, non avrà più la capacità di infettare. Il problema è per chi non ha gli anticorpi, quindi per chi non si ammala, oppure ha uno stato di deficit immunitario, ma questa è un'altra cosa. Però, gli stessi anticorpi dei soggetti guariti, possono essere utilizzati a loro volta come si fa con le glammaglobuline per il tetano, per creare anticorpi”.

Cosa cambia con la dichiarazione di Pandemia?

“Vorrei premettere che già da tempo il virus era da considerarsi come una pandemia, perché da tempo era in tutti i continenti che hanno avuto una fioritura di polmoniti atipiche. Detto questo, la situazione d’emergenza autorizza la messa in commercio di un vaccino senza i cosiddetti “clinical trials”, ossia senza la sperimentazione”.

Lei che conosce così bene le caratteristiche dei virus sui bambini, sa spiegarci perché lo prendono in una forma più lieve?

“I bambini fino a sei mesi sono protetti dagli anticorpi materni. Successivamente hanno come dire l'esperienza di incontrare un microbo per volta, verso il cui hanno una risposta immunologica. E’ la natura che con tutta l'evoluzione che c'è stata che ci fa produrre gli anticorpi del sistema immunitario. Loro hanno anche “l’immunità innata”, che è indipendente dalla formazione degli anticorpi, per questo in un certo senso, non hanno i problemi che hanno gli adulti, e sono in grado tutto sommato di crescere e soprattutto di sopravvivere”.

·         L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

Melania Rizzoli a Dritto e rovescio: "In Lombardia non ho mai visto un cinese ricoverato o in farmacia, c'è qualcosa che non va". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. "Non ho visto mai un paziente cinese ricoverato in un nostro reparto, tra migliaia di pazienti di tutte le nazionalità". Melania Rizzoli, in collegamento con Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio, avanza un sospetto sulla pandemia in Lombardia: "Sono una comunità che si è chiusa in un lockdown durissimo  - riconosce la Rizzoli, assessore all'Istruzione della Regione Lombardia -. Da medico, è la cosa che mi stupisce di più".

Così la Cina ha arginato il contagio di coronavirus (ma in Italia non funzionerebbe). Juanne Pili su Open.online il 5 marzo 2020. Una democrazia non potrebbe mai adottare le misure prese dalla Cina per contenere l’epidemia, ma difficilmente metterebbe il bavaglio a chi la denuncia. Secondo la vulgata, in Cina l’epidemia di Coronavirus è stata così esplosiva per via dei presunti bassi standard igienici e alimentari del Paese, per non parlare delle eventuali negligenze nella gestione dell’emergenza. In realtà le cose stanno diversamente, al netto degli errori iniziali, come il tentativo poi rivelatosi controproducente di tenere nascosta l’epidemia alla popolazione. Science analizza un recente report dell’Oms, in cui conferma come le misure prese da Pechino siano state fondamentali nel ridurre il numero dei nuovi casi, proprio grazie a caratteristiche giuridiche molto diverse da quelle dei Paesi democratici, che giustamente devono tener conto del rispetto di tutti i diritti dei cittadini nel prendere misure straordinarie, anche quando ci si trova in uno stato d’emergenza. La questione infatti non è scientifica, bensì legale e costituzionale. Fino a che punto gli interessi di sanità pubblica possono spingersi nell’imporre la ragione generale su quella del singolo? Il problema era stato già affrontato per la questione dell’obbligo vaccinale – non solo in Italia – anche se in ben altri contesti.

Possiamo permetterci gli insegnamenti della Cina? Oggi la Cina ha decisamente meno posti letto occupati rispetto a qualche settimana fa. Parallelamente al calo di nuovi casi sono state adottate nuove terapie antivirali – anche attraverso il plasma dei convalescenti – che ormai superano il numero di nuovi contagi, stando almeno ai test effettuati. In questo senso non dobbiamo dimenticare gli aiuti richiesti dal governo di Pechino all’Occidente, per far fronte alla carenza di presidi medici. Il report dell’Oms risale al 28 febbraio, ed è frutto di una missione organizzata insieme a Pechino. Unisce gli sforzi di 13 esperti stranieri e 12 cinesi nell’analizzare in cinque città colpite quanto le misure prese dalla Cina siano state efficaci. Alcuni aspetti sono uno spauracchio in Occidente, perché minano i diritti civili, come i blocchi massicci e le misure di sorveglianza elettronica: tutti ingredienti di una delle storie orwelliane che spaventano – comprensibilmente – anche i più moderati spiriti liberali.

Breve cronologia dell’emergenza:

3 gennaio – Vengono comunicati all’Oms i primi dati sull’epidemia.

10 gennaio – Il genoma del 2019-nCoV (poi ribattezzato SARS-CoV2) viene reso pubblico. Vengono intanto formulati vari protocolli per diagnosticare la malattia polmonare (oggi nota come Covid-19). Nascono così i primi kit. I mercati dove vengono esposte carni provenienti da animali selvatici sono sottoposti a rigorosi controlli.

20 gennaio – L’epidemia viene inclusa tra le malattie infettive di classe B, oltre a quelle per cui è prevista la quarantena. Cominciano così a essere adottate procedure legali per il controllo globale del fenomeno.

23 gennaio – Vengono applicate misure rigorose per limitare il traffico a Wuhan, principale focolaio epidemico. Altri provvedimenti vengono presi per isolare la città. Si lavora maggiormente anche per comunicare il rischio in tutta la Cina.

8 febbraio – Il Consiglio di Stato emana un avviso sulla «ripresa ordinata della produzione».

Il regime cinese non ha funzionato quando poteva prevenire l’esplosione dei casi a Wuhan. Tutte le misure analizzate e riportate dagli autori del documento non sembrano poi così difficili da attuare, anzi sembrerebbe che anche altrove si sia fatto il possibile. Il punto è che tra le righe rimangono i modi autoritari con cui il regime di Pechino li ha messi in atto. Gli autori ce lo fanno capire usando qualche eufemismo (il grassetto è nostro): «la Cina è unica in quanto ha un sistema politico che può ottenere la conformità del pubblico con misure estreme … Ma il suo uso del controllo sociale e della sorveglianza intrusiva non sono un buon modello per altri Paesi … Nessun altro al mondo può davvero fare ciò che la Cina ha appena fatto». Secondo gli autori del report, «la Cina ha lanciato forse lo sforzo di contenimento delle malattie più ambizioso, agile e aggressivo della storia». Una cifra di questo potrebbe essere la costruzione di due ospedali appositi nell’arco di una settimana.  Per quanto riguarda la ricostruzione del percorso del virus da un contagiato all’altro, basti pensare che solo a Wuhan sono state mobilitate 1800 squadre da sei o cinque persone, col compito di rintracciare decine di migliaia di contatti; chissà con che riguardo nei confronti dalla privacy, altro concetto comprensibilmente sacro in Occidente. Potremmo pensare che “a mali estremi, estremi rimedi”. Effettivamente il virus è piuttosto veloce a diffondersi, anche a causa dell’esistenza di asintomatici e super diffusori, ma se la Cina ha avuto improvvisamente così tanti casi, questo è dovuto proprio alle stesse caratteristiche antidemocratiche del Paese. Nella “pagella” dell’Oms troviamo infatti anche pessimi voti, per esempio si fa notare che i cinesi non sono stati molto bravi a «comunicare più chiaramente i dati chiave e gli sviluppi a livello internazionale»; la stessa mancanza che ha prodotto ritardi nel comunicare l’emergenza quando si era ancora in tempo, con tanto di medici ridotti al silenzio. Questo difficilmente potrebbe succedere in Occidente.

Coronavirus: il vero “modello cinese” a cui ispirarsi è quello di Taiwan. Redazione analisidifesa.it il 20 marzo 2020. Ripubblichiamo un articolo dell’agenzia AsiaNews che evidenzia un aspetto che sembra essere sfuggito ai tanti fans di Pechino che siedono in posti di rilievo nell’attuale governo italiano. Dati su contagio e mortalità oltre che misure adottate repentinamente e con decisione invece che in ritardo e un po’ alla volta, confermano che in tema di contrasto al Coronavirus il “modello cinese” a cui ispirarsi o comunque da prendere in esame in Italia e in Europa dovrebbe essere quello della Cina Nazionalista, cioè di Taiwan, non certo quello della Cina Comunista. Taiwan, vale la pena di precisarlo, oltre a non essere riconosciuta dalla gran parte degli Stati, che non intendono irritare Pechino, non ha mai potuto aderire neppure all’Organizzazione Mondiale della Sanità a causa del veto cinese.

Taipei (AsiaNews) – “Taiwan non ha atteso le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità([Oms) e ha risposto prontamente alla crisi del coronavirus”. È quanto dichiara ad AsiaNews Russell Hsiao, direttore esecutivo del Global Taiwan Institute. Questo è il segreto del successo della “provincia ribelle” nel contrastare l’epidemia. A oggi nel Paese si registrano solo 135 casi di infezione e due decessi. Un paradosso, se si considera la campagna diplomatica dell’isola per entrare a far parte dell’Oms, che Pechino boicotta in modo sistematico. Di seguito l’intervista a Hsiao. “Taiwan non aveva il ‘lusso’ di aspettare le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità [Oms] per elaborare la sua risposta al coronavirus. In modo paradossale, ciò ha incoraggiato il governo ad assumere un approccio più energico al problema”. Per Russell Hsiao, direttore esecutivo del Global Taiwan Institute, è questo il segreto del successo che sta avendo Taipei nel contrastare la diffusione del Covid-19, che in Cina e altre parti del mondo sta mietendo migliaia di vittime. Nell’isola, che vive una autonomia di fatto, ma è considerata una “provincia ribelle” da Pechino, si sono registrati sinora solo 135 casi di infezione e due decessi. A inizio febbraio, quando la crisi epidemica iniziava a manifestarsi anche fuori della Cina, i contagiati erano 16. Il timore delle autorità è che i numeri possano aumentare nelle prossime due settimane per i casi di infezione importati dall’estero. Secondo Hsiao, la comunità internazionale può trarre importanti spunti dal modello taiwanese in risposta all’epidemia, soprattutto per combattere possibili future pandemie: “ Quando il virus è cominciato ad apparire nell’Hubei, il governo di Taipei è stato veloce nell’intuire la situazione, e ha imposto controlli sanitari ai visitatori da Wuhan. Subito dopo ha chiuso i confini con il resto della Cina”. Nelle prime battute della crisi, Taiwan ha introdotto inoltre alcune restrizioni ai collegamenti con Hong Kong e Macao, ritenute potenziali focolai di contagio. Taipei pagò già un considerevole tributo di vittime durante l’epidemia di Sars del 2002-2003. “Le esperienze vissute nel passato con la Sars e la febbre aviaria – nota Hsiao – hanno influenzato le decisioni attuali del governo, che includono anche il varo di campagne di educazione pubblica, con conferenze stampa giornaliere, per informare i cittadini sugli sviluppi in corso”. Il ricercatore, che collabora anche con il Pacific Forum, sottolinea che questo sforzo comunicativo è stato essenziale per preparare la società taiwanese e formare la “spina dorsale” di un’attenta risposta pubblica. ”Nell’era delle pandemie virali, la presenza di un pubblico bene informato è fondamentale per mitigarne i possibili effetti ”. A differenza di Taiwan, il governo cinese è stato criticato – dentro e fuori del Paese – per aver messo il bavaglio all’informazione, fatto che secondo molti ha favorito la propagazione dell’infezione polmonare. Per Hsiao, il successo di Taiwan nell’affrontare il coronavirus, sta migliorando la sua immagine a livello globale. Gli Stati Uniti hanno deciso di lanciare una partnership con Taipei per condividere le buone pratiche adottate contro il Covid-19: un modello di relazioni che potrebbe essere accettato anche da altri Paesi. “È tutto da vedere, però, se questa maggiore consapevolezza [del diritto di Taipei a far parte a pieno titolo della comunità internazionale] si tradurrà in un numero crescente di Stati che sostengono l’ingresso dell’isola nell’Oms”. All’inizio della crisi, il governo del presidente  Tsai Ing-wen (nelle foto sopra) aveva accusato l’Oms di fornire “inaccurate” informazioni sulla diffusione dell’epidemia. Nei primi report dell’organizzazione, Taiwan era indicata come parte integrante della Cina, e ciò aveva spinto Paesi come l’Italia e il Vietnam a sospendere i voli da e verso l’isola.

Come la Cina ha affrontato l’epidemia. Davide Maria De Luca su Il Post il 21 marzo 2020. Con quarantene rigidissime, cliniche della febbre e una mobilitazione enorme delle proprie comunità: è un sistema praticabile in Europa? Mercoledì scorso il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha indicato tre paesi in cui gli sforzi per contenere il contagio sono stati particolarmente imponenti, e che sembrano aver prodotto risultati notevoli: Cina, Corea del Sud e Singapore. Questi paesi, ha detto Ghebreyesus, «dimostrano che il contagio si può prevenire e che vite umane possono essere salvate con un’aggressiva campagna di test, indagando sui contatti avuti dalle persone infette, adottando misure di distanziamento sociale e mobilitando le proprie comunità». Oggi la Cina, il primo paese dove si è sviluppato il contagio e quello che, prima di essere superato dall’Italia, ne aveva pagato il prezzo più alto, ha raggiunto e superato il picco dell’epidemia: questa settimana, per la prima volta dall’inizio dell’emergenza, non ha registrato nessuno nuovo caso di COVID-19 infettato localmente. Tutti i 34 casi registrati, hanno detto le autorità sanitarie cinesi, sono persone provenienti dall’estero e tornate da poco in Cina. In Corea del Sud il numero di casi si è fermato a poco più di 8mila e sembra stabile, e così a Singapore. Nessuno sa cosa accadrà quando le fabbriche e i luoghi di lavoro torneranno a funzionare a pieno regime e le persone torneranno a circolare, ma per il momento in Asia orientale l’epidemia sembra essere sotto controllo. In un influente studio pubblicato pochi giorni fa, l’Imperial College di Londra ha scritto che: «Cina e Corea del Sud sono riuscite a sopprimere il virus nel breve periodo, anche se rimane da vedere se sia possibile fare lo stesso nel lungo termine»; ma nonostante i dubbi, «la soppressione rimane l’unica strategia praticabile al momento». Questa settimana l’OMS ha ripetuto ancora una volta che per fronteggiare la pandemia i paesi del mondo devono fare di più e adottare le tattiche aggressive di Cina e Corea del Sud. Ma quali sono esattamente queste tattiche e come ha fatto la Cina, fino a un mese fa rimproverata e accusata in tutto il mondo di aver causato e poi nascosto l’epidemia, a divenire un modello indicato dalla principale autorità sanitaria del mondo?

Un inizio fallimentare. Sono in pochi oggi ad avere dubbi sui ritardi e le incertezze della prima reazione da parte delle autorità cinesi di fronte all’epidemia. Ai normali errori commessi da medici costretti a misurarsi con una malattia mai incontrata prima, si sono uniti i problemi cronici del sistema sanitario cinese, le interferenze della politica locale e le esitazioni di quella nazionale.

I primi casi accertati di contagio da coronavirus furono riscontrati tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre nella città di Wuhan, un importante centro industriale con 11 milioni di abitanti nel centro della Cina e capitale della provincia dello Hubei. All’epoca nessuno sapeva di trovarsi di fronte a un nuovo coronavirus capace di trasmettersi per via aerea da un essere umano all’altro. I medici vedevano solo un sospetto aumento di polmoniti insolitamente aggressive e difficili da trattare con i farmaci. Alcuni pazienti sembravano collegati al mercato di Huanan, a Wuhan, dove si vendevano carne e pesce freschi. Il Wall Street Journal è il giornale internazionale che è riuscito a ricostruire con maggior precisione cosa è accaduto negli ospedali di Wuhan e nei circoli del governo cinese in quelle settimane: per questa ragione tre dei suoi corrispondenti erano stati espulsi dal paese, mentre più di recente molti altri giornalisti americani sono stati espulsi per rappresaglia nei confronti di una decisione presa dal governo americano sui media cinesi che operano negli Stati Uniti.

Secondo il Wall Street Journal, la sanità cinese, basata su un sistema di assicurazioni più simile a quello degli Stati Uniti che a quello italiano, è stato uno dei fattori che hanno rallentato l’identificazione dell’epidemia. Diversi lavoratori, per esempio, hanno preferito non sottoporsi ai costosi esami non rimborsati dalle loro assicurazioni che avrebbero facilitato la scoperta della nuova malattia.

In un primo tempo, le autorità locali erano preoccupate più di evitare il panico e l’interruzione delle normali attività sociali e lavorative che di reagire rapidamente alla malattia. A gennaio erano previste una serie di riunioni degli organi di governo della provincia dello Hubei e di Wuhan, un periodo dell’anno in cui normalmente le autorità locali cercano di nascondere le cattive notizie. Milioni di persone avevano programmato le loro ferie in vista del capodanno cinese, che si celebra alla fine dello stesso mese: un evento che le autorità volevano si svolgesse senza ostacoli.

A dicembre i casi iniziarono ad aumentare e i medici accumularono abbastanza materiale per ipotizzare la causa di quella nuova polmonite. Ulteriori analisi mostrarono che la causa era un coronavirus, appartenente a una famiglia di virus che può causare gravi infezioni respiratorie come la SARS e la MERS in Cina, Corea, Egitto e Arabia Saudita.

Il 30 dicembre l’oculista 34enne Li Wenliang, in servizio in uno dei principali ospedali di Wuhan, scrisse in una chat di ex colleghi dell’università che a Wuhan un gruppo di pazienti era risultato infetto dalla SARS. Li fu denunciato dalle autorità dell’ospedale e costretto a scrivere una lettera di scuse, in cui affermava che la sua fuga di notizie aveva «danneggiato gli sforzi per contenere l’epidemia». Li è poi morto a causa della malattia, diventando così una sorta di eroe nazionale: il governo cinese ha fatto sapere di aver aperto un’indagine sulla sua morte.

Il 3 gennaio all’OMS fu notificata ufficialmente l’epidemia e furono prese le prime misure di contenimento, come la chiusura dei cosiddetti “wet market”, i mercati dove si vendono alimenti di ogni tipo – animali esotici vivi e spesso la loro carne – sospettati di essere al centro della diffusione. Ma le autorità continuarono a minimizzare quanto stava accadendo.

Tra il 3 e il 17 gennaio nessun nuovo caso fu comunicato ufficialmente e le autorità locali assicurarono che non ci fossero ancora prove che la malattia si trasmettesse tra esseri umani. Secondo le informazioni raccolte dal Wall Street Journal, in realtà, erano disponibili ormai da giorni sufficienti indizi per ipotizzare questo tipo di trasmissione. La decisione più dannosa per il contenimento dell’epidemia fu presa proprio in quei giorni.

Il 18 gennaio le autorità di Wuhan lasciarono che si svolgesse regolarmente il tradizionale cenone per la fine dell’anno lunare, a cui parteciparono centinaia di migliaia di famiglie. Senza misure di quarantena in vigore, milioni di lavoratori immigrati lasciarono la città per festeggiare con le loro famiglie nelle province di origine. Pochi giorni dopo centinaia di nuovi casi furono registrati nello Hubei e nel resto del paese. L’epidemia era iniziata.

La reazione. Il governo centrale di Pechino accusò apertamente le autorità dello Hubei di aver minimizzato l’epidemia, rimosse i capi locali del partito e consentì ai media cinesi di criticare la gestione iniziale del contagio. Secondo i documenti visti dal Wall Street Journal, però, il presidente cinese Xi Jinping era informato di quello che stava accadendo già dal 7 gennaio e avrebbe quindi almeno una parte della responsabilità per non aver obbligato le autorità locali a prendere misure più severe. Secondo Zhong Nanshan, il più famoso e apprezzato epidemiologo cinese, se le azioni di contenimento fossero state assunte per tempo, a dicembre o all’inizio di gennaio, «il numero di persone infettate sarebbe stato significativamente ridotto».

Dopo un mese di incertezze e insabbiamenti, a fine gennaio, era diventato chiaro quello che stava succedendo. Wuhan era al centro di un’epidemia causata non da SARS o da MERS, ma da un nuovo tipo di coronavirus, molto meno letale ma allo stesso tempo molto più contagioso.

Il 23 gennaio l’intera città di Wuhan, con i suoi quasi 15 milioni di abitanti, fu messa in quarantena. Ogni forma di trasporto privato fu vietata e misure simili furono adottate anche negli altri centri principali dello Hubei. Una settimana dopo, il 30 gennaio, l’OMS proclamò lo stato di emergenza medica di rilevanza internazionale. Il governo cinese aveva aspettato circa un mese per intraprendere drastiche misure di contenimento, ma quando alla fine decise di muoversi, preferì adottare una strategia estremamente aggressiva. L’elemento centrale della reazione fu la quarantena totale dell’area infetta, così da evitare il moltiplicarsi dei focolai nel resto del paese. Per facilitare il contenimento, il governo stabilì di allungare il periodo di ferie per il capodanno cinese di una settimana, così da rallentare il rientro in città di decine di milioni di cinesi. Fuori dallo Hubei, le altre province cinesi sperimentarono vari gradi di quarantena. Si decise di chiudere musei e scuole, di limitare i trasporti pubblici, di incentivare il telelavoro e di far lavorare a regime ridotto le produzioni non essenziali. Diverse province cominciarono a emettere passaporti interni per limitare la possibilità dei cittadini di spostarsi, mentre la capitale, Pechino, fu sottoposta a un regime speciale, che rese estremamente difficile per chiunque provenisse da fuori entrare in città senza sottoporsi a una quarantena.

Parallelamente alla quarantena, il governo avviò una vasta campagna per identificare il numero più alto possibile di infetti e sottoporli a misure di isolamento. L’obiettivo non era soltanto quello di limitare la diffusione del contagio fuori dallo Hubei, ma anche di identificare il più alto numero possibile di infetti e sottoporli a quarantena. Non si voleva solo rallentare il contagio, ma anche contenerlo e, se possibile, bloccarlo. In tutta la Cina decine di migliaia di funzionari pubblici iniziarono a prendere la temperatura delle persone: negli autobus, nella metropolitana, all’ingresso dei luoghi pubblici. Persino nei condomini i responsabili locali furono incaricati di prendere la temperatura a chi ritornava nella propria abitazione. A Wuhan, quando la quarantena arrivò al punto in cui alle persone fu vietato uscire di casa, gruppi di funzionari in tenuta protettiva andarono casa per casa a prendere la temperatura delle persone e a fare domande sui sintomi. Ancora oggi, chi viene trovato con una temperatura superiore a 37,5 °C o manifesta i sintomi principali della malattia, tosse secca e spossatezza, viene indirizzato a una “clinica della febbre”. Sono cliniche temporanee, costruite all’interno degli ospedali o in strutture esterne, e trattate come luoghi in cui il contagio è presente (i pazienti sono tenuti isolati e i medici indossano tute protettive). In queste cliniche inizialmente ai pazienti veniva fatto un tampone, il cui risultato arrivava in poche ore (in Europa e Stati Uniti i risultati invece arrivano in genere dopo almeno 24 ore, ma in alcuni casi ci vogliono giorni). Quando per via del numero dei casi non fu più possibile fare il tampone a tutti e ottenere i risultati rapidamente, le autorità cinesi passarono a identificare gli infetti sulla base delle loro condizioni diagnosticabili clinicamente: nelle cliniche della febbre furono installate TAC portatili per esaminare i polmoni dei casi sospetti, in cerca della tipica infezione polmonare causata dal nuovo coronavirus. Al momento del picco dell’epidemia a Wuhan, ogni TAC veniva utilizzata fino a 200 volte al giorno. Chiunque risultasse positivo, o in base ai sintomi venisse considerato infetto, era obbligato a sottoporsi a un regime di quarantena in una struttura apposita. I media cinesi e internazionali hanno celebrato la costruzione in pochi giorni di due ospedali a Wuhan, uno da mille e l’altro da 1.600 posti. Ma è solo la punta dell’iceberg degli sforzi compiuti in Cina per isolare le persone infette. A Wuhan e nel resto dello Hubei decine di centri congressi, alberghi e altri luoghi pubblici sono stati convertiti in cliniche dove tenere in isolamento i casi più lievi, mentre il posto negli ospedali è stato riservato ai malati più gravi. La risposta all’epidemia è stata generalizzata e ha coinvolto l’intero paese. In tutta la Cina la normale assistenza sanitaria è stata spostata online. Medici e cliniche hanno chiuso ovunque, tranne che per gestire i casi più gravi. Anche nelle aree rurali la popolazione è stata invitata a restare lontana dagli ospedali e dai medici, e usare invece il nuovo sistema di assistenza medica al telefono o via internet. Le prime settimane di questo enorme sforzo furono difficilissime: anche i media di stato, impegnati in quei giorni a esaltare lo sforzo contro il contagio, non hanno potuto nascondere gli enormi problemi che si sono verificati a Wuhan e nello Hubei. Inizialmente i medici e gli altri operatori sanitari si trovarono a corto di tutto: mascherine, disinfettanti e altri equipaggiamenti protettivi. A metà febbraio oltre 1.700 medici e personale sanitario risultavano infetti e 6 erano morti. Per fronteggiare l’emergenza, il governo rafforzò la produzione di mascherine e altre attrezzature, convertendo la produzione di fabbriche che fino a quel momento facevano altro: simili decisioni però richiesero tempo per essere messe in pratica. Per sostenere il personale sanitario di Wuhan, migliaia di medici furono inviati nella provincia. Alla fine, la capitale dello Hubei ricevette l’aiuto di 30mila medici e infermieri provenienti dal resto del paese, mentre altri diecimila furono trasferiti nelle altre città della regione. Ogni provincia cinese si fece carico di un particolare ospedale o di una particolare città, e gli sforzi dei medici furono celebrati dalla propaganda nazionale e dalle autorità locali. Per molto tempo, comunque, nel centro dell’epidemia la situazione rimase gravissima, con il personale medico impegnato in turni estenuanti, la popolazione sottoposta a una severissima quarantena totale e i malati assistiti spesso in maniera precaria. Al picco dell’epidemia oltre 15 milioni di pasti al giorno dovevano essere distribuiti agli abitanti della città, a cui era vietato uscire se non per andare nelle cliniche della febbre. Si cercò in tutti i modi di far fronte al collasso del sistema sanitario locale: per rispondere alla mancanza di ambulanze, per esempio, furono utilizzati taxi e veicoli della polizia isolati in maniera precaria con cartone e nastro adesivo. Lo sforzo enorme a cui fu sottoposto il sistema sanitario dello Hubei emerge chiaramente guardando al tasso di letalità dell’epidemia nel suo epicentro. A Wuhan 3,8 persone infettate ogni cento sono morte, contro meno di un morto ogni cento infetti nel resto del paese.

I risultati. L’OMS ha definito gli sforzi della Cina «la più ambiziosa, agile e aggressiva campagna di contenimento di una malattia mai messa in campo nella storia». Queste imponenti misure hanno prodotto un risultato che molti oggi definiscono inaspettato. Un grafico pubblicato sul Journal of the American Medical Association ne mostra chiaramente gli effetti. Le barre gialle del grafico indicano il numero di casi confermati dai medici cinesi ogni giorno. Le linee grigie mostrano invece quando quelle stesse persone sono state infettate, un’informazione che i medici hanno ottenuto chiedendo ai pazienti quando si erano manifestati i primi sintomi. Nel grafico si vede chiaramente che mentre i contagi denunciati hanno continuato ad aumentare dopo la proclamazione della quarantena, l’insorgenza di nuovi casi (le barre grigie) prima si ferma e poi inizia rapidamente a precipitare. Oggi, nonostante i ritardi iniziali e le difficoltà causate a Wuhan e nello Hubei dalle dimensioni dell’epidemia e dal conseguente quasi-collasso del sistema sanitario locale, il numero di casi in Cina ha smesso di crescere e lentamente la situazione sta tornando alla normalità. Gli ospedali temporanei iniziano a essere chiusi e, nel resto del paese, le persone cominciano a tornare al lavoro. La comunità medica internazionale osserva con attenzione e preoccupazione il possibile ritorno di una “seconda ondata” del contagio, che potrebbe verificarsi nelle prossime settimane o nei prossimi mesi. Per il momento, però, l’epidemia di coronavirus sembra contenibile. Le precedenti pandemie identificate dall’OMS avevano quasi sempre attraversato il mondo senza incontrare ostacoli e avevano contagiato gran parte delle persone esposte. La pandemia di influenza spagnola del 1918-1919, per esempio, contagiò probabilmente metà della popolazione mondiale e altrettanti furono i contagiati dall’influenza asiatica del 1958. Nel 1968-69 quasi un terzo della popolazione mondiale fu contagiata dall’influenza di Hong Kong e tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale si ammalò durante la pandemia di influenza suina del 2009. Tutte queste pandemie sono state causate da virus influenzali, i più diffusi e contagiosi che l’uomo abbia mai incontrato: così contagiosi che i rari tentativi di contenerli si sono rivelati inutili.

Secondo molti il modello cinese non è riproducibile in Europa e Stati Uniti. La Cina, sostengono, è una tirannia in grado di adottare misure di contenimento senza curarsi dei diritti individuali. Può spostare risorse e concentrare gli sforzi in un modo che, per le normali democrazie, appare impossibile. Bruce Aylward, capo della missione OMS che ha visitato la Cina a febbraio, la pensa diversamente. «In Cina si sono mobilitati come per una guerra», ha detto al New York Times: «I giornalisti dicono sempre “Beh, ma noi non possiamo farlo nel nostro paese”. Ma noi dobbiamo cambiare mentalità e iniziare a pensare in termini di dare una risposta rapida a questa epidemia. Qual è l’alternativa, alzare le mani e arrenderci?». 

·         L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

COREA DEL SUD.

(Dal seguito dell’articolo “Come la Cina ha affrontato l’epidemia”). Davide Maria De Luca su Il Post il 21 marzo 2020. L’approccio coreano e quello italiano. Chi ritiene impraticabile in Occidente il modello cinese suggerisce di seguire l’esempio dell’altro paese indicato dall’OMS come “caso virtuoso”. La Corea del Sud è un paese democratico con 50 milioni di abitanti ed era il più colpito dall’epidemia prima di essere sorpassato dall’Italia una settimana fa (oggi è l’ottavo paese più colpito, superato tra gli altri da Francia e Stati Uniti). In Corea del Sud risultano al momento solo 8.600 casi confermati e 94 morti, contro più di 47 mila casi confermati e più di quattromila morti in Italia. Come in Cina, anche in Corea i casi hanno smesso di aumentare da giorni e la curva dell’epidemia punta nettamente verso il basso. La situazione in Corea del Sud viene spesso paragonata a quella dell’Italia, visto che il contagio è arrivato nei due paesi quasi contemporaneamente ed è stato affrontato in maniera molto diversa. In Italia il primo caso venne confermato il 30 gennaio e nelle settimane successive vennero individuati due grossi focolai in provincia di Lodi e Padova. Il 23 febbraio 11 comuni furono posti in quarantena. Nuove misure di blocco e di quarantena furono estese nei giorni successivi fino a che, l’11 marzo, nell’intero paese sono stati vietati gli spostamenti non necessari. La Corea del Sud ha seguito una strada differente. Fin dall’inizio si rifiutò esplicitamente di ricorrere a massicce misure di quarantena. Oggi in Corea del Sud non c’è nessun blocco generalizzato dei trasporti e non ci sono divieti di uscire di casa. «Un approccio simile sarebbe parziale, coercitivo e inflessibile», ha detto una settimana fa il vice-ministro della Salute coreano, Kim Gang-lip. Al momento alcuni condomini particolarmente colpiti dall’epidemia sono sottoposti a quarantena, ma a parte la città di Daegu, dove ristoranti e altri luoghi di ritrovo sono stati chiusi, il resto del paese funziona più o meno normalmente. Invece che sulla quarantena, il governo coreano si è concentrato sul cosiddetto “contact tracing”, cioè l’identificazione, l’esame e l’eventuale isolamento di tutti i contatti avuti dalle persone infette. L’obiettivo di questa strategia è individuare una a una le persone infette e di metterle in quarantena, in modo da bloccare il contagio sul nascere. È una strategia simile a quella del governo cinese, ma dove in Cina sono stati mobilitati impiegati pubblici e autisti di autobus per misurare la temperatura corporea a milioni di persone, la Corea del Sud ha utilizzato un metodo più raffinato. Grazie a leggi sulla tutela della privacy piuttosto deboli (e nelle quali nuove eccezioni sono state introdotte in queste settimane), il governo ha potuto usare le immagini delle telecamere di sicurezza, i dati delle carte di credito e quelli degli smartphone per ricostruire gli spostamenti effettuati da tutti coloro che sono risultati infetti. Le informazioni sono state poi rese pubbliche, in modo che chiunque si fosse trovato a passare negli stessi posti nello stesso momento di un contagiato avesse la possibilità di farsi visitare. Scaricando un’applicazione per smartphone è possibile ricevere in tempo reale le informazioni su tutti i casi noti e di contagio e sui loro spostamenti. Per fare un’analogia, è come se nella lotta alla pandemia la Cina avesse utilizzato un grosso e pesante martello, mentre la Corea del Sud avesse preferito ricorrere a un bisturi. Per fare un lavoro efficace di “contact tracing” è necessario testare moltissime persone, e il numero di test effettuati in Corea è un’altra delle ragioni indicate spesso come spiegazione del suo successo nel contenere l’epidemia. Nel paese sono stati fatti oltre 300 mila tamponi, il numero più alto al mondo rapportato alla popolazione, il doppio di quanti ne siano stati fatti in Italia. Grazie a questa strategia di test di massa e “contact tracing”, la Corea è divenuto uno dei principali modelli per affrontare l’epidemia secondo l’OMS. Lunedì il capo dell’Organizzazione ha rimproverato Europa e Stati Uniti, senza nominarli direttamente, sostenendo che le misure di “distanziamento sociale” sono sempre più diffuse, ma invece non si stanno facendo abbastanza test e non si sta realizzando un adeguato “contact tracing”. Per i paesi che stanno affrontando la pandemia, ha detto Ghebreyesus, il messaggio dell’OMS è «fare test, fare test e fare ancora test». Parole che, secondo molti, sono un riferimento esplicito alla strategia sudcoreana. Anche grazie a questa continua pressione, il numero di test effettuati in Occidente sta aumentando. Nell’ultima settimana l’Italia ha moltiplicato il numero di test effettuati, arrivando questa settimana a oltre 160 mila, ma non è chiaro quanto questo numero possa essere ulteriormente incrementato. Ci sono barriere difficili da superare, in termini di numero di laboratori e di personale che è possibile impegnare nella realizzazione dei test. In Europa e negli stati democratici ci sono poi ovvie barriere nel mobilitare la macchina dello stato come è stato fatto in Cina, e sembra quindi difficile che in paesi come l’Italia o la Francia vedremo presto impiegati delle poste o autisti di autobus reclutati per misurare la temperatura dei sospetti contagiati casa per casa. Anche quello coreano rischia di essere un esempio difficile da imitare per i paesi europei: il primo focolaio sviluppatosi in Corea era concentrato tra gli aderenti a un gruppo religioso. Se questo all’inizio ha causato dei problemi (i membri del gruppo considerano la malattia un peccato e preferiscono nascondere il fatto che non si sentono bene), alla fine ha di fatto facilitato moltissimo il lavoro di contact tracing: circa 4 mila degli 8 mila coreani infetti sono risultati legati direttamente o indirettamente al gruppo religioso. La Corea del Sud, inoltre, così come molti altri paesi dell’Asia orientale, partiva con conoscenze e capacità su come affrontare epidemie di coronavirus molto superiori alle nostre. Nel 2003, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Singapore affrontarono la SARS, la prima epidemia causata da un coronavirus, e da allora hanno adottato numerosi protocolli e strutture sanitarie per combattere simili epidemie. La Corea del Sud, poi, ha sperimentato un’epidemia di MERS nel 2015 che ha funzionato come una sorta di prova generale per quello che vediamo oggi e ha spinto i governi degli ultimi cinque anni a rafforzare ulteriormente le difese contro le epidemie. Chi spera di veder cambiare in breve tempo le strategie di contenimento in Europa e Stati Uniti, quindi, rischia di rimanere deluso. Ci sono limiti alle nostre capacità di mobilitazione e di analisi che è difficile superare, soprattutto in situazioni di emergenza. Solo il tempo ci dirà se un approccio meno massiccio di quello cinese e meno sofisticato di quello sudcoreano sarà sufficiente a contenere l’epidemia.

Cosa significa adottare davvero il modello coreano. L'eccezione di Seul sta nell'essere stati in grado di tracciare per tempo i focolai epidemici e nell'avere saputo contenerli. Qui vi spieghiamo come funziona. Enrico Bucci il 23 Marzo 2020 su Il Foglio. Di fronte ad eventi insoliti o eccezionali, che per questo sembrano strani, tutti noi – medici ed esperti inclusi – siamo preda di un bias, che consiste nel ricercare la spiegazione in circostanze e fatti altrettanto insoliti ed eccezionali, preferendo ipotesi attraenti a ciò che già sappiamo e che potrebbe funzionare altrettanto bene nello spiegare ciò che osserviamo. E’ esattamente quanto stiamo osservando nel caso dell’epidemia di COVID-19 in Italia. Non vi è dubbio che la sua diffusione, i danni che sta provocando in ambito sanitario e le morti che provoca siano eccezionali per le generazioni di Italiani oggi in vita (sarebbero apparse molto meno spaventose e inattese ad un italiano del ‘300, che poteva vedere nella sua vita ben più di un’epidemia ad alta letalità). Ipotesi con maggiore o minore fondamento, basate – quando va bene – su correlazioni che potrebbero essere spurie e su scarse evidenze in supporto, ci sembrano appropriate proprio perché, per la loro eccezionalità o scarsa considerazione presso la comunità scientifica, sono altrettanto poco frequenti dell’evento a cui assistiamo. Si cerca di correlare la maggiore o minore diffusione del virus con la presenza di particolato atmosferico, la densità di fabbriche a livello regionale, la presunta “voglia di lavorare” di supposte popolazioni diverse (che porta a stipare le metropolitane la mattina), dimenticando che le variabili confondenti da escludere (prime fra tutte la semplice densità di popolazione e di scambi commerciali, che correlano almeno con i primi due fattori) sono tali e tante da non poter classificare quanto osservato in altro modo che come una correlazione spuria, in attesa di prove dirette sul virus. Si arriva persino ad ipotizzare, senza lo straccio di una prova, mutazioni che specificamente innalzino letalità ed infettività del virus in Italia; possibili, sì, ma finora non riscontrate in nessuna delle sequenze virali ottenute su pazienti italiani o su pazienti infettati in Italia. E’ arrivato il momento di concentrarci su quello che sappiamo, sia su questo che su altri virus simili, così da scartare un po’ di ipotesi non necessarie e concentrarci su fatti noti da tempo per prendere misure migliori delle attuali. In questo articolo, ci preoccuperemo di un primo aspetto: l’andamento generale dell’epidemia, che a taluni osservatori appare eccezionalmente incontenibile in Italia. Nel prossimo, ci occuperemo della anomala letalità del virus in Italia.

Perché non riusciamo a contenere l’epidemia? La percezione che oggi si ha in Italia è che le cose stiano andando peggio che in altri paesi, cioè che ci sia un’esplosione di contagi più repentina e più estesa che altrove – anche in assenza di numeri affidabili sui contagi, visto che i positivi al tampone non ci danno nessuna idea di quanti essi siano in realtà. Inanzitutto, dobbiamo chiederci: l’epidemia si sta davvero diffondendo ad una velocità maggiore che in altri paesi? Se crediamo che la positività ai tamponi rappresenti in modo affidabile ed omogeneo tra paesi diversi una percentuale più o meno fissa del numero totale di infetti, il grafico seguente (la fonte è qui) ci dice che, grossolanamente e con l’eccezione della Corea del Sud, l’epidemia procede allo stesso modo in tutti i paesi. Al di là della robustezza delle assunzioni che dobbiamo fare per paragonare curve di crescita dei positivi al tampone tra nazioni diverse e per assumere che il loro andamento sia proporzionale alla crescita del numero di infetti (molto più grande), resta il fatto che l’anomalia della Corea del Sud è ovvia ed è l’unico segnale serio da prendere in considerazione. La prima differenza che è stata già evidenziata tra Corea del Sud ed altri paesi sta nell’attivazione precoce di un protocollo di tracciamento, test e isolamento delle persone venute in contatto con soggetti infetti, basato su uso di tecnologie digitali, un numero estensivo di tamponi e la collaborazione della popolazione che si è sottoposta a screening volontario, una volta che ciascuno apprendeva di essere stato in possibile contatto con un soggetto infetto grazie alle app che segnalavano i luoghi frequentati nei giorni precedenti dai soggetti trovati infetti. Aumentare semplicemente il numero di tamponi, senza avere strumenti di tracciamento rapido dei contatti che allertino i cittadini sul loro possibile contagio e li inviti a sottoporsi al test, non basta. Per capirlo, guardiamo alle figure seguenti. In rosso sono rappresentati soggetti positivi e sintomatici, in giallo soggetti positivi ma non ancora sintomatici o paucisintomatici, in grigio soggetti liberi dal virus. Una croce blu rappresenta l’esecuzione di un test per la rilevazione del virus. Nel primo caso, illustrato dalla figura qui sotto, applichiamo un gran numero di test sulla popolazione, utilizzando una distribuzione casuale per avere un campione statistico. Dalla percentuale di positivi al test otteniamo al più una rappresentazione statisticamente corretta della frequenza del virus nella popolazione, ma non identifichiamo tutti i soggetti infetti. Nel secondo caso, illustrato nella figura seguente, lo stesso numero di test è diretto alle persone che sono state identificate per aver avuto contatti (anche casuali) con il primo soggetto infetto: la frazione dei positivi nella popolazione esaminata sarà più alta e non rappresenterà la diffusione del virus nella popolazione, ma avremo identificato (tracciato) tutti i soggetti positivi (idealmente, se le cose sono fatte facendo tantissimi tamponi e avendo la collaborazione della popolazione). Dunque possiamo vedere come, seguendo IN TOTO la strategia della Corea del Sud (cioè usando anche strumenti invasivi della privacy personale), si riesca a tracciare per tempo i focolai epidemici; sempre che, naturalmente, nella zona campionata ci si trovi nella fase iniziale di un’epidemia (quando cioè si possa appunto parlare di focolai epidemici e non di epidemia diffusa). Fin qui abbiamo parlato di tracciamento dei focolai epidemici; bisogna, però, discutere anche di contenimento. In maniera naive, potremmo pensare che il problema sia di facile soluzione, attuando una politica di isolamento dei contagiati. Il problema, però, è che molti di questi richiedono anche di essere ospedalizzati: dunque isolamento sì, ma in ospedale – in un luogo, cioè, ove si concentrano altri pazienti e personale medico impegnato a fronteggiare l’epidemia. A questo punto il confronto fra Italia e Corea del Sud diventa particolarmente istruttivo. Facciamo un passo indietro: nel 2015, la Corea dovette affrontare uno scoppio epidemico di un altro coronavirus, quello che causa la MERS, a partire da un paziente proveniente dall’Arabia Saudita che era stato ospedalizzato. L’andamento di quell’epidemia è rappresentato qui sotto: si nota come ci fu una letalità di circa il 20% e la quarantena di migliaia di persone. Ora, bisogna sapere che sebbene la letalità del coronavirus MERS sia alta, il suo R0 è generalmente inferiore a 1; il che provoca in genere l’immediato esaurimento spontaneo dei focolai infettivi. Tuttavia, in ambito ospedaliero i contatti prossimi tra un paziente infetto ed il personale sanitario sono molteplici e ravvicinati nel tempo: questo spinge in alto R0, il numero di persone mediamente contagiate da ogni soggetto infetto, e diminuisce il tempo medio che ci vuole per ogni nuova infezione secondaria a partire da un soggetto infetto (perchè ci sono pià contatti per unità di tempo). Per questo motivo, nel 2015 R0 per il coronavirus MERS è schizzato da meno di 1 a 5 (in alcuni ospedali), come poi è stato misurato a posteriori. Cosa sappiamo riguardo SARS-CoV-2? Come atteso, le infezioni ospedaliere sono già state descritte a Wuhan, e la possibilità di eventi superinfettivi (quelli che alterano R0 ed il tempo medio che ci mette un infetto a contagiare altri) è stata già enunciata. In Italia, i peggiori focolai – quelli del Lodigiano e del Bergamasco – hanno certamente risentito del burst ospedaliero, perchè il personale sanitario è risultato immediatamente infetto e ha propagato rapidamente l’infezione. In particolare, l’assessore alla sanità della Lombardia ha ricordato come vi sia stato un notevole contagio del personale sanitario (per una frazione attuale di circa 12% dei medici contagiati o potenzialmente contagiati), che, come abbiamo visto, soprattutto all’inizio, in condizioni di scarsa consapevolezza, contribuisce agli eventi di rapida propagazione ed accensione di forti focolai, difficilmente contenibili per la velocità con cui si espandono. Naturalmente, quando l’epidemia si diffonde su di un territorio, i valori di R0 dei singoli ospedali risultano “diluiti” su quelli della popolazione nel suo complesso, per cui il numero di contagiati giornalieri è dominato da infezioni extraospedaliere e Rt (il numero medio di contatti contagiati da un soggetto infetto) torna a valori simili a quelli attesi per R0. Tuttavia, gli ospedali rimangono un “motore” attivo di infezione, soprattutto se si considera che l’alto Rt ospedaliero significa che in quelle comunità è necessario raggiungere una frazione di immuni molto più alta per avere immunità di gregge protettiva, e questo prevedibilmente comporterà che il personale medico non sarà protetto nemmeno quando la popolazione nel suo complesso avrà raggiunto una sufficiente immunità. Il problema non è solo lombardo: si hanno esempi di cluster epidemici ospedalieri, in qualche caso dovuti anche forse alla trascuratezza di singoli medici, in ogni regione, e preoccupano soprattutto quelli riscontrati in alcuni ospedali del sud Italia, che, ove non bloccati immediatamente, potrebbero rapidamente replicare il quadro che si osserva al nord, soprattutto considerando quanto sta accadendo ad esempio in Campania, ove le misure di prevenzione sembrano totalmente assenti o molto scarse in quei reparti ed in quei pronto soccorsi che non siano dedicati proprio alle malattie infettive. Le infezioni ospedaliere, quindi, contribuiscono a generare il “fuoco d’artificio” rapidissimo ed improvviso che accende poi l’incendio di vaste proporzioni; è per questo che, tornando ai coreani, sulla scorta dell’esperienza con il coronovirus MERS, essi avevano predisposto una serie di misure che garantissero che la terza fase dopo il tracciamento ed il testing – vale a dire l’isolamento – si svolgesse nella massima sicurezza per il personale sanitario. Percorsi differenziati, sospensione delle attività routinarie non indispensabili, presidi di sicurezza per tutti i medici ed il personale – non solo quello dedicato agli ospedali con casi già accertati di COVID-19; cosa altro si può fare per far diminuire la propagazione ospedaliera del virus? Alcune altre misure, derivate dall’analisi della letteratura disponibile anche su altre epidemie (come Ebola), prevedono:

il test continuo nel tempo di tutto il personale sanitario;

l’utilizzo di test serologici, per identificare medici immuni da utilizzare nelle zone a maggior rischio;

il tracciamento dei movimenti del personale medico, per evitare che la stanchezza faccia commettere errori;

l’utilizzo di personale ausiliario meno esperto per il controllo degli accessi e delle procedure di sicurezza e per la vestizione e la svestizione dei medici;

la preparazione di strutture dedicate per il personale medico, che non deve essere costretto ad organizzare una “separazione in casa propria” dal resto della famiglia e non deve essere costretto a spostarsi su lunghe distanze per raggiungere il luogo di lavoro;

il controllo elettronico differenziato degli ingressi del personale nei vari reparti;

la separazione fisica delle strutture dedicate a fronteggiare COVID-19 (fino alla costruzione di strutture dedicate e centralizzate per i pazienti COVID).

Non è detto che tutte queste misure siano praticabili nella realtà italiana; tuttavia, di sicuro queste misure sono certamente più efficaci dell’aumento (pur necessario) del personale medico dedicato, che in sè, ove non sia messo in condizioni di sicurezza, potrebbe rappresentare un mezzo di diffusione maggiore dell’epidemia a causa dell’esposizione professionale. E’ particolarmente grave che si aspetti lo scoppiare dell’emergenza per attuare queste misure, in quelle regioni soprattutto del Sud (non tutte, se per esempio si guarda alla Puglia, che ha già preso in considerazione questo fenomeno e sta attuando opportune contromisure) ove al momento molte, troppe procedure di routine clinica sono rimaste invariate, senza tener conto del fatto che il contagio è già arrivato a colpire duramente anche il personale sanitario. Il nostro personale sanitario – i nostri soldati, in questa guerra – deve essere salvaguardato, per evitare che si trasformi involontariamente in un mezzo di propagazione del virus nelle fase iniziali e di mantenimento di un “motore epidemico” nelle fasi più avanzate. Se si vuole, guardiamo pure alla Corea, ma guardiamoci davvero: “mezza Corea” non funzionerà, dobbiamo attuare in toto le misure necessarie.

“Facciamo come in corea, tracciamo gli spostamenti dei contagiati col telefonino”. Il Dubbio il 17 Marzo 2020. Tracciamento dei cellulari e tamponi a tappeto Matteo Renzi ora guarda a Seoul. “Facciamo come la Corea, usiamo il telefonino per tracciare gli spostamenti”. Parola di Matteo Renzi, il quale sembra approvare le misure di contenimento del virus messe in campo da Seul, che in Europa hanno fatto discutere perché considerate “spionaggio” a tappeto dei contagiati con tracciamento dei cellulari e riconoscimenti facciali. La strategia coreana ha puntato essenzialmente su una campagna di identificazione di tutti i soggetti venuti in contatto con il virus e di contenimento selettivo delle persone invece che delle città come in Cina o in Italia. E sulla possibilità di contenere il virus rinunciando a un pezzo di privacy, interviene anche l’avvocato Andrea Lisi, esperto di diritto digitale e presidente di Anorc Professioni: “non calpesterebbe necessariamente i diritti dei cittadini, perché anche in Europa quello della protezione dei dati personali non è un diritto assoluto, bensì va bilanciato con gli altri diritti fondamentali e in questo caso con quello alla salute, non solo individuale, ma collettiva“. Ne è convinto . Secondo quanto spiega Lisi l’attuale regolamento europeo, il 2016/679 Gdpr, “prevede la difesa del diritto fondamentale dell’individuo alla protezione dei dati personali, un diritto che possiamo ritenere oggi indirettamente garantito anche dalla Costituzione, che però stabilisce non solo la protezione, ma anche l’adeguata circolazione dei nostri dati personali. Se c’è un’emergenza eccezionale come quella che si vive oggi- continua l’esperto- si entra nella sfera del diritto alla salute che e’ altrettanto fondamentale. Quindi in ipotesi eccezionali più Stati europei potrebbero in qualche modo ridimensionare il diritto alla protezione dei dati favorendo la circolazione di alcuni dati con delle forme di controllo e garanzia, bilanciandolo così con queste esigenze eccezionali di tutela della salute pubblica” “Per fare una cosa del genere- spiega ancora l’esperto di diritto digitale e presidente di Anorc Professioni- sarebbe opportuno lavorare su una normativa europea specifica e di emergenza che operi quel bilanciamento tra i due diritti, cioè il diritto alla cosiddetta privacy e il diritto fondamentale alla salute, che potrebbe avere un enorme giovamento nel caso odierno grazie alla verifica degli spostamenti, dei contatti tra persone infette. È chiaro che bisognerebbe stabilire i tempi precisi di questo tracciamento, le modalità, le procedure di sicurezza per garantire che soltanto alcuni specifici autorizzati possano accedere a quei dati e fino a che punto quei dati possono essere esposti senza essere previamente pseudoanonimizzati o anonimizzati. Quindi non possiamo pensare in Europa ad arrivare un controllo generalizzato e pervasivo dei cittadini, pur giustificato dall’emergenza, ma ad un equo bilanciamento tra i diversi diritti in gioco, determinando tempi e modi certi di questa forma di tracciamento e confermandone l’eccezionalità e le dovute garanzie”. “Anche i padri del diritto alla protezione dei dati come Stefano Rodotà e Giovanni Buttarelli- conclude Lisi- non hanno mai pensato al diritto alla privacy come a un diritto assoluto, ricordiamocelo. Oggi stiamo combattendo una guerra e quindi alcune garanzie individuali possono essere compresse, come è stato del resto con la libertà di muoversi”.

Coronavirus e privacy, monitorare gli spostamenti delle persone è giusto? Le iene News il 19 marzo 2020. Per combattere l’emergenza mondiale del coronavirus la Corea del Sud invia sms abbastanza dettagliati in cui avverte in forma anonima sui luoghi che sono stati frequentati dai positivi al covid-19. Mentre la Cina ricorre al riconoscimento facciale. E in Italia a che punto siamo? Ne abbiamo parlato con un esperto. Cosa siamo disposti a rivelare della nostra vita e dei nostri spostamenti se la posta in gioco è contenere la diffusione del coronavirus? Quanto vale la nostra privacy? L’epidemia che il mondo sta attraversando non ha solo rivoluzionato le nostre vite, ma ci sta anche facendo riflettere sul giusto rapporto tra sicurezza e privacy. Una riflessione che nasce di fronte alle misure prese da alcuni governi in questi giorni, dalla Corea del Sud alla Cina, fino a Israele. Sono misure su cui si sta discutendo molto anche in Italia. Se da noi, infatti, le norme sulla privacy non permettono alcune delle misure adottate in questi paesi, anche in Italia si sta iniziando a impiegare la tecnologia per monitorare, in maniera anonima e aggregata, gli spostamenti delle persone per contenere il contagio. È quello che da alcuni giorni si sta facendo in Lombardia, dove, attraverso la collaborazione con le compagnie di telefonia mobile, la Regione sta monitorando gli spostamenti dei cittadini. Il risultato fotografato attraverso questi dati è che in Lombardia la riduzione degli spostamenti sulle lunghe distanze è del 60%. Troppo poco, secondo il sindaco di Milano Beppe Sala, che ha nuovamente chiesto ai cittadini di restare a casa. Bisogna rimarcare però una semplice quanto fondamentale differenza tra questo utilizzo dei dati e quello che sta avvenendo in alcuni dei paesi che abbiamo citato, come vedremo più nel dettaglio tra poco. In Lombardia i dati sono raccolti in forma aggregata e anonima. Non c’è quindi nessuna informazione sulla singola persona. Attraverso questa analisi, la regione ha però potuto constatare il rispetto delle limitazioni agli spostamenti introdotti dal decreto del governo per arginare il contagio. Ma se da noi il tutto è avvenuto nel rispetto delle norme sulla privacy, tanto è bastato per aprire un dibattito e guardare con più attenzione a come la tecnologia viene impiegata in altri paesi per contrastare la diffusione del contagio. Tra gli esempi più eclatanti c’è la Corea del Sud, dove il governo per contenere l’epidemia invia i “messaggi di orientamento sulla sicurezza”. Si parte da un monitoraggio volontario in cui vengono tracciati gli spostamenti delle persone infette utilizzando non solo dati Gps, ma anche le immagini delle telecamere di sorveglianza e transazioni di carte di credito. Il monitoraggio non parte da quando la persona, di cui non viene rivelato il nome ma il genere e la fascia di età, risulta positiva in poi: va anche a ritroso. Una volta risultata positiva, il sistema rintraccia e comunica tutti i luoghi che la persona ha frequentato dal giorno prima in cui si manifestassero i primi sintomi. Queste informazioni vengono poi pubblicate in forma anonima su un sito dedicato e inviati tramite sms alle persone che avrebbero potuto incrociare una persona infetta perché si trovavano negli stessi luoghi. Anche se non c’è nome e cognome, sono bastati i dettagli rivelati da questi sms a scatenare in alcuni casi il linciaggio e la “caccia alla persona” incrociando età, genere, luoghi frequentati (quindi il quartiere) e gli orari degli spostamenti. Ad esempio, un uomo di 30 anni risultato positivo sarebbe diventato bersaglio di insulti sul web dopo che in uno di questi sms si leggeva che era stato seguito fino alla stazione ferroviaria principale di Seul, noto luogo di prostituzione. Un’informazione poi corretta: era andato a mangiare in un ristorante. Fanno discutere molto anche le misure prese dalla Cina, che ricorre addirittura al riconoscimento facciale. Attraverso le telecamere sparse per la città, le autorità verificano chi indossa la mascherina e quali sono i luoghi che sta frequentando. Non solo, i sistemi di sorveglianza sono impiegati anche per tracciare i contagiati e i possibili nuovi contagi. Si tratta di modalità di controllo adottate in virtù di legislazioni molto differenti dalla nostra: in Europa ad esempio, grazie alla recente normativa in tema di privacy, tali metodi non sarebbero consentiti. Arriviamo a Israele, dove il governo il 17 marzo ha approvato il tracciamento dei cellulari dei cittadini per sorvegliare gli spostamenti dei pazienti risultati positivi al coronavirus e quelli sospettati di essere infetti con l’obiettivo di stabilire a seconda dei luoghi frequentati chi debba essere messo in quarantena. Ma torniamo in Italia, da noi l’utilizzo di dati aggregati fatto in Lombardia rispetta le norme sulla privacy. Sarebbe mai possibile arrivare al sistema messo a punto negli altri paesi? Lo abbiamo chiesto a Alex Orlowsky, esperto di digital marketing e open source intelligence. “In Italia quello che è successo ad esempio in Corea del Sud non potrebbe avvenire, bisognerebbe cambiare la normativa. Ma lì hanno sbagliato più che altro nella divulgazione che hanno fatto dei dati. Non credo che sia la gestione in sé dei dati a creare problemi, anche perché siamo tutti tracciati già da anni dai social network per motivi pubblicitari, non vedo perché adesso scoppi questo ‘panico da privacy’. Per la prima volta questi dati invece di servire per venderci prodotti attraverso le pubblicità, serviranno alla collettività per la salute dei cittadini. Ovviamente i dati devono essere assolutamente anonimi e aggregati con parametri stabiliti dal garante della privacy”. “Io credo che in Italia già con i dati che abbiamo a disposizione potremmo fare un lavoro utile nel contenere il contagio. Con le dovute cautele potresti chiedere il permesso alle persone infettate di essere geolocalizzate. Io non avrei problemi a dare il consenso. Cioè se fossi infetto da Codvi-19 e domani mi chiedessero di firmare la cessione dei miei dati di localizzazione direi di sì, come se mi chiedessero di donare il sangue o un rene per aiutare un’altra vita. Questi dati potrebbero essere utili per aiutare i cittadini in un momento di emergenza nazionale. Le tecnologie devono aiutarci, non opprimerci. I cittadini non devono avere informazioni specifiche sugli altri cittadini, ma il governo potrebbe allertare ad esempio chi ha frequentato un luogo a rischio”. Intanto in Italia si stanno sviluppando tecnologie proprio volte a cercare di tracciare la nascita di possibili nuovi focolai. C’è ad esempio una nuova app, che segnala gli spostamenti dei contagiati. Attraverso le reti Gps e i sensori degli smartphone, sarà possibile monitorare gli spostamenti effettuati dai pazienti positivi e avvertire coloro che sono stati vicino a questa persona nei giorni precedenti. “Tutto questo avverrà chiaramente su base volontaria, garantendo l’anonimato e condividendo in tempo reale i dati ottenuti con la Protezione Civile”, spiega a StartupItalia Luca Foresti, ceo del Centro Medico Sant’Agostino, da cui nasce l’idea. Sulla privacy Foresti assicura: “Non è necessario inserire alcun nome, cognome o numero di cellulare per accedere all’app. Saranno sufficienti soltanto l’username e la password. In questa maniera, si preserva l’anonimato e i tracciati non vengono resi pubblici”.

PREVEDERE LA STORIA. Ecco come i Big data possono limitare il contagio del coronavirus. Maurizio Stefanini su linkiesta.it il 20 marzo 2020. L’app sudcoreana che consente di sapere col proprio telefono dove si trovano aree o edifici con persone contagiate. Taiwan ha ottenuto risultati strepitosi combinando i database di immigrazione e dogana con l’archivio nazionale del sistema sanitario. In attesa del vaccino, più efficaci della quarantena di massa decisa da Cina e Italia e ora imitata da altri, più accettabili della immunità di gregge agitata da Boris Johnson e subito ritirata, ci sono i Big Data. Che sono un concetto in realtà antico, divenuto però pratico e definito negli anni ’90, non senza qualche rischio potenziale incisivamente espresso in un famoso film del 2002 diretto da Steven Spielberg e liberamente tratto da un racconto di fantascienza di Philip K. Dick: Minority Report. Ma in questo momento più che ai fantasmi si pensa ai morti. I già troppi che sta provocando il coronavirus in tutto il mondo, e i sorprendentemente pochi che sta facendo in alcuni Paesi che invece stavano giusto a ridosso della Cina. Non solo la Corea del Sud: che pure resta il sesto Paese al mondo per contagiati, ma con una mortalità di appena l’1 per mille. Giappone e Malaysia hanno avuto a loro volta meno contagi dei principali Paesi dell’Europa Occidentale e degli Usa, Singapore meno del Brasile, Hong Kong meno del Lussemburgo, addirittura Taiwan meno di San Marino! Il metodo sud-coreano è stato esaltato addirittura dal Manifesto: quotidiano comunista che forse sarebbe eccessivo dire è più abituato a lodare la sanità nord-coreana, ma certamente in genere indica a esempio quella cubana. «Imbarazzante il paragone con l'Italia. 8 mila casi contro 15 mila, 71 morti contro oltre mille», scriveva venerdì 13 (absit iniuria diei). Al contempo, dall’altra parte dell’arco politico l’esempio di Seul sta facendo impazzire Zaia, che chiede anche da noi «leggi per tracciare i movimenti dei telefonini». L’uso dei cellulari è la cosa che ha fatto più impressione di un sistema in realtà più sofisticato, sviluppato dopo lo scandalo dell’epidemia di Mers che nel 2015 aveva fatto 38 morti e 200 contagi, rivelando l’assoluta impreparazione del sistema sanitario locale. Invece di limitarsi a recriminare, i sud-coreani fecero la riforma che già nel 2016 si rivelò efficacissima contro l’epidemia di zika. Un aspetto importante del sistema è anche una rete di stazioni mobili per i test, visite nelle abitazioni e punti di controllo in strada per gli automobilisti che ha permesso di fare la cifra record di 240 mila tamponi in un mese e mezzo, limitando i rischi di contagio che operatori e altri pazienti avrebbero corso a farli in ospedale. Una volta individuati i contagiati, i loro movimenti e transazioni sono stati resi pubblici attraverso un sistema centralizzato con tecnologia Gps, telecamere di sorveglianza e, appunto, app. La app «Corona 100m», in particolare, è scaricabile da tutti, e permette a chiunque di sapere col proprio telefono dove si trovano aree o edifici con persone contagiate. Attenzione, però: le app non erano che uno strumento. Al servizio, appunto, dei Big Data: torniamo sul concetto. Senza puntare troppo sui cellulari, Taiwan ha a sua volta ottenuto risultati strepitosi combinando i database di immigrazione e dogana con l’archivio nazionale del sistema sanitario. L’identificazione dei singoli casi è avvenuta in tempo reale, comparando i sintomi clinici con la raccolta dati dei viaggi del paziente e dei suoi familiari. E anche Singapore ha seguito un metodo del genere, dopo aver messo in quarantena e poi chiuso le frontiere a tutti i viaggiatori provenienti dalla Cina. Ovviamente in Italia la privacy è percepita in modo diverso che in Asia, dove anche nei Paesi più liberali come Corea del Sud, Taiwan o il Giappone c’è un senso confuciano della comunità fortissimo. Però ad esempio in Israele lo Shin Bet si è messo a sua volta a monitorare i movimenti dei positivi al coronavirus sulla base di un database creato nel 2002 per combattere il terrorismo. Milioni di dati su spostamenti e orari di tutti i possessori di un telefonino che aggancia la rete telefonica di Israele sono stati messi a disposizione sui autorizzazione della Knesset per un periodo di emergenza di 30 giorni. Ma, appunto, questi dati già c’erano. L’eccezione è servita solo per dare il permesso di utilizzarli. E torniamo dunque al concetto di Big Data. Che significa? Semplicemente la possibilità di utilizzare una gran quantità di informazioni in modo da avere una rappresentazione esatta della realtà; non quella indotta e approssimata che deriva da un campionamento statistico. Quest’ultimo è ad esempio il caso di un sondaggio elettorale. I Big Data sono proprio i risultati dell’elezione. Il termine fu lanciato negli anni ‘90 da John Mashey, noto guru dell’Informatica. Una buona spiegazione ne hanno dato il docente dii Oxford Viktor Mayer-Schönberger e l’analista dell’Economist Kenneth Cukier in un libro del 2013: Big Data: A Revolution That Will Transform How We Live, Work and Think, pubblicato in italiano con il titolo più minaccioso di Big Data Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere e già minaccia la nostra libertà. L’anno prima i Big Data erano stati al centro del Forum di Davos, che comunque da allora ha continuato a seguirli con attenzione. Proprio quel libro ci informa che grazie ai Big Data si è scoperto che le auto di colore arancione hanno meno difetti delle altre. Come gli automobilisti che fanno il pieno intorno alle quattro del pomeriggio spendono quasi sempre nell’ora successiva tra 35 e 50 dollari in un supermercato o in un ristorante. Che nei campionati di sumo la proporzione di combine aumenta nelle ultime gare. E anche che in previsione di un uragano aumentano non solo le vendite di torce elettriche, ma anche quelle di merendine dolci. Come mai? In qualche caso, una volta individuato il fenomeno la spiegazione è ovvia. Nei campionati di sumo, ad esempio, per mantenere ranking e guadagni un lottatore deve vincere la maggioranza delle 15 gare in calendario, per cui verso la fine chi si è già aggiudicato almeno 8 incontri ha meno spinta a impegnarsi di chi sta a quota 7 vittorie e 7 sconfitte. E il sapore dolce aiuta a combattere l’ansia, riempiendo l’organismo di calorie per affrontare l’emergenza. In altri casi, pur lavorando di fantasia, è difficile arrivare a una certezza. Ma nel mondo del Big Data, il perché non conta più. Quello che importa è il cosa. La grande quantità, infatti, a un certo punto fa scattare una vera e propria rivoluzione epistemologica, così come avvenne quando si passò dal manoscritto al libro stampato. E il punto di passaggio è appunto stato nel primo decennio del nuovo millennio. Nel 2000, in particolare, il 75 per cento delle informazioni immagazzinate nel mondo era ancora di tipo analogico: giornali, libri, stampe fotografiche, eccetera. E solo il 25 per cento era digitale. Ma nel 2007 l’analogico era sceso al 7, e il digitale era diventato il 93 per cento. E nel 2013, anno del libro, eravamo arrivati al 2 per cento analogico contro il 98 per cento digitale. Attenzione, però! Non è che la massa delle informazioni analogiche in senso assoluto sia diminuita in questa proporzione. È l’informazione digitale che è esplosa: ognuno di noi è oggi investito da un «diluvio digitale» pari ad almeno 320 volte le informazioni immagazzinate nella Biblioteca di Alessandria. Una volta proprio l’abbondanza di informazioni costringeva a ricorrere al campionamento, base della statistica. Ma adesso le nuove tecnologie permettono di utilizzare tutto l’universo delle informazioni disponibili. È la «fine della teoria, la correlazione basta e avanza». Appunto, la massa degli scontrini emessi da Walmart, per cui nei punti vendita si è iniziato a impilare scatole di merendine accanto alle attrezzature anti-uragano. Facendo affari d’oro. In teoria, il sistema dei Big Data era utilizzabile anche in passato. Tra le molte storie raccontate da Mayer-Schönberger e Cukier c’è quella di Matthew Fontaine Maury: ufficiale della marina statunitense che, bloccato a un lavoro di ufficio da un incidente, comparò i dati dei libri di bordo custoditi nel suo archivio per scrivere una monumentale Physical Geography of the Sea che permise di ottimizzare il sistema delle rotte oceaniche. Ma oltre certi limiti i Big Data dati erano difficile da gestire, e proprio per maneggiare i dati dei censimenti Usa nel 1887 fu inventato il sistema delle schede perforate: primo passo del percorso che ha portato alla rivoluzione dei nostri giorni. Una rivoluzione, avvertivano gli autori, gravida di promesse, ma anche di rischi. Uno scenario alla Orwell o alla Dick poteva ad esempio essere intravisto nel modo in cui a New York i Big Data erano stati utilizzati per individuare gli stabili dove più probabilmente si era proceduto a un’illegale frammentazione delle unità abitative, con conseguente grave rischio di incendio. Orwell e Dick a parte, un approccio positivo al fenomeno potrebbe guardare alla profezia di Teilhard de Chardin sulla noosfera. La rete nervosa planetaria in cui secondo il grande gesuita paleontologo si sublimerà la fratellanza tra gli uomini, e che rappresenterebbe il secondo passo di quella «legge della complessità crescente» attraverso cui dal primo momento organico della biosfera l’evoluzione arriverà al terzo e definitivo momento del «punto Omega»: quello in cui convergono le categorie del «Cristo universale» e del «Cristo cosmico». Insomma, l’uomo che scopre di non essere altra cosa se non l'evoluzione divenuta cosciente di sé stessa. Oppure si potrebbe pensare alla Psicostoriografia posta da Isaac Asimov alla base del suo Ciclo della Fondazione: una «scienza del comportamento umano ridotto ad equazioni matematiche» che permetterebbe di prevedere la Storia futura. Uno scenario del genere attorno al 2014 fu presentato da Kalev Leetaru: altro guru dei Big Data, e collaboratore di Foreign Policy. La sua creatura era Google Big Query, uno strumento in grado di cercare in fonti da oltre 100 lingue per raccogliere dal 1979 in poi i dati che sono poi confluiti nel The Global Database of Events, Language, and Tone (Gdelt), reperibile su Google Cloud Platform. Fu lui stesso a spiegare che erano stati proprio i romanzi di Asimov a dargli l’idea, e che questa possibilità di mettere a confronto 250 milioni di informazioni in pochi minuti avrebbe permesso appunto di prevedere la Storia. L’Università dell’Illinois, però, dopo averlo assunto come docente lo ha cacciato, accusandolo di aver truccato i dati per far filare le sue previsioni. E il progetto di nuova Psicostoriogafia è stato dunque per un po’ screditato. I Big Data, però, in Africa avevano già permesso di prevedere la direzione di espansione dell’epidemia di Ebola verso il Senegal, semplicemente accostando in tempo reale ai dati sui ricoveri quelli su voli aerei, menzioni sulle reti sociali e chiamate al cellulare. Già nel 2014 l’efficacia di questo sistema era stato trattato dai giornali, anche se era rimasto un po’ confinato nelle pagine per specialisti. E dopo altri buoni risultati con zika e cancro poco più di un anno fa Il National Geographic di aveva fatto un grosso servizio. «Come possono i Big Data sconfiggere una grande malattia?», era la domanda. Una clamorosa profezia: anche se non di quanto sarebbe stata grande la malattia e spettacolare la vittoria. 

Katia Riccardi per repubblica.it del 6 marzo 2020. Nel tentativo di prevenire e contenere la diffusione del virus, il governo della Corea del Sud ha preso misure contestabili. Manda sms, in continuazione, dalla mattina alla sera. Un sovraccarico di informazioni sotto forma di avvisi di sms d'emergenza che oltrepassano ogni limite di privacy, includendo rivelazioni sulla vita privata delle persone infette. Un grande fratello malato e imbarazzante che sta spaventando ancora più del coronavirus. Sono "messaggi di orientamento sulla sicurezza" inviati dalle autorità sanitarie e dagli uffici distrettuali di tutto il Paese. Ricordano alle persone di lavarsi accuratamente le mani, di non toccarsi il viso. Ma non solo. Tracciano i movimenti degli infetti utilizzando dati Gps, riprese delle telecamere di sorveglianza e le transazioni con carta di credito per ricreare i loro percorsi già dal giorno prima della manifestazione dei primi sintomi. Una specie di caccia al contagiato. "Una donna di sessant'anni è appena risultata positiva" si legge in un sms. "Clicca sul link per vedere i luoghi che ha visitato prima di essere ricoverata in ospedale". Chi lo fa viene reindirizzato al sito di un ufficio distrettuale che elenca gli spostamenti. Gli sms non forniscono un nome ma un numero di caso, il genere e la fascia di età del contagiato. Cercando online però le query correlate includono "dettagli personali", "volto", "foto", "famiglia" o persino "adulterio". E lo stigma social ha superato la paura dell'epidemia.

Il grande fratello e le storie private. Le storie sono tantissime. Un uomo sulla cinquantina, per esempio, tornato dalla provincia di Wuhan in Cina, focolaio iniziale del virus, insieme alla sua segretaria trentenne. Entrambi sono stati infettati nei primi giorni dell'epidemia. Peggio di questo però, sono stati ricoperti di insulti e accusati di adulterio. In un altro caso, riportato dalla Bbc, un sms ha riferito di un uomo di 43 anni residente nel distretto di Nowon contagiato dal suo istruttore durante un corso sulle molestie sessuali. La notifica diceva: "Era al lavoro nel distretto di Mapo e frequentava un corso di molestie sessuali. Ha contratto il virus dall'istruttore della classe". Poi una serie di messaggi a indicare i posti dove i due uomini si erano recati insieme, compreso un bar nell'area dove erano rimasti "fino alle 11,03 di notte".

La donna "scoperta" e accusata di frode. In un altro sms una donna sulla sessantina, poi risultata positiva, nei suoi spostamenti avrebbe partecipato a un matrimonio e pranzato in un ristorante con gli amici nonostante risultasse recentemente ricoverata in ospedale con lesioni per un incidente d'auto. Gli utenti hanno cominciato a perseguitarla accusandola di frode assicurativa. I giornalisti le hanno dato la caccia e infine rintracciata, lei ha negato. Una persecuzione su ogni fronte. Secondo il team del professor You Myoung-soon, per i sudcoreani "le critiche e gli ulteriori danni" sono più temuti che avere il virus. Lee Su-young, psichiatra dell'ospedale Myongji di Goyang, Gyeonggi, ha dichiarato alla Bbc coreana che alcuni dei suoi pazienti "avevano più paura di essere incolpati che di morire del virus".

L'uomo bersagliato di insulti per prostituzione. Un uomo di 30 anni, positivo al coronavirus, è diventato il bersaglio di insulti online per il suo comportamento sessuale dopo che le autorità hanno dichiarato in un sms che non erano stati in grado di seguirlo oltre la stazione ferroviaria principale di Seul, un'area nota per la prostituzione. L'uomo è stato preso di mira. In effetti aveva semplicemente mangiato in un ristorante nelle vicinanze, hanno poi chiarito le autorità sanitarie, scusandosi per la precedente informazione sbagliata e dovuta a un problema tecnico. Troppo tardi.

La persecuzione della ragazza della setta. Un messaggio riguardava una ragazza 27 anni che lavora nello stabilimento Samsung di Gumi. Diceva che alle 18,30 di sera del 18 febbraio aveva partecipato al raduno della setta religiosa Shincheonji, la più grande causa di infezioni nel paese. Il sindaco della città Jang Se-yong ha rivelato il suo cognome su Facebook. Centinaia di commenti subito dopo, residenti di Gumi nel panico: "Dicci il nome del suo condominio". Lei ha cercato di difendersi: "Per favore, non divulgate le mie informazioni personali", ha scritto in un post Fb, dicendo di essere spaventata.

I ristoranti minacciati: "Falliremo". Gli sms non identificano i pazienti ma rivelano i nomi dei negozi e dei ristoranti che hanno visitato prima di essere testati. I ristoranti nominati vengono quindi temporaneamente chiusi, perdono i clienti, rischiando il fallimento. C'è chi se ne approfitta. Un uomo che affermava di essere stato infettato da Covid-19 ha contattato diversi ristoranti nel distretto di Mapo di Seul avvertendo che avrebbe detto di aver mangiato lì alle autorità sanitarie, e chiedendo soldi in cambio del silenzio.

La preghiera del padre di famiglia. Un uomo che ha contratto il virus insieme a sua madre, sua moglie e i suoi due figli ha scritto un lungo e emozionante post su Facebook chiedendo alle persone di smettere di incolparli. "Non sapevo che mia madre fosse una seguace di Shincheonji", scrive. Poi difende la moglie, un'infermiera, criticata per aver visitato così tanti posti durante il periodo di incubazione. "È vero che mia moglie si è spostata molto, ma per favore smettetela di maledirla. La sua unica colpa è quella di aver sposato uno come me, che per lavoro accompagno persone con disabilità e mi prendo cura dei bambini". "Come potevo sapere del coronavirus?". Commenti online virali più del virus, più dolorosi. Senza cura.

Coronavirus, pronta la app italiana per tracciare i contagi: «Così possiamo fermare l’epidemia». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Elena Tebano. «Abbiamo già sviluppato una app da scaricare sui cellulari che permette di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo. Stiamo facendo gli ultimi test e siamo pronti a metterla a disposizione della Protezione civile». Luca Foresti è l’amministratore delegato della rete di poliambulatori specialistici Centro medico Santagostino. Ex normalista (a Pisa ha studiato fisica e matematica) con esperienze nella finanza etica e nell’imprenditoria digitale, sta lavorando con i maggiori esperti italiani di big data a un progetto senza fini di lucro per mettere l’analisi dei database e la geolocalizzazione digitale al servizio del contenimento dell’epidemia di Covid-19. Insieme hanno formato una onlus sotto la direzione tecnico-scientifica dell’ex commissario per l’Agenda Digitale Diego Piacentini e del presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi, a cui lavorano Bending Spoons, la più importante azienda italiana che fa app; Jakala, una società di marketing digitale con grandi competenze sulla georeferenziazione; e Geouniq, che ha sviluppato un programma di geolocalizzazione capace di individuare la posizione di un cellulare (compreso il piano del palazzo a cui si trova) con un errore di soli 10 metri.

A cosa serve la app?

«A limitare e contenere i contagi intervenendo sui focolai in modo mirato, chirurgico. L’isolamento deciso dal governo in questo momento è fondamentale, ma dobbiamo pensare a degli strumenti per il dopo, quando il virus sarà diminuito ma non del tutto scomparso e dovremo prevenire che si diffonda di nuovo».

Come funziona?

«È una applicazione scaricabile sul cellulare che permette, una volta individuati i positivi, di ricostruire tutti i loro movimenti nelle settimane precedenti e di mandare un messaggio a coloro con cui sono entrati in contatto per segnalare che sono a rischio e devono mettersi in autoquarantena. In questo modo si ferma la diffusione del virus. È lo stesso approccio sperimentato in Corea del Sud, a Singapore e in parte in Cina, che si è rivelato molto efficace».

Uno dei problemi però è che molte persone positive, con sintomi lievi, non vengono rilevate perché non sono sottoposte ai tamponi…

«La app ha anche un “diario clinico” per la early detection, l’individuazione precoce delle infezioni. Una sezione in cui i singoli utenti possono registrare in modo anonimo eventuali sintomi. I dati così raccolti permettono di prevedere se ci sono delle zone in cui si sta diffondendo il contagio. Oggi invece facciamo i test solo alle persone che si aggravano: significa che rileviamo i casi quando ormai sono vecchi di almeno dieci giorni. E quindi hanno già contagiato altri. Sapere se oggi a Milano, per esempio, c’è un improvviso aumento di persone con la febbre significa poter intervenire subito con la quarantena e l’isolamento preventivo. Poi certo è auspicabile fare test a tappeto: speriamo che si arrivi anche a quello».

Si possono rilevare anche gli spostamenti “eccessivi” come quelli che sono stati denunciati in questi giorni in Lombardia?

«Sì, siamo già in grado di rilevare su base statistica (e quindi anonima) assembramenti a rischio o di dire quali comuni hanno comportamenti sbagliati e quindi devono rivedere le politiche di contenimento. Non solo, questi dati possono essere incrociati con quelli dell’Istat per tracciare ulteriori mappe di rischio». Quali dati Istat? «L’Istat divide tutto il territorio nazionale in “cellette” di 65 famiglie. Per ognuna di esse abbiamo la distribuzione della popolazione in base all’età: se sappiamo che in un determinato territorio c’è una maggiore concentrazione di anziani, sappiamo che c’è una più alta probabilità di avere vittime e che quindi dobbiamo pensare a interventi mirati per quella zona».

Chi avrebbe accesso a questi dati?

«La Protezione civile, che così potrebbe intervenire in tempo reale per prevenire i comportamenti sbagliati o predisporre la risposta sanitaria. E poi la comunità scientifica. La ricerca scientifica è fondamentale per sconfiggere il coronavirus, ma deve essere veloce: per questo deve avere dati il più possibile precisi. Infine la app funziona anche nel verso opposto: permetterebbe di informare e seguire i cittadini preoccupati o con sintomi, che adesso non sempre riescono a raggiungere i numeri di emergenza».

In tutto questo però c’è il problema della privacy: siamo in una democrazia, è un diritto fondamentale delle persone.

«Ne abbiamo tenuto conto fin dall’inizio e abbiamo sviluppato la app in collaborazione con Giuseppe Vaciago, avvocato ed uno dei maggiori esperti nella protezione dei dati sensibili in Italia. La app non rivela né i dati anagrafici né il numero di telefono delle persone».

In Corea ci sono stati problemi perché la ricostruzione dei movimenti dei contagiati ha fatto capire chi erano e cosa facevano.

«Noi non rendiamo pubblici i tracciati, ma avvertiamo in modo automatico coloro che sono stati in posti dove c’erano positivi».

Cosa vi manca per partire? State aspettando l’autorizzazione del governo? Ci sono anche altre realtà che stanno lavorando a strumenti simili…

«Siamo in contatto con il ministero per l’Innovazione digitale guidato da Paola Pisano, che ci ha dato il suo supporto. E siamo pronti a collaborare e unire le forze con chiunque abbia sviluppato altri strumenti utili».

Coronavirus, come funzionano il controllo delle celle e il tracciamento dei contagi. Il Garante: «Non bisogna improvvisare». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Martina Pennisi. Dal 20 febbraio, giorno in cui siamo venuti a conoscenza del primo cittadino italiano malato di Covid-19, in Italia sono morte 2.978 persone con il virus Sars-Cov-2 e i contagiati hanno superato quota 35 mila (qui i dati aggiornati). Per questo motivo si sente parlare della possibilità di sfruttare la tecnologia per monitorare e provare a contenere l’epidemia. Lunedì l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha caldeggiato qualcosa di simile auspicando test a tappeto, isolamento dei positivi e tracciamento dei loro contatti. Come si sono spostati e con chi sono venuti a contatto i malati, quindi. Il vice presidente della Lombardia e assessore per la Ricerca Fabrizio Sala e l’assessore al Welfare Giulio Gallera hanno scoperchiato il vaso di Pandora martedì sera, annunciando di aver analizzato gli spostamenti «da cella a cella» dei telefoni cellulari per capire quanti abitanti si muovono sul territorio e come lo fanno (qui l’articolo di Cesare Giuzzi). Innanzitutto è bene premettere che si tratta di una versione light delle soluzioni più articolate e delicate che potrebbero venire adottate nei prossimi giorni o settimane. In questo caso, la Regione afferma di acquisire i dati anonimi e aggregati di Vodafone e Tim sul numero di telefonini che si agganciano alle antenne (qui Alessio Lana spiega come funziona): mentre ci muoviamo per continuare a funzionare il telefonino passa da una porzione di rete all’altra - le celle, appunto - e così i due operatori, prima, e la Regione, poi, sanno quante persone si sono spostate da un luogo a un altro e, per esempio, scoprono se in molti sono andati oltre le poche centinaia di metri concesse dal decreto (a queste condizioni, in continua evoluzione). Come spiega Sala al Corriere, «l’esperienza deriva da Expo e dall’analisi di flussi intorno e all’interno della fiera. Per Covid-19, abbiamo preso in considerazione il 20 febbraio, giorno del primo caso, e ci siamo resi conto che dopo il lockdown gli spostamenti sono calati solo del 60 per cento. Troppo poco». Cosa vuol dire che le informazioni sono anonime e aggregate? «Sono dati secchi, numeri. Non abbiamo modo di risalire ai proprietari dei cellulari», risponde Sala. Rimane il fatto che un primo canale di acquisizione e analisi dei dati delle società di telecomunicazioni per gestire Covid-19 sia stato aperto e che ne sia stata data comunicazione un mese dopo. Qui inizia la parte delicata. Con il primo decreto sull’emergenza del 9 marzo, la Protezione civile ha già ottenuto una deroga per acquisire e trattare i dati biometrici che identificano in modo univoco una persona o quelli sulla salute. Quello del 17 marzo, Cura Italia, prevede la nomina di un «contingente di esperti» che si occupi «di dare concreta attuazione alle misure adottate per il contrasto e il contenimento del diffondersi del virus con particolare riferimento alle soluzioni di innovazione tecnologica». Come anticipato da Wired Italia, sarà il ministero dell’Innovazione di Paola Pisano a occuparsi di questa task force, di cui faranno parte economisti ed esperti del tracciamento dei dati i cui nomi arriveranno con un decreto di nomina. Sul piatto verranno messi sia dati di fonti aperte, come la Protezione civile, sia di fonti dal mondo universitario. L’Università di Pavia, per esempio, che secondo Wired ha ottenuto da Facebook i dati sugli spostamenti da Nord a Sud nella notte del grande esodo, tra il 7 e l’8 marzo, dopo che il premier Giuseppe Conte ha annunciato la chiusura della Lombardia. Quindi: fonti aperte, dati anonimi e aggregati o dati che non escono dai dipartimenti degli atenei. Ancora diverso - ed ecco il punto - è il discorso del monitoraggio dei contatti dei casi positivi di cui parlavamo all’inizio: per attivarlo e andare a indagare sulla posizione e sugli spostamenti dei singoli cittadini, seppur ridistribuendoli anonimamente, servono regole e garanzie, come sottolineato anche dall’European Data Protection Board citando il Regolamento europeo per la privacy Gdpr, che consente il trattamento per finalità di sicurezza nazionale ma allo stesso tempo richiede una valutazione d’impatto e sulla sicurezza. Il governo non si è ancora sbilanciato. Nonostante questo sono numerose le dichiarazioni di aziende o startup (come quella raccolta da Elena Tebano) che stanno sviluppando applicazioni per tracciare i movimenti dei malati di Covid-19 ed eventualmente avvisare chi è entrato in contatto con loro. Anche Asstel, l’associazione di rappresentanza delle compagnie telefoniche, ha dato la sua disponibilità, ribadendo che serve un’indicazione dell’esecutivo. Il modello è quello della Corea del Sud, che ha puntato innanzitutto su test a tappeto (come vuole fare il Veneto di Zaia) e poi sull’uso della tecnologia con applicazioni mobili e attingendo a Gps o carte di credito per creare una mappa del contagio, utile anche per allertare le persone che potrebbero aver incrociato un infetto, di cui nessuno saprebbe nome e cognome, ma tutti saprebbero dove è stato. «La Corea ce l’ha fatta. Questa è una misura è un po’ lesiva della privacy e bisogna avere la certezza che il dato venga usato a fini di sanità pubblica, ma tracciare tutti i contatti dei positivi può aiutare a contenere il contagio, anche in questa condizione di semi reclusione in cui siamo. Si tratta di una misura eccezionale che dovrebbe essere svolta solo per un determinato periodo», afferma Paolo Bonanni, ordinario di Igiene all’Università degli Studi di Firenze e componente della Società italiana di Igiene, medicina preventiva e sanità pubblica.

Il Corriere ha chiesto al Garante per la privacy Antonello Soro di chiarire i punti più delicati. Sul caso della Lombardia: «Non siamo stati informati dell’iniziativa della Lombardia e non la conosciamo, dunque, nei dettagli. Dalle notizie pubblicate sembrerebbe si tratti unicamente di dati aggregati e anonimi e ci riserviamo di verificarlo». Sul tracciamento dei contagi anche in Italia: «L’acquisizione di trend, effettivamente anonimi, di mobilità potrebbe risultare una misura più facilmente percorribile, laddove, invece, si intendesse acquisire dati identificativi, sarebbe necessario prevedere adeguate garanzie, con una norma ad efficacia temporalmente limitata e conforme ai principi di proporzionalità, necessità, ragionevolezza. In tal senso, andrebbe effettuata un’analisi dell’effettiva idoneità della misura a conseguire risultati utili nell’azione di contrasto. Ad esempio, apparirebbe sproporzionata la geolocalizzazione di tutti i cittadini italiani, 24 ore su 24, non soltanto per la massività della misura ma anche e, forse, preliminarmente, perché non esiste un divieto assoluto di spostamento e dunque la mole di dati così acquisiti non avrebbe un’effettiva utilità. Diversa potrebbe essere, invece, la valutazione relativa alla geolocalizzazione, quale strumento di ricostruzione della catena epidemiologica. In ogni caso, è indispensabile una valutazione puntuale del progetto. Non è il tempo dell’approssimazione e della superficialità». Sulla possibilità che vengano coinvolte anche le piattaforme come Google o Facebook: «Il coinvolgimento delle piattaforme, se necessario ai fini dell’acquisizione di dati utili a fini di prevenzione, va normato adeguatamente, circoscrivendo, per ciascun soggetto coinvolto nella filiera del trattamento, i rispettivi obblighi. Se, infatti, può essere opportuno che il patrimonio informativo di cui dispongano i big tech sia messo a disposizione per fini di utilità collettiva, dall’altro questo non deve risolversi in un’occasione di ulteriore incremento di dati da parte loro. In ogni caso, gli utenti devono essere adeguatamente informati di tale ulteriore flusso di dati, che deve essere comunque indirizzato solo ed esclusivamente all’autorità pubblica, a fini di prevenzione epidemiologica». Sui paletti da mettere, adesso: «Bisognerebbe anzitutto orientarsi secondo un criterio di gradualità e, dunque, valutare se le misure meno invasive possano essere sufficienti a fini di prevenzione. Ove così non sia, si dovrà studiare modalità e ampiezza delle misure da adottare in vista della loro efficacia, proporzionalità e ragionevolezza, senza preclusioni astratte o tantomeno ideologiche, ma anche senza improvvisazioni. Il Garante fornirà, naturalmente, il suo contributo nello spirito di responsabilità e leale cooperazione istituzionale che ne ha sempre caratterizzato l’azione, nella consapevolezza della difficoltà del contesto attuale».

ISRAELE.

Giordano Stabile per ''La Stampa'' il 15 marzo 2020. In Israele l'epidemia accelera, il numero dei contagiati passa da 127 a 193 in un solo giorno e Netanyahu interviene, parla alla nazione per prepararla alla battaglia, mentre il capo dell' opposizione Gantz annuncia che è pronto a entrare in un governo di unità nazionale guidato dal rivale. La curva del contagio indica che presto lo Stato ebraico potrebbe trovarsi in una situazione simile a quella italiana. Il premier promette che «non solo supereremo questa crisi, sconfiggeremo il virus». Soprattutto con l' uso di «una tecnologia invasiva», cioè un software per la difesa antiterrorismo, di concezione militare, per tracciare il diffondersi del contagio e stroncarlo, anche attraverso il controllo degli spostamenti attraverso i cellulari, con l' appoggio dello Shin Bet. Una guerra cibernetica «al nemico invisibile». Il primo passo è però cercare di «non infettarsi e non infettare altre persone». Per questo il governo ha annunciato nuove misure. Scuole e università rimarranno chiuse fino a dopo il Passover, tutte le attività ricreative sospese e gli assembramenti oltre le 10 persone proibiti. Ci saranno anche controlli della temperatura nei supermercati. Netanyahu ha valutato tre scenari per il futuro. In quello più drastico chiuderanno tutte le aziende a parte quelle che forniscono servizi essenziali: acqua, carburanti, elettricità, gas, sanità, sicurezza. Ai militari di leva è stato ordinato di tornare in caserma, dove dovranno restare «fino a un mese». Israele non ha ancora imposto il blocco dei voli, come l' Arabia Saudita, ma le norme imposte ai visitatori stranieri, che devono dimostrare di avere un posto dove stare per 14 giorni in quarantena, hanno di fatto bloccato gli arrivi. Nei Paesi vicini, il Libano si prepara a una chiusura totale in stile Italia, che sarà annunciata oggi, mentre il principale focolaio di contagio resta l' Iran. Ieri i casi sono saliti a 12.729, i morti a 611. Ma la realtà potrebbe essere peggiore. Foto satellitari hanno mostrato come il cimitero di Qom abbia allestito una nuova area grande come un campo da calcio, medici parlano di «centinaia di morti al giorno», mentre le autorità hanno arrestato un noto calciatore, Mohammad Mokhtari, per aver scritto su Instagram che «le cifre ufficiali sono una piccola percentuale della verità». Anche i contagi nel Golfo stanno esplodendo: 337 in Qatar, 211 in Bahrein, 104 in Kuwait, 103 in Arabia Saudita, 85 negli Emirati. 

Israele, i servizi segreti arruolati  per pedinare gli infettati dal Coronavirus: «E’ una guerra».  Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Davide Frattini. «E’ una guerra», proclama. E della guerra vuole usare gli strumenti «per combattere questo nemico invisibile». Quasi ogni sera all’ora della cena il premier Benjamin Netanyahu appare in diretta televisiva e comunica agli israeliani le ultime restrizioni per fermare la diffusione del Covid-19, fino a questo momento i casi sono 200: scuole, università, bar e ristoranti chiusi, proibiti i raggruppamenti di più di 10 persone, già nelle scorse settimane il governo aveva deciso di obbligare alla quarantena chiunque arrivasse dall’estero, la maggior parte dei voli sono stati cancellati. Come altri Paesi anche Israele si sta barricando per provare a rallentare la diffusione del virus. Soprattutto Netanyahu vuole poter utilizzare i sistemi di sorveglianza tecnologica che lo Shin Bet, i servizi segreti interni, usano «nella guerra al terrorismo, è la nostra nuova sfida». In sostanza monitorare chi sia risultato positivo: con la geo-localizzazione è possibile individuare i luoghi dove queste persone sono passate e controllare che non violino il periodo di isolamento a casa. Il procuratore generale dello Stato ha dato l’approvazione alle misure speciali, mentre lo Shin Bet garantisce che non verrà violata la privacy e le informazioni non saranno sfruttare per imporre la quarantena. Dovrebbero servire a ricostruire la mappa degli spostamenti degli infettati. Anche con queste limitazioni l’intervento dei servizi preoccupa deputati della sinistra come Nitzan Horowitz: «Pedinare i cittadini con questi mezzi sofisticati è una violazione dei diritti civili. E’ per questa ragione che queste tecniche sono proibite nelle nazioni democratiche». L’emergenza Coronavirus non ferma la politica, rinvia però a maggio l’inizio del processo per corruzione, frode, abuso d’ufficio contro Netanyahu: il primo ministro avrebbe dovuto sedersi martedì davanti ai giudici per ascoltare le accuse, tutte le udienze sono sospese. Oggi il presidente Reuven Rivlin ha cominciato le consultazioni con i leader dei partiti e dovrà decidere a chi affidare il mandato per provare a formare il governo, dopo che gli israeliani hanno votato il 2 marzo per la terza volta in meno di un anno. Né Netanyahu né il rivale Benny Gantz hanno i numeri per la maggioranza. Il capo dello Stato vuole spingere per una coalizione di unità nazionale e sembra che i due avversari siano disposti all’intesa. Da definire chi siederebbe per primo sulla poltrona di premier, una posizione che Netanyahu non vuole cedere. Gantz, l’ex capo di Stato Maggiore sceso in campo proprio per deporre il leader della destra, dovrebbe riceve il numero più alto dei consensi: la Lista Unita, che rappresenta per la maggior parte gli arabi israeliani, ha deciso di sostenerlo e così dovrebbe fare anche Avigdor Lieberman.

Israele, misure antiterrorismo contro il coronavirus. Francesca Salvatore su Inside Over il 16 marzo 2020. Israele utilizzerà le tecnologie antiterrorismo per rintracciare i vettori del coronavirus. Lo ha dichiarato sabato scorso il primo ministro Benjamin Netanyahu mentre il governo ha varato nuove restrizioni tra cui la chiusura di tutti i ristoranti, caffè e teatri e ha chiesto che gli uffici facciano lavorare i dipendenti da casa. Sono circa 200 i casi in Israele ed il paese, in queste ore, sta transitando verso un parziale lockdown. Le nuove restrizioni saranno in vigore fino a dopo la Pasqua, a meno che la situazione non muti rapidamente.

Cyber tech e privacy. “Siamo di fronte a una guerra che richiede passaggi unici, passaggi non semplici e che richiede una certa violazione della privacy. Questa misura è stata messa alla prova a Wuhan e Israele è uno dei pochi paesi che hanno questa capacità e la useremo”. La dichiarazione di Netanyahu ha suscitato immediatamente numerose polemiche, in una fase non certo semplice della politica israeliana. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, dal canto suo conferma di star esaminando l’uso delle proprie capacità tecnologiche per combattere il coronavirus, su richiesta di Netanyahu e del Ministero della Salute. Le misure proposte, infatti, generano una serie di problemi legati alla privacy e alla libertà personale. Ma di cosa si tratta nello specifico? Netanyahu ha affermato di aver ricevuto il via libera dal ministero della Giustizia per utilizzare gli strumenti dell’intelligence per monitorare digitalmente i pazienti affetti da coronavirus anche senza il loro consenso. Una misura estrema che, secondo il leader israeliano, dovrebbe contribuire ad isolare l’agente patogeno e non l’intera nazione. Si tratta di veri e propri “pedinamenti digitali”, soprattutto ex post, che permetteranno di indagare sulle vite degli infettati, di vedere con chi erano, cosa è successo prima e dopo la venuta a contatto con il virus. Israele è uno dei pochi paesi al mondo a possedere questo tipo di infrastrutture digitali e di tecnologie per i suoi atavici problemi di sicurezza e terrorismo. Le misure potrebbero includere il monitoraggio in tempo reale dei telefoni cellulari delle persone infette per individuare violazioni della quarantena e tornare indietro, attraverso i metadati, per capire dove sono stati e chi hanno contattato. Dall’alto, però, è stato subito chiarito che questo affondo nelle vite private dei cittadini israeliani non si applicherà al monitoraggio del loro isolamento. Se, nel frattempo, è stata disposta la chiusura di strutture ricreative, solo parzialmente di quelle scolastiche e tutto ciò che crei assembramenti di persone, la proposta del premier ha scatenato un vespaio di polemiche. Si scaglia contro le misure l’Istituto per la democrazia israeliana che invoca il rispetto della privacy dei cittadini messa a repentaglio da questa involuzione verso lo stato di polizia. L’attorney general, fa sapere il Jerusalem Post, prenderà a breve una decisione finale in merito a questo monitoraggio digitale, ma servirà l’approvazione del governo e della Knesset.

Gli esempi asiatici a cui si ispira Israele. Strumenti di monitoraggio come quelli menzionati da Netanyahu sono stati impiegati in paesi come Cina, Corea del Sud e Taiwan per aiutare a contenere il virus. La scorsa settimana, la Corea del Sud ha annunciato che intensificherà il suo monitoraggio con un sistema di smart city sviluppato dal governo che utilizzerà dati come filmati di telecamere di sorveglianza e transazioni con carta di credito per tracciare i movimenti dei pazienti. Taiwan sta monitorando le persone tramite sim card e attraverso le sue numerose misure di contenimento è riuscita a rallentare la diffusione in modo ammirevole, anche se i funzionari avvertono che il contagio di massa è solo questione di tempo. Mentre numerosi paesi, tra cui l’Italia, combattono per contenere la diffusione del Covid-19, Taiwan sta dando l’esempio di come ridurre efficacemente la sua diffusione. Si prevedeva che Taiwan, un’isola di 23 milioni di persone, avesse il secondo rischio di importazione più elevato per via della sua prossimità con la Cina. Con oltre 850.000 dei suoi cittadini che risiedono e lavorano nella Cina continentale, gli esperti si aspettavano che Taiwan fosse pesantemente colpita, soprattutto dopo il contro esodo per il capodanno cinese. Tuttavia, Taiwan ha avuto solo 49 casi confermati e un decesso, un numero sorprendentemente basso. Molte delle azioni del governo sono state rese possibili dall’integrazione tra big data e tecnologia. All’esplodere dell’emergenza, in un solo giorno, il governo di Taiwan è stato in grado di combinare i dati della National Health Insurance Administration e dell’Immigration Agency per identificare la storia di viaggio dei pazienti nei precedenti 14 giorni. Inoltre, con i dati provenienti dai sistemi di registrazione delle famiglie dei cittadini e dalle carte di accesso agli stranieri, le persone ad alto rischio sono state identificate, messe in quarantena e monitorate attraverso i loro telefoni cellulari. Il 18 febbraio, nel pieno del dramma cinese, il governo ha concesso a tutti gli ospedali, cliniche e farmacie l’accesso alle storie dei pazienti. Un’esperienza mutuata dalla vicenda SARS del 2003 che ha portato ad una profonda compenetrazione tra tecnologia e management della sanità pubblica.

·         Meglio l'App o le cellule telefoniche?

App... però. Report Rai PUNTATA DEL 08/06/2020. Lucina Paternesi, collaborazione di Giulia Sabella. In ritardo sui tempi, da questa settimana è possibile scaricare Immuni, l'app di tracciamento voluta dal governo e sviluppata dalla software house di Milano Bending Spoons. In attesa di capire in quanti la utilizzeranno e cosa accadrà, a livello regionale, dopo che un utente sarà avvisato di un contatto a rischio, siamo andati a cercare di capire come funziona e quanto è affidabile il tracciamento che farà. E, soprattutto, chi sarà responsabile in caso di falle nella sicurezza?

APP…PERÒ di Lucina Paternesi Collaborazione di Giulia Sabella immagini di Tommaso Javidi.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO (DA REPORT DELL’11/5/2020) L’app ti avvisa dopo che sei stato in contatto con uno che è risultato positivo e serve ad evitare che anche tu diventi veicolo di contagio.

STEFANO ZANERO - DIP. ELETTRONICA E BIOINGEGNERIA POLITECNICO DI MILANO (DA REPORT DELL’11/5/2020) Quando mi chiamano per dirmi che il mio tampone è risultato positivo mi comunicano un codice da inserire nell'applicazione per sbloccare io il processo di notifica. Questo codice è un codice di sblocco, quindi una sorta di codice di autorizzazione, che autorizza quel cellulare a caricare un identificativo, il suo, che solo il cellulare sa, in ogni caso, in maniera anonima.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO (DA REPORT DELL’11/5/2020) A questo punto il codice di chi è risultato positivo finisce nel server centrale, quello pubblico di Sogei. Mentre arriverà una notifica sullo smartphone di chi, nei 14 giorni precedenti, è stato a contatto stretto per più di 15 minuti. Ma se l’app funziona a livello nazionale come verrà recepita a livello di protocolli sanitari regionali? Visto che i governatori fino ad oggi sul virus si sono divisi.

CARLO BLENGINO - AVVOCATO PENALISTA ESPERTO IN PROTEZIONE DEI DATI (DA REPORT DELL’11/5/2020) Perché quell’app lì può funzionare nel momento in cui ho appunto un sistema, una macchina pazzesca per cui chiunque venga allertato viene testato nel giro di 24 ore. Si rischia di avere dai 140 mila ai 300 mila soggetti ogni giorno che devono andare in quarantena sulla base del niente, sulla base di un bip che gli è arrivato in automatico da un algoritmo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Arriva il bip. Ora, già centinaia di migliaia di persone, di italiani hanno scaricato la app Immuni, ma non è ben chiaro che cosa avverrà a livello regionale quando ti verrà notificato il rischio di contagio. C’è stato l’esordio e diciamo che non è stato proprio brillantissimo perché c’è stata subito una polemica: nella grafica di presentazione iniziale della app c’era l’immagine di una donna con un bambino in mano, l’uomo con il pc, ecco, è stata giudicata un’immagine troppo stereotipata e che cosa hanno fatto? L’hanno cambiata, hanno risolto il problema, hanno mollato il bambino in mano all’uomo, il pc in mano alla donna. Insomma, hanno risolto il problema ma non è il solo: ora, sembra che il sistema, la app Immuni non giri a perfezione sul modello di smartphone Huawei, quello che copre il 27% del mercato e non giri neppure bene su molti modelli vecchi, tre o quattro anni che hanno il sistema Apple o Android. Ecco, è solamente una delle tante questioni aperte, ma qual è poi il problema se l’app dovesse causare dei danni? Chi è che pagherà? E poi, è vero che la geolocalizzazione non serve, non verrà utilizzata? E il sistema di rilevazione di contatti Bluetooth, è così affidabile?

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Per capire perché il Bluetooth è poco affidabile per calcolare le distanze, siamo andati in provincia di Cosenza, alla Technest, l’incubatore di spin-off dell’università della Calabria. Esperti di tracciamento da tempo, qui hanno realizzato un’app, open source, che calcola la distanza così come misurata dal segnale Bluetooth.

 LUCINA PATERNESI In questo momento dice che io e lei siamo a 5 metri.

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. Sì.

LUCINA PATERNESI Quando invece siamo a un metro e mezzo? Due metri? Sei metri e 3, in questo momento…

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. Il mio adesso dice a tre metri e mezzo. È estremamente variabile perché dipende anche dall’orientamento del telefono.

LUCINA PATERNESI Quindi se io lo giro?

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. Cambia, perché dipende dove è messa l’antenna Bluetooth sul telefono. Banalmente anche tenere la mano davanti all’antenna implica l’assorbimento dell’onda del mio telefono verso il suo.

LUCINA PATERNESI Infatti l’ho ruotato e mi dice che siamo a quattro metri e mezzo.

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. A me ha dato un attimo 17 e adesso si è attestato su 7 metri e uno.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO A partire dall’intensità del segnale ricevuto tramite Bluetooth, il cellulare calcola la distanza. Il problema nasce quando tra un cellulare e l’altro ci sono degli ostacoli di mezzo.

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. Essendo il corpo umano fatto all’80% di acqua, tende ad assorbire molto il segnale Bluetooth che in pratica rischia di non arrivare all’altro telefono. Se non arriva all’altro telefono la stima della distanza è completamente falsata, quindi si rischia di stimare distanze molto alte anche quando in realtà i due soggetti sono vicini, ma, per esempio, girati di spalle.

LUCINA PATERNESI Ipotizziamo di essere dentro una metropolitana, di spalle, uno contro l’altro…

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. In quel caso lì ci sarebbero due persone di mezzo, io già adesso ho 15 metri nella stima della distanza, 9 metri di errore, 22 metri di errore. Perché l’onda del mio telefono deve attraversare me e lei per arrivare al suo, ed è sostanzialmente quasi assorbito completamente.

LUCINA PATERNESI La notifica di possibile contatto a rischio ci arriverà a una distanza inferiore a?

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. La parola “distanza” è completamente quasi scomparsa. Anzi, addirittura, dalle Api ufficiali di Google, adesso si precisa, sulle stesse Api di Google, che la misura della distanza non è efficace. E questo è scritto sul documento ufficiale. Quindi, i termini dell’equazione sono tre o quattro fattori che vengono moltiplicati, dove un fattore tiene conto del Bluetooth, l’altro fattore tiene conto del tempo di esposizione e l’altro fattore tiene conto di quanto vecchio è il contagio rispetto al momento di accadimento dell’infezione per il contagiato, diciamo. LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Se il Bluetooth non può misurare una distanza precisa, il rischio è che si potrebbero creare tanti falsi positivi o falsi negativi. Ma non è l’unico rischio: per funzionare con la tecnologia Bluetooth, solo su smartphone Android, è necessaria l’autorizzazione alla posizione.

GAETANO D’AQUILA – AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE GIPSTECH S.R.L. Esattamente, ma questo lo dice Google, eh? Questo si è installato sul mio telefono, c’è scritto che la geolocalizzazione del dispositivo deve essere attiva per poter rilevare dispositivi Bluetooth nelle vicinanze, ma per le notifiche di esposizione al Covid 19 non viene usata la posizione del dispositivo.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Il buon funzionamento dell’app dipenderà da come è stata sviluppata. Ma in caso di falle sulla sicurezza, chi pagherà?

UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS Il responsabile, ogni volta che si utilizza un software open source, è il soggetto che ne assume la paternità. In questo caso è stato commissionato a un’azienda produttrice di software, che ha passato la mano e quindi chi ha registrato il copyright, quindi tutti i diritti, è il Governo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma; Immuni. Ricapitolando: non funziona su tutti i telefoni, se provoca qualche danno paga Pantalone, poi è stato abolito il concetto di distanza perché non è attendibile. Anche lo stesso Garante ha detto: avvisate gli utenti della percentuale di rischio che c’è per una falsa, in una falsa notifica. Poi se ti arriva il bip che fai? Cioè, sei tu che valuti la percentuale di rischio, se rivolgerti alla Asl regionale oppure no? E poi, che fa la Asl regionale, che non sa neppure come comportarsi? A oggi, ecco, diciamo che poi sono finite nel cestino anche altre rassicurazioni, quali per esempio: non utilizzeremo la geolocalizzazione, invece si è scoperto dopo che è necessario indicare il posizionamento se hai un telefono con il sistema Android, ecco, ne beneficia Google che accumula anche altri dati. Non ci rimane che usare le mascherine.

Il cavallo di Troia. Report Rai PUNTATA DEL 09/11/2020 di Lucina Paternesi, collaborazione di Alessia Marzi. Alla vigilia di un nuovo lockdown, l’Italia si scopre impreparata ad affrontare la seconda ondata della pandemia da Covid-19. Che fine ha fatto l’app di contact tracing voluta dal Governo e che avrebbe dovuto aiutarci a monitorare la diffusione del virus? A cinque mesi dalla sua adozione è stata scaricata da quasi 10 milioni di italiani, ma ha effettivamente funzionato? Dalle mani degli sviluppatori di Bending Spoons oggi l’app è passata in quelle dei tecnici del ministero dell’Innovazione e della Salute e di Sogei e PagoPA. Tra notifiche mancate, chiavi mai inserite nei server e lunghe attese telefoniche per capire che fare dopo l’arrivo dell’alert, a oggi soltanto poco più di duemila utenti hanno deciso di sbloccare il meccanismo. All’estero, nonostante i download siano stati maggiori, come in Germania, l’app è stata più utile? E perché Google e Apple stanno lavorando in autonomia affinché non servano più le interfacce nazionali e possano gestire da soli il sistema di notifiche di esposizione? Quali sono i veri dati che servirebbero ai nostri medici ed epidemiologi per bloccare sul nascere un focolaio e predire, con maggiore precisione, l’insorgere del virus in una determinata zona?

“IL CAVALLO DI TROIA” Di Lucina Paternesi Collaborazione di Alessia Marzi Immagini Davide Fonda – Tommaso Javidi Montaggio di Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ecco proprio per arrivare a questo punto, all’intasamento i governi di tutto il mondo avevano lanciato le app per il tracciamento, ma come sta funzionando e quale è la ricaduta? Snowden, aveva lanciato, consulente dell’agenzia nazionale di sicurezza statunitense aveva lanciato un allarme, sentiamolo.

DA VICE EDWARD SNOWDEN - EX CONSULENTE NSA USA Credete veramente che quando la prima ondata, la seconda ondata, la sedicesima ondata di coronavirus saranno solo un ricordo sbiadito, queste nuove competenze e questi dati raccolti non saranno mantenuti? Inizieranno ad applicarle alla micro criminalità, all’analisi politica, per effettuare censimenti o per le elezioni politiche. Non importa come verranno usate, ma quello che stiamo costruendo è l’architettura dell’oppressione. E noi ci potremmo anche fidare di chi la sta gestendo, di chi la governa, noi potremmo anche dire “non ci importa niente di Mark Zuckerberg”. Ma qualcun altro avrà accesso a quei dati, magari un altro paese straniero. Se quei dati sono stati raccolti, qualcuno ne abuserà.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chi sarà ad abusarne? Certo se lo dice l’ex consulente dell’agenzia nazionale per la sicurezza statunitense forse vale la pena di fare attenzione. Ecco, secondo lui c’è qualcuno che sta raccogliendo una mole gigantesca di dati e sta costruendo un’architettura, una strategia dell’architettura dell’oppressione. Che potrebbe entrare in campo laddove un giorno, finita la pandemia, si dovessero svolgere delle elezioni, delle competizioni elettorali. È credibile tutto questo? Certo, se qualcuno ci avesse detto tempo fa agli esordi di Facebook, che quel social avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale nell’esito delle elezioni, nessuno ci avrebbe creduto e invece la realtà ha superato la fantasia. Ora, la nostra Lucina Paternesi ha scoperto invece che anche le app di tracciamento come Immuni, potrebbero avere un ruolo nell’esito delle campagne elettorali. Come? Attraverso questo gettone, è uno dei mezzi, perché poi bisogna avere una rete molto potente, metter su insieme altri mezzi, ma insomma questo gettone è in grado di registrare i codici, le chiavi, quelle con cui vengono comunicati i contatti bluetooth e poter mandare delle notifiche e far mettere in quarantena un’intera città, uno stadio, un intero stadio di calcio, i dipendenti di un’azienda strategica per il paese, vediamo come.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Tra i rischi a cui sono esposte le app di contact-tracing che utilizzano il Bluetooth, c’è quello del replay attack. Un attacco hacker vero e proprio che fa arrivare una notifica di contatto a rischio a persone che non sono state mai in contatto con persone affette dal virus. Per capire da vicino come funziona un attacco di questo tipo, siamo andati a trovare i ricercatori del dipartimento di Ingegneria Informatica ed Elettrica dell’Università degli Studi di Salerno.

IVAN VISCONTI - PROFESSORE DI INFORMATICA - UNIVERSITÀ DI SALERNO Se usano immuni basta raccogliere questi identificativi. Ne raccogli tanti, anche diciamo 30, se raccogli 30 identificativi in un posto in cui c’è il 10% di probabilità hai il 95% di probabilità, quindi quasi la certezza, che uno di questi identificativi corrisponderà a un infetto che farà l’upload dei dati. Benissimo. A questo punto questi identificativi possono essere proiettati ovunque a distanza e su larga scala.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Abbiamo voluto fare una prova: il 16 ottobre abbiamo acquistato un cellulare nuovo di zecca; i ricercatori mi hanno scelto come obbiettivo di un attacco hacker: sul telefono mi è arrivata la notifica datata due giorni prima, cioè, sarei stata a contatto con un positivo quando il telefono era ancora impacchettato sullo scaffale del negozio.

LUCINA PATERNESI Esposizione a rischio 14 ottobre, cioè due giorni fa. Ma come è possibile? Con questo gettone che registra e diffonde si potrebbe mandare in quarantena un intero stadio di calcio, un intero aeroporto, un’intera stazione.

IVAN VISCONTI - PROFESSORE DI INFORMATICA - UNIVERSITÀ DI SALERNO Esatto. La vulnerabilità, in teoria appunto era nota già da aprile; abbiamo visto che in pratica non esiste una mitigazione, questa simulazione dimostra che non è stata mitigata dopo alcuni mesi, quindi l’attacco è realizzabile.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO E le stesse vulnerabilità le hanno testate i ricercatori del laboratorio di cyber sicurezza di Darmstadt.

AHMAD-REZA SADEGHI - RESPONSABILE LAB. CYBER SICUREZZA - UNIVERSITÀ DI DARMSTADT La tecnologia Bluetooth può essere facilmente attaccata. Facciamo un esempio: qui ci sono 3 città tedesche, un attacco riesce a colpire a oltre 100 km di distanza. Basta captare le chiavi anonime registrate dagli smartphone in un determinato luogo e replicarli altrove. Ecco che in qualche minuto hai mandato in quarantena un’intera regione prima del voto o tutti i dipendenti di un’azienda, facendo loro credere di aver avuto contatti a rischio con persone infette.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Attacchi di questo tipo sono illegali e per far sì che riescano è necessario investire risorse e strumentazioni o avere a portata di mano il dispositivo che si vuole attaccare. Quello che non sappiamo, però, è se questo tipo di scenario sia stato valutato dal nostro Governo. Dopo settimane di attesa dalla nostra richiesta di intervista, avremmo voluto parlarne direttamente con la ministra all’Innovazione Paola Pisano.

LUCINA PATERNESI Ministro, scusi! Ministro, Ministro!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO É andata. Comunque abbiamo capito che il rischio di un attacco hacker c’è: lo confermano gli informatici dell’Università di Salerno, ma anche dai responsabili del laboratorio di Cyber Security di Darmstadt. Insomma. La nostra Lucina, abbiamo fatto una prova, la nostra Lucina con i ricercatori dell’università di Salerno hanno acquistato un telefono il 16 ottobre e che cosa hanno fatto? Hanno simulato un attacco. Ecco è arrivata una notifica che quel il 14, era stato in contatto con qualcuno che aveva contratto il virus. Falso. Perché il 14 quel telefono era ancora imballato e non funzionante. Con questo metodo potresti addirittura mandare in quarantena un’intera città, uno stadio addirittura di tifosi e una regione, prima che venga svolta la competizione elettorale. Abbiamo chiesto a Google. Google dice che questi attacchi, su larga scala sarebbero molto costosi - come se mancassero a qualcuno soldi per farlo - e richiederebbe una preparazione tecnica. Anche qui: manca la preparazione tecnica? Comunque, sulla possibilità di un attacco di questo tipo abbiamo sentito anche il Garante della Privacy e anche lui dice, sì, sono attuabili, ma altamente improbabili perché richiedono una complessità nella realizzazione e avrebbero la finalità insomma più che altro di allarmare. Quello che abbiamo capito è che comunque il problema c’è. L’abbiamo anche sottoposto al ministro Pisano 15 giorni fa, perché ci sarebbe piaciuto parlare con lei di questo problema, se ne erano a conoscenza. Ma lei ha preferito scivolare via, non vuole parlarci. Mentre invece avremmo potuto chiederle cose molto più terrene. Immuni, per esempio funzione?

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La Asl dice di chiamare il Call Center che dice di chiamare il servizio clienti immuni che dice di chiamare la Asl. Un vero e proprio rimpallo senza via d’uscita. E dopo un’ora al telefono la signora Simonetta ha gettato la spugna.

SIMONETTA Io direi che abbandono.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eccoci qui, allora il nostro paese è parso impreparato ad affrontare la seconda ondata della pandemia, avrebbe potuto aiutarci Immuni a contrastare il dilagare del virus, è stata scaricata da circa 10 milioni di italiani. Noi ne avevamo parlato agli esordi lanciando alcuni warning, ci siamo chiesti, ma le asl sono in grado di gestire le segnalazioni fatte da chi ha avuto le notifiche da parte di Immuni? Anche il Garante aveva avvisato, aveva detto al Governo: avvisate gli utenti che potrebbero verificarsi delle false notifiche. Bene, Immuni è partita in questi mesi, è partita con un bug, hanno cercato di metterci una pezza quando i buoi sono già scappati dalle stalle. La nostra Lucina Paternesi.

FEDERICO CABITZA - PROF. INTERAZIONE UOMO-MACCHINA UNIVERSITÀ MILANO BICOCCA Possiamo dire che i falsi negativi sono moltissimi.

LUCINA PATERNESI Per falso negativo lei intende?

FEDERICO CABITZA - PROF. INTERAZIONE UOMO MACCHINA - UNIVERSITÀ MILANO BICOCCA Che Immuni non segnala a una persona che è stato effettivamente a rischio perché ha frequentato una persona che poi è risultata positiva.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO È quanto successo a Brescia. Lo ha scritto in un articolo Francesca Renica. Si racconta la storia di due amiche che si ritrovano a cena in un locale. I loro telefoni rimangono sul tavolino del ristorante per tutta la sera. Il giorno dopo una risulta positiva al Covid. Ha l’app Immuni e chiede ed ottiene che le sue chiavi siano caricate nei server. L’alert arriva a tre contatti, ma non all’amica che era con lei.

FRANCESCA RENICA - GIORNALE DI BRESCIA A distanza di un paio di giorni vengo contattata da un esponente del team digitale appunto del Ministero, il quale cerca di capire qual è il bug all’origine del malfunzionamento. La prima obiezione, è stata che forse i telefoni non erano stati vicini abbastanza per inviare questa notifica di avvenuto contagio o comunque di pericolo di esposizione.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Dal Ministero mettono in dubbio la ricostruzione, ma quello che non potevano sapere è che Francesca questa storia non l’ha solo scritta, ne è anche la protagonista. LUCINA PATERNESI E invece l’amica eri tu.

FRANCESCA RENICA - GIORNALE DI BRESCIA E invece una delle amiche ero io. Loro comunque con la nostra autorizzazione, perché per la privacy non avrebbero potuto, sono riusciti a ricostruire l’iter. Sono partite effettivamente tre notifiche, ma tra queste nessuna è arrivata sul mio cellulare.

LUCINA PATERNESI Che cosa è successo quindi?

FRANCESCA RENICA - GIORNALE DI BRESCIA I telefoni non scansionavano gli altri telefoni che avevano incontrato, di conseguenza era come non avere avuto l’app sul telefono per quegli utenti.

LUCINA PATERNESI E hai sottoposto questa ipotesi al Ministero?

FRANCESCA RENICA - GIORNALE DI BRESCIA Sì, è stato confermato che il bug esiste ed è stato risolto con un aggiornamento dell’app che però risale a 3 mesi e mezzo dal lancio dell’app.

LUCINA PATERNESI Quindi in tre mesi e mezzo quanti scambi ci siamo persi?

FRANCESCA RENICA - GIORNALE DI BRESCIA Eh, penso parecchi.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Problemi tecnici a parte, in Italia c’è un’altra anomalia.

FEDERICO CABITZA - PROF. INTERAZIONE UOMO MACCHINA - UNIVERSITÀ MILANO BICOCCA A fronte di determinati positivi, sono pochi quelli che poi attivano la procedura di sblocco. Una volta che queste poche persone attivano una procedura di sblocco sono anche pochi i contattati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Se in Veneto le Asl non ne hanno attivata neanche una, a Roma la signora Simonetta ha trascorso intere giornate della sua quarantena al telefono.

SIMONETTA Ufficialmente sono positiva al Covid dal 7 ottobre e già il giorno dopo mi chiamavano invitandomi a scaricare Lazio per Covid che è un’applicazione che ha permesso poi di farmi recapitare sia un apparecchio telefonico che un oxymeter che mettendolo al dito registra su questo telefono il mio flusso di ossigeno e le mie pulsazioni.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dalla Asl la invitano a scaricare l’applicazione di telemedicina Lazio x Covid, su Immuni però neanche una parola.

SIMONETTA Devo essere sincera, non subito quando me l’hanno comunicato perché ero un pochino sotto shock, poco dopo mi è venuto in mente e quindi ho preso il mio telefono sono andata nell’app. Ma nell’app ho scoperto che alla voce segnala che sei positivo c’è scritto che devi essere guidato dall’operatore che ti ha segnalato la positività e alla mia domanda come fare non ne sapevano assolutamente nulla.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Dopo alcuni tentativi caduti nel vuoto, la signora Simonetta ha deciso di ritentare e provare a caricare il suo codice nel server.

SIMONETTA Sono le tre e mezza, vediamo se rispondono.

CENTRALINO Pronto? Noi in questa azienda utilizziamo quello che è della Regione Lazio. SIMONETTA Il problema mio era lo sconosciuto che ha preso l’autobus con me che magari ha l’app Immuni come me e quindi poteva essere avvisato.

CENTRALINO ASSISTENZA COVID Immuni buonasera.

SIMONETTA Buonasera a lei, senta, io non trovo nessuno che mi possa aiutare per segnalare la mia positività. Chi devo chiamare esattamente?

CENTRALINO APP IMMUNI Allora gli operatori sanitari che possono inserire la positività sono gli operatori della Asl.

SIMONETTA Qual è la persona che mi aiuta per comunicare i codici nell’app Immuni; lei capisce? É una settimana…

CENTRALINO ASL ROMA Noi facciamo così, ora le spiego come funziona il sistema. Ce l’ha un secondo di tempo?

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO L’Asl dice di chiamare il call center, che dice di chiamare il servizio clienti Immuni che dice di chiamare l’Asl. Un vero e proprio rimpallo senza via d’uscita. E dopo un’ora al telefono la signora Simonetta ha gettato la spugna.

SIMONETTA Io direi che abbandono…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Povera Simonetta, sfinita più dall’organizzazione sanitaria che dagli effetti del virus. Lei voleva avvisare i suoi contatti della sua positività, ha dovuto rinunciare. Ha chiamato l’operatore della asl, che le consigliato di chiamare il call center, che le ha consigliato di chiamare il servizio clienti di Immuni che ha consigliato di chiamare la asl. Meraviglioso, hanno trasferito la logica dello scaricabarile anche alle app. Come ne usciamo? Ne usciamo che il Governo ha deciso di mettere sul piatto altri 4 milioni di euro per tirar su un altro call center. Chi lo gestirà? L’uno e trino, commissario Domenico Arcuri. In bocca al lupo, ma come farà a gestire tutte queste cose? Però va detto che le app di tracciamento non stanno dando una grande prova di sé neppure nei paesi più organizzati di noi: Germania e Irlanda.

JENS SPAHN - MINISTRO DELLA SALUTE TEDESCO CONFERENZA STAMPA 23/09/2020 Già oltre 5mila utenti hanno avvisato i propri contatti tramite l’app Corona Warn App è di gran lunga l’app di maggior successo in Europa, per noi è una grande soddisfazione.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Se in Italia Immuni ci ha messo un po’ a ingranare, la sua gemella tedesca, Corona Warn App, in pochi mesi, è stata scaricata da oltre 20 milioni di tedeschi.

LUCINA PATERNESI Quanti sono gli utenti che la stanno veramente ed effettivamente utilizzando?

KARL LAUTERBACH - EPIDEMIOLOGO E DEPUTATO SPD GERMANIA Non lo possiamo sapere con certezza, è un dato che il Governo non sa, proprio perché è un’app volontaria e rispetta la privacy.

LUCINA PATERNESI L’app sta interrompendo la catena del contagio qui in Germania?

KARL LAUTERBACH - EPIDEMIOLOGO E DEPUTATO SPD GERMANIA Appena suona la notifica di contatto a rischio, ti fanno immediatamente il tampone. E in 24 ore ti danno il risultato. Non possiamo ancora dire se e quanto è stata utile fino ad oggi, ma ora, con i contagi in aumento, crediamo che avrà un ruolo molto importante nello spezzare la catena dei contagi. Soprattutto tra i giovani.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO A difendere a spada tratta il contact-tracing via app è l’epidemiologo e professore universitario Karl Lauterbach, membro della SPD, nella coalizione di governo con Angela Merkel. L’app, sviluppata da un’azienda privata in collaborazione con Deutsche Telekom, finora è costata circa 70 milioni di euro. Ma alcuni responsabili sanitari sono critici.

PATRICK LARSCHEID - RESPONSABILE SANITARIO BERLINO-REINICKENDORF Soldi buttati che avremmo potuto spendere in modo diverso.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Ne è convinto chi prova a fermare il contagio in uno dei distretti sanitari di Berlino, quello a più alta densità di immigrati turchi.

PATRICK LARSCHEID - RESPONSABILE SANITARIO BERLINO-REINICKENDORF L’app è una grande delusione. Quest’ossessione per la sicurezza dei dati e la privacy non ci permette di capire chi si è incontrato con chi, dove e a che ora.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Quindi sarebbe stata più utile un’app più invasiva per i cittadini dal punto di vista della privacy?

PATRICK LARSCHEID - RESPONSABILE SANITARIO BERLINO-REINICKENDORF Sicuramente sì, ma questo in Germania non si può fare. Il vero contact-tracing lo facciamo manualmente, anche perché non tutti si possono permettere cellulari di ultima generazione, costano molto e questo alla fine crea una netta divisione sociale.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E lo stesso vale per l’app di tracciamento irlandese. Qualche giorno prima che Dublino chiudesse di nuovo pub e ristoranti per un rialzo dei contagi, siamo andati a trovare il responsabile dei servizi informativi del servizio sanitario irlandese.

LUCINA PATERNESI Quante persone hanno scaricato l’app irlandese?

FRAN THOMPSON - RESPONSABILE SERVIZI INFORMATIVI SANITARI IRLANDA Quasi due milioni di persone in totale, mentre ogni giorno gli utenti attivi sono circa 1 milione e duecento mila.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Un numero impressionante se si pensa che la popolazione totale è di appena 4 milioni e mezzo. Basata sul sistema di esposizione alle notifiche elaborato da Google e Apple, che qui in Irlanda hanno solide radici fiscali, l’app irlandese Covid Tracker è del tutto simile alla nostra Immuni. Ultimamente ha combinato qualche guaio. Ha mandato in quarantena oltre 700 studenti del St. Oliver’s Community College di Drogheda dopo aver inviato una notifica di contatto a rischio a una trentina d’insegnanti.

FRAN THOMPSON - RESPONSABILE SERVIZI INFORMATIVI SANITARI IRLANDA L’app non può sapere se tu stai indossando una mascherina chirurgica. Ricevuto l’allarme, gli studenti e gli insegnanti si sono messi in isolamento fino all’intervento dei sanitari che hanno valutato il caso e revocato la quarantena imposta dall’app. LUCINA PATERNESI Come si risolve il problema di una quarantena ingiustificata sulla base di un beep?

FRAN THOMPSON - RESPONSABILE SERVIZI INFORMATIVI SANITARI IRLANDA Una delle opzioni che abbiamo implementato potrebbe essere di mettere in pausa le notifiche quando indossiamo una mascherina chirurgica.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO I ricercatori del Trinity College di Dublino hanno indagato sul funzionamento dell’infrastruttura tecnologica costruita da Google e Apple, quella che permette alle app di tracciamento europeo l’invio delle notifiche di esposizione.

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO Il sistema prevede che ogni cellulare invii un codice univoco anonimo e registri i codici degli altri che incontra. Poi sono stati aggiunti aspetti volti a salvaguardare la privacy e un algoritmo che fa scattare la notifica in base alla distanza e al tempo di esposizione. Questo era l’obiettivo, almeno.

LUCINA PATERNESI Non è stato raggiunto?

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO L’invio delle notifiche di esposizione è del tutto casuale. Abbiamo condotto dei test su alcuni tipi di telefoni e i risultati sono stati deludenti. La potenza del segnale Bluetooth dipende da molti fattori: la rotazione del telefono, l’angolazione, se lo tieni in tasca o nella borsa. Lo abbiamo testato dentro un tram ed è come lanciare una monetina in aria, c’è il 50% di possibilità che la notifica arrivi o non arrivi.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Il segnale Bluetooth, infatti, risente molto degli ostacoli che si frappongono tra i dispositivi. Ma i ricercatori non si sono fermati qui e hanno deciso di andare più a fondo e analizzare anche l’interfaccia di Google su cui sono state sviluppate le singole app nazionali.

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO Il sistema di notifiche di esposizione di Google è stato implementato dentro il Google Play Services, un componente essenziale nei telefoni Android che permette l’aggiornamento delle app. Ogni sei ore si collega ai server di Google e invia dati come il numero di telefono, il numero seriale della tua sim, il codice IMEI del telefono e altre informazioni ricavate dalla posizione e dal wifi.

LUCINA PATERNESI Ogni sei ore?

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO Non solo, ogni 20 minuti c’è un altro interscambio con Google e di nuovo vengono trasmessi tutti questi dati.

LUCINA PATERNESI Che tipo di dati vengono raccolti?

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO Non siamo riusciti ad analizzare tutto il traffico tra Google e il Google Play Services, perché non è un sistema open source. Abbiamo notato che vengono trasferiti dei codici legati al nostro cellulare e all’utilizzo che ne facciamo, che non sono anonimi e che durano nel tempo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ovviamente tutti questi dati vengono raccolti anche se non abbiamo scaricato un’app di contact tracing sul nostro cellulare. Ma se per farla funzionare, su Android, è necessario abilitare la posizione le informazioni a disposizione di Google saranno molte di più.

LUCINA PATERNESI Sembra un paradosso, i governi hanno imposto limitazioni alle singole app nazionali, per preservare la privacy e poi lasciano a Google la possibilità di raccogliere tutti questi dati sensibili?

STEPHEN FARRELL - RICERCATORE INFORMATICO - TRINITY COLLEGE DUBLINO Lo è.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Ma c’è anche chi ha trovato la lucidità per riflettere sul rapporto tra costi e benefici, privacy e tutela della salute. In Norvegia dopo appena qualche settimana dall’avvio dell’app il garante per la privacy ha deciso di sospenderla.

SUSAN LIE - AVVOCATO E CONSULENTE AUTORITÀ PER LA PRIVACY NORVEGIA L’Autorità ha stabilito che le misure prese erano sproporzionate rispetto all’obiettivo prefissato. Mancavano anche solidi elementi che provassero l’efficacia del tracciamento via app, tutte motivazioni per cui non può essere accettabile un’intrusione nella privacy dei cittadini.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In sostanza l’autority ha riscontrato che l’app raccoglieva una grande quantità di dati personali senza che le autorità potessero utilizzarli per tracciare i contagi. E così nonostante 1,5 milioni di download la Norvegia ha bannato l’app.

SUSAN LIE - AVVOCATO E CONSULENTE AUTORITÀ PER LA PRIVACY NORVEGIA É evidente che se vogliamo evitare intrusioni dello Stato nella privacy dei cittadini non possiamo permetterle da parte di aziende private come Google e Apple.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Alla fine hanno vinto loro e dal prossimo natale, la Norvegia avrà una app di contacttracing. Il timore è che l’emergenza si trasformi in un’occasione per conquistare un’altra fetta della privacy dei cittadini. Qualche dubbio è venuto anche al laboratorio di cybersicurezza dell’Università di Darmstadt.

AHMAD-REZA SADEGHI - RESPONSABILE LAB. CYBER SICUREZZA - UNIVERSITÀ DI DARMSTADT Siamo finiti in una trappola. Per non farci controllare dallo Stato ci siamo affidati a Google e Apple. Ora sono loro ad aver accesso a una quantità di dati incredibile, semplicemente perché stiamo usando i loro dispositivi. Se dieci anni fa ci avessero detto che Facebook sarebbe stato usato per influenzare le elezioni presidenziali negli Stati Uniti avremmo gridato al complotto. Oggi sappiamo che è accaduto. Dobbiamo stare attenti prima di dare così tanto potere a due aziende private come Google e Apple. Soprattutto prima di consegnare loro anche i dati sul sistema sanitario pubblico. È una roccaforte che i nostri governi devono proteggere.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Per non finire sotto scacco di Google e Apple, i ricercatori hanno lavorato a un’altra app, indipendente. La terza via al contact tracing, dicono, decentralizzata e ancora più rispettosa della privacy. Ma dal governo federale non è mai arrivato il via libera per la sperimentazione. Alla fine gli stati nazionali hanno capitolato, hanno abdicato al loro ruolo di controllori e hanno ceduto ai due colossi.

MICHELE MEZZA - GIORNALISTA E ANALISTA DI SISTEMI DIGITALI Nella più grande depressione economica del mondo, quel cluster di aziende, quella tipologia di gruppi e di imprese hanno accumulato delle ricchezze inverosimili. Gli stati hanno abdicato, i sistemi sanitari si sono rinchiusi in una marginalità assoluta e i centri di monopolio del controllo dei nostri dati e delle informazioni vitali ne hanno approfittato.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO È il contagio dell’algoritmo, secondo Michele Mezza, giornalista e docente universitario. Combinando le tracce che ogni giorno lasciamo sul web, le nostre chiavi di ricerca, le informazioni raccolte dall’uso dei loro dispositivi oggi Google, ma anche Facebook potrebbero predire un focolaio pandemico con la stessa precisione con cui si predice un temporale.

MICHELE MEZZA - GIORNALISTA E ANALISTA DI SISTEMI DIGITALI Ultimamente sono stati catalogati dei servizi georeferenziati, un comune fino a 10mila abitanti, una comunità fino a 30mila, può chiedere di avere la proiezione dei dati epidemiologici intrecciati coi dati di rete riferiti al proprio territorio pagando tanto per tanti abitanti. Questa è l’offerta che è stata fatta dai colossi della rete. Ora la domanda è se questo è un bene comune o no.

LUCINA PATERNESI Quindi: glieli abbiamo dati, se li sono presi, ce li stanno rivedendo.

MICHELE MEZZA - GIORNALISTA E ANALISTA DI SISTEMI DIGITALI Brava. Noi li paghiamo per farci comprare da loro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bel colpo. Ora sono già pronti per la fase due. È molto probabile che non avremo più bisogno dell’app Immuni e delle sue sorelle. Perché saranno proprio Google ed Apple a segnalarci probabilmente, in un prossimo futuro, se siamo stati in contatto con un positivo. È la crescita a dismisura dei giganti del web che continuano a incamerare i dati e, secondo il professor Michele Mezza, gli stati stanno affrontando un altro tipo di pandemia, quella dovuta dal contagio dell’algoritmo. Questo perché lo strapotere dei giganti del web aumenta in proporzione del loro fatturato. Anche in questo periodo di crisi sono aumentati dell’11 per cento lo hanno detto gli stessi Facebook ed Apple che continuano ad arricchirsi grazie ai nostri dati. Li incamerano e poi ce li rivendono. A chi fanno gola questi dati? Alle assicurazioni, alle farmaceutiche, ai datori di lavoro. Ecco, Google ci dice, ci scrive di non aver ricevuto informazioni sulle persone né dati sulla posizione e se hanno sviluppato un sistema lo hanno fatto, quello delle notifiche, in accordo con le autorità sanitarie, con i governi, con gli scienziati e con le organizzazioni per la privacy. Chi la pensa diversamente sono invece gli informatici di Dublino, che hanno scoperto che Google, almeno per quello che riguarda il sistema android presente su alcuni telefoni, continua ad incamerare dati attraverso un suo componente, Google Play Services, che serve per aggiornare le app. Ecco, hanno scoperto questi ricercatori che ogni 20 minuti e poi ogni 6 ore, Google incamera, Google Play Services, incamera dei dati e li gira verso il server di Google. Ecco d’altra parte un po’ tutti giochiamo con i nostri dati sui social.

La lotta contro il coronavirus è roba da ricchi. Natale Cassano il 03/06/2020 su Notizie.it. Chi non può permettersi di acquistare un telefono nuovo, non può che arrendersi di fronte alla barriera digitale. La prevenzione contro il Covid-19? È roba da ricchi, o almeno da chi può permettersi di comprare un cellulare di ultima generazione. E attenzione, non parliamo di cure, ma degli stessi strumenti che il Ministero della Salute ha messo a disposizione gratuitamente per i cittadini affinché sia ridotto al minimo il rischio di un nuovo contagio nella ‘Fase 2’. Al centro della bufera torna ‘Immuni’, l’app per smartphone che ha il compito di segnalare quando siamo entrati in contatto con un potenziale contagiato dal virus. “Uno scudo di sicurezza per il cittadino” l’aveva definito l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, consigliando a tutti di scaricarla. Peccato che chi ha dribblato le polemiche relative all’invasione della privacy da parte dell’app (che, per forza di cose, tiene comunque continuamente sotto controllo la posizione dell’utente), si è ritrovato con un nuovo scoglio da superare: la versione del sistema operativo del cellulare. Già, perché, assurdo a dirsi, c’è bisogno di uno smartphone aggiornato per godere delle funzioni di "Immuni". E chi non può permettersi di acquistarne uno nuovo, non può che arrendersi di fronte alla barriera digitale. Insomma, prevenzione sì/prevenzione no è un dilemma ancora (purtroppo) legato al reddito dei singoli. E se è vero che un nuovo cellulare lo si può acquistare anche con poco meno di 100 euro, non è detto che le famiglie – in molti casi ancora in attesa di cassa integrazione – possano permettersi una spesa aggiuntiva. Un problema che speriamo sarà risolto presto. Il Ministero dovrebbe infatti spingere i cittadini a scaricarla, non creare inutili ostacoli, o il ‘gap digitale’ sarà ancora più sentito e rischia di trasformarsi contemporaneamente in un "gap informativo". Un discorso che avevamo già affrontato con la querelle mascherine: anche lì non si era riusciti a rendere accessibile un presidio sanitario necessario nella fase più calda della pandemia, costringendo le famiglie a esborsi elevati (le mascherine arrivavano a costare anche 10-15 euro al pezzo). E la conseguenza era la stessa di Immuni: si finiva a risparmiare sulla "barriera per i cittadini", mettendo a rischio tutti. E neanche l’annuncio del calmieramento dei dpi era riuscito a risolvere la situazione. Chiunque si fosse fatto un giro tra le farmacie della propria città se ne sarebbe accorto: acquistare una mascherina a 50 centesimi, come promesso dal premier Conte, era praticamente impossibile. E la colpa non era dei farmacisti in questo caso, visto che gli stessi costi di acquisto dalle aziende erano ben più elevati dei pochi spiccioli richiesti per la vendita all’utente. Dov’è il cortocircuito? Come sempre, alla base del sistema, in quel modello di distribuzione che spesso non riesce a tenere conto dei bisogni più semplici. Che magari non pensa che tutti possano avere il cellulare aggiornato all’ultimo sistema operativo, se ancora si cercano i soldi per poter mettere il piatto a tavola a fine giornata. Gli annunci rischiano di essere mere parole, se non si invoglia un popolo già frustrato (e in alcuni casi, purtroppo, maleducato) a rispettare le regole mettendosi nei loro panni. Il virus si combatte lottando. Tutti insieme, sullo stesso piano.

Meloni: “Monitorare gli immigrati era razzista, ma tracciare gli italiani no”. Laura Pellegrini il 21/04/2020 su Notizie.it. Giorgia Meloni si sfoga: quando chiedeva di monitorare gli immigrati le davano della razzista, ma ora si pensa a tracciare gli italiani. “Monitorare gli immigrati irregolari sul territorio italiano dicevano fosse razzista e impossibile“, scrive Giorgia Meloni sui social, “perché non esistevano strumenti”. Ai tempi del coronavirus, però, si rende necessario scovare le persone positive e i loro contatti affinché si possano isolare i nuovi focolai sul nascere. La leader di FdI, dunque, attacca la sinistra che è pronta a lanciare la nuova app Immuni per il tracciamento degli spostamenti degli italiani. “D’improvviso – prosegue Meloni sui social – con il coronavirus la sinistra ha scoperto le task force, i droni, gli elicotteri, i braccialetti e le app per tracciare ogni minimo spostamento degli italiani“. Giorgia Meloni attacca la sinistra mentre si inizia a parlare del tracciamento degli spostamenti degli italiani per riscontrare da subito il sorgere di nuovi focolai di coronavirus. La leader di FdI, infatti, contesta alla sinistra di aver scoperto nuovi strumenti per invadere la privacy degli italiani seppur per motivi di salute e sanità pubblica. Mentre Meloni rilanciava la necessità di “monitorare gli immigrati irregolari sul territorio italiano” e veniva additata come razzista, oggi nessuno si oppone a questo tracciamento. Il suo sfogo arriva dai social, dove Meloni rilancia: “D’improvviso con il Covid-19 la sinistra ha scoperto task force, droni, elicotteri, braccialetti e app per tracciare ogni spostamento degli italiani”.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 2 ottobre 2020. Il governo ci crede, il Parlamento meno. Dopo i contagi registrati nei giorni scorsi e il rischio di paralisi dei lavori al Senato (poi sventato, i lavori sono già ripartiti), si è riaperto il dibattito sull' utilità di Immuni. Così se da una parte l' esecutivo prosegue l' opera di convincimento degli italiani e immagina una maratona tv in stile Telethon per aumentare i download (fermi a 6,6 milioni), dall' altro spadroneggiano scettici della tecnologia e apostati del tracciamento. Tra i corridoi di Palazzo Madama e Montecitorio si muovono frenetici i vorrei ma non posso di alcuni, i no ideologici di molti e gli «assolutamente sì, ma devono farlo tutti», di altri ancora. La categoria più fantasiosa però sono gli indecisi. Tra loro spicca proprio Francesco Mollame, senatore M5s contagiato dell' ultim' ora, che «non ha potuto scaricarla perché ha avuto delle difficoltà a causa del telefono». Impedimenti simili per la collega Margherita Corrado che vorrebbe farlo ma ha «Problemi con la memoria dei dispositivi». Favorevoli ma non abbastanza. Un po' come il senatore dem Luciano D' Alfonso che pur essendo d' accordo con il suo impiego non l' ha installata perché «non era una priorità, mentre ora che con i casi degli ultimi giorni lo è, lo farò». Più drastica l' ex M5s Paola Nugnes che, dopo essere approdata al gruppo misto, è confluita tra gli oppositori più ferrei di Immuni. «Penso che possa causare una psicosi e immobilizzare il Paese». Una posizione netta, che fa il paio con le rimostranze di molti parlamentari. Guidati da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, una folta schiera di eletti, spesso dai propri account sempre attivi sui social, già nelle scorse settimane si è detta contraria a causa di hacker, interferenze cinesi e prospettive di un Grande fratello di Stato. Tra loro gli ex grillini Michele Giarrusso ed Elena Fattori, i leghisti Massimiliano Capitanio e Diego Binelli, i meloniani Ignazio La Russa e Edmondo Cirielli, la dem Anna Rossomando, il socialista Riccardo Nencini e i più dubbiosi forzisti Deborah Bergamini e Renato Brunetta che attacca la scelta di non imporre il download come obbligo: «La natura dell' operazione è sacrosanta - dice, sottolineando da ex ministro dell' Innovazione di approvare il lavoro di Paola Pisano - ma mancando l' obbligatorietà è stata vanificata sul nascere». L' ultimo fronte, quello che impugna l' app come baluardo, è popolato da molte anime. Il corpus principale però è composto dai cinquestelle, schierati compatti nel sostegno al lavoro di Salute e Innovazione (e di Bending Spoons) come non lo sono mai stati nello scegliere un leader. Da Emilio Carelli a Stefano Vignaroli, da Giulia Grillo ad Emanuele Dessì, da Mattia Crucioli a Stefano Vaccaro, è per tutti una rincorsa a «l' ho scaricata per primo» e «dovrebbe farlo chiunque». Questo appena prima di interrogarsi. Proprio come Marco Croatti, l' altro M5s contagiato, su come sia possibile che a loro «non sia arrivata neppure una notifica». Se poi gli si chiede se dopo averla scaricata tengano attivo il bluetooth, però va a finire che la risposta è: «Ah! Si dovrebbe?»

Marco Lombardo per “il Giornale” il 15 ottobre 2020. Diciamo la verità: scaricare Immuni è un dovere. Avere un'app che permette di controllare il contagio è un'arma eccezionale. Ed anche le polemiche sulla privacy sono ormai passate. Immuni adesso è sicura ed è pronta. Peccato che non lo sia il Paese. E soprattutto non siano pronte quelle strutture che dovrebbero controllare i codici generati dall'app per avvisare chi è stato in contatto con una persona positiva di fare il tampone di controllo. Non lo sono in molte regioni d'Italia, e questa è la notizia clamorosa. Ed anche un po' vergognosa. Riassunto delle puntate precedenti: ieri Bending Spoon, la società che ha approntato l'app di tracciamento sulla piattaforma preparata da Aplle e Google, ha fatto sapere di aver finito il suo lavoro. Successivamente il ministro dell'Innovazione Paola Pisano ha gonfiato il petto durante un question time alla Camera: «Attualmente in Italia l'app è stata oggetto di circa 8 milioni e 600.000 download. Dal principio di ottobre questi sono stati 1.967.000. Dal 1 giugno i casi di potenziali focolai individuati e contenuti risultano 16. Le notifiche di esposizione registrate dal 13 luglio ammontano a 10.060 con netto incremento, purtroppo, nell'ultimo mese». Il ministro non dice quanti, dopo averla scaricata, poi la cancellano (perché succede anche questo). Ma è certo, visti i numeri, che la gente ha paura. E solo così, in Italia, si arriva a fare quello che si deve. Solo che c'è un virus ancor più forte che in Italia non teme vaccino: l'impreparazione. Regione Veneto: un signore di Padova riceve dal proprio telefono l'alert che lo avvisa di essere stato in contatto con un positivo al Covid. Il dato è certo, visto che Immuni lancia il messaggio solo se la vicinanza si protrae per oltre un quarto d'ora. Il nostro amico (visto il suo comportamento possiamo definirlo così) ha immediatamente attivato la procedura prevista in questi casi. Ha chiesto di fare il tampone, ha ricevuto a sua volta la certezza della positività, ha avvisato amici e parenti e si è chiuso in casa per la quarantena. Mancava un pezzo, ovvero chiamare l'Ulss di competenza per condividere i dati dell'app, la vera arma di Immuni. Il suo codice insomma sarebbe servito per continuare la catena di prevenzione. Solo che la risposta dell'operatore dell'azienda ospedaliera ha spezzato l'incanto: «Al momento in Veneto non c'è una procedura per utilizzare il codice dell'app». Punto. La verità arriva così, candidamente. Sono mesi che Immuni è ormai è partita ma ci sono zone d'Italia dove ancora il meccanismo non ha fatto girare un ingranaggio. La Regione è subito corsa ai ripari e ha fatto sapere che nei prossimi giorni «la piattaforma informatica che mette in relazione i soggetti positivi con gli eventuali contatti sarà pronta». Cose che in questi casi succedono sempre dopo. Ma di certo non è solo il Veneto ad avere questo problema. Diverse testimonianze hanno fatto venire a galla il fallimento della procedura in diverse parti d'Italia, con attese infinite ai centralini, addetti che sanno poco o niente, codici che non vengono trasmessi al server centrale perché non c'è modo di farlo. Per carità ci sono anche storie positive e casi che si sono risolti come ha detto il ministro Pisano. Ma ce ne sono tanti altri, come quello di una pensionata di Ancona, che raccontano giorni di attesa in attesa di essere contattati e di autoconfinamenti in casa senza sapere se davvero sia necessario farlo: «La segnalazione si è persa nei meandri delle email - ha detto al Resto del Carlino - o non è stata proprio presa in considerazione? Qual è il protocollo in questa situazione? Quale integrazione tra il medico di medicina generale e l'azienda sanitaria. Ora capisco la riluttanza a scaricare l'app». Non si dovrebbe essere riluttanti e ripetiamolo tutti, ma certi virus italici ti fan passare la voglia.

Dagospia il 15 ottobre 2020. Perché nessuno dice che l’app Immuni su alcuni smarthphone non si può caricare, perché hanno un sistema operativo non recentissimo? Io per esempio ho un iPhone 6, con versione software 12.4.8, quindi neppure troppo datato, e non riesco a scaricare l’applicazione, che gira solo con la versione 13. Saluti, Riccardo Frumento

L'intervista. Perché il ministro Pisano ha fallito su Immuni? L’esperto: “Poca logica e troppa vanità”. Giuseppe Mauro su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Immuni è la app di contact tracing utilizzata dal Governo Italiano che ha lo scopo di aiutare a prevenire le infezioni da Coronavirus. In questi giorni l’entusiasmo dei Ministri Speranza e Pisano si è scontrato con la realtà dei primi mesi di utilizzo dell’app dove tra Asl, scarsa fiducia dei cittadini e dati con scarsa attendibilità, quello che doveva essere un software innovativo e di veloce applicazione, è diventato la barzelletta d’Italia. In questi mesi accademici, politici e giornalisti fanno a gara nell’esprimere la loro opinione, c’è chi invece segue da tempo il dibattito a distanza e prova a tracciare un metodo propositivo per rendere Immuni realmente efficace. Il Riformista ha chiesto un parere al data journalist, Livio Varriale, esperto di tematiche digitali sul perché immuni non ha funzionato e la risposta è stata lapidaria: “Perché è nata burocraticamente male, impossibile applicarla nel nostro Paese salvo correttivi normativi forti e poi mi consenta, c’è davvero un dibattito di basso livello che mi stupisce molto visti gli attori impegnati. Nelle università e nelle stanze della politica i problemi si dovrebbero risolvere, ma qui sembra invece di assistere a discussioni da circoli letterari”.

Lei l’ha scaricata?

«Non scarico una app che non serve, ma invito gli altri a scaricarla. Non vorrei essere additato mica come nemico del popolo e del progresso tecnologico».

Cosa non ha funzionato.

«Per quel che so, e lo si è letto, è stato nominato un CTS composto da persone preparate che ha individuato due scelte tecniche ed il Ministro Pisano ha preferito scavalcare questa decisione e puntare su una azienda qualificata, con partecipazioni private vicine al mondo della politica e ad un fondo cinese. Questo però è un dettaglio giornalistico che potrebbe anche essere irrilevante dinanzi ad una comprovata efficacia tecnica. Al cittadino serve una app che funzioni per non infettarsi e ridurre al minimo il contagio e cosa dovrebbe fornire Immuni per assolvere al suo scopo?»

Non saprei, me lo dica lei.

«Mentre molti tra accademici, giornalisti ed esperti hanno cavalcato la promozione del numero crescente del numero di persone che scaricavano Immuni, io e alcuni informatici ci siamo domandati se l’app stesse funzionando. Può mai funzionare una app, che fornisce segnalazioni in anonimato degli infetti, avere all’interno del suo archivio solo 600 positivi mentre in Italia ne esistono almeno 70.000? Quindi il risultato è stato poche notifiche e pochi avvisi. Altra bugia che è stata presentata al pubblico è proprio il numero di Download. Dicono che Immuni possa funzionare bene se il 60% della popolazione ce l‘ha sul dispositivo, ma dimenticano che il 60% non deve essere un dato nazionale, ma territoriale che è ben diverso. Se il 60% è tutto il Nord, e il 40% è il sud, Immuni non funzionerà nel meridione. Se una regione a Sud ha l’80% e una a nord ha il 20%, funzionerà a macchia di leopardo. Altro aspetto agghiacciante è quello che è stato scelto un sistema decentralizzato per garantire maggiore privacy dei dati, ma è uscita una notizia che vede Apple e Google già pronti per fornire servizi di contact tracing se il governo dovesse autorizzarli. Come sanno di farcela se i dati li ha solo Immuni e per di più in anonimato? Ci sarebbe tanto di cui parlare, ma concentriamoci sul punto più importante».

Ma ci sono pubblicazioni, anche in ambito accademico, che dimostrano i benefici del contact tracing.

«Come fanno a dirlo? Ci sono pochi mesi di esperienza, i contagi salgono a dismisura e non esistono modelli europei di successo in tal senso. Questa è la vergogna del dibattito e invito chiunque ascolti dichiarazioni in tal senso a diffidare da chi le propone. L’unico paese dove il contact tracing ha dato i suoi frutti si chiama Cina».

Ma noi non siamo la Cina.

«E allora non possiamo utilizzare questa tecnologia. Smettiamola con questa ipocrisia. Una app che traccia i contatti quotidiani di una popolazione è per definizione una violazione della privacy così come la concepiamo noi e si basa sull’obbligo di comunicazione della positività alla asl che è obbligata a caricare i dati sulla piattaforma e l’infetto ha l’obbligo di ospitare la app sul suo cellulare fino a quando non smette di essere positivo almeno. Vorrei fare una battuta, non siamo la Cina, ma per questi casi il GDPR europeo prevede comunque la deroga alle regole normate per tutelare la privacy dei suoi cittadini. Se non è oggi, potrebbe essere comunque domani».

E come fanno a controllare? Se io non la scarico?

«Bene, vogliamo che la App funzioni? Il telefono o la app di un infetto vengono incaricati di mandare le segnalazioni alle autorità competenti qualora ci sia un alert di inutilizzo da parte di un infetto, l’autorità va a controllare immediatamente e a sanzionare se ci sono i presupposti. Altrimenti partner come Google e Apple a cosa servirebbero?»

Come il braccialetto elettronico per i detenuti, è una barbarie questa.

«Guardi, non basta scaricare una applicazione, ma fare in modo che questa sia utile. Molti pensano a prevenire le infezioni dopo la segnalazione ricevuta dall’App ed insistono giustamente sui tamponi da fare velocemente, ma il problema è che l’app non deve tenere conto di questo bensì assolvere al suo compito e cioè quello di segnalare e non vedo preoccupazione su questo aspetto che è quello che descrive o meno il funzionamento dell’applicazione. Se non fa questo, l’App potrà anche funzionare, ma non serve. Poi possiamo parlare o meno se un positivo da Covid debba essere riconoscibile perché, se mi trovo in una strada e passo vicino a un positivo, che probabilità ho di fare il tampone e risultare infetto? Se invece conosco il positivo e so che è il mio datore di lavoro o un congiunto, allora vale la pena di intasare il sistema sanitario facendo richieste di tamponi. Leggevo della Prestigiacomo e delle notifiche di falsi positivi, immaginate se all’improvviso corrono tutti in ospedale per di casi di falsa positività. I big data servono a qualificare i flussi, non a riportarli solo».

Molti sostengono che il Governo ha fatto già molto e Immuni sia stata boicottata dalle Asl e dalle regioni.

«Se non c’è l’obbligo di comunicare la propria positività e di renderla tracciabile alla comunità, mi spiega come si fa a dare colpa alla Asl? L’Asl ha colpa se un positivo dichiara la volontà di essere inserito nell’archivio e non procede a farlo. Il Governo ha la colpa di non aver avuto coraggio nell’imporre Immuni ai suoi cittadini, ma soprattutto agli infetti e forse è meglio così visto che è stato scelto un sistema decentralizzato. Queste cose dovrebbero interessare lo Stato in prima persona senza coinvolgere privati cosa che ha delineato il peccato originale di Immuni e la mancata fiducia da parte di molti, me compreso. Adesso che ci penso sa cosa ha boicottato Immuni?»

No cosa.

«Le passerelle di molti che per aggraziarsi il Governo, per visibilità e per incarichi di consulenza tecnica, non hanno mai centrato il punto della discussione, anzi, spesso hanno dovuto fare i conti con la logica e cambiare opinione smentendosi. Per alcuni è stata impreparazione, per quelli bravi, io ci vedo sia un feticcio tecnologico di cui discutere sia, per una parte minima ma di opinione, malafede e lobbismo. Immuni dovrebbe essere è una cosa seria, non un dibattito da Bar o una opportunità corporativistica. Da questa storia si comprende il perché l’Italia sia arretrata nel settore digitale dal punto di vista strategico nazionale».

Domenico Zurlo per leggo.it il 28 ottobre 2020. Bella ma inutile: a quattro mesi e mezzo dal suo lancio, non si può dire che la app Immuni abbia dato un gran contributo in questa pandemia di Covid. Scaricata da appena un italiano su cinque, tra obiezioni sulla privacy, tempismo incerto degli alert e scarsa chiarezza nelle procedure, il contact tracing della app è un vero e proprio percorso a ostacoli. Lo dimostra la storia di Monica, mamma milanese di tre figli: «Il 16 ottobre mio figlio 15enne ha ricevuto sulla app la notifica su un contatto con un positivo avvenuto otto giorni prima, forse a scuola - racconta - era un venerdì sera e l’indicazione era di chiamare il medico: nel weekend non risponde nessuno, dall’Ats idem. Parlo con la guardia medica e il responso è questo: il ragazzo non ha sintomi, sono passati 9 giorni, il lunedì può andare a scuola. E nessuno sa come gestire gli alert». Essendo Immuni su base volontaria, chi riceve la notifica non ha diritto in automatico a tampone, se non a discrezionalità dei medici, spesso oberati dalle troppe richieste: il risultato è una evidente farraginosità della procedura. E non a caso i positivi che hanno condiviso i propri dati tramite la app siano poco più di mille, con circa 25mila notifiche inviate su smartphone, numeri che impallidiscono davanti ai quasi 22mila casi registrati nella sola giornata di ieri. «Se vuoi fare il tampone, devi farlo privatamente e pagartelo - spiega Monica - e se l’isolamento è volontario non vale come malattia. Io ho tre figli in tre scuole diverse, rischio di ricevere un alert a settimana senza una procedura chiara e connessa». In altre parole: se Immuni avverte il cittadino che ha avuto un contatto a rischio, per questo’ultimo - specie se non ha sintomi e non ha intenzione di autoisolarsi - è più facile ignorare la segnalazione, o disinstallare direttamente la app. Per contenere il virus, si poteva fare di meglio.

App Immuni, Golia ci ha messo 10 giorni per segnalare la sua positività. Funziona davvero? Le Iene News il 21 ottobre 2020. Perché sull’app Immuni ci sono solo 902 casi registrati, sugli oltre 134mila attualmente positivi in Italia? Giulio Golia ha provato a contattare il presidente del Consiglio, i ministeri e anche l’azienda che ha prodotto Immuni per capire se funziona davvero. Ma per il ministero dell’Innovazione non ci sono disservizi. Quanto funziona l’app Immuni sul tracciamento dei contatti positivi al Covid? Ce lo stiamo chiedendo da qualche giorno con Giulio Golia, anche lui alle prese con il coronavirus, che è riuscito a inserire i propri dati solo dopo 10 giorni dal tampone che lo ha dichiarato positivo. Attualmente in Italia sono 134mila i positivi: da quando esiste l’app, però, solo 902 utenti hanno caricato l’informazione di positività su Immuni, l’app scaricata su 9 milioni di dispositivi. Come è possibile? Forse ci sono degli intoppi nel completare il complesso iter di segnalazione della positività? La Iena ha provato a chiederlo ai nostri politici a partire dal presidente del Consiglio Conte e dal ministro della Salute Speranza passando dal viceministro Sileri, il commissario Domenico Arcuri fino all’azienda che ha prodotto Immuni. Solo dal ministero per l’Innovazione e la digitalizzazione, a cui fa capo la ministra Paola Pisano, otteniamo risposta. “L’app tecnicamente funziona ed è la stessa tecnologia utilizzata dai Paesi europei”, ci dicono dall’ufficio stampa del ministero. “Non ci risultano disservizi dagli utenti iscritti che sono risultati positivi attribuibili ad aspetti tecnologici e quindi di nostra competenza”. Il caricamento dei dati e la verifica del reale funzionamento dell’app vengono eseguiti in modo rapido ed efficiente? Nel servizio della scorsa settimana (qui il video), Giulio Golia ci ha mostrato un’attesa infinita a centralini e numeri verdi. Ha iniziato chiamando l’Asl, che ci ha rimandato alla centrale operativa del distretto Covid, da cui però non ha ottenuto risposto. Intanto i giorni passano dal primo tampone positivo, così Giulio Golia ha contattato il servizio clienti dell’app Immuni che gli ha risposto di chiamare il 1500 ovvero il numero del ministero della Salute attivo 24 ore su 24. Al primo tentativo è caduta la linea finché gli risponde un operatore che lo ha messo in attesa di un operatore di secondo livello. A questo punto lo rimandano al dipartimento di Igiene dell’Asl, ma ci sono ben 40 utenti in attesa. Alla fine Giulio riesce a inserire i propri dati nell’app, così tutti i suoi contatti stretti delle ultime 48 ore hanno ricevuto la notifica. Ma un conto sarebbe stato segnalarlo dieci giorni prima e non così dopo quando per molti è addirittura finito il periodo di quarantena fiduciaria.  È davvero questo il funzionamento e l’efficacia di Immuni?

App Immuni, 10 giorni per inserire i dati. Dal governo: “Non ci risultano disservizi”. Le Iene News il 21 ottobre 2020. Perché sull’app Immuni ci sono solo 999 casi registrati su oltre 155mila attualmente positivi in Italia? Giulio Golia ha provato a contattare il presidente del Consiglio, i ministeri e anche l’azienda che l’ha sviluppata per capire se funziona davvero. Per il ministero dell’Innovazione non ci sono disservizi. L’app Immuni è un’esperienza abbastanza disastrosa perché non la si sta facendo funzionare. Nonostante i 9 milioni di download, a oggi gli utenti che hanno segnalato la loro positività sono stati 999, nonostante siano più di 155mila gli attuali positivi. Dopo averci mostrato come funzionano alcuni test rapidi (qui il servizio), Giulio Golia ci racconta la sua odissea: 10 giorni per caricare i dati dopo che è risultato positivo al Covid. Un periodo di tempo troppo lungo che renderebbe inutile l’utilizzo dell’app visto che invece deve tracciare i contatti velocemente. Oltre al caso di Giulio, ci sono state intere regioni che non avevano il servizio come il caso Veneto: solo 5 giorni fa si è scoperto che i dati non venivano caricati. E intanto il governo sbandierava il successo dell’app. Ma allora quanto funziona? Ogni positivo viene contattato da un “tracciatore” che chiede i contatti delle persone incontrate nelle ultime 48 ore che possono essere potenzialmente infette e quindi vanno messe in quarantena. Ma nel meccanismo del contact tracing c’è un problema: “Va molto bene se i casi sono pochi, se invece sono tanti va in sovraffollamento”, dice il microbiologo Andrea Crisanti. “Ogni persona ha una rete di contatti a cui può aver trasmesso l’infezione, tra i 10 e i 15”. A giugno erano 8.966 i tracciatori, dopo tre mesi sono aumentati di soli 275 unità. Ora le Asl sono obbligate a caricare i dati su Immuni, ma come si fa se non c’è abbastanza personale? Lo abbiamo chiesto al governo a partire dal presidente del Consiglio Conte e dal ministro della Salute Speranza passando dal viceministro Sileri, dal commissario Domenico Arcuri fino all’azienda che ha sviluppato Immuni. Dal ministero per l’Innovazione e la digitalizzazione, a cui fa capo la ministra Paola Pisano, otteniamo risposta non dalla ministra ma dall’ufficio stampa. “L’app tecnicamente funziona ed è la stessa tecnologia utilizzata dai Paesi europei”, ci dicono dall’ufficio stampa del ministero. “Non ci risultano disservizi dagli utenti iscritti che sono risultati positivi attribuibili ad aspetti tecnologici e quindi di nostra competenza”. 

App Immuni: il viceministro Sileri risponde a Giulio Golia dopo 10 giorni. Le Iene News il 27 ottobre 2020. L’ufficio stampa del viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, risponde alle domande di Giulio Golia dopo 10 giorni di attesa. Abbiamo chiesto perché sull’app Immuni ci sono 1.202 casi registrati nonostante i circa 20mila contagi quotidiani. Vi riportiamo le risposte integrali che abbiamo ricevuto

Dopo una settimana di attese, rimbalzi e domande via mail abbiamo parlato con l’ufficio stampa del viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri. Volevamo chiedergli perché l’app Immuni ha solo 1.202 casi registrati nonostante i 9 milioni di download e i circa 20mila nuovi contagi al giorno. Un problema di cui ci sta parlando da due settimane Giulio Golia (qui il servizio): con l’aumento dei contagi le regioni hanno chiesto di fare i tamponi solo ai sintomatici, eliminando così il concetto di tracciamento. Proprio ora, Immuni sarebbe fondamentale. Da tre settimane cerchiamo risposte dai responsabili, ma nessuno ci ha voluto parlare dal presidente del consiglio Conte al commissario straordinario Arcuri passando per l’ufficio stampa del ministro Speranza. A lasciarci a bocca aperta è stato il viceministro Sileri: dieci giorni fa, alla nostra richiesta di intervista, ci aveva detto di mandargli le nostre domande via mail. L’abbiamo fatto, dopo quattro giorni il suo ufficio stampa ci ha detto che il viceministro si era messo in contatto “con le altre istituzioni interessate”, come ci hanno fatto sapere. E noi abbiamo continuato ad aspettare. Nel frattempo il viceministro questa settimana si è dato da fare con interviste in radio e televisioni, presentazioni di libri e cene. Solo per Le Iene non ha avuto tempo? Questo pomeriggio finalmente ci sono arrivate le risposte via mail.  Qui di seguito vi riportiamo il testo integrale della mail con le domande del nostro Giulio Golia e le risposte ricevute poche ore fa dall’ufficio stampa del viceministro Sileri.

- Non vi sembra che ci sia un evidente problema nel sistema di segnalazione della positività? Avete in piano un sistema per risolverlo?

“Alla fine di agosto il numero di download dell’app era di 5 milioni di utenti e il numero di casi positivi piuttosto limitato, per cui il basso numero di segnalazioni di positivi con Immuni (intorno ai 6/7 casi al giorno) non è stato ritenuto segnale di mancata applicazione delle procedure previste per lo sblocco dei contatti di utenti Immuni risultati positivi al Covid-19. Solo a fine settembre con l'aumento dei download (che ad oggi sono più di 9 milioni) e l'aumento dei casi abbiamo iniziato a rilevare alcuni problemi nel numero limitato di trasferimenti di chiavi nel backend di Immuni in alcune Regioni e abbiamo inviato nuovamente a tutte le istituzioni coinvolte il materiale per la formazione degli operatori per le procedure di sblocco del codice. Al momento attuale, stiamo intervenendo sul piano operativo con segnalazioni specifiche alle Regioni nelle situazioni in cui emerge un mancato caricamento di chiavi di utenti positivi di Immuni, affinché le stesse possano adeguare i propri processi organizzativi per consentire il corretto utilizzo della app e del suo backend. Il Governo ha inviato una nota ai Governatori perché sul corretto funzionamento delle procedure ci sia anche un'attenzione dei vertici politici delle Regioni, che hanno la responsabilità gestionale della sanità a livello territoriale. Il pieno uso della app Immuni diventa ancora più determinante in un momento in cui le procedure tradizionali di contact tracing hanno dei rallentamenti dovuti all'elevatissimo numero di casi positivi da seguire”.

- Secondo un articolo del Sole24ore che riporterebbe dati dell’Istituto Superiore di Sanità, i “tracciatori” che si occupano del contact tracing in servizio ai Dipartimenti di Igiene delle Asl sono al momento 9.241. Sono gli stessi che dovrebbero caricare le segnalazioni di positività sul portale di Immuni?

“Non sono solo loro. L'attivazione del codice sblocco contatti di Immuni è una funzione che è stata resa disponibile nell'ambito del sistema Tessera Sanitaria a cui accedono le utenze dei medici o operatori sanitari che la Regione/Asl può decidere di abilitare. Ogni Regione ha valutato, secondo la propria organizzazione, se e chi abilitare nell'ambito dei Dipartimenti di prevenzione e anche al di fuori degli stessi”.

- Come è possibile che la regione Veneto non avesse attivato Immuni? Ne eravate a conoscenza prima che Il Corriere del Veneto pubblicasse la notizia? 

“La regione Veneto come tutte le altre aveva accettato l'adozione di una app nazionale di contact tracing già da aprile e aveva solo espresso delle perplessità sull'impossibilità con Immuni di risalire al caso indice, comunque non rappresentando contrarietà al suo utilizzo nelle numerose riunioni realizzate con le Regioni tra fine maggio e prima metà di giugno per avviare prima la fase sperimentale con 4 Regioni e poi quella a regime con tutte le altre”. 

- A inizio settembre, prima dell’inizio della temuta seconda ondata, risultavano appena 155 gli utenti che avevano segnalato la loro positività. Non avevate mai notato un problema nel caricamento dei dati?

“Vedi risposta alla prima domanda”.

- Nell’ultimo Dpcm del 18 ottobre 2020, è stata inserita l’obbligatorietà da parte degli operatori Asl di inserire il codice in caso di presenza di un caso positività. Ma se il problema è che gli operatori addetti a questa funzione sono oberati di lavoro, pensate che l’obbligatorietà faciliti l’utilizzo? 

“Sin dalle prime circolari sono state date indicazioni precise sulle responsabilità delle Asl. L’ulteriore richiamo contenuto nel Dpcm dovrebbe portare le Regioni e le Asl a mettere in atto soluzioni organizzative per assicurare lo sblocco dei contatti degli utenti Immuni positivi”.

- Secondo la nostra esperienza, potrebbe essere molto utile assumere ulteriore personale o estendere le possibilità ad altri che si occupino del caricamento dei dati di positività sull'App. Avete piani in tal senso?

“Come già ricordato, ogni Regione può valutare chi abilitare al caricamento delle segnalazioni. Il dialogo con le Regioni prosegue in modo costante per trovare ulteriori soluzioni e realizzare miglioramenti nell’operatività della app a beneficio di tutti”.

- Da oggi pomeriggio è comparsa una nuova dicitura sul sito dell’app: "La rilevazione è parziale poiché solamente un terzo dei devices Android utilizza la tecnologia di hardware attestation, condizione necessaria affinché i dati vengano registrati dal server." Cosa intende? Come mai è comparsa solo oggi?

“La pagina del sito di Immuni con i numeri è stata pubblicata recentemente e solo da pochi giorni ci è stato comunicato dai tecnici del Dipartimento per la trasformazione digitale che i numeri che il Ministero riceve dagli Analytics del backend dell’app sono solo quelli di una parte dei  device Android che hanno la funzione di hardware attestation, cioè di garanzia che la notifica sia effettivamente stata generata in un device con Immuni e non sia un informazione introdotta da un hacker sul sistema. Questa funzione dovrebbe essere abilitata per un terzo dei device Android. Abbiamo pertanto ritenuto più corretto comunicare che il dato pubblicato relativo alle notifiche può essere sottostimato”.

Hanno chiesto a tutto il ministero e ci hanno fatto aspettare dieci giorni per queste risposte? 

Umberto Rapetto per infosec.news il 21 aprile 2020. L’atmosfera di mistero si mescola alla paura del braccialetto elettronico. Nemmeno Agatha Christie avrebbe saputo intessere una trama così intrigante e quindi nessuno è in grado – si trattasse mai di un thriller – di sapere come si sono svolti i fatti, se è il maggiordomo ad aver inferto la coltellata mortale o se qualche insospettabile alla fine della storia si rivela essere il fatidico colpevole. La testa di ciascuno di noi comincia così ad affollarsi di domande che finora non hanno trovato plausibile risposta. Per quale motivo non è dato conoscere le considerazioni tecniche e pratiche che hanno fatto scegliere proprio l’applicazione di Bending Spoons? Perché mai non è spiegato dettagliatamente cosa è in grado di fare la “app” in questione? Per quale oscura ragione (e non mi si parli di segreto industriale) non è reso noto il codice sorgente (ovvero le istruzioni su cui si basa il funzionamento di qualunque programma) della applicazione? Perché non consentire a chi ha esperienza di queste cose di verificare che “Immuni” non faccia operazioni che esorbitino la specifica missione o addirittura non dia luogo ad attività nocive per la riservatezza della vita privata (non solo dei dati personali) dei soggetti che scelgono di accettare l’installazione? Come si deve interpretare l’affermazione del dottor Luca Foresti uscita il 18 marzo sul Corriere della Sera? Il manager, parlando della “app” di tracciamento a cui stava lavorando ha tenuto a dichiarare “Siamo in contatto con il ministero per l’Innovazione digitale guidato da Paola Pisano, che ci ha dato il suo supporto”. Supporto? Cosa si intende per supporto? Supporto da chi? Dal Ministero o, vista l’esiguità dell’organico del dicastero senza portafoglio, direttamente dalla ministra? Ma soprattutto chi è Luca Foresti? E’ l’amministratore delegato della rete di poliambulatori specialistici Centro medico Santagostino che – con Bending Spoons” – ha “vinto” la selezione per la “app” con l’ormai famosa “Immuni”. A guardar bene il calendario, il 18 marzo precede di tredici giorni la nomina del Gruppo di lavoro (o “task force” come piace a qualcuno) che avrebbe poi dovuto occuparsi di valutare i progetti e il cui responso sarebbe stato comunicato il successivo 10 aprile (tre settimane dopo la dichiarazione di Foresti), date desumibili anche dalla lettura dell’ordinanza firmata dal Commissario straordinario Domenico Arcuri. A rileggere il pezzo del Corriere si scoprono altri dettagli interessanti, come – ad esempio – la composizione della squadra che si è adoperata per la realizzazione della tanto discussa applicazione. Ci si accorge che nella compagine c’è Geouniq, società “che ha sviluppato un programma di geolocalizzazione capace di individuare la posizione di un cellulare (compreso il piano del palazzo a cui si trova) con un errore di soli 10 metri”. Poco importa se si tratta solo di una buona referenza, ma è legittima ogni preoccupazione se Geouniq ha messo nella app “Immuni” il seme (o magari una porzione dormiente, attivabile in un secondo momento) di istruzioni capaci di pedinare chiunque con il GPS a dispetto del tracciamento anonimo di cui tanto si parla. Poi si scopre che nel qualificatissimo team c’è pure una realtà “con grandi competenze sulla georeferenziazione”. Non ne bastava una, quella precedente? A guardar bene la Jakala è una società di marketing digitale, la cui tipologia di impresa porta i più fantasiosi ad immaginare entità probabilmente abituate a trattare dati degli utenti per localizzare chi-consuma-dove-quanto-quando e per promuovere azioni commerciali calibrate sulle informazioni di persone che potrebbero non sapere di essere “controllate”. I sospetti, i timori, le angosce e ogni altra strana vibrazione potranno essere sedate solo quando saranno resi pubblici i verbali di aggiudicazione (leggibili da tutti senza difficoltà una volta disponibili) e i “codici sorgenti” (interpretabili solo da esperti “terzi”, magari scelti tra i non vincitori la competizione). Accontentiamoci di sapere, nel frattempo, che si vocifera che ai milioni di nostri anziani potrebbe essere applicato il braccialetto elettronico, lo stesso dispositivo il cui progetto non si è riusciti a realizzare per un migliaio di detenuti da mandare ai domiciliari o per gli stalker. Sarà gratuito anche il pedinamento dei “diversamente giovani” oppure il pagamento di quel servizio sarà una opportunità allettante per le casse delle società telefoniche che – dilaniatesi nella corsa al ribasso delle tariffe – ansimano alla ricerca di qualcosa che le salvi dal tracollo?

Coronavirus, scelta l'app per il tracciamento dei contagi: si chiamerà Immuni. Progettata da Bending Spoons: il commissario Arcuri ha firmato l'ordinanza. Funziona con il Bluetooth e non sarà obbligatoria. Giovanna Vitale su La Repubblica il 16 aprile 2020. Si chiamerà Immuni l'app di contact tracing necessaria a tenere sotto controllo la diffusione del virus durante la Fase 2. Il commissario straordinario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri ha firmato oggi l'ordinanza con cui dispone la stipula del contratto di cessione gratuita della licenza d'uso sul software e di appalto di servizio gratuito con la società Bending Spoons, la quale si occuperà anche degli aggiornamenti necessari nel corso dei mesi.

Non sarà obbligatoria. Si tratta del progetto selezionato dal gruppo di esperti insediato al dicastero dell'innovazione, proposto al premier dalla ministra Paola Pisano il 10 aprile e ora sottoposto al vaglio del team Colao. La app Immuni, che non sarà  obbligatoria, ma scaricabile solo in modo volontario, si compone di due parti. La prima è un sistema di tracciamento dei contatti che sfrutta la tecnologia Bluetooth.

Funzionerà con il Bluetooth. Attraverso il Bluetooth è possibile rilevare la vicinanza tra due smartphone entro un metro e ripercorrere a ritroso tutti gli incontri di una persona risultata positiva al Covid-19, così da poter rintracciare e isolare i potenziali contagiati. Una volta scaricata, infatti, la  app conserva sul dispositivo di ciascun cittadino una lista di codici identificativi anonimi di tutti gli altri dispositivi ai quali è stata vicino.

Il diario clinico. La seconda funzione di Immuni, invece, è un diario clinico contenente tutte le informazioni più rilevanti del singolo utente (sesso, età, malattie pregresse, assunzione di farmaci) e che dovrebbe essere aggiornato tutti i giorni con eventuali sintomi e cambiamenti sullo stato di salute.

I test. L'app sarà "un pilastro importante nella gestione della fase successiva dell'emergenza", ha spiegato il commissario Arcuri, precisando che verrà prima avviata una sperimentazione in alcune regioni pilota. "Speriamo in una massiccia adesione volontaria dei cittadini", ha proseguito l'ad di Invitalia, sottolineando come "il sistema di tracciamento dei contatti ci servirà a capitalizzare l'esperienza della fase precedente ed evitare che il contagio si possa replicare". Per essere efficace, infatti, Immuni dovrà essere scaricata dal 60 per cento degli italiani. Un'impresa non certo non semplice.

Dagospia il 16 aprile 2020. Estratto dell'articolo di Eugenio Cau per Il Foglio. (...) La app si chiama Immuni, anche se da qui alla diffusione al pubblico il nome potrebbe cambiare. Per il suo sviluppo, Bending Spoons si è avvalsa della consulenza e della supervisione tecnica tra gli altri di John Elkann, presidente di FCA. La partecipazione di Elkann al progetto è particolarmente importante: secondo quanto risulta al Foglio, nelle prossime settimane la app potrebbe essere testata nella fabbrica Ferrari di Maranello, prima della diffusione al pubblico. Sono invece ancora aperte alcune possibilità su chi, assieme a Bending Spoons, gestirà la app dal lato della Pubblica amministrazione. Il commissario Arcuri avrà facoltà di scegliere una società pubblica che faccia da partner a Bending Spoons all'interno della PA e che faciliti l'interfaccia con i sistemi tecnologici dello stato. Tutto il progetto è realizzato pro bono. La app Immuni si potrà scaricare liberamente (non ci sarà nessun obbligo) ed è composta da due parti. La prima, e la più importante, è un sistema di tracciamento dei contatti che sfrutta la tecnologia Bluetooth. (...) La app conserva sul dispositivo di ciascun cittadino una lista di codici identificativi anonimi di tutti gli altri dispositivi ai quali è stata vicino entro un certo periodo. Quando un cittadino viene sottoposto al test per il coronavirus, un operatore sanitario dovrà preoccuparsi di chiedergli se ha installata la app. L'operatore sanitario sarà in possesso di una app differente, che genera un codice da dare al cittadino. Con questo codice, il cittadino può caricare su un server i dati raccolti dalla sua app, compresa la lista anonima delle persone a cui è stato vicino. Affinché l'operazione sia efficace, il caricamento deve avvenire su cloud, in maniera protetta.(...) La seconda funzione della app Immuni è un diario clinico, nel quale a ciascun utente verranno chieste alcune informazioni rilevanti (l'età, il sesso, la presenza di malattie pregresse e l'assunzione di farmaci) e che dovrebbe essere aggiornato tutti i giorni con eventuali sintomi e novità sullo stato di salute. 

Claudia Fusani per notizie.tiscali.it il 7 maggio 2020. “La App Immuni? La task force ha svolto la scrematura. La scelta è stata fatta direttamente dal Dis. Io ho seguito le loro indicazioni”. Con tranquillità disarmante, come se dicesse la più grande delle ovvietà, la ministra per l’Innovazione Paola Pisano ha raccontato ieri davanti al Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti la vera storia della App Immuni. Una storia inedita, che ha lasciato a bocca aperta il presidente del Copasir, il deputato leghista Raffaele Volpi, e i sei membri del comitato. Sapere che stiamo per consegnare i nostri dati più privati ad una società indicata dalla nostra intelligence potrebbe cambiare la narrazione sin qui salvifica della App che dovrà tracciare il virus tra 60 milioni italiani e quindi isolarlo.

Audizione shock. Doveva essere quella di ieri l’ultima audizione prima di scrivere la relazione finale da consegnare al Parlamento. Relazione chiave per approvare il decreto legge (dl Giustizia) approdato ieri al Senato che contiene tra le altre cose anche il via libera alla App che è uno dei pilastri della Fase 2, quella della convivenza con il virus, e anche una nuova sfida per nostra privacy. Tanto che il Garante della privacy da una parte e il Parlamento dall’altra hanno puntato i piedi perché sia il Parlamento a definire il perimetro delle funzioni e la gestione dei dati della App con due paletti imprescindibili: trasparenza e temporaneità dee conservazione dei big data. L’audizione del ministro è durata due ore e mezzo. Poi è stato deciso all’unanimità di non procedere con la relazione e di convocare nuovamente giovedì Giuseppe Vecchione, il capo del Dis nonché amico personale del premier Conte. “Il punto è - racconta una fonte del Comitato a TiscaliNews - che il Direttore del Dis è già stato audito e ha raccontato di aver proceduto alla valutazione della App solo alle fine dell’iter svolto dalla task force e del ministro”. A valle, quindi. Pisano dice, invece, “a monte”. C’è qualcosa che non torna. Anche qui, come già è successo nel caso Di Matteo-Bonafede.

La scrivania del premier. Un altro siluro atterra quindi sulla scrivania del premier Conte. Il dossier App è in buona compagnia: c’è il caso Di Matteo-Bonafede che nonostante gli sforzi di tenerlo basso, provoca continui imbarazzi visto che si parla di uno noto pm antimafia ora membro togato del Csm e del ministro della Giustizia sospettato di non aver scelto Di Matteo alla guida del Dap per il timore dei boss; c’è il decreto Covid 19 rinviato nuovamente a domani, dopo i rinvii della scorsa settimana,  per mancanza del parere della Commissione Bilancio. Il decreto liquidità, quello del famoso bazooka da 400 miliardi, è arrivato alla Camera  ed è stato sommerso da 2500 emendamenti di cui 400 presentati dal Pd, 300 da M5s, 500 da Forza Italia e altri 500 dalla Lega. L’unità nazionale si realizza al momento solo attraverso gli emendamenti che le forze parlamentari di maggioranza ed opposizione presentano al decreto che avrebbe dovuto finanziare le imprese ma in un mese di applicazione ha fatto poco. Per non parlare poi, a proposito di dossier che scottano, del decretone Maggio, ex Aprile, su cui si sta creando un inedito asse Pd-Italia Viva. Una parte del Pd. Non quella di Zingaretti.

Tre ore di audizione. L’audizione della ministra Pisano è stata preceduta da quelle, la scorsa settimana, di Vecchione, capo del Dis, del suo vice Baldoni e del ministro della Sanità Speranza. E da un’inchiesta, pubblicata ieri mattina su Il Foglio, da cui risulta che la task force della ministra Pisano aveva indicato due società titolari del progetto digitale di contact tracing, la Immuni della Bending spoons e la Covid-app. La task force aveva indicato di testarle entrambe per avere sempre pronto una specie di piano B. Invece il 7 aprile il ministro Pisano porta avanti una sola candidata, la Bending spoons, perché il progetto era in fase più avanzata. Da quel momento di Covid app si perdono le tracce. Il commissario Arcuri ha spiegato ieri sera in Commissione Trasporti di “non aver avuto alcun ruolo nella selezione”. Prima di Arcuri aveva parlato davanti al Copasir la ministra Pisano spiegando, aiutata dal suo capo di gabinetto, che in realtà il suo ufficio non ha scelto proprio nulla. E che la decisione è arrivata direttamente da palazzo Chigi e dal generale Vecchione, direttore del Dis, l’agenzia che coordina la nostra intelligence e di cui il premier Conte ha mantenuto la delega. “Un colpo di scena - spiega una fonte del Copasir - perchè Vecchione a noi aveva raccontato il contrario una settimana prima. E’ chiaro che qualcuno non dice la verità”. O che, forse, c’è stato “un malinteso”. Come è successo 36 ore prima tra il pm Di Matteo e il ministro Bonafede. Due ministri chiave della squadra 5 Stelle finiscono così nel tritacarne dei malintesi. E per la tenuta del Movimento non è una bella notizia. Neppure per la tenuta del governo Conte. Un uno-due micidiale. Solo una coincidenza?

I due filoni. Dai verbali dell’audizione Pisano incrociati con quelli delle audizioni precedenti emergono così due filoni che allungano ombre sulla App che ci dovrà “tutelare” dal virus. Il primo filone ha a che fare con la Cina. Si sa che Benging Spoons è una start up con capitali misti ma tutti con pedigree. Ha aperto lo scorso luglio, il suo capitale a tre family office: la H14 presieduta da Luigi Berlusconi (che controlla Fininvest per il 21,4%), la Nuo Capital, holding di investimenti della famiglia Pao/Cheng di Hong Kong, e StarTip, veicolo di Tamburi Investments. L’80% è in mano ai quattro fondatori di Bending Spoons Luca Ferrari, Francesco Patarnello, Matteo Danieli e Luca Querella mentre un 10-12% fa capo ai collaboratori. Non è noto al momento come sia avvenuto l’ingresso delle 3 family office. Le domande che sono state fatte durante la riunione del Copasir, riguardano soprattutto il gruppo della Nuo Capital: il fatto che Steven Chen (Nuo) è nipote di Sir Y.K. Pao, uno degli uomini più ricchi della Cina; come sono regolati gli aumenti di capitali; che rischio c’è che, qualora il signor Chen voglia fare un aumento di capitale, diventi proprietario di una app così strategica visto che avrebbe raccolto i dati più sensibili della popolazione italiana. E cosa succede qualora il governo cinese avesse a pretendere informazioni più dettagliate.

C’è poi il filone “svizzero”…Accanto a quello cinese c’è il filone svizzero. La App Bending spoons fa parte di un consorzio Ue specializzato in contact tracing. Riceve ogni anno 5 milioni euro per lo sviluppo del progetto da parte della Fondazione Botnar (Nissan) e dall’Ecole politecniche di Losanna. Il Comitato si chiede se sia sicuro che la app che dovrà tracciare 60 milioni di italiani abbia a che fare con capitale cinese e una fondazione che non è in un paese dell’Unione europea. A completare un quadro pieno di ombre anche il fatto che non è ancora pronto “il progetto esecutivo”. Chi gestirà i codici sorgenti e i dati per utilizzo statistico. Bocche cucite tra i membri del Comitato. Evitato anche il comunicato finale. Enrico Borghi (Pd) concede solo che “l’audizione del ministro impone l’esigenza di ulteriori approfondimenti senza i quali non è possibile una valutazione completa”.

L'App Immuni tra i parlamentari, Salvini "Mia figlia gioca col telefono". Morra: "Per motivi di privacy non la scarico". Camilla Romana Bruno il 13 ottobre 2020 su La Repubblica. La campagna di sensibilizzazione per far scaricare Immuni, l'app che avverte se si entra in contatto con una persona positiva e aiuta a contenere l'ulteriore diffondersi del virus, non è arrivata a chi dovrebbe dare il buon esempio. Oggi l'app è stata scaricata da 8 milioni di persone. Il leader della Lega Matteo Salvini non l'ha scaricata: "Perché mia figlia prende sempre il cellulare e me lo incasina". L'ex Cinque Stelle Gianluigi Paragone dice chiaramente: "Non la scarico perché non funziona. Un collega senatore, poi rivelatosi positivo (Marco Croatti, ndr) è entrato in Senato con la febbre e io devo avere Immuni?". Si aggiunge il Presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra: "Per il ruolo che rivesto è meglio che non lo faccia".

App Immuni un successo? Finora ha trovato 13 positivi. Le Iene News l'11 ottobre 2020. Scaricare Immuni è importantissimo, ma per adesso i numeri dell’app non sembrano molto confortanti: solo il 20% della popolazione l’ha scaricata, le notifiche inviate sono 8.300 e solo 13 positivi sono stati rintracciati grazie all’app. “Altro che Immuni, altro che tracciamento: è fantascienza”. La dura accusa dell’ex candidato a presidente della Liguria, adesso consigliere regionale, Ferruccio Sansa, è sembrata un fulmine a ciel sereno contro l’app di tracciamento scelta dal governo per la lotta al coronavirus. Mentre i partiti di maggioranza festeggiano i numeri via via crescenti di download dell’applicazione, Sansa – che ha contratto il coronavirus - ha detto che l’Asl gli avrebbe risposto “non sappiamo cosa bisogna farne” di Immuni. Una versione che è stata smentita dall’Asl3 ligure, che ha affermato di aver rispettato il protocollo previsto nei casi di positività al Covid-19. Ma che ha riacceso una domanda: l’app Immuni sta funzionando? Il numero crescente dei download è davvero significativo? Per capirlo bisogna leggere i dati: al 9 ottobre, secondo i numeri forniti dalla pagina ufficiale di Immuni, sono 8 milioni e 140 mila i download dell’app. Se ogni download corrispondesse a una persona fisica, circa il 20% di chi poteva scaricarla l’avrebbe fatto. Ma c’è un ma da sottolineare subito: il numero di download non corrisponde necessariamente al numero di persone che l’hanno scaricata. E’ infatti possibile che un cittadino scarichi l’app, la rimuova e poi la scarichi nuovamente. Oppure che l’app sia scaricata su più dispositivi in uso alla stessa persona. Non sappiamo quindi quante siano effettivamente le persone che hanno scaricato Immuni. E soprattutto, non sappiamo quante persone una volta scaricata l’app l’abbiano mantenuta o l’abbiano correttamente installata: il governo, sentito da Agendadigitale.eu, sostiene di non aver accesso a quel dato. Il che ovviamente è un grosso problema: se l’app è scaricata e non installata, è come non averla affatto. Il lato positivo, almeno, è che il numero dei download è in crescita: a inizio settembre erano poco più di 5 milioni di download, oggi sono oltre 8. Ma purtroppo senza sapere quanti di quegli 8 milioni siano effettivamente attivi, il dato dice poco o nulla di quanto stia effettivamente funzionando Immuni. Per capirlo allora è meglio leggere altri numeri: quante sono le persone risultate positive che hanno inserito i loro dati nell’app? Quante hanno ricevuto un alert per il contatto con un positivo? Quante hanno scoperto di aver contratto il coronavirus grazie a Immuni? Secondo quanto risulta sul sito di Immuni, al 9 ottobre sono 477 gli utenti che hanno scoperto di essere positivi e hanno caricato le loro chiavi di backend per avvertire i contatti a rischio. Perché, occorre ricordarlo, Immuni non comunica direttamente questa informazione ai suoi utenti: deve essere la persona risultata positiva ad attivare la procedura. Le notifiche inviate dall’app per i contatti a rischio sono state 8.300. E – secondo quanto riporta Agendadigitale.eu - le persone che hanno scoperto di essere positive grazie al contact tracking di Immuni sono 13, erano 8 un mese fa secondo quanto riporta Agi: per fare il confronto, sarebbe lo 0,22% dei positivi registrati ieri dal bollettino della Protezione civile. Ma quel numero, 13 positivi, si riferisce all’intero periodo di funzionamento dell’app, quindi dal 15 giugno in tutta Italia. Da quel giorno sono state 112.204 le persone contagiate dal coronavirus: di queste lo 0,01% sono state trovate grazie a Immuni. Insomma, non sembra si possa parlare di un grande successo. Ovviamente è fondamentale ricordare che l’app Immuni dovrebbe essere scaricata da tutti, che è sicura ed è uno strumento in più per cercare di contenere i nuovi casi di coronavirus tornati a esplodere in tutto il Paese. In questi giorni avete visto appelli a scaricare Immuni: un appello che facciamo nostro, perché più siamo a scaricarla più sarà facile trovare e circoscrivere i nuovi focolai. E far migliorare i numeri poco confortanti e i difetti del sistema che vi abbiamo raccontato con Luigi.

Dagospia il 7 maggio 2020. Le fake su Immuni. Replica del ministro Pisano (e risposta).

Lettera di Paola Pisano a “il Foglio”. Al direttore - Le scrivo per chiedere di pubblicare integralmente questa mia lettera di rettifica in merito all’articolo “Tracciamento delle menzogne - L’app anti virus scelta con una manipolazione del ministro Pisano”, apparso l’altroieri in prima pagina sul Suo giornale a firma di Luciano Capone e seguito, anche ieri, da un articolo che ne riprende i contenuti. Nell’articolo di martedì 5 maggio si afferma che avrei “mentito a tutti, al presidente del Consiglio e ai cittadini” perché avrei scelto l’app Immuni, quale soluzione migliore per realizzare un sistema di tracciamento anti Covid-19, attribuendo la decisione alla task force e non avendo dato atto ad alcuno delle attività e delle diverse valutazioni invece compiute da questo organo di valutazione tecnica. Nell’articolo, poi, oltre a ripetere più volte – e fin dal titolo – l’accusa di avere mentito e di avere “preferito bugie e opacità”, si riportano anche “parti” del report della task force, da me reso integralmente pubblico, estrapolate dal contesto e, soprattutto, mancanti delle valutazioni conclusive operate dalla medesima task force, ossia il Gruppo di lavoro data-driven per l’emergenza Covid-19. Ebbene, mi corre l’obbligo di precisare che la comunicazione della scelta dell’app, da parte mia e del ministro della Salute Roberto Speranza è stata accompagnata dall’invio al presidente del Consiglio di tutte le relazioni e gli atti di valutazione compiuti dalla task force. Peraltro, il percorso che ha portato alla scelta dell’app è stato accompagnato, oltre che dalle valutazioni tecniche della task force, da una serie di attente verifiche e valutazioni condivise in sede governativa con vari soggetti competenti, deputati a valutare tutti gli aspetti, non ultimi quelli della protezione dei dati personali e della sicurezza nazionale. Di questo percorso ho dato pienamente atto nelle sedi istituzionali, rispondendo al Parlamento in varie audizioni e pubblicando in trasparenza tutti gli atti della procedura. E veniamo al secondo punto. Proprio perché ho reso pubblici gli atti della procedura, spiace rilevare che il Suo giornale abbia estrapolato e dato conto solo di alcuni passaggi della relazione finale della task force, senza riportare tuttavia il suo giudizio conclusivo sulla comparazione effettuata tra l’app Immuni e l’altra soluzione tecnologica esaminata. Le trascrivo allora, per completezza, il passaggio della relazione, chiedendo che ne sia data immediata evidenza sul Suo giornale: “La soluzione Immuni utilizza la tecnologia sviluppata dal Consorzio Progetto Europeo PEPP-PT, promettendo quindi maggiori garanzie di interoperabilità e anonimizzazione dei dati personali. Tale soluzione inoltre risulta essere ad uno stadio di sviluppo più avanzato della soluzione CovidApp”. Tali motivate conclusioni della task force, valorizzando gli aspetti di maggiore garanzia sia sul piano operativo e della tutela della privacy sia sul piano della maturità e dello stadio più avanzato di sviluppo, hanno fatto propendere per la scelta dell’app Immuni come più rispondente alle attuali necessità, per essere poi sottoposta agli interventi finalizzati al suo effettivo funzionamento. Mi rincresce che sia stata la sua testata, abituata a rivendicare un’identità attenta ai diritti delle libertà personali e improntata al garantismo, a riservarmi – non capisco perché – un trattamento più adatto a un processo sommario, basato su un impianto accusatorio infondato. Nella speranza che le affermazioni del Suo giornale sul mio lavoro siano derivate da uno spiacevole fraintendimento, da me non voluto, e non da altre motivazioni, le invio i miei saluti. Paola Pisano, Ministro per l’Innovazione tecnologica

La risposta di Luciano Capone. Nella sua lettera, purtroppo, il ministro Paola Pisano non rettifica nulla e fa esattamente ciò di cui ci accusa: estrapola dal contesto le valutazioni della task force. La domanda a cui non c’è ancora una risposta è semplice: chi ha scelto la app? Il ministro non lo dice. Nella lettera del 10 aprile al presidente Conte, scrive che “il Gruppo di lavoro ha indicato nella soluzione denominata Immuni… quella più rispondente alle attuali necessità”. Non è vero. Il Gruppo di lavoro ha indicato due app – Immuni e CovidApp – da testare “in parallelo”. E per una questione di metodo fondamentale: viene indicato un percorso che prevede di testare l’efficacia e verificare la sicurezza delle due app prima di effettuare una scelta definitiva. La scelta doveva avvenire a valle, dopo aver provato sul campo l’app e averne ottenuto il codice sorgente, e non a monte come invece è stato fatto. Il ministro Pisano dice anche che “la comunicazione della scelta dell’app” al presidente Conte è avvenuta “da parte mia e del Ministro della Salute Roberto Speranza”. Bisogna premettere che un eventuale coinvolgimento del ministro Speranza non renderebbe vero il contenuto della lettera che attribuisce tale scelta alla task force, ma li renderebbe corresponsabili di una comunicazione non veritiera. In ogni caso, a quanto risulta al Foglio, il ministro Speranza non ha partecipato a questa decisione, ma ha semplicemente “preso atto” della scelta del ministero dell’Innovazione. Non a caso, l’8 aprile il consigliere del ministro Speranza Walter Ricciardi, che ha coordinato i gruppi di lavoro, aveva dichiarato all’Ansa che per la selezione “ci sarà una shortlist di app, ovvero una rosa di soluzioni tra cui scegliere”. Che era poi il metodo suggerito dal Gruppo di lavoro della task force. Poi, all’improvviso, dal ministero dell’Innovazione della Pisano è arrivata la decisione di fiondarsi su Immuni, con “sorpresa” di tutti. Sorpresa che è poi diventata “sconcerto” quando tale decisione è stata attribuita alla task force. Quanto alle asserite omissioni del Foglio, il ministro farebbe meglio a rileggere l’articolo. Che secondo la task force Immuni fosse “a uno stadio di sviluppo più avanzato” noi lo abbiamo riportato. Ma in nessun modo questa constatazione implicava una scelta. In diversi passaggi, sulla base del principio della ridondanza che la prof. Pisano dovrebbe conoscere, la task force suggerisce di testare “almeno due soluzioni, al fine di avere la certezza di poter disporre di almeno una soluzione da mettere in campo” qualora l’altra si fosse rivelata inadeguata. Invece la scelta è caduta su una sola app e senza alcuna sperimentazione. Il ministro scrive che “il percorso che ha portato alla scelta dell’app è stato accompagnato, oltre che dalle valutazioni tecniche della task force, da una serie di attente verifiche e valutazioni” di soggetti che si occupano “della protezione dei dati personali e della sicurezza nazionale”. Più che una smentita, è una confessione. La Pisano ci conferma che la scelta non si è basata solo sulle indicazioni della task force, come finora ha sostenuto, ma anche sulle valutazioni di altri organismi come l’intelligence. Manca, però, ancora una volta il soggetto: chi ha scelto Immuni? La Pisano o il Dis? Di sicuro non la task force. Più che insinuazioni sulle oscure motivazioni alle base delle nostre domande, servirebbero delle risposte.

Dagoreport l'8 maggio 2020. Chi ha deciso per l’app Immuni? I servizi o il governo? “La scelta è stata fatta direttamente dal Dis” ha dichiarato la ministra Pisano. Il capo dei Servizi Vecchione ha raccontato di aver “proceduto alla valutazione della App solo alla fine dell’iter svolto dalla task force e del ministro”. Dal 9 marzo ci sono state diverse riunioni informali su come doveva essere fatta la app che consente il tracciamento delle persone venute a contatto con una persona infetta. Durante questi incontri c’era un rappresentante della Pisano e un altro in quota Vecchione. Dunque, entrambi sapevano come stava procedendo “la costruzione” della app della discordia. Dubbi e ombre anche sulla società chiamata a gestire Immuni, la Bending Spoons, una start up con capitali misti che ha tra gli azionisti anche un fondo cinese. Fin dall’inizio la questione degli aspetti di sicurezza dell’applicazione ha presentato una serie di criticità riguardo alle tecnologie non a disposizione dei servizi italiani per garantire la sicurezza dei processi. La presenza di bug e falle digitali può esporre a rischi informatici i dispositivi che utilizzano le app di tracciamento. Chi controlla i controllori? La tutela dei dati degli utenti impone rigide misure di sicurezza anche a presidio di chi potrà accedere alle informazioni dei cittadini. Hacker, agenzie di intelligence, gruppi criminali possono essere interessati a questi dati per acquisire notizie, a scopi di business o, peggio, per ricattare le persone. Infine, una domanda. Chi sarà così temerario da inserire sui propri dispositivi un’applicazione colabrodo che non garantisce la sicurezza dei dati? La previsione è che non se la scaricherà nessuno...

Immuni s.p.App. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020 di Lucina Paternesi. A breve entrerà in funzione la cosiddetta app “Immuni” scelta tra oltre trecento progetti. È stata realizzata dalla società Bending Spoons in collaborazione con il centro medico Sant’Agostino. Tra i soci di Bending Spoons risultano H14 (di Luigi, Eleonora e Barbara Berluconi), StarTip, e il fondo asiatico Nuo Capital. Ma che cosa sappiamo di questo progetto? In realtà ancora ben poco, se non che dovrebbe sfruttare la tecnologia Bluetooth anziché il tracciamento dei contatti tramite Gps, giudicato più lesivo della privacy. Secondo i paletti fissati dall’Ue, questa app funzionerà se sarà scaricata almeno sul 60% dei telefoni dell’intera popolazione italiana. Alcuni esperti informatici sono scettici: se neanche Whatsapp è stata scaricata dal 60% degli italiani, che probabilità di successo ci sono per l’app immuni? E poi, quali dati raccoglierà e dove saranno conservati? Solo sugli smartphone dei cittadini o anche su un server centralizzato? Quanto è stata gestita in trasparenza la scelta della soluzione tecnologica migliore e come si rapporterà con la soluzione che stanno mettendo a punto Apple e Google? Come si sono mossi gli altri stati nel mondo? 

Le risposte del ministero dell'Innovazione alle domande di Report. Domande Report. Come mai, nonostante la relazione finale sul contact tracing prodotta dal sottogruppo di lavoro 6 in seno alla task force, ritenesse opportuno il test in parallelo di due soluzioni tecnologiche individuate, nella nota del 10 aprile viene trasmessa alla Presidenza del Consiglio dei ministri la decisione di indicare la scelta dell’app Immuni per la realizzazione del sistema nazionale di contact tracing? Perché, come scritto nella relazione del gruppo 6, Immuni mostrava “maggiori garanzie di interoperabilità e anonimizzazione dei dati personali. Tale soluzione inoltre risulta essere ad uno stadio di sviluppo più avanzato della soluzione CovidApp.” Quindi la scelta dell’app Immuni è stata coerente rispetto alle conclusioni della task force, che aveva valorizzato gli aspetti di maggiore garanzia di tale soluzione sia sul piano operativo e della tutela della privacy sia sul piano della maturità e dello stadio più avanzato di sviluppo, facendo propendere per tale scelta come più rispondente alle attuali necessità. Per rispondere a questa domanda è anche necessario ripercorrere brevemente il percorso che ci ha portato alla selezione di questa applicazione. Il Ministero della salute, nell’ambito di interlocuzioni istituzionali anche con rappresentanti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha chiesto al Ministro Pisano la disponibilità a collaborare nella ricerca e definizione di un percorso che consentisse in tempi rapidi la realizzazione di un sistema nazionale per il contact tracing. Il Ministro Pisano ha quindi messo a disposizione le risorse e le competenze del Dipartimento per la trasformazione digitale. È stata dunque avviata una chiamata pubblica per l’invio di proposte tecnologiche utili allo scopo e, allo stesso tempo, è stata costituita una task-force, composta da esperti di chiara fama che potessero osservare e studiare il fenomeno generale dell’analisi dei dati con un approccio interdisciplinare. Nell’ambito della task force si è previsto che la soluzione di contact tracing venisse valutata da due appositi sottogruppi: il n. 6 denominato “Tecnologie per il governo dell’emergenza” e il n. 8 su “Profili giuridici della gestione dei dati connessa all’emergenza”. Senza ritardo avrebbero dovuto esaminare le 319 proposte e soluzioni tecnologiche pervenute. I sottogruppi hanno lavorato in piena autonomia con le modalità e i risultati riportati nelle relazioni che hanno sottoposto all’attenzione del Ministro Pisano per le valutazioni finali e che il Ministro ha successivamente reso note alla Commissione Lavori pubblici del Senato e subito dopo pubblicato sul sito istituzionale del Dipartimento. All’esito delle sue valutazioni tecniche, il Sottogruppo n. 6 ha concluso le sue attività, giungendo all’individuazione di due sole soluzioni tecnologiche, ritenute teoricamente valide per essere sviluppate e testate a scopo di implementazione nell’attuale situazione emergenziale. Si tratta in appunto di: Immuni e CovidApp. Tuttavia, all’esito della sua analisi comparativa, la stessa task force ha formulato il seguente giudizio conclusivo: “La soluzione Immuni utilizza la tecnologia sviluppata dal Consorzio Progetto Europeo PEPP-PT, promettendo quindi maggiori garanzie di interoperabilità e anonimizzazione dei dati personali. Tale soluzione inoltre risulta essere ad uno stadio di sviluppo più avanzato della soluzione CovidApp.” A valle del lavoro e delle conclusioni della task force, sono state compiute poi ulteriori verifiche e interlocuzioni condivise con diversi soggetti istituzionali, deputati a valutare, ciascuno per le proprie competenze, gli aspetti e le esigenze del sistema e dell’applicazione di contact tracing nel campo sanitario, della sicurezza nazionale, della protezione dei dati personali, dell’architettura tecnologica e di sviluppo. Ed è stato all’esito di tali interlocuzioni che sono emerse ulteriori esigenze, condivise con tutti i soggetti istituzionali deputati a supportare la scelta da intraprendere, quali quelle legate all’urgenza di procedere e dunque all’inopportunità di uno sviluppo contemporaneo di due soluzioni (immuni e covid-app),; la necessità di utilizzare una piattaforma pubblica, ubicata su territorio nazionale e gestita da soggetto pubblico; la necessità di un’approfondita verifica del codice sorgente offerto dallo sviluppatore selezionato; la necessità di definire in modo chiaro la governance del progetto. All’esito di tale complesse interlocuzioni, verifiche e valutazioni, il Ministro Pisano e il Ministro Speranza hanno comunicato al Presidente del Consiglio dei Ministri la scelta dell’app Immuni, accompagnando ovviamente tale comunicazione con l’invio di tutte le relazioni e gli atti di valutazione compiuti dalla task force. In particolare, la scelta dell’app Immuni è stata coerente rispetto alle conclusioni della task force, che aveva valorizzato gli aspetti di maggiore garanzia di tale soluzione sia sul piano operativo e della tutela della privacy sia sul piano della maturità e dello stadio più avanzato di sviluppo, facendo propendere per tale scelta come più rispondente alle attuali necessità. Una volta scelta l’app Immuni, tale ipotesi – e, in particolare – la compagine societaria del proponente, è stata verificata – sul piano della sicurezza nazionale – ed è emerso che, a riguardo, non vi fossero situazioni ostative all’utilizzo dell’app e della soluzione sviluppata dalla Bending Spoons S.p.a. Infine, è stata altresì introdotta una specifica norma primaria, all’articolo 6 nel decreto-legge 30 aprile 2020, n. 29, sulla quale il Garante della protezione dei dati personali ha espresso parere favorevole: 1) istituisce la piattaforma unica nazionale per il sistema di allerta del rischio di contagio da Covid-19, da attivare su base volontaria; 2) individua quale titolare del trattamento dei dati personali il Ministero della Salute; 3) impone l’adozione di misure tecniche e organizzative idonee a garantire un livello di sicurezza adeguato ai rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati, sentito il Garante e nel rispetto delle norme sulla privacy; 4) impone che, prima dell’installazione dell’app, gli utenti ricevano informazioni chiare e trasparenti; 5) limita i dati personali raccolti dall'app di contact tracing a quelli strettamente necessari ad avvisare gli utenti dell’applicazione; 6) impone che il trattamento effettuato per allertare i contatti riguardi solo i dati di prossimità dei dispositivi, resi anonimi oppure pseudonimizzati, con esclusione in ogni caso della geolocalizzazione dei singoli utenti; 7) prescrive che i dati relativi ai contatti stretti siano conservati per il periodo strettamente necessario al trattamento e che gli stessi dati siano cancellati in modo automatico alla scadenza del termine; 8) vieta che i dati raccolti possano essere trattati per finalità diverse da quelle di allerta delle persone; 9) vieta che il mancato utilizzo dell’app possa in qualsiasi modo pregiudicare i cittadini e chiarisce che il sistema di tracciamento integra e non sostituisce gli ordinari sistema in essere; 10) prevede la titolarità pubblica della piattaforma del sistema di tracciamento dei contatti; 11) impone che la piattaforma sia sviluppata esclusivamente con infrastrutture localizzate sul territorio nazionale e gestite dalla società pubblica Sogei S.p.A., interamente partecipata dal Ministero dell’economia e delle finanze; 12) prevede che i programmi informatici di titolarità pubblica sviluppati per la realizzazione della piattaforma e l'utilizzo dell'applicazione di tracciamento siano resi disponibili e rilasciati sotto licenza aperta e verificabile da chiunque; 13) fissa l’interruzione dell’utilizzo della piattaforma e del trattamento dei dati personali alla data di cessazione dello stato di emergenza disposto con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, e comunque non oltre il 31 dicembre 2020; 14) impone che entro la medesima data tutti i dati personali trattati debbano essere cancellati o resi definitivamente anonimi. Come mai è stato affidato un compito così delicato a un’azienda sicuramente leader nel settore delle app, ma focalizzata solo su app ludiche, alcune della quali, in passato, eliminate dall’App store perché non rispettava le direttive di Apple? La soluzione tecnologica proposta Bending Spoons è stata selezionata in una call per idee chiamata “Innova per l’Italia” (link) che ha visto la partecipazione di oltre 2.000 aziende. All’interno di questo programma la “fast call” che abbiamo pubblicato riguardava i servizi di telemedicina e data analysis per il monitoraggio, è stata aperta da martedì 24 marzo ore 13 a giovedì 26 marzo ore 13 e ha coperto la necessità di scouting e analisi su questi temi. In particolare, la scelta dell’app Immuni aveva tre caratteristiche estremamente convincenti: Utilizzando il know-how e il codice derivanti dal lavoro del consorzio PEPP - PT, che, all’epoca, riuniva i maggiori centri di ricerca europei, con competenze epidemiologiche, di cybersecurity e informatiche. Tale consorzio mirava a garantire la migliore interoperabilità e le migliori soluzioni per la tutela della privacy nello sviluppo di soluzioni di Digital Contact tracing. Inoltre, anche molti Stati membri dell’UE, tra cui il nostro guardavano con attenzione a questo consorzio e al suo lavoro. Infine Bending spoons è considerata tra i primi 10 sviluppatori di app al mondo come riportato da questo articolo del Sole 24 Ore  che cita uno studio di Sensor Tower, una delle principali società di app intelligence al mondo. Detta classifica si basa sui download di app nel mondo non ludiche e Bending spoons si posiziona al nono posto. Non si tratta quindi di una società specializzata in “app ludiche” e comunque la tecnologia e le competenze utilizzate per sviluppare questa tipologia di applicazioni sono fra le più avanzate. Bending Spoons ci conferma che nel 2017 alcune app furono eliminate (assieme a quelle di migliaia di altri sviluppatori) a fronte di una modifica di alcune direttive da parte di Apple, dopo che le stesse app erano state approvate centinaia di volte in precedenza attraverso il rigoroso processo di revisione dell’App Store. Dal momento che inizialmente l’azienda Bending Spoons S.p.A. era parte del consorzio Pepp-pt e che, invece, dalle dichiarazioni rese dal ministro Pisano in audizione alla Camera, si evince che l’app di tracciamento Immuni utilizzerà un protocollo decentrato, chi sta ora, effettivamente, sviluppando la tecnologia dell’applicazione? Se ne stanno occupando direttamente le società pubbliche Sogei e PagoPA? In che modo sono entrate a far parte della gestione e dello sviluppo dell’app? Che tipo di protocollo sarà sviluppato? Una volta che Bending Spoons ci ha consegnato il suo codice, siamo entrati in una nuova fase di lavoro, nella quale abbiamo riesaminato anche insieme a PagoPA e SoGEI tutta la soluzione, rivedendo ogni singola scelta. In particolare, dopo l’annuncio della soluzione di Apple e Google avvenuto a valle della valutazione della task force, abbiamo ritenuto opportuno valutare tale soluzione perché risolutiva di molti dei problemi tecnici riscontrati su tutte le soluzioni valutate dallta task force. Su tale soluzione è poi ricaduta la nostra scelta, infatti oggi Immuni utilizza il framework di Apple e Google Exposure Notification ovvero un sistema cosiddetto decentralizzato. Al lavoro di messa a punto del progetto stanno ovviamente partecipando tutti gli attori istituzionali coinvolti, secondo le rispettive competenze. Per quanto riguarda le necessarie attività di verifica del codice sorgente dell’applicazione, di condivisione dello stesso in modalità open source, di analisi e sviluppo dell’applicazione, di diffusione dell’app negli store, di installazione e gestione del back-end della stessa app, sono coinvolte Bending Spoons insieme e sotto la direzione di SoGEI e PagoPA e con il supporto del Dipartimento per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione. Tra i documenti resi pubblici dalla task force, la relazione sui Profili giuridici indica chiaramente che l’app Immuni vede tra i suoi proponenti la società Bending Spoons S.p.A., unitamente a GeoUniq, Centro medico Santagostino, Jakala e Arago. L’app utilizzerà la tecnologia di tracciamento dei contatti Arago? Né GeoUniq né Jakala hanno progettato o sviluppato l’app. Nessuna di queste società ha legami con Bending Spoons e non è coinvolta nello sviluppo, non ha e non avrà accesso a dati di nessun tipo. Comunque l’app non genererà altri dati se non quelli utili al contact tracing. Le due società insieme al Centro Medico Santagostino erano state coinvolte nel progetto in una fase iniziale (fino al momento della fast call), mettendo a disposizione le loro competenze nel caso potessero risultare utili. La versione di immuni presentata nella fast call non aveva funzionalità legate a tali competenze—la documentazione si limitava a suggerirle come possibili espansioni future. Da allora Bending Spoons ha smesso di collaborare con queste società. Per la versione di Immuni presentata alla fast call, Arago fornì solo il modulo Android che gestiva la comunicazione Bluetooth (ora quella componente è fornita da Google a livello di sistema operativo). Tutto il resto del codice (che era la stragrande maggioranza) era stato sviluppato da Bending Spoons. Nella stessa relazione di cui sopra si legge anche che sotto il profilo della sicurezza informatica la società proponente non ha fornito report in merito a test di sicurezza sulle applicazioni o sui server in uso. Sono stati condotti questi test? È possibile visionare il report sui test di sicurezza? Le usuali e già previste analisi di sicurezza sono iniziate con il processo di sviluppo proprio dalla revisione del design architetturale della soluzione e continueranno con la revisione del codice di tutte le componenti, il vulnerability assessment ed infine i penetration tests che saranno condotti con la massima cura e attenzione. Riteniamo inoltre sia necessario svolgere una valutazione del rischio complessiva tenendo in considerazione anche gli aspetti organizzativi e di gestione dell’intera piattaforma. Quando sarà rilasciato il codice sorgente dell’app? E quando sarà possibile scaricarla? Apple e google rilasceranno la versione del sistema operativo con il framework di Exposure Notification intorno al 15 maggio p.v. L’obiettivo è rilasciare l’app intorno alla fine di maggio e al momento stiamo rispettando “la tabella di marcia” che ci siamo dati per essere pronti non appena la versione del sistema operativo sarà rilasciata dalle due società. Il codice sorgente sarà rilasciato su github come tutti i nostri progetti, sarà scaricabile dopo i test come in ogni progetto di questo tipo. Siete al corrente che tra i soci finanziatori della società Bending Spoons, oltre a una partecipazione della StarTip di Gianni Tamburi e H14 dei Berlusconi, c’è anche un fondo con capitale asiatico? Una volta scelta l’app Immuni, tale ipotesi – e, in particolare – la compagine societaria del proponente, è stata verificata – sul piano della sicurezza nazionale – ed è emerso che, a riguardo, non vi fossero situazioni ostative all’utilizzo dell’app e della soluzione sviluppata dalla Bending Spoons S.p.a. Per verificare i soci finanziatori di Bending Spoons è sufficiente una semplice visura camerale, dalla quale si evince che i soci fondatori, poco più che trentenni, detengono l’80% delle quote e il 90% di quelle con diritto di voto, che permettono loro di eleggere il consiglio di amministrazione nella sua interezza. Queste partecipazioni non destano preoccupazioni su un’eventuale raccolta dati da parte di terze app sviluppate sempre dalla società, dal momento che tra gli sviluppatori ci sono compagnie, come Jakala e Geouniq che hanno centrato il proprio business proprio sul data analytics? Né GeoUniq né Jakala hanno progettato o sviluppato l’app. Le due società erano state coinvolte nel progetto in una fase iniziale (fino al momento della fast call), mettendo a disposizione le loro competenze nel caso potessero risultare utili. La versione di immuni presentata nella fast call non aveva funzionalità legate a tali competenze—la documentazione si limitava a suggerirle come possibili espansioni future. Dal allora Bending Spoons ha smesso di collaborare, dal punto di vista tecnico, con queste società. Né GeoUniq né Jakala hanno mai avuto e mai avranno accesso ai dati. Come mai già lo scorso 18 marzo, una settimana prima dell’avvio della fast call lanciata da Innova per l’Italia che avrebbe scelto, soltanto il 10 aprile, l’app Immuni come la più adatta per il contact tracing, l’amministratore delegato del centro medico Santagostino Luca Foresti, sulle pagine del Corriere della Sera, affermava di essere già in contatto con il ministero guidato da Paola Pisano “che ci ha dato il suo supporto?”. A che cosa si stava riferendo? Luca Foresti aveva contattato direttamente il MID in data tramite email. Il Dipartimento ha ritenuto utile ascoltarlo, come chiunque abbia, in quei momenti, manifestato interesse e impegno ad aiutare il nostro Paese in una fase di grave difficoltà. In quell’occasione vennero presentate alcune possibili idee per utilizzare la tecnologia a supporto dell’emergenza sanitaria. Abbiamo confermato massima disponibilità anche con un una comunicazione del Ministro. Crediamo sia doveroso per le istituzioni sostenere chi si renda disponibile gratuitamente per il bene del Paese, suggerirgli il percorso corretto e contribuire ad abbattere qualsiasi barriera perché questo possa avvenire. Il 20 marzo abbiamo lanciato “Innova per l’Italia”, un programma che invita aziende, università, enti e centri di ricerca pubblici e privati, associazioni, cooperative, consorzi, fondazioni e istituti a fornire un contributo nell’ambito dei dispositivi per la prevenzione, la diagnostica e il monitoraggio per il contenimento e il contrasto del diffondersi del Coronavirus (SARS-CoV-2) sull’intero territorio nazionale. All’interno del programma Innova per l’Italia sono state anche aperte delle “call to action” specifiche e di breve durata che rispondevano alle esigenze di altri enti e istituzioni (es. Ministeri, Protezione civile, ecc) nei tre ambiti di riferimento del programma. In questa pagina pubblicheremo di volta in volta gli avvisi per altre call di servizi e tecnologie in ambiti specifici. La “fast call” che abbiamo pubblicato riguardava i servizi di telemedicina e data analysis per il monitoraggio, è stata aperta da martedì 24 marzo ore 13 a giovedì 26 marzo ore 13 e ha visto 318 proposte tra cui quella di Bending Spoons che è stata valutata da una task force di profili indipendenti  con una relazione pubblica sul sito.

Le risposte di Bending Spoons S.p.A alle domande di Report. Report Q&A Le risposte che seguono sono scritte per essere pubblicate nella loro totalità, in quanto esprimono concetti critici che altrimenti rischierebbero di essere distorti. Dal momento che inizialmente l’azienda Bending Spoons S.p.A. era parte del consorzio PEPP-PT e che, invece, dalle dichiarazioni rese dal ministro Pisano in audizione alla Camera, si evince che l’app di tracciamento Immuni utilizzerà un protocollo decentrato, chi sta ora, effettivamente, sviluppando la tecnologia dell’applicazione? Se ne stanno occupando direttamente le società pubbliche Sogei e PagoPA? In queste settimane Bending Spoons si sta occupando di modificare le parti del design e riscrivere le parti del codice di Immuni che necessitano di essere riviste per integrare la nuova tecnologia di Apple e Google, sempre a titolo gratuito e in conformità col contratto con il Governo che prevede lo sviluppo di personalizzazioni e migliorie. In questo, sta lavorando a stretto contatto con SoGEI e PagoPA. Il fatto che il Governo abbia deciso di continuare la collaborazione con noi dopo la decisione di integrare il modello di Apple e Google ci è sembrata la scelta più razionale da compiere, considerato il tanto lavoro già fatto. Diversamente si sarebbero sicuramente introdotti nel progetto ritardi difficilmente giustificabili. Che tipo di collaborazione hanno fornito le seguenti società nella realizzazione dell’app: GeoUniq, Jakala e Arago? La versione attuale di Immuni è stata sviluppata nella sua interezza e sta venendo ultimata da Bending Spoons insieme e sotto la direzione di SoGEI e PagoPA e con il supporto del Dipartimento per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione. Nella versione dell’app proposta nel contesto della fast call, Arago aveva fornito una piccola parte del codice che ora non viene più utilizzato. Tutto il resto del codice l’aveva implementato Bending Spoons. Né GeoUniq né Jakala avevano contribuito allo sviluppo dell’app, avendo messo a disposizione durante la fase di ideazione le loro competenze nel caso potessero risultare utili. La versione di Immuni presentata nella fast call non aveva funzionalità legate a tali competenze—la documentazione si limitava a suggerirle come possibili espansioni future. In che rapporti è Bending Spoons con Arago? La società di proprietà di Hans Christian Boos ha effettivamente sviluppato la tecnologia dell’applicazione? La versione attuale di Immuni è stata sviluppata nella sua interezza e sta venendo ultimata da Bending Spoons insieme e sotto la direzione di SoGEI e PagoPA e con il supporto del Dipartimento per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione. Bending Spoons non era mai stata in contatto con Hans-Christian Boos o Arago prima del progetto Immuni. Per la versione di Immuni presentata alla fast call, Arago aveva fornito solo il modulo Android che gestiva la comunicazione Bluetooth (ora quella componente è fornita da Google a livello di sistema operativo). Tutto il resto del codice (che era la stragrande maggioranza) era stato sviluppato da noi di Bending Spoons. La collaborazione con Arago e il consorzio PEPP-PT si è interrotta nel momento in cui si è deciso di passare alla tecnologia offerta da Apple e Google. Ad oggi sono stati condotti test sulla sicurezza dell’applicazione? Sarebbe possibile avere un report? Privacy e sicurezza informatica sono priorità nello sviluppo di Immuni. Fin dall’inizio della collaborazione con SoGEI e PagoPA, sono iniziate revisioni dell’architettura infrastrutturale, processo che continuerà per includere la revisione di tutto il codice sviluppato per il progetto. Inoltre, la collaborazione con Apple e Google e il fatto che il codice sarà ben presto reso open source aiuteranno a garantire un livello di qualità ancora superiore in questo senso. Infine, abbiamo già da tempo pianificato dei test di penetrazione, che saranno effettuati con la massima attenzione. Tuttavia, sarebbe poco utile effettuarli su una versione non finale del sistema—un po’ come cercare le infiltrazioni in una casa in costruzione. Non appena disponibili, condivideremo i risultati di questi test. Bending Spoons o le altre società che hanno partecipato alla realizzazione della tecnologia avranno accesso ai dati degli utenti che scaricheranno Immuni? No, il ruolo di Bending Spoons è limitato al design e allo sviluppo del software e la società non avrà nessun tipo di accesso ai dati degli utenti. Sarà il Ministero della Salute a controllare i dati e SoGEI, società pubblica, a gestire l’infrastruttura server, mantenendo tutti i dati sul territorio italiano. Come mai nel 2017, quando Apple rimosse alcune app create da Bending Spoons per guadagnare follower su Instagram, la società creò un sito per offrire lo stesso servizio e avere completo accesso ai dati degli utenti? Il sito non fu certo creato per avere “completo accesso ai dati degli utenti”. I dati che venivano raccolti oltre allo username Instagram (dato pubblicamente disponibile fornito dagli utenti e necessario all’erogazione del servizio) venivano usati per fornire (e migliorare nel tempo) il servizio stesso e, in parte, per fare attività di marketing molto standard. Il sito, che comunque ha avuto un ruolo trascurabile nel business di Bending Spoons, fu creato per continuare a erogare il servizio offerto in precedenza dalle app. I ricavi di Bending Spoons da sempre derivano interamente dai pagamenti degli utenti e in minima parte da pubblicità, non dalla vendita di dati. Bending Spoons ha un rapporto eccellente con Apple e da sette anni operiamo sull’App Store e siamo attualmente uno dei principali sviluppatori di app a livello mondiale. Nel caso menzionato furono rimosse non solo le app di Bending Spoons, ma tutte quelle di quel tipo, incluse le app di tantissimi altri sviluppatori. Prima della rimozione, le nostre app avevano passato regolarmente il severo processo di scrutinio di Apple centinaia di volte. Come sono stati gestiti i dati? Avete mai venduto dati degli utenti raccolti attraverso le app distribuite dalla compagnia e dalle sue controllate? Non abbiamo mai venduto i dati dei nostri utenti, anche se, diversi anni fa, avevamo per un brevissimo periodo valutato la possibilità di cedere dati anonimi. Il 98% dei ricavi di Bending Spoons derivano da acquisti effettuati in app dagli utenti stessi e circa il 2% da pubblicità. Negli ultimi anni abbiamo investito davvero molto—milioni di euro—per eccellere dal punto di vista della protezione dei dati degli utenti, tra le altre cose facendoci supportare da alcuni dei migliori professionisti del settore. Nel 2019 abbiamo anche ingaggiato diverse aziende specializzate per fare penetration test (tra le quali Aon, azienda leader nel settore) su alcune delle nostre app principali, test che abbiamo passato a pieni voti. Come mai già lo scorso 18 marzo, una settimana prima dell’avvio della fast call lanciata da Innova per l’Italia che avrebbe scelto, soltanto il 10 aprile, l’app Immuni come la più adatta per il contact tracing, l’amministratore delegato del centro medico Santagostino Luca Foresti, sulle pagine del Corriere della Sera, affermava di essere già in contatto con il ministero guidato da Paola Pisano “che ci ha dato il suo supporto?”. A che cosa si stava riferendo? Poco tempo prima dell'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Luca Foresti, il Centro Medico Santagostino, Jakala, GeoUniq e Bending Spoons avevano fatto una videochiamata con il Ministro Pisano. Al centro della presentazione c’era un sistema di analytics territoriali fornito da Jakala, ma si era discusso anche dell’app. Il Ministro aveva espresso supporto per l’iniziativa, che le sembrava, a una primissima valutazione, meritevole. Le società avevano ritenuto naturale entrare in contatto con il Ministro Pisano, vista la natura del progetto, che era di pubblica utilità. Ma soprattutto, il supporto di un ente pubblico sarebbe stato necessario per rilasciare un’app per il COVID-19 sugli app store, come dichiarato da Apple e Google. In seguito, il Governo ha ritenuto opportuno percorrere la strada della fast call. Come noto, Bending Spoons ha deciso di partecipare con il progetto Immuni. Possiamo dire senza tema di smentita che se anche un altro progetto fosse stato scelto, meritandolo, ne saremmo stati felici. Non ci importava che fossimo noi, ma che un team valido facesse qualcosa di buono per il Paese.

“IMMUNI s.p. App”. Di Lucina Paternesi Collaborazione Laura Nesi-Giulia Sabella Immagini Alfredo Farina-Tommaso Javidi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, per la cosiddetta fase 2, ben 7 paesi europei si stanno operando per adottare il sistema di tracciabilità dei contagi da virus. Ecco, quello che stanno adottando è il sistema proposto da Apple e Google che avviene attraverso la tracciabilità bluetooth. Noi come ci stiamo comportando? Ecco, noi, dopo aver elaborato 300 progetti, la scelta era ricaduta su sue app, una dal nome “Immuni”, l’altra da “Covid app”. Alla fine si è scelto Immuni. Perché si è scelto Imnuni, di chi è, e come funzionerà? La nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Individuare e fermare chi ha i sintomi del virus prima che faccia troppi danni e laddove non si riesca prima, bloccare sul nascere nuovi focolai. In questa logica nasce il contact tracing. La tracciabilità avverrebbe monitorando attraverso smartphone i contatti sociali. Se poi un soggetto dovesse risultare positivo si allerterebbero tutte le persone con cui è entrato in contatto. Ma per scovare i positivi devi fare tanti tamponi.

STEFANO ZANERO - DIP. ELETTRONICA E BIOINGEGNERIA POLITECNICO DI MILANO Il contact tracing tradizionalmente si fa con schiere di persone che interrogano i malati. Servono dei giorni.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Sono talmente scarse le informazioni che anche i nostri ministri si avventurano in dichiarazioni non corrette.

LUIGI DI MAIO - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI - SKY TG24 22/09/20 È una app che non è obbligatoria, serve a permettere a un cittadino di avere una segnalazione nel caso in cui stia per entrare a contatto con un positivo. LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Non è proprio così. Infatti la app ti avvisa dopo che sei stato in contatto con uno che è risultato positivo. E serve ad evitare che anche tu diventi veicolo di contagio.

STEFANO ZANERO - DIP. ELETTRONICA E BIOINGEGNERIA POLITECNICO DI MILANO Quando mi chiamano per dirmi che il mio tampone è risultato positivo mi comunicano un codice da inserire nell'applicazione per sbloccare io il processo di notifica. Autorizza quel cellulare a caricare un identificativo, il suo, che solo il cellulare sa, in ogni caso, in maniera anonima.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO A questo punto il codice di chi è risultato positivo finisce nel server centrale, quello pubblico di Sogei. Mentre arriverà una notifica sullo smartphone di chi, nei 14 giorni precedenti, è stato a contatto stretto per più di 15 minuti. Ma se l’app funziona a livello nazionale come verrà recepita a livello di protocolli sanitari regionali? Visto che i governatori fino a oggi sul virus si sono divisi.

CARLO BLENGINO - AVVOCATO PENALISTA ESPERTO IN PROTEZIONE DEI DATI Perché quell’app lì può funzionare nel momento in cui ho appunto un sistema una macchina pazzesca per cui chiunque venga allertato viene testato nel giro di 24 ore. Si rischia di avere dai 140 mila ai 300 mila soggetti ogni giorno che devono andare in quarantena sulla base del niente, sulla base di un beep.

LUCINA PATERNESI Chi controlla poi che le persone a cui l’alert è arrivato facciano qualcosa, cioè questo è stato previsto?

STEFANO MELE - AVVOCATO SPECIALIZZATO IN DIRITTO DELLE TECNOLOGIE Al momento che io sappia non c’è nessuna disposizione in merito. Si immagina che le strade possano essere due: o io volontariamente decido di entrare in un distanziamento sociale oppure collegare a un obbligo per il soggetto di autodenunciarsi e quindi di mettere a disposizione questi dati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per questo riteniamo importante dirvi qualcosa prima. Giusto per non farci dire nessuno ce l’aveva detto. Come nasce l’app Immuni e chi c’è dietro? È importante saperlo perché poi ne deriverà chi gestisce i dati e come verranno gestiti. Saranno gestiti da un sistema decentrato, modello decentrato, e dunque sulla memoria dei telefonini o da un sistema centralizzato? Questo è importante saperlo perché su questo aspetto si è divisa la comunità dei ricercatori, si son tirati anche gli stracci in faccia. LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Un gruppo di scienziati e ricercatori europei si è diviso su quale fosse la strada giusta da prendere per tracciare la gente. Quella di un sistema decentralizzato e dunque della trasparenza o quella della centralizzazione e cioè consentire che una massa di dati importanti diventi il patrimonio occulto di pochi?

MARCEL SALATHÈ - PROFESSORE EPIDEMIOLOGIA DIGITALE POLITECNICO DI LOSANNA Eravamo tutti sotto stress perché i governi ci chiedevano di agire in fretta e fornire una soluzione. Ma abbiamo capito subito che l’unico modo per far sì che un’applicazione di questo tipo potesse funzionare e incontrasse la fiducia delle persone era di rendere il progetto open source, trasparente e limpido. Ma questo non era quello che volevano gli sponsor del modello centralizzato. Così abbiamo deciso di andarcene.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con il professor Salathé, del politecnico di Losanna, si ritirano dal consorzio anche il centro Helmholtz per la sicurezza delle informazioni, altri istituti di ricerca di Zurigo e di Leuven.

LUCINA PATERNESI Perché crede che questo approccio non sia trasparente?

MARCEL SALATHE’ - PROFESSORE EPIDEMIOLOGIA DIGITALE POLITECNICO DI LOSANNA Perché si trattava di un modello di tracciamento realizzato a porte chiuse solo da alcuni ricercatori.

LUCINA PATERNESI Quel consorzio, il Pepp-pt riceve finanziamenti da compagnie telefoniche o altre aziende che lavorano con i dati?

MARCEL SALATHE’ - PROFESSORE EPIDEMIOLOGIA DIGITALE POLITECNICO DI LOSANNA Ci sono grandi interessi, sicuramente. Noi lavoriamo tutti in modo completamente gratuito e tutti i conflitti d’interesse sono dichiarati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO È cosi che ben 300 scienziati da 26 paesi diversi decidono di portare avanti un modello di tracciabilità trasparente. Ma lo fanno fuori dal consorzio. Tra loro c’è anche il professor Persiano, esperto crittografo che lavora anche con colossi come Google e che insegna al campus di Fisciano dell’Università degli studi di Salerno.

GIUSEPPE PERSIANO - PROFESSORE INFORMATICA UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO Se pensiamo che allertare in anticipo le persone che sono a potenziale rischio di infezione sia d’interesse lo possiamo fare in questo modo senza dover sacrificare la privacy.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ma dopo la diaspora tra scienziati scoppia un giallo: dalla piattaforma del consorzio europeo per la tracciabilità, Pepp-pt, spariscono i documenti relativi al protocollo decentralizzato più trasparente, e su Twitter i ricercatori si scambiano accuse pesanti: nel consorzio c’è chi ha interesse a far passare il modello centralizzato. E lo stesso Pepp-pt sarebbe il cavallo di Troia di Hans Christian Boos, svizzero di nascita e tedesco d’adozione, con il pallino dell’intelligenza artificiale. La sua Arago è diventata un affare da milioni di euro. Boos è anche consigliere digitale della cancelliera Angela Merkel e sta cercando di infilare nei governi europei la sua tecnologia di tracciamento attraverso Bluetooth. Lo scopo sarebbe quello di creare una gigantesca banca dati dei contatti sociali di tutti i cittadini europei. La Germania, però, l’ha mandato in fallo laterale, ha optato assieme ad altri 7 paesi europei per un modello più trasparente, quello offerto da Google e Apple, i cui sistemi operativi Android e iOS sono presenti sul 99% degli smartphone utilizzati nel mondo. Alla fine anche l’Italia ha optato per lo stesso modello.

PAOLA PISANO - MINISTRA PER L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA E LA DIGITALIZZAZIONE - SENATO COMMISSIONE LAVORI PUBBLICI 29/04/2020 Il sistema di contact tracing dovrà tenere in considerazione l’evoluzione di sistemi internazionali oggi ancora non completamente definiti, in particolare i modelli annunciati da Apple e Google, su cui la soluzione italiana si baserà.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La soluzione italiana che dovrà basarsi sul modello proposto da Google e Apple è l’app Immuni. Dentro, ci sono altri interessi imprenditoriali. Giovanni Gianni Tamburi, il fondo con capitale asiatico Nuo Capital e Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi. I tre figli di seconde nozze di Berlusconi li ritroviamo anche dietro Jakala, un’altra azienda con cui il progetto di Immuni è stato presentato. Assieme a loro anche i Doris, Renzo Rosso, Giuliana Benetton, i Dompé della Farmaceutici, tutte famiglie di successo. Ma soprattutto Immuni nasce da un’idea di 4 30enni geni dell’informatica, i fondatori di Bending Spoons, Luca Ferrari, Matteo Danieli, Francesco Patarnello e Luca Querella. La società ha sede qui a Milano e negli ultimi anni le applicazioni sfornate sono diventate molto popolari.

UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS Non c’è nulla di sanitario. Che cosa ha fatto di pregevole? Beh un ottimo pedometro, ha fatto un’applicazione per il fitness, poi ha una miriade di società collegate che hanno sviluppato ad esempio delle applicazioni utilissime come quella per ottenere un maggior numero di follower.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO I fondatori di Bending Spoon negli anni avranno sicuramente gestito una montagna di dati, ma giurano di non averli mai venduti. La ministra Pisano afferma pubblicamente che l’app Immuni seguirà un modello decentrato, con i dati conservati sui telefoni e che saranno al sicuro. Dello stesso tenore le dichiarazioni del Commissario Arcuri.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 - CAMERA DEPUTATI COMM.FINANZE E ATTIVITÀ PRODUTTIVE 29/04/2020 Servirà, non servirà? Non è mio compito dirlo. Io ho la richiesta e il dovere di implementarla e per quanto mi riguarda di farla essere compatibile con le norme sulla sicurezza, sulla riservatezza e sulla privacy. State tranquilli che ciò sarà.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ma poi succede qualcosa di strano: dopo aver incassato l’incarico dal commissario Arcuri, quando il ministero dell’Innovazione pubblica i suoi documenti, a fianco dell’azienda italiana che ha presentato il progetto, Bending Spoons, appare anche Arago, la società di Christian Boos. L’imprenditore accusato di voler utilizzare un sistema di tracciabilità centralizzato e opaco.

STEFANO ZANERO - DIP. ELETTRONICA E BIOINGEGNERIA POLITECNICO DI MILANO Dove questi contatti tra cellulari non rimangono solo sul cellulare ma vengono anche caricati su un sistema centralizzato ovviamente è molto più invasivo perché a quel punto esiste un sistema da qualche parte che ha tutto il grafo delle relazioni sociali delle persone Si pensi a chi è andato a visitare un certo specialista medico oppure chi è andato da un certo avvocato.

LUCINA PATERNESI Si svelerebbero tutte le fonti dei giornalisti?

STEFANO ZANERO - DIP. ELETTRONICA E BIOINGEGNERIA POLITECNICO DI MILANO Assolutamente sì.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO É anche per questo che l’app Immuni è finita sotto la lente della Commissione parlamentare che vigila sui servizi di informazione: per capire chi ci sia effettivamente dietro alla società a cui è stato affidato il tracciamento dei contatti degli italiani.

LUCINA PATERNESI Come è stata gestita da un punto di vista di sicurezza l’intera vicenda?

STEFANO MELE - AVVOCATO SPECIALIZZATO IN DIRITTO DELLE TECNOLOGIE Ci saremmo aspettati, almeno come esperti all'esterno delle task force, una maggiore trasparenza sui vari processi proprio perché l'applicazione inevitabilmente e il servizio che scaturisce dall'applicazione andranno a tracciare fondamentalmente in maniera molto capillare i cittadini italiani e soprattutto le loro relazioni.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Bending Spoons ci scrive che il controverso mago informatico tedesco Christian Boos non fa parte del progetto Immuni e neanche Jakala. E la ministra Pisano rassicura sul fatto che la tecnologia ora la stanno scrivendo insieme Immuni e tecnici del governo. Ma se la stanno scrivendo ora insieme in base a quali criteri è stata scelta Immuni?

UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS È difficile dire chi abbia scelto visto e considerato che il ministro per l'Innovazione ha detto che sono stati i servizi che hanno messo quasi fosse stato Brenno a reincarnarsi, la spada sul piatto della bilancia e quindi ha portato a individuare i Immuni come quella soluzione che poteva combaciare con i desiderata.

LUCINA PATERNESI Quindi abbiamo scelto una soluzione su carta e non sono stati fatti ad oggi test di sicurezza.

UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS Non ci sono referenze che siano attendibili, ma soltanto dei buoni propositi. Pensiamo dove vanno a finire i dati e le informazioni che fine fanno?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La ministra Pisano in commissione, e poi ce lo ha anche scritto, garantisce che i dati degli italiani tracciati saranno gestiti da due piattaforme pubbliche, Sogei e PagoPa, l’occhio telematico dello Stato.

UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS Si è subito fatto un insieme di ipotesi è svettato il nome di Sogei e qualche contribuente ha tremato per la semplice ragione che se in passato erano arrivate le cartelle pazze beh adesso ricevere magari una comunicazione non attendibile che si è positivi o che si è stato in contatto di qualcuno che aveva contratto il coronavirus. È giusto che sia un soggetto pubblico, ma un soggetto che offra tutte le garanzie che i cittadini meritano. LUCINA PATERNESI Per far sì che il 60% degli italiani scaricherà questa app serve fiducia.

 UMBERTO RAPETTO - DIRETTORE INFOSEC.NEWS Funzionerà soltanto se tutti avranno quella app, è inutile pensare che si ammalano soltanto i soggetti che hanno la app o addirittura quelli che hanno lo smartphone e sullo smartphone hanno una connessione ad internet.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Sapere quale codice sorgente utilizzerà l’app immuni è un’informazione fondamentale per capire il destino della nostra Privacy. Per il momento non possiamo far altro che consultare il decreto Bonafede: c’è scritto che i dati raccolti dal server saranno anonimi o pseudonimizzati. Un gioco di parole su cui si deve prestare attenzione.

GIOVANNI ZICCARDI - PROFESSORE INFORMATICA GIURIDICA UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO L’anonimato è l’impossibilità assoluta di collegare l’identità di una persona a un determinato dato. La pseudonimizzazione invece vuol dire che si prendono i dati di una persona, si collocano in un determinato ambito, si separa magari la sua identità dai dati di quella persona e poi si genera uno pseudonimo, cioè un codice, che può richiamare poi successivamente l’identità di quella persona. Sono comunque dati che derivano da test medici, da diagnosi, da soggetti contagiati.

LUCINA PATERNESI Dal decreto non si capisce se il modello sarà centralizzato o decentrato.

ANTONELLO SORO - PRESIDENTE DELL’AUTORITA’ GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI No, il modello è decentrato nel senso che i dati rimangono nel dispositivo telefonico.

LUCINA PATERNESI Però fino a che non avremo la documentazione tecnica in realtà non lo potremo sapere come funzionerà.

ANTONELLO SORO - PRESIDENTE DELL’AUTORITA’ GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI Diciamo che la documentazione tecnica per la quale chiederanno anche il parere del Garante dovrà necessariamente stare dentro il perimetro fissato dalla norma.

LUCINA PATERNESI Lei non è spaventato che Google si siano messi a disposizione della collettività?

ANTONELLO SORO - PRESIDENTE DELL’AUTORITA’ GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI La reputazione per loro è più importante di quanto non sia una raccolta di dati così modesti come quelli che verranno raccolti dal sistema pubblico, in questa vicenda.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Chi è critico sul tracciamento dei contatti è chi la sa lunga. Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia e consulente della National Security Agency, la gola profonda che ha rivelato i programmi top secret di sorveglianza di massa messi a punto dal governo americano e inglese sfruttando anche le comunicazioni in rete.

EDWARD SNOWDEN - EX CONSULENTE NSA USA Credete veramente che quando la prima ondata, la seconda ondata, la sedicesima ondata di coronavirus saranno solo un ricordo sbiadito, queste nuove competenze e questi dati raccolti non saranno mantenuti? Inizieranno ad applicarle alla microcriminalità, all’analisi politica, per effettuare censimenti o per le elezioni politiche. Non importa come verranno usate, ma quello che stiamo costruendo è l’architettura dell’oppressione. E noi ci potremmo anche fidare di chi la sta gestendo, di chi la governa, noi potremmo anche dire “non ci importa niente di Mark Zuckerberg”. Ma qualcun altro avrà accesso a quei dati, magari un altro paese straniero. Se quei dati sono stati raccolti, qualcuno ne abuserà.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che appare grave è che la scelta del governo sull’app Immuni sia avvenuta senza guardare dentro la tecnologia, ma sulla carta. Non l’ha potuto fare neppure il garante, ecco insomma… adesso stanno collaborando, la scriveranno insieme la tecnologia per adattarla al sistema europeo. Quello proposto da Google e Apple. Però a noi sinceramente poco importa. Se i dati verranno conservati su modello decentrato, cioè sulla memoria dei telefonini o su uno centralizzato, perché chi ci dice che se li conservi su un modello decentrato sui telefonini, che sono per lo più, funzionanti nel 99% col sistema IOS o Android, che significa Apple e Google, chi ha progettato quei sistemi operativi non sia in grado comunque di consultarli? Non ce lo dice nessuno. Quello che sappiamo però è che queste app non potranno funzionare se non c’è una rete capillare sul territorio di presidio sanitario. Se non c’è chi fa il tampone e che valuta e ti dice subito se sei contagiato. Altrimenti tutto questo sarà un bel gioco, dove noi saremo i giocatori inconsapevoli, e inconsapevoli anche potremo essere il prodotto.

Immuni non tutelerà i più fragili: in Italia 11 milioni di anziani senza smartphone. Deborah Bergamini de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Si fa un gran parlare della app che, tracciando i nostri movimenti, dovrebbe salvarci da un’ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus, e naturalmente sono già schierati da una parte i tutori della salvaguardia in primis della salute pubblica e dall’altra i difensori dei residui confini di libertà personale di cui ancora disponiamo. Su “Immuni” – questo il nome della app – si è aperto un dibattito giusto, che non riguarda solo la nostra sicurezza in tempi di pandemia, ma più in generale il nostro rapporto con la tecnologia: quanto essa ci offre ma a quale prezzo. E il prezzo naturalmente è la nostra individualità, cioè che ci rende unici. Sempre di più, infatti, la tecnologia ci porta verso la dimensione del gregge indiscriminato, e infatti siamo arrivati anche a parlare di immunità di gregge tecnologica. E dare risposte che abbiano poi effetti anche politici su un crinale così complesso non è certo facile. Per questo bisogna provare a stare semplici, e attenersi rigorosamente al dato di realtà. E la realtà ci dice che qui in Italia, anno 2020, siamo ancora molto lontani dal gregge tecnologico. Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, sono ben 16.185.000 gli italiani sopra i 6 anni che non usano Internet. La maggioranza assoluta di questi ha più di 60 anni. Su 100 over 65, infatti, quasi il 70% non naviga in rete e non ha alcuna dimestichezza digitale. In pratica la app Immuni, che una volta caricata sul nostro telefono cellulare dovrebbe difenderci tutti dal contagio, rischia di non poter essere utilizzata proprio da coloro che in termini di rischio sono più esposti alle conseguenze del Coronavirus: gli anziani. Su 16 milioni di cittadini che non usano internet, quasi 6 milioni hanno più di 75 anni, 3.7 milioni ne hanno tra 65 e 74, 1.3 milioni ne hanno tra 60 e 64, la parte restante è suddivisa tra gli under 60.  Su questo dato ci sono due componenti che pesano più di altre: quella di genere e quella territoriale. Le donne che non usano la rete sono molte più degli uomini. Solo nella fascia degli over 65 si registrano 5.8 milioni di donne a fronte dei 3.6 milioni di uomini. E quasi 4 milioni di queste donne non ha alcun titolo di studio o al massimo la licenza di scuola elementare. Per quanto riguarda la componente territoriale emergono delle differenze tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia. Se al Nord e al Centro la percentuale di persone che non usano Internet sia aggira tra il 25.3% e il 26.2%, al Sud si va dal 29.1% dell’Abruzzo al 36.1% della Puglia. Con un dato che in Campania, Molise, Basilicata e Calabria oscilla tra il 35 e il 36%. Ecco perché trovo surreale tutto questo dibattito sulla app. Non so quale sarà la decisione finale del governo su questa faccenda, quali le modalità e anche le condizionalità con cui la app verrà messa in uso, dato che ci sono già stati tanti cambiamenti di approccio. Inimmaginabile anche l’efficacia che potrà avere. Però l’abc della democrazia e del suo esercizio impone un punto di partenza: la demografia. Se è vero che il virus colpisce maggiormente gli anziani e quindi sono loro ad aver bisogno di maggiori difese, se è vero che la popolazione italiana è fra le più anziane del mondo, se è vero che la penetrazione di internet e di minime competenze digitali fra i nostri anziani è bassissima, ma allora che contributo potrà offrire questa app al contenimento vero del contagio? Di certo fornirà al governo molti dati sensibili che riguardano ognuno di noi. Ma servirà davvero allo scopo che si prefigge? Forse uno dei fattori più promettenti della pandemia è che si accelererà la semplificazione nell’uso di internet da parte delle generazioni più indifese, ma ci vorrà del tempo, e fino a quel momento, prima di farsi abbagliare da soluzioni tecnologiche che in altri paesi sembrano funzionare, bisognerebbe dare meglio un’occhiata a come siamo messi da queste parti...

Figuraccia Di Maio, non ha ancora capito come funziona l’app Immuni. Redazione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. L’app Immuni riesce a prevedere il futuro? Ne è convinto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L’ex capo politico del Movimento 5 Stelle in una intervista a Sky Tg24 ha infatti spiegato, riferendosi all’app che il governo utilizzerà per tracciamento dei contatti delle persone contagiate dal coronavirus in Italia, che “serve a permettere ad un cittadino di avere una segnalazione nel caso in cui stia per entrare a contatto con un positivo”. Messa così, sembrerebbe che Immuni abbia la capacità della preveggenza. Ovviamente è falso. Immuni, basata su tecnologia Bluetooth, emetterà periodicamente un ID, un codice identificativo univoco e anonimo, che sarà ‘captato’ dagli altri smartphone che utilizzano la stessa app nelle vicinanze, massimo entro qualche metro. Se uno dei proprietari dell’app/smartphone segnala di essere risultato positivo, Immuni avviserà le persone con cui era stato vicino nei giorni precedenti. Di Maio quindi ha spiegato la sua posizione sul tracciamento personale. “In questo Paese ci facciamo geolocalizzare anche quando dobbiamo ordinare una pizza o un panino con una app, ci facciamo geolocalizzare da tutti i social del mondo e gli diamo tutte le autorizzazioni, ma ora facciamo una app, che è facoltativa e non prevede penali per chi non la usa, e scoppia la polemica sulla privacy e scoppia proprio su quei social a cui abbiamo dato l’autorizzazione a trattare tutti i nostri dati personali. Lo dico con ironia perché è un dibattito un po singolare”.

Coronavirus, Ats e app Immuni: “Due settimane da incubo per una notifica”. Le Iene News il 25 settembre 2020. Luigi racconta a Iene.it la sua odissea, che non è ancora finita, partita da una notifica di allarme dell’app di tracciamento dei contagi Immuni per un contatto su un autobus con una persona positiva. Tra medici di base, Ats, drive-through e poche certezze. L’app “Immuni”, che consente il tracciamento dei contatti e riduce il rischio della diffusione della pandemia di coronavirus, è stato ad oggi scaricato da oltre 6 milioni di italiani, circa l’11% della popolazione. Per poter garantire la massima efficacia però, ha bisogno di una rete complementare di servizi che funzionino, a partire dal ruolo delle Ats, e cioè le Aziende di tutela della salute. La storia che ci racconta Luigi però (il nome è di fantasia perché il giovane ha chiesto di restare anonimo), getta qualche ombra su questo connubio. “La mia piccola odissea è iniziata l’11 settembre scorso. Apro casualmente l’applicazione e ricevo una notifica: sono entrato in contatto con una persona positiva una settimana prima. Dai miei ricordi, deduco che il contatto è avvenuto su un autobus mentre andavo in ufficio. Chiamo il mio medico di base e lui mi mette in quarantena per sette giorni perché il contatto era avvenuto sette giorni prima. Il lunedì mi chiama l’Ats e mi dà la data di fine quarantena: 17 settembre”. Luigi allora chiede informazioni per un tampone: “Per Immuni la mia, su un mezzo pubblico, è considerata un’esposizione a basso rischio e quindi l’Ats mi propone il tampone solo in forma volontaria in una struttura pubblica e abilitata. Decido di non fare nulla ma di rimanere ovviamente in casa. Passano altri tre giorni, siamo al 17, il giorno di fine quarantena e ricevo una chiamata da un operatore che mi spiega che dal giorno dopo, il 18, sarei stato libero di uscire. Spiego che Ats mi ha parlato di giovedì 17: mi confermano che fa fede la data indicata, anche se dai loro registri risulta il 18. Non voglio avere problemi legali e così aspetto in casa fino al 18, per sicurezza”. Luigi nel weekend esce di casa per sbrigare alcune commissioni. “Il lunedì dopo, siamo al 21, chiamo il numero verde 1500: l’operatore di secondo livello, un medico, mi dice che la quarantena è finita ma che sarebbe meglio avere una conferma scritta di fine quarantena proprio da Ats. Il giorno dopo vado all’ospedale, al drive-through, per il tampone dall’automobile. Racconto del tipo di contatto che ho avuto e della mia quarantena: l’operatrice si meraviglia chiedendomi cosa facessi lì…”. Ricordiamo che l’app Immuni dà agli utenti la possibilità di sospendere temporaneamente il tracciamento, un aspetto utile anche per evitare che contatti a basso rischio come quelli avuti da Luigi sul bus (dove occorre rispettare il distanziamento e l' uso della mascherina) possano di fatto bloccare tante persone non realmente entrate in contatto con il virus. Sulle Faq della app di tracciamento, infatti, è spiegato che "Immuni permette di disattivare temporaneamente la funzionalità", ad esempio mentre si è al lavoro nel caso di un operatore sanitario a contatto con pazienti Covid-19. Così "disabilitando Immuni non verranno registrati i contatti con altri utenti". Luigi fa il tampone il giorno 22: “Mi spiegano che devo rimanere presso il mio domicilio in attesa del risultato, che arriverà entro 3 o 4 giorni, anche se sul foglio del ritiro c’è scritto 29 settembre. Trovo tra l’altro paradossale che io possa andare a ritirare personalmente il mio tampone senza ancora sapere se sono positivo o no, anche se il contatto c’era stato quasi 20 giorni prima. Io comunque quando arriverà il risultato lo vedrò accedendo al mio fascicolo sanitario online”.

Insomma questa disavventura, tra le apparenti informazioni contraddittorie fornite dagli operatori, ha lasciato Luigi amareggiato. Nonostante questa vicenda personale ribadiamo l’importanza di rispettare tutte le regole di buonsenso per la prevenzione del Covid e di scaricare  l’App immuni, che rappresenta sicuramente un utile strumento al servizio della salute pubblica.

Da repubblica.it il 15 aprile 2020. Dopo Google e Facebook, anche Apple rilascia uno strumento che attraverso le sue Mappe mette in chiaro i dati sulla mobilità degli utenti per aiutare nel contrasto alla diffusione del coronavirus. "Questi dati - spiega - possono fornire spunti a governi locali ed autorità sanitarie e possono anche essere utilizzati come base per nuove politiche pubbliche. Mostrano il cambiamento negli spostamenti delle persone che guidano, vanno a piedi o prendono mezzi pubblici nelle loro comunità". In Italia, ad esempio, scorrendo il grafico reso disponibile da Apple, al 12 aprile gli spostamenti sono crollati dell'87%, in Gran Bretagna del 76%, negli Stati Uniti del 63% e in Germania del 54%. In particolare, nel nostro paese, gli spostamenti con i mezzi pubblici hanno registrato un crollo del 91%, quelli a piedi dell'89% e con la macchina dell'87%. "Mappe - spiega Apple - non associa i dati di mobilità all'ID Apple degli utenti, né registra la cronologia dei loro spostamenti. Il nuovo sito analizza i dati aggregati raccolti durante l'utilizzo dell'app Mappe per fornire i trend di mobilità per le principali città del mondo e di 63 Paesi e territori. Tali informazioni vengono generate contando il numero di richieste di indicazioni stradali ricevute dall'app Mappe. I set di dati sono poi messi a confronto per riflettere la variazione del volume di persone che si spostano in auto, a piedi o con i mezzi pubblici nelle varie parti del mondo. La disponibilità dei dati per una particolare città o un dato Paese o territorio dipende da diversi fattori, fra cui un limite minimo di richieste giornaliere", conclude Apple.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 4 aprile 2020. Dopo le celle telefoniche è l' ora dei Big Data. Da ieri Google ha deciso di scendere ufficialmente in campo contro il Covid-19 e di mettere a disposizione delle autorità sanitarie di 131 Paesi nel mondo i dati, aggregati e anonimi, estratti dalla geolocalizzazione dei nostri smartphone. Così dal primo rapporto si scopre che considerando la seconda metà di febbraio e il mese di marzo (fino a domenica 29), quindi per un periodo che inizia prima dell' identificazione dei focolai nel Nord Italia e dell' imposizione delle misure restrittive, in Italia l' affluenza a farmacie e alimentari è diminuita dell' 85%. Del 94% quella in bar e ristoranti, del 90% l' attività in parchi e giardini e dell' 87% l' affluenza nelle stazioni dei trasporti pubblici. Non solo, dai big data di Google si evince anche come un italiano su tre frequenti ancora il proprio posto di lavoro e come, l' unico dato in crescita, riguardi la residenzialità (più 24%). Vale a dire la presenza, più o meno costante, dei cittadini nelle proprie case. Un' informazione che se da un lato sintetizza l' efficacia con cui i singoli paesi stanno eseguendo il lockdown dall' altro evidenzia l' approssimazione della rilevazione. Non è infatti noto se le informazioni comprendano, e probabilmente non lo fanno, gli spostamenti nei pressi dell' abitazione per cui mancherebbero del tutto i furbetti della passeggiata con il cane. Allo stesso modo, va sottolineato come la fotografia scattata da Google sia relativa alla situazione italiana fino al 29 marzo e cioè, prima dell' allentamento denunciato dalle autorità vissuto negli ultimi giorni. In pratica si dovrebbe fare di meglio, tant' è che il risultato italiano è battuto da Israele (+30%) nonostante sia avanti rispetto al +15% del Regno Unito o al +12% degli Stati Uniti. Proprio negli Usa peraltro questo genere di dati gps, stavolta forniti da Facebook, sono utilizzati da università e governo per verificare l' adozione delle misure di distanziamento sociale. La stessa Google ha precisato come il report sia stato fornito su richiesta delle autorità sanitarie che hanno ritenuto «questo tipo di dati aggregati e anonimizzati» utili per prendere decisioni nella lotta Covid-19. Per questo, nelle aree più difficili, il rapporto analizza anche le singole regioni. In Italia ad esempio i dati della Lombardia sono in linea con la media mentre quelli del Lazio si discostano per farmacie e alimentari: i laziali li frequentano più del resto della Penisola, tant' è che il calo registrato è meno incisivo del 9%. Non solo è anche evidente come prima dell' 8 marzo in Calabria e in Liguria, parchi e giardini pubblici fossero molto frequentati a differenza di quanto accadeva in altre regioni. Un' immagine significativa se si ripensa alle polemiche del periodo. I dati sembrano confermare quanto evidenziato da ricerche precedenti. Il tutto, a detta di Big G, senza violare la privacy degli utenti. Mountain View ha spiegato che la cronologia delle posizioni utilizzata per raccogliere le informazioni è disattivata come impostazione predefinita e che quindi deve essere autorizzata da ogni utente. Gli utilizzatori del servizio inoltre possono eliminare i dati raccolti, facendo di fatto perdere le proprie tracce.

Coronavirus, Puglia «traccia» cellulari «esodati» dal Nord: monitorati gli spostamenti. Lo ha confermato il prof. Lopalco: i dati sono anonimi ma serviranno a verificare se sono state rispettate le misure di quarantena. Sono 35mila le persone che si sono autosegnalate. Massimiliano Scagliarini l'1 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La Puglia sta esaminando anche i dati delle celle telefoniche cellulari per tracciare gli spostamenti, "specialmente quelli tra Nord e Sud", allo scopo di ricostruire le catene dei contagi. Lo ha spiegato il professor Pier Luigi Lopalco, responsabile epidemiologico della task-force della Regione: «Abbiamo chiesto i dati alla Normale di Pisa", quella da cui lui stesso proviene, perché la "geolocalizzazione delle catene di contagio" potrebbe consentire di comprendere meglio le modalità con cui si sta propagando il coronavirus. In particolare per confermare l'ipotesi in base a cui l'epidemia è arrivata in Puglia attraverso gli spostamenti dalla Lombardia (il caso uno, un operaio di Torricella, era andato a trovare la madre ricoverata poco lontano dalla "zona rossa")». «Naturalmente si tratta di dati anonimi», ha spiegato Lopalco in riferimento al fatto che i gestori telefonici non forniscono ai centri di ricerca i nomi degli intestatari delle utenze telefoniche cellulari ma soltanto i dati aggregati relativi a tempo, luogo e posizione. Dall'analisi di questi dati è possibile - lo ha già fatto la Regione Lombardia per verificare se la gente resta effettivamente in casa - avere una idea di come si muovono i cittadini, e quindi sarà possibile capire con più esattezza da dove prevenivano le persone che sono rientrate in Puglia: le autosegnalazioni pervenute alla Regione sono state oltre 35mila. L'esame dei dati di geolocalizzazione è stata affidata a un gruppo statistico coordinato dall'agenzia Aress.

Martina Pennisi per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. «Stiamo parlando di un brevissimo lasso di tempo». Sono le parole pronunciate ieri da Hans-Christian Boos, imprenditore e consulente per il digitale del governo tedesco, mentre annunciava la corsa di 130 scienziati al rilascio entro il 7 aprile di una piattaforma che faccia da base comune alle applicazioni di tracciamento dei positivi al coronavirus nel rispetto delle regole europee. Boos non è l' unico ad avere il fiatone. In Italia, a 25 giorni dal primo lockdown e più di 110 mila contagiati dopo, sono stati nominati solo martedì i 74 esperti che devono valutare l' uso dei dati per contenere l' epidemia di Covid-19. Il (maxi) gruppo, il cui zoccolo duro sta già lavorando da qualche settimana, deve innanzitutto domandarsi quali e quante informazioni sia utile usare e, a fronte di 319 proposte arrivate al ministero dell' Innovazione, indicare l' applicazione migliore. La prima risposta, al netto delle esperienze asiatiche, è arrivata da uno studio dell' Università di Oxford, che reputa indispensabile digitalizzare la ricerca di chi ha incrociato un positivo per rallentare il virus, che finora si è dimostrato più veloce dei metodi tradizionali. La seconda dovrebbe essere pronta entro il fine settimana: la task force sta guardando ad architetture che minimizzino la raccolta dei dati, usino la crittografia e traccino i contatti e non i movimenti delle persone. La tecnologia più adatta e meno invadente, come ha riconosciuto anche il movimento Privacy international, sarebbe il Bluetooth, che permette agli smartphone di accorgersi quando sono vicini celando l' identità dei loro possessori. Attenzione anche alla cybersicurezza, vien da dire guardando alle carenze nella lista dei 74: il blocco di ieri del sito dell' Inps e tentativi già capitati di mettere in Rete versioni malevole delle app che hanno partecipato al bando ricordano che è prioritaria e non deve diventare un parafulmine se qualcosa va storto. A quanto risulta, circa il 10 per cento delle 319 applicazioni si basa sul Bluetooth, due esempi sono quella gruppo Vetrya o quella di Pikdare. Verranno prese in considerazione anche le soluzioni in lavorazione nel resto d' Europa, ad esempio quella britannica (Bluetooth, ancora), anche perché la selezione di uno dei progetti che ha partecipato al bando del ministero di Paola Pisano sarà solo una delle variabili che il governo prenderà in considerazione per adottare una strategia. «È fondamentale che si arrivi a un modello condiviso a livello europeo vicino ai nostri valori e alle nostre norme di riferimento e non deve più esserci la falsa dicotomia fra privacy e salute pubblica: qualsiasi soluzione verrà adottata rispetterà le regole europee», dichiara Francesca Bria, presidente del Fondo innovazione della Cassa depositi e prestiti che figura fra i 74 esperti. Il paradosso è che mentre si guarda a Bruxelles e ci si prepara a chiedere ai cittadini di scaricare un' applicazione attiva a livello nazionale (volontariamente? Questo sarà importante, come sarà importante la condivisione volontaria o meno dei propri dati e la possibilità di gestirli ed eventualmente cancellarli) sono già state lanciate iniziative autonome delle Regioni, come quella della Lombardia, che dalle 18.30 di martedì alle 19 di ieri ha fatto compilare il suo questionario via app a 300 mila persone.

Da impresacity.it l'1 aprile 2020. Seguire l'evoluzione della pandemia da coronavirus tracciando i cittadini europei? È possibile farlo senza intaccare la privacy, secondo l'Unione Europea. E ora c'è una organizzazione che promette di conseguire questo obiettivo. Si chiama PEPP-PT, sigla che sta per Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing. Espressione che indica bene di che si tratta. Tracciare quanto le persone vengono in contatto fra loro. In tutta Europa e tutelando la privacy. PEPP-PT nasce come organizzazione no-profit localizzata in Svizzera. Si definisce come "un grande e inclusivo team europeo". E comprende al momento oltre 130 membri di otto nazioni europee. L'elenco comprende, sempre secondo i creatori del progetto, "scienziati, tecnici ed esperti di ben note aziende e istituti di ricerca". Siamo ai primi passi, quindi non esiste una organizzazione formale del progetto. Tra i nomi noti di PEPP-PT c'è in primo piano Vodafone. Ma anche alcune Università e istituti di ricerca di varie nazioni, come il Fraunhofer Institut. C'è anche una realtà italiana. la ISI Foundation di Torino, che fa ricerca nel campo della data science. La sensazione è quella di una organizzazione in costruzione. Con l'invito a partecipare esteso a chiunque sia interessato. E ovviamente possa portare un suo contributo tecnologico. È invece molto chiaro quello che PEPP-PT vuole fare. Che ricorda da vicino gli approcci seguiti in Sud Corea e soprattutto a Singapore. Tanto che viene da chiedersi se il Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing non sia un derivato del progetto BlueTrace. L'approccio di fondo è certamente il medesimo. E ha le sue ragioni. PEPP-PT parte dal presupposto che le misure di quarantena e lockdown non possono essere prolungate più di tanto. Diventa quindi necessario fare in modo che i nuovi eventuali positivi al coronavirus siano identificati rapidamente. A quel punto deve essere possibile rilevare le possibili catene di contagio. Ossia, in pratica, le persone che sono venute a contatto con un nuovo positivo. A questo serve il "proximity tracing", o tracciamento della prossimità. A ogni smartphone viene associato - attraverso un'app - un identificatore (ID) anonimo non riconducibile a un utente. Per ovvie questioni di privacy. Lo smartphone trasmette continuamente il suo ID, che viene raccolto dagli altri smarphone in prossimità che hanno la medesima app. Se due smartphone - e quindi due persone - restano abbastanza vicini per abbastanza tempo da provocare potenzialmente un contagio, conservano l'uno l'ID dell'altro. Ciascuno in un database locale, memorizzato sullo smartphone. PEPP-PT sottolinea che vengono conservate solo queste informazioni. Non altre, come il luogo o il momento in cui le due persone sono venute a contatto. Le informazioni non possono essere consultate da nessuno e sono cifrate. E sono cancellate quando non sono più rilevanti epidemiologicamente. Ossia, pare di capire, quando l'incontro è avvenuto da un numero di giorni ben superiore al periodo di incubazione del coronavirus. Nel momento in cui una persona viene rilevata come positiva al coronavirus, le autorità sanitarie la contattano e le inviano un codice (in pratica una password usa-e-getta) da inserire nell'app. Questa allora - in sintesi e semplificando - invia una notifica a tutte le persone, o meglio gli smartphone, che sono stati in contatto con il nuovo positivo. Tutto avviene in maniera anonima, attraverso gli ID. Quindi il positivo non sa chi potrebbe aver contagiato. E i potenziali contagiati non sanno chi potrebbe averli infettati. Il sistema funziona anche a livello internazionale. Quello che non è chiaro è come il lavoro di PEPP-PT possa essere messo in pratica. E da chi, sotto la supervisione di chi altro. Un ipotetico partner del Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing riceve il codice sorgente che permette di abilitare il sistema. In un servizio nuovo o in uno già esistente. Ma l'approccio al momento non è validato o certificato da altri che non siano i membri del progetto stesso. Un po' di perplessità quindi è inevitabile. Specie quando si indica che sono proprio i partner del progetto a "incoraggiare la propria nazione a supportare lo sviluppo e l'implementazione di PEPP-PT".

Bruno Ruffilli per “la Stampa” il 31 marzo 2020. Per combattere il coronavirus abbiamo tutti un' arma potente: lo smartphone. Molti Paesi hanno lo hanno usato per monitorare i movimenti delle persone e prevenire nuovi contagi, altri per informare la popolazione, altri ancora per controllare chi non rispetta l' obbligo di rimanere in casa. E non solo. Se qualcuno si ammala, si analizzano i suoi movimenti e si cerca di capire con chi è entrata in contatto, in modo da isolare queste persone e impedire che a loro volta diffondano il virus. Il contact tracing è adoperato anche in Italia, ma a farlo sono medici e addetti degli ospedali: è una procedura lunga e difficile, senza l' aiuto delle tecnologie. Forse il suo uso più aggressivo si è visto in Corea del Sud, dove il governo ha creato una mappa che ognuno può consultare per verificare se è venuto in contatto con persone infettate dal coronavirus.

La Cina ha utilizzato anche il riconoscimento facciale e le telecamere a circuito chiuso, oltre ai dati provenienti da stazioni di treni e metropolitane, carte di credito e tutto quanto possibile tracciare. Lo scopo - raggiunto - era far rispettare le disposizioni che imponevano non uscire di casa.

A Hong Kong, poi, le autorità hanno controllato alcuni cittadini in quarantena con braccialetti elettronici e un' app. Oggi nel primo focolaio della pandemia un' altra app serve da passaporto virtuale: mostra un codice QR che certifica lo stato di salute e consente di allontanarsi più o meno da Wuhan.

In India c'è l' app Corona Kavach; prevede un questionario con quattro risultati: Tutto bene, Consultare il medico, Quarantena e contagiato. Ogni volta che si esce di casa, automaticamente avvisa se ci si trova in prossimità di un' altra persona a rischio: conviene attivarla perché in primo luogo protegge chi la usa.

L' app di Singapore si chiama TraceTogether, ha un' interfaccia semplice e giocosa, e sfrutta i segnali del Bluetooth per identificare la prossimità con persone a rischio. La principale novità viene dall' app creata dal Ministero della salute israeliano che chiede ai cittadini l' accesso volontari ai dati di geolocalizzazione, li incrocia con quelli dell' indagine epidemiologica e informa in tempo reale gli utenti che sono a rischio o che costituiscono un rischio per gli altri. Il secondo pilastro del sistema israeliano è il controllo dei cellulari di tutti i cittadini da parte dell' agenzia Shin Bet che usa dati per verificare che i cittadini rispettino la quarantena. Fra qualche giorno il governo irlandese metterà a disposizione un' app per il tracciamento volontario: si aspetta che il picco dei contagi sarà fra due settimane, quindi è importante sfruttare questo margine di tempo. Intanto, alcuni scienziati del King' s College di Londra hanno realizzato COVIDradar. La usa un milione di volontari in tutto il Regno Unito per monitorare costantemente il proprio stato di salute: così è possibile capire dove i sintomi diventano più frequenti. I dati vanno al Ministero della Sanità, che decide risorse da allocare e provvedimenti da prendere, zona per zona. Queste informazioni arrivano prima che i volontari abbiano bisogno di cure speciali, così è possibile controllare i nuovi focolai fin dall' inizio.

In Australia, l' app del governo serve solo per essere aggiornati sulla situazione, anche via Whatsapp; non traccia chi la usa, ma lo farà con un aggiornamento. Anche l' app ufficiale dell' Organizzazione Mondiale per la Sanità oggi fornisce consigli, in futuro potrebbe essere usata per il contact tracking e aiutare gli studiosi di capire meglio come il virus si muove all' interno delle comunità. Utilizza i dati di Google Maps, un po' come Waze per il traffico.

Negli Usa, Trump aveva annunciato una collaborazione con l' azienda di Mountain View (non confermata) e con Facebook (smentita da Mark Zuckerberg). Secondo il Wall Street Journal, tuttavia, funzionari governativi stanno già utilizzando i dati di milioni di smartphone per monitorare fino a 500 città e pianificare una risposta alla pandemia.

In Italia a breve dovrebbe arrivare il via definitivo al progetto dell' app di tracciamento italiana. Non sarà facile scegliere tra le 319 proposte di monitoraggio arrivate al Ministero dell' Innovazione, ma il team di 60 esperti che dovrà valutarle c' è già. Il ministro Paola Pisano punta su una soluzione su base volontaria, da testare in un' area territoriale ristretta, magari la Lombardia. La Gdpr prevede già eccezioni alla normale tutela dei dati in ambito sanitario, proprio nei casi di epidemie, tuttavia per il varo dell' app potrebbe servire un decreto legge che garantisca il carattere temporaneo della raccolta e dell' uso di informazioni riservate.

Martina Pennisi per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2020. Ricerca italiana dell' applicazione anti-coronavirus: giorno due. Ieri il ministero dell' Innovazione ha ricevuto più di cento idee, che si vanno ad aggiungere alla cinquantina di martedì, per un totale di 170 candidature di aziende e startup che vogliono contribuire al contenimento dell' epidemia di Sars-Cov-2 con le loro app di teleassistenza a domicilio e di tracciamento. Hanno invece superato il migliaio le risposte alla richiesta di dispositivi per la protezione dei pazienti (le mascherine), respiratori artificiali e strumenti per la diagnosi veloce. Dal 31 marzo al 20 aprile, il ministero di Paola Pisano e l' Agenzia Spaziale Italiana mettono inoltre sul tavolo due milioni e mezzo di euro per idee basate su asset spaziali (come le comunicazioni satellitari). Da oggi si comincia a tirare le fila: alle 13 parte la scrematura delle app, a cui lavorerà un gruppo di economisti, tecnici ed esperti di privacy. Sullo sfondo la domanda ormai familiare anche a chi non è avvezzo alla tecnologia, ma dal semi-isolamento non può fare a meno di chiedersi quando migliorerà la situazione e in che modo può contribuire al ritorno a una vita più normale possibile: i dati dei nostri smartphone, la posizione in primis, per mappare gli eventuali incontri fra positivi e sani e avvisare i secondi del pericolo; possono essere utili? Come verranno tutelati? Una ricerca Bva Doxa (su un campione di 5 mila individui) mostra innanzitutto come il 93 per cento degli italiani sia pronto a «sacrificare alcuni diritti fondamentali se ciò aiuta a prevenire la diffusione del virus». Non è necessario che accada se, come spiega l' avvocato Ernesto Belisario, «si utilizzano solo i dati strettamente necessari per il contrasto alla situazione emergenziale, limitandosi - per quanto possibile - a trattare dati aggregati. Inoltre, i dati devono essere trattati soltanto dai soggetti istituzionalmente deputati ad affrontare l' emergenza e soltanto per un periodo limitato». Il Massachusetts Institute of Technology di Boston ha lavorato in questa direzione per sviluppare la sua app Private Kit: Safe Paths, che prevede la condivisione di dati crittografati tra gli smartphone, cosicché si possa venire avvisati di aver incrociato un positivo senza sapere e poter ricostruire chi è. Sono i positivi poi a decidere se condividere o meno la diagnosi sull' app. Anche Singapore punta sulla comunicazione fra gli smartphone, attraverso il Bluetooth, e sul fatto che i dati non lascino il dispositivo. In Spagna, per ora nella sola area di Madrid, un' applicazione supportata da Telefonica e Google aiuta le persone nella fase di autodiagnosi, in modo da non sovraccaricare le linee telefoniche di emergenza. Esperimenti avviati e funzionanti ce ne sono anche da noi: per esempio, quello raccontato sul «Corriere» da Simona Ravizza, del portale informatico dell' epidemiologo dell' Ats Milano, Antonio Russo. Funziona così: l' algoritmo calcola il rischio che i singoli pazienti con patologie e ricoveri pregressi hanno di ammalarsi di Covid-19. I medici di famiglia e i sindaci possono agire di conseguenza dopo aver consultato il portale. A proposito del tracciamento dei contagi, Russo spiega che «queste tecnologie saranno utili nel momento in cui la popolazione ricomincia ad avere una vita attiva: rintracciare velocemente un malato e i suoi contatti per inibire un focolaio è estremamente interessante. Dobbiamo capire come prepararci a una fase in cui probabilmente andremo avanti a fisarmonica: reimmissione nella vita attiva e poi di nuovo contenimento».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 27 marzo 2020. La strana gara per portare gli italiani dentro a una sorta di Grande fratello si è chiusa ieri alle 13. Il ministero dell' Innovazione aveva indetto «una call per le tecnologie per il contrasto alla diffusione del Covid-19» e sono arrivate 319 proposte di app per telefonini destinate al monitoraggio delle persone e al tracciamento dei loro spostamenti. Hanno partecipato aziende, ma anche università come il Politecnico di Milano e l' ateneo di Salerno. In questi giorni si è aperto il dibattito su quali norme applicare per impedire di finire tutti in una specie di occhiuta caserma. Dal ministero spiegano che al momento siamo solo a livello di «scouting» per trovare la soluzione più idonea, mentre sarà compito del governo intervenire ove fosse necessario con lo strumento normativo. Che, però, potrebbe non servire, «se si scegliesse la via della libera adozione dell' applicazione da parte dei cittadini». Evidentemente la speranza è che gli italiani accettino l' invito delle autorità a scaricare l' app. «Sarebbe come aprire un account Facebook, in cui si firma un' informativa sulla privacy e si cedono i propri dati liberamente», minimizzano dal ministero. In realtà sarebbe come indossare una specie di braccialetto elettronico che permette di controllare i nostri movimenti, come se fossimo ai domiciliari. Luca Tomassini, presidente e ad del gruppo Vetrya di Orvieto, considerato uno dei padri della telefonia mobile italiana, ha proposto al ministero uno dei progetti più accreditati per il controllo di massa degli italiani. È stato realizzato con il Cnit (Consorzio nazionale interuniversitario per le telecomunicazioni che raggruppa numerose facoltà e una decina di unità di ricerca presso il Cnr): «Ogni smartphone ha un' applicazione silente che funziona in background e non impatta sull' operatività dei telefonini. Si "guarda" sempre intorno per controllare se abbia vicino altre persone con l' app». Un cervellone centrale monitorerebbe gli spostamenti di questi «identificativi» (collegati a nomi e cognomi) e i loro incroci. Un po' come le app di incontri: «Sì, ma con ben altra tecnologia» precisa Tomassini. Che prosegue: «I dati raccolti vanno a finire nella piattaforma di tracciabilità, che è la cosa più importante di questo progetto, che traccia, per l' appunto, tutti gli incontri degli id digitali. Qualora uno sia stato segnalato come positivo al Covid-19 sarà possibile ricostruire in tempo reale tutte le persone che ha incrociato e dove». La notizia ci dà un senso di soffocamento. «L' app sfrutta il Gps e non le celle telefoniche: non funziona con i dati degli operatori telefonici perché noi puntiamo a tracciare in tempo reale i contatti a 1-1,5 metri e la loro durata». Il nostro senso di angoscia aumenta. «L' ipotesi è di affidare tutta questa macchina di controllo e di tracciamento alla Sogei, che è la società informatica controllata al 100 per cento dal ministero dell' economia». Guidata dall' ad Andrea Quacivi, nominato ai tempi del governo Gentiloni. La sensazione di oppressione raggiunge l' apice. Ci assale il timore che questi dati in mano a Sogei possano essere utilizzati per tracciare gli spostamenti dei contribuenti.

«Francamente non lo credo. Il governo ha già i dati di 60 milioni di clienti (sic, ndr) e questo monitoraggio durerebbe il tempo dell' emergenza». Tomassini si aspetta che il cittadino liberamente scaricherà l' applicazione spia «come gesto di aiuto per chi sta governando questa pandemia», ma sottolinea che «nessuno è obbligato a farlo» e che «se c' è libera scelta non c' è bisogno di nuove norme» per regolarne l' utilizzo. Obiettiamo che il cittadino in questo modo dovrebbe «scegliere» di mettere la propria privacy nelle mani del governo: «Esattamente, è lui che decide se farlo o no». L' ingegnere, nominato nel 2015 cavaliere del lavoro, si dice sia in stretti rapporti con Matteo Renzi, anche perché le sue imprese vennero cantate dal giornale del Pd, Democratica, quando il fu Rottamatore era premier. «Io grande amico di Renzi? Questo l' ha detto lei. Se lo nego? Io sono amico di tutti». Alla fine Tomassini ci fa sapere che l' app verrebbe donata gratuitamente al governo italiano e che l' obiettivo è quello «di non fare uscire i dati e di non metterli nella maniera più assoluta su sistemi di cloud computing per il mantenimento della sovranità digitale». Quindi questo giochino delle app anti coronavirus non è l' ennesimo assalto alla diligenza che tante società stanno tentando? «Noi lo facciamo per il governo italiano, poi è vero che molti in queste situazioni cercano di approfittarne, ma non noi». Il bando per le tecnologie per il contrasto alla diffusione del Covid-19, come detto, si è chiuso ieri ed era un' iniziativa congiunta dei ministeri dell' Innovazione e della Salute, dell' Istituto superiore di sanità e in collaborazione con l' Organizzazione mondiale della sanità. Alla fine sono arrivate 504 proposte di app di telemedicina e assistenza domiciliare e 319 possibili soluzioni per il «monitoraggio attivo del rischio di contagio». In questa trasformazione dell' Italia in una sorta di Grande fratello occorre ricordare che la Sogei è stata tra le prime, se non la prima, a comprare la tecnologia della Palantir, la società che analizza i dati per la Cia, un' idrovora digitale capace di succhiare tutti i dati possibili che ci riguardino dai social (uno dei fondatori di Palantir, Peter Thiel, ha scritto: «Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili»). Quindi Sogei è già in grado di incastrare l' incauto evasore fiscale che posta la foto di sé in barca alle Barbados su Instagram, domani avrà anche la possibilità di incrociare i nostri movimenti? Sapere quante volte andiamo nella seconda casa? Vedremo. Di certo, la nuova tecnologia, una volta avviata, non è ancora chiaro quando verrà rimessa in soffitta. L'Italia è il Paese che sfrutta le emergenze per attuare leggi speciali che spesso diventano normali. Per esempio durante il periodo del terrorismo venne introdotto il fermo di polizia di 24 ore per l' identificazione, tuttora in vigore. Il garante della privacy, Antonello Soro, ha concesso che in tempi tanto grami ci possano essere deroghe alla nostra privacy in nome dell' interesse collettivo, ma ha aggiunto che «le deroghe non devono diventare un punto di non ritorno» e che «la scadenza dovrà essere definita in partenza e dovrà coincidere con la fine dello Stato di emergenza proclamato dal governo a febbraio». Soro ha anche aggiunto che il «contact tracing», che incide su un numero elevatissimo di persone, avrebbe bisogno di essere regolato da un decreto legge. Anche se, come abbiamo visto, al governo sperano che non ce ne sia bisogno. Anche l' ex presidente del Senato Marcello Pera, in un' intervista a Sky, ha lanciato l' allarme: «Le decisioni di oggi sono veleno per la democrazia e devono avere tempi e modalità garantite», visto che queste misure potranno lasciare tracce e proseguire nel tempo, con il rischio che a esse potremmo abituarci. «Il vero problema è che si sta realizzando in tutta fretta un sistema di biosorveglianza che, però, è indispensabile all' insorgere delle epidemie, quando occorre tracciare i primi contagi e mettere selettivamente i malati in quarantena», conclude Giuliano Tavaroli, ex capo della security Telecom ed esperto di innovazione e sicurezza. «Ma se siamo tutti a casa che cosa vuoi monitorare? Chi esce con il cane tre volte al giorno anziché due? Piuttosto servirebbe un grande screening epidemiologico, cosa che sta tentando di fare la Regione Lombardia».

Paolo Russo per "la Stampa" il 26 marzo 2020. La nuova arma tecnologica anti-Covid si chiama "test track contain". Tracciando i nostri movimenti con il Gps attivato da una App, telefonate al cell, pagamenti con carta di credito, si riuscirà a scoprire chi tra i contagiati e chi è in isolamento domestico rompe la quarantena. Ma soprattutto, ed è questa la novità più importante, consentirà di individuare tutti i contatti della persona positiva nei 14 giorni precedenti, permettendo di fare tamponi a tappeto ma mirati, isolando gli eventuali nuovi infetti. Magari asintomatici, che secondo gli epidemiologi sono poi quelli da cui dipende il 70% dei contagi. Oggi si chiuderà la call con la quale i ministeri della salute e dell' innovazione hanno chiamato a raccolta imprese e amministrazioni pubbliche per presentare le loro idee che rendano tecnologicamente realizzabile tutto questo. Poi il Comitato tecnico scientifico elaborerà il piano definitivo che aziende ed enti prescelti saranno chiamati a supportare. «Pensiamo di essere operativi entro 15, massimo 20 giorni», assicura Walter Ricciardi, consulente di Speranza e principale sponsor del "modello Corea". Ed è lui stesso a spiegarci il progetto, «che prevede tre fasi. La prima è quella di unificare la massa di dati su ciascun cittadino, oggi divisi a silos e che riguardano informazioni anagrafiche, condizioni di salute, attività lavorativa". La seconda fase è quella cosiddetta di "testing". «Si utilizzano una serie di informazioni: i movimenti segnalati dalle celle telefoniche quando ci spostiamo oltre un certo raggio, i geo localizzatori che quotidianamente attiviamo sui nostri smartphone con app come quelle di navigazione stradale o del meteo e infine le transazioni con le carte di credito. Incrociando i dati potremo risalire ai contatti del contagiato nei precedenti 14 giorni, il tempo massimo di incubazione del virus». A quel punto si fanno tamponi mirati «a chi ha sintomatologia febbrile e comunque per tutti si applica la quarantena». La terza fase è quella della App al servizio di tutti, che raccogliendo la gran mole di informazione sugli spostamenti di positivi e persone potenzialmente contagiose «consentirà come in Corea di segnalare a chiunque le zone a maggior rischio, da evitare o percorrere con cautela», spiega Ricciardi. Che ci tiene a sottolineare come il sistema consentirà di assistere da remoto chi è in quarantena, «misurando parametri vitali, come battiti e pressione o la saturazione di ossigeno nel sangue». Quanto siamo preparati a un salto tecnologico di questo tipo ce lo spiega Stefano Grilli, amministratore delegato di Mediatica, azienda leader in Italia nell' uso di tecnologie per la gestione dati. Diciamo subito che le celle telefoniche riescono a fornire la posizione di una persona nell' arco di circa 100 metri nei centri urbani, in un raggio di anche qualche chilometro nelle aree rurali. Quindi questi dati serviranno solo a un alert nel caso qualcuno rompa le prescrizioni circa quarantena o divieto di spostamento da un comune all' altro. La App anti-Covid che attiverà la nostra geolocalizzazione tramite Gps restringe invece di molto l' obiettivo. «Fino a 10 metri di raggio, anche uno o due metri se si utilizzano smartphone di ultima generazione. Ma il posizionamento è possibile solo out-door, ossia fino a quando non entro in quello stabile, in ufficio o al supermercato», mette in chiaro Grilli. «Esistono anche tecnologie per la localizzazione indoor, all' interno degli edifici ma - spiega il manager- in Italia sono ancora molto sperimentali».

Da tgcom24.mediaset.it il 27 marzo 2020. L'ospedale Spallanzani di Roma come la Corea del Sud. Cominciano ad arrivare i costosi macchinari che serviranno a digitalizzare l'iter diagnostico sul Covid-19. L'arma dell'automazione più avanzata e soprattutto dell'informatica per combattere il coronavirus oggi è prepararsi a possibili future epidemie. Proprio sulla scia del modello sud coreano che grazie alla tecnologia - big data, app e a una mappatura in tempo reale dei casi positvi - è riuscita a contenere i contagi. In questi giorni i laboratori clinici dell'Istituto Spallanzani di Roma, l'eccellenza italiana nel contrasto alle malattie infettive, sono al centro di una rivoluzione tecnologica, con l'installazione di software, banche dati, ma anche macchinari per sostituire le mani dei ricercatori nelle operazioni più faticose e ripetitive e riconsegnarle alla ricerca. Tutto questo avviene adesso, in piena crisi anche grazie alle donazioni private al servizio della sanità pubblica. In questo caso dalla Fondazione Angelini. Il dato sui nuovi contagi, condizionato dalla saturazione delle capacità operative dei laboratori di analisi, è ormai definito inattendibile da gran parte della comunità scientifica. La rivoluzione del modello sudcoreano è iniziata proprio da qui, dai laboratori di analisi. Trasformare questi laboratori in centri automatizzati consentirà di accelerare tempi e procedure e allestire una banca di "big data" per fotografare, finalmente, la diffusione reale del virus.

Fast call, la più grande e inutile operazione di spionaggio di massa. Alberto Cisterna de Il Riformista il 26 Marzo 2020. La chiamano “Fast Call”, durerà ancora poche ore. Una chiamata alle armi per pubbliche amministrazioni, aziende e organizzazioni che abbiano «già realizzato soluzioni tecnologiche» perché aiutino il Governo nel «tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio». Così recita il bando pubblicato sul sito ufficiale del Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. La più massiccia operazione per il monitoraggio di massa che sia stata mai progettata nel nostro Paese e con pochi precedenti in tutte le democrazie liberali (Corea del sud e Israele sono paesi in stato di guerra da decenni e che non dovrebbero essere neppure citati a modelli di riferimento in questa discussione). Per intenderci una cosa di cui neppure si sussurra in Germania, in Francia e finanche negli Stati uniti o in Gran Bretagna che, pure, con Echelon e con Cambridge Analytica non si sono fatti mancare nulla. In un paese in cui la maggioranza dei contagi è stata propagata dalle falle di un sistema sanitario desertificato da decenni di tagli, in cui il 10% dei contagiati sono eroici medici e infermieri. In una nazione che ha proclamato in pompa magna quasi due mesi or sono lo stato d’emergenza “dimenticandosi” di accertare che la produzione nazionale di mascherine e di apparati di respirazione era praticamente a zero. Bene in una condizione del genere a qualcuno viene in mettere di giocare all’apprendista stregone con la libertà dei cittadini e con le garanzie costituzionali per proporre di costruire un sistema di sorveglianza elettronica di massa e per implementare «il tracciamento continuo» e «l’alerting» di tutti gli italiani. Un modo, come dire, quantomeno bizzarro di eludere il tema delle gravi responsabilità politiche (e, vedrete, non solo) che sono alla radice di questa ingiusta mattanza. Anche solo alimentare l’idea che gli italiani siano un popolo di irresponsabili untori, pronti a contagiare parenti e amici è inaccettabile, poiché intende sfuggire alla domanda delle domande: ossia di chi sia la responsabilità della grave impreparazione del Paese alla pandemia. In Corea del sud, per essere chiari, non è stato il tracciamento continuo e l’alerting a contenere il numero dei contagiati, ma un sistema governativo efficiente, competente e rapido che ha fronteggiato (come in Cina) l’intero fabbisogno di dispositivi di protezione e di posti letti equipaggiati e ai cui divieti i cittadini si sono serenamente affidati. Quel che appare insidioso – finanche nella sola discussione che si sta alimentando su questa opzione orwelliana – è che così facendo si possa rafforzare l’idea che le colpe dell’espandersi della nuova peste siano da scaricare sulla popolazione inerme e vittima, additata come insubordinata e infida. Una linea di pensiero che, per intendersi, aveva già preso di mira i runner della domenica, vilipesi come traditori e untori e fatti oggetto di indecorose ingiurie dai balconi delle case. Si badi bene incombe il pericolo di una manipolazione comunicativa che corre il rischio di saldare interessi possenti e convergenti. Non ultimi quelli del ceto politico del Sud che, invece che recitare il mea culpa del fallimento dell’autonomismo regionale (in piedi in Sicilia da decenni e nel resto d’Italia dal 1970) e del collasso sanitario che ha generato, minacciano il filo spinato lungo inesistenti confini; o quelli delle élite del Nord che hanno privilegiato per anni la sanità privata che ora serve a poco o a nulla, salvo rare eccezioni. La teoria degli untori fuggiti dalla Lombardia verso il Sud è, al momento, solo una diceria priva di riscontri oggettivi e di dati significativi. Non si ha notizia di persone che risultino contagiate in Sicilia o in Calabria e che provengano dalla Lombardia eppure sarebbe questo l’unico indice predittivo di un fondamento per la grande paura instillata tra gli italiani in una delle domeniche del coprifuoco sanitario. Per chiudere. Ovviamente tutti tranquilli. Di questa rete onnivora di libertà non se ne farà nulla e la pandemia avrà praticamente fine prima che l’Italia possa darsi un sistema del genere. Chi ha fatto cose analoghe ci ha messo decenni e aveva lo scopo di scoprire le reti degli infiltrati palestinesi o delle spie di Pyongyang, non di dare la caccia a premurosi nipoti che vanno ad assistere i propri anziani nonni. Alla fine anche su questo versante della propaganda si dovranno fare i conti per stabilire se a fare strage di anziani siano stati parenti sprovveduti e contaminati (vedremo se saranno risultati tali e ce lo diranno i dati) oppure se il massacro dipenda dalle faglie di un sistema sanitario abbandonato a sé stesso di cui quegli anziani erano i primi utenti. Ecco, a proposito, si raccolgano questi dati e la “Fast Call” ministeriale di queste ore si concentri su uno solo degli obiettivi che enuncia, ossia la creazione di «sistemi di analisi dati, tecnologie hardware e software utili per la gestione dell’emergenza sanitaria» che tanto utili saranno quando – pianti i morti e sanati gli infermi – si arriverà all’immancabile redde rationem politico (e non solo).

«Paura», «rientro dal nord», «contagio»: così le parole sui social  ci possono aiutare contro il Covid-19. Pubblicato mercoledì, 25 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Pratellesi. E’ presto per fare un bilancio sulla pandemia scatenata dal virus Sars-Cov-2 a partire dalla fine di dicembre. Ma alcune cose le abbiamo già imparate. Fra queste sicuramente l’importanza dei dati e delle tecnologie di «contact tracing», tracciamento dei positivi, che si sono rivelate particolarmente efficaci in Cina, Corea del Sud e Singapore. Un conto sono infatti i dati sull’andamento quotidiano dei contagiati conclamati, altro la possibilità di individuare i potenziali positivi e di circoscriverne movimenti e contatti. Solo l’insieme di questi dati può consentire analisi predittive mirate e isolare da subito i potenziali focolai di Covid-19 limitandone la diffusione in maniera efficace. Il virologo Crisanti, sul Corriere, ha parlato di «emergenza sottovalutata. In Italia ci sono almeno 450 mila casi. Questo è un fallimento». Lo ha ammesso lo stesso capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, in una intervista a Repubblica dove ha affermato che i contagiati ufficiali sono attualmente 63.000, ma «il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile». Sono questi dieci malati non censiti i potenziali diffusori di nuovi focolai del virus. Individuarli e sottoporli a quarantena è indispensabile per tenere sotto controllo la diffusione della malattia e ridurne gli effetti. Come rilevato dall’Istituto Superiore di Sanità il tempo medio che intercorre tra l’insorgenza dei primi sintomi e la diagnosi è di 3-5 giorni. Durante questo periodo il malato può contagiare familiari e altre persone con le quali entra in contatto. E’ evidente l’importanza di poter prevedere i circuiti di diffusione del virus in modo da isolare le persone infette e bloccare il contagio. Da questo punto di vista anche i social network, una diffusa rete di racconto sociale e personale soprattutto in tempi di «lockdown» (isolamento forzato), possono fornire dati utili per la costruzione di una piattaforma in grado di monitorare e lanciare alert su potenziali nuove aree di crisi. Un modello di «words tracing», analisi delle parole che le persone scrivono sui social, è stato testato da Felicia Pelagalli, fondatrice e Ceo di Culture, ed è adesso alla base di un progetto sperimentale che si avvale della collaborazione del professor Paolo Ferragina, ordinario di Algoritmi all’Università di Pisa, e di Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva. Il modello di words tracing si basa sulla «tecnica dizionario», condotta con algoritmi di analisi semantica e machine learning. L’algoritmo viene infatti addestrato ad analizzare le conversazioni sui social alla ricerca di termini che possono riferirsi a determinate categorie al fine di individuare temi e classificare tweet/post in base alla co-occorrenza di parole sentinella, «alert» di potenziale contagio. Nel caso del coronavirus il monitoraggio permette di stimare la popolazione di individui che presentano sintomi lievi o gravi, ricostruire network di potenziali diffusori di contagio (come ad esempio i movimenti nord-sud), monitorare situazioni di allerta e crisi e veicolare messaggi mirati di informazione e prevenzione. Tutti dati che contribuirebbero a migliorare le analisi predittive sull’andamento del virus e ad attuare le eventuali contromisure contenitive. «Una prima analisi sperimentale per individuare le parole sentinella – spiega Felicia Pelagalli, che coordina il lavoro dal bunker casalingo – si è basata su tecniche di elaborazione del linguaggio naturale e text analysis che sono andate a rintracciare pattern di parole all’interno di 12.000 tweet prodotti tra il 18 e il 22 marzo». Il risultato è una mappa delle parole che ha evidenziato 4 principali aree tematiche (cluster) lungo due direttrici di senso. Come rappresentato dal grafico, nel quadrante in alto a sinistra emerge il cluster «febbre alta» che riunisce i tweet nei quali compaiono parole come «problemi respiratori», «febbre alta», «tampone», «crisi/difficoltà respiratorie», «paura di morire», “positivo», «ospedale», «polmonite». Nel quadrante in basso a sinistra troviamo invece il cluster di chi fa riferimento a «sintomi lievi», come «tosse secca», «colpi di tosse», «mal di gola», «raffreddore», «starnuti», «dolori muscolari», «congiuntivite». La somma dei due, febbre alta 28,5% e sintomi lievi 29,6%, ci mette di fronte a un 58,1% dei tweet estratti che potrebbe riferirsi a persone potenzialmente positive, che già sanno di esserlo o che rientrano in quel rapporto di 10 non «censite» per ogni «malato certificato» indicato da Borrelli. Da alcuni esempi dei tweet analizzati si intuisce come l’algoritmo sia in grado di cogliere la rilevanza dell’allarme: Febbre alta: «Tre giorni di febbre alta e ossa rotte senza altri sintomi poi i primi segnali dal petto». Sintomi lievi: «Dolori muscolari mooolto leggeri, tosse solo se faccio respiri veramente profondi, sento l \’aria strusciare in gola e mi fa venire tosse sul momento, respirando normalmente no, forse ho la gola appena infiammata». Interessante anche nel quadrante in basso a destra il cluster del «rientro dal nord» (21,6%) che raccoglie i tweet di chi parla di «nord», «coronavirus», «contagiare i genitori», rientrare in Puglia», «viaggio», «studente», «tornare al sud», «treno». Il modello, in fase sperimentale, andrà testato, ampliato, corretto e raffinato nella individuazione delle «parole sentinella», che dovranno essere sempre più precise ed esaustive per restituire dati che riducano il margine di errore, i falsi positivi. Ma il «words tracing» rappresenta una delle possibilità di raccogliere quei dati, anche se in forma anonima come previsto dall’attuale normativa sulla Privacy, che si rivelano sempre più indispensabili per le analisi predittive e che, a quanto abbiamo sperimentato, si sono rilevate particolarmente efficaci nella lotta contro la diffusione del virus.

Umberto Rapetto per infosec.news il 23 marzo 2020. Nonostante la tragicità degli eventi c’è chi continua a improvvisare. Non una jam session di professionisti che possono permettersi qualunque variazione sul tema, ma lo stridulo strimpellare iniziative la cui inefficacia si riverbera sulla collettività già sufficientemente messa alla prova. E’ venuto il momento di dire basta al “me lo ho detto un mio amico” o “l’ho sentito in televisione”. E’ giunta l’ora di lasciarsi scappare quel “che cavolo vai dicendo” che staziona nella gola di chi non riesce più a sopportare il leitmotiv dell’approssimazione a tutti i costi. Tra le tante azioni ipotizzate per contrastare la diffusione del coronavirus ci sono quelle mirate a frenare la libera circolazione delle persone che possono risultare vettori dell’infezione. E’ così saltata fuori la storia di sfruttare le “celle telefoniche” per rilevare le posizioni geografiche degli utenti e monitorare i possibili spostamenti. Il sistema, nonostante il tono imperativo che ha accompagnato qualche annuncio, non può essere considerato la panacea in un momento in cui il controllo della “immobilità individuale” risulta effettivamente fondamentale. Per far sì che ciascuno rispetti il refrain “#iorestoacasa”, la mappatura delle celle “agganciate” dagli apparati di telefonia mobile non funziona e – anzi – rischia di avere controindicazioni. Gli appassionati dei più sofisticati “poliziotteschi” dei nostri giorni hanno ammirato l’abilità di certi specialisti delle forze dell’ordine nel rintracciare questo o quel delinquente, ma la semplificazione di certe serie televisive è affascinante sullo schermo e al contempo fuorviante nella realtà che stiamo vivendo. E’ bene sapere che il territorio è ricoperto di stazioni base (BTS la loro sigla tecnica, “ponti radio” l’espressione gergale) la cui singola copertura è chiamata “cella” e la cui totalità disegna un reticolo molto simile a quello di un alveare. Le celle hanno dimensione variabile in ragione del numero di potenziali utenti che in quell’area devono collegarsi alla rete telefonica. In ambito urbano la densità delle celle è quindi molto più elevata rispetto le zone “rurali” o comunque “fuori città”. La precisione del “posizionamento” è quindi proporzionale al raggio della cella in cui il telefonino si trova o, meglio, cui si è “agganciato” per comunicare. Questa postilla è fondamentale, perché se la cella più vicina è satura di utenti il telefono si collega ad un’altra non distante. A voler banalizzare (chiedo venia, ma non posso farne a meno) il nostro dispositivo mobile lancia costantemente un segnale alla rete per dire dove si trova. Al suo “sono qui” le celle che rilevano il “richiamo” dialogano tra di loro (valutando l’intensità del segnale e tenendo soprattutto conto del numero di utenti già connessi alla BTS) e comunicano la relativa presa in carico. Questo consente a chi si sposta in auto o in treno di non troncare la propria comunicazione lungo l’itinerario passando da una cella all’altra senza interruzioni grazie ad una vera e propria staffetta. E’ comprensibile che l’eccessivo affollamento di una cella o il decadimento del segnale può far slittare l’utente ad una cella diversa da quella che “naturalmente” gli si potrebbe attribuire. Cosa succede se la lettura del tabulato di un tizio evidenzia telefonate effettuate/ricevute o messaggi inoltrati/arrivati in una “cella” diversa da quella abituale o semplicemente differente da quella riportata nella riga precedente o successiva? Il rischio di vedersi attribuito uno spostamento indebito è inevitabilmente altissimo, ma può essere limitato con la “triangolazione” ovvero mettendo in relazione le risultanze delle diverse celle per ciascuna utenza. Un lavoraccio che comunque non porta a quella precisione che sarebbe auspicabile. La telefonia mobile però non va accantonata. “Fuochino” direbbero i bimbi a chi cerca qualcosa e arriva nelle vicinanze. Gli smartphone hanno al loro interno un dispositivo GPS di localizzazione satellitare. E’ quello che di solito viene adoperato per i “navigatori” automobilistici o per spedire via WhatsApp la propria posizione (magari per dare un appuntamento a qualche amico o per fornire la precisa dislocazione di un esercizio commerciale). E allora? Basterebbe una minuscola “app” che segnala ad un ipotetico centro di controllo le variazioni significative delle coordinate geografiche di ciascuno rispetto quelle di originaria registrazione sul sistema. Un programmino che probabilmente qualche smanettone quattordicenne riuscirebbe a realizzare in pochi giorni. Un programmino che in altri Paesi (la Corea del Sud ad esempio) sono già stati sperimentati con successo e che forse potrebbe essere ottenuto senza perdere altro tempo. Perché insistere con la storia delle celle telefoniche? I più malvagi sono convinti che – a differenza della “app” che avrebbe costi infinitesimali – una simile soluzione potrebbe costituire un business per le compagnie telefoniche che sarebbero costrette a dar luogo a “prestazioni obbligatorie” (analogamente a quelle già rese a magistratura e forze di polizia per intercettazioni et similia) che, giustamente, devono essere remunerate. Nel frattempo il Ministero dell’Innovazione avvia una sorta di chiamata alle armi per chiedere ad “aziende, università, enti e centri di ricerca pubblici e privati, associazioni, cooperative, consorzi, fondazioni e istituti” idee e proposte “per l’utilizzo di tecnologie utili al monitoraggio e al contenimento del virus”. Visto che – ma forse è solo una mia impressione – non c’è tempo da perdere, perché non chiedere a Seul il software utilizzato lì con successo e passare dalle inutile parole ai necessari fatti? I fallimenti governativi su certi fronti non sono mancati, dagli “innovation manager” del MISE alla “password di Stato” sognata dalla Ministra per l’Innovazione Paola Pisano. Evitiamo, almeno per pudore, di reiterare errori il cui prezzo ora – vista l’emergenza – sarebbe insostenibile.

Paolo Russo per “la Stampa” il 23 marzo 2020. «Va bene aver chiuso fabbriche e uffici ma bisogna adottare il metodo coreano per rintracciare e isolare i positivi. Anche mappando gli spostamenti con il Gps dei cellulari». E la privacy? «Lo scriva per favore, sono c…, siamo in guerra e bisogna rispondere con tutte le armi che abbiamo». Non va per il sottile nel chiedere di implementare i controlli Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell' Istituto superiore di sanità.

Era necessario spegnere il motore dell' economia in tutta Italia?

«Da epidemiologo dico che più fai per garantire il distanziamento e meglio è. E da Roma in giù la stretta può servire a tamponare gli effetti delle fughe recenti da nord a sud di decine di migliaia di persone. Poi le decisioni spettano a economisti e politici. Però è innegabile che nelle fabbriche il distanziamento è difficile da applicare e poi il contagio può avvenire anche sui mezzi di trasporto usati per gli spostamenti casa-lavoro».

Resta aperta la questione dei test. Dovremmo seguire il modello coreano e farne di più?

«Si. Loro hanno effettuato test rapidi ed estesi ma mirati, utilizzando la mappa degli spostamenti di ciascun positivo accertato, ottenuta utilizzando il Gps dei cellulari. Così sono riusciti individuare e a isolare i soggetti a rischio. Poi hanno utilizzato le informazioni per creare App che hanno consentito ai cittadini di individuare le aree di maggior transito di potenziali contagiati, così da evitarle o adottare il massimo delle precauzioni. Una strategia efficace che ha consentito di ridurre molto la crescita della curva epidemica. Anche se manca ancora un tassello».

Quale?

«Quello della trasmissione intra-familiare. Abbiamo centinaia di migliaia di persone in quarantena perché positive o a rischio di esserlo che in casa non riescono a garantire il distanziamento necessario. Se c' è un positivo, questo dovrebbe dormire in una stanza separata, non mangiare con gli altri, usare un suo bagno e i suoi asciugamani. Difficile per una larga parte degli italiani. Se non teniamo conto di questo il fermo delle attività produttive non basterà».

Cosa bisognerebbe fare?

«Seguire l' esempio cinese e isolare le persone che non sono nelle condizioni di fare la quarantena in casa. Magari requisendo alberghi e caserme».

Ma quanti sono gli asintomatici portatori del virus senza saperlo?

«Dallo studio condotto a Vo' circa un terzo della popolazione. Da altri studi che stiamo analizzando un po' meno di un quarto. E il 10% dei contagi avviene da parte di asintomatici e pre-sintomatici. Per questo è importante rintracciare e testare tutti coloro che hanno avuto contatti con persone positive».

E' vero che il virus può sopravvivere anche nell' aria?

«Uno studio dell' Istituto americano per le malattie infettive stima un tempo di sopravvivenza massimo di tre ore nell' aria delle goccioline che emettiamo con la respirazione. Ma sono indagini sperimentali. Il rischio maggiore resta quello della trasmissione tramite le particelle che emettiamo starnutendo, tossendo o parlando».

Cosa ne pensa dell' Avigan, l' antinfluenzale giapponese che impazza in Rete come anti-Covid per casi non gravi?

«La speranza è l' ultima a morire, ma non mi risulta siano stati condotti trials clinici che ne dimostrino l' efficacia. L'80% delle persone infettate guarisce da se. Anche senza Avigan».

Milena Gabanelli e Fabio Savelli per “il Corriere della Sera” il 23 marzo 2020. Perché ora che dovremmo usare tutta la tecnologia che abbiamo non lo stiamo facendo? L' ordine, per tutte quelle persone che non svolgono un' attività cruciale a mantenere in piedi il Paese, è di stare in casa. Una regola che in troppi violano, perché stiamo ancora combattendo con le armi del Novecento. Per vincere la sfida a questo virus subdolo bisogna partire dalle indicazioni dell' Organizzazione mondiale della Sanità: «Trova il contagiato, isolalo, testalo, tratta ogni caso e traccia ogni contatto». Per fare questo rapidamente le Autorità possono chiedere agli operatori mobili di mettere a disposizione i dati in loro possesso, e tecnologie efficienti per controllare il rispetto del distanziamento sociale su larga scala, con risparmio di risorse umane delle forze dell' ordine, e canali di comunicazione con i cittadini. Tutti i cellulari sono «agganciati» alle celle. La rete, per essere gestita, deve sapere quanti sono attaccati a quali celle e «chi» è attaccato «dove» (altrimenti le chiamate e i dati non potrebbero arrivare e partire). Quindi in aggregato gli operatori telefonici conoscono la densità per area e gli spostamenti. Dati che vengono già conservati per un lungo periodo in caso l' autorità giudiziaria ne richieda l' utilizzo, vuol dire che è possibile ricostruire velocemente i contatti di ogni singolo contagiato nelle due settimane precedenti. In aggiunta molte applicazioni - come Facebook, Google maps, Mytaxi, Uber, Find-my-phone, Deliveroo - usano il Gps degli smartphone per dare la localizzazione del telefono, autorizzata dal possessore nelle condizioni iniziali. Questa localizzazione è molto precisa (e difatti Uber ti prende all'angolo, e Deliveroo ti legge l'indirizzo di casa) e permette comunicazioni mirate geograficamente.

1) Individuati i casi di nuovi contagiati, rintracciare i contatti dei 15 giorni precedenti e testarli per interrompere la catena di contagio.

2) Sapere chi si sposta dal luogo di residenza, e dove va rispetto alle concentrazioni di contagiati è l' essenziale fotografia di partenza quando si stabiliscono blocchi alla mobilità.

3) Installare una app che individua «chi» e «dove». Per esempio se risiedi a Milano quartiere Lorenteggio, puoi vedere che al quartiere Sempione ci sono molti casi dichiarati.

4) Mantenere una fotografia «autodichiarata» della localizzazione dei sintomatici non testati aggiornata in tempo reale.

5) Assicurarsi che i contagiati in quarantena non si muovano (si possono metter sotto tracciamento e far partire un allarme se il telefono si muove).

6) Istruire le aziende che hanno lavoratori essenziali a consegnare un coupon elettronico che li autorizza a uscire (origine-destinazione dichiarati dall' azienda) e può esser verificato dalle autorità di polizia mostrando il telefono (senza autocertificazioni).

7) Distribuire il flusso nei trasporti pubblici e supermercati su diverse fasce orarie attraverso sms con ora dedicata, indicando a gruppi di residenti predefiniti le ore a loro riservate, in modo da evitare affollamenti.

Dare priorità agli anziani, mantenendo nelle ore dedicate a loro una minore densità. Funzionalità che saranno importanti anche dopo la fase acuta, quando si dovranno riprendere gradualmente le attività e partiranno anche nuove onde di contagio che andranno rapidissimamente fermate. In Corea del Sud alcune di queste applicazioni sono in funzione. I numeri di Seul ci dicono che imponendo una quarantena collettiva sin da subito, e l' utilizzo dei dati degli operatori mobili, le autorità sono riuscite ad arrestare la curva epidemica in poco meno di un mese. L' effetto è studiato dall' Oms come caso-scuola: il 26 febbraio a distanza di due settimane dall' adozione della app «Corona 100m» si è verificato il picco (800 contagi al giorno), esattamente il tempo di incubazione del virus. Per poi declinare fino ai circa 80 di questi giorni. Negli Stati Uniti cinque giorni fa si è tenuta una riunione ai massimi livelli alla Casa Bianca. Il presidente Donald Trump ha accolto i vertici di Google e Facebook per chiedere la loro disponibilità. In un documento, già sul tavolo del governo e dell' Istituto superiore di Sanità, un gruppo di economisti e scienziati dei dati, tra cui Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi ed Alfonso Fuggetta del Politecnico di Milano, ha proposto di replicare il modello Corea. Il team di specialisti di SoftMining, una spin-off dell' Università di Salerno, ha sviluppato un' app denominata «SM_Covid19» in grado di valutare il rischio di trasmissione del virus attraverso il monitoraggio di chiunque sia positivo. Gli ospedali potrebbero così leggere i dati di rischio e aggiornare lo stato di una persona (negativo o positivo al test). Se risulta positiva al test, il rischio di ogni altra persona con la quale questa sia venuta in contatto viene aggiornato automaticamente. Al lavoro c' è una squadra Covid-19 composta da personale sanitario e tecnico, che adotta un algoritmo procedurale per l' individuazione di casi sospetti. Vengono sottoposti a screening coloro che sono domiciliati o hanno soggiornato a lungo nelle zone rosse; i familiari dei casi sospetti o confermati; chi ha avuto rapporti stretti con pazienti ricoverati provenienti dalle zone rosse o dalla Cina. Il team alle dipendenze della Protezione civile, in base alle condizioni cliniche, stabilisce la necessità di ricovero ospedaliero o di test per Sars-CoV-2 e isolamento in caso di positività. Non è considerata la platea degli asintomatici, che possono continuare ad andare al lavoro (per esempio tutte le categorie che stanno garantendo i servizi essenziali), o i sintomatici lievi, ai quali viene solo consigliato di stare a casa. Potrebbero essere decine di migliaia e infettare a loro insaputa. Molti laboratori privati di diagnostica sono già attrezzati per coprirne migliaia alla settimana, ma le indicazioni del ministero della Salute predispongono il tampone solo per i casi sintomatici che necessitano di ricovero, e devono essere eseguiti solo dai laboratori accreditati, uno per regione. Da ieri potranno identificarne di aggiuntivi. Il nuovo test diagnostico dell' italiana Diasorin, che ridurrà il processo di analisi a un' ora (oggi la media è di sei) è pronto per andare in commercio, ma verrà consegnato solo ai laboratori ospedalieri. Quindi serve un maggior numero di test, una capillare tracciatura dei contatti, e gestione in sicurezza dei flussi. Ci vuole la volontà politica per mettere a terra un progetto d' urto, andando in deroga al diritto della privacy per particolari categorie di dati (la Ue lo ha già concesso); e velocità di decisione. Basterebbe un decreto del governo e un commissario che assuma la responsabilità di una gestione anonima dei dati, e della loro distruzione quando l' incubo sarà finito. Dice Vittorio Colao, ex Ceo di Vodafone, oggi consigliere dell' americana Verizon: «Nessuno di noi si preoccupa di dare la propria localizzazione per usare mappe digitali, prendere un taxi o ordinare cibo: non ho dubbi che in un momento di grande rischio per la salute i cittadini saranno disposti ad accettare che i loro dati siano usati per rendere le loro comunità più sicure e immuni. In Europa dobbiamo usare anche la tecnologia delle reti mobili per limitare al massimo i rischi delle persone e assicurare il rispetto delle misure di protezione».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 23 marzo 2020. Questa mattina il governo italiano avvierà ufficialmente un progetto che cerca di emulare le migliori pratiche internazionali (soprattutto Corea del Sud, Taiwan, Singapore), con l' obiettivo di far partire varie operazioni tecnologiche mirate contro il Covid-19. Tra queste, spicca una: il tracciamento digitale dei contagiati asintomatici (il gruppo sociale più pericoloso nella trasmissione del coronavirus) e degli anziani, il gruppo esposto alle conseguenze sanitarie più gravi. Tracciamento al quale si potrebbe arrivare con una specie di "passaporto digitale", che potrebbe anche essere una app dedicata, e ovviamente consensuale. Il governo sembra dunque aver ascoltato, sia pure con serio ritardo, una sequela di idee e proposte sollevate da molti giorni da professori italiani (tra i quali Carlo Alberto Carnevale Maffè, Bocconi, Alfonso Fuggetta, Politecnico, Fabio Sabatini, La Sapienza), raccontate da La Stampa ormai dieci giorni fa. La call è coordinata da una task force guidata da Walter Ricciardi, dell' Organizzazione mondiale della sanità, di concerto con i ministeri dell' innovazione e della sanità (e, va chiarito, non ha a che fare con la call dei giorni scorsi della ministra Pisano sui droni). Il progetto si articola in tre punti. Il primo è mettere a sistema i dati, di cui l' Italia già dispone. Moltissimi dati ci sono, ma sono aggregati tra regioni e stato centrale. Bisogna disaggregarli, in sostanza renderli fruibili e usabili. Già solo ricostruire la mappa dei contatti dei contagiati asintomatici finora reperiti aiuterebbe tantissimo a mappare le catene trasmissive del virus. Il secondo punto riguarda un potenziamento della teleassistenza a casa, di quelli che sono chiusi in casa - lievemente malati, o forse positivi asintomatici. Ma è il terzo punto quello cruciale, che più richiama l' esperienza di successo sud coreana: il contact tracing, ossia il tracciamento digitale dei contatti degli asintomatici e degli anziani, e l' attivazione di un "passaporto digitale" (viene chiamato proprio così, nella bozza di lavoro del team, di cui siamo a conoscenza), una specie di patente che ci consenta di sostituire il ridicolo modulo cartaceo di autodichiarazione, per evitare il lockdown. Che forma può prendere questo "passaporto" è da vedere. Potrebbe essere una app, ma non è detto. Ricciardi anticipa a La Stampa quale sarà il primo passo della parte digitale: «Nessuno deve temere un Grande Fratello, ci potremo avvalere di un mix di tre strumenti che già esistono, nel tracciamento: compagnie telefoniche, carte di credito, telefoni cellulari». Naturalmente tutto sarà gestito seguendo le eventuali osservazioni del garante per la privacy, e tenendo conto delle leggi sulla privacy. Ma proprio la tecnologia, in una fase di divieti che finora l' esecutivo ha imposto in maniera verticale e forse un po' alla cieca, può evitare i rischi di scivolare in forme di paternalismo autoritario. Bisogna per esempio provare a spiegare bene ai nostri lettori che non si tratterebbe di una schedatura di massa di 60 milioni di italiani (sarebbe, oltre che illegale, stupido): basterà invece tracciare e ricostruire le catene trasmissive del virus dentro una sessantina di focolai, grandi o piccoli, del virus, e dunque in un numero circoscritto di persone. Per far questo la app potrebbe aiutare, ma non è neanche detto sia necessaria. Lo scambio che s' è attivato tra governo e istituti di ricerca è stato catalizzato da diversi professori, che hanno trovato orecchie attente in Ricciardi, e sta coinvolgendo eccellenze italiane come il Politecnico, la Bocconi e il Centro medico Santagostino di Milano, l' Isi Foundation di Torino, la fondazione Kessler di Trento, e vari altri istituti. In Italia abbiamo certamente capacità e conoscenze per lavorare sui big data, purché la cosa non diventi parodistica, come in certi partiti politici, o peggio foriera di conflitti d' interessi, che qui - ci viene assicurato - saranno rigorosamente evitati.

Coronavirus, cosa sappiamo finora dell’applicazione per il tracciamento dei contagi. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Martina Pennisi. La macchina del monitoraggio tecnologico dell’epidemia di Coronavirus si è già messa in moto? Sì. Sappiamo dove ci porterà? No. A che punto siamo: nonostante i dati degli ultimi due giorni evidenzino un rallentamento della crescita della diffusione del virus Sars-Cov-2 nel nostro Paese, siamo ancora nel pieno dell’emergenza (sia per il numero dei contagi e dei decessi, sia per la situazione degli ospedali) ed è necessario stabilire come verranno gestite le prossime fasi, dall’allentamento del lockdown in poi. Il governo italiano, ma anche quello britannico o tedesco, stanno valutando l’utilizzo della tecnologia per gestire sia i casi positivi conclamati sia quelli potenziali. È dunque apparso chiaro fin da subito che lo sforzo deve andare di pari passo alla capacità di fare test diagnostici rapidi e diffusi. Così si è mossa la Corea del Sud, come è ormai noto. In Italia qualcosa di concreto è già stato fatto: la Regione Lombardia analizza i dati anonimi e aggregati delle celle delle reti mobili per verificare se i cittadini — non i singoli, ma complessivamente — si stiano muovendo o meno oltre le poche centinaia di metri consentiti oltre la propria abitazione. E come ha scritto oggi sul Corriere Simona Ravizza, nella provincia di Milano è stato messo a disposizione dei medici di famiglia un sito che ha contribuito a individuare 1.800 positivi potenziali da mettere in quarantena. I prossimi passi: oggi si è aperta la tre giorni in cui il ministero dell’Innovazione, quello della Sanità, l’Istituto Superiore di Sanità e il commissario straordinario Domenico Arcuri vaglieranno i progetti delle aziende italiane per raccogliere e gestire dati utili al contenimento del virus e per comunicare con la popolazione (quando andare nei supermercati o in quali zone non recarsi). In parallelo sta nascendo una task force che studierà come usare le informazioni e valuterà rischi e problemi connessi alla privacy. Per nominare questo gruppo serve un decreto che è imminente. Un intervento normativo è necessario anche per chiarire come verranno trattati i dati: la possibilità di farlo è già stata introdotta con il decreto del 9 marzo. Adesso, di concerto con il Garante per la privacy (qui la nostra intervista), bisogna fissare una serie di paletti. Chi è il titolare dei dati? Fino a quando potranno essere usati? Di quali dati stiamo parlando, in quale formato e come verranno protetti? Il cittadino potrà cancellarli in qualsiasi momento? Solo per citarne alcuni. Domande e risposte dipendono molto dalla soluzione che verrà eventualmente adottata, perché l’applicazione non è ancora stata selezionata. Nonostante la possibilità di presentare i progetti sia pubblica solo da ieri, e attiva da oggi, alcuni sono già noti e si può iniziare a fare una serie di considerazioni. Innanzitutto, ci sono almeno tre livelli di profondità di indagine:

• quello dei dati di anonimi e aggregati sulla mobilità, come nel caso delle celle telefoniche della Lombardia. Il più blando dal punto di vista dell’acquisizione delle informazioni, il meno preciso e quello che non necessita di alcuna partecipazione attiva dei cittadini e di interventi normativi.

• C’è poi la possibilità di analizzare gli spostamenti nei 14 giorni precedenti alla diagnosi (o ai sintomi? Stabilirlo starà fondamentale per capire a chi si sta chiedendo di condividere informazioni sul suo stato di salute) per ricostruire gli incontri del singolo cittadino e avvisarli di mettersi in quarantena. Il cosiddetto contact tracing. Lo propone la maggior parte delle applicazioni sul tavolo, a partire da quella del Centro medico Santagostino (qui l’articolo di Elena Tebano), che promette l’anonimato. Il punto è: come? Basandosi sull’accesso alla localizzazione Gps dei dispositivi, come StopCovid19 di Webtek, o sfruttando più sensori per costruire una rete degli smartphone incrociati, come Sm_Covid19 di SoftMining, spinoff dell’Università di Salerno (l’ha provata Wired Italia). In Germania si sta pensando a una soluzione che sfrutti gli identificativi delle applicazioni presenti sugli smartphone e restituisca dati almeno pseudonimizzati (che vuol dire quasi del tutto anonimi). Condizione necessaria è comunque la partecipazione di quanti scaricano l’app.

• Terza e più spinta opzione è quella di permettere alle autorità di essere avvisate se il singolo sta violando o meno la quarantena. Nell’applicazione di Santagostino c’è un passo indietro e più cauto con la rilevazione su base statistica, e quindi anonima, degli assembramenti per individuare le zone a rischio. CovidGuard di Defcon12 propone invece (per il tracciamento, ma può valere anche per il rispetto della quarantena) di salvare le informazioni relative alla posizione per un certo periodo di tempo all’interno dell’app , senza che lascino mai il dispositivo: sarà poi il cittadino, se verrà fermato dalle autorità, a doverle mostrare tramite un QrCode.

Ora una guerra vera al Covid-19. Con la tecnologia. Antonio Leo Tarasco, Ordinario di Diritto amministrativo, su Il Dubbio il 23 marzo 2020. Il mantra nazionale “Io resto a casa”? Ormai è chiaro che non basta: a meno di non voler tenere un intero Paese barricato per altri 6 mesi e rassegnarsi a una crisi finanziaria che avrebbe ripercussioni per decenni. Come in Corea, vanno estesi i tamponi, individuati e isolati tutti i contagiati (sintomatici e non), mappati i movimenti col Gps e informati i cittadini del rischio-contagio prossimo.

Lo schema d’attacco italiano al Corona virus finora seguito è un modello o un fallimento? A un mese dall’emanazione del primo provvedimento con cui il governo ha cominciato a fronteggiare l’emergenza da Corona virus (è del 23 febbraio scorso il varo del decreto legge n. 6), è tempo di bilanci. Quattro decreti legge in un mese (i Dl 6, 9, 11, 14), tre decreti del Capo del governo (i dpcm dell’8, del 9 e del 22 marzo) non hanno né bloccato l’emergenza epidemiologica né sono stati utili a far intravedere l’atteso “picco”, cioè la punta di massima espansione degli effetti del contagio a seguito del quale vi possono essere solo diminuzioni di infetti e, quindi, di morti, ricoverati e di pazienti in terapia intensiva. E se è vero che l’aumento della temperatura atteso per la primavera-estate non sarà in grado di segnare automaticamente la morte del virus e che un vaccino potrebbe essere pronto solo a fine anno (quando il virus potrebbe essere morto per cause, diciamo, naturali), bisogna seriamente interrogarsi sull’efficacia delle misure tecniche messe a punto dal governo (e, al momento, solo da questo, non essendo il Parlamento coinvolto in alcuna decisione, se non in sede di conversione dei decreti legge già emanati dall’Esecutivo). Chiusura della stragrande maggioranza delle attività commerciali, sostanziale divieto di circolazione interno e internazionale, divieto di assembramento, di attività sportive, qualunque sia il luogo in cui queste vengano praticate, telelavoro imposto a tutti i dipendenti delle poche aziende, pubbliche e private, ancora aperte, hanno funzionato? Può risolversi tutto con la quarantena degli infettati, l’isolamento sociale dei “sani” (o presunti tali) e la condanna morale (e penale) di coloro che non rispettano il mantra nazionale dell’ Io resto a casa? Ad oggi, tutti i dati sembrano dimostrare l’esatto contrario: crescono i contagiati, i morti (che hanno superato quelli della Cina), i pazienti in terapia intensiva, e la autentica tragedia delle province di Brescia e Bergamo non si accenna ad arrestare. E poiché dopo il dpcm del 22 marzo ci sarà poco altro da chiudere (a meno che non si voglia, per una polmonite virale che statisticamente colpisce la minima parte della popolazione, far morire di stenti tutti gli italiani) o si prende atto del fallimento della strategia finora seguita o si rischia di continuare ad andare avanti così almeno fino a Ferragosto. Ma a quel punto anche la proverbiale pazienza degli italiani, la minaccia delle sanzioni penali, la militarizzazione delle strade, potrebbero non bastare più. Qui non è in discussione la serietà dell’impegno, lo spirito di unità delle forze politiche e la leale collaborazione tra tutti i livelli di governo (magari si assistesse sempre a questo clima di fantastica complicità e spirito di servizio), quanto la idoneità delle misure messe in campo che consistono, essenzialmente, nella importazione dello schema cinese senza… la dittatura cinese (che già mai è augurabile importare in Italia: meglio la polmonite virale). Il primo errore commesso è stato seguire le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (veicolate dal professor Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza) di effettuare i tamponi esclusivamente sui soggetti sintomatici. Questo ha determinato due conseguenze nefaste. In primo luogo, il mancato arresto dei contagi e l’espansione del numero degli infetti. Se il tampone viene effettuato solo a soggetti sintomatici, tra questi vi è un’alta probabilità di “stanare” i pazienti infetti. Ma gli altri? Gli asintomatici o, come amano dire i virologi, i pauci-sintomatici? Anch’essi sono contagiati che – anche se stanno bene – possono ulteriormente infettare. Per loro si sarebbe dovuto prescrivere la quarantena (il cosiddetto lockdown). Non averlo fatto ha consentito al virus di diffondersi. Certo, si può obiettare, se tutti stanno a casa, il problema non si pone. Sbagliato, poiché gli infetti inconsapevoli, anche se stanno a casa, possono ulteriormente contagiare e comunque possono doversi recare al lavoro e contagiare a loro volta. Ed in ogni caso, dal 22 febbraio ad oggi, grazie agli infetti inconsapevoli, il virus è riuscito a propagare magnificamente in Italia, e ciò sia in aree già al collasso (Lombardia) che in altre in origine incontaminate. Questo spiegherebbe il mancato arresto del virus e della sua espansione inarrestabile. Vi è, poi, una seconda nefanda conseguenza, non inferiore alla prima: gli effetti statistici. Poiché le percentuali sono dei rapporti, se al numeratore poniamo i morti e al denominatore i soli contagiati noti, la percentuale statistica che ne deriva è molto alta se si sono analizzati solo i “sintomatici” ma sarebbe di gran lunga inferiore se inserissimo al denominatore tutti i pazienti affetti realmente da Covid-19 ma che non presentano sintomi. In tal caso, il cosiddetto tasso di letalità scenderebbe di gran lunga. E anche le misure di politica pubblica da adottarsi potrebbero essere differenti: magari più drastiche in alcune aree ma più leggere in altre (e, dunque, più compatibili con una vita quasi-normale). Inoltre, riuscire ad individuare tutti i pazienti realmente affetti da Corona virus attraverso l’estensione dei tamponi avrebbe consentito, in un Paese tecnologicamente evoluto (quale non è l’Italia) di tracciare i pazienti e ricostruirne gli spostamenti precedenti e successivi. In tal modo, da un lato si potrebbero evitare successivi contagi e dall’altro si potrebbe, a ritroso, ricostruire la rete di contatti avuti da costoro e così effettuare anche su tali soggetti i tamponi mirati (e non a tappeto, alla cieca, sull’intera popolazione italiana). Ciò avrebbe comportato la necessità di analizzare i cosiddetti big data, creare e diffondere tra le autorità sanitarie “app” di tracciamento degli spostamenti dei contagiati. La protezione dei dati personali è già ampiamente (e a giustissima ragione) derogata dall’articolo 14 del decreto legge 14/2020; e va ricordato, poi, che la disciplina sulla privacy è in funzione dello sviluppo della persona umana che è a rischio anzitutto se sussistono minacce alla sopravvivenza. Giganti del web come Google e Facebook spiano costantemente le nostre abitudini per scopi solo commerciali; avrei preferito che a “spiarci” fosse stata la Protezione civile per difendermi dal rischio di infezione di una polmonite virale potenzialmente mortale. Comportandosi diversamente dagli italiani, i coreani (quelli democratici del Sud e non quelli capeggiati da Kim Jong-un) sono riusciti a contenere la curva dei contagi attraverso tamponi selettivi, controllo a distanza degli infetti, analisi dei big data: solo 8.652 infetti e 92 morti contro i 47 mila contagiati italiani e i 4.032 morti (dati comparati al 20 marzo). E dire che oltre a indubbie similitudini di geografia umana, i due Paesi hanno vissuto analoghe vicende epidemiologiche per 14 giorni; dopodiché la curva dei contagi italiana si è impennata mentre quella coreana si è stabilizzata. Cosa fare, ora, dunque? Certamente non potremo festeggiare la Pasqua come l’anno scorso o partecipare al “concertone” del 1° maggio a piazza San Giovanni, a Roma; ma credere che il mantra nazionale “Io resto a casa” da solo possa bastare è pia illusione, a meno di non voler attendere altri 6 mesi, chiudersi a casa anche a Ferragosto, ed assistere (impotenti) all’implosione del sistema sanitario nazionale. Giunti a tal punto, dopo preziose settimane in cui aerei da e per la Cina si sono lasciati liberi di partire ed arrivare e in cui tutti i contagiati inconsapevoli sono stati lasciati liberi di contagiare altre persone, occorre affiancare alla sospensione dei diritti costituzionali (ora, purtroppo, inevitabile) un’attività di intelligence sanitaria: estendere i tamponi, individuare tutti i contagiati isolando tutte le persone infette (sintomatici e non), raccogliere e analizzare tutti i dati, rendere pubblici i movimenti dei malati attraverso la tecnologia Gps e telecamere di sorveglianza, informare i cittadini del rischio-contagio prossimo, far funzionare la telemedicina a supporto della medicina in presenza. Solo così si potrà ridurre la pena a 60 milioni di italiana, salvando libertà e vite umane. Diversamente, sarà un’ecatombe, per gli italiani, la sanità e… il governo Conte.

Oggi, l’Italia è chiusa. La produzione è per la massima parte ferma. Gli uffici pubblici sono virtualmente aperti per garantire un minimo di presidio. Ma questo blocco, nonostante le rassicurazioni dei seguaci keinesiani, non potrà essere rivitalizzato da pure iniezioni di liquidità finanziaria grazie all’intervento di Corona bond e al quantitative easing. La crisi finanziaria che si è aperta da un mese avrà ripercussioni per decenni. Nonostante le dichiarazioni politiche, nessun governo potrà ripagare in toto le perdite economiche delle imprese italiane.

·         L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che,  ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura. 

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No!  No. Non perchè,  per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia,  ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Coronavirs: altro che Immunità di Gregge. Con la falsa quarantena si è permesso di infettare il Sud Italia per salvare i padani.

L’opinione del sociologo storico e scrittore Antonio Giangrande che sul tema ha scritto il saggio “Coglionavirus”.

I media prezzolati e nordisti a criticare l’immunità di gregge, per giustificare le scelte del Governo italiano.

Perché si obbliga la quarantena della reclusione in casa con relative sanzioni penali e poi si agevola la fuoriuscita criminale dalla zone rosse del settentrione degli infettati, permettendo loro la mobilità verso il sud?

Scientemente si è diffuso il contagio dell’epidemia nel sud Italia? Perché?

Il virus si può combattere in due modi: il primo è il metodo cinese e nei fatti, anche se messo in atto con ritardo ed incertezze, anche il metodo italiano. Un metodo che si basa sull’isolamento delle aree urbane, o comunque dei territori, dove la malattia imperversa, e che determina il crollo della possibilità di avere contatti sociali, limitando in questo modo la circolazione della malattia.

Esiste poi un secondo metodo che è sicuramente meno “prudente” ma in presenza di determinate condizioni potrebbe essere più efficace delle quarantene. Il secondo metodo consiste nel far circolare liberamente il virus, far si che infetti rapidamente gran parte della popolazione ed raggiungere, dopo circa 3/4 mesi La cosiddetta immunità di gregge.

Un termine importante è la Curva appiattita. Questa è un qualcosa di non concreto, ma importante. Si tratta di spalmare il numero di contagi più in là nel tempo grazie ai vari interventi fatti. Se si lasciasse proseguire il contagio libero, quest’ultimo presenterebbe un picco molto più grande, ma in poco tempo. Il problema di lasciarlo libero è che si crea una pressione eccessiva sul sistema sanitario e altri collegati. Si diluisce il contagio per favorire il suo decorso. Moltissimi contagiati, in pochissimo tempo e, anche se la letalità fosse bassissima, le vittime potrebbero essere tantissime (su grandi numeri, anche una piccola percentuale è in ogni caso numerosa).

Questo, a prescindere dalla gravità dei sintomi della malattia, oltre a fare vittime, sovraccarica le strutture sanitarie. Migliaia di persone si riversano al pronto soccorso, centinaia di ricoverati, tanti in rianimazione. Serve personale, farmaci, posti letto, macchinari. Quando questo succede in sei mesi (come per l'influenza) si riesce a sopportare l'impatto (e supportare tutti), quando questo avviene in un mese potrebbe far crollare tutto. E poi diventa una reazione a catena.

Se i reparti di rianimazione fossero pieni di pazienti con polmonite da Coronavirus, non potrebbero ricevere persone in insufficienza renale, con un infarto, chi ha avuto un incidente, una donna che ha avuto un'emorragia post partum, un uomo che ha avuto un ictus con conseguente diminuzione dell'assistenza, delle cure e quindi un aumento senza precedenti della mortalità e delle complicanze, oltre che un peggioramento improvviso e pesante del livello delle cure.

L’Italia disponeva un tempo di molti più posti letto di terapia intensiva, sub intensiva e di degenza ordinaria. Poi vennero le “razionalizzazioni”, le cure dimagranti, i tagli alla sanità. Benvenuti nell’era dell’austerità.

Togliamocelo dalla testa: l'attenzione all'epidemia di coronavirus non è dovuta alla sua letalità quanto alla capacità di far «saltare» il nostro sistema sanitario. La spiegazione è nelle parole di Massimo Galli, primario infettivologo dell'Ospedale Sacco di Milano, in un'intervista rilasciata a Corriere della Sera il 23 febbraio 2020: «In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia. Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento».  Alle 18 di ieri infatti, dei 2052 casi confermati, circa l'8% è in terapia intensiva e il 36% è ricoverato con sintomi. Anche se il rischio di contrarre la malattia nella popolazione, soprattutto al di fuori dei focolai, rimane basso, la diffusione del virus va rallentata per evitare che questo rischio aumenti con il conseguente collasso degli ospedali. Più persone si ammalano - e nella maggior parte dei casi il decorso è benigno - e più individui necessiteranno di ricovero.

Conclusione.

Hanno infettato il Sud per spalmare su tutta l’Italia e le relative strutture sanitarie il picco del contagio e salvare, curandoli, così, quanto più Padani.

Ilaria Capua: «Il vaccino sarà lento, spero nell’immunità di gregge». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 27/10/2020. La virologa italiana che lavora in Florida: «Ci vorrà tempo per avere dosi per tutti». Trump? «Lui ora va in giro perché è protetto». Ilaria Capua ci apre la porta della villetta in un quartiere residenziale di Gainesville, dove vive con il marito e la figlia. Qui nel cuore di questo Stato in bilico, uno dei principali campi di battaglia nelle elezioni presidenziali, ha sede l’Università della Florida in cui lavora, un puntino blu (democratico) circondato da un mare rosso (Trumpland). I laboratori — spiega la virologa italiana — hanno rallentato il lavoro, impossibile rispettare il distanziamento. A un’ora da qui Trump ha tenuto uno dei suoi ultimi comizi, dove moltissimi partecipanti erano senza mascherina, in uno Stato dove il 20,5% della popolazione ha più di 65 anni. Trump aveva annunciato che il vaccino sarebbe arrivato entro le elezioni, ieri Fauci ha spiegato che potremmo sapere se è efficace entro dicembre. Capua dice di non sperare che arrivi a breve, e invita a ricordare — come ha fatto lo stesso virologo della Casa Bianca — che all’inizio le dosi saranno comunque insufficienti per tutti.

Quanto ci vorrà e quali sono gli ostacoli?

«Pensate al vaccino per l’influenza: lo sappiamo fare e distribuire, eppure non si trova. In questo momento di crisi non si riesce a fare l’upscaling delle dosi di vaccino anti-influenzale per produrne abbastanza. Ad oggi un vaccino per il Covid innanzitutto non c’è; secondo, non abbiamo certezza che quelli che sono in via di sviluppo siano efficaci; terzo, non sappiamo neanche se l’efficacia possa essere raggiunta con una dose o se ce ne vorranno di più, perché alcuni coronavirus sono dei pessimi immunogeni. Oltretutto, vi sono colli di bottiglia legati al fatto che le aziende che producono i vaccini hanno una pipeline, ovvero passaggi obbligati di produzione. Un pasticcere che sforna 100 torte al giorno può arrivare a farne 500, ma non 5 milioni. Se il mondo può produrre per unità di tempo cento milioni di dosi, noi siamo comunque sette miliardi, ed è giusto che siano garantite le dosi per i lavoratori degli ospedali e i trasporti essenziali, perché se si fermano si ferma tutto di nuovo, ed ovviamente per le persone più fragili. Quando i vaccini saranno pronti e autorizzati, e si conosceranno le caratteristiche di efficacia e di sicurezza, dovranno essere somministrati in maniera organizzata. Io sono certa che così come molti Paesi hanno fatto piani per questo, l’Italia seguirà linee guida europee e internazionali. Ma è necessario che le persone capiscano che al primo giro non ce ne sarà abbastanza per tutti».

Nel frattempo cosa bisogna fare?

«Tre cose: in primo luogo, arrivare all’immunità di gregge facendo girare il virus lentamente, perché, se gira troppo velocemente , invece dell’immunità di gregge avremo le pecore morte. Bisogna stare lontani e distanziarsi in modo che l’indice di contagio sia basso, mantenere sotto soglia la circolazione virale ed immunizzarsi piano piano. Poi il vaccino darà il suo contributo. Queste convergenze fanno si che si arriverà a un punto in cui l’infezione si sarà endemizzata. Nel momento in cui si crea questo equilibro tra virus circolante e anticorpi, il Covid appena entra in contatto con una persona viene bloccato. Fra qualche anno, diventerà — io mi auguro — il nuovo virus del raffreddore».

Ora Trump è immune?

«Lui va in giro adesso perché è protetto, i monoclonali che gli hanno fatto sono un farmaco protettivo oltre che terapeutico».

Trump dice che «durerà per tutta la vita o forse per quattro mesi».

«Gli hanno fatto una cura potentissima, con i monoclonali, in più l’antivirale, il cortisone, e una terapia di sostegno. Quell’anticorpo monoclonale, il Regeneron, è come un guanto da baseball o come un missile terra aria, gliene hanno fatti 8 grammi, una grossa dose. Si tratta di una molecola che non si riproduce nell’organismo, che dopo un paio di mesi si degrada, però lui secondo me è protetto da qua a gennaio».

Trump ha detto che vuole velocizzarne l’approvazione dall’Fda, l’agenzia federale dei farmaci.

«Ci vuole tempo, e tutte le carte devono stare a posto. Ma costa anche un occhio della testa, sull’ordine di centinaia migliaia di dollari».

Argentina, finisce il lockdown più lungo del mondo: pochi risultati e popolazione alla fame. Le Iene News il 9 novembre 2020. Primo vero allentamento oggi dal 20 marzo scorso del lockdown più lungo del mondo in Argentina, durato oltre sette mesi. I risultati non sembrano però decisivi in un paese tra i più colpiti dal coronavirus. Devastate l’economia, che già prima del Covid marciava verso il fallimento finanziario, e la vita di milioni di persone ridotte alla fame. Si avvia verso la fine in Argentina dopo oltre 7 mesi il lockdown più lungo del lungo del mondo, lasciando dietro di sé risultati ancora non decisivi nella lotta a una gigantesca epidemia locale di coronavirus e una popolazione allo stremo, letteralmente alla fame. In un paese che già prima del Covid marciava verso una nuova bancarotta finanziaria. Come annunciato dal presidente Alberto Fernández, da oggi la capitale Buenos Aires e la sua provincia, dove vive un terzo dei cittadini argentini (16 milioni su 44), passano dal regime di quarantena in vigore dal 20 marzo a una fase di semplice distanziamento sociale. L’epidemia però qui non è finita, si registrano solo otto settimane consecutive di diminuzione dei casi di contagio da Covid-19 nell’area della capitale, mentre anche le province dell'interno, come quella di Santa Fe, sta cominciando una riduzione delle  persone infettate. L’Argentina resta il nono paese al mondo per numero di casi di Covid: un milione e 242mila, con 33.560 morti. E lo stesso presidente peronista Fernández ammette che “il problema è lungi dall'essere risolto”, con oltre 4.500 mila persone in rianimazione e una occupazione dei letti da parte dei malati di coronavirus di oltre il 60%. Qui sotto potete vedere i grafici dell’andamento nel paese rispettivamente di contagi e morti, purtroppo per niente rassicuranti. Pandemia e lockdown sembrano intanto aver assestato il colpo di grazia all’economia che già prima del Covid viaggiava appunto verso la bancarotta finanziaria, già disastrosamente affrontata nel 2002 quando l’Argentina si arrese ammettendo di non poter pagare più i propri debiti. La crisi economica e la povertà diffusa, anche nel ceto medio, sono devastanti oggi come allora, ancora peggio dopo oltre sette mesi di lockdown. Il paese è tecnicamente fallito di nuovo secondo le principali agenzie di rating mondiale mentre continuano le trattative per evitare il nono default economico formale della sua storia. L’economia reale e la vita delle persone sono a pezzi. “Una famiglia su quattro non ce la fa proprio poiché vivevano di ‘changas’, di lavori alla giornata”. Il professor Eduardo Donza, economista dell’Università Cattolica Argentina, ha raccontato all’agenzia cattolica AgenSir i risultati di un primo studio: “È completamente al palo il 45% dei piccoli imprenditori e commercianti. Ma i problemi esistono anche per quel 35% di lavoratori stabili e in regola. Il calo complessivo della produzione supera il 50% e ci sono ripercussioni sulle imposte incassate dagli enti pubblici. Solo a Buenos Aires crollano del 40%”. “Cosa vogliamo mettere al centro? La finanza, i bond, le speculazioni o la dignità della persona umana?” ha detto sempre ad AgenSir monsignor Gustavo Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires citando Papa Bergoglio, nato qui ed ex arcivescovo della capitale. Carrara si concentra sul dramma delle “villas”, le favelas argentine dove la fame distrugge sempre più vite: “In molti casi qui non solo non c’è il pane ma nemmeno l’acqua potabile: come si fa a dire ai bambini che si devono lavare le mani per prevenire i contagi?”.

Coronavirus, il record di vittime? Colpa dei tagli alla sanità. La Liuc di Castellanza: "Dove il tasso di saturazione dei reparti era più alto c’è stata una letalità maggiore, anche del 2.000%". Valentino Rigano su ilgiorno.it il 4 aprile 2020. Castellanza (Varese), 4 aprile 2020 - A uccidere chi ha contratto il coronavirus non è la sola malattia, ma la mancanza di posti letto per i tagli alla sanità. Ad affermarlo è una ricerca del Centro sull’economia e il management nella sanità e nel sociale della Liuc business school di Castellanza, in provincia di Varese. "Saturazione dei posti letto e mortalità da Covid-19, fatti e misfatti" si intitola il dossier. Secondo la ricerca, a firma di Lorenzo Schettini e Daniele Bellavia, l’Italia "a differenza di molti altri Paesi europei, è stata teatro, negli ultimi anni, di azioni di spending review, con particolare riguardo all’ambito sanitario", "per ottemperare alle richieste normative, dalla Legge Balduzzi del 2012, al Decreto 70 del 2015, sono stati tagliati complessivamente ben 7.389 posti letto". Il documento affronta poi la centralità della Lombardia nel contesto epidemiologico, definendola "regione focolaio d’origine", spiegando come l’oggetto della ricerca sia stato il "calcolo del tasso di saturazione dei posti letto di terapia intensiva nelle diverse Regioni". Basandosi sui dati relativi ai ricoveri per Covid-19 e quelli dei decessi, la ricerca spiega come "le regioni con il sistema sanitario più saturo, sono quelle che hanno un’incidenza di deceduti per Covid-19 maggiore rispetto alle più note infezioni respiratorie". Secondo il documento, "regioni come Lombardia o Val d’Aosta hanno avuto un incremento percentuale addirittura maggiore, rispettivamente, del 2.000% e del 1.000%, mentre Basilicata, Lazio e Sardegna, hanno registrato un numero di decessi per Covid-19 pressoché sovrapponibile alle morti per le più comuni infezioni respiratorie". La conclusione è che "dove il tasso di saturazione è più alto sono Lombardia, Marche, Liguria e Piemonte, che sono anche le Regioni con il più alto numero di decessi".

Storia minima di 40 anni di tagli alla sanità italiana. Simone Fontana su Wired il 12 marzo 2020. L'emergenza di queste ore non è solo frutto della contingenza, ma un problema strutturale vecchio di almeno quattro decenni. Tutti i numeri del sistema sanitario italiano, considerato ancora tra i migliori al mondo. Negli ultimi giorni il dibattito pubblico italiano ha imparato a fare i conti con la locuzione medicina delle catastrofi, l’ambito scientifico che si occupa di mettere a punto una risposta sanitaria adeguata di fronte a situazioni emergenziali e alla conseguente scarsità di risorse mediche. Diverse testimonianze giornalistiche raccontano di un sistema sanitario pesantemente sotto stress, con reparti di terapia intensiva sull’orlo del collasso e dolorose scelte sui pazienti da intubare. All’allarme lanciato dai media si è aggiunta in queste ore l’apprensione del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che su Twitter ha parlato di “pazienti lasciati morire” perché non possono essere trattati. Al momento non esistono dati certi sulla saturazione delle strutture lombarde e numerose voci mediche escludono apertamente simili ricostruzioni, ma in nessun caso i pazienti sarebbero comunque “lasciati morire”, dal momento che anche in assenza di respiratori sono previste tutte le cure necessarie. Ciò che sappiamo con certezza, invece, è che lo stato in cui versa oggi la sanità italiana non è unicamente frutto della contingenza. È un problema strutturale, piuttosto, figlio di precise scelte di finanza pubblica, che nell’arco di 40 anni hanno contribuito a indebolire un servizio sanitario considerato, nonostante tutto, ancora tra i migliori al mondo.

I numeri della sanità italiana. Nel 2018 l’Italia ha speso per il sistema sanitario nazionale l’8,8% del Pil, una percentuale che scende al 6,5% considerando solo gli investimenti pubblici. Facciamo peggio di Stati Uniti (14,3%), Germania (9,5%), Francia (9,3%) e Regno Unito (7,5%), ma sostanzialmente in linea con la media Ocse, ferma al 6,6%. Sotto di noi solo i paesi dell’Europa orientale, Spagna, Portogallo e Grecia. In numeri assoluti ciò si traduce in un esborso per lo stato di 2.326 euro a persona (2mila meno della Germania), complessivamente 8,8 miliardi più rispetto al 2010. Un tasso di crescita dello 0,90%, dunque, che con l’inflazione media annua all’1,07% si traduce in un definanziamento di 37 miliardi. La Fondazione Gimbe calcola che il grosso dei tagli sia avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie del periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Come si legge nell’annuale relazione della Corte dei Conti, la frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si ripercuote sulla quantità e sull’ammodernamento delle apparecchiature, oltre che sulla disponibilità di personale dipendente, calato nel periodo preso in considerazione di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia, dove tutte le regioni (eccezion fatta per il Molise) spendono meno della media nazionale.

I numeri negli ospedali. I dati più affidabili per aiutarci a capire ciò che sta realmente accadendo negli ospedali italiani arrivano dall’annuario statistico del Servizio sanitario nazionale e sono aggiornati all’anno 2017. I posti letto complessivamente disponibili nelle strutture pubbliche sono 151.646 (2,5 ogni mille abitanti), che sommate alle oltre 40mila unità incluse in strutture private rappresentano un calo del 30% rispetto all’anno 2000. L’unica regione in linea con la media Ocse è il Friuli Venezia Giulia, che conta 5 posti ogni mille abitanti, quasi il doppio della media nazionale). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Italia ha a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), dato calato di un terzo dal 1980 a oggi. I posti in terapia intensiva sono invece poco più di 3.700, che diventano 5.300 (8,4 ogni 100mila abitanti) se consideriamo anche le strutture private. Attualmente, sul territorio nazionale, i pazienti ricoverati in terapia intensiva a causa del Covid-19 sono 1.028, di cui 560 nella sola Lombardia.

Coronavirus: il crollo della sanità pubblica. E le colpe della privatizzazione. Vittorio Agnoletto: «La sanità pubblica è stata tagliata, indebolita e smantellata. Deve essere rifinanziata e tornare a produrre salute. Non profitto per pochi». Come in Lombardia. Rosy Battaglia su Valori.it il 15.04.2020. «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale. Ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto», ha dichiarato Massimo Galli, direttore dell’Istituto di Scienze Biomediche all’ospedale Sacco di Milano, lo scorso 8 aprile ad Agorà Rai.

Più di 11 mila morti in Lombardia per coronavirus. L’intervento del primario di uno degli ospedali pubblici d’eccellenza, in prima linea dall’inizio dell’emergenza sanitaria da Covid-19, ratifica, a un mese dal lockdown istituito dal governo Conte, il crollo del sistema sanitario lombardo. Quello che, secondo la Corte dei Conti e l’Ocse, dovrebbe essere uno dei più efficienti in Italia e in Europa. E che invece oggi conta i morti: oltre 11mila persone. Compresi 100 tra medici e infermieri.

Le colpe della privatizzazione. La testimonianza del professor Galli, dall’interno del sistema ospedaliero pubblico, combacia con quanto denunciato da tempo da Vittorio Agnoletto, storico medico del lavoro, impegnato sul territorio, oggi docente di Globalizzazione e politiche della salute all’Università degli Studi di Milano. Nella sua analisi, si spinge oltre: «Le cause principali, che ci hanno impedito di reggere all’onda d’urto del coronavirus – spiega Vittorio Agnoletto – vanno ricercate proprio nell’abbandono dell’assistenza territoriale e nella privatizzazione della sanità lombarda». «Ci siamo ritrovati senza posti letto in terapia intensiva, ma anche senza dispositivi di protezione negli ambulatori. Con il 10% del personale sanitario infetto, un dato sconcertante per un paese occidentale. Senza alcun supporto ai medici di famiglia: proprio coloro che, invece, avrebbero potuto frenare la pressione su ospedali e pronto soccorso. E che ora stanno vivendo nel caos».

Il 40% della spesa sanitaria lombarda finisce a strutture private. Agnoletto ribadisce a Valori che «la sanità pubblica è stata tagliata, indebolita e smantellata. Ora deve essere rifinanziata e tornare a produrre salute. Non profitto per pochi, come è successo in Lombardia, dove il 40% della spesa sanitaria corrente è stato destinato a strutture private». A confermarlo, di fatto, è la delibera regionale XI/2906 dell’8 marzo scorso, che ha riorganizzato l’intera accoglienza sanitaria a fronte dell’emergenza coronavirus. Delibera che ha individuato come “Hub Ospedalieri”, per i pazienti Covid-19, quasi unicamente strutture pubbliche, anche per le terapie acute indifferibili. Sospendendo, invece, quasi tutte le cure ambulatoriali nel privato accreditato, chiamato anch’esso a contribuire all’emergenza. Tutto ciò è avvenuto, gradatamente, solo dal 12 marzo 2020. Lo ha reso noto la stessa Regione Lombardia. Come? Con un annuncio a pagamento, alla vigilia di Pasqua, sui quotidiani lombardi, insieme all’Associazione Italiana per l’Ospedalità Privata, all’Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari e a Confindustria.

Emergenza Covid-19: tutta sulle spalle degli ospedali pubblici. «Ricordiamo che, su 100 ospedali pubblici, il 60-70% ha un pronto soccorso e un reparto per emergenze. Nel privato non si arriva al 30% – ribadisce Agnoletto – In questi anni si è lasciato totalmente alla sanità pubblica l’onere dell’emergenza e al privato il profitto determinato dalla cura dei malati cronici». Percentuali che non corrispondono alla tanto decantata «partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia». Lo dimostrano le elaborazioni dei dati forniti dalla stessa amministrazione, effettuate dalla professoressa Maria Elisa Sartor del Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano, secondo cui «la supposta parità fra erogatore pubblico e privato», alla resa dei conti, non si è dimostrata tale. Proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno. «Al 29 febbraio 2020 in Lombardia le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza coronavirus sono tutte pubbliche – scrive la professoressa Sartor – Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo (LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo (PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS), Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale Carlo Poma (MN)». «L’informazione circa la “natura pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e nella cura dei contagiati dal coronavirus è, quindi, la prima notizia rilevante su cui soffermarsi – precisa la professoressa – La seconda notizia è l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia, e nel periodo considerato, di un ruolo rilevante della sanità privata».

Oneri al pubblico, guadagni al privato. La fotografia scattata dalla professoressa Sartor ci dice che, prima dello scoppio dell’emergenza coronavirus, in tutte le province, tra le strutture di ricovero ordinario, quelle private superavano il 50%, anche quelle maggiormente colpite dal Covid-19, come Milano, Bergamo e Brescia. Suddivisione tra sanità pubblica e privata delle strutture in Lombardia, anno 2017. Elaborazione su su flussi informativi Regione Lombardia a cura di Maria Elisa Sartor, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano. Pubblicato da Centro Sereno Regis, Torino. Nel 2017 solo il valore dei ricoveri nelle cliniche del privato accreditato era arrivato a quasi a un miliardo di euro, 974 milioni, ben il 45,5% a fronte di 1 miliardo e 169 milioni di euro del pubblico. I dati sono stati ricavati da un’accurata analisi dei flussi informativi pubblici – come ha confermato Maria Elisa Sartor a Valori – resasi necessaria, in quanto bilanci e informazioni sul sistema socio-sanitario della Lombardia non sono, a tutt’oggi, così facilmente accessibili e trasparenti. Suddivisione e valorizzazione tra sanità pubblica e privata dei soli ricoveri ordinari e Day Hospital in Lombardia, anno 2017. Elaborazione Maria Elisa Sartor, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano, pubblicato da Centro Sereno Regis, Torino.

L’efficienza economica non può misurare la qualità di un sistema sanitario. L’Italia, sia secondo i dati OCSE che Bloomberg, nonostante i tagli draconiani che l’hanno portata ad avere una delle spese sanitarie più basse d’Europa,  è rimasta in testa nelle classifiche internazionali, fino al 2019. Ma si allontana, sempre più, dal ricoscimento ottenuto nel 2000, da parte dell’OMS, come una delle nazioni con la sanità tra le migliori al mondo. «Riconoscimento ottenuto per qualità di cure, strutture e presenza di personale sanitario, ottenuti con la riforma del 1978», ricorda Agnoletto. «Mancano medici specializzati e di famiglia, infermieri. Manca il turnover generazionale», aveva già sottolineato a Valori Nerina Dirindin. La Fimmg (Federazione italiana medici di famiglia) ha calcolato, infatti, che nei prossimi 5 anni andranno in pensione più di 14mila medici di famiglia. Mancano, anche e soprattutto, medici specialisti, almeno 16.500, a causa dell’imbuto formativo, con insufficienti borse di studio, sia per per la medicina generale, che per le specialità. Tra quelle che che si troveranno maggiormente sguarnite, secondo lo studio di Anaoo-Assomed, oltre pediatria, anestesia e rianimazione, medicina d’urgenza. Scenario che spiega come in piena crisi, proprio in Lombardia siano dovuti arrivare medici specializzati da Cuba, per esempio.

La metà degli italiani over 65 anni soffre di patologie croniche. E i risultati dello smantellamento della sanità pubblica, intanto, cominciano a farsi vedere. «Proprio i dati OCSE ci mostrano come la qualità della salute tra la popolazione italiana stia crollando. Più della metà degli italiani, dopo i 65 anni, non ha più una vita sana, lamentando una o più patologie croniche». Quelle su cui si riversano le attenzioni della sanità privata in Lombardia. Conclude Agnoletto: «Oltre tre milioni di cittadini, secondo il disegno della giunta regionale, non dovrebbero più sottostare alle cure dei medici di base. ma ai cosiddetti “gestori” che, nella stragrande maggioranza, sono strutture private, sorrette da fondi finanziari internazionali».

Non solo in Italia: la sanità in Europa paga le politiche di austerità. Intanto, tutta l’Europa si ritrova a combattere la più grande pandemia del secolo e a non poter far altro, per ammissione di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che applicare le misure di distanziamento sociale, isolare gli anziani, mentre si lavora al vaccino. Una situazione che evidenzia, ancora una volta, come le politiche di rigore, applicate anche con i tagli alla spesa pubblica destinati alla sanità, si siano rivelati un tragico boomerang. A denunciarlo, in Francia, oltre al sindacato dei medici internisti, è stato anche il presidente della federazione sanità privata, Lamine Gharbi, che ha ammesso: «Oggi stiamo pagando le conseguenze della politica di austerità». Proprio per questo restano fondamentali le scelte operate all’interno di ogni Paese e, nel caso italiano, dalle singole regioni.

"La quarantena non è malattia". Ecco cosa stabilisce l'Inps. Il lavoratore avrà diritto alla copertura Inps solo in casi come una malattia conclamata. In altre situazioni, decise dalle autorità amministrative, addio tutela. Michele Di Lollo, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. "La quarantena non è malattia", a parlare è l’Inps. Una stretta che segna un limite rispetto a quanto stabilito dal decreto Cura Italia (varato dal governo nei mesi di lockdown) che invece equiparava proprio la quarantena alla malattia. I cittadini sono avvisati. In caso di isolamento domiciliare, dunque, è bene ricordare questa norma. Già, perché in caso di nuovi lockdown per emergenza Covid che impediscano alle persone di svolgere la propria attività, l’isolamento domiciliare non sarà automaticamente equiparato allo status di malattia. L’Inps è chiaro quando spiega che "in tutti i casi di ordinanze o provvedimenti di autorità amministrative che di fatto impediscano alle persone di svolgere la propria attività lavorativa non si procederà con il riconoscimento della tutela della quarantena con la malattia". Un esempio lampante potrebbe essere quello di un lavoratore che viene a contatto con soggetti positivi al coronavirus. In questo caso è l’autorità sanitaria a decidere tramite un provvedimento la quarantena del soggetto che, dunque, si vede riconosciuta regolarmente la tutela della malattia durante quarantena. Quando invece è un comune o una regione a decretare la quarantena, non si ha diritto al trattamento. Quindi se è un’autorità sanitaria a prevederlo si ha diritto alla copertura, altrimenti no. Per quanto riguarda i lavoratori fragili, scrive il Corriere della Sera, la quarantena non configura un’incapacità temporanea al lavoro. Non è dunque possibile ricorrere alla tutela previdenziale nei casi in cui il lavoratore sia bloccato in casa. Sono i casi in cui il soggetto continui a svolgere, sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro, l’attività lavorativa presso il proprio domicilio, nei modi alternativi alla presenza in ufficio già previsti. Il cosiddetto smart working. In caso di malattia conclamata, con il lavoratore temporaneamente incapace al lavoro, spiega ancora l’Inps, viene assicurato invece "il diritto ad accedere alla corrispondente prestazione previdenziale". Può accadere che il lavoratore si trovi fuori dai confini italiani. Trovarsi in quarantena all’estero non può essere un problema previdenziale dell’Inps. L’Istituto infatti ha precisato che una quarantena fuori dall’Italia e per richiesta del Paese di destinazione esclude l’accesso alla tutela per malattia. Infine, un altro caso su cui l’Inps si esprime chiaramente. Il lavoratore che è in cassa integrazione non può chiedere la tutela della malattia anche se dovesse essere ricoverato in ospedale. L’Inps spiega questo ricordando che c’è una prevalenza del trattamento di integrazione salariale sull’indennità di malattia. Ecco, nel particolare, le situazioni in cui il lavoratore non è coperto dall’Istituto di previdenza. Non c’è Covid che tenga. Quando la persona occupata è in quarantena può accedere alla copertura della malattia solo in determinati casi (quelli stabiliti da medici o Asl per esempio). Per tutti gli altri lo Stato fa spallucce.

Coronavirus: rallentare il virus estendendo le misure di contenimento. Daniele Banfi l'8 marzo 2020. Ridurre i contagi per evitare il collasso degli ospedali. Le misure di contenimento nelle diverse aree del paese. Con oltre 5.000 casi totali  di positività al coronavirus (dato 7 marzo), il nostro Paese è al terzo posto per numero di contagi dopo Cina e Corea del Sud. L'imperativo rimane il contenimento e la mitigazione del virus possibile solo attraverso le misure restrittive messe in atto. Nella notte fra il 7 e l'8 marzo il Governo ha emanato un decreto contenente ulteriori misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull'intero territorio nazionale.

PERCHE' E' IMPORTANTE FRENARE IL CORONAVIRUS. Togliamocelo dalla testa: l'attenzione all'epidemia di coronavirus non è dovuta alla sua letalità quanto alla capacità di far «saltare» il nostro sistema sanitario. La spiegazione è nelle parole di Massimo Galli, primario infettivologo dell'Ospedale Sacco di Milano, in un'intervista rilasciata a Corriere della Sera: «In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia. Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento». Alle 18 di ieri infatti, dei 2052 casi confermati, circa l'8% è in terapia intensiva e il 36% è ricoverato con sintomi. Anche se il rischio di contrarre la malattia nella popolazione, soprattutto al di fuori dei focolai, rimane basso, la diffusione del virus va rallentata per evitare che questo rischio aumenti con il conseguente collasso degli ospedali. Più persone si ammalano - e nella maggior parte dei casi il decorso è benigno - e più individui necessiteranno di ricovero.

COME POSSIAMO FARLO? Ad oggi l'unica strategia per rallentare e «spalmare» i contagi in modo da evitare che si verifichino troppi casi in poco tempo (questo il problema principale dell'emergenza coronavirus) sono le misure restrittive che tutti possono mettere in atto. Diagnosi precoce ed isolamento sono le armi a nostra disposizione per isolare i focolai e rallentare la corsa del virus. Come spiega Giuliano Rizzardini, infettivologo del Sacco in prima linea in questi giorni nel coordinamento dell'emergenza in Lombardia, «bisogna fermare la corsa del virus. Sappiamo di chiedere sacrifici alla popolazione. Ma siamo anche consapevoli che solo se ciascun cittadino farà la propria parte riusciremo a bloccare i contagi. Le istituzioni cercano di fare al meglio la loro parte. Ma molto dipende anche da ciascuno di noi. I contatti sociali vanno limitati. Ciò vuol dire che chi può è meglio che lavori da casa, i bar non devono essere affollati. Non solo: chi ha tosse, raffreddore e sintomi compatibili con il coronavirus è meglio che stia a casa per qualche giorno».

NON ABBASSARE LA GUARDIA AL CALO DEI CONTAGI. Misure restrittive che secondo il comitato scientifico voluto dal Governo a supporto del Ministero della Salute dovrebbero essere estese a tutto il territorio nazionale e non solo alle aree di focolaio. «Il rischio - spiega Nino Cartabellotta, presidente GIMBE, Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze - è di vedere in tutte le altre regioni quello che abbiamo visto in Lombardia o Veneto, magari non con quella intensità, ma il virus sta circolando, quindi le misure di contenimento, quanto meno quelle previste per la “zona gialla” vanno estese a tutto il Paese: no agli eventi di massa, chiusura scuole, telelavoro, ridurre contatti sociali, evitare assembramenti, distanziamento sociale». Prima di 14 giorni dall'inizio delle misure restrittive sarà difficile vedere un calo dei contagi. Su questo il professor Pierluigi Lopalco, professore di Igiene all'Università di Pisa, ha le idee chiare: «Gridare oggi vittoria al primo segnale di calo dei casi nel Nordest è una stupidaggine. Il picco epidemico è quella parte della curva dopo la quale inizia la diminuzione dei contagi. Questo ovviamente avviene se di focolaio epidemico ce n'è uno solo. Se infatti dal primo focolaio se ne sono sviluppati altri, con un intervallo variabile si svilupperanno altre curve epidemiche. Tante curve epidemiche una accanto all'altra maschereranno il picco del primo focolaio e sarà difficile osservare un calo nel numero dei casi. Morale della favola: non aspettiamo il picco del primo focolaio come un segnale che le cose vadano bene. Bisogna evitare che si accendano altri focolai». E le misure restrittive vanno in questa direzione.

Coronavirus: ergastolo per chi diffonde l’epidemia. Mariano Acquaviva l'8 Marzo 2020 su la Legge per tutti. Reato di epidemia: cos’è e in cosa consiste? La diffusione volontaria del contagio da Coronavirus è reato? Cosa rischia chi non rispetta la quarantena? Il Coronavirus (o, con terminologia più corretta, il SARS-CoV-2) ha obbligato tutti gli Italiani a ripensare alle proprie abitudini di vita: meno contatti personali, meno frequentazioni, uscite solo per motivi validi di lavoro o per emergenze. Lo Stato chiude le scuole e isola le città che rappresentano i focolai dell’epidemia. Devi sapere che il codice penale italiano, sebbene risalente al 1930, aveva in qualche modo già previsto tutto ciò, predisponendo pene severissime per tutti coloro favoriscono il propagarsi della malattia. Se sfogli il codice penale scoprirai che la legge prevede l’ergastolo per chi diffonde un’epidemia. Hai capito bene: chi con la propria condotta agevola la diffusione del Coronavirus potrebbe andare incontro alla massima pena. Su questo reato, però, bisogna intendersi. Quando la diffusione del Covid-19 è punita con l’ergastolo? Chi viola il divieto di allontanamento dalle zone rosse rischia davvero il carcere a vita? Vediamo cosa dice la legge.

Epidemia: quando è reato? Il codice penale afferma che chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo. Letta così, la norma sembrerebbe punire con il massimo della pena anche colui che, consapevole di avere il Coronavirus, se ne vada in giro per locali rischiando di contagiare seriamente le altre persone. È proprio così? Per rispondere a questa domanda dobbiamo comprendere quando la diffusione di un’epidemia costituisce reato.

Quando la diffusione di un’epidemia è reato? Per comprendere se chi diffonde il Coronavirus rischia l’ergastolo dobbiamo spiegare per bene la condotta punita dal codice penale. Innanzitutto, per epidemia si intende una malattia infettiva e contagiosa, straordinariamente aggressiva, in grado di colpire l’uomo, caratterizzata da un’elevata capacità di diffusione (in pratica, tutte le caratteristiche del Coronavirus). Per germi patogeni si intendono, indifferentemente, virus o batteri, cioè quei microrganismi responsabili dell’insorgenza di una patologia. Affinché la diffusione di germi patogeni possa costituire reato occorre che l’epidemia sia volontariamente provocata: in altre parole, occorre che vi sia la precisa volontà di diffondere virus e/o batteri per favorirne l’insorgenza. Solamente al ricorrere di questi presupposti la legge punisce con l’ergastolo chi ha provocato un’epidemia. È appena il caso di precisare, peraltro, che affinché scatti il reato non occorre che vi siano vittime: in altre parole, rischia l’ergastolo anche colui che ha diffuso un’epidemia che non ha fatto morti.

Covid-19: la diffusione del virus è reato? Siamo pronti ora a dare una risposta al seguente quesito: c’è l’ergastolo per chi favorisce il propagarsi dell’epidemia di Coronavirus? In teoria sì, se c’è la precisa volontà di contagiare le altre persone e di aiutare il diffondersi della patologia. Facciamo alcuni esempi che ci aiutano a capire questa particolare situazione.

Coronavirus, in Lombardia oltre 700 in terapia intensiva. Gallera: «Vicini a punto di non ritorno». Polemiche sulle mascherine: «Sono stracci». Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. L’orizzonte ancora non si vede. I numeri continuano a crescere e in Lombardia l’emergenza per i posti di Terapia intensiva sembra non avere fine. Sabato è stato il giorno più difficile di queste tre settimane di battaglia al coronavirus. I pazienti ricoverati in rianimazione nelle ultime 24 ore sono stati 85 in più. Un carico quasi doppio rispetto ai 40-45 nuovi casi registrati nell’ultima settimane. Un segnale che allarma ancora di più la sanità lombarda, ormai allo stremo da giorni: «Stiamo facendo dei veri miracoli», ha detto il governatore Attilio Fontana. Non solo perché nonostante tutto il sistema lombardo riesce a tenere di fronte a ogni nuova ondata, ma anche perché negli ospedali, tra pubblico e privato, si è riusciti a recuperare in venti giorno 376 nuovi posti di terapia intensiva. A metà febbraio, prima della scoperta del focolaio a Codogno, in Lombardia c’erano 724 letti di rianimazione. Tutti dedicati a ictus, infarti, incidenti stradali, terapie post operatorie. Oggi l’emergenza ha portato il numero a 1.100 (+10 nelle ultime 24 ore), 890 dei quali dedicati solo a malati Covid-19. Uno sforzo «incredibile», sottolinea Fontana: si utilizzano i corridoi, le sale operatorie, le camere di risveglio. Qualsiasi soluzione sia utile per ricavare anche un solo posto letto in più. L’assessore al Welfare Giulio Gallera (che ha criticato la Protezione civile per le mascherine inviate per gli operatori sanitari lombardi, definite «panni per pulire per terra, meno solide della carta igienica») ha detto che «sono almeno 7 giorni» che arriviamo a fine serata con «15-20 letti liberi. Tra poco arriviamo a un punto di non ritorno». Che la situazione sia critica lo dicono i numeri: i ricoverati in terapia intensiva in Lombardia sono 732, dieci giorni fa erano 244. Il dato dei positivi non cala - 11.690 (+1.870), 966 le vittime(+ 76) - per questo la preoccupazione è fortissima. A questo ritmo, senza nuove strutture la saturazione è vicina. Dall’inizio dell’epidemia sono stati trattati in terapia intensiva 1.064 malati: 149 sono stati dimessi, altri 145 però non ce l’hanno fatta. A dare un sospiro di sollievo dal San Raffaele arriveranno presto 14 nuovi posti di rianimazione in una tensostruttura che il gruppo San Donato ha realizzato con le donazioni private. Quasi 4 milioni raccolti da 191 donatori (da 92 Paesi) nella campagna lanciata da Chiara Ferragni e Fedez. Tra le aree più critiche resta la Bergamasca (80 posti di rianimazione) ma è difficile trovare un ospedale fuori emergenza. Si naviga a vista, anche grazie ai trasferimenti di pazienti (92) dagli ospedali più congestionati a quelli meno «caldi» e alle Rsa, ormai trasformate in buona parte in centri Covid-19. La crisi è legata a due fattori: le apparecchiature tecniche e il personale. La Regione ha chiesto alla Protezione civile la fornitura di respiratori da destinare all’ospedale da 500 posti che si vorrebbe allestire in Fiera: «Noi abbiamo messo la sede, nessuno è in grado di fornirci né medici né ventilatori», chiosa Fontana. Sul fronte del personale sono 1.600 i sanitari che hanno risposto all’appello della Regione. Ne sono già stati valutati 692: 68 medici specialisti, 137 specializzandi, 74 appena laureati (che saranno abilitati d’ufficio) e 323 infermieri. «Molti però rinunciano - spiegano dalla Regione -, così si creano ulteriori ritardi». I numeri restano insufficienti per fronteggiare l’emergenza. Per questo si è deciso di aprire personale straniero da Venezuela, Cuba e Cina: «Saranno superati problemi di equipollenza e abilitazioni, potranno lavorare da subito».

Coronavirus, a che punto è la «battaglia di Milano»: «Ci sono evidenti avvisaglie di focolai». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. È la linea del Piave. La frontiera da difendere per evitare il collasso del Paese. Nell’emergenza coronavirus adesso è il momento della battaglia delle battaglie. Perché se cade Milano non crolla solo il sistema sanitario lombardo ma quello dell’intera nazione. È al capoluogo lombardo che ora guardano, con estrema preoccupazione, virologi ed epidemiologi di tutto il mondo. Il motivo è chiaro e dipende dalle ripercussioni che il Sars-Cov-2 potrebbe avere su una popolazione di 1,3 milioni di abitanti e che nell’intera provincia di Milano arriva a 3,2 milioni. Per questo si aspettano con ansia i primi segnali che dimostrino che davvero le ultime misure varate dal Governo siano efficaci per bloccare il fronte dei contagi. Su questo, come spiegato anche dal governatore lombardo Attilio Fontana, c’è un «cauto ottimismo» perché è innegabile che nelle ultime due settimane ci sia stato un cambio di passo enorme nelle presenze e nella vita sociale di Milano e di tutta la Lombardia. Ma anche misure così severe, che solo tre settimane fa quando venne introdotta la zona rossa a Codogno apparivano impensabili sul resto della regione, potrebbero non essere sufficienti a evitare una catastrofe sanitaria. Ne è convinto anche il sindaco Beppe Sala che da giorni osserva preoccupato i dati sulla città: «Sono in linea con i giorni precedenti, il virus non sta sfondando. È fondamentale, perché se lo facesse il sistema sanitario sarebbe messo veramente in crisi». Se oggi tutti guardano alla «battaglia di Milano», c’è chi fin dalle prime ore di questa emergenza si è preoccupato delle possibili ripercussioni sul capoluogo lombardo dell’emergenza. Come il virologo Massimo Galli, responsabile del dipartimento di Malattie infettive dell’ospedale Sacco: «È fondamentale contenere il numero dei contagi nell’area metropolitana. Difficile dire quanti siano i positivi al virus non conteggiati nelle statistiche, bisognerebbe fare analisi epidemiologiche per capire quali contatti ci siano stati e isolarli in tempo. Nell’area metropolitana milanese le avvisaglie di focolai di infezione qua e là sono sempre più evidenti. È inutile illuderci: dovremo cercare di contenere il problema a Milano e di essere molto preparati a combattere questa battaglia con più efficienza, organizzazione e dotazioni di protezione per i medici senza mandarli allo sbaraglio. Raggiungere la casa delle persone, dare assistenza non fisicamente ma almeno con un contatto. La battaglia si vince sui territori. Tamponi a tutti? Potrebbe non essere sostenibile». I numeri con cui Milano si appresta ad affrontare la sfida più grande di questa emergenza sono ancora bassi. Gli ultimi dati, riferiti a lunedì 16 marzo, parlano di 1.983 casi in provincia e di 813 in città: «Gli ospedali registrano un afflusso in leggerissima crescita ma costante e per ora assolutamente gestibile», spiega preoccupato l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera. Ma i medici sostengono, a ragione, che la presenza del virus sia fortemente sottostimata. I «positivi sommersi», prendendo per buone le statistiche generali del comportamento dell’epidemia da Covid-19, potrebbero essere 40-50 mila solo nel capoluogo. La ragione è semplice: in Lombardia da ormai due settimane non si sottopongono a tampone tutte le persone «entrate potenzialmente in contatto» con il virus, ma soltanto i casi gravi e di pazienti che devono essere ospedalizzati. Ciò nonostante il dato lombardo è orma arrivato a 14.649 positivi, 6.171 ricoverati e 823 malati in terapia intensiva. Quindi l’indicatore dei positivi, benché per forte difetto, resta un parametro per monitorare l’evoluzione più grave dell’epidemia. Il resto dei «presunti» infettati è in cura a domicilio anche se ha sintomi da Covid-19 in fase non acuta. «Tuttavia è fondamentale che vengano rispettate in maniera molto rigida le norme basilari dell’isolamento, anche rispetto ai familiari. Perché chi teme di avere il virus e ha sintomi compatibili, come febbre, tosse e affaticamenti polmonari, deve comportarsi come se fosse risultato positivo al tampone anche se non è stato sottoposto al test». Solo in questo modo è possibile arginare il contagio in un contesto molto urbanizzato come Milano. Le statistiche di queste settimane parlano di una «crescita costante» dei positivi in città. È un segnale positivo? Sì e no. Perché è vero che non siamo in presenza di una crescita esponenziale, e questo è indubbiamente un grosso bene. Ma anche aree come la Bergamasca e il Bresciano, in particolare, hanno avuto andamenti simili nelle prime settimane di epidemia. Poi sono esplose rapidamente arrivando a oltre 3.800 e 2.900 casi in pochi giorni. L’emergenza sui posti letto e sulle rianimazioni per il momento riguarda soprattutto malati che arrivano da quelle due zone e da Cremonese e Lodigiano. Quindi è impossibile che Milano abbia raggiunto il suo picco, le ripercussioni sugli ospedali sarebbero già evidenti. Dall’altro lato non esistono basi scientifiche che facciano ipotizzare che Milano e la sua provincia possano essere considerate isole felici rispetto all’epidemia. Analizzando i numeri però emerge un trend preoccupante: il 4 marzo, quando la Lombardia già contava 2.194 positivi e 73 morti, Milano e provincia erano fermi a 147 casi. Due giorni dopo erano già diventati 267. Il 10 marzo la quota di Milano aveva sfondato i 500 casi (592) per raddoppiare due giorni dopo. Il 12 marzo, infatti, i positivi milanesi erano già 1.146. Domenica 15 marzo i numeri parlano di 1.750 positivi (+ 199 rispetto a sabato) e 711 sulla città (+79). L’aggiornamento di oggi sfiora quota 2 mila: 1.983 (+ 233) in provincia e 813 in città (+ 102) . Quattro volte più di sei giorni fa.

La grande paura del Sud: il contagio cresce troppo in fretta, non possiamo reggerlo. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Il governatore pugliese Michele Emiliano la chiama la Grande Onda e il Sud la aspetta a breve, come uno tsunami dopo un terremoto. Il sisma è partito dalla Lombardia la notte del 7 marzo, quando la decisione di chiudere la Regione ha scatenato una fuga di una massa di emigranti di ritorno, stimata in almeno 100 mila persone. Una marea arrivata a destinazione ma i cui effetti, attesi a giorni, potrebbero mettere in ginocchio il Meridione d’Italia, già afflitto da una malattia cronica, la mala sanità, che la rende più fragile di fronte a un’eventuale impennata della malattia. I governatori stanno provando a erigere un cordone sanitario contro «la bestia infame», come la chiama Emiliano. Ben sapendo che si tratta di un muro poroso, con troppi varchi possibili. Le regioni del Centro e del Sud più colpite sono le Marche, con 1.133 contagiati e 98 persone in terapia intensiva. E la Puglia, soprattutto per la progressione: in un giorno l’aumento dei contagi è stato del 38 per cento e il numero dei decessi è raddoppiato, da 8 a 16. Nel Lazio il maggior numero di contagiati del Centro-Sud: sono 396. Lopalco, il virologo nominato da Emiliano a capo del coordinamento regionale, spiega: «Tra Nord e Sud c’è un intervallo di una manciata di giorni. Noi speriamo che l’ondata arrivi qui quando al Nord si è già allentata la morsa. Se si liberano risorse al Nord, possono essere spostate al Sud». Ma c’è un problema: dall’8 marzo si sono autodenunciati, e sono finiti in quarantena, 20 mila pugliesi rientrati a casa. Emiliano stima che siano almeno 30 mila i rientri reali: «Siamo in grado di gestire fino a 2.000 contagi e 200 persone in rianimazione. Teniamo solo fino a lì». Tutti i governatori si stanno attrezzando con l’aumento dei posti letto. Ma mancano i macchinari, annunciati da Roma con tempi biblici di 45 giorni. Il presidente siciliano Nello Musumeci ha individuato 200 posti in terapia intensiva. Ma in Sicilia sono tornate dal Nord 31 mila persone, che si sono autodenunciate. In Calabria va ancora peggio. Una delle peggiori sanità d’Italia non è in grado di resistere a un impatto forte. Come confessa la neogovernatrice Jole Santelli: «Abbiamo cento posti in terapia intensiva. Non so fare previsioni sulle nostre capacità di reggere». Vincenzo De Luca, l’energico governatore campano, dopo aver spiegato che purtroppo non si possono usare i metodi «terapeutici» cinesi, ovvero «le fucilazioni» per chi trasgredisce, ha messo in quarantena la popolazione di Ariano Irpino e mandato l’esercito sul lungomare. Anche Santelli e Musumeci invocano l’aiuto dell’esercito, mentre Emiliano frena: «Se a epidemia e restrizione delle libertà ci aggiungiamo l’esercito, si evocano brutte cose». A San Severino Marche si prova a resistere con la preghiera: alle 17, i megafoni recitano il rosario. Il sindaco di Benevento Clemente Mastella, più laicamente, ha predisposto l’assistenza gratuita di psicologi. Duecento tra medici e infermieri siciliani denunciano: «Il giuramento non prevede l’essere immolati sull’altare della spending review». In Puglia ci sono 15 mila addetti alla sanità in meno rispetto all’Emilia-Romagna, che ha lo stesso numero di abitanti. Lopalco sintetizza: «È come se noi giocassimo in 6 e gli altri in 11. E non basta un uomo solo al comando. Mi faceva ridere quando chiamavano Cottarelli, pur bravissimo, per tutte le emergenze. A fare la differenza non è una persona, ma il sistema complessivo».

Crescono i contagi, il sud ha paura: trincea contro gli esodi di massa. Musumeci: «Serve l’esercito». Martino Della Costa domenica 15 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia.  «Ho chiesto l’esercito. Non ci sono alternative». Il governatore siciliano Nello Musumeci è arrivato a un momento di snodo. Il sud, che nelle previsioni di virologi e politici, potrebbe registrare a partire dai prossimi giorni un aumento considerevole di contagi. Per contrastare gli arrivi dal Nord Italia nell’isola il numero uno della regione ha chiesto «l’intervento dell’Esercito», come unica soluzione possibile ai flussi dal nord del Paese. Musumeci lo ha annunciato a Mezz’ora in più su Rai3. Quindi ha aggiunto: «I prefetti sono stati avvertiti. Si tratta di destinare una parte dei soldati che già sono su strada ai controlli nei punti di arrivo in Sicilia. Se mettiamo questi posti di controllo con la possibilità dei soldati di essere agenti di ps, questo sarebbe un deterrente». Studi epidemiologi e report su spostamenti e viaggi degli italiani, danno già per concreto il rischio di una espansione dei contagi nel meridione. E l’esercito è pronto a intervenire, scrive tra gli altri Il Giornale in queste ore, «con circa 7000 uomini in più, in stato di prontezza», su tutto il territorio a livello regionale». Dunque non solo in Sicilia. Del resto, solo ieri il sindaco di Trani, Amedeo Bottaro, in una accorata diretta Facebook in cui si è definito «disperato» per quanto sta accadendo anche nella città pugliese da lui amministrata, ha formalizzato la richiesta online: «I cittadini non restano a casa». E sempre ieri, anche il governatore della Campania De Luca, ribadendo l’impennata di infezioni a colpi di 40 contagi al giorno, si è espresso duramente contro quelli che ha definito gli «esodi irresponsabili». In Sardegna, infine, solo per delineare un rapido quadro della situazione al sud, si sa che sono almeno 13.300 le persone rientrate sull’isola dal nord. Comportamenti deprecabili che, da un lato non aiutano a contenere l’epidemia. Dall’altro creano problemi di ordine pubblico. E in queste ore più che mai, l’unica possibilità individuata dagli amministratori locali delle varie regioni, è quella dell’invio dei militari a sostegno dell’azione delle forze dell’ordine. Secondo, secondo l’ipotesi del governo, il virus potrebbe contagiare fino a 92.000 persone. Tanto che il premier Conte, già il 9 marzo, nel corso di una riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza ha delineato «una situazione estremamente grave per quanto riguarda l’ordine pubblico». E, a stretto giro, il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha descritto uno scenario all’orizzonte fatto di «limitazioni alle libertà individuali. Difficoltà economiche. Sviluppi negativi dell’epidemia, come il collasso del sistema di assistenza». Soprattutto per quanto riguarda il meridione, dove si prevede un aumento significativo del numero dei contagiati.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Il governatore pugliese Michele Emiliano la chiama la «Grande onda» e il Sud la aspetta a breve, come uno tsunami dopo un terremoto. Il sisma è partito dalla Lombardia la notte del 7 marzo, quando la decisione di chiudere la Regione ha scatenato una fuga di una massa di emigranti di ritorno, stimata in almeno 100 mila persone. Una marea arrivata a destinazione ma i cui effetti, attesi a giorni, potrebbero mettere in ginocchio il Meridione d'Italia, già afflitto da una malattia cronica, la mala sanità, che la rende più fragile di fronte a un' eventuale impennata della malattia. I governatori stanno provando a erigere un cordone sanitario contro «la bestia infame», come la chiama Emiliano. Ben sapendo che si tratta di un muro poroso, con troppi varchi possibili. Le regioni del Centro e del Sud più colpite sono le Marche, con 1.133 contagiati e 98 persone in terapia intensiva. E la Puglia, soprattutto per la progressione: in un giorno l' aumento dei contagi è stato del 38% e il numero dei decessi è raddoppiato, da 8 a 16. Nel Lazio il maggior numero di contagiati del Centro-Sud: sono 396. Lopalco, il virologo nominato da Emiliano a capo del coordinamento regionale, spiega: «Tra Nord e Sud c' è un intervallo di una manciata di giorni. Noi speriamo che l' ondata arrivi qui quando al Nord si è già allentata la morsa. Se si liberano risorse al Nord, possono essere spostate al Sud». Ma c' è un problema: dall' 8 marzo si sono autodenunciati, e sono finiti in quarantena, 20 mila pugliesi rientrati a casa. Emiliano stima che siano almeno 30 mila i rientri reali: «Siamo in grado di gestire fino a 2.000 contagi e 200 persone in rianimazione. Teniamo solo fino a lì». Tutti i governatori si stanno attrezzando con l' aumento dei posti letto. Ma mancano i macchinari, annunciati da Roma con tempi biblici di 45 giorni. Il presidente siciliano Nello Musumeci ha individuato 200 posti in terapia intensiva. Ma in Sicilia sono tornate dal Nord 31 mila persone, che si sono autodenunciate. In Calabria va ancora peggio. Una delle peggiori sanità d' Italia non è in grado di resistere a un impatto forte. Come confessa la neogovernatrice Jole Santelli: «Abbiamo 100 posti in terapia intensiva. Non so fare previsioni sulle nostre capacità di reggere». Vincenzo De Luca, l' energico governatore campano, dopo aver spiegato che purtroppo non si possono usare i metodi «terapeutici» cinesi, ovvero «le fucilazioni» per chi trasgredisce, ha messo in quarantena la popolazione di Ariano Irpino e mandato l' esercito sul lungomare. Anche Santelli e Musumeci invocano l' aiuto dell' esercito, mentre Emiliano frena: «Se a epidemia e restrizione delle libertà ci aggiungiamo l' esercito, si evocano brutte cose». A San Severino Marche si prova a resistere con la preghiera: alle 17, i megafoni recitano il rosario. Il sindaco di Benevento Clemente Mastella, più laicamente, ha predisposto l' assistenza gratuita di psicologi. Duecento tra medici e infermieri siciliani denunciano: «Il giuramento non prevede l' essere immolati sull' altare della spending review ». In Puglia ci sono 15 mila addetti alla sanità in meno rispetto all' Emilia-Romagna, che ha lo stesso numero di abitanti. Lopalco sintetizza: «È come se noi giocassimo in 6 e gli altri in 11. E non basta un uomo solo al comando. Mi faceva ridere quando chiamavano Cottarelli, pur bravissimo, per tutte le emergenze. A fare la differenza non è una persona, ma il sistema complessivo».

Coronavirus, il governatore Musumeci: “Serve l’esercito in Sicilia”. Beatrice Carvisiglia il 15/03/2020 su Notizie.it. Il governatore della Sicilia Musumeci sull'emergenza coronavirus: "Destiniamo parte dei soldati ai controlli dei punti d'arrivo in Sicilia". Il governatore della Sicilia Nello Musumeci chiede l’intervento dell’esercito per fronteggiare l’emergenza coronavirus, come già richiesto dal suo omologo campano Vincenzo De Luca. Nella fattispecie, il governatore si riferisce al pericolo derivante dai numerosi rientri dal Nord. Nella giornata di domenica 15 marzo, Musumeci è intervenuto a Mezz’ora in più su Rai3 e si è detto molto preoccupato dalla situazione. Sono infatti previsti all’incirca 31mila rientri di cittadini siciliani, di provenienza da tutta Italia. “I prefetti sono stati avvertiti “, specifica Musumeci. “Si tratta di destinare una parte dei soldati che già sono su strada ai controlli nei punti di arrivo in Sicilia. Noi siamo preoccupati per le oltre 31 mila persone arrivate in Sicilia in pochi giorni dal Nord Italia. Abbiamo subito fissato un numero verde al quale chiunque rientrava dal Nord doveva autodenunciarsi”. Il governatore della regione Sicilia è già in contatto con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, alla quale ha richiesto un supporto speciale. Musumeci riporta i dati effettivi del contagio nella sua terra: “In Sicilia ci prepariamo al peggio, anche se fino a questo momento la diffusione appare contenuta, con 188 positivi e 71 ricoverati, di cui 15 in terapia intensiva e due decessi. È chiaro che bisogna essere preparati al peggio e abbiamo già preparato reparti da convertire per realizzare 1.000-1.500 posti per ospedalizzazione ordinaria e 200 posti per terapia intensiva“. Musumeci non è preoccupato solo dalla condizione del sistema sanitario, ma anche dai trasporti. Infatti ha rivelato: “Ho chiesto al Ministero dei trasporti di predisporre un’ordinanza che blocchi non solo tutti gli arrivi di notte in Sicilia ma che li limiti anche di giorno”.

Coronavirus, Sicilia isolata: vietati l’ingresso sull’isola e l’uscita delle persone. Regolare il trasporto merci. Firmato il decreto. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. Vietato l’ingresso in Sicilia. E anche l’uscita. Salvo che per comprovate esigenze. A seguito della richiesta pervenuta ieri sera da parte della Regione Siciliana, la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, ha firmato nella notte il decreto che prevede la sospensione dei collegamenti e dei trasporti ordinari delle persone da e per l’Isola per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Lo annuncia il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in una nota, spiegando che è invece regolare il trasporto merci. Le persone potranno viaggiare via mare sullo Stretto solo «per comprovate esigenze di lavoro, salute o necessità». Il decreto, spiega il ministero in una nota, specifica che le persone possono viaggiare su navi adibite al trasporto merci esclusivamente per dimostrate ed improrogabili esigenze, previa autorizzazione del presidente della Regione. E, ancora, sono consentiti gli spostamenti via mare per i passeggeri da Messina per Villa San Giovanni e Reggio Calabria e viceversa, per comprovate esigenze di lavoro, di salute o per situazioni di necessità. Quanto al trasporto aereo delle persone, è assicurato soltanto per improrogabili esigenze di connessione territoriale con la penisola, esclusivamente presso gli aeroporti di Palermo e Catania, mediante due voli andata e ritorno Roma-Catania e due voli andata e ritorno Roma-Palermo, uno meridiano e l’altro antimeridiano, con sospensione di tutti gli altri voli compresi quelli internazionali. Nei giorni scorsi erano stati chiusi gli scali di Trapani e Comiso. Per i collegamenti ferroviari diurni è previsto il mantenimento dei collegamenti minimi essenziali mediante un treno giorno intercity Roma/Palermo e viceversa. Sono soppressi, infine, i servizi automobilistici interregionali. Il governatore Nello Musumeci ha caldeggiato a più riprese questa decisione, invocando una stretta sia nei controlli sia nella possibilità di entrare in Sicilia. In Sicilia l’epidemia ha ancora una diffusione ridotta, il 15 marzo i casi rilevati erano 188, di cui la circa la metà tra Catania e provincia. Tutti i primi casi di contagio riscontrati riguardavano persone venute dal Nord Italia, turisti o siciliani che rientravano da trasferte nel Settentrione. Il rientro in Sicilia di oltre ventimila persone nei giorni scorsi, questo il numero di quanti si sono registrati, fa temere una possibile accelerazione della diffusione. Nel fine settimana, la giunta regionale ha imposto la quarantena a casa per quindici giorni senza contatti con l’esterno per chi torna dal Nord. Negli ultimi giorni è cresciuto il numero dei ricoverati, che hanno superato le settanta unità, quindici in terapia intensiva.

 Gianluca Veneziani per liberoquotidiano.it il 17 marzo 2020. Spirito di unità e solidarietà nazionale? Ma quando mai! Qui siamo di fronte ad italiani che cacciano altri italiani dalle proprie regioni, per salvarsi la pelle e lasciare che quegli altri vadano a infettare altrove. Altro che fratelli d' Italia, semmai fratellastri o fratelli coltelli. La Provincia autonoma di Bolzano ha appena emesso un' ordinanza con cui impone «ai turisti, ospiti, villeggianti e tutte le altre persone presenti sul territorio provinciale che non hanno la propria residenza in Alto Adige, di rientrare alla propria residenza, affinché possano eventualmente beneficiare delle prestazioni dei propri medici di base o pediatri di libera scelta». Tradotto, significa che chi non ha la residenza in Alto Adige deve fare le valigie e smammare e andare a farsi curare eventualmente da un' altra parte. Gli altoatesini duri e puri, nati e cresciuti lì, non vogliono intrusi: parliamo, in realtà, di persone che magari non stanno lì solo in vacanza, ma hanno il domicilio da tempo in Sud Tirolo, lavoratori stagionali, pensionati con seconda casa Ebbene, tutti costoro sono sgraditi alla "tollerante" e "solidale" Provincia di Bolzano. Questa scelta nasce evidentemente dalla volontà di tutelarsi, dalla logica cinica del "meno siamo, meno ci contagiamo". Ma non tiene conto, nel proprio egoismo, che ciò significa mandare in giro per l' Italia persone potenzialmente infette, favorire la mobilità che ora è la migliore alleata del virus. Una scelta sadica, in un' ottica nazionale. Altro è ciò che hanno fatto ad esempio regioni come Valle d' Aosta e Sicilia. La prima ha «vietato l' ingresso nel territorio valdostano» ai non residenti, a chi che in quella regione ha solo il domicilio o una seconda casa: fare questo non significa tutelare solo i valdostani, ma anche le persone che dovrebbero spostarsi per arrivare lì. È un invito coerente con l' idea del "Restiamo a casa".

Sovranismo altoatesino: via i non residenti da Bolzano, poi la retromarcia. Redazione de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Alla fine la Provincia autonoma di Bolzano ha dovuto ritirare l’ordinanza con cui chiedeva l’allontanamento per tutti i non residenti in Alto Adige, invitandoli a tornare presso la residenza di appartenenza per non intasare la sanità locale. Un provvedimento contestato da più parti, perché riguardava non solo (improbabili) turisti, ma anche centinaia di lavoratori stagionali e proprietari di seconde case. I vigili urbani stanno provvedendo a richiamare le persone multate per avvisarli che la sanzione viene ritirata. La resa di Bolzano è arrivata a seguito di vigorose proteste. Nell’intento di contenere l’epidemia da Covid-19, il presidente della Provincia autonoma Kompatscher infatti aveva ordinato «ai turisti, ospiti, villeggianti e tutte le altre persone presenti sul territorio provinciale che non hanno la propria residenza di Alto Adige, di rientrare alla propria residenza affinché possano beneficiare delle prestazioni dei propri medici di base o pediatri di libera scelta». Diktat che ha sollevato la marea del malcontento. Innanzitutto perché in senso opposto al principio del “#iorestoacasa”, tanta gente sarebbe stata costretta a spostarsi verso i luoghi di residenza, in secondo luogo perché in tanti si trovavano sul posto in villeggiatura già prima che scoppiasse l’epidemia, e soprattutto perché, rivolgendosi ai non residenti, la provincia autonoma sembrava intenzionata a cacciare da Bolzano e dintorni lavoratori e famiglie italiane che lì hanno un appartamento, magari stabile, ma non hanno spostato la residenza per un qualsiasi motivo. Per Alessandro Urzì, consigliere di FdI, si trattava di un atto “discriminatorio” e “illegittimo”. Kompatscher ha provato a metterci una pezza, spiegando di aver fatto una scelta «nell’interesse primario delle persone stesse che in questo territorio non hanno né medico di fiducia né pediatra». Per smorzare i toni, il presidente della Provincia autonoma di Bolzano aveva provato a derubricare il tutto ad una “raccomandazione” (nonostante l’uso del termine “ordina”), escludendo dalla platea degli interessati i lavoratori.  Ma alla fine, la diaspora forzata è stata scongiurata.

Trentino, i residenti “denunciano” i turisti alla polizia locale. Giulia Merlo su Il Dubbio il 18 marzo 2020. Ma l’unica misura è stata presa nei confronti di una famiglia che era arrivata dopo l’11 marzo, data in cui il decreto del premier Conte aveva vietato tutti gli spostamenti fuori dal comune di residenza. Ecco i primi effetti della ordinanza presidenziale firmata dal governatore leghista del Trentino, Maurizio Fugatti. Giovedì scorso  è stato disposto l’obbligo di rientro nei comuni di residenza per tutti i turisti e i proprietari di seconde case in Trentino (lo stesso ha fatto anche il governatore autonomista dell’Alto Adige, Arno Kompatcher) e nei giorni scorsi sono iniziate le segnalazioni alla Polizia locale da parte dei trentini, per “denunciare” la presenza di non residenti. Come riporta il quotidiano online Il Dolomiti, alcuni cittadini della val di Fassa, nota meta di vacanze estive e invernali, hanno chiamato la Polizia per allertarla sulla presenza di turisti che ancora soggiornano nei paesi, con tanto di nomi e indirizzi. La polizia ha confermato di aver effettuato dei controlli ma anche di aver denunciato una sola famiglia, che per altro stava rientrando nel proprio comune di residenza, perchè era arrivata in Trentino dopo l’11 marzo (data del decreto “Io resto a casa” che ha trasformato tutta la penisola in zona rossa). Questo, dunque, il discrimine e non il decreto presidenziale di Fugatti. Attualmente, tutti i varchi delle valli sono video-sorvegliati, in modo da controllare i veicoli in ingresso e poter fermare chi prova a raggiungere le seconde case in montagna. Il decreto emanato dal premier Conte, infatti, vieta ogni spostamento non necessario fuori dal proprio comune di residenza. Come invece verrà applicato il decreto di Fugatti è ancora poco chiaro, anche rispetto a come si coordinerà con quanto previsto dalle norme nazionali di emergenza. Gli unici, infatti, ad aver violato le regole sono i non residenti che si sono spostati nelle seconde case non di residenza nei giorni successivi all’11 marzo. Chi, invece, si è mosso prima della data di entrata in vigore del decreto ed ora è rimasto “bloccato” in Trentino, lo ha fatto in piena legalità perchè i divieti riguardavano solo le zone rosse. I medici, gli infermieri e i sindacati trentini hanno confermato che le cure verranno garantite, come del resto prevede la Costituzione, a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione tra residenti e non.

L’Alto Adige caccia i non residenti: manifesti affissi nei comuni. Giulia Merlo il 16 Marzo 2020 su Il Dubbio. Il presidente autonomista Arno Komatscher ha spiegato: «A tutte queste persone, prive di residenza in Alto Adige, non è garantito l’accesso ai servizi del medico o del pediatra di fiducia. In caso di necessità o dubbi su un eventuale contagio potrebbero solo andare al pronto soccorso. Ed è esattamente ciò che non vogliamo accada per non sovraccaricarlo». La Provincia Autonoma di Trento e quella di Bolzano chiedono a tutti i non residenti di tornare a casa loro. La decisione, evidentemente in controtendenza rispetto alla direttiva nazionale di non uscire di casa e di non spostarsi se non per necessità, ha lasciato pieni di dubbi e paura i moltissimi non residenti che, al momento del decreto “Io resto a casa”, erano in montagna per le vacanze. Molti di loro hanno seconde case in Trentino e in Alto Adige e passano lì anche diversi mesi l’anno, altri sono anziani e non sono in grado di spostarsi autonomamente, altri ancora sono residenti in Lombardia e Veneto temono di muoversi con i mezzi pubblici per tornare in comuni con situazioni di contagio gravi. Eppure, le due direttive provinciali parlano chiaro e sono state spiegate in questi termini dai due governatori.

L’ordinanza dell’Alto Adige. In Alto Adige, l’ordinanza presidenziale è di giovedì scorso e domenica i sindaci la hanno recepita, affiggendo – come riporta il quotidiano Alto Adige – in tutti i paesi annunci che chiedono chi non è residente a lasciare l’Alto Adige nel più breve tempo possibile. «A tutte queste persone, prive di residenza in Alto Adige, non è garantito l’accesso ai servizi del medico o del pediatra di fiducia – ha spiegato il presidente autonomista Arno Komatscher -. Soggiornando qui, a queste persone manca il medico di famiglia. In caso di necessità o dubbi su un eventuale contagio, avrebbero un unico luogo a cui potersi rivolgere, il pronto soccorso dell’ospedale. Ed è esattamente ciò che non vogliamo accada per non sovraccaricarlo». Per giustificare la misura, ha spiegato che si tratta di una scelta che punta a «tutelare la salute delle persone, cosa impossibile se non riusciamo a far funzionare il sistema» e ha chiarito che i turisti sono stati invitati a partire «in tempi ragionevoli, dando loro il modo di organizzarsi». Nell’ordinanza si ordina «a turisti, ospiti, villeggianti e tutte le altre persone presenti sul territorio provinciale che non hanno la propria residenza in Alto Adige, di rientrare alla propria residenza, affinché possano eventualmente beneficiare delle prestazioni dei propri medici di base o pediatri di libera scelta».

L’ordinanza del Trentino. Più dure, invece, le dichiarazioni del suo omologo trentino, il leghista Maurizio Fugatti: «Se la situazione sanitaria si aggraverà, noi daremo risposte solo a chi rispetta le regole». Il presidente ha confermato che «A livello nazionale le norme sono diverse, ma il messaggio che vogliamo dare è che il Trentino sarà responsabile con chi è responsabile; il Trentino non potrà esserlo con chi è irresponsabile e si trova sul nostro territorio in modo non legale». Fugatti, dunque, è stato ancora più esplicito di Kompatscher, che non era arrivato a minacciare di non curare i non residenti. «Questo forse è un messaggio non bello» ma, ha aggiunto «è un messaggio chiaro che il Trentino vuole dare».

Le reazioni. Immediate le reazioni, soprattutto in Trentino, da parte dei medici e dei sindacati. “Non accetteremo mai ingerenze di questo tipo – ha commentato al quotidiano online Dolomiti il segretario della Cisl medici del Trentino, Nicola Paoli – noi seguiamo il giuramento di Ippocrate e la legge italiana e curiamo tutti, tutti i giorni, senza distinguo. Sono parole gravi, in questo momento, perché dobbiamo stare uniti, a livello nazionale”.  Lo stesso aveva detto anche il presidente dell’ordine dei medici trentini, Marco Ioppi, citando il giuramento di Ippocrate.

Arrabbiati e preoccupati, invece, i non trentini o altoatesini colpiti dalle misure. Il quotidiano Alto Adige ha riportato la reazione più frequente: «Adesso che non compriamo più skipass perché le piste sono chiuse ci cacciano?». Tutta da verificare, inoltre, è anche la compatibilità dei due decreti dei presidenti con le misure di contenimento del virus disposte a livello nazionale, che impongono di rimanere nelle abitazioni e di muoversi solo per motivi di necessità certificata, soprattutto negli spostamenti fuori comune.

Il governatore Fugatti: “I non trentini tornino a casa loro, noi non li curiamo”. Gli ha risposto il presidente dell’Ordine dei Medici trentini, Marco Ioppi, citando il giuramento di Ippocrate. Giulia Merlo Il Dubbio il 15 marzo 2020. “Se la situazione sanitaria si aggraverà, noi daremo risposte solo a chi rispetta le regole. A livello nazionale le norme sono diverse, ma il messaggio che vogliamo dare è che il Trentino sarà responsabile con chi è responsabile; il Trentino non potrà esserlo con chi è irresponsabile e si trova sul nostro territorio in modo non legale”. Scivolone comunicativo o messaggio voluto: in questo modo il presidente leghista della Provincia Autonoma di Trento, Maurizio Fugatti – dopo aver invitato i turisti a venire a sciare in Trentino con messaggi su Facebook fino al 5 marzo scorso – ha invitato tutti i non trentini ad andarsene. Il presidente ha spiegato ieri in conferenza stampa che ”Abbiamo ancora persone non trentine che soggiornano in zone turistiche e molti nelle seconde case” e che “chi è arrivato in Trentino dopo il secondo dpcm è qui in forma irregolare. Alle persone nelle seconde case e quindi in villeggiatura chiediamo loro di rientrare a casa loro perché sono qui in forma di irregolarità”. Invito, questo, lanciato anche dal governatore dell’Alto Adige, Arno Kompatscher. Fugatti, però, ha fatto seguire una successiva considerazione sul fatto che, se l’emergenza sanitaria si aggraverà, il Trentino privilegerà i residenti: “Il Trentino sarà responsabile con chi è responsabile; il Trentino non potrà esserlo con chi è irresponsabile e si trova sul nostro territorio in modo non legale”.  Fugatti ha ammesso che “a livello nazionale le regole sono diverse” e che “questo forse è un messaggio non bello” ma, ha aggiunto “questo è un messaggio chiaro che il Trentino vuole dare”, ha concluso. Come riporta il quotidiano online “Il Dolomiti”, a rispondergli sul punto è intervenuto il presidente dell’Ordine dei Medici trentini, Marco Ioppi, citando senza commenti il codice deonotologico della professione: “Il codice, in armonia con i principi etici di umanità e solidarietà e civili di sussidiarietà, impegna il medico nella tutela della salute individuale e collettiva vigilando sulla dignità, sul decoro, sull’indipendenza e sulla qualità della professione”. E ancora “I doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”. In Trentino, il numero di contagi è in aumento: i dati di ieri riferiscono di 261 casi, 88 in più rispetto al giorno prima.

Emergenza Sud, l'appello di cento sindaci: "Rischiamo il caos, serve l'esercito in strada". Richiesta anche da prefetti e governatori: più controlli e senso di sicurezza. Fausto Biloslavo, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Prefetti, cento sindaci, governatori, da nord a sud, vogliono l'esercito sul fronte del coronavirus. «La situazione sanitaria si sta progressivamente aggravando facendo registrare in Puglia () un sensibile aumento di casi positivi al virus», scrive al ministro dell'Interno, Maurizio Valiante, prefetto di Barletta-Andria-Trani. Nella comunicazione chiede «di assegnare, con ogni consentita urgenza, un adeguato contingente di militari dell'Esercito, da dispiegare sull'intero territorio provinciale». I soldati in mimetica, mascherina e armati, rassicurano i cittadini e servono da deterrente se qualcuno pensasse di non restare a casa. Lunedì il prefetto di Bologna, Patrizia Impresa, ha chiesto rinforzi per garantire la cinturazione di Medicina, un comune dichiarato «zona rossa». «Tale nuova disposizione normativa ha richiesto l'attivazione immediata di un servizio di vigilanza e e presidio dei varchi di accesso (), che rende assolutamente necessario un incremento di almeno 50 uomini delle unità di personale delle Forze Armate» si legge nella comunicazione urgente. A Trieste il prefetto Valerio Valenti ha ottenuto 100 soldati in più da schierare lungo il confine con la Slovenia per intercettare i clandestini ed evitare il caos degli ultimi giorni con lunghe file di Tir bloccati alla frontiera. Già ieri erano pronti 115 dragoni del Piemonte cavalleria. Anche da Novara, Alessandria, Pesaro i prefetti auspicano rinforzi dell'esercito. Qualcosa non ha funzionato a Bergamo, dove il prefetto era contagiato ed il vicario non ha firmato l'ordinanza di chiusura da zona rossa, che probabilmente avrebbe evitato l'impennata di vittime. E tantomeno ci ha pensato il premier Conte a Roma. «La Difesa e l'Interno avevano già schierato su Bergamo 300 uomini fra carabinieri, polizia ed esercito pronti a chiudere tutto, ma alla fine non è arrivato l'ordine» spiega una fonte militare. L'esercito ha sul territorio 7200 uomini dell'operazione Strade sicure e altri 6mila soldati pronti ad intervenire su base regionale. Il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, ha spiegato ieri che «non vogliamo i carri armati per le strade, ma ho chiesto l'impegno dei soldati dell'esercito per dare man forte nei controlli degli arrivi». In Sicilia sono rientrate in dieci giorni 31mila persone e nessuno sa quanti rispettino la quarantena. Nelle ultime 72 ore l'esercito ha mobiliato altri 200 uomini e a Piacenza è in ricognizione una squadra per un ospedale da campo. Più di un centinaio di sindaci della provincia di Cosenza hanno chiesto «l'immediato dispiegamento sul territorio dei comuni calabresi dell'esercito e delle risorse disponibili delle altre forze armate». E ieri ha lanciato l'allarme immigrati a Castel Volturno, dove sono 20mila, il vicepresidente della giunta regionale campana. Fulvio Bonavitacola chiede «una specifica azione di controllo territoriale e dell'esercito volta all'osservanza dei divieti imposti su persone non residenti», ovvero gli immigrati. «Il numero è tale - ha spiegato Bonavitacola - che se anche una piccola parte sfuggisse alle limitazioni previste si determinerebbero effetti davvero incontrollabili».

Grazia Longo per lastampa.it il 17 marzo 2020. Una volta, fino a poche settimane fa, c’era Codogno, provincia di Lodi, Lombardia. Ma oggi i Comuni chiusi per l’emergenza coronavirus sono più quelli in cui si parla con accento meridionale. Senza dimenticare l’Emilia Romagna, dove non è più possibile uscire e entrare nel Comune di Medicina e nella frazione di Ganzanigo, nel comune bolognese, dove ormai da giorni si registra una crescita anomala del contagio da covid-19. Lo ha stabilito il governatore Stefano Bonaccini. Mentre in Campania sono ben cinque i centri interamente in quarantena, per un totale di 40 mila persone, e altri 23 hanno chiesto di diventare zona rossa. Per ora lo sono: Ariano Irpino (provincia di Avellino) e Sala Consilina, Caggiano, Polla e Atena Lucana (provincia di Salerno), per volontà del presidente della Regione Vincenzo De Luca. Ariano Irpino è stato il primo Comune chiuso al Sud del nostro Paese. A breve giro però si sono aggiunti i quattro in provincia di Salerno: l’epidemia si è diffusa un po’ per l’arrivo sconsiderato di persone fuggite dalla Lombardia, un po’ per riti pseudo religiosi avvenuti a stretta vicinanza. «La decisione di mettere in quarantena i Comuni - precisa De Luca - è la conseguenza di due iniziative messe in campo da un “predicatore” ed altri suoi collaboratori, in violazione a ordinanze già in essere. Si rimane davvero indignati di fronte a questa irresponsabilità che ha prodotto decine di contagi, la quarantena per i Comuni e decine di contatti che andranno verificati nelle prossime ore. Ho dato mandato all’Asl di procedere alla denuncia penale di quanti hanno promosso o partecipato a questa iniziativa per il danno enorme che ha prodotto sulla pelle di migliaia di cittadini, di migliaia di medici e infermieri impegnati all’ultimo respiro nella battaglia contro la diffusione del contagio». Negli ultimi giorni, nei quattro Comuni in provincia di Salerno, sono state rilevate ben 17 persone positive che hanno avuto contatti stretti con almeno altre 80 residenti nei quattro Comuni. Mentre 29 delle persone ammalate sulle 47 complessive registrate fino a ieri mattina in provincia di Avellino sono di Ariano Irpino. In Campania i contagi fino a ieri erano 400, ma cresce la paura di un’impennata. Da oggi sarà attivo il primo ospedale interamente riconvertito, a Napoli, per coronavirus: 120 posti letto al Loreto Mare, primo tassello del piano di emergenza firmato dal governatore De Luca. La situazione è talmente critica che altri 23 sindaci dell’Alta Irpinia hanno chiesto che i loro Comuni diventino zona rossa. Si tratta dei seguenti centri: Andretta, Aquilonia, Bagnoli Irpino, Bisaccia, Cairano, Calabritto, Calitri, Caposele, Cassano Irpino, Conza della Campania, Guardia dei Lombardi, Lacedonia, Lioni, Montella, Monteverde, Morra De Sanctis, Rocca San Felice, Sant'Andrea di Conza, Sant'Angelo dei Lombardi, Senerchia, Teora, Torella dei Lombardi, Villamaina. Fino al 3 aprile, inoltre, sarà off limits anche il Comune di Medicina, del comprensorio imolese e della Città metropolitana di Bologna, che conta un milione di abitanti. Il sindaco di Medicina Matteo Montanari dichiara: «Il covid-19 che si è abbattuto su Medicina ha due caratteristiche peculiari: è particolarmente aggressivo e contagioso». La zona rossa è una scelta obbligata per «evitare che il numero dei casi aumenti. Inoltre questa misura così restrittiva serve per contrastare l’allargamento dei contagi da covid-19 all’interno territorio metropolitano, una zona ad alta densità di popolazione». A Medicina e nella frazione di Ganzanigo «sono oltre 70 i casi accertati di Coronavirus, nove i decessi, oltre 100 soggetti posti in isolamento fiduciario domiciliare a seguito di contatti stretti di casi accertati». L’ordinanza regionale dispone la sospensione di tutte le attività produttive e commerciali. Ad esclusione dei servizi essenziali socio sanitari e delle attività di beni di prima necessità. I furbetti di turno sono avvisati: il mancato rispetto degli obblighi è punito, in base all’articolo 650 del codice penale, con l’arresto fino a tre mesi o con la multa di 206 euro. 

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 17 marzo 2020. La vedono arrivare l'onda del Covid-19 e la temono. A ragione. Perché i casi dei contagi crescono giorno dopo giorno e c'è una sacca cospicua di residenti che è tornata al Sud senza autodenunciarsi. Persone in carne ed ossa, salite sui treni della Lombardia (non solo la notte tra il 7 e l'8 marzo), che hanno fatto ritorno a casa ma che non hanno dato segnalazione del loro rientro in molte Regioni. A partire dalla Calabria che ieri contava 7.793 ingressi denunciati calcolando però altrettanti (ma la stima è prudenziale) casi fantasma. Sono loro - i rientrati e nascosti - a destare la preoccupazione di clinici e governatori che ora aspettano di vedere l'indice complessivo dei contagi tra mercoledì e giovedì per poter decretare o meno la vera emergenza al Sud Italia. Ma intanto le Regioni stanno correndo ai ripari: la Sicilia - che annovera già 95 pazienti ricoverati per il coronavirus, di cui 20 in Terapia intensiva con l'incidenza maggiore a Catania è isolata: stop ai collegamenti in ingresso e in uscita (fatta eccezione per due voli, un intercity e i rifornimenti merci) varati dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli dopo le richieste avanzate dalla Regione. L'aeroporto di Reggio Calabria è chiuso, molti sindaci della provincia di Catanzaro e di Cosenza hanno presentato esposti alle rispettive Procure nonché al ministero dell'Interno per chiedere l'applicazione dell'articolo 438 del codice penale, che tutela la salute pubblica, contro quello che chiamano «flusso indiscriminato» dal Nord. Dal comune di Ariano Irpino, in provincia di Avellino - vista l'impennata dei contagi - non si entra e non si esce, mentre i casi in Campania sono arrivati a 400 e in Puglia è stato presentato ieri il piano ospedaliero per far fronte all'emergenza. Che si sta palesando ma che governatori, epidemiologi, virologi, medici e direttori sanitari sperano di non dover affrontare. Perché se i casi di Covid-19 dovessero deflagrare, il conto da pagare sarebbe più alto di quello del Nord Italia. Il problema riguarda la disponibilità reale dei posti in Terapia intensiva che mal si coniuga con una popolazione relativamente giovane e per questo più esposta alla minaccia del virus. In Calabria - dove la governatrice Jole Santelli ha costituito ieri una Task-force di cui fa parte anche il Commissario straordinario per la Sanità Saverio Cotticelli - le persone positive al coronavirus sono 89: 21 in più rispetto a quelle registrate il 15 marzo. I maggiori ricoveri si contano nella provincia di Cosenza: 15 in reparto, 3 in Rianimazione. Segue Reggio Calabria con 9 pazienti ospedalizzati e 2 in Terapia intensiva, mentre a Catanzaro ci sono 7 ricoveri (2 in Rianimazione) e 5 a Crotone. Le persone in quarantena volontaria sono 4.583. Ma gli ospedali della Regione quanti posti letto in Terapia intensiva possono garantire? Al momento appena 100 anche se proprio la Calabria ha avviato un piano per attivarne altri 400. Di questi, 90 serviranno le strutture di Cosenza, Castrovillari, Rossano, Cetraro, Catanzaro, Lamezia, Crotone, Reggio Calabria, Polistena e Vibo Valentia. Ulteriori 310 posti verranno attivati, invece, a Paola, Rogliano, Rossano, Germaneto, Tropea, Gioia Tauro, Locri e Melito Porto Salvo. In Puglia la situazione «Al momento resta controllata», spiega il virologo Pier Luigi Lopalco nominato dal Governatore Michele Emiliano a capo del coordinamento per l'emergenza. «In Puglia, così come più in generale al Sud, dobbiamo aspettare - spiega Lopalco - mercoledì e giovedì per capire se l'ingente flusso dei rientri provocherà delle pesanti ripercussioni». È questa la dead-line per capire se - e con quale impatto - il virus si manifesterà perché «Dobbiamo analizzare i tempi di incubazione partendo dalla data del 7 marzo quando migliaia di cittadini hanno fatto ritorno a casa dal Nord», prosegue il virologo. Proprio in Puglia ieri si sono registrati 72 nuovi casi e 2 nuovi decessi, mentre il conto di domenica era di 248 contagi: 148 ricoveri, di cui 6 in Terapia intensiva, 16 decessi, 3 guariti e 75 in isolamento. Se il numero dei positivi al Covid-19 dovesse arrivare a 2 mila, saranno necessari 200 posti letto in Terapia intensiva e circa mille posti in area medica. Attualmente per l'emergenza coronavirus nella rete degli ospedali pubblici, degli enti ecclesiastici, delle case di cura della Regione, sono attivi 54 posti in Rianimazione che potranno arrivare a 306, con un aumento di 252 unità. «Ma questo - conclude Lopalco - per reggere la prima ondata».

Davide Madeddu per ilsole24ore.com il 17 marzo 2020. Controlli incrociati e a tappeto per individuare i proprietari delle seconde case che sono arrivati in Sardegna da quando è scoppiata l’emergenza Coronavirus e prima che diventasse esecutivo il blocco del trasporto passeggeri in nave e aereo. In campo i sindaci delle città e dei centri costieri o comunque dove sono presenti le case vacanze e un esercito di 1.300 forestali. L’obiettivo è far si che si rispettino le norme previste dal decreto del presidente del Consiglio e le ordinanze regionali del 4 e 5 marzo che impongono registrazione obbligatoria, isolamento fiduciario di 14 giorni e reperibilità costante al domicilio per i controlli, per chi è arrivato nell’isola a partire dalla fine di febbraio. Dall’emanazione delle due ordinanze si sono “autodenunciate” nel portale della Regione 13.300 persone. Compito della Task force, gli uomini del corpo forestale e di vigilanza ambientale sono agenti di pubblica sicurezza a tutti gli effetti, sarà quello di verificare se chi è arrivato nell’isola rispetta le disposizioni. Non solo. Da tempo l’Anci, su sollecitazione delle amministrazioni comunali costiere o dove sono presenti case vacanze, ha chiesto un inasprimento dei controlli soprattutto alla luce dei numerosi arrivi segnalati dai sindaci. Argomento che il presidente Emiliano Deiana ha messo nero su bianco in una lettera inviata al presidente della Regione Christian Solinas in cui ha chiesto, tra le altre cose, un «inasprimento dei controlli nelle aree a maggiore pressione antropica (città e aree costiere)». A prendere posizione sollecitando controlli anche gli amministratori di altri centri costieri e turistici, da Pula a Villasimius, continuando con il nord dell’isola. A Iglesias, il sindaco Mauro Usai ha annunciato a partire da oggi una stretta sulle seconde case di persone residenti nella penisola con verifiche sulle presenze. Nei primi due giorni di attività gli uomini della forestale hanno effettuato poco meno di mille controlli, soprattutto sulle zone costiere e nelle campagne. Zone dove, come rimarcano dalla regione «nelle ultime settimane si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla penisola per trasferirsi nelle case al mare». «Tutte le nostre forze sono in campo per tutelare la salute pubblica - dice il presidente della Regione -. Ma resta fondamentale, in questa emergenza, la collaborazione di tutti e in primo luogo in rispetto rigoroso di tutte le disposizioni emanate». L’obiettivo è ora contenere i contagi e far sì che si rispettino le regole. Da lunedì sono entrati in vigore i blocchi ai trasporti passeggeri marittimi e aerei per i passeggeri, previsti dal decreto della ministra dei Trasporti. Sul fronte marittimo, i trasporti potranno avvenire solo in casi di assoluta emergenza e dietro autorizzazione del presidente della Regione previo parere dell’autorità sanitaria. Concesso solo il trasporto via mare delle merci possibilmente non accompagnate. Stesso discorso per il trasporto aereo che prevede il funzionamento dello scalo di Cagliari Elmas per i collegamenti con Roma Fiumicino. Il trasporto passeggeri potrà comunque avvenire solamente dietro autorizzazione del presidente della Regione per comprovati motivi di urgenza e previo parere dell’autorità di sanitaria.

Chiuso il comune di Ariano Irpino, De Luca: “È il risultato dei rientri dal Nord”. Redazione de Il Riformista il 15 Marzo 2020. Quarantena per tutta la popolazione e divieto di entrata e uscita per il Comune di Ariano Irpino. Lo ha deciso con un’ordinanza il Presidente Vincenzo De Luca visto l’aumento dei contagi verificato dai dati riferiti al Comune della provincia di Avellino. Si è ritenuto indispensabile e urgente applicare una misura rigorosa per isolare il focolaio. “Chiediamo a tutti i cittadini – ha dichiarato il Presidente de Luca – di collaborare per il contenimento del contagio e quindi per il rispetto di questa e delle altre ordinanze”. La decisione è stata presa per l’elevato numero di contagi riscontrati in Irpinia: 37 cittadini di cui 21 nel solo territorio di Ariano Irpino aumentati in meno di 24 ore da 12 che ne erano al 14 marzo. In Irpinia si è inoltre verificato il primo decesso. “Il dato relativo ai soggetti rientrati dalle ex zone rosse ammonta a 370 persone e i contatti diretti ai soggetti contagiati ammonta ad oggi a 125 – si legge nell’ordinanza –  costituisce ‘dato suscettibile di considerevole aumentò e alla luce delle inchieste epidemiologiche in atto”. Per questo motivo De Luca ha imposto ulteriori ristrettezze al comune introducendo ulteriori divieti. Divieto di allontanamento dal territorio comunale da parte di tutti gli individui presenti, il divieto di accesso nel territorio comunale, sospensione delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità. È fatta salva la possibilità di transito in ingresso e in uscita dal territorio comunale da parte degli operatori sanitari e socio-sanitari, del personale impegnato nei controlli e nell’assistenza alle attività relative all’emergenza nonché degli esercenti le attività consentite sul territorio e quelle strettamente strumentali alle stesse, con obbligo di utilizzo di dispositivi di protezione individuale. È comunque consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente provvedimento è punito, ai sensi dell’art.650 del codice penale, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro. “In relazione alla messa in quarantena di Ariano Irpino ho impegnato l’Asl di Avellino a sviluppare un’attività di monitoraggio e controllo intensa e straordinaria per i prossimi 15 giorni nei comuni vicini. La sensazione che si ha in queste ore, in attesa di una valutazione più puntuale e scientifica sui contagi, è che si stiano scontando due fenomeni. Il primo, è l’inizio di una ricaduta legata all’arrivo dalle aree più contagiate del Nord di migliaia di persone in maniera affrettata e non controllata. La seconda causa è la presenza ancora oggi di comportamenti individuali assolutamente irresponsabili. Come è capitato ad Ariano, e come si è verificato in un paese dell’area a sud della Campania dove i membri di una comunità, dopo aver dato vita a una loro cerimonia, hanno bevuto tutti dallo stesso calice, ritenendo forse di compiere un gesto mistico. È necessario in queste ore il massimo di responsabilità e anche il massimo di rigore possibile nei confronti di chi vìola le regole elementari e gli obblighi di legge dettati dalle autorità sanitarie. Questo è un dovere verso i nostri concittadini ed è un atto di rispetto per tutto il personale medico e infermieristico del 118 che è impegnato in un lavoro straordinario da settimane. Non c’è ad oggi alcun motivo di panico. La situazione in Campania rimane sotto controllo al netto di comportamenti irresponsabili e di episodi nazionali francamente evitabili”.

Sindaco contro chi usa seconde case per isolarsi: “Andate via”. Antonio Emanuele Piedimonte de Il Riformista il 14 Marzo 2020. Napoletani potenziali untori? A leggere l’appello messo nero su bianco dal sindaco di Campo di Giove qualche dubbio nasce. In sintesi: «Gentili ospiti (…) è dunque fondamentale che le persone non residenti, anche se proprietarie di seconde case, ancora presenti sul territorio valutino, responsabilmente, il ritorno alle loro abitazione di residenza nel più breve tempo possibile». O almeno così l’hanno vissuto i partenopei (ma non solo loro) che hanno un’abitazione di proprietà nel piccolo borgo e si sono visti recapitare la missiva del primo cittadino. Cominciata su Fb, la querelle sulla presenza di non autoctoni nel centro montano è degenerata in polemica. «Egregio signor sindaco, un’unica preghiera non usi l’appellativo ospiti, perché questo fa nascere in me una profonda delusione per essermi sentito sempre uno di voi», scrive Giacomo Polledrini. Gli fa eco Fulvia Demi: «Noi da sempre amiamo questo posto e non si comprende come mai gli autoctoni non ricambino lo stesso amore. P.s.: io sono a casa mia (…) non mi è balenato neanche per un secondo il pensiero di venire a Campo di Giove, dove la prima strutta sanitaria è a 20 minuti di auto». Sulla stessa lunghezza d’onda Daniela Cimmino: «Visto che siamo considerati ospiti e gli ospiti (…) propongo al signor sindaco di sospendere l’Imu e più ancora la Tari visto che produciamo spazzatura meno di zero». Uno degli “ospiti”, Francesco Gentile, spiega al Riformista che sta succedendo tra le belle cime abruzzesi: «Io e mia moglie siamo napoletani e frequentiamo il paese dagli anni Ottanta, ieri abbiamo ricevuto la lettera e siamo rimasti molto male. Certo, non è un decreto di espulsione, però ci è parsa una cosa davvero fuori luogo». Eppure a sfogliare fb sembra che una parte della comunità sia sulla stessa lunghezza d’onda del sindaco. «Guardi, la psicosi purtroppo sta colpendo tanti italiani e posso capire che sfugga una parola poco simpatica al bar, ma il primo cittadino dovrebbe tutelare anche noi che pure trascorriamo tanto tempo qui». Ma quanti sono gli “ospiti” ora in paese? «Ma ci saranno al massimo 4-5 famiglie…. Noi abbiamo scelto di venire perché abbiamo un bimbo di 3 anni che è immuno-depresso a causa di una malattia rara. Spostarlo adesso gli farebbe correre dei rischi». Ed è proprio sugli aspetti sanitari che il sindaco sembra voler giustificare l’invito a sloggiare, la lettera infatti si chiude con un preciso riferimento: «La richiesta (che, si specifica, è in attuazione al decreto del Consiglio dei ministri, ndr) mira ad evitare situazioni di sofferenza nelle strutture preposte a seguire la crisi sanitaria». Il dottor Gentile abbassa il tono della voce come nei frangenti in cui lo sconforto prende per un attimo il sopravvento: «Strutture preposte? Quella più vicina è a Sulmona. Qui c’è solo un medico e null’altro». Un’uscita infelice o un clima un po’ da caccia alle streghe? «Penso che l’emotività abbia innanzitutto provocato una comunicazione erronea quantomeno nella modalità, e del resto una parte della comunità ci ha già manifestato la sua vicinanza e solidarietà. Certo la delusione è stata tanta…». Dalla montagna al mare, quello di Praia, poco meno di settemila abitanti nella provincia di Cosenza, lungo una delle coste più belle del Mediterraneo, località molto amata dai napoletani che qui hanno acquistato un gran numero di seconde case. «No, qui non c’è stato nessun invito a ripartire per i non residenti – spiega Angelo, un professionista che come diversi partenopei ha origini calabresi e possiede un’abitazione nel comune – ma il sindaco ha chiesto che tutti quelli che arrivano da fuori si sottopongano spontaneamente a una sorta di quarantena di sicurezza per 14 giorni, anche se ormai tutta l’Italia è in quarantena. Io – aggiunge – sono rimasto a Napoli, ma mi dicono che ci sono controlli serrati nelle strade e persino un’auto che circolava con un altoparlante per dare indicazioni ai cittadini. Evidentemente anche in tempi di internet i vecchi sistemi hanno sempre un loro perché». E che il momento sia di difficile gestione anche per i sindaci (caricati di gravose responsabilità) lo dimostrano pure alcuni video divenuti virali sul rete, dove si vedono alcuni amministratori in palese affanno. Tra più cliccati c’è quello che mostra un primo cittadino del Napoletano che tradito dall’emozione della telecamera (si spera) ha ribattezzato sia il virus, chiamandolo “coronaro”, sia gli ammalati, definiti “sieropositivi”. E, dulcis in fundo, le fake news sono diventate “fuck news”. Effetti collaterali d’una inattesa pandemia.

Ritratto di Vincenzo De Luca, leader vero che sa scegliere e decidere. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 27 Marzo 2020. Magari Conte potrebbe farsi dare qualche lezione. Il nostro Presidente del consiglio per caso è uno che si mangia le finali quando si sente incerto e spreca a ruota libera il tempo suo e di tutti noi. Potrebbe prendere delle decisioni nette, serie. Non lo fa. Forse perchè non ha fegato, forse perché è impomatato. Mentalmente. Chi invece ha fegato è il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che ha un tono sì, da protagonista ma amaro: niente fronzoli e va dritto al punto cutting to the chase come dicono gli americani: dritto al punto. Se ne è accorta la splendida Naomi Campbell che ha rilanciato sottotitolato in inglese una delle frasi di successo di De Luca, quando dice: «ho sentito dire che qualcuno vuole fare una festa di laurea.: be’, se lo fate io vi mando i carabinieri, ma col lanciafiamme: We will send the police, with flamethrowers». Un successo mondiale. Molti dicono che il governatore campano ha i tempi teatrali. Può darsi. Certamente ha i tempi mentali di chi ha in mente un ragionamento e un obiettivo e segue i tempi necessari alla comunicazione per raggiungere l’obiettivo. Veste in modo quasi banale, giusto l’indispensabile giacca e cravatta ma dimostra di avere chiare sia le idee che i mezzi per spiegarle e le cose da fare. Ha lanciato un avvertimento di valore nazionale: seguitiamo tutti a parlare di Lombardia ed è giusto perché lì è la tragedia. Ma fra pochi giorni la tragedia potrebbe sfondare in Campania, nel grande hinterland della metropoli napoletana che è quella più densamente popolata d’Europa e che rischia di andare totalmente fuori, perché oggi il venti per cento dei campani, ma diciamo meglio, napoletani – a fronte di un buon ottanta che rispetta le norme – se ne frega e fa come gli pare. E Roma, dice De Luca, non capisce. O meglio, Roma fa finta. Emana, dice, mezze misure. De Luca l’avevo sempre guardato con prudente diffidenza. I decisionisti ispirano diffidenza proprio perché suscitano facile consenso: la diffidenza per Salvini scatta quando il leader leghista si lascia sfuggire un deliriuccio di onnipotenza sui pieni poteri e in milioni di italiani gli sognano dietro. È lì che scatta l’immunizzazione democratica. Ma De Luca è un uomo fortemente, laicamente, politicamente e moralmente incazzato. I respiratori per la Campania che dovevano arrivare ma non si sono visti, se li è andati a cercare in Cina e arriveranno, speriamo in tempo. E così le altre attrezzature. Il governo, lo dice sopra, sotto e fra le righe, fa semplicemente schifo perché con decreti pieni di smagliature e di trucchi, codardo di fronte alla necessità di decidere e assumersi le responsabilità, rende l’agonia sempre più lenta e incerta. È questo coraggio in questo momento che ci fa apparire il governatore campano come un leader nazionale. Per il realismo che ci ricorda molto Craxi, per un modo di fare scostante che cerca più antipatia politica che consenso. Lo fa un meridionale come lui e non è raro che i napoletani sappiano descrivere nel modo più schietto e anche spietato le pieghe e le piaghe dei comportamenti di massa che impediscono la connessione del tessuto civile e il più banale rispetto delle regole. Non vogliamo esagerare sottolineando questo aspetto fatto di amara schiettezza, di uso del lanciafiamme, di incazzatura nera, di disprezzo per i concittadini, per il tono di chi – di fronte al menefreghismo dei lazzari e dei lazzaroni – non esiterebbe a schierare la truppa e fare uso di quel tanto di forza che la forza della legge richiede per essere legge e non carta straccia, come accade invece con il continuo balletto dei decreti, pandette, proclami, bolle, emanazioni che vengono secreti da un governo sempre incerto e che non ha mai saputo decidere nulla, e che quando impone delle norme, le riempie subito di eccezioni, smagliature, qui lo dico e qui lo nego, a meno che, purtuttavia, il linguaggio mentale di Conte e della sua contea governativa che chiama al soccorso truppe cinesi, russe, cubane e se occorre tartare e uzbeche, pur di fare ammoina, cioè l’arte, partenopea per eccellenza, di non fare assolutamente nulla. Nulla, ma mostrando finta agitazione, perché è l’ “ammuina”: chi sta in basso vada in alto e viceversa, andate da destra a sinistra e ritorno, fate ma non fate nulla ed è ciò che De Luca aborre e denuncia con la secchezza scudisciante di chi invoca – anzi pretende – l’uso immediato dei militari per il rispetto militare delle regole indispensabili e tardive, vista la cialtronaggine, il menefreghismo e la spudoratezza di una fetta della popolazione della sua Regione che lui stesso valuta intorno al venti per cento. De Luca va di sicuro dritto allo scontro con Conte e il suo governo: siete degli ipocriti e degli incapaci – dice dalla sua diretta Fb – perché non avete voluto impedire le trasgressioni. È sicuro che fra una settimana i contagiati saranno tremila e centoquaranta in terapia intensiva. La strage seguirà, se non si agisce col pugno di ferro e senza mentire. Con sei milioni di abitanti, gli irresponsabili possono distruggere tutto. «Io la penso diversamente dal governo nazionale perché ritengo che le mezze misure non risolvono il problema e finiscono con aggravare le condizioni di vita dei nostri concittadini. Siamo il Paese del mezzo-mezzo che non decide mai e del fare finta, mai verifiche dopo le ordinanze. L’autocertificazione è una finzione perché nella realtà non si controlla niente. Rischiamo di trascinarci in un calvario di mesi. Storcete il naso? Se vogliamo evitare di contare migliaia di morti tutti i corpi dello Stato devono essere messi a sostegno delle forze dell’ordine. Non sappiamo che può succedere se perdiamo il controllo dell’area più densamente popolata d’Europa, che è la Campania. In questo caso i morti li conteremo a migliaia ma a Roma non capiscono. Le pattuglie devono avere potere di dissuasione, sequestro della macchina e sanzioni e rispetto delle ordinanze della Regione che prevede che chi va girando senza motivo debba essere messo in quarantena per quindici giorni di isolamento». L’uomo è amaro e sembra quel che è: un buon comandante sulla tolda di una nave piuttosto scassata di fronte all’uragano e con alcuni farabutti ammutinati. Che dire? Giù il cappello.

In Lombardia è emergenza : "Stanno finendo i posti letto". Attilio Fontana lancia l'allarme: "I numeri aumentano e i letti potrebbero non bastare". Gallera: "Vicini al punto di non ritorno". Francesca Bernasconi, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. In Lombardia è corsa contro il tempo, per cercare di far fronte all'emergenza coronavirus. I numeri crescono e gli ospedali devono accogliere sempre più pazienti, sempre più velocemente. E i posti letto iniziano a scarseggiare. A lanciare l'allarme è il presidente della Regione, Attilio Fontana, che a Skytg24 ha rivelato: "Siamo vicini al momento in cui non potremo più utilizzare rianimazioni perchè non avremo più letti". La situazione "è sempre peggio", perché i numeri continuano ad aumentare. Il governatore ha poi aggiunto che il cuscinetto di posti liberi in terapia intensiva (circa 15) "resta quello, ma soprattutto restano i miracoli che i nostri operatori riescono a realizzare". Infatti, in queste due settimane sono stati recuperati "più di 300 posti letto in rianimazione dal nulla. Spero che riescano ancora per qualche giorno, in attesa che si riescano a recuperare i respiratori. Spero che ancora riescano a compiere questi miracoli". A mancare sono i macchinari necessari per ventilare i polmoni, "che purtroppo non riusciamo a trovare". Fontana comunica anche la ricerca di "nuovi medici per far funzionare questi reparti". Per recuperare i ventilatori "ci stiamo dando da fare un pò ovunque nel mondo, abbiamo avuto un contatto dagli Usa e uno dalla Cina, parliamo anche con il Sudamerica". Secondo il governatore, "nel mondo qualcuno che potrà aiutarci c'è. Stamattina parlavo con un grande imprenditore italiano, il quale forse riesce a recuperare questi benedetti respiratori". Secondo i dati resi noti ieri, i casi positivi sono aumentati, raggiungendo gli 11.685 (quasi 2mila in più del giorno precedente): 3.427 persone sono in isolamento domiciliare, mentre 4.898 sono ricoverate in ospedale, 463 in più del giorno prima. Già ieri, l'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera aveva espresso la sua preoccupazione per la situazione sanitaria: "Continua la corsa contro il tempo- aveva detto- il problema sono i posti e il personale". Ieri, addirittura scarseggiavano le ambulanze "per qualcuno che ha già un posto in un altro presidio e attenderemo la tarda serata per poterli spostare". E aveva avvisato: "Abbiamo pochissimi posti liberi nelle terapie intensive, ormai siamo nell'ordine di 15 o 20 a disposizione. Ogni giorno ne ricaviamo qualcuno di nuovo, domani ne arrivano liberi altri tre e il San Raffaele sta creando un'area con 14 posti che sarà pronta però tra una settimana". Il modo per ricavarli è chiudere "le sale operatorie, dove ci sono dei respiratori che possono essere utilizzanti anche per sostenere il respiro". E avvisa: "Tra poco arriviamo a un punto di non ritorno". Intanto il virologo Roberto Burioni ha fatto il punto sulla costruzione del nuovo reparto di terapia intensiva all'ospedale San Raffaele, che verrà realizzato con i soldi raccolti grazie all'iniziativa di Fedez e Chiara Ferragni. "Voi avete generosamente donato e i lavori sono immediatamente partiti- ha detto il virologo- Questa è la tensostruttura che ospiterà i nuovi letti, la costruzione sta procedendo a tempo di record".

L'ira di Fontana: "Roma non capisce la gravità della situazione". Il governatore della Lombardia sbotta: "Ora non è colpa di nessuno e i ventilatori non si trovano e i medici mancano..." Luca Sablone, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Probabilmente in molti fuori da Milano non hanno ben chiara quale sia la gravità della situazione Coronavirus in Lombardia: in tutta la Regione sono rimasti una quindicina di posti liberi in terapia intensiva e sono arrivate mascherine "che sono un fazzoletto o un foglio di carta igienica che viene unito". Perciò la preoccupazione di Attilio Fontana (e non solo) è comprensibile: "Credo che ci sia una percezione sbagliatissima a Roma. Siamo agli sgoccioli dei letti per la terapia intensiva. Per questo noi avevamo fatto alla protezione civile una proposta e ci avevano appoggiato". Una sinergia per recuperare personale, ventilatori e reparti preparati come un reparto ospedaliero: "Ora non è colpa di nessuno e i ventilatori non si trovano e i medici mancano...". Inoltre vi è il progetto di massima al Padiglione 1 e 2 della Fiera, dove si vorrebbe creare un ospedale provvisorio per ospitare e curare i contagiati dal Covid-19: nonostante sia arrivato il parere negativo da parte della protezione civile, i lavori stanno continuando. Anche per questo il governatore della Lombardia si è affidato a Guido Bertolaso, nominato consulente personale per seguire il piano: "Mi fido di lui. Ci aiuterà con i suoi contatti in tutto il mondo a realizzare questo ospedale da campo dedicato alle terapie intensive". Perché l'intenzione è chiara: non farsi trovare impreparati "di fronte al peggio".

"Temiamo il peggio". Ma perché si teme il peggio? Va considerato che l'analisi delle curve del contagio parla della necessità di un grande centro di rianimazione: il virus al 10% della popolazione causa una gravissima polmonite e a ognuno di loro andrebbe dedicato un letto per la rianimazione anche per una dozzina di giorni. "Noi in due settimane ne abbiamo creati 300, e li abbiamo aggiunti ai 650 che già c'erano, puoi fare miracoli ma esistono studi seri che parlano di 4mila persone da ricoverare in terapia intensiva in Italia a breve. Noi siamo i primi a essere finiti nello tsunami", ha sottolineato il leghista. In effetti anche fuori dal nostro Paese pare lo abbiano capito, con la Merkel che si sarebbe detta pronta a collaborare: "Se lo fa le dirò grazie per tutta la mia vita". Quello della Lombardia potrebbe essere il modello vincente: se dovesse passare l'emergenza "i malati da altre regioni potranno trovare qui il posto che non hanno a casa loro". Fontana infine, nell'intervista rilasciata a La Repubblica, si è sfogato duramente per gli attacchi ricevuti dopo essersi messo la mascherina: "Non pochi hanno provato a farmi fare la figura del pirla, con la storia della mascherina su Facebook, e magari pirla posso anche essere, ma sinora non mi pare d'aver fatto sciocchezze".

Massimo Lorello per Repubblica.it il 14 marzo 2020. "Abbiamo pochissimi posti liberi nelle terapie intensive, ormai siamo nell'ordine di 15 o 20 a disposizione. Ogni giorno ne ricaviamo qualcuno di nuovo, domani ne arrivano liberi altri 3 e il San Raffaele sta creando un'area con 14 posti che sarà pronta però tra una settimana. Oggi li recuperiamo chiudendo le sale operatorie, dove ci sono dei respiratori che possono essere utilizzanti anche per sostenere il respiro". L'allarme lanciato dall'assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera lascia poco spazio alla fantasia. "Tra poco arriviamo a un punto di non ritorno - ha sottolineato - Se ogni giorno abbiamo 85 persone in piu' che entrano in terapia intensiva e tendenzialmente ne escono due o tre, perchè il dato è il 10% e il 15% considerato chi esce e chi muore, tutto questo non è sufficiente. E' difficile per tutti ma, come noi stiamo facendo un grande sforzo, chiediamo la stessa intensità da tutti".

E ancora: "A noi servono mascherine del tipo fpp2 o fpp3 o quelle chirurgiche e invece ci hanno mandato un fazzoletto, un foglio di carta igienica, di Scottex". Così, ai microfoni di Sky l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, a proposito del materiale sanitario inviato dalla Protezione civile nazionale. Gallera ha spiegato che le mascherine non sono marchiate Cee. "Non voglio fare polemica - ha aggiunto - ma è evidente che non è possibile immaginare di utilizzare queste mascherine se si assistono pazienti infetti". Al massimo potrebbe utilizzarle “un volontario che le usa per portare la spesa a un anziano". Secondo Gallera "c'è un'emergenza mascherine che va risolta con i giusti presidi. Almeno dateci gli strumenti per combattere questa battaglia".

Coronavirus in Lombardia, 1.865 nuovi contagiati. "In Lombardia ci sono 11.685 positivi, con un incremento di 1.865. Abbiamo 4.898 persone ospedalizzate (+463 rispetto a ieri), le persone in terapia intensiva sono 732 con un incremento di 85. E i decessi sono 966 con un incremento di 76". E’ il bilancio del coronavirus in Lombardia diffuso dall'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera. "Non ci sono più ambulanze – ha aggiunto - e quindi qualcuno dovrà aspettare tarda sera" per essere trasferito in altri ospedali da quelli più sotto stress.

Mattia Feltri per ''La Stampa'' il 14 marzo 2020. Penso che i vecchi della mia città abbiano colto la dimensione della sciagura leggendo i necrologi dell' Eco di Bergamo. Non sono stupidi i vecchi, piuttosto hanno sempre letto il giornale col distacco di chi al mondo ne ha viste tante, e non è lo sperpero di aggettivi a incantarli. Quand' ero bambino, i vecchi leggevano l' Eco di Bergamo al bar, girando le pagine e soffermandocisi con fugace attenzione, ma quando arrivavano ai necrologi si aggiustavano gli occhiali con la punta dell' indice e dedicavano alle parole la sacralità del raccoglimento. I miei nonni e gli zii e i vecchi della nostra cascina ci si intrattenevano con puntiglio, rintracciando amici, antiche conoscenze, ricostruendo filiere di parentela, speculando sull' età dei defunti e sulla loro di sopravvissuti, e sempre scuotevano il capo. Anche noi bambini li guardavamo, assorti e sbigottiti sulle foto di facce vive ormai morte e sulle piccole croci nere a separare un necrologio dall' altro, esordienti dentro l' unico mistero e l' unica verità: si nasce e si muore. Per noi e per i vecchi, ecco come stanno le cose, tutto il resto era opinabile, discutibile, ma il necrologio era il fatto nella sua incontrovertibile e spaventosa purezza. L' orrore della contabilità di questi tempi - infettati, posti letto e bare allineate della mia bella, pulita, civile, ritrosa e generosa città, dove da giorni si celebra un funerale ogni mezzora - è stata infine scolpita nel marmo nelle pagine dei necrologi dell' Eco. Erano tre, poi quattro, cinque, l' altro ieri nove, ieri dieci. Dieci pagine di necrologi. Mi sono aggiustato gli occhiali, e le ho lette tutte.

 (ANSA il 15 marzo 2020) - Due pazienti sessantenni, di Bergamo, in gravi condizioni respiratorie, per mancanza di posti negli ospedali della Lombardia, sono stati trasferiti la notte scorsa in Sicilia con un aereo militare. Sono ricoverati nel reparto di rianimazione dell'ospedale Civico di Palermo con la prognosi riservata. Lo rende noto l'assessorato regionale alla Salute della Sicilia. Sono una quarantina i pazienti che dalla Lombardia sono stati portati in altre Regioni: lo ha detto in conferenza stampa l'assessore al Welfare Giulio Gallera spiegando che lo smistamento è fatto attraverso il cross di Pistoia, quindi attraverso la Protezione civile. I primi 28 erano pazienti no Covid mentre successivamente sono stati trasferiti pazienti di terapia intensiva positivi al Coronavirus. "Sono stati mandati in Puglia, Toscana. Quando quest'onda sarà passata - ha aggiunto - metteremo i nostri posti letto a disposizione degli altri".

Coronavirus in Lombardia, Gallera: «C'è un disperato bisogno di invertire la curva dei contagi». Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. «No, nessuna polemica, anzi, rispetto e collaborazione tra le istituzioni, però io ho il dovere di tutelare le persone che lavorano in prima linea». Fino a un mese fa Giulio Gallera era «soltanto» l’assessore al Welfare della Regione Lombardia. Da 24 giorni è il volto della risposta all’emergenza nel territorio epicentro dell’epidemia di coronavirus. Sabato è stato protagonista di una plateale, quasi teatrale, protesta contro la Protezione civile per la fornitura di centinaia di migliaia di mascherine di qualità inadeguata. Ma il giorno dopo, al termine della seconda domenica di coprifuoco generale, manda un duplice messaggio: smorzare i toni della polemica e «tutto quel che si può fare lo facciamo anche da soli».

Assessore Gallera, si è arrabbiato davvero per quelle mascherine?

«No, senta, facciamo subito chiarezza: nessuna polemica. Io sono cresciuto politicamente nella cultura del rispetto e della collaborazione tra le istituzioni. Quindi, niente polemiche».

Però lei ha definito quelle mascherine «carta igienica».

«Io ogni giorno incontro i direttori della sanità lombarda e ricevo raffiche di appelli: mancano i presidi sanitari essenziali, il personale che lavora in prima linea contro il virus ha bisogno di proteggersi con camici, guanti, mascherine, e io mi sento dire “abbiamo autonomia per un giorno, per due giorni...”. Poi la Protezione civile ce ne manda 250 mila, noi le smistiamo immediatamente agli ospedali e poi, e in diretta durante una riunione mi sento dire “ma cosa ci avete mandato?”. Quindi nessuna polemica, ma io devo tutelare i miei medici e i miei infermieri. E allo stesso modo ho reagito quando si è detto che i medici dell’ospedale di Codogno hanno lavorato male. Era mio dovere».

Comunque, a che punto ci troviamo? C’è un orizzonte?

«Stiamo cercando di resistere, negli ospedali avviene quotidianamente il miracolo della moltiplicazione dei posti letto e degli strumenti per contrastare questa epidemia. In questo fine settimana ho visto Milano vuota, niente a che vedere con le immagini di una settimana fa, quando i parchi erano pieni e io ho provato una grande frustrazione. La gente ha capito e sta collaborando, questo ci incoraggia molto. Ma dobbiamo continuare».

Per quanto ancora?

«Impossibile dirlo ora. Diciamo che noi ci aspettiamo entro una settimana di vedere quella dannata curva dei contagi calare o almeno rallentare. Insomma, abbiamo disperato bisogno di un’inversione di tendenza, ma comunque questa battaglia non sarà finita lì. Sarà una maratona».

E la Lombardia come intende affrontare questa maratona? Da sola?

«No, le ripeto, io credo molto nella collaborazione tra soggetti istituzionali, però nello spirito di questa terra dico anche che noi andiamo avanti, tutto ciò che possiamo fare da soli lo facciamo».

È questo il senso del reclutamento di Guido Bertolaso. Pensate di recuperare materiali per conto vostro?

«Ogni amministrazione ha i suoi canali di approvvigionamento ordinari, poi ci si trova in situazioni di emergenza e bisogna fare di più. Bertolaso ha molta esperienza e contatti a livello internazionale, e noi abbiamo l’obiettivo di quell’ospedale da 500 posti negli spazi della Fiera, che potrà diventare una risorsa per l’intero Paese».

Quindi tirate dritto in modo autonomo?

«Facciamo tutto quello che possiamo, ma mai in alternativa ma in aggiunta agli sforzi compiuti da tutte le altre istituzioni».

·         Epidemia e precauzioni.

Cristina Fernández Esteban per it.businessinsider.com il 12 giugno 2020. Anche se il lockdown viene revocato, le misure di protezione contro il coronavirus continueranno ad essere essenziali per prevenire il ritorno della malattia. In questo contesto, si prevede che la mascherina continuerà a essere un elemento comune della cosiddetta “nuova normalità”. La maschera è utile per evitare l’infezione, ma soprattutto per non infettare gli altri se si è contratto il COVID-19. Esistono diversi tipi di mascherine e conoscerle tutte, soprattutto le loro caratteristiche specifiche, garantisce una protezione corretta. Ma sebbene il suo utilizzo stia diventando diffuso, ci sono ancora alcuni errori comuni sulle maschere che possono comportare rischi per te o per gli altri. Per evitare ciò e garantire la migliore protezione, ecco alcuni consigli e trucchi che ti aiuteranno a indossare la mascherina nel modo più corretto e sicuro. Allo stesso modo, è essenziale ricordare che anche se si indossa una protezione per il viso, è necessario continuare a prendere le altre misure di sicurezza contro il coronavirus, come evitare di toccare il viso e lavarsi frequentemente le mani.

1. Indossare una mascherina non ti protegge completamente dal virus: Indossare una mascherina è un passo importante nella prevenzione della diffusione dell’epidemia. Il virus può essere trasmesso attraverso goccioline espulse tossendo o starnutendo, e alcuni studi suggeriscono che può persino essere trasmesso parlando o respirando. Coprirsi bocca e naso crea una barriera che può impedirlo. Tuttavia, indossare semplicemente una maschera non ti rende completamente protetto da una possibile infezione. L’agente patogeno potrebbe comunque entrare nel tuo corpo, ad esempio attraverso gli occhi se tocchi il viso senza lavarti le mani. È importante tenerlo a mente e sapere, quindi, che anche se indossi le maschere devi continuare a rispettare le misure di protezione indicate dall’inizio: evita di toccarti il viso e lavati spesso le mani. Soprattutto dopo averla rimosso, poiché la carica virale potrebbe accumularsi sul lato esterno della maschera e infettarti.

2. Se hai una visiera protettiva, dovresti anche indossare una maschera: Una misura con cui potresti evitare il contatto con il tuo viso per proteggerti dal contagio è quella di utilizzare uno schermo di protezione del viso. Ma questo dovrebbe sempre essere integrato con la maschera. Perché sebbene aiuti a coprire gli occhi e le orecchie, gli schermi facciali non offrono protezione respiratoria come fa la maschera.

3. La maschera chirurgica aiuta a non infettare gli altri ma non ti protegge dal virus. Indossare una maschera chirurgica o igienica previene la diffusione di goccioline di saliva e quindi evita di infettare gli altri. Ma nessuno di questi tipi mostra una grande efficacia nel filtrare l’aria per cui non impedirà il contagio. Anche le maschere di tipo FPP1 filtrano solo il 78% delle particelle, quindi non rappresentano una barriera totale contro le infezioni. Nonostante ciò, la sua utilità non deve essere sottovalutata, poiché, come visto, aiutano a non diffondere la malattia se si è infetti. Se tutti le indossassero, ciò ridurrebbe al minimo la diffusione del COVID-19, specialmente in casi asintomatici che potrebbero passare inosservati.

4. Le mascherine con le valvole non impediscono la diffusione del virus. La valvola sulle maschere ha lo scopo di impedire all’aria di accumularsi e riscaldarsi all’interno. In questo modo la maschera filtra le particelle dall’esterno, evitando il contagio della persona che la indossa, ma non protegge il resto delle persone, poiché l’aria che esce dalla valvola non viene filtrata. “La valvola che alcune maschere hanno è progettata in modo che le persone sane possano curare i pazienti con patologie infettive respiratorie”, ha detto a Maldita Ciencia Guillermo Melgar, farmacista e autore di Enraged Pharmacy. “Se la persona che la porta è infetta, non serve per evitare di infettare gli altri. Ecco perché si consiglia di chiudere detta valvola”, aggiunge. Ad esempio, utilizzando una maschera chirurgica sulla parte superiore della maschera della valvola. Questo punto è importante da capire perché una persona che indossa questo tipo di maschera potrebbe diffondere la malattia senza saperlo se non ha ancora sviluppato sintomi o è asintomatica.

5. Come devono essere le mascherine che indossano i bambini? Secondo le raccomandazioni della BOE (Boletín Oficial del Estado spagnolo), “il fissaggio per mascherine igieniche per bambini deve poter essere fissato senza generare nodi, estremità libere o elementi tridimensionali”. Il documento raccomanda inoltre di utilizzare questi prodotti sotto la supervisione di un adulto. Non è raccomandato l’uso di maschere nei bambini di età inferiore ai 3 anni, poiché esiste il rischio di soffocamento. Quelli di età compresa tra 3 e 12 anni devono scegliere quella che si adatta meglio alla loro taglia a seconda delle taglie normalmente disponibili.

6. Come sapere se la maschera si adatta correttamente. Quando indossi una maschera è importante verificare se si adatta correttamente. Dal momento che sarà efficace solo se l’aria può entrare solo attraverso il filtro. Per raggiungere questo obiettivo, si consiglia di cercare le dimensioni e il modello più adatti a te. Oltre a questo, per sapere se una maschera si adatta bene alcuni dei consigli includono il controllo dei seguenti aspetti:

Respira normalmente e profondamente.

Muovi la testa da un lato all’altro.

Muovi la testa su e giù.

Leggi o parla ad alta voce.

7. Qual è il tessuto migliore per realizzare una maschera fatta in casa. Una maschera fatta in casa sarà meno efficace. Nonostante ciò, sarà sempre meglio che restare a viso scoperto. A questo proposito l’Università di Chicago, in Illinois, ha studiato l’efficacia di alcuni tessuti comuni per filtrare spray simili alla dimensione delle goccioline. Secondo i risultati forniti all’American Chemical Society (ACS), una combinazione di cotone con seta naturale o chiffon può filtrare efficacemente queste particelle.

Altri materiali consigliati per realizzare una maschera fatta in casa sono:

Sacchetti per aspirapolvere, che hanno l’86% di efficacia contro le particelle di virus.

Stracci da cucina, con un’efficienza del 73%.

Tessuti in misto cotone, con un’efficienza del 70%.

Federe antimicrobiche, efficaci al 68%.

Al contrario, tessuti come lino, seta o sciarpe sono meno efficaci e non dovrebbero essere usati.

8. Quanto dura una maschera? Riguardo alla durata di una mascherina, esistono due tipi: la maschera riutilizzabile e quella usa e getta. Come suggerisce il nome, gli articoli monouso sono  solo per un uso e devono essere gettati una volta usati. Di questo tipo sono, ad esempio, quelli forniti dai mezzi pubblici. Le raccomandazioni per questa classe indicano che non deve essere usato per più di 4 ore per motivi igienici e deve essere rimossa ogni volta che è si inumidisce. Per quanto riguarda le maschere riutilizzabili, sono valide per usi diversi, ma dovranno essere disinfettate correttamente per non perdere efficacia.

9. La corretta disinfezione della mascherina è cruciale perché rimanga efficace. Se hai una maschera riutilizzabile puoi indossarla più di una volta. Tuttavia, sebbene si tratti di un vantaggio e di una misura più sostenibile rispetto ai prodotti monouso, deve essere disinfettata correttamente per continuare a garantire la protezione. Per questo esistono diversi metodi efficaci per pulire una mascherina. In lavatrice, usando un ciclo normale, detersivo normale e acqua a una temperatura compresa tra 60º e 90º. Immergere le maschere in una diluizione di candeggina 1:50 con acqua calda per 30 minuti, quindi lavarle con acqua e sapone, assicurandosi di rimuovere l’eventuale candeggina residua prima di lasciarla asciugare. Utilizzare i prodotti virucidi autorizzati dal Ministero della Salute, disponibili in questo documento.

10. Dove vengono gettate le mascherine usa e getta? Quando le mascherine monouso devono essere smaltite, devono essere collocate nel contenitore dei rifiuti, mai nella carta. Si raccomanda che siano chiuse in un sacchetto. Allo stesso modo, anche i guanti devono essere smaltiti nel contenitore dei rifiuti e mai in quello della plastica.

11. Come verificare se una mascherina è efficace. La testata Khaleej Times ha pubblicato due trucchi per vedere se una maschera è efficace:

versare un po’ d’acqua sulla maschera e tenerla in aria, “se è originale, non ci saranno perdite”.

indossarla e soffiare su un accendino che si trova a diversi centimetri di distanza, nel caso in cui si riesce a spegnerlo non sarà una maschera originale.

Oltre a questi suggerimenti, il più consigliabile prima di qualsiasi tipo di dubbio è quello di richiedere informazioni al produttore o al venditore. Per garantire che le maschere acquistate siano affidabili e soddisfino gli standard di protezione, si consiglia di rivolgersi a farmacie o stabilimenti di fiducia.

12. Come indossare correttamente una maschera. Il modo di indossare correttamente la maschera richiede che copra il naso e la bocca e si adatti bene al viso. Quando si tratta di indossarla, la migliore cosa da fare è lavarsi le mani prima e poi tenerla solo per gli elastici. Passarli dietro le orecchie o la testa, a seconda del tipo di presa, evitando di toccare la maschera. Mentre la indossi, non toccare mai la parte esterna della maschera, poiché potresti infettare le mani se contengono particelle virali. Inoltre, evita di toccarti il viso in ogni momento.

13. Come rimuovere la maschera in sicurezza. Altrettanto o persino più importante è come rimuovere la maschera correttamente. Per rimuoverla in sicurezza, lavati prima le mani, rimuovila prendendola dagli elastici e gettala in un sacchetto chiuso. Non toccarne mai il lato esterno. Quindi lavati di nuovo bene le mani con acqua e sapone.

14. Come prevenire l’appannamento degli occhiali quando si indossa una mascherina. Indossare una mascherina con gli occhiali può essere un fastidio, poiché è possibile che si appannino spesso gli occhiali a causa dell’aria calda che fuoriesce dall’alto. Per evitarlo ci sono alcuni metodi che puoi mettere in pratica:

lava le lenti degli occhiali con acqua e sapone e asciugale all’aperto prima di indossare la maschera, così si genera uno strato di protezione contro umidità.

Piega un fazzoletto rettangolare e mettilo all’interno della maschera, sul ponte del naso. Questo assorbirà il respiro e la maschera non si appannerà. È efficace con qualsiasi tipo di maschera.

Piega verso l’interno un quarto della parte superiore della maschera prima di indossarla, così si adatterà meglio e ti renderà più difficile che passi il fiato. Sebbene con questo metodo se si sbaglia, si può perdere la protezione.

È importante soprattutto non tentare di togliersi gli occhiali o rimuovere la maschera perché in questo modo si potrebbe finire per toccare il viso a rischio di infezione.

15. Trucchi per evitare che gli elastici della maschera stringano troppo. Indossare una maschera può essere scomodo, specialmente se viene fatto per molto tempo. A lungo termine, gli elastici possono finire per disturbare e persino causare segni alle orecchie. Per evitare ciò, sono iniziati a emergere trucchi intelligenti. Ad esempio, l’ idea di Hayley Alden, una ventiduenne residente nella città di Victor (New York, Stati Uniti), è stata quella di agganciare la maschera ai bottoni cuciti su una fascia per capelli, liberando così le orecchie. In un articolo di Computer Hoy rivelano anche altri trucchi intelligenti, come attaccare gli elastici dietro la testa grazie a una fila di clip, usando un elastico con ganci e persino stampare uno stampo 3D progettato per impedire all’elastico di stringere sulle orecchie.

Pronta l’arma italiana per combattere il Covid-19. L’ambizioso progetto italiano, ideato dall’imprenditore trevigiano Diego Pol e sviluppato in smart working durante il lockdown, contribuirà nel lavoro di prevenzione e messa in sicurezza della salute pubblica dei cittadini. A partire dall’inizio della Fase 2, il prossimo 4 maggio, la soluzione Thermo Access sarà pronta e disponibile per essere installata in tutta Italia e nel mondo. Redazione su Il Giornale Mercoledì 29/04/2020. “Prevenzione, Protezione e Sicurezza”. Ecco le tre parole chiave che hanno acceso la scintilla dell’immaginazione e della creatività nella mente dell’imprenditore trevigiano Diego Pol per la realizzazione di un progetto inedito e rivoluzionario per combattere, dalla Fase 2 in poi, una nuova possibile diffusione del Covid-19 in Italia. Memore dei drammatici giorni vissuti per lavoro in Liberia nel 2014, durante la terribile epidemia del virus Ebola, che ha colpito duramente il paese e altri stati dell’Africa Occidentale, l’impresario Diego Pol, amministratore unico di Cesaf S.r.l., società trevigiana che da decenni opera nel settore del contract e delle telecomunicazioni in Italia e all’estero, ha deciso di mettersi, ancora una volta, in gioco, accettando l’ambiziosa sfida di contribuire con la sua invenzione a fermare una seconda ondata di Coronavirus. Dopo aver lavorato intensamente giorno e notte per dare vita alla propria idea, Diego Pol, in collaborazione con Andrea Minozzi, amico imprenditore e amministratore della C.M. Solutions di Padova, è riuscito a costruire Thermo Access, un dispositivo che risponde appieno alle obbligatorietà che si prospettano per il prossimo futuro, la Fase 2. “È necessario che ognuno di noi, con senso di responsabilità civile, si impegni attivamente alla prevenzione della diffusione di questo nemico invisibile. - dichiara Diego Pol - Per garantire a tutti un sicuro e tranquillo svolgimento delle attività, è indispensabile elevare i normali standard di sicurezza; l’esercente, il datore di lavoro, i dipendenti, i clienti devono poter accedere ad ambienti in cui è stato compiuto ogni sforzo possibile per evitare la diffusione del virus. L’indicazione del sintomo di stato febbrile è uno dei principali fattori da considerare, in una politica di prevenzione diligente ed efficace. Ebbene, Thermo Access è il dispositivo decisivo per la battaglia al Covid-19, appropriato e giusto per la salvaguardia comune: uno strumento semplice, efficiente, versatile ad ogni condizione architettonica/logistica, pronto per un uso immediato.”. Leggendo la brochure tecnico-descrittiva dell’innovativo prodotto sul sitoweb dedicato thermoaccess.com (è possibile ottenere ulteriori informazioni chiamando il numero telefonico dedicato 0438/564359), capiamo che Thermo Access è un prodotto concreto, ideato per prevenire un’eventuale rinfocolazione del virus Covid-19, e non solo, in qualsiasi luogo del nostro Belpaese.

Le caratteristiche principali. Thermo Access è un sistema di rilevazione della temperatura corporea con precisione medicale, concepito a totem integrato e preconfigurato, studiato per la misurazione non solo nell’individuo adulto, ma anche nel bambino e nella persona disabile in carrozzina, pronto all’utilizzo in 5 minuti, senza l’ausilio di nessun tecnico per l’installazione, il tutto nel totale rispetto della privacy dell’utente. Thermo Access è un dispositivo con tecnologia Plug & Play, disponibile in 4 diverse versioni, per rispondere a qualsiasi esigenza, sia di maggior controllo, sia di limitato spazio per il suo posizionamento. Oltre alla funzione di rilevazione della temperatura corporea, questa geniale soluzione è integrabile con un sistema di regolazione di accesso/contapersone (per la gestione dei varchi canalizzati quali porte con apertura automatica, tornelli, porte rotanti), un dispositivo di distribuzione di gel igienizzante, un apparato per la registrazione e gestione dei dati raccolti. In base alla programmazione, le immagini possono essere conservate o distrutte. Inoltre, l’assistenza o l’eventuale manutenzione di Thermo Access è possibile grazie al supporto da remoto, tramite accesso web riservato.

Come funziona. Thermo Access è dotato di un preciso sensore termico, capace di rilevare istantaneamente la temperatura corporea dell’utente. Thermo Access è intuitivo e di semplice funzionamento: il viso dell’utente viene inquadrato dalla telecamera e visualizzato nel display, che ne segnalerà il corretto posizionamento con un riquadro verde o, se inesatto, rosso. Configurato secondo il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro - 14 marzo 2020” e successive integrazioni, con set point di 37,5°C (impostabile), il display visualizzerà - al termine dell’operazione - la possibilità di entrare o meno all’interno dei locali. Il tempo necessario al rilevamento della temperatura è di 5 secondi. “La produzione su vasta scala di Thermo Access inizierà il prossimo 4 maggio. – affermano orgogliosi del loro progetto Diego Pol e Andrea Minozzi - Ci teniamo a sottolineare che questa nuova linea produttiva, in un periodo in cui tanti hanno perso il lavoro e non sanno come sbarcare il lunario, richiederà l’impiego di almeno 70/80 persone. Vogliamo inoltre sottolineare che questo dispositivo è stato totalmente concepito e progettato in modalità di lavoro “smart”; tante ore - concentrate in pochissimi giorni - trascorse ognuno davanti al proprio monitor perché questo progetto potesse diventare realtà concreta. Per questo, ringraziamo sentitamente i tecnici e tutti coloro che hanno collaborato con me alla riuscita di questo mio sogno.”

Dagospia il 18 maggio 2020. GLI ESIMI VIROLOGI SPERNACCHIATI DALLA SCIENZA: LE MASCHERINE RIDUCONO I CONTAGI DI OLTRE IL 50%. QUANTE MORTI CI SAREMMO EVITATI SE NON AVESSIMO ASCOLTATO I VARI PREGLIASCO, LOPALCO, ARLOTTI, PER NON PARLARE DEI CAPOCCIONI DELL'OMS, CHE DICEVANO ''NON USATELA, SERVE SOLO AI MALATI, CREA UNA FALSA SENSAZIONE DI SICUREZZA''. NO, CREAVA UNA VERA SICUREZZA E VOI DOVRESTE ANDARE A NASCONDERVI.

ECCO COSA DICEVANO NEI PRIMI MESI DELL'EPIDEMIA MOLTI VIROLOGI:

CORONAVIRUS, L'IMMUNOLOGO ARLOTTI: «LA MASCHERINA? EFFETTO CARNEVALE, SERVE SOLO PER I MALATI». 1 febbraio su ilmessaggero.it.

PREGLIASCO: NON SERVE USARE LE MASCHERINE. 22 Febbraio 2020 su scienze.fanpage.it. "Ad oggi non è cambiato ancora nulla, non c'è necessità di utilizzare le mascherine" ha spiegato a Fanpage.it il professor Fabrizio Pregliasco, virologo presso il Dipartimento Scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano. "Per ora le indicazioni sono solo quelle relative al territorio coinvolto, ma non esagererei a dire tutti con le mascherine. Comunque anche nelle aree colpite [dalla recente diffusione] non ce n'è bisogno, è una precauzione ma la diffusione al momento non è così devastante".

CORONAVIRUS, IL VIROLOGO FABRIZIO PREGLIASCO: "LA MASCHERINA È UN ECCESSO DI PRUDENZA". 3 marzo  2020 su la7.it/tagada.

LOPALCO: LE MASCHERINE CHIRURGICHE? CHI LE INDOSSA E NON HA SINTOMI POI SI SENTE TROPPO TRANQUILLO. QUINDI NON LE CONSIGLIO. 8 Marzo 2020.

DAGOSPIA 7 aprile 2020: LE MASCHERINE SERVONO, A TUTTI, PIU' SI USANO E MEGLIO E' (INTERVISTA A GARBAGNATI)

OGGI: LE MASCHERINE RIDUCONO I CONTAGI DI OLTRE IL 50%. Silvia Turin il 18 maggio 2020 per corriere.it. Le mascherine sono davvero efficaci nel ridurre la diffusione del virus. È un tema più volte affrontato, ma mai con la dovuta risolutezza da parte di alcune autorità scientifiche, perché mancavano studi di un certo peso, non tanto sull’efficacia delle mascherine (ci sono quelli che riguardano l’influenza, ad esempio), ma sulla loro “tenuta” rispetto allo specifico SARS-CoV-2. Alcune ricerche sono nel frattempo partite e proprio l’ultima in ordine di tempo sembra dare una salda conferma all’invito a non abbandonare le mascherine, specie nella fase di maggiore libertà di circolazione. Le mascherine infatti - dice un nuovo studio - riducono i contagi da coronavirus fino al 50%.

Criceti infettati dai flussi d’aria. L’esperimento è stato condotto presso l’Università di Hong Kong dal professor Yuen Kwok-yung su 52 criceti. Secondo quanto riferisce il South China Morning Post, gli animali sono stati divisi in due gruppi: sani e contagiati con il SARS-CoV-2. Tra le gabbie dei sani e degli infetti sono state posizionate come barriere delle mascherine chirurgiche e il flusso d’aria è stato diretto dagli animali malati verso i sani. Si è scoperto che i contagi si riducevano di oltre il 50% quando venivano utilizzate le mascherine: due terzi dei criceti sani a cui non era stata fornita la protezione sono stati infettati nel giro di una settimana. Il tasso di infezione è sceso a poco più del 16% quando le maschere chirurgiche sono state messe sulla gabbia degli animali infetti e di circa il 35% quando sono state collocate sulla gabbia con i criceti sani. Gli animali che sono stati infettati “con la protezione” avevano comunque meno virus all’interno del corpo rispetto a quelli infetti senza la barriere di mascherine.

Cosa rivela la ricerca sul pericolo di contagio. Cosa ci dice la ricerca? Che il virus è nell’aria, che contano i flussi d’aria, che le mascherine riducono fortemente la possibilità di infettarsi soprattutto se indossate dai positivi (anche asintomatici) e che comunque la mascherina abbassa la carica virale che ci raggiunge, provocando una malattia meno grave. Il virus viaggia nell’aria, ormai è noto e, a seconda della spinta che riceve (tosse, starnuti e parole), può percorrere lunghe distanze. Anche i flussi d’aria sono importanti: in un ambiente chiuso come un ristorante o un ufficio le goccioline respiratorie si trasmettono. Poi serve un certo tempo di permanenza e questo riguarda più che i negozi, gli uffici o i ristoranti e i luoghi chiusi. Infine bisogna considerare che per contrarre la malattia, occorre esporsi a una carica virale tale da risultare infettiva. In base agli studi fatti su altri coronavirus, basta anche una carica virale piuttosto bassa. Alcuni esperti stimano che siano sufficienti appena 1.000 particelle virali di Sars-CoV-2 per ammalarsi.

Inoltre, è stato dimostrato come la quantità di virus (carica virale) cui si è esposti in alcuni casi determina la forma e la gravità della malattia che si contrae.

Dove si rischia di più. I luoghi chiusi, con scarso ricambio d’aria, o con aria riciclata, e densamente affollati sono i più rischiosi dal punto di vista del contagio. Se siete all’aperto, e passate accanto a qualcuno, tenete a mente i due principali fattori del contagio, «carica virale» e «tempo». Dovreste restare nel flusso d’aria di quella persona per oltre 5 minuti per contagiarvi, all’aperto il vento e gli elementi esterni assicurano la diluizione del virus, riducendone la carica virale. La luce solare, il calore e l’umidità concorrono a ridurre la sopravvivenza del virus e minimizzano il rischio di ammalarsi all’aperto.

Come usare le mascherine e perché. L’uso delle mascherine protegge soprattutto le altre persone (abbiamo visto le percentuali nel caso dei criceti): per questo è importante che tutti le indossino come se si fosse tutti asintomatici. I pazienti positivi sono più contagiosi nei primi giorni dell’infezione, quando sono asintomatici o presentano sintomi lievi. Il professor Yuen, autore principale dello studio, fu uno dei microbiologi che scoprirono il virus SARS quando emerse nel 2003: all’inizio di quest’anno, forte della sua conoscenza dei virus, consigliò alle autorità di Hong Kong di obbligare tutti alle mascherine. Diversi scienziati hanno aderito alla campagna #Masks4All, ovvero mascherine per tutti.

Coronavirus, visiere protettive sono efficaci quanto le mascherine? Laura Pellegrini il 05/05/2020 su Notizie.it. Nella fase di riapertura delle attività produttive e degli spostamenti ai tempi del coronavirus è importante indossare i dispositivi di protezione individuale. Esistono mascherine, visiere protettive, guanti: ma quale tra questi è il più efficace per evitare il contagio da Covid-19? Pare che una ricerca americana – confrontando mascherine e schermi facciali – abbia dimostrato come le visiere risultino più efficaci. Anche i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) raccomandavano sempre ai cittadini di indossare una mascherina in stoffa e una qualsiasi protezione che potesse coprire naso e bocca. Nel confronto tra l’utilizzo di visiere protettive e mascherine appare evidente come le prime risultino più efficaci non solo per la protezione individuale, ma anche per la fabbricazione. Infatti, gli schermi possono essere prodotti e distribuiti in tempi rapidi e con facilità, non richiedendo l’utilizzo di materiali particolari. Molte produzioni si sono già riconvertire in questo senso e quindi la disponibilità – anche in Italia – è ampia. “Inoltre – aggiungono i ricercatori – mentre le mascherine chirurgiche hanno una durata limitata e poca possibilità di essere riciclate, gli schermi facciali possono essere riutilizzati indefinitamente e possono essere facilmente puliti con acqua e sapone o comuni disinfettanti domestici”. Sono comodi da indossare, proteggono le vie aeree e impediscono a chi li indossa di toccarsi il viso. Lo studio di simulazione sulla protezione delle visiere facciali ha dimostrato che esse sono in grado di ridurre l’esposizione virale immediata del 96%. Questo però qualora vengano indossati da un operatore sanitario entro 46 cm di distanza da un simulatore di tosse con goccioline grandi. Se il simulatore propaga goccioline più piccole, invece, la protezione scende al 68% delle particelle. la mascherina in stoffa, invece, hanno potere filtrante pari al 90% per le particelle grandi e al 24% per particelle piccole.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2020. Mai più (o quasi) senza mascherina. Risolto, si spera, il problema dell' approvvigionamento in farmacia, dovremo abituarci sempre di più a convivere con il rettangolino di tessuto premuto su bocca e naso. Poi è chiaro che ci sono delle circostanze in cui è proprio impossibile indossarla. O almeno non sempre. Va da sé che al ristorante, se all' ingresso dovremo presentarci con indosso la protezione - così come in tutti i luoghi chiusi - per forza di cose però ci sarà consentito toglierla per consumare pietanze e bevande, riponendola non si sa bene dove, certo non sulla tovaglia, ma dovremo comunque inforcarla per andare alla toilette, cercando di non toccarla troppo. O portandone una di riserva. Situazione analoga al bar: per avvicinare alle labbra l' agognata tazzina di caffè, rigorosamente distanziati dal prossimo, sarà inevitabile scostare o rimuovere il lembo di stoffa. Idem per gustare un gelato, sperando che non sgoccioli sul mento, macchiandola irrimediabilmente. Ed è altrettanto evidente che, sulla sedia del dentista, sia per un' otturazione o per una pulizia dei denti, il paziente, protetto da occhiali e camice idrorepellente, non potrà tenerla. Sarà il medico a rafforzare il presidio sanitario, indossando sia la mascherina Ffp2 che la visiera in plexiglass. Altra sedia, quella del barbiere. Il cliente, con mantella e asciugamano monouso, dovrà sempre indossare la mascherina per taglio ed eventuale ritocco al colore dei capelli. Consentito toglierla per farsi radere o modellare basette e barba, che andrà lavata a casa prima dell' appuntamento. Durante l' operazione il barbiere, cui le direttive Inail suggeriscono di «conversare tramite lo specchio» e «rimanere alle spalle in tutti i casi possibili», aggiungerà alla mascherina classica anche la visiera di plexiglass. Dal parrucchiere le signore porteranno la mascherina durante il taglio, la tinta e il successivo shampoo. Si macchierà, si bagnerà, ma il coiffeur ne fornirà una seconda pulita. Stesso discorso se dall' estetista si va per un trattamento al viso: l' operatrice avrà una doppia protezione, in tessuto e in plastica.

Mascherine ed effetti indesiderati: come e quando indossarle. Marco Grieco il 12/05/2020 su Notizie.it. Ritorno a lavoro e inizio della bella stagione: per alcuni indossare le mascherine per troppo tempo può avere degli effetti indesiderati. Ci siamo abituati ad indossarle e cercarne le versioni più glamour, ma con l’arrivo della primavera, sono in tanti a chiedersi se le mascherine abbiano degli effetti indesiderati. La domanda non è banale: sui luoghi di lavoro c’è l’obbligo di indossarle, e c’è chi si chiede come e quando farlo in maniera opportuna.

Mascherine in ufficio. I dipendenti che lavorano in uno stesso ufficio hanno l’obbligo di indossare le mascherine durante tutto il turno di lavoro. Ogni mascherina ha il suo livello di protezione – come spiega il dott. Paolo Esposito in un’intervista a Fanpage.it. Le mascherine chirurgiche filtrano bene l’aria verso l’esterno, ma non verso l’interno: chi le indossa ha, quindi, una resistenza respiratoria bassa. Nelle mascherine FFP2 e FFP3 il potere filtrante varia se è presente o meno la valvola: se le prime sono più tollerabili, le FFP3 non sono così tollerate, perché l’aria si accumula al loro interno e la respirazione è più difficile. A differenza delle mascherine lavabili, il loro utilizzo è temporaneo. Quelle chirurgiche, per esempio, andrebbero gettate dopo il loro utilizzo.

Mascherine ed effetti indesiderati nello sport. Con la Fase 2 sono state fatte concessioni sull’attività fisica all’aperto. Nel caso di sport aerobico ad alta intensità – dove cioè è necessario un grande utilizzo di ossigeno -, gli esperti sconsigliano l’utilizzo delle mascherine, che generano un accumulo di anidride carbonica e possono provocare capogiri e svenimenti. Negli sport anaerobici in spazi chiusi, – come il sollevamento pesi – indossare la mascherina non dà grossi problemi.

Come indossare le mascherine. Sull’utilizzo delle mascherine, è opportuno sapere come usarle perché un abuso potrebbe generare pruriti e arrossamenti su alcune parti del volto. Questi dispositivi sono, infatti, composti di materiali come poliestere o polipropilene e contribuiscono ad alterare la cute per la condensa generata nell’area naso-bocca. Gli esperti consigliano di utilizzare una crema lenitiva nelle aree più esposte all’umidità e agli sfregamenti del materiale: questo garantirebbe una protezione che va coltivata con creme idratanti anche dopo il loro utilizzo.

Mascherine: indossarle in estate? Sulla base delle disposizioni dell’Istituto Superiore di Sanità, è probabile che indosseremo le mascherine anche quest’estate. La stagione calda può influire negativamente sulla cute di chi le indossa, perché vi si aggiunge il sudore nelle parti del viso coperte dal dispositivo. Per questo, come sottolineano gli esperti, è importante tenere a mente come e quando è opportuno utilizzarle, considerando che resta prioritario il distanziamento sociale. Bisogna, pertanto ricordare che solo un uso intelligente preserva gli altri e noi stessi da eventuali effetti indesiderati.

Mascherine di stoffa, chirurgiche e le Ffp: la guida completa. Nella Fase 2 che scatterà il 4 maggio, le mascherine per proteggere bocca e naso saranno obbligatorie. Ecco la guida sui dispositivi, per grado di sicurezza. Fabio Franchini, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Sono diventate forse il simbolo "pratico" della pandemia di coronavirus, nonché strumento primario di prevenzione per proteggersi dal rischio di contrarre l'infezione da Covid-19. Sono le mascherine e da lunedì 4 maggio, giorno in cui dovrebbe finalmente scattare a livello nazionale la tanto agognata "Fase 2", saranno obbligatorie per tutti i cittadini che escono di casa in Italia. Al momento, le uniche regioni che hanno posto l'obbligatorietà di indossare i dispositivi – o in alternativa sciarpe, foulard o scaldacollo – sono la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, l'Emilia Romagna e la Toscana. Fra qualche settimane, la regola varrà per tutto lo Stivale. Ecco allora perché è importante tornare su rinnovata forza sul tema delle mascherine, dando utili consigli su quali siano i modelli migliori, capaci cioè di schermare al meglio contro il coronavirus. Innanzitutto, bisogna fare un uso corretto delle mascherine stesse. Perciò la prima cosa da sottolineare è il fatto che le mascherine sono monouso, motivo per il quale non utilizzate sempre le stessa, a meno che vi siate dotati di una mascherina di stoffa, comodamente lavabile a mano o in lavatrice.

L'UTILIZZO DELLA MASCHERINA. Detto ciò, quando la indossate – poi andremo a parlare dei vari modelli presenti sul mercato – fate attenzione al fatto che aderiscano bene al volto: la mascherina deve aderire bene al viso, senza lasciare spazi tra il materiale di cui è costituita e la pelle. E, notate bene, guai a toccare la parte anteriore della mascherina stessa, perché è esattamente quella la zona del dispositivo di protezione maggiormente contaminato. Quando vi sfilate la mascherina, fatelo prendendola per gli elastici.

QUALE MODELLO DI MASCHERINA. Anti-smog, le Ffp1, Ffp2 e le Ffp2, chirurgiche, di stoffa: quale tipologia di mascherina scegliere? Iniziamo dal bass delle classifica, dicendo che quelle che hanno una maggior capacità di protezione sono le mascherine fatte di stoffa, forti di un potere filtrane ridotto ai minimi termini. Va molto meglio con le mascherine chirurgiche, in grado di stoppare circa il 95% dei virus in uscita dalle proprie vie respiratorie, ma non hanno la capacità invece di schermarci del tutto in fase di ispirazione: sono efficaci contro l'effetto droplet per il 20-30%, come sottolineato dal Corriere della Sera. Ancora meglio delle chirurgiche sono le Ffp1, brave a proteggere gli altri e anche se stessi da una minaccia esterna (in modo appunto più performante rispette a quelle chirurgiche. In questo caso, però, è bene sottolineare una cosa: se la mascherina Ffp1 è fornita di una valvola filtrante, ciò significa che chi la indossa protegge se stesso, ma non li altri, dal momento che dalla valvola in questione può uscire verso l'estero materiale potenzialmente infetto e infettante. Ecco allora perché le valvole vengono sconsigliate – anche per tutti gli altri tipi di mascherine -, visto che non proteggono gli altri (e quindi, in realtà, neanche noi stessi). Il top di gamma delle mascherina è rappresentato dalle Ffp2 e Ffp2, riservate al personale medico e infiermerisico.

Occhiali con la mascherina: come non fare appannare le lenti. Indossare la mascherina quando si esce di casa è obbligatorio, almeno in Lombardia e in Toscana ed è bene che tutti lo facciano. Per chi indossa gli occhiali, però, è un problema, visto che le lenti si appannano: il video tutorial per evitare che succeda. Fabio Franchini, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Quando usciamo di casa per motivi di salute, lavoro o reale necessità, con tanto di modulo di autocertificazione in tasca (altrimenti ci becchiamo una multa bella salata), dobbiamo indossare la mascherina. Piccola parentesi: in alcune regioni italiane, come Lombardia e Toscana, il dispositivo sanitario di protezione contro l'infezione da coronavirus è obbligatorio, mentre nel resto del Paese è "solo" caldamente consigliato. Ecco, ma chi porta gli occhiali sa bene quanto sia scomodo portare la mascherina. Perché? Perché le lenti degli occhiali, con il respiro, si appannano. Ecco allora un utilissimo video-tutorial che vi spiega come evitare che ciò accada.

Mascherina, sciarpa o foulard: ecco come (e perché) usarla. A fornire il vademecum da seguire, peraltro declinato in tre modalità diverse, ci ha cortesemente pensato l'associazione sportiva di immersioni Bolla Blu, che ha confezionato e dunque pubblicato online, su YouTube, i tre semplici video-tutorial. Si tratta di appena tre facili accorgimenti per evitare che gli occhiali si appannino e non vi facciano vedere niente quando indossate il dispositivo sanitario che vi scherma possibili contagi. Peraltro, molte persone con gli occhiali cadono nell'errore di togliersi o abbassarsi la mascherina anche più di una volta per risistemarla, lasciando magari anche uno spiraglio a mo' di sfiato. Ecco, la cosa è tutto fuorché raccomandabile.

Coronavirus, quando indossare la mascherina. Perfetto, veniamo dunque ai tre metodi indicati da Bolla Blu per non far appannare le lenti degli occhiali:

1) Il primo trucchetto consigliato è quello di dotarvi di un liquido antiappannante, lo potete acquistare comodamente (anche online) e dunque di utilizzarlo, spruzzandolo sulle lenti. Una volta fatto, lasciate agire il prodotto per una decina di secondi e poi provvedete a pulire le lenti stesse. Quindi, indossate tranquillamente la mascherina e “magicamente” non avrete problemi di "nebbia".

2) Dal primo al secondo metodo, che è forse un po' più ingegnoso. Basterebbe infatti dotarsi di un comune fazzoletto di carta usa e getta e aprendolo a metà potete posizionarlo all'interno della mascherina, all'altezza del bordo superiore, facendo aderire la seconda metà all'esterno.

3) Infine, terzo e ultimo espediente: piegate di bordo superiore di un quarto all'interno e dunque indossate così la mascherina, facendo però attenzione che ben aderisca al vostro viso.

Mascherine mai in tasca o sui mobili: le istruzioni per l’uso dell’Istituto Superiore di Sanità. Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2020. La mascherine sono uno degli strumenti fondamentali per contenere il contagio del Coronavirus, tanto da diventare obbligatorie col Dpcm del 26 aprile scorso negli spazi confinati o all’aperto in cui non è possibile o garantita la possibilità di mantenere il distanziamento fisico, obbligatorietà estesa in alcune Regioni anche ad altri contesti. Per questo l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un focus in cui si evidenzia il corretto utilizzo della mascherine e una serie di norme sull’utilizzo pratico. Le mascherine rappresentano una misura complementare  per il contenimento della trasmissione del virus e, come spiega l’ISS,  “non possono in alcun modo sostituire il distanziamento fisico, l’igiene delle mani e l’attenzione scrupolosa nel non toccare il viso, il naso, gli occhi e la bocca”. Queste le FAQ sul corretto utilizzo delle mascherine:

1) Che differenza c’è tra le cosiddette mascherine di comunità e le mascherine chirurgiche? Le mascherine chirurgiche sono le mascherine a uso medico, sviluppate per essere utilizzate in ambiente sanitario e certificate in base alla loro capacità di filtraggio. Rispondono alle caratteristiche richieste dalla norma UNI EN ISO 14683-2019 e funzionano impedendo la trasmissione. Le mascherine di comunità, come previsto dall’articolo 16 comma 2 del DL del 17 marzo 2020, hanno lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana e non sono soggette a particolari certificazioni. Non devono essere considerate né dei dispositivi medici, né dispositivi di protezione individuale, ma una misura igienica utile a ridurre la diffusione del virus SARS-COV-2.

2) Quali sono le caratteristiche che devono avere le mascherine di comunità? Esse devono garantire una adeguata barriera per naso e bocca, devono essere realizzate in materiali multistrato che non devono essere né tossici né allergizzanti né infiammabili e che non rendano difficoltosa la respirazione. Devono aderire al viso coprendo dal mento al naso garantendo allo stesso tempo confort.

3) La mascherina è obbligatoria anche per i bambini? Dai sei anni in su anche i bambini devono portare la mascherina e per loro va posta attenzione alla forma evitando di usare mascherine troppo grandi e scomode per il loro viso.

4) È possibile lavare le mascherine di comunità? È possibile lavare le mascherine di comunità se fatte con materiali che resistono al lavaggio a 60 gradi. Le mascherine di comunità commerciali sono monouso o sono lavabili se sulla confezione si riportano indicazioni che possono includere anche il numero di lavaggi consentito senza che questo diminuisca la loro performance.

5) Quali mascherine devo usare nel caso in cui compaiano sintomi di infezione respiratoria? Nel caso in cui compaiano sintomi è necessario l’utilizzo di mascherine certificate come dispositivi medici.

6) Come smaltire le mascherine? Se è stata utilizzata una mascherina monouso, smaltirla con i rifiuti indifferenziati;   se è stata indossata una mascherina riutilizzabile, metterla in una busta e seguire le regole per il suo riutilizzo dopo apposito lavaggio.

ISTRUZIONI PER L’USO. Prima di indossare la mascherina: 

lavare le mani con acqua e sapone per almeno 40-60 secondi o eseguire l’igiene delle mani con soluzione alcolica per almeno 20-30 secondi;   indossare la mascherina toccando solo gli elastici o i legacci e avendo cura di non toccare la parte interna;  posizionare correttamente la mascherina facendo aderire il ferretto superiore al naso e portandola sotto il mento; accertarsi di averla indossata nel verso giusto (ad esempio nelle mascherine chirurgiche la parta colorata è quella esterna);

Durante l’uso: se si deve spostare la mascherina manipolarla sempre utilizzando gli elastici o i legacci;  se durante l’uso si tocca la mascherina, si deve ripetere l’igiene delle mani;  non riporre la mascherina in tasca e non poggiarla su mobili o ripiani; 

Quando si rimuove: manipolare la mascherina utilizzando sempre gli elastici o i legacci;  lavare le mani con acqua e sapone o eseguire l’igiene delle mani con una soluzione alcolica; 

Nel caso di mascherine riutilizzabili: procedere alle operazioni di lavaggio a 60 gradi con comune detersivo o secondo le istruzioni del produttore, se disponibili; talvolta i produttori indicano anche il numero massimo di lavaggi possibili senza riduzione della performance della mascherina; dopo avere maneggiato una mascherina usata, effettuare il lavaggio o l’igiene delle mani.  

Coronavirus, il punto sulle mascherine: a chi servono, quali sono e come indossarle. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. «Le mascherine alle persone sane non servono. Servono per proteggere le persone malate e servono per proteggere il personale sanitario». Lo ha detto il professore Walter Ricciardi componente del comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, nel corso della conferenza stampa di martedì 25 febbraio. «Quelle di garza che vanno a ruba - ha precisato Ricciardi - servono come misura di precauzione. Quelle sofisticate, che hanno dei filtri, servono a proteggere gli operatori sanitari». «Bastano le misure di igiene (lavare le mani) ed evitare i contatti ravvicinati, come per l’influenza, mentre sono necessarie a chi è già malato per evitare di diffondere i patogeni», conferma il presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti italiani (Fofi), Andrea Mandelli. Chi deve indossare le mascherine quindi? Chi sospetta di aver contratto il nuovo coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti, oppure chi si prende cura di una persona con sospetta infezione da nuovo coronavirus, come i sanitari, e le persone che vivono nelle aree considerate focolaio e dunque zone rosse, come ad esempio nel comune di Codogno. L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Non è utile indossare più mascherine sovrapposte. Inoltre, la mascherina non è necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie. È quanto scrive il Ministero della Salute sul proprio sito. Le mascherine più idonee sono quelle di classe FFP3 o FFP2, certificate in conformità alla norma EN 149, che viene considerato uno standard necessario per essere certi della protezione fornita da questi dispositivi contro il rischio biologico. A spiegarlo è l’Associazione dei produttori e distributori dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) o collettivi in una nota ufficiale, in cui si legge che le mascherine FFP3 hanno un’efficacia filtrante del 98% (rispetto al 92% garantito dalla classe FFP2). Ma come bisogna indossarle? Prima, lavati le mani con acqua e sapone o con una soluzione alcolica - copri bocca e naso con la mascherina assicurandoti che aderisca bene al volto - evita di toccare la mascherina mentre la indossi, se la tocchi, lavati le mani - quando diventa umida, sostituiscila con una nuova e non riutilizzarla; infatti sono maschere mono-uso - togli la mascherina prendendola dall’elastico e non toccare la parte anteriore della mascherina; - gettala immediatamente in un sacchetto chiuso e lavati le mani. Proprio per questo le mascherine FFP3 o FFP2 non sono consigliate per i bambini o per le persone con la barba, a causa “dell’impossibilità di un perfetto adattamento ai contorni del viso”, spiega il Ministero della Salute. Detto questo, i problemi di queste ultime ore riguardano l’approvvigionamento dei sanitari, ad esempio i medici di base. In Lombardia le regole prevedono che i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta abbiano un kit protettivo composto da: camice monouso in Tnt idrorepellente, occhiali e occhiali a maschera, mascherina Ffp3, guanti, copricapo (da valutare in relazione al contesto). Tutto materiale del quale, spiegano i medici di famiglia, «attendiamo l’arrivo». L’Assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, ha detto martedì: «Stiamo recuperando: 300 mila mascherine ffp3, 200 mila mascherine chirurgiche, 1,5 milioni di tamponi (già 10 mila consegnati oggi), un milione di camici e 2 milioni di guanti. Rassicuriamo che ci sono e stiamo iniziando a distribuirli». A livello nazionale tutte le Autorità preposte si stanno attivando per rendere disponibili mascherine e disinfettanti che mancano sul mercato. Dovrebbero arrivare nel giro di qualche giorno. Lo conferma il presidente di Assofarm, Venanzio Gizzi: Assosistema Confindustria, con la sezione Safety, sta lavorando attivamente con Confindustria, il Ministero della Salute e la Protezione Civile per fronteggiare l’emergenza. Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, spiega di aver chiesto, d’intesa con i presidenti Zaia e Fontana, il blocco delle esportazioni dei dispositivi di protezione individuale prodotti dalle aziende italiane e la requisizione di questo materiale. «Una misura necessaria per evitare che fra pochi giorni ci si trovi nella situazione in cui non si trovino mascherine, tute, guanti, cuffie e i dispositivi necessari, soprattutto nelle Regioni più colpite. Materiale che - ha sottolineato - serve in particolare agli operatori sanitari, che stanno facendo un lavoro straordinario. Tema che ho posto al presidente del Consiglio, Conte, che ci ha rassicurati sul fatto che si troverà immediatamente una soluzione positiva su questo».

"Goccioline infettive nell'aria", ma ora è scontro sul contagio. Secondo alcuni esperti l’aerosol disperso avrebbe un ruolo nella diffusione del virus. Ma alcuni studi non concordano. Valentina Dardari, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. Ancora tanti i dubbi riguardanti la diffusione del coronavirus. Uno di questi, tema anche di scontro tra esperti che non la pensano nello stesso modo, riguarda il fatto che il virus possa o meno diffondersi per via aerea. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha recentemente ammesso che questa possibilità ci possa essere, ma le opinioni sono discordanti.

Coronavirus e la diffusione per via aerea. Secondo un gruppo di scienziati anche le goccioline disperse nell’aria, quelle che emettiamo respirando o parlando, possono essere portatrici di contagio. Sul fatto che siano infettive però ci sono dei dubbi. Un recente studio condotto da un team di ricerca dell’Università della Florida avrebbe dimostrato che le goccioline di aerosol contengono virus vivi. Stando a questo il coronavirus nell’aria sarebbe quindi infettivo. Il gruppo di ricerca avrebbe isolato virus vivi da goccioline di aerosol in una stanza dove vi erano soggetti positivi a oltre due metri di distanza l’uno dall’altro. Ancora però non c’è la conferma scientifica che il risultato della ricerca si attendibile.

Lo scontro sullo studio. Subito la dottoressa Linsey Marr, esperta nella diffusione aerea dei virus, ha dichiarato in un a intervista al New York Times che “questo è quanto le persone stavano chiedendo a gran voce, la prova inequivocabile della presenza di virus infettivi negli aerosol”. Molti sono però gli esperti che sottolineano come non sia comprovato il fatto che la quantità di virus rintracciato sia comunque sufficiente a causare il contagio. Tra questi anche Angela Rasmussen, virologa della Columbia University di New York, che ha dichiarato: “Non sono sicura che questi numeri siano abbastanza alti da provocare l’infezione di qualcuno. L’unica conclusione che posso trarre da questo documento è che è possibile coltivare virus vitali campionati in aria, e ammetto che non è poco”. Essendo gli aerosol molto piccoli, non è facile questo genere di indagine. Anche perché l’evaporazione li fa diventare ancora più piccoli e cercare di accalappiare le goccioline può danneggiare il virus al loro interno. Precedentemente altri esperimenti avevano utilizzato filtri di gelatina o anche tubi di vetro o plastica per raccogliere l’aerosol. In quei casi però la potenza dell’aria aveva ridotto il volume degli aerosol eliminando il virus. Un altro gruppo di lavoro era riuscito a isolare il virus vivo, senza però poter dimostrare che il virus isolato potesse infettare le cellule. E in Italia ci sono esperti, come il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova, che da settimane parla di un virus che non fa più paura, proprio per il fatto che la sua carica virale è diminuita. Ai primi di agosto Bassetti aveva spiegato che “se prima il numero di particelle infettive di virus era di 100, adesso è di 10 o anche meno e quindi ci si difende più facilmente”.

 Michele Bocci ed Elena Dusi per repubblica.it il 2 aprile 2020. L'Organizzazione mondiale della Salute e l'Italia le consigliano a chi ha sintomi o assiste i malati di coronavirus. A Hong Kong sono obbligatorie sui mezzi pubblici. Negli Stati Uniti il chirurgo generale (responsabile del servizio sanitario pubblico) ha raccomandato alla gente su Twitter di smettere di comprarle. In Austria dalla prossima settimana diventeranno obbligatorie nei supermercati. In Slovacchia e Repubblica ceca è vietato uscire di casa senza indossare una mascherina chirurgica. I dubbi della comunità scientifica sulla nuova malattia sono tanti. Ma in pochi campi si è registrata così tanta confusione come sulle mascherine. Gli studi delle ultime settimane confermano che la diffusione del coronavirus nell'aria è più sostenuta di quanto si ritenesse all'inizio. E anche l'Oms potrebbe decidersi a cambiare le sue linee guida. David Heymann, il responsabile del panel che si occupa dell'argomento presso l'Organizzazione di Ginevra, ha annunciato alla Bbc: "Stiamo studiando le nuove evidenze scientifiche e siamo pronti a cambiare le linee guida, se necessario". "Allo stato attuale delle conoscenze - spiega Paolo D'Ancona, epidemiologo del nostro Istituto Superiore di Sanità (Iss) - sappiamo che il coronavirus si trasmette prevalentemente attraverso le goccioline nell'aria. Negli ospedali con molti pazienti sottoposti a ventilazione meccanica potrebbe disperdersi anche con aerosol". La differenza fra goccioline e aerosol può sembrare accademica: sta nelle dimensioni delle sfere di saliva che trasportano il virus. Ma ha grandi implicazioni per la diffusione: le goccioline viaggiano 1-2 metri dalla persona che le emette e cadono subito a terra. L'aerosol resta sospeso in aria e può raggiungere distanze maggiori. Vorrebbe dire che anche in stanze chiuse affollate e ascensori potrebbe accumularsi il virus, qualora molte persone infette vi rimanessero a lungo. Una ricerca del New England Journal of Medicine del 17 marzo ha dimostrato che il virus può resistere in aerosol fino a tre ore, anche se la sua quantità si dimezza in un'ora. Un esperimento del Massachusetts Institute of Technology pubblicato su Jama il 26 marzo ha osservato che il virus viaggia sia su goccioline che in aerosol, e che quest'ultimo può arrivare a 7-8 metri con uno starnuto potente. In Cina, nelle stanze di ospedale che hanno ospitato i pazienti, tracce di coronavirus sono state trovate su davanzali e grate degli impianti di aerazione. Segno che forse dal coronavirus dovremmo imparare a proteggerci meglio, quando torneremo a uscire di casa. "Ricordiamoci però che la mascherina non è una formula magica che ci salva dal contagio" dice Marina Davoli, direttrice del Dipartimento di epidemiologia della regione Lazio. "La cosa più importante resta l'attenzione e l'igiene. E poi se la si utilizza bisogna essere molto attenti, ricordando che è un dispositivo monouso che ha regole per essere messo e tolto. Ad esempio in troppi toccano la parte esterna con le mani rischiando poi di contagiarsi una volta che se la tolgono. Non vorrei che indossarla faccia più male che bene, perché dà una sensazione di invulnerabilità". Le mascherine chirurgiche non sono la soluzione perfetta (non sigillano per esempio naso e bocca come quelle filtranti), e sono ancora poche, come dimostrano le difficoltà a rifornire il personale sanitario, ma diventeranno probabilmente nostre compagne di vita, nella fase di riapertura. "Sono utili nei luoghi di lavoro dove non è garantita la distanza di un metro" spiega D'Ancona. Via via che un numero sempre maggiore di persone inizierà ad uscire, restando per ore in una situazione di potenziale rischio, arriverà molto probabilmente l'indicazione di utilizzare la mascherina, insieme alla raccomandazione sulla distanza di sicurezza. Se i suggerimenti del governo dovessero cambiare, però, serviranno tante mascherine, perché vanno cambiate spesso. L'Iss, in una situazione di grave carenza, sta testando i prodotti di nuove aziende italiane che hanno iniziato a produrle. Finora ha dato il suo ok a 40 di esse. L'Istituto nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e l'università di Catania hanno creato in fretta e furia un laboratorio per testare i materiali adatti. "Abbiamo realizzato uno strumento che simula uno starnuto potente di un minuto. Le mascherine, per essere efficaci, devono trattenere almeno il 95% dei microbi emessi" spiega Giacomo Cuttone, il ricercatore che ha coordinato il gruppo dell'Infn. "Si stanno rivolgendo a noi aziende tessili, di pannolini o bioplastiche traspiranti. I loro materiali sono un buon punto di partenza".

Ma. Le. Per “il Tempo" il 30/01/2020. Metti che con tutte le notizie che arrivano in questi giorni dalla Cina hai un certo timore del coronavirus partito da Wuhan, anche se abiti in Europa. In Italia. Ed allora per sentirti più sicuro decidi di andare in una farmacia, magari a Roma, per comprare una mascherina da indossare sulla bocca e sul naso, così, giusto per sentirti più sicuro mentre vai in giro. Anche la mente, del resto, ha bisogno delle sue sicurezze soprattutto quando si parla di virus. La trovi, la mascherina, nonostante molte siano già andate a ruba da giorni. La compri, la paghi, saluti il farmacista e vieni via. Arrivi a casa, la tiri fuori dal sacchetto e mentre stai per scartarla sul retro della confezione leggi, quasi per caso, dove è stata prodotta: Wuhan, Hubei, China. Son quelle coincidenze che ti lasciano a bocca aperta. Ma che diamine, ma tutto in Cina facciamo oggi noi occidentali. Ma andate tutti in ....mascherina.

Laura Bogliolo per “il Messaggero”  il 2 febbraio 2020. «Signora, la deve indossare fino a quando arriva a casa e non solo qui alla stazione Termini perché il virus si sta espandendo, ed è pericolosissimo!». Due euro per gli italiani, 10 per gli stranieri: è il costo per una mascherina antismog senza confezione, sporca, presa chissà dove e soprattutto di nessuna utilità contro il virus cinese. Ciondolano dalle mani degli ambulanti che cercano di convincere su via Giolitti che si tratta di un acquisto «che salva la vita, indispensabile». Insomma, guai a non averlo. Lui, accento napoletano, compra scatole da 10 pezzi a 10 euro, poi rivende le mascherine in strada per «proteggere dal virus». Quasi un benefattore, un volontario insomma. Trovare gli spacciatori di mascherine non è complicato e sono i colleghi del Bangladesh a offrire informazioni. La spartizione del territorio della macchina criminale che domina la stazione più grande d' Europa sembra essere chiara: all' uscita di via Marsala ad assediare fastidiosamente i viaggiatori ci sono scattanti nugoli di cittadini del Bangladesh pronti a rifilare ombrelli e mantelline contro la pioggia. Gli stessi che si trovano davanti a tutti i monumenti del Centro, con una grande capacità di adattamento alle esigenze delle città e alle mode: dagli ombrelli quando piove, ai selfie stick, fino all' acqua gelata d' estate che costa 5 euro a bottiglietta. «Gli ambulanti a Roma sono circa 8 mila, il mercato della merce illegale vale 5-6 milioni di euro l' anno, 2,3 milioni è il valore dei prodotti contraffatti» denuncia Valter Giammaria, presidente di Confesercenti Roma. Il mercato nero delle mascherine per ora è sfuggito al mondo sommerso degli abusivi dell' Asia, perché dietro l' apparente compattezza del business dell' illegalità ci sono sfumature che vanno colte. Sull' affare coronavirus sono planati come avvoltoi gli italiani, mentre gli stranieri devono stare alla larga, reclutati solo per qualche giorno, spinti a rischiare di più, provando a vendere la merce addirittura dentro la stazione a 10 euro al pezzo. Non vendete mascherine? «Noi non le abbiamo - dicono gli ambulanti del Bangladesh su via Marsala - devi andare in via Giolitti, vedrai che trovi chi te le vende». Dall' altra lato della stazione, quello verso l' Esquilino, dominano gli italiani con accento napoletano. Uno è poggiato su un' auto tra via Giolitti e via Gioberti. Dopo un po' attraversa e con tranquillità si posiziona quasi accanto all' entrata della stazione. A seguirlo c' è un ragazzo, sembra essere una sentinella pronta a scattare se qualcosa non va. A pochi metri dal mercato illegale delle mascherine ci sono guardie private, poi divise delle forze dell' ordine. Ma l' uomo, sulla quarantina, continua a fare affari, anche con noi. Quanto costa? «Due euro - dice - queste salvano la vita signora, si indossano facilmente, vede?». Insegna come posizionarle sulla bocca, fa pressing sull' acquisto, drammatizza, prova a mettere insieme qualche frase («peste», «vaiolo»), preannuncia in pratica la fine del mondo che ovviamente avverrà a breve. «Tra un po' il virus esploderà, le mascherine non si troveranno più, stanno già finendo le scorte e allora sì che saranno guai per noi italiani, mica solo per i cinesi». È il turno di un anziano. «Mi ha chiesto due euro, ma io glene ho dati solo 1,80». «È una semplice mascherina antismog - spiega Cristina Barletta, farmacista di piazza della Repubblica che analizza l' acquisto - una confezione da 3 costa 4 euro, ma chissà da dove le avrà prese, tra l' altro dovrebbero essere dentro confezioni di plastica ed è tutta sporca. Le uniche mascherine che possono avere effetto sono quelle con filtro N 95, le usano i dentisti per interventi, da noi le richieste sono aumentate del 1000 per cento». Il mercato delle mascherine continua a gonfiarsi: un pacco da 50 in un negozio del Centro ieri veniva venduto a 20 euro. «Il costo reale è di 12» aggiunge la farmacista che nel suo negozio intanto ha finito le scorte di gel disinfettante della marca più venduta.

Da “il Fatto Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Per limitare la diffusione del Coronavirus negli aeroporti italiani sono stati installati dispositivi in grado di rilevare la temperatura corporea delle persone. A Ciampino ci sono cinque termoscanner, a Fiumicino 21 e tre di questi sono stati acquistati dalla Sunell Italia. Scherzo del destino - che per fortuna supera ogni stupida barriera mentale e culturale - si tratta dell' azienda importatrice della Sunell Shenzhen technology, con filiali in tutto il mondo e sede a Shenzhen (Cina). È qui che vengono prodotte le telecamere termiche "Body Temp Sn-T5", chiamate anche "Panda" per la loro caratteristica forma. Paolo Cardillo, general manager della società, spiega che le telecamere "riescono a misurare su una folla, con un passaggio di 16 persone ogni fotogramma ovvero ogni 30 millisecondi, una frazione al secondo, nello spazio di raggio della telecamera, la temperatura dei singoli con un errore massimo di 0,3 gradi". È un sistema che è stato ideato già in passato, con la diffusione del virus della Sars. Così, nei monitor di chi effettua i controlli agli aeroporti, appariranno dei quadrati verdi su ogni passeggero: "Quando il quadratino diventa rosso - continua il manager - vuol dire che il passeggero ha la febbre". Anche la produzione di queste telecamere sta subendo le conseguenze della diffusione del virus: "Oltre ai voli - spiega Cardillo - vi è il problema del ritorno dal Capodanno cinese: causa epidemia, non tutte le persone sono rientrate in fabbrica. Non tutta la forza lavoro è a disposizione per la produzione". Ogni termoscanner "Panda" costa, compreso il sistema di rilevazione, circa 20 mila euro. E in Italia ne sono già stati ordinati una quarantina. "Li consegneremo anche agli aeroporti di Verona, Pisa, Firenze, Catania e Palermo - spiega il manager -. E poi ci sono le richieste di aziende private, come Assicurazioni Generali".

Coronavirus, 10 comportamenti da seguire per evitare il contagio. Redazione de Il Riformista il 22 Febbraio 2020. L’Istituto Superiore di Sanità ha redatto un decalogo per segnalare ai cittadini 10 buone norme per evitare il contagio da Coronavirus.

1 – Lavati spesso le mani. Vanno lavate con acqua e sapone per almeno 20 secondi

2 – Evita il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute

3 – Non toccarti occhi, naso e bocca con le mani

4 – Copri bocca e naso se starnutisci o tossisci

5 – Non prendere farmaci antivirali nè antibiotici a meno che non siano prescritti dal medico

6 – Pulisci le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol

7 – Usa la mascherina solo se sospetti di essere malato o assisti persone malate

8 – I prodotti Made in China e i pacchi ricevuti dalla Cina non sono pericolosi

9  – Contatta il numero verde 1500 se hai febbre o tosse e sei tornato dalla Cina da meno di 14 giorni

10 – Gli animali da compagnia non diffondono il nuovo coronavirus

Massimo Finzi per Dagospia il 24 febbraio 2020. I Coronavirus (CoV), scoperti negli anni ‘60, sono così denominati per la forma della loro superficie che, al microscopio elettronico, appare come una corona a punte. Nel 2002, ai quattro ceppi già identificati, si è aggiunto  il SARS-CoV (Severe acute respiratory syndrome) e nel 2012 il MERS-CoV (Middle East respiratory syndrome) confinato alla penisola arabica. Alla fine di dicembre 2019 è stato identificato in Cina, nella città di Wuhan, un nuovo ceppo di coronavirus denominato 2019-nCoV (nuovo coronavirus 2019): poiché tale virus ha caratteristiche molto simili a quello dello SARS è stato successivamente denominato SARS-CoV-2 e infine l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di identificarlo con la sigla COVID-19 (Corona Virus Disease 2019). Quindi i termini 2019-nCoV, SARS-CoV-2 e COVID-19 sono sinonimi e indicano questo settimo e nuovo ceppo di coronavirus. Questi virus circolano comunemente in alcune specie animali come il pipistrello, il cammello e il dromedario e talora possono fare “il salto di specie” e infettare l’uomo causando sintomi sovrapponibili a quelli dell’influenza o delle altre malattie da raffreddamento quali infiammazione delle alte vie respiratorie con rinite, faringite, tosse, cefalea, febbre, malessere generale. In molti casi il decorso è così lieve da non essere neppure avvertito dal paziente. La gravità della malattia è in funzione di alcuni fattori che interagiscono tra loro: la carica virale, le occasioni e la durata dell’esposizione al contagio, la risposta immunitaria individuale, l’età, eventuali patologie preesistenti ecc. I bambini, proprio in virtù della loro vivace risposta immunitaria, sembrano meno esposti a rischi. Nei casi più gravi la malattia evolve verso polmoniti talora fatali, shock e insufficienza renale. La percentuale di evoluzione infausta viene stimata intorno al 3% dei malati che però rappresentano solo una parte dei contagiati: è importante comprendere la distinzione tra contagiati e ammalati perché scontrarsi con il virus non vuol dire ammalarsi con automatica certezza.  E’ comunque fondamentale identificare e isolare anche questi soggetti perché, pur non essendo malati, potrebbero contribuire alla diffusione del virus. Il contagio avviene soprattutto attraverso le goccioline dello sternuto e della tosse ad una distanza inferiore ai due metri e con il contatto delle mani non lavate con bocca, naso e occhi. Il lavaggio accurato delle mani con detergenti o anche con soluzioni alcoliche è la misura profilattica più efficace, consigliabile infine la pulizia delle superfici con soluzioni alcoliche o clorate. Ma se i sintomi del nuovo coronavirus sono simili a quelli dell’influenza stagionale quando scatta l’allarme? Quando i sintomi si manifestano in un soggetto che proviene da una zona infetta o è venuto a contatto con persone che hanno soggiornato in quelle zone. Il tempo di incubazione varia tra 2 e 12 giorni: per questo motivo, a scopo precauzionale, la quarantena dura 14 giorni. Al momento non esiste una cura efficace e neppure il vaccino. La rilevazione di una alterazione febbrile, messa in atto in tutti gli scali aeroportuali, ha permesso di identificare i soggetti sospettati di essere malati ma non è stata efficace per impedire l’ingresso di coloro che, a causa del periodo di latenza dell’incubazione, avrebbero potuto manifestare in seguito la malattia. Giusta quindi la quarantena di due settimane per chiunque provenga da zone infette o abbia avuto contatto con persone potenzialmente contagiose. La negatività dello specifico tampone faringeo, ripetuto nel tempo, esclude la possibilità di trasmettere il virus.

Quali misure adottare in prevenzione? Quelle dettate dal nostro Ministero della Salute:

- Lavarsi le mani accuratamente.

- Evitare il contatto ravvicinato con persone che presentino sintomi respiratori acuti.

- Evitare di toccare con le mani non preventivamente lavate la bocca, il naso e gli occhi.

- Coprire bocca e naso in caso di sternuto o tosse, meglio se con l’incavo del gomito.

- Usare fazzoletti di carta monouso da gettare in un sacchetto chiuso.

- Pulire le superfici con disinfettanti a base di alcol o di cloro.

- Usare la mascherina solo se si sospetta di essere malato o se si assistono malati.

- Non assumere autonomamente terapie ma seguire i consigli del medico.

- In caso di sintomi sospetti non recarsi al pronto soccorso ma chiamare il 112 o il 1500.

- Evitare luoghi affollati.

- Seguire fedelmente le indicazioni fornite dalle autorità competenti.

I sintomi, le precauzioni: 8 cose da ricordare. Come gestire la quarantena in famiglia. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. I sintomi del Covid-19 assomigliano molto a quelli dell’influenza e delle forme parainfluenzali, per questo si creano molti falsi allarmi prima che le analisi di laboratorio consentano una diagnosi certa. Febbre, tosse, mal di gola, dolori muscolari sono i più comuni. Segnalati anche congiuntiviti, disturbi intestinali e diarrea, sebbene più rari. Nei casi più seri si manifestano polmoniti che possono portare a gravi insufficienze respiratorie e insufficienza renale. «L’unico elemento (ma non è sempre così) che può far distinguere il coronavirus dall’influenza è l’insorgere di difficoltà respiratorie — spiega Massimo Andreoni, professore di Malattie infettive all’Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive tropicali —. Se manca l’aria vale la pena allertare il medico curante, soprattutto qualora si sospetti di essere entrati in contatto con persone risultate positive al virus. Ma solo il tampone faringeo può confermare l’eventuale positività al Covid-19». Il coronavirus, come i rinovirus del raffreddore, segue un andamento stagionale: si diffonde di più in inverno. Il caldo e l’ambiente più secco, oltre al fatto che nella bella stagione si sta meno al chiuso, potrebbero ridurne la diffusione.

Marco De Nardin per med4.care il 24 febbraio 2020. Coronavirus: spieghiamo perché non dovete avere paura ma dovete stare a casa. Sono un medico rianimatore ed è per questo che mi permetto di spiegarvi come mai lo Stato stia prendendo delle decisioni così drastiche. Il problema del Coronavirus non è la sua gravità, dal momento che è solo 10, o forse 20, volte più serio dell’influenza. Per quali motivi è più serio dell’influenza?

È diverso, quindi non siamo molto abituati;

Gli anziani non sono vaccinati.

Quindi chi è più a rischio? Gli anziani. Come sempre. I bambini molto meno, non sono segnalati casi gravi pediatrici per il momento. Allora, come mai ci preoccupa così tanto? Perché è MOLTO PIÙ INFETTIVO dell’influenza, ciò vuol dire che si trasmette con enorme facilità. A questo punto facciamo qualche calcolo così da capire meglio qual è il problema.

I dati che leggete non sono “esatti” al millimetro, ma solo delle proiezioni verosimili. Sono approssimati ai numeri interi o, per così dire, “semplici”, in modo che i conti siano più facili da fare anche a mente. Per esempio il numero di italiani è stato approssimato a 50 milioni anzichè 60, così che i calcoli siano più semplici per tutti. Non contano i numeri esatti, ma capire le DIMENSIONI POTENZIALI del problema e capire come mai il governo ha preso una decisione così drastica.

L’Influenza. Di norma l’influenza colpisce nell’arco di una stagione, supponiamo in 5 mesi, circa il 10% della popolazione. Quindi colpisce circa 5 milioni di italiani nell’arco di 30*5 = 150 giorni. La mortalità è dello 0,1%, quindi abbiamo circa 5000 morti (quasi tutti anziani) ogni anno in 150 giorni. Per ogni morto supponiamo di avere circa 4-5 pazienti in rianimazione, per tenerci larghi, e che tutti vadano messi in terapia intensiva. Mettiamo quindi 25.000 persone in terapia intensiva in 150 giorni, con degenza media di 7 giorni, ciò significa 1000-2000 pazienti al giorno in terapia intensiva in Italia durante l’inverno.

Riassumiamo:

Infettività: 10% circa (dati reali) = 50 milioni * 10% = 5 milioni di infetti, molti dei quali inconsapevoli.

Mortalità: 0,1% stimata = 5000 persone in 150 giorni.

Critici (dato stimato): 5*0,1% =  25.000 persone in 150 giorni. quindi circa 1000-2000 persone in terapia intensiva al giorno per influenza. 

I posti letto in terapia intensiva sono per la provincia di Venezia, dove io abito, circa 60 su 1 milione di abitanti, quindi potrebbero essere circa 4000 in tutta Italia. Questo significa che nella peggiore delle ipotesi i pazienti con influenza e le sue complicazioni, ovvero la polmonite, occupano tra il 25 e il 50% al massimo delle terapie intensive d’Italia nel massimo del picco.

Il Coronavirus. Vediamo ora cosa può accadere con il Coronavirus. Ricordiamoci che la grande differenza è che il Coronavirus è estremamente più infettivo e potrebbe infettarci, anziché in 150 giorni, in 30-60 giorni. Supponiamo 60 giorni. Ricordiamo che non esistono dati certi riguardo la potenzialità di persone che esso può infettare. Bisogna tenere conto che è un virus “nuovo”, quindi potenzialmente può colpire fino al 60% della popolazione, dati stimati, quindi facciamo qualche calcolo:

Infettività: 60% potenziale (dati stimati) = 50 milioni * 60% = 30 milioni di infetti, di cui la stragrande maggioranza inconsapevoli.

mortalità: 1-2% stimata = tra 500.000 e 1.000.000 milione di persone. (Per chi ama la precisione 300.000-600.000)

Critici: 5% = 1.500.000 persone in 60 giorni. quindi circa 300.000 persone in terapia intensiva.

Ma abbiamo solo 4000 posti letto! Come possiamo mettere 300.000 persone in terapia intensiva quando abbiamo solo 4000 letti?

Se state a casa, la gente si infetta poco alla volta. Molti non se ne accorgono. Gli altri, specialmente gli anziani, ma anche qualche giovane, noi medici e infermieri li prendiamo, li mettiamo in terapia intensiva, li curiamo e ve li restituiamo. Un poco alla volta. Se invece tutti escono di casa il rischio è che si infettino tutti insieme e che quindi non riusciamo a gestirli, con un aumento importante della mortalità.

Come gestire la quarantena in casa: lavarsi  le mani e letti separati - Le 10 cose da sapere. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Adriana Bazzi. Non chiamiamola più «quarantena», come si faceva nel Medioevo, ma «isolamento domiciliare». L’idea di fondo è la stessa: confinare le persone, che sono venute a contatto con un germe contagioso e potrebbero trasmetterlo ad altre, in strutture protette (come è successo alla Cecchignola, presidio militare di Roma per gli italiani evacuati da Wuhan, in Cina) o a casa. Ma oggi, per il nuovo coronavirus, Covid 19, bastano 14 giorni, il periodo di incubazione durante il quale l’infezione ha tempo di manifestarsi (e non gli storici «quaranta»). Ma chi, oggi, in Italia viene «isolato» a casa per colpa del nuovo coronavirus? «Chi ha avuto contatti con persone che hanno sviluppato l’infezione o chi proviene da aree dove è in atto l’epidemia», conferma Matteo Bassetti, infettivologo all’Università di Genova e presidente della Società italiana di terapia antinfettiva (Sita). Sono persone chiuse in casa ma che possono condurre una vita normalissima, rassicura l’esperto. Non senza, però, alcune precauzioni, partendo dal presupposto che chi è in «quarantena» può trasmettere il virus ad altri componenti della famiglia che devono restare isolate nell’abitazione con lui. «Intanto sarebbe bene che, anziani o bambini in famiglia, venissero allontanati» precisa Bassetti. Al momento i bambini non sembrano particolarmente colpiti dall’infezione, ma gli anziani sì, come dimostrano anche i due decessi italiani. E poi ci sono le regole igieniche, invocate da tutti per controllare l’infezione da coronavirus (ma, in generale, valide per moltissime infezioni, influenza stagionale compresa, ndr). La prima precauzione è quella di lavarsi spesso le mani, accuratamente. E, possibilmente, di non portarle al naso o alla bocca. E poi, nel caso di starnuti, di farlo in fazzoletti di carta, da eliminare subito. Sarebbe bene anche, per chi può, usare bagni separati dal resto della famiglia. E usare biancheria personale, da lavare spesso. «Altra precauzione — aggiunge Bassetti — disinfettare le superfici degli ambienti domestici, soprattutto bagno e cucina, con candeggina o ipoclorito di sodio. Ancora non si sa se il virus può essere trasmesso per altre vie, diverse da quella aerea. Per esempio attraverso liquidi corporei (come la pipì, ndr). O addirittura attraverso rapporti sessuali». Sarebbe bene che la persona «sospetta» non dormisse con il compagno o la compagna: meglio letti separati. Chi è costretto a casa deve poi pure mangiare. E se non ha fatto scorta di cibo, può ordinarlo online o chiedere la consegna a domicilio a negozi o conoscenti. L’infezione non si trasmette attraverso gli alimenti e il «delivery» non è a rischio di trasmissione di virus, anche se è bene attenersi a qualche regola igienica, magari sugli imballaggi esterni (eliminarli subito e, lavarsi sempre le mani). Altro problema, quando eventualmente si presentino sintomi respiratori, come febbre, mal di gola, respiro difficile. «La prima raccomandazione è quella di non andare al pronto soccorso, perché lì si rischia di trasmettere il virus ad altri — dice Bassetti —. Occorre chiamare il 112 o il 118, a seconda delle Regioni, e aspettare indicazioni». Gli animali domestici, cani e gatti, sarebbero al sicuro: per adesso il virus non li contagia.

Da esquire.com il 24 febbraio 2020. I nostri genitori, i nostri zii, fratelli e sorelle maggiori e soprattutto i nonni, ce lo hanno detto in mille modi quando eravamo piccoli: "lavati le mani!". E lo facevamo sul serio, prima di andare a tavola, dopo aver mangiato e così via. Oggi, però, prima di sgranocchiare uno snack in ufficio, o all'Università, chi si alza mai per arrivare fino ai bagni più vicini per lavarsi le mani? Risposta: nessuno. Eppure quelli non erano di certo consigli insensati, esagerati dalla classica apprensività che si dedica ai più giovani, anzi al contrario: erano consigli ragionevoli, sensati e molto più importanti di quanto avremmo mai immaginato. Una prova? Oggi, per contenere il contagio globale dovuto al Nuovo corona Virus (il COVID-19) uno dei consigli che le autorità danno più spesso, soprattutto quelle cinesi, è proprio quello di lavare bene, e spesso, le mani. Lavare le mani è fondamentale: lì si accumulano germi e batteri, succede perché sono il nostro mezzo per avere contatto col mondo, con le mani degli altri, con i soldi, il computer, gli attrezzi per il giardino, gli animali domestici e poi ovviamente noi stessi e il nostro corpo, comprese le zone umide che sono le più esposte a subire l'attacco dei batteri. Eppure le mani le laviamo malissimo, e dobbiamo imparare a farlo meglio: vanno lavate per almeno 20 secondi, per non usare un cronometro fate conto che è il tempo necessario a cantare abbastanza lentamente "tanti auguri a te" per due volte (se avete visto Basta che funzioni di Woody Allen forse vi ricordate che il protagonista usa esattamente questo trucchetto). Il sapone deve essere abbondante e fate attenzione alle unghie, alle pieghe della pelle e così via. Ricordatevi di arrotolare le maniche, se sono lunghe, e lavare insieme alle mani praticamente tutto l'avanbraccio. Infine, e non è un passaggio da sottovalutare, bisogna asciugarle bene e a fondo, senza che rimangano umide. C'è poi la questione della frequenza: dovreste farlo tassativamente prima e dopo che toccate del cibo, prima e dopo che andate in bagno, prima e dopo che cambiate un pannolino, e ricordarvi di farlo ancora più spesso se qualcuno in casa è malato o se siete stati in luoghi pubblici affollati e sporchi. Ma quasi nessuno lo fa in questo modo, ci limitiamo a una passata sotto l'acqua per un minuto scarso, facendo diventare in questo modo i bagni dei luoghi ideali per il proliferare di virus e batteri. Tocchiamo asciugamani, spariamo aria calda sulle nostre mani bagnate con quegli aggeggi che si trovano nei bagni pubblici, ma è tutto sbagliato. Così stiamo spargendo, e non eliminando, germi batteri e virus di ogni tipo. Non serve essere paranoici per riprendere a lavarsi le mani correttamente, basta essere realisti. Oggi siamo esposti a una quantità di possibili contagi enorme: sui mezzi pubblici, in casa, al parco e a lavoro. Per non parlare poi di piscine, palestre, saune e così via. Insomma, questa è la realtà, non certo quella immaginaria di una persona ipocondriaca o paranoica, quindi è necessario lavare le mani bene, accuratamente e farlo sempre. Per quanto alle nostre orecchie possa suonare un po' eccessivo e bacchettone insistere così tanto sul lavarci le mani, la verità è che è ancora più importante di così: il Centre for Disease Control and Prevention ha dedicato al tema del lavaggio delle mani moltissime attenzioni di recente, fino a definire il lavare le mani correttamente "uno dei passi più importanti che possiamo compiere per evitare malattie e la diffusione di germi". Questa rigidità che dobbiamo autoimporci viene da un'evidenza che oggi, attraverso studi epidemiologici e biologici, risulta essere sempre più evidente: lavarsi le mani è efficacissimo per fermare epidemie, diffusione di virus e batteri e l'aumento del numero dei contagiati da una qualsiasi forma di virus influenzale, per esempio. Dobbiamo anche pensare che per quanto noi, egoisticamente, potremmo pensare che facciamo un po' come vogliamo, ne va anche della salute degli altri, come delle persone deboli, giovani, debilitate, immunodepresse, anziane e di un sacco di individui che se contagiati da noi potrebbero patirne le conseguenze in modo molto più serio. Per questi motivi l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha sottolineato come per proteggersi dal Nuovo corona Virus convenga più lavarsi le mani spesso e bene che indossare una mascherina. Pochissime volte si viene contagiati da un virus perché arriva direttamente nella nostra bocca, moltissime volte invece succede che il virus siamo noi a portarlo al viso con le nostre mani, perché ci tocchiamo il volto circa 52 volte al giorno.

Dagospia il 25 febbraio 2020. Dario Bressanini, chimico, divulgatore, sulla sua pagina Facebook. Ero restio a parlare di disinfettanti fai-da-te perché non volevo alimentare l'isteria collettiva ma vedo che è troppo tardi quindi tanto vale dare le informazioni corrette e spiegare come fare un disinfettante per le mani dai fa te che almeno funzioni, NON come quelli che stanno girando in rete. Lasciatemi però dire che, anche a causa del nostro pessimo giornalismo (vedi i titoli di giornale di questi giorni) ho visto scene al supermercato che non vedevo dai tempi della Guerra del Golfo e che speravo di non vedere più, dove tutto il mondo ci ha preso per il sedere per le foto di persone coi carrelli pieni di sale, zucchero e pasta.

1) Lavarsi le mani serve. SEMPRE. Mica solo quando c'è il coronavirus. Serve a ridurre la possibilità di fare entrare virus e batteri nel corpo passando da naso, bocca, occhi etc. che tocchiamo con le mani. E vanno benissimo ACQUA E SAPONE.

In un paese dove ancora resiste il retaggio errato di lavare il pollo nel lavandino, le statistiche dicono che ci laviamo poco le mani. E non solo quando torniamo dal bagno. Quindi oltre a bullarci e prendere per i fondelli gli altri paesi che non hanno il bidet impariamo a lavarci BENE le mani. NO, non lo sappiamo fare. Sì servono 60 secondi, non cinque. 

2) Questione Amuchina. Lo sappiamo, è sparita dai supermercati. "Amuchina" è un nome commerciale, a cui corrispondono formulazioni DIVERSE con disinfettanti DIVERSI a seconda dell'uso previsto e delle concentrazioni.

Nelle formulazioni classiche spesso il disinfettante è a base di cloro, spesso ipoclorito di sodio. Come la classica formulazione a basa concentrazione consigliata alle donne in gravidanza per lavare frutta e verdura cruda. Sì, l'ipoclorito di sodio, con il suo potere ossidante, oltre che sbiancante ("candeggiante") è lo stesso contenuto nella candeggina, che parimenti è un disinfettante (ma non è registrata per uso alimentare e quindi non è il caso di usarla per le verdure).

*Intermezzo*: vedo ancora una volta gli italiani dare il peggio su WhatsApp e gruppi Facebook. TOGLIETEVI da lì, staccate la spina a chi diffonde terrore senza alcuna cognizione di causa.

3) I prodotti a base di cloro sono efficaci disinfettanti (a certe concentrazioni) soprattutto per le superfici, tipo il bancone della cucina o il bagno. Sì, anche la candeggina. NON è vero (come leggo in alcuni gruppi) che NON disinfetta solo perché non è registrata al ministero come presidio medico chirurgico. La registrazione è una cosa diversa, una azienda registra un prodotto (pagando) perché vuole che abbia un certo uso e sia certificato, ma le proprietà ossidanti dell'ipoclorito sono quelle.

4) Anche il Ministero consiglia di usare prodotti a base di cloro come disinfettanti per le superfici. Quindi la formula che gira, diluendo la candeggina, va bene anche per le mani? NO.

5) L'efficacia dell'ipoclorito contro microrganismi patogeni dipende sia dalla concentrazione sia dal tempo di contatto. Questa è una cosa che ha indagato l'OMS da tempo, anche in risposta alle epidemie di virus come Ebola, nel tentativo di fornire dei mezzi di disinfezione efficaci fai-da-te anche in paesi poveri. Quindi va BENISSIMO la candeggina o analoghi su superfici, dove la si lascia agire per il tempo necessario (anche vari minuti io la lascio quando lavo, oppure pensate al gel a base di candeggina che lasciate agire nei sanitari per anche 10 minuti). Il problema è al punto 1: le mani ce le laviamo in poche decine di secondi, e in quel breve lasso di tempo l'efficacia dell'ipoclorito non è molta.

6) Quindi quella formula che gira emula sì l'amuchina, ma quella che viene venduta per lasciare a bagno la verdura per molti minuti, che NON SERVE per lavarsi le mani. L'amuchina in gel per le mani è a base di ALCOOL ETILICO.

7) Anche l'OMS (e il ministero della salute) consigliano prodotti a base di Alcol etilico o alcol isopropilico. Gli esperimenti mostrano che l'alcol etilico è efficacissimo per disinfettate in poche decine di secondi la pelle a patto che A) le mani siano pulite e lisce. Se sono sporche di terra l'efficacia del gel è ridotta. B) La concentrazione di alcool sia tra il 60% e l'80% circa.

In altre parole l'alcol puro è MENO efficace di una miscela con una certa percentuale di acqua. E questo perché acqua e alcol denaturano efficacemente le proteine sulla superficie di virus e batteri e permettono più facilmente alla miscela di penetrare e distruggere tutto.

9) E' per questo che l'OMS consiglia di produrre un disinfettante con Alcol etilico (che è il vero disinfettante), glicerina (che serve per umettare e aumentare la densità del prodotto) e un po' di acqua ossigenata (che serve a eliminare eventuali spore batteriche dal prodotto stesso, che non sono uccise dall'alcol.

10) Sono tutti ingredienti comuni in vendita nei supermercati. MANTENETE COLLEGATO IL CERVELLO E NON CORRETE AD ACCAPARRARVI DECINE DI LITRI DI ALCOOL. Come dicevo acqua e sapone vanno benissimo. E se siete fuori casa semplicemente evitate di toccarvi il viso. Se avete contatti prolungati in zone dove il rischio è più alto usatelo ma ricordatevi che la prevenzione migliore è lavarsi spesso le mani.

11) Le dosi dell'OMS per la ricetta sono queste per 1 Litro

833 ml di alcol etilico al 96%

42 ml di acqua ossigenata al 3%

15 ml di glicerina (glicerolo) al 98%

Acqua distillata oppure bollita e raffreddata quanto basta per arrivare a 1 litro. Mettete in una o più bottigliette.

12) Girano anche altre ricette a base di alcol, ma vedo che è troppo diluito per essere efficace. E lasciate perdere bicarbonato, aceto, oli essenziali, limone e tutto il resto della paccottiglia solita del fai-da-te-magico (scusate ma come chimico mi girano sempre i marroni a leggere certi intrugli)

13) Ora sono in viaggio. Appena arrivo a casa mi organizzo e farò sia un video su YouTube che delle storie su Instagram dove faccio vedere come si prepara. Ma intanto DIFFONDETE questo post su tutti i gruppi dove vedete della cattiva informazione.

Dario Bressanini (Questo è un post che ho appena fatto su Facebook ma che ho messo anche qui a beneficio di chi non frequenta quel social network)

Coronavirus, come nacque l’abitudine di lavare le mani: l’intuizione del dr Semmelweis. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Anna Mannucci. Per proteggersi dalle influenze, e ancor di più dal Coronavirus, è stato consigliato di lavarsi bene le mani(nella foto Ansa, il pilota di F1 Fernando Alonso, ambasciatore Unicef, durante una campagna sul tema in India) . Potrebbe sembrare un’indicazione banale, quasi inutile, ma una storica vicenda ci insegna che non è così. Il medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis (1818 – 1865) scoprì che questa pratica igienica poteva salvare la vita alle puerpere, la cui mortalità nella clinica ostetrica all’Ospedale generale di Vienna era altissima. Céline ha dedicato a Semmelweis la sua tesi di laurea, nel 1924, diventata poi un libro memorabile (Louis-Ferdinand Céline, Il dottor Semmelweis, Adelphi edizioni, 1975, per la versione italiana). Semmelweis aveva 28 anni e rimase molto colpito dalle strane percentuali della mortalità delle partorienti: 1% nel settore dove i parti erano seguiti dalle ostetriche (femmine), l’11% nel settore dove intervenivano i medici (maschi). Le donne morivano di «febbri puerperali», le spiegazioni molto scientifiche furono cercate nella aria inquinata della città (!), nel suono della campanella che accompagnava le estreme unzioni, miasmi vari e altre bizzarrie. Semmelweis studiò molto la situazione che trovava inaccettabile e fece delle statistiche; in un suo libro dimostrò la correlazione esistente tra l’introduzione, nel 1823, dell’anatomia patologica (ovvero le autopsie) nella clinica viennese e l’aumento delle morti per febbre puerperale. L’illuminazione gli arrivò dalla morte di un collega che si era ferito con un bisturi appunto durante un’autopsia: le febbri mortali erano trasmesse dai medici stessi, che visitavano le partorienti dopo avere effettuato delle autopsie, senza guanti sterili (ovviamente) e senza lavarsi le mani. Così obbligò i medici a lavarsi le mani con un disinfettante prima di visitare le donne e a far cambiare le lenzuola e la mortalità crollò. Effetto collaterale: fu violentemente attaccato dall’establishment medico, e non solo, di Vienna. Non era considerato accettabile che i medici potessero sbagliare, a lui non fu rinnovato il contratto, dovette tornare in Ungheria e presto morì in manicomio, anche a causa dell’incomprensione e dell’ostilità che aveva incontrato. E le donne continuarono a morire, e non solo a Vienna, ma questo non fu considerato rilevante, la «scienza ufficiale», quella con il potere, aveva vinto. Gli studi, i tanti dati da lui raccolti, i risultati delle pratiche igieniche, non contarono nulla. Era giovane, straniero e non faceva parte dei potenti locali.

Quel medico ungherese che disse: «Lavatevi le mani», ma lo presero per pazzo. Daniele Zaccaria de Il Dubbio il 10 marzo 2020. Ignace Semmelweis con quel semplice gesto ha salvato migliaia di vite. «Lavatevi le mani!». Un consiglio anodino che, in questi giorni di virali passioni, è diventato un mantra imprescindibile per tutti noi. Eppure, questo gesto così semplice è stato ignorato per secoli dalla medicina con catastrofiche conseguenze per la salute pubblica. In particolare negli ospedali, autentici ricettacoli di virus e batteri. Ci è voluto un medico ungherese, Ignace Semmelweis, per scoprire quante vite umane possono essere salvate d quel semplice gesto. Verso la metà dell’Ottocento nei reparti di ostetricia degli ospedali viennesi una donna su cinque moriva durante il parto a causa di una patologia molto insidiosa: la febbre puerperale. Semmelweis, che all’epoca lavorava proprio in uno di quei reparti, non accettava le giustificazioni della medicina ufficiale che attribuiva quei decessi a cause oscure, come i “miasmi”, i “fliuidi dell’utero” o a oscuri “squilibri” organici, concetti privi di evidenza sperimentale derivati dall’antichità. Semmelweis, che era un tipo pratico, non prestava molta fede a quella psudo- scienza. Preferiva dunque affidarsi all’osservazione e infatti notò una particolare coincidenza: un suo collega professore di anatomia era deceduto a causa di un’infezione molto simile a quella che colpiva le madri dopo aver praticato un’autopsia. E allo stesso tempo vide che il tasso di mortalità nel padiglione di ostetricia aumentava quando erano presenti i medici e calava quando c’erano soltanto ostetriche e infermieri...Molti di coloro che praticavano le autopsie spesso passavano da un reparto all’altro e in quei passaggi maturavano le infezioni. Da qui l’intuizione di Semmelweis che chiese ai colleghi di lavarsi le mani con una soluzione di ipoclorito di calcio prima di entrare nel suo padiglione. Anche gli strumenti operatori dovevano essere igienizzati alla stessa maniera. Questa “accortezza” che oggi ci sembra una cosa più che ovvia produsse risultati straordinari: in meno di due anni il tasso di mortalità post- parto precipitò dal 12% all’ 1%. Una scoperta che avrebbe dovuto ricevere pubblico encomio e che ha aperto la strada allo studio della moderna batteriologia e virologia ma che fece letteralmente infuriare i grandi baroni degli ospedali dell’impero austro- ungarico. Non solo Semmelweis non ottenne alcun riconoscimento, ma venne apertamente osteggiato per una scoperta che metteva in discussione i dogmi e le superstizioni dell’onorata società medica. Il direttore dell’ospedale Johann Klein era profondamente irritato da quel giovane dottore ungherese ( aveva 27 anni) dal piglio anticonformista ( era un nazionalista che avversava l’impero) che aveva imposto l’obbligo di lavarsi le mani a chiunque entrasse in contatto con i suoi pazienti. Un’insolenza che non poteva avere scuse: «Non siamo degli untori», gli rispose a muso duro negando qualsiasi relazione tra la pulizia delle mani e il calo delle morti. Semmelweis viene progressivamente isolato, lo prendono per un pazzo fanatico, lo escludono dai convegni, fino a quando non riceve una lettera di licenziamento firmata direttamente dal dottor Klein. E a poco sono serviti i suoi appassionati memoriali in cui rivendicava l’evidenza clinica della sua scoperta e il contributo per la salute pubblica, Nessuna rivista diede spazio alle sue teorie che vennero liquidate come delle puerili scorciatoie mentre proliferavano le illazioni sul suo equilibrio mentale. E dire che di lì a poco più di un decennio le ricerche di Louis Pasteur confermarono alla lettera le intuizioni di Semmelweis. Ma ormai era troppo tardi, la sua strada era segnata. Prima il ritorno in Ungheria dove lavora in nella clinica Szent Rokus applicando gli stessi metodi e ottenendo gli stessi risultati: tra il 1851 e 1855 su mille partorienti solo otto donne persero la vita a causa di un’infezione. Finalmente un editore locale decide di pubblicare le sue scoperte in un volume che però non ottiene alcuna visibilità. Anzi, i pochi “luminari” germanofoni che lo citano lo fanno per infierire su di lui, definendolo un «ignorante», un «esaltato», un «irresponsabile», un «nemico della comunità medica». La frustrazione, la rabbia, la tristezza e la depressione prendono il sopravvento e, a forza di sentirsi dire di essere pazzo, Semmelweis diventa pazzo davvero. I suoi ultimi anni di vita sono pura agonia; viene ricoverato in un manicomio alla periferia di Vienna dopo essere caduto nell’alcolismo ed essersi allontana dalla famiglia. All’interno dell’asilo psichiatrico Semmelweis perde completamente la ragione, aggredisce gli infermieri che ricambiano pestandolo a sangue a più riprese. Ironia e crudeltà della sorte muore nel 1865 in seguito a un’infezione batterica che prolifera sulle sue ferite, prima provocate e poi trascurate dal personale della clinica Ha lasciato al mondo della medicina un’eredità che gli verrà riconosciuta soltanto post- mortem quando la moderna microbiologia spazza via le antiche credenze. «Il destino mi ha scelto per essere il missionario della verità nella dura battaglia contro la febbre puerperale. Ho smesso da tempo di rispondere agli attacchi di cui sono costantemente l’oggetto da parte della comunità accademica; l’ordine delle cose proverà presto ai miei avversari che io avevo ragione e loro completamente torto, Ora per me non c’è più alcun bisogno di partecipare a queste sterili polemiche». Si tratta di una delle ultime lettere scritte da Semmelweis quando era ancora lucido mentalmente, Una lettera citata da Louis Ferdinand Céline all’interno della sua tesi di medicina discussa nel 1924. Un eretico reietto che alternava genio e follia come l’ungherese Ignace Sommelweiss non poteva non piacere al grande scrittore francese.

Giuseppe Culicchia per “la Stampa” il 20 marzo 2020. «Le mani! Le mani! Dovete lavarvi le mani!». Pare di sentirlo, il dottor Semmelweis, battezzato dai genitori proprietari di una drogheria come Ignazio Filippo (Ignác Fülöp), nato a Budapest il 1° luglio 1818 e morto dopo indicibili sofferenze nel manicomio della capitale ungherese appena 47enne il 16 agosto 1865: oggi sarebbe un testimonial perfetto per la campagna di prevenzione del Covid-19, anche se in effetti non si occupava di virus ma di quell' infezione puerperale che all' epoca falcidiava migliaia di donne, destinate a morire poco dopo il parto per via dell' assurda cecità di medici che dopo aver sezionato cadaveri le visitavano certi di non doversi nel frattempo lavare le mani. Al dottor Semmelweis dedicò la tesi di laurea nel 1924 uno studente di medicina nato a Courbevoie nei pressi di Parigi l' 11 maggio 1894: si chiamava Louis-Ferdinand Destouches, ma in seguito sarebbe diventato celebre come Céline. E oggi che a causa della pandemia le case editrici posticipano l' uscita di non poche novità, rileggere Il dottor Semmelweis (tradotto per Adelphi nel 1975) fa una certa impressione, specie pensando al dottor Li Wenliang, l' oftalmologo cinese 34enne che fu il primo a dare l' allarme riguardo all' insorgenza del Covid-19, da cui sarebbe stato ucciso, e che all' inizio di quest' orribile faccenda venne redarguito dalla polizia del suo Paese per «procurato allarme». Non gli si è voluto credere, al dottor Li Wenliang: proprio come un secolo e mezzo fa non si volle credere al suo collega ungherese. Il dottor Semmelweis è in realtà il primo romanzo di Céline, anche se il suo autore non lo concepì come tale: contiene infatti qua e là la petite musique, ossia il marchio di fabbrica di uno scrittore che dopo aver prestato servizio nell' esercito durante la Grande guerra avrebbe scritto testi destinati a cambiare per sempre la storia della letteratura, da Viaggio al termine della notte a Casse-Pipe, passando per Morte a credito e Da un castello all' altro. E certo è singolare che, ben prima di diventare non solo uno dei più grandi scrittori di Francia ma anche un reietto e un emarginato a causa delle sue simpatie per la Germania di Hitler e dell' antisemitismo di testi come Bagatelle per un massacro o La scuola dei cadaveri, Céline abbia scelto per la sua tesi di raccontare la storia di un altro reietto ed emarginato. Scrivendo, in quello che in teoria doveva essere un testo scientifico, passi che annunciavano la nascita di uno straordinario talento letterario: «Filippo ebbe un giorno quattro anni, poi dieci. A tutti quanti, e ovunque, egli sembrava felice; fuorché a scuola. Non amava affatto la scuola, e per questa sua avversione faceva disperare il padre. Filippo amava la strada. I bambini hanno, ancor più di noi, una vita superficiale e una vita profonda. La loro vita superficiale è molto semplice, si riduce a una qualche disciplina, ma la vita profonda di un qualsiasi bambino è la difficile armonia di un mondo che si crea. In questo mondo debbono entrare, giorno per giorno, tutte le tristezze e tutte le bellezze della terra. È l' immenso lavoro della vita interiore». Il tratto iniziale della strada percorsa da quel bambino lo porta, anziché alla facoltà di Diritto ambita dal padre rimasto vedovo, a quella di Medicina, a Vienna. Dove Semmelweis s' imbatte in due luminari: Skoda, celebre per i suoi lavori sull' auscultazione, e Rokitansky, titolare della prima cattedra di anatomia patologica della capitale austriaca. Semmelweis è impetuoso, brillante al punto da impensierire Skoda, consapevole da parte sua che sono gli allievi migliori a distruggere i Maestri. In fondo il professore ama quello studente, però non vuole averlo tra i piedi: «Si può amare il calore del fuoco, ma nessuno ci si vuol bruciare. Semmelweis era il fuoco». Già: proprio come Céline. Sta di fatto che grazie a Skoda il 27 febbraio 1846 Semmelweis prende servizio presso il padiglione per il parto del professor Klin, adiacente a quello diretto dal professor Bartch. Pasteur e le sue scoperte sono di là da venire, più di nove operazioni su dieci terminano con la morte o con l' infezione del paziente, ovvero con «una morte più lenta e ben più crudele», e i tassi di mortalità delle puerpere nel padiglione di Klin, dove operano medici, sono assai più alti rispetto a quelli del padiglione di Bartch, dove operano ostetriche. «Semmelweis fu preso, trascinato, pestato dalla danza macabra che mai doveva interrompersi intorno a quei due terribili padiglioni». Certe donne del popolo preferiscono addirittura partorire per strada, vista la fama orrenda di quel posto. Semmelweis capisce però che se il numero dei decessi nel padiglione di Klin è più alto deve esserci un motivo. Passa tutte le notti al capezzale delle puerpere, si rompe la testa per capire che cosa c' è all' origine di quelle morti, mentre intorno a lui i colleghi non fanno altro che deridere i suoi sforzi, convinti come sono che la causa sia una non meglio precisata «febbre delle puerpere». Poi però uno di loro muore dopo essersi ferito con un bisturi durante un' autopsia, e Semmelweis capisce. La febbre puerperale è trasmessa dagli stessi medici: «Le mani, per semplice contatto, possono infettare», scrive nella sua relazione. Eppure, Klin in testa, nessuno gli dà credito. Al contrario, inizia la sua persecuzione da parte di una casta che non tollera insinuazioni sulla propria igiene. Così, per cecità, invidia, orgoglio, pregiudizio e pura cattiveria, Semmelweis viene allontanato posto di lavoro. È, quello, il tratto di strada che lo condurrà poi alla follia e a una morte atroce in manicomio. «Lettore fortunato, stai per trovare qui un Céline senza ombre», scrisse Guido Ceronetti nella postfazione al volume. Il dottor Sedal mmelweis era un puro, come il dottor Li Wenliang. Il dottor Destouches invece no: ma senza di lui, la voce di Semmelweis non sarebbe giunta fino a noi.

Da "ansa.it" il 20 marzo 2020. Il dodle di Google di oggi e' dedicato al dottor Ignaz Semmelweis, medico ungherese pioniere della teoria del lavaggio delle mani, una pratica quanto mai importante in questa fase dell'epidemia del coronavirus. Nato nel 1818, iniziò il suo tirocinio come capo degli specializzandi della più grande clinica ostetrica di Vienna. Nel 1847 scoprì che la febbre puerperale, a quel tempo responsabile della morte di molte donne che partorivano in ospedale, era causata da una infezione della stessa natura di quella che uccideva i chirurghi che si ferivano accidentalmente nel corso di esami su cadaveri o mentre effettuavano interventi su pazienti infetti. In sostanza, le mani non pulite bene o disinfettate, erano il veicolo della malattia. Per scongiurare altri decessi, propose allora di usare una soluzione di cloro per disinfettare le mani di studenti e professori e in un solo anno riuscì a ridurre le morti del 90%. La sua scoperta fu inizialmente osteggiata ma nelle settimane della diffusione del coronavirus, il suo insegnamento appare quanto mai Importante, ripetutamente ricordato dalle autorità sanitarie e governative di tutto il mondo.

Adriano Scianca per “la Verità” il 2 aprile 2020. Conta fino a 20. Anzi, 40. Facciamo un minuto. Nel frattempo insapona, strofina, spandi, sfrega. «Lavatevi bene le mani»: il consiglio ci viene ripetuto ossessivamente da giorni. È una delle stranezze di questo momento folle e tragico: raccomandazioni così banali per un male così insidioso. Lavarsi le mani è una di quelle cose che tutti sappiamo di dover fare da sempre, anche se forse abbiamo sempre fatto meno del dovuto. Eppure quest' evidenza non è sempre stata tale. C' è stato un momento preciso in cui si è preso coscienza dell' utilità di questo semplice gesto, che ha avuto anche uno scopritore. Si tratta del medico ungherese Ignáz Fülöp Semmelweis. Qualche giorno fa Google gli ha pure dedicato il suo doodle (cioè la versione modificata del suo logo a fini celebrativi), riconoscendo in lui il pioniere delle pratiche di profilassi che oggi i virologi ci ripetono fino allo sfinimento. Un uomo che ha un posto nella storia della medicina, ma anche uno in quella della letteratura. Fu a lui, infatti, che, nel 1924, l' allora studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches, non ancora divenuto Céline, dedicò la sua tesi. Chi era Semmelweis, cosa ha a che fare con il lavaggio delle mani e perché Céline scrisse una tesi - poi divenuta un libro - su di lui? l'assistente sveglio Semmelweis nacque nel 1918 a Tabán, vecchio quartiere commerciale di Buda. Dopo aver studiato medicina, nel 1846 divenne assistente nel primo reparto ostetrico dell' Allgemeines Krankenhaus di Vienna, all' ombra del dottor Johann Klein. Qui, Semmelweis ebbe modo di studiare da vicino il problema della febbre puerperale, cioè l' infezione all' utero che può verificarsi dopo un parto e che, nel reparto di Klein, mieteva vittime con percentuali particolarmente elevate. Cosa c' era di diverso nel reparto gestito dal dottor Klein? L' illuminazione di Semmelweis fu geniale e semplice allo stesso tempo: gli assistenti di Klein erano soliti passare abitualmente dalle autopsie alle visite alle neomamme. Senza mai lavarsi le mani. Bingo. La controprova della sua tesi fu semplice: Semmelweis impose di lavarsi le mani a tutti quelli che entravano nel reparto. Ovviamente la percentuale delle infezioni riscontrate crollò. Pur sostenute da alcuni luminari, le teorie di Semmelweis incontrarono la viva opposizione da parte dei più reputati specialisti del tempo come Friedrich Wilhelm Scanzoni e Rudolf Virchow. Insomma, un po' come accaduto in Cina allo scopritore del coronavirus, Li Wenliang, come ha fatto notare Giuseppe Culicchia sulla Stampa. Nella campagna contro Semmelweis sembra peraltro abbia giocato un ruolo anche il suo nazionalismo magiaro, malvisto nella capitale dell' impero. Sta di fatto che il giovane medico perdette il posto e dovette abbandonare Vienna. Da Budapest pubblicò il noto saggio Die Aetiologie, der Begriff und die Prophylaxis des Kindbettfiebers. Attaccato di nuovo, rispose con alcune lettere aperte, per poi dare segni di pazzia e, nel 1865, morire in manicomio. Si dovettero aspettare i lavori di Louis Pasteur per rendergli il dovuto omaggio postumo. il dottor destouches Al di fuori della cerchia degli appassionati di storia della scienza, tuttavia, il nome di Semmelweis acquisì una certa notorietà grazie a un collega che però si farà notare più per l' uso della penna che non per quello del bisturi: Céline, appunto. Il tema gli era stato consigliato dal professor Brindeau, presso cui aveva sostenuto uno stage di ostetricia. Un amico dello scrittore, citato dal biografo Émile Brami, ha raccontato: «La storia di Semmelweis era fatta per lui, non gustava che il disastro». Louis-Ferdinand cominciò a scrivere la tesi su La vie et oeuvre de Philippe-Ignace Semmelweis nel 1923, per poi discuterla il 1° maggio dell' anno successivo. Il testo non somigliava a una tesi ordinaria di medicina: più che alle tecniche di Semmelweis, il giovane Destouches sembrava interessato al personaggio. In più era stato singolarmente impreciso per un elaborato specialistico. Glielo fece notare, in un pezzo pur amichevole, Tiberius de Györy, editore ungherese di Semmelweis, che rispose sulla rivista La Presse Médicale a un articolo di Céline in cui, sulla medesima testata, aveva riassunto il contenuto della sua tesi. No, nel reparto dei Klein la mortalità non era del 96%, ma si aggirava tra il 16% e il 31%. Inoltre, «tutta la scena attorno al cadavere» di Semmelweis «è di pura immaginazione». Diavolo di un Céline: dottore alle prime armi che infarcisce di licenze poetiche un articolo uscito su una rivista specialistica. Era del resto chiaro a chiunque che non solo di medicina si trattava, quando si leggevano frasi come: «Nella storia del tempo la vita è solo un' ebrezza, la verità è la morte». Eppure era stata una scelta in onore della vita quella che aveva portato Céline a confrontarsi con Semmelweis, l' angelo delle puerpere. Fa tutto parte dell' inafferrabilità del fenomeno Céline, oggetto letterario non identificato. Ha scritto un altro biografo céliniano, Henri Godard: «Contrariamente all' immagine disperata che egli ha dato di sé con innumerevoli dichiarazioni, egli sarà fino alla fine un cantore del parto. Vi tornerà su a più riprese, in mezzo a imprecazioni e a provocazioni, nei suoi ultimi romanzi». È il caso di Rigodon, per esempio, dove leggiamo: «Io ho fatto da levatrice, posso dirmi appassionato dalle difficoltà di passaggi, visioni di pertugi, quegli attimi così rari in cui la natura si lascia osservare in azione, così sottile, come essa esita, e si decide al momento della vita, se mi è lecito dire tutto il nostro teatro e le nostre belle lettere sono al coito e dintorni fastidiose rimasticature! l' orgasmo è poco interessante, tutta la montatura dei giganti di penna e di cinema, i milioni di pubblicità hanno mai potuto mettere in risalto se non due tre piccole scosse di sederi lo sperma fa il suo lavoro sin troppo di soppiatto, sin troppo segreto, tutto ci sfugge il partorire questo sì che vale la pena di essere visto!».

Interdetti ancestrali Nascita, morte. L' elementare grammatica dell' esistenza. Due dimensioni fra le quali, per dirla con Baudrillard, c' è uno scambio impossibile. Eppure, come nota acutamente Guido Ceronetti nella postfazione all' edizione Adelphi del libro céliniano, il positivismo ottocentesco che saturava le aule della scuola medica viennese era convinto del contrario. Vita, morte, che differenza fa? Un cadavere non può fare del male. Quanto a quella bizzarra idea di microbi invisibili che contaminano le ferite, non era forse un vero e proprio oltraggio all' orgoglio medico? Se lo sguardo razionale non li vede, significa che non esistono.

Scriveva Ceronetti: «La civiltà europea si era così bene ripulita degli interdetti arcaici sull' impurità dei morti da restare, di fronte alla forza dei morti, completamente indifesa. In qualche campagna superstiziosa si coprivano ancora gli specchi nella stanza del morto per impedire la cattura dei vivi, ma nelle grandi scuole, nelle università illuminate, si poteva stare sicuri: i morti nei possono farci nessun male, il coltello è dei vivi. Sembra ragione, non è così». Semmelweis, che pure è scienziato a tutto tondo e applica rigorosamente un metodo razionale per giungere alle sue conclusioni, finisce quindi per riportare in onore una sapienza ancestrale: «Le levatrici con le mani giubilanti di cadavere! Nella più povera capanna polinesiana, nella più miserabile tenda beduina, un simile vomitamento di materie cadaveriche nelle vulve fertili sarebbe stato punito con la morte».

Da "repubblica.it" il 2 aprile 2020. Alcuni studi scientifici, tra cui quello del Centers for Disease Control di Taiwan, spiegano come il sapone riesca a distruggere il materiale genetico del coronavirus. Le molecole di sapone, infatti, riescono ad attaccare il rivestimento esterno delle particelle virali del Covid-19. Per questo la comunità scientifica sottolinea l'importanza di lavarsi accuratamente le mani con un detergente.

Mia de Graaf per it.businessinsider.com il 7 marzo 2020. Può essere difficile cambiare il modo in cui hai fatto qualcosa per tutta la vita. Ma con la preoccupazione diffusa per il diffondersi del coronavirus, è una sfida che molte persone devono affrontare. Tutti noi (si spera) ci laviamo le mani ogni giorno, eppure è raro vedere qualcuno in piedi vicino al lavandino accanto a te fare una schiuma e uno strofinamento completo che duri da 20 a 30 secondi, come ora ci viene consigliato di fare dai funzionari sanitari. Se trovi difficile prendere l’abitudine di lavare le mani più a lungo, l’attrice Kristen Bell ha qualche spunto per te. Mercoledì Bell ha pubblicato su Instagram una serie di foto che sua madre le aveva inviato, mostrandole le mani in diverse fasi di pulizia. Utilizzando una luce UV e una crema chiamata Glo-Germ – un olio minerale che si attacca ai germi, ed è visibile solo sotto una luce UV quando appunto si attacca ai germi – è stata in grado di mostrare quanta sporcizia c’era sulle sue mani, anche se sembravano pulite a occhio nudo. Ha mostrato una differenza drammatica tra l’efficacia di un lavaggio di sei secondi con sapone e un lavaggio di 15 secondi con sapone. Anche se meno accentuata, c’era anche una certa differenza tra un lavaggio di 15 secondi con sapone e uno di 30 secondi: dopo 15 secondi, la mamma di Bell aveva ancora alcune tracce ostinate di batteri bloccati nelle pieghe delle dita e delle nocche, che si sono sbiadite dopo uno strofinamento di 30 secondi. Abbiamo fatto lo stesso esperimento confrontando un lavaggio di mani con sapone con quello fatto col disinfettante per le mani. La scorsa settimana, Business Insider ha condotto un esperimento simile, confrontando l’uso del disinfettante per le mani con un lavaggio accurato delle mani. I funzionari sanitari concordano sul fatto che sia una buona idea per tutti usare i disinfettanti per le mani, in particolare per coloro con patologie pregresse come l’asma o l’enfisema, ma esortano le persone a non vederlo come sostituto di acqua e sapone. Come abbiamo scoperto con il nostro esperimento, il disinfettante per le mani è efficace, ma per nulla efficace quanto il lavaggio delle mani. Ho messo su Glo-Germ e mi sono fatto una foto illuminata dai raggi UV della mia mano sporca dopo che ero andato in farmacia per comprare alcuni oggetti per la casa, usando i contanti e anche toccando una tastiera per digitare il numero della mia carta premio. Come si può vedere, erano piuttosto sporche. Quindi, ho messo su una dose abbondante di disinfettante per le mani Purell. (Per assicurarsi che il disinfettante per le mani faccia il suo lavoro, ce ne è bisogno di quasi un cucchiaino, secondo l’ American Council on Science and Health.) Detto questo, i germi si sono abbastanza sbiaditi. Tuttavia, il disinfettante per le mani non rimuove i batteri (come fa il sapone per le mani). Neutralizza semplicemente i batteri, ma li lascia sulla mano, consentendogli di ripresentarsi in seguito. La foto più eclatante è stata l’ultima, dopo aver insaponato le mani per 20 secondi e sciacquato per 5-10 secondi. È la foto che risplende di meno, perché ci sono pochissimi germi a cui il Glo-Germ si attacca.

C’è un divario di genere nel lavaggio delle mani. La ricerca ha da tempo dimostrato che il lavaggio delle mani non è scontato per tutti. Uno studio internazionale condotto nel 2014 da ricercatori britannici ha rilevato che il 19% delle persone si lava le mani con il sapone dopo essere entrato in contatto con le feci. I funzionari sanitari insistono sul fatto che è indispensabile invertire questi numeri – secondo una recente ricerca del MIT, aumentare il lavaggio delle mani in soli 10 aeroporti negli Stati Uniti ridurrebbe la diffusione del coronavirus del 60 percento. Eppure, Insider Data ha condotto un sondaggio il mese scorso che ha scoperto che sebbene molte persone si lavino le mani di più di prima, c’è un significativo divario di genere: delle 1.000 persone intervistate, il 65% delle donne ha affermato di stare più attenta a lavarsi le mani, rispetto al 52% degli uomini.

Lavati e strofina le mani per 20 secondi – e se non ti piace cantare “Happy Birthday”, prova “Jolene”. Un modo utile per effettuare il lavaggio delle mani nel modo giusto è cantare una canzone nella tua testa (o ad alta voce) e fermarsi solo quando è finita. Il classico è cantare “Happy Birthday” due volte. Ma lunedì Insider ha compilato un elenco di altre canzoni su cui puoi effettuare il lavaggio, tra cui “Jolene” e “Raspberry Beret”. E ricorda, anche dopo che la canzone è finita, prenditi il tempo di asciugarti accuratamente le mani – nuovi germi proliferano nell’umidità. Informazioni sul nostro sondaggio: le persone intervistate nei sondaggi di SurveyMonkey Audience sono prese da un campione nazionale bilanciato dai dati del censimento relativi a età e sesso. Gli intervistati sono incentivati a completare i sondaggi attraverso contributi di beneficenza. In generale, il polling digitale tende a spostarsi verso persone che hanno accesso a Internet. SurveyMonkey Audience non cerca di ponderare il suo campione in base alla razza o al reddito. Sono stati raccolti in totale 1.051 interviste il 27 febbraio 2020, con un margine di errore di più o meno 3,09 punti percentuali con un livello di fiducia del 95%.

Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 12 marzo 2020. La regola ormai dovremmo averla stampata in testa. Per evitare contaminazioni con il pericoloso coronavirus l’Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato di lavarsi spesso le mani. Il motivo è molto semplice: le mani sono la nostra connessione più materiale con il mondo. E tra l’altro visto che mediamente ci tocchiamo poi il viso oltre 23 volte per ora poi potremmo farlo penetrare ancor più facilmente nei polmoni. A questo proposito ci sono esperti che raccomandano di tenere le mani sempre impegnate. Per esempio quando andiamo in giro potremmo tenere in mano qualcosa. Ancora non è stato confermato quanto tempo il virus possa vivere sulle superfici, ma altri simili riescono a mantenersi vitali per 9 giorni. Inoltre su qualsiasi oggetto si potrebbero essere fermate goccioline provenienti dall’apparato respiratorio di un malato. E non potendo controllare cosa è stato toccato da altri e cosa tocchiamo poi noi, il modo di proteggersi più semplice è usare acqua e sapone per eliminare fisicamente il parassita. Prima di tutto in questo modo lo si elimina meccanicamente: la pelle diventa scivolosa e rende più facile allontanare i germi. Inoltre il materiale genetico del coronavirus è incapsulato da un involucro costituito da grassi, che come è noto vengono sciolti dal sapone. Quando si sciolgono il virus non è più in grado di infettare. Non è così importante la scelta del tipo di sapone: liquido o solido fanno entrambi il lavoro allo stesso modo. E neppure la temperatura dell’acqua: non ci sono evidenze che quella calda sia più efficace. Le regole base sono invece che è preferibile usare una miscela alcolica, che contenga circa il 60 per cento di alcool, e che l’operazione duri almeno 40-60 secondi. Per renderla più sopportabile, si ricorda che questo è più o meno lo stesso tempo impiegato per cantare ‘Tanti auguri a te‘ due volte di fila. Ma se non è il vostro anniversario, su Spotify o Youtube, cercando 30 o 40 secondi, si trovano molte alternative. E se arrivate a 60 ci sono numerosi successi internazionali. Il sapone però va applicato dopo essersi bagnate le mani e in quantità da ricoprirle interamente. Si massaggia poi palmo contro palmo con un movimento circolatorio, si passano tutti i polpastrelli e l’incavo delle dita. Ma va fatta attenzione anche a come si conclude, perché potrebbe rendere inutile tutto, specialmente se si usano spazi pubblici o ospedali. Se siete fuori casa, usare un asciugamano lasciato a disposizione potrebbe essere un errore, non solo nel caso attuale. Ma non è il caso neppure di usare sia i rotoli che forniscono ogni volta una parte non usata, come gli asciugatori ad aria calda, sia quelli più tradizionali che quelli più moderni a immersione. Questo tipo di strumenti, non uccidono il virus col calore, in compenso possono aumentare la dispersione delle particelle che contaminano l’ambiente. Il modo migliore è invece utilizzare un fazzoletto di carta, meglio ancora se proveniente dalla propria borsa. Tra l’altro i bagni sono zone a rischio: una ricerca pubblicata il 6 marzo, effettuata da ricercatori americani del Mount Sinai South Nassau di New York, ha scoperto che anche le feci possono essere un veicolo di diffusione e dunque il water, il lavandino e le maniglie sono oggetti che può essere meglio non toccare. Da evitare anche le stanze dove l’aria viene mossa da ventilatori. Mentre vi asciugate, lasciate correre l’acqua. Se chiudete il rubinetto prima, e lo toccate a mani nude, rischiate una ricontaminazione. E’ meglio procedere solo dopo aver finito tutto, proteggendo il contatto con la superficie con lo stesso fazzoletto. E usatelo anche per aprire e chiudere la porta.

·         Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

Il parere del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico, che ha scritto "Coglionavirus".

Ci dicono di usare la mascherina e di rimanere reclusi in casa. Inefficace la prima, inutile la seconda.

E’ ormai noto che la trasmissione del virus avviene da una persona all’altra attraverso le vie respiratorie. “Parlando si liberano nell’aria migliaia di micro-goccioline di saliva assieme al virus a uno-due metri di distanza, ma anche a sei metri di distanza dopo uno starnuto. Queste goccioline possono rimanere sospese in aria per più di mezz’ora, contagiando altre persone”, ricorda Claudio Azzolini, ordinario di malattie dell’apparato visivo presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi dell'Insubria. Il contagio avviene quando le goccioline infette entrano in bocca o nel naso, ma avviene anche attraverso gli occhi tramite le lacrime.

Quindi è necessario non solo l'uso delle mascherine, ma anche l'utilizzo di altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici) conformi.

L'uso di questi dispositivi di protezione e l'adozione del tamponamento a tappeto, comporta l'inutilità della quarantena e la circoscrivibilità dell'epidemia. 

Lorenzin: “Ho il Covid, non so come l’ho preso”.

“Abbiamo preso tutte le precauzioni eppure siamo stati contagiati”: dal reparto di Neurochirurgia dell'ospedale Perrino l’ultimo caso di sanitari positivi, ben dieci, al coronavirus. 

Nonostante i consigli sulle precauzioni il virus infetta: che i consigli siano sbagliati?

A scuola e sui mezzi pubblici: così il coronavirus si trasmette per via aerea negli spazi chiusi. Cristina Marrone per corriere.it l'1 novembre 2020.

Perché si sta parlando molto si trasmissione vie aerosol? Covid-19 non è contagioso come il morbillo ma si stanno moltiplicando studi e varie prove che confermano come la trasmissione del nuovo coronavirus avvenga non solo attraverso i droplets (goccioline pesanti che a causa di una dimensione maggiore, precipitano a terra per forza di gravità entro i due metri) ma anche attraverso minuscole goccioline (aerosol) esalate dalle persone infette quando tossiscono o starnutiscono ma soprattutto quando parlano, cantano, gridano, respirano. Inoltre studi recenti suggeriscono che gli aerosol possono muoversi di diversi metri e riempire una stanza per lunghi periodi mantenendo una carica di infettività elevata. Distanziamento e mascherine difendono dalle goccioline più grandi e sono indispensabili per questa modalità di contagio ma da soli non bastano per contrastare la trasmissione per via aerea.

Quali sono i luoghi in cui si diffonde più facilmente il coronavirus? «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione, soprattutto con un tempo di permanenza elevato» ricorda Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia). Si è visto infatti in numerosi studi in tutto il mondo che Sars-CoV-2 si diffonde soprattutto in quegli ambienti chiusi dove si riuniscono molte persone: matrimoni, chiese, palestre, ristoranti, mezzi pubblici, cori, bar, mattatoi, carceri, feste soprattutto quando si parla ad alta voce o si canta senza mascherina.

Che cosa può succedere con la stagione fredda? Ora che si va incontro alla stagione invernale i rischi di contagio, anche per via aerea aumentano (proprio come con l’influenza e gli altri virus respiratori) perché si trascorre più tempo al chiuso e la concentrazione di particelle infettive aumenta senza la presenza di un’adeguata ventilazione. È ipotizzabile che la scorsa estate in Italia la diffusione del virus, dopo l’effetto del lungo lockdown, sia rallentata sia per il maggior tempo trascorso all’aria aperta che per la maggiore ventilazione negli ambienti chiusi con le finestre aperte. In questo modo la modalità di trasmissione per via aerea è stata arginata.

Che cosa si intende per ventilazione? In un’aula scolastica di medie dimensioni è possibile ricambiare completamente l’aria aprendo le finestre (areazione) in 10-20 minuti ma con la stagione fredda non è sempre fattibile. L’ideale sarebbe agire con impianti di ventilazione meccanica controllata: nel caso di ricircolo è consigliato l’utilizzo di filtri HEPA. Quando la ventilazione meccanica non è attuabile perché richiede importanti lavori di ristrutturazione si può pensare a purificatori d’aria portatili che possono essere spostati in vari ambienti.

Tutti gli infetti trasmettono allo stesso modo? Secondo le stime di un numero sempre maggiore di studi gran parte delle persone infette potrebbe non contagiare nessuno. Uno studio di Hong Kong in cui sono stati tracciati i contatti è emerso che il 20% dei casi era responsabile dell’80% della trasmissione. Un’ altra ampia ricerca pubblicata su Science ha concluso che il 70% dei casi non era responsabile di nessun contagio mentre solo l’8% dei pazienti è risultato collegato al 60% delle nuove infezioni osservate evidenziando così il ruolo importante dei superdiffusori nella propagazione dell’epidemia. Già all’inizio della pandemia la ricerca aveva dimostrato che tra il 10 e il 20 per cento delle persone infette sono responsabili dell’80% della diffusione del coronavirus. Il problema è che un «superspreader» non è in alcun modo riconoscibile ma se si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato darà origine a focolai importanti. Quel che si può fare è evitare che si verifichino «eventi superdiffusori», cioé tutte quelle attività che facilitano la diffusione del contagio.

Che cosa succede se in uno spazio chiuso come un’aula scolastica c’è un positivo? I rischi aumentano quando è il docente a essere infetto perché parla più a lungo e ad alta voce per essere ascoltato, quindi emette 100 volte di più rispetto alla normale respirazione. Un potenziale alunno malato a confronto parla molto sporadicamente ed è decisamente meno pericoloso. Se in una classe di 150 metri cubi 25 studenti passassero 5 ore con un docente malato che spiega per due ore, senza prendere nessuna misura di precauzione contro gli aerosol, potrebbero contagiarsi fino a 12 studenti. Ogni singolo individuo avrebbe la possibilità di infettarsi pari al 15%. «Per avere un R0 accettabile, cioé inferiore a 1 in quella stanza potrebbero stare solo due studenti» spiega Buonanno.

Si può ridurre il rischio di contagio per via aerea in classe? L’Università di Cassino ha pubblicato un tool per la stima del rischio di contagio per trasmissione aerea di Sars-CoV2 in ambienti chiusi. «Se tutti indossassero le mascherine si potrebbero contagiare al massimo 7 studenti (5 in meno della situazione base) e in quella stanza, sempre per avere un R0 inferiore a 1 potrebbero rimanere 3 persone mentre il rischio individuale di contagio si dimezzerebbe. Con la ventilazione forzata (un ricambio totale d’aria ogni 20 minuti) rischierebbero il contagio solo 4 persone e per abbassare l’R0 sotto 1 in quelle condizioni potrebbero restare in classe 5 persone. A scuola fa ancora meglio della ventilazione forzata dotare i docenti di un microfono (così non sarebbero costretti a parlare ad alta voce): solo 1,4 persone rischierebbero il contagio e in quella stanza potrebbero restare 9 persone (con rischio individuale di infezione pari al 2,7%). Se mettiamo insieme tutti i dispositivi: mascherine, ventilazione forzata, microfono il numero massimo di persone contagiate in presenza di un insegnante infettivo scenderebbe drasticamente a 0,4 (meno di un contagio) e in quella stanza potrebbero soggiornare fino a 30 studenti mantenendo comunque un R0 inferiore a 1: solamente con tutte queste precauzioni si potrebbe controllare adeguatamente l’indice R0 mantenendolo al di sotto di 1.

È possibile stimare il rischio anche su un autobus? A bordo di un autobus urbano, con 80 passeggeri, un ricambio d’aria all’ora (sui mezzi i ricambi d’aria sono in verità ancora più elevati), un tempo di permanenza di 30 minuti e soggetti in piedi che parlano, in presenza di un passeggero infetto si potrebbero contagiare al massimo 2 persone. Per abbassare R0 sotto 1 su quell’autobus potrebbero salire 54 persone. Indossando le mascherine il problema si abbatte: potrebbero essere contagiate al massimo 0,7 persone e il bus potrebbe ospitare fino a 107 passeggeri tenendo comunque R0 sotto 1. Può aiutare anche l’incremento della ventilazione forzata con un ricambio d’aria ogni 10 minuti: il risultato è simile a quello ottenuto indossando le mascherine. Se si adottano tutte le misure insieme il numero massimo di persone contagiate sarà 0,4 e a bordo potrebbero salire fino a 193 passeggeri. «I mezzi pubblici, a differenza da quello che si possa credere, non sono luoghi particolarmente rischiosi per la trasmissione via aerosol nel caso di tempi di esposizione contenuti» chiarisce Buonanno. Ma con i tassi di incidenza così elevati di questi giorni è facile che a bordo di un mezzo pubblico possa salire più di un individuo infetto, in tal caso i rischi raddoppiano e triplicano.

Distanziamento e mascherine allora non bastano? «Distanziamento e mascherine sono una condizione necessaria (soprattutto per difendersi dai droplets, le goccioline più grandi e dal contagio a breve distanza) ma non sono sufficienti per il contagio per via aerea negli ambienti chiusi. Sappiamo oggi stimare le condizioni di ventilazione, affollamento e tempi di esposizione negli ambienti chiusi per gestire al meglio il rischio contagio ».

 Graziella Melina per “il Messaggero” il 31 ottobre 2020. Se il Sars Cov 2 circola, si diffonde e si sposta lo deve ai gesti più semplici che chiunque compie ogni giorno. La trasmissione delle infezioni avviene, infatti, soprattutto attraverso i droplets, ossia le goccioline che si eliminano quando si parla, si respira, si tossisce, si starnutisce. Essendo minuscole, viaggiano nell' aria a non più di un metro di distanza. Può capitare però che si posino su oggetti o superfici vicini. E, a questo punto però, il guaio lo fa il malcapitato che li tocca: se non si lava subito le mani, finirà infatti col portare a spasso il virus. «Le mani, come continuiamo a dire da sempre, dobbiamo lavarcele spesso - ribadisce Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell' Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - se le mettiamo in bocca, infatti, è ovvio che sono il primo fattore di rischio». Come lo è la condivisione degli oggetti. «Sicuramente, scambiarsi il telefono è un altro comportamento da evitare, perché quando uno parla, se è contagiato, la quantità di goccioline emesse cariche di virus è ovviamente maggiore rispetto a quando si respira soltanto». Dunque, mai usare lo stesso telefono, neanche quello fisso a casa. «Va evitato poi lo scambio di bicchieri, posate e bottiglie. Soprattutto tra i giovani, queste abitudini sono comuni. Stesso accorgimento va seguito a casa per i teli da bagno». Per interrompere la trasmissione indiretta, dunque, basta evitare di introdurre il virus nel nostro organismo. Se infatti il Sars Cov 2 si trova posato su uno smartphone, resta lì, immobile. «Tra il dispositivo e le mucose intervengono le mani - ribadisce Patrizia Laurenti, professoressa di Igiene dell' Università Cattolica di Roma - non è che il virus vola in bocca o nel naso». Se si è distratti, è bene comunque «disinfettare i dispositivi, ma meglio ancora è bene lavarsi le mani». Stesso accorgimento per le banconote. «E' più sicuro l' utilizzo della moneta elettronica, meglio ancora il contactless, perché il bancomat lo tocca solo il proprietario, viene poggiato sul lettore, e quindi si tratta di una manovra sicura». Bisogna quindi ricordare sempre che gli oggetti di uso comune, come le maniglie delle porte, gli interruttori, i pulsanti dei citofoni o anche degli ascensori, possono essere contaminati. Se non si possono usare le scale, specifica Laurenti, «è bene tenere conto che anche negli ascensori è necessaria la distanza di almeno un metro. Quindi, se è affollato, meglio attendere il successivo». Che il Sars Cov 2 goda di buona autonomia soprattutto su alcuni materiali lo dimostrano diversi studi. Secondo il Ministero della Salute, infatti, particelle virali infettanti sono state scovate fino a 7 giorni sul lato esterno delle mascherine chirurgiche e fino a 4 su quello interno. Su plastica e acciaio inox fino a 4 giorni. Fino a due giorni, invece, su vetro e banconote. Un giorno soltanto sul tessuto e il legno e fino a 30 minuti su carta da stampa e velina. Se poi il virus prediliga l' umidità o il freddo, ancora gli scienziati non lo sanno. Per il momento, chiosa Laurenti, «non mi sembra che il Sars Cov 2 sia comunque un virus sensibile alle condizioni microclimatiche». Per evitare di portare in giro il virus, è bene comunque disinfettare spesso. Secondo le linee guida del Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie Europeo, di quello Statunitense e dell' Oms, «la pulizia con acqua e normali detergenti neutri associata all' utilizzo di comuni prodotti disinfettanti è sufficiente per la decontaminazione delle superfici». E' stato poi dimostrato che disinfettanti a base di alcol o ipoclorito di sodio sono in grado di ridurre il numero dei virus. Dopodiché, serve però la massima attenzione agli oggetti utilizzati per la pulizia: stracci, panni spugna, carta, guanti monouso, mascherine, come raccomanda il ministero, «dovranno essere conferiti preferibilmente nella raccolta indifferenziata». E, comunque, i rifiuti vanno posti in «sacchi di idoneo spessore, utilizzandone eventualmente due, uno dentro l' altro ed evitando di comprimere il sacco durante il confezionamento per fare uscire l' aria». Fondamentale poi «lavarsi accuratamente le mani al termine delle operazioni di pulizia e di confezionamento rifiuti», anche se si indossano i guanti.

Studio del Bambino Gesù: ecco come viaggia il virus nell'aria con un colpo di tosse. La simulazione in 3d della ricerca effettuata in collaborazione con Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). La Repubblica il 29 ottobre 2020. Una simulazione in 3D realizzata dai ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù riproduce esattamente il movimento delle particelle biologiche nell’ambiente e l’impatto dei sistemi di aerazione sulla loro dispersione. Stiamo parlando delle ormai tristemente famose "droplets", quelle goccioline che vengono rilasciate nell'aria quando parliamo, o starnutiamo, oppure emettiamo un colpo di tosse. Ma anche dei cosiddetti "aerosol" , le particelle microscopiche emesse col nostro respiro e, di questi tempi, considerate una minaccia a vari livelli. Gli specialisti del Bambino Gesù di Roma, hanno approfondito la questione con uno studio I risultati dello studio, condotto con lo spin-off universitario Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Environmental Research, fornendo informazioni importanti per contenere la diffusione del virus SARS-CoV2 negli ambienti chiusi anche attraverso il trattamento dell’aria.

Lo Studio. I ricercatori hanno utilizzato potenti strumenti di “simulazione fluidodinamica computazionale” (CFD - Computational Fluid Dynamics) per ricreare virtualmente la sala d’aspetto di un pronto soccorso pediatrico dotata di sistema di aerazione, con all’interno 6 bambini e 6 adulti senza mascherina. L'esperimento si è svolto in tre diverse fasi:  con il sistema di aerazione spento, a velocità standard e a velocità doppia, per valutare quanta aria contaminata avrebbe respirato ogni persona presente. "La nostra simulazione in 3D si basa su parametri fisici reali, come la velocità dell’aria che esce da un colpo di tosse, la temperatura della stanza e la dimensione delle goccioline di saliva. Non è una semplice animazione - sottolinea il dott. Luca Borro, specialista 3D del Bambino Gesù e primo autore dello studio. - Grazie a questi parametri e ad algoritmi complessi di fluidodinamica riusciamo ad avere una simulazione dei fenomeni studiati il più possibile vicina alla realtà". I risultati dello studio confermano che i sistemi di condizionamento dell’aria svolgono un ruolo determinante nel controllo della dispersione di droplet e aerosol prodotti col respiro negli ambienti chiusi. Per la prima volta è stato documentato, infatti, che il raddoppio della portata dell’aria condizionata (calcolata in metri cubi orari) all’interno di una stanza chiusa riduce la concentrazione delle particelle contaminate del 99,6%. "L'infezione da virus SARS-CoV-2 - spiega il prof. Carlo Federico Perno, responsabile di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia del Bambino Gesù - è trasmissibile attraverso il respiro in relazione a tre elementi fondamentali: lo status immunitario della persona, la quantità di patogeno presente nell'aria, misurata in particelle per metro cubo, e l’aereazione dell'ambiente. A parità degli altri elementi, dunque, più alta è la concentrazione di virus, maggiore è la probabilità di contagio". "Il ricambio d’aria negli ambienti – sottolinea il prof. Alessandro Miani, presidente SIMA - anche attraverso l’attivazione di sistemi scientificamente validati di aerazione, purificazione e ventilazione meccanica controllata, si rivela fondamentale nella diluizione del virus e nel suo trasferimento, per quanto possibile, all’esterno, ovverosia nella mitigazione degli inquinanti biologici aerodispersi presenti nelle droplet, riducendo significativamente la concentrazione del patogeno in aria. Questo, unitamente all'utilizzo di mezzi di barriera (mascherine, distanziamento e igiene delle mani), oggi rappresenta il principale strumento per ridurre il rischio di contagio in ambienti confinanti".

Mara Magistroni per wired.it il 29 ottobre 2020. Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato del balletto dei Centri di controllo e prevenzione delle malattie statunitensi (Cdc) che prima pubblicano un aggiornamento sulle modalità di trasmissione del coronavirus evidenziando la possibilità di trasmissione aerea (airborne), e poi lo ritirano. Un errore, dicono: una bozza non sottoposta a revisione che non doveva ancora essere pubblicata. Adesso quella bozza, forse un po’ edulcorata, è tornata online. Sulla base di evidenze scientifiche crescenti, gli esperti dei Cdc riconoscono che la modalità di trasmissione aerea (a più di un metro di distanza) tramite aerosol (goccioline più piccole di 5 micron) del coronavirus è possibile, sebbene più rara di quella per contatto diretto con una persona infetta o tramite droplet. Le condizioni per la diffusione airborne sarebbero spazi chiusi, non adeguatamente ventilati e affollati. Insomma, sempre più organizzazioni nazionali e esperti mondiali mettono sostengono la questione airborne, trovandosi così in disaccordo con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), reticente all’aggiornamento delle proprie linee guida. Che cosa la blocca?

Le prove crescenti di trasmissione airborne. Già a luglio 239 scienziati avevano sollecitato con una lettera l’Oms a modificare il proprio punto di vista, sottolineando come le prove di trasmissione aerea di Sars-Cov-2 si stessero accumulando. E oggi alcuni di loro rincarano la dose, con una nuova lettera pubblicata su Science. “Ci sono prove schiaccianti che questa è un’importante via di trasmissione per Covid-19, e abbiamo un disperato bisogno di una guida federale in questa direzione”, ha dichiarato al Washington Post Linsey Marr, esperta di aerosol alla Virginia Tech e tra gli autori della lettera su Science. “Vorrei sottolineare che la trasmissione aerea a corto raggio quando le persone sono a stretto contatto, ovvero l’inalazione di aerosol, probabilmente è più importante della trasmissione da parte di goccioline di grandi dimensioni che vengono spruzzate sulle mucose”. Secondo questi scienziati ci sarebbero casi ben documentati in cui il coronavirus si è diffuso in modo ampio e rapido in un ambiente chiuso: un ristorante a Guangzhou, in Cina, un autobus nella provincia cinese di Zhejiang, un call center a Seoul, un coro nello stato di Washington (dove un membro ha infettato più di 50 persone). Episodi che gli esperti dei Cdc hanno ritenuto sufficienti per modificare le proprie linee guida. Gli aerosol e la trasmissione aerea “sono l’unico modo per spiegare gli eventi di superdiffusione che stiamo vedendo”, ha aggiunto sempre al Washington Post Kimberly Prather dell’Università della California a San Diego, anche lei tra gli autori del nuovo documento. Secondo l’esperta una volta che la via aerea verrà ufficialmente riconosciuta diventerà un problema risolvibile attraverso un’adeguata ventilazione e indossando sempre le mascherine al chiuso. Perché una distanza sociale sicura non esiste in ambienti chiusi.

La reticenza dell’Oms: motivazioni e critiche. Come aveva già dichiarato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico del settore dedicato al controllo delle infezioni dell’Oms, l’organizzazione non nega che il coronavirus possa diffondersi anche per via aerea tramite aerosol oltre la distanza di sicurezza attualmente raccomandata. Sostiene tuttavia che dal punto di vista scientifico le prove siano ancora insufficienti: le condizioni in cui si verificherebbe la trasmissione aerea sarebbero particolari e più rare, e gli scienziati non sarebbero ancora riusciti a replicarle per studiare le dinamiche di diffusione. Una visione troppo rigida e medicalizzata secondo molti esperti, che contestano anche le definizioni di airborne e aerosol dell’Oms, ritenendole formali e in fin dei conti fittizie. Ma non sarebbe solo questo a frenare l’Oms. Stando a quanto dichiarato da Paul Hunter dell’Università dell’East Anglia in Gran Bretagna, l’organizzazione deve tenere conto delle questioni geopolitiche. Le linee guida si rivolgono a ogni Paese del mondo e non tutti hanno le medesime risorse: spostare l’attenzione su una modalità di trasmissione al momento ritenuta meno determinante potrebbe indurre alla migrazione di quelle poche risorse negli stati a basso e medio reddito. Anche questa motivazione, però, è soggetta a critiche da parte di alcuni esperti internazionali, che reputano l’atteggiamento dell’Oms un po’ paternalistico.

Come difendersi dal coronavirus: i dieci consigli per non infettarsi. Il Corriere del Giorno il 24 Ottobre 2020. Il lavaggio e la disinfezione delle mani sono decisivi per prevenire l’infezione. Le mani vanno lavate con acqua e sapone per almeno 20 secondi. Se non sono disponibili acqua e sapone, è possibile utilizzare anche un disinfettante per mani a base di alcol al 60%. Lavarsi le mani elimina il virus. Mantieni almeno un metro di distanza dalle altre persone, perché il virus è contenuto nelle goccioline di saliva e può essere trasmesso a distanza ravvicinata. Confusione: se si dovesse riassumere, in una parola, la situazione Covid-19 in Italia oggi, questa sarebbe la più indicata, almeno nella testa della gente. Come uscirne?  Ecco i 10 consigli sui comportamenti da tenere per stare lontani dal coronavirus:

1) Mascherine quali usare e in quali situazioni. «Quelle chirurgiche vanno bene, però a condizione che siano indossate da tutti, altrimenti la protezione per se stessi non è garantita. Però se tutti assicurano questa protezione unilaterale può bastare, in caso contrario bisogna attenersi al distanziamento, che in questa fase andrebbe in ogni caso osservato nelle nostre relazioni sociali». 

2) Quali mascherine proteggono dal virus altrui e quali fanno solo barriera per gli altri dal tuo eventuale virus? «Le mascherine Ffp2 risultano protettive sia per gli altri che per se stessi, però sono più costose. Quelle chirurgiche impediscono la fuoriuscita delle goccioline di saliva che tutti emettiamo quando parliamo, quindi fanno da barriera verso gli altri dal nostro eventuale virus perché sono filtranti all’interno».

3) Rapporti con figli e nipoti: occorre diradare gli incontri? E bisognerebbe vederli anche in casa indossando le mascherine? «È consigliabile fare la massima attenzione anche a certi slanci di affettuosa attenzione che vengono spontanei in famiglia. Perché, con l’alto aumento dei casi asintomatici, non siamo in grado di avere certezze sulla non positività, nemmeno se il nostro congiunto ha atteggiamenti attenti ed irreprensibili. Quindi è bene valutare attentamente, caso per caso».

4) Gel: sono ancora efficaci e quali? Possono danneggiare la cute specie delle persone più anziane? In questo caso meglio il sapone? «Vanno bene tutti i normali disinfettanti con la maggiore percentuale di alcol. Non danneggiano la cute, neanche dei più anziani. Va bene anche utilizzare il sapone, però solo se le mani sono visibilmente sporche, ma in modo continuativo per 3 o 4 minuti. Altrimenti è preferibile portare con sé la soluzione alcolica, anche in piccoli kit tascabili».

5)  Il contagio può avvenire anche portando scarpe in casa? Meglio togliersele prima di entrare? «Qui non abbiamo a disposizione delle evidenze scientifiche, però basterebbe applicare il buon senso delle nostre madri. A cominciare, quindi, dal lavare più spesso i pavimenti. Poi è sempre meglio levarsi le scarpe utilizzando un’apposita area in casa, continuando ad usare sempre quella in cui lasciamo anche le pantofole da indossare».

6) Gli abiti vanno sanificati e lavati spesso? «Certo, però senza diventare maniacali. Anche qui ci deve soccorrere il buon senso delle nostre madri, dosando il ricorso al lavaggio anche in relazione all’uso che facciamo dei nostri abiti, che solo noi conosciamo in base alle attività effettuate durante la giornata. Poi, certo, una maggiore attenzione non guasta, considerato il momento».

7) Come comportarsi con la carta moneta? «Anche per il contagio con le banconote non ci sono evidenze scientifiche. Però è sufficiente adoperare la misura più importante che si può utilizzare per difendersi da ogni virus: quella di lavarsi bene le mani ogni qualvolta entriamo in contatto con le banconote. Il problema con le banconote è il contatto con le mani e ciò che facciamo subito dopo».

8) Gli ospedali sono rischiosi? «Non lo sarebbero se ci fosse una netta distinzione fra ospedali-Covid e no-Covid, come chiediamo dall’inizio della pandemia. Però, se sono organizzati bene, negli ospedali c’è la garanzia dei percorsi Covid e no-Covid. Anche se, con tanti asintomatici in giro, c’è un rischio di diffusione non azzerabile, ma riducibile rispettando i protocolli di sicurezza».

9) Meglio evitare i Pronto soccorso se non per cose gravi? «È preferibile, anche se i Pronto soccorso si sono attrezzati per minimizzare i rischi. I casi sospetti vengono immediatamente trasferiti nelle zone grigie dove si effettua il tampone. Però, oltre agli asintomatici, talvolta non è così facile individuare i lievi sintomi, quindi è meglio evitare, magari contattando telefonicamente il medico di famiglia».

10) Perché i guanti, che prima erano obbligatori, ora sono addirittura considerati dannosi? «Perché i guanti sono come le mani: se poi si tocca di tutto diventano inutili e addirittura dannosi se poi, come con le mani, finiscono per venire a contatto con bocca, naso e occhi. L’uso dei guanti non può sostituire la corretta igiene delle mani. E devono essere ricambiati ogni volta che si sporcano, poi eliminati nei rifiuti indifferenziati».

Non bastano più mascherine e distanze: ecco lo studio che ribalta tutto. Mascherine e distanziamento contro il virus? Si basano su studi vecchi. Questa la analisi di un pool di scienziati. Valentina Dardari, Martedì 20/10/2020  su Il Giornale. Le misure anti-coronavirus messe a punto per cercare di limitare la diffusione del virus, ovvero l’uso delle mascherine e il distanziamento, non servono del tutto a preservarci da un possibile contagio. Le basi scientifiche su cui si basano sono infatti vecchie di decenni. Diversi gruppi di ricerca hanno quindi pensato di sviluppare un nuovo modello in relazione alla propagazione delle goccioline.

Mascherine e distanza non ci preservano dal coronavirus. Secondo quanto dimostrato, l’utilizzo della mascherina e mantenere il distanziamento servono, ma si deve comunque stare attenti e non pensare che possano bastare a farci sentire tranquilli. Nonostante l’uso della mascherina infatti, le goccioline infette possono venire trasmesse per diversi metri e restare in aria più tempo di quello che si possa immaginare. Secondo i ricercatori, una particella di circa 10 micrometri, ovvero la dimensione media di una gocciolina di saliva, ci mette quasi 15 minuti per cadere a terra. Come spiegato dall'International Journal of Multiphase Flow, lo studio ha coinvolto TU Wien (Università di tecnologia Vienna), l'Università della Florida, la Sorbona di Parigi, la Clarkson University (Usa) e il Mit di Boston. La ricerca è firmata dall'italiano Alfredo Soldati, dell'Istituto di meccanica dei fluidi e trasferimento di calore presso la TU Wien. Come spiegato da Soldati, "la nostra comprensione della propagazione delle goccioline, accettata in tutto il mondo, si basa su misurazioni degli anni '30 e '40 del secolo scorso. A quel tempo, i metodi di misurazione non erano buoni come oggi, sospettiamo che non fosse possibile misurare in modo affidabile le goccioline particolarmente piccole".

"Goccioline infettive nell'aria", ma ora è scontro sul contagio. Precedentemente veniva fatta una distinzione tra le goccioline grandi e le piccole. Mentre quelle grandi vengono spinte dalla gravità verso il basso, le altre avanzano in avanti, quasi in linea retta, evaporando velocemente. Come sottolineato da Soldati, si tratta di una immagine molto semplificata. Per questo motivo i ricercatori vogliono adattare i modelli alle ultime ricerche, con l’obiettivo di capire meglio la diffusione del coronavirus.

Particella impiega 15 minuti a raggiungere il suolo. Soldati ha poi aggiunto che “anche quando la gocciolina d'acqua è evaporata, rimane una particella di aerosol, che può contenere il virus. Ciò consente ai virus di diffondersi su distanze di diversi metri e rimanere nell'aria per lungo tempo". Dato che la particella impiega circa 15 minuti per cadere a terra, è possibile entrare in contatto con il Covid pur mantenendo la distanza. Per esempio all’interno di un ascensore utilizzato precedentemente da soggetti infetti. Gli ambienti che presentano una elevata umidità relativa, come per esempio le sale riunioni poco ventilate, sono quelli più problematici. In inverno l’umidità relativa è anche più alta rispetto all’estate. Soldati ha infine affermato che “le mascherine sono utili perché bloccano le goccioline di grandi dimensioni. E va bene anche mantenere una distanza. Ma i nostri risultati mostrano che nessuna di queste misure può fornire una protezione garantita".

L’esperto: «Solo la visiera annulla i contagi. Da sola la mascherina non ci difende dalle goccioline». Edoardo Valci giovedì 15 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. La mascherina da sola può non bastare. Solo se si utilizza la visiera in aggiunta alla mascherina chirurgica i contagi da coronavirus si azzerano. È fondamentale difendersi dalle goccioline, specie negli autobus, nelle metropolitane e nei posti di lavoro. È in quegli ambienti che si annida il maggior pericolo.

La necessità della visiera anti-droplets. Perciò occorre rompere gli indugi e usare la visiera. «Ce lo dice pure l’esperienza vissuta quotidianamente sul campo dal Sistema 118 nazionale durante i mesi tremendi della fase 1». Lo sottolinea Mario Balzanelli, presidente della Sis 118. Commenta lo studio condotto in India e pubblicato qualche settimana fa su “Jama”. Balzanelli è convinto sostenitore della visiera anti-droplets. «Coprendo contemporaneamente occhi, naso e bocca – quindi le tre porte di ingresso del virus nel nostro organismo – questo dispositivo fa in concreto la differenza. È una differenza determinante in presenza, a stretto contatto, di un soggetto positivo». Dunque occorre «rendere la visiera obbligatoria ogni qualvolta non sia possibile mantenere le distanze interpersonali».

Da "wired.it" il 21 settembre 2020. Portare un paio di occhiali potrebbe fornire una protezione in più contro il coronavirus. È questa l’ipotesi di un nuovo studio condotto dai ricercatori dello Suizhou Zengdu Hospital, in Cina, secondo cui le persone che indossano gli occhiali corrono meno rischi di contrarre la Covid-19 rispetto a chi, invece, non li indossa. I risultati, ancora preliminari, sono stati appena pubblicati su Jama Ophthalmology. Per studiare il legame tra la protezione degli occhiali e il rischio di contrarre il coronavirus, i ricercatori hanno passato in rassegna i dati di 276 pazienti ricoverati nel loro ospedale tra il 27 gennaio e il 13 marzo scorso. A tutti è stato poi chiesto se indossavano gli occhiali, per quanto tempo li portavano durante il giorno e perché ne avevano bisogno. Complessivamente è emerso che 30 partecipanti (l’11%) portavano gli occhiali, ma solo il 6% di loro era miope e li indossava per più di 8 ore al giorno. Una percentuale, precisano i ricercatori, molto più bassa rispetto al tasso di miopia stimato da un precedente studio svolto nella provincia di Hubei (circa il 30%). Per ora, i ricercatori ipotizzano che il motivo per cui gli occhiali potrebbero ridurre il rischio di Covid-19 sta nel fatto che le persone che li indossano si toccano meno gli occhi, e riducono quindi la possibilità di trasferire il virus dalle mani agli occhi. Oppure potrebbero fornire una protezione parziale che riduce la quantità di virus in un modo simile a quello osservato per le mascherine di stoffa. “Lo studio solleva la possibilità che l’uso di uno schermo per gli occhi possa offrire un certo grado di protezione per la Covid-19”, ha spiegato in un editoriale che accompagna lo studio Lisa Maragakis, ricercatrice della Johns Hopkins University School of Medicine. Ma, precisa l’esperta, è ancora troppo presto per raccomandare a tutti di indossare gli occhiali per proteggersi dal coronavirus. La ricerca, infatti, presenta alcune limitazioni: oltre ad aver coinvolto un campione di partecipanti relativamente piccolo e proveniente da un solo ospedale, i ricercatori hanno per ora osservato una semplice associazione e non una relazione di causa-effetto tra il portare gli occhiali e l’essere meno a rischio di contrarre il coronavirus. Serviranno, quindi, studi più ampi e approfonditi per poter confermare i risultati e determinare “se ci sia un reale vantaggio nell’indossare occhiali da vista o altre tipologie di protezione per gli occhi nei luoghi pubblici, oltre a utilizzare la mascherine e mantenere la distanza interpersonale per ridurre il rischio di contrarre la Covid-19”. Ricordiamo, infatti, che le strategie raccomandate per ridurre la diffusione del nuovo coronavirus sono principalmente tre: mantenere la distanza di almeno un metro gli uni dagli altri, lavarsi le mani con acqua e sapone e indossare le mascherine. 

"Chi porta gli occhiali ha meno possibilità di infettarsi da Covid-19". Fiammetta Cupellaro  il 24 settembre 2020 su la Repubblica. L'attore Antonio Banderas è fra i vip che si sono ammalati di Covid. A sostenerlo un'analisi di una équipe i medici cinesi e pubblica sul Journal of American Medical Association (Jama) Ophthalmology. Ma sono necessari ulteriori studi per verificare questa ricerca. Chi porta gli occhiali ha meno possibilità di infettarsi da Covid-19. Un’ipotesi che arriva da una equipe i medici cinesi e pubblica sul “Journal of American Medical Association (JAMA) Ophthalmology”.

La ricerca. L’articolo riprende la ricerca condotta su 276 pazienti rimasti ricoverati per oltre 40 giorni nell’ospedale cinese Suizhou Zengdu nella provincia di Hubei: solo il 6% era miope e portava occhiali da vista per più di otto ore al giorno, tutti affetti da miopia o astigmatismo. Gli occhiali dunque potrebbero proteggere dall’infezione da coronavirus? Gli esperti considerano l’ipotesi “credibile” anche se precisano che è troppo presto per trarre conclusioni. Più probabile invece che le persone che indossano le lenti si portino meno le mani contaminate sugli occhi. I risultati piuttosto sollevano domande interessanti sulla frequenza con cui gli occhi potrebbero essere il portale di accesso per il virus. Al momento, infatti, il naso sembra essere il punto di ingresso principale per il coronavirus dato l’elevato numero di recettori che creando un ambiente favorevole in cui il virus può spostarsi lungo le vie respiratorie.  "Non abbiamo ancora esaminato il motivo di questo collegamento – ha spiegato il dottor Xiaolin Wang, uno degli autori dello studio – ma la nostra prima ipotesi è che l’uso degli occhiali impedisca alle persone di toccarsi gli occhi riducendo le possibilità di contagio oppure creando una barriera parziale, il viso resta maggiormente difeso dalle goccioline di tosse o starnuti. Ma potrebbero esserci altri fattori che stiamo valutando”. Anche la dottoressa Lisa Maragakis specialista in malattie infettive e docente presso la Jhons Hopkins School of Medicine spinge alla cautela. Maragakis ha definito “interessante“ la possibilità che gli occhiali riducano il contagio da Covid-19, invitando però alla cautela. Il motivo potrebbe essere legato ad una ragione sociale, ad esempio al fatto che le persone con problemi di miopia siano più anziane, oppure siano rimaste più a casa durante l’epidemia o frequentino meno luoghi affollati.

Servono ulteriori studi. Sono dunque necessari altri studi per capire se la tendenza venga confermata su altri campioni di popolazione. Spiega il professor Thomas Steinemann portavoce dell’American Academy of Ophthamology e docente presso la MetroHealt Medical center di Cleveland che invita alla prudenza. "Tutto ciò potrebbe causare preoccupazioni tra le persone che non portano gli occhiali. Probabilmente non può far male indossare gli occhiali, ma tutti devono farlo? Penso piuttosto che continui ad essere indispensabile indossare una protezione agli occhi da parte di persone impegnate in determinate professioni". Occhiali a parte, il problema rimane quello di capire a fondo il reale collegamento tra gli occhi e la contaminazione da coronavirus. Anche se i sintomi oculari come la congiuntivite, al momento sono meno comuni di altri come tosse e febbre, molti sono gli studi in corso per valutare quanto i disturbi agli occhi possono essere un segno di infezione da Covid-19. Uno studio sempre condotto dai medici cinesi su 216 bambini ricoverati in ospedale a Wuhan per il coronavirus, 49 di loro (23% dei casi) presentavano sintomi agli occhi: secrezione e congiuntivale prurito agli occhi, lacrimazione eccessiva e visione offuscata.    

Covid, scoperta Usa: il metro di distanza non salva dal contagio. Il virus arriverebbe abitualmente a coprire una distanza di quasi due metri viaggiando attraverso particelle di aerosol sospese nell’aria. Gerry Freda, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Dagli Usa giunge una notizia secondo cui il metro di distanza interpersonale non sarebbe affatto sufficiente a scongiurare che i singoli rimangano infettati dal Covid. La scoperta in questione è stata ufficializzata lunedì dalla massima istituzione sanitaria federale, i Centers for Disease Control and Preventions (Cdc), mediante la pubblicazione, sul proprio sito web, di un aggiornamento delle linee-guida relative alle conoscenze scientifiche sul coronavirus. La capacità del morbo di contagiare persone anche al di là di un metro di distanza fisica deriverebbe dal fatto che il primo viaggerebbe negli spazi, vanificando la lontananza abituale di sicurezza, per mezzo di minuscole goccioline di aerosol, capaci di restare sospese nell'aria “per minuti o anche ore”. Nel dettaglio, i ricercatori dell’ente a stelle e strisce affermano che il coronavirus, in virtù della recente scoperta per cui la malattia incriminata verrebbe trasportata da goccioline che possono rimanere nell'aria per qualche tempo dopo che una persona infetta si è allontanata, potrebbe essere in grado di contagiare le persone che si trovano anche a più di 1,82 metri di distanza da un soggetto positivo o dopo che quest’ultimo ha lasciato una stanza o qualsiasi altro spazio. Le goccioline citate, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, tipicamente cadono a terra, hanno evidenziato gli scienziati americani, entro un raggio appunto di quasi 2 metri. Le particelle-vettori del Covid verrebbero prodotte dai soggetti infetti principalmente quando questi tossiscono, starnutiscono, cantano, parlano o respirano, e la trasmissione per via aerea del morbo sarebbe agevolata negli spazi fisici poco ventilati. La capacità della malattia di Wuhan di diffondersi per via aerea, al pari della tubercolosi, del morbillo e della varicella, coprendo distanze quasi pari a 2 metri implicherebbe di conseguenza l’inutilità del metro di lontananza interpersonale quale precauzione anti-contagio. In realtà, già il mese scorso i Cdc avevano pubblicato sul loro sito un aggiornamento dal medesimo contenuto, ma lo avevano subito rimosso. Oggi, invece, ripubblicando la scoperta citata, conferiscono di fatto alla medesima una patente di ufficialità. Nello stesso aggiornamento da poco pubblicato, l’agenzia federale delinea le ultime scoperte fatte sulla contagiosità di bambini e adolescenti, rimarcando che i giovanissimi sarebbero in grado, alla luce degli studi più recenti, di diffondere “in maniera efficiente” il Covid. I Cdc hanno quindi concluso, traendo spunto dalla vicenda di un focolaio nazionale provocato da un paziente-zero 13enne, che “i bambini e gli adolescenti possono essere fonti di focolai di Covid-19 all'interno delle famiglie, anche quando i loro sintomi sono lievi”.

Da ansa.it il 28 settembre 2020. In attesa di un vaccino sicuro ed efficace, la mascherina potrebbe diventare un ''vaccino'' rudimentale contro il coronavirus perchè, schermando l'ingresso del virus in grandi quantità, potrebbe però comunque permettere a poche particelle virali di passare e penetrare nelle vie respiratorie di chi la indossa, attivando così un processo di immunizzazione contro il SARS-CoV-2, pur con un'infezione senza sintomi. E' la teoria illustrata sul New England Journal of Medicine da Monica Gandhi, infettivologa della University of California di San Francisco. "Puoi avere il virus ma essere asintomatico, quindi con le mascherine - afferma Gandhi - puoi aumentare il tasso di infezioni asintomatiche, e magari questo potrebbe diventare un modo per inoculare in maniera sicura il virus nella popolazione". Ma sarà difficile testare l'efficacia di questo ipotetico metodo che si rifà alla pratica ormai obsoleta della vaiolizzazione (tecnica contro il vaiolo che consisteva nell'inoculare pus proveniente da un malato), ovvero inoculare piccole dosi di un virus per scatenare una reazione immunitaria "sicura". Per ora alcuni studi su animali hanno dimostrato che inoculare piccole dosi di coronavirus provoca una malattia blanda, non grave, spiega Gandhi, e alcune evidenze epidemiologiche (ad esempio nei focolai creatisi sulle navi da crociera o in altri luoghi affollati ma in cui tutti indossavano le mascherine) mostrano che l'uso della mascherina in presenza di soggetti positivi al virus può favorire dei focolai prevalentemente asintomatici. Ma questo non da' certezza che l'infezione asintomatica si accompagni a sviluppo di immunità e quindi non si tratta di un dato abbastanza forte per confermare questa rudimentale pratica di immunizzazione.

Silvia Turin per "corriere.it" il 28 settembre 2020. Durante la forzata convivenza con il Covid-19 ci siamo ormai abituati (o rassegnati) all’uso delle mascherine, che sono diventate quasi un accessorio d’abbigliamento. Ma l’abitudine può ingenerare svogliatezza e trascuratezza che, nel caso di quello che deve essere considerato a tutti gli effetti un presidio salvavita, ci portano a commettere troppi errori e troppo spesso. Ricordiamolo: la mascherina chirurgica (ma non solo) nasce a lato di un tavolo operatorio per tutelare il paziente debole da pericolose infezioni. Per le sue caratteristiche, se calzata male non è meno efficace: non lo è affatto. Ecco una lista dei comportamenti maggiormente scorretti che notiamo a ogni angolo di strada.

Indossare la mascherina sotto il naso. La mascherina deve aderire perfettamente ai lati del volto e coprire interamente naso e bocca, che sono le fonti principali di contagio e diffusione del Covid. Non dovrebbe permettere uscita d’aria dai lati o intorno al naso. Per questo alcuni modelli hanno una leggera anima di metallo nella parte superiore che può essere modellata per farla aderire meglio. Per lo stesso motivo (l’aderenza) non è consigliabile indossare la mascherina con la barba lunga. I bambini non dovrebbero avere mascherine troppo grandi, ma fatte su misura per i loro visini. Se mal posizionata, la mascherina perde qualsiasi utilità.

Calarla sotto il mento o lasciarla penzolare da un orecchio. Queste posizioni, come tenere la mascherina sulla fronte o sulla nuca sono altrettanti errori. Il “sottogola” è la cosa peggiore: i virologi sottolineano come il rischio è che diventi umida di sudore e l’umidità favorisce l’ingresso dei virus e il contagio. Ecco perché quando l’interno diventa umido la mascherina andrebbe subito gettata via o lavata. Anche la pratica di tenerla appesa da un solo orecchio è sconsigliabile: espone la parte interna della mascherina a un maggior rischio di contaminazioni e un movimento improvviso o una folata di vento potrebbero farla cadere al suolo, rendendola inutilizzabile.

Tenerla sul gomito/braccio/polso o in tasca (o in borsa). Non va meglio la “moda” di tenerla sul gomito/polso o in tasca: sul gomito l’interno entra a contatto con parti della pelle che sono comunque esposte (magari abbiamo appena starnutito contro il gomito) e che sfiorano diverse superfici e c’è il rischio di rompere i cordini o di maneggiare troppo e con le mani sporche la parte della mascherina che rimane a contatto con labbra e naso. È fortemente sconsigliato anche indossare una mascherina chirurgica dopo averla tenuta in tasca, perché in questo modo si rischia di rovinare il filtro, sgualcirla o renderla del tutto inefficace. Tra l’altro se non siamo positivi la parte più contaminata è l’esterno e così si può contaminare anche la tasca dove poi infiliamo le mani. Stesso discorso vale per la borsa: dobbiamo pensare alla mascherina come a un oggetto potenzialmente contaminato che non vorremmo mai mettere in un posto dove infiliamo continuamente le mani. La soluzione ideale è di portare con sé una bustina di plastica o di carta, nella quale riporre la mascherina quando non viene utilizzata.

Toccarla troppo. L’errore classico è quello di toccarla troppo. Per maneggiare una mascherina nuova, o appena lavata e sanificata, è importante avere lavato bene le mani e tenerla dai cordini laterali, evitando di toccare la parte centrale che resterà a contatto con la faccia. L’altro errore, una volta indossata correttamente, è quello di continuare a toccarla, anche solo per farla aderire meglio. La parte esterna teoricamente è la più contaminata, quindi se la tocchiamo facciamo passare il virus dalla mascherina alle mani. Se la mascherina viene aggiustata sul viso, è necessario lavarsi subito le mani. Lo stesso vale per quando viene sfilata definitivamente. Anche quando ci si toglie la mascherina è importante maneggiarla dai cordini laterali, per evitare di toccare la parte centrale.

Non gettare via le mascherine monouso. Altro errore è non gettare via le mascherine monouso e riutilizzarle, tipicamente le chirurgiche, o comunque tutte le mascherine che non sono di stoffa o hanno l’indicazione “non riutilizzabile”. La durata di una mascherina dipende anche dai fattori ambientali. Le mascherine più comuni e diffuse, come quelle usa e getta o riutilizzabili di tessuto, non dovrebbero essere indossate per più di 3-4 ore a seconda dei modelli, o quando si inumidisce. Respirandoci dentro, si accumulano umidità e sporcizia, che possono favorire la formazione di batteri e di altri agenti che potrebbero rivelarsi dannosi per la salute.

Non lavare le mascherine di stoffa. Sbagliato anche non lavare dopo un solo utilizzo (salvo indicazioni) le mascherine di stoffa: serve un lavaggio in lavatrice con detersivo e una temperatura di almeno 60 °C per 30 minuti. Bene asciugarle all’aria aperta, con asciugatrice o asciugacapelli. È sconsigliato l’uso di ammorbidenti che potrebbero ostruire le maglie del tessuto. Ci sono anche mascherine che vanno lavate a freddo e meno frequentemente. Di solito sulla confezione vengono indicate le norme di un corretto uso e igienizzazione.

Susanna Picone per fanpage.it l'8 giugno 2020. Sì alla mascherina protettiva, no ai guanti che non sono utili neppure quando si va a fare la spesa al supermercato. A non raccomandare l’uso di guanti da parte delle persone in comunità è l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), che in una sezione del suo sito risponde alle domande sull'uso di mascherine e guanti durante l'emergenza sanitaria. Secondo l’Oms, l’uso di guanti può “aumentare il rischio di infezione, dal momento che può portare alla auto-contaminazione o alla trasmissione ad altri quando si toccano le superfici contaminate e quindi il viso”.

Nei supermercati raccomandati i distributori di gel igienizzante. Pertanto, l’Organizzazione mondiale della Sanità ritiene siano altre le misure da adottare per proteggersi dal contagio da coronavirus. “In luoghi pubblici come i supermercati, oltre al distanziamento fisico, l'Oms raccomanda l'installazione di distributori di gel igienizzante per le mani all'ingresso e all'uscita. Migliorando ampiamente le pratiche di igiene delle mani, i paesi possono aiutare a prevenire la diffusione del nuovo coronavirus", chiarisce l’Organizzazione mondiale della Sanità, che raccomanda comunque sempre di "contattare le autorità locali sulle pratiche raccomandate nella propria area".

Le linee guida sulle mascherine dell'Oms. A proposito, invece, delle mascherine l’Oms ha di recente pubblicato delle nuove linee guida raccomandando i governi ad incoraggiare l’uso delle mascherine protettive dove c’è un’ampia diffusione del virus e la distanza fisica è difficile da mantenere, come i trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati. L’Oms ha comunque ribadito che le mascherine "da sole non vi proteggeranno contro il Covid-19″.

GIUSEPPE SALVAGGIULO per la Stampa il 13 settembre 2020. Qualcuno ci ha preso gusto, e si avvicina roteando la spalla. Altri disdegnano il surrogato. Il saluto con il gomito è entrato nelle nostre vite. Ma il conservatorio di Sassari rompe il fronte ed emana un decreto in cui esplicitamente vieta «l' incauta nuova abitudine». Nel provvedimento finalizzato a «garantire la sicurezza sanitaria assoluta» per docenti, dipendenti e studenti, il presidente Ivano Iai ritiene «necessario dover richiamare l' attenzione» sulla nuova forma di saluto, «rapidamente diffusasi nei più disparati contesti sociali, in violazione del divieto di contatto fisico e avvicinamento interumano». Anche se «tollerato e perfino considerato corretto e sicuro, il contatto tra gomiti è ritenuto in contrasto con «le disposizioni comportamentali del governo che raccomandano, invece, l' impiego del gomito al fine di ostacolare l' irrorazione delle particelle di mucosa». Ci impongono di tossire e starnutire nel gomito per evitare il contagio e poi ce lo fanno usare per salutarci, rischiando il contagio? Ragionamento sviluppato nel decreto in forma aulica: «Un uso parallelo e promiscuo dell' articolazione cubitale per realizzare il contatto fisico tra persone, potrebbe costituire fonte di rischio e causa di contagio, in quanto non igienico né sicuro». Nel conservatorio «il divieto di saluto attraverso contatto cubitale» si estende a ogni altra parte del corpo e si aggiunge al divieto di «uso di un tono di voce elevato» anche se si indossa la mascherina, di ricorso «a espressioni verbali aggressive e turpi» tali da «determinare tensioni o alterazioni delle normali modalità interlocutive», nonché di «ogni altro gesto fisico a recare pregiudizio alla salute o alla dignità delle persone». I divieti valgono anche all' aperto e non ammettono deroghe. E altre scuole a Roma stanno già valutando provvedimenti analoghi.

Da huffingtonpost.it il 14 settembre 2020. Sarebbe meglio salutarsi portando la mano sul cuore piuttosto che toccandosi i gomiti l’uno con l’altro: è il consiglio dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ripreso dall’economista Diana Ortega e ritwittato oggi dallo stesso Direttore Generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, secondo il quale - si legge sempre nel tweet - con il saluto col gomito “la distanza di sicurezza non viene mantenuta e il virus può essere trasmesso attraverso la pelle”.

Crisanti: "Siamo in precario equilibrio. Il saluto col gomito? L'Oms dice di tutto..." Il docente ordinario di Microbiologia all’Università di Padova Andrea Crisanti giudica positivi i risultati dopo i primi giorni di scuola. Ignazio Riccio, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. Non è d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il professore ordinario di Microbiologia all’Università di Padova Andrea Crisanti. L’Oms dice che non bisogna più salutarsi con il gomito e l’esperto sbotta: “Mi sembra una boutade, hanno detto tutto e il contrario di tutto, meno ci si tocca e meglio è, ormai lo hanno capito tutti”.

Coronavirus e saluto col gomito, l'altolà dell'Oms: “Non fatelo". Le Iene News il 14 settembre 2020. Il direttore dell’Oms ha ricordato che il saluto con il gomito non è sicuro: non permette di rispettare il distanziamento sociale. Una raccomandazione fatta già a marzo, ma rimasta inascoltata. Intanto il coronavirus continua a correre, e ieri si è registrato il record di nuovi casi in 24 ore. E anche in Italia la pandemia si espande. Ve lo ricordate il saluto col gomito, sostituto della stretta di mano al tempo del coronavirus? Ecco dimenticatevelo subito: il direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha condiviso un tweet in cui si parla dei pericoli di questo nuovo saluto. "Salutando le persone, è meglio evitare di toccarsi con i gomiti perché questo ti fa stare a meno di un metro di distanza dall'altro”, ha scritto l'economista Diana Ortega. A onor del vero già a marzo l’Oms aveva messo in guardia da questo nuovo saluto, spiegando che non avrebbe permesso di mantenere la distanza di sicurezza di un metro e che avrebbe potuto paradossalmente facilitare il contagio da coronavirus. Un appello rimasto evidentemente inascoltato, visto che molte persone e perfino i più importanti esponenti del governo hanno preso l’abitudine di salutarsi così in pubblico. Un cortocircuito continuo, insomma, in cui si fa fatica a capire quale siano le giuste norme di sicurezza e distanziamento da rispettare per contenere la pandemia. E non certo il primo: ricordate quando all’inizio della pandemia le mascherine erano consigliate solo al personale sanitario, dicendo che non erano poi così indispensabili per il pubblico? Poi la marcia indietro, il consiglio di usarle tutti, e oggi nelle zone di massimo contagio, come per esempio, in Italia, La Spezia, l’obbligo di averla sempre. E lo stesso per la quarantena preventiva, con indicazioni discordanti sulla durata e i dubbi sull’efficacia: prima si pensava che la durata giusta fosse di quattordici giorni, poi fino a un mese, oggi si va nella direzione di abbassarla a 7 giorni come in Francia. Insomma, una grande confusione su come contenere la pandemia. Una pandemia che intanto non arresta la sua corsa: ieri si è registrato un nuovo record di contagi globali, 308mila in sole 24 ore. I casi totali hanno superato quota 29 milioni, i morti sono più di 924mila. E l’Italia non naviga in acque sicure: ieri sono stati registrati 1.458 nuovi casi e 7 morti. Le persone ricoverate in ospedale sono 2.042, in aumento di 91 unità in sole 24 ore. E i malati in terapia intensiva segnano un +5, arrivando a quota 187: da tre mesi che non erano così tanti. Insomma il ritorno alla normalità si allontana, e anche noi dovremmo stare un pochino più lontani. Soprattutto quando ci si saluta.

Coronavirus, Tarro e Becchi: "Ecco lo studio, fuori dagli ospedali le mascherine sono inutili per evitare il contagio". Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. Le mascherine unica risorsa o quasi contro il contagio da coronavirus? Tutte balle, "non risultano evidenze scientifiche sulla loro utilità al di fuori dagli ospedali". Paolo Becchi e lo scienziato Giulio Tarro smantellano un altro caposaldo della "narrazione" sulla pandemia che ha accompagnato (e terrorizzato) il mondo, Italia in testa, da febbraio a oggi. Uno studio dell'Università di Hong Kong, tradotto da Becchi e Tarro e rilanciato ora anche da Dagospia, sottolinea come molto di quanto raccontato su igiene delle mani, pulizia delle superfici e misure non farmaceutiche per combattere il Covid in ambienti non sanitari (fuori dagli ospedali, appunto) sia inesatto o direttamente falso e abbia contribuito in qualche modo a cavalcare l'onda della psicosi e aumentare il senso di terrore tra i comuni cittadini. "Nella nostra revisione sistematica - si legge -, abbiamo identificato 10 RCT che riportavano stime dell'efficacia delle maschere facciali nel ridurre le infezioni da virus influenzali confermate in laboratorio nella comunità dalla letteratura pubblicata nel periodo 1946-27 luglio 2018. Nell'analisi aggregata, non abbiamo riscontrato una riduzione significativa nel trasmissione dell'influenza con l'uso di maschere facciali (RR 0,78, 95% CI 0,51-1,20; I2 = 30%, p = 0,25). Uno studio ha valutato l'uso di maschere tra i pellegrini provenienti dall'Australia durante il pellegrinaggio Hajj e non ha riportato differenze significative nel rischio di infezione da virus influenzale confermata in laboratorio nel gruppo di controllo o maschera. Due studi in ambienti universitari hanno valutato l'efficacia delle maschere per la protezione primaria monitorando l'incidenza dell'influenza confermata in laboratorio tra i residenti delle sale studentesche per 5 mesi. La riduzione complessiva dei casi di ILI o di influenza confermati in laboratorio nel gruppo con maschera facciale non è stata significativa in nessuno degli studi. I disegni degli studi nei 7 studi sulla famiglia erano leggermente diversi: 1 studio ha fornito maschere per il viso e respiratori P2 solo per i contatti domestici, un altro studio ha valutato l'uso delle maschere per il viso solo come controllo della sorgente per le persone infette e gli studi rimanenti hanno fornito maschere per le persone infette e per i loro stretti contatti". Insomma, "nessuno degli studi sulle famiglie ha riportato una riduzione significativa delle infezioni da virus influenzali secondarie confermate in laboratorio nel gruppo con maschera facciale. La maggior parte degli studi era sottodimensionata a causa della dimensione limitata del campione e alcuni studi hanno anche riportato un'aderenza non ottimale nel gruppo con maschera facciale. Le maschere mediche usa e getta (note anche come maschere chirurgiche) sono dispositivi larghi che sono stati progettati per essere indossati dal personale medico per proteggere la contaminazione accidentale delle ferite del paziente e per proteggere chi lo indossa da schizzi o spruzzi di fluidi corporei. Esistono prove limitate della loro efficacia nel prevenire la trasmissione del virus dell'influenza sia quando indossati dalla persona infetta per il controllo della fonte, sia quando indossati da persone non infette per ridurre l'esposizione. La nostra revisione sistematica non ha rilevato alcun effetto significativo delle maschere facciali sulla trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio".

NON TI CONOSCO, MASCHERINA! – BECCHI E TARRO TRADUCONO UNO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI HONG KONG CHE SOSTIENE CHE INDOSSARE MASCHERINE FUORI DAGLI OSPEDALI NON SERVE A NIENTE – L’IGIENE DELLE MANI, LA PULIZIA DELLE SUPERFICI E TUTTE LE “MISURE NON FARMACEUTICHE PER L’INFLUENZA PANDEMICA IN AMBIENTI NON SANITARI” SMONTATE UNA PER UNA…Dagospia il 12 agosto 2020.

Nonpharmaceutical Measures for Pandemic Influenza in Nonhealthcare Settings - Personal Protective and Environmental Measures  - LO STUDIO ORIGINALE: nc.cdc.gov/eid/article/26/5/19-0994_article

Misure non farmaceutiche per l'influenza pandemica in ambienti non sanitari: misure di protezione personale e ambientali. Riassunto e traduzione di Paolo Becchi e Giulio Tarro.

Riassunto. Ci sono state 3 pandemie influenzali nel 20 ° secolo e 1 finora nel 21 ° secolo. Le autorità sanitarie locali, nazionali e internazionali aggiornano regolarmente i loro piani per mitigare la prossima pandemia influenzale alla luce delle ultime prove disponibili sull'efficacia delle varie misure di controllo nel ridurre la trasmissione. Qui, esaminiamo la base di prove sull'efficacia delle misure di protezione personale non farmaceutiche e delle misure di igiene ambientale in contesti non sanitari e discutiamo la loro potenziale inclusione nei piani pandemici. Sebbene gli studi meccanicistici supportino il potenziale effetto dell'igiene delle mani o delle maschere facciali, le prove di 14 studi randomizzati controllati di queste misure non supportano un effetto sostanziale sulla trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio. Allo stesso modo abbiamo trovato prove limitate sull'efficacia di una migliore igiene e pulizia ambientale. Abbiamo identificato diverse importanti lacune di conoscenza che richiedono ulteriori ricerche, soprattutto una migliore caratterizzazione delle modalità di trasmissione da persona a persona. Le pandemie influenzali si verificano a intervalli irregolari quando nuovi ceppi del virus dell'influenza A si diffondono nell'uomo (1). Le pandemie influenzali causano un impatto sanitario e sociale considerevole che supera quello delle tipiche epidemie influenzali stagionali (interpandemiche). Una delle caratteristiche delle pandemie influenzali è l'elevata incidenza di infezioni in tutti i gruppi di età a causa della mancanza di immunità della popolazione. Sebbene i vaccini antinfluenzali siano la pietra angolare del controllo dell'influenza stagionale, non si prevede che vaccini specifici per un nuovo ceppo pandemico siano disponibili per i primi 5-6 mesi della prossima pandemia. In alcune località saranno disponibili farmaci antivirali per il trattamento di infezioni più gravi, ma è improbabile che siano disponibili nelle quantità che potrebbero essere necessarie per controllare la trasmissione nella comunità generale. Pertanto, gli sforzi per controllare la prossima pandemia dipenderanno in gran parte da interventi non farmaceutici. La maggior parte delle infezioni da virus influenzali causa una malattia lieve e auto-limitante; solo una piccola parte dei casi di pazienti richiede il ricovero. Pertanto, le infezioni da virus influenzali si diffondono principalmente nella comunità. Si ritiene che il virus influenzale sia trasmesso prevalentemente dalle goccioline respiratorie, ma la distribuzione dimensionale delle particelle responsabili della trasmissione rimane poco chiara e, in particolare, vi è una mancanza di consenso sul ruolo degli aerosol di particelle fini nella trasmissione (2,3). Nelle strutture sanitarie, le precauzioni contro le goccioline sono raccomandate oltre alle precauzioni standard per il personale sanitario quando interagisce con i pazienti influenzali e per tutti i visitatori durante le stagioni influenzali (4). Al di fuori delle strutture sanitarie, l'igiene delle mani è raccomandata nella maggior parte dei piani pandemici nazionali (5) e le maschere mediche erano una vista comune durante la pandemia influenzale nel 2009. È stato dimostrato che l'igiene delle mani previene molte malattie infettive e potrebbe essere considerata una componente importante in piani di pandemia influenzale, indipendentemente dal fatto che si sia dimostrata o meno efficace contro la trasmissione del virus influenzale, in particolare a causa del suo potenziale di ridurre altre infezioni e quindi ridurre la pressione sui servizi sanitari.

Metodi e risultati. Abbiamo condotto revisioni sistematiche per valutare l'efficacia delle misure di protezione personale sulla trasmissione del virus dell'influenza, inclusa l'igiene delle mani, l'etichetta respiratoria e le maschere per il viso, e una revisione sistematica della pulizia di superfici e oggetti come misura ambientale (Tabella 1). Abbiamo cercato in 4 database (Medline, PubMed, EMBASE e CENTRAL) la letteratura in tutte le lingue. Abbiamo mirato a identificare studi randomizzati controllati (RCT) di ciascuna misura per i risultati dell'influenza confermati in laboratorio per ciascuna delle misure perché gli RCT forniscono la massima qualità di evidenza. Per l'etichetta respiratoria e la pulizia di superfici e oggetti, a causa della mancanza di RCT per l'influenza confermata in laboratorio, abbiamo anche cercato RCT che riportassero gli effetti di questi interventi sulla malattia simil-influenzale (ILI) e sugli esiti della malattia respiratoria e poi per studi osservazionali di laboratorio risultati confermati di influenza, ILI e malattie respiratorie. Per ogni recensione, 2 autori (E.Y.C.S. e J.X.) hanno selezionato titoli e abstract e hanno rivisto i testi integrali in modo indipendente. Abbiamo eseguito una meta-analisi per l'igiene delle mani e gli interventi sulla maschera facciale e stimato l'effetto di queste misure sulla prevenzione dell'influenza confermata dal laboratorio in base ai rapporti di rischio (RR). Abbiamo utilizzato un modello a effetti fissi per stimare l'effetto complessivo in un'analisi aggregata o in un'analisi di sottogruppo. Nessun effetto complessivo sarebbe generato se ci fosse una considerevole eterogeneità sulla base della statistica I2> 75% (6). Abbiamo eseguito la valutazione della qualità delle prove sull'igiene delle mani e sugli interventi sulla maschera facciale utilizzando l'approccio GRADE (Grading of Recommendations Assessment, Development and Evaluation) (7). Forniamo dettagli aggiuntivi sulle strategie di ricerca, selezione di articoli, sintesi degli articoli selezionati e valutazione della qualità (Appendice).

Da "blitzquotidiano.it" il 9 ottobre 2020. Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, parla con i giornalisti tenendo la mascherina con il naso scoperto. Una svista da parte di chi per primo dovrebbe dare l’esempio sul corretto utilizzo della mascherina per evitare che aumentino ancora i casi di contagio. Parlando con i giornalisti a margine del 77esimo congresso nazionale della Fimmg in corso a Villasimius, in provincia di Cagliari, il commissario si è presentato con la mascherina che gli lasciava coperta solo la bocca e non il naso. Quello di Domenico Arcuri è un errore che in molti hanno notato e così sui social parte la polemica. “L’uomo che acquista le mascherine… non le sa mettere”, ha scritto qualcuno. “Arcuri che indossa la mascherina lasciando scoperto il naso è un’immagine potente. Racconta con immediatezza la statura del Supercommissario”, ha commentato un altro utente.

Mascherina abbassata che stona con quanto detto. Arcuri ha infatti sottolineato come il livello di attenzione e di responsabilità sia “molto alto”, ma come “siamo comunque in presenza di una recrudescenza dell’epidemia che ha limiti e accenti diversi rispetto ad altri Paesi Ue. Dobbiamo essere responsabili come lo siamo stati nella fase più tragica dell’epidemia per evitare che tornino quei giorni”. “La cattiva notizia per l’Italia è il virus che prima era concentrato in un pezzo del Paese, oggi ha una geografia molto più diffusa. Purtroppo si è allargato a zone d’Italia meno preparate ad affrontarlo, questa è la vera sfida di queste settimane”, aveva detto ieri Domenico Arcuri a Roma all’EY Capri Digital Summit: A New Brave World. “Se abbiamo sbagliato in una cosa – dice Arcuri – è che non abbiamo rispettato il tempo. E se dobbiamo imparare qualcosa dall’esperienza di questi mesi è che il tempo non gioca a nostro favore, e che prendere una decisione oggi non è la stessa cosa di prenderla domani o di averla presa ieri”. 

Claudia Guasco per “Il Messaggero” il 9 ottobre 2020. C'è chi rovista in borsa alla ricerca di una mascherina dimenticata (sbagliatissimo). Chi la tiene appesa al braccio (altro errore) o evita di coprire il naso (così è inutile). Ora che i dispositivi di protezione sono obbligatori sempre e ovunque bisogna organizzarsi, scegliere i modelli più adatti, indossarli correttamente e averne cura. Magari trasformandoli in accessorio di tendenza: oggi le mascherine firmate sono l'oggetto più desiderato in rete.

LA SCELTA. In commercio ci sono diversi tipi di dispositivi, due sono le principali categorie: mascherine chirurgiche e mascherine di protezione delle vie aeree, che rispondono a norme diverse e hanno funzioni diverse. Le maschere chirurgiche non proteggono chi le indossa, bensì chi è nelle vicinanze e servono a trattenere particelle di saliva potenzialmente contagiose. Poi ci sono le Ffp1, Ffp2 ed Ffp3, dove Ff sta per facciale filtrante, che difendono dall'inalazione di agenti patogeni trasmessi per via aerea: il numero indica la capacità di trattenere sostanze dannose, minore è la 1 massima la 3. Attenzione all'acquisto. «La valutazione di conformità è certificata dal marchio CE, senza il quale non è permessa la commercializzazione. Nel caso specifico, il tipo di maschere filtranti richieste per evitare il contagio da coronavirus sono regolate dalla norma EN 149, che a seconda dell'efficienza filtrante classifica le maschere in Ffp. Quando si compra il prodotto, dunque, su di esso o sulla sua confezione deve essere presente il riferimento a questo standard», spiega Claudio Galbiati, presidente della sezione Safety di Assosistema Confindustria. Niente accaparramenti avventati, insomma, in commercio ci si può imbattere in mascherine non classificate e prive di marcatura la cui capacità protettiva è poco più di un fazzoletto, mettono in guardia gli esperti. La più diffusa sul mercato è la mascherina chirurgica: in farmacia si trova a un prezzo calmierato di 50 centesimi ed è quella consigliata dalle autorità sanitarie quando si va al lavoro o a fare la spesa. Funziona se la indossano tutti perché, come ha calcolato l'Oms, il potere filtrante è al massimo del 20% verso chi le indossa, ma del 95% verso l'esterno. Sono rigorosamente usa e getta, dopo sette, otto ore vanno buttate. Più pesanti e più costose (fino a 5 euro ciascuna) le Ffp2, molto diffuse in Italia con la dicitura asiatica KN95. Hanno un filtraggio del 92% sia in entrata che in uscita e sono consigliate per operatori sanitari, forze dell'ordine, ma in generale per chiunque si trovi in situazioni a rischio. Una visita in ospedale, per esempio. La Ffp3, con un potere filtrante addirittura del 98% sia in entrata che in uscita, è usata da medici e da chi ha contatti con pazienti Covid e va gettata dopo un turno di lavoro. Infine, ci sono le mascherine di stoffa. Si lavano e quindi hanno un impatto minore sull'ambiente, sono allegre e colorate. Anche in questo caso, tuttavia, è necessaria cautela. Una quarantina di aziende produttrici ha ottenuto la validazione dall'Istituto superiore di sanità, la maggioranza le realizza come un qualsiasi capo di abbigliamento. Hanno potere filtrante in uscita, poiché limitano i droplet, ma difficilmente riescono a trattenere particelle di dimensioni inferiori ai 5 micron e questo significa che in ingresso non garantiscono la protezione dal contagio se manca l'immunità di gregge, cioè se non la indossano tutti. La mascherina di stoffa è efficace se ha almeno due strati di tessuto, deve essere lavata ogni giorno se si va al lavoro, ogni due se si usa per poche ore: va messa in lavatrice a 60 gradi, anche con altri capi, meglio se igienizzata in precedenza, evitando l'utilizzo di ammorbidenti.

TENDENZE. Il dispositivo di questo materiale ha un ulteriore vantaggio, permettendo una migliore traspirazione della pelle evita l'insorgenza dell'acne. Ed è anche un accessorio di tendenza, tanto che Vogue ha stilato una graduatoria delle mascherine «must have». In cima alla classifica c'è il nero: Adidas ha messo in commercio uno special pack di tre mascherine in doppio strato di tessuto riciclato e per ogni acquisto donerà 2 euro a Save The Children, Wolford ha realizzato una mascherina total black perfetta per gli amanti dello stile minimal. Mango punta sui materiali, garantendo un filtraggio superiore al 90%, una permeabilità inferiore al 60% e fino a dieci lavaggi. Pierre Mantoux pensa alla sera, con mascherine di pizzo, e Samer Alameen, designer libanese, disegna Face/On, quattro pezzi con facce per diversi stati d'animo. L'umore ai tempi del Covid.

Misure di protezione personale:

Igiene delle mani. Abbiamo identificato una recente revisione sistematica di Wong et al. su RCT progettati per valutare l'efficacia degli interventi di igiene delle mani contro la trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio (8). Abbiamo utilizzato questa revisione come punto di partenza e poi abbiamo cercato ulteriore letteratura pubblicata dopo il 2013; abbiamo trovato 3 articoli idonei aggiuntivi pubblicati durante il periodo di ricerca dal 1 ° gennaio 2013 al 13 agosto 2018. In totale, abbiamo identificato 12 articoli (9-20), di cui 3 articoli provenivano dalla ricerca aggiornata e 9 articoli da Wong et al. (8). Due articoli si basavano sullo stesso dataset sottostante (16,19); pertanto, abbiamo contato questi 2 articoli come 1 studio, che ha prodotto 11 RCT. Abbiamo ulteriormente selezionato 10 studi con> 10.000 partecipanti per l'inclusione nella meta-analisi (Figura 1). Abbiamo escluso 1 studio dalla meta-analisi perché forniva stime dei rischi di infezione solo a livello familiare, non a livello individuale (20). Non abbiamo generato un effetto cumulativo complessivo della sola igiene delle mani o dell'igiene delle mani con o senza maschera facciale a causa dell'elevata eterogeneità nelle stime individuali (I2 87 e 82%, rispettivamente). L'effetto dell'igiene delle mani combinato con maschere facciali sull'influenza confermata in laboratorio non era statisticamente significativo (RR 0,91, IC 95% 0,73-1,13; I2 = 35%, p = 0,39). Alcuni studi hanno riportato di essere sottodimensionati a causa della dimensione limitata del campione e in alcuni studi è stata osservata una bassa aderenza agli interventi di igiene delle mani. Figura 1. Meta-analisi dei rapporti di rischio per l'effetto dell'igiene delle mani con o senza l'uso di maschera facciale sull'influenza confermata in laboratorio da 10 studi randomizzati controllati con> 11.000 partecipanti. A) Solo igiene delle mani; ...-- Abbiamo ulteriormente analizzato l'effetto dell'igiene delle mani impostando perché le vie di trasmissione potrebbero variare in diverse impostazioni. Abbiamo trovato 6 studi in ambienti domestici che esaminano l'effetto dell'igiene delle mani con o senza maschere facciali, ma l'effetto aggregato complessivo non era statisticamente significativo (RR 1,05, IC 95% 0,86-1,27; I2 = 57%, p = 0,65) (Appendice Figura 4) (11-15,17). I risultati di 2 studi in contesti scolastici erano diversi (Appendice Figura 5). Uno studio condotto negli Stati Uniti (16) non ha mostrato alcun effetto importante dell'igiene delle mani, mentre uno studio in Egitto (18) ha riportato che l'igiene delle mani ha ridotto il rischio di influenza di> 50%. Un'analisi aggregata di 2 studi in aule residenziali universitarie ha riportato un effetto protettivo marginalmente significativo di una combinazione di igiene delle mani e maschere facciali indossate da tutti i residenti (RR 0,48, IC 95% 0,21–1,08; I2 = 0%, p = 0,08) ( Appendice Figura 6) (9,10). A sostegno dell'igiene delle mani come misura efficace, studi sperimentali hanno riportato che il virus dell'influenza potrebbe sopravvivere sulle mani umane per un breve periodo e potrebbe trasmettersi tra le mani e le superfici contaminate (2,21). Alcuni studi sul campo hanno riportato che l'RNA del virus dell'influenza A (H1N1) pdm09 e dell'influenza A (H3N2) e il virus dell'influenza vitale potrebbero essere rilevati nelle mani di persone con influenza confermata in laboratorio (22,23), supportando il potenziale di contatto diretto e indiretto trasmissione per svolgere un ruolo nella diffusione dell'influenza. Altri studi sperimentali hanno anche dimostrato che l'igiene delle mani potrebbe ridurre o rimuovere il virus dell'influenza infettiva dalle mani umane (24,25). Tuttavia, i risultati della nostra meta-analisi sugli RCT non hanno fornito prove a sostegno di un effetto protettivo dell'igiene delle mani contro la trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio. Uno studio ha riportato un effetto importante, ma in questa sperimentazione sull'igiene delle mani nelle scuole in Egitto, è stato necessario installare acqua corrente e introdurre sapone e materiale per asciugare le mani nelle scuole di intervento come parte del progetto (18). Pertanto, l'impatto dell'igiene delle mani potrebbe anche essere un riflesso dell'introduzione di sapone e acqua corrente nelle scuole primarie in un contesto a basso reddito. Se si considerano tutte le prove degli RCT insieme, è utile notare che alcuni studi potrebbero aver sottostimato il vero effetto dell'igiene delle mani a causa della complessità dell'implementazione di questi studi di intervento. Ad esempio, il gruppo di controllo non avrebbe in genere nessuna conoscenza o uso dell'igiene delle mani e il gruppo di intervento potrebbe non aderire alle pratiche ottimali di igiene delle mani (11,13,15). L'igiene delle mani è anche efficace nella prevenzione di altre malattie infettive, comprese le malattie diarroiche e alcune malattie respiratorie (8,26). La necessità dell'igiene delle mani nella prevenzione delle malattie è ben riconosciuta dalla maggior parte delle comunità. L'igiene delle mani è stata accettata come misura di protezione personale in> 50% dei piani nazionali di preparazione per l'influenza pandemica (5). La pratica dell'igiene delle mani viene comunemente eseguita con acqua e sapone, strofinacci per le mani a base di alcol o altri disinfettanti per le mani senz'acqua, tutti facilmente accessibili, disponibili, economici e ben accettati nella maggior parte delle comunità. Tuttavia, le limitazioni delle risorse in alcune aree sono una preoccupazione quando non sono disponibili acqua corrente pulita o prodotti per il lavaggio delle mani a base di alcol. Ci sono pochi effetti negativi dell'igiene delle mani ad eccezione dell'irritazione della pelle causata da alcuni prodotti per l'igiene delle mani (27). Tuttavia, a causa di alcune pratiche sociali o religiose, i disinfettanti per le mani a base di alcol potrebbero non essere consentiti in alcuni luoghi (28). Il rispetto di una corretta pratica di igiene delle mani tende ad essere basso perché i comportamenti abituali sono difficili da cambiare (29). Pertanto, sono necessari programmi di promozione dell'igiene delle mani per sostenere e incoraggiare un'igiene delle mani adeguata ed efficace.

Etichetta respiratoria. L'etichetta respiratoria è definita come la copertura del naso e della bocca con un fazzoletto o una maschera (ma non una mano) quando si tossisce o si starnutisce, seguita da un corretto smaltimento dei tessuti usati e da una corretta igiene delle mani dopo il contatto con le secrezioni respiratorie (30). Altre descrizioni di questa misura hanno incluso girare la testa e coprire la bocca quando si tossisce e si tossisce o si starnutisce in una manica o in un gomito, piuttosto che in una mano. Il motivo per non tossire nelle mani è prevenire la successiva contaminazione di altre superfici o oggetti (31). Abbiamo condotto una ricerca il 6 novembre 2018 e identificato la letteratura disponibile nei database dal 1946 al 5 novembre 2018. Non abbiamo identificato alcuna ricerca pubblicata sull'efficacia dell'etichetta respiratoria nel ridurre il rischio di influenza o influenza confermata in laboratorio. ILI. Uno studio osservazionale ha riportato un tasso di incidenza simile di malattie respiratorie autoriferite (definite da> 1 sintomi: tosse, congestione, mal di gola, starnuti o problemi respiratori) tra i pellegrini statunitensi con o senza pratica dell'etichetta respiratoria durante l'Hajj (32). Gli autori non hanno specificato il tipo di etichetta respiratoria utilizzata dai partecipanti allo studio. Uno studio di laboratorio ha riportato che l'etichetta respiratoria comune, compresa la copertura della bocca con mani, tessuti o manica / braccio, era abbastanza inefficace nel bloccare il rilascio e la dispersione di goccioline nell'ambiente circostante sulla base della misurazione delle goccioline emesse con un sistema di diffrazione laser (31). L'etichetta respiratoria è spesso indicata come misura preventiva per le infezioni respiratorie. Tuttavia, mancano prove scientifiche a sostegno di questa misura. Se l'etichetta respiratoria sia un intervento non farmaceutico efficace nella prevenzione della trasmissione del virus dell'influenza rimane discutibile e degno di ulteriori ricerche.

Maschere per il viso. Nella nostra revisione sistematica, abbiamo identificato 10 RCT che riportavano stime dell'efficacia delle maschere facciali nel ridurre le infezioni da virus influenzali confermate in laboratorio nella comunità dalla letteratura pubblicata nel periodo 1946-27 luglio 2018. Nell'analisi aggregata, non abbiamo riscontrato una riduzione significativa nel trasmissione dell'influenza con l'uso di maschere facciali (RR 0,78, 95% CI 0,51-1,20; I2 = 30%, p = 0,25) (Figura 2). Uno studio ha valutato l'uso di maschere tra i pellegrini provenienti dall'Australia durante il pellegrinaggio Hajj e non ha riportato differenze significative nel rischio di infezione da virus influenzale confermata in laboratorio nel gruppo di controllo o maschera (33). Due studi in ambienti universitari hanno valutato l'efficacia delle maschere per la protezione primaria monitorando l'incidenza dell'influenza confermata in laboratorio tra i residenti delle sale studentesche per 5 mesi (9,10). La riduzione complessiva dei casi di ILI o di influenza confermati in laboratorio nel gruppo con maschera facciale non è stata significativa in nessuno degli studi (9,10). I disegni degli studi nei 7 studi sulla famiglia erano leggermente diversi: 1 studio ha fornito maschere per il viso e respiratori P2 solo per i contatti domestici (34), un altro studio ha valutato l'uso delle maschere per il viso solo come controllo della sorgente per le persone infette (35) e gli studi rimanenti hanno fornito maschere per le persone infette e per i loro stretti contatti (11-13,15,17). Nessuno degli studi sulle famiglie ha riportato una riduzione significativa delle infezioni da virus influenzali secondarie confermate in laboratorio nel gruppo con maschera facciale (11-13,15,17,34,35). La maggior parte degli studi era sottodimensionata a causa della dimensione limitata del campione e alcuni studi hanno anche riportato un'aderenza non ottimale nel gruppo con maschera facciale. Le maschere mediche usa e getta (note anche come maschere chirurgiche) sono dispositivi larghi che sono stati progettati per essere indossati dal personale medico per proteggere la contaminazione accidentale delle ferite del paziente e per proteggere chi lo indossa da schizzi o spruzzi di fluidi corporei (36). Esistono prove limitate della loro efficacia nel prevenire la trasmissione del virus dell'influenza sia quando indossati dalla persona infetta per il controllo della fonte, sia quando indossati da persone non infette per ridurre l'esposizione. La nostra revisione sistematica non ha rilevato alcun effetto significativo delle maschere facciali sulla trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio. Non abbiamo considerato l'uso di respiratori nella comunità. I respiratori sono maschere aderenti che possono proteggere chi lo indossa dalle particelle fini (37) e dovrebbero fornire una migliore protezione contro l'esposizione al virus dell'influenza se indossati correttamente a causa della maggiore efficienza di filtrazione. Tuttavia, i respiratori, come le maschere N95 e P2, funzionano meglio quando vengono sottoposti a test di idoneità e queste maschere saranno in quantità limitata durante la prossima pandemia. Questi dispositivi specialistici dovrebbero essere riservati per l'uso in strutture sanitarie o in sottopopolazioni speciali come le persone immunocompromesse nella comunità, i primi soccorritori e coloro che svolgono altre funzioni comunitarie critiche, se le forniture lo consentono. In ambienti a basso reddito, è più probabile che vengano utilizzate maschere in tessuto riutilizzabili piuttosto che maschere mediche usa e getta a causa del costo e della disponibilità (38). Ci sono ancora poche incertezze nella pratica dell'uso della maschera facciale, come chi dovrebbe indossare la maschera e per quanto tempo dovrebbe essere utilizzata. In teoria, la trasmissione dovrebbe essere ridotta al massimo se sia i membri infetti che gli altri contatti indossano maschere, ma la compliance nei contatti stretti non infetti potrebbe essere un problema (12,34). L'uso corretto delle maschere per il viso è essenziale perché un uso improprio potrebbe aumentare il rischio di trasmissione (39). Pertanto, è necessaria anche un'istruzione sull'uso corretto e sullo smaltimento delle maschere facciali usate, compresa l'igiene delle mani. Figura 2. Meta-analisi dei rapporti di rischio per l'effetto dell'uso della maschera facciale con o senza una migliore igiene delle mani sull'influenza confermata in laboratorio da 10 studi randomizzati controllati con> 6.500 partecipanti. A) Maschera viso ...

Misure ambientali:

Pulizia di superfici e oggetti. Per il periodo di ricerca dal 1946 al 14 ottobre 2018, abbiamo identificato 2 RCT e 1 studio osservazionale sulle misure di pulizia di superfici e oggetti da includere nella nostra revisione sistematica (40-42). Un RCT condotto in asili nido ha scoperto che la pulizia e la disinfezione bisettimanale di giocattoli e biancheria riduceva il rilevamento di più virus, tra cui adenovirus, rinovirus e virus respiratorio sinciziale nell'ambiente, ma questo intervento non è stato significativo nel ridurre il rilevamento del virus dell'influenza, e non ha avuto alcun effetto protettivo importante sulle malattie respiratorie acute (41). Un altro RCT ha rilevato che l'igiene delle mani con disinfettante per le mani insieme alla disinfezione delle superfici riduceva l'assenteismo correlato a malattie gastrointestinali nelle scuole elementari, ma non c'era una riduzione significativa dell'assenteismo correlato a malattie respiratorie (42). Uno studio trasversale ha rilevato che il contatto passivo con la candeggina era associato a un forte aumento dell'influenza auto-segnalata (40). Dato che il virus dell'influenza può sopravvivere su alcune superfici per periodi prolungati (43) e che le procedure di pulizia o disinfezione possono ridurre o inattivare efficacemente il virus dell'influenza da superfici e oggetti negli studi sperimentali (44), esiste una base teorica per ritenere che la pulizia ambientale potrebbe ridurre la trasmissione dell'influenza. Come illustrazione di questa proposta, uno studio di modellazione ha stimato che la pulizia di superfici ampiamente toccate potrebbe ridurre l'infezione da influenza A del 2% (45). Tuttavia, la maggior parte degli studi sul virus dell'influenza nell'ambiente si basa sul rilevamento dell'RNA del virus mediante PCR e pochi studi hanno riportato il rilevamento di virus vitali. Sebbene non abbiamo trovato prove che la pulizia della superficie e degli oggetti possa ridurre la trasmissione dell'influenza, questa misura ha un impatto consolidato sulla prevenzione di altre malattie infettive (42). Dovrebbe essere possibile attuare questa misura nella maggior parte dei contesti, in base alla disponibilità di acqua e prodotti per la pulizia. Sebbene l'irritazione causata dai prodotti per la pulizia sia limitata, la sicurezza rimane una preoccupazione perché alcuni prodotti per la pulizia possono essere tossici o causare allergie (40).

Discussione. In questa revisione, non abbiamo trovato prove a sostegno di un effetto protettivo delle misure di protezione personale o delle misure ambientali nel ridurre la trasmissione dell'influenza. Sebbene queste misure abbiano un supporto meccanicistico basato sulla nostra conoscenza di come l'influenza viene trasmessa da persona a persona, studi randomizzati di igiene delle mani e maschere facciali non hanno dimostrato protezione contro l'influenza confermata in laboratorio, con 1 eccezione (18). Abbiamo identificato solo 2 RCT sulla pulizia ambientale e nessun RCT sull'etichetta della tosse. L'igiene delle mani è un intervento ampiamente utilizzato e ha dimostrato di ridurre efficacemente la trasmissione di infezioni gastrointestinali e respiratorie (26). Tuttavia, nella nostra revisione sistematica, l'aggiornamento dei risultati di Wong et al. (8), non abbiamo trovato prove di un effetto importante dell'igiene delle mani sulla trasmissione del virus influenzale confermata in laboratorio (Figura 1). Tuttavia, l'igiene delle mani potrebbe essere inclusa nei piani di pandemia influenzale come parte dell'igiene generale e della prevenzione delle infezioni. Non abbiamo trovato prove che le maschere facciali di tipo chirurgico siano efficaci nel ridurre la trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio, sia quando indossate da persone infette (controllo alla fonte) o da persone nella comunità in generale per ridurre la loro suscettibilità (Figura 2). Tuttavia, come per l'igiene delle mani, le maschere per il viso potrebbero essere in grado di ridurre la trasmissione di altre infezioni e quindi avere valore in una pandemia influenzale quando le risorse sanitarie sono a corto di risorse. È essenziale notare che i meccanismi di trasmissione da persona a persona nella comunità non sono stati completamente determinati. Resta la controversia sul ruolo della trasmissione attraverso aerosol di particelle fini (3,46). La trasmissione per contatto indiretto richiede il trasferimento del virus vitale dalla mucosa respiratoria alle mani e ad altre superfici, la sopravvivenza su quelle superfici e l'inoculazione riuscita nella mucosa respiratoria di un'altra persona. Tutti questi componenti del percorso di trasmissione non sono stati studiati ampiamente. Anche l'impatto di fattori ambientali, come la temperatura e l'umidità, sulla trasmissione dell'influenza è incerto (47). Queste incertezze sulle modalità e sui meccanismi di trasmissione di base ostacolano l'ottimizzazione delle misure di controllo. In questa recensione, ci siamo concentrati su 3 misure di protezione personale e 1 misura ambientale. Altre potenziali misure ambientali includono l'umidificazione in ambienti asciutti (48), l'aumento della ventilazione (49) e l'uso della luce UV nella stanza superiore (50), ma ci sono prove limitate a sostegno di queste misure. Ulteriori indagini sull'efficacia dell'etichetta respiratoria e della pulizia delle superfici attraverso la conduzione di RCT sarebbero utili per fornire prove di qualità superiore; sarebbe utile anche la valutazione dell'efficacia di queste misure rivolte a gruppi di popolazione specifici, come le persone immunocompromesse (Tabella 2). Le future valutazioni del rapporto costo-efficacia potrebbero fornire un maggiore sostegno per il potenziale utilizzo di queste misure. Ulteriori ricerche sulle modalità di trasmissione e interventi alternativi per ridurre la trasmissione dell'influenza sarebbero utili per migliorare la preparazione alla pandemia. Infine, sebbene la nostra revisione si concentri sulle misure non farmaceutiche da adottare durante le pandemie influenzali, i risultati potrebbero applicarsi anche a gravi epidemie di influenza stagionale. Le prove da RCT sull'igiene delle mani o sulle maschere per il viso non hanno supportato un effetto sostanziale sulla trasmissione dell'influenza confermata in laboratorio ed erano disponibili prove limitate su altre misure ambientali.

Oms, appello di 238 scienziati. "Contagio aereo sottovalutato". La lettera prova a mettere in guardia sul comportamento del virus: "Anche le particelle più piccole sono pericolose". Manila Alfano, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Una lettera aperta all'Organizzazione mondiale della Sanità, 239 scienziati uniti per dire attenzione a sottovalutare. «Il covid viaggia nell'aria più di quanto si pensava». Più di quanto credeva l'Oms. Attenzione alle particelle virali che rimangono nell'aria che sono infettive. È uno dei temi più dibattuti nel mondo scientifico dall'inizio dell'epidemia di Coronavirus. Secondo quanto riporta il New York Times 239 scienziati di 32 Paesi hanno inviato una lettera aperta all'Oms, indicando le prove che dimostrerebbero come anche le particelle più piccole, quelle che rimangono per più tempo nell'aria, possono infettare le persone. Gli esperti chiedono all'Organizzazione di rivedere quindi le sue raccomandazioni. I ricercatori hanno in programma di pubblicare la loro lettera su una rivista scientifica la prossima settimana. Dal canto suo, l'Oms sostiene da tempo che il Coronavirus si diffonde principalmente attraverso grandi goccioline respiratorie che, una volta espulse da persone infette in tosse e starnuti, cadono rapidamente sul pavimento. La dottoressa Benedetta Allegranzi, riporta il New York Times, responsabile tecnico dell'OMS sul controllo delle infezioni, ha affermato che le prove che il virus che si diffonde nell'aria non sono convincenti: «Soprattutto negli ultimi due mesi, abbiamo affermato diverse volte che consideriamo la trasmissione aerea possibile, ma certamente non supportata da prove solide o addirittura chiare», ha detto, sottolineando come ci sia «un forte dibattito su questo». Eppure, all'interno dell'Oms i pareri non sono unanimi. Diversi consulenti e membri dell'agenzia hanno osservato come il Comitato per la prevenzione e il controllo delle infezioni sia vincolato da una visione rigida e eccessivamente medicalizzata delle prove scientifiche, oltre ad essere lento e avverso al rischio nell'aggiornamento della sua guida. Nelle linee guida dettate il 6 aprile l'Oms sosteneva che le mascherine sono utili per non diffondere il virus se indossate da persone malate e sono indispensabili per gli operatori sanitari, ma invitava alla cautela rispetto all'uso generalizzato, sottolineando che non esistono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l'infezione. Anzi nella stessa informativa ammoniva sul falso senso di sicurezza che potrebbero infondere. «Sono molto scossa dalle questioni relative alla trasmissione aerea del virus», ha affermato al Times Mary-Louise McLaws, membro del comitato ed epidemiologa dell'Università del New South Wales a Sydney. «Se iniziassimo a riconsiderare il flusso d'aria, dovremmo essere pronti a cambiare molto di ciò che facciamo». Il dibattito era partito all'inizio di aprile, quando un gruppo di 36 esperti in materia di qualità dell'aria e aerosol esortava l'Oms a considerare le prove crescenti sulla trasmissione aerea del Coronavirus. L'agenzia aveva risposto chiamando Lidia Morawska, leader del gruppo e consulente dell'Oms di lunga data. Ma dalla discussione sarebbe emersa la solita raccomandazione (senza dubbio fondamentale) del lavaggio delle mani. La dottoressa Morawska e altri avevano segnalato diversi episodi in cui indicano la trasmissione aerea del virus, in particolare negli spazi interni scarsamente ventilati e affollati. Secondo loro l'OMS stava facendo una distinzione artificiale tra piccoli aerosol e goccioline più grandi, anche se le persone infette sono in grado di produrle entrambi.

Paolo Russo per ''la Stampa'' il 7 luglio 2020. Gli esperti italiani invitano alla prudenza e aspettano la pubblicazione dello studio prima di tirare le somme, ma quella lanciata da 239 scienziati di tutto il mondo è a suo modo una bomba: il Covid non si trasmetterebbe soltanto con colpi di tosse, starnuti e contatti ravvicinati, ma anche semplicemente respirando l'aria in una stanza dove ha sostato una persona infetta. Un rischio che, se confermato, costringerebbe a dover dare una bella stretta alle misure di sicurezza che molti hanno già deciso invece per proprio conto di allentare. «È ora di occuparsi della trasmissione area del Covid-19» scrivono in una lettera aperta all'Oms e alle altre autorità sanitarie del pianeta gli oltre 200 esperti di 32 Paesi, anticipando le conclusioni di uno studio multicentrico in via di pubblicazione nella rivista "Clinical Infectious Diseases". Finora l'Organizzazione mondiale della sanità ha continuato a ripetere che la trasmissione del virus avviene da persona a persona, attraverso il cosiddetto «droplet», le goccioline di dimensioni comunque rilevanti emesse quando si parla, si tossisce o emette uno starnuto. Ma in 239 chiedono ora all'Oms di rivedere le sue posizioni, perché «esiste un potenziale ma significativo rischio di inalare il virus contenuto nelle microscopiche goccioline respiratorie», che si propagherebbero a breve e media distanza, fino a diversi metri». Da qui la necessità di ventilare meglio luoghi di lavoro, scuole, ospedali e case di riposo. O installare strumenti di controllo delle infezioni, come filtri d'aria di alto livello, e speciali raggi ultravioletti in grado di uccidere i microbi. Anche se poi precisano che quella aerea «non è certamente la principale modalità di trasmissione del coronavirus». Secondo un altro studio dell'Università di Nicosia, precauzioni andrebbero però prese anche all'aria aperta, quando tira il "venticello". Con uno strumento in grado di replicare i colpi di tosse i ricercatori ciprioti hanno dimostrato infatti che con un vento tra i 4 e i 14 chilometri orari le goccioline possono viaggiare fino a 6 metri in una manciata di secondi. Ma sul fatto che ci si possa contagiare soltanto respirando l'aria che ci circonda i nostri scienziati ci vanno cauti. «Che la trasmissione possa avvenire anche con micro-goccioline di aerosol è ancora da dimostrare. Abbiamo visto che questo è stato possibile nelle terapie intensive, ma li la concentrazione del virus era elevata», afferma il virologo dell'Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. «Prima di trarre conclusioni aspettiamo la pubblicazione dello studio. Certo è -aggiunge- che se fosse vero dovremmo adottare misure più stringenti, come l'obbligo della mascherina in tutti i luoghi chiusi o la presenza di non più di due persone per 10 metri quadri quando non si è all'aria aperta». Alla cautela invita anche il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia. «Se lo studio dimostrerà una sua validità scientifica anche l'Oms finirà per cambiare la strategia di prevenzione, aumentando a oltre un metro il distanziamento nei luoghi chiusi, vietando l'uso dei ventilatori e dei condizionatori senza sistemi di ricambio dell'aria. Come Spallanzani -anticipa- stiamo già per pubblicare il decalogo dell'areazione corretta nei luoghi chiusi». Chi nello studio internazionale ci vede poco di nuovo è invece il consigliere del ministro Speranza, Walter Ricciardi. «Che il virus si potesse trasmettere anche con il vapore acqueo generato dalla respirazione lo sapevamo già. La strategia non cambia: al chiuso mantenere il distanziamento, lavare le mani, indossare la mascherina e dove possibile far entrare il sole, che è il più potente disinfettante in natura».

I rischi senza la mascherina: ecco il nuovo studio sui contagi. Un nuovo studio sul Coronavirus rivela che può viaggiare fino a 4 metri di distanza dalla persona infetta e raggiungerne una sana in breve tempo. Rosa Scognamiglio,  Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Il coronavirus può spostarsi fino a 4 metri di distanza dalla fonte anche in assenza di vento. E' quanto, in estrema sintesi, emerge da un recente studio sulle droplets, le ormai notorie goccioline di areosol che veicolano la trasmissione del patogeno da un individuo infetto ad uno sano. "La distanza sociale di 1-2 metri potrebbe non essere sufficiente per impedire alle particelle esalate da una persona di raggiungere qualcun altro", avvertono gli autori della ricerca.

Lo studio. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica Physics of Fluids e vanta la firma di alcuni dei più illustri ingegneri di aerodinamica e fisica del mondo contemplando, tra i vari, il contributo dell'Uc San Diego Jacobs School of Engineering, dell'University of Toronto e dell'Indian Institute of Science. Attraverso l'osservazione di dati specifici, gli esperti hanno scoperto che il coronavirus può raggiungere una distanza di oltre quattro metri dalla fonte anche in assenza di vento. I flussi di micro particelle droplets possono spostarsi agevolmente da un corpo all'altro - fanno testo anche eventuali superfici di destino - in determinate condizioni ambientali e climatiche. In virtù di quanto appurato "il distanziamento sociale di 1-2 metri potrebbe non essere sufficiente senza mascherine", affermano i ricercatori. L'obiettivo dello studio è quello di predire una stima approssimativa delle persone che, nelle prossime settimane, potrebbero entrare in rotta di collissione col virus ed eventualmente scovare uno stratagemma per batterlo sul tempo. A tal riguardo, è stato elaborato un modello matematico in grado di stanare il nemico e prevederne le mosse future.

In cosa consiste il modello matematico. Il sistema approntato dal team di ingenieri si basa sulla “teoria del tasso di collissione” che consente di misurare la percentuale di interazione e collisione di una nuvola droplets espirata da una persona infetta a contatto (non diretto) con altre sane. Il modello, nato per capire il ruolo dell'aerosol che si produce quando respiriamo, è il primo basato su un approccio che, in generale, si usa per studiare le reazioni chimiche. Per questo motivo, chiariscono gli scienziati, può essere applicato per prevedere non solo la diffusione precoce del Covid-19 ma anche quella di altri virus respiratori. La strategia messa a punto collega l'interazione umana su scala demografica con i risultati della fisica delle goccioline su micro-scala (quanto lontano e velocemente si diffondono le goccioline e quanto durano). La strategia messa a punto dagli scienziati collega l'interazione umana su scala demografica con i risultati della fisica delle goccioline su micro-scala (quanto lontano e velocemente si diffondono le goccioline e quanto durano). "Alla base di una reazione chimica c'è che due molecole si stanno scontrando. La frequenza con cui si scontrano ti darà la velocità con cui procede la reazione - spiega uno degli autori, Abhishek Saha, professore di ingegneria meccanica all'University of California San Diego - Qui è esattamente lo stesso: la frequenza con cui le persone sane entrano in contatto con una nuvola di goccioline infette può essere una misura di quanto velocemente può diffondersi la malattia". La trasmissione, più o meno rapida, delle droplets dipende imprescindibilmente dal favore delle condizioni climatiche.

Il clima incide sulla rapidità di diffusione del virus? La fisica delle goccioline "Dipende in modo significativo dal tempo, - prosegue Saha - e sei in un clima più freddo e umido, le goccioline da uno starnuto o di un colpo di tosse dureranno più a lungo e si diffonderanno più lontano che se ti trovi in ​​un clima caldo e secco, dove evaporeranno più velocemente. Noi abbiamo incorporato questi parametri nel nostro modello di diffusione dell'infezione e non ci risulta che sia stato fatto in modelli precedenti, per quel che sappiamo". Una delle scoperte più interessanti in seno alla ricerca riguarda l'interazione tra virus e clima: a una temperatura di 35 gradi con 40% di umidità relativa, una gocciolina può spostarsi di quasi 2,5 metri. Ma a 5 gradi e con l'80% di umidità, la distanza che è in grado di coprire supera quota 3,6 metri. Tutto dipende dalla dimensione delle droplets: le goccioline di 14-48 micron rappresentano un rischio maggiore di contagio perché impiegano più tempo a evaporare e percorrono distanze più lunghe. Le particelle più piccole, invece, evaporano in una frazione di secondo mentre le più grandi si depositano rapidamente sul terreno per effetto del loro peso. Queste osservazioni, sottolineano gli autori, sono "un'ulteriore prova" dell'importanza di indossare le mascherine, in quanto "in grado di bloccare le particelle delle dimensioni più critiche". "La distanza sociale di 1-2 metri - concludono - potrebbe non essere sufficiente per impedire alle particelle esalate da una persona di raggiungere qualcun altro".

Da open.online il 16 luglio 2020. Una squadra di ricercatori sostiene che i raggi ultravioletti abbiano un effetto sul virus Covid-19: riescono a inattivare la carica virale. La scoperta è stata fatta da medici dell’Università degli Studi di Milano che lavorano nell’ospedale Luigi Sacco, il centro di riferimento lombardo per l’epidemia. Alla ricerca hanno collaborato anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e l’Istituto nazionale dei tumori. A guidare il team c’è Mario Clerici, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi.

L’esperimento con lampade diverse. L’esperimento è stato fatto posizionando goccioline di liquido contenente Sars-Cov-2 sotto alcune lampade che trasmettevano raggi Uv di tipo C, quelli che non penetrano l’atmosfera. Il liquido è stato usato come fac-simile di quello che in genere si emette parlando o starnutendo. A spiegarlo al Corriere della Sera è lo stesso Mario Clerici: «Abbiamo valutato una dose bassa di virus (quella che può esserci in una stanza dove è presente un positivo), una dose cento volte più alta (che si può trovare in un soggetto con forma grave di Covid-19) e una quantità mille volte più alta, impossibile da trovare in un essere umano o in una qualunque situazione reale. In tutti tre i casi la carica virale è stata inattivata in pochi secondi al 99,9% da una piccola quantità di raggi UvC». Dopo il primo tentativo andato a buon fine, lo stesso procedimento è stato ripetuto utilizzando i raggi UvA e UvB che, invece, arrivano sulla Terra. E il risultati sono molto simili, come riporta il Corriere della Sera. «Partendo da questi dati ci siamo poi chiesti se ci fosse una correlazione tra irraggiamento solare e epidemiologia di Covid-19. Minore è la quantità di UvA e UvB, maggiore è il numero di infezioni. Questo potrebbe spiegarci perché in Italia, ora che è estate, abbiamo pochi casi e con pochi sintomi, mentre alcuni Paesi nell’altro emisfero – come quelli del Sud America, in cui è inverno – stanno affrontando il picco».

Un’estate senza l’ossessione della mascherina. Secondo Clerici, quindi, quest’estate potremo passarla senza la necessità di dover indossare la mascherina a ogni costo, sulla spiaggia. Questo perché «le goccioline che possono essere emesse da un eventuale soggetto positivo vengono colpite dai raggi solari e la carica virale è disattivata in pochi secondi. Il discorso potrebbe valere anche per superfici di ogni genere».

Le teorie su una seconda ondata. E su una probabile futura ondata, il professore teme quasi certamente che questo possa accadere, ma in forma più debole rispetto a quanto accaduto da marzo in poi. «Il virus che vediamo oggi è lo stesso di febbraio e marzo, non ha subito mutazioni nel suo genoma, se non minime. Dunque è sempre “cattivo”. La differenza è che i raggi solari lo inattivano, rendendo molto più difficile la trasmissione da un soggetto all’altro e anche la replicazione all’interno di un organismo. Il Covid, come tutti i virus, si adatterà all’uomo ma oggi, in Italia, il rallentamento dell’epidemia è dovuto principalmente a motivi ambientali».

"Disattivato in pochi secondi": così i raggi Uv eliminano il virus. Da una ricerca condotta da un team di medici e astrofisici italiani è emerso che il coronavirus diventa inattivo in pochi secondi con piccole quantità di raggi UvC. Gabriele Laganà, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Il Sole potrebbe essere un nostro importante alleato nella lotta contro il coronavirus. Secondo uno studio condotto da un team italiano composto da medici del dipartimento "Luigi Sacco" dell’Università degli Studi di Milano, astrofisici dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale dei tumori, i raggi ultravioletti emessi dalla nostra stella disattiverebbero il temibile microrganismo in pochi secondi. Una notizia per certi versi clamorosa che potrebbe segnare una svolta decisiva nella guerra a Covid-19. A confermare l’attendibilità dello studio è Mario Clerici, primo firmatario dei lavori, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera, illustrando i risultati della ricerca, il professore ha spiegato che si è arrivati a definire l’efficacia dei raggi ultravioletti nei confronti di Sars-CoV-2 attraverso un meccanismo relativamente semplice: "Dapprima abbiamo utilizzato delle lampade a raggi Uv di tipo C, quelli che non arrivano sulla Terra perché bloccati dall’atmosfera". Questi dispositivi, ha sottolineato Clerici, sono simili a quelli usati per purificare gli acquari. "Nell’esperimento- ha continuato- sono state posizionate sotto le lampade gocce di liquido di diverse dimensioni (droplet) contenenti Sars-CoV-2, per simulare ciò che può essere emesso parlando o con uno starnuto. Abbiamo valutato una dose bassa di virus (quella che può esserci in una stanza dove è presente un positivo), una dose cento volte più alta (che si può trovare in un soggetto con forma grave di Covid-19) e una quantità mille volte più alta, impossibile da trovare in un essere umano o in una qualunque situazione reale". Ebbene, i risultati sono stati estremamente promettenti. In tutti e tre i casi, infatti, la carica virale è stata resa inattiva al 99,9% in pochi secondi utilizzando una piccola quantità di raggi UvC. "Ne bastano 2 millijoule per centimetro quadrato", ha specificato il professore che poi ha aggiunto che il virus utilizzato negli esperimenti, fornito dall’Istituto Spallanzani di Roma, sono altamente patogeni, tratti da campioni biologici di pazienti. Per avere ulteriori risposte, il team ha eseguito lo stesso esperimento con i raggi UvA e UvB, quelli cioè che arrivano sulla superficie terrestre. Da una prima analisi, come ha ammesso Clerici, i risultati sono molto simili ma non sono ancora stati messi a disposizione della comunità scientifica perché sono ancora in fase stiamo di elaborazione definitiva. "Il lavoro degli astrofisici- ha spiegato il professore- è stato raccogliere dati sulla quantità di raggi solari in 260 Paesi, dal 15 gennaio a fine maggio. La corrispondenza con l’andamento dell’epidemia di Sars-CoV-2 è risultata quasi perfetta: minore è la quantità di UvA e UvB, maggiore è il numero di infezioni". Questo induce il direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi a spiegare cosa sta accadendo nel mondo a causa del coronavirus. Non sarebbe un caso, secondo il professore, che Italia ora che è estate "ci sono pochi casi e con pochi sintomi, mentre alcuni Paesi nell’altro emisfero, come quelli del Sud America, in cui è inverno, stanno affrontando il picco". Un caso a parte è rappresentato da Bangladesh, India e Pakistan. In questi tre Paesi, nonostante il clima caldo l’epidemia è in espansione. Ma vi sarebbe una risposta che spiegherebbe l’incongruenza: le nuvole dei monsoni bloccano i raggi solari e, quindi, non fermano il coronavirus. Il professore, però, ha sottolineato che"nell’analisi dei colleghi astrofisici, sono state prese in considerazione anche altre variabili, come l’uso della mascherina e il distanziamento interpersonale". Clerici si è detto sicuro che si può stare tranquilli in spiaggia, anche senza mascherina, in quanto "le goccioline che possono essere emesse da un eventuale soggetto positivo vengono colpite dai raggi solari e la carica virale è disattivata in pochi secondi. Il discorso potrebbe valere anche per superfici di ogni genere". Se la ricerca sarà confermata si potrebbe anche risolvere il problema della disinfezione dei luoghi chiusi. In questo caso, basterebbe utilizzare lampade a raggi Uv i cui raggi, ha spiegato ancora il professore "non sarebbero dannosi per gli esseri umani perché parliamo di quantità minime e tempi brevi. Potrebbero utilizzate nei cinema, negozi, uffici e anche nelle scuole. Anche se fosse necessario tenere accese le lampade per diverse ore in presenza di persone, non ci sarebbero rischi per la salute". Clerici ha anche illustrato che è stato condotto uno studio sul rapporto tra quantità di raggi solari e influenza stagionale, analizzando un arco temporale di un secolo: "La classica influenza scompare con l’arrivo della stagione calda, per ricomparire poi da ottobre a marzo. E non dà alcuna immunità di gregge, come sembra accadere nel caso di Sars-CoV-2". Infine, il professore si è anche detto certo che una seconda ondata di Covid ci sarà ma non potente come la prima perché il virus sarà indebolito: "Il virus che vediamo oggi è lo stesso di febbraio e marzo, non ha subito mutazioni nel suo genoma, se non minime. Dunque è sempre "cattivo". La differenza è che i raggi solari lo inattivano, rendendo molto più difficile la trasmissione da un soggetto all’altro e anche la replicazione all’interno di un organismo". "Sars-CoV-2, come tutti i virus, si adatterà all’uomo- ha aggiunto Clerici- ma oggi, in Italia il rallentamento dell’epidemia è dovuto principalmente a motivi ambientali".

«Ricambio d’aria e tono di voce basso. Covid, come combattere le goccioline infette». Laura Cuppini su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2020. L’Oms ha ammesso, dopo la lettera di 239 scienziati, che il problema della trasmissione aerea esiste. Buonanno: «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione». E le mascherine chirurgiche non bastano. La trasmissione aerea di Sars-CoV-2, attraverso le particelle emesse da soggetti positivi che rimangono sospese nell’aria, potrebbe diventare una delle frontiere della lotta alla pandemia. Dopo la lettera di 239 scienziati di 32 Paesi, anticipata dal New York Times e pubblicata su Clinical Infectious Diseases, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ammesso che il problema esiste. «Stiamo collaborando con molti dei firmatari della lettera. Ci sono evidenze su questo tema e crediamo di dover essere aperti e studiare per comprenderne le implicazioni sulle modalità di trasmissione e sulle precauzioni da prendere. Ci sono alcune specifiche condizioni in cui non si può escludere la trasmissione aerea, soprattutto in luoghi molto affollati, chiusi. Ma le evidenze vanno raccolte e studiate» ha sottolineato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico dell’Oms per il controllo delle infezioni. «Gli esperti che hanno firmato la missiva ci potranno aiutare per esempio nel comprendere l’importanza della ventilazione negli ambienti. Stiamo studiando e tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio» ha precisato Maria Van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico per il coronavirus dell’Oms.

I 239 scienziati, tra cui l’italiano Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia), chiedono di rivedere o integrare le linee guida: «L’Oms ha ribadito che il coronavirus si diffonde soprattutto per droplet di dimensioni rilevanti che, una volta emesse dalle persone infette attraverso tosse e starnuti ma anche durante la semplice respirazione o mentre il soggetto parla, cadono rapidamente a terra» scrivono. Ma anche le particelle più piccole possono infettare le persone e dunque una corretta ventilazione degli ambienti e i cosiddetti “filtri facciali” (mascherine N95, FFP2, FFP3) sarebbero essenziali negli ambienti chiusi.

Professor Buonanno, come avviene la trasmissione aerea?

«La trasmissione aerea del contagio avviene per inalazione dell’aerosol emesso da un soggetto infetto (goccioline di diametro inferiore a 10 micron). Per avere il contagio è però necessario inalare un’adeguata quantità di carica virale, ovvero una dose infettante. Inoltre questo virus ha un tempo di dimezzamento della carica virale di circa un’ora».

Quali sono le differenze tra goccioline “grandi”, che cadono a terra per la forza di gravità, e goccioline piccole, che rimangono sospese nell’aria?

«Sulle goccioline grandi (droplet, diametro superiore ai 10 micron) la gravità agisce in modo importante, portandole di fatto al suolo in pochi secondi. Le goccioline più piccole (aerosol) sono invece soggette ai fenomeni di evaporazione e rimangono in sospensione in aria per tempi molto lunghi: hanno quindi la possibilità di muoversi per tratti molto più lunghi rispetto ai droplet».

Le goccioline di piccole dimensioni possono trasmettere il contagio?

«I principi che spiegano teoricamente la dinamica dell’aerosol sono noti da tempo e sono validi per molti altri virus. Durante il corso di una epidemia è sempre difficile trovare dei casi che provino il contagio per via aerea: questa analisi retrospettiva viene svolta solitamente a fine epidemia (come nel caso della Sars). Abbiamo però numerosi casi ed evidenze che dimostrano chiaramente come questo virus possa contagiare per via aerea».

Il rischio esiste anche se la persona che le produce ha una bassa carica virale (come sta emergendo da numerosi studi sui tamponi)?

«Il rischio esiste anche in questo caso, ma notevolmente ridotto. Il soggetto infetto emetterà una minore carica virale e, quindi, in condizioni di buona ventilazione e ridotti tempi di esposizione, il rischio sarebbe basso».

Quali sono i luoghi in cui potrebbe avvenire più facilmente la trasmissione aerea di Sars-CoV-2?

«I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione».

Ci può descrivere il modello che ha messo a punto per calcolare il livello di rischio nei vari ambienti e quali sono i fattori che entrano in gioco, oltre naturalmente alla presenza di uno o più soggetti positivi?

«Il modello teorico messo a punto permette di valutare il rischio individuale di infezione di un soggetto sano sulla base del carico virale emesso dal soggetto infetto (quanta, dove un quantum rappresenta una dose infettante), il numero di ricambi orari dell’aria (ventilazione), la volumetria del locale, i tempi di esposizione. Bisogna specificare che i quanta emessi dipendono dall’attività del soggetto: un soggetto che parla ad alta voce può emettere 100 volte più carico virale rispetto allo stesso soggetto in silenzio».

Facciamo qualche esempio pratico: cosa si può fare per rendere sicuri scuole, ospedali, residenze per anziani, uffici?

«La ventilazione gioca un ruolo fondamentale nella gestione del rischio. Purtroppo in Italia la cura della qualità dell’aria degli ambienti indoor non è mai stata affrontata, delegando alla semplice ventilazione naturale (aria che passa attraverso porte e finestre) il compito di “ripulire” l’aria negli ambienti. Questo è un problema più generale, che riguarda la qualità dell’aria in presenza di qualsiasi sorgente indoor (inquinante). Potrebbe essere questa l’occasione per mettere in sicurezza i nostri ambienti, ma sarebbero necessari investimenti importanti».

Uso corretto delle mascherine e ricambio frequente dell’aria sono criteri sufficienti per proteggersi?

«Il rischio zero non esiste, ma accanto alla ventilazione e alla riduzione dell’emissione (evitando di parlare ad alta voce, per esempio) l’uso corretto delle mascherine chirurgiche può ridurre ulteriormente le possibilità di contagio da aerosol, anche se non in modo rilevante. Questo perché le mascherine chirurgiche nascono per particelle di dimensioni maggiori di 10 micron».

Va bene qualunque tipo di mascherina?

«A differenza delle mascherine chirurgiche, i filtri facciali (FFP2, FFP3, N95) hanno un’efficienza di filtrazione molto elevata, anche per le tipiche dimensioni dell’aerosol».

Il distanziamento di almeno un metro è comunque utile?

«Il distanziamento è condizione necessaria ma non sufficiente per non avere contagi per via aerea negli ambienti chiusi. Con il distanziamento si evita di entrare in contatto con i droplet, le goccioline più grandi, che cadono in prossimità del soggetto infetto».

Lo smog può essere un fattore che facilita la diffusione di Sars-CoV-2?

«Non c’è alcuna relazione tra la diffusione del contagio da Sars-CoV-2 e il particolato atmosferico. In ambienti aperti il contagio non può trasmettersi per via aerea a causa dell’elevata “diluizione” della carica virale: è impossibile, per il soggetto sano, inalare una sufficiente dose infettante».

L’aria condizionata può avere un ruolo?

«L’aria condizionata non ha alcun ruolo nella trasmissione del contagio per via aerea».

Come si è svolta la discussione con l’Oms?

«La prima petizione firmata da 36 scienziati nei primi giorni di aprile è stata discussa con l’Organizzazione mondiale della sanità, ma senza risultato. Abbiamo quindi inviato una lettera-articolo, sottoscritta da 239 esperti internazionali, sullo stesso tema. Il 6 luglio abbiamo inviato una nuova petizione all’Oms per il riconoscimento della possibilità di questa modalità di contagio. In realtà, tra le raccomandazioni internazionali, compare da tempo la ventilazione negli ambienti chiusi che, ovviamente, non sarebbe necessaria in assenza di trasmissione aerea».

Guanti, mascherine e disinfettante, ecco le nuove linee guida dell’Oms per la Fase 3. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2020. “L’Oms non raccomanda l’uso di guanti” per contenere la diffusione del Covid-19. “L’uso di guanti può aumentare il rischio di infezione, dal momento che può portare ad una auto-contaminazione o a una trasmissione ad altri quando si toccano le superfici contaminate e quindi il viso”, si legge sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nella sezione dedicata alle domande e risposte sull’uso delle mascherine e dei guanti. “Pertanto, in luoghi pubblici come supermercati, oltre al distanziamento fisico, l’Oms raccomanda l’installazione di dispenser di disinfettante per le mani all’ingresso e all’uscita”, scrive l’agenzia Onu, “Migliorando ampiamente le pratiche di igiene delle mani, i paesi possono aiutare a prevenire la diffusione del Covid-19” raccomandando comunque sempre di “contattare le autorità locali sulle pratiche raccomandate nella propria area”.

QUANDO UTILIZZARE LE MASCHERINE – Le linee guida sono state aggiornate due mesi dopo le prime indicazioni. “Questa guida – afferma il dg Tedros Adhanom Ghebreyesus – si basa su prove in evoluzione e fornisce consigli aggiornati su chi dovrebbe indossare una mascherina, quando dovrebbe essere indossata e su cosa dovrebbe essere fatto. L’Oms ha sviluppato questa guida attraverso un’attenta revisione di tutte le prove disponibili e un’ampia consultazione con esperti internazionali e gruppi della società civile”. “Vorrei essere molto chiaro – precisa – che la guida che pubblichiamo oggi è un aggiornamento di ciò che diciamo da mesi: che le maschere dovrebbero essere sempre e solo utilizzate come parte di una strategia globale nella lotta contro il coronavirus. Le maschere da sole non ti proteggeranno”.

Ecco cosa non è cambiato: L’Oms continua a raccomandare che le persone malate con sintomi di covid-19 debbano rimanere a casa e consultare il proprio medico. Le persone che hanno confermato di avere il virus dovrebbero essere isolate e curate in una struttura sanitaria e i loro contatti dovrebbero essere messi in quarantena.Se è assolutamente necessario che una persona malata o un contatto lasci la propria casa, dovrebbe indossare una mascherina. L’Oms continua a consigliare alle persone che si prendono cura di una persona infetta a casa di indossare una mascherina mentre si trovano nella stessa stanza della persona malata. E l’Oms continua a consigliare che gli operatori sanitari utilizzino mascherine mediche e altri dispositivi di protezione quando trattano pazienti sospetti o confermati covdi-19.

Ecco le novità: Nelle aree a trasmissione diffusa, l’Oms consiglia l’uso delle mascherine per tutte le persone che lavorano in aree cliniche di una struttura sanitaria, non solo ai lavoratori che si occupano di pazienti con covid-19. Ciò significa, ad esempio, che quando un medico fa un giro di reparto in cardiologia o nelle unità di cure palliative dove non ci sono pazienti confermati positivi al coronavirus, dovrebbe comunque indossare una mascherina. In secondo luogo, nelle aree con trasmissione in comunità, consigliamo alle persone di età pari o superiore a 60 anni di indossare una mascherina in situazioni in cui non è possibile l’allontanamento fisico. In terzo luogo, l’Oms ha anche aggiornato la sua guida sull’uso delle maschere da parte del pubblico. Alla luce delle prove in evoluzione, l’Oms consiglia ai governi di incoraggiare il grande pubblico a indossare le mascherine nei luoghi cui vi è una trasmissione diffusa e l’allontanamento fisico è difficile, come sui trasporti pubblici, nei negozi o in altri ambienti chiusi o affollati. La linea guida aggiornata inoltre contiene nuove informazioni sulla composizione delle maschere in tessuto. Sulla base delle nuove ricerche, l’Oms consiglia che le maschere in tessuto debbano essere costituite da almeno tre strati di materiale diverso. I dettagli di quali materiali raccomandiamo per ogni strato sono nelle linee guida. “Le persone – evidenzia l’Oms – possono potenzialmente infettarsi se usano le mani contaminate per regolare una mascherina o per rimuoverla e indossarla ripetutamente, senza pulire le mani nel frattempo”. Inoltre, per l’Oms “le mascherine possono anche creare un falso senso di sicurezza, portando le persone a trascurare misure come l’igiene delle mani e l’allontanamento fisico”.

Coronavirus e termometro a infrarossi: possiamo davvero fidarci? Le Iene News il 19 maggio 2020. Al sole piuttosto che all’ombra, in auto o a piedi sono tante le variabili che possono cambiare la temperatura corporea. Come se non bastasse anche tra gli stessi termometri a infrarossi ci sono quelli che sovrastimano o sottostimano i valori. Cristiano Pasca li ha provati per noi: ecco il risultato. L’Italia entra nella Fase 2 e la misurazione della temperatura prima di entrare in ambienti chiusi, che deve essere inferiore ai 37.5 gradi, diventerà un’abitudine. Uno degli strumenti fondamentali è il termometro a infrarossi che consente di misurare la febbre senza alcun contatto e in pochi secondi. Ma quanto sono affidabili i termometri digitali? Cristiano Pasca mette a confronto le temperature misurate da quelli tradizionali con quelli digitali. Si misura la temperatura notando uno scarto al ribasso di 0.4 gradi. “Nella norma non c’è un’indicazione e un’uniformità rispetto agli strumenti da utilizzare”, spiega Maurizio Cusimano, docente di scienze forensi. Infatti nel decreto del 26 aprile viene specificata la temperatura massima, ma non con quale strumento debba essere rilevata. Questo può essere un problema perché se questi termometri avessero davvero la tendenza al ribasso, si rischierebbe di dare il via libera a circolare a persone potenzialmente infette? Possono essere rischiosi per i contagi? “Certo che lo sono, il consiglio è di fare la doppia misurazione perché se la sottostima fosse al di sotto del mezzo grado è rischioso”, sostiene Michele Ettorre, biologo. Della stessa opinione sono anche alcuni farmacisti della Capitale. “L’attendibilità? Zero. Ma lo è anche se lo compri in farmacia”, ci dice uno di loro. “In questo momento sono quelli che però devono essere utilizzati”. Così a Cristiano Pasca non rimane che sperimentarli. Si misura la temperatura con termometro tradizionale, termometro auricolare, termometro frontale a infrarossi da 85 euro e un altro gemello ma del valore di 115 euro. Il primo segna 37.1 gradi quindi Cristiano può uscire perché rientra nel parametro, invece il secondo misura le 37.2 gradi. I parametri cambiano con quelli digitali: 37.5 gradi con il primo e 36.3 con il secondo, cioè una differenza di 1.2 gradi. Rifacciamo l’esperimento in auto in cui ci sono almeno 26 gradi per vedere se può influire sulla temperatura: quello ascellare segna 37.3 gradi, quelli a infrarossi segnano invece 36.9 (0.4 in meno rispetto al precedente) e 36.6 (ben 0.7 in meno rispetto a quello ascellare). Rifacciamo l’esperimento simulando una corsa per prendere il treno in stazione, durante l’attività motoria il nostro copro cambia temperatura. Quello ascellare misura 36.1 gradi, quello auricolare 36.2. Dopo la corsa gli addetti della stazione di Roma Termini con i loro termometri digitali misurano 36.7 gradi. Ma la temperatura può variare anche se misurata al sole o all’ombra. Cristiano Pasca fa un nuovo esperimento, prima all’ombra con i due termometri digitali: 36.7 con il primo e 37.7 con il secondo. Spostandosi al sole i valori aumentano: 39.4 e 39.2. Rischiamo davvero di mandare in giro persone che potrebbero essere infette? Una domanda che noi giriamo al presidente Conte. 

Mascherine sempre sul volto? "Causano crisi respiratorie". Le mascherine sono l'unica arma veramente efficace contro il virus ma, se usate a lungo ed in certi lavori, possono provocare importanti effetti collaterali: ecco quali. Alessandro Ferro, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale. Uno dei pochi modi efficaci per bloccare il virus, oltre al distanziamento sociale, è legato all'uso delle mascherine, strumento sempre più prezioso nella vita di tutti i giorni. Dopo 2 mesi che le indossiamo, però, in molti si sono accorti che un uso prolungato può provocare fastidiosi effetti collaterali legati soprattutto ad arrossamenti della pelle, problemi respiratori e dolore intorno alle orecchie a causa dei lacci che le stringono per far aderire bene le mascherine sul viso.

Gli effetti collaterali delle mascherine. Irritazione della pelle. La problematica più frequente è quella dell’irritazione della pelle del viso, soprattutto quando si utilizzano soluzioni perfettamente aderenti al volto, come le mascherine Ffp2 ed Ffp3 (quelle con la valvola). La pressione esercitata sulla cute può causare arrossamenti, secchezza o piccole screpolature: si tratta di un disturbo assolutamente transitorio, che può essere gestito con l’aiuto di una crema idratante. Le più comuni mascherine chirurgiche, invece, non sembrano portare questa problematica poiché rimangono più "morbide" e non aderiscono perfettamente al viso. Infatti, sono quelle che hanno una capacità minore di protezione rispetto alle altre ma, se indossate, riducono la circolazione del virus nella vita quotidiana. "Effetti transitori". A proposito di pelle e dei segni che lasciano, il Prof. Rocco da Catania è sceso più nel dettaglio spiegando, comunque, che non c'è nulla di cui preoccuparsi. "Le alterazioni che danno le mascherine sulla pelle sono tutte a carattere transitorio. Ogni tanto, con quelle più strette o difettose, possono verificarsi delle ecchimosi, e durano un po' di più. Alcune volte, invece, possono esserci reazioni allergiche alla gomma delle mascherine ma in pazienti allergici già di per sè allergici ai derivati delle gomme", ci spiega. I problemi maggiori, però, riguardano i soggetti con dermatiti già esistenti. "Per chi ha psoriasi o dermatite seborroica c'è un peggioramento nelle zone di occlusione della mascherina come nei solchi naso-genieni, mento e regioni retro-auricolari". I problemi respiratori. Soprattutto nel caso delle mascherine con la valvola (Ffp2 ed Ffp3) la respirazione potrebbe farsi più affannosa specialmente durante quelle attività che richiedono più ossigeno. In ogni caso, costituiscono una barriera perché rallentano lo scambio tra l’anidride carbonica espirata e l’ossigeno esterno: in condizioni di calma o di una leggera attività fisica, questa limitazione non rappresenta un pericolo perché la mascherina riesce ad adattarsi ai tipici ritmi della respirazione. Al contrario, quando si eseguono lavori fisici gravosi o si pratica intensa attività sportiva che necessitano di maggiore ossigeno, potrebbero esserci dei rischi legati all'anidride carbonica che rimane "intrappolata" nella mascherina, e si respirano ridotte quantità di ossigeno. Se questa condizione si potrae a lungo, si può assistere alla comparsa di sintomi come mal di testa, giramenti di testa, confusione e, nei casi più gravi, anche svenimento. Come si legge su Greenstyle, gli esperti sconsigliano l’uso della mascherina (specialmente se sono bloccanti come le Ffp2 e le Ffp3) quando ci si dedica allo sport oppure a lavori molto faticosi. I dolori alle orecchie. Rispetto ai due scenari appena descritti, il dolore alle orecchie rappresenta il "male" minore ma si tratta pur sempre di un effetto collaterale dell'uso prolungato delle mascherine: i lacci tirano, e se indossati per tante ore possono causare grossi fastidi. Per aggirare il problema, molti si stanno ingegnando per far arrivare i lacci dietro la testa ed evitare la pressione costante sulle orecchie.

La testimonianza di un medico. Abbiamo sentito Patrizia, cardiologa in un ospedale di Padova, quotidianamente in prima linea per curare i suoi pazienti, e ci ha raccontato l'enorme difficoltà di stare per 8 ore con le mascherine "a conchiglia", come lei le chiama. "I problemi connessi sono evidenti: la forma a conchiglia, rigida, sul viso, provoca un arrossamento, fa decubito sul naso e le corde premono dietro le orecchie 'segandole' e provocano dolore", ha affermato al termine del suo turno lavorativo prima di tornare a casa dove lo aspetta il suo bimbo. Per questo motivo ho escogitato un metodo (che ci ha confidato aver preso dai social) che faccia meno pressione sulle orecchie: si prende una graffetta e si legano i lacci alle estremità così da liberare le orecchie. Ma anche in questo caso, c'è il rovescio della medaglia. "Dal momento che l'elastico è fatto per aderire alle orecchie, se viene tirato maggiormente facendolo passare dietro la testa, la mascherina ti si appiccica ancora di più al volto. Bisogna decidere cosa è peggio: se avere dolore da frizione dietro le orecchie o se avere dolore da frizione sul naso", ha detto sorridendo.

"Ho avuto crisi respiratorie". Viso e respirazione in sofferenza. Ogni giorno, da più di due mesi ormai, gli operatori sanitari si "vestono" bardandosi completamente il volto, oltre a proteggere completamente anche le altre parti del corpo. Ma il viso è il punto più delicato, e la sofferenza è una logica conseguenza. "Il problema è che a lungo andare si diventa pazzi: è un dolore costante e continuo che non si allevia mai, è veramente pesante. In più, la mascherina non fa respirare bene. Oggettivamente, dopo un averle indossate per un turno intero, si torna a casa con un mal di testa incredibile. Fra la tensione dovuta al lavoro che facciamo e la non sufficiente ossigenazione, è veramente pesante", sottolinea Patrizia. Se nei momenti in cui non si devono eseguire operazioni chirurgiche la situazione può essere gestibile, questo non accade quando Patrizia è in sala operatoria. "Se aggiungiamo il fatto di dover fare procedure invasive, ancora più a rischio, come può essere un'intubazione, bisogna mettere anche lo scudo facciale con delle maschere simili a quelle per andare sott'acqua. In alcuni casi ho avuto una crisi respiratoria", ci dice. Fortunatamente per la dottoressa ed i suoi colleghi, ci sono altre situazioni che richiedono l'uso delle mascherine chirurgiche, sicuramente meno "pressanti" delle altre. "Questi sistemi di sicurezza, nella nostra cardiologia, vengono usati se si fanno procedure a rischio o se si è a contatto con pazienti a rischio, come mi accade nel turno di guardia quando sono il medico referente relativa a quella specialità - afferma Patrizia - ma nel nostro ospedale tutti hanno le mascherine, anche i pazienti, motivo per cui è sufficiente avere quella chirurgica. Nei casi dubbi, vengono usati ulteriori dispositivi di sicurezza che prevedono una mascherina 'avanzata' piuttosto che la chirurgica", conclude.

Mascherine di comunità e chirurgiche, quali differenze? Come si legge sulle linee guida del Ministero della Salute, le "mascherine chirurgiche sono le mascherine ad uso medico, sviluppate per essere utilizzate in ambiente sanitario e certificate in base alla loro capacità di filtraggio. Rispondono alle caratteristiche richieste dalla norma UNI EN ISO 14683-2019 e funzionano impedendo la trasmissione". Invece, le cosiddette mascherine di comunità "hanno lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana e non sono soggette a particolari certificazioni. Non devono essere considerate né dei dispositivi medici, né dispositivi di protezione individuale, ma una misura igienica utile a ridurre la diffusione del virus SARS-COV-2". Sono diventate obbligatorie negli spazi confinati o all’aperto in cui non è possibile o non è garantita la possibilità di mantenere il distanziamento fisico, secondo quanto scritto sul Dpcm del 26 aprile.

Mascherine “obbligatorie”? Anche loro sono contro la Legge. Ecco perché. Andrea Sacco su recnews.it il 10/05/2020. Nel dibattito avviato dallo stesso ministro Speranza, prima sostenitore della loro inutilità, si inseriscono almeno altri tre aspetti. Il primo riguarda le norme; il secondo, la salute di chi le indossa. Il terzo, le fonti di contagio “alternative”.

Mascherine “obbligatorie” per “proteggersi”? Una pia illusione visto che, a sentire il dottor Stefano Montanari, “un virus non è una pallina da tennis”. Questo significa che è talmente minuscolo che – sempre ammesso che rappresenti la minaccia raccontata – riuscirebbe a passare in ogni caso dal fastidioso lembo che copre naso e bocca, che spesso si abbassa per poter parlare agevolmente. Ma nel dibattito inaugurato dallo stesso ministro alla Salute Roberto Speranza, prima convinto sostenitore della loro inutilità, si inseriscono almeno altri tre aspetti.

Il primo riguarda le leggi in vigore; il secondo, la salute di chi le indossa. Il terzo, ma non meno trascurabile, le fonti di contagio “alternative”.

Tra rapine e terrorismo, in Italia “travisarsi” è reato. In Italia “travisarsi”, ovvero mascherarsi – a meno che non si tratti di Carnevale e non ci sia un reale giustificato singolo motivo – ovvero nascondere i propri tratti somatici, è un reato. Così stabilisce la Legge 152/1975, sul cui solco si inserisce una legge del 1981 e una del 2005 (misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale). A questo proposito diversi deputati hanno presentato – lo scorso 5 maggio – un’interrogazione parlamentare. Che significa, nel pratico? Che un malintenzionato con la scusa della mascherina “da coronavirus” potrebbe entrare in un negozio e fare una rapina. Dunque sta al commerciante comprendere se il gioco valga la candela: perché se da un lato il governo ha la presunzione di poter tutelare la salute con una misura la cui efficacia scientifica non è stata mai provata, l’esercente e i beni di cui è proprietario sono tutelati dalla normativa vigente. Tradotto: legalmente, nessuno potrebbe obiettare se un commerciante decidesse di far entrare nel suo negozio una persona senza mascherina. Un aspetto inquietante: il governo Conte nel frattempo con la scusa dell’emergenza ha limitato perno il godimento della proprietà privata in questo modo).

Il rischio è svenire o esporsi a giramenti di testa, soprattutto in estate. Altro aspetto delicato riguarda i danni provocati da questo tipo di dispositivi. Le mascherine riducono l’afflusso di ossigeno, e soprattutto nel periodo caldo possono provocare capogiri e svenimenti, non solo negli sportivi. Quasi tutte le mascherine, inoltre, sono usa e getta, ma spesso c’è chi si trova a disinfettarle alla buona, a lavarle, a stenderle all’aria aperta. Misure che, nonostante i buoni propositi, le fanno rimanere un ricettacolo di batteri. E allora? Allora con buone possibilità si starebbe meglio a naso e bocca scoperti, all’aria aperta, magari davanti a un panorama marino dove sono alte le percentuali di iodio.

Si muore solo di coronavirus? Task-force contro ebola e malaria non sono mai esistite: perché? Costantemente in balia del terrorismo mediatico e del procurato allarme di politici e “informazione” mainstream, si dimentica inoltre un altro aspetto fondamentale. Il mondo è pieno di fonti di contagio e di potenziale malessere diverse dal “coronavirus”, alcune delle quali anche peggiori. Dalla sola Africa importiamo ebola e malaria; solo per ricordare due malattie infettive, la prima delle quali provoca emorragie. Eppure non ci siamo mai fatti problemi a farci portare il carrello del supermercato da qualcuno che nei centri di accoglienza è spesso controllato alla buona, oppure se ne va a gambe levate prima che gli stessi controlli avvengano. C’è chi beve dal rubinetto, incurante delle malattie che il gesto può provocare. C’è chi fuma, e lo Stato – che lucra sui lavorati del tabacco – non si sogna nemmeno di fare task-force sul tumore al polmone, che pure uccide decine di migliaia di persone all’anno.

Ha senso indossare la mascherina? Ha, concludendo, senso, mascherarsi in pubblico rischiando di contravvenire alle normative in vigore ed esporsi a malesseri estivi nella consapevolezza che – con tutta la buona volontà del mondo – nessuno si può chiudere in una campana di vetro e impedirsi di vivere per la minaccia di pericoli che, mascherine o meno, coronavirus o meno, esistono comunque?

Mascherina in auto e distanze: ecco che cosa c'è di vero. Per tutti gli spostamenti da casa, quelli in auto, moto, bicicletta o monopattino, ecco quali sono davvero le regole da seguire per rispettare le norme e non prendere la multa. Fabio Franchini, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Come noto, da lunedì 4 maggio è scattata la Fase 2 della "convivenza" con il coronavirus, che di fatto ha allentato le misure di contenimento anti pandemia di Covid-19. A partire da questa settimana possiamo uscire di casa per i soliti motivi di salute, lavoro e necessità, ai quali si aggiungono le possibilità di andare a trovare i congiunti e di fare attività fisica anche lontano dalla propria residenza, in parchi e giardini. Ecco, ma quali sono le regole per gli spostamenti nella Fase 2? Quando usciamo prendendo l’auto, la moto, la bicicletta o i monopattini per gli spostamenti appunto consentivi, dobbiamo indossare sempre e comunque la mascherina? Posso portare in moto la persone che convive con me? E ancora, all’interno dell’abitacolo bisogna tenere la mascherina e il passeggero (convivente)può stare sul sedile davanti o per forza in quelli dietro? Insomma, tante domande alle quali ora diamo tutte le risposte e le vere regole di comportamento, così da rispettare le norme e non prendere la multa.

Mascherine, le regole per gli spostamenti. Partendo dal mondo delle quattro ruote, non è necessario indossare la mascherina all’interno della propria auto qualora fossimo da soli, mentre se nel veicolo viaggia il convivente (che può essere solo uno) bisogna indossarla e mantenere la distanza di sicurezza di almeno un metro, per cui è caldamente consigliato al passeggero sedersi dietro. L’obbligo della mascherina in generale non vale per i bambini sotto i sei anni di età e per le persone con disabilità incompatibile con un uso continuativo della mascherina. Dalle quattro ruote delle automobili alle due delle motociclette: in questo caso la mascherina è obbligatoria solamente se si viaggia con un passeggero. Ma in caso di casco integrale? Come ben sottolineato dal Sole 24 Ore, dal momento che si appanna la visiera, è ragionevole non indossarla se si tiene chiusa la visiera stessa. Passando alle due ruote della bicicletta, non c’è l’obbligo di avere la mascherina mentre si pedala. Un genitore può accompagnare un minore o un soggetto può accompagnare una persona con autosufficiente, rispettando comunque la distanza di un metro, che sale a due in caso di attività sportiva per gli amanti del ciclismo. Quindi, il capitolo delle due ruote ancor più piccole dei monopattini (ma lo stesso vale per tutto il mondo della mobilità elettrica come segway e overboard). Non ci sono regole ad hoc, ma la cosiddetta micromobilità elettrica viene parificata alle biciclette, per cui – rispettando le regole della strada previste dal Codice e da ogni città – volendo si può guidare questi mezzi senza mascherina, ma è vietato trasportare sempre e comunque altre persone, oggetti o animali e farsi trainare da un altro veicolo. Insomma, per chiudere, non sempre la mascherina è obbligatoria e in tutti i quei casi in cui non lo è ciò non significa che, per sicurezza, è sempre bene indossarla.

Coronavirus, una risposta ai dubbi principali sulla prevenzione. Le Iene News il 6 maggio 2020. Giulio Golia intervista gli esperti Fabrizio Pregliasco e Franco Faella e fa loro tutte le domande che avreste voluto fare su come si diffonde il virus e come proteggersi "senza farsi prendere dall'ipocondria". Dalle mascherine alle distanze giuste, dai mezzi pubblici all’aria condizionata e a molti altre elementi della nostra vita quotidiana. Il 4 maggio è iniziata la Fase 2 che ci porterà inevitabilmente a dover convivere con il Covid-19 fino a che, si spera, non verrà creato un vaccino. Ma stiamo davvero adottando tutte le misure corrette per evitare, nella vita quotidiana, di rimanere infettati? Giulio Golia ha posto una serie di domande pratiche a due esperti, l’infettivologo Franco Faella e Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano. Cominciamo col domandarci se stare a un metro di distanza dall’altro sia sufficiente: "È preferibile una distanza maggiore, di almeno due metri", spiega Faella, "il problema è che nello starnutire e nel colpo di tosse emettiamo goccioline che si chiamano droplets...”. Goccioline, spiega Fabrizio Pregliasco, che si depositano all’incirca a 1 metro e 80 di distanza. “Sono quelle che giustificano la trasmissione cosiddetta aerea della malattia”, spiega Faella. Trasmissione area a rischio dunque: se si entra in un ambiente in cui c’è stato un malato di Covid-19 si potrebbe rischiare di rimanere contagiato. “Meglio areare il locale, pulire bene le superfici, i pavimenti, tutto quello che è presente nella camera”, aggiunge Faella. “Sulle plastiche e sull’acciaio resiste 48 ore e anche di più", sostiene ancora il professore. "Alcol e ipoclorito di sodio sono fondamentali per eliminare il rischio mentre ci sono anche altri disinfettanti di costo maggiore altrettanto efficaci, come ad esempio la clorecsidina. Se però, per farlo durare, lo si diluisce con acqua e la percentuale di alcool scende sotto il 65%, non garantisce più l’efficacia disinfettante.” Altro punto chiave, di cui si è a lungo dibattuto, è la validità della mascherina. “Ha la funzione di ridurre la diffusione delle goccioline di un soggetto infetto", spiega Fabrizio Pregliasco. "Ma la mascherina protegge gli altri da noi ma protegge meno noi dagli altri. Per avere una maggiore garanzia di tutela servirebbero le famose ffp2 e ffp3, meglio quelle senza valvola. È ragionevole pensare che un eventuale passaggio con uno spray disinfettante, lasciandole aereare per alcune ore, le possa rendere riutilizzabili. Ma la mascherina va indossata in modo corretto, posizionandola bene, attenzione anche alla barba, che speso può in qualche modo può ridurre la capacità di protezione”. E poi con lui parliamo anche di guanti: ”Se tocchiamo viso con i guanti otteniamo lo stesso risultato che con le mani nude. Non bisogna toccarsi continuamente il viso o aggiustarsi i capelli... È importante anche poi saperli sfilare. Si può pizzicare il palmo della mano ed estrarlo, rovesciandolo e poi usare il dito indice della mano senza guanto per andare nel bordo dell’altro e fare la medesima operazione”. Il sudore? “Assolutamente non contagia", dice il prof. Faella, "e neanche le lacrime”. Ci chiediamo poi se e come sarà sicuro viaggiare d’ora in poi sui mezzi pubblici. Gli esperti in generale tranquillizzano. ”In assenza di dispositivi di protezione", sottolinea Fabrizio Pregliasco, "essere vicini meno di un metro per più di 15 minuti può essere però un contatto a rischio”. Giulio Golia si chiede se l’aria condizionata possa veicolare il virus, nel caso di un ambiente in cui è transitato un malato di Covid: "Se c’è stato un paziente affetto da Covid sicuramente posso rischiare qualcosa”, sostiene il prof. Faella. “Il dato certo è che un buon condizionatore, senza posizionarlo con un flusso d’aria diretto, garantisce invece una maggiore areazione e una velocizzazione dell’abbattimento al suolo delle goccioline”, spiega Pregliasco. Se il professor Faella, sorridendo, ci consiglia di dare una disinfettata alla macchina quando saliamo a bordo, ci chiediamo dei servizi di car sharing. Fabrizio Pregliasco aggiunge: "Se c’è una igienizzazione tra un utente e l’altro o se non c’è stata ma sono passate più di 4 ore, il rischio non c’è. L’indicazione potrebbe essere quella di avere i fazzolettini disinfettanti”. Con l’arrivo del caldo, sarà sicuro uscire con i pantaloncini corti e le scarpe aperte? "L’abbigliamento ha scarsissima importanza", dice Faella, "una bella doccia può risolvere moltissimo le cose”. “Meglio non indossare l’orologio che magari non lo laviamo, non lo disinfettiamo", dichiara Pregliasco, "o anche anelli, ma nel caso in cui non ci sia un lavaggio efficace...”. “Anche i capelli lunghi rappresentano un potenziale rischio quindi credo che la moda dovrà tenere conto del periodo Covid e dunque tagli corti o comunque, se lunghi, aiuta legarseli”, conclude. Giulio Golia affronta poi una delle situazioni più comuni e anche stressanti: la spesa. Come occorre comportarsi all’interno del supermercato? Per Fabrizio Pregliasco, “il manico del carrello della spesa è un oggetto che usano in molti e quindi è un elemento di relativo rischio”. E l’abitudine di prendere il pacco di pasta nascosto in fondo e non quello della prima fila? Per Fabrizio Pregliasco “ci vuole che qualcuno abbia toccato e che qualcuno, malato, abbia una mano contaminata… facciamo attenzione sì, ma senza esagerare...”. Meglio la verdura in busta di quella sfusa, dando poi un’ulteriore disinfettata per togliere ogni dubbio. Carne e pesce? “Non possono essere assolutamente contaminati”, rassicura  Faella. Una volta tornati a casa dal supermercato, meglio l’ascensore o le scale? “Il maggior rischio è rappresentato dalla maniglia dell’apertura e dai tasti della chiamata", spiega Fabrizio Pregliasco. "Certo le goccioline dell’aerosol possono rimanere nell’aria, ma davvero con una concentrazione limitatissima”. “Però entrare in due o più tra cui uno che può essere infetto certamente è un rischio", aggiunge Faella. Il buon senso suggerisce poi che la suola delle scarpe potrebbe essere contaminata, quindi sempre meglio lasciarla fuori casa”. Parliamo anche dal rischio rappresentato dai soldi: "A mio avviso non è il caso di essere particolarmente insistenti nella disinfezione delle monete", sostiene Pregliasco. "Si tratta di un’attenzione nel tempo di lavaggio delle mani. Non dobbiamo diventare tutti ipocondriaci”. E il cibo a domicilio? “È vero che chi ce l’ha portato ce lo porta così ma è importante dire che il contagio maggiore c’è con il contatto e l’emanazione di goccioline di un soggetto sintomatico. Abbiamo scoperto che gli asintomatici sono contagiosi sì, ma con un'efficacia inferiore”, dice ancora Pregliasco. Ma alla fine torneremo a riabbracciarci? Il prof Faella non ha dubbi: "Sicuramente sì, non ne posiamo fare a meno”. Parliamo anche di animali domestici: "È dimostrato che noi possiamo infettare alcuni di loro”, ma non il contrario, lascia intendere Fabrizio Pregliasco. Per quanto tempo dovremo andare avanti con tutti questi accorgimenti? "Io ritengo che la disponibilità effettiva di un vaccino per gli italiani non arriverà prima di un anno, un anno e mezzo”, spiega Pregliasco. “Il vaccino è la vera soluzione al problema, il punto sarà aver grande prudenza e grande obbedienza alle indicazioni di medici e amministratori al governo”, conclude Faella.

"Guanti e mascherina non bastano. Proteggiamoci anche con gli occhiali". L'oculista: "Attenti alle congiuntiviti, le lacrime trasportano il virus". Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Nell'era della mascherina obbligatoria molta della nostra espressività è stata delegata allo sguardo. Agli occhi. Eppure proprio gli occhi, le lacrime, possono trasportare il virus. Gaetano Cupo, medico chirurgo oculista dell'Università Campus Biomedico di Roma, ci aiuta a fare un po' di chiarezza su questo tema.

Il primo medico che ha scoperto il virus in Cina, era proprio un oculista. Lei che esperienze ha avuto con i suoi pazienti?

«Da fine febbraio si vedevano le congiuntiviti insorgere dopo due settimane dall'infezione. In alcuni di questi soggetti, dopo un paio di settimane, iniziavano queste manifestazioni oculari, nelle quali veniva isolato l'rna virale e quindi si poteva dire con certezza che l'infezione era passata dalla mucosa respiratoria, poi al sangue e infine si era localizzata a livello congiuntivale. Adesso qualcosa è cambiato, le faccio l'esempio di un paziente dello Spallanzani che è arrivato senza sintomi respiratori: aveva solamente una congiuntivite monolaterale, strana. Viene effettuato il prelievo delle lacrime dal sacco congiuntivale e a quel punto si vede che c'era la presenza dell'rna virale. La cosa che si deve ancora capire è quanto il dosaggio di questo rna nelle lacrime del sacco congiuntivale sia patogeno. Non tutta la carica patogena di un microroganismo presente in una nostra secrezione può essere capace di generare l'infezione. La possibilità di trasmetterlo però c'è ed esiste».

Oltre la mascherina dovremo indossare anche gli occhiali?

«Oltre la mascherina e i guanti sarebbe opportuno utilizzare anche degli occhiali protettivi. L'occhiale da una barriera fisica e una limitazione a portare, inavvertitamente, le mani agli occhi».

Dal punto di vista oculistico quali precauzioni suggerisce di adottare?

«In campo oculistico io consiglierei molta attenzione ai portatori di lenti a contatto. Sono la classe di popolazione oculistica che più spesso vanno incontro a congiuntiviti, perché hanno necessità di manipolare le lenti e quindi hanno un contatto con la superficie oculare, perché la lente a contatto si sporca, si sposta, secca l'occhio. In una condizione di allerta questa categoria è più esposta al pericolo di infezione».

Quindi meglio tornare agli occhiali?

«In questo periodo, finché non ci sono dati scientifici certi, è preferibile l'utilizzo degli occhiali rispetto alle lenti a contatto. Non per la lente in se, ma proprio per evitare i comportamenti di cui le parlavo prima. Ma è importante anche la pulizia dell'occhiale, come quella di tutti gli oggetti che portiamo verso il viso, penso al cellulare, è importante e deve essere fatta costantemente. Inoltre la pulizia va effettuata con tutti i mezzi messi a disposizione dalla comunità scientifica come l'alcol o tutti i preparati che riducono la carica virale sugli oggetti in plastica».

Coronavirus, Ilaria Capua ammette: “Io non porto la mascherina”. Riccardo Castrichini l08/04/2020 su Notizie.it. Ilaria Capua dice no alla mascherina: secondo la virologa, non sempre serve per proteggersi dal coronavirus. La virologa Ilaria Capua è stata ospite della puntata di ieri sera, 7 aprile, di DiMartedì dove ha parlato dell’uso di protezioni durante l’emergenza coronavirus, sottolineando come l’utilizzo sconsiderato che si facendo di mascherina e guanti non impedisca al Covid-19 di diffondersi. Le sue parole sono state molto chiare: “Io non porto la mascherina”. Un messaggio forte a chi, come il governatore della Lombardia Attilio Fontana, ha imposto ai cittadini del territorio da lui amministrato di uscire di casa solo con la protezione su naso e bocca. La scelta, per Capua, non rappresenterebbe un modo giusto di contrasto, anzi rischierebbe di aumentare le possibilità di contagio qualora i cittadini, sentendosi sicuri della mascherina, tendessero a non rispettare le ormai note regole di distanziamento sociale. Già il Capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, aveva sottolineato come l’utilizzo della mascherina senza il rispetto del metro di distanza tra le persone fosse fine a se stesso. La dottoressa Capua ha inoltre aggiunto: “Le mascherine sono tante e hanno funzioni diverse, sono una barriera fisica. Ma i virus possono passare, anche se possono essere frenati da questa barriera fisica costituita dalle mascherine chirurgiche. Le mascherine con i filtri lasciamole al personale sanitario”. E poi sui guanti, altro strumento di protezione largamente utilizzato in questo periodo: “I guanti? Toccano tutto, ma poi non si pensa che tocchino tutto. Vanno subito buttati quelli di lattice o lavati quelli di cotone, perché sono sporchi”. Insomma si all’uso dei dispositivi di sicurezza, ma no all’uso sconsiderato degli stessi.

Coronavirus e la sua diffusione: lo sconcertante studio giapponese. Da automotorinews.it il 5 aprile 2020. Uno studio giapponese ha fatto una ricerca sulla diffusione del Coronavirus, analizzando le micro-goccioline emesse parlando o starnutendo. Il Coronavirus avanza giorno dopo giorno, e non sembra volersi fermare. Dopo essere esploso a Wuhan, in Cina, la terribile pandemia si è allargata anche al resto del Mondo. Al momento, i territori più a rischio sono sicuramente l’Europa e gli Stati Uniti. Se la situazione dovesse peggiorare, il Covid-19 potrebbe colpire pesantemente anche l’Africa, causando danni incredibili. La preoccupazione principale di questa malattia, oltre ai suoi sintomi, riguarda la facilità di diffusione. Il contagio da Coronavirus è velocissimo, a larga scala e colpisce anche con un minimo contatto. In questo senso, uno studio giapponese ha analizzato le micro-goccioline che gli esseri umani emettono tossendo o semplicemente parlando tramite delle speciali videocamere a infrarossi. Per effettuare questa ricerca, alcuni esperti giapponesi hanno deciso di utilizzare delle videocamere speciali a infrarossi, in grado di analizzare tutte le particelle che l’essere umano emette tossendo o anche solo dialogando. Nello specifico, viene dichiarato da subito che si tratta di micro-goccioline con uno spessore di 0.1 mm, ovviamente invisibili ad occhio nudo. Per studiare il fenomeno, viene prima fatta tossire una persona davanti alla camera. Tramite diverse angolature, si può vedere l’incredibile quantità di particelle emesse, e come queste rimangano nell’atmosfera per un lasso di tempo. Successivamente, sono state messe di fronte l’una all’altra due persone che, nel bel mezzo di un comune dialogo, hanno emesso una grandissima quantità di micro-goccioline. Per far capire meglio la pericolosità di alcune di queste particelle, gli studiosi giapponesi hanno colorato di rosso quelle più nocive. Queste, vengono emesse principalmente tossendo. L’uso della mascherina, viene specificato, aiuta sicuramente ad evitare l’emissione di massa di queste particelle.

Roberto Burioni e Nicasio Mancini per medicalfacts.it il 6 aprile 2020. Mascherine sì, mascherine no, mascherine quando. Questi sono solo alcuni degli interrogativi che ruotano intorno a quello che, nel corso di questa epidemia, è diventato quasi un bene di prima necessità: le mascherine per l’appunto. Qual è il loro reale ruolo nel contenimento di questa pandemia. Hanno davvero la capacità di abbattere in modo drastico la trasmissione del virus? Se lo sono chiesti dei ricercatori di Hong Kong  e statunitensi che hanno valutato “sul campo” la reale efficacia di questi strumenti di prevenzione, focalizzandosi in particolar modo sulle cosiddette “mascherine chirurgiche”. Quelle più semplici, per intenderci.

Lo studio. Più precisamente, gli autori dello studio pubblicato su Nature Medicine hanno valutato la presenza di virus nelle goccioline di saliva di varia grandezza rilasciate nell’aria da pazienti affetti da diverse malattie respiratorie di origine virale. Fra i virus considerati, c’erano anche i coronavirus precedenti al SARS-CoV-2, responsabili di forme respiratorie decisamente meno gravi. Gli autori del lavoro hanno, soprattutto, valutato come la quantità di particelle virali emesse cambiava se il paziente indossava o meno la mascherina. È stato studiato un totale di 246 pazienti, di cui 124 pazienti con la mascherina e 122 che non la indossavano. In particolare, per avvicinarsi il più possibile a una situazione reale, a chi portava la mascherina era stato chiesto di indossarla autonomamente proprio per contemplare anche la possibilità di un suo errato posizionamento, e quindi di un suo errato utilizzo. Una variabile assolutamente cruciale nella vita reale.

I risultati. I risultati ottenuti hanno dimostrato differenze di efficacia a seconda del virus considerato. In particolare, per quel che riguarda i coronavirus (ripetiamo, non quello della pandemia, ma i coronavirus stagionali che circolavano in precedenze), lo studio ha dimostrato una particolare efficacia nel limitare la loro emissione nei pazienti che indossavano la mascherina. Chi la indossava, non emetteva il virus né nelle goccioline più grandi che in quelle più piccole, il cosiddetto aerosol. Al contrario, invece, un effetto molto inferiore è stato riscontrato per i virus influenzali e per altri virus responsabili del banale (in questo caso si può proprio dire) raffreddore (i cosiddetti rhinovirus). In particolar modo, questi virus erano riscontrabili nelle secrezioni più piccole anche in chi portava la mascherina. Probabilmente una buona notizia per quanto stiamo attualmente vivendo, ma attenzione alle generalizzazioni dirette.  Il limite principale di questo studio è, infatti, proprio legato al fatto che, pur includendo coronavirus, non studia pazienti affetti da COVID-19. Una generalizzazione assoluta per il SARS-CoV-2 non è quindi possibile. Nel complesso, quindi, lo studio descritto ribadisce l’importanza potenziale di indossare la mascherina, anche di quelle chirurgiche, per limitare le trasmissioni  A nostro parere, però, il vero messaggio dello studio è un altro. I limiti osservati dalle mascherine chirurgiche nel trattenete le goccioline più fini ribadisce, infatti, il concetto di come le misure più efficaci siano soprattutto quelle legate al mantenimento della distanza interpersonale. Solo così, mantenendo la giusta distanza, si può davvero essere sicuri dell’efficacia della mascherina che si sta indossando.

Michele Bocci per “la Repubblica” il 6 aprile 2020. Alcune Regioni, come la Lombardia e la Toscana hanno deciso di renderle obbligatorie, altre le hanno imposte nei negozi e negli uffici. E neanche gli scienziati sono tutti d' accordo sulla loro utilità. Ma le mascherine chirurgiche servono davvero contro il coronavirus?

«Il loro utilizzo - dice Walter Ricciardi, consulente del ministero alla Salute - è finalizzato soprattutto ad evitare l' emissione di goccioline di saliva da parte delle persone. Indossare una mascherina al di fuori delle strutture sanitarie offre poca protezione dalle infezioni ma comunque può portare un beneficio. Tra l' altro è ormai chiaro che questi oggetti hanno un ruolo simbolico, sono non solo dispositivi medici ma talismani che possono contribuire ad aumentare il senso percepito di protezione nella popolazione». Per Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità «nei luoghi chiusi, dove può essere difficile mantenere le distanze sicuramente la mascherina aiuta. Resta comunque la fortissima raccomandazione al distanziamento fisico e al lavaggio delle mani. Per quanto riguarda la protezione delle vie aeree c' è una duplice valenza delle mascherine, sia quando siamo portatori di una patologia e potremmo diffondere intorno a noi le famose goccioline, (come potrebbe accadere alle persone positive che non sanno di esserlo), sia quando bisogna proteggersi da altre persone che possono veicolare la malattia. In questo senso nei luoghi confinati la mascherina aiuta a tutelarsi dal contagio».

Quando non c' è bisogno di usare la mascherina?

«Se si sta all' aria aperta e si mantiene una distanza sufficiente dalle altre persone non c' è bisogno di indossarla continuamente», spiega Massimo Andreoni, ordinario di Malattie infettive a Tor Vergata.

Sciarpe, foulard e altri indumenti proteggono dal virus?

Secondo Paolo D' Ancona dell' Istituto superiore di sanità «sono come le mascherine non chirurgiche, quelle non certificate usate ad esempio per l' inquinamento, che non hanno certificazione come dispositivo medico. Qualunque tessuto, qualunque forma di schermo che frappongo tra bocca ed esterno è chiaramente meglio di niente. E poi non sappiamo quanto è fitto quel tessuto, cosa filtra realmente o quanti giri si fanno fare alla sciarpa intorno al collo. In quel caso, in comunità può esserci una protezione ma non si può dire di che tipo». Andreoni aggiunge: «La mascherina ha una funzione meccanica e tutto ciò che riesce a svolgere una attività di filtro, magari un tessuto a trama molto, fine può fare comunque da barriera. Ovviamente la mascherina per come è fatta garantisce buona respirazione e grande filtraggio, cose che insieme i tessuti non assicurano sempre».

Quanti sono i tipi di mascherine?

Tre, due con uso professionale e una per uso in comunità. Le classiche mascherine chirurgiche sono dei dispositivi medici che proteggono dal droplet, cioè dalle goccioline che hanno una dimensione da 50 micron in su.

«Sono nate, come dice il nome, per non far infettare dal medico il paziente che viene operato - dice Paolo D' Ancona - Adesso però abbiamo a che fare con un virus che viene trasmesso attraverso delle goccioline, e così in un decreto le mascherine chirurgiche sono state indicate come dispositivi di protezione». A differenza di molti altri suoi colleghi poi D' Ancona è convinto che le chirurgiche «fungono da barriera e filtrano sia in entrata che in uscita. Non proteggono invece quando abbiamo a che fare con goccioline molto piccole cioè aerosol».

Quali sono i modelli utili per le particelle più piccole?

Quando si ha a che fare con gocce di 5 o 10 micron, che si sprigionano ad esempio durante alcune procedure mediche come le broncoscopie o alcuni tipi di ventilazione meccanica, entrano in gioco i filtri facciali. Indica questo la sigla ff, mentre p sta per protezione. Quindi parliamo di ffp2 o ffp3. In caso di aerosol, le prime proteggono almeno dal 92% delle particelle e le seconde, che aderiscono meglio proteggono almeno al 98%. Possono essere con o senza filtro. Se hanno il filtro l' operatore respira meglio grazie a una valvola che la espirazione. In quel caso, però, il filtro funziona solo in ingresso ma non in uscita quindi se chi le indossa è malato c' è un rischio che possa contagiare qualcuno. Del resto sono presidi nati per proteggere chi li indossa.

Ci sono rischi legati all' utilizzo delle mascherine chirurgiche?

«La discussione internazionale adesso riguarda anche il rischio che indossando la mascherina ci si senta troppo sicuri - dice D' Ancona- E poi in tanti la mettono molto male, non coprono il naso o il mento, non la fanno aderire al viso perché non la stringono abbastanza, oppure toccano la parte esterna, dove può annidarsi il virus. Bisogna ricordare poi che questi strumenti perdono il potere filtrante a causa dell' umidità prodotta dal respiro o dello sporco e quindi vanno usati solo per poche ore. Se si utilizzano per poco tempo, magari per fare la spesa, possono essere riposte ma è importante ripiegarle sempre in due mettendo all' interno la parte esterna, quella di solito colorata, per non rischiare contaminazioni».

Quanto costano le mascherine chirurgiche?

In farmacia e nei negozi si trovano a prezzi compresi tra 1,5 e 3 euro l' una, anche se la cifra varia in base alla quantità che se ne acquista. Le Regioni un tempo le compravano per gli ospedali a 3 centesimi l' una ma con l' epidemia il costo anche per il servizio pubblico è aumentato, arrivando a cifre comprese tra 1 e 2 euro.

L’OMS rivede le norme sulle mascherine dopo uno studio del Mit di Boston. Ansa /CorriereTv il 6 aprile 2020. Un nuovo studio del MIT di Boston ha evidenziato come il coronavirus possa diffondersi nell’aria. La ricerca ha indagato la velocità, la permanenza in aria e la distanza percorsa dalle goccioline di saliva di un paziente Covid. Uno starnuto creerebbe una nuvola che può arrivare fino a 8 metri di distanza. Le goccioline, emesse ad esempio con la tosse, possono viaggiare fino a due metri e poi cadono per la forza di gravità. Sembra, inoltre, che il virus possa resistere in microscopiche goccioline sospese in aria fino a tre ore, anche se dopo un’ora la quantità diminuisce. Il Covid potrebbe, quindi, accumularsi in ambienti chiusi e affollati, dove è difficile il ricambio di aria, come gli ascensori. Se non arieggiate in maniera adeguata, le stanze degli ospedali potrebbero saturarsi di aria infetta. Secondo l'Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, il coronavirus viaggia nell'aria anche con il semplice respiro. Per questo motivo l’Oms sta pensando di rivedere le linee guida sulle mascherine.

Michele Bocci ed Elena Dusi per repubblica.it il 3 aprile 2020. L'Organizzazione mondiale della Salute e l'Italia le consigliano a chi ha sintomi o assiste i malati di coronavirus. A Hong Kong sono obbligatorie sui mezzi pubblici. Negli Stati Uniti il chirurgo generale (responsabile del servizio sanitario pubblico) ha raccomandato alla gente su Twitter di smettere di comprarle. In Austria dalla prossima settimana diventeranno obbligatorie nei supermercati. In Slovacchia e Repubblica ceca è vietato uscire di casa senza indossare una mascherina chirurgica. I dubbi della comunità scientifica sulla nuova malattia sono tanti. Ma in pochi campi si è registrata così tanta confusione come sulle mascherine. Gli studi delle ultime settimane confermano che la diffusione del coronavirus nell'aria è più sostenuta di quanto si ritenesse all'inizio. E anche l'Oms potrebbe decidersi a cambiare le sue linee guida. David Heymann, il responsabile del panel che si occupa dell'argomento presso l'Organizzazione di Ginevra, ha annunciato alla Bbc: "Stiamo studiando le nuove evidenze scientifiche e siamo pronti a cambiare le linee guida, se necessario". "Allo stato attuale delle conoscenze - spiega Paolo D'Ancona, epidemiologo del nostro Istituto Superiore di Sanità (Iss) - sappiamo che il coronavirus si trasmette prevalentemente attraverso le goccioline nell'aria. Negli ospedali con molti pazienti sottoposti a ventilazione meccanica potrebbe disperdersi anche con aerosol". La differenza fra goccioline e aerosol può sembrare accademica: sta nelle dimensioni delle sfere di saliva che trasportano il virus. Ma ha grandi implicazioni per la diffusione: le goccioline viaggiano 1-2 metri dalla persona che le emette e cadono subito a terra. L'aerosol resta sospeso in aria e può raggiungere distanze maggiori. Vorrebbe dire che anche in stanze chiuse affollate e ascensori potrebbe accumularsi il virus, qualora molte persone infette vi rimanessero a lungo. Una ricerca del New England Journal of Medicine del 17 marzo ha dimostrato che il virus può resistere in aerosol fino a tre ore, anche se la sua quantità si dimezza in un'ora. Un esperimento del Massachusetts Institute of Technology pubblicato su Jama il 26 marzo ha osservato che il virus viaggia sia su goccioline che in aerosol, e che quest'ultimo può arrivare a 7-8 metri con uno starnuto potente. In Cina, nelle stanze di ospedale che hanno ospitato i pazienti, tracce di coronavirus sono state trovate su davanzali e grate degli impianti di aerazione. Segno che forse dal coronavirus dovremmo imparare a proteggerci meglio, quando torneremo a uscire di casa. "Ricordiamoci però che la mascherina non è una formula magica che ci salva dal contagio" dice Marina Davoli, direttrice del Dipartimento di epidemiologia della regione Lazio. "La cosa più importante resta l'attenzione e l'igiene. E poi se la si utilizza bisogna essere molto attenti, ricordando che è un dispositivo monouso che ha regole per essere messo e tolto. Ad esempio in troppi toccano la parte esterna con le mani rischiando poi di contagiarsi una volta che se la tolgono. Non vorrei che indossarla faccia più male che bene, perché dà una sensazione di invulnerabilità". Le mascherine chirurgiche non sono la soluzione perfetta (non sigillano per esempio naso e bocca come quelle filtranti), e sono ancora poche, come dimostrano le difficoltà a rifornire il personale sanitario, ma diventeranno probabilmente nostre compagne di vita, nella fase di riapertura. "Sono utili nei luoghi di lavoro dove non è garantita la distanza di un metro" spiega D'Ancona. Via via che un numero sempre maggiore di persone inizierà ad uscire, restando per ore in una situazione di potenziale rischio, arriverà molto probabilmente l'indicazione di utilizzare la mascherina, insieme alla raccomandazione sulla distanza di sicurezza. Se i suggerimenti del governo dovessero cambiare, però, serviranno tante mascherine, perché vanno cambiate spesso. L'Iss, in una situazione di grave carenza, sta testando i prodotti di nuove aziende italiane che hanno iniziato a produrle. Finora ha dato il suo ok a 40 di esse. L'Istituto nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e l'università di Catania hanno creato in fretta e furia un laboratorio per testare i materiali adatti. "Abbiamo realizzato uno strumento che simula uno starnuto potente di un minuto. Le mascherine, per essere efficaci, devono trattenere almeno il 95% dei microbi emessi" spiega Giacomo Cuttone, il ricercatore che ha coordinato il gruppo dell'Infn. "Si stanno rivolgendo a noi aziende tessili, di pannolini o bioplastiche traspiranti. I loro materiali sono un buon punto di partenza".

DAGO-INTERVISTA il 3 aprile 2020. Abbiamo fatto qualche domanda al dottor Francesco Garbagnati dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che già lo scorso 8 marzo al Tg4 (e poi a ''Stasera Italia'') lanciava un messaggio semplice ma che molti hanno ignorato: mascherine per tutti, subito. Se nelle farmacie non ci sono, se lo Stato non le fornisce, meglio farsele da soli in casa piuttosto che uscire senza protezioni.

Come mai aveva fatto quell'appello?

«Faccio il medico da molti anni, si tratta di nozioni che tutti i miei colleghi conoscono: i virus come il Covid-19 si diffondono attraverso le droplet, le goccioline più grandi che si emettono durante starnuti e colpi di tosse e che viaggiano anche per molti metri. Ma in percentuale minore i virus viaggiano anche nelle goccioline più piccole, l'aerosol. Per cui la prima misura da adottare è rallentare la diffusione indossando tutti le mascherine».

Questo però non è quello che dice l'OMS, che solo oggi sembra orientata a cambiare le sue linee guida. Secondo l'agenzia delle Nazioni Unite, solo medici e personale sanitario in contatto con malati conclamati devono indossare le protezioni. Per tutti gli altri, basta stare a un metro.

«Questo è stato un errore gravissimo che ha causato ancora più contagi e morti, anche tra i medici, di cui qualcuno dovrà rispondere, sul piano politico e legale. L'OMS deve fare marcia indietro il prima possibile ed evitare altri danni. Già dai primissimi studi cinesi si capiva che questo virus aveva la capacità di sopravvivere molte ore fuori dal corpo umano, e di viaggiare per via aerea ben oltre il metro».

C'è poi il problema del periodo di contagio

«Esatto. Alcuni studi dimostrano che si è contagiosi per due giorni prima di mostrare sintomi e fino a 39 giorni dopo. Altro che i 14 giorni consigliati dall'OMS. Per questo le mascherine sono fondamentali. Molti malati non sanno di esserlo e contribuiscono a diffondere il virus. Oppure sanno di esserlo ma non gli fanno nessun tampone né ricevono cure ospedaliere, escono di casa dopo due settimane e continuano a infettare gli altri».

Il problema è che le mascherine, a un mese dal suo appello, ancora non si trovano.

«Quando dovremo usarle tutti, oltre ovviamente al personale sanitario, ne serviranno decine di milioni ogni mese. Al momento però esce di casa – e speriamo non tutti i giorni – una sola persona a famiglia, per fare la spesa. Quella persona deve avere la mascherina, anche fatta in casa con carta forno o con un foulard coperto dalla comune pellicola da cucina che lo renda idrorepellente o, ancora meglio, cucendo una tasca di stoffa che si può bollire dopo ogni utilizzo, da riempire con un quadratino di plastica usa e getta. E i supermercati dovrebbero imporre l'obbligo di indossarle a tutti, anche distribuendole all'ingresso insieme al gel disinfettante».

Ora anche negli Stati Uniti consigliano di uscire di casa coprendosi naso e bocca, anche con mezzi non ''ortodossi''.

«Non dimentichiamo gli occhiali: come negli ospedali indossano visori speciali per proteggere gli occhi, anche i cittadini dovrebbero sempre indossare gli occhiali (da sole o da vista) per ridurre la possibilità di contagio. Il virus passa anche dal condotto lacrimale».

La mascherina è una panacea?

«Certo che no, ma è una questione di attenzione, scrupolo ed educazione verso il prossimo. Non azzera la propagazione del virus, ma la riduce del 70-80%. Perché anche la carica virale è molto importante: più si attenua, più è possibile che chi ci sta vicino prenda il virus in forma più lieve, perché il sistema immunitario riesce a combattere in modo più efficace una ''quantità'' minore di agente patogeno».

Da repubblica.it il 7 marzo 2020. Sara Cody, direttrice della sanità del Dipartimento di Salute Pubblica della Contea di Santa Clara, in California, stava spiegando ai cittadini come prevenire il contagio dal coronavirus. Ma durante il suo discorso - circa un minuto dopo aver invitato le persone a non toccare bocca, naso e occhi - ha portato il dito alla bocca, leccandosi il polpastrello per girare una delle pagine che stava leggendo. Questa versione del video, vista milioni di volte su Twitter, è quella più condivisa sui social network ed è il frutto di un montaggio in cui è stata tagliato un minuto di parlato dalla diretta Facebook originale, di modo che il gesto fosse ancora più plateale. Lo stesso Dipartimento della salute Pubblica della Contea di Santa Clara ha trovato il modo di fare ammenda, pubblicando l'articolo del Washington post che evidenziava la gaffe e scrivendo che "anche gli esperti hanno problemi a non toccarsi il viso! E' per questo che dobbiamo preoccuparci tutti di non farlo".

Il coronavirus sopravvive sullo smartphone. Il virus cinese può sopravvivere diversi giorni sulle superfici. Lavarsi bene le mani e poi toccare il cellulare è inutile. Ecco come fare per disinfettarlo. Giorgia Baroncini, Mercoledì 04/03/2020 su Il Giornale. Lavarsi bene le mani: è questa una delle indicazioni date dagli esperti per contrastare la trasmissione dell'infezione da coronavirus. Ma non basta. Bisogna curare anche l'igiene degli ambienti e degli oggetti che tocchiamo ogni giorno, a partire dal proprio smartphone. Quattro ricercatori tedeschi dell’Istituto di Igiene e Medicina Ambientale dell’ospedale universitario di Greifswald, in Germania, hanno scoperto pochi giorni fa che il Covid-19 può resistere e rimanere infettivo sulle superfici almeno per quattro o cinque giorni. Ma la capacità di sopravvivenza del virus può arrivare fino a nove giorni in condizioni favorevoli. Ecco quindi che l'igiene è fondamentale e mantenere disinfettate le superfici è un modo per arginare il rischio di contagio. Non solo maniglie e pulsanti. È importante tenere pulito anche il cellulare, colonia di virus e batteri. Lavarsi le mani, ma poi toccare lo smartphone centinaia di volte al giorno è inutile. Secondo il World Economic Forum, il coronavirus resiste tre giorni su superfici di plastica e metallo e quattro sugli schermi di pc, tablet e smartphone. Come riporta il Messaggero, su TikTok ha pubblicato un video dove spiega come difendersi da questo tipo di contagio. È infatti probabile che una persona si lavi le mani e poi tocchi il telefono pensando di essere al sicuro. Invece sullo smartphone si trovano virus e batteri che possono essere poi portati al viso e agli occhi. Per questo è molto importante disinfettare il cellulare ancor prima di lavarsi le mani. Come? Basta un fazzoletto imbevuto di alcol, una salviettina disinfettante, oppure utilizzare detergenti fatti apposta per schermi e display.

Le nuove raccomandazioni. Ieri il Comitato tecnico scientifico, voluto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha inviato nuove raccomandazioni per contenere la diffusione del coronavirus. Mantenere almeno due metri di distanza, salutarsi da lontano, rimanere a casa in caso di febbre anche se non si ha alcun sospetto di aver contratto il virus. E ancora: non frequentare i luoghi affollati ed evitare che le persone anziane escano di casa, eventi sportivi a porte chiuse. "Un elemento importante è sicuramente quello dei comportamenti e della consapevolezza di ciascuno di noi. Non dobbiamo percepire false sicurezze ma essere tutti molto attenti ad adottare le raccomandazioni che stiamo condividendo. Un elemento estremamente importante sul quale dobbiamo continuare a lavorare proprio per evitare una rapida diffusione dell'infezione", aveva dichiarato ieri il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. Misure per contrastare il virus cinese che sta continuando a contagiare le persone in tutta Italia. L'ultimo bollettino parlava di di 2.263 soggetti positivi, 160 persone guarite e 79 vittime.

Coronavirus: “Vi spiego perché l’isolamento è inutile”. Gioia Locati il 5 febbraio 2020 su Il Giornale. L’isolamento non potrà fermare il coronavirus. Vi è prova di contagi avvenuti in Cina, in Usa e in Germania nel periodo dell’incubazione. (Fonte: The New England Journal of Medicine, Transmission of 2019-nCoV Infection from an Asymptomatic Contact in Germany). Non solo: è tipico delle infezioni respiratorie diffondersi soprattutto in pazienti a-sintomatici che non manifestano l’infezione. A spiegarcelo è Stefano Petti, professore al dipartimento di Malattie infettive e Salute Pubblica della Sapienza di Roma.

Professore, questa informazione aumenterà l’allarmismo.

“Trattandosi di un virus nuovo, è normale che vi sia tanta attenzione, soprattutto da parte degli addetti ai lavori. Ma non è proprio il caso di preoccupare. I virus a trasmissione aerea sono trasmessi anche dai ‘portatori precoci’ (ossia da chi si trova nel periodo dell’incubazione), è un fatto risaputo, perciò i cordoni sanitari sono una misura primitiva, di quando si ignorava il comportamento dei virus”.

Se l’isolamento non serve, cosa si può fare?

“Adottare le Precauzioni Universali, misure igieniche che si dovrebbero mettere in atto sempre. Perché sono centinaia di migliaia i microorganismi che ci possono colpire durante un’esistenza”.

Esempi?

“Lavarsi le mani e arieggiare le stanze spesso. Buone abitudini da non trascurare, anche se fa freddo. Poi, è importante abbattere l’eccessiva umidità – almeno al di sotto del 65% – tipica delle palestre e delle piscine. Cercare di evitare le distanze ravvicinate, l’ideale è mantenersi ad almeno un metro dal proprio vicino o, comunque, limitare il contatto più ravvicinato al minimo indispensabile”.

Vi sono ospedali, alberghi e uffici con le finestre sigillate.

“Le stanze devono avere un ricambio d’aria naturale. Studi hanno rilevato una percentuale di infezioni respiratorie da virus, funghi e batteri aerei notevolmente più alta negli edifici bassi e sigillati rispetto a quelli con soffitti alti e spifferi alle finestre”.

Le mascherine servono?

“Sì. Perché i virus viaggiano solo nei droplet (le goccioline emesse quanto si parla, si starnutisce o si tossisce), perciò non è importante che la mascherina non riesca a trattenere il virus perché deve fermare i droplet e questo lo fa. Poi, il ricambio d’aria aiuta a diluire i droplet…”.

Il coronavirus n-CoV è aggressivo?

“E’ un patogeno prevalentemente opportunista. Significa che deriva dagli animali e che, da poco, si è adattato all’uomo; che ha una letalità elevata che però riguarda solo le persone immunodepresse (la letalità è il rapporto tra numero di decessi e numero di malati, al momento è del 2% ma è destinata a diminuire nel prossimo futuro)”.

Quindi non è rischioso per le persone sane?

“No”.

Gli immunodepressi rischiano di più di morire di morbillo o di un patogeno opportunista?

“I dati e l’esperienza ci confermano che le morti da patogeni opportunisti sono assai più frequenti negli immunodepressi”.

Ma allora: tutto questo allarmismo?

“È allarmismo, infatti. E di questo è anche colpa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha decretato il massimo livello di allerta per questo virus. Cliccate qui. L’infezione non si trasmette con un singolo microrganismo ma con un numero minimo, la cosiddetta carica minima infettante. Che, nel caso del coronavirus, patogeno semi-opportunista, deve essere alta. Cioè per ammalarsi è necessario inalare molti microorganismi in un tempo relativamente breve. Se il nostro stato di salute è buono occorre un contatto assai prolungato per infettarsi”.

Però si è lo stesso contagiosi?

“Sì. I microrganismi patogeni per l’uomo tendono a mascherare i sintomi per potersi propagare meglio all’interno della popolazione. E’ un concetto noto come immune escape e si verifica in seguito all’adattamento del microrganismo alla specie che gli fa da serbatoio. Per tutti i virus, non solo quelli a trasmissione aerea, succede sempre, ma accade anche con i batteri, i miceti, i protozoi, ecc.”.

Questa situazione vale anche per gli altri virus a trasmissione aerea?

“Esattamente. Nello studio di Sarna e colleghi del 2018, cliccate qui, si osservi nella Tabella 4 che i virus respiratori (TUTTI i tipi, compresi molti coronavirus e rhinovirus), sono molto più frequenti nei bambini asintomatici che in quelli con infezioni profonde dell’apparato respiratorio. Teniamo presente che nella popolazione i bambini “apparentemente” sani sono molti di più rispetto a quelli malati, la Tabella 3 mostra simili risultati”.

Se ci si ammala senza accorgersene e se questa è la situazione più frequente possiamo dire che le persone sane non dovrebbero preoccuparsi?

“È così. Ricordiamoci sempre di migliorare il sonno, limitare lo stress e assumere tutti i nutrienti necessari quotidianamente perché questi elementi rinforzano la nostra immunità. Pensiamo agli atleti. Nel lavoro di Valtonen e colleghi del 2019, cliccate qui, si parla proprio di raffreddore e di atleti di alto livello. In figura 2 troviamo molti dei soggetti campionati risultati positivi al virus per un certo tempo ma mai ammalatisi. In Tabella 1 si vede la proporzione di soggetti asintomatici ma positivi a rhino e coronavirus nel Finland team”.

Ma se vi sono regole generali di prevenzione e se i microorganismi che ci possono infettare sono milioni, che senso ha concentrarsi su un solo virus?

“Non ha proprio senso. Vi sono norme di precauzione per i virus aerei, altre per quelli a trasmissione sanguigna, altre per quelli trasmessi dagli alimenti e dall’acqua, altre per quelli con vettore (insetti). Osserviamo per esempio i casi di sospetta influenza in Europa (le cosiddette ILI influence-like illness e ARI acute respiratory infections): secondo l’osservatorio europeo ECDC sono molto meno della metà i casi in cui è coinvolto il virus influenzale (in questa stagione sono solo 1/4, cioè 200.000 su 850.000 campioni delle presunte influenze, secondo la Tabella 1 del report mensile dell’ECDC) e in una buona parte di questi i virus isolati non sono quelli del vaccino (128.000 su 200.000). Ecco anche perché la vaccinazione, che si basa sul controllo di un singolo o a massimo tre o quattro microrganismi è un metodo primitivo di prevenzione delle malattie infettive”.

Studio sul coronavirus n-CoV. A riprova di quanto dettoci dal professor Stefano Petti, ecco lo studio apparso sul New England Journal of Medicine, qui. A partire dal 1 gennaio a Wuhuan, meno del 10% dei casi identificati è stato al mercato. Oltre il 90% si è infettato per via interumana. Ma attenzione: più del 70% dei casi non ha avuto contatti con persone che presentavano sintomi respiratori, è perciò assai probabile che in più del 70% dei casi la sorgente è stata un soggetto asintomatico. Ecco perché la quarantena non può funzionare.

Coronavirus, pronte le nuove regole «per tutti gli italiani»: distanza di 2 metri,  niente strette di mano e anziani a casa. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Mantenere una distanza di almeno due metri, salutarsi da lontano senza baci, abbracci o strette di mano, evitare i luoghi affollati, chi ha la febbre deve rimanere a casa anche se non ha alcun sospetto di aver contratto il virus. Sono le “raccomandazioni” da rivolgere «a tutti gli italiani» inviate dal comitato tecnico scientifico voluto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte al ministero della Salute per cercare di contenere il contagio da Covid-19. Tra le regole di comportamento che gli scienziati suggeriscono per i cittadini dell’Italia intera c’è anche quello di evitare che le persone anziane escano di casa - se non per motivi strettamente necessari - perché si tratta di soggetti fragili e dunque più esposti al rischio (in Lombardia la stessa regola riguarda chi ha più di 65 anni) . Al momento il comitato non ha allargato le due «zone rosse» anche se – come ha specificato il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro - «stiamo valutando questa opportunità sulla base di alcuni criteri epidemiologici, geografici e di fattibilità della misura. Stiamo analizzando con la Lombardia con grande attenzione su nuovi casi per comuni della cintura bergamasca e stiamo vedendo con i dati d’incidenza e in base ai tassi di riproduzione del virus». La scelta di ampliare a tutta Italia l’area dei comportamenti da tenere per limitare l’esposizione alla trasmissione del Coronavirus è stata presa anche alla luce della situazione aggiornata alle 18 di martedì 3 marzo - fornita dal commissario e capo della protezione civile Angelo Borrelli - sulle persone contagiate, su quelle guarite e su quelle decedute.

Coronavirus, le goccioline dello starnuto arrivano fino a 8m di distanza. Mattia Pirola il 6  marzo 2020 su Notizie.it. L’emergenza provocata dal Coronavirus ha fatto sì che il Governo adottasse misure di contenimento straordinarie. Inoltre ha consigliato ai cittadini per esempio di evitare gli abbracci, di non salutarsi stringendosi la mano e di stare sempre almeno a un metro di distanza dalle altre persone. Consigli, questi, per prevenire il contagio da Coronavirus ma che risulterebbero inutili, soprattutto in caso di tosse o starnuto. “Un colpo di tosse media è in grado di riempire d’aria una bottiglia da due litri e le goccioline ‘sparate’, che possono essere anche 3.000, possono muoversi fino a 75 km all’ora”. Queste le parole del professor Vincenzo Giordano, che ha spiegato il suo pensiero con un post su Facebook. “Lo starnuto, invece, genera anche 40.000 goccioline, alcune delle quali raggiungono la velocità di 320 km all’ora“. “Nel 2014 – continua il professore -, filmando gli starnuti al rallentatore e ottenendo fino a 8.000 fotogrammi al secondo, un gruppo di ricercatori di fluidodinamica del MIT, guidato da Lydia Bourouiba, ha visto che la nuvola turbolenta di goccioline prendere forma pochi istanti dopo l’emissione. All’inizio il fluido esce dalla bocca in sottilissimi strati. L’impatto con l’aria li trasforma in anelli e poi in esili filamenti, che si frantumano formando le goccioline”. Infine: “La distanza percorsa dalle goccioline dipende dalle loro dimensioni. In ogni caso, non cadono a terra entro 1-2 metri, ma possono viaggiare fino a 8 metri se emesse da uno starnuto, e fino a 6 metri con la tosse”.

Coronavirus, studio in Cina: "Nell'aria per 30 minuti, distanza di sicurezza 4,5 metri". Le conclusioni di uno studio pubblicato su una rivista di Medicina ripreso dal South China Morning Post. Sono tanti i fattori che influiscono sulle modalità di contagio e i dati hanno bisogno di ulteriori studi per essere verificati. La Repubblica il 09 marzo 2020. IL coronavirus potrebbe rimanere nell'aria per almeno trenta minuti e coprire una distanza di circa 4,5 metri in ambienti chiusi, come ad esempio un piccolo autobus, molto più di quelle di sicurezza di uno o due metri raccomandate dalle autorità sanitarie in varie parti del mondo. A sostenerlo uno studio di epidemiologi cinesi, pubblicato dalla rivista scientifica Practical Preventive Medicine e citato dal South China Morning Post, secondo cui il coronavirus, come già emerso nelle scorse settimane da altre ricerche, può rimanere per giorni sulle superfici, aumentando il rischio di contrarlo per chi le tocca. Va detto che i dati che emergono da quest'analisi hanno bisogno di ulteriori studi per essere verificati. I ricercatori cinesi segnalano che la permanenza sulle superfici è soggetta a fattori variabili, come il tipo di superficie e la temperatura: a 37 gradi centigradi, il virus può resistere fino a due o tre giorni, su vetro, metallo, plastica, carta e tessuti, spiegano gli epidemiologi della provincia dello Hunan dopo le indagini su un cluster di contagi. Secondo lo studio, poi, il coronavirus può sopravvivere più di cinque giorni nelle feci o nei liquidi corporei. A essere a rischio contagio sono gli ambienti chiusi e piccoli. "Si può confermare che in un ambiente chiuso con aria condizionata, la distanza di trasmissione del nuovo coronavirus eccederà la comunemente riconosciuta distanza sicura", scrivono gli studiosi guidati dall'epidemiologo Hu Shixiong, in una ricerca pubblicata dalla rivista scientifica Practical Preventive Medicine, prendendo come situazione di esempio quella di un autobus per dimostrare la permanenza del virus sul mezzo pubblico anche quando la persona contagiata è scesa. Lo studio ha esaminato un gruppo di casi risalenti al 22 gennaio scorso, pochi giorni prima dell'inizio del capodanno lunare e quando l'epidemia non era ancora riconosciuta come un'emergenza nazionale in Cina. Un passeggero che già avvertiva i sintomi della malattia, identificato come "A", è salito su un autobus a lunga percorrenza di 48 posti al completo, sedendosi in penultima fila, senza mascherina per coprire il volto. In base alle immagini delle telecamere a circuito chiuso (obbligatorie in Cina) l'uomo non ha avuto interazioni con altri passeggeri durante tutto il viaggio, durato quattro ore. Il coronavirus ha però fatto in tempo a posarsi su sette altri passeggeri prima che A scendesse dal mezzo, secondo i risultati dei ricercatori, tra cui alcuni che stavano sei file più avanti del "paziente zero", a una distanza stimata, appunto, in circa 4,5 metri. Circa mezz'ora dopo la fine della corsa, un altro gruppo di persone è salito sull'autobus e uno di loro che non indossava la mascherina è rimasto contagiato, si pensa a causa di particelle inalate dal gruppo di passeggeri seduti in precedenza. Il paziente preso in considerazione è, invece, salito su un altro minibus contagiando, in un'ora, altre due persone, una delle quali si trovava a una distanza di circa 4,5 metri. In base allo studio, è infine emerso che nessuna delle persone che portavano una maschera per coprire il volto mentre viaggiavano assieme al paziente zero ha contratto il coronavirus. Nonostante rimangano ancora interrogativi aperti sullo studio - come per esempio il fatto che la persona seduta al fianco di A non abbia contratto il coronavirus, pur avendo l'esposizione più alta - la conclusione dei ricercatori è quella di indossare la mascherine quando si prendono i mezzi pubblici, comprese metropolitane e aerei, e "ridurre al minimo il contatto tra le mani e le aree pubbliche, ed evitare di toccare la faccia prima di averle pulite".

Piero Angela a Roberto Burioni: "Il coronavirus passa attraverso qualsiasi cosa. A cosa serve la mascherina?" Libero Quotidiano il 2 Marzo 2020. Piero Angela non è certo l'ultimo arrivato in materia di divulgazione scientifica e in collegamento con Fabio Fazio a Che tempo che fa, su Rai due, fa una serie di domande clamorose a Roberto Burioni, ospite in studio. "Prima si diceva che le mascherine non servivano e ora servono. I virus (quindi anche il coronavirus, ndr) sono piccolissimi, sono un centesimo delle dimensioni di un globulo rosso e in un millimetro cubo ci sono 4-5 milioni di globuli rossi, quindi passano attraverso qualunque cosa". "Questo virus si trasmette attraverso delle goccioline che però hanno un raggio d'azione di un metro", risponde il virologo, "per le persone che stanno bene non c'è bisogno di mettere la mascherina. La deve mettere chi sta male".    

Enrico Marro per ilsole24ore.com il 9 marzo 2020. Migliaia e migliaia di persone, in tutto il mondo, escono di casa solo con la mascherina per cercare di prevenire il contagio da Covid-19. Fanno bene o indossare una mascherina è inutile? La risposta corretta è: dipende. Dipende da quale mascherina hanno indossato. Quelle antismog o chirurgiche servono infatti a poco, perché non sono state progettate per difendere chi le indossa dai virus. Ma come scegliere la mascherina giusta? Ecco tre consigli d’oro di Assosistema Safety, l’associazione di categoria che in Confindustria rappresenta i maggiori produttori e distributori dei Dpi (dispositivi di protezione individuali e collettivi).

1. Distinguere le maschere di protezione respiratoria da quelle chirurgiche o antismog. «Queste ultime sono dispositivi medici e nascono con lo scopo di proteggere il paziente in situazioni specifiche - per esempio in sala operatoria - e non il personale sanitario: non hanno un bordo di tenuta sul volto e uno specifico sistema filtrante per aerosol solidi e liquidi, a differenza dei Dpi», afferma un position paper dell'associazione di categoria. «Le maschere chirurgiche possono riportare la marcatura CE - che attesta la rispondenza a quanto disposto dalla Direttiva 93/42/CEE in ambito di dispositivi medici - e possono essere conformi alla norma armonizzata EN 14683, che descrive le prove utili a verificare che l’idoneità a proteggere il paziente da ciò che viene espirato da chi le indossa». Ma quando l’obiettivo è proteggersi dai virus, bisogna indossare una Dpi.

2. Scegliere maschere FFP2 e FFP3 conformi alla EN 149. «Le mascherine filtranti consigliate sono le FFP2 e FFP3 che hanno un’efficacia filtrante del 92% e del 98%», spiega Alberto Spasciani, Vice Presidente di Assosistema Safety. L’associazione di categoria ricorda come nel caso del coronavirus la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità prescriva un dispositivo conforme alla norma EN 149 con valida marcatura CE seguita dal numero dell’Organismo di Controllo che ne autorizza la commercializzazione. Le mascherine conformi alla norma europea armonizzata UNI EN 149:2009 sono idonee anche per proteggersi da “agenti biologici aerodispersi” come i virus: a riconoscerlo sono autorità italiane come il ministero della Salute e l’Ispesl, e internazionali, come l'Oms, lo statunitense National Institute for Occupational Safety and Health (Niosh) ma anche l'ente di normazione italiano (Uni).

3. Indossare correttamente la mascherina. Sembra banale, ma molte persone si mettono la mascherina in modo sbagliato rendendola inutile. «Bisogna indossare il Dpi correttamente - spiega un position paper di Assosistema Safety dedicato al coronavirus - avendo cura di seguire le istruzioni del fabbricante e verificando la tenuta della maschera al volto dell'operatore. Questo è fondamentale per garantire la protezione, dato che anche il dispositivo più sofisticato indossato in maniera non corretta non serve a nulla». Anche l’Oms si è soffermata sulle istruzioni di base per indossare le mascherine, rivolte in particolare al personale sanitario: come prima cosa bisogna pulire le mani con un disinfettante a base di alcol o con acqua e sapone; nel coprire la bocca e il naso, è necessario assicurarsi che non ci siano spazi tra il viso e la mascherina, facendo in modo che quest’ultima copra fin sotto il mento. Non bisogna toccare la mascherina mentre la si utilizza e, se necessario farlo, pulire prima le mani con un detergente a base di alcol o acqua e sapone. Sostituire sempre la mascherina con una nuova non appena è umida e non riutilizzare quelle monouso. Per togliere la mascherina, rimuoverla da dietro e non toccare la parte anteriore del dispositivo. E dopo averla tolta, buttarla immediatamente in un contenitore chiuso, pulendo in modo adeguato le mani.

Coronavirus, fonte Protezione civile: “Servono 90 milioni di mascherine al mese, trovate 5”. Le Iene News il 16 marzo 2020. Una fonte della Protezione civile spiega: “In Italia servono 90 milioni di mascherine al mese, ne abbiamo distribuite 5 e abbiamo un prossimo ordine per 56 milioni. Ma occorre stare attenti, è un mercato avvelenato”.  “L’Italia in questo momento ha bisogno di 90 milioni di mascherine al mese: finora abbiamo comprato e distribuito 5 milioni di mascherine”. A parlare a Iene.it è una fonte interna alla Protezione civile, che sta gestendo l’emergenza della pandemia da coronavirus. Un’emergenza che è anche di reperimento dei dispositivi di protezione, tra cui le mascherine, fondamentali per contenere la diffusione del contagio. “Abbiamo già chiuso un contratto per un prossimo ordine di 56 milioni di pezzi tra mascherine chirurgiche, ffp2 e ffp3”, spiega. ”È un numero non sufficiente e quindi cerchiamo altri partner per l’importazione: ci auguriamo che il commissario straordinario Domenico Arcuri riesca a far aumentare anche la produzione nazionale”, ci dice la nostra fonte. “Le più esposte in questo momento sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto, ma sono anche quelle che ricevono la gran parte delle mascherine che acquistiamo e poi distribuiamo attraverso le regioni, e che vengono suddivise sulla base dell’evolversi della situazione sanitaria“, ci spiega ancora. Un compito, quello del reperimento delle mascherine, che è pieno di insidie, lascia intendere la fonte. “La nostra centrale di acquisto compra dall’estero, dopo una rigorosissima verifica della validità e delle certificazioni del prodotto e della garanzia che arrivi in Italia. Dico questo perché sin dall’inizio ci siamo dovuti confrontare con alcuni problemi: certe aziende chiedevano il pagamento anticipato, con la fortissima probabilità che poi le mascherine non arrivassero. All’inizio ci contattavano i broker, non le aziende produttrici. Occorre stare molto attenti, è un mercato avvelenato. Ci lavoriamo giorno e notte su questa cosa: se non ne stiamo trovando è perché alcuni non possono essere presi in considerazione”. Altro problema, quello delle frontiere: ”Ci siamo dovuti confrontare con il blocco all’esportazione da parte di alcuni paesi produttori. Noi d’altro canto abbiamo recuperato in dogana ordini che stavano andando all’estero, perché l’ordinanza del capo dipartimento della Protezione civile prevede la nostra autorizzazione a ogni esportazione. Capita poi che molti ordini ci vengano cancellati: sospettiamo che nei paesi di produzione arrivi gente col denaro in mano e che le mascherine vengano vendute a loro. Comunque in questo momento, se trovassimo aziende sicure, con la certezza che i materiali arrivino, pagheremmo il prezzo che ci chiedono”. Spazio anche a una risposta alle polemiche arrivate dalla Lombardia, dopo che l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera aveva dichiarato di aver ricevuto “fazzoletti di carta”: ”Abbiamo mandato mascherine di tipo chirurgico, non quelle ffp2 o ffp3, poi le regioni hanno deciso come distribuirle. In quel momento siamo riusciti ad acquistare quella partita di mascherine, perché erano del tipo che più facilmente si trovava, prodotto in Italia. Sapevamo bene che non erano le ffp2 o le ffp3, però possono essere utilizzate per altre tipologie di attività. Quelle che abbiamo dato in Lombardia le stiamo usando noi stessi qui al Dipartimento... Il presidente della Regione Toscana, che quel giorno ha ricevuto anche lui quelle mascherine, ha detto "queste sono meglio di niente". Quindi da parte nostra non c’è stato nessun mancato rispetto della normativa” .

Coronavirus, Bechis svela la storia della hostess Alitalia: viaggi in Cina e febbre, nessuno la controlla. Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. Da tre giorni una hostess di Alitalia, intervistata da Il Tempo, ha la febbre. Nonostante abbia viaggiato fino a fine gennaio in Cina, le è stato negato l'immediato tampone. Oltretutto - racconta Franco Bechis - dai primi sintomi di febbre la hostess è stata controllata e sorvegliata soltanto telefonicamente dal medico della compagnia. Adesso la donna, in permesso per malattia, si trova in quarantena volontaria in casa, dove si tiene a debita distanza dagli anziani e fragili genitori. Le sue parole al quotidiano romano danno la misura di come Alitalia nello specifico e il governo abbiano trattato l'emergenza coronavirus. "Ho ottenuto la mascherina a Fiumicino perché mi sono rifiutata di lavorare e ho protestato con i miei colleghi", racconta la hostess, preoccupata dai 38 gradi di febbre che la tormentano. Dalla quarantena in casa, attende ancora il tampone che le spetta, ma il medico Alitalia le ha fatto capire che "se lo voglio fare devo chiederlo io al medico di famiglia o recarmi di persona nelle strutture ospedaliere". "Ma in queste condizioni non Posso andare mica fino allo Spallanzani", chiosa la donna.

Coronavirus: “Ho aggirato il blocco dei voli dalla Cina su consiglio della Farnesina”. Le Iene News il 26 febbraio 2020. Dalila è tornata dalla Cina a inizio febbraio, aggirando il blocco dei voli facendo scalo a Bangkok. Da quello che ha raccontato a Ismaele La Vardera, sarebbe stata proprio la Farnesina a consigliare questo sistema. E lei, arrivata in Italia, non avrebbe ricevuto alcun controllo. Il 31 gennaio il governo italiano ha annunciato il blocco dei voli da e per la Cina, nel tentativo di contrastare la diffusione del coronavirus. Nonostante questo, purtroppo, il nostro Paese è diventato negli ultimi giorni il terzo al mondo per numero di contagi. Il nostro Ismaele La Vardera ha raccolto la storia di Dalila, una nostra connazionale che si trovava in Cina in quel periodo. Secondo quello che ci ha raccontato, Dalila avrebbe dovuto prendere un volo proprio il 31 gennaio per rientrare in Italia. Arrivata all’aeroporto però scopre che è stato annullato, e rientra in albergo. Dopo qualche giorno, sempre stando al suo racconto, i suoi genitori avrebbero deciso di prendere in mano la situazione e chiedere informazioni alla Farnesina che avrebbe consigliato di “aggirare” il blocco prendendo un volo che facesse scalo. Dalila così prende un volo per Bangkok e da lì raggiunge l’Italia. “Non mi hanno fatto nessun controllo”, dice a Ismaele La Vardera. “Arrivata a casa mi sono messa in quarantena volontaria”, continua Dalila. “Volevo soprattutto tranquillizzare i miei concittadini, che erano molto preoccupati dal fatto che non avessi mai avuto nessun controllo”. Del resto Dalila non ha mai accusato alcun sintomo.

La Iena a questo punto si mette in contatto con un ospedale, sia per chiedere che a Dalila fosse fatto il tampone anche in assenza di sintomi sia per capire come funzioni l’attivazione dell’emergenza. Potete vedere come funziona nel servizio qui sopra. Il test di Dalila per fortuna è negativo. 

Coronavirus, il contagio potrebbe avvenire anche attraverso le lacrime. Uno studio cinese indaga sul nesso tra gli occhi e Covid 19. Cosa fare per limitare i rischi. Irma D'Aria il 09 marzo 2020 su la Repubblica. Anche gli occhi potrebbero essere una fonte di contagio del coronavirus. E anche abbastanza subdola perché non sempre si presentano sintomi chiari. A puntare l’attenzione sul nesso tra occhi e coronavirus è un recente studio cinese che ha valutato proprio la possibilità che il contagio passi anche attraverso le lacrime. E’ ormai noto che la trasmissione del virus avviene da una persona all’altra attraverso le vie respiratorie. “Parlando si liberano nell’aria migliaia di micro-goccioline di saliva assieme al virus a uno-due metri di distanza, ma anche a sei metri di distanza dopo uno starnuto. Queste goccioline possono rimanere sospese in aria per più di mezz’ora, contagiando altre persone”, ricorda Claudio Azzolini, ordinario di malattie dell’apparato visivo presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi dell'Insubria. Il contagio avviene quando le goccioline infette entrano in bocca o nel naso, ma avviene anche attraverso gli occhi tramite le lacrime. “Il film lacrimale - prosegue l’oculista - è composto da tre strati che umettano l’occhio con funzioni di difesa, lubrificazione, pulizia e nutrimento. Le lacrime vengono poi convogliate, attraverso i canalini lacrimali situati nella parte interna delle palpebre, in naso e in gola. Se le goccioline infette vaporizzate in aria si appoggiano sugli occhi, possono quindi facilmente arrivare nelle vie respiratorie provocando contagio e infezione”.

Lo studio. Di recente i ricercatori del Dipartimento di oftalmologia dell’Università di Zhejiang hanno condotto uno studio dal titolo “Evaluation of coronavirus in tears and conjunctival secretions of patients with Sars-Cov-2 infection”. Attualmente lo studio è stato accettato ed è in corso di pubblicazione su una rivista scientifica. Cosa emerge da questa ricerca? “Ci dice che il coronavirus, se presente nella parte anteriore dell’occhio, cioè la congiuntiva, sembra non dia sempre segni di congiuntivite quali arrossamento oculare, bruciori, prurito e lacrimazione. Quindi il virus potrebbe essere presente nelle lacrime senza che ce ne accorgiamo”, spiega Azzolini.

Occhiali avvolgenti per proteggersi. Dunque, oltre a lavarsi spesso e bene le mani, bisogna occuparsi anche dell’igiene degli occhi. “Nei luoghi a rischio e molto affollati – suggerisce Azzolini - è necessario proteggersi non solo con mascherine igieniche o chirurgiche monouso (che proteggono per lo più gli altri) o meglio con mascherine filtranti, ma anche con occhiali. Esistono occhiali protettivi di plastica avvolgenti (costerebbero normalmente pochi euro, ma il condizionale è ora d’obbligo) o specifici occhiali o maschere protettive con perfetta aderenza al viso per chi è ad alto rischio di contagio. Una certa protezione, ma meno efficace, è data dai normali occhiali da vista e occhiali scuri”.

Le lenti a contatto proteggono? Chi porta le lenti a contatto è più protetto contro il virus? “Le lenti a contatto – risponde Azzolini che è anche autore del libro “Occhi, come prendersene cura” (Edizioni LSWR) pubblicato poco prima dell'arrivo del coronavirus - sono appoggiate solo sulla cornea, la parte anteriore trasparente dell’occhio, e non danno protezione all’eventuale contagio delle lacrime che poi arrivano in gola e nelle vie respiratorie. Le lenti a contatto possono però trattenere il virus e, in caso di riutilizzo delle stesse lenti, occorre utilizzarle correttamente, lavarsi bene le mani prima di maneggiarle, non toccarle con le unghie, utilizzare adeguate soluzioni detergenti per lenti a contatto, non usare sapone, saliva o altri liquidi, e infine sciacquare anche il portalenti e farlo asciugare lasciandolo capovolto e aperto”. Naturalmente bisogna rispettare la data di scadenza delle lenti, sempre indicata sulla confezione.

Occhio secco e ciglia lunghe "scudo" protettivo. Chi soffre del cosiddetto “occhio secco”, ma anche chi lavora tanto al computer potrebbe correre meno rischi: “Chi sta per ore al computer ha un minor ammiccamento e minor escrezione del film lacrimale nel naso e in gola”, spiega Azzolini. Anche le ciglia lunghe, che riducono il flusso dell’aria intorno all’occhio, dovrebbero diminuire il rischio di contagio del virus attraverso le lacrime e poi in naso e in gola”.

Le richieste degli esperti. Proprio perché c’è questa concreta possibilità di contagio attraverso gli occhi, l'Associazione italiana dei Medici Oculisti chiede con urgenza che "chi di competenza, il ministro della Salute, i governatori delle Regioni i direttori generali e i direttori sanitari delle Asl intervengano affinchè venga tutelata la salute dei medici, degli infermieri e dei pazienti che quotidianamente affollano i nostri pronto soccorso e ambulatori oculistici". Secondo gli oculisti di Aimo c'è "la necessità di rafforzare percorsi adeguati, soprattutto per evitare che pazienti potenzialmente contagiosi condividano gli spazi con altri che hanno altro tipo di patologie, di adeguare la strumentazione con presidi monouso e disinfettanti adeguati, previa capillare istruzione del personale". Infine, è necessario "predisporre presidi idonei per i medici e infermieri, maschere respiratorie tipo N 95, occhiali protettivi, guanti ed eventualmente tute di contenimento per evitare il contagio del personale sanitario che è sempre in prima linea con dedizione e abnegazione", concludono. 

CORONAVIRUS: Occhi porta di ingresso per il contagio. Le raccomandazioni di SOI. Mariella Belloni il 19 febbraio 2020 su comunicati-stampa.net. Matteo Piovella, Presidente SOI: ecco le misure di prevenzione e indicazioni di sicurezza alla portata di tutti. L’emergenza del CoronaVirus (Covid-19) obbliga tutti a misure preventive per contenere i possibili contagi. La Società Oftalmologica Italiana ha diramato le operatività da mettere in atto a tutela dei medici oculisti dei pazienti e degli operatori tutti. Matteo Piovella, Presidente SOI “gli occhi e in particolare la congiuntiva sono la diretta porta di ingresso per il coronavirus che viene poi trascinato tramite le vie di deflusso delle lacrime all’interno del naso e gola. La congiuntivite virale, sintomo precoce della malattia, resta difficilmente identificabile rispetto le comuni e molto diffuse congiuntiviti. Chi e è affetto da normale, generica congiuntivite indossi una mascherina e attui le normali consolidate attività di prevenzione- spiega il presidente SOI. Un'altra misura preventiva fondamentale è l'utilizzo di una salvietta e di un cuscino personale così' come aumentare la frequenza del lavaggio delle mani. Divieto assoluto di toccare gli occhi con le dita così come avviene normalmente nel periodo post operatorio per i 650.000 pazienti operati di cataratta ogni anno in Italia- spiega ancora Piovella. Tutti, Medici Oculisti, personale sanitario e amministrativo operante nelle strutture eroganti prestazioni oculistiche e soprattutto i pazienti debbono essere salvaguardati. Il medico cinese che per primo si rese conto dell’importanza di questa emergenza sanitaria era un Medico Oftalmologo con il compito di gestire la congiuntivite virale presente nei pazienti affetti da coronavirus. Il Coronavirus è un’emergenza sanitaria mondiale. Dopo una prima fase di cautela, l’OMS ha dichiarato il livello di attenzione massima. E il mondo si sta preparando ad affrontare un contagio generale. La Società Oftalmologica Italiana- dichiara il presidente Matteo Piovella- ha allertato i 7 mila oculisti italiani- consigliando le misure preventive. Ci tengo a precisare- continua Piovella- che molte di esse sono già normalmente attuate per contenere il contagio tipico delle tradizionali congiuntiviti batteriche o virali, quindi le indicazioni di SOI sono principalmente diffuse per condividere le adeguate conoscenze e operatività con tutti potenziali portatori di congiuntivite senza allarmismi ma con l’obiettivo di prevenire forme di contagio. Ricordo la necessità di utilizzare erogatori d’acqua per il lavaggio delle mani a fotocellula (devono sostituire i tradizionali rubinetti) e la necessità di provvedere alla disinfezione più volte nell’arco della giornata dei Servizi a disposizione del Personale e del Pubblico. Evidenzio che l'American Academy of Ophthalmology ha diramato un Alert ufficiale su congiuntivite da CoronaVirus e il Comitato di Etica SOI, tramite l’intervento/coordinamento del Presidente Enzo Castiglione, ritiene utile portare a conoscenza di tutti i Medici Oculisti Italiani quanto l'American Academy of Ophthalmology ha trasmesso per rafforzare la cultura della profilassi e la sua ottimale applicazione da attuarsi su larga scala. La congiuntivite- spiega Piovella è uno dei disturbi più comuni per gli occhi di piccoli e grandi. E’ una malattia che colpisce gli occhi e può essere di origine virale o batterica. Si localizza a livello della congiuntiva, la membrana trasparente che ricopre l’interno della palpebra e il bulbo oculare. E’ necessario prendere atto che ,anche se in questo momento in Italia non esistono riscontri di diagnosi da congiuntivite virale da coronavirus, questa tipologia di specifica congiuntivite è presente tra i pazienti cinesi colpiti in Cina dall’epidemia. Quindi la congiuntivite virale da CoronaVirus può essere presente, anche come sintomo precoce, nei pazienti contagiati; il virus è trasmesso principalmente con modalità aerosol dalle goccioline della saliva e contagia le vie respiratorie ma soprattutto direttamente la mucosa congiuntivale. Per questo i medici oculisti e gli operatori sanitari devono indossare occhiali o maschere protettive e i pazienti le mascherine. Sono procedure normali che fanno regolarmente i dentisti - continua Piovella - quando curano i denti per evitare che le goccioline provocate dal trapano raggiungano gli occhi. Le mascherine vengono normalmente indossate nei Paesi asiatici anche solo in caso di raffreddore, appunto per evitare il contagio. Il sintomo più caratteristico di questa patologia è l’arrossamento dell’occhio: i vasi sanguigni, a causa dell’infiammazione, diventano più visibili, dando all’occhio un caratteristico rossore. Consigliamo quindi agli oculisti di visitare i pazienti con congiuntivite - NON necessariamente da CoronaVirus – con guanti, mascherina e occhiali sanitari o visiera. Se i pazienti invece hanno febbre, sintomi influenzali, tosse, vanno isolati e separati dal pubblico in attesa in pronto Soccorso Oculistico. I generici criteri di igiene (lavaggio/disinfezione delle mani, sterilizzazione dello strumentario e disinfezione delle mentoniere, disinfezione/sterilizzazione degli strumenti a contatto con le mucose: tonometri, lente di Goldman, blefarostato, etc.) devono essere scrupolosamente rispettati - continua Piovella -. In ogni caso si ribadisce la necessità di non toccare e il viso con le mani. Non è una situazione straordinaria ma la normale prassi a cui si devono attenere le 650,000 Persone che ogni anno in Italia si sottopongono all’intervento di cataratta. E’ il modo semplice e totalmente adottato per evitare nei primi giorni dopo l’intervento la possibilità di infezioni oculari post operatorie la più impegnativa complicazione in chirurgia degli occhi. Seguendo queste semplici regole la situazione è stata messa totalmente sotto controllo. Data la normale predisposizione di tutti nel toccare con le mani gli occhi, soprattutto in caso di lieve irritazione e piccoli disturbi (in questi casi si arriva normalmente ad uno sfregamento delle palpebre sicuramente privo di ogni utilità) viene consigliato d lavarsi spesso le mani e di evitare il contatto delle mani con potenziali fonti di infezione. E’ indicato attivare una metodologia di pulizia e disinfezione degli strumenti oftalmici che vengono a contatto con la cute del Paziente e non solo tra una visita e l’altra. Inoltre - spiega Piovella - va individuato da subito una responsabile informazione ai pazienti in fase di prenotazione della visita oculistica presso un ambulatorio oculistico di primo livello che faccia presente l’impossibilità di applicare correttamente tutte le analisi necessarie in presenza di influenza o malattie respiratorie attive, e, che consiglia in questo caso di rimandare di qualche giorno la visita oculistica. In caso di congiuntivite o forme similari informare circa la migliore assistenza presente presso i centri in cui è presente attività strutturata di pronto soccorso. Le nostre sono misure “contenitive”- precisa Piovella. Questa allerta mondiale, ci obbliga a dedicare particolare attenzione e impegno alle regole necessarie per superare nel più breve tempo possibile questa straordinaria e imprevedibile criticità favorendo l’applicazione di tutti gli strumenti necessari di controllo e prevenzione del contagio. I Responsabili dell'attività di Pronto Soccorso specialistico sono tenuti a dare disposizioni in linea con le indicazioni fornite dalle Società Scientifica di riferimento ed a verificarne l'attuazione- conclude il presidente Piovella.

Leggo.it il 13 marzo 2020. Coronavirus, davvero sono efficaci guanti e mascherine? Per combattere il Covid19 si è ormai capito che l’arma migliore è restare in casa ed evitare contatti tra le persone, per non rischiare il contagio: ma cosa fare quando si deve necessariamente uscire per andare in farmacia o al supermercato? In tanti ormai usano mascherine e guanti, ma non sempre siamo del tutto informati sulla loro efficacia. Questa mattina, ospite ad Agorà, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco ha parlato proprio dell'argomento guanti, chiarendo cosa sia meglio fare o non fare in questa emergenza: secondo Lopalco i guanti «non servono a nulla, possono essere controproducenti. Le mani posso lavarle, i guanti se si sporcano possono veicolare il contagio». Dunque «meglio lavare spesso le mani, che usare i guanti».  Smentiamo alcune delle notizie fuorvianti che circolano: "Vitamina C, bevande calde, gargarismi... tutte cose che al Coronavirus fanno il solletico". Quanto alle mascherine, come già detto da altri esperti, servono per chi è già contagiato o ha sintomi, per impedirgli di trasmettere il virus: «Ma chi ha sintomi di malattie respiratorie deve stare a casa, non andare in giro - insiste l’epidemiologo - mettersi una sciarpa sulla bocca quando siamo sul bus serve a poco, perché poi ci si attacca ai sostegni o ci si stropiccia gli occhi». E infine: «Vitamina C? Bevande calde? Tutte cose che al Covid19 fanno il solletico».

Dalle scarpe ai vestiti: quanto serve lavarli spesso? E come è meglio pulire la casa? Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Ma quanto vive il coronavirus sulle superfici, sui vestiti, sui giacconi, sulle scarpe? È sicuro rientrare in casa e riutilizzarli, oppure bisogna lavarli subito? O, come viene spiegato da un presunto medico su un audio rimbalzato sulle chat, la malattia rimane viva nove ore sull’asfalto e quindi resta anche sulle suole? Domande che hanno innescato ieri un dibattito ampio, sui social e non solo. Anche perché fra le superfici incriminate ci sono anche le buste della spesa, i cibi confezionati e non, che in questi giorni di isolamento forzato per gli italiani sono fra i pochi pericoli provenienti dall’esterno. Sull’argomento è intervenuto il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro per il quale non solo una costante pulizia con disinfettanti, ma anche gli agenti atmosferici - sole e pioggia - possono abbattere la presenza del coronavirus sugli oggetti. Una malattia che tuttavia «è altamente improbabile», secondo Brusaferro, possa essere trasmessa «con i cibi confezionati, anche se non si può escludere». Per Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano, l’audio è una fake news, «perché la carica virale in quel caso è irrisoria». Ma i dubbi restano. Anche perché finora nessuno ha smentito in maniera definitiva due studi, uno tedesco e l’altro cinese, sulla persistenza del virus fino a 9 giorni su acciaio, plastica e vetro, e sulla distanza di sicurezza fra persone a quattro metri e mezzo, con carica virale attiva per mezz’ora. Casi forse rari, comunque contestati dagli studiosi italiani, a cominciare dal responsabile delle Malattie infettive dell’Iss Giovanni Rezza, secondo il quale la via del contagio rimane quella respiratoria e non da superfici contaminate. È comunque fondamentale, riprende Brusaferro, «garantire un’igiene adeguata delle mani e di quello che viene toccato». Indumenti e scarpe compresi. Sempre dal direttore dell’Iss arrivano poi chiarimenti sull’uso di mascherine e guanti alla guida di un veicolo: «Se si è da soli non ha senso indossarli, come per chi fa sport all’aperto - avverte -. In compagnia, con persone con sintomi, invece proteggono».

Nessuno ci dice che le finestre (piano strada che si affacciano sul marciapiede con l'andirivieni di pedoni) sono un veicolo di contagio se sono aperte e poste a poca distanza dal piano lavoro-calpestio. Questo perchè la corrente d'aria porta all'interno le particelle virali integre trasportate da goccioline volatili della saliva che si attaccano alle mucose.

Coronavirus: porte e finestre aperte riducono il rischio di contagio? Fondazioneveronesi.it il 16-03-2020. L'indicazione è quella di far arieggiare la casa almeno tre volte all'ora (almeno 12 se nella stanza è isolato un malato Covid-19).

Inutile il lavaggio delle strade. Quanto è importante far arieggiare la casa e altri ambienti chiusi per ridurre il rischio di entrare in contatto con il Sars-Cov-2? E quale impatto ha la «sanificazione» delle strade? Francesca G. (Siena)

Rispondono Francesco Forastiere (epidemiologo ambientale del Cnr e del King’s College) e Floriano Bonifazi (presidente onorario dell'Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri). Il tema della ventilazione degli ambienti chiusi per prevenire il contagio da Coronavirus è stato finora poco toccato nel dibattito pubblico. Questo perché la trasmissione del virus in questione avviene quasi esclusivamente attraverso due modalità. La più diffusa è il contatto stretto con una persona malata o con un portatore sano del virus. In questo caso, il passaggio del Coronavirus attraverso le goccioline del respiro si concretizza attraverso la saliva, con un colpo di tosse e con uno starnuto. Un’altra possibilità è data dal contatto diretto di due persone: una già infetta e l’altra che lo diventa portando la propria mano a contatto con la bocca, il naso e gli occhi (favorendo così l’ingresso del virus nel nostro organismo). 

IL VIRUS RESISTE NELL'ARIA? Molto meno, invece, si sa del rischio di contagio in un ambiente chiuso, come quello in cui stiamo trascorrendo la totalità delle nostre giornate. Uno starnuto libera nell'aria fino a 2 milioni di goccioline, un colpo di tosse all'incirca 1 milione e il solo parlare a voce alta quasi 3.000. Dal momento che, come già spiegato in un articolo pubblicato su Scienza in Rete, le particelle virali molto piccole (inferiori a 0.1 micron) possono permanere nell’ambiente come aerosol secondario, in una fase in cui tanti aspetti sono in fase di studio è opportuno adottare qualche accortezza. L'esempio più calzante è quello del bacillo della tubercolosi, che mantiene la sua capacità infettante anche nell'aria. Può essere inalato. E, grazie alla sua dimensione, raggiunge le parti più periferiche dei polmoni. 

L'IMPORTANZA DEL RICAMBIO DELL'ARIA. La diffusione dovuta alla persistenza nell’aria - e dalla risospensione delle particelle virali - appare pertanto di cruciale importanza. Diversi studi hanno inoltre dimostrato che la trasmissione aerosolica può essere addirittura dominante all’interno delle abitazioni nelle epidemie influenzali. E tale modalità può spiegare l’effetto a lungo termine del virus dell’influenza di tipo A. Da questa consapevolezza, oltre che dall'impossibilità di indicare al momento quanto il virus eventualmente sopravviva all'esterno, sono nate le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. I consigli delle autorità puntano a garantire un buon ricambio d’aria in tutti gli ambienti di case, uffici, strutture sanitarie, farmacie, parafarmacie, banche, poste, supermercati e mezzi di trasporto. Come? Semplice: aprendo regolarmente le finestre.

COME E QUANTO APRIRE LE FINESTRE. La durata della ventilazione va commisurata alla grandezza dei locali e al numero delle persone presenti. Le principali linee guida internazionali raccomandano 3-6 ricambi all'ora, che devono arrivare fino a 12 se si parla della stanza in cui trascorre l'isolamento una persona infetta. Rispetto alle indicazioni date di consueto, vista l’assenza di traffico, tutte le finestre possono essere aperte per far cambiare l’aria in casa (anche quelle esposte sulle strade trafficate). Ed eventualmente anche per periodi di tempo più lunghi. Per garantire la salubrità degli ambienti domestici, occorre inoltre pulire regolarmente le prese e le griglie di ventilazione dell’aria dei condizionatori (con un panno inumidito con acqua e sapone oppure con alcol etilico 75%). 

REGOLE PIU' STRINGENTI IN UFFICI E SUPERMERCATI. Negli uffici e nei luoghi pubblici, inoltre, è necessario mantenere accesi e in buono stato di funzionamento gli impianti di ventilazione meccanica controllata, controllare i parametri microclimatici (temperatura, umidità relativa, anidride carbonica) ed eliminare il ricircolo dell’aria. Quanto ai filtri, occorre pulirli regolarmente i filtri ed eventualmente sostituirli, se si accerta che ve ne sono di più efficienti. Sarebbe preferibile che anche i negozi - vista l'affluenza, soprattutto i supermercati - in questa fase lascino aperte le porte, al fine di favorire un maggior ricircolo dell’aria.

INUTILE IL LAVAGGIO DELLE STRADE. Quanto alla «sanificazione» di strade, piazze e prati a cui negli ultimi giorni si stanno dedicati molti Comuni, non c’è alcuna evidenza che dimostri una riduzione del contagio da Coronavirus. Le superfici esterne non devono essere spruzzate ripetutamente con disinfettanti perché causa un inutile inquinamento ambientale che può essere evitato senza diminuire la probabilità di contagio. Al contrario, proprio per i motivi elencati all’inizio è indispensabile una sanificazione degli ambienti interni.

Coronavirus, flashmob in finestra? Sì, ma occhio alle distanze. In questi giorni di flashmob da finestre e balconi gli esperti ci mettono in guardia: "Il canto non protegge dal coronavirus perciò bisogna stare attenti a rispettare la distanza di sicurezza che deve essere almeno di un metro". Elena Barlozzari, Sabato 14/03/2020, su Il Giornale. Viviamo nella stagione delle domande. Se persino stringere una mano o abbracciare qualcuno è sconsigliato, allora siamo portati a pensare che il pericolo si annidi ovunque. Il decreto anti-coronavirus ha gettato tutti nell'incertezza, perché le casistiche sono così variegate da non poter essere racchiuse tutte quante in un formulario. Ci sono sempre nuovi interrogativi che nascono con il passare delle ore e l'evolversi degli eventi. Ma facciamo un passo indietro. Ieri in tanti hanno risposto all'emergenza coronavirus lanciando un messaggio di unità nazionale. C'era tutto il Paese affacciato alla finestra a intonare l'Inno di Mameli. Ed è stato grandioso e commovente. Passata l'emozione, però, qualcuno si è domandato: "Ma è sicuro? Il governo ha raccomandato di non accalcarci eppure ieri eravamo tantissimi". E ancora: "Ma la distanza di sicurezza tra persone che cantano non dovrebbe essere maggiore?". Dubbi che non sono poi così bizzarri, visto che il Covid-19 si trasmette attraverso quelle che in gergo tecnico si chiamano "droplet", ossia goccioline di saliva nebulizzate. Basta guardare alcuni dei video circolati su Facebook in queste ore per rendersi conto che in parecchi casi le persone si sono ritrovate a strettissimo contatto. C'è da proccuparsi? Secondo il professor Roberto Cauda, direttore del dipartimento malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, "il canto di per sé non amplifica le emissioni di droplet perché non equivale né a un colpo di tosse né ad uno starnuto". "Perciò - assicura il professore - non occorre tenere una distanza interpersonale maggiore di quella indicata dal decreto del governo". "Tuttavia - chiarisce l'esperto - anche in occasione di queste iniziative bisogna muoversi con cautela, stando attenti a rispettare la distanza di sicurezza che deve essere almeno di un metro". Il consiglio, quindi, è di "valutare le condizioni architettoniche e ambientali che ovviamente variano da caso a caso". Qualora la conformazione degli edifici non permetta di rispettare le prescrizioni anti-contagio l'esperto è categorico: "Meglio astenersi". Le iniziative spontanee che in questi giorni stanno nascendo in tutto il Paese non presenterebbero criticità particolari neppure per il professor Antonio Clavenna, del dipartimento di salute pubblica dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. "Soprattutto perché gli ambienti aperti riducono il rischio di contagio". Attenzione però: "Anche in questa circostanza è fondamentale rispettare la distanza di sicurezza", sottolinea Clavenna. Più di un metro? "Più di due". Cantare, insomma, non è peccato. Per molti è un antidoto, per altri è nostalgia di Sanremo, ma di certo non ti protegge dal virus.

Coronavirus, ambienti chiusi: come tenere alla larga il contagio. Consigli Iss: dalle finestre alla pulizia. Corrieredellumbria.corr.it il 12.03.2020. Coronavirus e ambienti chiusi. Cosa è meglio fare per allontanare il rischio contagio. L'Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato nella giornata di oggi, giovedì 12 marzo, sul suo sito, dei suggerimenti per tenere lontano il  Covid-19. Ricambio d’aria, prodotti di pulizia e i sistemi di ventilazione, a cura del Gruppo di studio nazionale inquinamento indoor dell’Iss.

FINESTRE "Aprire regolarmente le finestre scegliendo quelle più distanti dalle strade trafficate. Non aprire le finestre durante le ore di punta del traffico e non lasciarle aperte la notte; e ottimizzare l’apertura in funzione delle attività svolte", suggeriscono gli esperti.

PULIZIA  Igienizzare i diversi ambienti, materiali e arredi utilizzando acqua e sapone o alcol etilico 75% o ipoclorito di sodio 10%. In tutti i casi le pulizie devono essere eseguite con guanti e/o dispositivi di protezione individuale. Non miscelare i prodotti di pulizia, in particolare quelli contenenti candeggina o ammoniaca con altri prodotti. Sia durante che dopo l’uso dei prodotti per la pulizia e la sanificazione, arieggiare gli ambienti", dicono dall'Iss.

IMPIANTI VENTILAZIONE "Pulire regolarmente le prese e le griglie di ventilazione dell’aria dei condizionatori con un panno inumidito con acqua e sapone oppure con alcol etilico 75%. Negli uffici e nei luoghi pubblici: gli impianti di ventilazione meccanica controllata (Vmc) devono essere tenuti accesi e in buono stato di funzionamento. Tenere sotto controllo i parametri microclimatici (ad esempio la temperatura, l'umidità relativa, e la CO2). Negli impianti di ventilazione meccanica controllata (Vmc) eliminare totalmente il ricircolo dell’aria. Pulire regolarmente i filtri e acquisire informazioni sul tipo di pacco filtrante installato sull’impianto di condizionamento ed eventualmente sostituirlo con un pacco filtrante più efficiente".

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Ma quanto vive il coronavirus sulle superfici, sui vestiti, sui giacconi, sulle scarpe? È sicuro rientrare in casa e riutilizzarli, oppure bisogna lavarli subito? O, come viene spiegato da un presunto medico su un audio rimbalzato sulle chat, la malattia rimane viva nove ore sull' asfalto e quindi resta anche sulle suole? Domande che hanno innescato ieri un dibattito ampio, sui social e non solo. Anche perché fra le superfici incriminate ci sono anche le buste della spesa, i cibi confezionati e non, che in questi giorni di isolamento forzato per gli italiani sono fra i pochi pericoli provenienti dall'esterno. Sull'argomento è intervenuto il presidente dell' Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro per il quale non solo una costante pulizia con disinfettanti, ma anche gli agenti atmosferici - sole e pioggia - possono abbattere la presenza del coronavirus sugli oggetti. Una malattia che tuttavia «è altamente improbabile», secondo Brusaferro, possa essere trasmessa «con i cibi confezionati, anche se non si può escludere». Per Fabrizio Pregliasco, virologo dell' Università di Milano, l' audio è una fake news, «perché la carica virale in quel caso è irrisoria». Ma i dubbi restano. Anche perché finora nessuno ha smentito in maniera definitiva due studi, uno tedesco e l' altro cinese, sulla persistenza del virus fino a 9 giorni su acciaio, plastica e vetro, e sulla distanza di sicurezza fra persone a quattro metri e mezzo, con carica virale attiva per mezz' ora. Casi forse rari, comunque contestati dagli studiosi italiani, a cominciare dal responsabile delle Malattie infettive dell' Iss Giovanni Rezza, secondo il quale la via del contagio rimane quella respiratoria e non da superfici contaminate. È comunque fondamentale, riprende Brusaferro, «garantire un' igiene adeguata delle mani e di quello che viene toccato». Indumenti e scarpe compresi. Sempre dal direttore dell' Iss arrivano poi chiarimenti sull' uso di mascherine e guanti alla guida di un veicolo: «Se si è da soli non ha senso indossarli, come per chi fa sport all' aperto - avverte -. In compagnia, con persone con sintomi, invece proteggono».

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 16 marzo 2020. Al mercato, dal panettiere, dal fruttivendolo, i soldi continuano a passare di mano in mano, spesso dalle stesse mani che incartano ciò che mangeremo, e noi senza accorgercene portiamo in casa il microscopico, subdolo nemico. Oggi davvero il denaro è lo sterco del diavolo.

Coronavirus, quanto sopravvive su scarpe, asfalto, acciaio e altre superfici? Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Quanto può resistere il Sars-Cov2 sulle superfici? E quanto è davvero pericoloso? Sta girando sui social un audio in cui si suggerisce di utilizzare un solo paio di scarpe per uscire, con l’invito a lasciarle fuori dalla porta di casa una volta utilizzate perché il virus riuscirebbe a rimanere vivo per 9 giorni sull’asfalto. L’audio con il suggerimento sta facendo il giro delle chat di tutta Italia, ma il virologo dell’università Statale di Milano Fabrizio Pregliasco spiega: «È vero, il virus può sopravvivere qualche giorno, ma lo ribadiamo, con una carica virale irrisoria. Lo sporco, creando un biofilm, fa da barriera protettiva a virus e batteri: il grasso della sporcizia, quindi anche quella che troviamo per strada, crea l’ambiente ideale per i virus, compreso Sars-Cov2. Ma parliamoci chiaro: è molto improbabile che si calpestino droplets infetti di qualcuno che ha tossito o starnutito per strada e che poi si tocchi con le mani la suola delle scarpe per poi mettersi le mani nel naso o in bocca. Dobbiamo essere realisti. Più facile che una situazione del genere avvenga come abbiamo detto con superfici come maniglie, appigli della metropolitana, pulsanti degli ascensori. La parola d’ordine resta un’igiene accurata delle mani e la pulizia degli ambienti perché una buona igiene neutralizza i virus». Il responsabile delle Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità Giovanni Rezza, ribadisce ancora una volta che la via del contagio principale rimane quella respiratoria e non da superfici contaminate. Quindi il consiglio è non farsi prendere dalle ansie da superfici, piuttosto mettere in atto il distanziamento sociale di almeno un metro, come più volte ribadito e se non si ha un fazzoletto, tossire nell’incavo del gomito piuttosto che mettersi la mano davanti alla bocca per evitare di contaminare le superfici toccandole con le mani infette. In molti ancora si stanno chiedendo che cosa fare degli oggetti che si comprano al supermercato. Devo disinfettare tutto? Se acquisto una busta di prosciutto devo lavarla per non rischiare di contaminarmi? «Intanto dovrei avere la sfortuna che qualcuno ci abbia tossito sopra quindi, come su tutte le superfici vale sempre la stessa cosa: non devo mettermi le mani in bocca e le mani vanno lavate spesso. Non ritengo necessario disinfettare la busta di plastica» aggiunge Pregliasco.

E i vestiti? «Anche qui - aggiunge il virologo- non esageriamo con le paure. Se proprio uno si vuol sentir sicuro può esporre il giaccone all’aperto, ma mi pare una precauzione superflua. Per far sì che ci sia una contaminazione qualcuno dovrebbe aver lasciato le famose goccioline sul cappotto che poi io tocco con le mani, che mi porto in bocca...già mi sembra improbabile, ma se mai dovesse avvenire è perché mi sono avvicinato troppo a qualcuno e oggi è raccomandato di mantenere un metro di distanza». Anche il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro è intervenuto sull’argomento superfici sostenendo che «la possibilità che il coronavirus si trasmetta attraverso gli oggetti , compresi i cibi confezionati è una possibilità che non possiamo escludere ma è altamente improbabile». I dati, ha spiegato «mostrano come il virus può sopravvivere da qualche ora a qualche giorno laddove queste superfici rimangano completamente protette o non vengano esposte a pulizia, a opere di disinfezione o a fenomeni naturali come sole e pioggia. Ma sappiamo anche che è molto sensibile ai disinfettanti a base di cloro e alcol e che si trasmette attraverso droplets o contatto attraverso mano». Uno studio pubblicato tempo fa aveva evidenziato una sopravvivenza potenziale addirittura di 9 giorni, ma con carica virale del tutto irrisoria. Un’altra ricerca pubblicata su Jama aveva mostrato l’entità della contaminazione da coronavirus quando si è in presenza di un paziente infetto con sintomi importanti mostrando le superfici più a rischio (ma tutti i campioni risultavano negativi dopo un’accurata pulizia). I campioni dell’aria risultavano puliti: non contenevano cioé, senza starnuti e tosse in quel preciso momento, le famigerate goccioline che trasportano il virus, ma che dopo poco si posano. Ora un nuovo studio in via di pubblicazione sul New England Journal of Medicine ma condiviso dagli scienziati mette a confronto la sopravvivenza sulle superfici dei virus Sars e Sars-Cov2 ed evidenza che i due coronavirus su questo aspetto sono molto simili ed entrambi mostrano una notevole calo della carica virale a distanza di qualche ora. L’esperimento realizzato da ricercatori del National Institutes of Health ha confermato che Covid-19 può resistere fino a 3 giorni su superfici come plastica e acciaio (6.8 ore in media su plastica, 5.6 su acciaio). Dopo 4 ore invece non c’è traccia del virus sul rame, mentre sul cartone può resistere fino a 24 ore. Su tutte le superfici però c’è un decadimento esponenziale della carica virale che diventa sempre meno efficace dal punto di vista infettivo. I ricercatori hanno poi spruzzato il virus in un ambiente chiuso constatando che può restare nell’aria fino a tre ore con una carica virale dimezzata un’ora dopo. Ma attenzione, sono gli stessi studiosi che precisano che le prove di laboratorio non coincidono sempre con la realtà: in caso di tosse e starnuti i droplets sono pesanti e cadono al suolo, annullando la possibilità di contagio. Allora possiamo salire in ascensore senza ansia? «Sì,le goccioline emesse da una persona contagiosa si depositano a terra, la possibilità di contagio per contatto è la stessa che in metro o in altri luoghi per questo la raccomandazione resta non mettersi le mani in bocca dopo aver toccato qualunque superficie e lavarsi spesso le mani. Naturalmente l’importante è che in ascensore si vada uno alla volta». Gli scienziati concludono però che la vitalità del nuovo coronavirus non spiega la sua rapida diffusione dal momento che anche Sars aveva le stesse caratteristiche ma nel 2003 non si è diffusa così tanto.

·         La sanificazione degli ambienti.

Dal blog di Andrea Salvadore, americanatvblog.com il 27 maggio 2020. “È ancora notte ma dobbiamo essere i primi ad entrare e quindi, in silenzio, usciamo dal furgone. Accendiamo la prima sigaretta e la fiamma dell’accendino ci illumina il viso, che nasconde la preoccupazione. Ci fermiamo un attimo, al cancello, soffiandogli contro il fumo, come per stemperare la tensione. Guardo i miei compagni, sorrido e sono ricambiato: questo basta per riportarci al rituale della nostra professione. Ci allacciamo le scarpe, poggiandole sul paraurti del furgone, entriamo nella tuta dityvek, come bianchi fantasmi, ci allacciamo a vicenda le maschere (stringendole anche troppo) guanti blu e copriscarpe. Infine alziamo gli ULV: la vestizione è stata completata. Ci aprono le porte a distanza, in sicurezza, ed entriamo.” Così scrive Daniele, 35 anni, nato a Como e cresciuto a San Giuliano Milanese. Lavora nella sanificazione a Singapore dal gennaio di quest’anno, dopo esperienze in Italia e in Myanmar. Carlotta, cooperante italiana oggi in Tunisia, ha incontrato Daniele a Yangon, in Myanmar e mi ha dato il suo contatto. Continua Daniele. “Un giorno mentre mi si scaricava la batteria del lettore CD partecipai ad un gioco investigativo di patologia vegetale applicata. Mi divertiva. Da sintomatologie e stagioni diverse, dovevo capire quale fungo, insetto o batterio avesse infettato la pianta e agire in tempo prima che la situazione diventasse irreversibile. È lì che è iniziato il gioco di approfondire non tanto le piante quanto i patogeni, capire come funzionavano e come influivano sui processi della pianta. E più studiavo, più capivo e più mi piaceva. Una volta diplomato mi sono ritrovato tra le mani uno strano corso di laurea titolato “Protezione delle piante”. Venti iscritti al primo anno. Cinque rimasti alla fine. Più che un corso di laurea erano lezioni private. Di mattino seguivo i corsi e la sera lavoravo al McDonalds. Il giorno dopo la laurea ho cominciato a lavorare per una multinazionale della disinfestazione e disinfezione come stagista dell’ufficio tecnico. All’epoca il settore era in fase di espansione e serviva inserire laureati per dare una parvenza scientifica a quelli che fino a qualche tempo prima erano chiamati “Ciaparat”. Assunto a tempo indeterminato dopo 3 anni ero il più giovane Area Manager della storia dell’azienda. A soli 28 anni gestivo 5 milioni di euro di fatturato e più di 50 persone, tutte più grandi di me. Un lavoro infernale, 24 ore su 24 per cercare di essere all’altezza delle aspettative. E uno stipendio da fame. Ma era l’estero il mio obiettivo, specialmente il terzo mondo. E cosi inviai un curriculum ad una azienda australiana che cercava un Service Manager da piazzare nella loro filiale in Myanmar. Io non sapevo neanche dove fosse il Myanmar. Dopo un mese ero Operation Manager e dopo tre mesi Country Manager, responsabile di tutto il paese. E così sono entrato in tutte le “dark sides” del Myanmar, e più erano dark e più mi incuriosivano. Dal retro degli alberghi a 5 stelle infestati da scarafaggi a supportare la costruzione di villaggi turistici in isole vergini dove è normale che gli operai vengano attaccati da serpenti volanti o sciami di zanzare oppure negli slums che circondano i quartieri dei ricchi, dove i bambini vengono partoriti in casa e le case sono palafitte costruite sopra tappeti di rifiuti e ancora zanzare. Dopo un paio di anni avevo capito che il mio tempo in Myanmar era esaurito. E cosi ho cercato ancora. Tornare a casa sarebbe stata una buona idea ma ho ricevuto tante offerte con progetti incredibili e poi quando si andava a parlare dello stipendio finiva sempre con “tranquillo che tanto poi si vedrà”. E così i giochi si decisero su tre fronti. Una multinazionale a Trinidad e Tobago, un progetto come Pest Control Division Manager in Cambogia o Operation Manager a Singapore. Ero seduto sulla navetta Orio al Serio – Milano piazza Duomo e ad un tratto il cellulare si illuminò. Mail – da Winston Baptista – Singapore – “si e’ liberato il posto per cui lei ha inviato l’application”. Nell’esatto momento in cui stavo leggendo il messaggio e il mio cuore incominciava a palpitare, tra paura ed eccitazione, dalle casse della radio centralizzata dell’autobus è partita una vecchia canzone degli anni 70, che non avevo mai sentito prima, “Singapore vado a Singapore, vi saluto care Signore”. I Nuovi Angeli. Passai il doppio colloquio e il primo di gennaio ero su un aereo Milano-Singapore. Dopo 15 giorni e’ arrivato il Coronavirus  ed è partita questa guerra in prima linea. Dopo una prima ondata , che sembrava completamente domata, ad aprile è arrivata la seconda a Singapore e ha colpito i dormitori dei lavoratori stranieri. Immense strutture localizzate nelle periferie di Singapore dove indiani, bengalesi e cingalesi sono “alloggiati” dalle aziende dell’industria delle costruzioni di Singapore, che lavorano ad esempio per la metropolitana. Nei dormitori sono ammassati in 290.000. L’infezione pare sia partita al Mustafa Center nella Little India, centro di ritrovo per la comunità indiana, le domeniche. Da lì la trasmissione all’interno dei dormitori dove si condividono stanze, bagni e cucine è stato un attimo, arrivando ad oggi alla stima di circa 31.000 casi, in aumento di 800 al giorno. Il governo di Singapore ha messo in quarantena i dormitori (divisione personale sano da quello malato e controllo degli accessi per evitare eventuali fughe) obbligato i datori di lavoro a verificare lo stato igienico sanitario dei luoghi in cui abitano e fatto partire le campagne di disinfezione delle aree in quarantena. Noi siamo stati chiamati ad operare in queste zone rosse. Entriamo giornalmente con circa 7-12 uomini su 4/5 dormitori/giorno, e in ogni dormitorio rimaniamo dalle 2 alle 3 ore con break ogni ora e un quarto per respirare e bere acqua in aree “sicure” (l’area sicura la creiamo al momento dell’arrivo sanificando una zona dove nessuno può accedere). Ad ogni ingresso seguiamo i protocolli da guerra batteriologica (vestizione, maschera facciale, guanti, copriscarpe – trattamento come ULV e pulizia delle zone ad alto rischio -decontaminazione prima di uscire e ancora decontaminazione del veicolo mentre tutto il materiale “usa e getta” viene smaltito).” Ho chiesto poi a Daniele del costo della vita a Singapore e come se la cava. Mi ha detto che se si vive come un local va bene, cioè mangiando indiano, cinese, malesiano, prendendo mezzi pubblici (“efficienti e convenienti, circa 90 centesimi”) e affittando una stanza in un “bel condo di Little India per circa 850 euro al mese”. C’è poi il lusso “birretta (alcolici cari) che costa 7 dollari locali”. Scrive altro Daniele, che dice di “essere impacciato con le parole scritte”. A me non sembra. Il suo racconto, da San Giuliano Milanese a Singapore, allarga lo sguardo su questo virus viaggiatore. Ci dice come colpisce, in misura maggiore, le comunità più fragili. Quelle che convivono nelle metropoli che erano, per tutti noi, proiettate nel futuro. Una storia globale.

Uccidere virus e batteri? Ecco lo ione d’argento: funziona anche in ospedale. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Diana Cavalcoli. La tecnologia può essere un alleato strategico nella lotta al coronavirus. Lo ha dimostrato Abet Laminati spa, azienda di Bra in provincia di Cuneo, che ha progettato un innovativo rivestimento antibatterico, oggi utilizzato nelle sale operatorie e nei reparti di terapia intensiva dove si combatte Covid-19. Con 6 filiali commerciali in Italia e 13 estere, l’impresa è un punto di riferimento sul territorio: conta oltre 1000 dipendenti, produce oltre 21 milioni di metri quadrati annui di laminato plastico per un fatturato di 190 milioni di euro. Nei giorni della lotta a Covid-19, Abet ha messo a punto un laminato hi tech che si sta dimostrando efficace nel contenere la diffusione di virus e batteri. Tanto che in Grecia Axis Medical, società che si occupa della costruzione di sale operatorie, ha sviluppato un’unità mobile «anti-covid» a pressione negativa utilizzando proprio la proposta di Abet che sfrutta il trattamento agli ioni d’argento. Come spiegato dall’azienda «gli ioni di argento iniettati all’interno della struttura a sandwich del materiale riducono la presenza batterica del 99,9%». Il tutto in combinazione con una buona igiene e pratiche di pulizia costanti. «Abbiamo investito - ha spiegato Ettore Bandieri, ceo di Abet - nella tecnologia agli ioni d’argento e siamo riusciti a includerla praticamente in tutti i nostri laminati». Utilizzando questa soluzione hi tech, il rivestimento può diventare uno strumento utile nella lotta alla contaminazione incrociata in ospedale, che si verifica attraverso il passaggio di virus da superfici e utensili alle mani. «Non ci aspettavamo che il nostro prodotto diventasse così drammaticamente richiesto, ma siamo orgogliosi di essere ora in grado di supportare qualsiasi esigenza e necessità clinica in Italia e nel mondo», conclude.

Leonardo Marisol per “Libero quotidiano” il 13 maggio 2020. La sanificazione degli ambienti rappresenterà uno dei fattori determinanti del futuro. E un sicuro business da centinaia di milioni. La pandemia globale ci ha sbattuto in faccia tutte le fragilità di contaminazione alle quali possiamo andare incontro. Virus, batteri, polveri sottili, fattori inquinanti vari. Ce ne è abbastanza per sbarrarsi in casa e non uscire più Ma neppure basterà chiudersi a doppia mandata, visto che ormai si combatte con "nemici" impalpabili e microscopici. Aziende, attività esercizi pubblici e pure residenze si stanno attrezzando si stanno già attrezzando per garantire un' accoglienza a prova di contaminazione. E non sarà un problema che riguarda solo le attività imprenditoriali e d' ufficio. Forse proprio la prolungata permanenza degli ultimi mesi tra le mura di casa propria ha smosso pure gli italiani a considerare come prioritaria la qualità dell' ambiente dove si vive e dove "proteggere" la propria famiglia.

Tecnologie avveniristiche. L'ultima frontiera tecnologica (e d' avanguardia) per garantire, purificare e sanificare l' aria che respiriamo è rappresentata da piccole macchine che possono contribuire a diminuire il rischio della diffusione di virus e batteri. Macchinari - nelle diverse versioni e capacità di filtraggio - adatti sia all' uso domestico che professionale. Da installare agevolmente anche in ospedali, uffici, hotel e locali pubblici, è rappresentato da un ventaglio di tecnologie che probabilmente ci aiuteranno già nella cosiddetta "fase 2" e soprattutto dopo, nella futura convivenza. Le aziende italiane attive nel settore puntano soprattutto sulla qualità delle prestazioni e sull' aspetto di design per combattere la concorrenza dei competitor cinesi. Ma il vero made in Italy - per l' effetto traino di questo momento particolare - potrebbe letteralmente esplodere nei desideri degli italiani. La Olmar1957 di Padova ha messo a punto degli apparecchi domestici e professionali che consentono la sanificazione ad ozono unita alla purificazione con ioni d' argento AG+. L'ozonizzazione dell' aria permette di eliminare batteri e virus. E consente di diminuire la carica batterica e virale in ambienti chiusi. Utilizzando, poi, la tecnologia cosiddetta a Raggi Infrarossi Lontani (Fir), il sistema messo a punto da Olmar permette di riscaldare direttamente i corpi solidi, senza spostamento dell' aria, così da limitare anche il rischio di diffusione o trasmissione del Covid 19.

Ristrutturazioni sostenibili. Gli incentivi pubblici per le ristrutturazioni eco sostenibili (con sconti spalmati in 10 anni fino al 110% della spesa sostenuto), che il governo si appresta a varare, potrebbero fare da volano all' adozione diffusa dei sistemi di ozonizzazione per sanificare e purificare l' aria. Per altro adottando i nuovi sistemi di riscaldamento con pannelli ad infrarossi si abbattono notevolmente le emissioni dannose, consentendo di migliorare non solo la qualità della vita e di risparmiare sui costi di gestione. La possibilità di installare apparecchi domestici - senza grandi lavori di ristrutturazione - offre la facoltà di migliorare immediatamente la qualità e la sanificazione degli ambienti. Dando anche risposta immediata - con i modelli professionali più potenti - alle necessità delle attività aperte al pubblico che dovranno nelle prossime settimane prevedere sistemi di depurazione (io userei bonifica) certificati per la clientela se vogliono ripartire con l' attività.

Sanificazione Uv allo Xeno, parte a Napoli la sperimentazione più efficace contro il Covid-19. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2020. L’Università Federico II di Napoli scende in campo e dà avvio alla prima sperimentazione italiana di un innovativo sistema di sanificazione degli ambienti potenzialmente contagiati da Covid-19, ed in particolare gli ospedali. A tenerla a battesimo saranno, giovedì 14 maggio a partire dalle ore 10.30 nell’Edificio 19 dell’Azienda Ospedaliera, Maria Triassi (ordinaria della Cattedra di Igiene Generale ed Applicata del Dipartimento di Sanità pubblica c/o la AOU) e, per la Sams sanificazioni per ambienti sicuri l’AD Giovanni Gentile ed il direttore generale Marcello Gentile nonché la biologa Antonietta Rossi. La prima giornata di lavori previsti nel protocollo di studio e sperimentazione che la Sams ha offerto gratuitamente all’università federiciana mirerà infatti a presentare una tecnologia in grado di sterminare il Covid-19 (nonché tutti gli altri agenti patogeni quali virus, batteri funghi, spore ecc) con l’ausilio di Luce ultravioletta allo Xeno: diversi studi descrivono tecniche di disinfezione no-touch (tramite utilizzo di prodotti biocidi e/o onde elettromagnetiche) utilizzate per distruggere e/o inattivare i microrganismi patogeni nell’ambiente. L’irradiazione con UV è una delle tecniche più comuni con effetto altamente germicida. Alcuni studi descrivono una riduzione del rischio di infezioni correlate alle pratiche assistenziali in strutture sanitarie dove sono utilizzate le radiazioni UVC a 254 nm. Invece, non ci sono ancora molti studi a supporto dell’efficacia appunto dei trattamenti con Luce ultravioletta allo Xeno. Sulla base di questo assunto, l’Unità di Ricerca di Igiene Medicina Preventiva e Statistica Sanitaria diretta dalla Triassi effettuerà dei controlli microbiologici ambientali su aria e superfici di ambienti sanitari, finalizzati alla verifica di efficacia di un sistema fisico di disinfezione ambientale a luce pulsata con lampada UV-C allo xeno. Tale sperimentazione verrà attuata in stanze dove hanno soggiornato pazienti Covid-19 positivi e consisterà nell’applicazione di lampade allo Xeno a seguito della procedura di sanificazione routinaria. I prelievi verranno effettuati su superfici critiche (high touch surface, tastiere, maniglie, porte, lavandini, water..) e aria prima della sanificazione, dopo la sanificazione e dopo il trattamento con lampade allo Xeno UV-C e verranno ripetuti con cadenza settimanale per una durata di 22 giorni. Sia sulle superfici che nell’aria verrà effettuata la ricerca della carica batterica totale, la carica micotica, la ricerca di Gram positivi e Gram negativi in conformità alle norme tecniche ISO. Sulle superfici verrà effettuata inoltre, la ricerca di Covid-19 mediante tecniche di biologia molecolare (RT-PCR). Le prove di efficacia di tali lampade verranno eseguite anche presso il laboratorio di Microbiologia dell’Unità di Ricerca di Igiene Medicina Preventiva e Statistica Sanitaria e saranno condotte da un equipe di microbiologi composta da Francesca Pennino, Tonia Borriello e Carmela Iervolino. I campionamenti verranno effettuati su superfici precedentemente contaminate con ceppi batterici a titolo noto. Verranno utilizzati microrganismi tra i quali Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, Staphylococcus aureus, responsabili di oltre la metà delle infezioni gravi che si registrano negli ambienti nosocomiali. I risultati ottenuti potranno essere utili per definire protocolli di sanificazione efficaci per la riduzione delle infezioni correlate all’assistenza e per garantire una maggiore sicurezza agli operatori sanitari. La sperimentazione nelle giornate successive proseguirà anche in 2 strutture sanitarie della Campania e, preferibilmente, in Centri COVID. L’efficacia dei dispositivi della SAMS è stata già dimostrata in test clinici effettuati presso i laboratori dell’Istituto di Virologia D. I. Ivanovsky del Ministero della Salute della Russia, che ne attestano l’efficacia sul Covid – 19 ma mai nessuno aveva effettuato test in nosocomi. Questi progetti di sanificazione – spiega Marcello Gentile – sono studiati ad hoc e vengono costantemente monitorati per essere adeguati in caso di variazione delle condizioni iniziali, i dispositivi sono altamente performanti e ciò consente di poter certificare l’avvenuta e corretta sanificazione con cognizione di causa. Stiamo avviando rapporti di collaborazione con altri operatori del settore per la creazione di una rete di sanificatori di fiducia, che ci consentirà a breve di allargare il servizio nelle altre regioni. I vantaggi delle sanificazioni computerizzate, rispetto agli altri sistemi di sanificazione, sono l’efficacia del 99,9% dell’azione biocida nei confronti del covid 19 e di tutti gli agenti patogeni; la completezza della sanificazione: il fascio di luce delle radiazioni ultraviolette si propaga in tutto l’ambiente di lavoro e colpisce, necessariamente, tutta l’aria e tutte le superfici presenti senza possibilità che alcune di esse vengano lasciate senza trattamento; la rapidità di intervento: l’intervento dura da pochi secondi ad alcuni minuti a seconda delle caratteristiche dell’ambiente da sanificare; la non invasività dell’intervento: Il trattamento non lascia residui da agenti chimici o gassosi che, nel tempo, potrebbero causare danni alla salute umana e compromettere apparecchiature, mobili, arredi e documenti presenti nel locale sanificato nè tantomeno, è necessario lo spostamento degli stessi, inoltre gli ambienti sanificati ritornano immediatamente utilizzabili; la certezza dell’intervento: le macchine sono dotate di un sistema di Reporting e controllo sui cicli di sanificazione che consente di riscontrare data, ora, luogo, operatore, cliente, stanza trattata e ciclo di sanificazione impostato, consentendo così di dimostrare sia il lavoro eseguito in ogni stanza dell’immobile che il rispetto del progetto di sanificazione ad hoc studiato; l’accessibilità per tutti al servizio: per ogni immobile viene stilato un progetto di sanificazione che viene elaborato prendendo in considerazione una serie di parametri, quali l’attività, le dimensioni, i materiali trattati, i rifiuti prodotti, le condizioni in cui si opera ecc ecc.; lo studio è finalizzato ad attribuire ad ogni immobile un indice di rischio di contagio (alto medio basso) da agenti patogeni; sarà quindi scelto per ogni stanza il tipo di trattamento da eseguire e determinato di conseguenza il costo della sanificazione; ovviamente più basso è tale indice minori costerà il trattamento. Il progetto di sanificazione indicherà anche la cadenza con cui saranno da ripetere i trattamenti. La tecnologia utilizzata dai dispositivi della SAMS consiste nell’utilizzare raggi UV-C pulsati generati da una lampada che utilizza una miscela di gas a base xeno che irradia, con una luce UV-C, un ampio intervallo di spettro germicida (200nm-300nm), provocando la distruzione di germi, batteri, virus, funghi e spore attraverso l’interazione con Dna/Rna grazie a diversi meccanismi di distruzione cellulare. La luce pulsata dei raggi ultravioletti UV-C danneggia il materiale genetico (DNA, RNA) degli agenti patogeni. La luce pulsata dei raggi ultravioletti UVC passa attraverso le pareti cellulari di batteri, virus e spore batteriche. Il DNA, l’RNA e le proteine all’interno del microrganismo assorbono questa intensa energia. Il dispositivo provoca quattro meccanismi di danno contro gli agenti patogeni: foto idratazione (inibizione del funzionamento del DNA e RNA); foto divisione (distruzione dei filamenti del DNA); fotodimerizzazione: danno ai legami del Dna; foto-Crosslinking (danno alle pareti cellulari e lisi). L’elevata attività virucida della radiazione ultravioletta pulsata con spettro continuo è già stata confermata pienamente efficace contro il virus covid 19 dallo studio eseguito in Russia. L’impiego è estremamente rapido e veloce: tramite semplici protocolli, inoltre, è possibile assicurare anche la disinfezione di apparecchiature, arredi e qualsiasi altro materiale presente negli ambienti, per i quali non si ha assoluta garanzia di disinfezione con i metodi di pulizia tradizionali. La particolare tecnologia, di origine russa, e già da molto tempo utilizzata in molti ospedali nel mondo ed è stata sperimentata, anche recentemente, per la sanificazione di alcuni ospedali italiani. I dispositivi della SAMS possono essere utilizzati per la completa sanificazione di tutti i tipi di gli ambienti come ospedali, alberghi, capannoni, impianti sportivi, uffici, abitazioni ecc ecc. I programmi di sanificazione della SAMS vanno comunque abbinati alle tradizionali attività di pulizia e/o disinfezione ad oggi eseguite in giro, in quanto provvedono all’effettivo sterminio di tutti gli agenti patogeni presenti sia nell’aria che su tutte le superfici degli ambienti trattati; i limiti delle tradizionali attività di pulizia e disinfezione, sia in termini di prodotti utilizzati che alla necessità di affidarsi alla manualità ed alla maggiore o minore ‘discrezionalità’ delle squadre di intervento non danno infatti alcun tipo di garanzia e di sicurezza sull’efficacia dei trattamenti eseguiti ma se eseguiti in abbinamento con i trattamenti studiati dalla SAMS concorrerebbero a garantire una perfetta sanificazione degli ambienti. A livello più professionale le sanificazioni a mezzo dei dispositivi della SAMS possono contribuire alla diminuzione delle morti a causa delle ICA (infezioni correlata all’assistenza) che tanto affliggono i nosocomi di tutto il mondo. Solo in Italia (fonte dei dati ANMDO/2019 e ECDC- European Center for Desease Control and prevention) i casi di infezioni ospedaliere si attestano sui 550.000/600.000 all’anno, oltre il 6 % sul totale dei ricoverati in strutture ospedaliere. Di tutti questi circa l’1% porta al decesso per le conseguenze all’infezione contratta. Parliamo di 5.500/6.000 decessi all’anno, oltre 16 persone al giorno. In Europa i casi di ICA annualmente denunciati sono circa 4,1 mln con oltre 40.000 decessi accertati. La contrazione di ICA di un paziente ricoverato ne prolunga in media la degenza di 15 giorni con un aggravio di costi per la Sanità Pubblica da 6.000 fino a 50.000 per singolo caso e in considerazione del dato di fatto che oltre il 25% delle ICA sono causate da microorganismi antibiotico-resistenti, l’assistenza sanitaria non può garantire la guarigione. Il 50-60 % delle ICA sono di natura indiretta, ovvero le infezioni sono causate per contaminazione ambientale. Una puntuale e costante sanificazione degli ambienti ospedalieri (siti operatori, reparti di terapia intensiva etc.) con strumenti efficaci riduce il rischio infettivo totale dal 45% al 70%. La SAMS si è anche resa disponibile alla sanificazione dei locali utilizzati dagli atleti e dagli addetti ai lavori degli stadi italiani per consentire la ripresa a porte chiuse del campionato italiano di calcio di serie A in assoluta sicurezza. Le squadre dovrebbero provvedere a controllare prima di ogni partita con tamponi e test la positività o meno degli atleti e degli addetti ai lavori mentre l’azienda garantirebbe l’assoluta disinfezione dei locali da utilizzare.

·         Contagio, Paura e Razzismo.

Cina, ingresso vietato agli italiani anche per lavoro. Notizie.it il 06/11/2020. Cina, ingresso vietato per gli italiani. La sospensione è stata annunciata dall'ambasciata di Roma, una misura anti Coronavirus. In Cina è vietato l’ingresso agli italiani, non importa che sia per lavoro, affari o ricongiungimento familiare. Secondo le nuove disposizioni, diffuse dall’Ambasciata cinese nel nostro Paese, per contrastare una nuova insorgenza di Covid vige una temporanea sospensione del flusso in entrata. La nota diffusa dall’Ambasciata specifica che tale misura è stata adottata visto il diffondersi del Covid in Italia. L’unica eccezione riguarda i titolari di visti come quello diplomatico, di servizio, di cortesia, di tipologia “c” e di quelli rilasciati dal 3 novembre 2020 in poi. “La Cina rivedrà le misure in tempo in relazione al mutamento delle circostanze sul Covid-19″, prosegue la nota, “L’Ambasciata e i consolati generali della Cina in Italia non provvedono più i servizi di vidimazione della dichiarazione dello stato di salute ai suddetti richiedenti”. Gli italiani non sono gli unici esclusi dall’ingresso in Cina, da Pechino arriva anche la comunicazione di divieto per chi arriva da Regno Unito e Belgio, Bangladesh e Filippine. Londra ha diffuso una nota dell’Ambasciata cinese in loco, per la quale tale misura ha immediata applicazione, anche se i cittadini posseggono un visto che permette un soggiorno in territorio cinese. Prima di passare a questa stretta sulle misure anti Coronavirus, la Cina aveva deciso che per viaggiare dall’Italia alla Repubblica Popolare Cinese, dal 4 novembre 2020 si sarebbe dovuto portare con sé il risultato di un recente test sierologico e successivo tampone negativi. Per quanto riguarda chi fa ingresso in Cina da Stati Uniti, Germania, Repubblica Ceca e Francia, a partire dal 6 novembre 2020 si dovrà risultare negativi al Covid e a un test per gli anticorpi entro 48 ore dal viaggio. Il giorno dopo l’entrata di queste persone nel Paese, potranno sbarcare i provenienti dalla Danimarca e quello dopo ancora da Australia, Singapore e Giappone.

Alessandro Giorgiutti per “Libero Quotidiano” il 16 ottobre 2020. A inizio febbraio, una ventina di giorni prima della scoperta del "paziente 1" a Codogno, i governatori leghisti del Nord avevano chiesto al governo di isolare per 14 giorni in via precauzionale gli studenti di ritorno dalla Cina. La richiesta fu respinta, i governatori accusati di razzismo. Pochi giorni dopo il presidente della Repubblica visitava a sorpresa la scuola di un quartiere romano «con altissima presenza della comunità cinese», come precisava il profilo Twitter dello stesso Quirinale. Otto mesi dopo a Prato si vive una situazione simile, ma a parti rovesciate. Questa volta è la comunità cinese della città, la seconda d'Italia per numero di persone dopo quella milanese, a tenersi lontana dalle scuole, considerate troppo pericolose, e a carezzare l'idea di classi separate nelle quali autoisolarsi in una sorta di "bolla" sul modello di quella adottata dal basket professionistico americano per portare a termine il campionato. Secondo il Corriere Fiorentino, i cinesi starebbero pensando di ricorrere in massa all'educazione parentale, valendosi della possibilità, offerta a tutti, di ritirare i propri figli dalle scuole e provvedere da sé, o ricorrendo a persone di fiducia, alla loro istruzione. Nel caso in questione, le famiglie si affiderebbero agli insegnanti delle varie scuole pomeridiane di cinese della città. A fine anno scolastico, tutti gli studenti dovrebbero sostenere un esame pubblico. «Si pensa di riconvertire strutture ferme come quelle delle associazioni cinesi per creare una scuola protetta», ha spiegato il consigliere comunale Marco Wong. Le autorità vorrebbero però impedire una fuga di massa dalle scuole pubbliche, e non escludono di ricorrere alla mediazione del Consolato della Repubblica popolare. Il fatto è che tra la comunità cinese di Prato sta montando la paura dei contagi. Il numero degli studenti che non si presenta a lezione si avvicina ormai a un terzo del totale. «Non ci sono ancora numeri ufficiali, ma molti dirigenti scolastici ci segnalano che esiste un elemento di assenze per così dire sospette, non motivate o giustificate in maniera impropria», ha spiegato l'assessore comunale all'immigrazione Simone Mangani. Negli ultimi giorni tra i cinesi c'è stata la corsa al tampone, anche ricorrendo a strutture private. I positivi al coronavirus sono 25, uno dei quali in gravi condizioni. È una novità, perché nella prima ondata dell'epidemia la comunità era stata risparmiata. Generalmente i cinesi hanno una condotta molto più prudente del resto della popolazione. Di qui il timore dei contatti nelle aule scolastiche, dove mantenere il distanziamento è difficile. Sin da marzo ci si è interrogati sui pochi casi di contagi tra i residenti cinesi nel nostro Paese. Francesco Wu, imprenditore e punto di riferimento della comunità cinese di Milano, spiegò al Corriere della Sera come il rispetto delle regole di igiene fosse una questione d'onore: «Io perdo la faccia e la stima se contagio qualcuno perché non ho rispettato le regole sociali che mi avevano imposto». riproduzione riservata.

Razzismo e pandemia. Antonio Angelini il 19 maggio 2020 su Il Giornale. La Scienza da risposte su tutto e, quando non arriva a darcene, consente in ogni caso di osservare ed affrontare il problema, a patto di saper individuare una soluzione utilizzando una sequenza di fatti analizzando attraverso la logica e deduzione di conseguenze. Il popolo Italiano, storicamente, non è un popolo razzista ne è ammissibile oggi affermare che esista a livello istituzionale o para-istituzionale un qualsiasi movimento politico o di opinione che persegua ideologie razziste. Eppure abbiamo visto sul tema immigrazione, ad esempio, l’impossibilità nel nostro paese di esprimere una diversa opinione o anche strategia su determinati eventi, senza essere tacciati di razzismo. L’ultimo incontro si concludeva con un sospeso, ovvero, per quale ragione esiste una ideologia che dichiari “razzista” ogni dubbio legittimo posto su determinate scelte politiche e sociali. In effetti per poter rispondere a questa domanda occorrono altri ragionamenti su altri eventi. La attuale pandemia ci fornisce un altro splendido esempio di valutazione logico deduttiva in tal senso. Peraltro trattandosi di un argomento scientifico ci consente di unire tutti gli aspetti discussi nei nostri tre precedenti incontri. Il punto di partenza è sempre il medesimo, ovvero partire da fatti e trarre delle conseguenze logiche, attraverso le quali un comune cittadino possa farsi delle idee proprie che non siano dati già analizzati da altri od opinioni altrui. E’ fine novembre quando le prime informazioni sul virus, successivamente denominato COV – 19, arrivano dalla Cina, dal noto distretto industriale di WUHAN (una città di 10 milioni di abitanti in una regione di 60 milioni di abitanti..). A Gennaio le notizie ufficiali parlano di una epidemia e della chiusura in quarantena di tutto il distretto, ovvero, come accennato sopra, una regione popolata come l’Italia. Si succedono le notizie sui decessi ed i contagiati (alla fine si parlerà di circa 80 mila contagiati e di circa 3 mila decessi). I fatti, riportati, a cui si deve far riferimento, sono pertanto i seguenti: un virus sconosciuto, la quarantena per una regione di 60 milioni di abitanti chiusa “ermeticamente” e circa 3 mila vittime. In riferimento al virus, a tutt’oggi sconosciuto, molte notizie sono arrivate dalla Cina prima che iniziasse la sua propagazione tra la nostra popolazione; si è parlato fin da subito di asintomaticità, di lungo tempo di incubazione e di decessi contenuti rispetto al numero di contagiati, ma pur sempre con una percentuale superiore alla media delle normali epidemie influenzali (su questo ultimo aspetto sono ancora in corso ampi dibattiti scientifici). In ogni caso, da gennaio il comune cittadino è stato letteralmente bombardato di notizie in un senso e nel senso opposto, ovvero pro o contro la pericolosità di questo virus, anche riportate da illustri scienziati. Per cui come fa una persona comune, senza basi scientifiche, a farsi una opinione legittima su ciò che stava avvenendo e pertanto comprendere anche quel che sta avvenendo ora? Procediamo per gradi. La notizia a cui si deve far riferimento è: virus sconosciuto, chiusura di una regione di 60 milioni di abitanti, 3 mila vittime. Cosa c’è in queste tre informazioni, che non possiamo reputare false, in quanto provenienti da ufficiali fonti Cinesi e riportate da tutte le fonti di informazione mondiali, che possa definire una conseguenza logica dei fatti? Oggi sappiamo che nel nostro paese, tra i più evoluti al mondo dal punto di vista sanitario, vi sono 2 mila decessi al giorno per varie ragioni (età , malattie, incidenti, omicidi etc). Pertanto in che modo una notizia di 3 mila decessi in 4 mesi, in una regione paragonabile alla nostra Nazione in quanto a popolazione, ma presumibilmente non maggiormente protetta e tutelata quanto la nostra da un punto di vista sanitario, ovvero la regione con capoluogo Wuhan, possa rappresentare un allarme, quando, con ogni probabilità, 3 mila decessi in quella medesima regione avverranno in un solo giorno? Inoltre perché le fonti ufficiali parlano di quarantena totale per l’intera popolazione già a gennaio per un virus sconosciuto? Si potrebbe ragionare dicendo che è stata la chiusura ermetica della regione a determinare il limitato numero di contagiati e di vittime. Se questa è l’unica conclusione valida possibile, assumendo per vere tutte le notizie ufficiali provenienti dalla Cina, allora dovrebbe essere lecito chiedersi immediatamente perché nel nostro paese non si siano presi provvedimenti immediati fin da subito, ovvero fin dalla fine di gennaio (31 gennaio data della proclamazione dell’emergenza da parte della OMS e da parte del nostro stesso governo)? La logica è semplice: notizie dalla Cina vere; chiusura immediata ermetica di una regione di 60 milioni di abitanti; allarme sanitario mondiale il 31 gennaio; chiusura nel nostro paese…..a Marzo….perché a marzo e non prima? Il dibattito nei mesi di gennaio e febbraio è stato tutto incentrato non già su aspetti sanitari e scientifici, ma su razzismo e fascismo. Lo ricordiamo tutti e nessuno può eccepire su questo. Si è parlato di “razzismo e fascismo” in un contesto scientifico e sanitario. A fine gennaio ci sono state le elezioni regionali in Emilia Romagna e si parlava di sciacallaggio su chi chiedeva chiusure e chi voleva combattere il virus con la cultura. Per tutto il mese di febbraio si sono moltiplicati gli atti di solidarietà nei confronti di cittadini cinesi, si sono sprecati gli allarmi contro l’allarmismo di chi paventava il pericolo dell’epidemia proveniente dall’est, con aperitivi e cene sociali da parte non solo di rappresentanti politici ma anche da parte di noti, notissimi, opinionisti dei social e della televisione. Come è possibile che per più di un mese il dibattito, per il comune cittadino, si sia fissato non su aspetti scientifici e su acquisire informazioni di dettaglio dalla Cina, ma su chi fosse più o meno razzista? Immaginiamo invece lo scenario opposto, ovvero cambiamo la logica: le notizie dalla Cina “non” sono vere. Quale avrebbe dovuto essere la logica conseguenza di un simile ragionamento? Ovvero, abbiamo un virus dalla Cina ma le fonti governative non sono affidabili. Cosa significa? Che il virus è una montatura o che le informazioni sui decessi e sugli infettati sono state censurate?  Se si valuta una montatura, perché il 31 gennaio aderire all’allarme dell’OMS? Se al contrario si valutano notizie censurate, ovvero il pericolo è molto più grave, perché non dare immediato riscontro all’allarme del 31 gennaio? Quindi in ogni caso, comunque si giri la questione, semplicemente prendendo atto delle notizie “ufficiali” provenienti dal paese che ha lanciato l’allarme, ed in ogni caso, comunque si valutino tali notizie, la conclusione è che il dibattito di gennaio e febbraio, focalizzato sul razzismo invece che su come contrastare l’emergenza, è stato un dibattito assolutamente artificioso e fuori contesto e che non è comprensibile il ritardo nell’intervento di chiusura una volta aderito all’allarme pandemia del 31 gennaio. Anche in questo caso non si fa riferimento a numeri, a dati, ad analisi svolte da altri, alle conseguenze di determinate scelte o meno, ma partendo solo dai “fatti” ufficiali, con un minimo di ragionamento, si arriva ad una conclusione in cui il dibattito sul razzismo non c’entra oggettivamente nulla. La conclusione ulteriore che si dovrebbe trarre da questi “fatti” è che se si ha a che fare con un virus “sconosciuto” l’unica azione che abbia un senso scientifico è di chiudere immediatamente tutte le possibili fonti di infezione. Questo è ciò che la scienza può dire ed è l’unico modo per garantire la non propagazione del virus. Quante volte in questi mesi si è sentito dire “la scienza non da risposte chiare al problema della pandemia”? Nulla di più falso. La scienza la risposta la ha data subito: chiudere tutto subito. Appena questa informazione è stata trasmessa, subito si sono susseguiti infiniti dibattiti tra razzisti ed anti razzisti, tra scienziati ed altri scienziati, tra dittatura sanitaria e libertà di commercio, mischiando tutto ed il contrario di tutto. La domanda cosa si può fare con un virus sconosciuto per evitarne la diffusione ha una sola risposta: chiusura e quarantena. Peraltro è anche l’azione messa in atto “ufficialmente” dalla Cina prima che il virus giungesse nel nostro paese. Quando a questo si replica con problemi economici, non si sta dicendo che la scienza non da risposte, ma che la scienza non da le risposte che ci farebbero più comodo, il che è un aspetto leggermente diverso. Ma quando di fronte a questa empasse si mette in campo anche il problema del razzismo oltre al problema economico, allora il quadro inizia finalmente a farsi più chiaro e prossimo ad una rappresentazione di un sistema sociale distorto. Ma questo aspetto sarà ulteriormente trattato nel prossimo incontro. Aggiungiamo qui un altro tassello relativamente ad un aspetto sociale (immigrazione prima, pandemia ora) in cui si è parlato di razzismo in un contesto fuori luogo. Prima di chiudere però vogliamo recuperare qualche considerazione sulla natura di questo virus. Nel marasma delle informazioni e controinformazioni una cosa oggi si è compresa bene, ma già era nota fin da dicembre, in realtà, con le notizie ufficiali del governo cinese, ovvero: il virus ha un lungo tempo di incubazione, crea asintomaticità e determina un numero di decessi relativamente basso, ma sempre più alto di una normale influenza. Si è detto tutto ed il contrario di tutto sulla provenienza del virus, ma la tesi ufficiale è che sia un virus “naturale”, ovvero spontaneamente saltato di specie da animali all’uomo per via della promiscuità in certe regioni della Cina. A fronte di queste note “ufficiali” proviamo a fare delle semplici considerazioni, aggiungendo solo qualche informazione di natura tecnica. L’acronimo “NBCR” sta per: Nucleare, Biologico, Chimico e Radiologico. Questo acronimo, molto in voga negli anni 70, in piena guerra fredda, è associato ad una serie di eventi catastrofici che possano avere come cause uno dei quattro concetti scientifici elencati. Ad esempio l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl fu un evento Nucleare e Radiologico. L’attenzione verso questi “pericoli” fu massima negli anni 70 per via della corsa agli armamenti non convenzionali, da parte delle due superpotenze USA e URSS. In quegli anni furono sviluppate armi di varia natura a partire da armi già esistenti e sperimentate nelle guerre precedenti: non solo nucleari o chimiche, ma anche “biologiche”. Il “Biologico” in effetti è un tema che fu molto discusso in quegli anni, sia per eventi naturali, quali pandemie, che “artificiali” da utilizzare come armi. Un’arma biologica non è necessariamente “artificiale”, anzi per la verità nella storia furono usati agenti patogeni noti, come la peste, il vaiolo, il colera, l’antrace. D’altronde l’ingegneria genetica ha avuto un enorme sviluppo solamente negli ultimi anni, per cui tutti i protocolli ai tempi della “guerra fredda” erano riferiti ad armi biologiche “naturali” o selezionabili da ambienti naturali. Le ricerche in tal senso per decenni si sono concentrate sull’individuazione e l’isolamento di agenti patogeni da utilizzare come armi. La ricerca, lo sviluppo e l’isolamento di siffatti agenti patogeni, in assenza di tecniche di ingegneria genetica evolute, avvenivano utilizzando cavie animali. Pertanto i laboratori di ricerca biologica possedevano e possiedono anche oggi “stabulari”, ovvero piccole comunità animali, principalmente costituite da ratti o animali simili utilizzati per la sperimentazione. Nello specifico, un concetto che vale per tutte le armi: si definiscono per le armi “biologiche” armi tattiche e strategiche. Ovvero, armi tattiche, patogeni che causano un elevato numero di decessi nel più breve tempo possibile, in modo da utilizzarle in scenari limitati, ed armi strategiche, patogeni che abbiano un lungo tempo di incubazione che causino asintomaticità e che non determinino un elevato numero di decessi. In natura troviamo un patogeno noto che abbia delle caratteristiche tipiche di un’arma tattica, ed è il virus denominato “Ebola”, in grado di uccidere una persona in 24/48 ore, pertanto non in grado di espandersi troppo a causa dell’inabilitazione quasi immediata dell’organismo ospite. Non esistono invece in natura virus o batteri che presentino le caratteristiche elencate per il COV-19…fino appunto alla comparsa di COV-19. Laboratori che effettuino studi su agenti patogeni, non sono distribuiti uniformemente nei territori nazionali perché le condizioni di sicurezza richieste sono eccezionali, costose ed ovviamente esiste un margine, limitato, di rischio. A WUHAN , come noto, esiste un siffatto laboratorio. Aggiungiamo che è noto il famigerato filmato andato in onda nel 2015 su un telegiornale di divulgazione scientifica in cui si riportavano studi di ingegneria genetica su un virus dello stesso tipo di COV-19 (inteso come famiglia di corona virus), che riportava studi effettuati a partire da virus animali utilizzando frammenti di RNA provenienti da pipistrelli e pangolini. Immediatamente la giusta risposta della comunità scientifica si è fatta sentire specificando che “quel” virus nulla a che vedere con l’attuale, ed inoltre che l’attuale “non” è ingegnerizzato. Il non essere ingegnerizzato implica che il virus attuale si sia sviluppato naturalmente negli animali…..ma cosa significa uno sviluppo “naturale” negli animali? Come è possibile discriminare tra un virus realmente naturale, ed un virus “selezionato” tra i tanti naturali esistenti, considerando che l’RNA del virus attuale possiede espressioni sia del pipistrello che del pangolino? Nessun dato tecnico si vuole riportare in quanto non in tema con gli argomenti degli incontri, ma si vogliono solo mettere in fila le considerazioni appena fatte, che altro non sono che fatti reali, ovvero:

le caratteristiche di COVID 19 sono tipiche di un’arma strategica;

non esistono fino ad oggi in natura agenti patogeni con medesime caratteristiche (l’influenza comune non determina ne tempi di incubazione così lunghi ne numero di decessi così elevati, seppur limitati);

la sorgente del virus sembra essere wuhan, dove è presente un centro di ricerche di massima sicurezza su agenti patogeni, dove necessariamente sono presenti “stabulari” con animali da laboratorio su cui effettuare test anche clinici;

già nel 2015 quel laboratorio effettuava studi genetici su virus coinvolgendo le medesime specie animali, seppure comuni per quel genere di studi (almeno il pipistrello, molto meno il pangolino);

le informazioni sullo sviluppo dell’epidemia provenienti dalla Cina sono considerate da tutti non sufficienti a spiegare la quarantena associata ad un numero così ristretto di casi dichiarati e decessi associati, in un’area in cui la mortalità giornaliera è superiore a quella del totale di decessi ufficialmente dichiarati nei 3 mesi di epidemia e chiusura.

Al prossimo incontro.

Torna l’era dei nazionalismi? Francesco Boezi su Inside Over il 26 marzo 2020. Donald Trump ha scritto che “questo”, ossia la pandemia dovuta al Covid-19, è il motivo per cui gli Stati Uniti necessitano di “confini”. Un contagio globale comporta la proposizione di una serie di quesiti. Uno su tutti: perché una nazione dovrebbe subire gli effetti di quello che accade a migliaia di chilometri di distanza? Perché – dato che questa è la tesi sostenuta da buona parte della scienza ufficiale – un tipo di coronavirus che ha operato il salto di specie, con buone probabilità nel Sud della Cina, dovrebbe sconvolgere l’intero assetto mondiale, comportando tutta una serie di conseguenze tragiche relative ad interessi, costi e rischi umani, economici e socio-sanitari? La cosiddetta “ideologia mondialista” ha raccontato per decenni di come il mondo non potesse che essere aperto, ma il Covid-19 ha costretto buona parte delle nazioni a sospendere, de facto o de jure, alcuni pilastri della modernità. Persino la “libera circolazione” è stata messa in discussione, con la Spagna che per prima messo in naftalina la Convenzione di Schengen, vietando ai non iberici l’ingresso via terra. Più in generale: molti capisaldi della Ue, tra cui il patto di Stabilità, sono venuti meno o quasi. Un butterfly effect può sempre modificare il corso della storia, ma la sensazione diffusa è che se la globalizzazione non fosse stata estesa a questi livelli, forse il quadro pandemico sarebbe diverso per intensità e gravità. Congetture o meno, la domanda circola. Se non altro perché – come ha scritto David Quammen nel suo Spillover – i virus in questa epoca hanno iniziato a viaggiare sugli aerei E questo è un elemento che la contemporaneità, forse, non aveva ancora tenuto a mente nella giusta misura. Poi c’è Vladimir Putin, che di tema ne ha posto un altro: la tassazione sui patrimoni depositati al di fuori degli istituti bancari nazionali. Lo “Zar” vorrebbe che, per via dello stato pandemico, quei soldi venissero tassati mediante un’aliquota fissata al 15%. C’entra pure la delocalizzazione delle imprese, perché Russia Unita sta ragionando anche su come intervenire su quel fenomeno. Bisogna fare cassa per tutelare le famiglie, cui devono essere garantite coperture. Quello che attiene alla economia interna può far parte di aspetti secondari in questa fase. Ma tutti questi ragionamenti nascondono l’attualità di un assunto, che è il cuore di un articolo pubblicato sul Financial Times: il nazionalismo – hanno titolato – è un “effetto indiretto del coronavirus”. Ogni leader mondiale, dovendo rispondere al fuoco di fila del virus, ha dovuto sfoderare il suo “bazooka“. E la spesa pubblica è tornata a fare la voce grossa. Per quel che riguarda le cose di casa nostra, questo passaggio del pezzo appena citato appare molto esemplificativo: Quando Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ha esposto il suo discorso di emergenza alla nazione, non ha menzionato l’Ue neppure una volta. Sono i segni dei tempi. L’Unione europea e la Bce, adesso, possono solo coordinare le operazioni, ma gestire lo stato d’eccezione spetta ad ogni singola nazione, che torna così protagonista della storia. I contagiati e i deceduti, del resto, si contano su base nazionale, mentre i controlli alle frontiere possono essere considerati ripristinati. La recessione, invece, dovrebbe essere globale. Questo, almeno, pronosticano gli istituti che si occupano di prevedere l’andamento delle economie. Ogni Stato, poi, potrà per misurarsi con quella che viene già annunciata come una conseguenza drammatica mediante ricette diverse. Durante la pubblicazione delle prime notizie sui morti in Germania, il ministro dell’Economia Peter Altmaier non ha affatto scartato l’ipotesi delle nazionalizzazioni. Come potrebbero cavarsela, altrimenti, tutti gli enti che figureranno come insolventi? Le scelte economiche fatte durante questa che assomiglia davvero ad una “guerra contro un nemico invisibile”, come l’ha chiamata Emmanuel Macron, possono essere quelle tipiche di un periodo bellico. E come ogni periodo bellico, non sarà raro riscontrare l’aumento della solidarietà tra le persone. Poi, una volta debellato il Covid-19, ci sarà tempo per ragionare sulle ideologie politiche più adatte per procedere con la ricostruzione.

Settentrionali vs Meridionali. La parafrasi di un atteggiamento razzista da una parte e coglionista dall'altra.

Ogni volta che aprono bocca i padani non parlano mai (o solo) dei cazzi loro.

Su ogni argomento stanno sempre lì a comparare loro ai meridionali.

Riguardo al tema del Coronavirus.

Il Nord untore ha prima infettato il Sud e poi l'ha rinchiuso in casa da sano, affamandolo.

Il Nord ha dato prova di inefficienza ed incompetenza. Ciononostante, stanno lì a chiedersi ed a trovare il cavillo calunnioso sul perchè il Sud non deborda di morti, stante, secondo loro, l'arretratezza della sanità e della società meridionale, restia a rispettare le norme di contenimento.

La litania dei "Corona" settentrionali con la moglie cozza: Quanta è bella mia moglie; ma quanta è brutta la loro.

La risposta dei "Terroni" meridionali con la moglie bella ed affascinante: Quanta è brutta mia moglie; è più bella la loro.

Non riesco a trovare nessun settentrionale che riveli la realtà dei fatti e parli male della Padania. Che dica: che racchia di femmina!

Si riscontra solo: quanto è bella, progredita, onesta, ricca che paga le tasse.

Non riesco a trovare alcun meridionale che metta in evidenza i difetti e le mancanze del Nord ed indichi le eccellenze del Sud e che, nel paragone, dica: che bonazza di femmina!

Si riscontra solo: quanto è brutta, arretrata, mafiosa, povera ed evasora fiscale.

Non so chi mandare a fanculo: i razzisti o i coglioni!!

La mobilità resta un elemento cruciale per la valutare la "fase 2". Coronavirus, uno studio: "L'epidemia ha corso lungo ferrovie e autostrade". Primocanale.it sabato 11 aprile 2020. I collegamenti tra Liguria e Toscana, le vie di comunicazione a raggiera della Pianura Padana, la Via Emilia: in Italia l'epidemia di Covid-19 ha mosso velocemente i suoi primi passi seguendo i percorsi delle principali infrastrutture di trasporto, ovvero ferrovie e autostrade. Per questo la mobilità resta un elemento cruciale da valutare attentamente anche in vista della cosiddetta fase 2. Lo spiega Marino Gatto, professore di ecologia del Politecnico di Milano e primo autore di uno studio in via di pubblicazione sulla rivista dell'Accademia americana delle scienze (Pnas) che ricostruisce la mappa del contagio nel nostro Paese. Lo studio è stato realizzato da ricercatori italiani che lavorano presso il Politecnico di Milano, l'Università Ca' Foscari di Venezia, l'Università di Zurigo, il Politecnico federale di Losanna (Epfl) e l'Università di Padova. Come risultato ha prodotto "il primo modello di contagio per l'Italia che tiene conto sia dell'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che della loro evoluzione spaziale", spiega Gatto. "Sappiamo che il virus si propaga per contatto diretto tra le persone e le vie di trasporto hanno sicuramente favorito la diffusione del contagio dai primi focolai", precisa l'esperto. Lo studio ha preso in considerazione sia l'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che la loro distribuzione geografica, integrando gli spostamenti degli individui per raggiungere il luogo di lavoro, con una risoluzione a livello provinciale. Sono stati usati censimenti Istat per stimare la mobilità prima dell'epidemia e uno studio indipendente che ha sfruttato la geolocalizzazione dei cellulari per capire di quanto si è ridotta la mobilità con le restrizioni imposte. L'animazione così prodotta mostra l'Italia del contagio che si accende di rosso, delineando zone ben precise. "Il maggiore focolaio si è sviluppato in Lombardia, che non a caso è tra le regioni meglio connesse col resto d'Italia e del mondo", afferma Gatto. "Nella Pianura Padana, dove le vie di trasporto sono a raggiera, il virus si è diffuso delineando cerchi concentrici via via più larghi. In un secondo momento si è propagato in Veneto ed Emilia Romagna, prendendo la via Emilia per scendere verso le Marche". Gli Appennini, in un certo senso, hanno fatto da tappo, e "i focolai della Liguria si sono propagati verso la Toscana, seguendo la tratta da La Spezia verso Lucca, Firenze e Siena". Il sud, paradossalmente, potrebbe essere stato risparmiato proprio per il minor sviluppo infrastrutturale.

Coronavirus, come mai al Sud non è esplosa l’emergenza? Rezza: «Il fattore temporale ha salvato il Meridione».  L’intervista di Felice Florio su Open il 12 aprile 2020. «Non si può abbassare la guardia», afferma il capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. «Ci vuole poco per trasformare Bari in una grande Codogno» Quando è stato annunciato l’isolamento delle regioni del Nord Italia ed è scattato l’esodo verso Sud, lo scorso 7 marzo, si temeva che anche nei territori meno colpiti dal Coronavirus potessero nascere dei focolai capaci di far collassare le varie sanità regionali. Fortunatamente, non è accaduto. Le evidenze numeriche si leggono nei dati del 9, 10 e 11 aprile comunicati dalla Protezione civile. La somma totale dei casi positivi presenti al Sud e nelle Isole, il 9 aprile, era di 10.002. Nella sola Lombardia c’erano il triplo degli infetti: 29.530. Estendendo il confronto tra l’intero Nord e il Sud, il rapporto tra le persone positive al Sars-CoV2-19 nelle differenti aree è di 8 a 1. Il virus non ha sfondato la linea gotica. Un divario che si fa ancora più ampio considerando il numero dei decessi: il rapporto tra Meridione e Settentrione è di circa uno a 18. Il 10 aprile è arrivata la conferma di quei dati: in Lombardia c’è stato un incremento di casi totali di +1.246 rispetto al giorno precedente, un terzo del totale nazionale, di +3.951. Nessuna regione del Sud ha avuto un incremento superiore alle 100 unità: i territori meridionali più colpiti, ovvero Campania e Puglia, hanno avuto un aumento dei casi nelle 24 ore rispettivamente di +98 e +93. Idem ieri, 11 aprile: Campania +75, Puglia +95 e Lombardia +1.544. Per Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, è stato il «fattore temporale a salvare il Sud Italia».

Professore, perché il Sud ha retto?

«Il virus è entrato in Lombardia, probabilmente già prima del blocco dei voli da Wuhan. E lì si è diffuso in un periodo di picco influenzale: almeno inizialmente è stato molto difficile da diagnosticare. Poi si è trasmesso principalmente per contiguità, senza compiere salti a distanza, se non per qualche cluster ben circoscritto in Veneto, a Rimini e verso le Marche. Quando l’epidemia si è diffusa in tutta Italia e sono nati dei focolai al Sud, le autorità erano già preparate».

E cosa ha impedito che si arrivasse ai numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto?

«Il provvedimento di distanziamento sociale ha ostacolato il virus al Meridione prima che potesse diffondersi nelle stesse misure del Nord, dove circolava da parecchio tempo. Sì, c’è stata qualche catena di trasmissione a Roma, una città molto popolosa. Alcune catene si sono viste nelle Rsa, le residenze per anziani: ma quando il virus è arrivato davvero, i provvedimenti di distanziamento sociale erano stati già presi. Il fattore temporale ha salvato il Meridione».

Solo questione di tempo?

«No, assolutamente. Il virus ha dimostrato di colpire principalmente le aree più produttive, come il Nord Italia: semplicemente perché ci sono più contatti tra le persone e più spostamenti quotidiani legati a un mondo del lavoro frenetico. Anche l’aspetto della densità abitativa ha inciso. Ma le variabili sono tante, senza dimenticare il fattore della casualità, sempre presente nelle epidemie».

Lei stesso diceva che ci sono state trasmissioni incontrollate nelle Rsa, anche al Sud. Come se le spiega?

«Quando il virus circola, anche se circola poco, va a creare focolai di un certo rilievo nei luoghi chiusi: le principali catene di trasmissione si sono verificate nelle famiglie e negli ospedali. Le Rsa hanno personale che spesso si muove da una struttura all’altra e ospiti che spesso vengono mandati in ospedale per determinate cure: questi sono stati gli elementi che hanno facilitato la creazione dei focolai in determinati luoghi sensibili».

Si aspettava una maggiore incidenza del contagio dopo l’esodo di persone dal Nord al Sud avvenuto le prime domeniche di marzo?

«Abbiamo notato, nel periodo successivo all’esodo, catene di trasmissione intrafamiliare al Sud avvenute in seguito all’arrivo di un elemento del nucleo dal Nord. Al di là di qualche focolaio di questo tipo, fortunatamente la situazione non è degenerata. E parte del merito va anche ai governatori regionali che hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno: a memoria ne ricordo quattro nel Lazio, cinque in Campania, e anche in Calabria e Sicilia. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato».

Perché la Campania è la regione meridionale più colpita?

«La Campania preoccupa più delle altre semplicemente perché è tra le più popolose, con un’alta densità abitativa e dove ci sono più contatti tra le persone».

Cosa succederà nelle prossime settimane al Sud?

«Molto dipenderà dalle misure che si prenderanno e da quanto la popolazione le rispetterà. È difficile fare scenari perché, fin quando non ci sarà un vaccino, il virus circolerà. Non ce ne libereremo. Se si mollasse con le precauzioni, basterebbe poco tempo a trasformare Bari in una grande Codogno. Bisogna tenere molto alta la guardia, il distanziamento sociale ha dimostrato di riuscire a contenere il contagio e bisogna continuare su questa strada. Anche quando ci sarà la cosiddetta fase 2, occorrerà muoversi con cautela: la politica dovrà trovare un equilibrio tra la necessità della ripresa economica e la salvaguardia della salute pubblica. Il distanziamento sociale dovrà continuare».

Da ilmessaggero.it il 16 aprile 2020. "Colerosi", così venivano chiamati i napoletani perché l'epidemia del colera si era scatenata al sud. Lo ricorda su twitter Vladimir Luxuria, che aggiunge: per fortuna nessuno usa il coronavirus per insultare veneti e lumbard. «Molti, tra cui Salvini, insultavano i napoletani di essere colerosi perché l'epidemia di colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è segno che possiamo essere ottimisti sul futuro». Lo scrive su Twitter Vladimir Luxuria. L'epidemia di colera di Italia scoppiò in Italia nel 1973, nelle aree costiere delle regioni Campania, Puglia e Sardegna tra il 20 agosto e il 12 ottobre. L'improvvisa epidemia, forse causata dal consumo di cozze crude o altri frutti di mare contaminati dal vibrione causò un grande allarme: all'ospedale Cotugno di Napoli vennero ricoverate 911 persone in dieci giorni.

Luxuria a Salvini: "No offese al Nord, ma insultavi i napoletani". L'attivista per i diritti Lgbt all'attacco del segretario della Lega: "Chiamava i partenopei colerosi…" Alberto Giorgi, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Attacco, via social network, a Matteo Salvini. L'affondo contro il capo politico del Carroccio arriva dalla piattaforma onine di Twitter e per l'esattezza dal profilo ufficiale di Vladimir Luxuria. Sì, perché quella che è stata la prima parlamentare transgender a essere eletta nel Parlamento di un Paese del Vecchio Continente si è scagliata contro l'ex ministro dell'Interno. Il motivo della questione? Non sono tematiche legate al cosiddetto mondo Lgbt – sigla che va a indicare le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender – di cui la Luxuria è attivista, bensì in materia di coronavirus. E così il personaggio televisivo ha voluto prendersela con il segretario della Lega, rinfacciandogli di aver insultato in passato i napoletani, dandogli dei "colerosi". L'uscita dell'ex deputata dal Partito della Rifondazione Comunista è assai critica nei confronti dell'ex titolare del Viminale, al quale prega di ricordare come in queste settimane difficili causa pandemia di coronavirus, nessuno – e dice “per fortuna” – si sia messo a insultare pesantemente le popolazioni del Nord, messo in ginocchio dal Covid-19. Per la precisione, Vladimir Luxuria, twitta così: "Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere 'colerosi' purché l'epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro". L'epidemia di colera a cui si riferisce la scrittrice è quella che scoppiò in Campania, Puglia e Sardegna nell'estate del 1973, per via – a quanto stabilito all'ora – dal massiccio consumo di cozze e frutti di mare crudi contaminati dal batterio vibrione. L'epidemia provocò 278 casi e 24 vittime. Il pubblico di Twitter si divide e non tutti apprezzano il post dell'autore. Tra questi, c'è chi scrive il seguente appunto: "Mi spiace dissentire, ma, è capitato di trovare messaggi di gente che quasi esultava del fatto che la regione più colpita fosse la Lombardia. Continuo a non augurarmi che al Sud scoppi un focolaio come il nostro! Sarebbe una strage". Alla considerazione, la Luxuria risponde così: "Spero tu abbia segnalato, mostrato e denunciato... io non ho visto nulla". Un altro, invece, scrive: "Un napoletano mi ha detto che augurava a me e alla mia famiglia il coronavirus…".

La bordata di Luxuria a Salvini: “Napoletani chiamati colerosi, oggi nessuno insulta il nord”. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. La showgirl, attivista ed ex deputata Vladimir Luxuria ha postato un tweet che è allo stesso tempo un attacco al leader della Lega Matteo Salvini e una riflessione sull’Italia post coronavirus. Secondo Luxuria il fatto che non si siano levati dei commenti razzisti verso le popolazioni del nord, e in particolare verso la Lombardia, la regione più colpita dal virus, è “un segno che possiamo essere ottimisti sul futuro”. Il tweet ha subito raccolto centinaia di reazioni social. Al contrario il post fa notare come, a causa della epidemia di colera che nel 1973 colpì in particolare la città di Napoli, la popolazione partenopea sia stata spesso additata come “colerosa”. Con insulti ed epiteti razzisti. Un coro da stadio, in particolare, era stato cantato (come documentato da un video) anche dall’oggi segretario della Lega Matteo Salvini, il leader che ha portato il Carroccio a essere primo partito d’Italia e a sfondare anche nelle regioni del Sud. Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere “colerosi” purché l’epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio… nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro. Il tweet di Luxuria non è passato inosservato. E fra commenti scettici e concordi, c’è chi ha ricordato le ultime manifestazioni di razzismo, ispirate dal coronavirus e apparse proprio negli stadi, contro i napoletani. In occasione della partita degli azzurri a Brescia, del 21 febbraio scorso, gli ultras della curva di casa avevano infatti intonato il coro incommentabile: “Napoletano coronavirus”. Altri commenti hanno ricordato come durante la partita del Napoli contro il Torino al San Paolo, dello scorso 29 febbraio, i tifosi partenopei avessero invece esposto uno striscione che recitava: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il Covid-19“.

Vedi Napoli. Report Rai PUNTATA DEL 06/04/2020 di Federico Ruffo. Immagini di Francesco Morra. La Campania è, tra le regioni del Sud, la più esposta al rischio di un crollo del sistema sanitario se crescono i contagi. Con quasi 6 milioni di abitanti, la regione governata da De Luca punta soprattutto a vigilare sul rispetto della quarantena. Ma negli ospedali, anche quelli che si tenta di adeguare all’emergenza, medici e infermieri lottano con dispositivi inadeguati, tende per il pre-triage posizionate nei luoghi sbagliati, intere zone prive di strutture, mentre ospedali fantasma attendono di essere inaugurati.

VEDI NAPOLI Di Federico Ruffo Collaborazione Lorenzo Vendemmiale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo in Campania, insomma dopo le epidemie di aviaria e Sars l’Oms aveva chiesto ai paesi di preparare dei piani per contrastare le pandemie. Ecco dovevano essere dei piani che poi dovevano essere anche aggiornati, l’ultimo quello italiani è stato scritto nel 2010. E in questi piani bisognava prevedere delle misure per contenere la diffusione del virus. Bisognava creare dei passaggi diversi, diversificati per i malati, bisognava dotare di protezione gli operatori sanitari e poi anche avere a disposizione scorte e anche kit per una diagnostica veloce. Ecco, il piano contro le pandemie della Campania risale addirittura al 2006 ecco. I più giovani neppure se lo ricordano. Il nostro Federico Ruffo.

FEDERICO RUFFO Vi sentite insomma un po’ come degli untori, potenzialmente…

INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI Ci sentiamo untori, ci sentiamo colpevoli di tornare a casa, eventualmente infettare i nostri figli, le nostre mogli, i nostri parenti, padri, madri, zii, chiunque…anziani.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Le immagini che vedete sono state realizzate dallo staff del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, per essere pubblicate sul suo profilo social. Lo ritraggono mentre visita il cantiere per 10 nuovi posti di terapia intensiva all’ospedale Loreto Mare. Insieme a lui ci sono Ciro Verdoliva, direttore della Asl Napoli 1, la più grande della Campania, ed Enrico Coscioni, il consulente alla Sanità di De Luca, che ha deciso di tenere per sé l’assessorato alla Sanità. Guardate con attenzione le mascherine che indossano. De Luca ha un modello FP2, i suoi collaboratori delle FP3. Guardatele bene, perché rischiano di essere le uniche che vedrete nel nostro viaggio negli ospedali campani.

PIERINO DI SILVERIO - RESPONSABILE NAZIONALE ANAAO SETTORE GIOVANI Le mascherine che ci fornivano e che ci forniscono a tutt’oggi, sono prevalentemente chirurgiche e anche razionate: chiuse a chiave. In alcuni presidi, addirittura bisogna andare la mattina a firmare ed esplicitare la motivazione per la quale si vuole la mascherina e in altri presidi le portiamo a casa e le teniamo anche 3-4 giorni.

FEDERICO RUFFO Queste sono mascherine che nei giorni scorsi sono arrivate all'Ospedale del Mare e poi al San Giovanni Bosco, non so se le ha già viste.

PIERINO DI SILVERIO - RESPONSABILE NAZIONALE ANAAO SETTORE GIOVANI Sì, le ho già viste e le abbiamo anche buttate nella spazzatura. FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Con circa 350 posti di rianimazione prima dell’emergenza coronavirus, e 3,1 posti letto ogni mille abitanti (uno dei dati più bassi d’Europa) la Campania è una la regione che rischia di più di collassare in caso di crescita esponenziale dei casi.

FEDERICO RUFFO Al momento quanti posti ci sono in terapia intensiva in Campania?

PIERINO DI SILVERIO - RESPONSABILE NAZIONALE ANAAO SETTORE GIOVANI Stimati dovrebbero raggiungere i 580, reali perché gli altri sono ancora in via di costruzione, sono circa 420-410.

FEDERICO RUFFO Questo significa che non vi potete permettere più di 4mila contagiati complessivi?

PIERINO DI SILVERIO - RESPONSABILE NAZIONALE ANAAO SETTORE GIOVANI Se dovessimo basarci sulle stime lineari e grezze dovrebbe essere così.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Questo è il San Giovanni Bosco, tra i più importanti di Napoli. Un ospedale di frontiera, lungo il confine sud di Secondigliano, dove imperano i clan Contini e Mallardo, che infatti, secondo la DIA, gestivano parte dell’ospedale fino al giugno scorso, come base operativa. Ai primi di marzo, ad emergenza appena iniziata, al San Giovanni la protezione civile invia 3 tende, per il pre-triage. Servono a creare un percorso alternativo negli ospedali: se un paziente è sospetto, viene subito dirottato nelle tende, dove personale attrezzato dovrebbe visitarlo, gestirlo e, se positivo, dirottarlo nelle strutture apposite o mantenerlo isolato. In questo modo si evita il contatto con pazienti Covid. Per intercettarli subito, le tende andrebbero prima del pronto soccorso. Al San Giovanni le hanno poste 200 metri oltre, sul lato opposto, all’interno dell’ospedale, di fronte al parcheggio dipendenti.

FEDERICO RUFFO Ma questi sempre qua? Cioè voi li avete visti arrivare qua e qui li hanno messi? Quanti giorni sono che stanno qui?

DONNA ALLA FINESTRA Prima del 10 di marzo…

FEDERICO RUFFO Ma non c’ha mai visto nessuno proprio?

DONNA ALLA FINESTRA Hanno messo dei macchinari però non è stato mai utilizzato!

FEDERICO RUFFO Ma non c’è nessuno dentro?

DIPENDENTE OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO E’ normale.

FEDERICO RUFFO Cioè non le hanno proprio mai usate?

DIPENDENTE OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO Fanno solo così…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Abbiamo piazzato una camera davanti alle tende per diverso tempo e in giorni diversi. Nessuno entra, nessuno esce, mai. E dire che la Asl Napoli 1 sembrerebbe intenzionata ad usarle, visto che, documenti alla mano, ha speso 39.879 euro per pavimentare il parcheggio. Poco meno di 40mila euro per tagliare l’erba, mettere in sicurezza, rifare i cordoli, pulire e asfaltare.

LUIGI PAGANELLI – RSU- FP CGIL OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO NAPOLI Non sappiamo neanche i pazienti come debbano arrivare lì: con autobus, taxi, un’ambulanza, con mezzi propri, io non lo so, sembra una caricatura quello che dico, per l’amor di Dio, io non ne ho idea…

ARCH. ANTONIO BRUNO – RESPONSABILE AREA TECNICA ASL NAPOLI1 Non devono entrare nel pronto soccorso, ma devono andare nella tenda nell’attesa del tampone… con l’autoambulanza viene portato lì…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Un’ambulanza per fare 200 metri dentro un parcheggio potrebbe sembrare poco pratico. Infatti i medici a quanto pare hanno scelto di non usarle le tende.

MEDICO OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO - NAPOLI Allora c’è un altro caso sospetto, sospetto per modo di dire, quindi questo è il terzo al pronto soccorso. E il medico del Pronto Soccorso ha risposto ai radiologi che non chiamerà la sanificazione per il Pronto soccorso perché lui ha già due Covid al pronto soccorso, dice “che la chiamo a fare”?

ARCH. ANTONIO BRUNO – RESPONSABILE AREA TECNICA ASL NAPOLI1 Quello è il punto più vicino al pronto soccorso ed è il punto dove avevamo la superficie utile per allestire le 3 tende. Uno deve pensare poi anche all’utilizzo: per cui dopo, speriamo che finisca presto questa emergenza, quella tornerà ad essere un’area di parcheggio.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO In altri ospedali però, dove evidentemente non hanno a cuore un nuovo parcheggio a fine pandemia, come ad esempio il Ruggi di Salerno, hanno risolto il problema dello spazio piazzando una sola tenda, ma eccola, sta proprio accanto al Pronto soccorso. Una cosa va detta: nella Asl Napoli 1 il San Giovanni Bosco non sembra l’unico ospedale ad avere problemi con le tende della protezione civile. Questo è il San Gennaro. La tenda è posizionata ben oltre l’ingresso, al centro del cortile e, come vedete, non viene usata, è completamente vuota. All’ospedale del mare invece…

INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI - NAPOLI Le tende sono state montate tempo addietro e inutilizzate per tanto tempo, l’unico uso che ne è stato fatto, quando ancora erano gonfie, è fare i tamponi a una parte del personale, dopodiché attualmente le tende sono sgonfie.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ed in effetti ecco le foto delle tende, a fine marzo, totalmente sgonfie.

INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI Questo materiale ci viene centellinato, fino a poco tempo fa non ci veniva dato. Manca di tutto: mancano mascherine, mancano presidi basilari, addirittura noi nei reparti stiamo con le mascherine chirurgiche che, come si sa, sono dei filtri anti-uscita, perché sono mascherine chirurgiche, servono in campo operatorio per evitare che il mio flug possa andare a infettare la ferita chirurgica, ma in entrata io aspiro tutto.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO L’uomo che ascoltate è infermiere di lunga esperienza. Anche per questo è stato scelto per l’Ospedale del Mare, il più grande della Campania. Il 21 marzo, nel suo reparto, sono arrivate nuove mascherine. Queste. Sulla confezione il produttore ha fatto apporre delle note molto precise. La maschera “protegge l’ambiente in cui il portatore opera, ma non il portatore”, evita che la saliva vada verso l’esterno, punto. Ma “non protegge le vie respiratorie neanche dalla polvere”. Il nome esatto dell’azienda è Goeldlin Chef, e questo fanno, producono abbigliamento e accessori per il personale di cucina. Nonostante questo, le stesse mascherine sono state distribuite in almeno un altro ospedale, il San Giovanni Bosco

LUIGI PAGANELLI – RSU- FP CGIL OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO NAPOLI Questa mascherina è stata consegnata anche a me, si, ce l’ho anche io. Una sola.

FEDERICO RUFFO Una sola? LUIGI PAGANELLI – RSU- FP CGIL OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO NAPOLI Sì, hanno detto che è lavabile…

FEDERICO RUFFO “Non protegge le vie respiratorie nemmeno dalla polvere”…

LUIGI PAGANELLI – RSU- FP CGIL OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO NAPOLI Chiedo scusa e quindi a cosa servono queste maschere?

FEDERICO RUFFO Non lo sapevate? Nessuno vi ha detto…

LUIGI PAGANELLI – RSU- FP CGIL OSPEDALE SAN GIOVANNI BOSCO NAPOLI Gliel’avrei stracciata!

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Che le mascherine non fossero un prodotto adatto a tutte le corsie non era difficile da intuire. La Goeldlin è un’azienda molto importante, testimonial di chef famosi, ma quanto a Corona, l’unico contatto fino ad oggi è Fabrizio Corona, il loro testimonial. E anche se nessuno sembra sapere come siano finite in ospedale, un’idea ce la siamo fatta: il titolare, con un gesto di grande generosità, ha donato migliaia di mascherine in Campania ad amministrazioni comunali, vigili, protezione civile. E ovviamente non ha mai detto che fossero destinate a medici e infermieri in prima linea.

NUMERO VERDE GOELDLIN Lavandola più volte perde questa idrorepellenza, perché l’idrorepellenza appunto è una caratteristica, però giustamente quando il tessuto la va a perdere la mascherina va cestinata insomma.

FEDERICO RUFFO Quindi diciamo che dopo un paio di lavaggi bisognerebbe sostituirla…

NUMERO VERDE GOELDLIN Esatto.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO A prescindere dall’efficacia delle mascherine una cosa sarebbe fondamentale per medici e infermieri: i tamponi.

 INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI Oggi è 27, dal 19 che abbiamo fatto un tampone siamo ancora in attesa di risposta.

FEDERICO RUFFO E voi in questi 8 giorni avete sempre lavorato?

INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI Sì… FEDERICO RUFFO Sempre a contatto coi pazienti?

INFERMIERE OSPEDALE DEL MARE - NAPOLI Sempre a contatto con pazienti, in alcuni casi con pazienti immunodepressi…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Nell’intera area di Napoli, sono tre gli ospedali attrezzati per i tamponi, ma la gran parte confluisce qui, al San Paolo. I tamponi da analizzare, a fine marzo, erano quasi 800. Il tempo medio di risposta: 5 giorni,.

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - DIPENDENTE OSPEDALE SAN PAOLO - NAPOLI Ogni processo ci vogliono 4 ore e 15. Non è il numero degli arretrati in quanto tale, ma è il numero che la macchina riesce a processare quotidianamente, nell’arco delle 24 ore. Mediamente sono tra i 40 e i 50, la macchina sta sotto sforzo e arriva anche a 70.

FEDERICO RUFFO 70 al giorno, con 700 tamponi ci vogliono 10 giorni per avere una risposta.

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - DIPENDENTE OSPEDALE SAN PAOLO - NAPOLI Sì, sì... E la cosa più naturale fosse stata che questo apparecchio fosse stato messo anche al Loreto Mare, per il semplice fatto che è il presidio che è stato riconvertito in Covid.

FEDERICO RUFFO Ce ne volevano 2?

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - DIPENDENTE OSPEDALE SAN PAOLO - NAPOLI Due o tre. Infatti sono stato costretto a fare una nota per sollecitare un poco questa questione e ci siamo rivolti anche alle autorità competenti.

FEDERICO RUFFO Avete presentato un esposto?

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - DIPENDENTE OSPEDALE SAN PAOLO - NAPOLI Sì.

FEDERICO RUFFO È la prima volta che mi capita di sentirlo.

ROSARIO CERULLO – COORDINATORE FP CGIL - DIPENDENTE OSPEDALE SAN PAOLO - NAPOLI Però lo abbiamo fatto. Dobbiamo pure considerare che Napoli non è stata e non è preparata a questo tipo di sanità.

PIERINO DI SILVERIO - RESPONSABILE NAZIONALE ANAAO SETTORE GIOVANI Il problema qual è? È che in Campania a fronte dei 350 per 350 posti, c'è una carenza di personale endemica che riconosce cause che sono attribuibili a dieci anni fa, da quando abbiamo il blocco delle assunzioni. Io posso anche farne 200 posti ma se poi non c'è il personale da mettere dentro, questi posti come faccio a gestirli?

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO In Campania nessuno sa dire con certezza quale sia il patrimonio immobiliare e sanitario di tutte le Asl. Nelle primissime ore d’emergenza, ad esempio, tra i 5 ospedali indicati dalla Regione come possibili punti di gestione, c’era l’Ascalesi, il più antico di tutta Napoli… Solo che l’Ascalesi, al momento, non è esattamente l’ospedale più attivo del mondo…

FEDERICO RUFFO Divieto di transito per caduta calcinacci… al pronto soccorso.

FEDERICO RUFFO Ma voi abitate qui signora? Proprio dentro l’ospedale?

DONNA IN FINESTRA No, no, non fa parte dell’ospedale.

FEDERICO RUFFO Ah è a parte, cioè è la stessa struttura ma è a parte.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ritenuto non più indispensabile, su 5 piani, al momento all’Ascalesi ne sono attivi uno e mezzo, mentre si lavora ad una ristrutturazione per un futuro impegno come polo oncologico. A pochi chilometri dall’Ascalesi c’è il San Gennaro. Chiusi poco alla volta i reparti, oggi il quarto piano è in larga parte in disuso. Eppure, avrebbe fatto comodo.

FEDERICO RUFFO Volendo, sarebbe tutto pronto per l’ossigenazione… quindi in questo momento questo reparto avrebbe fatto molto comodo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma la vera emergenza, secondo i medici, rimane la zona sud della Campania, dove i numeri sono ancora più bassi. Tra Battipaglia e Vallo della Lucania si contano pochissimi posti di terapia intensiva. A Vallo della Lucania, dove i posti di terapia intensiva sono 10, ma la stanza una sola, se un paziente Covid dev’essere spostato in ambulanza, il rischio è che non ci sia il personale per il trasporto.

LUIGI GALLO – SEGRETARIO ANAAO - ASSOMED ASL DI SALERNO Se per emergenza intendiamo mille persone contagiate, e 300 posti di terapia intensiva, noi non abbiamo questa possibilità. Le terapie intensive disponibili a sud di Salerno siamo intorno ai 40-50 posti letto di terapia intensiva.

FEDERICO RUFFO Poniamo che oggi a Vallo della Lucania piuttosto che a Roccadaspide, che ancora più in alto in montagna, finiscano i posti in terapia intensiva, quanto ci vuole per trasferire un malato in terapia intensiva da qui al più vicino ospedale attrezzato?

LUIGI GALLO – SEGRETARIO ANAAO - ASSOMED ASL DI SALERNO Il tempo di percorrenza saranno un paio d’ore.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO A fare il grosso del lavoro, in termini di terapia intensiva, per tutta la Campania del sud dovrebbero essere il Ruggi di Salerno e l’ospedale di Scafati, più vicini a Napoli che non al resto della regione. E non è una differenza da poco quando ci si muove fra queste strade. Se ad Amalfi qualcuno avesse bisogno della terapia intensiva, in questo momento impiegherebbe almeno un’ora. E dire che l’ospedale, ad Amalfi, ci sarebbe anche. Eccolo qua. Quattro Piani, 24 milioni di euro di costo, 5 primari e un concorso per 300 infermieri, terminato nel 1989, mai aperto. Neanche un giorno di lavoro. Perché all’epoca nessun ospedale sotto i 100 posti poteva operare.

FEDERICO RUFFO Questi sono gli attacchi dell’ossigeno. Uno, due, tre, quattro… anche qui attacchi uno, due, 5 di qua più 5 di là fanno 10 stanze, ognuno ha 4 cablaggi per l’ossigenazione, fanno in tutto 40 posti di terapia intensiva potenziali mai inaugurati, mai utilizzati, mai entrati in funzione…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se la situazione è questa fa bene il Governatore De Luca a minacciare con il lanciafiamme chi viola le regole, la quarantena. Almeno limita i danni ecco. Però lui ha ereditato una sanità che ha accumulato negli ultimi dieci anni, 9 miliardi di debiti e quindi per forza è sottoposta a stress, a tagli ecco. Per quello che riguarda invece l’emergenza Covid, riguarda in particolare le anomalie delle tende triage sgonfiate, dove sono state collocate, il fatto della fornitura delle mascherine testimonial Corona e dei tamponi che hanno le risposte in ritardo avremmo voluto avere una risposta dal direttore della Asl Napoli 1, il dottor Verdeoliva che ci scrive: siamo riuniti in questi giorni in una unità di crisi 24 ore su 24, non riteniamo giusto partecipare o alimentare delle polemiche. Per usare un eufemismo… ecco insomma, però, con quasi 3 mila contagiati la Campania rischia di essere sul punto del tracollo. L’unica via è limitare il più possibile la diffusione dei contagi, creando appunto e cercando di seguire questi percorsi differenziati per i sospetti malati Covid, fornire le protezioni giuste, fare i tamponi magari anche chi ha solamente i sintomi per localizzare il problema. Solo che chi li fa i tamponi ne ha accumulati talmente tanti che non riesce a dare risposte veloci. Quando va bene. Perché poi ci sono posti in cui anche se ne fai uno, due, tre di tamponi la risposta non arriva mai. Ma questo è un altro film, un’altra regione.

Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti”.

San Giuseppe Moscati, il medico santo e i miracoli con cui ha guarito i napoletani. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2020. Considerato il medico dei poveri, San Giuseppe Moscati è stato beatificato da Papa Paolo VI nel corso dell’Anno Santo 1975 e canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, a 60 anni dalla sua morte. La sua capacità di conciliare scienze e fede lo ha reso uno dei medici più conosciuti del Novecento. In particolar modo a Napoli, dove ha trascorso gran parte della sua vita anche se nacque a Benevento. Settimo di nove figli, Giuseppe Moscati proveniva da una famiglia di laureati in giurisprudenza, ma lui non continuò il tradizionale lavoro di famiglia e decise di iscriversi alla facoltà di Medicina per seguire la sua vocazione. Infatti San Giuseppe Moscati diventa noto in tutto il mondo per i suoi miracoli, che tuttora portano tantissimi fedeli a rivolgersi a lui per ottenere una guarigione. Il medico dei poveri vedeva nei suoi pazienti il Cristo sofferente, e per questo era spinto da uno slancio di amore generoso nei confronti di chi soffriva. Non attendeva che i malati andassero da lui, ma li andava personalmente a cercare e curare gratuitamente nei quartieri più poveri ed abbandonati della città. Moscati diventa così l’apostolo divino, colui che porta l’amore, la solidarietà e la compassione nel mondo dei più bisognosi attraverso le sue cure.

LA STORIA – Venuto al mondo il 25 luglio 1890, all’età di quattro anni si trasferì con la sua famiglia nel capoluogo campano dove ha conseguito gli studi e ha sviluppato la sensibilità per gli ammalati, che poteva osservare dalla finestra della sua abitazione che affacciava sull’Ospedale degli Incurabili. Il primo ammalato con cui ebbe a che fare fu proprio suo fratello Alberto, il quale caduto da cavallo subì un trauma cranico che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento ebbe un effetto persuasivo su Moscati tanto che lo spinse ancora di più a proseguire la sua vocazione per la medicina. Conclusi gli studi universitari il 4 agosto 1903, dall’anno successivo dopo aver superato due concorsi, presta servizio di coadiutore all’ospedale degli Incurabili a Napoli. Inoltre, organizza l’ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e grazie alla sua capacità di agire tempestivamente ha assistito i ricoverati nell’ospedale di Torre del Greco, durante l’eruzione del Vesuvio nel 1906. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia, ed i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni. Negli anni si succedono le nomine a coadiutore ordinario negli ospedali e, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a primario. Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell’insegnamento. Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, diventando uno dei più ricercati nell’ambiente partenopeo e non solo, conquistando anche una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Ma ciò che più ha caratterizzato il professor Moscati è la sua dedizione verso i più deboli e la sua vita impregnata di fede e di carità. Infatti sono numerosi i racconti di pazienti che hanno testimoniato la sua benevolenza restituendo i soldi delle visite mediche. Per lui i pazienti erano delle anime divine, da amare come noi stessi. Giuseppe Moscati morì di infarto il 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina. I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è  svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975. A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987.

I MIRACOLI – Ancora oggi i miracoli di San Giuseppe Moscati sono ricordati con amore dal popolo, che celebra la festa liturgica del medico Santo ogni anno il 16 novembre. Il 16 novembre del 1930, infatti, i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Dopo due anni la beatificazione, sempre il 16 novembre, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione. Tra i miracoli più noti del medico troviamo tre guariti: Costantino Nazzaro, Raffaele Perrotta e Giuseppe Montefusco. Il primo miracolato fu Costantino Nazzaro, maresciallo degli agenti di custodia, in salute fino a quando nel 1923 un ascesso alla radice della gamba destra non lo portò ad ammalarsi. Durante la convalescenza nell’ospedale militare di Genova, le sue condizioni fisiche peggiorarono e gli fu attribuito il morbo di Addison, considerata all’epoca dai trattati di medicina una diagnosi mortale. Nella primavera del 1954 Costantino, entrato in chiesa del Gesù Nuovo pregò dinanzi la tomba di San Giuseppe Moscati ritornando ogni due settimane per quattro mesi. Una notte Nazzaro sognò di essere operato da Giuseppe Moscati e l’indomani era guarito, con l’incredulità dei medici che non riuscirono a spiegarsi la sua guarigione.

Il secondo miracolato invece, Raffaele Perrotta, fu guarito istantaneamente da meningite cerebrospinale meningococcica nel febbraio del 1941. La patologia di cui soffriva Perrotta gli fu diagnosticata da piccolo già in forma grave e stava così male che il professore che lo aveva in cura non gli aveva dato nessuna speranza. Le condizioni del bambino, infatti, si aggravarono e la madre invocò Giuseppe Moscati. Passate alcune ore il ragazzo riprese conoscenza e la malattia fu dichiarata debellata. Giuseppe Montefusco fu l’unico dei miracolati presente alla canonizzazione di Giuseppe Moscati nel 1975. Dopo pochi anni, quando lui ne aveva venti, cominciò ad accusare astenia, pallore e vertigini tanto da ricorrere al ricoverato in ospedale. Al ragazzo gli fu diagnosticata una leucemia acuta mieloblastica, una patologia che lo avrebbe portato in poco tempo alla morte. Una notte, la madre sognò la fotografia di un medico in camice bianco. Segnata dall’evento, l’indomani mattina la donna racconta il sogno al suo parroco che pensò subito che potesse trattarsi di Giuseppe Moscati. Così la madre di Giuseppe si recò nella chiesa del Gesù Nuovo, dov’è sepolto Moscati, a pregare. Suo figlio dopo meno di un mese guarì. Anche in questo caso i medici parlarono di una morte non spiegabile.

Lotta al coronavirus, il professore Ascierto diventa una statuina del presepe. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. In una mano ha le forbici, nell’altra la confezione di tocilizumab, il farmaco anti reumatoide che, per primo in Italia, ha sperimentato sui malati di Covid-19. Si tratta della statuina che Emilio De Cicco, artigiano presepiale, ha creato per l’oncologo napoletano Paolo Ascierto. “L’ho voluto rappresentare così, con delle forbici in mano che metaforicamente tagliano i tubi dei poveri ammalati seguendo il suo protocollo terapeutico oggetto di tante polemiche – ha detto il maestro artigiano a Il Mattino – Spero di aver fatto un buon lavoro. E mi auguro che in qualche modo riesca a recapitargli la statuina”.

Il premio. Prestigioso premio per Paolo Ascierto, dagli Usa arriva il Collaboration Award 2020 per il ricercatore del Pascale. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2020. “Sono orgoglioso oggi di ringraziare la Society for Immunotherapy of Cancer, Società per l’Immunoterapia del Cancro, che mi ha conferito il Collaborator Award 2020, un premio importantissimo per me, che celebra l’impegno e la fiducia che in pochi abbiamo avuto quando si è iniziato a parlare di immunoterapia”. Così l’oncologo e ricercatore italiano Paolo Ascierto dell’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli ringrazia con un post sui social l’organizzazione mondiale dedicata ai professionisti che lavorano nel campo dell’immunologia e dell’immunoterapia del cancro. Dopo numerosi riconoscimenti ottenuti quest’anno grazie anche al suo impegno nella battaglia contro il Covid-19, il dottor Ascierto potrà contare un premio in più nel suo palmares. “Sono altrettanto orgoglioso di aver fatto da ponte tra gli USA e l’Europa nella sperimentazione di un nuovo percorso di cura per i pazienti per cui fino a quel momento non avevamo molte terapie a disposizione”, prosegue l’oncologo. D’altronde, la ricerca dell’Istituto dei tumori Pascale non è la prima volta che sbarca oltreoceano. Lo scorso settembre, infatti, il sito statunitense Expertscape.com ha stilato una classifica di 65mila esperti nella lotta al melanoma mettendo al primo posto l’ospedale napoletano e Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia oncologica e Terapie Innovative. “Un risultato che abbiamo potuto raggiungere insieme, grazie alla ricerca e agli sforzi di tanti di noi che si sono dedicati alla scienza con passione e dedizione straordinarie”, conclude.

Ascierto unico oncologo italiano al convegno mondiale Asco. Redazione de Il Riformista il 31 Maggio 2020. Meeting virtuale anche per l’Asco, il convegno di oncologia più importante del mondo. Colpa del Covid 19, vietate le discussioni e le interazioni sul posto. Le presentazioni avvengono solo via internet, affidate ai social network la formulazione di domande e lo scambio di opinioni sui dati presentati. Se all’Asco si parla di Covid, è inevitabile, tuttavia, che l’Italia non abbia un posto in prima fila. L’American Society of Clinical OncologySCO, per celebrare il meeting di quest’anno, ha organizzato un video emozionale nel quale ha inserito, unico italiano e tra i pochissimi ricercatori europei, Paolo Ascierto, l’oncologo del Pascale, già noto alla comunità scientifica per i suoi studi sul melanoma, ma diventato noto ai più per la sua felice intuizione sull’uso off label del Tociluzimab, il farmaco anti artrite usato con successo nelle complicanze da polmonite da coronavirus. La frase chiave del video è “quest’anno non possiamo stare nella stessa stanza per l’ASCO, ma sicuramente siamo più uniti che mai!”. Il Covid ha cambiato diverse cose. Per esempio, il nostro modo di socializzare; possiamo vedere meno volti e più maschere; non possiamo stringerci la mano e dobbiamo stare a distanza; ci ha messo alla prova e ci ha cambiati. Ha cambiato il nostro modo di lavorare e guardare alle cose. Ci ha cambiato ma non ha cambiato la nostra determinazione nel curare i pazienti e combattere il cancro. “Quest’anno l’atmosfera dell’ASCO è surreale. – dice Ascierto – Ci mancano le discussioni e gli incontri finalizzati a nuove idee e progetti di ricerca. Ma è chiaro che questo non ci fermerà. Fortunatamente abbiamo la tecnologia che ci aiuta e quello che facevamo sul posto adesso lo facciamo attraverso internet oppure sui social. E’ un momento particolare e drammatico, ma ora più che mai, per chi cura i pazienti con cancro gli sforzi devono essere doppi: mantenere elevati i livelli di assistenza facendo attenzione alla sicurezza dei pazienti. Ma come dice ASCO, questo non ci fermerà”. Grande la soddisfazione del direttore scientifico dell’Istituto dei tumori di Napoli, Gerardo Botti: “È solo una conferma della qualità che impronta la ricerca traslazionale del nostro Istituto. Il rigore scientifico dei nostri ricercatori , i brillanti risultati delle sperimentazioni cliniche, la ricerca continua di soluzioni innovative, sono universalmente riconosciuti e questa iniziativa dell’ASCO ne rappresenta il giusto tributo”. E il direttore generale, Attilio Bianchi, aggiunge: “Siamo davvero orgogliosi che il Pascale, con un prestigioso ricercatore della nostra fantastica squadra, sia rappresentato nel video ufficiale del più grande convegno mondiale sull’ Oncologia. Il Pascale è un riferimento planetario per la ricerca e la cura oncologica e, anche in occasione della pandemia da Corona virus, ha indicato una strada che ha contribuito a cercare la luce”.

Non solo Covid: il Pascale primo in Italia per interventi di robotica, liste d’attesa rispettate. Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. Il Covid 19 non ferma l’attività operatoria del Pascale di Napoli. Anzi, ne fa il primo ospedale in Italia per interventi di robotica. Negli ultimi quasi due mesi in cui è scoppiata l’emergenza coronavirus e sono scattate le misure preventive in tutte le strutture sanitarie, nel polo oncologico partenopeo nulla è cambiato per quanto riguarda le prestazioni di chirurgia mini invasiva. A parlare sono i numeri: dal 20 febbraio ad oggi sono stati eseguiti 12 asportazioni totali di vescica con 2 ricostruzioni di neovesciche ortotopiche, 16 interventi per chirurgia conservativa per tumori del rene, 1 asportazione di neoplasia del fegato, 6 asportazioni del colon-retto per neoplasia, 2 gastrectomie , 5 interventi robotici del distretto testa-collo. Tutto questo con il massimo impegno del personale in un momento di grande sofferenza per la Campania e l’Italia tutta. “Da due mesi – dice il direttore generale del Pascale, Attilio Bianchi – non solo non abbiamo interrotto le normali prestazioni di chirurgia robotica, ma abbiamo cercato di incrementare l’offerta in considerazione dell’aumento di richieste da parte dei pazienti affetti da neoplasie oncologiche e suscettibili di interventi in chirurgia oncologica mini invasiva robot-assistita. Voglio, pertanto, ringraziare tutto il personale dell’Istituto che continua a dare il massimo, sul piano professionale e umano, anche in condizioni diventate all’improvviso proibitive. Certo, le misure che abbiamo posto in essere, triage, questionario, misurazione febbre, ossimetria, obbligo della mascherina, riduzione degli accompagnatori, comportano sicuramente disagi per i pazienti e ce ne scusiamo. Lo facciamo nel comune interesse di proteggere al massimo pazienti e operatori”.

IL MODELLO NAPOLI ESALTA IL SUD: INNO E APPLAUSI PER IL NUOVO OSPEDALE DA CAMPO. Carlo Porcaro l'8 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nelle stesse ore in cui Report su Rai 3 riprendeva ospedali fantasma o fatiscenti – certo non da ieri, quindi inutilizzabili per gestire l’emergenza Coronavirus con tempestività – nel quartiere Ponticelli di Napoli veniva accolto tra applausi e inno di Mameli il “treno” di 57 tir provenienti da Padova che trasportavano i moduli prefabbricati per costruire il primo ospedale da campo realizzato in Campania per aumentare i posti letto di terapia intensiva dedicati ai pazienti Covid. Una scena carica di emotività che prelude ad un grande risultato in termini di risposta da parte di un sistema sanitario che sta reggendo lo tsnunami Covid-19. All’esterno del già esistente Ospedale del Mare, entro il 15 aprile verranno montati i primi 48 posti, entro il 27 poi arriveranno altri camion per allestire i restanti 24 per un totale di 72 posti. I cittadini campani da una parte stanno rispettando le regole e dall’altra stanno apprezzando gli sforzi istituzionali. Ci sono ritardi soprattutto nel sottoporre i potenziali malati a tampone, ma si sta cercando di recuperare. «Entro tre giorni –ha assicurato l’architetto Antonio Bruno, direttore dei lavori a Ponticelli – il Covid center sarà completamente montato. Seguirà la fase dei collaudi e dell’arredamento, contiamo che il centro sarà operativo subito dopo Pasqua». All’ingresso dell’ospedale da campo ci sarà uno spazio per la camera calda, un tunnel per l’ingresso dell’ambulanza e le aree pedonali, evidenziate con colori differenti. Che cosa c’era nei camion salutati da tanto affetto, neanche fossero stati un contingente degli Americani che venivano a liberare la città? I moduli per le stanze, le apparecchiature, i ventilatori. La struttura costa 7,7 milioni di euro, la gara è stata vinta dalla Manufacturing Engineering Development di Padova che si occupa proprio di moduli prefabbricati in sanità. Secondo il direttore dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva una volta finito l’incubo non andrà tutto al macero, ma l’ospedale resterà a disposizione dell’utenza. Nell’ambito del piano della Regione Campania per far fronte all’emergenza Covid-19 sono previsti altri due ospedali prefabbricati per la terapia intensiva a Salerno e a Caserta.Sul fronte dei numeri, è cominciata la discesa. Tutto lascia pensare che per i primi giorni di maggio almeno al Centro-Sud si possa uscire di casa seppur seguendo una serie di imposizioni. Ieri i casi positivi sono aumentati di 880 unità rispetto al giorno precedente “l’incremento più basso dal 10 marzo scorso”, ha detto il vertice della Protezione civile. I nuovi contagiati sono stati 3.039, in totale 94.067. Il Mezzogiorno continua a contribuire in maniera marginale: +170 affetti da Coronavirus nelle regioni continentali, 210 se aggiungiamo la Sicilia. Analizzando l’incidenza dei contagi per numero di abitanti, si ha un quadro ancora più evidente: 1 ogni 1.842 in Campania, 1 ogni 2.337 in Calabria, 1 ogni 1.602 in Puglia. Ancora alto il numero dei morti, 604 che fanno arrivare l’ammontare complessivo a 17.127. I guariti invece, sono 1555, per un totale di 24392.

Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.

IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.

LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 13 maggio 2020. Dov' è finito il cantante che ha ricevuto fiori fior di premi, come l Allan Slaight Humanitarian Spirit Award, per il suo impegno umanitario? Dove si è cacciato l' artista che ha partecipato al Live Aid in sostegno dell' Africa, ai concerti di beneficienza del Pavarotti & Friends e poi a eventi in Pakistan e Medioriente in nome della pace e della lotta alle discriminazioni? Che fine ha fatto il campione di solidarietà che ha messo all' asta una chitarra di valore, raccogliendo 1 milione e 600mila dollari in favore dei diseredati dell' Asia? Forse ha deciso di togliersi la maschera o, più probabilmente, si è incattivito in questo periodo di cattività forzata. E così l' altro ieri Bryan Adams, il celebre cantante canadese, si è lasciato andare sui social a uno sfogo molto politicamente scorretto, anzi a un vero e proprio attacco ad alzo zero, degno di un qualsiasi leone da tastiera.

Record di insulti. Evidentemente imbestialito per i concerti annullati (si sarebbe dovuto esibire in questi giorni alla Royal Albert Hall di Londra), Adams ha riversato su Instagram e Twitter il suo livore contro i cinesi, a causa dei quali «l' intero mondo ora è sospeso», apostrofandoli con i peggiori epiteti. «Fottuti mangiapipistrelli», «ingordi bastardi fabbrica-virus», «venditori di animali nei mercati umidi», li definisce l' artista, accusandoli di essere la ragione per cui «migliaia di persone hanno sofferto o sono morte per il virus» e invitandoli infine a diventare vegani. I fan non l' hanno presa benissimo: «Pensa piuttosto a fare volontariato», gli scrive uno, «Dopo queste stupidità sono contento che i tuoi concerti siano stati annullati», rincara la dose un altro. Cosicché alla fine Adams ha preferito rimuovere il tweet e disattivare i commenti su Instagram. Sul merito, cioè sul fatto che, per colpa delle scellerate abitudini di qualcuno, tutto il mondo stia pagando conseguenze tragiche, non possiamo non essere d' accordo. Il problema è semmai nel linguaggio usato che un artista come lui dovrebbe cercare di dosare, sapendo bene di vivere di parole (e musica) e conoscendo l' influenza che i termini adottati da una star possono avere su un comune mortale. In tal caso è come se si fosse rovesciato il rapporto tra vip e individui comuni: di solito sono i primi a essere destinatari dell' odio dei secondi. Stavolta è stato un personaggio noto a insultare gli altri, sparando nel mucchio.

Doppia faccia. Ma il post di Adams ci permette di fare anche un' altra considerazione. E cioè: siamo tutti bravi a portare avanti iniziative benefiche, ad atteggiarci a paladini di cause umanitarie e buoni sentimenti, e a predicare Pace e Amore finché si vive in condizioni normali e la diversità altrui ci tocca per il tempo di un concerto. Quando però quelle differenze culturali incidono nelle nostre vite allora tiriamo fuori il nostro malanimo, riscopriamo l' indole intollerante e ci dimentichiamo le belle parole e i buoni sentimenti. Anzi, diventiamo spietatamente crudi e brutalmente veri. È quello che ha fatto Adams. Mettendosi a nudo, ha svelato anche l' ipocrisia di tutti quelli che «dopo questa quarantena diventeremo migliori». Lasciate stare, non è vero manco per un cazzo.

I bimbi della famiglia cinese regalano mascherine: «Per il vostro bene». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Decrestina. La tendina della portineria è chiusa da giorni. La posta è sparsa accanto al portoncino d’ingresso. A terra. Le consegne di pacchi e spesa, dopo puntuali istruzioni al citofono, avvengono in ascensore a diversi piani di distanza. Senza il rischio di vedersi. Che poi nessuno si vede nel palazzo, sono tutti in casa. Ed è in casa, al terzo piano, anche la famiglia Wang-Lian; due i bimbi nell’appartamento, uno, in questi giorni di quarantena, ha intensificato gli studi di pianoforte e ogni sera, dopo cena, si esercita con scale e accordi. È ancora all’inizio del percorso. Ieri sera, però, il tempo il casa Wang-Lian è stato impiegato diversamente: i bimbi hanno raccolto otto buste da lettera, le hanno riempite ciascuna di due mascherine di protezione, e poi le hanno appese, di notte, senza annunciare niente a nessuno, nell’androne del palazzo. «Per il vostro bene», «Andrà tutto bene», «Proteggi il mondo», «Ti prego , seguite le regole»: scrittura incerta, cuori asimmetrici con le bandiere italiana e cinese: ogni busta un messaggio di speranza e di attenzione, ogni busta un dono per proteggersi e stringersi a distanza. Quella della famiglia Wang-Lian, che abita a Milano, in zona Isola, non è la sola iniziativa: a Vigevano una famiglia di ristoratori cinesi ha fatto lo stesso, mascherine nelle caselle della posta di tutto il condominio. E altre testimonianza di solidarietà cinese si rincorrono in queste ore sui social stupendo ed emozionando tantissime persone. L’importanza della protezione personale, del rispetto delle regole della quanto più ermetica chiusura delle relazioni personali per evitare il contagio da Coronavirus, è al centro della comunicazione che la Cina, dopo aver vissuto il dramma dell’epidemia a Wuhan e in tutta la provincia dell’Hubei, porta avanti da settimane. «Ti prego seguite le regole», hanno scritto i bimbi della famiglia Wang-Liam sulla busta da lettere, «in Lombardia le policy purtroppo non sono ancora così strette come secondo i nostri standard. Le persone non indossano le mascherine, ci sono ancora troppe persone in giro»ha detto il vicepresidente della Croce rossa cinese Sun Shuopeng, giovedì mattina dopo la sua visita a Milano e nelle zone più colpite dal Coronavirus.

Eddy e Cristina, la coppia cinese che regala mascherine a Napoli: “I nostri tre figli bloccati all’estero”. Alessandra Esposito de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Una coppia di commercianti cinesi regala ai passanti le scorte di mascherine chirurgiche in giacenza nel loro negozio, mentre due imprenditrici del tessile confezionano mascherine in tessuto che donano ad una casa di riposo per anziani. Prima ancora che si registrassero i casi di coronavirus in Italia, dilagante è stato il fenomeno di atti di violenza e razzismo contro la comunità cinese. Era il 27 febbraio quando a Napoli la comunità cinese decise di chiudere tutti gli esercizi commerciali. Un cartello posto sulle serrande dei negozi avvisava i clienti che, autonomamente, la comunità cinese avrebbe rispettato un periodo di quarantena sino al 15 marzo. Il panico tra la gente, generato dal diffondersi del virus Covid 19, aveva fatto sì che più nessuno entrasse in quei negozi che, sorti come i funghi nel corso degli anni, erano presi d’assalto da chiunque fosse alla ricerca di prodotti di tecnologia e di minuteria di ogni genere. Il governo italiano, in quel periodo, non aveva ancora emanato alcuna ordinanza restrittiva, volta al contenimento del rischio contagio virus, in quanto ancora non era stato registrato alcun caso in Italia. L’epidemia sembrava così lontana e nessuno avrebbe mai immaginato che, di lì a poco, anche in Italia ci saremmo dovuti difendere da una forma di influenza letale così subdola ed invisibile. Eddy e Cristina, una coppia di coniugi cinesi, che da anni hanno la loro attività commerciale in via Campana a Pozzuoli, nel gennaio scorso, erano distrutti dal dolore. I loro tre figli minori erano andati in Cina per partecipare ai festeggiamenti del Capodanno cinese e non avevano fatto più ritorno a casa perché, proprio in quei giorni, da Wuhan a Pechino era scoppiata l’epidemia in tutta la Repubblica Popolare. Nel loro negozio, un tempo preso d’assalto da tanti clienti, non entrava anima viva ed anche loro, benché nella regione Campania non si fosse registrato alcun caso di contagio, vistisi alle strette, aderirono all’invito della comunità cinese presente a Napoli e provincia nel chiudere l’attività commerciale. Il diffondersi nel mondo dell’epidemia da contagio del Covid 19, ha fatto sì che l’Organizzazione mondiale della Sanità dichiarasse lo stato di pandemia da coronavirus; in Italia sono stati emanati dal governo vari decreti ministeriali, che dispongono misure urgenti e restrittive per contenere il rischio contagio ed in Campania, ad integrazione di quanto disposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, il Governatore Vincenzo De Luca, a sua volta, ha diffuso un’ordinanza per arginare quanto più possibile il rischio di contagio. Solo di pochi giorni fa è la notizia che una equipe di medici cinesi, esperti nella ricerca del Covid-19, è giunta in Italia per portare il proprio contributo per la ricerca e la gestione del diffondersi del virus. Sull’aereo sul quale viaggiavano, tonnellate di presidi medici tra cui ventilatori polmonari, tute protettive, guanti, mascherine, quest’ultime introvabili nelle farmacie, oppure vendute da commercianti senza scrupoli con manovre speculative a prezzi triplicati. Ed Eddy e Cristina? Beh, in attesa di poter riabbracciare i loro figli che non vedono da gennaio, non si sono persi d’animo, tutte le scorte di mascherine chirurgiche che avevano in negozio le hanno regalate agli abitanti di Pozzuoli, distribuendole alle persone che incontravano sul loro cammino mentre andavano a fare la spesa, così come hanno fatto con le successive forniture che gli erano giunte dalla Cina, compiendo un gesto di grande altruismo e di vicinanza per gli abitanti del Comune che da anni li ospita.

MASCHERINE FAI DA TE PER GLI ANZIANI – Un altro gesto di generosità è quello dimostrato da due cittadine di Pozzuoli, che hanno pensato bene, proprio quando la Lombardia era stata dichiarata “zona rossa”, di raccogliere l’appello disperato di una casa di riposo per anziani, che lamentava la totale assenza di mascherine da poter far utilizzare ai propri ospiti. Comprese le difficoltà, hanno deciso di realizzare delle mascherine in stoffa totalmente riutilizzabili, ovviamente, non classificabili come presidi medici ma, di sicuro, una valida alternativa di protezione per se stessi e per gli altri, soprattutto in assenza di quelle omologate. Grazie all’ingegnosità femminile, infatti, le due imprenditrici, con il manifestarsi dei primi focolai dell’epidemia al nord Italia, hanno prodotto circa 500 mascherine di tessuto di jeans leggero e tela di lino dove, grazie ad un piccolo taschino creato al suo interno, è possibile inserire dei dischetti di cotone intercambiabili, del tipo utilizzato per struccarsi. Con l’aiuto delle dipendenti della loro ditta, hanno messo da parte la produzione di confezioni sartoriali, destinate alla vendita, per dedicarsi alla realizzazione delle mascherine. Ben 200 pezzi di quelle realizzate, completamente riciclabili, in quanto basta lavarle per poterle riutilizzare, sono state donate ad una casa di riposo in Lombardia, mentre le altre 300 sono state consegnate alle dipendenti che, a loro volta, le hanno distribuite tra amici e parenti, almeno per tamponare l’assenza sul mercato di quelle rientranti nella categoria sotto il nome di presidio medico.

Antonella Napoli per repubblica.it il 26 marzo 2020. Lo stigma sociale per il contagio da Covid-19 in Africa si è abbattuto su “l'uomo bianco” e sta diventando un'emergenza nell'emergenza. Con l'aumento esponenziale del numero di contagiati nel continente africano, che sfiora i 2.300 casi in 43 paesi su 54, nei confronti degli occidentali cresce la tensione che sfocia in atteggiamenti minacciosi, insulti e diffusione di fake news su "l'untore straniero". Dal Kenya all'Etiopia sono stati segnalati episodi di violenza fisica e verbale che hanno coinvolto in particolare statunitensi ed europei, tra cui molti italiani. Come nel caso del nostro ambasciatore in Burkina Faso, Andrea Romussi, considerato 'importatore del virus' nel Paese pur essendosi ammalato di coronavirus nella capitale Ouagadougou. A lanciare l'accusa la ministra della Salute burkinabé Claudine Lougué, affermando in tv che a far arrivare il virus in Burkina Faso era stato "l'ambasciatore italiano tornato dalle vacanze", nonostante il diplomatico fosse stato l'ultima volta in Italia a novembre. Attacchi verbali e minacce nei confronti di nostri connazionali sono stati segnalati anche in Camerun, Ghana e Tanzania, tanto da spingere l'ambasciata d'Italia a Dar Es Salaam a consigliare agli italiani di limitare i movimenti e di spostarsi insieme ad altre persone, soprattutto fuori dei percorsi abituali. Anche in Kenya c'è allarme: quella italiana è tra le comunità straniere più numerose nel Paese. "Abbiamo visto diminuire la presenza delle persone nelle strade gradualmente. Sono spariti quasi tutti gli europei" racconta padre Renato Kizito Sesana, missionario combiniamo che da anni vive e porta avanti una missione in Kenya. A Nairobi la situazione si aggrava di giorno in giorno e la polizia ha dovuto sparare per disperdere decine di persone che si assembravano nelle zone pubbliche e dei mercatini, incuranti delle disposizioni del decreto di emergenza del governo. Tutti i servizi religiosi in chiese e moschee sono sospesi, ai funerali è ammessa solo la presenza di familiari più stretti. Tutti i bar saranno chiusi fino a nuove disposizioni e i ristoranti potranno operare fino alle 19:30, ma solo come take away, i clienti non potranno essere serviti ai tavoli. Tutti sono invitati a restare a casa, ma non è ancora un ordine. Anche per questo non tutti si attengono alle misure disposte dalle autorità, ma il governo è pronto a schierare l'esercito" prosegue il missionario preoccupato per come i keniani possano gestire l'epidemia. Sia nella capitale keniota che nelle zone periferiche, come Kisumu e Kilifi, dove la presenza di nostri connazionali è rilevante,  ci sono stati scontri tra poliziotti e ambulanti. "In Kabiria Road fino a ieri sembrava tutto normale: negozi e bancarelle aperte, gente pressata nei matatu, assiepata introno ai venditori di frittelle, di pannocchie arrostite, di chapati e salsicce auto-prodotte. Così si rischia il disastro" conclude con preoccupazione padre Kizito. La decisione della Farnesina di mettere a disposizione per chi volesse tornare in Italia un volo commerciale di rimpatrio, organizzato dal l'Ambasciata in Kenya, è maturata in un contesto che rischia di degenerare in fretta. Con la tensione crescente nel Paese e il diffondersi del Covid-19, la 'caccia all'untore biancò rischia di fare più danni dell'epidemia stessa.

Coronavirus, “rischio di discriminazioni verso stranieri e minoranze in Africa”. Le Iene News il 25 marzo 2020.  Un report di Risk Advisory Group, società internazionale che fornisce consulenze sulla sicurezza di aziende ed enti, racconta di un possibile aumento di episodi di discriminazione e violenze in Africa ai danni di persone ritenute colpevoli di avere importato il coronavirus. Dal Camerun al Senegal, dall’Etiopia al Kenya: la diffusione del coronavirus potrebbe portare a episodi di discriminazione e violenza ai danni di persone ritenute portatrici del virus. L’allarme è contenuto in un rapporto riservato di Risk Advisory Group, destinato all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). La società, con sedi in tutto il mondo, si occupa di fornire ad aziende ed enti consulenza nella gestione dei rischi globali. Rischi come appunto la pandemia da coronavirus, che in parte dell’Africa sub-sahariana starebbe iniziando a diventare anche un problema di ordine pubblico e di sicurezza. “Starebbero apparentemente aumentando i rischi di molestie, discriminazione e violenza contro gli stranieri e le minoranze locali”, spiega il report di Risk Advisory Group. Secondo questo report, si starebbe manifestando una “crescente animosità tra le popolazioni locali, alcune delle quali percepiscono gli stranieri o le minoranze come responsabili della diffusione della malattia. Ciò probabilmente peggiorerà nelle prossime settimane con l'aumento delle infezioni da COVID-19 e con l'introduzione di misure restrittive da parte dei governi”. “La scorsa settimana le ambasciate statunitensi in Etiopia e Camerun hanno emesso avvisi di sicurezza affermando di essere a conoscenza di diversi casi di questo tipo”. Noi di Iene.it siamo in grado di mostrarvi l’alert inviato dall’ambasciata Usa a Younde al proprio personale. Il documento è datato 19 marzo e riporta il seguente oggetto: “Report di sentimenti anti-stranieri”.  “L’ambasciata ha ricevuto report riguardanti la crescita di sentimenti anti-stranieri, seguenti all’annuncio della diffusione del COVID-19. Incidenti, molestie e assalti legati al COVID-19 sono stati riportati da cittadini Usa e di altre nazionalità nelle città di Younde e Doula. Il report include assalti verbali e online, lancio di sassi e colpi alle auto occupate dagli espatriati”. Il report cita anche un altro caso: “In Sudafrica questo sembra aver alimentato l'antagonismo nei confronti della popolazione bianca del paese. La settimana scorsa un contatto di sicurezza nel paese ci ha detto che erano a conoscenza delle chiacchiere diffuse su WhatsApp che accusavano i bianchi di aver portato COVID-19 nel paese. La gente ha dato alle fiamme un negozio di proprietà di un cinese vicino a Cape Town, accusandolo di aver portato il coronavirus nel paese”. Se da un lato la società ribadisce di non avere assistito direttamente a scene di violenza, dall’altro cita alcuni episodi significativi del clima di tensione che si starebbe vivendo. “Ci sono state notizie di molestie nei confronti di occidentali o persone di origine araba o asiatica in Senegal, Costa d'Avorio, Ghana e Kenya. L'ambasciata degli Stati Uniti ad Addis Abeba ha riferito che sia stato negato l'accesso a mezzi di trasporto come i taxi e in Kenya una folla ha ucciso un uomo sospettato di essere infetto”. In Kenya alcune fonti riferiscono di scontri tra la polizia e commercianti che si rifiutavano di osservare la quarantena in casa. Padre Renato Kizito Sesana, missionario che da decenni vive e opera nel paese del Corno d'Africa, ha raccontato sulla sua pagina Facebook: "Purtroppo lungo la Kabiria Road tutto è normale, negozi e bancarelle aperte, gente pressata nei matatu, assiepata introno ai venditori di frittelle, di pannocchie arrostite, di chapati e salsicce auto-prodotte". Intanto anche un nostro rappresentante diplomatico, l'ambasciatore italiano in Burkina Faso, sarebbe in qualche modo finito per essere coinvolto in questo clima di tensione, dopo che la ministra della Salute di quel Paese lo aveva accusato di aver portato in Burkina Faso il virus di "ritorno dalle vacanze".  Il report chiude così: ”La probabilità di tali incidenti aumenterà probabilmente man mano che COVID-19 continuerà a diffondersi”. Finora il continente africano ha registrato oltre 2,200 casi di contagio in 43 paesi, e oltre sessanta morti.

Coronavirus, in Africa aggressioni contro gli europei. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 21 marzo 2020. È una notizia che probabilmente scatenerà l’indignazione degli antirazzisti militanti e radical chic vari: in Africa la pandemia da coronavirus sta scatenando il razzismo verso europei e cinesi. E non parliamo di casi isolati ma di vere e proprie aggressioni e di violenze in più Paesi, dal Kenya al Sudafrica passando per l’Etiopia. Il tutto accade mentre nel continente africano è salito a 805 il numero complessivo dei contagi confermati. Secondo quanto riferisce la piattaforma Covid19-Africa, il Paese con il numero più alto di contagi si conferma l’Egitto con 256 casi, seguito da Sudafrica (151), Algeria (90), Marocco (63), Tunisia (39), Senegal (38), Burkina Faso (33), Repubblica democratica del Congo e Camerun (14), Nigeria (12), Ruanda (11), Costa d’Avorio, Ghana e Togo (9), Kenya (7), Etiopia, Tanzania e Seychelles (6), Guinea equatoriale (4), Gabon, Namibia e Mauritius (3), Zambia, Guinea, Liberia, Mauritania e Benin (2), Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana, Gabon, Sudan, Eswatini, Benin, Somalia, Gambia, Niger e Capo Verde (1), per un totale di 21 morti e 72 guariti.

Coronavirus, in Africa aggressioni contro europei. Con l’aumento delle persone positive al Covid-19 accrescono anche le tensioni e la xenofobia, soprattutto in Paesi come l’Etiopia. L’ambasciata degli Stati Uniti in Etiopia, riporta l’agenzia Nova, ha condannato le aggressioni avvenute nei confronti di cittadini stranieri sospettati di essere positivi al coronavirus. In una nota pubblicata sul suo sito web, la rappresentanza diplomatica si è detta preoccupata per il “sentimento xenofobo” scaturito dalla conferma dei primi casi di contagio nel Paese. “Ci sono state segnalate molestie e aggressioni direttamente collegate al Covid-19 da altri cittadini stranieri residenti ad Addis Abeba e in altre città del paese. In base alle testimonianze, gli stranieri vengono attaccati con pietre e con sputi o inseguiti e a molti vengono negati i servizi di trasporto”, si legge nella nota. Come conferma un reportage de La Stampa, in Etiopia un professore straniero è stato assaltato a colpi di pietre, mentre un ragazzo è stato costretto a fuggire da uno spazio di co-working nel quartiere di Bole. Una spirale di violenza alimentata da una serie di post sui social media in cui si vedono bianchi fotografati per le strade della capitale etiope accusati di essere positivi al coronavirus senza alcuna base scientifica o test di conferma. Le tensioni contro gli europei accusati di diffondere il covid-19 accrescono anche in Sudafrica, il secondo Paese africano più colpito. Come riporta La Stampa a Johannesburg, un autobus, con decine di turisti europei a bordo, è stato apostrofato con lo slogan “corona, corona” costringendo l’ autista ad abbandonare l’ area in cui si trovava. E sui social molti utenti accusano occidentali e bianchi ricchi sudafricani di “importare il virus” e di diffonderlo nel Paese. La preoccupazione nel Paese sale e così le autorità locali hanno deciso che gli stranieri non potranno sbarcare all’aeroporto di Johannesburg, mentre la compagnia statale South African Airways ha sospeso tutti i voli internazionali fino a giugno.

Kenya, uomo picchiato a morte. Un uomo in Kenya sospettato di positivo è stato picchiato a morte da un gruppo di giovani giovedì mentre tornava a casa. L’uomo di 35 anni, identificato con il nome di George Kotini Hezron, stava tornando a casa da un bar a Msambweni, un villaggio di pescatori popolare tra i turisti per le sue bellissime spiagge sabbiose, quando il gruppo di giovani lo ha assalito. Dopo averlo aggredito verbalmente la folla lo ha picchiato, lanciando anche delle pietre, prima di fuggire. Trasportato all’ospedale di Msambweni, è morto a causa delle gravi ferite. Il comandante della polizia locale Joseph Nthenge ha annunciato la morte dell’uomo, aggiungendo che non c’erano prove concrete che la vittima fosse stata infettata. L’incidente è avvenuto dopo che il segretario alla salute del Kenya, Mutahi Kagwe, ha confermato altri tre casi di coronavirus a livello nazionale, portando il numero totale di infetti a sette. Tra i casi positivi un cittadino del Burundi arrivato in Kenya da Dubai e una coppia spagnola.

Coronavirus, Bolsonaro: "In Italia muore tanta gente perché è un Paese di vecchi". Le parole di Bolsonaro sull’Italia “terra di vecchi” sono state pronunciate neanche un giorno dopo il primo decesso in Brasile per coronavirus. Gerry Freda, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha ultimamente commentato l’emergenza-coronavirus in corso in Italia evidenziando l’alta percentuale di popolazione anziana del Belpaese. Il leader nazionalista ha rimarcato il legame tra invecchiamento della popolazione e dilagare del coronavirus nel corso di un recente incontro con i giornalisti verde-oro, incentrato proprio sulle misure che il governo del gigante sudamericano avrebbe a breve messo in campo per contrastare il Covid-19. Lo stesso presidente conservatore, nei giorni scorsi, si è sottoposto in via precauzionale al test anti-morbo, che ha allora rilevato la negatività di Bolsonaro al contagio. Il Brasile, appena questo martedì, ha però dovuto piangere la sua prima vittima dell’agente patogeno che sta mettendo in ginocchio la comunità internazionale. Parlando nel corso di una conferenza-stampa tenuta a Brasilia, il capo dello Stato verde-oro, ha riferito ieri SkyTg24, ha provato a stemperare la crescente preoccupazione dei suoi connazionali riguardo alla diffusione della malattia incriminata nel Paese latinoamericano. Egli ha infatti cercato di rassicurare l’opinione pubblica locale affermando che l’epidemia colpirebbe principalmente nazioni “vecchie”, come sarebbe a suo dire l’Italia. Bolsonaro, citato dall’emittente, ha quindi affermato: “L'Italia è una città... un Paese pieno di vecchietti. In ogni palazzo ce n'è almeno una coppia, come a Copacabana. Per questo motivo ci sono tanti morti”. Il presidente, riporta AdnKronos, ha successivamente aggiunto: “Gli anziani hanno altre malattie, ma dicono che muoiano per coronavirus. Non li uccide il coronavirus che arriva alla fine, quelle persone sono già debilitate”. I tentativi del leader conservatore di sdrammatizzare la bomba-coronavirus, uniti alla sua propensione a tacciare di isterismo chiunque denunci la pericolosità della pandemia e a criticare i governatori e i sindaci brasiliani che hanno introdotto misure restrittive anti-contagio, non stanno suscitando, ad avviso di SkyTg24, grande consenso popolare. Ad esempio, martedì scorso, fa sapere la medesima rete televisiva, i cittadini di molte grandi città del Paese hanno dato vita a una curiosa iniziativa di protesta nei riguardi del capo dello Stato: lanciare delle pentole fuori dai loro balconi, simbolicamente contro l’esponente nazionalista, al grido di “fuori Bolsonaro”. L’uscita del presidente verde-oro sull’Italia quale “terra di vecchietti” ha subito provocato forti critiche da parte dei politici del Belpaese. Uno di questi, ossia Andrea Romano, deputato del Pd e membro della commissione Esteri alla Camera, ha appunto rivolto a Bolsonaro le seguenti dure parole, riportate sempre da SkyTg24: "Auguriamo agli amici brasiliani, anche a quelli di una certa età, di non passare mai quello che sta passando l'Italia. Ma pretendiamo che la presidenza brasiliana rispetti l'Italia e la sua sofferenza, astenendosi da affermazioni deliranti e offensive come quelle di Bolsonaro”.

Coronavirus, "Una scusa per gli italiani per non fare niente": il commento infelice di un presentatore britannico. Lui è Christian Jessen, medico e presentatore di programmi "spazzatura". La battuta inopportuna l'ha pronunciata premettendo che può  "essere un po' razzista". Di Maio: "Qualcuno ha confuso la pandemia con uno show". Enrico Franceschini il 13 marzo 2020 su La Repubblica.  "Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta". Un commento a dir poco vergognoso, specie davanti a 15mila malati e oltre mille morti nel nostro Paese, quello del dottor Christian Jessen, 43enne medico britannico, scrittore e presentatore televisivo di show stile tabloid, come "Embarassing  bodies" (Corpi imbarazzanti) e "Supersize vs Superskinny" (Supergrassi contro supermagri). Ha anche prodotto e narrato un documentario intitolato "Cure me, I am gay" (Curatemi, sono gay), su presunte terapie per "curare l'omosessualità". Che le sue parole siano imbarazzanti è lui stesso ad ammetterlo, durante l'intervista radiofonica alla rete Fubar, secondo quanto riporta il quotidiano Independent: "Quello che dico potrebbe essere un po' razzista, e mi toccherà scusarmi, ma non pensate che il coronavirus sia un po' una scusa? Gli italiani, sappiamo come sono, per loro ogni scusa è buona per chiudere tutto, interrompere il lavoro e fare una lunga siesta". Usa proprio il termine spagnolo, "siesta", diffuso anche in inglese, alludendo a un prolungato riposino pomeridiano, ovvero nelle ore lavorative. A quel punto il conduttore gli domanda se è d'accordo con la decisione di Boris Johnson di ritardare la chiusura delle scuole. "Concordo in pieno", risponde il dottor Jessen. "Penso che sia un'epidemia vissuta più sulla stampa che nella realtà. In fondo anche l'influenza uccide migliaia di persone ogni anno". Il che è vero: le vittime della normale influenza sono circa 8mila l'anno soltanto in Gran Bretagna. Ma a parte che il coronavirus a detta di medici e scienziati non sembra una "normale" influenza, l'intervistatore gli fa notare che comunque già 10 persone sono morte nel Regno Unito per l'infezione arrivata dalla Cina. "Lo so, è tragico per le persone coinvolte, ma non si tratta di grandi numeri. Non colpisce le madri, non riguarda le donne incinte, e nemmeno i bambini per quanto sappiamo, perciò perché questo panico di massa? Diciamo la verità, è solo un brutto raffreddore. Non è una vera epidemia, o meglio, ovviamente lo è, ma ci preoccupiamo troppo. Beh, spero di non dovermi rimangiare queste parole!" Laureato in medicina al prestigioso University College London, il dottor Jessen ha una specializzazione proprio alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, la facoltà che studia i nuovi virus. Esercita tuttora la professione di medico presso una clinica privata di Harley Street a Londra, anche se il suo principale mestiere è diventato fare la star delle tivù sensazionale. Questa sera è arrivata, sulla sua pagina Facebook, la reazione del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio: “Qualcuno ha confuso il coronavirus per uno show. E personalmente provo imbarazzo per queste persone. Dopo l’insulto alla pizza italiana (su cui poi sono arrivate le scuse della tv francese), ora arriva l’ultimo dei conduttori televisivi, tale Christian Jessen, inglese, già noto per i suoi programmi di grande approfondimento culturale come “Malattie imbarazzanti”... Questo straordinario statista, in merito all’emergenza che stiamo vivendo, ha detto che 'gli italiani usano delle scuse per chiudere tutto e smettere di lavorare per un po’, per avere una lunga siesta'. Io non lo commento nemmeno. E stavolta, sono sincero, non ci servono nemmeno le scuse, ancor meno le sue. È un piccolo uomo, lasciamolo alle sue farneticazioni e guardiamo avanti. Con dignità, come abbiamo sempre fatto”.

Eleonora D'Amore per fanpage.it il 24 marzo 2020. Era lo scorso 13 marzo quando il dottor Christian Jessen, medico e conduttore del programma inglese Malattie imbarazzanti, affermò che gli italiani stavano usando la pandemia di coronavirus come scusa per avere una "lunga siesta", riconoscendo che i suoi commenti potevano sembrare "un po' razzisti". A pochi giorni da quella frase infelice, arriva il suo commento sui social, nel quale si scusa per aver offeso l'Italia e chiunque stia affrontando questo momento di forte sofferenza: Per quanto riguarda i miei commenti sull’epidemia di coronavirus in tutto il mondo e la situazione dell’Italia: Ho sbagliato, lo ammetto. Ho cercato di sdrammatizzare il panico. Tuttavia, col senno di poi riconosco che la mia osservazione era insensibile e devo scusarmi per qualsiasi turbamento io abbia causato. Capisco perché sia stato offensivo e spero possiate perdonarmi. Come medico, il mio lavoro è essere onesto e cercare di portare luce nella vita delle persone. Vorrei assicurarvi che i miei pensieri sono rivolti a tutti coloro che sono colpiti dal virus e a coloro che stanno lavorando duramente per aiutare tutti a superare questo momento difficile. Infine, al momento non sto usando molto i social media, quindi tenete presente che forse non vedrò le vostre risposte. Ripeto che adesso non userò i social media perché sto lottando con la mia salute mentale e Twitter non è sempre il posto migliore dove trovarsi in tali circostanze. Tornerò quando starò meglio.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 27 febbraio 2020. Un’uscita infelice. Cataloghiamola così. Ieri sera a L’Assedio, sul Nove, Michela Murgia ha pronunciato una battuta ironica nelle intenzioni ma davvero poco riuscita. La scrittrice, infatti, si è augurata che il Coronavirus prosegua ancora un po’ se il suo risultato sono le strade più vivibili e i mezzi pubblici semi-vuoti. Interloquendo con la conduttrice Daria Bignardi, che l’aveva convocata a Milano per supplire all’assenza del pubblico in studio (proprio a causa precauzioni anti-virus), Murgia ha affermato: “Ho viaggiato comodissimamente in un aereo semi-vuoto, sono arrivata in una città senza traffico. Le persone… normalmente non riesco a fare un passo. Può durare un altro po’ questo virus? Se il risultato è la vivibilità delle strade, io ci metterei la firma“. E la conduttrice, smorzando, ha più prudentemente chiosato: “Diciamo che ci sono dei pro e dei contro…“. Ora, utilizzare il sorriso per stemperare anche le situazioni più serie è cosa legittima ed anzi apprezzabile. Quindi non biasimeremo le intenzioni della scrittrice sarda, che nel salotto deserto della Bignardi voleva probabilmente destare simpatia. Le battute, però, sono come le ciambelle: non sempre escono col buco. E, soprattutto, bisogna saperle fare. Auspicare che il virus duri “un altro po’” in un momento in cui ci sono undici Comuni blindati, oltre 400 infetti ed ospedali in costante allerta non è proprio il massimo. Anzi, è fuori luogo. Anche il compiacimento per l’assenza di folle (segno di un impatto sociale ai limiti della psicosi), poteva essere posto in termini diversi, come del resto ha poi tentato di fare la stessa Bignardi. A naso, scommettiamo che non tutti i telespettatori abbiano gradito o compreso le affermazioni della scrittrice, a maggior ragione se sintonizzati dalle zone focolaio. Morale della storia: l’ironia è un’arte rara e solo chi la possiede davvero sa che ci sono tempi e modi per esercitarla con efficacia.

Nicola Porro contro Michela Murgia: "Coronavirus, che gliene frega dei morti? Spocchia di sinistra". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Ha fatto discutere, eccome, la sparata di Michela Murgia. La scrittrice rossa, ospite in tv, è riuscita ad augurarsi che il coronavirus "duri ancora un po'". La ragione? "I mezzi pubblici sono semi-deserti e le città sono più vivibili". Frasi agghiaccianti, contro le quali - tra gli altri - si scaglia anche Nicola Porro. "Nemmeno il coronavirus riesce a fermare la spocchia della sinistra radical chic", cinguetta su Twitter introducendo il commento di Max Del Papa contro la Murgia. Il pezzo contro la scrittrice è durissimo. Titolo: "Murgia, il classismo ai tempi del coronavirus". Un articolo nella cui conclusione si legge: " Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione". Parole di Max Del Papa, condivise in toto da Nicola Porro.

Murgia, il classismo ai tempi del Coronavirus. Max Del Papa, 28 febbraio 2020 su Nicolaporro.it. Michela Murgia loves coronavirus. Le tiene lontana la massa, sostiene, quel popolaccio lurido e pezzente ch’ella ostenta di amare, ma a debita distanza, di un amore secco, teorico, frigido, nella più distillata tradizione comunista. Questa Murgia, scrittora di un solo exploit, peraltro effimero, Abbacadora, Abracadabra, ma sul quale campa da quel dì, ama, non riamata, il coronavirus e va a dirlo da una esterrefatta Daria Bignardi, che, per l’occasione, scioglie il bigné del birignao e tenta di metterci una pezza. Fatica sprecata: Murgia, aplomb da casa del popolo, pretese da nobildonna del regno di Sardegna (se non hanno pane, dategli il coronavirus), va presa in blocco, con la cultura sproporzionata, la simpatia travolgente, la raffinatezza analitica, il profondissimo rispetto dell’altro. Quel librarsi nei cieli alti della riflessione con la levità di un gabbiano nutrito di erudizione. Fascista è chi fascista fa. La “matria”. La società patriarcale. La difesa da prontosoccorso di quell’altro soggettino equilibrato e accattivante, Chef Rubio, quello che vuol serenamente far fuori sovranisti e sionisti e lei, a sirene spiegate contro gli sconcertati: ma cosa dite, buzzurri, incolti, bifolchi, è una iperbole. Anche Murgia è una iperbole; vorrebbe il coronavirus “ancora un po'”: ora, lasciamo pur perdere il giochetto del “se l’avesse detto un altro, uno di destra, se l’avesse detto Salvini o la Meloni”: cosa sarebbe successo è chiarissimo, altro che iperbole, si sarebbe scatenata Murgia inveendo contro il fascista che è chi lo fa, la società maschilista, il razzismo, il nazismo, il sessismo: quante storie, Michela. Tutto già visto, già sentito, tutto strabusato e scontato. Piuttosto, è da rimarcare il curiosissimo concetto di solidarietà, di umanità, di socialità di questa Murgia qua. Eh, già. Ma non è la stessa paladina dei migranti senza limiti e confini, senza controlli e precauzioni? Non è la portavocia delle masse popolari, la paladona della sanità pubblica, del tutto pubblico nel nome di un nuovo rinascimento socialista? Non è quella del trasporto universale per il sale della terra, la difensora di ogni causa giusta, non è la stessa che si lascia ritrarre, mollemente abbandonata su una dormeuse, su morbidi cuscini mentre ride, languida e complice col prolifico disegnatore da centro sociale Zerocalcare in nome dell’amore proletario? Il punto non è “immaginiamoci se la sparata del coronavirus ti amo l’avesse detta un altro”: il punto è che l’ha detta proprio Murgia. Ipsa dixit. Also sprach Zaramurgia. L’amica del popolo, ma, soprattutto, del giaguaro. Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione. Anche se nessuno ci aveva mai provato, tranne, eventualmente, i due o tre lettori dell’Espresso ancora resistenti. Oh Murgia: e se il virus attaccasse anche i migranti? Se si scatenasse sui poveri, che non hanno mezzi per curarsi a dovere? Se mietesse vittime nel sud del sud del mondo? Fa niente, l’importante è che Murgia voli su un aereo da sola: lei, mollemente adagiata sulle poltroncine in pelle di povero, il pilota e una hostess in ruolo di schiava a farle vento. Fate largo, passa Murgia, svuotate le strade: forse, in verità, non c’era bisogno del coronavirus. Ma che fa? Se non altro abbiamo scoperto che il suo prontuario di democrazia progressiva, “fascista è chi il fascista fa” era autobiografico. Un po’ l’avevamo sempre sospettato, adesso è arrivata la conferma, autografa, dalla sconsolata Birignao Bignardi. ‘Acca miseria, Accabadora, Bibidibobidibù.

Libero è quasi felice perché il Coronavirus è arrivato anche al Sud: «Ora sì che siamo tutti fratelli». Enzo Boldi il 4 marzo 2020 su giornalettismo.com. Il 4 marzo 2020, andando in edicola a comprare i quotidiani, scopriamo che il Coronavirus è un novello Garibaldi che è riuscito a unire l’Italia. Il tutto appare in prima pagina, con il classico titolo a nove colonne, su Libero Quotidiano che quasi esulta per i primi casi di contagio anche nel Meridione. Secondo la testata diretta da Pietro Senaldi e Vittorio Feltri (sul lato editoriale), il Coronavirus al Sud è riuscito a far sentire gli italiani tutti fratelli, senza la discriminazione sulle persone affette nel Settentrione. «Virus alla conquista del Sud», recita il titolo di Libero nell’edizione pubblicata mercoledì 4 marzo 2020. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: «L’infezione crea l’unità d’Italia» e «Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa». Insomma, l’arrivo del Coronavirus al Sud sembra essere rappresentato come un novello Garibaldi che ha riportato unità nazionale. Si parla di caccia all’untore nel titolo che anticipa l’articolo scritto da Renato Farina, senza sottolineare – e non è un giudizio di merito, anzi – come la maggior parte dei contagi nel Sud Italia sia arrivato proprio da persone che hanno frequentato le zone rosse del Nord o altri centri delle zona: dall’uomo pugliese che è tornato da Codogno dove era andato in visita dalla madre, al poliziotto di Pomezia rientrato da un concerto dei Jonas Brothers al Forum di Assago (Milano). Insomma, ribadendo che non ha senso suddividere la popolazione in Nord e Sud, il target di Libero è completamente sbagliato.

Il concetto di unità d’Italia. Il Coronavirus al Sud non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva (e, in alcuni casi, continua a chiedere) la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.

Libero esulta per il Coronavirus al Sud. Mario Neri il 4 Marzo 2020 su nextquotidiano.it. Così come nella tragedia c’è sempre un filo di commedia e viceversa, Libero – ormai dedito a spegnere il fuoco dell’emergenza Coronavirus – oggi esulta per una “buona notizia” di quelle che in effetti non bisogna perdersi: l’infezione crea l’unità d’Italia perché il virus è partito alla conquista del Sud. E subito ecco i numeri della buona notizia: trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia. “Ora sì che siamo tutti  fratelli, finita la caccia all’untore del Nord”. Certo, Libero non sa – o non capisce – che non ci sono per ora focolai autonomi identificati al Sud, e questo significa che in effetti COVID-19 è arrivata nel meridione attraverso i contatti tra Nord e Sud (celebre il caso della Puglia, dove un uomo si è ammalato dopo aver visitato l’anziana madre dalle parti di Codogno, ma c’è anche Roma dove la figlia del poliziotto malato era stata ad Assago per un concerto dei Jonas Brothers). E quindi la “caccia all’untore del Nord” in effetti non ha ragione di essere conclusa, anche se non pare che sia mai seriamente cominciata (anche perché a Taranto se la sono presa con il cittadino pugliese, non certo con i lodigiani). Ma questi sono dettagli, meglio festeggiare: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta.

Mario Neri è uno pseudonimo.

"Virus alla conquista del Sud", titolo shock di Libero in prima pagina! Scoppia la bufera. Alessandro Sepe il 4 marzo 2020 su AreaNapoli.it. L'edizione odierna di Libero ha pubblicato in prima pagina un titolo davvero discutibile in merito all'emergenza Coronavirus. "Virus alla conquista del Sud", è l'orrendo titolo pubblicato in prima pagina dall'edizione odierna del quotidiano Libero. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: "L’infezione crea l’unità d’Italia" e "Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa". Un titolo davvero evitabile in un momento così difficile per il nostro paese. Tanti utenti sui social stanno aspramente criticando la scelta editoriale del quotidiano nazionale. Il Coronavirus al Sud, come vuol far intendere Libero, non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.

Coronavirus, Libero: “Virus alla conquista del Sud, ora siamo tutti fratelli”. Claudia Ausilio 4 marzo 2020 su vesuviolive.it. I casi di coronavirus in Italia aumentano di ora in ora, tanto da spingere il Governo a varare delle misure speciali per contenere il virus. Dai focolai del Nord, oggi sono aumentati i contagi da Covid-19 anche al sud: è di ieri sera la notizia del primo caso ad Ischia, un turista bresciano in vacanza sull’isola verde. E’ così che il quotidiano “Libero” ci ricasca e pubblica in prima pagina un articolo dal titolo: “Virus alla conquista del Sud- L’infezione crea l’Unità d’Italia”. Un’espressione che sa di esultanza, che equivale a dire finalmente arriva pure nel Mezzogiorno e non siamo solo noi gli “appestati”. Eppure i casi di contagio al Sud non derivano da focolai locali, ma sono stati portati dalle zone rosse o gialle del Nord. Si tratta di turisti lombardi o di persone che sono state in quell’area anche solo per pochi giorni per motivi di lavoro o di svago. Il virus, invece, ha davvero avvicinato gli italiani, che almeno nelle tragedie o nelle difficoltà si dimostrano uniti. Non a caso i napoletani hanno dedicato uno striscione allo stadio alle popolazioni maggiormente colpite dai contagi: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il covid19”. 

“Libero” discrimina il Sud, esplode l’indignazione su Facebook. Emiliana D'Agostino il 4 marzo 2020 su labussolanews.it. Gianni Simioli pone all’attenzione dei suoi seguaci l’ultimo provocatorio (ma anche discriminatorio) titolo del giornale “Libero”: gli utenti sono indignati. Il giornale “Libero” ci è cascato di nuovo. Il noto conduttore di RadioMarte commenta con l’hashtag #merde l’ennesimo titolo discriminatorio del quotidiano e sotto il post, l’indignazione dei followers di Simioli esplode. C’è chi posta foto di cornetti, chi propone la radiazione dell’intera redazione di “Libero” e chi, invece, suggerisce usi alternativi per utilizzare le pagine del giornale, la maggior parte da svolgere in toilette. Eppure questo è solo l’ultimo attacco che “Libero” fa: al Meridione, ai migranti, alla comunità LGBT, alle minoranze di qualunque tipo.

La prima pagina dello scandalo. “L’infezione crea l’Unità d’Italia. Il virus alla conquista del Sud”: questo il titolo incriminato, stampato a caratteri cubitali in rosso e nero sulla prima pagina del giornale. Segue il bollettino di guerra che tutti i media di notizie da giorni ci informano, facendo particolare attenzione a trattare prima dei casi scoperti al Sud e, solo alla fine, arriva la notizia che la zona rossa del Nord va sempre più allargandosi. A concludere il tutto, nel taglio basso del giornale, un altro articolo che grida “Napoli difende il rapinatore”, facendo riferimento al caso del quindicenne ucciso da un Carabiniere durante una rapina.

Molto rumore per nulla. “Libero”, soprattutto negli ultimi anni, ci ha abituati a titoli del genere, titoli che fanno parlare di sé e destano scalpore. E certo, gli attacchi della redazione tutta e del direttore Vittorio Feltri rischiano spesso di offendere le coscienze di molti e sempre quelle di qualcuno. Eppure si tratta di titoli che, non a caso, non passano mai in sordina: creano un effetto, sebbene negativo, in chiunque venga attaccato nel titolo della giornata. Bisogna, dunque, chiedersi se c’è davvero bisogno di sentirsi toccati da titoli creati ad hoc per far parlare di sé. In fondo se non fosse per titoli del genere, chi ancora parlerebbe di carta stampata nell’era in cui le news online circolano velocemente e gratuitamente?

Da corriere.it il 28 febbraio 2020. Il governatore del Veneto intervistato ad Antenna 3-Nord Est. «La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale. La Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi».

Coronavirus, Ai Weiwei: "Il coronavirus è come la pasta, la Cina l'ha inventato e l'Italia l'ha diffuso nel mondo". Libero Quotidiano il 06 marzo 2020. Il famoso regista Ai Weiwei finisce nella bufera per una battuta riuscita davvero male. Mentre l'Italia è all'inizio di una durissima battaglia contro il coronavirus, il regista cinese si è esibito sui social in un'uscita poco felice: "Il coronavirus è come la pasta. I cinesi l'hanno inventato, ma gli italiani lo hanno diffuso in tutto il mondo". E di conseguenza passa di nuovo a livello internazionale la tesi secondo cui gli italiani sono gli untori a livello globale. Notizia acclarata falsa, dato che si è poi scoperto che il paziente zero europeo era in Germania e il primo morto in Spagna. L'Italia anziché ignorare l'emergenza l'ha affrontata di petto e quindi ha un alto numero di contagi, mentre la maggior parte dei Paesi preferisce nascondere i veri numeri sotto il tappeto per evitare gravi ripercussioni economiche e sanitarie.  

Da "ilfattoquotidiano.it" il 6 marzo 2020. La vicepremier cinese Sun Chunlan, in visita a Wuhan, è stata duramente criticata dai cittadini chiusi in casa a causa del coronavirus. L’alto funzionario era arrivata nella città per ispezionare il lavoro di un comitato di quartiere, incaricato di prendersi cura dei residenti in quarantena. Gli abitanti dalle finestre hanno urlato “falso, falso, è tutto falso”, riferendosi proprio agli aiuti che non sarebbero arrivati. I video pubblicati online mostrano Sun e una delegazione camminare mentre i residenti gridano dalle finestre.

Coronavirus, Massini: "Quando dicevamo finché uccide i cinesi, chi se ne importa". Repubblica Tv il 6 marzo 2020. Dallo studio vuoto di Piazzapulita su La7, Stefano Massini racconta il suo punto di vista sulla psicosi da contagio da coronavirus. "Niente ci interessa - dice lo scrittore - se non ciò che ci è vicino. Niente ci riguarda se non ciò che entra nel nostro minuscolo cerchio di autonomia. Quando è scoppiato il virus in Cina dicevamo 'l'importante è che non arrivi qua, finché uccide i cinesi chi se ne importa. L'importante è che non arrivi qua'. Il coronavirus insegna l'ossessione di entrare in contatto con qualcosa che possa incrinare il nostro equilibrio e tutto questo è inaccettabile per chiunque che, come il sottoscritto, voglia continuare a indignarsi, ad arrabbiarsi e a guardare il mondo fuori dal cerchio"

Zaia: "I cinesi? Tutti li abbiamo visti mangiare i topi vivi". Per il governatore del Veneto gli alti standard di igiene e le regole alimentari che gli italiani rispettano ha permesso di contenere l’epidemia di coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Se l’emergenza coronavirus nel nostro Paese è ancora relativamente contenuta lo si deve agli alti standard di igiene e alle regole alimentari che tutti i cittadini rispettano, a differenze dei cinesi che mangiano praticamente di tutto. È questo il pensiero espresso in un intervento tv dal governatore del Veneto Luca Zaia che, in modo polemico, ha voluto rispondere a tutti che considerano non solo la Regione da lui amministrata ma l’Italia intera una sorta di untori dell’infezione Covid-19. "La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale", ha affermato Zaia nel corso di un’intervista alla televisione Antenna Tre-Nord Est. Il governatore ha continuato lanciando un duro attacco alla Cina che "ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Nell’intervista Zaia stava parlando dell’epidemia di coronavirus che in Veneto ha fatto registrare fin qui 133 persone positive delle quali 69 non hanno nessun sintomo, 21 sono ricoverate e 8 sono in terapia intensiva. A Rainews24, invece, il governatore ha spiegato che nella Regione non c’è una crescita esponenziale di casi di persone colpite dal coronavirus ma "una crescita lenta dei positivi e dei contagiati. Abbiamo fatto 6.800 campioni perché abbiamo voluto da subito il campionamento dei casi per dare tranquillità' ai cittadini rispetto al focolaio". Sempre ai microfoni della tv allnews, Zaia ha auspicato che il dibattito sulla chiusura delle scuole si chiuda oggi con ordinanza. "Dire domenica sera che le scuole sono aperte lunedì o nei prossimi giorni significa mettere in difficoltà tante famiglie. Spero che si chiuda oggi questo dibattito". "Io spero- ha continuato- che si possa aprire e ripartire, tenendo presente di un territorio che ha il virus. Ogni misura che verrà adottata è fondamentale che abbia una validazione scientifica degli esperti. Onde evitare di vedere esperti che dicono una cosa e altri il contrario". Per quanto riguarda i danni all'economia causati dal coronavirus, il governatore ha sottolineato che “l'industria turistica è in ginocchio, ha 18 miliardi di fatturato con 70 milioni di presenze. È in ginocchio, gli unici contatti sono le disdette. Quindi, prenotazioni zero. Poi tutte le difficoltà che hanno le 600mila imprese venete". "Se Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono in difficoltà, significa un crollo del Pil nazionale", ha aggiunto.

Claudio Borghi sta con Luca Zaia. Il video-choc: "I cinesi mangiano i topi vivi, ecco le prove".  Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Sta facendo molto discutere l'ultima uscita pubblica di Luca Zaia, che è diventata virale in poco tempo. Il governatore del Veneto ha espresso il suo parere sul livello di igiene degli italiani in relazione al coronavirus: "La nostra mentalità è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani, L'alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale". Fino a qui nulla di strano, poi però è arrivato l'affondo sulla Cina: "Ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Questa frase ha suscitato ilarità ma anche tante polemiche. In difesa di Zaia è accorso Claudio Borghi, che ha affermato la veridicità di ciò che ha detto il governatore veneto: "Che i vicentini mangino i gatti è detto comune ma non l'ho mai visto fare. Che i topi vivi appena nati siano un piatto storico cinese (oggi pare proibito ma ancora consumato) è cosa assodata". Il deputato della Lega ha postato anche un video recente del Daily Mail UK come prova del fatto che in Asia c'è ancora chi mangia topi vivi. 

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2020. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, dice che i cinesi mangiano i topi vivi. Più precisamente: «Li abbiamo visti tutti i video con persone che mangiano topi vivi o questo genere di cose...». Così un' intervista registrata su Antenna 3 Nord- est rischia di incrinare i rapporti diplomatici con Pechino. Zaia adombra una superiorità italiana rispetto ai cinesi. «L' igiene che ha il nostro popolo - spiega - i veneti e i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo, è quella di farsi la doccia, di lavarsi, di lavarsi spesso le mani, di un regime di pulizia personale particolare. Anche l' alimentazione, le norme identiche, il frigorifero, le date di scadenza degli alimenti... Cosa c' entra? C' entra perché è un fatto culturale». Fatto culturale, ribadisce il presidente della regione Veneto sottolineando, appunto, che «la Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia perché comunque li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o questo genere di cose». Pronta la risposta dall' ambasciata cinese in Italia: «In un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l' epidemia - sottolineano - un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti. Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d' accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che le parole di un singolo politico non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano, un popolo civile e nostro amico». Irritazione trapela dalle parole dell' ambasciata che, a conclusione della sua replica, rilancia la palla nel comune campo da gioco, quello della lotta globale all' infezione: «Il nuovo coronavirus - dicono i diplomatici cinesi - è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell' umanità intera». In serata Zaia si pente: «Mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese». Molte le reazioni. «Prima Fontana con la messinscena della mascherina. Oggi Zaia. Quando proprio non si può fare a meno di tirare la zappa sui piedi del nostro Paese e metterci in cattiva luce, in un momento già delicato. Complimenti», dice Danilo Toninelli dei 5 Stelle. Mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori commenta: «Tra questo che dice spropositi e l' altro con la mascherina direi che non potevano fare peggior servizio alla causa del federalismo e dell' autonomia regionale». 

Zaia: «Cinesi e topi?  Io, massacrato per parole uscite male, mi scuso». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio.

Presidente Zaia, indietro tutta?

«Noi proponiamo di allentare la stretta. Ma non decidiamo da soli. E senza l’approvazione del mondo scientifico, non lo facciamo».

Cosa è cambiato rispetto a una settimana fa?

«Abbiamo un quadro scientifico più definito. E gli altri Paesi hanno già cominciato ad approfittare di questo momento di debolezza dell’Italia per occupare i nostri spazi. Bisogna uscirne velocemente».

Altrimenti?

«Senta, io qui ho il turismo e 600.000 partite Iva che da soli valgono 150 miliardi di Pil. Se vanno in fumo, altro che recessione, è Medio Evo. Se ci sono i presupposti bisogna dare un segnale di ripartenza».

E la salute?

«Io ho sempre messo davanti la salute dei miei cittadini. Se si ammalano, l’economia va male lo stesso. Per questo il mondo scientifico non si deve chiamare fuori. Altrimenti sembra che abbiamo fatto tutto da soli, quando invece non è mai stato così».

Abbiamo esagerato con le ordinanze che chiudono tutto?

«Anche se non c’è più il Totocalcio, l’Italia rimane un Paese pieno di gente che gioca la schedina con il 13 vincente di lunedì. In verità i protocolli dell’Oms ci consigliavano un approccio ancora più pesante».

Quand’è che ha visto un cinese mangiarsi i topi vivi come ha detto in tv?

«È tutto il giorno che vengo massacrato per quel video. Nella migliore delle ipotesi sono stato frainteso, nella peggiore strumentalizzato».

Non è lei che quello che parla?

«Sì, certo. Quella frase mi è uscita male, d’accordo. Se qualcuno si sente offeso, mi scuso. Non era mia intenzione fare il qualunquista e tanto meno generalizzare. Intendevo fare una riflessione più compiuta».

L’hanno criticata quasi tutti, da Calenda all’ex ministra Grillo. Cosa voleva dire?

«Volevo parlare delle fake news e dei video che hanno girato prima che l’epidemia arrivasse da noi. Hanno preparato la culla per il neonato. Qui non è arrivato il virus, ma il virus della Cina. Prova ne sia l’aumento esponenziale della diffidenza nei confronti dei cinesi, creata dai social».

Nel video incriminato le sue considerazioni sulla loro igiene sono una terapia d’urto?

«Volevo solo dire che le certificazioni sul fronte della sicurezza alimentare e sanitaria variano da Paese a Paese. Era una riflessione a 360 gradi su un Paese che ha metropoli moderne e altre zone che sono il loro esatto opposto».

Il video è diventato subito virale.

«Mi dispiace profondamente. Questo è uno dei problemi principali. A differenza della Sars che è del 2003 e dell’aviaria che è del 2006, questo è il primo virus dell’era digitale. L’informazione in tempo reale, vera o falsa che sia, coinvolge tutti noi, condiziona le nostre scelte e i nostri comportamenti. Dobbiamo abituarci a creare modelli diversi di approccio, anche comunicativo».

Due mesi fa lei ha proposto l’isolamento per chi rientrava dalla Cina.

«No. Ho parlato di isolamento fiduciario non dalla Cina, ma dalle zone infette. In questo Paese sembra che ogni limitazione della libertà personale sia un atto di razzismo. Invece ci sono norme di polizia sanitaria che purtroppo impongono determinati atteggiamenti».

La popolazione si è rivelata meno apprensiva delle istituzioni?

«È come stare su un pullman. Chi è al volante deve guardare la strada e preoccuparsi di tutto. I passeggeri possono fare le foto e chiacchierare. Solo uno ne risponde. In questo caso sono io».

Ieri chiedevate misure forti, oggi meno. Non si rischia di creare confusione?

«Avrei molto da ridire su chi banalizza quel che facciamo. La mia ordinanza scade domenica. Prima si chiarisce ogni aspetto con i tecnici del governo, meglio è. Non possiamo andare avanti in ordine sparso. E lo scaricabarile non mi ha mai appassionato».

Intanto l’economia piange.

«Le nostre imprese sono devastate da questa emergenza che prima è sanitaria e poi mediatica. Il governo deve intervenire mettendo in campo un budget da centinaia di milioni per una campagna di riposizionamento della reputazione del nostro Paese».

Non ci sono le ambasciate per questo?

«Con tutto il rispetto, davanti a un danno di immagine mostruoso, con la concorrenza mondiale che è pronta a mangiarci, serve qualcosa di più incisivo».

Da "ilmessaggero.it" l'1 marzo 2020. Zaia chiede scusa. E lo fa scrivendo una lettera all’ambasciatore cinese Lì: «Le scrivo per non accampare scuse: quando si sbaglia, si sbaglia». Il governatore del Veneto aveva detto durante una trasmissione televisiva che parlava di coronavirus l’infelice frase: «Abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi». Polemiche a livello mondiale e ora le scuse nella lettera con carta intestata Regione Veneto. Il testo è apparso su Twitter: «Nulla valgono le giustificazioni sulla stanchezza accumulata in questi giorni di grande tensione o sulla frettolosità di esposizione di concetti e di ragionamenti assai più articolati svolti nei giorni precedenti - senza peraltro suscitare polemiche - in molte sedi pubbliche e a molti organi di stampa». Zaia continua: «Ho, più semplicemente, sottolineato le differenze di usi e costumi, così come avrei potuto sottolineare le differenze fra noi e alcuni paesi europei, fra cui la stessa Europa e gli Stati uniti, fra le Ue e il Giappone, e così via…».  Il governatore del Veneto conclude: «Insomma, Signor Ambasciatore: non è mio stile e mio costume, mia abitudine e modalità espositiva, aggredire e sottolineare diversità di pelle, di religione di genere, di scelte sentimentali. Chi mi conosce lo sa...» 

Da "artribune.com" l'1 marzo 2020. Mentre in Italia l’emergenza Coronavirus è ancora in corso e purtroppo si registrano nuovi casi di persone colpite, i settori dell’economia, dell’istruzione e della cultura provano a risollevarsi dal momento di crisi che ha già causato rallentamenti nel sistema industriale, cali in Borsa, cancellazioni e rinvii di manifestazioni e fiere soprattutto a Milano (tra tutti, il Salone del Mobile). Un Paese sotto scacco, insomma, soprattutto le regioni del Nord maggiormente interessate dall’epidemia, ovvero Lombardia, Piemonte e Veneto. Quest’ultima, in particolare, nelle ultime ore si trova al centro di un polverone mediatico che ha messo a rischio i rapporti diplomatici con la Cina: il governatore della Regione, il leghista Luca Zaia, durante un’intervista ad Antenna Tre Nordest, commentando quanto sta accadendo in Italia e in Veneto per via del Coronavirus, ha dichiarato: “penso che la Cina abbia pagato un grande conto in questa epidemia perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o cose del genere… Sa perché noi dopo una settimana abbiamo 116 positivi, dei quali 63 non hanno sintomi e ne abbiamo solo 28 in ospedale? Sa perché? Perché l’igiene che ha il nostro popolo, i veneti, i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo è un regime di pulizia personale particolare. Anche l’alimentazione…”. Un’affermazione, questa, arrivata alle orecchie del governo cinese, che non ha per niente apprezzato lo scivolone: “in un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l’epidemia, un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti”, si legge su una nota stampa dell’ambasciata cinese a Roma. “Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d’accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che quelle parole non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano. “Il popolo italiano è un popolo civile e nostro amico. Il nuovo Coronavirus è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell’umanità intera”. Crisi diplomatica esplosa e mondo della politica e dei media in subbuglio: da una parte c’è chi in maniera più o meno blanda la pensa come Zaia – mangiare carne di topo, cane o gatto non sarebbe molto salutare per l’uomo –, dall’altra c’è chi accusa il governatore veneto di razzismo e anche di non sufficiente conoscenza e comprensione delle tradizioni culturali di altri popoli. Ad ogni modo, sono arrivate inevitabili le scuse di Zaia, che ha dichiarato: “mi spiace che qualcuno abbia montato una polemica su questo, non ho mai detto che i cinesi non si lavano. E mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese. Mi spiace d’essere stato da alcuni frainteso, e da altri volutamente strumentalizzato. La mia era una riflessione che non voleva offendere nessuno; si riferiva alla montagna di materiale e video, molti dei quali fake, che pesano sulla ‘reputazione’ di questo virus. È indubbio”, prosegue Zaia, “che le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina. Ma il qualunquismo e la generalizzazione non sono nel mio stile. È pur vero, tuttavia, che in un paese dalle mille sfaccettature, che presenta contesti metropolitani di assoluta innovazione, come Shanghai, Pechino, Shenzhen, ve ne sono altri che sono agli antipodi. Ho deciso di intervenire personalmente su questo per un fatto di correttezza e lealtà, ma devo dire anche che siamo molto impegnati nella partita del contenimento del virus, e non ho tempo da perdere su queste cose”.  Insomma, nessun “qualunquismo” e nessuna “generalizzazione”, però è anche vero che “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Forse è vero, almeno adesso, e dando una sbirciata tra i piatti della tradizione gastronomica delle regioni italiane, non sembra che tra le ricette compaia la carne di topo. Troviamo però, potrebbe fare notare qualcuno, la carne di gatto, di rana, d’anguilla, non considerando che per molte popolazioni del mondo – per motivi culturali e religiosi – è impensabile concepire l’idea di cibarsi di carne di maiale o di vacca. Tralasciamo però per il momento questa digressione gastronomica e torniamo alla frase di Zaia, secondo cui “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Nel 2020 in Italia non si mangiano topi, è vero, però abbiamo documenti fotografici che attestano che fino a un secolo fa, e proprio in Veneto, cibarsi di topi non era poi una stranezza. E a dircelo è stato proprio lo stesso Zaia, citando sulla propria pagina Facebook una mostra tenutasi a Belluno due anni fa! La mostra citata da Zaia e inaugurata il 23 novembre 2018 a Belluno a Palazzo Crepadona, e a cura dell’Archivio Storico del Comune, si intitolava Belluno, una città. Il nuovo secolo, la guerra, un’esposizione che attraverso documenti e fotografia d’epoca raccontava le vicende della città veneta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, e quindi la drammatica fase dell’occupazione austroungarica tra il 1917 e il 1918, nota come “an de la fam”, ovvero “anno della fame”. Tra quelle in mostra, una fotografia in particolare racchiude tutto l’orrore della guerra, e soprattutto le tragiche conseguenze che essa ha avuto sulla popolazione del bellunese: uno scatto di Pietro De Cian, facente parte della collezione Massenz-Baldini della Biblioteca Civica. “Topi messi ad essiccare a Belluno durante "l’an de la fam", l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona”, scriveva il 26 novembre 2018 Zaia sulla propria pagina Facebook, terminando il post con l’hashtag “VenetoDaAmare”. I topi messi ad essiccare sarebbero poi stati mangiati dai bellunesi, rappresentando a quanto pare l’unica fonte di nutrimento possibile in quel momento storico. 100 anni sono tanti, è vero, e i bellunesi mangiavano topi per necessità, non per tradizione o scelta, tuttavia non sembrano differenze così clamorose da potersi ergere ad alfieri della tradizione culturale igienica del mondo. Che la differenza stia nel fatto che i cinesi mangiano a detta di Zaia “topi vivi” e i bellunesi invece li mettevano a essiccare al sole? “Topi vivi” = virus e topi essiccati = “straordinario”? In ogni caso una buona occasione per andarsi a rivedere recensioni e catalogo di quella mostra di due anni fa.

Marco Giusti per Dagospia il 13 marzo 2020. Svelato finalmente da dove nasce la battuta di Luca Zaia sui topi vivi, i cinesi, i veneti… Ci voleva Tatti Sanguineti che mi ha consigliato di rileggere le pagine del suo storico libro su Rodolfo Sonego, “Il cervello di Alberto Sordi”, per capire la dimestichezza che hanno i veneti per topi e pipistrelli. Altro che i cinesi. Sonego sta preparando la sceneggiatura de “Il disco volante”, che verrà poi realizzato da Tinto Brass con Alberto Sordi protagonista e gira per la campagna veneta più miserabile… “Attraversando questi paesi con le urne – si era in periodo elettorale – approdai in una osteria di cacciatori poveri poveri alle prese con dei piatti pieni e non riuscivo bene a capire di cosa.

“Ma cosa mangiate?”

“Osei” (uccelli).

“Mah… ne avete preso un bel po’…”.

“Xe osei e pipistrei”.

“C’è una bella differenza. I pipistrei son topi, cazzo!”.

“Ah… Cartucce costano. Qualche volta xe osei, qualche volta no ghe xe osei. Ghe xe una montagna, con ’na galeria dentro, perché tutti aeroplani da caccia durante la guerra veniva fora andava a bombardar… e ghe xe tuto pieno de pipistrei. Là dentro co ’na sciopata sola xe un graspo de pipistrei. Anca trenta…”.

“E come li mangiate? Arrosto, allo spiedo?”.

“Qualche volta no xe osei, se magna pipistrei!”.

“Ma cavolo!”.

“Mettemo un po’ de pipistrei e un po’ de osei, così te magni gli osei e te credi de magnar pipistrei e quando invece…”.

Osei e pipistrei: quanti contorcimenti.

Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 26 febbraio 2020. «Sono un cinese che la mattina va a scuola insieme a te, che ti passa il compito di matematica all'esame, che ha fatto taglio e messa in piega a tua mamma». Inizia così la lettera appesa a una vetrina di un negozio di via Tuscolana, a Roma. La foto è stata scattata qualche giorno fa, è stata postata sui social e sta avendo un gran successo. A Roma ci sono oltre 2,8 milioni di residenti, i cinesi secondo gli ultimi dati dell'Anagrafe sono 19600, gli stranieri nella Capitale rappresentano il 13,4% della popolazione (dato 1° gennaio 2019). La paura del contagio del coronavirus ha fatto praticamente svuotare i negozi gestiti dai cinesi che sono davvero tanti. E la lettera apparsa nella popolosa via Tuscolana, è un estremo tentativo di non isolare la comunità cinese. «Sono il solito cinese che fa parte della tua vita - si legge nella lettera - che ha pianto quando ha visto i morti del terremoto di Amatrice, che il sabato sera ti accoglie al ristorante cinese come uno di casa». E quindi l'accorata richiesta: «Non trattarmi come un virus, la diffidenza e il pregiudizio a volte uccidono più di un virus...».

Fabio Giuffrida per open.online il 26 febbraio 2020. Aggressioni, insulti, occhiatacce e battute. Non è un momento facile per la comunità cinese, alle prese con razzismo e psicosi da coronavirus. «Ho più paura delle persone che del coronavirus. Troppa discriminazione verso di noi che abbiamo la “colpa” di essere cinesi. E andrà sempre peggio se la mia comunità non si decide a denunciare una volta per tutte. I cittadini cinesi, infatti, preferiscono “testa bassa e silenzio”, hanno paura di ritorsioni e si sentono “ospiti” in Italia, un Paese che in realtà è anche il loro (visto che in molti risiedono sul territorio italiano da oltre 20-30 anni, ndr). Ma adesso basta stare zitta, non si può più tollerare questa situazione». Questo lo sfogo di Elisa, nata in Cina ma da oltre 20 anni in Italia, a Open.

«Preso a bottigliate da italiani». Il primo caso di razzismo che ci viene segnalato è quello verificatosi il 24 febbraio sera, in un rifornimento di benzina a Cassola, in provincia di Vicenza, nel Veneto, dove Zhang, un uomo di origine cinese, è stato preso a bottigliate da un 30enne italiano perché cinese. Questa la sua “colpa”.

L’aggressione a un giovane cinese. «Ero entrato nel bar del rifornimento di benzina per vedere se fosse possibile cambiare con tagli più piccoli una banconota da 50 euro. La barista, però, vedendomi, mi ha detto subito “Hai il coronavirus, tu non puoi entrare!”. A quel punto un ragazzo, che si trovava seduto all’interno, si è alzato e, dopo aver afferrato una bottiglia di birra che era sopra il tavolo, me l’ha rotta in testa causandomi delle lesioni» si legge sulla denuncia, di cui Open è in possesso, presentata ai carabinieri. «La cosa più grave è che nessuno sia intervenuto per difenderlo» ci spiega una nostra fonte.

«Via schifosi, cinesi di merda». Il secondo caso, invece, risale al 23 febbraio quando, in un Despar di Cividale del Friuli, una donna, «spingendo il carrello ha detto: “Ca**o di cinesi, perché uscite e continuate a contagiare la gente? Via via schifosi. Cinesi di mer*a» ci racconta Elisa, che da otto anni gestisce un bar e che, «da quando c’è l’emergenza coronavirus ha pochissimi clienti, con un 70% di fatturato in meno» tra «occhiatacce e battute sgradevoli». Ora, però, «ci sono anche clienti che dicono apertamente “non andate dalla cinese che rischiate il virus”». «Io per la prima volta, dopo 20 anni in Italia, mi rendo conto che non potrò mai essere considerata italiana. Oggi i cinesi sono come gli ebrei all’epoca» ha aggiunto.

«Tappatevi naso e bocca». Il terzo caso, invece, ha visto protagonista Valentina, ragazza di origini cinesi che, come spiega a Open, si trovava al supermercato con la madre quando è stata insultata da una donna con a seguito due bambini. «La madre ha urlato ai figli di tapparsi il naso e la bocca. Poi, ogni volta che ci beccavamo nei reparti, facevano retromarcia e cambiavano subito direzione». E non è la prima volta. Di casi di razzismo se sono registrati decine negli ultimi mesi: dagli insulti a una 19enne agli sputi alla coppia di cinesi a Venezia, dal 13enne insultato durante la partita perché cinese al bimbo aggredito a Bologna. E questi sono solo alcuni dei casi di razzismo documentati. Il rischio è che ce ne siano molti altri mai denunciati.

Coronavirus: “Ritorna in Cina. E m'ha spaccato la bottiglia in testa”. Le Iene News il 6 marzo 2020. “Tornatene in Cina perché non ho voglia di infettarmi per colpa tua”. La fobia del Coronavirus sta scatenando nella popolazione italiana i peggiori istinti razzisti. Nicolò De Devitiis ha incontrato Matteo, che ha aggredito un ragazzo cinese con una bottiglia. “Io non sto dicendo che non ho fatto niente, io sto dicendo che quel tipo se le meritava. Non perché ha il coronavirus ma perché è un coglione”. Matteo, 21 anni, pochi giorni fa ha aggredito con una bottiglia in mano un ragazzo cinese, ma sostiene di non averlo fatto come atto di razzismo. Così gli chiediamo cosa pensa dei cinesi e la risposta non è certo delle più pacifiche: “Dal momento in cui uno straniero entra nel mio paese, dove io sono nato, dove io ho il dna, deve portarmi rispetto perché mio ospite”. E quell’aggressione? “Perché io non sono mai andato in un bar a rompere i coglioni”, ci risponde secco Matteo. Ma quando gli facciamo notare che il ragazzo cinese era entrato solo per cambiare dei soldi e non per dare fastidio, ci risponde senza mezzi termini: “Ma a me non me ne frega un cazzo, li vai a cambiare prima di fare benzina”. Ma cosa è successo davvero? Lo chiediamo anche ad Alex, la vittima dell’aggressione. “Quando sono entrato la barista mi ha detto che avevo il coronavirus e che quindi non potevo entrare ma io gli ho spiegato che sono in Italia da 10 anni e che non sono infetto”. Ed è qui che Matteo l’avrebbe aggredito, “Mi ha detto ‘che cazzo vuoi? Ritorna in Cina’ e poi mi ha spaccato la bottiglia in testa…”. Ma secondo la ricostruzione di Alex non sarebbe nemmeno finita lì: “Io sono subito uscito, mi ha seguito e mi ha detto ‘ti do un pugno’”. Allora Matteo, perché l’ha aggredito? “Perché mi ha rotto il cazzo. è inutile tirare fuori storie sul coronavirus, il motivo era una semplice rissa, ha dato della puttana alla barista e non ci ho più visto”. Insomma, aggredito l’ha aggredito, ma Matteo sostiene che il coronavirus non c’entri niente, anzi che sia stato il ragazzo cinese a provocare. Matteo l’abbiamo sentito, Alex pure, non ci resta che ascoltare anche la versione della barista. “Matteo ha capito che questo mi ha offesa e l’ha attaccato, anche se non è vero che mi ha offesa o comunque io non l’ho sentito”. Il racconto sembra coincidere proprio con quello di Alex: tutto tranne un particolare. “Non ho assolutamente detto che doveva uscire perché aveva il coronavirus anzi, mi sono pure messa a difenderlo!”. Ci dice lei in lacrime: “Sono preoccupata ora per il mio posto di lavoro, per la diffamazione…”. Torniamo da Matteo che continua a lamentarsi del ragazzo cinese. “È venuto a dire che siamo razzisti” ci dice arrabbiato. Ma lo è o no? “Io sono fascista, non sono razzista. Dal primo all’ultimo secondo della mia vita esigo rispetto”. Ma poi, dopo un po’ che ci parliamo, finalmente fa un passo indietro: “Sono cosciente di aver sbagliato e so di aver sbagliato...”. Cogliamo subito l’occasione per proporgli un incontro per chiarirsi con Alex, ma non reagisce proprio benissimo: “Chiamatelo qua quel cinese di merda”. E anche se non sembra così convinto ci proviamo lo stesso e andiamo a prendere Alex. “Io ho sbagliato, ma anche tu devi dichiarare di aver sbagliato” dice Matteo ad Alex porgendogli la mano. Peccato però che la stretta di mano non sia ricambiata: “Accetto le scuse ma non do la mia mano perché non lo sento dal cuore, mi spacca una bottiglia in testa e se mi chiede scusa è tutto a posto? No”, ci spiega Alex ancora un po’ impaurito. Non molliamo, senza grossi risultati inizialmente. “L’ho picchiato perché l’italiano non lo capisce, se vieni qua devi sapere quello che dico e quello che dice lui. Io gli sto porgendo la mano se lui non l’accetta, la colpa è sua” dice Matteo. E riparte: “Pensi che io perda tempo con questa faccia di merda? Se non mi dai la mano allora devi andare via perché non sei italiano”. Insomma, trovare un punto di incontro sembra quasi impossibile! E dopo poco si ritorna al punto di partenza: scoppia di nuovo una lite. “Ne vuoi una altra in testa? Sei una merda, ti vedranno in tv e vedranno tutti che sei un cinese figlio di puttana!”, urla minaccioso Matteo prima di andarsene. Così tentiamo l’impossibile spiegando ad Alex il gesto di Matteo, un po’ forzato ma comunque sincero, e incredibilmente dopo l’intervento di Nicolò De Devitiis, i due litiganti si stringono la mano. “La prossima volta conterò non solo fino a 10, ma anche fino a 20…. Che 10 non mi bastano”, chiosa Matteo.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 5 marzo 2020. Spunta un movente razziale alimentato dalla psicosi del coronavirus dietro l'aggressione subita qualche sera fa a Oxford Street, nel cuore di Londra, da uno studente originario di Singapore, il 23enne Jonathan Mok. A denunciarlo è stato lui stesso, mentre sui media sono apparse le foto del volto tumefatto del ragazzo scattate dopo l'attacco. Stando al racconto dello studente dell'University College si è trattato di un pestaggio a freddo, "non provocato", da parte di 4 ragazzi. "Non voglio il tuo coronavirus nel mio Paese", gli avrebbe urlato uno degli aggressori. Poi il pugno in faccia. "E' accaduto tutto all'improvviso - spiega su Facebook Jonathan Mok -, un pugno mi ha colpito al volto e mi sono ritrovato coperto di sangue". Il 23enne, ancora sotto shock, ha poi messo in guardia gli utenti dal rischio che l'emergenza Covid-19 possa essere cavalcata da chi già "odia le persone diverse da sé e macchiare l'immagine d'una città tollerante". Sull'episodio indaga la polizia britannica. Scotland Yard ha aperto un fascicolo per il reato di aggressione aggravata dal razzismo, ma finora non ha arrestato nessuno.

Fabio Franchini per ilgiornale.it il 3 marzo 2020. Mentre in Italia il coronavirus ha contagiato 2036 persone, provocando 52 decessi, in Francia pensano bene di prenderci in giro. Spieghiamo. Canal+, noto canale televisivo transalpino di proprietà di Vivendi, ha mandato in onda uno spot che pensando di fare satira e ironia dice: "Questo spettacolo è offerto dalla pizza Corona. La nuova pizza italiana che farà il giro nel mondo". Ma le parole sono forse niente rispetto alle immagini. Nel video fa capolino un attore travestito da pizzaiolo che sforna pizze e tossisce. Ne tira fuori una con la pala e dopo un colpo di tosse ci sputa (finto) catarro verde, inquadrato in primo piano: stomachevole. Dunque, compare in sovraimpressione la scritta "Corona pizza" con la parola "Corona" (in riferimento ovviamente al coronavirus) scritta con i colori del nostro tricolore. A denunciare la trovata Giorgia Meloni, che sui propri canali social ha condiviso la clip incriminata, condannandola duramente. Queste le parole del leader di Fratelli d'Italia: "Video 'satirico' disgustoso mandato in onda dalla famosa tv francese Canal+ per insinuare che i prodotti Made in Italy sono contaminati da coronavirus". Dunque, il capo politico di FdI affonda il colpo, tirando anche le orecchie alla maggioranza giallorossa, alla quale chiede di provvedimenti: "Disprezzo per gli autori di questa immondizia anti-italiana. Il Governo Partito Democratico-Movimento 5 Stelle avrà la decenza di far sentire il proprio sdegno?". Non è la prima volta che di fronte a certe situazioni delicate italiane, i cugini francesi facciano cattiva satira. Come dimenticare, a tal proposito, le scioccanti copertine di Charlie Hebdo dopo il crollo del ponte Morandi – il viadotto distrutto, un'automobile schiantata al suolo e un migrante in primo piano con una scopa in mano e il titolo "costruito dagli italiani…pulito dai migranti" – e la tragedia di Rigopiano: nel disegno la rappresentazione della "Morte" intenta a sciare in montana con due falci al posto delle racchette e la scritta "è arrivata la neve".

(ANSA il 3 marzo 2020) - "Il video francese che irride l'Italia è irricevibile. Pretendiamo scuse ministro Di Maio". Lo scrive su Facebook il responsabile Esteri del Pd, Emanuele Fiano, riferendosi al video di Canal+.

Coronavirus, bufera sul deputato leghista: risponde ai francesi con una “pizza bruciata Notre Dame”. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2020. “Pizza Notre Dame. Tiè!”, come didascalia di una pizza completamente bruciata. È la foto postata su Facebook da Leonardo Tarantino, deputato leghista ed ex sindaco di Samarate (Varese) come forma di ‘risposta’ al video satirico mandato in onda dalla tv privata francese Canal+ sulla “pizza coronavirus”, un caso che ha provocato un polverone politico fino alle scuse dell’emittente e al ritiro dello spot. Un gesto che rischia di far ritornare tesi i rapporti con i cugini d’oltralpe, con i quali il ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva ricucito simbolicamente mangiando proprio una pizza nel centro di Roma con l’ambasciatore francese in Italia Christian Masset. Nei commenti alla foto il popolo di Facebook si è spaccato. C’è chi ha commentato con amarezza e delusione la foto del deputato leghista: “Non ci credo che questo è un deputato,cioè siamo messi così male?”, scrive un utente, mentre uno dei coordinatori delle Sardine varesine, Silvano Monticelli, scrive “non mi sento rappresentato da un parlamentare che si presta a una bassezza di questo genere”. Ma c’è anche chi apprezza l’uscita di Tarantino: “Il massimo sarebbe stato farlo con la baguette.. Ma comunque ben fatto”, mentre un secondo utente rivendica e accusa i francesi: “Chi la fa l’aspetti”.

Coronavirus, Pietro Senaldi contro i francesi: "Spuntano sulla pizza? Loro mangiano formaggi puzzolenti e lumache". Libero Quotidiano Pietro Senaldi 06 marzo 2020.  E se i francesi non ci rispettano, non facciamoci girare le balle. Parafrasando Paolo Conte. Ha fatto scalpore lo sfottò trasmesso da un' emittente televisiva transalpina, con un pizzaiolo febbricitante che sfornava una gustosa Margherita, salvo poi starnutirci sopra e trasformarla in una pizza al coronavirus. Non è il primo colpo basso che ci arriva da Oltralpe e non sarà l' ultimo. Il video per una volta ha messo d' accordo tutti i nostri politici, che si sono scandalizzati in blocco, e ci è valso le scuse dell' ambasciatore francese e di Canal Plus, la televisione che lo aveva trasmesso. Non ci vuole un genio per ravvisare nel filmato un attacco al cibo made in Italy, da sempre ossessione dei galletti, che non riescono più a tenere il passo contro l' agroalimentare italiano. Anche noi di Libero non lo abbiamo gradito, ma riteniamo che la strategia migliore di questi tempi non sia la polemica. Meglio tirar su il bavero del cappotto, alzare la spalla, continuare per la propria strada e fottersene, come direbbero proprio i francesi. Non sono stati i nostri cugini a dare al mondo l' immagine che il nostro Paese è un lazzaretto, tanto che adesso perfino dalla Cina ci esprimono solidarietà e ci chiedono se abbiamo bisogno di aiuto. È stato il comportamento prima ambiguo, poi allarmistico, contraddittorio e disorganizzato del governo Conte a dare agli altri argomenti per ridere di noi. Comunque sia, ora i nostri problemi sono altri. L' emergenza è contrastare il virus, non rifarci il look all' estero; anche perché è molto probabile che chi ci tratta da appestati presto finirà infetto. Per un politico è facile partire lancia in resta alla difesa dell' orgoglio nazionale. Buttarla sulla retorica e sulle parole è un buon modo per celare di non essere in grado di affrontare i problemi che la realtà pone. I francesi sono spesso odiosi con noi, ma i nostri politici non dovrebbero inseguirli adesso. Meglio annotarsi tutto per presentare il conto quando la buriana sarà passata e nel frattempo darsi da fare sul campo contro l' influenza cinese.

È TUTTA INVIDIA. Badare alla forma e non alla sostanza è il difetto del nostro sistema politico e mediatico. I governatori Fontana e Zaia stanno facendo un grande lavoro per arginare l' epidemia e limitarne i danni economici, ma la sinistra li sta crocifiggendo perché uno si è messo la mascherina anti-contagio e l' altro, seppure con una battuta infelice, ha rimproverato ai cinesi di avere abitudini igieniche e alimentari che agevolano la diffusione di virus. I medesimi avevano proposto saggiamente di mettere in quarantena chi tornava dalla Cina, ma siccome alle orecchie degli stolti suonava razzista anziché saggio, Conte e i progressisti si opposero e favorirono il dilagare dell' epidemia. Non è il momento dei parolai, e se i francesi hanno voglia di scherzare è perché sono meno furbi di quanto si credono. Ma ancora meno furbi sono gli italiani che si aspettano benevolenza da un popolo che dai tempi dell' Unità del Regno ci fa concorrenza in ogni modo e si stupiscono quando ricevono da esso l' immancabile pedata in faccia. I francesi hanno ospitato come vittime della giustizia italiana chi sparava nelle nostre strade alla borghesia che mandava avanti il Paese, ci portano clandestini varcando il confine e rifiutano di farsi carico delle loro quote di profughi, approfittano del loro potere in Europa per fare concorrenza sleale ai nostri prodotti agroalimentari, con l' aiuto della sinistra si sono divorati una buona parte di banche e imprese nostrane. Adesso sputano pure sulla pizza. Il mondo li chiama «mangia rane», si nutrono di formaggi puzzolenti e lumache e ormai i loro bistrot servono più cous-cous e kebap che ostriche e champagne. Lasciamoli al loro invidia-virus e pensiamo a curarci.

Coronavirus, a Roma è sindrome cinese…Il Dubbio il 31 gennaio 2020. Ingresso vietato ai cinesi in un bar del centro, mascherine a ruba e turisti in fuga. A Roma è psicosi. Ristoranti cinesi semivuoti, mascherine e guanti in lattice esauriti da giorni e divieti di accesso ai cittadini di origine cinese. Insomma, i due casi di coronavirus accertati a Roma hanno fatto scattare una vera e propria psicosi. Finiti anche amuchina e altri disinfettanti. “Sold out – no mask”, niente mascherine, in inglese, in cinese, in giapponese, con tanto di disegnino esplicativo, recita il cartello affisso sulla porta di una farmacia nel centro storico di Roma. Ma non importa, perché la gente continua a entrare e chiederne. E c’è chi ne approfitta per fare affari: Secondo il Codacons ci sono già stati incrementi fino al +400% per i listini di alcune mascherine vendute online. A poca distanza, nei pressi della fontana di Trevi, un altro cartello: “A causa delle disposizioni internazionali di sicurezza tutte le persone provenienti dalla Cina non hanno il permesso di entrare in questo locale. Ci scusiamo per l’inconveniente”. Una fuga in avanti da parte dei titolari subito stigmatizzata dalla sindaca Virginia Raggi che l’ha definito “assolutamente ingiustificato”, tanto che la scritta è scomparsa poco dopo. “Stop psicosi e allarmismi. Ascoltiamo solo indicazioni e pareri delle autorità sanitarie”, è l’appello della prima cittadina. Intanto gli affari vanno male per chi lavora con il turismo. Il primo a farne le spese è l’hotel Palatino nel quartiere Monti, dove soggiornavano i due turisti malati di coronavirus. Inevitabili le disdette e il direttore Enzo Ciannelli lancia l’appello ai media: “Ci vuole aiuto anche da parte vostra perché è stato creato un po’ di terrorismo. I nostri datori di lavoro sarebbero dei pazzi a farci lavorare se la struttura fosse a rischio”.

Coronavirus, bar di Roma contro cinesi: “Non autorizzati a entrare in questo posto”. Laura Pellegrini il 31/01/2020 su Notizie.it. In un bar di Roma è apparso un cartello che vieta l'ingresso alle persone cinesi: scatta la psicosi coronavirus. Scatta la psicosi coronavirus a Roma dopo i due casi accertati dei turisti e un terzo caso sospetto: in un bar della Capitale è stato vietato l’ingresso ai cinesi. L’episodio è avvenuto in via dei Lavatori, a pochissima distanza dalla Fontana di Trevi, in pieno centro. Migliaia di turisti si riversano ogni giorno nella zona, eppure il locale pone alcune restrizioni ai clienti.

Coronavirua a Roma, bar contro cinesi. Ingresso vietato alle persone cinesi: questo è il cartello apparso all’esterno di un bar di Roma dopo l’accertamento dei due casi di coronavirus. Infatti, nella capitale è scoppiata la psicosi contagio nonostante il presidente del Consiglio e il direttore dell’hotel nel quale hanno alloggiato i turisti abbiano invitato ad evitare allarmismi. “Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient“, recita il foglio. Ovvero tradotto: “A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente”. Inevitabile lo scoppio di enormi polemiche soprattutto tra i passanti, per la maggior parte cittadini italiani. Il cartello era stato momentaneamente rimosso per correggere e modificare la traduzione della frase in giapponese. In seguito, però, è tornato affisso all’esterno del locale, scatenando le reazioni dei cittadini.

Coronavirus a Roma, bar in via del Lavatore: «Ingresso vietato a chi arriva dalla Cina». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Che sia psicosi o no, la paura del Coronoravirus a Roma sta prendendo sempre più piede. Tanto che in uno dei siti più turistici della Capitale, Fontana di Trevi, sono comparsi cartelli molto espliciti. «Vietato l’ingresso a chi arriva dalla Cina». Il bar Trevi, del Relife Fontana di Trevi hotel, in via del Lavatore 43, in pieno centro storico, ha infatti esposto un cartello tradotto in inglese e in cinese: «A causa delle misure di sicurezza internazionali, a tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso entrare in questo posto. Ci scusiamo per l’inconveniente».

Danilo Barbagallo per leggo.it il 31 gennaio 2020. Il Coronavirus spaventa anche la Capitale e gli esercenti cominciano a prendere provvedimenti. Nel centro di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, precisamente a via del Lavatore, dove passano migliaia di turisti al giorno, un bar caffetteria ha affisso stamattina un cartello che invita chi arriva dalla Cina a non entrare nel locale. Come ha potuto verificare Leggo, l’affissione recita: «Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient». («A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente»). L’avviso è stato temporaneamente rimosso per una correzione al testo in giapponese, e poi riaffisso nonostante abbia suscitato molte reazioni e polemiche da parte dei passanti, primi fra tutti gli italiani. A farlo scomparire del tutto ci hanno pensato i vigili di Roma Capitale, che hanno intimato agli esercenti di rimuoverlo.

Nico Riva per leggo.it il 31 gennaio 2020. «Non voleva assolutamente essere discriminatorio. Non vogliamo essere accusati di razzismo. Il nostro era solo un invito al buonsenso», dichiara Nadia Esposito, la portavoce dell'hotel Relais Fontana di Trevi che questa mattina, dopo la conferma di due casi di Coronavirus registrati a Roma, ha affisso un cartello che vietava l'ingresso alle persone provenienti dalla Cina. La portavoce però spiega: «Il cartello non ha nulla a che vedere con le persone di nazionalità cinese. Era rivolto a chi è stato recentemente in Cina, di qualunque nazionalità, quindi anche italiani». Ma dopo poco tempo, si son presentati i vigili della Polizia Locale e l'hanno fatto rimuovere con la giustificazione che fosse discriminatorio. «Viste le misure di sicurezza internazionale tutte le persone provenienti dalla Cina non sono ammesse in questo posto. Ci scusiamo per l'inconveniente». Così recitava il cartello affisso all'ingresso dell'Hotel e del Bar in via Lavatore, a due passi dalla Fontana di Trevi. «L'abbiamo messo per lo stesso motivo per cui questa mattina lo Stato italiano ha bloccato i voli da e per la Cina, quindi per prevenire e tutelare la salute dei nostri ospiti, dei nostri dipendenti e di chiunque altro. Visti anche i due casi di ieri in via Cavour, ci siamo sentiti in diritto e in dovere», ha aggiunto la portavoce. «Ci dispiacerebbe ricevere accuse di razzismo. Non abbiamo nulla contro le persone di nazionalità cinese, infatti il cartello specifica bene "le persone provenienti dalla Cina". Se arrivasse un cliente italiano che è stato in Cina due giorni fa, l'atteggiamento sarebbe identico, così come se arrivasse un cliente di nazionalità cinese che però non va in Cina da tempo, il problema non si porrebbe», ha proseguito Nadia Esposito. La portavoce ha infine sottolineato che per l'hotel e il bar si tratta anche di un «danno economico, perché l'affluenza di persone che arrivano dalla Cina in questo periodo è molto alta. Abbiamo anche rimborsato diversi clienti che dovevano arrivare dalla Cina. Abbiamo scelto di attuare delle misure cautelari finché non si stabilizzerà la situazione. Il nostro è solo un invito al buon senso. Si tratta di un problema che va ben oltre il guadagno». Ma i vigili non hanno voluto sentire ragioni, ordinando la rimozione del cartello.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 31 gennaio 2020. Nella serata in cui vengono confermati i primi due casi in Italia di persone contagiate da coronavirus, alla tv spetta il ruolo della cronaca e, se possibile, della rassicurazione. Gli aggiornamenti sono utili, indispensabili, ma vanno accompagnati da gesti plateali e fortemente simbolici che arrivino rapidamente al pubblico a casa. Ecco allora la decisione di Corrado Formigli di addentare in diretta a Piazzapulita un involtino di verdura alla griglia proveniente da un ristorante cinese di Roma e di far fare altrettanto agli ospiti in studio. “Noi siamo amici della scienza – dice il conduttore - mangiate tranquilli, non viene da qui il virus. Potete andare nei ristoranti cinesi, siate razionali, crediate nella scienza, nelle persone di buonsenso. Passerà”. Ad oggi i contagiati in tutto il mondo sono più di 8 mila, i morti oltre 170. A risentire della psicosi sono proprio i ristoranti cinesi, che hanno visto ridursi la clientela in maniera corposa. La mossa di Formigli ha fatto tornare alla mente l’episodio che il 21 febbraio 2006 vide protagonista Lamberto Sposini. L’allora conduttore del Tg5, nell’edizione delle 20, mangiò un pollo in diretta per allontanare la fobia dell’influenza aviaria. Dagospia il 31 gennaio 2020. VIDEO-FLASH! BARBARA D'URSO SI PAPPA UN BISCOTTO DELLA FORTUNA CINESE IN DIRETTA DURANTE LA PUNTATA DI "POMERIGGIO CINQUE" – COME FORMIGLI CON GLI INVOLTINI PRIMAVERA (E SPOSINI NEL 2006 CON IL POLLO), L'OBIETTIVO È TRANQUILLIZZARE LE PERSONE PER L'EPIDEMIA DI CORONAVIRUS. MA "BARBARIE" NON SEMBRA TANTO CONVINTA...

Da nextquotidiano.it l'1 febbraio 2020. Una comitiva di turisti cinesi a passeggio sui lungarni di Firenze è stata apostrofata con offese non ripetibili e l’invito ad «andare a tossire a casa vostra». Il video che riprende l’impresa è stato rilanciato dall’Unione Giovani Italo Cinesi che diffonde anche un appello: «Sono un cinese, che è andato a scuola con te, che ti ha passato il compito di matematica all’esame, che giocava con te negli esordienti a calcio… Sono il solito italo cinese che fa parte della tua vita e quindi non trattarmi come un virus. Il pregiudizio e la diffidenza ci farà diventare di nuovo estranei. Non cambiare le tue abitudini, la diffidenza e il pregiudizio uccide più delle armi da guerra». Il video è stato condiviso sul proprio profilo da un ex consigliere comunale di Campi Bisenzio (Firenze), Angelo Hu, 25 anni, commerciante e coordinatore di Associna in Toscana. “Da fiorentino e italo cinese, questo video mi ha fatto male come non pochi – commenta lo stesso Hu condividendo le immagini -. Firenze è la città che amo e non può tacere di fronte a questi esempi di becera ignoranza. L’ignoranza non passerà!”. Nel video, un breve filmato, si vede una coppia di turisti orientali a passeggio su un lungarno e una voce fuori campo, in vernacolo, li accusa di essere portatori del virus dalla Cina. “Forse erano pure turisti giapponesi, neanche cinesi – dice Angelo Hu – Ma al di là di questo, qui siamo oltre la bischerata brutta, di quelle che sento dire anche nel mio bar e a cui nessuno dà importanza. Sono nato e cresciuto qui, conosco come si parla in città e so distinguere tra ironia, cattiveria e ignoranza”. “Il video però – prosegue – sembra autentico, veritiero, frutto di ignoranza e ha ferito i ragazzi italo-cinesi” di seconda e terza generazione di immigrati dalla Cina “che lo stanno commentando sui loro social. Un po’ farebbe pure ridere ma poi fa molto arrabbiare, colpisce l’orgoglio della fiorentinità. Il virus tra qualche mese sarà debellato, ma la preoccupazione è che arriverà sui social in Cina come we chat, e allora è forte il rischio che si propaghi una brutta immagine di Firenze, che poi resta tale”.

Da romah24.com l'1 febbraio 2020. “Voi portate il coronavirus”. Notte di follia a Prati dove, intorno alle 23 di ieri, venerdì 31 gennaio, un branco di giovanissimi ha preso d’assalto due minimarket poco distanti l’uno dall’altro. I raid sono avvenuti in via Silvio Pellico 28 e in via Pietro Borsieri 39 dove la proprietaria è stata anche bersaglio del lancio di alcune arance. Il gruppo, composto da circa una ventina di ragazzi di età presumibilmente compresa tra i 15 e i 20 anni, secondo il racconto dei testimoni accusava i negozianti (una di origini filippine e uno di origini indiane) di essere portatori del coronavirus.  “Nel giro di pochi minuti hanno devastato l’ingresso del minimarket – racconta Hasan Sahid che lavora al negozio di via Pietro Borsieri – io mi ero allontanato per effettuare una consegna, nel mentre la proprietaria, Cora (filippina, ndr), è rimasta sola. All’improvviso si è avvicinato il branco, hanno gettato a terra le cassette di frutta e lanciato le arance contro Cora che è stata colpita al volto e al braccio, fortunatamente senza riportare conseguenze. Quando sono tornato, erano già scappati via”. Ornella Campana è una passante che ha assistito a tutto la scena: “Urlavano – “Questi portano il coronavirus!” – e gettavano tutto a terra – racconta – dall’aspetto erano italiani, in età di scuola superiore. Quando sono arrivate le forze dell’ordine si erano già dileguati”. La folle scorribanda si era scatenata poco prima, nel minimarket di via Silvio Pellico 26, dove il proprietario è riuscito a barricarsi dentro. Per lui soltanto tanta paura e nessuna conseguenza.

«Razzismo contro i cinesi». L'ambasciata protesta. Estratto dell’articolo di Alberto Giannoni per “il Giornale”.(…) L' ambasciata cinese in Italia, intanto, esprime «la più forte e assoluta denuncia e condanna» di episodi di razzismo e discriminazione nei confronti di cittadini cinesi a causa della diffusione del Coronavirus. «Negli ultimi giorni in Italia - dichiara la rappresentanza diplomatica - si sono verificati casi di intolleranza, sfociati persino in episodi di insulti e discriminazioni nei confronti dei cittadini cinesi. Esprimiamo la nostra più forte e assoluta denuncia e condanna di fronte a tali avvenimenti», spiega l' ambasciata di Pechino che chiede anche alle autorità italiane «di tutelare i diritti legittimi dei cittadini e delle comunità cinesi presenti in Italia». La psicosi sarebbe alimentata pure da alcune «catene di Sant' Antonio» che girano diffondendo fake news dalla Cina o improbabili consigli di presunti medici. «Forme di discriminazione nei nostri confronti ci sono, e sono sempre meno isolate - spiega Lucia King, portavoce della comunità cinese a Roma - ma almeno in minima parte le capisco. Sempre di più con il trascorrere dei giorni, perché non sono solo gli italiani ad avere paura. Ne hanno, e tanta, anche i cinesi». Le zone a più alta frequentazione di cittadini orientali, come via Paolo Sarpi a Milano e il quartiere Esquilino a Roma, sono decisamente meno affollate del solito. Ma già sono partite le prima iniziative e manifestazioni di vicinanza e «antirazzismo». (…)

Coronavirus, Salvini ci ripensa e ora mangia cinese. Il Dubbio il 3 Febbraio 2020. Il cambio di strategia social. Il leader del Carroccio appare in foto davanti a piatti di cibo cinese. I suoi seguaci però non apprezzano e piovono le critiche. Il rapporto cibo e social per Matteo Salvini è sempre stato una parte importante delle sue strategie di propaganda. Il leader leghista è stato protagonista di moltissime foto nelle quali o mangiava per incrementare il suo atteggiamento “friendly” con gli elettori e seguaci di Istagram, Facebook, Twitter, oppure per valorizzare il suo amore per le cucine regionali a seconda dell’elezione locale con la quale si è confrontato. Non ha fatto eccezione l’Emilia e così ecco una pioggia di immagini nelle quali Salvini coccolava forme di parmigiano, le accarezzava, le baciava. Ma che succede in tempi di coronavirus? Il 31 gennaio si è scagliato contro il governo accusandolo di inadempienza nei controlli: ““Fatemi capire. I primi due casi di Coronavirus in Italia sarebbero sbarcati tranquilli a Malpensa il 23 gennaio e, senza alcun controllo, avrebbero girato per giorni mezza Italia, fino ad arrivare in un albergo nel pieno centro di Roma” aveva scritto raccogliendo non poche critiche. Ora però la giravolta, ed ecco che su twitter è apparsa una foto in grande rilievo dove il capo del Carroccio augura buon appetito mostrandosi sorridente davanti a diversi piatti da ristorante cinese. Strategia anche questa? Una correzione di tiro dopo lo scivolone di qualche giorno fa? Si vedrà, intanto però i suoi seguaci non sembrano averla presa bene. Nei commenti sono in molti quelli che lo hanno criticato per questa scelta. Tanto più che Salvini aveva invitato a consumare solo pasti italiani. Anche il sovranismo è diventato vittima del virus.

Otto e mezzo, Massimo Giannini: "Coronavirus? L’untore è Matteo Salvini". L’editorialista di Repubblica e direttore di Radio Capital, su un tema così spinoso, attacca a muso duro la Lega e il popolo leghista. Michele Di Lollo, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. Non scomodiamo i monatti del grande Alessandro Manzoni. La paura non ha colore. E se si pensa che nel mondo l’epidemia di Coronavirus si diffonde a macchia d’olio, un po’ di fifa viene. Siamo nel salotto di “Otto e Mezzo” e ospite di Lilli Gruber c’è, tra gli altri, Massimo Giannini. Editorialista del quotidiano La Repubblica e direttore di Radio Capital. Si parla di paura legata al virus cinese e l’ospite immediatamente perde le staffe, attaccando il leader della Lega, Matteo Salvini. Dura la sua offensiva: “La paura è l’unica arma che il leghista sa usare. Esprimo anche qualche perplessità sui suoi elettori, ho il timore che da lui si aspettano esattamente questo. E sono preoccupato, da cittadino più che da giornalista”. In un colpo solo Giannini "maltratta" gratuitamente circa il 30 per cento di cittadini italiani che votano il Carroccio. E la metà del popolo italiano se questa cifra si allarga a tutto il centrodestra, che dagli scranni dell’opposizione, si azzardano a criticare il governo giallorosso. L’editorialista di Repubblica si vanta testimone di un’Italia impavida che non teme nulla: tanto meno i poveri cinesi. Sono gli stessi che sui social e al bar si battono il petto contro la qualunque, basta che la vittima di turno venga da destra. Insomma, per non dilungarci, in un minuto e mezzo di video, la sinistra salottiere sbeffeggia Salvini e salviniani in un colpo solo. “Non strumentalizzare politicamente il Coronavirus”. A sinistra lo ripetono spesso per colpire il leader legista che ha messo in dubbio la preparazione dell'esecutivo a gestire l’emergenza. Ma Giannini proprio non ci sta. “Il vero untore è Salvini”, assicura di fronte a Matteo Renzi e Beppe Severgnini, che lo ascoltano attenti. Salvini, secondo questo ritratto, sarebbe quella cattiva persona che diffonde il morbo della paura. Non contento, il giornalista pensa bene anche di insultare gli elettori leghisti. Si parla, come detto, del tema che sta popolando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Tuttavia, tra le sfumature della discussione c’è quella relativa al dibattito politico che si è innescato in Italia. In particolare, si è posto l’accento sulla possibilità che il governo potesse muoversi con una maggiore tempestività. E sulla presunta speculazione sulla vicenda adottata da Salvini. Particolarmente duro è stato il commento del giornalista che non risparmia colpi quando al centro del mirino trova un uomo di destra. Lo hanno fatto per anni con Silvio Berlusconi. Lo fanno ora e continueranno a farlo in futuro. Un morbo, questo sì, pericoloso per la democrazia italiana.

Matteo Salvini replica a Massimo Giannini: "Io untore? Poverino, mi fa tenerezza, è ossessionato". Libero Quotidiano l'1 Febbraio 2020. "Salvini è il vero untore", la sinistra non si smentisce mai. Durante la puntata di Otto e Mezzo l'editorialista di Repubblica, Massimo Giannini, ha riferito che il leader della Lega "diffonde il morbo della paura" in merito al coronavirus. Una frase che ha scatenato l'indignazione di tutti, anche quella dello stesso Matteo Salvini: "Ma questo signore è ossessionato da me e da voi?!? Poverino, mi fa tenerezza..." cinguetta prontamente. 

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Non solo, perché nel salottino di Lilli Gruber Giannini ha preso di mira anche gli elettori leghisti: "Salvini ha solo questa cifra, aumentare le paure degli italiani. Esprimo anche qualche perplessità sui suoi elettori, si aspettano questo da lui. E sono preoccupato, da cittadino più che da giornalista". 

Coronavirus, l'ex velina di Striscia Giulia Calcaterra: "Questi stronzi mangiano i cani e infettano il mondo". Libero Quotidiano il 2 Febbraio 2020. Sbotta contro i cinesi, Giulia Calcaterra, poi chiede scusa, facendo mea culpa. Tutta colpa del Coronavirus e della psicosi da contagio. L'ex velina di Striscia la Notizia dice frasi choc riferendosi al popolo cinese. Tutto senza freni e in barba al buon senso. "Queste persone stanno infettando tutto il mondo con questo Coronavirus - dice su Instagram -. Solo perché non so cosa vogliono dimostrare mangiandosi pipistrelli, cani e topi vivi. Si sta diffondendo alla velocità della luce stanno morendo un sacco di persone, perché questi str*nzi mangiano quello che avete visto".  Qualcuno, forse, le fa notare la terribile gaffe. Anzi, si tratta di un vero e proprio scivolone. Così, arriva subito la virata improvvisa: "Ho sbagliato a commentare in maniera così leggera pensando che tutti potessero capire le mie parole. Mi dispiace con tutto il cuore per le persone di quel paese e quelle che vivono in Italia che si sono sentite tirate in causa e si sono sentite male. Alcuni mi hanno contattata dicendomi di non far passare questo messaggi. Ma è ovvio che non tutti loro mangiano quelle cose. Io non ho fatto di tutta l'erba un fascio. Io avevo condiviso delle immagini specifiche, sono contro determinate pratiche che avvengono in una piccola percentuale di paese. Non era una discriminazione razziale al 100%. In generale io non sono una persona razzista". Basteranno queste parole a cancellare le offese dette precedentemente?

Adelaide Pierucci per ilmessaggero.it il 5 febbraio 2020. L'infermiera si rifiuta di togliere un catetere su ordine dei parenti di un paziente, viene presa per il collo e a pugni in faccia in pronto soccorso. Ora nel processo a carico degli aggressori spediti a processo dal giudice di pace per lesioni e minacce entra in scena il Policlinico Gemelli. L'istituto ha formalizzato la costituzione di parte civile con un doppio scopo: mostrare vicinanza agli operatori e spuntare il risarcimento per i danni all'immagine dopo lo scompiglio creato e per quelli patrimoniali visto che l'infermiera si è dovuta assentare per dieci giorni dal lavoro, nonostante le immediate cure dei colleghi di pronto soccorso. Un danno, quindi, anche per la struttura, ha concluso il consiglio di amministrazione chiamato a vagliare l'episodio. Il caos al pronto soccorso scoppia il 25 novembre del 2018, mentre medici e infermieri sono alle prese con più codici rossi. Un anziano, da codice giallo, era stato sistemato su una barella per una sospetta infezione alle vie urinarie e a stretto giro sottoposto all'inserimento di un catetere. L'apparecchio però secondo la figlia avrebbe acuito il dolore. Da qui la decisione di stringere le mani al collo di una infermiera che si era rifiutata all'istante di rimuovere l'apparecchio. «Ero in servizio nel pronto soccorso», racconterà nella denuncia l'infermiera, «e verso le 21.30 notavo una donna gridare: Chi ha deciso di mettere il catetere a mio padre? Passandole vicino le risposi di parlare col medico. E così mentre mi recavo in sala rossa per prendere direttive, la parente che gridava mi aggrediva alle spalle afferrandomi il collo e nonostante mi fossi riuscita a liberare ha continuato a sferrarmi pugni all'orecchio e sulla bocca. Il resto lo ha fatto il marito minacciandomi T'ammazzo e dandomi della poco di buono». Sono i carabinieri a risalire all'identità della coppia inalberata, due imprenditori cinquantenni del quartiere San Giovanni. E che ora, assistiti dagli avvocati Gian Maria e Carlotta Nicotera, sperano di dimostrare di aver agito in quel momento nella convinzione di tutelare l'anziano genitore evitandogli la sofferenza per loro inutile. Quel catetere, secondo loro, insomma, non andava messo. Il 27 febbraio del 2019 il caso viene sottoposto al Consiglio di amministrazione della Fondazione Gemelli. La decisione di intervenire a tutela e a sostegno della propria dipendente viene presa all'unanimità. «Stante quanto ha riferito l'infermiera e su indicazione del direttore sanitario», riporta il verbale del cda, «si ritiene utile la costituzione di parte civile anche per dare un tangibile senso di vicinanza agli operatori». Su indicazione del direttore generale è stato incaricato del caso un legale, l'avvocato Gaetano Scalise. Due settimane fa, un uomo ricoverato al San Giovanni Addolorata dopo essersi gettato da sesto piano di un edificio, ha picchiato gli operatori del pronto soccorso e minacciato i presenti nella mensa interna con un coltello. Il paziente, probabilmente ancora in preda a sostanze stupefacenti, si era lanciato dalla finestra, come ha riferito, «spinto da voci» e si era salvato miracolosamente impigliandosi sui fili del bucato, frenando la caduta a picco.

Coronavirus, prof vieta a studenti cinesi di presentarsi all’esame. Redazione de Il Riformista il 3 Febbraio 2020. Un caso di quarantena fai da te nei confronti di studenti cinesi. Si sarebbe verificato nei giorni scorsi all’interno del Design Campus dell’università di Firenze. E’ stato segnalato questa mattina da un’ascoltatrice all’emittente radiofonica fiorentina Controradio. “La settimana scorsa – scrive l’ascoltatrice – una professoressa del Design Campus di Calenzano UNIFI, ha pubblicato un post dalla pagina facebook del suo laboratorio KIDE – design for kids lab, in cui comunicava ai suoi studenti cinesi di non presentarsi all’esame. La cosa ha messo molto in difficoltà gli studenti cinesi, che adesso temono di non essere ricevuti dai tutti professori e si sentono discriminati”. L’ascoltatrice, a conferma di quanto ha segnalato, ha inviato anche lo screenshot del post, in cui si legge: “L’esame è spostato al 18 febbraio per tutti gli studenti che sono rientrati in Italia dalla Cina dopo il 10 gennaio del 2020. Per questi studenti le revisioni riprenderanno il 12 febbraio. Sarà possibile sostenere l’esame anche dopo il 18 febbraio. E’ possibile far revisione via email. Sono pregati di non presentarsi in particolare gli studenti provenienti da Wuhan, Ehzou, Xianning, Huanggang”. In questi giorni è stata diffusa una circolare ministeriale per fugare ogni preoccupazione rispetto alla gestione della tutela della salute e del diritto allo studio. Eppure, questo episodio evidenzierebbe una psicosi collettiva effettuando una sorta di quarantena preventiva. Nelle scorse ore contro episodi di discriminazione ed intolleranza si erano espressi sia il Sindaco di Firenze, Dario Nardella che il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani affinché i cinesi in Italia non siano “trattati come un virus”. “L’esempio che dobbiamo dare ai giovani e alle famiglie è quello che la Toscana esprime da sempre: tolleranza, accoglienza, difesa dei diritti umani e civili. Comportamenti che molto hanno a che fare con il razzismo non troveranno mai terreno fertile nella nostra regione”, dichiara Giani. In ogni caso sono state indicate delle linee guida nei confronti degli studenti universitari che sono rientrati dalla Cina nelle ultime due settimane. Per loro infatti è previsto di “monitorare la eventuale insorgenza di sintomi come tosse, febbre, difficoltà respiratorie; in caso di insorgenza di sintomi chiamare il 1500 o i centri regionali di riferimento; proteggere le vie aeree con mascherina; evitare contatti stretti fino alla definizione della situazione sanitaria da parte del personale sanitario”.

Coronavirus, i giudici di pace: "Nelle udienze per le espulsioni i migranti possono contagiarci". I rappresentanti sindacali delle toghe chiedono protezione: mascherine per non rischiare alcun contagio. E non è solo questione di coronavirus. Alberto Giorgi, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. La psicosi da coronavirus è arrivata anche nei tribunali italiani, dove i giudici di pace ora battono i pugni sui banchi per chiedere protezioni così da evitare qualsiasi contagio, anche da altre malattie come il vaiolo, la tubercolosi, il colera, l'ebola, oltre che dal pericoloso "virus cinese". "Rischiamo di ammalarci nelle udienze di convalida delle espulsioni dei migranti", protestano le toghe, tramite le proprie rappresentanze sindacali. Con una nota, infatti, l'Associazione nazionale giudici di pace tira per la giacchetta il ministero della Salute, quello della Giustizia e l'intero governo: "La pericolosità di un contagio può essere ancor più tangibile durante le udienze celebrate dai giudici di pace relative alla convalida delle espulsioni di migranti clandestini, che si tengono nei Centri di permanenza e rimpatrio, ovvero nei confronti di coloro che hanno violato l'ordine di allontanamento dal territorio dello Stato od anche per i reati di clandestinità". La questione non è da poco e interessa tutto il Belpaese: le udienze, infatti, non si tengono solamente nei principali centri di permanenza e rimpatrio di Trapani, Bari, Roma e Torino, ma anche negli uffici dei giudici di pace, così come nelle stanze delle questure di tutt'Italia. E da lì un eventuale soggetto infetto da coronavirus potrebbe diffondere il virus. Per questa ragione, i giudici di pace italiani pretendono "un urgente intervento del governo italiano e in particolare del ministro della Sanità e del ministro della Giustizia, rispettivamente a tutela della salute (art. 32 Costituzione) dei giudici di Pace e del ripristino delle indennità lavorative (art. 36 Costituzione). Norme previste espressamente dalla Costituzione italiana su cui i ministri hanno giurato fedeltà". Roberto Speranza, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il premier Giuseppe Conte sono dunque chiamati in causa dalle toghe e chissà se i tre daranno loro mascherine e quant’altro per schermarsi da qualsiasi eventuale contatto. Perché l'ombra del coronavirus, ma non solo, è sempre in agguato. I giudici hanno fatto quadrato e la lettera vergata e spedita all'esecutivo da parte dell'Unagipa parla chiaro: "Vogliamo che siano fornite maschere idonee a schermarsi da eventuali contagi, previa autorizzazione all'uso durante l'udienza". Inoltre, le toghe sperano anche che venga emanata e dunque diffusa una "circolare volta a chiarire il protocollo da attuare per la protezione della salute dei giudici che prestano servizio, soprattutto nella materia delle convalide di espulsione e di trattenimento nei centri di permanenza degli immigrati clandestini, sia per l'attuale emergenza sanitaria, ma anche per altre patologie di facile diffusione come la tubercolosi e le altre elencate". Fra le richieste dell'Unione nazionale dei giudici di pace, infine, anche quella di "apprestate immediatamente le tutele relative alle indennità di malattia e di rischio e per i giudici di pace e i magistrati onorari che si trovano in medesime situazioni".

Da repubblica.it il 3 febbraio 2020. I governatori di Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige hanno scritto una lettera comune al ministero della Sanità chiedendo che il periodo di isolamento previsto per chi rientra dalla Cina sia applicato anche ai bambini che frequentano le scuole. "Non c'è nessuna volontà di contrapposizioni politiche, né tantomeno di ghettizzare: vogliamo solo dare una risposta all'ansia dei tanti genitori visto che la circolare non prevede misure in tal senso", dice il presidente del Veneto, Luca Zaia. Nella lettera si chiede che i bambini di qualsiasi nazionalità in arrivo dalla Cina siano tenuti fuori dalle scuole per un periodo di osservazione di 14 giorni anche se in età dell'obbligo, in modo da scongiurare l'eventualità di diffusione del coronavirus "in ambienti confinati come sono quelli delle scuole".

Coronavirus, cosa sapere e come difendersi. La bozza della lettera, che con ogni probabilità sarà inviata nelle prossime ore, è già stesa, spiega Zaia. "A me sembra una regola sanitaria minimale", conclude il governatore ricordando che si tratta di una misura che "prendiamo anche per la meningite e per la tbc".

Da adnkronos.com il 3 febbraio 2020. Una giovane cinese che da Cuneo stava raggiungendo il capoluogo piemontese a bordo di un autobus sarebbe stata fatta scendere dal mezzo da alcuni passeggeri in quanto "persona non gradita". La giovane, che non ha una grande padronanza della lingua italiana, non ha sporto denuncia ma ha riferito l’accaduto alla comunità cinese di Torino. Lo si è appreso durante il pranzo che la sindaca Chiara Appendino ha fatto in un ristorante cinese con alcuni esponenti della comunità, accompagnata dall’assessore all’Integrazione, Marco Giusta. "Mi è stato evidenziato il caso di una ragazza che, così mi è stato raccontato, non si è sentita presenza gradita su un autobus - ha sottolineato Appendino - ma rispetto ad altre città non abbiamo avuto episodi forti in questi giorni e di questo voglio ringraziare i torinesi perché l'attenzione che stiamo richiamando oggi c’è già, e lo sappiamo: a Torino non ci sono stati episodi di razzismo". "Detto questo, il periodo di convivenza con quello che sta accadendo a livello globale non credo sarà breve, per questo l’invito rivolto a tutti è di adottare gli strumenti necessari - ha detto ancora Appendino - ma non cadere nella psicosi perché questo non aiuta".

Franco Stefanoni per corriere.it il 3 febbraio 2020. Fare il saluto romano per evitare di stringere la mano ad altre persone ed evitare così ipotesi di contagio in tempi di coronavirus. È quanto postato oggi sul Twitter di Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, vicepresidente del Senato. Testualmente: «Non stringete la mano a nessuno, il contagio è letale. Usate il saluto romano, antivirus e antimicrobi». Seguivano tre faccine con le mascherine a far intendere che il riferimento era al coronavirus. Prima di lui era stato pubblicato sui social da Andrea Nadalini, anche lui di Fratelli d’Italia, assessore del Comune di Codroipo (Udine), dove si occupa di frazioni e Protezione civile. Una frase ironica, è stato successivamente detto. Anche La Russa ha deciso di rimuovere il tweet. Dopo la rimozione, però, il senatore di FdI ha spiegato che la colpa è stata di un suo collaboratore, scrivendo: «Alfonso ha messo sui miei social un post ironico ma forse sul virus potrebbe suonare fuori luogo e gli ho detto di toglierlo».

Fiano (Pd): «Grave e imbarazzate». Subito si sono sollevate polemiche. Emanuele Fiano deputato del Pd, ha commentato via social: «Grave e imbarazzante che il vicepresidente del Senato faccia ironia sul virus di cui tutto il mondo parla da giorni e che sta seminando vittime e angoscia. Ancor più grave che La Russa usi il coronavirus come spot per il saluto romano, il saluto usato dai fascisti e dai nazisti, vietato dalla legge del Stato che nasce dalla Costituzione antifascista. Se non è stato lui a scrivere quel post, si scusi chi l’ha scritto, l’ironia ha dei limiti. La Russa è un uomo delle istituzioni, visto che lui stesso lo ha fatto togliere vuol dire che anche lui lo sa che su certe cose non si scherza».

Vittorio Feltri sul Coronavirus: "Razzismo? No, solo paura di ammalarsi e di crepare". Libero Quotidiano l'1 Febbraio 2020. Tutto questo panico incontrollato causato dal Coronavirus è insensato. Basti pensare che in un anno sono morti 700 italiani, stroncati dalla comune influenza da cui sarebbero guariti se solo avessero fatto un semplice vaccino protettivo. Un' ecatombe che tuttavia non ha suscitato il pandemonio in atto negli ultimi giorni per via della diffusione di una sorta di psicosi riguardo all' infezione cinese. Perché? La gente è abituata ai malanni cosiddetti stagionali, specialmente invernali, e non si stupisce se essi provocano un numero notevole di vittime. Pertanto campa tranquilla nutrendo la convinzione che raffreddore e complicazioni bronchiali non siano esiziali, e sopravvivrà a qualche starnuto. Mentre la malattia nuova proveniente dall' Oriente, come tutto ciò che ci minaccia all' improvviso, incute terrore. I morbi di cui non conosciamo la genesi e gli effetti spaventano in misura eccessiva, irrazionale, e ci impongono di adottare difese eccezionali. Addirittura il popolo è atterrito alla vista di un qualunque cinese considerandolo ora un veicolo di morte. Gli occhi a mandorla hanno acquisito una valenza demoniaca e li sfuggiamo quasi fossero armi letali. Il fenomeno sarebbe ridicolo se non creasse un clima di ostilità verso i poveri e incolpevoli gialli. Il sospetto nei confronti dei cinesi sfiora non soltanto la paranoia bensì anche il razzismo che, pure, in questa faccenda è inesistente. Si tratta semplicemente di patofobia. I cittadini in forma ossessiva hanno orrore di essere contagiati e di crepare, non ce l' hanno in realtà con pechinesi e affini, verso i quali non coltivano sentimenti negativi. Conta la fifa di finire sotto terra anzitempo. Gli italiani vanno capiti e soprattutto rassicurati. Sappiamo che i mezzi di comunicazione amplificano l' allarme per indole professionale, spinti dal desiderio inconscio di destare attenzione. Ma a quanto leggiamo e ascoltiamo in televisione dobbiamo detrarre la tara e persuaderci di una cosa assodata: andremo prima o poi tutti al cimitero, tuttavia non sarà responsabilità degli amici della Cina, piuttosto del fatto che l' umanità non è immortale. Coraggio, imbottiamoci di anticorpi e prepariamoci a combattere a ciglio asciutto. Non sarà un virus del cavolo ad annientarci. Vittorio Feltri

Coronavirus, gli islamici in festa: "Una punizione contro la Cina". Secondo i follower della pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" i morti in Cina per via del coronavirus sono "una punizione divina". Roberto Vivaldelli, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Mentre salgono a 304 morti e a 14.380 i casi di infezione da coronavirus in Cina - secondo quanto riferito dai dati della Commissione sanitaria nazionale cinese, a cui si aggiunge anche la morte di un paziente cinese nelle Filippine, il primo al di fuori dei confini, che porta il totale dei decessi per coronavirus a quota 305 - c'è chi esulta sul web . Sulla pagina Facebook Siamo fieri di essere musulmani, infatti, che conta più di 94 mila follower, la pandemia del coronavirus è stata salutata come la punizione di Allah per gli infedeli. Secondo uno dei moderatori della pagina, infatti, in Cina ci sono "1 milione di musulmani Uighuri detenuti in campi di concentramento. La Cina ha trasformato la regione autonoma Uighura dello Xinjiang in qualcosa che assomiglia a un enorme campo di internamento avvolto nella segretezza - una sorta di zona senza diritti". In allegato, una foto di Xi Jinping con il volto insanguinato. I cinesi sono accusati dai follower della pagina di "bruciare il Corano" e "demolire le moschee". Inoltre, "nei campi di detenzione i musulmani vengono torturati e costretti al lavoro forzato". Il coronavirus, dunque, è una punizione divina contro la Repubblica popolare cinese. I commenti al post sono tutto un programma: "In effetti è vero, è una punizione di Allà (sic): il virus è originario del serpente, animale associato al demonio. Perciò è collegato anche ad Allà". Un altro ancora scrive: "Ciò che si semina si raccoglie e ora e il momento che devono raccogliere dopo tutto il male che hanno fatto verso i nostri fratelli e sorelle e verso le creature di Allah". "La Cina - osserva un altro utente della pagina -sta raccogliendo ciò che ha seminato e questo è solo l'inizio". "Allah gli ha mandato un virus che sta uccidendo un sacco di persone, allahu akbar" commenta M.Y. R.S, uno dei fan più attivi della pagina, ne è sicuro: "Questi miscredenti non sanno che devono fare i conti con Dio, eccoli adesso sono loro che vivono nell'angoscia e nella paura, eccoli adesso prigionieri dentro le loro citta. Allah akbar". I commenti si riferiscono a ciò che accade nella regione autonoma dello Xinjiang – nella Cina occidentale – dove vivono 24 milioni di persone, la maggior parte delle quali appartenente alla minoranza etnica cinese degli uiguri. Questa popolazione ha una propria cultura, è turcofona e musulmana. Proprio qui nasce la tensione con il governo centrale. Alcune stime parlano di 1,5 milioni tra uiguri, kazaki, kirghizi e Hui internati in quelli che la comunità internazionale ha definito campi di concentramento ma che la Cina definisce semplici edifici in cui viene offerta agli ospiti "una trasformazione attraverso l’educazione”. Da qui a gioire per la morte di persone innocenti, però, ce ne passa. Ma a Facebook, sempre attentissimo quando si tratta di censurare i sovranisti o i conservatori in tutto il mondo, sembra non interessare.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 3 febbraio 2020. La psicosi del coronavirus c’è, allora perché alimentarla? Fa discutere il servizio trasmesso da Non è l’Arena nel quale un attore cinese è stato ingaggiato per andare in giro per Roma nelle vesti di turista a tossire per finta. Massimo Giletti lo ha definito “esperimento sociale”, ma il rischio originario di buttare benzina su un fuoco già abbondantemente acceso è stato confermato. “Venerdì in riunione ho detto ai miei: ‘prendiamo una persona cinese e portiamola in giro a tossire in mezzo agli italiani’, per vedere le reazioni”, ha spiegato il conduttore. Una presentazione accolta dai sorrisi dei presenti in studio, fino a poco prima decisi nel condannare allarmismi e strumentalizzazioni. I luoghi scelti erano ovviamente chiusi. Prima alcuni bar, poi addirittura la metropolitana, con l’attore che indossava ad intermittenza l’ormai richiestissima mascherina. Così, giusto per non passare inosservato. Le reazioni, dicevamo. Quali reazioni avrà mai generato uno scherzo del genere? Nessuna vittima ha riempito di insulti il cinese, nessuna vittima lo ha redarguito. Qualcuno ha provveduto ad allontanarsi e per ottenere le prime reazioni si è dovuto attendere che il protagonista della gag fosse a debita distanza. Nei giorni in cui una coppia di turisti cinesi è davvero risultata positiva al test, in cui il Consiglio dei Ministri ha confermato lo stato di emergenza per sei mesi, in cui sono stati sospesi i voli da e per la Cina, in cui un Boeing 767 dell’Aeronautica è partito per rimpatriare 56 italiani rimasti a Wuhan, città da cui è esplosa l’epidemia, si fatica a comprendere la reale missione del reportage. “Volevo dare la mia solidarietà a chi si spostava o si è impaurito”, ha detto Alessandro Cecchi Paone al rientro in onda. “Pure io, che lavoro con la voce, mi alzo e mi copro se mi starnutisce e rischia di procurarmi il raffreddore”. Una ‘carezza’ che ha di fatto azzerato lo spirito combattivo del servizio. E forse il vero insegnamento è arrivato da una signora straniera, purtroppo anonima, interpellata in metropolitana: “Avere paura è peggio”. Appunto.

STELLA CERVASIO per repubblica.it il 4 febbraio 2020. "Mi hanno telefonato da mezza Europa, ma io sono uno molto schivo. La battuta l'ho fatta, è vero, ed è piaciuta. Ma l'ho fatta per gli amici, non pensavo a tutta questa popolarità". Francesco Bile, 63 anni, tre figli, avvocato civilista, è un professionista poco abituato alla situazione nella quale è ora. Imperversa anche all'estero sul web la sua scenetta in vocale sul coronavirus, dove la sua voce è diventata quella di un certo “Gennaro a Forcella” che in uno dei vicoli più popolari di Napoli, vico Zuroli, famoso per i "pacchi" o truffe, fa sapere che affitta un cinese "con la tosse" per evitare le code all'ufficio postale, per trovare il posto sul bus affollato, per entrare al ristorante quando c'è la fila e non si è prenotati. C'è pure il tariffario: "Alla posta il cinese con la tosse costa 15 euro – dice nella nota vocale - Se vuole stare libero in metropolitana o nel pullman costa 50 euro. Se trovi il ristorante affollato il cinese costa 70 euro. Gennaro a Forcella vico Zuroli, a vostra disposizione”.

Avvocato Bile, come le è venuto in mente?

"Siamo napoletani, certe cose ci escono spontanee. Veniamo inondati da queste notizie e anche dal modo di porle, per cui anche vedere questi video che traumatizzano ci fa male. Ero in macchina bloccato in via Marina. Vede noi abbiamo la fortuna che le cose a Napoli non funzionano".

Come sarebbe?

"Che quindi abbiamo il tempo di ragionare, di pensare. Io dico sempre: poveretti quelli che vivono dove tutto funziona bene e non riescono a incontrarsi, a confrontarsi...".

Torniamo ai cinesi...

"Sentivo queste notizie alla radio fermo nel traffico e ho pensato di registrare quel vocale sulla chat di un gruppo di amici. Si chiama "Il circolo", raggruppa tutti noi che ci siamo conosciuti e frequentati negli anni '70, amici di infanzia".

E poi che ha fatto?

"Ho mandato questa registrazione che per me era più una riflessione nata mentre mi trovavo nell'imbuto del traffico di via Marina. Ho pensato che sarebbe stato uno scherzo".

Poi qualcuno l'ha diffuso.

"I primi sono stati proprio i miei amici. Quando mi sono accorto che girava senza nome, ho pensato: "Bene. Sarò il Banksy dello sberleffo". Volevo sfruttare questo nostro modo di ironizzare per sdrammatizzare".

Perché lei pensa che sia un allarme gonfiato?

"Abbastanza. Ma penso che se anche tutto fosse vero dobbiamo mantenere la capacità critica. E saper ridere di noi, come i napoletani hanno sempre fatto vivendo tanti disagi. Abitiamo a due passi dal Vesuvio, non è uno scherzo".

Non ha pensato che poteva anche sembrare irriguardoso?

"Ho spiegato ai miei amici che anzi volevo mostrare la mia vicinanza a chi in questo momento sta soffrendo. So che c'è gente asiatica in difficoltà anche a Napoli: la prima cosa che farò in questa settimana sarà andare al ristorante cinese".

Quindi ai cinesi che cosa direbbe?

"Che voglio prendere in giro la psicosi che si è creata. Non rido dei cinesi, per carità, ma degli italiani, che sono sempre prevenuti in queste circostanze. Il virus che mi preoccupa di più è quello della disumanizzazione. Quella ci sta rovinando tutti. Al coronavirus devono pensarci gli addetti lavori. Il resto dobbiamo combatterlo noi, e volevo far capire con le mie battute, che noi napoletani possediamo un'arma incredibile, siamo la capitale dello sberleffo".

Si riferisce alla famosa pernacchia di Eduardo?

"Sì, noi a quella pernacchia dovremmo fare un monumento, perché l'insulto è un atto vigliacco che commette il potente verso il più debole, messo in pratica oggi anche da chi si nasconde dietro l'anonimato su internet. Lo sberleffo lo usa invece il debole nei confronti del più forte. E' cosa diversa, è foriero di pace, è capace di disarmare".

E di chi ride della sua battuta che cosa pensa?

"Significa che la gente è meno stupida di quello che sembra. Ridere non significa essere poco seri".

Da repubblica.it il 3 febbraio 2020. Un caso di quarantena fai da te nei confronti di studenti cinesi. Si sarebbe verificato nei giorni scorsi all'interno del Design Campus dell'Università di Firenze. La vicenda è stata segnalata questa mattina da un'ascoltatrice all'emittente radiofonica fiorentina Controradio. "La settimana scorsa - scrive l'ascoltatrice - una professoressa del Design Campus di Calenzano, ha pubblicato un post dalla pagina Facebook del suo laboratorio Kide - Design for kids lab, in cui comunicava ai suoi studenti cinesi di non presentarsi all'esame. La cosa ha messo molto in difficoltà gli studenti cinesi, che adesso temono di non essere ricevuti dai tutti professori e si sentono discriminati". L'ascoltatrice, a conferma di quanto ha segnalato, ha inviato anche lo screenshot del post, in cui si legge: "L'esame è spostato al 18 febbraio per tutti gli studenti che sono rientrati in Italia dalla Cina dopo il 10 gennaio del 2020. Per questi studenti le revisioni riprenderanno il 12 febbraio. Sarà possibile sostenere l'esame anche dopo il 18 febbraio. E' possibile far revisione via email. Sono pregati di non presentarsi in particolare gli studenti provenienti da Wuhan, Ehzou, Xianning, Huanggang".

Scuole, i governatori del Nord: «Anche i bimbi vanno isolati». Gli italiani rientrati stanno bene. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Un altro caso sospetto a Roma — una ragazza cinese di 27 anni con la febbre allo Spallanzani —, un secondo più grave in terapia intensiva: escluso il contagio da coronavirus. La Capitale e altre città alle prese con gli allarmi nel giorno del rientro dei 56 italiani da Wuhan con un volo speciale dell’Aeronautica, quindi il trasferimento alla Cecchignola. All’appello manca un 17enne di Grado perché all’imbarco in Cina aveva la febbre e ora è assistito a casa. Tutti gli altri, compresi sei bambini, dovranno rimanere per due settimane nella struttura dell’Esercito. «Ora siamo al sicuro», spiegano felici. Nessuno ha manifestato sintomi della malattia, ma rimarranno in osservazione e dovranno indossare sempre le mascherine. Ad attendere i pullman solo i genitori di Lorenzo Di Bernardino: «Voglio tornare in Cina, è stata solo una piccola disavventura», minimizza il 20enne pescarese, studente in Giurisprudenza. «È stupito dall’allarmismo che c’è qui rispetto a quello che accade in Cina», sottolineano il padre Giulio e la madre Alessandra. Proprio ieri i governatori leghisti di Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia hanno scritto una lettera al ministero della Salute per chiedere che l’isolamento previsto per chi rientra dalla Cina venga applicato anche ai bambini delle scuole. «Vogliamo solo dare una risposta all’ansia dei tanti genitori — dice il presidente veneto Luca Zaia —, visto che la circolare non prevede misure in tal senso». «A me sembra una regola sanitaria minimale — aggiunge —, la prendiamo per meningite e tbc». L’unico a non firmare la lettera è stato il presidente della provincia autonoma di Bolzano e presidente di turno del Trentino Alto Adige, Arno Kompatscher. Immediata la replica dell’Istituto superiore di sanità: «Le misure attuali tutelano la salute dei bambini e della popolazione». Poi della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina («Non c’è alcun motivo per escludere gli alunni») e del governatore del Lazio Nicola Zingaretti («I voli dalla Cina sono sospesi, come fanno i bimbi ad arrivare?»). Ma c’è preoccupazione anche per alcuni episodi, veri o presunti, di intolleranza per i cinesi. A cominciare dalla sassaiola contro un gruppo di studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Frosinone, collegato — ma i carabinieri non hanno avuto conferme — al ricovero allo Spallanzani di una ragazza cinese, poi risultata negativa ai test. A denunciare l’aggressione il presidente del Consiglio regionale del Lazio Mauro Buschini, dopo che era stata rivelata da Giuseppe Iaconis, docente di Fashion design, ma la direttrice delle Belle Arti Loredana Rea l’ha smentita: «Da noi nessun episodio di violenza. Fuori non so». «Senza parole», commenta ancora Zingaretti. E poi: un’altra cinese costretta a scendere da un bus Cuneo-Torino da passeggeri che l’avrebbero fatta sentire non gradita. E un docente del Design Campus di Calenzano dell’Università di Firenze avrebbe esortato con un post gli studenti cinesi di «Wuhan, Ehzou, Xianning e Huanggang» a «non presentarsi all’esame». L’ateneo ha preso le sue difese. E mentre il premier Giuseppe Conte — ieri allo Spallanzani — ha presieduto a Palazzo Chigi il vertice con il ministro della Salute Roberto Speranza e i capigruppo di tutte le forze politiche, il capo della Protezione civile e commissario per l’emergenza Angelo Borrelli ha firmato l’ordinanza con i primi interventi urgenti, compresi rimpatri di connazionali e appalti pubblici in deroga.

Filippo Femia per “la Stampa” il 4 febbraio 2020. Sassi lanciati contro un gruppo di studenti. La loro «colpa»? Essere cinesi. E quindi untori, nell' assurda logica dei ragazzi che li hanno aggrediti. Arriva da Frosinone l' ultima follia della spirale innescata dalla psicosi per il coronavirus. L'Accademia di Belle Arti della città era stata chiusa dopo che un' alunna cinese si era ammalata. I test eseguiti allo Spallazani, però, erano risultati negativi. Alla riapertura dell' istituto c' è stata la sassaiola della vergogna. Il risultato di un' escalation di episodi di fobia e intolleranza, questi sì un pericoloso virus, che si sono verificati in tutta Italia. Gli allarmismi e le paure - talvolta alimentati dalle fake news del web - sono ingiustificate, continuano a ripetere infettivologi e medici. Ma la scienza si sgretola di fronte alla paura e all' ignoranza. Gli episodi di intolleranza sono iniziati pochi giorni dopo che il virus ha conquistato le prime pagine. Prima commenti a denti stretti - «Allontaniamoci, ci infettano» - di qualcuno che credeva di essere simpatico. Poi insulti sguaiati e senza ritegno. Come quelli pronunciati a Firenze contro una coppia di anziani turisti cinesi: «Fate schifo. Ci infettate, pezzi di m», si sente dire a un uomo in un video che è rimbalzato sul web. Alla fine, purtroppo, si è passati ai fatti. Lo scorso 26 gennaio una baby gang di adolescenti ha seguito, insultato e sputato contro una coppia di viaggiatori cinesi a Venezia. Un crescendo che non ha risparmiato i più piccoli. Nel Milanese, durante una partita giovanile di calcio, un ragazzino non ha trovato di meglio, per insultare l'avversario di origini cinesi, che pronunciare la frase: «Spero che ti prenda il virus». La psicosi e l' intolleranza hanno poi assunto contorni inquietanti. Un bar nel cuore di Roma, lo scorso 31 gennaio, ha affisso un cartello che vietava l' ingresso ai cinesi. «A tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso entrare in questo posto», la scritta in inglese e con gli ideogrammi cinesi, non lontano dalla fontana di Trevi. Un episodio che ha evocato la pagine più buie della storia del '900. È dovuta intervenire l' ambasciata cinese, chiedendo l' intervento dell' Italia per mettere freno all' ondata di intolleranza: «Si sono verificati casi sfociati persino in insulti e discriminazioni. Chiediamo alle autorità italiane di tutelare i diritti legittimi dei cittadini e delle comunità cinesi». Ma la psicosi non si è placata. Ieri a Torino la sindaca Appendino ha raccontato di una ragazza cinese costretta a scendere da un autobus partito da Cuneo. Gli altri passeggeri l' avrebbero fatta sentire non gradita per i suoi occhi a mandorla. La giovane, che non parla bene italiano, non ha sporto denuncia ma ha raccontato l' accaduto alla sua comunità di Torino. «Ci sono indicazioni chiare del ministero: invitiamo tutti i torinesi a informarsi e seguirle - ha detto la prima cittadina durante un pranzo in un ristorante cinese - Non cadiamo nel tranello della paura, che crea solo muri di diffidenza e psicosi di cui non abbiamo bisogno». Basterà questo appello al buon senso?

Virus cinese, nessuna sassaiola a Frosinone: denunciato prof. (LaPresse il 4 febbraio 2020) - L'episodio di intolleranza in danno di cittadini cinesi dell'Accademia di Belle Arti verificatosi a Frosinone è da considerarsi "privo di fondamento". E' quanto rivela la polizia di Stato di Frosinone, dopo gli approfondimenti del caso. La polizia ha anche denunciato per procurato allarme il professore che aveva diffuso la notizia. "A seguito delle notizie diffuse dagli organi di informazione locali e nazionali in ordine ad un episodio di intolleranza in danno di cittadini cinesi asseritamente verificatosi a Frosinone, la Questura ha dato immediatamente avvio, fin dalla serata di ieri, ad approfonditi accertamenti volti a verificare la fondatezza dell’informazione ed individuare gli eventuali responsabili delle illegalità descritte - si legge in una nota delle questura - Le ricerche effettuate dalla D.I.G.O.S. hanno consentito di chiarire che il professore che aveva reso pubblico l’episodio informando i giornalisti nel corso di un’estemporanea conferenza stampa non aveva la conoscenza diretta degli accadimenti ma aveva riferito informazioni raccolte da un’altra professoressa". Quest’ultima a sua volta "aveva appreso da un generico racconto di una studentessa cinese dell’Accademia di Belle Arti secondo che su una chat seguita esclusivamente da suoi connazionali, un altro giovane cinese aveva fatto riferimento a non meglio descritti episodi di intolleranza verso cittadini cinesi che sarebbero accaduti a Roma. Il contenuto di tale conversazione in chat si sarebbe trasformato nella sassaiola a Frosinone a causa di una errato utilizzo del traduttore di Google da parte della studentessa".

Nessuna sassaiola contro i cinesi a Frosinone, prof denunciato per procurato allarme. L'Accademia di Belle Arti a Frosinone. Il docente ne aveva sentito parlare da una studentessa che però l'aveva (forse) appresa da una chat, sbagliando la traduzione delle parole. E la vicenda era già stata smentita ieri sera dal sindaco. La Repubblica il 4 febbraio 2020. Nessuna sassaiola contro studenti cinesi a Frosinone. La vicenda era già stata smentita ieri sera dal sindaco e oggi lo fa sapere anche la polizia che, dopo aver effettuato approfondite indagini, ha denunciato per procurato allarme il professore che aveva comunciato a raccontare in giro qualcosa che non era mai accaduto ma che aveva già sollevato un polverone di dichiarazioni e reazioni a caldo. Le ricerche effettuate dalla Digos hanno consentito di chiarire che il professore che aveva reso pubblico l'episodio informando i giornalisti nel corso di un'estemporanea conferenza stampa non aveva la conoscenza diretta degli accadimenti ma aveva riferito informazioni raccolte da un'altra professoressa. Quest'ultima a sua volta aveva appreso la presunta vicenda da un generico racconto di una studentessa cinese dell'Accademia di Belle Arti che l'avrebbe letto su una chat seguita esclusivamente da suoi connazionali. A causa di un errato utilizzo del traduttore Google, il contenuto di tali conversazioni sul web, in cui si parlava genericamente di episodi di intolleranza verso cittadini cinesi che sarebbero avvenuti in questi giorni a Roma in seguito alla diffusione del coronavirus, si sarebbe trasformato in una vera e propria sassaiola contro gli studenti cinesi dell'Assemblea delle Belle arti di Frosinone. Al termine delle indagini - ha sottolineato la polizia - la notizia diffusa dal professore va considerata totalmente priva di fondamento. E al prof la leggerezza di averla diffusa è costata una denuncia all'Autorità giudiziaria.

Da corrieredellosport.it il 22 febbraio 2020. Napoletani Coronavirus". Questo il coro partito dalla Curva Nord del Brescia alla mezz'ora della partita tra Brescia e Napoli, vinta 2-1 dai partenopei al Rigamonti. Il coro era stato intonato già una prima volta qualche minuto prima. Durante il match si sono sentite anche grida inneggianti al Vesuvio, come accaduto non di rado in altri stadi d'Italia. I cori di insulto assumono un significato di maggiore gravità perché oggi 16 cittadini italiani sono risultati contagiati dal Coronavirus, alcuni ricoverati in gravi condizioni: 14 peraltro proprio in Lombardia, nella regione di Brescia.

Dagospia il 22 febbraio 2020. Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti. Dunque l’Italia, o almeno una sua parte, è come si dice “sotto possibile attacco” dal Coronavirus. Si sta cercando di trovare un auspicabile punto di equilibrio fra prudenza e senso di responsabilità, fra rischio di psicosi e senso delle proporzioni, fra corretta comunicazione e allarmismo. E in tutto questo in uno stadio di calcio (luogo deputato non posso più dire alla civiltà, ma perlomeno al desiderio di passare un po’ di tempo in tranquillità) un branco di deficienti (obiezioni sulla definizione?) non trova di meglio da fare che eleggere la malattia a insulto per la città avversaria. Una domanda accorata rivolta (soprattutto) alla stragrandissima parte dei bresciani dotati di educazione e buon senso: PERCHE’?

PS 1 Il Coronavirus, per ora, è diffuso in una zona per fortuna ristretta della Lombardia e non della Campania.

PS2 Fra i tifosi ululanti era presenta una delegazione campana (anti-Napoli) che si è associata al coro.

Da "leggo.it" il 29 marzo 2020. Con l'emergenza Coronavirus, Nonno Libero - alias Lino Banfi - prova a rassicurare gli altri nonnini d'Italia. Gli anziani, infatti, sono risultati i più deboli contro l'epidemia. L'attore ricorda che gli immunodepressi e le persone con patologie pregresse, i più a rischio, non hanno meno valore degli altri.  «Se muore un nonnino non è che abbia meno valore della morte di una persona più giovane», dice all'Adnkronos. «Da bambino - continua - quando ancora vivevo a Canosa di Puglia, ho avuto in serie tifo, paratifo, malaria ed epatite virale... dovevo morire a dieci anni e oggi che ho 84 anni posso dire che quelle malattie mi hanno fortificato e rafforzato. Dunque, come nonno Libero, dico a tutti i vecchietti come me di non avere paura del Coronavirus e di stare tranquilli, perché noi abbiamo gli anticorpi e siamo forti!». L'attore Lino Banfi viene definito come Nonno d'Italia, grazie alla fortunata serie televisiva della Rai "Un medico in famiglia". «Visto che il mio mestiere mi insegna a sorridere e far sorridere anche nei momenti tristi, possiamo dire che almeno una cosa buona questo Coronavirus l'ha fatta: ha insegnato a tutti gli italiani l'abitudine di lavarsi le mani, spesso e bene». Prima, magari, erano di più quelli che "se ne lavavano le mani"... «Certo, da questo punto di vista, Ponzio Pilato ci avrebbe fatto un baffo e non avrebbe avuto proprio nulla da temere da questo coronavirus! - replica Banfi - Ma presto, nessuno di noi avrà più motivo per averne paura e ne rideremo».

Coronavirus, Vittorio Feltri: "Finché uccide i vecchi non è il caso di allarmarsi. Ecco il vero razzismo". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Vittorio Feltri ammette che il razzismo, in tutta questa vicenda del coronavirus esiste. Ma attenzione, è razzismo verso gli anziani. "Contrordine: non è vero che non esista il razzismo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "C'è e colpisce i vecchi". E c'è anche "la prova", che "consiste nel fatto che il virus uccide le persone su di età e ciò sembra consolare chi ha paura" del contagio. "Finché crepano i Matusalemme", conclude Feltri, "non è il caso di allarmarsi". Insomma, come aveva scritto in un tweet precedente, "non è più il colore della pelle a essere discriminante ma l'età. Ma il razzismo è lo stesso".

Ecco il nuovo razzismo: "È morto? Era anziano..." Alessandro Sallusti, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Sono anziani, e quindi spesso già malati di loro, i primi morti italiani del Coronavirus. Nei commenti ufficiali e nelle chiacchiere tra conoscenti e amici è quello dell'età l'argomento principe per scacciare la paura di essere coinvolti nell'epidemia o per depotenziarne gli effetti. Io non sono più giovane, ma neppure ottantenne, quindi sono in una specie di limbo: in caso di contagio, essendo pure cardiopatico, rischio di morire ma non troppo, diciamo una cosa giusta. È ovvio che i primi a cadere, in guerra come nella vita, sono i più deboli o se volete i meno forti. E sarebbe banale ricordare che dopo i primi (i vecchietti) è il turno dei secondi (gli adulti) e poi dei terzi (i giovani) come è purtroppo successo in Cina dove l'età media dei contagiati secondo uno studio dell'americana Emory University pubblicato dalla rivista scientifica Jama -, si attesta attorno ai 54 anni. Ma attenzione, mettiamo pure che l'azione più virulenta del virus resti confinata nella terza età, che per gli statistici inizia chissà perché - a 65 anni. Parliamo di un bacino potenziale di oltre dodici milioni di persone a rischio, tanti sono gli ultra sessantacinquenni in Italia. E se stringiamo il campo agli ultra ottantenni non tutti ovviamente in ottima salute la cifra scende a quattro milioni (di cui uno nella sola Lombardia), direi non proprio noccioline. Se l'epidemia dovesse fare strage in questa fascia di popolazione darebbe certo una mano ai traballanti conti dell'Inps, ma non mi sembra questo un valido motivo per lasciarglielo fare. Non è che la vita di un anziano con la salute «così così» vale meno di un'altra. Anzi, semmai va più protetta proprio perché più fragile. E proteggerla non è soltanto compito delle autorità preposte ma anche direi soprattutto di chi anziano non è e che con i suoi comportamenti («tanto io sono forte, sano e la faccio franca») può seminare il virus là dove attecchirà con più violenza. In un'epoca in cui tutto (spesso anche le scemenze) è definito razzismo, teniamo alta l'allerta sul razzismo contro gli anziani. Ieri non sono morti di Coronavirus due ottantenni, ma due persone esattamente come chiunque di noi. Se non deve contare il colore della pelle, perché mai dovrebbe essere importante l'età?

Coronavirus in Italia, neanche gli anziani meritano di morire. Giampiero Casoni 25/02/2020 su Notizie.it. A ogni notizia di morte per Coronavirus ci rassicuriamo dicendo: "Muoiono solo anziani". E magari abbiamo accanto nostra madre e nostro padre, che smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi. Fra le tante appendici un po’ cretine che l’arrivo in Italia del Coronavirus sta generando ce n’è una che proprio non dovrebbe andarci giù: quella per cui, essendo clinicamente le persone anziane più suscettibili di andarsene al Creatore a causa di Covid 19, la percezione della loro morte sia vista come un fatto quasi ineluttabile o secondario. Come al solito essere anziani è faccenda dura, non solo nel tran tran di una quotidianità che li percula nei meme sui cantieri, ma anche nella drammatica eccezionalità di un’epidemia birbacciona come poche. Torna prepotente ed immortale alla memoria Zavattini, che pare dicesse che “l’età non produce saggi, ma solo vecchi”, persone cioè che ogni società si ostina ad elevare ad archetipo di categoria da rispettare, ma che poi puntualmente, quando le ginocchia dei sistemi complessi occidentali tremano, sono le prime a pagare pegno ad un cinismo che ci dovrebbe far incazzare anche a fare la tara alle paure di questi giorni. Dove sta scritto che, essendo morte per lo più persone anziane a causa del Covid 19, la cosa deve farci meno da ariete emotivo? Entro certi limiti funziona la psicologia narcotica per cui tutti, oggi, ubriachi di social, di scazzottate politiche e di bollettini virologici, cerchiamo di esorcizzare il male rimarcando con ostinazione bambina gli ambiti dove fa male davvero, quelli cioè dove sui documenti di identità campeggiano date da Italia monarchica. Però non basta. Chi ha riflettuto, seriamente riflettuto sul fatto empirico e semplice che magari una di quelle persone morte in questi giorni avrebbe avuto davanti a sé altri cinque, dieci, quindici anni di vita, magari anche attiva e gratificante? Ci siamo posti il problema che ogni morte è devastazione pura per gli affetti che essa scuote e che ci sono persone che piangono quei morti, anziani, giovani o prefetali che siano? No, se sei vecchio puoi morire quasi nella beatitudine beota di chi ormai ha fatto il suo tempo e paga pegno all’eugenetica imbecille di un certo modo di percepire la società. E si badi bene e finiamola di non dircelo, trattasi di società che è buonista ma non buona, che disegna una povera Italia 2.0 e fa rimpiangere l’Italia povera degli anni ’50, che guarda al progresso ma non conosce la civiltà, due cose cioè che, come diceva Guareschi, sono completamente diverse. Ma a noi poco frega: con le mani imbevute di Amuchina, un occhio ai social e pronti a trasformare ogni “etciù” nel nuovo Allah Akbar, abbiamo trovato il nostro nuovo mantra, il vaccino emozionale che precede il vaccino clinico di Moderna Technologies Inc: quello con cui, ad ogni notizia di morte avvenuta lanciamo nell’aria la litania del "muoiono solo anziani". Magari dicendolo con nostra madre e nostro padre che, dal tinello, smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 febbraio 2020. Alessandro Sallusti sul suo Giornale ha messo il dito nella piaga. Il razzismo è vivo e pugnace ma non colpisce i poveri africani o altri diseredati, bensì distrugge i vecchi, contro i quali si è sviluppata una vera e propria congiura. Chi ha compiuto 70 anni, o anche meno, è considerato una persona di scarso valore, un rincoglionito, di solito beone, indegno di far parte del consorzio civile. Mai quanto in questi giorni sono esplosi sentimenti ostili alla cosiddetta terza età. Complice il virus, l' anziano che muore infetto è buono giusto per completare le statistiche, però non dispiace a nessuno che finisca sottoterra. Anzi il suo funerale è consolatorio per i giovani, dimostra che Corona ci vede benissimo e uccide solo gli scarti vetusti della società. Se crepa un giovane tutti si spaventano per immedesimazione. Pensano: oddio forse sono a rischio pure io. Se viceversa va al cimitero un soggetto attempato si fregano le mani dalla soddisfazione: meno male che il virus è esiziale soltanto per quei rompicoglioni che sfruttano la pensione immiserendo l' Inps. A ciò siamo arrivati e il fatto non mi sorprende poiché i venerandi da decenni sono nel mirino di chi si illude di rimanere in eterno giovane, ignorando che per campare a lungo è indispensabile incanutire. I vecchi subiscono lo scherno, il dileggio dei ragazzotti e dei loro genitori, i quali si confermano razzisti. Infatti la discriminazione non si determina in base al colore della pelle, della nazionalità di un individuo, ma scatta nei confronti dei Matusa. Eppure nessuno si scandalizza né deplora tale orrendo costume. D' altronde siamo abituati alla imbecillità diffusa. Basta constatare un particolare. Allorché l' Italia era schiava del fascismo non c' era in giro neanche un antifascista, ora che le camicie nere sono morte l' antifascismo trionfa. Lottare contro i fantasmi è facile.  

Ferdinando Camon per “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Qui dove sto scrivendo, e cioè a venti chilometri da Vo' che è uno dei focolai del virus, corre con un certo rilievo la notizia che nell' altro focolaio, Codogno, il contagio sta toccando anche i bambini, dai 5 ai 15 anni. Nei bar non si parla d' altro. Perché se la malattia comincia a toccare i bambini, allora è una cosa seria, da combattere con tutti i mezzi, senza badare ai costi. Si dice sempre che la mortalità dei contagiati sta fra l' 1 e il 2 per cento, ma se comprende i bambini è come se aumentasse vertiginosamente. Questo mi fa piacere, è bello vivere in un popolo che protegge i piccoli, però se permettete mi deprime anche, perché i vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l' informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni? Nego che ciò sia vero. I giornali e le televisioni che non lanciano e non rilanciano il dato che a morire per questo virus sono il 14 per cento degli ultraottantenni contagiati sbagliano. I vecchi sono importanti, oso dire più dei giovani, i molto vecchi più dei molto giovani. I molto giovani sono uno spazio da riempire, uno spazio in cui la storia di domani scaricherà materiali che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Chissà cosa ci sarà tra quei materiali. Amori, bassezze, viltà, eroismi, egoismi, onestà, menefreghismi, genialità, idiozie. Non sappiamo. Il nostro amore per i bambini è un amore cieco. Li amiamo a prescindere. Ma i nostri sentimenti per i vecchi non sono ciechi. Riusciti o falliti che siano, i vecchi hanno vissuto, e sono pieni di esperienze. Trattandoli con rispetto e con stima, noi rispettiamo e stimiamo le loro esperienze. Sono fragili, sono preziosi, sono antiquariato. Sono insostituibili. Un vaso nuovo, se lo rompi, ne prendi un altro tale e quale, ma un vaso antico non lo trovi più. Perciò dico: è un medico indegno o cialtrone quello che dà poca o minore importanza ai pazienti vecchi, e vecchi vuol dire più di anziani. Ci fu una volta un medico disonesto, un ortopedico che impiantava protesi difettose, che producevano infezioni, malattie e perfino morte. Lui se ne fregava, a lui costavano poco, se le faceva pagare molto, lucrava sula differenza, e sperava di continuare all' infinito. La malattia non era un problema. La morte era un problema. Siccome i pazienti erano anziani, sopra i sessant' anni o settanta, lui quando uno moriva se lo scrollava di dosso con una battuta: «E quanti anni voleva vivere, novanta?». Rispondo io: sì, certo, novanta e più, perché no? La vita è vita finché è vissuta in attesa di altra vita, quando è in attesa della morte fa parte della morte, è morte anticipata. Erano i filosofi esistenzialisti che vivevano «in attesa della morte», e battezzavano questo tempo fuori della vita in latino, in greco e in tedesco. Io sto pensando alla gente comune, come voi, come me, gente per la quale vivere significa essere vivo, e se sei vivo sei pieno di tutti gli infiniti doni della vita, compresi i litigi, le incomprensioni, i tradimenti, i perdoni, i ritorni, che tu abbia dieci anni o venti o ottanta. Morire vuol sempre dire addio a tutto, e non è vero che il tutto a cui dai l' addio sia più vasto a vent' anni che a ottanta, e che perciò la morte di un ventenne sia una morte completa, mentre a ottanta muore solo quella porzioncina di vita che ancora resta. La morte è sempre una perdita totale, uno di noi se ne va totalmente e per sempre, e piangendo su di lui noi in realtà piangiamo su di noi, sulla nostra fine. Non vorremmo mai che avvenisse. Ci sembra sempre che il tempo che abbiamo da vivere contenga ancora tutto. Una volta nati, vorremmo essere nati per sempre, non per alcuni anni. Siamo tutti collegati, viventi con viventi, e ci sentiamo in pericolo se qualcuno comincia ad escludere qualcun altro, perché è malato, perché è scemo, perché è povero. O perché è vecchio. Non è che se qualcuno muore vecchio, non suona la campana. La campana suona comunque, perché suona per coloro che restano. È dunque se c' è questo 14 per cento di ultraottantenni che se contagiati se ne vanno, smettiamola di ignorarli. Perché imbrogliamo noi, non loro.

Coronavirus tra Nord e Sud Italia. E quella paura che non può diventare intolleranza. Noi meridionali da decenni per qualcuno siamo i colerosi e i terremotati. Sappiamo bene quanto faccia male un atteggiamento del genere, quindi tocca anche a noi fare la nostra parte in favore delle popolazioni di Veneto e Lombardia. Come? Affrontando la storia del Coronavirus in maniera responsabile: il virus dell’idiozia fa danni esattamente come il virus proveniente dalla Cina. Solo che per quest’ultimo si troverà un vaccino. Ciro Pellegrino su Fan Page il 24 febbraio 2020. «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po' di retorica. Nel primo caso l'abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio». La Peste, Albert Camus. Guardatela da qui, la storia del Coronavirus. Sforzatevi. Guardatela da Sud. Vi dico com'è: noi non siamo abituati. Non siamo abituati a essere quelli che alzano barriere, che lanciano l'allarme. Che respingono (o almeno vorrebbero). Noi meridionali siamo da sempre i colerosi e i terremotati e non solo allo stadio. Siamo quelli al checkpoint, siamo quelli messi in attesa, quelli che devono «attendere le disposizioni dell'autorità». Oggi se un Dio c'è magari non giocherà a dadi ma ammetterete che ha un sottile senso del paradosso. Permettetemi un ragionamento laterale, permettetemi di incorrere nell'errore preconizzato da Camus, cioè quello di un po' di retorica:  tranne casi  prontamente repressi dalle istituzioni dello Stato, parlo del divieto di sbarchi a Ischia o altre antipatiche decisioni come quel Comune (Casamarciano, Napoli) che ha chiuso le porte a un gruppo di giovani calciatrici venete, qui per ora la paura è rivolta soprattutto verso noi stessi. Non chiamatemi piagnucoloso, ma non faccio altro che pensare ad una cosa: se fosse accaduto il contrario? Se il focolaio di Coronavirus fosse iniziato da Sud, a partire da Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Molise, Basilicata? Se anziché a Lodi ad Avellino, anziché in Veneto a Napoli? Avremmo potuto sperare in pietà? O qualcuno avrebbe rispolverato vecchi steccati mai abbattuti, rialzato muri con mattoni pronti all'uso, gridato ai terroni di andar via, come in anni passati pure è accaduto? La consapevolezza di quanto faccia male un atteggiamento del genere è il nostro anticorpo. C'è sempre più bisogno di cautela. Bene ha fatto ieri il prefetto di Napoli, la città più grande del Mezzogiorno, a richiamare alla calma soprattutto certi sindaci "intraprendenti", pronti a vietare pure gli sbarchi senza motivo. Dunque ora tocca un po' anche a noi, gente del sud, fare la nostra parte e affrontare responsabilmente questa storia, anche nell'utilizzo delle parole nei confronti di chi vive in Lombardia e Veneto (peraltro spesso sono emigranti meridionali): nel corso dei decenni ci hanno apostrofati con qualsiasi appellativo, causa colera e calamità naturali di vario tipo. Tocca a noi non affrontare questa storiaccia con lo stesso stupido metodo, tocca a noi evitare le psicosi inutili. Al virus dell'idiozia non c'è vaccino esattamente come per quello cinese. Solo che per quest'ultimo lo troveranno. 

Razzismo da coronavirus contro il Nord, Pino Aprile: “Al Sud offesi per anni senza motivo. Ammalarsi qui non è la stessa cosa”.  Antonio Sabbatino il 26 Febbraio 2020 su internapoli.it. «Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa, il Paese Italia non esiste». Lo scrittore Pino Aprile, autore del saggio “Terroni’’ (edizione Piemme), commenta così quanto sta accadendo in Italia dopo la diffusione del Coronavirus con la stragrande maggioranza dei casi verificatesi nelle regioni del Centro-Nord, dove pure non sono mai mancate parole e atteggiamento di scherno nei confronti dei meridionali. Proprio al Sud gli unici 3 casi accertati di Coronavirus riguardano altrettanti turisti bergamaschi in vacanza a Palermo (marito, moglie e un’altra persona), quasi una nemesi rispetto ai tanti insulti ai meridionali negli anni e dopo il tweet dei giorni scorsi del direttore di Libero Vittorio Feltri con riferimento all’epidemia di colera a Napoli negli anni ‘70. «Se volessimo scherzare – afferma in proposito Aprile – dico che nella storia ci sono stati casi in cui degli eserciti per conquistare altri territori mandavano avanti i lebbrosi per provocare un’epidemia. Tornando seri, questa vicenda dimostra, anche in maniera banale, che i diritti come quelli alla salute, ma non solo, dovrebbero valere allo stesso modo a Bergamo come a Palermo». Ma, aggiunge lo scrittore, «questo non accade. Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa. Allargo il ragionamento e faccio un riferimento pratico per far comprendere certe disparità: per andare nei territori del Mezzogiorno spesso si è costretti ad utilizzare treni vecchi che vanno a rilento. Questo vuol dire che il Paese Italia non esiste». Tra gli effetti collaterali del Coronavirus, che ha mietuto 11 vittime contagiando al momento oltre 350 persone, le polemiche istituzionali. Nei giorni scorsi il presidente del consiglio Giuseppe Conte aveva parlato dello scoppio di un focolaio di Coronavirus in Lombardia, nel lodigiano a causa di un’ipotetica mancanza di applicazione dei protocolli da parte di una struttura sanitaria suscitando le ire del governatore della regione Attilio Fontana e di parte del mondo medico. Anche qui Pino Aprile cerca di “unire’’ idealmente l’Italia. «Gli ospedali “fetenti’’ ci sono ovunque, come in tante parti ci sono le eccellenze. Non dimentichiamo che la coppia cinese che ha contratto il Coronavirus è stata curata allo Spallanzani di Roma nel quale lavorano quelle 3 ricercatrici, tutte meridionali, che hanno isolato il Coronavirus». Inoltre: «Va ricordato poi come tantissimi vicepresidenti della Regione Lombardia siano finiti in carcere per aver ricevuto mazzette nella sanità e in carcere per mazzette nella sanità ci è finito anche l’ex governatore Formigoni. A questo si connette la perenne disparità di risorse a disposizione. Se io ad esempio ho 1000 euro a disposizione, come succede nelle regioni del Nord, e ne rubo la metà, ce ne saranno sempre 500 a disposizione. Se, sempre come esempio, invece ho a disposizione 300 euro, come invece capita al Sud, e ne rubo sempre la metà mi restano pochi spiccioli. Capite la differenza?». Altra reazione, questa volta più d’istinto, è quella avuta dai cittadini ischitani che hanno protestato dopo l’arrivo sull’isola verde di un gruppo di turisti lombardi e veneti appena sbarcati sull’isola (con il prefetto che ha stoppato la decisione delle autorità locali di vietare l’ingresso ai cittadini residenti nei territori dei focolai). In un video delle lamentele, si sente dire ad una donna “per tanto tempo ci avete definito terroni’’ quasi come una vendetta morale. «Io quella frase la posso giustificare. Dal Nord ci hanno definito in taluni modi senza che vi fosse un virus ed anche i cartelli “non si affitta ai settentrionali’’ ha suscitato principalmente una reazione di stupore» il commento di Pino Aprile. 

Coronavirus, la rivincita dei meridionali: "Settentrionali, restate a casa vostra". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. Come esuli di guerra vengono accolti in queste ore dalle loro famiglie quei meridionali che dal Settentrione stanno facendo ritorno in terra madre a causa del contagio di coronavirus esploso venerdì scorso in Lombardia e poi diffusosi nelle regioni limitrofe, precipitando nel panico gli abitanti dello stivale. Le mamme abbracciano all'aeroporto o in stazione i loro figli, studenti fuori sede, scampati al pericolo di finire in terapia intensiva o - peggio - di crepare, le nonne li rimpinzano di ogni ben di Dio, pasta al forno, parmigiana di melanzane, polpettone, peperonata, caponata, come se i nipoti giungessero deperiti e stremati dal fronte. Il Sud sempre maltrattato, deriso, osteggiato, compatito, costretto a permanere ai margini, escluso, fanalino di coda della Nazione intera, si è adesso preso la sua rivincita sul Nord ed i polentoni che lo popolano, considerati quali untori, appestati da cui stare alla larga. Anzi, da tenere alla larga e rispedire altrove. Tramonta con il virus made in China il valore supremo dei terroni, ossia la rinomata e celebrata ospitalità: lombardi e veneti non sono graditi, se ne stiano a casa loro, in compagnia del Corona. La paura induce alla chiusura, alla circospezione, alla diffidenza, persino all'odio. E così, per la legge del contrappasso, principio in base al quale i colpevoli di qualche crimine o peccato patiscono proprio ciò che hanno inflitto, i polentoni vengono ghettizzati e messi al bando, come se diffondessero terribili morbi per il solo fatto di provenire da determinate aree del Paese.

CARTELLO-BURLA. E la memoria storica vola subito al periodo in cui gli immigrati del Sud, quelli che poi avrebbero in parte meridionalizzato il Nord, subivano discriminazioni di ogni tipo nelle città in cui approdavano per motivi di lavoro con la valigia di cartone. "Non si affitta ai settentrionali", si legge su un cartello la cui immagine in questi giorni sta girando sul web. Probabilmente si tratta di una burla, tuttavia non vi è dubbio che da Roma in giù stia montando un desiderio di vendetta nei confronti dei settentrionali, che, covato per decenni e decenni, soltanto ora ha trovato una "buona" occasione per tracimare ed esprimersi in tutta la sua virulenza. Coloro che dimorano nel Mezzogiorno si dicono orgogliosamente "sani" e puntano il dito contro quelli che vivono dalla parte opposta, i quali per i loro costumi promiscui, il loro stile di vita cosmopolita e moderno, ricco ma rischioso, si sono beccati il coronavirus. «E adesso che se lo tengano. Ben gli sta!», mormora qualcuno. È il momento di gettare benzina sul fuoco di vecchie faide familiari, mai sopitesi. Di saldare i conti in sospeso, sventolando il pretesto dell'emergenza sanitaria. Dunque, vietare l'ingresso in certi comuni o regioni a milanesi e torinesi, o a lombardi e veneti, diventa in qualche modo giustificato, giusto, ammissibile ed ammesso, sebbene tali provvedimenti non sorgano soltanto dall'esigenza di salvaguardare gli autoctoni, evitando che la malattia si propaghi, ma pure da un bisogno impellente di rivalsa. Pure coloro che non giungono dalla cosiddetta zona rossa, ossia dal focolaio dell'infezione, sono guardati con sospetto e li si prenderebbe volentieri a sberle, purché muniti di tute protettive, guanti in lattice e mascherine.

POLENTA O POLPETTE. Insomma, se fino ad ieri il razzismo era indirizzato ai cinesi, ora ha come bersaglio i nordici. E ci si dimentica un elemento fondamentale: a prescindere dal fatto che mangiamo prevalentemente polenta e cotolette o preferiamo divorare polpette e maccheroni, siamo tutti quanti italiani e componiamo un unico organismo, l'Italia. E se di questo organismo si ammala una parte, quantunque piccola, o pure estesa, allora esso è acciaccato tutto e la febbre che lo prende non si concentra solamente nel punto dolente. L'unità è stata fatta nel 1861, eppure essa è rimasta incompiuta. Siamo diventati Stato, ma non siamo mai diventati popolo unitario. Restiamo frammentati, divisi, spesso ostili gli uni con gli altri. Il coronavirus ci è piovuto addosso dalla Cina per mostrarci i nostri limiti.

Coronavirus, il Sud si "vendica": "Non si affitta ai settentrionali". Un cartello, probabilmente fake, apparso in rete ha scatenato le polemiche. Il coronavirus al Nord sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario". Giorgia Baroncini, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. "Non si affittano case ai settentrionali". È quanto recita un cartello che sta facendo il giro del web. Con molta probabilità si tratta di un avviso fake creato da Kotiomkin, libero laboratorio di satira, ma la frase sta alimentando il dibattito tra gli utenti. La diffusione del coronavirus al Nord, in particolare in Lombardia e Veneto, sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario", come spiega il Messaggero. Negli anni sono stati i meridionali a finire nel mirino dei settentrionali con i più classici stereotipi italiani. Ora la situazione, si ribalta con la proposta di misure per contenere la diffusione del virus cinese nel Sud Italia. E così sul web è apparso il cartello "Non si affittano case ai settentrionali" che fa il verso agli annunci appesi nei palazzi delle regioni del Nord in cui i proprietari di casa si rifiutavano di dare alloggio a chi veniva dal Sud. Ora è arrivato il momento della "vendetta" dei meridionali. Non è ancora chiaro se il cartello che impazza sui social è ironico o autentico, ma è bastato a scatenare le polemiche.

I commenti. In rete c'è infatti chi ha preso la scritta come un gioco, chi ha pensato di mettere in pratica misure per arginare l'arrivo di settentrionali e chi si è indignato. "Rivincita terrona. Non si affittano case ai settentrionali", "Aiutiamo i settentrionali a casa loro", "Chi la fa, l'aspetti", "Terroni, questo è il vostro momento", ha ironizzato qualche utente. Altri invece si sono scagliati contro l'annuncio: "Che vergogna queste sanguisughe", "Il karma....la ruota gira....ora tocca a voi!! Ma che problemi avete....e che cazzo di persone siete!?", "In un momento del genere non capisco cosa ci sia da ridere", si legge tra i commenti. Ma c'è anche chi non si è lasciato scappare l'occasione per rivolgere degli insulti: "L'Italia è un paese di coglioni, e ciò si evince dal fatto che i settentrionali coglioni stanno venendo al sud infettando in tal modo persone sane. Complimenti davvero, un applauso a questi fenomeni!!!". In molti ha invece cercato di sdrammatizzare la situazione, ma il cartello ha scaldato gli animi.

IL CARTELLO MEME NON SI AFFITTA AI SETTENTRIONALI. Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Il cartello con la scritta Non si affitta a settentrionali per adesso gira soltanto sui social e sui gruppi WhatsApp dove tutti sono bravi a ironizzare con il virus degli altri. Però se va avanti così, prima o poi si rischia di trovarlo anche affisso su qualche portone di un paese qualsiasi al di sotto del Garigliano. Perché di fronte alla paura del contagio, sono in tanti a scoprirsi salviniani al contrario, pronti ad adottare una improvvisata politica di respingimenti, con gli indesiderati che stavolta non arrivano dall' Africa ma dalla Lombardia e dal Veneto. I primi a muoversi in questo senso sono stati sei sindaci ischitani, rimessi subito in riga dal prefetto di Napoli che ha annullato l' ordinanza con la quale vietavano lo sbarco sull' isola a turisti provenienti dalle due regioni dove si è maggiormente sviluppata l' infezione. «Non ci sono i presupposti giuridici per un provvedimento del genere - spiega al Corriere il prefetto Marco Valentini - e compito delle istituzioni, in un momento del genere, è mantenere la calma e l' equilibrio, non fare inutili fughe in avanti». Fughe che però ci sono state comunque. In Basilicata il governatore Vito Bardi ha disposto la quarantena per gli studenti lucani che rientrano da Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria e Emilia Romagna. Regioni elencate pure dal sindaco di Gravina di Puglia, Alesio Valente, che ha invitato chiunque intenda entrare in paese provenendo da quelle zone a comunicarlo telefonicamente alla polizia locale, fornendo nome, data di arrivo e indirizzo di dove si intende soggiornare. Insomma, che si tratti di connazionali o concittadini non fa molta differenza: se stanno dove il Covid-19 ha attecchito è meglio che ci restino, sembra essere l' auspicio di chi da quelle aree è lontano centinaia di chilometri. In Irpinia, per esempio, nessuno ha accolto con piacere i due insegnanti fuggiti da Codogno prima che scattasse la quarantena, e che ora l' isolamento obbligato lo stanno facendo a casa loro, dove avranno tutto il tempo di leggere la valanga di insulti ricevuti su Facebook. E peggio ancora è andata a una comitiva di turisti provenienti proprio da Lombardia e Veneto (ma non dalla zona rossa) che a Benevento si sono visti cancellare dal titolare dell' albergo le prenotazioni fatte nelle scorse settimane. Perché, pure se non c' è nessun cartello, in certi posti adesso davvero non si fitta a settentrionali. 

Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. "Io vivo alle Mauritius da dieci anni e manco dall'Italia da due anni. Eppure il mio ristorante di cucina italiana nel sud di Mauritius sta perdendo tantissimi clienti negli ultimi giorni. Molti clienti mi fanno battute perché sono italiano. C'è razzismo verso di noi, mi fanno battute brutte, mi chiedono se mi sono lavato le mani o cose del genere. Il razzismo c'è in Italia contro i cinesi ma c'è anche qui contro gli italiani". Fa riflettere lo sfogo di Giuseppe, ristoratore italiano che da dieci anni vive alle Mauritius e che questa notte ha chiamato i Lunatici di Rai Radio2, Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Giuseppe dopo aver composto lo 063131 si è sfogato: "Che c'entro io con il Coronavirus? Sono due anni che non vengo in Italia", ha ripetuto. "La clientela del mio ristorante in questi giorni è molto diminuita e quelli che vengono quasi mi guardano male".

(ANSA il 25 febbraio 2020) - "E' stato un incubo. Sono emotivamente distrutto, arrabbiato; un gran dispiacere. E' stata una presa di posizione assolutamente non di buon senso. Vacanza di una settimana buttata alle ortiche per i miei 60 anni, festeggiati praticamente in aereo, con le mie figlie in lacrime che si sono viste portar via un sogno. Un gran danno emotivo. Ho visto scene di pianto, di urla, di disperazione perché non sapevamo che fine avremmo fatto. Devo ringraziare il comandante dell'Alitalia, che ha saputo gestire la situazione, a fronte di una zero ospitalità locale: mi sono sentito 'cittadino di Alitalia'". E' la testimonianza all'aeroporto di Fiumicino di un milanese rientrato dalle Mauritius con il gruppo di 40 connazionali originari della Lombardia e del Veneto che hanno scelto di tornare in Italia dopo aver rifiutato l'opzione della quarantena disposta dalle autorità locali. "Non so neanche con chi devo prendermela per quello che è successo. Mi piacerebbe che ora, non so chi, qualcuno facesse un gesto nei nostri confronti. E mi auguro di non perdere i miei soldi, sarebbe una beffa tremenda - ha raccontato ancora -. Ci hanno fatto solo scendere in un corridoio di approccio all'aeroporto; siamo stati seduti per terra, non ci hanno neanche fatto accedere ai bagni, al bar; solo tempo dopo ci hanno dato dei tramezzini con dell'acqua. C'erano bimbi piccoli, una di un anno e mezzo che, povera stella, non aveva neanche i pannolini di ricambio, e che è diventata la mascotte del gruppo; isolati per ore, le notizie rimbalzavano ed in pratica siamo stati sull'aereo per più di 24 ore, avremmo fatto il giro del mondo. Ad un certo punto, colpo di scena, le autorità locali hanno chiesto chi fosse della Lombardia e del Veneto e che dovevamo rimanere a bordo. Abbiamo capito che la vacanza sarebbe saltata. Nessuno di noi ha fatto il furbo, facendo finta di non essere di tale provenienza e provando quindi a scendere". "Ciò che è successo, e ce ne siamo accorti solo dopo un paio di ore di attesa prima di poterci imbarcare, è alquanto strano e da un punto di vista microbiologico, assurdo - ha detto invece uno dei passeggeri, diversi dei quali con indosso le mascherine, rientrati dalla vacanza alle Mauritius e che hanno viaggiato con i 40 connazionali lombardi e veneti - perché se sono dei passeggeri che l'Italia ha lasciato uscire, vuol dire che non sono dei passeggeri contagiati e quindi avevano tutto il diritto di poter sbarcare. Ed invece li hanno sottoposti ad una specie di "ricatto": o scendete e state in quarantena o ve ne tornate, creando un clima di paura pure tra di noi. Molti passeggeri, infatti, che stavano alle Mauritius e che dovevano tornare a casa, hanno preferito non prendere questo aereo".

Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Si preparavano a una vacanza di sole e mare, di relax. Hanno rischiato di finire in quarantena per quattordici giorni, in un ospedale a 8 mila chilometri da casa. Sono le 7 e tre quarti del mattino, ora italiana, quando l' Airbus dell' Alitalia partito la sera prima da Fiumicino atterra all' aeroporto di Mauritius, nell' Oceano indiano. A bordo del volo AZ772 ci sono 212 passeggeri e 12 membri dell' equipaggio. Il messaggio nella cabina di pilotaggio era arrivato pochi minuti prima, quando il comandante aveva appena iniziato la discesa verso quella settimana di mare d' inverno che è la vera destinazione di questo volo. Dicono dalla torre di controllo che, una volta atterrati, tutti i passeggeri dovranno rimanere a bordo in attesa di istruzioni. All' inizio il comandante pensa che ci sia qualche problema nell' aeroporto di arrivo. Anche perché la sera prima, al momento del decollo, tutto era regolare, non c' era stata nessuna comunicazione particolare. Le autorità di Mauritius non avevano detto nulla a quelle italiane, zero comunicazioni anche ad Alitalia. E invece il problema è proprio quello, il coronavirus, il contagio che si è diffuso in Italia, al momento solo in alcune regioni del Nord. In un primo momento, come comunicato dalla torre di controllo, tutti i passeggeri e i membri dell' equipaggio vengono trattenuti a bordo. E subito la questione diventa un caso diplomatico. Viene coinvolta l'ambasciata di Pretoria, in Sud Africa, competente per Mauritius. E quindi l' Unità di crisi del ministero degli Esteri. Ci sono momenti di tensione, diciamo così. Non solo per il caso specifico, che comunque coinvolge più di 200 persone. Ma anche perché sono tutti consapevoli che quell' Airbus fermo sulla pista di Mauritius rappresenta un precedente, il primo caso di quella che potrebbe essere una lunga serie di stop ai voli in arrivo dall' Italia, in questo momento il terzo Paese al mondo per numero di contagi. E con l' aggravante che siamo stati proprio noi, in Europa, i primi a chiudere i voli con la Cina dopo l' inizio dell' epidemia di coronavirus. Dopo un' ora buona di negoziato viene trovato un compromesso. Possono scendere tutti i passeggeri, tranne quelli che subito prima del volo partito da Fiumicino ne avevano preso un altro dagli aeroporti lombardi o veneti, in sostanza Milano o Venezia. Quelli che rimangono sull' Airbus sono in tutto 40. E hanno davanti due strade: 14 giorni di quarantena in due ospedali a Mauritius, prima di cominciare una vacanza che però a quel punto sarebbe già finita perché i pacchetti sono di solito di una settimana. Oppure essere rimpatriati subito, con lo stesso volo Alitalia, già programmato nel pomeriggio per Fiumicino. La scelta non rasserena gli animi. Anzi. «Gli italiani residenti a Roma o Bologna sono potuti entrare, noi no. Una decisione assurda» dice Daniele Tagliapietra, imprenditore di Mestre, intervistato dal Corriere del Veneto , in vacanza con la figlia di 15 mesi. «Che senso ha? Abbiamo viaggiato per dieci ore sullo stesso aereo». Ma da Mauritius non vogliono sentire ragioni. Dopo qualche momento di confusione, i quaranta posti vengono trovati sull' aereo di ritorno. Tutti i 40 i passeggeri bloccati decidono di ripartire. Meglio evitare una quarantena dall' altra parte del mondo.

Puglia, quando arrivò il colera nel 1973 il Nord ci sbeffeggiò. Senza i social poche «fake news». E nessuno contro l’Africa. Ugo Sbisà il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e soprattutto i provvedimenti amministrativi di chiusura che, al Nord e in diverse regioni, stanno riguardando molti luoghi pubblici, risvegliano nella memoria di chi li ha vissuti il ricordo dell’epidemia di colera che nel 1973, insieme con Napoli, mise a dura prova anche Bari. Era all’incirca la fine di agosto quando si verificarono i primi casi in città e per molti si trattò di una vera e propria doccia fredda: l’ultima epidemia di colera a Bari risaliva infatti al 1837, mentre la città si era «salvata» da una nuova ondata che aveva riguardato l’intero meridione nel 1873. In altre parole, il colera sembrava un male confinato all’Ottocento e sopravviveva nella memoria degli anziani o, tutt’al più, in quella dei lettori di romanzi di ambientazione esotica. Questo spiega perché i primi casi colsero alla sprovvista le strutture sanitarie e le farmacie, prive dei farmaci necessari per la prevenzione e la cura della malattia. Ma - e questo è decisamente peggio - la diffusione del vibrione era tradizionalmente associata alle cattive condizioni igieniche e questo favorì la circolazione di notizie non sempre veritiere diffuse soprattutto dagli inviati di certa stampa del Nord che, in particolare nel descrivere le condizioni di vita di Bari vecchia, calcarono sin troppo la mano, raccontando di miasmi insopportabili e soprattutto di topi che, al calar del sole, diventavano i padroni incontrastati dei vicoli e persino delle abitazioni...Esagerazioni a parte, l’amministrazione comunale - all’epoca guidata dal democristiano Nicola Vernola - intervenne prontamente disponendo la chiusura di tutti i locali pubblici, cosicché, in quel caldo scampolo d’estate, i baresi dovettero rassegnarsi a trascorrere le serate in casa, dividendosi tra il televisore (con la sola scelta tra Raiuno e Raidue) o rispolverando con grande anticipo sul Natale i giochi di carte e di società. Fuori casa nessuno avrebbe mai rischiato di bere persino un semplice bicchiere d’acqua, meno che mai se di rubinetto. Cinema, teatri, ristoranti erano tutti rigorosamente chiusi e lo stesso Vernola, anni dopo, ricordò divertito di essere stato chiamato da un allarmatissimo Aldo Moro pochi giorni dopo lo scoppio dell’epidemia: i due avevano pranzato assieme la settimana precedente e Vernola, da buon barese, aveva consumato delle cozze crude. Di qui la preoccupazione dello statista salentino che il primo cittadino potesse aver contratto la malattia. Ovviamente, la cautela non si fermò ai luoghi di svago, ma riguardò anche l’inaugurazione della Fiera del Levante e persino le scuole, tant’è che quell’anno 1973-74 s’iniziò con oltre un mese di ritardo. E furono forse gli studenti gli unici che, con una punta di incoscienza, guardarono al vibrione con una certa simpatia. I più fortunati di loro ripararono con le madri nelle case estive, considerate più «sicure» perché lontane dal focolaio d’infezione. La situazione cominciò a normalizzarsi con l’arrivo del vaccino in grande quantità, che coincise anche con un lento ritorno alla normalità. L’emergenza era durata all’incirca un paio di mesi, ma soprattutto - sebbene il colera fosse un male curabile con rimedi noti e non un virus ancora in attesa di antidoti - era stata affrontata senza psicosi. Merito di una ferma ed efficace gestione sanitaria - si distinse, fra i tanti, il prof. Nicola Simonetti - e amministrativa, ma soprattutto anche di una più «sana» informazione. Quarantasette anni fa, internet era pura fantascienza e in loco le notizie o le raccomandazioni circolavano solo sulla carta stampata, in radio e in televisione, ma sempre dopo essere state accuratamente valutate e verificate. In altre parole, l’epoca delle fake news era di là da venire e il mondo della politica non si azzardava minimamente a strumentalizzare le emergenze per attaccare i propri avversari. Un ultimo aspetto: fermo restando che la città di allora era forse meno pulita di quella di oggi, alla fine il focolaio dell’infezione venne identificato a Napoli in una importante partita di cozze arrivata sui mercati del Sud dal Nordafrica; il caldo e una certa disinvoltura igienica delle zone colpite avevano fatto il resto. Ma nessuno se la prese col Nordafrica...

FELTRI TWEET. Da Lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola in confronto al Corona. Da areanapolit.it il 22 febbraio 2020. La giornalista del quotidiano Il Mattino e blogger, Anna Trieste, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Twitter rispondendo, tra le altre cose, ad un post scritto dal giornalista Vittorio Feltri. Ecco quanto si legge: "Ha detto Vittorio Feltri che lui da lombardo i napoletani li invidia perché hanno avuto soltanto il colera che è una cosa piccola rispetto al #coronavirus. Ecco. Io invece da napoletana non li invidio i lombardi. Avere un conterraneo come Vittorio Feltri deve essere 'na bella figur 'e mmerd onestamente". Mentre in Italia sta divampando la paura per il diffondersi del Coronavirus, ci sono 14 casi accertati in Lombardia, Vittorio Feltri, direttore del quotidiano nazionale Libero, ha scritto su Twitter un messaggio che ha fatto molto discutere e indignare tante persone, napoletani e non: "Da Lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola in confronto al Corona", il post di Feltri. Parole che non fanno certamente onore a un giornalista come lui.

Quando il colera flagellava l'Italia. Nell'Ottocento e nel Novecento il colera ha colpito più volte l'Italia, specialmente a Napoli dove la speculazione ha utilizzato l'epidemia come scusa per abbattere interi quartieri popolari. Luca Fortis, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. In questi giorni di paura, ma anche di inutili allarmismi sul corona virus, molti ripercorrono la storia delle grandi pandemie dell’Ottocento e degli inizi del Novecento e su come siano state sconfitte o arginate. Una di quelle sconfitte nei paesi benestanti, ma ancora pericolosa nei paesi in via di sviluppo è il colera. Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche e soprattutto dell'India segnalata già nel 1490 nella regione del delta del Gange da Vasco de Gama. Nel corso dell'Ottocento, come ricorda Eugenia Tognotti, nella sua opera “Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia”, a causa di movimenti militari e commerciali dell'Inghilterra nel continente indiano, e delle macchine a vapore che resero sempre più numerosi i viaggi, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il globo. Epicentro, il portale dell'epidemiologia per la sanità pubblica, definisce il colera “un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae. La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione”. Nel diciannovesimo secolo, ricorda il sito, il colera si è diffuso più volte dalla sua area originaria attorno al delta del Gange verso il resto del mondo, dando origine a sei pandemie (per pandemia si intende una manifestazione epidemica di una malattia su larghissima scala, anche planetaria) che hanno ucciso milioni di persone in tutto il mondo. Il portatale dell’epidemiologia ricorda che la settima pandemia è ancora in corso: è iniziata nel 1961 in Asia meridionale, raggiungendo poi l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. Oggi la malattia è considerata endemica in molti paesi in via di sviluppo e il batterio che la provoca non è ancora stato eliminato dall’ambiente. Epicentro ricorda che i sierogruppi di Vibrio cholerae che possono causare epidemie sono due: il l Vibrio cholerae 01 e il Vibrio cholerae 0139. Le principali riserve di questi patogeni sono rappresentati dall’uomo e dalle acque, soprattutto quelle salmastre presenti negli estuari, spesso ricchi di alghe e plancton. Il sierogruppo 01 provoca la maggior parte delle epidemie e, secondo recenti studi, il cambiamento climatico potrebbe favorire la formazione di ambienti adatti alla sua diffusione. Il sierogruppo 0139, invece, è stato identificato nel 1992 in Bangladesh e, per ora, la sua diffusione è stata accertata solo nel sud est asiatico. Gli altri gruppi di Vibrio cholerae possono causare deboli forme di diarrea, che però non si sviluppano in vere e proprie epidemie. Il sito racconta che l’approccio prescelto per la lotta al colera è “spesso multisettoriale e coinvolge la gestione dell’acqua, la sanità pubblica, la pesca, l’agricoltura e l’educazione alla salute. Tuttavia, gli interventi più importanti per la prevenzione delle epidemie di colera riguardano la depurazione dell’acqua e il funzionamento del sistema fognario”. Garantire la sicurezza del cibo e dell’acqua e migliorare l’igiene sono, infatti, “le condizioni di base per prevenire le epidemie. Anche l’educazione al rispetto di accorgimenti igienici durante la preparazione o l’assunzione del cibo, come il lavarsi le mani con il sapone prima di iniziare a cucinare o mangiare, può contribuire a ridurre la diffusione delle epidemie”. I vibrioni del colera sono, infatti, ricorda Epicentro, “estremamente sensibili all'azione dei comuni detergenti e disinfettanti. Sono disponibili anche dei vaccini: tuttavia la loro efficacia, insieme a quella delle campagne di vaccinazione, deve ancora essere valutata e approfondita”. Il colera è una malattia a trasmissione oro-fecale: può essere contratta in seguito all'ingestione di acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti (malati o portatori sani o convalescenti). I cibi più a rischio per la trasmissione della malattia sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare. Anche altri alimenti possono comunque fungere da veicolo. Le scarse condizioni igienico-sanitarie di alcuni Paesi e la cattiva gestione degli impianti fognari e dell’acqua potabile sono le principali cause di epidemie di colera. Il batterio può vivere anche in ambienti naturali, come i fiumi salmastri e le zone costiere: per questo il rischio di contrarre l’infezione per l’ingestione di molluschi è elevato. Senza la contaminazione di cibo o acqua, il contagio diretto da persona a persona, secondo il portale epidemiologico, è molto raro in condizioni igienico-sanitarie normali. La carica batterica necessaria per la trasmissione dell’infezione è, infatti, superiore al milione: pertanto risulta molto difficile contagiare altri individui attraverso il semplice contatto. Nell’Ottocento ricorda Eugenia Tognotti, nell’opera “Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia” il colera dilagò in diverse città europee generando sette pandemie nel corso del XIX secolo. Sei di queste giunsero anche in Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. L'epidemia che scoppiò tra gli anni 1884-86 flagellò soprattutto la città di Napoli. Gli Stati impegnati nei traffici commerciali con altre nazioni, come ad esempio il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie, ricorda la storica, istituirono cordoni sanitari marittimi e definirono i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette e sospette. Altri governi, come quello toscano, inviarono alcuni medici nei Paesi europei colpiti dall'epidemia per studiare il decorso della malattia e le misure da essi adottate. I provvedimenti presi erano in buona sostanza quelli già sperimentati ai tempi della peste. Le esplosioni epidemiche di colera furono “molto violente a causa della mancata igiene privata e pubblica, delle debolezze dell'organizzazione sanitaria, della povertà, e dell'arretratezza medica”. Nemmeno i cordoni sanitari, ricorda il libro e “le quarantene istituite per fronteggiare le pestilenze o le magistrature di sanità che avevano il compito di assicurare la prevenzione sanitaria e l'igiene pubblica riuscirono a contrastarle”. La Tognotti ricorda come la “grande sfiducia nei medici e nella medicina ufficiale non fece altro che alimentare le sommosse popolari, le superstizioni, la paura di essere avvelenati, la caccia agli untori e il prevalere delle forme di religiosità popolare con processioni e voti”. Il colera era una malattia che colpiva indistintamente tutte le classi sociali ma quelle più agiate godevano di uno stato di salute e di nutrimento migliore rispetto a quelle meno abbienti che oltre ad essere meno curate e nutrite vivevano anche in quartieri angusti e malsani. L'inchiesta parlamentare fatta in Italia sulle condizioni igienico-sanitarie dei comuni del Regno tra 1885-86 rivelò che su un totale di 8.258 comuni più di 6.400 erano privi di rete fognaria, solo 3.335 erano forniti di latrine e in 797 gli escrementi venivano depositati negli spazi pubblici, nelle strade e nei cortili. Molti comuni non disponevano di acqua potabile e in molti casi questa giungeva agli abitanti attraverso condotti a cielo aperto. Negli anni precedenti all'inchiesta la situazione era sicuramente peggiore. Eugenia Tognotti, ricorda poi come legato al problema dell'acqua, “c'era quello dello smaltimento dei rifiuti. Alcune grandi città davano in appalto il servizio di nettezza urbana ma nei paesi e nelle periferie si agglomerava tutto per strada. Le città ottocentesche si presentavano invase da rifiuti di ogni genere: dagli scarti di lavorazioni della concia delle pelli a quelli della macellazione, da quelli dei mercati giornalieri al letame degli animali. Le case dei poveri erano sovraffollate, prive di latrine e lavatoi e al loro interno venivano allevati anche gli animali. Vi era, inoltre, la consuetudine di seppellire i morti nelle chiese e nei conventi che erano abitualmente frequentati dai fedeli”. Luca Borghi, nella pubblicazione Umori, ricorda la figura di John Snow (1813-1858), un medico britannico che con dedizione si interessò alle cause di contagio del colera. In contrasto con le tesi miasmatiche, Snow riteneva che non fosse l'aria a trasmettere la malattia, ma piuttosto l'acqua. Durante l'epidemia del 1854 analizzò i dati dei decessi che si erano verificati nel quartiere di Soho a Londra. Ipotizzò che l'acqua erogata dalla frequentatissima fontanella di Broad Street fosse la causa dell'epidemia. Il suo metodo, racconta Borghi, fu infallibile: su una mappa del quartiere di Soho indicò tutte le case in cui si erano registrati morti di colera tra agosto e settembre del 1854, pochi erano quelli lontani dalla pompa e intervistando le famiglie dei morti scoprì che anche loro si approvvigionavano a Broad Street. In Italia fece scalpore il caso di Napoli, fu in quel momento che partì il dibattito sulla questione Meridionale. Nel 1884 un'epidemia di colera colpì nuovamente la città. Fece molto parlare di sé il libro reportage di Matilde Serao, il “Ventre di Napoli”, in cui scriveva: “Non bastano 4 strade attraverso i quartieri per salvar la città. Non si possono certamente lasciare in piedi le case lesionate dall’umidità, dove al piano terra vi è il fango e all’ultimo piano si brucia dal calore in estate e si gela d ‘inverno, dove le scale sono ricettacoli di immondizia e nei cui pozzi si attinge acqua corrotta. Si mangia nella stanza da letto ed è qui che si muore. Quartieri senza aria, senza luce, senza igiene; chi arriva a Napoli ha la sensazione di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case tutte in altezza, di decadimento e sudiciume”. La scrittrice si sofferma sulla grande capacità dei napoletani di sopravvivenza, nonostante le condizioni avverse, e le loro usanze singolari per rispondere al morbo e alla morte, usanze che sconfinano nel paganesimo e nella pratica di riti occulti. Il governo Depretis, anche a seguito delle denunce delle condizioni igieniche della città, annunciò lo "sventramento" delle zone più degradate di Napoli per il piano di risanamento della città. Molte vie e quartieri furono abbattuti per fare spazio a larghe piazze e canali stradali molto ampi. Tuttavia la Serao criticò molto i politici e le istituzioni, che accusò di aver mostrato "solo intenti speculativi, non essendo riusciti a risolvere il problema, ma lasciando i poveri e gli indigenti al loro stato originale". Inoltre, con il senno di poi molti criticarono questo intervento. Infatti, invece di abbattere i palazzi storici, si poteva risanarli, costruire le fognature, diminuire la pressione abitativa favorendo la costruzione di nuovi quartieri in altre zone e investire su un sistema pubblico di raccolta dei rifiuti. Si potevano migliorare le condizioni igieniche delle famiglie. Invece si preferì radere al suolo vaste parti del centro storico. Per colpa del cosiddetto “risanamento” vennero abbattute 17000 abitazioni, 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Venne progettato il cosiddetto “Rettifilo”, corso Umberto, lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli. Non tutto fu però negativo, si pianificò la costruzione di una rete fognaria per eliminare il “pericolo dell'inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette”. Si fecero anche lavori per l’acquedotto del Serino. Oltre che la scusa di togliere le persone dai "bassi", si sostenne che lo sventramento del centro città, con la creazione di “una strada principale dalla stazione centrale, al centro cittadino e una rete viaria minore servisse a favorire la circolazione verso l'interno della brezza marina”. Si decise anche di costruire nuovi quartieri a est della città. La controversa bonifica, ispirata al modello urbanistico parigino realizzato da Haussmann, invece di risanare i palazzi storici, costruire le fognature nelle vecchie vie e alleggerire la popolazione di quei quartieri, spostando parte della popolazione in nuovi quartieri ad est, finì invece per favorire un’enorme speculazione. Parte del centro storico di Napoli fu raso al suolo senza alcun rispetto dei tantissimi monumenti, anche medioevali. Banche e speculatori costruirono, al posto dei vecchi rioni popolari e dei tanti monumenti e chiese abbattute, case per ricchi e ammassarono i poveri che erano stati espropriati, nelle vie accanto, invece che nei favoleggiati nuovi quartieri ad est della città. Con la scusa del colera e del risanamento se ne avvantaggiarono, secondo molti storici, la Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società Fratelli Marsiglia di Torino; la Banca Generale e l'Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola di Roma e la Banca Tiberina, di Torino. Si calcola che la "Società per il Risanamento" espropriò 87.500 abitanti. L’ultima epidemia di colera a Napoli fu nel 1973.

Quando Napoli sconfisse il colera nel 1973. L’Ansa ricorda che tutto ebbe inizio il 24 agosto quando a Torre del Greco si registrarono due casi di "gastroenterite acuta". Nei giorni successivi, ricorda l’agenzia di stampa, all'ospedale Cotugno si presentarono altri casi di ammalati con gli stessi sintomi (diarrea, vomito, crampi alle gambe) e vennero fugati i residui dubbi. L’Ansa ricorda che nonostante l’epidemia fu arginata, si creò un’ingiustificata psicosi di massa. Il responsabile dell'infezione venne individuato nel consumo di cozze crude all'interno delle quali si annidava il vibrione (poi si stabilirà che non si trattava di quelle coltivate nel Golfo di Napoli ma di una partita importata dalla Tunisia). Alla fine l’epidemia fu contenuta e secondo i dati dell’Ansa provocò la morte di 12 o al massimo 24 persone, mentre i ricoveri in ospedale erano stati quasi mille.

Coronavirus, Giuseppe Felice Turani e la foto anti-Salvini: "Trovato paziente zero, una fatalità che...?" Libero Quotidiano il 24 Febbraio 2020. Qualcuno trova anche il coraggio di scherzare in un momento così delicato. È il caso di Giuseppe Felice Turani, ex giornalista dell'Espresso e ora direttore della rivista economica Uomini & Business: "Sarà un caso o una fatalità - scrive sul suo profilo Facebook -, ma il coronavirus è apparso quasi solo nelle regioni leghiste". Parole che hanno subito indignato la Lega: "Senza vergogna" replicano dalla pagina Lega-Salvini premier. Una risposta, questa, in difesa delle sei persone decedute per l'epidemia che genera in Turani non poca ironia. Poco più in giù, sempre sui suoi social, si può vedere la foto di Matteo Salvini con tanto di commento "Trovato il paziente zero". Insomma, una presa in giro che potrebbe essere evitata di questi tempi. 

Vauro contro Salvini sul Coronavirus. "La bava è contagiosa", gli dà dell'untore in prima sul Fatto quotidiano. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Dagli all'untore. Ormai Matteo Salvini è il colpevole numero uno del coronavirus in Italia, almeno per Giuseppe Conte, il governo, Pd, M5s e loro sostenitori. E così non stupisce, anche se disgusta, la vignetta di Vauro Senesi in prima pagina sul Fatto quotidiano. "Occhio a Salvini", mette in guardia la matita armata di Marco Travaglio, che aveva passato la scorsa settimana a insultare Matteo Renzi dandogli finanche del "testicolo". Ora aggiusta la mira e torna a colpire duro il leader della Lega, dipinto come al solito sbraitante e fuori controllo. Poi la stoccata elegantissima: "La bava è contagiosa". Ma il cattivo gusto e la disonestà intellettuale, di più. 

Coronavirus, Salvini: “C’è chi gode perché i morti sono in Lombardia”. Laura Pellegrini 25/02/2020 su Notizie.it. Salvini commenta la situazione sul coronavirus e attacca la sinistra: "C'è qualcuno che gode perché le vittime sono in Lombardia". Secondo Matteo Salvini “a sinistra c’è qualcuno che gode perché i morti” per coronavirus “sono in Lombardia”. Queste le parole del leader della Lega in una diretta su Facebook. Dopo aver alimentato lo scontro con Conte e aver annullato il maxi evento a Trento, il leader della Lega torna ad alimentare la polemica sul Covid-19. Nel frattempo in Italia le vittime sono salite a 7, quasi tutte in Lombardia.

Coronavirus, Salvini attacca la sinistra. “Ma mi domando se in Italia occorra sempre che si debba aspettare che ci scappi il morto per intervenire come si sarebbe potuto intervenire il 30 gennaio scorso…”. Con questa parole Matteo Salvini commenta la situazione in Italia sul coronavirus. Il leader della lega ha ricordato che il Carroccio aveva chiesto la chiusura delle frontiere già da gennaio, ma era stato additato e considerato come “sciacallo“. “Sono stato chiamato persino l’untore… – ha riferito Salvini -. Insultare la Lega e Salvini” per il coronavirus “è davvero demenziale”. Inoltre, il leghista ha attaccato la sinistra accusando: “C’è qualcuno che gode perché i morti sono in Lombardia… Ma voi non state bene… C’è qualcuno a sinistra, pochi per fortuna, tra i politici e i giornalisti, a godere dei morti… Ma voi davvero non state bene”. “Ora – ha dichiarato ancora Salvini – è il momento di stare uniti e sperare. Naturalmente il presidente del Consiglio deve fare il presidente del Consiglio, e il ministro deve fare il ministro… Mi auguro che, arginato il disastro, qualcuno chieda scusa e si dimetta. Non serve chiedere scusa a Salvini, ma ai marchigiani, ai toscani, ai lombardi e ai veneti”. E infine attacca nuovamente il governatore della Toscana: “A Prato c’è enorme comunità cinese e cittadini sono preoccupati, ma governatore della Toscana, Rossi, ha addirittura accusato di essere fascioleghisti perfino i medici che chiedevano i controlli. Mi auguro che chieda scusa agli italiani e si dimetta”.

Coronavirus e sbarchi, il legame fatale: perché è statisticamente impossibile che non ci siano contagi. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Mentre il Coronavirus afferra il respiro e schiaccia i polmoni soprattutto di cittadini del Nord (che sono pur sempre italiani), e non si è ancora compreso da dove sia arrivata la prima cellula infetta e chi l' abbia portata, il governo dispone allegramente di accogliere 274 africani presunti profughi in Sicilia. Le autorità fanno sapere che «il Coronavirus non arriva dall' Africa» (il sindaco, primario medico, del porto siculo di approdo). Ci stanno trattando da idioti, o è idiota chi pronuncia queste demenzialità? Qui non c' entra niente l' umanitarismo, ma l' abuso della propria ignoranza. Si lascia la possibilità al virus di integrarsi tra noi. Il governo manda agli italiani, per puri motivi ideologici, un segnale di incoerenza mortifera. I ministri si vantano di aver bloccato i voli dalla Cina, con gente che esibisce regolari passaporti e visti, e si lascia che sbarchino navigli che partono dall' Africa, riconosciuto come vero germinatoio del Covid-19. È questa oggi l' ipotesi oggi più accreditata dall' Organizzazione mondiale della Sanità. L' Africa è infatti una sezione staccata della Cina. Ecco il tweet che ha annunciato l' evento al mondo: «Sollievo a bordo della #OceanViking questa mattina per le persone nel sentire che l'#Italia è stata assegnata come luogo sicuro: la nave si dirige a Pozzallo, Sicilia, per lo sbarco». Chi ha deciso che l' Italia fosse luogo sicuro è a conoscenza che nei nostri confini c' è il più alto tasso di contagiati dell' Europa? Non ha nulla da eccepire la ministra Lamorgese? Legge i bollettini di guerra del Nord con il rischio di espansione? Sente il bisogno di un altro focolaio? Incredibile. La Viking, come lascia intuire il nome, è norvegese. A Bergen e Tromsø non c' è alcun caso noto di Coronavirus: perché non li traslocano lì, tra i fiordi, dove ormai non fa più neppure freddo, in coerenza con la bandiera del vascello? E non si dica che la Scandinavia è lontana. Qui da noi i "richiedenti asilo" dovranno passare la quarantena, sarebbe molto più breve il tragitto verso il porto amico di Oslo. Invece no. A chi i migranti a rischio Coronavirus? A noi! Il citato sindaco di Pozzallo (Ragusa), Roberto Ammatuna, un medico già primario al pronto soccorso di Modica, una nota eccellenza internazionale, assicura che sono tutti sani. In controtendenza: di solito si invoca lo sbarco immediato dicendo che a bordo regnano tutte le malattie del mondo. Stavolta: a terra, perché tutti sani come pesci. Potenza della propaganda. Del resto era già approdata qui, il 3 febbraio, la Open Arms, sbarcando 373 africani senza documenti. Dove sono ora? A Pozzallo non ci sono più. Del resto allora, in pieno allarme mondiale, scattato il 31 gennaio), nessuna precauzione fu presa. Il 3 febbraio: il giorno in cui il governo rifiutava la richiesta di Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia di lasciare a casa da scuola i bambini appena rientrati dalla Cina. Lo consigliavano i massimi infettivologi. Il noto virologo Nicola Zingaretti dichiarò: «Allarmismi ridicoli». Idem stavolta. Incorreggibili e sciagurati progressisti.

PERICOLO. L' Africa è oggi ritenuta l' incubatrice inesplorata del Covid-19 di massa. Mentre di questo virus si sa pochissimo. Tempi di incubazione, capacità di occultarsi in soggetti apparentemente sani. Come scrivevano i cronisti di provincia, e noi ci vantiamo di esserlo: si brancola nel buio. E nel dubbio invece di usare prudenza, si applica la flaccidità indecente al Sud che si somma alla rigidità più estrema al Nord, senza apparente logica, se non quella della propaganda. Si da un cucchiaio di miele del più ottuso buonismo al popolo di sinistra, mettendo a rischio tutti. Non sappiamo il nome di chi ha portato il virus tra noi. Partito dalla Cina chi e come se l' è tirato dietro? L' ipotesi più accreditata è che sia arrivato qui grazie a una gimcana che ha toccato l' Africa, dove vivono e lavorano un milione di cinesi. Insediati negli ultimi decenni, operano attraverso diecimila società (la fonte è Forbes) di fatto controllate dal partito comunista di Xi, in rapporti di interscambio intensissimi. All' aeroporto di Addis Abeba, Etiopia, sbarcano ogni giorno 1.500 cinesi in arrivo da Shangai, Pechino, e fino a poche settimane fa da Wuhan. È statisticamente impossibile che non ci siano stati contagi. Di più: è probabile che sia stato rilanciato da lì, causa maledizione del Negus, il razzo pestilenziale che ha colpito al cuore la Lombardia e il Veneto. Da Addis Abeba i 10.500 cinesi settimanalmente in transito poi si spostano in Europa, e pure a Roma, ovvio. Ma la maggior parte (la lista non è casuale) va in 13 Paesi, che sono ritenuti dall' Oms quelli più a rischio: tra essi Nigeria, Costa d' Avorio, Algeria, Etiopia, Ghana e Zambia, da dove vengono molti migranti a casa nostra per via di barcone. Tutti immunizzati? Chi ci crede? L' assenza di contagi è realisticamente dovuta alla mancanza di test. Eppure il governo, per bocca del sindaco luminare, se l' è bevuta allegramente. Secondo l' Oms infatti sarebbero solo 15 i Paesi africani con il kit necessario per individuare pazienti contaminati, su un totale di 54! Il dottor Roberto Ammatuna si fa portavoce del governo, che non ha smentito una sola sillaba: «Non creiamo inutili allarmismi perché sappiamo tutti che il virus non arriva dall' Africa». Dove ha studiato? Ha concordato le parole con la Protezione civile? Intanto l' isola di Ischia ha dichiarato che respingerà i lombardi e i veneti. Mandategli gli africani di Milano e di Padova, tanto come dice il luminare dell' ospedale di Modica, prediletto dal ministero dell' Interno, sappiamo tutti che il virus non viene dall' Africa. 

Vittorio Feltri contro il governo: "Abbiamo fatto entrare tutti, anche il coronavirus". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Continuano gli sbarchi al grido di accogliamo tutti. Peccato che abbiamo spalancato le porte anche al virus sottovalutandone per giorni e giorni la gravità. Coloro che avvertivano il pericolo di una epidemia e raccomandavano la chiusura delle scuole nonché severi controlli per evitare il dilagare dell' infezione sono stati a lungo sbeffeggiati quasi fossero degli uccelli del malaugurio, mentre avevano ragione da vendere. Milano e altre città del Nord ieri erano semideserte, la gente trema e si difende come può, ascolta i consigli dei cosiddetti esperti sperando di cavarsela. Il governo è intervenuto in ritardo e intanto il morbo ha colpito in breve ben oltre 150 persone e minaccia di colpirne molte altre. I pessimisti affermano che gli infettati raggiungeranno presto quota 500. Gli ottimisti gettano acqua sul fuoco e sostengono che le vittime non sono poi in punto di morte. Sta di fatto però che il 20 per cento di esse si trova in terapia intensiva, ciò significa che tanto bene gli attaccati non stanno. In pratica l' Italia, dopo aver agito al rallentatore, ora è affetta da paralisi "progressista", ogni attività si è fermata ed è giusto, tuttavia non bisogna dimenticare che gli interventi restrittivi sono stati tardivi. Non è un caso che il nostro Paese in Europa sia il più infestato. Dopo di che rispettiamo le idee di tutti, pure quelle degli stolti (la maggioranza rumorosa), meno quella di Carlo Calenda, specialista in contraddizioni. Il quale accusa Libero di aver peccato in cialtronaggine (lui che è il re dei cialtroni, tanto che non ha mai combinato nulla di buono) avendo pubblicato questo titolo: "Prove tecniche di strage". Sormontato da un occhiello in cui si rimproverava al governo di aver nicchiato agevolando in tal modo il propagarsi del Corona. Parole che riflettono la realtà, purtroppo, e non possono essere censurate. Viceversa l' ex ministro, pur dicendo di essere liberale e di non aver mai querelato un giornalista, sprona l' esecutivo a tapparci la bocca secondo i costumi delle dittature sudamericane, caricature di quelle comuniste. Calenda non è il solo a pronunciare bestialità. Romano (Pd), per esempio, ci taccia di alimentare l' industria della paura. Ridicolo. Il terrore semmai è fomentato dal virus inizialmente snobbato dal BisConte dormiente e incapace. Si dà il caso che il popolo Lombardo e quello Veneto non escano più neanche di casa non certo suggestionati da Libero, bensì perché atterriti da una malattia inadeguatamente affrontata dalla politica cara ai Calenda e ai Romano. A costoro auguriamo di non essere contagiati, però li invitiamo a non declamare cazzate da lazzaroni professionali. Vittorio Feltri

"Meglio muoia un renziano che uno di sinistra", bufera su esponente Pd. Il post pubblicato su Facebook di Samuele Agostini ha fatto infuriare Italia Viva e molti utenti. Marco Di Maio: "Una vergogna". Il Pd si dissocia. Giorgia Baroncini, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Da Nord a Sud, tutto il Paese è al lavoro per cercare di contenere la diffusione del coronavirus. Il numero dei contagi continua a salire così come quelle delle vittime che, al momento, sono 12. Nonostante tutto ciò, c'è chi pensa di essere simpatico facendo dell'ironia. Ma il risultato finale è solo una grande polemica. A far discutere in queste ultime ore è il post pubblicato su Facebook da Samuele Agostini, segretario dell'Unione Comunale del Pd di Casciana Terme Lari, comune in provincia di Pisa. "Se prendessi il Virus e m'accorgo che sono spacciato, un minuto prima di mori' prendo la tessera di Italia Viva. Sempre meglio che muoia un renziano che uno di sinistra. PS: non ho espresso un auspicio, spero resti una eventualità remota. E di campare almeno altri 60 anni dopo la scomparsa di Italia Viva", ha scritto sul suo profilo social. E subito gli utenti si sono indignati: "Che battuta imbecille", "Non c'è nulla da ridere", "Vergognati! Non hai rispetto per chi in queste ore soffre", "Sei un demente e dovresti sparire da qualsiasi panorama politico", "Riuscire a copiar male una battuta dell’avvocato Prisco non era difficile. Riuscire a sembrare simile ad una ghiandola endocrina esterna dei mammiferi maschi invece ti è riuscito benissimo", si legge tra i commenti dove compaiono anche numerosi insulti. "Ognuno ruzza su quello che vuole. E sul virus penso ci sia bisogno di sdrammatizzare", ha provato a giustificarsi poi Agostini. Il post del dem non è piaciuto agli esponenti di Italia Viva. "Una vergogna che anche di fronte all'allarme sociale generato dal coronavirus, ci sia chi non riesce a fermare l'odio politico per chi ha posizioni politiche diverse. Arrivando addirittura ad augurare la morte - ha tuonato il deputato di Iv, Marco Di Maio -. Il Pd deciderà quali provvedimenti assumere, intanto noi condanniamo fermamente questo gesto come ogni altra violenza. Non risponderemo allo stesso modo, ma rilanceremo il nostro impegno per cambiare la politica anche nei suoi toni". Anche molti utenti hanno chiesto l'intervento del Pd che ha subito preso le distanze. "Condanniamo con forza quanto detto dal segretario Pd di Casciana Terme Lari, Samuele Agostini, che in un post su facebook ha rivolto nei confronti di Italia Viva parole infamanti e offensive. Nella comunità democratica non troverà mai spazio l'odio e l'insulto contro i quali ci battiamo e ci batteremo senza guardare in faccia a nessuno", ha affermato il responsabile organizzazione del Pd, Stefano Vaccari. Critiche sono arrivate anche dal Pd toscano: "Ci dissociamo dalle parole di Samuele Agostini. Non importa che si tratti di battute ironiche. Il suo post su Facebook è di cattivo gusto e quei toni non appartengono allo stile di rispetto che il nostro partito ha nella dialettica politica", ha afferma il coordinatore, Lorenzo Becattini.

Il virus che è nell’uomo. Andrea Indini il 26 febbraio 2020 su Il Giornale. Quando la scorsa settimana ci è piombata addosso la notizia del primo contagiato, un 38enne di un paesino della provincia lodigiana, subito la paura si è fatta spazio dentro ognuno di noi. A chi più, a chi meno è subito apparso evidente che con questo nuovo male dovremo imparare a convivere. Nato lontano, in qualche posto della sconfinata Cina, probabilmente da un putrido wet market dove, di punto in bianco, il virus è passato dall’animale (probabilmente un pipistrello) all’uomo. Un “salto” che gli scienziati chiamano spillover. E ora che è dentro di noi, annidato nel nostro corpo, sta facendo esplodere un male che purtroppo, nemmeno quando sarà scoperto il vaccino, potrà essere debellato. Il coronavirus ha percorso migliaia di chilometri prima di arrivare in Italia. Era solo questione di tempo: era ovvio che prima o poi si sarebbe annidato nelle nostre vite. E quando ha iniziato a propagarsi a macchia d’olio, ha fatto subito esplodere il panico. Davanti all’unica arma per arginarlo, e cioè la creazione di “zone rosse” da cui non è più possibile uscire fino a nuovo ordine, in molti hanno reagito andando nel panico: fino a pochi giorni fa le code ai supermercati e gli scaffali svuotati da qualsiasi genere alimentare erano immagini di pellicole apocalittiche prodotte a Hollywood. Per alcune ore sono state anche la nostra realtà. Una realtà piegata dall’incubo del contagio e che ha spinto i più sensibili a chiudersi in casa. È su queste nostre paure che gli sciacalli si sono messi a speculare vendendo a peso d’oro generi irreperibili come l’amuchina. Come sempre, il male si è sprigionato in un momento in cui tutti noi avremmo dovuto stringerci attorno a quei medici che lottano contro il tempo per fare in modo di evitare che il contagio abbia la meglio e per assicurare a chi sta male le cure migliori. Fa molto male assistere alle polemiche politiche di chi sta tristemente puntando il dito contro chi, invece, sta lottando in prima linea. Come fanno male certe vignette (quella di Vauro contro Salvini, tanto per intenderci) che usano il coronavirus solo per insultare. Come fanno pena quegli slogan contro i settentrionali a cui non si vogliono più affittare case per paura che possano portare in giro il virus. E siamo solo all’inizio. Purtroppo, se col tempo impareremo a convivere col virus cinese, mai riusciremo a digerire certi colpi bassi che svelano il vero male che c’è nell’uomo. Un male che si fa più evidente nei momenti più difficili. Perché, come scrisse Albert Camus (seppur riferito ad altro contesto) ne La peste, “Rieux (…) sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili, e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

(ANSA il 26 febbraio 2020) - "Grazie al ministro della Salute - ha aggiunto Kluge - per la grande trasparenza nel condividere le informazioni, che possono aiutare a capire il virus. Grazie anche per aver convocato questo incontro internazionale. Noi all'Oms stiamo lavorando a un coordinamento per rispondere a livello globale. Prendiamo seriamente la situazione, ma ricordiamo che quattro pazienti su cinque hanno sintomi lievi. La mortalità è circa del 2%, in Cina ora dell'1%, ed è soprattutto al di sopra dei 65 anni. Ogni persona che muore in più è già uno di troppo. Il messaggio per la popolazione italiana è di proteggersi e adottare tutte le misure previste dalle autorità. Evitate inoltre ogni forma di discriminazione". "Non bisogna cedere al panico, bisogna fidarsi pienamente di quello che sta facendo il ministero della Salute in Italia, in collaborazione con la Protezione Civile". Lo ha detto il direttore Europa dell'Oms, Hans Kluge, in una conferenza stampa con il ministro della Salute Roberto Speranza.

Da “la Stampa” il 26 febbraio 2020. «Mantenere i confini aperti perché chiuderli sarebbe una misura sproporzionata ed inefficace in questo momento». Sembrerebbe un risultato scontato quello raggiunto ieri sera con il documento sottoscritto dal nostro ministro della Salute, Roberto Speranza, e dai suoi colleghi europei di Francia, Germania, Croazia, Austria, Svizzera, Slovenia e San Marino, oltre che dalla Commissaria europea alla Salute, Stella Kyriakides, che si impegnerà ora ad estendere l' intesa anche agli altri Paesi dell' Unione. Ma solo due ore prima l' Europa si era presentata al tavolo con la volontà di sbarrarci il passo chiudendo tutte le frontiere. Una gigantesca quarantena «che avrebbe messo al tappeto il nostro Paese», spiega stremato dopo la trattativa serrata Walter Ricciardi, che rappresenta l' Italia all' Oms e che ora affianca Speranza in veste di consigliere.  «Per la marcia indietro sui provvedimenti restrittivi adottati da singoli paesi, come quarantena e sorveglianza obbligatoria per chi proviene dalle nostre regioni del Nord servirà ancora tempo», precisa. «Un passo per volta. Intanto abbiamo scongiurato il pericolo maggiore, quello di rimanere isolati dal resto d' Europa sulla spinta che l' opinione pubblica sta esercitando sui governi dei singoli Stati». «I Paesi europei si fidano di noi», dichiara Speranza dopo lo scampato pericolo. Anche se per l' Europa restiamo osservati speciali. E non è un caso che l' incontro con i partner europei ieri sia stato preceduto da tutto un gettare acqua sul fuoco del panico da coronavirus. «Abbiamo esagerato, l' Italia è un Paese sicuro nel quale si può fare turismo», ha rassicurato il premier. Mentre Ricciardi ricordava che «dalla malattia guarisce il 95% dei contagiati, l' allarme va ridimensionato».

L' obiettivo della Farnesina. La Farnesina intanto ha messo a punto la sua strategia per ribaltare la pericolosa immagine di Paese untore che si sta consolidando nel Continente. Il titolare degli Esteri Di Maio in consiglio dei ministri ha presentato una campagna di comunicazione "anti fake news" da lanciare oltre confine, dove hanno preso piede false notizie su chiusure di scuole e casi di infezione mai avvenuti. Contemporaneamente, alle nostre ambasciate verranno forniti dei dossier sui dati reali dei contagi in rapporto al numero di test fatti, dove come nel caso della Francia il rapporto è di dieci a uno per l' Italia. «Ci è stato riconosciuto che stiamo lavorando nella direzione giusta e non cambiano le condizioni di viaggio degli italiani che si recheranno all' estero», puntualizza intanto Speranza, che difende anche la scelta di chiudere i voli da e per la Cina, «non è stato un errore». Il documento si limita a parlare di «impegno a condividere e standardizzare le informazioni per quei viaggiatori che tornano da aree a rischio o che viaggiano verso di esse». In pratica, una sorta di tracciabilità degli italiani provenienti dalle regioni dove il virus si è diffuso, che passato il confine dovranno dichiarare l' area di provenienza e i loro successivi spostamenti. Intanto il ministero della Salute sta mettendo a punto una nuova ordinanza che divide l' Italia in tre livelli di rischio. Per i comuni delle due zone rosse resta l' isolamento, mentre chi vi è transitato negli ultimi 14 giorni dovrà comunicarlo alla propria Asl che disporrà poi la «sorveglianza sanitaria» e «l' isolamento fiduciario nella propria abitazione». Per la fascia "gialla" ossia nelle aree esterne ai due focolai dove si sono però registrati casi più o meno sporadici, scatta invece l' operazione «igiene massima». Nessun intervento è previsto infine nelle regioni della fascia verde senza contagi. Oggi nuovo vertice per il ministro della Salute: oltre alla commissaria europea Kyriakides, vedrà il direttore Europa dell' Oms, Hans Kluge, e il direttore dell' ECDC, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, Andrea Ammon.

(ANSA il 26 febbraio 2020) - "La solidarietà populista tra Salvini e Le Pen si ferma sulla questione delle frontiere": lo rileva una fonte diplomatica francese alla vigilia del vertice Italia-Francia di Napoli, aggiungendo che sul coronavirus e le strategie per arginare l'epidemia "i due leader sulla Lombardia non hanno le stesse idee". Le limitazioni nei confronti degli italiani al di fuori del Paese non "sono accettabili". Così il premier Giuseppe Conte a L'Aria che tira. "Noi stiamo adottando una linea di massimo rigore e di trasparenza - spiega il premier - ieri c'è stata una proficua riunione tra Speranza ed i suoi omologhi Ue, di massima condivisione e con massima trasparenza sui dati e oggi ho avuto una telefonata con Sebastian Kurz che ha apprezzato molto le misure che stiamo attuando". Ancora un no a disputare un match di basket contro squadre italiane per l'emergenza coronavirus, e il presidente della federpallacanestro, Gianni Petrucci, chiede alla Fiba di "punire chi discrimina l'Italia". Dopo il rifiuto di Sopron al match con Schio, oggi e' la squadra lettone di Riga a non voler giocare contro la Reyer Venezia, in coppa Campioni femminile. "Ho scritto alla federazione internazionale - dice Petrucci all'ANSA - chiedendo di prendere provvedimenti contro chi discrimina l'Italia. Ho scritto anche al ministro Spadafora e al presidente del Coni, Malagò. Capisco che non è facile, ma questa situazione lede l'immagine dello sport italiano e del Paese intero". Pechino rafforza le misure contro il "contagio di ritorno", annunciando che da oggi chi atterra nella capitale da Paesi colpiti dal coronavirus è tenuto a un periodo di 14 giorni di auto-quarantena. Con il contagio allargatosi anche in Europa, Medio Oriente e Asia, il portavoce della commissione sanitaria di Pechino, Gao Xiaojun, ha spiegato - senza citare i Paesi - che chi arriva "da aree con gravi situazioni epidemiche deve accettare di stare a casa o nei punti di osservazione medica per un periodo di 14 giorni". "I Paesi europei comprendono quello che sta facendo l'Italia e danno sostegno alle misure che abbiamo portato avanti per contenere il coronavirus". Lo dice il ministro agli Affari Ue Vincenzo Amendola che ha incontrato a Roma gli ambasciatori Ue per rassicurarli. Interpellato sui controlli e le restrizioni che alcuni stanno adottando nei confronti degli italiani, Amendola ha sottolineato che "l'idea che si possa vietare a un cittadino italiano di entrare in un altro Paese non sta né in cielo né in Terra" e tra i 27 questo "è chiaro". La concessione di una maggiore flessibilità di bilancio da parte della Commissione europea all'Italia in caso di un impatto negativo dell'emergenza coronavirus sui conti pubblici è "un'evenienza più che possibile perché l'articolo 107 dei trattati prevede regole di flessibilità in caso di eventi eccezionali". Lo ha detto il ministro agli Affari europei Vincenzo Amendola a margine di un incontro con gli ambasciatori dei Paesi Ue a Roma.

Media spagnoli diffondono isterismo sui contagi in Italia. Roberto Pellegrino il 23 febbraio 2020 su Il Giornale. I mass media spagnoli sono letteralmente andati furi di testa nell’annunciare i casi positivi di coronavirus in Italia. Spaventati come se il contagio fosse esploso oltre i Pirenei, saltando la Francia, giornali, radio e tv descrivono l’Italia come un paese scivolato all’inferno, stravolgendo spesso i numeri e gonfiando il rischio di mortalità che, secondo gli organismi internazionali sui virus, ha un potenziale del 5%. L’improvviso aumento di casi di persone contagiate sta letteralmente choccando gli spagnoli, martellati da notiziari che aprono con dirette da Codogno, Milano e Roma. È incredibile lo spiegamento di forze dei mass media iberici: tutti descrivono l’Italia come il focolaio europeo del virus, un Paese condannato, denunciano la nostra presunta disorganizzazione, l’incapacità del governo nel trovare soluzioni per bloccare la diffusione. Grande spazio è stato dato al decreto approvato dal Governo Conte, meno di 24 ore fa che vieta ingresso e uscita  dalle zone del contagio. Il giornale spagnolo più letto, El País, riporta come prima notizia sull’edizione digitale la situazione di crisi per il coronavirus in Italia, con parole catastrofiche. “Allerta massima in Italia”  “Focolaio pericolosissimo”, ” oltre 90 contagi e 4 morti”. El Mundo sottolinea con il massimo della drammaticità che coronavirus sia arrivato anche a Milano dove prevede un’ecatombe di contagiati. Eldiario.es apre sulla situazione in Italia: “Cinque morti ed oltre 90 contagiati”. A parte i numeri gonfiati, sbagliati, i titoli strillati all’isterismo, non è curioso o inedito tale atteggiamento della stampa spagnola sempre pronta a bacchettare l’Italia e a non riconoscere mai, invece, un suo successo o pregio. Divorati da una persistente competizione, e un complesso di inferiorità malcelato, il media spagnoli (come anche quelli tedeschi o francesi) hanno spesso dato notizie errate, puntando sul sensazionalismo, più che sulla correttezza e onestà dell’informazione, come stanno pericolosamente facendo con il coronavirus. Diffondere il terrore è un’operazione meschina e dannosa. Forse si stanno preparando per la prossima stagione turistica, invitando, con quei titoli allarmistici, a evitare di andare in vacanza in Italia.

Mauro Romano per “MF” il 27 febbraio 2020. Respingimenti anti-italiani al Parlamento Europeo. Sembra incredibile ma è così. Con una decisione che sta scatenando molto rumore, gli organi amministrativi dell' assise comunitaria hanno comunicato ai diversi giovani provenienti dalla Lombardia e dal Veneto, in attesa di avviare uno stage a Bruxelles, che il loro periodo di apprendistato scatterà in un altro momento. Il pensiero va ovviamente al coronavirus, che peraltro si sta diffondendo un po' in tutt' Europa. La denuncia del fatto è arrivata dal deputato italiano radicale Alessandro Fusacchia, che ne ha parlato su Twitter. Al pasticcio, che mostra come si stia isolando in modo ingiustificato l' Italia, sta cercando di trovare una soluzione il presidente dell' assise comunitaria, David Sassoli, da sempre attento ai temi della partecipazione giovanile. Ma che il clima non sia bello per gli italiani lo conferma anche un' altra decisione. Con una «raccomandazione dei Questori» del Parlamento europeo «basata su consulenza del servizio medico», sono state estese agli eurodeputati che hanno viaggiato nelle regioni interessate dall' epidemia di coronavirus in Nord Italia (oltre che in Cina e nei paesi asiatici più colpiti) le stesse consegne di auto quarantena che erano state emanate per funzionari e impiegati dell' istituzione Ue, con una circolare della Direzione Generale del Personale, lunedì scorso. Trattandosi di raccomandazioni in questo caso l' auto quarantena per gli eurodeputati è un «consiglio» e non un ordine, hanno fatto notare fonti del Parlamento europeo. La battaglia contro l' isolamento è però appena iniziata. Per fortuna l' Italia può contare su Sassoli.

Gaetano Mineo per “il Tempo” il 27 febbraio 2020. Eurodeputati italiani isolati. Dopo più di un mese, l' Europa si accorge del coronavirus e come prima mossa «isola» l' Italia. E pensare che la prima vittima del virus cinese è stata a Parigi. Come dire, l' Europa dei popoli non si smentisce mai e imperterrita continua a sfornare regole a dir poco grottesche. Come quella appena ratificata dall' Ufficio dei questori del Parlamento Ue con la quale chiede l' auto -quarantena degli euro deputati che hanno viaggiato nelle Regioni del Nord Italia interessate dal coronavirus, oltre che in Cina e nei paesi asiatici più colpiti. Lo stile di Bruxelles è democristiano, parla di una «raccomandazione, basata su consulenza del servizio medico». Quindi, l' auto -quarantena per gli euro deputati è un «consiglio». In pratica, si chiede a chi ha viaggiato negli ultimi 14 giorni in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto di non mettere piede in Parlamento, restando a casa in auto -isolamento. Mentre se l' eurodeputato ha il sospetto di aver contratto il virus, è invitato non solo a non andare a Bruxelles ma a contattare urgentemente il proprio dottore per sottoporsi alle cure del caso, e a non tornare al Parlamento europeo prima di aver ricevuto il nulla osta del medico. Questi sono «i consigli» dell' Ue e che valgono anche per gli assistenti degli europarlamentari. Una regola bizzarra, dicevamo. Pensiamo, ad esempio, a un eurodeputato che non è del Nord Italia e parte da Roma per Bruxelles. Chi può certificare che quell' eurodeputato non abbia incrociato in aereo passeggeri che provenivano da Milano, da Padova o ancora da Palermo? E perché no, qualche passeggero cinese o francese o belga che magari non sa di essere stato colpito dal coronavirus? In sostanza, appare difficile definire sensata questa regola di Bruxelles. Perché va da sé che tutti gli europarlamentari sono virtualmente esposti al medesimo rischio infezione non solo sugli aerei provenienti dal nostro Paese ma anche su quelli provenienti da nazioni immediatamente confinanti in cui, peral tro, il coronavirus inizia a farsi vivo. La regola appare ancora più bizzarra se si pensa che finora la Commissione europea non ha preso le medesime misure di sicurezza. Domanda: al commissario all' Economia Paolo Gentiloni sarà ancora concesso di frequentare le riunioni dell' esecutivo comunitario? Il toscano David Sassofi potrà presiedere l' Europarlamento? Di certo, la prossima settimana a Bruxelles ci sono le riunioni delle commissioni parlamentari. Tra due settimane, invece, è prevista la riunione dell' assemblea plenaria a Strasburgo. Cosa accadrà? Perché circa un terzo degli eurodeputati italiani proviene dalle regioni del Nord Italia e in questi giorni sono impegnati proprio in attività sul territorio. E secondo la circolare Ue, il conto dei 14 giorni di auto isolamento scatterà dal momento in cui lasceranno queste zone.

Se cercate razzisti li trovate a Strasburgo. Sassoli contro l’Italia. Francesco Storace giovedì 27 febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia. Se cercate razzisti li trovate a Strasburgo. Li capitana David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, autore di uno straordinario gesto di antipatriottismo. Ha avallato una pratica odiosa contro i suoi connazionali eletti a Strasburgo, quelli provenienti da Lombardia e Veneto, da Emilia e Piemonte. Applausi a scena aperta. Nessuno reagisce da Roma a questa robaccia? Hanno capito a Palazzo Chigi e al Quirinale che il casino totale creato da Conte e il suo circo è arrivato a svergognarci fin lassu’? In pratica ci sono due disposizioni. Una riguarda il personale. Se vieni da una delle quattro regioni colpite per ora dal Coronavirus, te ne stai a casa in quarantena. Ai deputati – dicono – è solo un consiglio. Che di questi tempi suona peggio di un anatema. Si dirà: ma vogliono tutelarsi. A spese della rappresentanza italiana? Magari bloccando anche chi prende il volo da Milano proveniendo dal Centrosud d’Italia? Una decisione schifosa: basterebbero una trentina di tamponi per individuare se qualcuno è stato colpito senza saperlo. Invece, si dà addosso agli italiani. Nel nostro Parlamento si consente di non andare in aula a deputati e senatori che sono in una delle undici città oggetto del blocco totale previsto dal decreto Conte. E non da tutte e quattro le regioni. In Europa, invece, siamo alla barzelletta. I nostri rappresentanti del nord dovranno parlare in dialetto meridionale per non farsi individuare subito dalla polizia sanitaria? Ma in che mondo ci tocca vivere se Italia diventa sinonimo di malattia… Abbiamo rifiutato di mettere in quarantena chi arrivava dalla Cina e il contrappasso invece si abbatte inesorabilmente su di noi, sui nostri rappresentanti. Non è decoroso per l’Italia. Non è dignitoso per gli italiani. E farebbero bene tutti i deputati delle altre regioni della nostra Nazione a voltare le spalle alla presidenza dell’assemblea in segno di solidarietà con i loro colleghi indicati come potenziali untori. L’alternativa è aspettare il momento in cui toccherà agli altri Stati membri dell’Unione Europea, quando Sassoli vedrà frantumare ogni convocazione dell’Assemblea perché ci sarà il deserto. Non si pensi di poter riservare un trattamento del genere solo ai nostri deputati di quelle regioni. Figuriamoci che cosa stanno facendo a tutti i cittadini. Davvero è da chiedersi che cosa stia combinando la diplomazia italiana. La Russia e l’Arabia Saudita sconsigliano i viaggi da noi. L’Olanda indica come luoghi da non frequentare non solo gli undici comuni isolati, ma anche – chissà perché – Roma e il Lazio. L’Iraq controlla tutti i passeggeri italiani. Il Kuwait sospende i voli dall’Italia, Giordania e le Seychelles ci chiudono direttamente gli aeroporti. E persino El Salvador. Tutto il mondo è Mauritius. C’è dalle parti di Roma qualcuno che abbia ancora un po’ di orgoglio nazionale e di dignità da sbattere in faccia al mondo? Conte la smetta di attirare le telecamere presso la protezione civile, recuperi un contegno, cerchi di recuperare credibilità internazionale se ci riesce.

E’ intollerabile sentirsi trattati come se fossimo lo zimbello del pianeta. Wuhan non è in Italia. L’Ue mette in quarantena gli eurodeputati italiani. Fidanza: “Una discriminazione arbitraria”. Redazione Il Secolo d'Italia mercoledì 26 febbraio 2020. Tutti in quarantena. E poco importa che non abbiano avuto contatti con la “zona rossa”. È la decisione presa dal Parlamento europeo nei confronti dei deputati italiani che hanno avuto contatti con le Regioni interessate dal maggior numero di contagi da coronavirus. Dunque, banditi per 14 giorni tutti gli eurodeputati che nelle ultime due settimane hanno visitato Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. Banditi loro e anche le persone dei loro staff, per le quali sono raccomandate le stesse misure. La decisione, che ha dell’incredibile, è stata confermata sulla sua pagina Facebook dal deputato europeo di FdI, Carlo Fidanza. “Ebbene sì, con una decisione assurda, il Parlamento europeo ci ha messo in quarantena. Quello che da noi viene previsto soltanto per chi risiede o ha avuto contatti con la zona rossa viene arbitrariamente esteso ai parlamentari eletti in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte”, ha denunciato Fidanza. “Ovviamente – ha sottolineato l’esponente di FdI – nessuna limitazione ai colleghi francesi o tedeschi che vengono dalle zone dove ci sono stati i pochi (troppo pochi) casi segnalati. Inaccettabile”. “Il nostro diritto/dovere di rappresentarvi non può essere compresso senza motivo. Ci faremo sentire!”, ha quindi avvertito Fidanza, spiegando di essersi fatto “promotore di una lettera dei capidelegazione italiani indirizzata ai vertici del Parlamento affinché prevalga il buon senso. E non si proceda – ha concluso – ad una arbitraria discriminazione degli europarlamentari italiani”.

Coronavirus, il racconto in prima persona di Bartolo: "Io, deputato europeo in quarantena, fuori dal Parlamento". Il deputato europeo rispetta l'invito rivolto dalla Direzione generale del Personale e dai Deputati Questori rivolto allo staff ed i deputati che provengono dalle zone di contagio. Pietro Bartolo il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Vi racconto la mia sul Covid-19, cioè sul coronavirus, su questa influenza dalle forme aggressive. Ve lo dico subito: sono d'accordo con la stragrande maggioranza degli scienziati. Non bisogna farsi prendere dal panico. Questa è un'influenza, certo aggressiva, ma non peste bubbonica. Bisogna adottare semplici misure di prevenzione e di igiene, seguire le istruzioni delle autorità sanitarie e istituzionali. Ve lo dico per la mia esperienza di questi giorni. Mi trovo a Bruxelles. Forse sono uno dei pochi deputati presenti perché, per il Parlamento europeo, questa è una settimana "verde", senza lavori di commissione. Ma non sono entrato nel palazzo perché ho seguito i consigli impartiti prima dalla Direzione generale del Personale e, oggi, dai Deputati Questori, che invitano lo staff ed i deputati che provengono dalle zone di contagio, a mettersi autonomamente in quarantena per i famosi 14 giorni. Sono arrivato a Bruxelles nella notte tra lunedì e martedì scorsi e ho subito appreso delle misure da seguire. Anche in ossequio alla deontologia professionale di medico, ho evitato di andare in ufficio. Avrei potuto farlo perché i Questori hanno rivolto solo un "invito" a non recarsi, non un obbligo. Ma, ovviamente, non l'ho fatto. E ho comunicato per e-mail la mia determinazione. Sono stato, dal mattino del giovedì 20 febbraio al pomeriggio di lunedì 24 febbraio, a Milano, Bologna, Pesaro, Urbino, Forlì e poi ancora a Milano e Bergamo. Un interessante giro di iniziative ed incontri con gente meravigliosa. In località che rientrano, come sappiamo, nelle aree considerate a rischio contagio. Mi trovo, dunque, nel mio domicilio di Bruxelles impossibilitato a svolgere la mia mansione. Io sto bene, non ho alcun sintomo ma sono in quarantena volontaria. Certamente, è anche un po' curioso che ai deputati, provenienti dall'area di crisi, venga rivolto solo un "invito" ad astenersi dall'ingresso. Capisco che godiamo dell'immunità parlamentare ma non pensavo fossimo considerati immuni di fronte al virus. Dunque, il buon senso, consiglierebbe di dire - ammesso che la situazione sia davvero così estrema - tutti dentro o tutti fuori, deputati e funzionari. Perché il virus non conosce differenze. Devo aggiungere: a Bruxelles, in Belgio, sinora non sono state attuate misure di prevenzione. La vicenda è senz'altro seria. Ma va affrontata con senso di responsabilità e, soprattutto, con calma e senza isterismi. Voglio dire che la situazione non deve essere, ovviamente, presa sotto gamba. Ma aggiungo, piuttosto, di essere molto preoccupato per le conseguenze che una situazione di paura e di ingiustificato panico possono verificarsi nel sistema economico, e non solo in Italia. Sarà bene che stare tutti un po' più calmi e riflessivi. Ho sentito il presidente del Parlamento, David Sassoli, dire che bisogna seriamente cominciare a riflettere sul nostro sistema sanitario, cui va il nostro plauso, spezzettato in 20 Regioni. Sono perfettamente d'accordo. E come lui mi domando: ma dov'è, in frangenti come questi, la tanto declamata sanità privata? Ps: leggo che gli aspiranti giovani stagisti italiani presso il Parlamento vengono respinti con una comunicazione via e-mail a causa del coronavirus. A pochi giorni dall'inizio del periodo di formazione. Chi li ripaga per le spese già sostenute (viaggio aereo, affitto, ecc.)?

Paure bulgare e noi liberi di contagiare. Ma all'estero. Tony Damascelli, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. Tremila patrioti rientrano dall'ora d'aria in Francia e tornano nelle prigioni del Nord Italia. L'ipotetica ed eventuale infezione da Covid 19 non ha preoccupato più di tanto Lione e dintorni ma terrorizza i commedianti della politica e del calcio, italiano e Uefa, nelle persone di Conte Giuseppe, Spadafora Vincenzo, Gravina Gabriele, Dal Pino Paolo, Ceferin Alexsander, Marchetti Giorgio, ho voluto apposta riportare cognomi e nomi dei figuranti di questa farsa perché è arrivato il momento nel quale ognuno debba assumersi le proprie responsabilità, non più nascondendosi dietro le insegne delle rispettive istituzioni. La premessa serve a spiegare il momento folle che sta vivendo il calcio italiano. La sfilata dei calciatori del Ludogorets, tutti con le mascherine protettive, l'annullamento delle conferenze stampa delle due squadre impegnate in Europa League, il divieto di accesso per la stampa a San Siro, la chiusura degli stadi nelle zone a rischio per il prossimo turno di campionato, in vigore però fino a lunedì, confermano lo stato di fibrillazione e di caos politico che sta agitando, in esclusiva, il nostro calcio. A quegli stessi tremila tifosi della Juventus, liberi di seguire la loro squadra a Lione, viene negato di potersi presentare all'Allianz di Torino domenica sera per la partita contro l'Inter, così come porte chiuse ai tifosi dell'Atalanta che volessero scendere in Salento per accompagnare la squadra bergamasca contro il Lecce, analoga buffonata per i tifosi di Udinese e Fiorentina, Milan e Genoa, Parma e Spal, tutti in isolamento fino a domenica notte, perché come preannunciato dal valente ed esordiente ministro dello sport, da lunedì, anzi dalla mezzanotte di domenica, liberi infetti tutti, riaperte le porte degli stadi, Covid 19 nuovamente in azione. Essendo carnevale si potrebbe pensare a una burla, effettivamente la sfilata di maschere sui carri è quotidiana ma è tutta roba vera, di carne non di cartone. Nel frattempo ci consigliano di lavarci le mani. Per la loro coscienza non basterebbe nemmeno la candeggina.

Sette vittime e caccia al paziente zero. E il mondo ci isola. Il Dubbio il 25 Febbraio 2020. Israele, Irlanda, Francia, Croazia e Grecia sconsigliano viaggi in Italia e il Kuwait sospende i voli da e per l’Italia. Il coronavirus continua a tenere in allerta l’Italia, ma non ci sono altri focolai. Secondo l’ultimo bilancio della protezione civile, sono sette i morti (sei in Lombardia e uno in Veneto, il 78enne di Vo’ Euganeo, primo decesso in assoluto) e 229 le persone contagiate. Le nuove vittime sono quattro. In mattinata, è morto un 84enne ricoverato all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Intorno a mezzogiorno, è arrivata la notizia del decesso di un uomo di 88 anni di Caselle Landi, in provincia di Lodi. Poi, nel pomeriggio, c’è stato il decesso di una persona di 75 anni di Castiglione d’Adda, che aveva pregresse malattie, ed era ricoverato all’ospedale Sacco di Milano. La quarta vittima è un 62enne lodigiano “con importanti compromissioni a livello cardiaco e renale”, morto all’ospedale Sant’Anna di Como. Nel frattempo, si accende la polemica fra il governo e le Regioni sulla gestione dell’emergenza, che poi rientra in qualche modo dopo qualche ora, quando si placano anche gli animi sull’asse Lombardia-Basilicata. E il capo della protezione civile, Angelo Borrelli, dice chiaramente: “Mi auguro che non diventi una pandemia, credo che i valori italiani siano contenuti entro numeri ragionevoli e non giustificare il mutamento della tipologia da epidemia in pandemia”. Mentre sale a 19 il numero di contagi in Emilia-Romagna, con gli ultimi due casi riscontrati a Piacenza, sono tre i casi in Piemonte (uno a Torino e due a Cumiana), 32 in Veneto e altri tre nel Lazio. Il bilancio delle vittime si aggrava, quindi, solo in Lombardia, dove sale a sei il numero di decessi. Sui 172 contagiati, secondo i dati resi noti dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera, “sono il 10% i pazienti in terapia intensiva e la maggior parte dei contagiati sono persone sopra i 65 anni. Abbiamo il 90% dei casi tra Lodi, Cremona e Pavia. Il focolaio è lì. Sono tutte persone che hanno avuto relazioni con l’area del basso Lodigiano”. E non solo: in totale, sono 1.500 i tamponi processati a livello regionale, dove è in corso “un’indagine approfondita”. Mentre, “ci sono due piste per tentare di individuare il "paziente zero" ma non siamo ancora sicuri, perciò dobbiamo essere prudenti”, fa presente il governatore Attilio Fontana. Che poi si dice “moderatamente fiducioso che le cose possano andare verso un miglioramento graduale”. E lancia un appello, dopo aver ricordato il lavoro a stretto contatto con il governo: “Si deve collaborare tutti insieme per arrivare alla soluzione di questo problema”. Succede dopo una polemica aperta sulle contromisure da adottare per arginare il fenomeno che, in realtà, si placa nel giro di alcune ore. “C’è l’esigenza di avere una indicazione unitaria, non servono i provvedimenti non coordinati perché provocano confusione. Il sistema di protezione civile funziona perché c’è una centralizzazione del comando, in capo al premier”, ricorda in mattinata Borrelli, che è anche commissario per l’emergenza coronavirus. “Noi inviamo costantemente i dati alla protezione civile, troviamo poco serio che la protezione civile faccia lanci senza essere concordati”, chiarisce Gallera. “E’ giusto – aggiunge – che i cittadini siano informati, dopo di che invito Borrelli a continuare a concentrarsi sul suo lavoro, che sta facendo benissimo”. Ma a far discutere c’è anche il caso della Basilicata, con l’idea di mettere in quarantena coloro che rientrano dalla Lombardia. Su questo tema, Fontana punta i piedi: “L’episodio della Basilicata è stato stigmatizzato anche in occasione dell’incontro con il governo e io credo che, a seguito di tutto ciò, è stato revocato il provvedimento. Non esiste ragione alcuna altrimenti si fermerebbe l’Italia”. Da Israele all’Irlanda, passando per Grecia e Croazia, annullate gite e sconsigliati i viaggi. Germania, Gran Bretagna e Usa per ora raccomandano prudenza. In Francia 14 giorni di isolamento per chi rientra da Lombardia e Veneto. Gli operatori del settore chiedono un intervento del governo. E  Il Kuwait ha messo al bando tutti i voli da e per Italia, Thailandia e Corea del Sud. 

Voli bloccati, frontiere chiuse e quarentene: così il sovranismo colpisce gli italiani. L’Italia è diventata il centro dell’epidemia e il resto del mondo ci guarda con sospetto. Il Dubbio il 24 Febbraio 2020. Aeroporti, stazioni e porti chiusi. Per gli italiani. L’allarme sovranista questa volta colpisce i nostri connazionali in tutto il mondo. Soprattutto veneti e lombardi – uno smacco ulteriore per la propaganda leghista – considerati potenziali untori, esportatori globali di coronavirus. Non importa che tu sia sano come un pesce, basta una luogo di nascita sospetto sul passaporto per essere respinto. Come accaduto questa mattina a un gruppo di turisti atterrati a Mauritius, nell’Oceano Indiano, a bordo di un aereo Alitalia. Prima di consentire lo sbarco, personale sanitario locale, allertato in virtù dell’emergenza Covid 19, è salito a bordo del velivolo per controllare i 212 passeggeri. Risultato: tutti negativi ai test. Ma lo stato di sana e robusta costituzione non basta a rassicurare le autorità mauriziane, che decidono di isolare a scopo precauzionale 40 turisti provenienti da Veneto e Lombardia negando loro il permesso allo sbarco. Quarantena in due ospedali della capitale Port Louis o rientro immediato in Italia: è questa la scelta offerta ai 40 malcapitati. Nessuno, comprensibilmente, ha optato per la prima opzione, obbligando Alitalia a predisporre un ritorno imprevisto. Allertata immediatamente l’unità di crisi della Farnesina, sul sito Viaggiare sicuri del Ministero degli Esteri è comparso l’avviso che «a partire dal 23 febbraio 2020» le autorità locali hanno previsto «misure di controllo per i viaggiatori provenienti dall’Italia che, all’arrivo, potranno essere sottoposti ad un periodo di quarantena obbligatoria con le modalità di volta in volta stabilite dalle autorità sanitarie locali». Ma quello di Mauritius è solo l’ultimo dei casi, in ordine di tempo, di “cautela” anti italiana. Ieri era toccato a Marine Le Pen, leader di Rassemblement National, il partito di estrema destra francese alleato di Salvini in Europa, chiedere controlli serrati alle frontiere italiane. E non va meglio a veneti e lombardi scorrazzanti sul territorio rumeno: il ministero della Sanità di Bucarest ha disposto la quarantena obbligatoria per tutte le persone in arrivo dalle due regioni del Nord Italia. Per non parlare dello stop momentaneo (circa quattro ore) alla circolazione dei treni tra Italia e Austria, avvenuta due giorni fa, dopo che un Eurocity proveniente da Venezia era stato fermato al Brennero per la presenza a bordo di due casi sospetti di coronavirus. Già, il sospetto. Basta un colpo di tosse per allertare le autorità sanitarie e sbarrare le frontiere. Un po’ come chiudere i porti per timore che a bordo di un barcone ci siano cittadini senza diritto all’asilo. La verifica non serve. Il sospetto è già una prova.

Il mondo ora mette l’Italia in quarantena. «Sconsigliate le vacanze nelle zone a rischio». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Il tempo di un battito d’ali di farfalla, e ci siamo ritrovati dall’altra parte della barricata. Dopo giorni spesi a dibattere sul che fare con asiatici e cinesi, adesso sono gli altri che nel mondo si interrogano sul come comportarsi con gli italiani infetti. In molti, in realtà, hanno smesso presto di interrogarsi. I nostri vicini, prima di altri. La Grecia e la Croazia non hanno esitato a sospendere tutte le gite scolastiche programmate nel nostro bel Paese, e dal ministro degli Esteri croato è arrivata anche una raccomandazione per i suoi cittadini, diretta e specifica: evitate i viaggi in Veneto, e in Lombardia. D’Oltralpe, i nostri cugini hanno fatto anche di più. Hanno dissolto rapidamente il dubbio che aveva invece attanagliato noi con gli studenti cinesi. In Francia, infatti, i ragazzi che tornano dalle vacanze invernali passate nel nord dell’Italia vengono messi prontamente in quarantena, insieme con i coetanei di Cina, Hong Kong, Macao, Singapore, Corea del Sud. E’ come se un pugile avesse usato la nostra faccia come un sacco di allenamento. Lo stordimento ci ha travolto in una manciata di ore. Sono le autorità bosniache che da Sarajevo adesso raccomandano in maniera decisa di non recarsi in Italia. E non solo. In Bosnia sono state approntate anche misure di controllo a tutti gli ingressi del Paese, per evitare l’accesso agli italiani, e pure per controllare chi sta rientrando dall’Italia. Le stesse misure adottate per la Cina, l’Iran, la Corea del Sud. Per adesso gli austriaci ci stanno risparmiando. C’è stato da temere domenica sera su quell’intercity che da Venezia arrivava a Monaco. Le autorità austriache lo avevano bloccato al confine del Brennero, un contagio sospetto, due persone che sono scese a Verona e hanno raggiunto l’ospedale per fare dei controlli. C’è stato da temere domenica sera che quel blocco diventasse una chiusura permanente, l’interruzione delle nostre comunicazioni con tutto il nord Europa. E invece quell’intercity è ripartito, ha raggiunto Monaco, e il ministro dell’Economia austriaco Margarete Shramboeck ha dichiarato apertamente che l’Austria non chiuderà i suoi confini con l’Italia, anche se subito dopo ha aggiunto un ben chiaro: «per il momento». Per il momento anche l’Irlanda ha deciso : «Non andate nelle zone colpite dal coronavirus nel nord dell’Italia», ha scritto il ministro degli Esteri in un travel advice aggiornato in queste ore. Qui vengono indicate ben cinque regioni a rischio: Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e anche il Lazio. E adesso il governo di Dublino sta valutando anche il che fare per la partita del Sei Nazioni di rugby Irlanda-Italia, prevista per il 7 marzo. In Israele hanno già valutato, e il ministro della Sanità Yacov Litzman ha usato la Radio militare per le sue comunicazioni, consigliando caldamente di non venire in Italia e aggiungendo: «Noi non abbiamo timore ad imporre l’isolamento d’autorità a chi arriva dall’Italia». A Tel Aviv hanno allargato a sette le regioni a rischio coronavirus: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Liguria. Un piccolo sospiro di sollievo possiamo permettercelo guardando oltreoceano: gli Stati Uniti, almeno, hanno fatto delle differenziazioni e a noi nel club degli appestati ci hanno riservato un posto di privilegio: nella scala da uno a quattro, all’Italia hanno dato il rischio uno come meta di viaggio per gli americani. Quattro è invece il livello di rischio per lla Cina. Ma consolarci con gli Stati Uniti vale poco. Basta attraversare un altro oceano, quello indiano, per sconfortarci: sono stati quaranta gli italiani che bloccati dalle autorità di Mauritius. Tutti lombardi e veneti. Non sono stati fatti nemmeno scendere dall’aereo.

Filippo Santelli per “la Repubblica” il 24 febbraio 2020. «È un momento spartiacque », ha detto ieri il presidente Moon Jae-in, alzando per la prima volta da dieci anni il livello di allerta sanitaria a rosso, il massimo dei quattro gradi previsti. Proprio come l' Italia, anche la Corea del Sud, a 9 mila chilometri di distanza, è un fronte della guerra globale al coronavirus. Anche lì i nuovi casi si stanno impennando, da una trentina a 602 nell' arco di quattro giorni, più 169 solo ieri, con sei morti. Anche lì la prossima settimana sarà decisiva per capire se il focolaio verrà delimitato e spento, oppure se divamperà fuori controllo. Allarme rosso dunque, ha dichiarato il mite Moon: «Non dobbiamo aver paura di prendere misure senza precedenti». Bloccare gli arrivi dagli altri Paesi, all' occorrenza, limitare i trasporti, isolare le città. Per ora sono solo ipotesi, possibilità nelle mani della cabina di regia speciale istituita presso il governo. Al momento le misure restano ancora, per così dire, ordinarie. Sono due i focolai in Corea del Sud, più grandi ma anche più definiti rispetto a quelli italiani. Il primo è tra i fedeli della setta pseudocristiana chiamata Chiesa del Gesù Shincheonji, il cui fondatore, il santone 88enne Lee Man-hee, si proclama nuovo Messia. Oltre la metà dei contagiati sono suoi devoti della città di Daegu, 2 milioni e mezzo di abitanti nel Sudest del Paese. Le autorità hanno i nomi, stanno facendo i test, ma in centinaia non si trovano, forse nascosti: la loro è una setta ai margini, che prega anche quando sta male. La signora che ha contagiato tutti se l' è svignata dall' ospedale con la polmonite per seguire la funzione, un "super diffusore". Il secondo focolaio è in un ospedale di una città vicina, Cheongdo, 110 infettati. I due centri sono stati definiti "aree speciali", le loro strade sono deserte. Ma non isolati, si può ancora entrare e uscire. Il governo spera basti a evitare che scintille di virus arrivino nelle grandi città. Intanto ha ridotto le occasioni di trasmissione, ha rinviato di una settimana la riapertura delle scuole, chiuso asili nido e centri anziani, obbligato caffetterie e cinema a installare disinfettanti all' ingresso, vietato (con poco successo) i cortei politici che ogni giorno sfilano a Seul. Ospedali speciali sono stati riservati ai pazienti di Covid-19. La Corea prova così, senza chiudere gli arrivi dalla Cina e senza bloccare l' economia che già balbetta. Ma le leggi d' emergenza sono pronte.

Coronavirus, il Kuwait  vieta tutti i voli partiti  da Roma e Milano. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. Il Kuwait blocca tutti i collegamenti aerei con l’Italia ed è il primo Paese a prendere una decisione così drastica nei nostri confronti. Con un brevissimo Notam diffuso in tarda serata — lunedì 24 febbraio — le autorità locali dell’aviazione civile spiegano che «data la scoperta di diversi casi di coronavirus nella Repubblica italiana tutti i voli dagli aeroporti italiani non potranno atterrare nello scalo internazionale del Kuwait fino a nuove disposizioni». Una decisione simile il Paese nel Golfo Persico l’ha presa anche per la Thailandia e la Corea del Sud. Nel bollettino che reca la disposizione e che si applica a tutte le compagnie aeree — il numero A0087/20 — le autorità locali indicano come data di inizio dello stop ai collegamenti diretti con il nostro Paese le 23.13 (ora italiana) del 24 febbraio 2020 e con una fine, per ora provvisoria, fissata alle 13 (sempre ora italiana) del 9 marzo 2020. Questo spiega perché, per esempio, il volo Kuwait Airways KU163 per Milano Malpensa del 25 febbraio sia stato cancellato, così come la tratta inversa dello stesso giorno (KU164), così come la rotta per Roma Fiumicino (e viceversa) dello stesso giorno. C’è soltanto una compagnia che opera i voli diretti tra i due Paesi: Kuwait Airways. Secondo i database specializzati questa settimana — 24 febbraio/1° marzo — avrebbe dovuto operare 8 voli da e per Roma Fiumicino e altri 8 da e per Milano Malpensa. La settimana passata sui sedici voli complessivi ha messo a disposizione poco meno di 2.500 posti. I collegamenti con il Kuwait sono utilizzati per buona parte dai migranti che vivono e lavorano da anni in Italia e che s’imbarcano sulla compagnia del Golfo Persico per raggiungere casa, in particolare il Sud-Est.

“Vietato l’ingresso agli italiani”. Ecco gli stati che chiudono porti e frontiere. Il Dubbio il 28 febbraio 2020. Coronavirus, da Israele alla Giordania passando per le Seychelles, dove il divieto in ingresso per i nostri connazionali è totale, alle quarantene obbligatorie in India, Cina, Romania…Il panico da coronavirus sta causando una crisi senza precedenti per il turismo italiano e l’impatto è a doppio senso, in entrata e in uscita. Da Israele che blocca i passeggeri provenienti dal Bel Paese, alla Russia che interrompe la vendita dei pacchetti per la penisola; da Wizz Air che cancella i voli per il Nord Italia, all’Eritrea che mette in quarantena i connazionali in arrivo, il nostro Paese rischia davvero un isolamento dai devastanti impatti economici. Israele ha vietato l’ingresso nel Paese a 25 viaggiatori (19 dei quali di nazionalità italiana) che sono rimasti bloccati su un aeroplano proveniente da Bergamo. L’Autorità per l’immigrazione ha comunicato che l’aereo da Bergamo è atterrato oggi alle 12.55 ore locali e che i passeggeri israeliani sono scesi dall’aeroplano e hanno ricevuto istruzioni dal ministero della Salute. L’aeroplano dovrebbe ripartire presto per fare ritorno a Bergamo trasportando i 25 passeggeri, oltre ai 119 in partenza da Israele, la maggior parte dei quali sono di nazionalità italiana. Divieto di ingresso per gli italiani anche in Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Mauritius, Turkmenistan, Iraq, Capo Verde, Kuwait e Seychelles. Gli Stati Uniti hanno inserito l’Italia nella “fascia due” (su quattro) della loro allerta sanitaria: si può viaggiare ma bisogna osservare precauzioni. Trump ha parlato di possibili restrizioni ai voli con l’Italia al momento non ancora attuate. India, Cina, Taiwan, Eritrea, Tagikistan, Kazakhistan, Kirghizistan e Saint Lucia pongono in quarantena precauzionale di 14 giorni i viaggiatori provenienti dall’Italia. La Romania ha disposto la quarantena per i viaggiatori asintomatici che arrivano dalle località italiane di Lombardia e Veneto soggette a ordinanze specifiche. Ai viaggiatori provenienti da altre località delle regioni Lombardia e Veneto sarà richiesto un isolamento volontario domiciliare per 14 giorni dall’arrivo in Romania. I tour operator russi hanno interrotto la vendita di viaggi e pacchetti per l’Italia, dopo che l’Agenzia federale per il turismo Rosturizm aveva diramato una raccomandazione in questo senso, per via dei timori legati all’epidemia di Covid-19. La misura rimarrà in vigore fino alla stabilizzazione delle situazione epidemiologica nel Paese. Come Tez anche altri grandi operatori, tra cui Inturist e Jet Travel, hanno interrotto le vendite per l’Italia. Rosturizm aveva raccomandato di interrompere le vendite di pacchetti e viaggi anche per Corea del Sud e Iran. Wizz Air ha annunciato che a causa della flessione nella domanda sulle sue rotte italiane causate dall’epidemia del virus Covid-19, ha rivisto la sua programmazione voli portando ad importanti cancellazioni, su specifiche rotte verso il Nord Italia tra l’11 marzo e il 2 aprile 2020, durante questo periodo circa il 60% della capacità totale italiana è stata tagliata. La programmazione resta invariata dopo il 2 aprile 2020. L’impatto del coronavirus sul settore del turismo in Italia potrebbe far registrare, nel prossimo trimestre, circa 22 milioni di presenze in meno con una perdita di spesa di 2,7 miliardi di euro. E’ il dato fornito da Confturismo. A comportare effetti pesantissimi per l’economia del turismo nazionale è, secondo Confturismo, la psicosi collettiva generata anche da una comunicazione spesso allarmistica e fuorviante, oltre che dai provvedimenti restrittivi introdotti. In meno di una settimana dall’esplosione dell’allarme, alberghi, b&b e agenzie di viaggio hanno già visto andare in fumo 200 milioni di euro di prenotazioni per il mese di marzo. Bisogna urgentemente lavorare per arrivare ad una normalizzazione: se continua così, il settore – che vale il 13% circa del Pil italiano – rischia di affondare”.

Claudio Del Frate per corriere.it il 27 febbraio 2020. «Non abbiamo scelta»: così il ministro degli interni di Israele Arie Deri ha motivato la decisione di impedire l’ingresso nel paese agli italiani. Quello dello stato ebraico è il dodicesimo governo a mettere al bando chi arriva dall’Italia ma il mondo in generale «mette in quarantena» il nostro paese. Con il perdurare della crisi sanitaria dovuta al coronavirus, cresce di continuo il numero dei paesi che da un lato introducono restrizioni per chi arriva dall’Italia e dall’altro sconsigliano di recarsi in una paese con focolai di infezione. Tutto questo mentre dal punto di vista politico l’Italia resta un osservato speciale e i vicini d’Europa oscillano tra offerte di aiuto e tentazione di limitare la circolazione con l’Italia. Ecco comunque un elenco dei provvedimenti adottati sino a oggi nei confronti dell’Italia (che si trova molto spesso accomunata ad altri Stati dove il contagio è in espansione come Cina, Corea del Sud, Iran).

*Israele, Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Mauritius, Turkmenistan, Iraq, Vietnam, Capo Verde, Kuwait e Seychelles hanno vietato l’ingresso nel loro paese agli italiani o a chi è stato in Italia nelle ultime due settimane (la Giordania esclude solo i suoi cittadini). Alle compagnie aeree che volano in questi paesi è stato vietato di imbarcare passeggeri che siano stati in Italia nelle ultime due settimane. Per Mauritius il divieto riguarda solo chi proviene da Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia. L’Arabia Saudita vieta l’ingresso anche ai fedeli musulmani provenienti dall’Italia che vogliono compiere il pellegrinaggio alla Mecca. La compagnia israeliana El Al ha annunciato di aver sospeso i collegamenti con l’Italia.

* Cina, Taiwan, Eritrea, Tagikistan, Kazakhistan, Kirghizistan e Saint Lucia pongono in quarantena precauzionale di 14 giorni i viaggiatori provenienti dall’Italia. Quelli che sbarcano nella capitale kirghiza vengono collocati in una caserma poco fuori dalla città. Il governo di Pechino ha comunicato il provvedimento senza citare l’Italia ma parlando di «paesi colpiti dal coronavirus».

* La Romania ha disposto la quarantena per chi arriva dalle «zone rosse» di Lombardia e Veneto. Gli altri residenti nelle due regioni devono sottostare a una quarantena domiciliare volontaria.

*Malta e Islanda chiedono a chi proviene dalle 4 regioni d’Italia ritenute a rischio (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna) di osservare una quarantena volontaria.

* Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Grecia, Cipro, Libano, Croazia e Lituania effettuano controlli sanitari a bordo degli aerei nei confronti di cittadini italiani. La Lituania limita la misura a chi proviene dalle quattro regioni ritenute a rischio (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia). In Croazia, Cuba e in Libano gli italiani che presentano febbre al loro ingresso nel paese vengono isolati per 14 giorni in ospedale. A tutti gli altri viene chiesto di sottoporsi a controlli sanitari quotidiani , sempre per due settimane.

* Bulgaria, Montenegro, Macedonia, Lettonia, Nicaragua e Argentina fanno compilare un questionario a chi arriva dall’Italia . I primi due Stati sottopongono i viaggiatori anche a un controllo medico.

* Germania, Estonia e Polonia invitano chi provenga dalle «zone rosse» del Lodigiano e di Vo’ Euganeo a prendere contatto con le autorità sanitarie locali e «adottare misure di auto monitoraggio».

* Egitto, Algeria, Ungheria, Repubblica Ceca, Ucraina, Moldavia e Sudafrica si limitano a controllare la temperatura agli italiani in arrivo.

* Gran Bretagna, Irlanda e Lussemburgo impongono l’autoisolamento di 14 giorni solo a coloro che arrivano dal Nord Italia e presentano sintomi anche leggeri della malattia. A chi arriva dalle due «zone rosse» (anche senza sintomi) viene imposto l’isolamento.

* Samoa richiede a chi arriva dall’Italia una certificazione medica non più vecchia di tre giorni.

* Gli Stati Uniti hanno inserito l’Italia nella cosiddetta «fascia due» (su quattro) della loro allerta sanitaria: si può viaggiare ma bisogna osservare precauzioni.Trump ha parlato di possibili restrizioni ai voli con l’Italia al momento non ancora attuate.

* Francia, Spagna, Grecia, Turchia, Irlanda, Russia e Croazia hanno infine sconsigliato ai loro cittadini di compiere vacanze o viaggi in Italia o nel Nord Italia. «Coloro che hanno effettivamente programmato di recarsi nelle aree più colpite e che possono rimandare il viaggio sono ovviamente invitati a farlo» ha dichiarato il sottosegretario francese ai trasporti Jean Baptiste Djebbari.

Coronavirus, ecco gli Stati dove gli italiani non possono viaggiare o hanno restrizioni. Un elenco dei provvedimenti adottati sino a oggi nei confronti dell'Italia: niente Israele o Mauritius. La Repubblica il 27 febbraio 2020. Aumenta il numero dei Paesi che vietano, introducono restrizioni all'ingresso di chi proviene dall'Italia o sconsigliano di recarvisi. L'ultimo in ordine di tempo è stato Israele. L'Autorità per l'immigrazione israeliana ha rifiutato, in base alle nuove disposizioni assunte oggi, l'accesso a passeggeri in viaggio dall'Italia.

Divieto di ingresso agli italiani. Israele, Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Mauritius, Turkmenistan, Iraq, Capo Verde, Kuwait e Seychelles hanno vietato l'ingresso agli italiani o a chi è stato in Italia nelle ultime due settimane. La Giordania esclude solo i suoi cittadini. Per Mauritius il divieto riguarda solo chi proviene da Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia, ma le autorità locali locali si riservano la facoltà di estendere il divieto di ingresso sul territorio anche ad altre categorie di passeggeri (inclusi cittadini italiani provenienti da altre regioni oltre a quelle già menzionate), con scarso o nessun preavviso. In Arabia Saudita vietato l'ingresso anche ai fedeli musulmani per il pellegrinaggio alla Mecca.

Precauzioni di viaggio. Gli Stati Uniti hanno inserito l'Italia nella "fascia due" (su quattro) della loro allerta sanitaria: si può viaggiare ma bisogna osservare precauzioni.Trump ha parlato di possibili restrizioni ai voli con l'Italia al momento non ancora attuate. Coronavirus, Trump: "Italia in difficoltà, valuteremo se bloccare i voli, non ora". Australia inizia piano emergenza Le autorità islandesi raccomandano a tutti i viaggiatori, nel caso in cui si sviluppino sintomi di infezione respiratoria durante il soggiorno, di contattare la guardia medica o il più vicino medico di base.

Quarantena precauzionale. India, Cina, Taiwan, Eritrea, Tagikistan, Kazakhistan, Kirghizistan e Saint Lucia pongono in quarantena precauzionale di 14 giorni i viaggiatori provenienti dall'Italia. La Romania ha disposto la quarantena per i viaggiatori asintomatici che arrivano dalle località italiane di Lombardia e Veneto soggette a ordinanze specifiche. Ai viaggiatori provenienti da altre località delle regioni Lombardia e Veneto sarà richiesto un isolamento volontario domiciliare per 14 giorni dall'arrivo in Romania.

Quarantena volontaria. Malta, Estonia e la Bulgaria chiedono a chi proviene a Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna di osservare una quarantena volontaria di 14 giorni. E’ prevista invece una quarantena obbligatoria per chi presenti sintomi sospetti.

Stato di attenzione. In Vietnam le autorità si riservano la facoltà di adottare misure restrittive all’ingresso, fino al respingimento in frontiera, con scarso o nessun preavviso, anche nei confronti di viaggiatori provenienti da aree a rischio, ivi inclusa l'Italia.

I controlli. Bielorussia, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Germania, Grecia, Cipro, Libano, Croazia, Moldavia, Marocco, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ucraina, Ungheria e Lituania effettuano controlli sanitari a bordo degli aerei nei confronti di cittadini italiani. La Lituania limita la misura a chi proviene dalle quattro regioni ritenute a rischio, Cuba solo alle persone provenienti da Veneto e Lombardia. In Croazia, Cuba e in Libano gli italiani che presentano febbre al loro ingresso nel paese vengono isolati per 14 giorni in ospedale. A tutti gli altri viene chiesto di sottoporsi a controlli sanitari quotidiani per due settimane.

Il questionario. Bulgaria, Montenegro, Macedonia, Lettonia, Nicaragua e Argentina fanno compilare un questionario a chi arriva dall'Italia.

Autoisolamento. Regno Unito, Irlanda e Lussemburgo impongono l'autoisolamento di 14 giorni solo a chi arriva dal Nord Italia e presenta sintomi anche leggeri della malattia.

Vacanze sconsigliate. Francia, Spagna, Grecia, Turchia, Irlanda, Russia e Croazia sconsigliano ai loro cittadini di compiere vacanze o viaggi in Italia o nel Nord Italia.

Coronavirus in Italia, le conseguenze per chi viaggia all’estero. Mattia Pirola il 25/02/2020 su Notizie.it.  La diffusione del coronavirus potrebbe avere conseguenze per chi viaggia all'estero. Israele e Irlanda sconsigliano i viaggi in Italia.

Le conseguenze per il turismo. L’emergenza provocata dal progressivo diffondersi del Coronavirus in Italia potrebbe portare altri Paesi a chiudere le frontiere con la nostra penisola, con conseguenze sui nostri connazionali che intendono intraprendere dei viaggi all’estero. I morti italiani, con il caso dell’88enne deceduto in provincia di Lodi, sono saliti a 5. Si contano inoltre oltre 200 contagiati. L’Ufficio federale svizzero della sanità pubblica (Ufsp) segue da vicino l’evoluzione della situazione, ma per il momento non ritiene di introdurre misure supplementari. Ha dichiarato però che “i focolai presenti sul territorio italiano debbano ora essere controllati con tutti i mezzi”.

Coronavirus in Italia e viaggi all’estero. Come spesso accade in questi casi, la paura potrebbe prendere il sopravvento. Per il momento non ci sono da parte delle autorità competenti dei Paesi con cui l’Italia confina prese di posizione che mirano alla chiusura delle frontiere. Persistono però focolai isolati di persone, anche autorevoli, che richiedono maggiori controlli sui confini o addirittura l’isolamento dell’Italia. Le pressioni inizieranno a farsi sempre più forti in questi giorni, soprattutto se aumenteranno i casi di contagio nel nostro Paese.

Kuwait. Il Kuwait ha deciso di interrompere tutti i collegamenti aerei con l’Italia (così come quelli da e per la Thailandia, la Corea del Sud e l’Iraq). Lo stop è in vigore fino al 9 marzo. A pagarne le conseguenze saranno i passeggeri dei 16 voli diretti a settimana dal nostro Paese per il Kuwait, la metà in partenza dallo scalo romano di Fiumicino e metà da quello milanese di Malpensa.

Bosnia e Macedonia. Anche Bosnia e Macedonia, come già Israele e Irlanda, hanno ufficialmente sconsigliato ai propri cittadini di recarsi in Italia.

Israele. Israele, attraverso le parole del ministro della Salute Yaacov Litzman, ha “consigliato” ai propri cittadini di “non recarsi in Italia. Stiamo effettuando i controlli per stabilire se l’Australia e l’Italia diventeranno Paesi i cui arrivi in Israele devono essere isolati al loro ingresso nel nostro territorio. Non temiamo di imporre l’isolamento“.

Irlanda. Anche l’Irlanda, a breve distanza da Israele, ha sconsigliato ai propri cittadini di visitare le aree dell’Italia interessate dalla diffusione del coronavirus.

Francia. Il ministro della Salute francese Olivier Véran ha affermato che chiudere le frontiere “non avrebbe senso”. Questo “perché un virus non si ferma alla frontiera”. Di diverso parere è però stato il Sindaco di Mentone, Jean-Claude Guibal. “Per preservare la salute dei cittadini e delle cittadine di Mentone – ha dichiarato – chiediamo una mobilitazione degli stabilimenti ospedalieri e sanitari e il rinforzo dei controlli sanitari alla frontiera oltre a più controlli sull’identità”. Si attende ora che prenda la parola anche il presidente Macron, che intanto ha convocato a Nizza una riunione urgente sulla questione.

Svizzera. La Svizzera, come già accennato, non intende per il momento alzare i controlli sulla frontiera. Le ferrovie svizzere hanno dichiarato di non volere intervenire sul traffico internazionale verso l’Italia. “Siamo in stretto contatto con l’Ufsp e seguiamo le sue raccomandazioni”, spiega Danielle Pallecchi, portavoce dell’ex regia federale. Tuttavia, l’Ufsp, sul suo sito web, informa che le autorità “si preparano a possibili scenari in caso di ulteriore diffusione del virus”.

Diversi ministri e governatori hanno manifestato preoccupazione per la mobilità dei cittadini italiani transfrontalieri.

Germania. Il portavoce del Ministero dell’Interno tedesco ha assicurato che la Germania non prevede, al momento, la chiusura delle frontiere con l’Italia.

Croazia. C’è apprensione in Croazia per l’aumento del numero di casi di coronavirus nel Nord Italia. Le autorità croate hanno per questo deciso di sospendere per un mese tutte le gite scolastiche che hanno come destinazione la Penisola. Lo stesso provvedimento è stato emesso anche dalle autorità della Romania.

Le conseguenze per il turismo. C’è preoccupazione per le conseguenze sul turismo e, più in generale, per l’economia italiana e per l’immagine del nostro Paese all’estero, mentre aumentano i decessi e i contagi per coronavirus. In attesa del vertice chiesto dall’Italia con gli Stati confinanti, già diverse nazioni hanno deciso di interrompere le gite scolastiche o hanno sconsigliato di partire alla volta dell’Italia. “La situazione è fuori controllo, è di una gravità assoluta” ha commentato Ivala Jlenic, presidente di Fiaveti. “Noi ci aspettiamo un intervento del governo che sia forte e mirato”.

Coronavirus, in Basilicata scatta la quarantena per chi arriva dal Nord. Laura Pellegrini il 24/02/2020 su Notizie.it.  Il Presidente della Regione Basilicata ha emesso un’ordinanza restrittiva per coloro che arrivano dal Nord Italia: controlli, quarantena e censimenti. Infatti, con il dilagare dell’epidemia di coronavirus soprattutto in Lombardia e Veneto, la cautela si è resa necessaria. Vito Bardi ha quindi imposto un periodo di quarantena di 14 giorni per tutti coloro che rientrano in Basilicata dal Nord Italia: l’obbiettivo è evitare contagi da coronavirus. Inoltre, i sindaci dovranno censire ogni rientro dalle Regioni epicentro del focolaio. “Tutti i cittadini che rientrano in Basilicata provenienti dal Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Liguria o che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni dovranno rimanere in quarantena presso il proprio domicilio per 14 giorni“. Questo è il testo dell’ordinanza emessa da Vito Bardi, il governatore della Regione. Con lo scoppio dell’epidemia, infatti, i controlli e la prevenzione sono necessari. Inoltre, è stato disposto che “i sindaci di tutti i comuni della Basilicata in collaborazione con tutte le altre istituzioni comunali censiranno i cittadini provenienti dalle stesse regioni“. Dai lavoratori fino agli studenti fuori sede: chiunque provenga dal Nord lo deve comunicare “ai competenti servizi di sanità pubblica”. Soltanto pochi giorni prima era stato il Molise a disporre controlli serrati per chi arriva dal Nord Italia. Per i rientri dai paesi focolaio era obbligatoria la comunicazione ai servizi sanitari “che provvederanno a mettere in atto le adeguate misure di prevenzione della diffusione del virus”. Ha fatto invece discutere il provvedimento emesso da Ischia, che vietava gli sbarchi ai veneti e ai lombardi. Il Prefetto di Napoli ha annullato la restrizione. 

Coronavirus, Puglia e Basilicata verso censimento: chi rientra dal Nord sarà messo in quarantena. L’ordinanza confermata dal Governatore lucano Vito Bardi e l’ipotesi al vaglio anche dalla Regione Puglia in una task force prevista per oggi. Graziana Capurso il 24 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Tutti i cittadini che rientrano in Basilicata provenienti dal Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Liguria o che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni dovranno rimanere in quarantena presso il proprio domicilio per 14 giorni, comunicando la propria presenza ai competenti servizi di sanità pubblica». Lo dispone un'ordinanza sul Coronavirus emessa dal Presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi. Con il provvedimento del governatore lucano è stato inoltre disposto che «i sindaci di tutti i comuni della Basilicata in collaborazione con tutte le altre istituzioni comunali censiranno i cittadini provenienti dalle stesse regioni». E sulla scia della decisione del governatore lucano, a titolo precauzionale, si colloca anche l’ipotesi di avviare un censimento in Puglia. È al vaglio della regione, infatti, un’ordinanza composta da varie caratteristiche per fronteggiare l’emergenza. Ad esempio, il censimento di chi rientra in queste ore, o è recentemente rientrato, dal nord, studenti compresi. Saranno coinvolti per questo i medici di base. Misure di assistenza specifica per i turisti presenti nella regione. E l’indicazione, in caso di problemi o sospetti, di contattare il numero telefonico 1500 senza intasare i pronto soccorso. In giornata è prevista l’istituzione di un numero telefonico regionale per l’emergenza.

Roberto Chifari per il GIornale il 23 febbraio 2020. C'è anche chi fa dell'ironia in un momento di grande difficoltà per l'ondata di contagi che ha colpito il nostro Paese. L'ultimo in ordine di tempo è l'appello su Facebook dello scrittore Ottavio Cappellani che in un video postato sul proprio profilo scrive: "Al nord c’è il Coronavirus...Razza impedisca a Candiani di mettere piede in Sicilia. Basta con questo buonismo! Cazzo". Cappellani in un video di appena un minuto redarguisce le istituzioni. "Al nord c'è il Coronavirus, qui in Sicilia no. Date le preoccupanti notizie chiedo formalmente al sindaco di Catania Salvo Pogliese e al presidente della regione Sicilia Nello Musumeci di evitare lo sbarco e l’accoglienza di Candiani e leghisti vari perché portano malattie. Bisogna chiudere i porti ai leghisti perché portano malattie. Farlo entrare in territorio siciliano, dopo le notizie allarmanti che vengono dal territorio lombardo-veneto, vorrebbe dire mettere a rischio la salute dei siciliani. Chiedo all’assessore Razza di chiudere i confini a tutti gli esponenti politici del Nord Italia, ritenendolo personalmente responsabile degli eventuali casi di Coronavirus. E' un problema di salute pubblica, non devono mettere piede in Sicilia. Basta col buonismo, Candiani abita in un luogo a rischio per la salute. L'assessore Razza chiuda i confini per coloro che abitano al Nord. Non possiamo accoglierli mettendo a rischio la nostra salute". Nel suo profilo Facebook, Cappellani scrive altri post contro il senatore leghista. "Candiani non deve mettere piede in Sicilia... o Razza ne risponderà... BASTA BUONISMO! AIUTIAMO I LEGHISTI A CASA LORO!". E ancora. "Chiedo all’assessore Razza di chiudere i confini a tutti gli esponenti politici del Nord Italia, ritenendolo personalmente responsabile degli eventuali casi di Coronavirus". In un altro post Cappellani rincara la dose. "Se ne faccia una ragione: lei e i leghisti tutti rappresentate al momento per la Sicilia un pericolo di contagio del coronavirus. È così e non c’è niente da fare. Non è colpa dei siciliani se siete promiscui, ci sputacchiate addosso, non usate il preservativo (vado per ipotesi) e il Coronavirus da Voi ha attecchito e da noi no. Ho chiesto a Musumeci, a Razza, a Pogliese di chiudere i confini con voi. Le sembrò ironico? Non lo sono Candiani (qui può notare un attisamento semiotico che travalica la satira”. Se Razza, o Musumeci, o Pogliese le daranno il diritto di sbarcare in Sicilia ebbene lei sarà molto più pericoloso e ipoteticamente infettivo di un immigrato dall’Africa", si legge in un estratto del post. Non si è fatta attendere la replica del senatore leghista Stefano Candiani, responsabile del partito di Salvini in Sicilia, commentando l’appello su Facebook dello scrittore Ottavio Cappellani. "Sono impressionato dalla sconfinata meschinità di questo soggetto, che per fare un’ironia politica gretta e bassa usa una situazione tanto drammatica nella quale sono già morte persone e tante altre rischiano di morire. Provo profondo disgusto per questa provocazione assurda e penso alle famiglie di chi sta vivendo il dramma del contagio, ai medici, agli operatori sanitari, ai sindaci e a tutti coloro che si stanno impegnando per impedire la diffusione del contagio", conclude.

Coronavirus, esodo al contrario da Nord: universitari, mega-ritorno a Bari. Difficile trovare posto su treni e aerei. Tariffe rincarate. G. Flavio Campanella il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Al tempo del Sars-2-Cov, l'esodo è a direzione invertita. Si sposti chi può, pur di evitare il virus che sta infestando il Nord Italia e costringendo decine di migliaia di nostri connazionali a rimanere isolati, se non in quarantena. I baresi emigrati vorrebbero (forse) tornare tutti al tepore della terra natìa se non fossero di impedimento il lavoro e l'impossibilità di trasferire famiglie intere. Per gli studenti, però, la via del ritorno è quasi obbligata: costretti a fermarsi per la chiusura delle facoltà, non resta che scegliere se rimanere negli alloggi universitari o negli appartamenti affittati oppure raggiungere i genitori fuggendo da un potenziale lazzaretto.

IL RITORNO - In tanti stanno scegliendo di viaggiare verso il Sud, facendo i conti con un altro dilemma: prendere i mezzi mette in pericolo? E se il rischio di contagio è direttamente proporzionale al numero delle persone con cui si viene a contatto, non è forse meglio tornarsene in auto, riducendolo? Del resto, prendere un'auto con BlaBlaCar da Milano centrale per Bari Mungivacca costa 57 euro (a bordo di una Ford Fiesta), più o meno quanto il prezzo per il trasporto con il bus: chi ha preso oggi quello delle 7,40 della Marino da Milano San Donato alla stazione di Bari Centrale ha sborsato 35 euro (ora d'arrivo: 19,35) oppure chi è salito sul Flixbus delle 2.15 della scorsa notte da Milano Lampugnano a Bari Policlinico (arrivo alle 17,20) ha speso 64 euro (e lo ha dovuto fare in gran fretta, visto che alle 14, di ieri per chi legge, restavano solo nove posti).

LA SCELTA - La ricerca di un veicolo avviene in tutti i capoluoghi settentrionali coinvolti. Da Venezia-Tronchetto al Policlinico di Bari prendere oggi un Flixbus delle 13 (arrivo alle 7.45 di domani) costa 56 euro, mentre con Marino da Venezia-Mestre (partenza 21,20, arrivo 7.15 di domani) ci vogliono 69 euro. Tra i 50 e i 60 euro circa servono anche per partire dalla stazione di Torino, qualcosa in meno per la linea diretta da Bologna (40 euro). Ma siccome quasi tutte le tratte prevedono un cambio intermedio, è consigliabile dare uno sguardo agli aerei, per comprendere se, magari a parità di costi, è possibile evitare una sfacchinata.

L'AEREO - Niente da fare. Le tariffe sono più alte. Ma comunque: da Milano (Malpensa), con Easyjet, il diretto si attesta (attestava) sui 170 euro, da Venezia sui 140, da Treviso sui 300, da Verona sui 160 (ma con scalo), da Torino sui 300 (sempre con scalo), da Bologna il migliore è (era) un volo Alitalia da 250 euro (uno stop anche in questo caso). In realtà, i costi non sono molto diversi dal solito, ma di certo sta meglio chi si è accasato in tempi meno sospetti.

Coronavirus, Regione Puglia: «Chi rientra dal Nord deve segnalarlo al medico di base». L'invito del governatore a conclusione della riunione della task force pugliese. Negativi tutti i casi sospetti sino ad ora. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Febbraio 2020. Per fronteggiare l’emergenza Coronavirus, la Regione Puglia invita «tutti i cittadini che rientrano in Puglia provenienti dal Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna» e che hanno «soggiornato negli ultimi 14 giorni» in queste regioni a «comunicare la propria presenza nel territorio della Regione Puglia con indicazione del domicilio al proprio medico di medicina generale ovvero, in mancanza, al Servizio Igiene e Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Sanitaria Locale territorialmente competente al fine di permettere l’esercizio dei poteri di sorveglianza sanitaria». E’ il primo provvedimento deciso dalla task force regionale al termine di una riunione durata quattro ore e che è stata presieduta dal governatore Michele Emiliano. «Allo stato non si registra alcun caso di Coronavirus in Puglia. Ci sono al momento cinque casi che presentano sintomi sovrapponibili a quelli del Coronavirus e sono tutti in corso di accertamento». Lo comunica il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, al termine della riunione della task force regionale. «Non è possibile - viene spiegato in una nota stampa - per la Regione Puglia, in mancanza di un caso accertato, emanare un’ordinanza a seguito del decreto legge del 23 febbraio 2020 e delle comunicazioni odierne da parte del ministro della Salute e del ministro per gli Affari regionali. Domani mattina alle ore 10 il Capo nazionale della protezione civile ha convocato tutti i presidenti di Regione per dare disposizioni in materia. In attesa della riunione di domani, il presidente Michele Emiliano ha comunque impartito alcune disposizioni».

ATTIVATA SEZIONE SU PORTALE REGIONE PUGLIA - Sul portale istituzionale è on-line una sezione dedicata al Coronavirus regione.puglia.it/coronavirus per offrire ai pugliesi un punto di riferimento ufficiale con le informazioni in tempo reale. Sul sito sono disponibili i documenti ufficiali, i comunicati stampa e le indicazioni da seguire. Le pagine saranno costantemente aggiornate. Continua intanto il lavoro nella sede del Dipartimento Salute della Regione Puglia. Il presidente Emiliano, insieme al capo dipartimento Vito Montanaro e al dirigente sezione Protezione civile Mario Lerario ha partecipato in video conferenza alla riunione del tavolo nazionale permanente della Protezione civile. Inoltre il presidente ha incontrato il comitato regionale congiunto dei medici di Medicina generale e pediatri di libera scelta per coordinare al meglio il lavoro e lo scambio di informazioni.

MONITORAGGIO STUDENTI E LAVORATORI - In attesa di ulteriori provvedimenti del governo nazionale «risulta urgente e necessario porre in essere ogni utile tentativo di prevenire o rallentare la possibilità di insorgenza di focolai epidemici, comunque assai probabili stante la particolare espansività della contaminazione e il flusso di arrivo e rientro in Puglia di numerosissimi cittadini che a causa della adozione delle misure di contenimento adottate in altre Regioni contaminate stanno rientrando presso i luoghi di originaria residenza». E’ quanto scrive il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, nell’atto «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione COVID-19» licenziato al termine della riunione della task force regionale. La Regione Puglia, pur confermando che al momento non ci sono casi accertati di infezione da Coronavirus sul territorio regionale, non esclude che il contagio possa toccare anche la Puglia. In particolare, preoccupa il rientro di molti studenti e lavoratori dalla Lombardia e Veneto.

L'INIZIATIVA DEGLI ATENEI PUGLIESI - Il Politecnico di Bari sta seguendo con la massima attenzione l'evoluzione della diffusione del coronavirus. In attesa delle eventuali indicazioni che potranno arrivare nelle prossime ore dalla task force della Regione Puglia, il rettore Francesco Cupertino ha intanto concordato con i rettori dell’Università di Bari, Stefano Bronzini, di Foggia, Pierpaolo Limone, del Salento, Fabio Pollice e Lum, Emanuele Degennaro, di costituire un apposito gruppo di lavoro congiunto tra i due atenei, come richiesto dal presidente della Crui-conferenza dei rettori delle università italiane, Ferruccio Resta. «Abbiamo bisogno – dichiara Cupertino – di scambiarci innanzitutto informazioni verificate e tempestive. Lavorando in sinergia – aggiunge il rettore del Politecnico – potremo essere pronti a mettere in campo, se sarà necessario, ogni azione utile a salvaguardare la salute dei nostri studenti e dipendenti». In concomitanza con l’avvio delle lezioni del secondo semestre, il rettore Cupertino ha dato oggi disposizioni perché i docenti del Politecnico riepiloghino ai propri studenti le principali raccomandazioni del ministero della Salute per limitare la diffusione del virus. Per quanto riguarda la Regione Puglia, lo stesso ministro dell'Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, d’accordo con quello della Salute, Roberto Speranza, hanno ribadito che «misure restrittive dell'attività didattica nelle Università possono essere adottate dai singoli atenei esclusivamente in seguito a precise disposizioni ministeriali, di concerto con la Regione, alle quali è fatto obbligo di attenersi». E che «al momento attuale non sono previste per gli Atenei della Regione Puglia misure cautelari» invitando i rettori a rispettare il calendario didattico, senza alcuna sospensione o dilazione».

NEGATIVI TUTTI I CASI SOSPETTI - Risultati tutti negativi al test per SarsCoV-2 i campioni di casi sospetti giunti oggi al Laboratorio di riferimento regionale. Lo comunica il direttore del dipartimento Salute della Regione Puglia, Vito Montanaro.  “Il continuo lavoro di accertamento e di sorveglianza attenta ci consente ad ora di escludere nella regione casi di COVID-19. Resta alta l’allerta e il livello di attenzione”. 

Coronavirus, l’emergenza vissuta dai fuorisede divisi tra nostalgia e preoccupazione. Roberta Caiano de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. L’emergenza coronavirus sta ormai paralizzando l’Italia. Con l’aumento dei contagiati e dei morti, che sono avvenuti principalmente per patologie pregresse e in seguito risultati positivi al virus Covid-19, sono sempre più le persone che temono il peggio. La psicosi da coronavirus infatti sta creando opinioni e reazioni contrastanti. Supermercati presi d’assalto, mascherine e disinfettanti a ruba, metro e città mezze vuote anche laddove l’allerta non è stata ancora lanciata. In particolar modo il Veneto e la Lombardia sono considerate zone gialle, con particolare attenzione per la zona del lodigiano colpita dalla quarantena, isolando per prevenzione molte persone. Coloro che risentono molto di questa situazione sono sicuramente i fuorisede, divisi tra nostalgia per la loro terra e preoccupazione per la propagazione del virus. Solitudine, nostalgia, tristezza e sentimenti di coraggio e determinazione li portano a tranquillizzare sia loro stessi che i familiari, lontani.  In questi giorni si sono sentite notizie di ragazzi letteralmente scappati dalle zone focolaio per raggiungere i loro affetti. Ha fatto il giro del web il caso dei due fratelli che sono partiti da Codogno per tornare a casa a Lauro, paese in provincia di Avellino ed è subito scattato il panico. Dopo la notizia del 27enne di Montefusco che ha avuto la stessa idea ed è rientrato da Codogno, anche i due, fratello e sorella, giovani docenti fuori sede hanno deciso di fuggire dal lodigiano per rientrare in Irpinia. Lo avrebbero fatto prendendo un treno, al contrario di come ha fatto il 27enne di Montefusco che invece ha viaggiato da solo in auto. Nonostante i due stanno bene, sono scattate de procedure di quarantena a casa che hanno coinvolta anche i condomini della palazzina in cui sono rientrati. In tutto sono state 15 le persone messe sotto controllo sanitario. A prendere precauzioni e provvedimenti è stata anche Trenitalia che per i clienti che hanno acquistato fino al 23 febbraio 2020 un biglietto per viaggi su Frecce, Intercity, Intercity Notte e Regionale, riconoscerà il rimborso integrale per qualsiasi viaggio e indipendentemente dalla tariffa acquistata, in caso di rinuncia al viaggio per Coronavirus. Più in particolare, i biglietti per viaggi su Frecce, Intercity, Intercity Notte e per viaggi misti Frecce, Intercity, Intercity Notte e Regionale, saranno rimborsati con un bonus elettronico di importo pari al valore del biglietto acquistato, utilizzabile entro un anno dalla data di emissione del bonus stesso.

LA TESTIMONIANZA – Questa situazione ha portato molti ragazzi, suddivisi tra lavoratori e studenti, a lasciare diverse testimonianze sui loro stati d’animo sui social per trovare conforto e consiglio. La pagina Inchiostro di Puglia accoglie molto spesso racconti e sfoghi di ragazzi pugliesi che per motivi disparati si ritrovano a scrivere delle lettere come una sorta di flusso di coscienza, sia per loro che per gli altri. Proprio quest’oggi sulla loro pagina Facebook hanno pubblicato la storia di una ragazza vive e studia a Milano originaria della Puglia. La storia ha colpito molti utenti e soprattutto le persone che, come lei, vivono questi sentimenti discordanti: “Sono una dei tanti ragazzi che ha lasciato la sua bella terra per venire a studiare qui, a Milano. E Milano è dove mi trovo adesso, durante uno dei momenti di maggior tensione che abbia mai vissuto. Avevo comprato un biglietto del treno per tornare a casa. Io neanche ci volevo tornare a casa, ma mio papà insisteva: “Vieni qui che si sta tranquilli, l’aria a Milano si farà pesante per il panico generale”. L’ho ascoltato e ho comprato quel maledetto biglietto. D’altronde, con le università chiuse, i musei chiusi, i cinema chiusi, i bar e i pub chiusi dopo le 18, che mi restava da fare qua? Così ieri pomeriggio sono andata in Stazione Centrale per prendere il mio treno. Tanti treni erano stati cancellati prima del mio, ma lo staff di assistenza mi aveva rassicurata che quello lì sarebbe partito. Arrivato l’orario della partenza mi siedo al mio posto. Una voce nel treno annuncia: “partiremo tra pochi minuti”. Finalmente tiro un sospiro di sollievo. La ragazza seduta di fronte a me mi racconta di essere tornata a Milano il giorno prima, ignara di tutta questa situazione. Poi la sua azienda le ha dato il permesso di lavorare da casa e quindi lei ha subito deciso di ritornare giù. Mi racconta di essere raffreddata e di non volersi soffiare il naso per paura di subire un linciaggio. Poi ad un tratto, mentre siamo intente a chiacchierare, la stessa voce di prima annuncia la cancellazione del treno. Sono incredula. Scendo dal vagone e vedo una calca di gente ammassata sui controllori del treno per chiedere informazioni. La risposta è sempre la stessa: oggi non parte nulla. D’un tratto mi sento sola, abbandonata. I miei genitori entrano nel panico, vogliono venire a prendermi con la macchina. Gli dico che non ce n’è bisogno, posso restare qui, tranquilla, finché la situazione non si sia calmata. Poi faccio l’errore più grande della giornata: apro i social media. La Regione Puglia ha, giustamente, emanato una disposizione in cui invita tutti coloro che rientrano dal Nord ad avvisare il proprio medico di base. Ero pronta a farlo non appena arrivata. D’altronde si tratta di buon senso, nessuno di noi vuole mettere in pericolo la propria famiglia o i propri concittadini. Non fosse che adesso i miei concittadini sono talmente spaventati da scrivere cose orribili online. C’è anche chi dice che sarebbe meglio chiudere i confini della Puglia e non far tornare più nessuno. Che chi torna ed esce di casa deve finire in galera… Leggo queste cose e mi sembra assurdo. Qui a Milano vado in giro senza mascherina, faccio la spesa, prendo i mezzi pubblici (sempre con attenzione all’igiene), sto in compagnia dei miei amici. Perché dovrei tornare in Puglia ed essere trattata come un’appestata? Alla fine sono contenta che quel treno non sia partito. Per favore, siate prudenti ma non perdete la vostra umanità. Io alla fine, come tanti miei compagni, resto qui, dove forse non farò la mia vita di sempre per un bel po’, ma almeno sono più tranquilla. Ci rivediamo a Pasqua, se Dio vuole”.

(ANSA il 25 febbraio 2020) - Sono due gli italiani contagiati dal coronavirus a Tenerife: è risultata positiva al test anche la moglie del medico contagiato e già isolato nell'ospedale di Candelaria. Lo riferisce la Efe. L'uomo, proveniente dalla Lombardia, ieri si era recato in una clinica privata nel sud di Tenerife perché aveva la febbre. Dopo il primo test risultato positivo è stato trasferito all'ospedale di Candelaria e sta aspettando un secondo risultato del National Center for Microbiology del Carlos III Health Institute, che dovrebbe arrivare in serata. Clienti e lavoratori dell'hotel dove ha soggiornato nel comune di Adeje sono sotto sorveglianza sanitaria. Il resort ha informato i suoi clienti, secondo La Sexta, che l'hotel è sigillato e fino a quando le autorità sanitarie non daranno disposizioni contrarie devono rimanere nelle loro stanze. Mille persone in quarantena nell'hotel H10 Costa Adejie Palace, nella località di Adejie, dove si trovava alloggiato con la moglie il medico italiano risultato positivo al test del coronavirus a Tenerife. Lo scrive Diario de Avisos. Militari e forze dell'ordine impediscono alle persone presenti nell'hotel di uscire, così come al personale esterno di entrare nel complesso turistico. Ai turisti che si trovano nell'albergo H10 Costa Adeje Palace di Tenerife, dove alloggiava il medico italiano contagiato dal coronavirus, è stato chiesto di rimanere nelle loro stanze con una lettera infilata sotto la porta. "Cari ospiti, ci dispiace informarvi che per ragioni sanitarie l'hotel è stato chiuso. Fino a comunicazione delle autorità sanitarie, dovete rimanere nelle vostre stanze", si legge nella lettera.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 25 febbraio 2020. Viaggi sconsigliati e precauzioni particolari per gli italiani. Nonostante le misure per circoscrivere le zone del contagio e un sistema sanitario che sta reggendo, all'estero la psicosi si è già diffusa. Più del virus. Il blocco del treno al confine con il Brennero, domenica sera, è stato solo il primo episodio. Da Israele all'Irlanda, passando per la Serbia, la Bosnia e la Grecia, l'Italia è sconsigliata come meta. Anche l'europarlamento raccomanda a chi sia stato nelle regioni dove si è diffuso Covid-19 di mettersi in autoquarantena. Gli Usa alzano le misure di sicurezza: il nostro Paese è allo stesso livello di pericolosità di Hong Kong e Iran. La Francia chiede agli studenti che siano stati in Veneto o in Lombardia di rimanere a casa per 14 giorni. Ieri un volo Alitalia, partito da Roma e atterrato alle Mauritius con 300 passeggeri a bordo, è stato bloccato in aeroporto: in 40 sono tornati indietro. Ma casi simili si registrano un po' dappertutto, dalla Spagna, dove a 60 bambini italiani, residenti a Barcellona, è stato interdetto l'ingresso alla piscina comunale, alla Francia, con un pullman bloccato. Ieri per 60 bambini della scuola italiana di Barcellona non è stato un bel pomeriggio. Hanno tutti tra i 4 e gli anni 8 e non hanno potuto seguire la lezione di nuoto del lunedì alla piscina comunale, che frequentano abitualmente. Sono stati mandati a casa per precauzione. A poco sono serviti i pianti dei bambini e le proteste dei genitori. Sono dovuti tornare a casa. Dopo avere bloccato per alcune ore i 300 passeggeri, le autorità mauriziane hanno consentito lo sbarco solo a chi non proveniva da Veneto e Lombardia. Le autorità locali avevano previsto una quarantena di 14 giorni negli ospedali locali. In 40 sono tornati indietro, con la Farnesina che ha gestito l'emergenza con l'Ambasciata a Pretoria, competente per l'area. Ieri un autobus della compagnia Flixbus, partito da Milano e diretto a Lione, dove tra l'altro domani la Juventus e i suoi tifosi sono attesi per gli ottavi di Champions, è stato fermato e accompagnato all'ospedale. Una passeggera, allarmata da una forte tosse del conducente, ha chiamato la polizia, che ha fatto scattare il protocollo d'emergenza. All'arrivo in un'autostazione le autorità sanitarie hanno disposto un perimetro di sicurezza e hanno impedito a tutti di scendere per alcune ore. Nel frattempo sono scattati i controlli anche per le persone scese alla fermata precedente, Grenoble (il mezzo aveva fatto un primo stop a Torino). L'autista è stato poi trasportato in ospedale, ma in serata è risultato negativo al Covid-19. A Londra tre studenti sono stati «isolati» per 24 ore e poi riammessi al college senza essere sottoposti ad alcun controllo sanitario, nemmeno alla misurazione della febbre. A raccontarlo è stato Ettore, 17 anni, milanese, atterrato nella capitale del Regno Unito domenica: «Alle 18 - ha riferito - sono arrivato a Londra - spiega il giovane - all'aeroporto di Gatwick nessuno mi ha controllato la febbre». Al college ha normalmente mangiato in mensa, ma poi, all'improvviso e di corsa, è stato fatto allontanare dalla stanza che condivideva con un compagno e trasferito in una struttura. Erano in tre tutti italiani, i professori gli hanno lasciato la colazione fuori dalla porta. Sono rimasti isolati fino all'ora di pranzo, poi, senza nessuna misura o precauzione, gli è stato consentito di tornare in classe. Intanto le autorità irlandesi sconsigliano ai propri cittadini di recarsi in Italia, nelle zone maggiormente interessate dai casi di contagio di coronavirus. «C'è stato un aumento dei casi confermati di coronavirus in Italia», riferisce il ministero degli Esteri irlandese, aggiungendo che «ai cittadini è consigliato di non recarsi nelle aree interessate». La Grecia ha sospeso le gite scolastiche in Italia e sta facendo rientrare gli studenti che già si trovano nel nostro Paese. E la compagnia greca Aegean ha fatto sapere che i suoi voli da e per l'Italia non subiranno variazioni, ma se qualcuno desidera cancellare il viaggio in Italia, sarà rimborsato.

Da “la Stampa” il 25 febbraio 2020. L'Italia entra nella lista Usa dei Paesi a rischio per il coronavirus. Washington non chiede ai suoi cittadini di evitare il nostro Paese, ma suggerisce precauzioni a chi lo visita. I Centers for Disease Control and Prevention, la struttura federale che gestisce l' emergenza, hanno una graduatoria di allarme con tre gradini. Il livello 3 raccomanda a tutti di evitare i viaggi non essenziali, per ora solo in Cina. Il livello 2 sollecita anziani e malati a non andare in Giappone e Corea del Sud. Il livello 1 chiede precauzioni a chi va in Italia, Hong Kong e Iran: «I viaggiatori dovrebbero evitare contatti con persone malate e lavarsi spesso le mani, con sapone e acqua per almeno 20 secondi». Negli Usa sono stati accertati 14 casi, 12 legati a viaggi in Cina e 2 contagi da persona a persona; e 39 casi di rimpatriati già ammalati, 3 da Whuan e 36 dalla crociera sulla Diamond Princess. In totale, sono stati fatti 426 test. La dottoressa Nancy Messonnier, direttrice del National Center for Immunization and Respiratory Diseases ai CDC, e responsabile della risposta al Covid-19 in America, ha descritto così la situazione: «Non ci saremmo mai aspettati di prendere ogni viaggiatore con il coronavirus dalla Cina. Sarebbe impossibile. Non abbiamo ancora visto la diffusione negli Usa, ma è probabile, che avvenga. L' obiettivo resta il rallentamento dell' introduzione del virus negli Usa. Le misure adottate prevedono il divieto di ingresso per tutti gli stranieri provenienti dalla Cina, mentre gli americani che tornano devono sottoporsi a controlli e possibilmente alla quarantena di 14 giorni. È cominciata la "community surveillance", ossia il monitoraggio delle malattie respiratorie nelle singole comunità, per individuare i contagi da persona a persona non più legati ai viaggi in Cina.

Ingressi vietati, quarantena e isolamento: le restrizioni imposte agli italiani all’estero. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Il mondo mette in quarantena l’Italia. Con il perdurare della crisi sanitaria dovuta al coronavirus, cresce il numero dei paesi che da un lato introducono restrizioni per chi arriva dall’Italia e dall’altro sconsigliano di recarsi in una paese con focolai di infezione. Tutto questo mentre dal punto di vista politico l’Italia resta un osservato speciale e i vicini d’Europa oscillano tra offerte di aiuto e tentazione di limitare la circolazione con l’Italia. Ecco comunque un elenco dei provvedimenti adottati sino a oggi nei confronti dell’Italia (che si trova molto spesso accomunata ad altri Stati dove il contagio è in espansione come Cina, Corea del Sud, Iran).

*Giordania, Mauritius, Kuwait e Seychelles hanno vietato l’ingresso nel loro paese agli italiani. Alle compagnie aeree che volano in questi paesi è stato vietato di imbarcare passeggeri che siano stati in Italia nelle ultime due settimane.

* Brasile, Croazia e Lituania effettuano controlli sanitari a bordo degli aerei nei confronti di cittadini italiani. La Lituania limita la misura a chi proviene dalle quattro regioni ritenute a rischio (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia). In Croazia gli italiani che presentano febbre al loro ingresso nel paese vengono isolati per 14 giorni in ospedale. A tutti gli altri viene chiesto di sottoporsi a controlli sanitari quotidiani , sempre per due settimane.

* Bulgaria, Montenegro, Lettonia e Argentina si limitano a far compilare un questionario a chi arriva dall’Italia . I primi due Stati sottopongono i viaggiatori anche a un controllo medico.

* Egitto, Ucraina, Moldavia e Sudafrica si limitano a controllare la temperatura agli italiani in arrivo.

* La Romania ha disposto la quarantena per chi arriva dalle «zone rosse» di Lombardia e Veneto. Gli altri residenti nelle due regioni devono sottostare a una quarantena domiciliare volontaria.

* Israele sottopone a controlli medico sanitari costanti gli italiani (o chi è stato in Italia nei 14 giorni precedenti l’arrivo nel paese) che presentino sintomi compatibili con il Covid-19.

* La Gran Bretagna impone l’autoisolamento di 14 giorni a tutti coloro che arrivano dal Nord Italia e presentano sintomi anche leggeri della malattia. A chi arriva dalle due «zone rosse» (anche senza sintomi) viene imposto l’isolamento.

* Grecia, Irlanda e Croazia hanno infine sconsigliato ai loro cittadini di compiere vacanze o viaggi in Italia.

Le Pen mette nel mirino l'Italia: "Adesso chiudere le frontiere". Marine Le Pen si è detta possibilista sull'ipotesi di ripristinare le frontiere con l'Italia per evitare i contagi da coronavirus. Ora l'Europa teme la situazione italiana. Giuseppe Aloisi, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. C'era da aspettarselo: in Europa iniziano ad essere preoccupati per quello che sta avvenendo in Italia per via del Coronavirus. La prima a chiedere di controllare le frontiere che separano il resto d'Europa dal Balpaese è stata Marine Le Pen, che ha specificato come la sua richiesta sia valida soltanto nel caso di "situazione fuori controllo". La leader del Rassemblement National ha preso posizione nel corso di una puntata di Grand Jury RTL-LCI-Le Figaro, così come riportato dall'Adnkronos. Il fatto che i contagi certificati in Italia stiano aumentando di giorno in giorno, insomma, non lascia indifferenti Oltralpe. E le contromisure mediche da prendere nei confronti di chi supera i confini nazionali potrebbero salire di livello e di attenzione. Marine Le Pen, poi, ha rimarcato come Emmanuel Macron ed i suoi vertici esecutivi non si siano adoperati come dovrebbero a livello cautelativo. Si tratta più o meno dello stesso messaggio che Matteo Salvini sta inoltrando nei confronti del governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte. Il fronte sovranista è d'accordo sull'urgenza di disposizioni restrittive. E questa non è poi una così grossa novità. I virgolettati del vertice del lepenismo sono espliciti: "Oggi o domani serviranno forse dei controlli alle frontiere". Il timore di Marine Le Pen ci riguarda da vicino. Può aver influito la percezione che dalle nostre parti circolino dosi eccessive di quello che, sempre i sovranisti, chiamano "buonismo"? Non lo sappiamo con certezza. Di sicuro c'è che un esponente politico europeo ha ventilato l'ipotesi di alzare un bel muro, per nulla metaforico, che possa separare l'Italia dalla Francia. C'è una conditio sine qua non, ma intanto l'eventualità è stata posta. Il Coronavirus, che sui nostri territori è quantomeno comparso, non deve passare altrove: il messaggio di Marine Le Pen potrebbe essere il primo di una lunga serie. Sul trattato di Schengen, com'è noto, si discute. Il ministro della Salute Roberto Speranza, come ripercorso sempre dalla fonte sopracitata, si è schierato dalla parte di chi ritiene che una sospensione della libera circolazione non sia "giustificata dal punto di vista scientifico". Vedremo cosa decideranno le varie cancellerie. Intanto Macron potrebbe recepire l'invito della Le Pen. Con tutto quello che ne consegue. 

La Romania si cautela: "In quarantena chi torna da Lombardia e Veneto". Romania al lavoro per fronteggiare l'emergenza: "Se qualcuno proviene da un'area estremamente colpita, verrà messo in quarantena per 14 giorni". Luca Sablone, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. La Romania sta collaborando con l'Italia per rendere efficaci le misure adottate contro il Coronavirus: nel nostro Paese si contano oltre 130 contagi, con ben 5 regioni coinvolte. Perciò Raed Arafat, il ministro degli Interni rumeno, ha avvertito i concittadini rumeni presenti sul territorio italiano: "Se qualcuno proviene da un’area estremamente colpita, verrà messo in quarantena per 14 giorni. Questo deve essere compreso, anche se è asintomatico, al momento non è malato". Contestualmente verrà contattata anche la protezione civile italiana "per vedere le misure che applicano da applicare a noi". Uno dei fattori più importanti è quello relativo alla generazione dell'allarmismo e di panico: "Non c’è motivo di andare nel panico e salire in macchina o in aereo per venire qui". Tuttavia chi decide di lasciare l'area per tornare nel proprio Paese dovrà avvertire il governo: "Dovremo sapere su quale compagnia aerea arriva la persona, quando arriva nel Paese, poiché alcune misure saranno certamente applicate qui nel Paese, analizzeremo la situazione esistente".

Chi va in quarantena? Il Ministero della Salute della Romania ha fatto sapere che andranno in quarantena "le persone che arrivano in Romania dalle località colpite nella regione Lombardia e Veneto o che hanno viaggiato in questi le località" nelle ultime due settimane. Va sottolineato che al momento le autorità italiane non hanno segnalato casi di cittadini rumeni sintomatici con il nuovo Covid-19 ma, a a causa delle dinamiche del viaggio dei cittadini rumeni sulla terra e delle rotte aeree tra i due paesi, la Romania potrebbe essere maggiormente esposta ai casi di infezione: le nuove misure saranno trasmesse dal Ministero della Salute alle unità sanitarie e ai medici di famiglia, attraverso i dipartimenti di sanità pubblica della contea e del comune di Bucarest. Le misure per controllare e prevenire l'infezione saranno integrate nei punti di frontiera terrestri, marittimi/fluviali e aerei: dal Ministero competente hanno fatto sapere che "tutte le persone, le quali rientrano nella definizione di caso sospetto, saranno immediatamente segnalate da tutte le unità sanitarie in cui sono presentate (unità di emergenza, ospedali, medici di famiglia) ai dipartimenti di sanità pubblica e al Servizio di monitoraggio all'interno della DSU". In questi giorni il Ministero della Salute completerà il quadro legislativo con le misure necessarie per la quarantena e la gestione dei casi sospetti e confermati di infezione da Coronavirus. La campagna di informazione della popolazione, relativa alle misure di prevenzione individuali e collettive da adottare, sarà estesa e sarà elaborato un bollettino informativo giornaliero sull'evoluzione della situazione a livello internazionale e su eventuali misure aggiuntive adottate dalle autorità rumene. 

·         I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Quando i numeri si danno a casaccio. La comparazione tra i tamponi effettuati ed il numeri dei positivi non sono veritieri. I dati ufficiali, se da una parte sono carenti, dall’altra parte sono eccedenti:

si prendono in esame i tamponi effettuati da privati, che danno solo esito positivo, escludendo quelli con esito negativo;

per ogni soggetto si effettuano più tamponi procrastinati nel tempo, quindi si rilevano più positività per un singolo soggetto positivo.

Da quotidianosanita.it il 3 novembre 2020. Gentile Direttore, ogni giorno nell’aggiornamento dei dati giornalieri sul Covid-19 tra i dati del Ministero della Salute/Istituto Superiore di sanità costantemente riportati e rielaborati in tutti i sistemi “derivati” di monitoraggio (come quelli utilizzati dai media di settore o “generalistici”  o da social molto seguiti come “Pillole di ottimismo” su Facebook) ci sono quelli relativi ai nuovi casi (e quindi il numero di persone trovate per la prima volta positive al tampone riportato nella Tabella originale nella colonna “incremento casi totali”)  ed al numero di tamponi effettuati (riportato nella tabella originale nella colonna “incremento tamponi”). Prendiamo i dati di ieri 2 novembre: ci sono stati in Italia 22.253 nuovi casi e 135.731 tamponi. Automaticamente viene calcolato in molti sistemi “derivati” il rapporto positivi/tamponi che sistematicamente cresce (ad esempio ieri è stato di 21,9 contro il 21,7 del giorno prima). E ovviamente questo dato viene assimilato ad un dato negativo che testimonia della maggiore circolazione del virus. In realtà si tratta di un indicatore fuorviante che così com’è non andrebbe usato o comunque molto meglio descritto ed interpretato. Perché mette in un unico calderone dati di diversa provenienza e completezza come evidenzierò tra poco. Premesso che il disciplinare tecnico che regolamenta il flusso dei tamponi è difficile da trovare (e non dovrebbe esserlo), lo si può ricostruire in base ad alcune ricostruzioni empiriche che partono da una analisi del modello organizzativo delle attività di laboratorio che “generano” il dato sui tamponi (ovviamente di quelli ritenuti validabili dai Servizi di Prevenzione e quindi eseguiti con tecnica molecolare in laboratori autorizzati dalle Regioni). I tamponi vengono per lo più eseguiti all’interno di tre percorsi: quello delle nuove diagnosi in persone con sintomi compatibili o contatti di casi, quello del  monitoraggio dei casi ai fini del calcolo dei “guariti” e quello dello screening spesso su base volontaria da persone che vogliono sapere se sono  infette o meno. I primi due percorsi sono gestiti per lo più da laboratori pubblici, mentre il terzo vede un coinvolgimento imponente dei laboratori privati autorizzati dalle Regioni. Cosa succede? La mia ricostruzione in base alla situazione delle Marche, che conosco bene, è che mentre i nuovi casi positivi diagnosticati dai privati finiscono appunto tra i nuovi casi e confluiscono nel numeratore del rapporto positivi/tamponi, il numero totale di persone esaminato dai privati (che comprende anche i negativi) non entra nel denominatore falsando l’andamento del rapporto. Ma non è finita qui. Il denominatore ha invece dentro anche i dati dei tamponi di monitoraggio  che non c’entrano niente coi nuovi casi. Un denominatore (o un suo pezzo) che non genera numeratore non va incluso nel calcolo di un rapporto. Facciamo una verifica coi dati Ministero/ISS del 29 ottobre relativi alla Regione Marche che confrontiamo con l’elaborazione più analitica che ha fatto coi dati dello stesso giorno la Regione Marche. Scegliamo questo giorno perché sta in mezzo alla settimana e rappresenta più fedelmente la situazione. I dati di Ministero e Regione coincidono: 686 casi e 3.915 tamponi. Ma quello della Regione Marche è più analitico e ci dice che in realtà i nuovi casi sono stati “generati” da soli 2.372 tamponi (quelli relativi al cosiddetto percorso nuove diagnosi) e che quel numero 3.915 ha dentro anche i tamponi del cosiddetto percorso guariti ovvero quello che riguarda il monitoraggio dei “vecchi” casi. Ma non è finita qui. I tamponi del percorso diagnosi includono quelli dei laboratori privati solo quando positivi, mentre quelli negativi sempre più numerosi non vengono verosimilmente conteggiati.

Risultato: il rapporto positivi/tampone del monitoraggio ministero/ISS per quanto riguarda le Marche al denominatore conta tamponi in più di un tipo che non ci dovrebbero stare e dall’altra manca dei tamponi dei privati che ci dovrebbero stare. Se non si fa chiarezza è legittimo e credibile pensare che almeno parte dell’incremento quotidiano del rapporto positivi/tamponi sia sovrastimato visto il numero fortemente crescente dei tamponi fatti dai privati. Soluzione: migliore gestione del flusso. Claudio Maria Maffei,  Coordinatore scientifico di Chronic-on

Da ilmessaggero.it il 18 dicembre 2020. Un test molecolare che distingue il Covid dall'influenza: è la nuova soluzione lanciata da Menarini Diagnostics, che permetterà di distinguere in base ai sintomi. Raffreddore, febbre e tosse: sono sintomi simil influenzali, di cui il nuovo test sarà in grado di stabilire l'origine. Grazie a una diagnosi precisa e con un unico tampone, il paziente sarà in grado di sapere se è positivo o meno al nuovo coronavirus, e nell'arco di 20 minuti. In caso di negatività, il nuovo molecolare sarà anche in grado di stabilire se il paziente ha contratto l'influenza di tipo A o B.

Il kit. Grazie alla piattaforma VitaPCR, che è un Point of Care (uno strumento portatile) già disponibile in centinaia di strutture in tutta europa, sarà possibile effettuare il nuovo tipo di tampone. Il nuovo kit sarà quindi in grado di identificare - grazie a degli appositi reagenti - la presenza dell'Rna del Covid, come anche quello degli altri virus influenzali. La tecnologia impiegata nel nuovo test molecolare è basata sul Pcr (Polymerase Chain Reaction) e garantisce un'elevata attendibilità. Secondo Menarini, questo tipo di test molecolare sarà in grado di evitare numerosi disagi alle persone, in quanto si potranno impedire numerosi casi di isolamento domiciliare. Marcato con il logo CE, il nuovo test molecolare anti Covid è stato reso disponibile da Menarini Diagnostics in Italia, Austria, Belgio, Germania, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Gran Bretagna.

Come funziona. «Nei prossimi mesi vedremo un aumento di persone con sintomi simil-influenzali che potrebbero essere attribuiti sia a un’infezione da SARS-CoV-2 che all'influenza A e B. Questo test è di fondamentale importanza per l’immediata diagnosi e per offrire tempestivamente ai pazienti il trattamento più adeguato, così Fabio Piazzalunga, il General Manager di Menarini Diagnostics. Quanto al test, una volta prelevato un campione dal naso con un comune tampone, questo viene inserito in un flaconcino con un liquido, poi in un altro flacone col reagente e poi viene inserito nel sistema VitaPCR™. L'analisi viene conclusa entro 20 minuti e lo strumento rilascerà sul display il risultato con il nome della patologia rilevata.

Covid, per la diagnosi arriva l'ecografo intelligente del Cnr: responso in 3-4 minuti. Cenzio Di Zanni su La Repubblica l'11 dicembre 2020. Il progetto dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Lecce: è sufficiente una semplice ecografia del torace, con la sonda posizionata in 14 punti ben definiti, con polmonite oppure con polmonite da Covid-19. Funziona così: è sufficiente una semplice ecografia del torace, con la sonda posizionata in 14 punti ben definiti, poi l'intelligenza artificiale passa al setaccio migliaia di immagini di ecografie eseguite su altrettanti pazienti - sani, con polmonite oppure con polmonite da Covid-19, ma tutte già caricate nel software - "e in tre o quattro minuti arriva la diagnosi", assicura Marco Di Paola, 54 anni, ricercatore dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Lecce (Ifc-Cnr). Si chiama EcovidUs, ha un'affidabilità superiore al 90 per cento ed è l'ecografo intelligente sviluppato dagli scienziati salentini che promette di rivoluzionare la diagnosi del Covid. Anche su pazienti asintomatici: "Perché spesso - spiega Di Paola - il virus compromette i polmoni in silenzio e quando arriva la fame d'aria può essere troppo tardi. I medici la chiamano ipossia felice e questo strumento è in grado di intercettarla in pochi minuti".

Gli altri vantaggi. Ce ne sono diversi, secondo i ricercatori salentini. A cominciare dalla relativa semplicità nell'uso dello strumento. Perché sia per la diagnosi e sia per l'esecuzione dell'esame non servono né uno specialista in radiologia né un tecnico esperto, e non è cosa da poco vista la penuria di specialisti in circolazione. Quel che conta è una breve formazione - "soprattutto su dove posizionare la sonda" - e l'ecografia può essere portata a termine anche da un infermiere, un operatore del 118 o ancora dal medico di famiglia, per esempio. A tutto il resto pensano EcovidUs e il suo algoritmo. È il cuore del sistema che sovrappone le immagini catturate dalla sonda alle migliaia di ecografie già acquisite nella banca dati. EcovidUs le confronta in rapida successione ed è capace di stabilire se quello appena analizzato è un polmone sano, un organo affetto da una polmonite che non ha nulla a che fare con il virus, oppure se in quel polmone ci è finito il Coronavirus. Dunque se c'è o meno la temuta polmonite interstiziale da Covid-19. Il tutto in meno di cinque minuti. "L'algoritmo è capace di riconoscere e classificare le lesioni del polmone, la loro progressione nel tempo a seconda dello stadio della malattia e quindi la loro gravità. E lo fa con un'affidabilità superiore al 90 per cento, di gran lunga superiore al tampone molecolare", commenta il dottor Di Paola. 

L'idea e lo sviluppo. EcovidUs è stato messo a punto nei mesi della prima ondata della pandemia. Per arrivarci gli scienziati salentini del Centro nazionale delle ricerche sono partiti da un altro ecografo. "È quello che avevamo costruito per i reparti di ostetricia e ginecologia, in grado di valutare l'evoluzione del travaglio", annota Di Paola. Il software e la tecnologia sono sempre gli stessi. Nel primo caso le immagini che il cervellone era chiamato - anzi, è chiamato - a confrontare sono quelle di precedenti ecografie eseguite su donne in procinto di partorire. "Di solito - spiega ancora Di Paola - sono le ostetriche a valutare i tempi del parto con una valutazione soggettiva". Invece la macchina dell'Ifc-Cnr riduce i margini di errore. Si parte sempre da un'ecografia. La stessa con la quale "lo strumento rileva il feto, la rotazione e l'angolo di progressione". Poi le immagini vengono sovrapposte a migliaia di altri esami del genere fino a quando l'algoritmo capisce quanto manca al parto, se sarà naturale, se serve stimolarlo, oppure - continuano da Lecce - se è il caso di intervenire con un taglio cesareo. 

Le prove. "In quel caso il lavoro dell'ecografo è stato validato da un luminare nel campo dell'ecografia intrapartum come il professor Tullio Ghi, dell'Università di Padova". Questa volta il ragionamento del cervellone è stato supervisionato da specialisti esperti nell'ecografia polmonare che lavorano in diversi ospedali italiani, dal Piemonte all'Emilia-Romagna. L'ok è arrivato quando su oltre 500 pazienti analizzati, fra quelli sani e quelli con polmonite, lo strumento ha dimostrato di azzeccare la diagnosi nel 92 per cento dei casi. Ecco perché il verdetto automatico è considerato molto attendibile: "La sensibilità e la specificità della macchina è altissima", scandisce Di Paola. EcovidUs, prodotto da Amolab, uno spin-off del centro di ricerca salentino, è già all'opera al Dea di Lecce, il Dipartimento di emergenza e accettazione all'ospedale Vito Fazzi. Lì arriveranno altri tre esemplari. Come gli altri funzionano a batteria, sono semplici da usare e aprono uno scenario nuova nella lotta al Covid.

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 2 dicembre 2020. Essere positivi al Covid senza saperlo, o credere di avere fatto un regolare tampone molecolare mentre invece il bastoncino infilato nel naso e nella bocca non ha rilevato proprio nulla e magari è costato più del prezzo del suo valore. La nuova frontiera del falso passa per l'ambito sanitario perché in tempo di Coronavirus c' è chi riesce a speculare perfino sulla malattia, promette test sierologici che invece non hanno alcuna attendibilità, non rilevano anticorpi e non servono per monitorare la curva del contagio, casomai solo per arricchire chi li ha messi in commercio spacciandoli per veri, come i 123 kit antigenici cinesi venduti in erboristeria o i reagenti scaduti, da buttare. Sono tante e variegate le bufale scovate dai carabinieri del Nucleo antisofisticazioni e Sanità in questi mesi di verifiche in 285 laboratori di analisi privati e convenzionati con il Ssn. In ben 67 centri i militari hanno riscontrato irregolarità contestando 94 violazioni penali e amministrative, per un ammontare di 145mila euro di sanzioni pecuniarie. Di fatto un centro su 4 ha registrato illeciti: il 60% attribuibile all' inosservanza di norme sul contenimento epidemico. Nel dettaglio, tra i falsi più clamorosi, è stato rilevato il mancato possesso delle autorizzazioni necessarie per svolgere prelievi ematici e biologici, oltre a test abusivi effettuati in ambienti non idonei (15% delle violazioni). Per quanto riguarda l' omessa o ritardata comunicazione dei positivi, il dato è risultato pari al 14% rispetto alle sanzioni rilevate, cioè in pratica chi era infetto non l' ha saputo e quindi non si è isolato come avrebbe dovuto ma ha continuato ad andare in giro, al lavoro, in mezzo alla gente come se niente fosse diffondendo a chiunque i suoi droplets (le goccioline della saliva) con il rischio d' incappare nel reato di epidemia colposa. Nell' 11% delle volte i Nas hanno trovato locali poco igienizzati o strumenti sporchi: tutto il contrario della sanificazione attenta che viene prescritta da marzo a questa parte per evitare di ammalarsi. Addirittura in un caso è stata avviata una campagna di screening della popolazione, affidata da alcuni Comuni ad un laboratorio, senza alcuna comunicazione preventiva all' Autorità sanitaria. Le violazioni riguardano un po' tutte le regioni, dal Lazio alla Calabria, dalla Lombardia all' Emilia Romagna. A Bologna, ad esempio, il titolare di un laboratorio si è visto multare per 10mila euro: aveva pubblicizzato on-line un dispositivo medico diagnostico in vitro senza avere l' autorizzazione ministeriale. A Catania 5 strutture non ottemperavano alle procedure obbligatorie d' inserimento dei risultati nella piattaforma regionale. A Latina il legale responsabile e il direttore tecnico di un laboratorio sono stati deferiti all' autorità giudiziaria poiché ritenuti responsabili di aver falsamente attestato alla Regione Lazio l' esecuzione di test al prezzo convenzionato, richiedendo invece agli utenti una somma superiore. Peggio è andata a un loro collega di Lecce il quale continuava a fare tamponi senza avere i requisiti. I Nas hanno disposto la chiusura dell' ambulatorio. Un filone a parte riguarda poi migliaia di tamponi effettuati dall' inizio del campionato di Serie B ai calciatori del Monza su cui indaga la Dda di Milano. Sono stati processati in una clinica che ha sedi a Lodi e Pavia dove ieri i Nas hanno sequestrato vari documenti. Soddisfatto il ministro della Salute, Roberto Speranza: «In questo momento di duro contrasto al Covid non sono ammissibili irregolarità nella somministrazione dei test diagnostici che hanno un impatto immediato sulla salute dei cittadini e della collettività».

(ANSA il 2 dicembre 2020) - Il Nas dei carabinieri di Padova ha sequestrato 350 test rapidi del valore commerciale all'ingrosso di 10.000 euro. L'esito dell'operazione è frutto delle attività di controllo sulla regolarità nello svolgimento delle analisi per la ricerca del Covid-19, che ha portato a 285 ispezioni, tra laboratori di analisi, punti prelievo e strutture di svolgono attività diagnostica clinica. Inoltre, gli interventi sono stati indirizzati anche su attività abusive ed esercizi estemporanei, come profumerie ed erboristerie, che detenevano illegalmente per la vendita ai propri consumatori kit per l'analisi sierologica, peraltro destinati solo all'uso professionale. Il Nas ha individuato, mediante accertamenti anche on-line su social network , un canale di distribuzione di dispositivi medici diagnostici in vitro, gestito da un importatore e grossista cinese, residente nell'alto vicentino. Il successivo intervento ha consentito di individuare l'introduzione nel territorio nazionale di dispositivi medici, di produzione cinese, destinati alla ricerca sierologica anticorpale del Covid-19, ad uso non autodiagnostico, da avviare alla successiva vendita non ufficiale a svariati destinatari, tra cui esercizi commerciali (come bar) e cittadini

Viaggi e Covid, l'agenzia e i tamponi negativi (con certificato) senza fare il test. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Ci sono paesi che richiedono un tampone negativo per poter entrare. Luigi Pelazza ci porta a conoscere una particolare agenzia di viaggi a Napoli che sembra proprio fornisca ai suoi clienti certificati di negatività falsificati ad hoc. Dopo il nostro intervento, arrivano anche i Carabinieri che chiudono l'agenzia! Agenzia viaggi che vende anche tamponi falsi per il Covid? Possibile. In seguito alla pandemia ogni stato ha adottato misure diverse per gli ingressi. Tunisia, Marocco, Algeria chiedono il certificato del tampone molecolare fatto entro le 72 ore prima della partenza. Molte agenzie viaggio prevedono anche questo servizio di prenotazione presso gli ambulatori. Luigi Pelazza ne ha scoperta una di Napoli che sembra fare la furbetta. Un nostro complice nordafricano finge di voler partire per la Tunisia. Chiede un volo e la possibilità di fare il tampone pagando solo per questo 70 euro. “Gestiamo tutto noi di qua”, assicurano dall’agenzia. Cioè senza che il nostro gancio si sottoponga realmente a un test. Ma per essere certi chiede se deve andare da qualche parte: “Non è necessario”, gli rispondono. Qualche giorno dopo passa in agenzia per ritirare i biglietti e il certificato del test, senza che nessuno si sia mai sottoposto al tampone. Quindi è tutto falso. Dopo aver documentato tutto con le nostre microcamere, Luigi Pelazza va in questa agenzia. “Noi collaboriamo con un laboratorio accompagniamo lì i clienti”, rispondono. Ma quello che abbiamo registrato nei giorni prima dice altro. Intanto i carabinieri controllano l’attività e trovano una quarantina di certificati provenienti dallo stesso laboratorio. Dopo i controlli l’agenzia viaggi è stata posta sotto sequestro.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 15 ottobre 2020. “Roby, tu hai fatto il test?”. “No, io faccio solo le musiche, il testo l’ha fatto Stefano D’Orazio”. Il meraviglioso e surreale botta e risposta è andato in scena a Stasera Italia durante uno scambio di battute tra Barbara Palombelli e Roby Facchinetti. Una chiacchierata disturbata da problemi di collegamento, ma che proprio per questo motivo ha regalato il momento decisamente più divertente della serata. “È bellissimo, non ci siamo capiti, con questo andremo su Striscia, è una gag che nemmeno se ce la fossimo scritta…”, ha commentato la Palombelli, brava nell’uscire immediatamente dall’imbarazzo. Pochi minuti prima la conduttrice aveva parlato con l’ex componente dei Pooh del brano ‘Rinascerò, Rinascerai’, realizzato in pieno lockdown assieme a Stefano D’Orazio. Un atto d’amore per la sua Bergamo che la padrona di casa ha voluto nuovamente celebrare. Cambiando argomento, dal rientro da un servizio, Facchinetti non ha però colto il riferimento al tema dei tamponi, credendo che si stesse ancora parlando della canzone. Una gaffe su cui lo stesso cantante ha successivamente ironizzato.

ESCLUSIVO TPI il 26 ottobre 2020: “CHE ME NE FOTTE, IO GLI FACEVO IL TAMPONE GIÀ USATO E GLI DICEVO… È NEGATIVO GUAGLIÒ”. LA TRUFFA DEI TEST FALSI CHE HA FATTO CIRCOLARE MIGLIAIA DI POSITIVI IN CAMPANIA. Le intercettazioni che rivelano la mega-truffa che ha messo a rischio la salute di migliaia di cittadini inconsapevolmente positivi, vittime di un sistema che forniva loro risultati falsi di tamponi Covid, con il rischio concreto che, circolando liberamente, potessero infettare a loro volta tutte le persone con cui entravano in contatto. “Io gli facevo il tampone e lo mettevo su una striscetta già usata e non gli dicevo niente. Non attendevo nemmeno i 20 minuti e dicevo: è negativo guagliò, tutto a posto! Capito? Tanto io già so che quella striscetta è negativa quindi non tengo il rischio. (…) Che me ne fotte… Nella sua testa lui è negativo. Se pure fosse stato positivo già avrebbe fatto i guai… Che me ne fotte a me”. Queste le parole di uno dei componenti della banda criminale che per mesi ha svolto tamponi falsi in Campania mostrate in esclusiva in un'inchiesta di The Post Internazionale (TPI.it) a firma di Amalia De Simone.

Esclusivo TPI il 26 ottobre 2020 - Una testimonianza chiave che rivela la mega-truffa che ha messo a rischio la salute di migliaia di cittadini inconsapevolmente positivi, vittime di un sistema che forniva loro risultati falsi di tamponi Covid, con il rischio concreto che, circolando liberamente, potessero infettare a loro volta tutte le persone con cui entravano in contatto. “Anche io ho contratto il Covid ma mia zia è stata ricoverata per più di un mese. Quando ha fatto il tampone privato già aveva i sintomi. Risultò negativo, ma mia zia stava male e così la portammo all’ospedale di Pozzuoli. Lì le rifecero il tampone e risultò positivo, la tennero un giorno in uno stanzino e poi la trasferirono all’ospedale Loreto Mare perché al Cotugno non c’era posto”. Così la nipote della signora Maria, 82 anni, una delle migliaia di persone truffate dall'organizzazione criminale che per mesi ha lucrato sulla pelle dei cittadini campani attraverso la vendita di tamponi falsi, in un'intervista esclusiva al giornale online The Post Internazionale (TPI.it).

Michele Bocci per repubblica.it il 14 dicembre 2020. I test rapidi antigenici potranno fornire la diagnosi definitiva di infezione da coronavirus, senza che ci sia bisogno di avere la conferma dei “tradizionali” tamponi molecolari. Il ministero della Salute ha pronta la circolare con la quale viene introdotto un cambiamento significativo per la strategia del testing. Del resto l’Ecdc, lo European center for disease control (il centro per il controllo delle malattie infettive), ha cambiato la definizione di caso di infezione. Tra le altre tipologie, contempla anche quella diagnosticata appunto attraverso l’esame antigenico, che dal punto di vista del prelievo è identico al tampone. Quando, nel giro di qualche giorno, verrà firmata la circolare, i test rapidi entreranno intanto nel conteggio quotidiano della Protezione civile. Oggi si osservano solo i tamponi molecolari, il cui numero nell’ultimo periodo è calato. A novembre venivano anche superati i 250mila tamponi al giorno (le Regioni ne hanno fatti ad esempio 254.908 il 13 e 250.186 il 19) mentre più di recente si è scesi anche abbondantemente sotto i 200mila. Non è solo l’effetto della riduzione della circolazione del virus. Ci sono zone del Paese dove l’uso dei test antigenici è ormai diffusissimo. Ad esempio in Veneto certi giorni sono tanti quanti i molecolari. I rapidi però non vengono conteggiati, malgrado le tante richieste in questo senso avanzate dalle Regioni nei giorni scorsi, nel report quotidiano della Protezione civile. Così la percentuale dei positivi rispetto al numero di test effettuati, considerata molto importante per valutare l’andamento reale dell’epidemia, è falsata. Sarebbe infatti molto più bassa se si contassero anche gli antigenici, come appunto dovrebbe avvenire nei prossimi giorni. Un’altra conseguenza importante della circolare è quella di non rendere più necessario, di fronte a un antigenico positivo, fare il tampone molecolare di conferma, procedura che invece è prevista adesso. Questo intanto riduce l’attesa da parte del cittadino, poi libera kit per esami che possono essere utilizzati per altre persone, abbassando così i tempi anche per loro. Nella circolare dovrebbe essere anche previsto che il test rapido possa servire a dichiarare conclusa l’infezione, cioè sarà usato anche per chi è stato contagiato e deve terminare il periodo di quarantena.

Diodato Pirone per ''Il Messaggero'' l'11 ottobre 2020. Di fronte all'aumento delle velocità di circolazione del coronavirus come si fa a capire se si è contagiati o meno? Ad oggi sono quattro i metodi più diffusi. Ma va subito detto che su questo fronte sono in arrivo molte novità tecnologiche che - quando saranno validate dalle autorità sanitarie, in alcuni casi nel giro di poche settimane - renderanno alcuni tipi di controllo facili e veloci. Nei giorni scorsi lo Spallanzani di Roma ha fatto una fotografia degli strumenti attualmente a disposizione che vanno dall'ormai famosissimo tampone ai test della saliva o salivari. Eccone punti di forza e di debolezza.

IL TAMPONE. È il test attualmente più affidabile. Viene prelevato con una sorta di cotton-fioc molto lungo che si infila nel naso e nella bocca. Il materiale raccolto dai bastoncini (che generalmente sono prodotti in stabilimenti italiani) viene analizzato attraverso metodi chimici che amplificano i geni del virus. E' importante sapere che i tamponi vengono analizzati solo in laboratori specializzati generalmente pubblici (solo alcune regioni, tra cui Lazio e Campania, hanno da poco aperto ai privati) indicati dalle autorità sanitarie. Questi laboratori in alcuni casi dispongono di macchinari molto costosi prodotti in particolare in Olanda e Germania in grado di processare migliaia di tamponi al giorno. L'analisi in media richiede dalle due alle sei ore.

TEST RAPIDO. Per questo tipo di controllo è previsto un prelievo molto simile a quello del tampone normale. Per il rapido non vengono cercati i geni del virus bensì le sue proteine (antigeni). I tempi di risposta sono molto brevi (circa 15 minuti), ma la sensibilità e specificità di questo test sono inferiori a quelle del test molecolare. Questo tampone rapido, è stato recentemente introdotto per le situazioni, per esempio nello screening dei passeggeri negli aeroporti, dove è importante avere una risposta in tempi estremamente brevi. Il test del sangue (o immunologico) verifica la presenza nel sangue degli anticorpi che il sistema immunitario del nostro corpo produce automaticamente per combattere l'infezione, la loro tipologia (IgG, IgM, IgA), ed eventualmente la loro quantità.

TEST SIEROLOGICI.  Il sierologico fa capire se si è entrati in contatto con il virus, ma non può far capire se l'infezione è in corso oppure no. Questo test richiede un prelievo di sangue e viene effettuato presso laboratori specializzati. I test sierologici rapidi si basano sullo stesso principio di quelli classici, ma sono semplificati. Inoltre non sempre sono affidabili. La Gran Bretagna in primavera ne ha acquistato alcuni milioni da una azienda cinese ma poi ha deciso di distruggerli perché inefficaci all'atto pratico.

TEST SALIVARE. Recentemente sono stati proposti test che utilizzano come campione da analizzare la saliva. Come per i tamponi, anche per i test salivari esistono test di tipo molecolare (che rilevano cioè la presenza nel campione dell'RNA del virus) e di tipo antigenico (che rilevano nel campione le proteine virali) e danno risposte solo di tipo qualitativo, dicono cioè soltanto se nell'organismo sono presenti gli anticorpi. Sono utili soprattutto nelle scuole per selezionare casi da sottoporre al tampone classico.

TAMPONCINO. Infine nell'ospedale di Treviso, in Veneto, è in corso la sperimentazione di un tipo di tampone antigenico rapido validato dalle autorità sanitarie americane. Questo tamponcino, più corto del cotton fioc legato al tampone classico, può essere manovrato direttamente dal paziente («E' come mettersi le dita nel naso», spiegano i medici) e può essere analizzato da un macchinario che costa solo mille euro e che dà risposta nel giro di dieci minuti. La validazione italiana di questa soluzione è però ancora in corso.

Dagospia il 16 ottobre 2020. Il dottor Massimo Finzi su Facebook: A complicare il quadro delle notizie sulla pandemia Covid 19 irrompe il gene N. Cosa è, cosa significa, cosa fare? Solitamente il tampone nasofaringeo per covid identifica tre geni: gene E, gene RdRP e gene N. Quando la positività si manifesta solo sul gene N iniziano i dubbi e le incertezze perché il significato da dare alla positività del gene N è argomento di acceso dibattito nella comunità scientifica che non ha espresso parere unanime.  Il gene N non è specifico del covid-19 ma appartiene anche ad altri coronavirus responsabili delle comuni affezioni rinofaringee stagionali. Pertanto la positività al solo gene N non conferma la presenza del covid-19 ma neppure la esclude. Ovviamente se il soggetto positivo al gene N è stato in stretto contatto con un positivo accertato, le probabilità che si tratti di covid-19 aumentano. In via precauzionale dobbiamo trattarlo al pari di un positivo ripetendo il tampone al 10 giorno aggiungendo magari un sierologico. Non vanno messi in quarantena i suoi contatti per i quali la norma in vigore non prevede l’esecuzione del tampone anche se sarebbe opportuno, in via precauzionale, sottoporli almeno al test rapido.

Coronavirus, c'è l'accordo tra le Regioni e i medici di base per i tamponi rapidi. Siglato l'accordo tra le Regioni e i medici di base e pediatri per la diagnosi del coronavirus con tamponi rapidi con l'obiettivo di alleggerire gli ospedali. Francesca Galici, Martedì 27/10/2020 su Il Giornale. C'è l'accordo delle Regioni con i medici di base e i pediatri per snellire le operazioni diagnostiche sui possibili contagi e sui controlli. L'obiettivo è quello di accelerare le pratiche che, in questi giorni, stanno congestionando la filiera del tracciamento dei contagi ds coronavirus. "Da domani l'esecuzione in modo rapido e in piena sicurezza dei test antigenici di accertamento del Covid è potenziato dal fondamentale contributo dei medici di medicina generale e con quelli dei pediatri", afferma il Presidente del Comitato di Settore Regioni Sanità. Questa decisione è frutto di un accordo sottoscritto in queste ore con le rappresentanze sindacali di categoria per rafforzare la presenza sul territorio degli operatori preparati a far fronte all'emergenza, in modo tale da alleggerire la pressione sulle strutture sanitarie. Coinvolgendo la medicina di territorio, che a causa dei tagli alla sanità si è dimostrato essere l'anello debole della catena anche nel corso della prima ondata, si punta a rendere più efficiente il sistema di diagnostica. Ma soprattutto, l'obiettivo è ridurre le occasioni di contagio negli ospedali. La corsa al pronto soccorso di questi giorni, denunciata dai medici soprattutto in Lombardia, dovrebbe essere mitigata dall'intervento dei medici di base e dei pediatri. Nelle ultime ore è stato preparato anche un tariffario per i costi dei tamponi rapidi per il coronavirus eseguiti presso i medici di base o le Asl sul territorio. Effettuare un tampone rapido dal proprio medico di base, nel suo studio, infatti, avrà un costo di 18 euro, mentre se sarà effettuato presso una delle strutture della Asl avrò un costo di 12 euro. Questi costi non saranno a carico dei cittadini ma dello Stato. Per questo motivo, sono stati finora stanziati 30 milioni di euro per far fronte alle richieste che nei prossimi giorni inizieranno a pervenire ai medici.

I governatori a Speranza: "Tamponi solo ai sintomatici". L'allarme circolava già nei giorni scorsi, ma nelle scorse ore era stato lanciato con forza da Bertolini, responsabile del Coordinamento Covid-19 per i reparti dei pronto soccorso lombardi: "I pronto soccorsi della Lombardia, così come di altre aree d'Italia, sono in grande difficoltà. Mi riferisco soprattutto alle aree di Milano, Monza e Brianza e Varese". C'è grande soddisfazione nelle Regioni per il risultato raggiunto. "Ora il nostro Paese ha un strumento in più da utilizzare per contrastare la diffusione del Covid-19", ha dichiarato Stefano Bonaccini, governatore dell'Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni. "Ormai su larga scala sono coinvolte diverse categorie di operatori sanitari, che meritano sempre il nostro ringraziamento per la loro professionalità e dedizione", ha proseguito Bonaccini, sicuro che questa sia la strada giusta da percorrere.

Regola dei tamponi stravolta: uno solo per essere guariti. Non più due tamponi negativi per porre fine alla quarantena. E l'isolamento fiduciario scende a 10 giorni. Federico Garau, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. Dietrofront da parte del governo col supporto dell'oramai celebre Comitato tecnico scientifico: non saranno infatti più necessari due tamponi negativi per poter certificare la guarigione di un paziente affetto da Covid-19 e mettere di conseguenza fine al periodo di quarantena a cui lo stesso viene di norma sottoposto. La decisione, che mischia ancora una volta le carte in tavola, se mai non si fosse capito che di certo non c'è nulla e che si va avanti a ipotesi, tentativi e Dpcm oramai da marzo, è stata presa al termine di una lunga riunione che ha avuto luogo nel pomeriggio di oggi ed ha visto la partecipazione, per l'appunto, dei membri del Comitato tecnico scientifico e ovviamente anche quella del ministro della Salute Roberto Speranza. Proprio quest'ultimo sarebbe stato un elemento determinante al raggiungimento di una decisione del genere, verso la quale aveva spinto, secondo quanto riferito da Repubblica. Una scelta che comporterà delle variazioni significative nella gestione complessiva della pandemia, dei tempi di quarantena e degli esami medici a cui sottoporsi per poter dire di essere usciti dal "tunnel" del Covid, visto che sarà sufficiente risultare negativi esclusivamente a seguito di un unico tampone naso-faringeo. Probabile che a spingere anche il ministro Roberto Speranza verso questa decisione sia risultata determinante l'intenzione di evitare la pressione della situazione tamponi sul sistema sanitario nazionale e l'ingorgo inevitabile conseguente all'incremento del numero di contagi registrato in questi ultimi giorni lungo lo Stivale. In secondo luogo, una scelta del genere permetterebbe di liberare i cosiddetti "guariti" in tempi più rapidi, anche perché spesso accade, a causa di falsi positivi o falsi negativi, che i tamponi in sessione possano presentare a distanza degli esiti diametralmente opposti. Una soluzione che tuttavia, nel caso in cui il primo tampone dopo l'eventuale quarantena sia un falso negativo, rimetterebbe in circolazione un potenziale portatore del virus, se in realtà ancora positivo. Oltre a ciò, come spiegato anche da Repubblica, verrà a ridursi anche il numero di giorni di isolamento precauzionale previsti per tutti coloro che sono entrati in contatto con un soggetto affetto da Covid-19: al termine della riunione del Cts si fa ora riferimento a soli dieci giorni. Infine Il Cts, a quanto si apprende, ha dato indicazione perché anche i medici di base e i pediatri possano fare i tamponi.

Tampone coronavirus: dove farlo e quanto costa. Antonio Cosenza il 26 Agosto 2020 su money.it. Dove fare il tampone per accertare se si è positivi al coronavirus? In Italia stanno risalendo i contagi e l’unico modo per contenere i focolai ed evitare una seconda ondata è quello di effettuare più tamponi possibili così da isolare i pazienti contagiati. A tal proposito, specialmente chi torna dalle vacanze si chiede dove è possibile effettuare il tampone per accertare se, complici gli assembramenti della movida, si è venuti a contatto con il coronavirus. È bene ricordare che ad oggi è obbligatorio sottoporsi al tampone solamente per chi arriva da uno dei seguenti Paesi: Croazia, Grecia, Malta e Spagna. In tal caso il tampone va effettuato nel Paese di provenienza entro le 72 ore precedenti al rientro in Italia, o comunque entro le 48 ore successive all’ingresso nel territorio nazionale. Visto il boom dei contagi accertati negli ultimi giorni, inoltre, è consigliato il tampone per chi torna dalle vacanze in Sardegna. Sempre più italiani, quindi, sentono la necessità di sottoporsi al tampone, specialmente i più giovani che nei giorni scorsi hanno frequentato discoteche o luoghi affollati che poi si sono rivelati ad alto tasso di contagio (basti pensare che al Billionaire sono stati accertati 58 positivi nello staff).

Ma dove si fa il tampone? Ogni Regione ha previsto un apposito portale per la prenotazione del test presso le strutture pubbliche (aeroporti compresi), ma è comunque possibile fare il test presso una struttura privata.

Cos’è il tampone con cui si accerta l’eventuale positività da COVID-19. Il test con cui si rileva la presenza del coronavirus nell’organismo è un tampone faringeo. Si tratta di un esame che viene eseguito in pochi secondi tramite un bastoncino con un materiale sintetico all’estremità. Solitamente questo viene inserito nella bocca (tampone oro—faringeo), mentre in alcuni casi anche nel naso (naso-faringeo). Nel dettaglio, quando il tampone viene effettuato per via orale viene strofinato leggermente sulla mucosa del faringe posteriore; nel naso, invece, il tampone viene infilato in una narice e si procede fino alla parete posteriore del rinofaringe. Non fa male, al massimo un po’ di fastidio. Si tratta di un test piuttosto semplice da eseguire; è bene ricordare, però, che può farlo solamente il personale addestrato e protetto da mascherina, guanti, occhiali e camice monouso. Una volta effettuato il test, il materiale viene sigillato ermeticamente e sottoposto ad un’analisi biochimica con la quale si andrà ad accertare la presenza di SARS-CoV-2 nel campione. Per i primi risultati solitamente non bisogna attendere più di cinque ore, ma nel caso in cui il test risultasse positivo bisognerà attendere una seconda valutazione effettuato al laboratorio di riferimento dell’ISS per individuare se si tratta di un falso positivo.

Dove si fa il tampone e quanto costa. Il tampone può essere effettuato sia presso le ASL che in laboratori privati. Nel primo caso il costo per il tampone per il coronavirus è coperto dal Servizio Sanitario Nazionale. Il test, quindi, è gratuito. Nel primo caso per farsi sottoporre al tampone bisogna prendere l’appuntamento tramite i portali regionali. Non è necessaria la prescrizione del medico qualora si richieda il tampone di ritorno da uno dei quattro Paesi per i quali il test è obbligatorio, ossia Croazia, Grecia, Malta e Spagna. Nel caso in cui invece ci si voglia sottoporre liberamente al tampone bisogna contattare il proprio medico e spiegare il motivo per cui si crede di essere positivi (ad esempio perché presentate i primi sintomi da COVID-19); sarà il medico a prescrivere, qualora lo ritenesse necessario, il tampone. Il tampone per il coronavirus può essere anche effettuato dagli operatori sanitari a domicilio, previa chiamata del paziente - o del medico curante - nel caso si siano manifestante avvisaglie legate al COVID-19. Va detto che ci sono sempre più laboratori privati che effettuano il tampone per accertare la presenza del coronavirus: in tal caso, però, c’è un costo da sostenere che a seconda della struttura varia da 50 a 100 euro. Infine, per i passeggeri in rientro da Malta, Spagna, Croazia e Grecia è possibile eseguire il tampone direttamente all’aeroporto; in tal caso, però, bisogna comunque prenotarsi (tramite il portale di riferimento).

Come leggere correttamente il tasso di positività dei tamponi. Federico Giuliani su Inside Over il 20 ottobre 2020. Non farsi prendere dal panico e mantenere la mente lucida è spesso complicato quando ci informiamo sulla pandemia di Covid-19. Da un paio di settimane l’intera Europa, Italia compresa, è alle prese con la famigerata seconda ondata. Dopo un’estate tutto sommato tranquilla, con i contagi al minimo e le terapie intensive quasi completamente vuote, i venti autunnali hanno fatto ripiombare i cittadini nell’incubo di nuove restrizioni e nuovi lockdown. Ipotesi catastrofiche, queste, tuttavia potenzialmente plausibili visto e considerando gli ultimi bollettini sanitari diffusi dalle varie autorità sanitarie europee. Anzi: c’è già chi si è portato avanti per evitare serrate obbligatorie a ridosso del periodo natalizio. È il caso della Francia, con il coprifuoco notturno imposto per quattro settimane da oggi a Parigi e in altre otto grandi città, in aggiunta ad altri controlli e restrizioni. È il caso del Regno Unito, dove Boris Johnson ha suddiviso il Paese in tre livelli, dove ciascun livello indica una differente gravità delle restrizioni decise dalle autorità in base ai dati epidemiologici. È il caso anche di tanti altri Paesi, tra cui Germania e Italia. I numeri sciorinati quotidianamente in televisione fanno paura, le dichiarazioni degli epidemiologici fanno capire che tira una brutta aria e molti politici, se solo non dovessero considerare gli effetti catastrofici di un possibile secondo lockdown sull’economia, avrebbero probabilmente già chiuso tutto il possibile.

Occhio ai numeri. Lo scenario descritto non è dei più rosei. Eppure, tra una curva e una tabella, un numero e un aumento, è molto importante sapersi orientare nella giungla di cifre per capire la reale gravità della situazione. Solitamente i media riportano tre voci: i nuovi contagiati, le vittime e gli incrementi registrati nei reparti di terapia intensiva. E così, molto spesso, quando i cittadini si trovano di fronte, ad esempio, alla news di “oltre 7mila nuove infezioni”, nessuno evidenzia alcune precisazioni non certo secondarie. Come il fatto che in quel numero sono compresi sintomatici e asintomatici. Inoltre, la notizia dei nuovi malati non viene sempre accompagnata da quella inerente ai nuovi guariti. Già, perché molte persone si ammalano ma altrettante guariscono. Dall’inizio dell’emergenza, soltanto in Italia, sono guariti quasi 250mila pazienti: una percentuale altissima nonché un dato, se sottolineato maggiormente, che potrebbe mitigare l’ansia nelle persone, troppo spesso inondate di news apocalittiche.

Il tasso di positività dei tamponi. Un altro dato giornaliero che viene spesso citato riguarda il numero di tamponi effettuati. Già, perché i numeri di oggi non sono affatto uguali a quelli registrati la scorsa primavera. Il motivo è semplice: adesso l’Italia è in grado di fare molti più test e tamponi, di conseguenza le autorità sanitarie “cercano” il virus più a fondo e portano in superficie non solo i casi più gravi ma anche e soprattutto gli asintomatici. Coloro, insomma, che altrimenti non sarebbero mai emersi dalle tenebre. Per meglio capire l’andamento dell’epidemia è allora utile imparare a leggere un valore ben preciso: il tasso di positività dei tamponi. Di che cosa si tratta? In poche parole, la percentuale di tamponi risultati positivi sul totale di quelli effettuati. Una bassa percentuale coincide sostanzialmente con i contagi sotto controllo; un’alta percentuale, al contrario, indica che bisogna stare molto attenti perché il virus galoppa e si diffonde all’interno della società. In realtà non è propriamente così, e molto dipende da quanto è diffusa l’epidemia. La scorsa primavera, in Italia, con pochi test si scovavano moltissimi positivi. Oggi ne scoviamo quanti e più di prima, ma al contempo il numero di test effettuati è di gran lunga superiore. Ricordiamo infatti che nel bel mezzo della prima ondata i tamponi erano riservati solo alle persone sintomatiche, se non ai casi più gravi. In quei giorni moltissimi asintomatici non sono stati tracciati. Cosa, invece, che sta accadendo in questi giorni. Dunque sì, il tasso di positività dei tamponi è un dato fondamentale ma deve essere analizzato assieme ad altri indicatori.

Elena Dusi per ''la Repubblica'' l'11 ottobre 2020. Ieri nuovo record di tamponi in Italia: 133mila. Il motore è già a pieni giri. Quanto reggerà? «Siamo stremati » confessa la dottoressa di un drive- in romano. In alcuni laboratori ci sono apparecchi che non vengono spenti da marzo. Ieri al punto di prelievo di Fiumicino si è arrivati a una fila di 12 ore. «Quest' inverno a Padova facevamo i turni di giorno e di notte, in modo quasi improvvisato» ricorda Mario Plebani, professore di biochimica clinica e biologia molecolare dell'università di Padova, direttore del dipartimento di diagnostica dell'ospedale universitario. «Oggi non siamo a quel punto e l'organizzazione è più solida. Ma abbiamo bisogno dell'aiuto dei nuovi test rapidi e salivari». La corsa di Usa e Gran Bretagna L'Italia fa meno tamponi rispetto ad altre nazioni con un'epidemia rampante. Con una media di 120mila test al giorno circa, siamo a 2 ogni mille abitanti. Francia e Stati Uniti sono a 124mila e 950mila (2,1 ogni mille abitanti), la Gran Bretagna a 225mila (3,3 ogni mille). Ma questo si spiega anche con un numero di contagi più basso. La Germania, che ha un numero di positivi paragonabile al nostro, fa circa 130mila tamponi al giorno (1,8 ogni mille), secondo lo European Centre for Disease Prevention. Paradossalmente uno dei paesi con meno tamponi è Taiwan: 3-400 per 23 milioni di abitanti. La Corea del Sud, colosso della produzione di apparecchi e reagenti, fa 0,21 test ogni mille abitanti. I giorni di attesa La cartina di tornasole, per capire l'efficienza del sistema, è il tempo necessario per il referto. Ma qui i dati, che già sono imprecisi e disomogenei per i test giornalieri nei vari paesi, mancano del tutto. Negli Usa, durante il picco, il 40% dei risultati arrivava oltre il tempo utile di 2-3 giorni e il 10% oltre i dieci giorni. In Francia a metà settembre si è arrivati a 11 giorni. Public Health England due giorni fa ha diffuso i dati inglesi: 9 test su 10 arrivano con oltre due giorni di ritardo. E nemmeno in Italia spesso si riesce a rispettare questo tetto. «Oltre quel limite fare il tampone è poco utile, per il controllo dell'epidemia» ragiona Plebani. «Il test ha senso se riesce a isolare i positivi e tracciarne rapidamente i contatti». Ogni giorno perso in laboratorio è un giorno guadagnato dal virus in circolazione. Le diverse strategie Stati Uniti e Gran Bretagna hanno deciso di processare i test in pochi laboratori centralizzati. «Questo vuol dire perdere tempo nei trasporti » spiega Plebani. In Francia a metà settembre i tecnici di laboratorio sono entrati in sciopero perché incapaci di tenere i ritmi disumani. La Germania, che è partita subito con un numero di kit e di laboratori alto, è riuscita invece a mantenere costante e contenuto il numero di tamponi giornalieri. Solo negli ultimi giorni il focolaio di Berlino sta facendo aprire qualche crepa anche nel paese più efficiente d'Europa. I punti critici Secondo il virologo dell'università di Padova Andrea Crisanti all'Italia servono 300mila test al giorno. Ma solo per i prelievi servirebbero 15-20mila infermieri (l'operazione va fatta in due per ragioni di sicurezza). Nei laboratori oggi, rispetto a marzo, ci sono stati senz' altro miglioramenti. In estate sono arrivati nuovi macchinari. Il problema degli apparecchi che funzionavano solo con i reagenti della stessa marca è stato in buona parte superato. Anche l'approvvigionamento di oggetti solo all'apparenza banali, come i cotton fioc e le provette in cui rinchiuderli, è al momento privo di strozzature. Ma infermieri capaci di prelevare un tampone («E se non fa male non è fatto bene» racconta un habitué come Plebani) o tecnici di laboratorio non ci si improvvisa, soprattutto se alle prese con un virus contagioso. «A marzo - racconta Plebani - erano venuti in tanti ad aiutarci, tecnici o specialisti di altre discipline. I laboratori universitari che prima erano dedicati alla ricerca ci hanno dato una mano». Tutto questo rischia di ripetersi, se saremo costretti a spingere ancora un motore che è riuscito ad accelerare dai 15 mila test di marzo ai 120mila di oggi.

Luca Telese per ''La Verità'' l'11 ottobre 2020. L'Italia vola a 5.724 contagi (non malati) al giorno, e gli unici dati certi, dunque, sono un numero e un mistero. Il numero che continua a salire sempre di più è quello dei tamponi: ieri 133.000. Il mistero è il famoso piano di Andrea Crisanti: commissionato dal ministro della Salute il 28 agosto, elaborato in pochi giorni, presentato e poi scomparso. Il progetto in realtà era semplice: moltiplicare per dieci il cosiddetto «modello Veneto». Utilizzando un particolare macchinario già adottato dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, con la possibilità di enormi risparmi di costo e di prestazioni. Quando chiamo Crisanti per chiedergli la soluzione del giallo avverto in lui un certo disagio, perché non ha intenzione di sollevare polemiche: «Lei non dovrebbe fare questa domanda a me, ma a chi ha ricevuto quel progetto». Pur rimanendo su un registro formalmente impeccabile dice frasi attente, ma cariche di significato e di potenziale polemico: «Io posso fare due cose. Spiegarle quanto costava quel progetto, quanto faceva risparmiare, e spiegarle quanto stiamo spendendo ora». Il professore romano trapiantato in Veneto spiega: «Questa estate ho fatto quattro calcoli su di un foglio e ho ipotizzato una cifra: contando la velocità del contagio e soprattutto valutando l'enorme impatto di mobilità prodotto dalla scuola ho messo in fila le cifre, e mi sono ritrovato davanti un numero enorme: 400.000». Di che? «Il fabbisogno di tamponi per combattere la campagna d'inverno senza essere sopraffatti dal contagio». Crisanti teorizza da tempo che la via maestra per contenere l'epidemia sia una sola: tamponi e tracciamenti. Ma la logica vuole che se non hai i primi non si possano fare i secondi. E qui c'è il primo problema. Il professore lancia il suo allarme in tv ad agosto, poi in un'intervista di prima pagina sul Fatto. Non lo prendono sul serio: in quelle settimane si fanno cinquantamila tamponi al giorno quando è tanto, il super commissario e il Comitato tecnico scientifico, che assistono il ministero della salute giurano e spergiurano che il fabbisogno è abbondantemente coperto. L'allarme di Crisanti, fra l'altro, cade mentre è in corso una guerra santa tra scienziati sulla decisione di sdoganare o meno i «test rapidi», su cui (come ormai è noto) il Cts ha forti resistenze. Così la richiesta al professore di elaborare il piano viene vista come una mossa mediatica, non necessaria, prodotta più dalla necessità di una operazione-immagine virtuale, che da una vera necessità. «Possiamo arrivare tranquillamente fino a 100.000 test al giorno, se serve», assicurano gli esperti. Come avvenga questo dibattito è difficile capire, perché è uno dei temi non pubblici. Per capire cosa accada nelle riservate stanze del Cts bisogna affidarsi a fonti riservate o anonime, e restò famosa una risposta al sottosegretario Pierpaolo Sileri che durante il lockdown, dopo aver chiesto per primo di accedere ai verbali delle riunioni, si sentì rispondere: «Sono secretati». Però se c'è una cosa in cui Crisanti è efficace sono i calcoli: «Le faccio i conti della serva: 100.000 tamponi al giorno, a 30 euro l'uno fanno tre milioni di euro. Ma siccome stiamo andando rapidamente verso i 150.000, lei deve immaginare che stiamo già arrivando ad una dimensione di spesa di 4 milioni al giorno, tutti a carico del sistema sanitario. Le pare poco?». No, affatto. Ed ecco cosa immaginava Crisanti: moltiplicare per dieci il «modello Veneto» avrebbe avuto «un costo di impianto relativamente alto, e un costo di gestione irrisorio». Ecco perché: Crisanti calcolando tutti gli annessi e i connessi ha costruito un modello per cui ogni macchina, e il personale che serve per farlo funzionare, cuba in totale 1,5 milioni di euro. Da quel momento in poi, però, ogni tampone costa solo 2,5 euro di reagenti, con l'incredibile vantaggio che possono essere prodotti in casa. Ed ecco il bello: «Ognuna di queste macchine - aggiunge Crisanti - diventa un laboratorio capace di sostenere tra 10.000 e 15.000 test al giorno». Questo significa che in meno di una settimana la macchina azzera tutto l'investimento, più il costo dei reagenti, e dal quel momento in poi produce referti a 2,5 euro l'uno, eliminando ogni problema di scarsità. Provo allora a chiedere a due membri del Cts cosa non andasse in questo piano. Il primo dei due quasi trasecola: «Quale piano? Crisanti ha presentato forse due paginette: ne abbiamo parlato in una delle seicento riunioni». E l'altro: «Ma secondo lei siamo in un film, che una macchina da 100.000 tamponi al giorno si cambia e si si sostituisce così, in corsa?». Cosa non andava in quel progetto, chiedo: «Mah, non lo so», mi risponde la fonte, «ci sono tanti piani, tante idee, questa era una di quelle. Prima di fare un investimento così bisognava capire se funzionava, non pensa?». Resto stupito, perché il Veneto, con quel metodo, ha prodotto il maggior numero di tamponi per abitanti di tutta la crisi. Quale test in più serviva? Torno al professore, lo tormento, e alla fine lui allarga le braccia, amarissimo: «Cosa vuole che le dica? I miei numeri sono a disposizione di tutti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. L'unica cosa certa è che quando un sistema industriale produce una spesa da tre/quattro milioni di euro al giorno, per qualcuno diventa, come per tanti aspetti di questa crisi, anche un affare, e per giunta molto ghiotto. Se è evidente il mio progetto faceva risparmiare, è altrettanto evidente che forse qualcuno questo risparmio non lo vuole fare. Che dire?», conclude Crisanti, «mi dispiace. Ma non per me. Ma per chi in queste ore resta senza tampone».

Tamponi, tornano gli sciacalli del Covid: dai 51 euro di Verbania ai 150 di Vibo Valentia, rincari fino al 150% sia nel privato che nel pubblico.  Thomas Mackinson il 4 novembre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Il governo vuole aumentare i tamponi fino a 400mila al giorno. Ma il perno dell'operazione, i test molecolari con kit e reagenti, è soggetto a rincari incontrollati analoghi alle mascherine. Aziende sanitarie regionali, ospedali e regioni comprano a man bassa con affidamenti diretti senza gara e i fornitori fanno il prezzo che vogliono. Il virologo Crisanti: "Sono pratiche commerciali estorsive". FederLab: "Prezzo onesto? Attorno ai 60 euro, ma attenzione al fai da te".

All’ospedale Castelli di Verbania il tampone costa 51 euro, nel Padovano il Gruppo Datamedica lo propone a 60, il Centro Medico Sant’Agostino di Milano a 80. In Toscana c’è una “tariffa concordata” da 80 euro, in Liguria è di 100. Dove la sanità pubblica entra in affanno, il costo si alza, come è accaduto a Bologna, dove la richiesta è arrivata a 130 euro. Succede anche nella forniture pubbliche, con effetti moltiplicatori sulla spesa sanitaria: lo stesso kit di reagenti viene acquistato da una regione a 15 euro, da un’altra a 21. Come e peggio delle vecchie siringhe: sono prezzi giustificati o c’è in atto un vergognoso ricarico come avvenuto sulle mascherine? Questo ginepraio di tariffe, e costi maggiorati fino al 150%, è sotto gli occhi di tutti e per lungo tempo è stato tollerato nel segno dell’emergenza. Ora però rischia di pesare come un macigno sulla strada del governo che è intenzionato a incrementare esponenzialmente i test sulla popolazione: andando incontro a quali costi e quali rischi?

Sul mercato privato il prezzo di un tampone va dai 60 a 150 euro a seconda del proponente. Il costo per il pubblico, che non deve fare profitto coi test ma somministrarli gratuitamente ai pazienti presi in carico, si aggira sui 30 euro. In un giorno se ne fanno 60-80mila, mercoledì il record di 102mila. Il parere prevalente degli esperti è che ne servano quattro volte tanti. Il solo distanziamento sociale infatti non basta a evitare un possibile secondo, devastante lockdown. E con la riapertura delle scuole e l’arrivo della stagione influenzale bisogna mettere in campo uno screening di massa della popolazione che consenta di intercettare gli asintomatici e isolarli per interrompere la trasmissione. Nel frattempo però il perno di questa operazione, vale a dire l’unico test diagnostico ritenuto scientificamente affidabile (quello molecolare), è oggetto di politiche commerciali speculative. Esattamente come è accaduto con i Dpi.

Il prezzo dei tamponi è giusto? Perfino l’Anac ha avuto difficoltà a stabilirlo. Ad agosto ha pubblicato il suo ultimo rapporto sulla spesa sanitaria durante l’emergenza (periodo 1 marzo – 30 aprile) monitorando costi e criticità di 163 stazioni appaltanti. A proposito di “tamponi e reagenti”, l’Anticorruzione mette nero su bianco: “Il range di prezzi osservato va da un minimo di qualche euro ad un massimo di decine di migliaia di euro evidenziando la presenza di tipologie di prodotto estremamente differenti e per i quali risulta estremamente complesso – senza l’ausilio di un esperto del settore – identificarne sottocategorie omogenee”. Dopo mascherine e ventilatori, la categoria “tamponi-reagenti” presenta le oscillazioni di prezzo più “critiche”. Dagli uffici dell’Anac fanno notare che la comparazione è stata spesso impossibile anche per prodotti molti più semplici, come i disinfettanti. E che certi scostamenti di prezzo sono giustificabili solo in parte con aumenti repentini della domanda/scarsità dell’offerta. Il più delle volte, sono effetto di affidamenti diretti a trattativa privata con le imprese, in deroga al codice dei contratti pubblici, senza una reale concorrenza e poche chances di negoziare. Il tutto in un clima d’emergenza protratto, in cui i tempi di approvvigionamento richiesti dalle aziende sanitarie hanno favorito la corsa al rialzo. E infatti, riordinando i risultati dell’indagine su 330 commesse pubbliche per tipologia di prodotto emergono risultati sconcertanti: presi i 21 affidamenti che hanno per oggetto “kit completo” (tampone+reagente) spuntano prezzi unitari differenziati con delta importanti, e perfino maggiorati a fronte di quantità superiori. Contro ogni logica commerciale. Esempio: l’Asl di Bari ha acquistato 12mila confezioni per test diagnostici al prezzo di 35,2 euro l’una, quella di Savona ne ha acquistate 9mila al costo di 9 euro per ogni kit.

Sciacalli del Covid anche sui tamponi? Una risposta si fa impellente da che sul tavolo del governo si è materializzato il “piano nazionale” ideato dal virogolo Andrea Crisanti che punta ad effettuare 400mila esami al giorno a costi “sostenibili” per le casse pubbliche. Un piano che fa leva sulla stessa “filiera” costruita dal virologo in Veneto usando un macchinario che processa fino a 9mila tamponi al giorno e impiegando reagenti prodotti in laboratorio al costo di 2,5 euro contro i 10-15 dei sistemi “chiusi”, cioè legati a dispositivi e reagenti forniti dalle aziende. “La logica è diversa – spiega Crisanti a ilfattoquotidiano.it -. In Veneto abbiamo fatto 600mila tamponi e non abbiamo mai avuto problemi di approvvigionamento dei reagenti perché li facevamo noi, progettando le sonde molecolari per la Pcr e processando a mano. È chiaro che se uno prende il pacchetto di reagenti in commercio, li mette in una macchina e spinge un bottone finisce per pagare anche 30-35 euro, a seconda del prodotto. Ma se dobbiamo fare 400mila tamponi al giorno il prezzo non potrà essere quello oggi praticato sul mercato delle forniture pubbliche o private che siano, dove le tariffe arrivano a 100-150 euro”. Prezzi che Crisanti bolla apertamente come “estorsivi”. “Fino a 40-60 euro sono prezzi giustificabili e onesti, considerando i costi di approvvigionamento, l’ammortamento di macchine e personale. Ma tutto il “di più” è profitto che in qualche caso sfiora l’estorsione. In tutti i casi, sono prezzi incompatibili con un’operazione di screening di massa come quella di cui abbiamo bisogno per arrivare al prossimo anno e oltre, finché non ci sarà il vaccino”. In verità ci sono perfino Asl, vale a dire presidii sanitari pubblici, che propongono ai privati tamponi a 150 euro. A raccontarlo è il presidente di Federlab, l’associazione di 2mila laboratori privati accreditati che guida la battaglia per il coinvolgimento degli associati nel tamponare gli italiani. “De Luca – dice Gennaro Lamberti – dice di volerne fare 10mila al giorno, ma dove li fa fare? I 400mila test al giorno in Italia oggi sono un miraggio, soprattutto se si persevera nella scelta di tener fuori i centri accreditati”. Sarà, ma che dice dei prezzi che praticano i laboratori privati? “Li vedo, alcuni sono vergognosi. Ho 40 anni di esperienza in questo settore e le posso garantire che sono doppi e perfino tripli rispetto alla reale struttura dei costi”. Eccoli. Il tampone? Costa tra 3-4 euro, il kit per l’estrazione tra i 7 e gli 8. Normalmente tra i 22 euro costa il kit di amplificazione e l’apparecchiatura – se non la prendi in comodato – costa 80mila euro più manutenzione. “Un prezzo onesto? E’ attorno ai 60 euro”. Ma non è così, ed è il segreto di Pulcinella. La controprova, dice il rappresentante dei laboratori italiani, è sotto gli occhi di tutti. “Da cinque anni il Tariffario nazionale per esami genetici virali come il tampone è fissato in 69 euro. Quello è il prezzo di riferimento. Tutto quel che si discosta da quella cifra in su è diciamo così… “politica di mercato”. E mi creda, non è prerogativa esclusiva del privato”. A Vibo Valentia, racconta Lamberti, la stessa Asl pratica ai privati un prezzo di 150 euro. “Mi dirà che tiro acqua al mio mulino, ma è chiaro che se un laboratorio accreditato avesse la certezza di un numero significativo di commesse potrebbe negoziare forniture a prezzi unitari inferiori. Fare economia di scala. Un malinteso senso di preminenza del pubblico ha finito per escludere in molte regioni i laboratori privati, riducendo la capacità e la velocità di screening della popolazione e favorendo semmai la speculazione su tutta la filiera. È un danno enorme al Paese, sia in termini di salute pubblica che di spesa sanitaria”. Sì, e i reagenti di Crisanti a 2,5 euro contro quelli comprati dalle Regioni a cinque-dieci volte di più? “Se li prendi già fatti paghi costi di ricerca, di produzione e commercializzazione, ma anche quelli di certificazione europea, la garanzia di qualità etc. Se li fai da solo, non per uso laboratorio ma in quantità industriali, non hai più questi costi ma neppure le certezze. È un po’ come la torta fatta in casa, costa meno ma non hai garanzie che sia buona. Se poi devi farne 400mila al giorno… Vista la delicatezza dei test, per il cittadino e per la salute pubblica, è un rischio che non va sottovalutato”.

Crisanti a La7 racconta il tampone low cost: “Quello che usiamo a Padova ci costa 2 euro e mezzo. È autoprodotto e molto affidabile”. Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2020.  “Il modello che abbiamo a Padova riduce drammaticamente i costi dei test e aumenta la produttività. Abbiamo fatto i calcoli e un tampone in ospedale ci costa 2 euro e mezzo“. Lo ha spiegato il virologo Andrea Crisanti, professore dell’Università di Padova, intervistato a In Onda su La7, dove ha illustrato nel dettaglio il sistema di tamponi utilizzato a Padova. L’abbattimento dei costi, spiega Crisanti, è dovuto a un diverso utilizzo dei reagenti. “I reagenti vengono progettati e sintetizzati tutti insieme e non in singoli pacchetti. Vengono progettati da noi e prodotti in quantità gigantesche a prezzi bassissimi. Noi infatti non abbiamo mai avuto problemi di reagenti. Il nostro è un test fatto in casa e molto affidabile, validato da diversi laboratori” ha concluso.

Quanto costa un test sierologico? Regione che vai, prezzo che trovi. Anna Lisa Bonfranceschi il 26 maggio 2020 su La Repubblica. Il ministero ribadisce che gli unici esami con valore diagnostico rimangono i tamponi. Federconsumatori avverte sul rischio di confusione per i cittadini con il profilerare di laboratori. E le tariffe cambiano: dai 20 a un massimo di 100 euro. In molti casi non c'è nemmeno bisogno di telefonare per sapere se quel laboratorio effettua test sierologici anti-Covid. Spesso infatti le offerte per eseguire gli esami campeggiano sull'home page dei siti dei laboratori o sulle loro pagine Facebook. A volte sono accompagnate da spiegazioni di medici e biologi che chiariscono che si tratta di esami che non danno una diagnosi precisa. Sono utili per capire se si è stati o meno esposti al virus, in qualche modo, andando alla ricerca degli anticorpi prodotti. Con tutti i limiti del caso: come ripetono da tempo gli esperti, i test sierologici disponibili non sono così affidabili, non possono dire se si è immuni al virus e soprattutto hanno valore solo in ambito epidemiologico, per capire quanto ha circolato il virus. È per questo, per esempio, che sono state avviate indagini nazionali e regionali di sieroprevalenza, in cui sottoporre a test sierologico un campione della popolazione, per stimare la diffusione del coronavirus. Che hanno cominciato anche a dare i primi risultati. Se la via ufficiale dunque è quella di usarli a scopo epidemiologico e di ricerca, ribadendo che l'unico metodo a oggi riconosciuto per la diagnosi di infezione in corso sia il tampone che analizza la presenza del materiale genetico del virus (come ricorda anche una circolare del ministero della Salute) i test sierologici sul territorio nazionale vengono proposti, eccome. Diversi laboratori si sono attrezzati per renderli disponibili ai privati fuori dai laboratori pubblici, senza bisogno di alcuna prescrizione. A volte sono presentati all'interno di pacchetti di analisi (per esempio insieme a un emocromo), integrati (solo anticorpi IgG o anche IgG e IgM) o all'interno di programmi di assistenza a domicilio. In moltissimi casi si possono fare solo su prenotazione online o al telefono, a volte dopo aver risposto a un questionario. In alcuni casi si tratta di test rapidi, che non forniscono un'analisi quantitativa. E i prezzi ovviamente non possono che essere diversi a seconda del test e variabili nel paese, generalmente più bassi per quelli rapidi, più alti per quelli abbinati ad altri servizi. Ma anche i criteri di accesso in alcuni casi sono diversi. Tanto che anche da Federconsumatori è partito l'allarme per quella che appare, anche per i test sierologici, come un esempio di disparità sul territorio nazionale e di (ennesima) confusione per i cittadini. 

Capire come funzione non è facile. Perché in effetti capire come funziona non è semplice. La stessa azienda che in Lombardia offre test sierologici su prenotazione a tutti, non può offrirle in Emilia Romagna, regione dichiaratamente contraria al fai da te in materia, con i privati che si possono eseguire sì i test, a pagamento, ma solo su prescrizione medica. Ma anche nelle Marche accade che il test si faccia pagando ma solo su richiesta del medico. In tanti casi però in giro per l'Italia basta prenotare, qualche volta non è necessario. In questi casi basta attendere un poco sul posto.  

Anche i costi sono diversi. I costi cambiano da laboratorio a laboratorio. Si va un minino di 20-35 euro fino a toccare i 100 euro per i test eseguiti compreso il servizio di a domicilio. Con circa 35 euro è possibile eseguite un test per esempio nel Lazio o Toscana – dove la struttura abbia ancora possibilità di farli, visto che capita che i materiali per eseguirli possono essere già esauriti, come racconta uno dei centri interpellati – ma anche nelle Marche, in Sicilia e in Lombardia. A Padova un test per privati e aziende può costare intorno alle 50-60 euro euro, più o meno lo stesso che a Cuneo o a Chivasso, a Napoli o a Gioia Tauro, o a Pescara e a Pesaro. Fino a salire ai 75 euro per un test a Genova, 100 con servizio a domicilio incluso. In alcuni casi è possibile richiedere un'offerta se i test siano da effettuare per conto di un'azienda, in ambito lavorativo. Se nei test sierologici l'offerta è diversa da Regione e Regione, il percorso per la richiesta dei tamponi - legato a quelle dei sierologici - è più omogeneo. Tanto che anche da Federconsumatori scrivono come rimanga l'obbligo del tampone in caso di positività, ma su come questo accada persistono differenze: “Ogni regione ha disposto diversamente, in alcuni casi si attiva il servizio pubblico, in altri il tampone rimane a carico del privato”.

Programmi aziendali. Per esempio, nella Regione Emilia Romagna se positivi ai sierologici si viene inclusi in un programma di isolamento precauzionale e tampone a cura del Servizio sanitario regionale, ma cominciano a essere segnalati anche casi in cui, come accade in Lombardia o nel Lazio, in cui privatamente, e all'interno di programmi aziendali di screening o di campagne di test drive-in senza prescrizione del medico si paga – circa 70 euro – per sottoporsi a un tampone. Che serva una strategia più uniforme in materia di test sierologici (e quindi tamponi), lo ha ribadito anche Luigi Genesio Icardi, coordinatore nazionale della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e assessore regionale alla Sanità del Piemonte. Senza indicazioni in materia e priorità definite, non solo si rischia di generare confusione nell'interpretazione dei risultati dei test ma anche di mettere in pericolo la disponibilità dei tamponi: “È chiara la difficoltà in Italia ad assicurare i tamponi a tutti, nessuna Regione sarebbe al momento in grado di garantire questo esame a chiunque lo richieda come strumento di validazione degli esiti sierologici. Occorre che a livello nazionale sia fatta al più presto chiarezza, stabilendo linee guida che valgano per tutti, in tutte le situazioni”, ha spiegato Icardi in una nota inviata al ministro della Salute. Nell'attesa, la stessa regione Piemonte ha appena elaborato un piano per la gestione del test sierologici, che prevede in caso di positività la segnalazione da parte del laboratorio al medico di famiglia e l'inserimento in una piattaforma Covid con la richiesta di tampone (a carico del Servizio sanitario regionale). (Ha collaborato Marta Musso).  

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2020.

1 Quali test sono indicati per la diagnosi di casi sospetti a scuola? Il test che dà i risultati più attendibili è il tampone molecolare tradizionale, specialmente per la capacità di identificare i casi positivi anche nelle primissime fasi dell'infezione. Le linee guida dell'Istituto superiore di sanità sulla gestione dei focolai in ambito scolastico e la circolare del ministero della Salute per la diagnosi di Covid-19 indicano l'effettuazione di due tamponi a distanza di 24 ore l'uno dall'altro «con un contestuale doppio negativo».

2 Come viene certificato il rientro a scuola? Dopo la fine dell'isolamento lo studente o l'operatore scolastico può essere «reinserito nella comunità» munito dell'attestazione di avvenuta guarigione e il nulla osta all'ingresso o rientro da parte di pediatra o medico di famiglia. Per patologie diverse dal Covid-19, con tampone negativo, dopo la guarigione clinica saranno sempre il medico o il pediatra a rilasciare l'attestazione di rientro a scuola.

3 I test antigenici sono un'alternativa? Si tratta di test basati sulla ricerca dell'antigene del virus anziché del suo Rna (il nucleo). Garantiscono una risposta in pochi minuti, non richiedono macchinari da laboratorio però si basano sempre sul prelievo con campione oro-faringeo. Sono stati validati dal ministero della Salute e il loro impiego si è rivelato utile negli aeroporti. Sono meno sensibili rispetto ai tamponi tradizionali nell'evidenziare la positività. Alcune Regioni stanno cominciando a prevedere di introdurli a scuola per snellire le procedure in caso di sospetto Covid-19. A livello nazionale non è stata però definita una strategia indicata su un documento degli organismi tecnici. Il ministro Roberto Speranza ha affermato che «i risultati sono incoraggianti e che si pensa di poter cominciare ad allargarne l'uso al di fuori degli aeroporti», quindi nelle scuole.

4 Sono pronti i test rapidi salivari che potrebbero accelerare le procedure per il rientro? Non ancora. In effetti potrebbero garantire un'ulteriore semplificazione dell'esecuzione del test e di riduzione dei tempi di attesa. Sarebbero sicuramente più accettati dai bambini pur essendo in fondo dei mini-tamponi rapidi. Mancano però conferme sulla loro validità. Il laboratorio di microbiologia dell'Istituto Spallanzani ha valutato due soluzioni disponibili in Italia. La prima ha mostrato livelli di sensibilità simili a quelli dei tamponi antigenici rapidi, con lo svantaggio rispetto a questi che il test dovrebbe essere eseguito in laboratorio quindi non sarebbe riproducibile in contesti di screening rapido (ad esempio gli aeroporti e le scuole). Tra il prelievo del campione e la refertazione i risultati non sarebbero immediati.

5 E la soluzione chiamata «a saponetta»? È un test con lettura visiva (appunto la saponetta), non richiede strumentazioni di laboratorio, può essere utilizzato anche in ambienti non sanitari e assicura i risultati in pochi minuti. Applicata alla saliva questa metodica ha dimostrato di rilevare la presenza del virus in meno del 10% dei campioni che risultavano positivi al test molecolare standard, quindi è molto prematuro pensare a un'applicazione sul campo. Ma la tecnologia procede in modo spedito.

6 Quali altre soluzioni sono allo studio dei ricercatori? Negli Usa sono stati autorizzati in situazioni di emergenza due test salivari, un terzo è in sperimentazione in Israele ed è ancora più semplice. Il paziente si sciacqua la bocca con una soluzione salina e deposita il liquido in una provetta che viene inserita in un apparecchio. In pochi secondi si può accertare la positività o meno del campione.

7 Alcuni otorinolaringoiatri denunciano il rischio che troppi prelievi dal naso o dalla faringe potrebbero danneggiare i bambini. Ci sono evidenze in questo senso? Sono esami definiti invasivi e fastidiosi, ma non sono considerati «rischiosi». In ogni caso non bisognerebbe esagerare soprattutto con i minori. Il secondo tampone, in caso di negatività del primo, è previsto solo se c'è un forte sospetto clinico e non per tutti. I test basati sulla saliva sarebbero meglio tollerati. (Hanno risposto alle domande l'Istituto Lazzaro Spallanzani e Paolo D'Ancona, ricercatore all'Istituto superiore di Sanità).

Da leggo.it il 23 settembre 2020. «Sulle terapie intensive osserviamo un trend in lieve crescita, che era prevedibile perché siamo nella coda del rientro delle vacanze e dei viaggi. Nulla di drammatico e non dobbiamo spaventarci. I pazienti ricoverati sono aumentati rispetto a due mesi ma non siamo affatto alla saturazione». Lo ha evidenziato il direttore sanitario dell'Inmi Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, ospite di “Radio Anch'io” su RaiRadio1. Sulle cause il direttore Vaia sottolinea due fattori: «L'aumento dell'età media, schizzata sopra i 50 anni precisamente 54 da noi, e anche il fatto che siamo in una fase in cui i cambiamenti climatici tradizionalmente portano alcune malattie stagionali». «Entro questo fine settimana daremo il via alla validazione del test salivare. Importante per due motivi: è poco invasivo e assolutamente affidabile per l'attività di screening». Lo ha affermato il direttore sanitario dell'Inmi Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, ospite di 'Radio Anch'io” su RaiRadio1. «Non deve essere preso come un dispositivo “miracoloso”, lo standard rimane il test molecolare, ma nelle comunità scolastiche è importante intercettare il caso positivo asintomatico. Ecco che il test salivare diventa importante anche perché non si deve rifare, la saliva prelevata la prima volta viene usata poi per avere la confermare del risultato». «Stiamo lavorando anche a laboratori mobili che possono andare sul campo a fare i test», precisa Vaia. Il Lazio è quindi pronto a fare da apripista per i test rapidi che potranno servire anche per lo screening a scuola. I kit sperimentati allo Spallanzani permettono un risposta in pochi minuti e saranno usati anche dai team delle Uscar della Regione Lazio per intervenire in maniera rapida in sospetti focolai.

Mario Gerevini per il "Corriere della Sera" il 23 settembre 2020. Prima l'annuncio: «Produrremo 20 milioni di tamponi salivari per rilevare il Covid in 3 minuti». L'illusione di una svolta, ripresa da tutti i media. La realtà: annunciato pochi giorni fa da un'azienda brianzola (Allum di Stefania Magni), un professore di genetica dell'Università del Sannio (Pasquale Vito) e una società biotech collegata all'ateneo campano (Genus Biotech di Benevento), il Daily Tampon è negativo al test della serietà. La Allum di Merate (Lecco), quella dei 20 milioni di tamponi, è una piccola azienda in difficoltà, produce lampade, perde tutto quello che fattura, 120 mila euro. «Abbiamo l'ok del ministero della Salute», aveva detto la titolare, Stefania Magni. Ma il ministero ha smentito. L'Api di Lecco, 540 piccole aziende rappresen-tate, aveva coordinato la comunicazione esprimendo «orgoglio» per l'associata che ha trovato «il prodotto dell'anno», «un colpo di genio», «un successo per tutto il Paese». Ma ora al telefono correggono il tiro: «La responsabilità del progetto è della Genus Biotech», indicata come spin-off, cioè costola dell'Università del Sannio. E qui entra in campo il professor Vito, anima scientifica del Daily Tampon. Di Genus è azionista al 61% (con figlia) mentre il resto è di un imprenditore biotech locale, Piero Porcaro (con figlia). L'Unisannio non ha nemmeno un'azione. Il professore aveva dichiarato di aver fatto 100 test sul dispositivo: parenti e amici per le leggi della scienza. Interpellato, lo ammette: «Sì sì, con quei numeri non si va da nessuna parte». E allora i 20 milioni da produrre? «L'ha detto il fabbricante (cioè l'azienda di Merate, ndr ) io no». Sentiamo Stefania Magni:«Io ho solo chiesto all'Api di avere visibilità. È un'iniziativa a livello persona-le». A livello personale? «Sì sì, la Allum non farà mai la produzione di questi tamponi». Non c'è nulla, insomma. Tranne il nome: Daily Tampon. In inglese, per i mercati internazionali.

Luca Monaco per “la Repubblica” il 25 agosto 2020. « Data l'eco che ha avuto la mia testimonianza, mi sarei aspettato delle rassicurazioni sull'affidabilità dei test rapidi: mi riferisco alla divulgazione ufficiale dello studio che ha consentito di approvare l'esecuzione di questi esami, che possono essere inaffidabili ». Monta il caso "tamponi rapidi". Mentre all'Istituto nazionale per le malattie infettive ( Inmi) Lazzaro Spallanzani è entrata nel vivo la sperimentazione del vaccino anti- covid, la denuncia del chirurgo plastico Roy de Vita solleva un vespaio di polemiche sull'efficacia del primo strumento d'indagine per arginare il contagio. Il tampone che la Regione sta somministrando a tappeto nei porti e negli aeroporti per intercettare i positivi al rientro dalle vacanze è attendibile? E quanto? A coltivare più di qualche dubbio è il primario di chirurgia plastica ricostruttiva all'Istituto tumori Regina Elena, che ha raccontato su Facebook l'esperienza vissuta dai figli dell'attuale compagna Raffaella Leone, la figlia del grande regista. « Se non avessi fatto ripetere loro il tampone adesso circolerebbero liberi come untori - rileva de Vita - allora mi chiedo, quanti falsi negativi girano in Italia al rientro dalle vacanze?». Pronta la replica del direttore sanitario dello Spallanzani Francesco Vaia: « I test veloci, che il ministero della Salute e la Regione Veneto ci hanno chiesto di validare, sono stati testati da un gruppo di specialisti che si occupa di questo da una vita. Sono virologi che hanno isolato il virus. I famigliari di De Vita hanno fatto il test nella sanità privata, non è il nostro test». Noi, fa notare Vaia, «stiamo cercando i positivi e questo test lo permette. I tamponi tradizionali vengono fatti successivamente e rimangono i tamponi di elezione». Eppure il caso de Vita fa discutere. I figli della compagna del chirurgo, 25 e 28 anni, uno dei quali accompagnato dalla fidanzata, qualche giorno fa erano tornati a Roma dalle vacanze a Porto Cervo, quando sono stati contattati da un'amica con la quale avevano trascorso una serata, la quale li ha informati di essere positiva al covid. « I tre ragazzi - spiega il chirurgo - non avevano sintomi. La mia compagna ha subito contattato il laboratorio di un'università privata accreditata per l'esame a domicilio » . L'appuntamento è stato fissato per le 15. «Alle 15.37 mi chiama la mia compagna dicendo che sono tutti negativi » . Uno di loro però ha la febbre a 37.5. De Vita si insospettisce. «Come hanno fatto a ricavare il risultato in un tempo così breve?». Leone spiega al chirurgo che è stato eseguito il tampone nasale, non quello faringeo. Il tampone è stato immerso in un contenitore con il reagente e dopo qualche secondo è arrivato l'esito, negativo. « Che esame è? - si domanda De Vita - mi sono documentato e ho visto che il tampone rapido non ricerca il virus, ma l'antigene virale: c'è una grande differenza di metodo » . L'indomani de Vita dispone un secondo test, con il tampone classico «e dopo tre ore e mezza l'esito è positivo per tutti e tre, con una forte carica virale». Un dato che allarga il dibattito sull'efficacia del test rapido. Se la Lega, con l'europarlamentare Luisa Regimenti sfrutta il caso per attaccare la Regione («I tamponi di massa a carico del servizio sanitario pubblico sono una manovra maldestra per la ricerca di consenso » ), la presidente di Artemisia Lab Maria Stella Giorlandino solleva dei dubbi di merito. «Per eseguire i più affidabili tamponi molecolari su campione rino- faringeo occorre un'attrezzatura specifica e l'analisi richiede ore di elaborazione, mentre i test per la ricerca dell'antigene danno un esito quasi immediato attraverso un dispositivo portatile. Le sole strutture sanitarie pubbliche dispongono delle attrezzature e del personale per eseguire test molecolari di massa? - domanda – Perché escludere le strutture private abilitate dalla possibilità di eseguire i test per la ricerca dell'antigene perdendo parte delle potenzialità del sistema?». Il governatore del Veneto Luca Zaia risponde: «I tamponi rapidi validati dallo Spallanzani sono una svolta sul fronte dello screening: siamo soddisfatti, in Veneto ne abbiamo eseguiti 1,4 milioni. Era impensabile fare solo i tamponi classici, perché hanno dei tempi di processazione impegnativi».

Sensibilità e specificità di un test. Redazione MyPersonalTrainer l'01.09.2017.

Si definisce specificità di un esame diagnostico la capacità di identificare correttamente i soggetti sani, ovvero non affetti dalla malattia o dalla condizione che ci si propone di individuare. Se un test ha un'ottima specificità, allora è basso il rischio di falsi positivi, cioè di soggetti che pur presentando valori anomali non sono affetti dalla patologia che si sta ricercando.

Si definisce sensibilità di un esame diagnostico la capacità di identificare correttamente i soggetti ammalati, ovvero affetti dalla malattia o dalla condizione che ci si propone di individuare. Se un test ha un'ottima sensibilità, allora è basso il rischio di falsi negativi, cioè di soggetti che pur presentando valori normali sono comunque affetti dalla patologia o dalla condizione che si sta ricercando.

Nuovo Coronavirus: cosa sono tampone e test sierologici. Tampone e test sierologici, ecco come si fa la diagnosi della malattia COVID-19. Caterina Rizzo, Certificazioni, Percorsi Clinici ed Epidemiologia, in collaborazione con OspedalebambinoGesù.it il 02 aprile 2020. La rapida diffusione dell'epidemia di COVID-19 ha richiesto di avere a disposizione test rapidi per diagnosticare l'infezione da nuovo Coronavirus. All'inizio era disponibile solo il tampone faringeo, successivamente sono stati realizzati test sierologici per la ricerca degli anticorpi diretti contro il Sars-Cov2.

Il tampone faringeo o naso-faringeo, serve per diagnosticare la presenza del virus nell'organismo e quindi l'infezione in corso.

I test sierologici, invece, servono per capire se una persona è già entrata in contatto con il virus.

COME SI FA UN TAMPONE FARINGEO O NASO-FARINGEO PER SARS-COV-2

Il tampone è un esame rapido (eseguito in pochi secondi) e indolore che viene effettuato inserendo un bastoncino con una sorta di cotton fioc alla fine:

- Nella bocca (tampone faringeo);

- Nel naso (tampone naso-faringeo) del bambino.

Il test è semplice, ma non può essere fatto da chiunque, deve essere eseguito da personale addestrato e protetto da mascherina, guanti, occhiali e camice monouso perché viene fatto, nella maggior parte dei casi, a bambini o adulti che hanno sintomi.

Il tampone viene strofinato leggermente sulla mucosa:

- Del faringe posteriore, infilando il tampone in bocca fino ad arrivare nei pressi delle tonsille per il tampone faringeo;

- Del naso, infilando il tampone in una narice e procedendo fino a raggiungere la parete posteriore del rinofaringe (parte superiore del faringe).

Sia il tampone faringeo che quello naso-faringeo vengono mandati ad un laboratorio specializzato. Il laboratorio conferma se il virus è presente nel faringe per mezzo di test molecolari (Real Time Polymerase Chain Reaction, RT-PCR).  

COS'È UN TEST SIEROLOGICO PER SARS-COV-2

Il test sierologico per il nuovo coronavirus si esegue sul sangue che viene raccolto con un normale prelievo. Per alcuni test rapidi già disponibili in commercio (ma solo per le Autorità Sanitarie, il singolo cittadino non potrà acquistarli in farmacia) è sufficiente una goccia di sangue ottenuta dal polpastrello di un dito della mano. Anche se va sottolineato che molti test sierologici per il nuovo Coronavirus sono ancora in fase di sperimentazione e validazione: si stanno accelerando le ricerche per renderli disponibili al più presto per la comunità scientifica. Il test dimostra la presenza nel siero (fase liquida del sangue) del paziente di alcuni anticorpi che si formano dopo che una persona è stata contagiata. Se gli anticorpi sono presenti significa che il sistema immunitario è già entrato in contatto con il virus, anche se non possiamo sapere quando. Per quel che sappiamo al momento, sulla base degli studi di cui disponiamo, sembra che per veder comparire gli anticorpi debbano passare come minimo otto giorni dopo l'inizio dei sintomi. Se il test sierologico viene effettuato prima, potrebbe risultare negativo. È importante sottolineare che i test sierologici non sostituiscono il test (molecolare) fatto sul tampone, che dimostra la presenza o meno di materiale genetico virale, dando quindi la conferma dell'infezione in corso. Servono per capire se la persona è entrata in contatto con il virus e ha sviluppato le difese immunitarie in grado di proteggerla in caso di nuovo contatto. Al momento non è possibile sapere quanto duri questa immunità protettiva, se per tutta la vita, per anni o per mesi.

Tamponi, test sierologici, diagnosi e anticorpi: facciamo chiarezza. Francesco Suman su ilbolive.unipd.it il 7 aprile 2020. In questi giorni si sente in continuazione parlare di test diagnostici, test immunologici, tamponi faringei, test sierologici, test anticorpali, test rapidi. Proviamo a mettere ordine. I test diagnostici si basano tutti su una metodologia validata, mentre il panorama dei test sierologici è ancora molto frastagliato.

Test diagnostici. L’analisi dei tamponi rino-faringei è l’unico test diagnostico che permette di rilevare la presenza o meno del virus. Il campione da esaminare viene prelevato tramite un batuffolo di cotone all’estremità di bastoncino che viene posto a contatto delle mucose del naso e della bocca del paziente di cui si sospetta l’infezione da CoVid-19. Il campione viene poi spedito ai laboratori di analisi che tenteranno di rintracciarvi la presenza dell’RNA del virus tramite la metodologia della RT-PCR (Real Time – Polymerase chain reaction). Un paziente conosce il risultato del tampone (positivo se è stato rinvenuto il virus, negativo altrimenti) nel giro di 4-6 ore, laddove il laboratorio non sia sovraccaricato di lavoro. Oltre all’eccessivo carico di lavoro, altri fattori che in questi giorni rallentano le analisi in diversi laboratori italiani sono la carenza di materiale, in particolare dei reagenti chimici. La circolare del ministero della salute del 3 aprile in merito alle indicazioni sui test diagnostici specifica (nell'allegato 2) la lista dei laboratori di riferimento regionali muniti della strumentazione validata e del personale qualificato per eseguire i protocolli di estrazione del genoma virale e i test di RT-PCR. Tra questi il laboratorio di microbiologia e virologia dell’università di Padova diretto dal Prof. Andrea Crisanti che già a fine gennaio, appena ricevuta notizia di una polmonite atipica in Cina, si era attivato per mettere a punto il test diagnostico del tampone. Lo ha fatto basandosi sul lavoro diretto dal prof. Christian Drosten dell’istituto Charité di Berlino pubblicato sul sito eurosurvelliance.org, dunque validato a livello europeo. Il test messo a punto a Padova è stato poi diffuso alla maggior parte dei laboratori del Veneto. Il Veneto è la Regione in Italia dove sono stati compiuti più tamponi per abitante. I ricercatori lombardi, che tramite l’analisi epidemiologica hanno identificato il primo caso di CoVid-19 in Lombardia già il 1 gennaio, hanno utilizzato lo stesso test sviluppato da Drosten, cui però hanno aggiunto una piccola variante, ovvero l’analisi di un ulteriore gene virale (M). La stessa circolare ministeriale riporta, in allegato 1, “l’elenco dei kit diagnostici e delle aziende certificate produttrici e/o distributrici, predisposto dal gruppo di lavoro “diagnostici in vitro” del CTS (Comitato Tecnico Scientifico, ndr)”.

Test Sierologici. I test sierologici servono invece a individuare la presenza di anticorpi nel sangue, o meglio nel plasma (anche detto siero), dei pazienti. Questi test sono anche chiamati test rapidi, perché danno la risposta sulla presenza o meno di anticorpi nel giro di 10-15 minuti analizzando una sola goccia di sangue prelevata da un polpastrello.

Gli anticorpi sono le armi che il nostro sistema immunitario dispiega contro una malattia e la loro presenza nel plasma è indice di una esposizione presente o passata all’infezione virale. I test sierologici sono dunque test immunologici.

Sars-CoV-2 è un coronavirus, ovvero un pacchetto di RNA avvolto in un involucro proteico (capside) caratterizzato da protuberanze (dette spikes, proteine anch’esse) che servono al virus ad ancorarsi a specifici recettori (ACE2) che si trovano sulla membrana delle cellule delle mucose del sistema respiratorio umano. I recettori ACE2 sono la serratura e le proteine virali spike le chiavi per aprirli. Gli anticorpi che il nostro organismo produce per difendersi dall’attacco del coronavirus sono chiamati immunoglobuline e aggrediscono proprio le spikes del virus inibendone l’azione infettiva. Esistono due tipi di immunoglobuline, prodotte in momenti diversi dell’infezione.

Le IgM (immunoglobuline di tipo M) sono gli anticorpi che compaiono 5-6 giorni dopo la contrazione del virus e scompaiono dopo circa 20 giorni o tre settimane. Sono responsabili della prima risposta immunitaria dell’organismo. Assomigliano a delle Y che si attaccano alla corona del virus, impedendogli di agganciare i recettori attraverso cui entrerebbe nell’organismo.

Le IgG (immunoglobuline di tipo G) sono gli anticorpi che iniziano a venire prodotti dopo circa 15 giorni dalla contrazione del virus, sono indice di una passata infezione e si stima rimangano presenti nell’organismo per diverse settimane o mesi. Solitamente, per altri virus, la loro presenza protegge l’organismo da nuove possibili infezioni, ma per quanto riguarda Sars-CoV-2 ancora non si hanno dati a sufficienza per stabilirlo. La comunità scientifica a inizio aprile è ancora divisa in merito all’efficacia protettiva delle IgG: non è ancora conosciuto il loro ruolo e non è escluso che una volta contratto il virus non sia possibile ricontrarre l’infezione.

Mentre i test diagnostici certificati e validati sono tutti accomunati dalla medesima logica, ovvero la ricerca dell’RNA virale tramite RT-PCR, il panorama dei test sierologici è molto più frastagliato. In una nota del 18 marzo il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) ha dichiarato che “Ad oggi i test basati sull'identificazione di anticorpi (sia di tipo IgM che di tipo IgG) diretti verso il virus Sars-CoV-2 non sono in grado di fornire risultati sufficientemente attendibili e di comprovata utilità per la diagnosi rapida nei pazienti che sviluppano Covid-19 e che non possono sostituire il test classico basato sull'identificazione dell'Rna virale nel materiale ottenuto dal tampone rino-faringeo". E aggiunge che "L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sta attualmente valutando circa 200 nuovi test rapidi basati su differenti approcci e che sono stati portati all’attenzione dell’Agenzia; i risultati relativi a quest’attività di screening saranno disponibili nelle prossime settimane”. Tra questi i test in chemiluminescenza, che sembrano quelli soggetti a errore statistico più basso (tra il 4% e il 5%).

I TAMPONI.

"Ho avuto il coronavirus a dicembre ma l'ho scoperto una settimana fa col sierologico". Maria Novella De Luca su La Repubblica il 04 maggio 2020. La testimonianza di Silvia Barbagallo, organizzatrice di eventi culturali: "Dopo un tampone negativo a marzo, pochi giorni fa il test ha confermato che ho gli anticorpi. Quanti casi positivi sono sfuggiti alle statistiche?" "È bastato un post su Facebook e centinaia di persone mi hanno scritto raccontandomi la loro storia. La solitudine di tanti che in questi mesi si sono ammalati, hanno avuto febbri terribili, polmoniti, ma nel lockdown non sono riusciti ad accedere né ai tamponi, né ai test sierologici. Il virus era tra di noi da mesi, ma non lo sapevamo. Io sono stata contagiata a dicembre, ma soltanto pochi giorni fa ho scoperto aver avuto il Covid, dopo aver fatto il test sierologico. L'ho avuto, ma non sono entrata, non entro, in nessuna statistica e di casi come il mio chissà quanti ce ne sono". Silvia Barbagallo fa l'operatrice culturale. Organizza eventi, fiere di libri, mostre. Si sente male il 24 dicembre,  al ritorno da un viaggio in Africa con suo figlio. "Una febbre fortissima, con un inizio di polmonite che mi è stata curata con paracetamolo e cortisone e per fortuna è rientrata in tempi brevi. Una specie di influenza molto violenta, così mi aveva detto la mia dottoressa di base. Era dicembre, nessuno, da noi, parlava ancora del coronavirus", Silvia si riprende, tra gennaio e febbraio va più volte a Milano per lavoro. In poche settimane però il Covid diventa uno spettro mondiale. Inizia, anche, la tragedia italiana, i morti in Lombardia. "Il 6 marzo, due giorni prima che iniziasse il lockdown, ho fatto il tampone allo Spallanzani. In quelle settimane ero andata cinque volte a Milano, in Lombardia la situazione era già grave, mi era sembrato prudente. Sono risultata negativa". Poi, la quarantena. "Ci siamo chiusi in casa, come hanno fatto tutti gli italiani. Ero serena, il tampone era negativo. Ma qualche giorno fa, mio figlio che ha diciassette anni ha avuto una febbre molto forte. A quel punto abbiamo deciso di fare tutti, in famiglia, i testi sierologici in un laboratorio privato. E io ho scoperto di avere gli anticorpi del Covid, sono positiva alle "Igg", le immunoglobuline G, che testimoniano un contatto con il virus lontano nel tempo". Dunque, ricostruisce Silvia, "la violentissima febbre di dicembre era il Covid 19", e il contagio non sarebbe avvenuto a Milano, "ma in Africa, nel viaggio verso la Tanzania probabilmente". Su quel volo infatti, insieme a Silvia e suo figlio, viaggiano decine di famiglie cinesi che ormai vivono stabilmente in Tanzania. È avvenuto lì il contagio? Forse. Ma quello che Silvia Barbagallo vuole testimoniare è che i contagi del Coronavirus in Italia sono stati assai più numerosi delle statistiche ufficiali. "I dati che da due mesi leggiamo e ascoltiamo non sono attendibili o meglio danno una rappresentazione incompleta dello scenario complesso. Se mappassero tutti, scopriremmo di averlo già avuto  in tanti e soprattutto che questo virus era in circolo già mesi prima dell'inizio di questa tragedia collettiva". Perché è una tragedia quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. E riprendendo il post su Facebook scritto da Silvia Barbagallo a cui decine di persone hanno risposto, è questo il tempo di riflettere. "Abbiamo vissuto in un grande "corpo collettivo" senza permetterci di ascoltare ognuno il proprio perché avevamo davanti agli occhi il dramma di tutti i pazienti in terapia intensiva, le enormi fatiche dei medici e degli infermieri, il dramma che stava attraversando le vite di tutti. Però quelle paure e quelle sensazioni di impotenza in qualche luogo si sono depositate e forse ora è arrivato il momento di riappropriarci anche di una riflessione personale senza per forza sentirci in colpa. Una riflessione non solo legata al corpo ma anche alle paure che abbiamo vissuto, ai diritti, al futuro, al lavoro".

Lo studio scientifico cinese commentato dall'infettivologo del San Martino. Coronavirus, il 37% dei tamponi dà falso negativo. Bassetti: "Test utile ma non perfetto". Primo Canale giovedì 02 aprile 2020. Il 37% dei test tampone nasali effettuati per rilevare il Coronavirus nelle persone dà un falso negativo. Questo è il risultato di uno studio effettuato in Cina il Paese dove per primo si è sviluppato il virus e allargato a macchia d’olio. Il direttore della clinica malattie infettive del San Martino di Genova Matteo Bassetti su Facebook riposta lo studio e commenta: "Il tampone come ho detto più volte è un test utile, ma non perfetto. Secondo un articolo scientifico condotto in Cina quello nasale è positivo nel 63% dei casi certi di Covid19 ovvero assistiamo al 37% di falsi negativi. Troppa gente senza competenze mediche e scientifiche parla senza sapere. In Veneto volevano fare il tampone a tutta la popolazione pensando fosse il test perfetto, anche per gli asintomatici. Geniali..." conclude il direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova. Insomma il dibattito sull’utililtà di fare tamponi su larga scala per individuare i positivi resta d’attualità ma il mondo medico-scientifico continua a spiegare che il test che oggi può dare esito negativo il giorno dopo può invece far risultare la persona positiva pur lo stesso individuo avendo già il virus in incubazione. In Italia fino a questo momento sono stati effettuati oltre 540 mila tamponi, Veneto e Lombardia le regioni dove si sono fatti più test. In Liguria così come annunciato dalla Regione negli ultimi giorni è cresciuto il numero di tamponi giornalieri arrivando nella giornata del 1 aprile quasi a mille in 24 ore e oltre 11mila da inizio emergenza. In Liguria come nella maggior parte delle regioni italiane i test specifici vengono effettuati sulle persone sintomatiche che presentano dunque segnali clinici riconducibili al virus o che sono state a contatto con persone risultate positive. E allora l'Istituto superiore di sanità (Iss) cerca una via alternativa e sul tavolo mette la possibilità di portare avanti un'indagine a larga scala sulla popolazione utilizzando test rapidi sierologici, che indichino cioè chi ha sviluppato anticorpi al nuovo coronavirus. Un modo per avere il polso reale della diffusione del contagio. "Stiamo pensando di fare questo tipo di indagine e stiamo mettendo a punto le tecnologie per poterlo fare. Stiamo cioè lavorando per poter fare a stretto giro un'indagine di prevalenza sierologica" ha spiegato il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro. Intanto in Liguria i test sierologici per il coronavirus sul personale sanitario e gli ospiti delle rsa sono iniziati. Sono stati circa 500 i test sierologici effettuati nelle rsa, e nei prossimi giorni proseguiranno sul personale sanitario e saranno coinvolti nelle analisi anche i donatori di sangue.

La ricerca sul virus. Prima negativi e poi di nuovo positivi? Per esperti coreani in quei casi il coronavirus è inattivo Ha causato un certo allarme in Corea del Sud il fatto che diverse persone considerate guarite dal nuovo coronavirus siano risultate di nuovo positive. Solo in Corea i casi del genere sono 277. Rai News 29 aprile 2020 E' una delle tante anomalie che il Sars-Cov2 ha messo in mostra rispetto ad altri coronavirus studiati in passato: il fatto che pazienti giudicati guariti tornino poi successivamente positivi ai test. Era successo in Giappone ed in Corea ed è successo poi anche in Europa e in Italia. Ora proprio dalla Corea arriva una notizia che se confermata sarebbe molto, molto rassicurante. Il virus c'è ma inattivo. Il fatto che pazienti considerati guariti siano risultati di nuovo positivi al test per il COVID-19 potrebbe indicare che abbiano nel loro organismo ancora frammenti di virus, il quale però è inattivo. Lo hanno affermato i Centri coreani per il controllo e la prevenzioni delle malattie (KCDC), la struttura scientifica sudcoreana che si occupa delle epidemie. Frammenti di RNA ma è un falso positivo Secondo i KCDC, questi casi non segnalano il rischio che il virus nei pazienti guariti possa essersi riattivato o possa esserci stata una nuova infezione. Apparentemente - a loro dire - si tratterebbe di frammenti del virus rimasti inattivi nell'organismo, che vengono rilevati dai test diagnostici. "Frammenti di RNA possono ancora esistere in una cellula, anche se il virus è inattivo", hanno comunicato i KCDC in un comunicato. "La cosa più probabile - hanno proseguito - è che coloro che sono di nuovo risultati positivi recassero RNA del virus che è ormai inattivo". 277 casi solo in Corea Ha causato un certo allarme in Corea del Sud il fatto che diverse persone considerate guarite dal nuovo coronavirus siano risultate di nuovo positive. A oggi, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa Yonhap, i casi del genere sono 277.  Il test coreano La Corea del Sud utilizza per i diagnosticare la presenza del nuovo coronavirus un test della reazione a catena della polimerasi (PCR) che va a intercettare le informazioni genetiche contenute nell'RNA - l'acido ribonucleico - del virus. Il test è in grado di rilevare anche piccole quantità di RNA virale nelle cellule, anche dopo che il paziente è guarito."Il virus COVID-19 non invade il nucleo della cellula combinandosi con il DNA del paziente", ha segnalato Oh Myoung-don, capo del comitato scientifico sudcoreano. "Questo significa - ha proseguito - che il virus non crea un'infezione cronica". Inoltre, non risulta che possa restare dormiente nel nucleo della cellula, sempre secondo Oh.

Perché si verificano falsi negativi nei test COVID-19? Ogni giorno, le informazioni sulla pandemia COVID-19 saturano le nostre giornate. Uno degli argomenti che ha sollevato dubbi, incertezze anche polemiche, è il test. Patrizia Diomaiuto su Treviso Today il 27 aprile 2020.  Tante domande ci sovvengono in questo periodo che, frequentemente risultano prive di risposta, enfatizzando il già perenne stato di incertezza e ansia. Riguardo i test/tamponi, ci siam chiesti quando e come venissero effettuati e il perché, sapendo che effettuarli negli asintomatici, potesse rallentare il contagio, non ve ne fossero abbastanza e mille altre domande correlate.  Ma recentemente, è emersa una nuova preoccupazione: la questione dei risultati dei test COVID-19 falsi negativi. Ciò significa che le persone sottoposte a test per COVID-19, sono risultate positive al virus, pur non essendolo. Questa è una cosa estremante grave e preoccupante. Il risultato del test falso negativo, potrebbe essere erroneamente rassicurante per un paziente, che potrebbe essere più incline a ignorare i sintomi sugli altri, o serenamente indotto a socializzare con altre persone. Con un virus altamente contagioso come il COVID-19, è importante capire come vengono eseguiti i test e se dovresti preoccuparti o meno di ricevere un feedback falso negativo.

Come vengono eseguiti i test COVID-19. Attualmente, la forma principale di test per COVID-19 è chiamata test di reazione a catena della polimerasi a trascrizione inversa (RT-PCR). Questo è un test che cerca il materiale genetico del virus che causa COVID-19. Il test utilizza un campione, che di solito proviene da un tampone nasale (ma può anche provenire dalla bocca o dal muco che viene tossito). Esiste un altro tipo di test, chiamato test sierologico, che non è ancora ampiamente disponibile, ma dovrebbe esserlo nel prossimo futuro, che individua gli anticorpi nel sangue determinando se si è mai stati infettati precedentemente dal virus (anche se il test RT-PCR è negativo).

Perché si verificano falsi negativi? Il motivo è più semplice di quanto si possa pensare. In sostanza, progettare un test medico, è difficile. Esistono molti tipi diversi di test, ma spesso implicano l'uso di piccoli campioni (in questo caso un tampone), per cercare qualcosa di infinitesimale (in questo caso, un virus). Fare un test accurato al 100%, è altrettante volte un'impresa, se si considerano tutte le cose che potrebbero andare storte. Questi includono il reperimento di un campione difettoso, l'attrezzatura medica non funzionante alla perfezione e l'errore umano. Ma ci sono anche altre cose che possono causare risultati di test falsi negativi. Ad esempio, se si dispone di COVID-19, ma il virus è presente solo in quantità molto ridotte, il virus potrebbe non essere in grado di inviare un segnale abbastanza forte, da rendere positivo il test. Sebbene l'esatta percentuale di falsi negativi per COVID-19 sia attualmente sconosciuta, i ricercatori hanno notato che con il test RT-PCR si verificano sia risultati falsi negativi che falsi positivi.

Che cosa succede se il mio tampone COVID-19 risulta negativo? Non preoccuparti, ottenere un risultato del test falso negativo, è probabilmente piuttosto raro. Ciò significa che se si è testati per COVID-19, si presume che il risultato sia corretto, perché il più delle volte lo sarà. Tuttavia, se si ha ancora la sensazione che qualcosa sia andato storto, considerare un confronto con un medico della tua "probabilità pretest" di avere COVID-19. La probabilità pretest, è una misura della probabilità che si abbia la malattia, prima di scoprirne effettivamente i risultati. Ad esempio: immagina di essere malato con tutti i sintomi classici di COVID-19 (febbre, tosse e respiro corto). Immagina di essere stato anche recentemente in contatto con qualcun altro che sa di avere COVID-19. Per te, dal momento che la tua storia e i sintomi sono classici per COVID-19, la tua probabilità pretestante di avere la malattia, è alta. Quindi, anche se il tuo test risulta negativo, poiché la tua probabilità di pretest era così alta, potrebbe essere appropriato presumere che questo sia un risultato falso negativo. In circostanze limitate, potrebbe essere opportuno ripetere il test per COVID-19. Tuttavia, un nuovo test, non è sempre necessario. Dal momento che non esiste un trattamento specifico per COVID-19, scoprire se si è effettivamente positivi non cambia le cose per la maggior parte delle persone. Riposati molto e usa farmaci da banco per controllare i sintomi. Inoltre, fai tutto il possibile per evitare di diffondere la tua malattia agli altri - questo include restare a casa, tossire e starnutire nel gomito e lavare spesso le mani. 

Coronavirus, paziente falso negativo contagia 8 ricoverati e 4 infermieri in ospedale a Genova. Mercoledì 22 Aprile 2020 su Il Messaggero. Prima negativo al tampone, poi la morte e il riscontro della positività al coronavirus. nel frattempo otto pazienti e quattro operatori sanitari dell'ospedale di Lavagna, in provincia di Genova, sono risultati positivi: è accaduto dopo che nel reparto di Medicina è stato curato senza accorgimenti un quarantunenne con una polmonite bilaterale dovuta al coronavirus, ma che in precedenza aveva avuto una diagnosi negativa. L'uomo era stato infatti mandato a casa dal reparto Covid di Sestri Levante dopo un tampone negativo; poi era entrato nell'ospedale di Lavagna, in un reparto no covid, dove è morto. Gli accertamenti compiuti hanno stabilito che era positivo. Il reparto di medicina è stato sgomberato e sanificato.

Moscati, 8 medici e infermieri «falsi positivi»: verifiche sui test. I test del Moscati per lo screening del personale sanitario avevano dato prima esito positivo per otto tra medici e infermieri ma gli stessi tamponi riprocessati al Cotugno smentiscono: non hanno contratto il covid. Luca Marconi su il Corriere del Mezzogiorno il 29 aprile 2020. Rientra l’allarme per l’ospedale Moscati di Avellino. Non sono infatti positivi al Covid-19 i due medici ed i sei infermieri che erano risultati positivi ai test per lo screening del personale martedì scorso, esami di routine effettuati dal laboratorio interno dell’azienda ospedaliera irpina. I tamponi sono stati riprocessati al Cotugno - è la prassi - di Napoli ed il risultato è, appunto, che nessuno degli otto operatori i è stato contagiato dal virus. La stessa conferma arriva anche da successivi test ripetuti dal laboratorio di microbiologia e virologia del Moscati. Il dg Pizzuti ha incaricato l’Unità operativa Rischio Clinico di verificare con urgenza la lavorazione degli otto campioni processati nel laboratorio ospedaliero. Una nota della direzione aziendale avanza l’ipotesi ritenuta «verosimile» che a determinare la falsa positività «possa essere stata l’interpretazione qualitativa dei test». Non sarebbe comunque questo il primo caso di «falso positivo», come pure purtroppo ci sono stati anche «falsi negativi» con esisti disastrosi, come all’ospedale Santa Maria Delle Grazie Di Pozzuoli. Martedì scorso i vertici aziendali precisavano in una nota che «le positività - smentite dalle nuove verifiche, ndr - sono state riscontrate in ordine sparso in vari settori già sanificati» evidenziando anche che «al di fuori dei 12 casi di positività al Coronavirus che hanno interessato gli operatori della centrale operativa del 118 e di un caso rilevato durante una visita di controllo per procedere all’assunzione di un infermiere proveniente da Mantova fino al 20 aprile scorso erano stati 8 i dipendenti dell’Azienda Moscati risultati positivi al Coronavirus». Sempre l’azienda sottolineava poi che «proprio e solo grazie all’intensa attività di sorveglianza avviata dal Moscati e all’esecuzione ripetuta di test rapidi e tamponi a tutti gli operatori sanitari è possibile individuare casi positivi asintomatici. Le misure adottate dall’Azienda e il trasferimento dei pazienti positivi nel Covid Hospital (struttura indipendente da 50 posti tra terapia intensiva e sub intensiva, ndr) mirano proprio a cercare di garantire quanto più possibile la sicurezza all’interno della Città Ospedaliera, sia per gli operatori sanitari che per i pazienti». Si tratta ora di verificare cosa non abbia funzionato per la prima serie di test agli otto falsi positivi. Tra il Moscati di Avellino e l’ospedale Landolfi di Solofra sono dunque 24 gli operatori sanitari contagiati dal virus, tra questi un medico di pronto soccorso in terapia intensiva; 23 sono invece i camici bianchi contagiati al Frangipane di Ariano Irpino. Un positivo al Criscuoli di Sant’Angelo dei Lombardi. La provincia irpina ad oggi conta 51 vittime e 91 guariti. 

Coronavirus, Avellino: falsi positivi, si svela il “giallo”. Il Quotidiano del Sud il 30 aprile 2020. AVELLINO- Tutti negativi i tamponi al personale in servizio nell’Unità Operativa di Nefrologia, in Pronto Soccorso e in Radiologia. Lo screening chiuso dall’azienda Moscati dopo il caso delle paziente giunta al Pronto Soccorso il 23 aprile e risultata positiva a distanza di tre giorni dalle dimissioni dal Reparto di Nefrologia, dove era risultata negativa al tampone. “I tamponi effettuati hanno dato tutti esito negativo. Sebbene l’esecuzione dei tamponi naso-faringei agli operatori dell’Azienda venga eseguita e ripetuta periodicamente, è stata data priorità alla verifica sul personale dei succitati reparti a seguito della positività al nuovo Coronavirus riscontrata il 23 aprile scorso in una paziente che era stata dimessa qualche giorno prima dall’Unità Operativa Nefrologia (presentando al momento del ricovero refertazione di tampone negativo). Al momento, la stessa donna è ricoverata nel Covid Hospital”. Ad annunciarlo è stata in una nota la stessa Azienda Ospedaliera “San Giuseppe Moscati”, che aveva ricostruito anche quanto avvenuto. La paziente era stata ricoverata il 5 aprile scorso nell’Unità Operativa di Nefrologia della Città Ospedaliera con una refertazione di negatività al Covid-19 già in possesso della donna e che, durante il periodo di degenza, protrattosi fino al 20 aprile, la paziente non ha mostrato alcun sintomo riconducibile al Coronavirus. Grazie al protocollo di sicurezza attivato in Pronto Soccorso, il 23 aprile si è evitato che la paziente venisse ricoverata in una unità operativa non Covid. Una volta ricostruita la storia clinica della donna, si è proceduto immediatamente a ripetere i tamponi naso-faringei. Si attende ancora di capire come l'Asl di Avellino, sta procedendo all’indagine epidemiologica volta a ricostruire la filiera dei contatti avuti dalla donna per cercare di risalire alle cause del contagio”. Intanto oggi si chiude l’audit interno per verificare un’altra vicenda che aveva interessato la Città Ospedaliera. Si tratta dei tamponi eseguiti su otto tra medici ed infermieri alla fine risultati falsi positivi. Entro oggi si conosceranno gli esiti dell’indagine interna avviata dal Moscati per comprendere cosa sia avvenuto e come erano stati processati gli stessi tamponi. Anche in questo caso era stata la stessa Città Ospedaliera a comunicarlo. “Nonostante le ulteriori verifiche predisposte sui tamponi effettuati nell’ambito del programma di sorveglianza del personale aziendale – e quindi su soggetti sani asintomatici – siano risultate quanto mai opportune, la Direzione Strategica ha comunque doverosamente dato incarico alla Unità Operativa Rischio Clinico di condurre con urgenza un audit clinico-organizzativo per analizzare le varie fasi della lavorazione dei campioni da parte del laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Azienda. Dai primi riscontri, sembra verosimile che a determinare l’inconveniente registrato possa essere stata l’interpretazione qualitativa del test”.

Quando il coronavirus è inattivo: la spiegazione degli scienziati. Redazione su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Quello dei re-infettati è uno degli aspetti più preoccupanti del Sars-Cov2. E una delle anomalie del virus che sembra poter attaccare i pazienti già guariti dal contagio. Una risposta che fa ben sperare arriva però dalla Corea del Sud, proprio il Paese che si era allarmato nello scoprire oltre 270 persone che si erano di nuovo contagiate dopo essere risultate negative al tampone. I Centri coreani per il controllo e la prevenzione delle malattie (KCDC) di Seul affermano che i pazienti in questione siano risultati di nuovo positivi poiché nel loro organismo sarebbero ancora presenti frammenti di virus, che però è inattivo. Si tratterebbe di specie di falsi positivi, poiché i test diagnostici rileverebbero ancora frammenti del Covid nell’organismo. L’ipotesi più probabile, hanno dichiarato in una nota i KCDC, è che si trattasse di RNA, l’acido ribonucleico, del virus ancora presente ma inattivo. Il test che la Corea del Sud utilizza per il coronavirus è un test della reazione a catena della polimerasi (PCR) che è in grado di individuare anche piccole quantità di RNA virale nelle cellule. E quindi è probabile che vada a scovare anche materiale virale in fase di espulsione dall’organismo. “Il virus Covid-19 non invade il nucleo della cellula combinandosi con il DNA del paziente”, ha dichiarato Oh Myoung-don, capo del comitato scientifico sudcoreano. “Questo significa – ha continuato – che il virus non crea un’infezione cronica”. Inoltre, non risulta che possa restare dormiente nel nucleo della cellula. Il comitato scientifico coreano è quindi convinto che non ci possa essere una re-infezione cronica o una recidiva. La Corea del Sud è stata citata spesso come un modello nella lotta al coronavirus. Seul ha messo in campo subito una campagna di tamponi importante, con delle sorta di stazioni di servizio adibite, modalità di telemedicina per seguire i pazienti a casa, una app per tracciare gli spostamenti dei cittadini e ricostruire una mappa del contagio. Secondo la Johns Hopkins University i contagiati al momento sono 10.761 e i decessi 246 in totale.

Coronavirus, gli studiosi: «Allarme falsi negativi nei tamponi».  Michela Allegri su Il Messaggero Sabato 4 Aprile 2020. Nel pieno dell’emergenza coronavirus, scoppia il caso tamponi. Uno studio svolto dai ricercatori cinesi nella città di Wuhan ne mette in dubbio l’affidabilità. Il guaio è che l’analisi può restituire un risultato inattendibile a causa dei “falsi negativi”, situazioni nelle quali l’esito del test esclude il contagio, mentre invece il paziente ha il virus in circolo nell'organismo. Studiosi e clinici in tutto il mondo stanno cercando di comprendere la dimensione del fenomeno. Il problema di tutela della salute pubblica è delicatissimo: i soggetti cui viene riferita la negatività al tampone tendono a non prendere precauzioni, in molti casi tornano al lavoro, escono di casa. E, ignari di essere infetti, continuano a contagiare le persone intorno a loro. La questione ha suscitato la preoccupazione della comunità medica negli Stati Uniti. In diversi casi, i sanitari si sono trovati di fronte a pazienti con tamponi negativi, ma che presentavano i sintomi tipici della malattia da Covid-19, come impegno polmonare confermato dagli esami radiologici e febbre persistente. Il dottor Chris Smalley, della Norton Healthcare nel Kentucky, si è trovato a trattare diversi pazienti che presentavano negatività al test e ciononostante venivano ricoverati con quadri clinici anche gravi, tipicamente suggestivi della malattia da coronavirus. Il caso più eclatante è stato quello di Julie, la sedicenne francese deceduta pochi giorni fa a causa del coronavirus, una delle vittime più giovani al mondo. Solamente poche ora prima di aggravarsi fatalmente, Julie era stata sottoposta a due tamponi: entrambi avevano dato esito negativo. L’attenzione si è quindi spostata sull’affidabilità dei test oro-faringei attualmente in uso. Si è scoperto uno studio cinese condotto in febbraio su mille pazienti e pubblicato sulla rivista scientifica “Radiology”, che ha dimostrato come il tampone restituisse un «falso negativo» in circa il 33% dei casi. In assenza di dati scientifici consolidati, o di studi su una platea più vasta, si va consolidando oltreoceano la convinzione che i test attualmente in uso per scoprire l’infezione da coronavirus abbiano una percentuale di affidabilità intorno al 70%, nettamente inferiore a quella che di solito ci si attende da queste procedure. Tom Taylor, un professore già del dipartimento di statistica del CDC - Center for Disease Control, l’ente federale americano che si occupa della diffusione delle malattie, esprime preoccupazione per l’affidabilità dei tamponi attualmente in uso. Spiega come il processo alla base del test, che prende il nome di PCR – Polymerase chain reaction, normalmente restituisca una percentuale di affidabilità tranquillizzante, superiore al 90%. Nel caso del coronavirus, sarebbe invece molto più bassa. Per l’esperto, parte del problema sta nell’assenza di approfonditi percorsi di validazione scientifica dei test. In condizioni normali, il CDC condurrebbe estese prove per confermare l’affidabilità dei tamponi, prove che richiedono all’incirca un anno. Ma l’esplodere della pandemia ha reso impossibile seguire i percorsi canonici, con il risultato che produttori dei kit e laboratori di tutto il Paese stanno procedendo empiricamente e con poca supervisione da parte delle Autorità. Per Bill Miller, epidemiologo della Ohio State University, la situazione è fluida: i medici devono esercitare molta cautela nel prendere per buono un risultato negativo del tampone. Il dibattito risuona anche in Italia, ed è particolarmente utile rispetto alla decisione, che alcune Regioni starebbero valutando, di sottoporre a test estese fasce della popolazione, secondo la strategia dei “tamponi a tappeto”. Se però l’affidabilità dell’esame non va oltre il 66%, l’intera operazione diventa poco utile, come fa notare il dottor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova. Anche per questi motivi, l’Istituto Superiore di Sanità sta valutando l’ipotesi di svolgere invece i test sierologici, che non ricercano il virus all’interno del corpo del paziente, ma la risposta immunitaria al microorganismo. Il direttore Silvio Brusaferro ha infatti dichiarato che l’Istituto sta lavorando nella direzione di un’indagine di prevalenza sierologica. Anche sull’onda del caso della sedicenne Julie, i medici francesi invitano alla cautela nell’interpretare i risultati negativi al tampone oro-faringeo, che per di più, secondo il dottor Gerald Kierzek dell’ospedale Hotèl-Dieu di Parigi, sarebbe anche «operatore-dipendente». Vale a dire che il risultato potrebbe venire fuorviato a seconda di come viene raccolto il campione di materiale biologico del paziente. Il tema, insomma, resta d’attualità.

TEST SIEROLOGICI.

Cristina Marrone per “il Corriere della Sera” il 28 maggio 2020. Dalla Sardegna al Trentino Alto Adige chiedono la patente di immunità per i turisti.

Ma ha senso fare i test sierologici ai visitatori per capire se hanno sviluppato immunità a Covid-19?

«Lo ripeto da tempo e lo sostiene anche l'Organizzazione mondiale della sanità», risponde Alberto Mantovani, 71 anni, immunologo di fama internazionale e direttore scientifico dell' Humanitas di Rozzano, oltre che professore emerito all' Humanitas University. «Questi test per la ricerca di anticorpi per Sars-CoV-2 sono uno strumento prezioso per valutare la prevalenza e la diffusione del virus e in alcune condizioni cliniche, ma non danno una patente di immunità. Sul singolo a oggi ancora non sappiamo se la presenza di una certa quantità di anticorpi è la spia di una risposta immunitaria che assicura protezione contro l' infezione».

I test sierologici in circolo sono affidabili?

«Lo Stato e la Regione Lombardia hanno scelto due test a mio avviso validi. Ricordiamoci che per i sierologici sulle malattie infettive sono richiesti alti livelli di specificità e sensibilità (oltre 97%) per evitare il più possibile i falsi positivi e i falsi negativi. Oggi sono in commercio un centinaio di test, ma molti, forse la maggioranza non sono stati validati in modo rigoroso. Il governo britannico ne ha acquistato e buttato via 35 milioni rivelatisi inaffidabili. Indipendentemente dalla qualità del test una persona con la presunzione di essere immune può essere indotta a decidere di non usare la mascherina o di non rispettare il distanziamento sociale: invece potrebbe ammalarsi e comunque portare in giro il virus».

Come mai ancora oggi non ci sono evidenze sull' efficacia dell' immunità data dagli anticorpi?

«Questo virus non ha studiato sui libri di immunologia e si comporta in modo diverso da quanto siamo abituati a vedere. Nella risposta immunitaria classica prima arrivano gli anticorpi di classe IgM e poi a distanza di giorni quelli di classe IgG, che in genere sono neutralizzanti. Ma il nuovo coronavirus segue strade diverse, a volte le due immunoglobuline compaiono insieme o invertite. E quando ci sono gli anticorpi IgG è possibile che il virus sia ancora presente ed è per questo che serve il tampone per escluderlo».

Quindi chi è guarito da Covid-19 non lo è per sempre?

«Per chi ha davvero sviluppato la malattia possiamo ragionevolmente pensare che per un certo periodo resterà protetto da Sars-CoV-2. La Sars dava ai guariti un' immunità di 2-3 anni e questo virus gli è parente. Il problema è che la stragrande maggioranza delle persone che incontra Covid-19 o non si ammala o lo fa in modo blando: in questo caso non sappiamo se la risposta immunitaria indotta, di cui la presenza di anticorpi è una spia, sia davvero protettiva o se queste persone rischiano una nuova infezione».

Quali sono gli scenari dopo un test sierologico?

«Possono succedere tre cose: il test sierologico è negativo, ma in realtà il soggetto potrebbe avere il virus perché in questa infezione la risposta immunitaria può comparire fino a distanza di 15-20 giorni dall' esposizione. Quindi questa persona potrebbe essere in realtà contagiosa senza saperlo. Se il test sierologico è positivo le opzioni sono due: la persona ha incontrato il virus e il suo sistema immunitario lo ha eliminato oppure, pur avendo gli anticorpi, il virus è ancora presente, la battaglia in corso, e questo lo può scoprire solo il tampone».

Con tante incertezze a che cosa servono questi test?

«Sono utili alle indagini epidemiologiche come ad esempio quella che abbiamo concluso in Humanitas e resa disponibile alla comunità scientifica, la prima su vasta scala in Italia, guidata dalla professoressa Maria Rescigno. Abbiamo testato 3.985 persone tra medici, infermieri, staff amministrativo anche in smart working, ricercatori, nelle varie strutture Humanitas sul territorio lombardo. È emerso che l' 11-13% del personale è venuto in contatto con il coronavirus, senza sostanziali differenze tra le categorie: il personale sanitario, potenzialmente più esposto rispetto al resto della popolazione, non si è ammalato di più. Ne emerge che l' ospedale, se ben protetto, può essere un luogo sicuro per i pazienti e per chi ci lavora, per questo invito i 10 milioni di italiani che hanno malattie diverse, come un tumore, a tornare in ospedale per farsi curare. I dati evidenziano inoltre come la prevalenza di positivi per anticorpi tra il personale delle diverse strutture sia in linea con la situazione del territorio di appartenenza: dal 3% di Humanitas Medical Care di Varese al 35-43% di Humanitas a Bergamo, la zona più colpita in Italia».

In questi giorni si sta parlando di virus attenuato, lei che ne pensa?

«In banca dati ci sono 5mila sequenze genetiche e nessuna indica che il virus si sia attenuato. Ne ragioneremo quando qualcuno porterà prove su riviste scientifiche autorevoli. È vero, i pazienti sono molto meno gravi ma i motivi possono essere vari: l' esperienza clinica passata, abbiamo imparato a conoscere la malattia; il virus ha colpito inizialmente le persone più deboli, molte delle quali non ce l' hanno fatta; oggi ci comportiamo meglio e così anche i più fragili sono più protetti; infine le malattie causate dai virus respiratori si attenuano in primavera ed estate perché stiamo di più all' aperto e in casa teniamo le finestre aperte e la quantità dell' esposizione al virus cambia. A breve sarà pubblicato uno studio finanziato da Fondazione Cariplo che ha sequenziato 350 ceppi virali in Lombardia. Aspettiamo di capire cosa ci dirà».

L'infettivologo Massimo Galli: "La strategia più produttiva: i test rapidi". Mediasetplay.mediaset.it il 27 aprile 2020. Il primario del Sacco di Milano: "Servono per identificare chi ha già avuto contatti con il virus". Il responsabile del dipartimento malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, ospite in collegamento con Mattino Cinque, sottolinea l’importanza di effettuare test rapidi per capire se una persona contagiata da poco che non ha ancora incubato il coronavirus è infettiva, anche se il tampone è negativo. “L’ho ripetuto fino alla nausea: la strategia più produttiva per dare un supporto all’apertura è fare test rapidi pungidito per identificare chi ha già avuto contatti con il virus, anche se non tutti, per poi fare a quelle persone il tampone”. “Ma – chiarisce Galli – non è una patente di immunità”.

Andrea Tornago per la Repubblica il 29 ottobre 2020. Mentre l' onda del contagio si ingrossa scricchiolano pure i test rapidi, considerati dalle Regioni la nuova frontiera della lotta al virus. Il siluro parte dal laboratorio di microbiologia e virologia dell' Università di Padova, diretto dal professor Andrea Crisanti, che il 21 ottobre scorso ha comunicato alla Regione Veneto i risultati di uno studio sul test rapido antigenico Abbott, condotto insieme al reparto malattie infettive e al pronto soccorso dell' ospedale di Padova. Sovrapponendo i risultati dei tamponi rapidi con quelli di un tampone molecolare classico, eseguito contemporaneamente sugli stessi pazienti, sarebbero sfuggiti al vaglio dei nuovi test antigenici 18 infetti su 61, evidenziando «una sensibilità di circa il 70%, inferiore a quella dichiarata» dalla Abbott. In pratica, secondo Crisanti, con il test rapido 3 positivi su 10 potrebbero risultare negativi e continuare a diffondere l' infezione senza alcun controllo. Falsi negativi: i più pericolosi perché in grado potenzialmente di creare nuovi focolai di cui non si sa nulla. Lo studio è stato condotto su una platea di 1593 pazienti e i risultati discordanti non riguardano solo soggetti con una bassa carica virale, rispetto ai quali è noto che i test rapidi avrebbero una scarsa sensibilità: «Tra i campioni risultati negativi al test antigenico - sottolinea Crisanti - vi sono ben 6 casi di pazienti con carica virale molto elevata», i famosi super-spreaders o comunque possibili super diffusori. Tanto che la virologia di Padova ha deciso «in autotutela di non emettere più referti negativi» basati su quei test rapidi. Il Veneto è la Regione che più di tutte ha puntato sulla diagnostica antigenica rapida: «È su nostra sollecitazione - ha rivelato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia il 6 ottobre scorso - che il ministero ha validato tutto ». L' iniziativa è partita dal laboratorio di microbiologia di Treviso, dove il coordinatore Roberto Rigoli ha sperimentato i nuovi test e ottenuto la collaborazione dell' Istituto Spallanzani di Roma: «I test rapidi antigenici che si stanno effettuando presso gli scali romani di Fiumicino e Ciampino e presso gli ospedali pubblici e i drive-in del Veneto si sono dimostrati efficaci ed efficienti per l' attività di screening - affermavano in una nota congiunta del 24 agosto scorso il dottor Rigoli e la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi dello Spallanzani - Sono stati effettuati sia in Veneto che nel Lazio migliaia di test di conferma con risultati sostanzialmente sovrapponibili». E ora con un maxi appalto da 148 milioni di euro, sette regioni italiane hanno chiesto la fornitura di enormi quantità di test antigenici rapidi: oltre al Veneto, che coordina l' appalto, anche la Lombardia, l' Emilia-Romagna, il Lazio, il Piemonte, il Friuli Venezia Giulia e la provincia autonoma di Trento. È ormai chiaro che la nuova strategia prevede l' impiego massiccio di test rapidi e un uso molto limitato dei tamponi. Anche la conferenza delle Regioni ha chiesto al ministro della Salute Roberto Speranza, proponendo una riorganizzazione dell' attività di tracciamento, l' impiego dei test rapidi antigenici nelle farmacie e negli ambulatori e l' utilizzo per il contact tracing «di tutti i test validati nei paesi del G7». Ma a che prezzo? Anche nella Regione Lazio, dove i test antigenici sono ormai sdoganati, un documento dello Spallanzani getta dubbi ancora più gravi sull' efficacia dei tamponi rapidi, questa volta Sd Biosensor: il test "Standard Q Covid-19 Ag" ha riportato una sensibilità bassissima, del 21,95%, nettamente inferiore a quella dichiarati nel foglietto illustrativo del produttore, superiore all' 80%. Un altro test rapido, sempre Sd Biosensor, "Standard F Covid-19 Ag Fia" per lo Spallanzani avrebbe una precisione lievemente maggiore: il 47,12%. Sempre bassa. «Tutto dipende dall' uso che se ne fa - precisa Capobianchi, a capo della virologia dello Spallanzani - Se ci sfuggono soggetti con una carica virale bassa, che quindi pensiamo non trasmettano il virus, possiamo ritenerlo accettabile perché tanto non ci interessano ». Resta una domanda, girata all' assessore regionale alla Sanità Alessio D' Amato ma rimasta senza risposta: perché il Lazio si è affidato a test che nella migliore delle ipotesi si fanno sfuggire 5, se non addirittura 8 positivi su 10?

Test sierologici, tutti i subbugli tra governo, regioni e aziende. Giusy Caretto su  startmag.it il 27 aprile 2020. Itest sierologici hanno scatenato una guerra tra aziende e non solo: anche governo e regioni fanno scelte diverse. Dettagli e indiscrezioni (governo rabbuiato con Abbott?) “La politica ha bisogno sì di avere informazioni ma è sottoposta a una pressione locale e anche commerciale”, diceva Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, ospite giorni fa di Agorà su Rai Tre sui test sierologici, i test che rilevano gli anticorpi. Queste dichiarazioni, in qualche modo, ci stavano anticipando quanto sarebbe successo.

È una guerra tra aziende, ma dai contorni anche politici, quella che si è scatena nei giorni scorsi nel settore: la Lombardia guidata da Attilio Fontana (Lega) per i test sierologici ha scelto Diasorin (in via esclusiva), mentre il governo Conte ha preferito Abbott Diagnostics. Tutti i dettagli.

ABBOTT: LA SCELTA DEL GOVERNO. A vincere il bando del governo per la fornitura di 150 mila kit test sierologici è stata l’americana Abbott Diagnostics, leader nel campo dei test per le malattie infettive, incluso lo sviluppo del primo test per l’Hiv, come raccontato da Start Magazine. Il colosso Usa ha spiazzato la concorrenza (72 i partecipanti totali al bando, tra cui l’italiana Diasorin) offrendo i kit in regalo. A costo zero, dunque.

GLI SBUFFI DEL GOVERNO (DOPO LA MOSSA A SORPRESA DI ABBOTT). Dopo aver vinto il bando il 25 aprile, la multinazionale americana ha annunciato che in Italia entro maggio arriveranno sul mercato italiano 4 milioni di test sierologici (a pagamento, non per il bando). L’annuncio, scrive oggi il Corriere della Sera, non sembra aver fatto tanto piacere al governo: “La tempistica dell’annuncio ha suscitato una certa irritazione nel governo. Con il sospetto che Abbott abbia approfittato della pubblicità indiretta che deriva dalla vittoria della gara per lanciare il suo kit sul mercato. Non proprio il massimo”, riferisce il quotidiano.

TEST SIEROLOGICI DAL 4 MAGGIO. Sbuffi a parte, i test dovrebbero comunque partire dal 4 maggio. Chi dovrà essere sottoposto al test non è ancora dato saperlo. Serve, per capire la diffusione del virus, un campione rappresentativo della popolazione. I 150 mila partecipanti all’indagine epidemiologica saranno scelti dall’Istat.

LA POSIZIONE DI CONFINDUSTRIA. “È di fondamentale importanza che la procedura negoziata semplificata d’urgenza per l’individuazione del fornitore dei primi 150 mila test sierologici resti circoscritta alla gestione dell’emergenza e non diventi la base per l’individuazione di un test unico nazionale”. È questo l’allarme di Confindustria Dispositivi Medici, contraria alla scelta di un solo test che danneggerebbe concorrenza ed innovazione.

LOMBARDIA ATTENDE E SCEGLIE DIASORIN. Scelta diversa da quella del governo giallorosso è stata fatta dalla Lombardia che ha avviato i test sierologici solo la scorsa settimana (nonostante i contagi), attendendo lo sviluppo di un test della Diasorin realizzato in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia.

Il test, in questa prima fase, sarà effettuato “a una quota di popolazione che si trova in isolamento fiduciario al domicilio”, spiega l’Ordine dei Farmacisti della Lombardia.

DIASORIN OTTIENE OK DA FDA (E SALE IN BORSA). Buone notizie per Diasorin arrivano anche dall’America (e la società si consola per aver perso il bando del governo): è arrivato nelle scorse ore il via libera da parte della Food and Drug Administration americana (l’ente governativo che regola i prodotti farmaceutici e alimentari) alla commercializzazione negli Stati Uniti. L’azienda vola in Borsa e tocca i massimi storici, a  165 euro per azione. Il 25 aprile Diasorin aveva anche annunciato di aver ricevuto finanziamenti dalla Biomedical Advanced Research and Development Authority (BARDA), per rendere il test disponibile sul territorio statunitense.

FINO A 90 MILIONI DI RICAVI NEL 2020. Insomma, gli affari della società italiana dovrebbero andare decisamente bene quest’anno. Gli analisti di Mediobanca Securities, nonostante Diasorin abbia perso il bando del governo, prevedono che l’azienda produca “3 milioni di test al mese che generino circa 90 milioni di ricavi nel 2020”, spiega Il Sole 24 Ore. E non escludono che l’italiana possa ricevere commesse in futuro anche da Conte ed Arcuri.

CAMPANIA, TOSCANA ED EMILIA ROMAGNA SI AFFIDANO A TECHNOGENETICS. I test sierologici sono partiti molto prima, invece, in regioni come Campania, Emilia Romagna e Toscana, che si sono affidate alla tecnologia di TechnoGenetics, che fa parte del gruppo cinese Khb e che è pronta a commercializzare un suo test fin dai primi di marzo. “Fortunatamente alcune regioni si sono prese carico di fare delle azioni individuali, cito la regione Campania, cito la regione Toscana, cito la regione Emilia Romagna, che hanno valutato i metodi, li hanno ritenuti all’altezza e hanno cominciato ad acquistarli e ad utilizzarli”, ha spiegato a Piazza Pulita Salvatore De Rosa, direttore commerciale dell’azienda.

LA GUERRA IN CORSO TRA TECHNOGENETICS E DIASORIN. Ed è proprio TechnoGenetics a mostrare gli artigli, in Lombardia, contro Diasorin. Sì, perché l’azienda aveva chiesto di partecipare all’analisi scientifica del San Matteo di Pavia ma non ha mai ricevuto risposta. TechnoGenetics, poi, accusa la Regione Lombardia di aver ritirato solo dopo 24 dalla pubblicazione una manifestazione di interesse (preliminare per la gara) aperta il 6 aprile, senza valutare quali fossero le possibili offerte di altre aziende. L’azienda, il 20 marzo, aveva offerto 20mila test rapidi convalidati da uno studio italiano. Test, però, ritenuti non affidabili da parte del dirigente del San Matteo, Fausto Baldanti.

La TechnoGenetics vuole vederci chiaro e su tutto questo ha deciso che farà esprimere chi di dovere: la società di Lodi ha fatto esposto alla Consob, alla Procura della Repubblica e all’Autorità garante della concorrenza contro Diasorin e la decisione delle regione Lombardia. La TechnoGenetics procederà a breve anche con un ricorso al Tar della Lombardia. I legali dell’azienda lodigiana – spiega Il Sole 24 Ore– ritengono dunque l’illegittimità dell’accordo tra San Matteo, Diasorin e Regione Lombardia del 26 marzo, peraltro per un prodotto che ancora non esiste ma che blocca le sperimentazioni alternative. E tra i due litiganti, l’americana Abbott tenta il colpaccio. 

Da "rainews.it" il 17 aprile 2020. La compagnia aerea Emirates Air, in coordinamento con le autorità sanitarie di Dubai, ha introdotto il test sierologico per i passeggeri: le persone che dovevano imbarcarsi su un volo per la Tunisia sono state tutte sottoposte al prelievo del sangue per il test rapido per covid-19. I risultati sono stati disponibili entro 10 minuti. Emirates Air è la prima compagnia aerea a introdurre i test rapidi in aeroporto. L'analisi del sangue è stata condotta dall'autorità sanitaria del Paese e, secondo la compagnia aerea, il prelievo ai passeggeri è stato eseguito al check-in al gate di imbarco dell'aeroporto internazionale di Dubai, dove peraltro tutti i passeggeri già devono indossare mascherine. Diversi altri centri di test drive-through sono presenti ad Abu Dhabi e Dubai, dove le persone sono incoraggiate a sottoporsi al test anche se non presentano sintomi del coronavirus. L'Emirato inoltre ha imposto il coprifuoco totale ai residenti per almeno due settimane per contenere la pandemia. 

Da repubblica.it il 17 aprile 2020. Si chiama Elecsys. E' il test sierologico per individuare la presenza di anticorpi contro il coronavirus nei pazienti esposti al contagio da Covid 19 che è stato messo a punto dalla Roche. La multinazionale farmaceutica svizzera punta a rendere il test disponibile agli "inizi di maggio" nei paesi dell'Unione europea e "sta attivamente lavorando" con la Fda americana "per un'autorizzazione d'emergenza". "L'individuazione di questi anticorpi - spiega Roche - potrebbe aiutare a indicare se una persona ha sviluppato un'immunità al virus". L'individuazione di anticorpi "è centrale per aiutare a identificare persone che sono state colpite dal virus, specialmente quelle che posso essere state infettate ma non manifestano sintomi", spiega l'azienda. Che aggiunge: "Il test può aiutare screening prioritari fra gruppi ad alto rischio, come i lavoratori sanitari, i fornitori di prodotti alimentari che possono aver già sviluppato un certo livello di immunità e che possono continuare a servire o ritornare al lavoro. Aver compreso di più circa l'immunità da Covid-19, può anche aiutare la società a tornare più velocemente alla normalità". "Ogni test affidabile sul mercato aiuta i sistemi sanitari ad aiutarci a superare questa pandemia. Roche sta collaborando a stretto contatto con le autorità sanitarie e sta accelerando la produzione per assicurare una veloce disponibilità del test a livello globale", ha spiegato il ceo di Roche, Severin Schwan". "Una pronta disponibilità e un veloce accesso ad affidabili test di alta qualità sono essenziali per i sistemi sanitari. Il test sugli anticorpi è un importante passo avanti nella lotta al Covid- 19. Il test di Roche può essere prodotto rapidamente in grande quantità e reso ampiamente disponibile nel mondo", ha commentato Thomas Schinecker, ceo di Roche Diagnostics.

Il Corriere della Sera in un articolo del 7 aprile riporta la notizia di un test sierologico sviluppato al Policlinico San Matteo di Pavia e pronto a essere lanciato sul mercato dalla multinazionale di diagnostica DiaSorin. Sarebbero interessati ad acquistarlo anche gli Stati Uniti e il Belgio. La certificazione del test “tutto made in Italy” tuttavia non è attesa prima di due settimane. Nonostante infatti venga presentato come una soluzione definitiva, in grado di rilasciare un “patentino di immunità”, in Italia sono in fase di sperimentazione e valutazione diverse tipologie di test sierologici e nessuna ancora è stata validata per l’utilizzo sulla popolazione. Uno degli elementi ancora da perfezionare è la sensibilità del test, ovvero la sua percentuale di errore. Non solo, come ribadiscono Andrea Crisanti e Antonella Viola, rispettivamente microbiologo e immunologa dell’università di Padova, non abbiamo ancora dati a sufficienza per stabilire se la rilevazione degli anticorpi tramite test sia un segnale di immunità o parte della patologia. Parlare di patentino di immunità è quindi per lo meno prematuro, se non fuori luogo. Crisanti e Viola stanno insieme lavorando a un progetto di ricerca per inquadrare meglio la risposta immunitaria al Sars-CoV-2.

Anche la circolare del 3 aprile puntualizza chiaramente che i test sierologici “necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa”. Tra un paio di giorni è atteso un intervento del ministero della salute in merito alle modalità di utilizzo dei test sierologici considerati affidabili. Nel frattempo è importante prevenire un approccio fai-da-te a livello locale e, come purtroppo è già accaduto, persino a livello di singola azienda. Test sierologici diversi hanno tassi di affidabilità diversi, che impedirebbero di comparare i dati a livello nazionale e dunque avere un quadro concreto della diffusione dell’epidemia.

I test sierologici rappresenteranno quindi uno strumento epidemiologico fondamentale per stabilire la reale diffusione dell’epidemia, sicuramente sottostimata nei numeri che quotidianamente vengono forniti dalla Protezione Civile. Ma al momento il tampone resta ad oggi lo strumento più affidabile per diagnosticare l’infezione da CoVid-19.

Da italiaoggi.it il 16 aprile 2020. C'è un test veloce per il coronavirus, dura meno di 8 minuti e si chiama "Covid19 Afs-1000". In queste settimane è stato sperimentato a Roma dal Dipartimento Malattie infettive del Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma diretto da Massimo Andreoni e in particolare nei laboratori di Biochimica Clinica, diretti da Sergio Bernardini, dall'Istituto Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, dal Presidio Sanitario Casilino di proprietà di Medica Group. Si basa su un sistema immuno-cromatografico fluorescente per la ricerca specifica nel sangue di IgM e IgG con una precisione vicina al 100%. È anche capace di analizzare da quanto tempo il coronavirus ha contagiato il paziente, se non è mai stato contagiato o è immunizzato. "Il test ha un tasso di errore praticamente pari a zero. Lo abbiamo testato in zone a rischio come Nerola con ottimi risultati. Serve ora un protocollo dal ministero per uniformare i test".

Da leggo.it il 15 aprile 2020. A Pesaro, una delle province italiane più colpite dal coronavirus, un imprenditore ha deciso di acquistare test sierologici per controllare le condizioni di salute di tutti i suoi dipendenti. Si tratta di Massimo Cecchini, ad di Str Automotive, che ha spiegato: «Solo gestendo il virus e facendo i test sierologici a tutti i dipendenti, la nostra economia potrà ripartire». L'iniziativa di Massimo Cecchini è raccontata da Il Resto del Carlino: il manager, che gestisce un'azienda che produce componenti per auto in poliuretano, ha acquistato dalla Cina 300 kit di screening, per un costo totale di 18mila euro. «L'ho fatto e lo rifarei, cercando di dare il buon esempio ad altri imprenditori locali, perché è chiaro come le non competenze di questo esecutivo e l’incapacità di usare la logica più elementare, costringano noi imprenditori a fare tutto da soli» - ha spiegato il manager e imprenditore - «Siamo di fronte ad una crisi sanitaria che sta scatenando a sua volta una crisi economia: 18mila euro sono un investimento basso se pensiamo alla salute delle persone e a tutte le attività economiche a loro legate. Di quei 300 test, tuttavia, qui ne sono arrivati solo 60, in due diverse spedizioni. Il Governo ha bloccato la distribuzione in partenza, tramite gli importatori di riferimento: una scelta scellerata». Massimo Cecchini ha anche spiegato il proprio punto di vista: «Dobbiamo prepararci alla ripartenza e per questo ha contattato un laboratorio di Pesaro che esegue test per la verifica quantitativa di anticorpi IGm e IGg, quelli più efficaci e utili secondo la comunità scientifica. Venerdì 3 aprile, su un primo campione di 48 persone, eterogeneo per età e sesso, abbiamo avuto i risultati in due ore: su 48 persone, tutte asintomatiche e in perfetta salute, 12 (l 25%) sono risultate positive. Di queste 12 persone, otto avevano alti valori di infettività e solo quattro erano immunizzati e non infettivi. Quelle otto persone, che non hanno avuto neanche un leggero raffreddore nelle ultime settimane, avrebbero potuto infettare altri tornando al lavoro; per questo abbiamo deciso di non farli rientrare. Solo gli immunizzati, previa indicazione del nostro medico del lavoro, potranno tornare regolarmente». Il campione dei dipendenti della Str Automotive potrebbe essere un esempio abbastanza rappresentativo per tutta la popolazione. Massimo Cecchini 'snocciola' anche altri dati, da non sottovalutare: «Abbiamo 300 dipendenti, la proiezione di questo primo campione rivela che tra i 50 e i 75 dipendenti potrebbero essere contagiati e infettivi, senza neanche saperlo. Se applicassimo questa percentuale alla popolazione di Pesaro, che ha 100mila abitanti, possiamo ipotizzare 25mila contagiati asintomatici, che in casa possono infettare i parenti, con incubazioni da sette a 21 giorni e con possibilità di contagio fino ai successivi 37 giorni. La strategia del Governo implica tempi troppo lunghi per le imprese, per limitare i contagi e ripartire in ogni ambito economico sarebbe meglio effettuare i test a tutti».

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 14 aprile 2020. Oggi, o al massimo domani, sarà ufficializzata la validazione di quattro tipi di test sierologici da usare per la ricerca su scala nazionale, in collaborazione con l'Istat. Validare significa definire quali siano quelli affidabili, perché per questi esami del sangue che valutano la presenza di anticorpi (Igg o Igm) e dunque dicono se il paziente è infetto o lo è stato di recente, fino ad oggi si è riscontrato che vi sono margini di errore preoccupanti. I quattro prescelti danno maggiori garanzie, ma poi dovrà partire l'approvvigionamento. Ne serviranno per la ricerca su scala nazionale 100mila perché è su questa quantità che sembra intenzionato a lavorare il Comitato tecnico scientifico che affianca il governo e il Ministero della Salute per l'emergenza coronavirus. E bisognerà fare presto. Il presidente del Consiglio superiore di sanità, il professor Franco Locatelli, ha annunciato l'avvio del vasto screening entro le prime settimane di maggio. Rischiamo, però, di avere la fotografia sulla reale diffusione del virus nel nostro paese in ritardo, almeno rispetto alla necessità di delineare la fase due. Altre incognite: ormai è evidente che vi sarà un esito a macchia di leopardo. In Lombardia i positivi o gli ex positivi sono molti di più di quelli rilevati dai tamponi; in altre regioni, soprattutto nel centro-sud, non pare realistica la famosa ricerca dell'Imperial college che ipotizzava un numero di infettati dieci volte più alto di quello ufficiale. «Non arriveremo a quei numeri» prevede il professor Gianni Rezza, direttore di Malattie Infettive dell'Istituto superiore di sanità. Anche Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell'Università di Pisa e consulente per la Regione Puglia, è convinto che nel centro-sud la percentuale dei positivi o degli ex positivi sarà molto bassa («e questo è un problema, perché significa che la parte di popolazione ancora suscettibile al virus è assai ampia»). Altro nodo: le regioni hanno anticipato la ricerca nazionale. Il Lazio farà da solo 300mila test sierologici, coinvolgendo, tra gli altri, operatori sanitari e forze dell'ordine. Ma dai primi risultati sul piccolo campione di Nerola, paese in provincia di Roma, si evince che i positivi non rilevati non sono molti. Lo stesso in Puglia: tra gli operatori sanitari solo l'1 per cento era positivo al test sierologico. In Emilia-Romagna, dove il test è stato fatto già a 15 mila tra infermieri e medici, siamo al 3 per cento, percentuale più alta, ma non così elevata se teniamo conto che è la regione con più contagiati dopo la Lombardia e che gli esami hanno interessato una categoria inevitabilmente più a rischio. In Liguria, il governatore Toti ha varato una campagna di test sierologici a tappeto nelle Rsa e sul personale sanitario. Spiegano dalla Regione Liguria: li faremo anche sui donatori di sangue, analizzando le donazioni da dicembre scorso e fino a giugno, su donatori tra 18 e 70 anni, per capire da quando il virus circola. In Veneto il governatore Zaia è stato uno dei primi a credere nei test sierologici. Di fronte a tutte queste accelerazioni il ministero della Salute ha sempre affermato che non sono attendibili per «rilasciare una patente di immunità», Zaia ha replicato: «A Speranza consiglio di lasciare decidere gli scienziati». In sintesi, si sta correndo su due piste differenti e parallele e questo rischia di falsare le fotografie sulla diffusione del virus in Italia: da una parte c'è l'indagine nazionale voluta dal Comitato tecnico scientifico e dal Ministero in collaborazione con l'Istat; dall'altra ci sono i test che molti regioni hanno già cominciato. Non solo: molte grandi aziende si stanno organizzando, per la riapertura, proponendo i test sierologici per i propri dipendenti, mentre anche i laboratori privati ormai offrono questo tipo di rilevazione. Il professor Locatelli, l'altro giorno, ha sostenuto che questa «dovrebbe essere materia solo del servizio sanitario nazionale».

Covid, in Usa pronto test molecolare rapido. Professore di Noci a Pittsburgh: «Autorizzato in emergenza, risultato in 5 minuti». Sperimentazione in corso. Il professore: «Potrebbe essere usato anche negli studi medici». Nicola Simonetti l'11 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Cos’è il nuovo test molecolare «breve» che gli Stati Uniti stanno iniziando ad utilizzare? Lo chiediamo a Giuseppe Intini, professore di odontoiatria all’Università di Pittsburgh, nato a Noci, punto di riferimento sulla medicina rigenerativa e cellule staminali. «Si chiama - risponde - Id now e a mio avviso è il prodotto al momento più promettente per gli studi odontoiatrici e per altri, vista la sua capacità di identificare direttamente la presenza del virus (e non degli anticorpi, come per gli altri test rapidi disponibili e sperimentati in Italia, ndr) in maniera molto rapida, da 5 a 15 minuti. Si potrebbe fare test giornaliero a tutti gli operatori sanitari (dentisti, igienisti e assistenti, in questo caso) e a tutti i pazienti che giungono a studio. Metodica da adattare ad ogni altra specialità od ospedale». L’Id Now di Abbott si basa sulla stessa piattaforma già usata negli Usa per la diagnosi di influenza A o B: identifica il gene RdRp del coronavirus tramite «amplificazione isotermica» e pertanto dovrebbe avere sufficiente capacità di identificare i pazienti realmente non-infetti). «In quanto alla sensibilità (la capacità di identificare i pazienti realmente infetti, ndr) non sono ancora disponibili abbastanza dati. Dovremo capire - dice il professor Intini - quanto sia affidabile e sfruttabile con sufficiente sicurezza nella nostra pratica». Il test è disponibile? «Attraverso l’incredibile lavoro dei team Abbot - dice Chris Scoggins, senior vice president Rapid Diagnostics - potremo consegnare 50.000 test al giorno, dalla prossima settimana, al sistema sanitario statunitense e prevediamo di produrre circa 5 milioni di test in aprile. I test offrono agli operatori sanitari risultati rapidi in più contesti specie in prima linea dove più servono risposte immediate. «I test molecolari portatili - aggiunge il professor Intini - espandono la capacità del Paese di ottenere risposte più veloci e rimangono un passaggio cruciale nel controllo della nuova pandemia». Il test Abbot è approvato dalla Fda? «È stato autorizzato - precisa Scoggins - per l’uso d’emergenza da parte di laboratori autorizzati solo per il rilevamento di acido nucleico da SARS-CoV-2, non per altri virus o agenti patogeni finché ne è giustificato per l’ emergenza. Nel frattempo si intensifica la raccolta di dati statistici e sul campo, idonea a meritare l’approvazione definitiva».

Coronavirus, pronto il primo test italiano per la patente d'immunità. Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Arriva il primo esame del sangue tutto made in Italy, per verificare chi ha sviluppato gli anticorpi al Covid-19. Lo scrive oggi il Corriere della sera. La multinazionale di diagnostica DiaSorin è pronta al lancio di un test sierologico costruito in vitro nei loro laboratori di Saluggia (Vercelli) da un team di 50 ricercatori. Entro due settimane è attesa la certificazione Ce, poi potranno partire i test sulla popolazione (con un costo inferiore a 5 euro ciascuno). Il risultato arriva in un' ora. In Italia potranno essere processati circa 500.000 campioni al giorno. Il test italiano serve a rilevare chi, dopo aver contratto il virus ed essere considerato guarito, in pratica certifica una patente di immunità. L' esame funziona come un normale prelievo. Il procedimento, scrive il quotidiano, è molto semplice. I pochi microlitri di sangue vengono inseriti in un macchinario apposito in grado di metterli a contatto con la proteina sintetica costruita nei laboratori DiaSorin utilizzando un pezzo di Sars-Cov-2 (nome del virus). Il kit automatizzato verifica il legame fra la proteina e l'anticorpo neutralizzante e lo evidenzia attraverso un segnale luminoso. Il prototipo è stato testato nel laboratorio di virologia del San Matteo di Pavia utilizzando campioni di sangue (anonimi) di 150 pazienti ricoverati nelle varie fasi della malattia.

Da "leggo.it" il 6 aprile 2020. Nel giro di pochi giorni si potrebbe avere la validazione dei test che confermano l'immunità al coronavirus: è il presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli, a confermarlo all'agenzia ANSA. Secondo quanto detto da Locatelli, ci saranno risposte «in tempi brevi» ed in «pochi giorni» si avrà la validazione dei test sierologici da poter usare su larga scala su campioni della popolazione. La validazione dei test avverrà, spiega, «sulla base di 4 criteri e dovranno essere test con una valenza nazionale, in modo che non vi sia il rischio di difformità tra le varie Regioni». «Stiamo lavorando alacremente - ha spiegato Locatelli - e una risposta sulle validazioni ci sarà in tempi brevi, nell'arco di qualche giorno».

QUATTRO CRITERI La validazione dei test sierologici - mirati ad individuare la presenza degli anticorpi al SarsCov2 attraverso un prelievo di sangue - avverrà sulla base di 4 criteri:

«Innanzitutto - ha chiarito Locatelli - si dovrà trattare di un test, o di più test, che dovranno avere una elevata sensibilità e specificità, per evitare che possano esserci dei risultati falsi positivi o falsi negativi.

Il secondo criterio è che dovranno essere test realizzabili in tempi brevi, con un arco di tempo ridotto dal momento del prelievo al momento in cui si potrà disporre del risultato».

Terzo criterio è che «possano essere applicabili su larga scala sul territorio nazionale e non ristretti alle capacità di pochi laboratori». Quarto criterio è che siano dei test «di facile applicazione ed esecuzione da parte del personale sanitario».

Altro elemento fondamentale, ha concluso Locatelli, è che i test sierologici che saranno validati «dovranno essere test con valenza nazionale, proprio per evitare che possano crearsi delle disparità o differenze interpretative tra le Regioni».

Coronavirus a Napoli, via ai test rapidi al Cardarelli: «Così siamo più sereni». Il Mattino di Napoli Mercoledì 1 Aprile 2020. «Il test dà il risultato in dieci minuti, rileva la presenza di anticorpi contro il covid. È uno screening sierologico quindi ha profili di alta sensibilità e di discreta specificità. L'operatore che si presenta al test negativo è sicuramente negativo, se vengono fuori positività invece l'operatore deve fare il tampone». Così Michele Vacca, direttore del centro regionale sangue e direttore del centro trasfusionale dell'ospedale Cardarelli di Napoli illustra il test rapido per i sanitari partito oggi all'ospedale partenopeo. «È un test - prosegue - molto importante per lo screening di massa, siamo contenti di aver iniziato oggi l'attività al Cardarelli, così possiamo identificare e dare serenità ai nostri operatori che se si dimostrano negativi possono tornare a loro attività con più serenità». Il test dà un esito certo sulla negatività: «Su quello è molto preciso - spiega Vacca - mentre se dà un positivo si fa anche il tampone normale per sicurezza. Lo potremo fare presto anche qui al Cardarelli con una macchina molto potente che ci permetterà di fare anche 180 tamponi al giorno, potremo anche dare una mano al Cotugno. Lo strumento è pronto, aspettiamo solo i reagenti, sappiamo che la ditta che li produce ha richieste da tutto il mondo e aspettiamo la fornitura». Vacca spiega la differenza tra i due metodi diagnostici: «Il test rapido - dice - rileva gli anticorpi di tipo Igg o Igm o entrambi e in dieci minuti diamo la risposta. Invece il test sui tamponi identifica genoma virale con metodiche NAT: con lo strumento diagnostico che abbiamo qui e che di solito usiamo per lo screening dei donatori, è capace di dare una risposta di 90 campioni in 3 ore. E' una grossa potenza di fuoco a nostra disposizione». Il test rapido stamattina ha tolto l'ansia a 97 sanitari su 100 che lo hanno fatto: «In questa prima mattinata - spiega Vacca - abbiamo rilevato tre positività agli anticorpi ma solo IGG, quindi in teoria sono operatori che hanno avuto l'infezione e l'hanno già superata proprio hanno secreto quegli anticorpi. Il test comunque ha sicura efficacia sui negativi per i positivi invece va confermato. I tre di stamattina hanno fatto già tampone e aspettano la risposta tra 2-3 giorni. Il testa sta dando grande serenità agli operatori, in tanti si sono autoisolati nons apendo se sono positivi. Abbiamo letto nei loro occhi una rinnovata serenità».

ABBIAMO COMPRATO I RAPIDO PER IL COVID-1 SE NON SI SA SE FUNZINI. Linda di Benedetto il 4 aprile 2020 su Panorama. Sul mercato è facile procurarsi il Kit, anch ein groosse quantità, anche da rivendere. Il tutto mentre il Ministero della Salute ripete che non se ne riconosce la reale efficacia.

«Io l'ho comprato, tra i colleghi lo abbiamo fatto tutti. A Napoli e in altre città sta andando a ruba...compralo anche tu». Ecco l'ultimo oggetto del desiderio, quello che può schiacciare la paura del Covid-19: il test sierologico. E poco importa se il Ministero della Salute con un circolare ha ribadito poco fa che "i test sierologici necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operative, in particolare i test rapidi basati sull'identificazione di anticorpi IGM e IGG specifici per la diagniosi di infezione da Covid. Secondo il parere espresso dal Cts non possono allo stato attuale dell'evoluzione tecnologica sostituire ill test molecolare (il tampone n.d.r.) secondo i protocolli rilasciati dall'OMS». Ma il via libera alla vendita, quello, ovviamente c'è, perché business is business. Se poi l'invito all'acquisto arriva da un conoscente, non una persona a caso, bensì un medico che l'ha comprato ed usato lui per primo come tutti i suoi colleghi, la cosa assume tutto un altro aspetto. Incuriositi ci siamo fatti mandare la brochure. Eccola: VivaDiagTM COVID-19 lgM/IgG Rapid, della azienda di biotecnologie di Bitonto Alpha Pharma, prodotto e messo in vendita da un laboratorio in provincia di Napoli specializzato in apparecchi acustici ma, che, visto l'andazzo del mercato, si è subito messo in azione. Abbiamo contatto telefonicamente la S.r.l campana, presentandoci come semplici cittadini preoccupati per l'emergenza sanitaria  e chiedendo informazioni sul test. Il responsabile aziendale ci ha confermato di essere in possesso di questo prodotto e di potercelo vendere al prezzo di 30 euro (più Iva), con la possibilità di acquistarlo singolarmente e per uso personale, ma anche in quantità superiori, assicurandoci la sua validità. Affare fatto. Tramite mail inviata dalla S.r.l, ci è stato confermato l'ordine online con gli articoli richiesti e più ricercati dell'emergenza Coronavirus, insieme al catalogo dei prodotti ed un tutorial video del test Covid-19. Con la cifra di circa 761 euro da versare anticipatamente tramite bonifico bancario, entro la fine di aprile (segno che li affari non mancano) ci saranno recapitati dopo l'avvenuta conferma: 10 test Covid-19 (300 euro) 2 flussometri (220 euro) e due termoscan (160 euro). Semplice, rapido, efficace. Così, con una telefonata ed una mail si possono acquistare senza nemmeno una prescrizione medica, come una pillola qualsiasi. Il VivaDiag è un test diagnostico in vitro, il cosiddetto test sierologico, che determina la presenza degli anticorpi lgM e lgG anti-covid-19, nel siero o nel plasma e dirci quindi se siamo stati contagiati e se abbiamo sconfitto il Coronavirus. Questo dispositivo è stato testato su 200 campioni clinici in tre ospedali ed è composto da una fingersticks per il prelievo di sangue, che si fa pungendo un dito. Il campione ottenuto, si applica su una barra a cui si aggiunge un reagente specifico che nel giro di 15 minuti, stabilisce se il soggetto ha sviluppato gli anticorpi al virus. Sono in molti quindi, che in mancanza di uno screening di massa rapido per i portatori di SARS-Cov-19 sintomatici o asintomatici, hanno cercato a tutti i costi di acquistare i test in vendita, a cifre che partono dai 30 euro ma che arrivano a volte fino ai 150 euro, come denunciato in queste ore dall'assessore D'Amato della Regione Lazio. Inoltre le domande sempre maggiori, hanno creato un vero e proprio mercato nero con molte aziende che lo predispongono per i loro dipendenti in modo da capire chi può tornare al lavoro.  Quanto ci confermava il nostro medico è vero: visto che farsi il tampone è praticamente impossibile ecco che scatta la corsa al siero, al test fai-da-te, al sostituto, tutto pur di togliersi la paura. Eppure forse stiamo parlando di una caccia al nulla. L'epidemiologo Pierluigi Lopalco in merito sostiene: «Il Test dice solo se si è incontrato il virus in passato e non è neanche preciso». In più. come dice la brochure, non va fatto in casa ma solo da personale medico o comunque specializzato. Dubbi su dubbi. Il Ministero si sta muovendo per stabilire una volta per tutte la bontà di questi test. Il Governatori delle Regioni e molti industriali spingono perché questi kit di fatto diventino lo strumento per riaprire aziende, negozi, regalare un po' di normalità. Servono però tempi rapidi e certezze altrimenti, come oggi, è il caos.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2020. Potranno essere usati per favorire il rientro al lavoro e la lenta, graduale ripresa delle attività produttive. Consentiranno di tracciare il vero profilo dell' epidemia italiana. Più di una funzione chiave viene attribuita ai test rapidi sierologici ed è per questo che ministero della Salute e Comitato tecnico scientifico contano sulla collaborazione delle Regioni: «Lavoriamo tutti insieme, niente fughe in avanti». Parliamo dei test finalizzati a rilevare la presenza di anticorpi nel sangue e a stabilire se un individuo, pur non essendo positivo al coronavirus in quel momento, ha però avuto l' infezione nelle settimane precedenti senza sviluppare sintomi o avendone di lievi. Richiedono un piccolo prelievo di sangue dal dito, la risposta è rapida. Se è positiva, significa che una persona è immune dalla malattia e non rischia di essere nuovamente contagiata. Per quanto tempo? Non si sa, questo elemento fa parte delle incertezze della ricerca che si trova a maneggiare un agente patogeno sconosciuto fino allo scorso gennaio. Intanto questo semplice strumento di laboratorio può essere un alleato fondamentale per impostare la fase 2, quella del ritorno progressivo alle attività quotidiane. «I test potranno anche fornire informazioni utili su quella percentuale di soggetti che hanno sviluppato anticorpi e sono da considerare strumentalmente utili per riprendere le attività in certe aree stabilendo la collaborazione con la sanità locale», ha detto Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Si può pensare di testare inizialmente delle categorie mirate di lavoratori, primi fra tutti gli operatori sanitari. La presenza di più dipendenti immuni potrebbe ad esempio permettere a un' azienda di riprendere la produzione ridando un po' di fiato all' economia del Paese, in drammatica sofferenza. Però sarà fondamentale la collaborazione con la sanità locale. I cittadini rientrati in ufficio dovranno essere attentamente seguiti dalle Asl. Molta importanza viene attribuita dunque all' aiuto che può essere dato dagli studi di sieroprevalenza. «È un' indagine straordinariamente importante su cui investire in modo rigoroso validando i test più idonei - spiega Locatelli -. C' è da capire quale è stata la diffusione del virus e quali i tassi di letalità». Si lavora per individuare, in collaborazione con l' Organizzazione mondiale della sanità, il modello di test migliore. Non soltanto affidabile dal punto di vista della risposta ma che sia utilizzabile in tutte le aree del Paese, con le tecnologie presenti nei nostri laboratori e ugualmente valido per maschi e femmine. Molti i kit in fase di valutazione, poche le esperienze, a parte quella cinese. No ai test sierologici anche come sostituivi di quelli molecolari, col tampone. Una nuova circolare del ministero della Salute afferma che «nell' attività diagnostica dell' infezione in atto necessitano di evidenze ulteriori e non possono sostituire il test molecolare basato sull' RNA virale attraverso i tamponi».

Enza Cusmai per “il Giornale” il 4 aprile 2020. L' affannosa ricerca del kit sierologico continua. Anche se molte regioni si sono attrezzate e hanno cominciato a fare test rapidi soprattutto nel mondo ospedaliero, la Lombardia aspetta a partire. Frenata doverosa dopo i resoconti poco incoraggianti che arrivano dal Policlinico San Matteo di Pavia, dove è il corso la validazione di decine di test rapidi sierologici, che verificano la presenza di anticorpi sviluppati dopo aver contratto il coronavirus. Molti di questi test sono già stati testati su una trentina di persone guarite che dunque avrebbero dovuto sviluppare gli anticorpi. E in questa ricerca almeno uno di questi test rapidi ha dato un risultato pericoloso: l' 82% di falsi negativi. Una doccia fredda per le aziende che li producono e li propongono a ospedali e a laboratori privati. Il rischio altissimo è quello di ricevere un attestato di falso negativo, cioè la persona si illude di essere immune mentre non lo è. Ma i test rapidi sono il cuore della «Fase 2», quando il virus rallenterà e sarà necessario ripartire. E tra un mese la ripresa passerà necessariamente anche attraverso test più rapidi e più capillari. Ne è consapevole anche il Comitato tecnico-scientifico da cui si aspettano risposte: «Stiamo valutando alcuni test sierologici per la validazione spiega il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli - vorrei chiarire però che non servono per la diagnosi di infezione, ma per definire la sieroprevalenza. I tempi per la validazione saranno certamente brevi, pochi giorni. Ma è importante che la celerità corrisponda ad un rigore nella valutazione della sensibilità e specificità. Bisogna evitare falsi positivi e falsi negativi». Altra nota arriva in serata. Dal ministero della Salute in cui precisano che «i test sierologici sono molto importanti nella ricerca e nella valutazione epidemiologica della circolazione virale» ma «necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa». In particolare, «i test rapidi basati sull' identificazione di anticorpi IgM e IgG non possono, allo stato attuale dell' evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull' identificazione di Rna virale dai tamponi nasofaringei». Tante precisazioni dal ministero e una novità: sì ai prelievi da laboratori mobili o drive-in clinic, i campioni a finestrino aperto. E l' esecuzione del test diagnostico va riservata prioritariamente ai casi clinici sintomatici (anche con pochi sintomi) e ai contatti a rischio, focalizzando l' identificazione dei contatti a rischio nelle 48 ore precedenti all' inizio della sintomatologia: «Per garantire la sua efficacia il test dev' essere tempestivo». L' esecuzione dei test va assicurata agli operatori sanitari e nelle Rsa. Ma gli enti locali vanno avanti. Nelle Marche sono stati avviati screening sierologici negli ospedali. «La dimensione di questa epidemia è molto ampia dice il presidente della Regione Luca Ceriscioli - e occorre adeguare molto, molto velocemente la risposta sanitaria all' evoluzione delle condizioni». Anche in Liguria hanno preso il via i test su un campione di 2.400 donatori tra i 18 e gli 80 anni per stimare la circolazione dei virus tra la popolazione, analizzando anche prelievi di sangue già donati a partire dal dicembre scorso. Il progetto, approvato anche dal Comitato etico regionale, «ci farà capire - ha spiegato il presidente Giovanni Toti - se il virus abbia iniziato a circolare in Liguria fin da dicembre».

Luigi Ripamonti per corriere.it il 3 aprile 2020. Uno dei temi su cui stanno convergendo le maggiori attenzioni a proposito della pandemia di Covid-19 è, ora, quello che verte sugli esami del sangue per la ricerca degli anticorpi contro il virus che la sostiene. Per capire di che cosa si tratta è utile partire da una distinzione: non si parla di esami che sostituiscono o si sovrappongono all’ ormai famoso «tampone». Questo è un test il cui scopo è stabilire se una persona ha il virus «addosso» in quel momento (pur con margini di errore) e viene eseguito cercando il suo Rna nelle secrezioni del naso o della gola. I cosiddetti test sierologici invece si effettuano, appunto, sul sangue e servono a stabilire se una persona ha fabbricato anticorpi contro il virus Sars-Cov-2, nel qual caso significa che è venuto in contatto con esso in un passato più o meno recente. Gli anticorpi che si vanno a cercare sono essenzialmente di due tipi: IgM (Immunoglobuline M) e IgG (Immunoglobuline G). Le IgM vengono prodotte per prime in ordine di tempo dopo che è avvenuta l’ infezione, le IgG successivamente. «Nella fase in cui ci troviamo adesso il primo problema che ci dobbiamo porre è stabilire, fra i molti test in commercio a questo scopo, quali sono davvero affidabili- spiega Pierangelo Clerici, presidente dell’ Associazione Microbiologi Clinici Italiani e della Federazione Italiana Società Scientifiche di Laboratorio-. Una risposta in proposito la si potrebbe ottenere in breve tempo, diciamo una settimana, coinvolgendo i laboratori di microbiologia clinica del nostro Paese». «In Veneto abbiamo cominciato a verificare i test disponibili» interviene Roberto Rigoli, direttore della Microbiologia e Virologia dell’ Ussl 2 di Treviso, che nella sua regione sta coordinando la parte organizzativa su questo fronte. «Ne abbiamo individuati alcuni effettivamente affidabili, ma va sottolineato che la maggior parte di essi non sono risultati tali e quindi sarebbe disastroso usarli perché potrebbero indurre a considerare immuni dal virus persone che invece non lo sono affatto». E ancora: «Usando i kit che abbiamo selezionato su campioni biologici prelevati ai pazienti Covid-19 positivi al momento del ricovero, e poi in tempi successivi, abbiamo potuto osservare che lo sviluppo di una risposta anticorpale richiede in genere dai 7 ai 10 giorni a partire dal momento dell’ infezione». Anche questa però non è un’ informazione sufficiente, perché il secondo quesito che bisogna porsi è quello relativo al potere «neutralizzante» di questi anticorpi. Solo in questo caso infatti essi garantirebbero che una persona non possa essere più infettata da Sars-Cov-2 e quindi non possa essere nemmeno capace di trasmetterlo. Ci sono infatti virus, per esempio l’ Hiv, verso cui l’ organismo sviluppa anticorpi, che sono utili a fini diagnostici (infatti dosati nel sangue possono dire se un individuo è venuto in contatto con l’ Hiv), ma che non sono capaci di impedire al virus di fare i suoi danni e quindi non forniscono immunità. Altri virus, al contrario, vengono resi innocui dagli anticorpi prodotti verso di essi. «Per capire se quelli fabbricati dal nostro sistema immunitario nei confronti di Sars-Cov-2 ricadono in questa seconda categoria serviranno altri test di laboratorio, che dovrebbero rendersi disponibili nel giro di un paio di settimane» precisa Pierangelo Clerici. «A quel punto sarà possibile dapprima verificare se un anticorpo eventualmente presente nel sangue di un paziente che ha contratto l’ infezione si lega a una determinata proteina (antigene) del virus e poi, qualora ciò avvenga, capire se questo legame è sufficientemente saldo da non permettere più al virus di infettare altre cellule. Se antigene e anticorpo non possono venire separati con appositi procedimenti significa che l’ anticorpo è neutralizzante e quindi farà da scudo nel caso di un nuovo incontro di quella persona con il virus, rendendolo immune e di conseguenza non a rischio di infettare altri individui». Rimane un terzo quesito: nel caso si trovino anticorpi neutralizzanti come si potrà sapere quanto dura l’ immunità? «Potremo capirlo controllando a cadenza fissa, per esempio ogni tre mesi, chi ha anticorpi protettivi» chiarisce Clerici.

Marzio Bartoloni per ilsole24ore.com il 3 aprile 2020. La fase due, quella della riapertura graduale dell’Italia, potrebbe passare per un test di massa per scoprire chi si è già immunizzato perché ha già avuto il Covid 19 e magari neanche se ne accorto. Per ora è solo una ipotesi, ma il Governo ci sta lavorando e aspetta che i tecnici del Comitato scientifico possano validare i test sierologici, molti ancora non proprio affidabili. Si tratta di esami rapidi del sangue che identificano la presenza di anticorpi al virus e quindi se il contagio è già avvenuto con la conseguente immunizzazione.

Test in attesa di linee guida. Questi test potranno aiutare a comprendere per esempio quante siano state le persone hanno avuto il virus in Italia, oltre ai casi diagnosticati. Soprattutto nella fase della riapertura diventa importante individuare chi ha avuto l'infezione, ma senza sintomi o con sintomi così lievi da non avere avuto la diagnosi. Lo scopo è quello di definire se una persona è stata colpita dal virus, anche inconsapevolmente, e quindi per un certo periodo di tempo è immune. Dati cruciali se si vuole ripartire. Tanto è vero che il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia anche di fronte alle iniziative fai da te di varie Regioni ha chiarito che servono con urgenza delle linee guida chiare:  «È illusorio pensare a un mondo senza positivi tra un mese». «Le linee guida sanitarie devono essere decise dal Comitato scientifico - aggiunge Boccia - per cui auspico linee guida urgenti sui test». Il Comitato in effetti ci sta lavorando e potrebbe esprimersi proprio in questi giorni.

Il Veneto fa da battistrada. In attesa delle indicazioni del Governo le Regioni si sono portate avanti. E come già avvenuto con la campagna dei tamponi a tappeto anche questa volta è stato il Veneto a fare da battistrada partendo ufficialmente nei giorni scorsi. «Per noi in Veneto il test sierologico è l’ultima frontiera. Eravamo conosciuti come quelli dei tamponi (ne abbiamo fatti 105.000), poi per i test con i kit rapidi, e adesso avremo questa ulteriore evoluzione, più probante scientificamente, con la validazione delle Università di Padova e Verona», ha spiegato il governatore Luca Zaia. Che si dice convinto che una volta sperimentata e validata l’operazione «con i 54mila dipendenti della sanità e con le case di riposo» questi test sierologici siano estendibili «a tutti gli altri»: « Pensate ai lavoratori - sottolinea Zaia - che posso avere la certificazione perché da immunizzati posso andare via tranquilli». E non è un caso che già diverse aziende - dalla Ducati alla Ima - stiano pensando di impiegarli con i propri dipendenti al momento delle riaperture delle fabbriche.

Le altre Regioni. Nell’ultima frontiera, per battere il virus in tempi più rapidi, si è lanciata anche l’Emilia Romagna. Da Piacenza a Rimini, lo screening per il Covid-19 verrà effettuato su tutto il personale della sanità e dei servizi socioassistenziali. La Regione sta pensando al dopo pandemia: si farà un'indagine su un campione di popolazione per capire che percentuale di cittadini ha avuto l’infezione e non se n'è accorta. Anche la sanità ligure ha iniziato i test sierologici sul personale sanitario e gli ospiti delle Rsa. E nei prossimi giorni saranno coinvolti anche i donatori di sangue. E sempre per gli ospiti delle Rsa il Piemonte ha iniziato uno screening a tappeto col test sierologico. Una serie di monitoraggi sono in corso anche nelle Marche mentre in Puglia si è partiti dagli ospedali. «Siamo nella fase della validazione dei test, stiamo sperimentando diverse tipologie», spiega Pierluigi Lopalco, coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza. Ma c’è chi frena come la Lombardia: «Ci atterremo alla scienza», dice il governatore Attilio Fontana.

La differenza con i tamponi. Ma che differenza c’è tra i tamponi utilizzati finora per la diagnosi di Covid e questi test sierologici: « Mentre i tamponi forniscono una diagnosi diretta, individuando i frammenti genetici del virus nei campioni prelevati da naso e gola, i test sierologici - spiega Francesco Broccolo, dell’università Bicocca di Milano e direttore del laboratorio Cerba di Milano - forniscono una diagnosi indiretta rivelando la presenza degli anticorpi, ossia se l'infezione sia avvenuta in passato o meno». Esistono test sierologici più rapidi ed economici che danno la risposta in 10 minuti ma meno affidabili e che per questo hanno bisogno di essere validati (l’Oms ne sta valutando addirittura 200); ci sono poi altri test più complessi e costosi, ma più affidabili, per i quali sono al momento 36 i laboratori pubblici di almeno 11 regioni che si stanno organizzando. «Se i test non sono validati il rischio è di avere falsi positivi o falsi negativi. Per esempio il test può risultare falso positivo se una persona è stata infettata da altri virus, come i coronavirus responsabili del raffreddore perché l'analisi non è abbastanza sensibile per distinguere i due agenti infettivi», spiega l’esperto.

L’affidabilità ancora da verificare. I test rapidi consistono in una sorta di tavoletta di nitrocellulosa nella quale la presenza degli anticorpi viene rivelata dalla comparsa di una barretta colorata: «Sono test semplici ed economici, il cui costo può variare da 12 a 25 euro, ma la cui affidabilità è piuttosto bassa, pari a circa il 30%». La goccia di sangue che viene introdotta su questa sorta di fascetta di nitrocellulosa e, se contiene gli anticorpi, questi reagiscono con l'antigene, ossia con la parte del virus che stimola reazione immunitaria e che si trova sulla fascetta, producendo una striscia colorata. Più costosi (circa 70 euro) i test di laboratorio che risultano invece affidabili (oltre il 90%). Come detto sono 11 le regioni già in grado di eseguirli o che stanno richiedendo le autorizzazioni per farlo, per un totale di 36 laboratori. Sono di due tipi gli anticorpi che entrambi i test sono in grado di rilevare, anche se con un livello di precisione molto diverso. Si chiamano Immunoglobuline M e G (IgM e IgG) e sono in grado di indicare se il contagio è avvenuto recentemente (da una settimana) o da più di un mese.

·         Tamponi negati: il business.

Corsa al tampone, il costo? Fino a 150 euro: «È un business, servono più regole». Sintomatici che non riescono a prenotare l’esame con Ats, attese fino a dieci giorni, richieste di test per precauzione. Decolla l’offerta privata. I sindacati: la Regione fissi un tetto. Stefania Chiale su Il Corriere della Sera il 14 novembre 2020. C’è chi si rivolge ai privati perché, per motivi personali o di lavoro, vuole verificare di non essere positivo al coronavirus. A questi si affiancano i tanti che lo fanno per necessità, laddove il sistema pubblico non regge più o non riesce più a essere tempestivo (volendo usare un eufemismo). Perché oggi l’attesa per prenotare un tampone a pazienti sospetti Covid da parte dei medici di medicina generale sul portale Ats Milano è di una settimana quando va bene, altrimenti di dieci giorni; perché spesso i posti liberi sono solo al drive in e non per tutti è fattibile; perché i medici hanno decine di pazienti sintomatici per i quali si richiede una chiamata da parte dell’Ats che non arriva mai. A questo si aggiunga che l’Ats non fa più tamponi sui contatti stretti. Sono, quindi, gli stessi medici a chiedere ai pazienti di fare l’esame privatamente. Risultato: l’offerta di tamponi da parte dei privati è l’àncora di salvezza di un sistema andato in tilt, non solo sul tracciamento dei contatti stretti, ma sui tamponi da effettuare ai casi sospetti segnalati dai medici all’Ats (che superano i 10mila al giorno). Qual è l’offerta privata di tamponi su Milano? Varia e con notevoli differenze di prezzo. Partiamo dal tampone «classico»: il molecolare naso faringeo, il più affidabile per la diagnosi di infezione da coronavirus. Si va dai 75 euro chiesti all’ospedale Humanitas ai 125 euro di MultiMedica (presso l’Ospedale San Giuseppe, l’Irccs MultiMedica di Sesto San Giovanni e l’ambulatorio di via San Barnaba). In mezzo, le alternative sono molte: al Centro medico Santagostino il tampone costa 80 euro, stessa cifra all’Istituto Clinico Città Studi (che però lo esegue solo su pazienti risultati positivi al test sierologico eseguito presso il centro), 90 euro all’Auxologico, 90-92 presso le strutture del Gruppo San Donato (come l’Irccs San Raffaele, l’Istituto clinico Sant’Ambrogio o l’Istituto clinico San Siro); 95 presso i punti prelievo Synlab. A salire: 100 euro al Cardiologico Monzino, 102 al centro Unisalus, 120 al Centro Diagnostico Italiano. Ci sono, poi, ospedali pubblici che consentono di effettuare il tampone anche privatamente, senza impegnativa del medico, come l’Asst Santi Paolo e Carlo, a 70 euro, e il Niguarda, a 90. Alcuni centri effettuano, infine, il tampone molecolare a domicilio, come il Santagostino (110 euro) e il Centro Privatassistenza Milano Porta Venezia (122 euro). Passiamo, quindi, al tampone antigenico rapido. Sono ancora pochi i centri privati a offrirlo e il prezzo è abbastanza omogeneo. Il Cdi chiede 30 euro (ma al momento il servizio è sospeso), stesso prezzo al Santagostino. Il costo è di 35 euro al Biochimico e di 40 all’Unisalus di via Pirelli. Il servizio di tampone rapido a domicilio ha invece un tariffario estremamente variabile. Si parte dal Santagostino, dove il costo è di 60 euro, fino ai 150 da sborsare chiamando il servizio Medi-Call. Con il centro Privatassistenza Milano centro il costo è di 70 euro (ma il servizio si effettua per almeno 5 persone residenti nello stesso appartamento), di 75 con Lami e di 90 con il centro Privatassistenza Milano via Foppa. La situazione riassunta mostra che il mercato a domanda risponde. Se, però, il sistema copre — durante una pandemia — falle o ritardi del pubblico, allora l’offerta diventa più che un semplice tariffario a disposizione dei cittadini. Per quanti il costo di un tampone privato è sostenibile? «Per favorire i medici di medicina generale che non riescono più a prenotare tamponi per i pazienti che ne hanno bisogno, la Regione dovrebbe chiedere ai privati accreditati degli slot a carico del pubblico — propone allora Isa Guarnieri, segretaria Fp Cgil Milano — questo per favorire tracciabilità e sostenibilità del costo per i cittadini». In alternativa, proprio perché l’Ats Milano non riesce più a fare tempestivamente i tamponi a chi ne ha bisogno, «Regione Lombardia potrebbe imporre un costo massimo dei tamponi ai privati accreditati».

L'analisi. Report Rai PUNTATA DEL 08/06/2020. Antonella Cignarale, collaborazione di Simona Peluso. Quando ci sottoponiamo ad esami clinici la nostra provetta con molta probabilità non viene subito analizzata, ma spedita in un altro laboratorio insieme a tante altre. È il nuovo modello organizzativo dei laboratori che ha aperto la strada ai grandi network della diagnostica. Il paziente può richiedere esami complessi nel centro prelievi sotto casa che poi invia il campione biologico da analizzare a distanza, ma si rischia di perdere il rapporto diretto con chi mette mano al campione e al referto con tutti i dati. Dati che diventano un bacino di informazioni preziose e possono guidare scelte importanti, come ad esempio, poter contenere una pandemia. E mentre le provette e i dati personali passano da una mano all’altra, quanto il nostro è un consenso informato? 

 “L’ANALISI” di Antonella Cignarale collaborazione Simona Peluso Immagini di Chiara D’Ambros, Giovanni De Faveri, Tommaso Javidi, Cristiano Forti.

ANTONELLA CIGNARALE La fase analitica voi non la eseguite più?

CLARA MASTROVINCENZO - LABORATORIO PRIVATO ACCREDITATO ROMA No, siamo costretti a inviare i campioni fuori.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Un laboratorio per effettuare le analisi in convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale e riceverne il rimborso deve eseguire 200mila prestazioni all’anno. Per sopravvivere ai limiti imposti i piccoli laboratori si sono aggregati accentrando l’analisi dei campioni all’interno di uno solo, più grande.

PAOLO MADONNA - LABORATORIO PRIVATO ACCENTRANTE ROMA Il valore aggiunto delle nostre strutture, che erano la conoscenza, il rapporto diretto col paziente, sta sparendo. È come se lei o ognuno di noi si facesse curare da un medico di base che non ci conosce.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO La conseguenza è che i piccoli laboratori hanno dismesso macchinari e licenziato personale. E c’è chi è finito nella rete dei grandi gruppi che offrono il servizio chiavi in mano. Come Lifebrain o Synlab.

LABORATORIO ANALISI AGGREGATO – ATI SYNLAB LAZIO Noi di nostro in laboratorio non facciamo più nulla, mandiamo tutto quanto a Synlab. Ci danno loro le loro provette, ci danno loro le cose per fare il prelievo, ci danno tutto loro.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO C’è anche il Gruppo Lifebrain, del fondo Investindustrial: è presente in sedici regioni con una rete di 290 centri. E se l’esame lo facciamo in un laboratorio di Bologna, le nostre provette dove vanno?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN - BOLOGNA Vengono inviate a Padova dove c’è il nostro centro di riferimento.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Così la provetta si fa 100 chilometri per essere analizzata. E un giro lo fanno anche i dati. Li affidiamo a Lifebrain Emilia-Romagna, ma firmando diamo il consenso a trattarli anche a Lifebrain Srl di Guidonia. Nel frattempo, vengono trasmessi alla Rete Diagnostica Italiana che esegue le analisi.

MARIO PLEBANI - DIRETTORE LABORATORIO AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITÀ DI PADOVA Questi dati messi assieme ci permettono di dire quali sono i bersagli verso i quali indirizzare i nostri farmaci, come delle bombe intelligenti.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Da quante mani possono essere trattati i campioni e i dati delle nostre analisi?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ai tempi del Covid correremo un po’ tutti a fare le analisi del sangue. Ma poi che giro fanno le provette e i nostri dati sanitari? Questo è un po’ più difficile saperlo. Buonasera. I piccoli laboratori, molti piccoli laboratori, sono stati fagocitati dai grandi gruppi che sono poi di proprietà dei fondi d’investimento. E per quello che riguarda i dati, il regolamento europeo dice che siamo noi pazienti che dobbiamo tutelarci. Come? Leggendo l’informativa sulla privacy. Ma siamo sempre nelle condizioni di farlo? E poi chi è che gestisce i nostri dati? E chi controlla ha gli strumenti per farlo? La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Anche i grandi gruppi di laboratori Synlab e Lifebrain sono in prima linea nella lotta contro il Covid19. Facciamo i test sierologici a Roma, quando ancora non c’è l’obbligo di comunicare i risultati agli enti pubblici. In un centro Lifebrain, se risulta una positività al primo test da 20 euro si può fare il secondo più specifico da 45 euro; ma gli esiti non li comunicano alla Regione e l’informativa sulla privacy, tra le carte che chiediamo, non c’è.

ANTONELLA CIGNARALE Nel caso in cui risulti una positività voi poi comunicate questo dato alla Asl competente regionale?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN - ROMA Non comunichiamo niente a nessuno, signora.

ANTONELLA CIGNARALE Avreste dovuto farmi leggere penso una informativa alla privacy... LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN - ROMA È scritto tutto qua, signora.

ANTONELLA CIGNARALE Quelle che le ho fatto vedere non sono informative?

FRANCESCO MODAFFERI – DIP. SANITA’ E RICERCA GARANTE PROTEZIONE DATI PERSONALI No, non sono informative.

ANTONELLA CIGNARALE Non sono informative alla privacy.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Lifebrain non ci ha potuto incontrare, esegue test sierologici in dieci regioni. Per capire con quali finalità verranno trattati i preziosi dati andiamo nel loro laboratorio centrale, a Guidonia; il centro dove vengono analizzati i test è il Co-Titolare al trattamento dei dati raccolti da Lifebrain in più laboratori d’Italia.

ANTONELLA CIGNARALE Sono una giornalista di Rai3, ho fatto il test però nessuno è stato in grado di spiegarmi come verrà trattato il dato del test. Ora, visto che ne fate tanti…

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN – GUIDONIA (ROMA) Adesso non stiamo comunicando niente ma nel nostro server ci sono tutti i dati, però sicuramente noi forniremo tutti i dati per fare statistiche, per aiutare le case farmaceutiche; da parte nostra, enti certificati che ci richiederanno collaborazione, la nostra sarà una collaborazione effettiva… ma adesso non glielo so dire! Non lo so, non glielo voglio, interpreti lei.

ANTONELLA CIGNARALE Potete cedere questi dati?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN – GUIDONIA (ROMA) Ma non cedere con nome e cognome eh!

ANTONELLA CIGNARALE Intanto sono contenta di essere negativa, anche se so che non è molto indicativo.

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN – GUIDONIA (ROMA) Non serve a niente, diciamocelo.

ANTONELLA CIGNARALE Non serve a niente questo test?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN – GUIDONIA (ROMA) No, non è che non serve a niente, mi sono espressa male.

ANTONELLA CIGNARALE Ci fate solo soldi? No?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN – GUIDONIA (ROMA) Prego.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Facciamo il test anche in un centro del gruppo Synlab, che li esegue in sette regioni. Paghiamo 51 euro e compiliamo una scheda dove segnaliamo i nostri sintomi, i contatti avuti e i luoghi frequentati, e “acconsentiamo alla trasmissione dei risultati del test alle autorità ove previsto”; ma di quello che ci fa Synlab con i dati al laboratorio non lo sanno.

ANTONELLA CIGNARALE Il centro prelievo fa il prelievo mi offre il servizio però alla fine voglio dire lei non è informata di come Synlab utilizzerà i miei dati del test sierologico?

LABORATORIO ANALISI SYNLAB LAZIO No.

ANTONELLA CIGNARALE Ma poi scusi quanto tempo vi tenete i dati dentro Synlab?

LABORATORIO ANALISI SYNLAB MED - FIRENZE Massimo, mi sembra, dodici mesi, non più di quello. Poi vengono resettati, cancellati.

ANTONELLA CIGNARALE Quanto tempo ve li tenete i dati?

LABORATORIO ANALISI SYNLAB LAZIO Lo sai che lo devo chiedere? Sei più preparata di noi. ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Dieci anni vengono conservati i dati di fatturazione e cinque anni i dati dei referti.

ANTONELLA CIGNARALE Se io chiedo di cancellare i miei dati li cancellano tutti?

FRANCESCO MODAFFERI – DIP. SANITA’ E RICERCA GARANTE PROTEZIONE DATI PERSONALI No! Ci sono norme di legge che, anzi, gli impongono di conservarli.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Il gruppo di laboratori Synlab è presente in quaranta nazioni. Solo in Europa esegue 500milioni di esami all’anno. Il network in Italia è strutturato per piattaforme regionali. Dai punti prelievo periferici i campioni vengono inviati nei laboratori regionali o nel Laboratorio Centrale di Brescia che abbiamo visitato tre anni fa. E anche in un piccolo centro urbano si può chiedere un esame complesso perché viene analizzato a distanza.

ANTONELLA CIGNARALE Perché non avete qui laboratori voi…

PUNTO PRELIEVO SYNLAB MED - EMILIA ROMAGNA No, per quanto riguarda Emilia–Romagna è a Faenza il laboratorio. Poi ci sono quelli che vanno a Brescia, c’è sangue che viaggia anche in Germania, si fanno un bel viaggetto! ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Quando facciamo le analisi lasciamo i dati sanitari del nostro campione biologico e i dati anagrafici. Il laboratorio diventa il Titolare al trattamento dei nostri dati. E ci vuole il nostro consenso informato. Ovvero leggere l’informativa sulla privacy, e non solo il modulo dove firmiamo.

ANTONELLA CIGNARALE Questo è il modulo del consenso. Lei lo sa che c’è un’informativa alla privacy?

LABORATORIO ANALISI LIFEBRAIN - TOSCANA Questo è quello che noi abbiamo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Nei laboratori di Synlab nel Lazio e in Toscana chiedere la firma per la privacy senza un consenso informato sembra un automatismo.

ANTONELLA CIGNARALE Senta qua c’è scritto: presta il suo consenso avendo letto e compreso l’informativa alla privacy. Lei non mi ha fatto leggere niente.

LABORATORIO ANALISI SYNLAB MED - FIRENZE È questa l’informativa alla privacy.

ANTONELLA CIGNARALE È questa l’informativa alla privacy? Queste due righe?

LABORATORIO ANALISI SYNLAB MED - FIRENZE È quella lì.

ANTONELLA CIGNARALE In quel caso il laboratorio sta sicuramente sbagliando?

FRANCESCO MODAFFERI – DIP. SANITÀ E RICERCA GARANTE PROTEZIONE DATI PERSONALI Se non ho letto, se non mi è stata data una informativa quel consenso è privo di significato. Le persone che sono al ricevimento di un laboratorio di analisi devono essere istruite.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Le informative sono tutte uguali, cambia solo la società a cui ci affidiamo. Capita però che, sull’informativa, il laboratorio Titolare è una società e sul modulo che firmiamo, invece, è una diversa. E possono avere accesso ai nostri dati anche altri laboratori del gruppo Synlab dove vengono inviate le nostre provette.

ANTONELLA CIGNARALE Il titolare dei trattamenti è Synlab Lazio, che vuol dire? Che comunque Synlab Toscana non lo può vedere o lo può vedere?

AMMINISTRAZIONE LABORATORIO ANALISI SYNLAB LAZIO Allora: in teoria non lo può vedere, però è chiaro che il direttore del laboratorio centrale può vedere tutti i suoi laboratori perché, come diceva la collega, molte cose viaggiano. La persona di Brescia ovviamente deve vedere il Lazio. Però rispondiamo noi a chi aprire; magari noi cominciamo a vedere tutta l’Italia, qualcuno poi può vedere tutta l’Europa.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Le società dei laboratori Synlab sono registrate come singole srl, appartengono a Synlab Holding Italia e sono tutte coordinate dalla capogruppo britannica, la Synlab Limited. Le cui quote a sua volta sono detenute al 100% dal fondo di investimento inglese Cinven. Nel fondo ci sono anche produttori di farmaci e compagnie assicurative. Il regolamento per la privacy prevede la circolazione dei dati tra i membri dello stesso gruppo in Europa.

ANTONELLA CIGNARALE Abbiamo chiesto come Report anche un’intervista alla società e ci è stato spiegato che siete molto impegnati con l’analisi dei tamponi e dei test, volevamo soltanto sapere se questi dati che raccogliete in tutte le società locali, in tutti i laboratori locali, li analizzate e li centralizzate a livello nazionale o come gruppo europeo.

SYNLAB ITALIA Se io potessi le darei queste informazioni, ma…

ANTONELLA CIGNARALE Qui siamo a Synlab Italia e non c’è nessuno che è in grado di rispondere a questa domanda? SYNLAB ITALIA Sì, ma… Lei è venuta senza preavviso e quindi non ci sono.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In attesa di informazioni, sull’informativa per la privacy del loro sito leggiamo che possono “divulgare i dati personali” che ci riguardano a “soggetti che rilevano” la loro “attività e i beni”.

FRANCESCO MODAFFERI – DIP. SANITÀ E RICERCA GARANTE PROTEZIONE DATI PERSONALI Quella che lei mi ha letto è una frase infelice, mi sembra anche abbastanza equivoca: fa venire dubbi come probabilmente ha fatto venire a lei.

ANTONELLA CIGNARALE Questo che vuol dire, che chi acquista la società si prende anche i dati?

FRANCESCO MODAFFERI – DIP. SANITÀ E RICERCA GARANTE PROTEZIONE DATI PERSONALI Oggi è proprio quello il vero valore di un’impresa, il valore sta proprio nei dati e nella capacità di elaborare i dati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il responsabile del gruppo Synlab ci scrive che i dati sanitari non sono condivisi tra le loro strutture né a livello locale, né nazionale, né internazionale e tantomeno finiscono nella disponibilità del fondo Cinven che poi è l’azionista di riferimento. Mentre dal gruppo Lifebrain, del fondo Investindustrial, ci scrivono invece che solo che dopo che è stato firmato il consenso da parte del paziente, i dati vengono in qualche modo pubblicati su riviste scientifiche e finiscono nella disponibilità degli enti di ricerca. L’unico che può verificare come vengono gestiti i dati è il garante però ha a malapena le risorse per controllare il minimo; si muove solo su segnalazione dei cittadini. Ma se non ci fanno vedere l’informativa sulla privacy, noi in base a cosa segnaliamo? Insomma, bisogna tenere gli occhi aperti. È il tema della puntata, perché siamo alla resa dei conti.

Stress test. Report Rai PUNTATA DEL 08/06/2020. Emanuele Bellano, collaborazione di Greta Orsi. I test sierologici sono uno strumento essenziale per gestire la fase 2 della pandemia di Covid-19. A livello nazionale sono stati avviati test per 150 mila unità che verranno gestiti dalla multinazionale Abbot. Le singole regioni invece hanno scelto, ognuna attraverso proprie gare d'appalto, le ditte a cui affidarsi. In Lombardia, la regione in cui il virus si è diffuso di più, la Regione ha scelto con affidamento diretto la società DiaSorin. In base a quali criteri è stata scelta? C'è il rischio che le multinazionali farmaceutiche sfruttino la legittima esigenza dei cittadini di sapere se hanno avuto o meno il Covid-19 per fare grandi profitti?  Con affidamento diretto e senza gara è stato assegnato anche il contratto di fornitura di test sierologici rapidi in Umbria. E qui si entra in una giungla perché, accanto a test rapidi affidabili e validati, ce ne sono tanti che non danno certezze sul risultato.

STRESS TEST di Emanuele Bellano collaborazione Greta Orsi immagini di Giovanni De Faveri, Matteo Delbò, Alfredo Farina e Tommoso Javidi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci sono sempre i test sierologici sono affidabili? Chi sta facendo gli affari? Il nostro Emanuele Bellano.

INFERMIERA Mi può dire cognome e nome? EMANUELE BELLANO Emanuele Bellano.

INFERMIERA Non pieghi il braccio.

EMANUELE BELLANO No. EMANUELE BELLANO Mi spiega un po' come funziona il test?

GIANCARLO ICARDI – DIRETTORE U.O. IGIENE POLICLINICO SAN MARTINO GENOVA Questo sangue viene ovviamente messo in una provetta e poi queste provette, opportunamente scientificate, vengono inserite in uno strumento dove sono già stati caricati gli opportuni reagenti per innescare la reazione e poi noi abbiamo la lettura dove sostanzialmente, per esempio questo campione qua il numero 15 ha un elevatissimo diciamo così valore di Igg, questo ci dice che questo è un campione di un soggetto che ha avuto un’infezione recente.

EMANUELE BELLANO Cioè significa che in quel caso quella persona ha contratto la malattia, il virus e oggi però è guarita.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I test sierologici sono l’unico strumento per stabilire quante persone sono state contagiate da Covid-19 e qual è il vero tasso di letalità della malattia cioè quanti pazienti muoiono ogni 100 che si ammalano e come questo dato varia in base alle fasce di età.

EMANUELE BELLANO Come funziona da un punto di vista statistico?

MATTEO VILLA – RICERCATORE ISPI Si prende un campione di persone, deve più o meno rappresentare l’Italia, deve essere nazionale quindi su tutte le regioni, maschi e femmine insieme, facciamo il test la prima volta, quindi test sierologico, vediamo se hanno sviluppato gli anticorpi, poi plausibilmente sarebbe bello anche prendere anche le persone che al momento sono negative, seguirle per vedere se si infettano perchè questo ci serve anche a capire non solo la prevalenza oggi ma come si sta comportando il virus anche nel tempo e nel futuro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 21 maggio il presidente del consiglio annuncia la partenza dei test.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Lunedì 25 maggio partiranno test gratuiti su un campione di 150mila cittadini per esclusive finalità di ricerca scientifica.

EMANUELE BELLANO Sono sufficienti per avere una mappatura rappresentativa della popolazione italiana che è di 60 milioni di abitanti?

FRANCESCO BROCCOLO – UNIVERSITA’ BICOCCA DI MILANO 150mila campioni dal punto di vista statistico sembrano essere poco significativi devo dire.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Val Seriana, in provincia di Bergamo, è una delle aree maggiormente colpite dalla pandemia del mondo. A Nembro e ad Alzano Lombardo a marzo i morti sono stati nove volte di più dell’anno scorso.

EMANUELE BELLANO Voi state facendo test sierologici in questo periodo?

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO ALZANO LOMBARDO - BERGAMO In questo momento no, Ats ha attivato una campagna di test sierologici sull’intera provincia bergamasca e questi test si sono sviluppati dal 23 di aprile per una settimana circa.

EMANUELE BELLANO Quanti test sono stati fatti?

CAMILLO BERTOCCHI - SINDACO ALZANO LOMBARDO - BERGAMO Sulla provincia bergamasca se non sbaglio sono circa 10mila.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In totale in Lombardia, i test eseguiti dalla regione sono circa 80mila. L’11 aprile, l’ente regionale che gestisce gli acquisti, ne aveva comprati 500mila, costo dell’operazione 2 milioni di euro. Il produttore è la multinazionale farmaceutica Diasorin. Il rapporto tra la società privata Diasorin e il sistema sanitario pubblico lombardo inizia un mese prima attraverso un accordo con l’ospedale pubblico San Matteo di Pavia con cui Diasorin svilupperà il test sierologico per il coronavirus già a partire dal 23 marzo.

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS È come se l’arbitro da l’assist, fa l’assist al giocatore che poi segna.

EMANUELE BELLANO Qual è l’anomalia di questa situazione?

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS Ma l’anomalia è che un ospedale pubblico, un istituto pubblico abbia scelto di supportare uno sviluppo di un prodotto, cosa che è lecita, ma lo dovrebbe fare seguendo le normative pubbliche.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Invece la scelta di Diasorin da parte dell’Ospedale San Matteo avviene senza nessuna gara, accettando, come è scritto, la collaborazione proposta da Diasorin spa.

EMANUELE BELLANO Per un’azienda farmaceutica sviluppare un test insieme ad una struttura pubblica che tipo di vantaggi genera?

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS Di tempi soprattutto, vantaggi di tempi, perché si arriva molto prima della concorrenza.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il TAR, questa mattina, ha annullato l’accordo regione-Diasorin, in quanto ha stabilito che Diasorin “ha acquisito un illegittimo vantaggio” rispetto alle società concorrenti, “perché ha potuto contare” su “mezzi, strutture, laboratori, professionalità e tecnologie messe a sua esclusiva disposizione” dal San Matteo di Pavia. In questo modo, aggiunge il TAR, si è determinata “una distorsione della concorrenza”. Il Tribunale Amministrativo, per questo, ha deciso di trasmettere gli atti alla Procura della Corte dei Conti di Milano per svolgere gli accertamenti necessari. Infatti, il brevetto del test e tutte le risorse commerciali che ne potranno in futuro derivare, sono da contratto di proprietà di Diasorin. Al San Matteo, invece, andrà l’1 percento sui ricavi di ogni test venduto in futuro da Diasorin.

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS L’Ospedale San Matteo, se ci fosse stata un’evidenza pubblica, probabilmente poteva legittimamente scegliere a quel punto un, con un’evidenza pubblica, un concorrente e avrebbe probabilmente aumentato il valore della royalty.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Diasorin invece incassa subito, per 500mila test venduti alla Regione, 2 milioni di euro, un vero affare per la società farmaceutica, che li ha venduti senza gara, come conseguenza diretta dell’accordo con l’Ospedale San Matteo di Pavia. E non è l’unico vantaggio nato da questo patto.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO Questo è il grafico del titolo Diasorin, quindi per quasi tutti i due anni ha veleggiato intorno ai 100 euro e solo all’inizio di aprile ha preso questa rampa fino a raddoppiare negli scorsi giorni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da 118 euro per azione di inizio marzo, il titolo è balzato a 200 euro a maggio. In mezzo, la messa a punto del test sierologico insieme al San Matteo e la vendita dei test a Regione Lombardia.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO Se pensiamo che un fondo americano è entrato a ottobre scorso con il 3 per cento del capitale, questo fondo americano ha fatto un bell’affare perché ha comprato circa cento e adesso si ritrova trecento. Facendo un po’ di moltipliche, ha guadagnato in poco meno, in sei mesi quasi duecento milioni di euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Lo stesso affare lo hanno fatto anche gli altri azionisti rilevanti, la galassia societaria di Gustavo Denegri e Carlo Rosa, amministratore della società e proprietario del 10% delle azioni. E pensare che la regione Lombardia avrebbe invece potuto godere di test gratis. Il manager di technogenetics Cincotti ci mostra in esclusiva la chat con l’assessore alla sanità Giulio Gallera. In questo messaggio del 21 marzo scrive abbiamo pensato di donare 20mila kit di test rapidi. Non avendo ricevuto risposta da Gallera due giorni dopo scrive di nuovo destineremo i 20mila test rapidi ad altre istituzioni poiché non riusciamo a stare dietro alle numerose richieste che stiamo ricevendo dall’Italia e dal resto d’Europa.

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS Li abbiamo offerti in maniera informale sia a una regione che all’altra; la Campania li ha usati subito, la Lombardia non li ha accettati.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo Cincotti i test rapidi gratuiti non li hanno voluti dalla Regione perché considerati non affidabili dall’ospedale S. Matteo di Pavia, cioè dalla struttura che proprio nel giorno in cui Cincotti scrive a Gallera, rendeva pubblico l’accordo per lo sviluppo del test con l’altra società, DiaSorin. In queste ore questa chat finirà in procura.

SALVATORE CINCOTTI – AMMINISTRATORE DELEGATO TECHNOGENETICS La cosa strana è che grazie a questo accordo con una determina della regione Lombardia, la regione Lombardia ha bloccato qualsiasi altra attività di test sierologici sul territorio lombardo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella delibera la Regione scrive che i test sierologici non possono essere utilizzati in regione Lombardia, in ogni caso l’approvazione è in capo al professor fausto Baldanti cioè il medico del San Matteo di Pavia a capo proprio del progetto che sviluppa il test Diasorin all’interno dell’ospedale pubblico. Questo è il centro di Nembro, forse il luogo più colpito in Italia dall’epidemia di Coronavirus. Un’indagine sierologica qui servirebbe a ricostruire cosa è avvenuto e forse a capire perché il virus si è diffuso così tanto nella provincia di Bergamo.

CLAUDIO CANCELLI – SINDACO DI NEMBRO - BERGAMO Noi, per esempio, avevamo un progetto di indagine, un progetto di ricerca con un Centro medico Sant’Agostino e nel team c’era Crisanti, c’erano dei professori del San Raffaele. Nostro obiettivo era proprio fare la mappatura completa della nostra popolazione e dare una fotografia che ci permettesse di capire come i diversi gruppi di popolazione, di diversa età, avevano eventualmente sviluppato anticorpi, piuttosto che no e cogliere come questa cosa poteva essere seguita nel corso del tempo.

EMANUELE BELLANO Questo progetto lo avete portato avanti? Lo state realizzando?

CLAUDIO CANCELLI – SINDACO DI NEMBRO – BERGAMO Non lo stiamo realizzando, non lo realizzeremo perché lo abbiamo presentato ai primi di aprile al Comitato Etico del Papa Giovanni, essendo un progetto di ricerca doveva avere quel benestare e, a quel punto, il Comitato Etico ha in qualche modo detto: ma perché fate questo tipo di indagine se si va a sovrapporre a quella che fa regione Lombardia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Eppure, dei 500mila sierologici che Regione Lombardia ha comprato da Diasorin, oltre 400mila restano chiusi nel cassetto. Ma il test Diasorin è in grado di ricostruire la diffusione della malattia nella popolazione?

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA FIMMG LOMBARDIA Come viene utilizzato adesso, non lo è.

EMANUELE BELLANO Cioè, in che senso dice?

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA FIMMG LOMBARDIA Ci è stato chiesto di identificare dei cittadini per essere sottoposti ai test anticorpali. Ma, invece di essere un’indagine sulla popolazione in generale, dovevamo indicare delle categorie particolari di pazienti.

EMANUELE BELLANO Quali erano queste linee di individuazione?

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA FIMMG LOMBARDIA La fascia di età dai 18 ai 64 anni e dovevano aver avuto un contatto con un paziente positivo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alla fine, i risultati dello screening in provincia di Bergamo individuano un numero di positivi nella popolazione esaminata, intorno al 60 per cento.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA FIMMG LOMBARDIA Questi dati non possono essere utilizzati, appunto, per una considerazione sul reale contagio di questa zona.

EMANUELE BELLANO Necessariamente la percentuale deve essere in parte minore.

PAOLA PEDRINI – SEGRETARIA FIMMG LOMBARDIA Probabilmente sì, esatto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 12 maggio il presidente della Regione, Attilio Fontana e l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, emanano la delibera sui test sierologici, che dà il via libera ai laboratori privati. A Canonica d’Adda, in provincia di Bergamo, il Comune avvia test sierologici in collaborazione con il privato Habilita.

EMANUELE BELLANO Habilita che cos’è?

GIANMARIA CEREA – SINDACO DI CANONICA D’ADDA - BERGAMO È una struttura privata, però convenzionata. In questo caso, invece, siccome l’iniziativa è partita Comune, in collaborazione col privato, ovviamente il costo del test, purtroppo, va pagato dal cittadino.

EMANUELE BELLANO Qual è il costo del test per il cittadino?

GIANMARIA CEREA – SINDACO DI CANONICA D’ADDA - BERGAMO Quaranta euro.

EMANUELE BELLANO Quaranta euro… E il tampone, poi?

GIANMARIA CEREA – SINDACO DI CANONICA D’ADDA - BERGAMO Il tampone - e questa è un’altra disposizione regionale - il tampone costa 90 euro. E, in caso di positività, questa è la disposizione regionale, ti rimborso con il tariffario regionale, che sono 62,89€. È un po’ il “gratta e vinci”, no? Se sei positivo vinci il…

EMANUELE BELLANO …il rimborso.

GIANMARIA CEREA – SINDACO DI CANONICA D’ADDA - BERGAMO Ecco, questo… va bene.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra test e tampone, il cittadino di Canonica d’Adda che vuole fare un sierologico paga alla struttura privata Habilita 130 euro e lo stesso succede negli altri comuni che hanno avviato partnership con i privati.

MARIO SORLINI – MEDICO DI BASE ALBINO - BERGAMO Per questo motivo, molti laboratori privati si sono messi a fare i test sierologici, appunto. La popolazione li chiede, ma la recente delibera di Regione Lombardia dice che coloro i quali si sottopongono al sierologico e vengono comunque identificati come positivi, devono mettersi in isolamento fiduciario fino a quando non abbiano eseguito il tampone. E qui si crea appunto il problema, perché non abbiamo la capacità di fare i tamponi a questi pazienti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È quanto è successo a Solto Collina, nel bergamasco, dove il sindaco si è affidato a un laboratorio privato che non è riuscito a trovare tamponi sufficienti.

MAURIZIO ESTI – SINDACO DI SOLTO COLLINA - BERGAMO Logicamente la gente, sono quaranta giorni o due mesi che sono a casa, gente che lavora e non può permettersi di stare a casa ancora. Quindi, visto purtroppo la carenza di tamponi, molti si sono ritirati.

EMANUELE BELLANO Quante persone si erano iscritte per fare il sierologico?

MAURIZIO ESTI – SINDACO DI SOLTO COLLINA - BERGAMO Si erano iscritte sulle 400 persone, ne abbiamo fatte 120.

EMANUELE BELLANO Di queste 120 ne sono risultate positive quante?

MAURIZIO ESTI – SINDACO DI SOLTO COLLINA - BERGAMO Una trentina.

EMANUELE BELLANO Queste trenta positive oggi in che situazione si trovano?

MAURIZIO ESTI – SINDACO DI SOLTO COLLINA - BERGAMO Si trovano che devono stare a casa, in quarantena, fino al tampone, a un responso del tampone.

EMANUELE BELLANO Lei si è informato tra quanto, più o meno, potrebbero fare il tampone queste persone che oggi sono in casa, chiuse in casa…

FABRIZIO MINELLI – MEDICO DI MEDICINA GENERALE SOLTO COLLINA - BERGAMO Guardi, io ho parlato ieri con l’amministratore delegato mi ha detto che, ci vorranno almeno quindici giorni finché verrà poi fatto effettivamente il test.

IMPRENDITORE Nella delibera la Regione ti dice: tu laboratorio mi devi garantire il 10 per cento dei tamponi sui test che fai. Fai cento test devi avere dieci tamponi. Peccato che da noi le percentuali sono 40, 50 per cento di positivi. Quindi, cosa facciamo? Se noi ci atteniamo alle regole, tengo in casa quattro persone su cinque di quelle a cui faccio il test, praticamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’imprenditore che ha scelto di parlarci a volto coperto gestisce un ospedale privato in Lombardia, e parla anche per conto dei suoi colleghi.

EMANUELE BELLANO Da questo punto di vista voi avete avuto pressioni sul non fare i sierologici perché potrebbero creare questo collo di bottiglia?

IMPRENDITORE Sì è una supplica: “guarda mi metti in difficoltà perché non c’hai tamponi da fare”.

EMANUELE BELLANO Ma da parte di chi questo?

IMPRENDITORE Un po’ da tutto il sistema.

EMANUELE BELLANO Cioè, dall’ATS, dalla Regione?

IMPRENDITORE In questo caso qui da noi gli ATS non contano niente, autonomia zero. Arriva l’input da sopra…

EMANUELE BELLANO Dalla Regione, quindi.

IMPRENDITORE Eh sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come abbiamo sentito il premier Conte aveva annunciato 150 mila test sierologici, avrebbe una copertura dello 0,25% della popolazione, poca roba. Per questo le regioni hanno deciso di fare di testa propria, hanno affidato direttamente ai privati la gestione dei test sierologici. E la Lombardia, una delle aree più colpite come la provincia di Bergamo, dove era importante, sarebbe fondamentale capire che cosa è successo la campagna l’ha aperta è durata pochi giorni ed è stata subito richiusa. In Umbria invece si sono affidati a un unico distributore, che poi si è scoperto che non era l’unico, hanno speso qualcosina in più rispetto agli altri e forse li producono anche in Cina…

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I test sierologici rapidi sono stick su cui si versano gocce di sangue prese pungendo il dito con uno spillo; il risultato arriva in pochi minuti. In base alle linee che compaiono si capisce se c’è o meno una positività agli anticorpi.

EMANUELE BELLANO È stato fatto un censimento da parte delle istituzioni italiane?

FRANCESCO BROCCOLO – UNIVERSITÀ BICOCCA D MILANO Non abbiamo ancora una vera e propria lista dei cosiddetti test rapidi più accurati, cioè sensibili e specifici.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le regioni hanno iniziato a comprare questo tipo di test già a marzo come ha fatto per esempio la Regione Umbria.

EMANUELE BELLANO L’acquisto viene fatto in che maniera?

TOMMASO BORI – CAPOGRUPPO PD CONSIGLIO REGIONALE UMBRIA Senza gara, è un acquisto diretto per un totale di poco meno di 300mila euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO 292.800 euro versati alla Vim spa società di Città di Castello, vicino Perugia, in quanto rivenditore unico del test rapido Screen Italia.

EMANUELE BELLANO Cioè la Regione acquista dalla Vim spa perché la Vim spa risulta di fatto l’unica ad avere il diritto di esclusiva di commercializzazione?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Qui c’è scritto “il diritto di esclusiva a commercializzare il bene è in capo a questa ditta” quindi questo è.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà la Vim non è l’unica a distribuire test rapidi. A pochi chilometri di distanza, a Trevi, c’è la Carminati Forniture Sanitarie e Medicali.

EMANUELE BELLANO Anche voi avete trattato quel test lì?

EMANUELE CARMINATI - CARMINATI FORNITURE SANITARIE E MEDICALI Sì e tutt’ora li stiamo trattando sì; è un prodotto venduto in tutta Italia sia a pubbliche amministrazioni che private.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo per esempio è un ordine che la Carminati fa da Screen Italia per l’acquisto e distribuzione di 20 test rapidi Covid-19. Lo stesso tipo di test identificato da codice INCP-402 è stato acquistato anche dall’Ospedale Cutugno di Napoli, ma in questo caso il distributore è una società di Castenaso in provincia di Bologna e dunque non è vero che Vim spa sia l’unico distributore in Italia.

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Deve essere chiaro però che il contesto nel quale sono stati fatti questi acquisti era un contesto di assoluta e totale emergenza. EMANUELE BELLANO Quello che le sto chiedendo io è: nel momento in cui viene fatto un acquisto diretto, cioè viene scelto un prodotto rispetto a tutti quelli che sono disponibili. In base a quale criterio è stato scelto questo prodotto?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Non lo so.

EMANUELE BELLANO Ma il comitato tecnico però se ne sarà occupato di questo, avrà… cioè chi l’ha deciso qual è il test da acquistare?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Allora il comitato scientifico a un certo punto hanno trovato questo test.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il test individuato dalla Regione Umbria è assemblato, impacchettato dalla società Screen Italia di Torgiano, ma in realtà è prodotto in Cina dalla Alltest Biotech di Hangzhou che firma anche lo studio sull’attendibilità. I cinesi magnificano le qualità del test parlando di una sensibilità del 100% e di una specificità del 98%, ma il 19 marzo, quattro giorni prima che la Regione procedesse all’acquisto, l’Ospedale di Perugia testa due campioni del kit sierologico, l’esito è di un risultato errato al 50%: giusto in un caso, sbagliato in un altro.

EMANUELE BELLANO Perché prima di procedere all’acquisto, non sono state fatte delle ulteriori verifiche per capire se questo test era realmente attendibile?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Non lo so. Quello che so è che io c’ho in mano una relazione che è del 14 di aprile.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono i risultati dell’Azienda Ospedaliera di Perugia tre settimane dopo l’acquisto dei test sierologici da parte della Regione. Dopo aver sperimentato il test Screen Italia su 1180 pazienti, emerge che la specificità del test è del 78% e la sensibilità del 72%.

EMANUELE BELLANO Un dato totalmente diverso da quello ufficialmente fornito dalla ditta, dalla Screen Italia, nel foglio che accompagna il prodotto. Perché qui parla invece di una sensibilità del 100% e di una specificità del 98%. MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Che noi abbiamo testato e che è diversa.

EMANUELE BELLANO E quindi voglio dire avete comprato un prodotto che è una bufala. Nel senso che ha specificità...

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Allora no, se lei legge… “nell’attuale contesto epidemiologico” c’è scritto, ok? Cosa vuol dire? Vuol dire che il test è stato provato da noi nel contesto che era quello di aprile e se lei legge questo documento, dove c’è una strategia operativa, c’è scritto che vale per 15 giorni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma quali sono i parametri che rendono un test sierologico affidabile?

FRANCESCO BROCCOLO – UNIVERSITÀ BICOCCA D MILANO Deve avere pochi falsi positivi e pochi falsi negativi.

EMANUELE BELLANO Significa? FRANCESCO BROCCOLO – UNIVERSITÀ BICOCCA D MILANO Significa che per essere attendibile deve avere una sensibilità clinica di almeno il 90% di casi e una specificità clinica di almeno il 95%.

EMANUELE BELLANO Cioè perché questo test non è stato ridato indietro al produttore che di fatto vi ha fornito un prodotto che non è conforme a quello che c’è scritto sopra…

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Perché avevamo solo quelli e qualcosa… e avevamo bisogno di test immunologici rapidi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alla fine la Regione Umbria li paga più del dovuto, ogni test 19,50 euro, compreso di iva.

EMANUELE BELLANO Mediamente quanto lo paga un laboratorio o un’amministrazione pubblica se per esempio lo compra da un fornitore?

FRANCESCO BROCCOLO – UNIVERSITÀ BICOCCA D MILANO Circa 5 euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I giornalisti di Irpimedia hanno provato a comprare test identici a quelli acquistati dalla Regione, direttamente dal produttore cinese Alltest.

EMANUELE BELLANO Quanti ne avete comprati?

CECILIA ANESI – IRPI MEDIA Allora i kit sono da 25, quindi 25 test per all’incirca 300 euro più i costi di spedizione, diciamo siamo intorno a 12 euro a test.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO 7 euro in meno rispetto al prezzo finale pagato dalla regione Umbria. A marzo anche il Cotugno di Napoli acquista lo stesso kit prodotto dalla ditta cinese Alltest. L'intermediario è diverso e il prezzo è quasi la metà: 11 euro a test compresa iva.

EMANUELE BELLANO Stando a questi dati oggettivi, la Regione ha di fatto speso 150mila euro in più.

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Eh… è possibile. Possono anche essere semplicemente degli errori dettati ripeto dal fatto che c’era un’esigenza assoluta di procurarsi dei test in un arco di tempo breve.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Consultando mail interne al gruppo, emerge che l’interlocutore della Regione con Vincenzo Monetti, amministratore di Vim Spa per l’acquisto dei test sierologici rapidi, è Federico Ricci, capo di gabinetto del governatore umbro Donatella Tesei. Ed è con lei che Vincenzo Monetti viene immortalato durante una cena elettorale organizzata da Umbria Civica, per sostenere Donatella Tesei alle elezioni regionali.

EMANUELE BELLANO Sa cos’è di tutta questa storia la roba che lascia un po’ perplessi? È che poi il primo intermediario, cioè quello da cui compra la Regione, è politicamente vicino alla presidente della Regione.

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Ma questo può essere assolutamente possibile. Non mi, non mi stupisce.

EMANUELE BELLANO Non la stupisce?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA No. Non mi stupisce perché non è la prima volta che accade non solo in questa regione.

EMANUELE BELLANO Cioè non è la prima volta che accade che si fanno dei favori a degli amici?

MARIA DONATA GIAIMO – TASK FORCE CORONAVIRUS REGIONE UMBRIA Ma voglio dire, adesso se lei ha le telecamere chiuse, cioè voglio dire, succede nel nostro Paese.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO - IN USCITA DA REGIONE UMBRIA La Regione Umbria ci scrive che l’acquisto dei test è avvenuto in un contesto emergenziale - ovviamente lo immaginavamo - nel quale l’imprenditore Vincenzo Monetti, manager di Vim, si è offerto a mettere a disposizione 4mila test rapidi Screen Italia di un’altra azienda sempre Umbra. La Regione ci scrive anche di aver sottoposto la congruità del prezzo all’Autorità Nazionale Anti Corruzione. Però non ha detto cosa ha risposto l’Autorità. Ecco, il sospetto è che comunque abbiano fatto le cose troppo in fretta, visto che i colleghi del Cotugno a Napoli, dell’ospedale di Napoli hanno acquistato gli stessi test a un prezzo un po’ più basso, un bel po’ più basso. Poi non è trascurabile neppure la questione dell’attendibilità del test. La regione Umbria ci scrive sempre su questo, di aver sottoposto a sperimentazione i test, il kit da parte del Comitato Tecnico Scientifico che avrebbe dato anche parere favorevole. Però noi abbiamo anche visto, letto la relazione nella quale il Comitato, evidenzia il fatto che l’attendibilità è molto più bassa rispetto a quanto ha dichiarato a quella del 100% dichiarata dalla stessa azienda che li distribuisce e che fa riferimento a degli studi cinesi. Mentre per quello che riguarda i rapporti tra il manager Monetti e la governatrice dell’Umbria Tesei, entrambi dicono che sono dei rapporti occasionali limitati alle cene elettorali e che non c’è nulla di male. Non c’è nessun sospetto dietro, non lo abbiamo pensato. E poi ci scrive anche Screen Italia che dice che il suo kit è regolarmente autorizzato e registrato presso la banca dati del ministero della Salute.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2020. Da una parte il professor Andrea Crisanti, che oggi lo confessa: «Ho fatto tamponi sugli asintomatici quando non si poteva perché mi sembrava chiaro che erano veicolo di contagio... se mi adattavo al gregge il Veneto sarebbe andato in rotta di collisione con il virus, come Lombardia e Piemonte». Dall' altra la Regione, che non ha difficoltà a riconoscere di aver forzato la legge sulla privacy per spegnere i focolai: «Nell' interesse superiore della salute pubblica». Semplificando un po', il segreto di fabbrica del modello Veneto è anche il risultato di due violazioni, riconosciute come tali dagli stessi protagonisti. Crisanti ha violato la «legge» della sanità prendendo una posizione contraria a quella dell' Oms e, a cascata, dell' Istituto superiore di sanità e della Regione. La Regione, pur non assecondando subito Crisanti sugli asintomatici, ha invece organizzato velocemente un sistema unico di monitoraggio dei contagiati, chiamato «Cruscotto», sul filo della legge che tutela il diritto alla privacy. Così facendo il Veneto ha anticipato di circa un mese le altre regioni, come emerge con sempre maggiore evidenza dai documenti sulle prime fasi dell' epidemia. Ma andiamo con ordine e riavvolgiamo il nastro di quattro mesi. Gennaio 2020, mercoledì 29. In Italia manca quasi un mese all' esplosione dell' epidemia e il professor Crisanti scrive una lettera a sorpresa: «...anche in assenza di sintomi contattare questo numero e fissare un appuntamento per indagini di laboratorio». È un appello a tutti gli studenti, docenti e ricercatori padovani di rientro dalla Cina. Tradotto: facciamo tamponi anche agli asintomatici, categoria umana fino a quel momento ignorata dalle strategie mondiali antivirus. «Il primo test è del 5 febbraio, era un cinese, poi ne sono seguiti altri...». Non potrebbe, perché il protocollo che arriva dall' alto lo esclude, prevedendoli solo su chi ha febbre superiore a 38 con tosse e sospetta polmonite. «Si chiede di conoscere sulla base di quali indicazioni ministeriali si sia ipotizzata tale scelta di sanità pubblica...», lo richiama all' ordine Domenico Mantoan, il potente direttore generale della sanità regionale, braccio destro di Luca Zaia (che di recente ha attribuito i meriti della strategia veneta non a Crisanti ma alla dirigente Russo), presidente dell' Aifa del farmaco e ora proposto dal ministro Speranza alla guida dell' Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Crisanti lo rassicura a stretto giro: «Ci siamo limitati a fare diagnosi in persone sintomatiche». Non è vero. I tamponi li aveva fatti, usando la scappatoia della tosse sospetta. «Diciamo che ho edulcorato la lettera per tranquillizzare Mantoan... se non mi avesse fermato avremmo controllato sul nascere l' epidemia». Da parte sua Mantoan, meno espansivo di Crisanti, liquida così la questione: «Abbiamo seguito le indicazioni del ministero, nessuno era autorizzato a iniziative autonome». Il 21 febbraio, con il primo decesso a Vo' Euganeo, le cose cambiano: macchina dei tamponi a tutto vapore e numeri che danno ragione al modello «asintomatici-Cruscotto». La storia del coronavirus in Veneto è anche questa. Idee originali, controcorrente, che si sono dimostrate vincenti.

Filippo Femia e Nicola Pinna per “la Stampa” l'1 giugno 2020. Fingere di avere problemi di lavoro non è sempre necessario. Il metodo del test sottobanco è già collaudato e le infermiere capiscono al volo qual è la richiesta di chi chiama: «Se preferisce che non informiamo la Asl basta non firmare il consenso alla segnalazione prima del prelievo. E comunque noi preferiamo inviare direttamente al paziente il referto. Poi sta a lei decidere». Le regole cambiano ovunque, ma trovare i laboratori compiacenti non è difficile: poche telefonate e il gioco è fatto. Fare il test sierologico e riuscire a nascondere all' Igiene pubblica il risultato positivo è tutt' altro che complicato. Non ci vuole il piglio del truffatore, basta sfruttare il caos delle regole. Il risultato è semplice: in Piemonte come in Toscana, ma anche in Veneto e in Campania, chi va in giro con tracce di immunoglobuline nell' organismo (e quindi è un possibile caso di nuovo contagio) evita la quarantena e si scampa il tampone. Di conseguenza rischia di allargare ulteriormente il contagio. A livello nazionale non c' è un protocollo unico e ogni Regione detta le sue regole. Nelle ultime settimane in migliaia hanno deciso di sottoporsi all' esame: che sia quello rapido col pungidito o quello che si svolge con il prelievo, il test che scova gli anticorpi del Covid divide gli scienziati. Per alcuni, come il virologo dell' università di Padova Andrea Crisanti, è uno spreco di soldi. Tutti concordano su un aspetto: il sierologico non ha valenza diagnostica, e quindi non può sostituire il tampone, ma ha una certa importanza epidemiologica. E di questo è convinto anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha promosso uno screening con 150 mila volontari: «I risultati consentiranno ai nostri scienziati di avere un' arma di conoscenza in più sull' epidemia».

Un contributo lo potrebbero dare anche le analisi a pagamento, ma i laboratori spesso non comunicano né alle Asl né ai medici di famiglia i risultati. In una clinica di Firenze rispondono dopo dieci minuti di musica d' attesa. Il test può essere fatto da privati o con la tariffa regionale calmierata. «Nel caso risultasse positivo, il nostro unico obbligo è fornirle un numero verde da chiamare. Entro 48 ore le faranno un tampone. Ma è a sua totale discrezione». Basta spostarsi di cento chilometri, in provincia di Massa-Carrara, per avere una risposta opposta: «La clinica non ha opzioni, deve tassativamente comunicare la positività all' Asl». A Livorno si torna alla strategia della riservatezza: «Costa tutto 55 euro, il referto viene trasmesso via mail solo al paziente. Non inviamo segnalazioni. Capiamo la preoccupazione del paziente».

In Piemonte le regole sono cambiate da 6 giorni e ora i laboratori hanno l' obbligo di trasmettere i referti alla Regione. Ma c' è chi non si adegua. «Noi le diamo il risultato e poi ogni decisione è una sua responsabilità». Il messaggio non è diretto ma per avere la prova basta qualche giorno: nel referto c' è un' anomalia ma l' allarme non scatta. A Vibo Valentia il test costa 35 euro.

A Reggio Calabria il prezzo sale a 48 euro, i risultati arrivano in 2 giorni. Per avere maggiore "discrezione" proponiamo di pagare un sovrapprezzo ma la segretaria del laboratorio s' infuria: «Ma scherza? Così rischia una denuncia: forse non si rende conto che stiamo combattendo un' epidemia». Ce ne rendiamo conto, ma insistiamo. A Roma, questa volta. La clinica propone il test qualitativo a 45 euro e quello quantitativo a 85. L' operatore ci informa delle rigide linee guida della Regione Lazio ma basta inventarsi un problema sul lavoro per ottenere comprensione. Dribblare le regole è semplice: «Basta non firmare il modulo informativo», suggerisce il centralinista, preoccupato di perdere un cliente. Le altre tre cliniche romane contattate sembrano inflessibili: «Se il risultato è positivo abbiamo l' obbligo di segnalarlo alle autorità sanitarie».

Il responsabile di un centro di Verona si dilunga nel pubblicizzare la tecnologia dei suoi test. E alla domanda fatidica la risposta non è diretta: «C' è uno schemino e il paziente decide. Se ci sono le Igm, cioè gli anticorpi che indicano l' infiammazione, lei dovrebbe segnalare al medico. Noi comunque consegniamo la risposta soltanto a lei».

A Salerno non ci girano intorno: «L' esito si vede solo sul nostro sito e le credenziali vengono assegnate a ciascun cliente. Non le vede nessun altro». A Caserta hanno trovato un' altra strategia: «Il risultato lo facciamo arrivare al medico di famiglia, ma non alla Asl e poi sarà lui a decidere cosa fare». A Bologna è difficile trovare un laboratorio compiacente, a Sassari e Palermo s' indignano per la proposta: «Fare i test deve servire a difendere la nostra isola».

Anticipazioni per “TV 7” del 29 maggio alle 23.55 su RAI 1: i tamponi negati. I tamponi negati, il carrello della spesa differenziato a seconda delle classi sociale, ma anche le mascherine, la riapertura delle chiese e un’intervista al regista Spike Lee, saranno alcuni dei temi al centro della puntata di Tv7, in settimanale di approfondimento del Tg1, in onda venerdì 29 maggio alle 23.35 su Rai. A Borgosesia, in provincia di Vercelli, solo grazie a un imprenditore, in due giorni tutta la popolazione è stata sottoposta – gratis – a test e tamponi per il Covid-19. Mentre la Lombardia continua a posizionarsi nella parte bassa della classifica per numero di tamponi ogni 100mila abitanti, secondo la Fondazione Gimbe. A Tv7,  le storie di chi si è auto-isolato in casa in attesa di un accertamento mai arrivato e di chi, dopo aver visto i parenti morire, ha pagato di tasca propria le analisi. Poi, un’inchiesta sul “food social gap”, ovvero il carrello della spesa differenziato per classi sociali. Da un lato aumentano le persone costrette a chiedere aiuto per mangiare, dall’altro i ceti benestanti spendono più di prima per il cibo, dato che con il lockdown si sono ridotti i consumi di altri beni.  Sullo sfondo, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari nel mese di aprile, per l’Istat +2,5%, e l’analisi del direttore del Censis, Massimiliano Valeri. La riapertura delle città ha coinciso anche, con un dibattito aspro sulla movida e sulle misure di sicurezza.Tv7, nelle notti milanesi ha scoperto due città diverse: una rispettosa del distanziamento, e un’altra indifferente alle misure, quasi non fosse accaduto nulla. Da Milano a Padova, altra città toccata dagli eccessi della movida, le storie dei ragazzi e degli esercenti tra paure, rispetto delle regole e voglia di libertà. Le mascherine sono ormai obbligatorie, ma qual’è il grado di protezione di quelle che si trovano in commercio? Un’inchiesta cercherà di far luce su un mercato in continuo divenire, dove produrre e utilizzare mascherine non certificate è assolutamente regolare, e sono in tanti a farlo. A Bari il Politecnico, che dall’inizio della pandemia ha testato tessuti e materiali, ha analizzato per Tv7 i diversi tipi che si trovano in vendita e l’esito dei test  ha conferma le preoccupazioni. Poi, un viaggio nel mondo del disagio mentale per vedere come hanno vissuto i pazienti psichiatrici la fase del lockdown e con quali conseguenze. Il Tempo delle donne: A Tv7 storie di chi ha perso il lavoro, chi è rimasta a casa in smart working gestendo anche la scuola a distanza dei figli, chi è in cassa integrazione e chi invece, è impegnata negli ospedali con l’incubo del contagio.Tornano i fedeli nelle chiese cattoliche mentre valdesi e induisti devono rinunciare alla parte conviviale dei riti. Il tempio buddista non ha ancora riaperto, la sinagoga sarà accessibile a numero limitato. Come le moschee che hanno numeri contingentati. Il rabbino capo di Milano ne è convinto: da questa esperienza usciremo trasformati. A Tv7, come si stanno preparando i luoghi di culto a questa ‘fase 2’. E ancora, le App di “contact tracing” intorno alle quali ruotano i temi più ampi e importanti della politica digitale. Alla vigilia dell’adozione in Italia di Immuni, Juan Carlos De Martin del Politecnico di Torino e Mariarosaria Taddeo dell’Università di Oxford spiegano perché non esiste una sola ricetta buona per tutti e perché l’App da sola non è una soluzione. E infine, Il cortometraggio che Spike Lee ha pubblicato su Instagram: una lettera d’amore per New York congelata dalla pandemia. A Tv7 il regista statunitense parla del “suo lockdown” e di quello dei newyorkesi: “non voglio che l’America torni quella che era – dice – la pandemia ha portato alla luce un grande solco, la disparità tra chi ha e chi non ha ricchezza, assistenza sanitaria, educazione. E’ arrivato il momento di accorciare le distanze”.  

 (Adnkronos mercoledì 13 maggio 2020) - "Noi abbiamo fatto una tariffa che vale per tutti e abbiamo creato una rete pubblico-privato. La tariffa è intorno agli 80 euro per tampone" ma occorre "verificarlo alla luce dei costi effettivi. Non è facilissimo fare questo conto per la pubblica amministrazione. E' un costo industriale. Non escludiamo, laddove l'uso del tampone dovesse estendersi, di abbassare questo costo". Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano durante la trasmissione “Centocittà” di Rai Radio Uno, rispondendo a una domanda circa l'annuncio da lui fatto di una quantità maggiore di tamponi per il personale ospedaliero e per chi si ricovera, con il coinvolgimento anche di laboratori privati. "Preciso - ha aggiunto - che questo non è il costo del tampone diagnostico per i cittadini, che è sempre gratuito. Si tratta del costo del tampone come mezzo di accertamento della sicurezza nei luoghi di lavoro". Rispetto all'accusa di aver fatto finora pochi tamponi durante l'emergenza covid-19 ha detto: "In proporzione al numero dei contagiati abbiamo fatto gli stessi tamponi del Veneto perché la matematica non è un'opinione". 

Tamponi in Puglia, Lopalco: «Non verranno negati ai pugliesi». Nella Regione, sono stati registrati solo 12 focolai nelle Rsa-Rssa, uno in un'azienda e 6 in tutta la rete ospedaliera. La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Maggio 2020. «In Puglia, per tutta la durata della prima fase, le strategie di contact tracing ed un uso strategico delle attività della rete diagnostica regionale ha permesso di gestire l'epidemia con risultati eccellenti. La strategia di utilizzo dei tamponi in Puglia - spiega il prof. Pier Luigi Lopalco, responsabile del coordinamento epidemiologico della Regione Puglia - è stata identica a quella di regioni come il Veneto che sono prese ad esempio come standard ottimo di controllo dell'epidemia». In Veneto sono stati fatti circa 384.000 tamponi su 18.300 casi. In Puglia ne sono stati fatti circa 71mila circa su 4.200 casi.

I FOCOLAI - «Ovviamente il numero assoluto di tamponi eseguiti in Puglia risultano inferiori a quelli del Veneto perché il numero di casi e di catene di contagio delle due regioni non è paragonabile. In Puglia, in tutto, sono stati registrati solo 12 focolai nelle Rsa-Rssa e 6 focolai in tutta la rete ospedaliera. Fra le centinaia di aziende che hanno in questa prima fase continuato la loro attività produttiva solo in una si è sviluppato un focolaio prontamente individuato e spento: degli operai coinvolti in questa azienda tutti i casi sono stati asintomatici o con sintomi lievi e con nemmeno un caso ricoverato in ospedale».

L'ISOLAMENTO FIDUCIARIO - «Le attività di monitoraggio e controllo hanno portato alla individuazione di oltre 26mila cittadini pugliesi - aggiunge il prof. Lopalco - che hanno ricevuto un'ordinanza di isolamento fiduciario a casa, in pratica più di 6 ogni 1.000 pugliesi. In Puglia, quindi, nessuno ha centellinato o vuole centellinare i tamponi. In questa seconda fase, anzi, quando sia molti operatori sanitari che tanti lavoratori stanno rientrando al lavoro, è stata messa a punto una nuova strategia in cui i rischi specifici delle singole attività produttive, incluse le attività sanitarie, saranno valutati insieme al livello di circolazione del virus sul territorio e quindi saranno messe a punto strategie specifiche per scovare eventuali catene di contagio nascoste fra asintomatici in una fase molto iniziale». «Il tampone non verrà negato dunque a nessun pugliese che ritornerà al lavoro nelle prossime settimane e presenterà uno specifico profilo di rischio. Le nostre strategie sono basate su stringenti ragionamenti scientifici e discussi con i migliori esperti nazionali ed internazionali. La salute degli operatori sanitari e di tutti i lavoratori è il nostro primario obiettivo».  

Lucilla Vazza per “il Messaggero” il 2 giugno 2020. La fase due si è aperta all' insegna della politica delle tre T - testare, tracciare e trattare, ma all' avvio della mobilità regionale, ancora non è chiaro se i cittadini avranno bisogno di organizzarsi in proprio per fare i test o se si procederà a screening mirati per monitorare la circolazione virale. Le Regioni continuano a procedere in ordine sparso per cercare di limitare il rischio di nuovi contagi, dopo la conferma che il 3 giugno si riparte tutti insieme e finora, nessun presidente, nonostante le dichiarazioni e le minacce, al momento ha emesso ordinanze in contrasto con la decisione dell' esecutivo, perché sarebbero immediatamente impugnate. Domani dunque si riparte, senza altri Dpcm e, con tutta probabilità, senza ulteriori conferenze stampa del presidente Giuseppe Conte che considera ormai archiviata la questione riaperture. Di qualche quota di rischio ha parlato il presidente della conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini che in queste settimane ha svolto il ruolo di paciere tra le voci più o meno forti dei governatori e Palazzo Chigi.

La domanda però resta, per i test, i cittadini dovranno organizzarsi autonomamente o ogni Regione procederà con una strategia mirata?

«Innanzitutto, mai è stata data l' indicazione di far da sé i test - precisa Pierluigi Lopalco, epidemiologo e coordinatore della task force della Puglia per l' emergenza Covid-19 - Il tema non è impedire la circolazione delle persone che non hanno fatto il test, ma offrire gratuitamente al cittadino la possibilità di farlo, a partire dalle aree dove oggi sappiamo che c' è maggiore circolazione del virus, ma va fatto ovunque. In Lombardia in questo momento ci potrebbero essere più portatori del virus rispetto ad altri territori del Paese, quindi si potrebbe spingere la Regione Lombardia a scovare e mettere in sicurezza il più alto numero di casi. La politica delle tre T serve per fare il tracciamento delle catene di contagio, per chiuderle. È un' operazione che va fatta localmente e soprattutto va fatta bene con intelligenza e rapidità».

Lei consiglierebbe di partire con i tracciamenti in tutte le Regioni o solo dove c'è più contagio?

«Il monitoraggio per essere efficace e veritiero dev' essere massimo in tutte le Regioni. Perché se faccio un monitoraggio serio, e dimostro a chi di dovere ma anche all' opinione pubblica, che non c' è circolazione del virus, allora ho diritto di dire che nella mia Regione effettivamente è tutto sotto controllo. Però questo si può sostenere dopo un buon monitoraggio, dati alla mano. Fatto questo, poi non vedo problemi per la libera circolazione delle persone. E vale in tutte le aree del Paese».

Non devono essere i cittadini a farsi carico di questi test?

«Assolutamente no. Il monitoraggio è un' azione di sanità pubblica che ha il compito di individuare e contattare i cittadini che hanno bisogno di fare il test. La politica di tracciamento non può essere fatta su base volontaria, ma dev'esserci una strategia e devono essere i dipartimenti di prevenzione a coordinare le azioni di tracciamento, individuando dove andare a cercare i portatori di virus».

Si aspettava la richiesta di maggiore prudenza per la riapertura da parte delle Regioni con meno contagi, pensiamo al caso Sardegna.

«La Sardegna, mi rendo conto che è banale dirlo, è un' isola, per cui è comprensibile che abbia paura dei casi di importazione forse più rispetto ad altri territori. Ma anche qui, se si dimostra che la circolazione del virus è bassa un po' ovunque, alla fine quello che vale, per esempio nel Lazio, vale anche per la Sardegna. Non ci sono roccaforti e le politiche devono valere per tutti. A patto però di applicare la strategia delle tre T che non sono un esercizio di stile, ma una strategia per ripartire con maggiore serenità».

«I tamponi per gli anziani non autosufficienti?  Fateli a spese vostre».  Il Corriere della Sera il 2 aprile 2020. L’oggetto della mail inviata dalle case di riposo per anziani era: «Richiesta procedure per gestione casi febbrili e/o dispnea nelle strutture residenziali in presenza di contatti accertati e in assenza di contatti accertati». Vale a dire: che cosa dobbiamo fare per i casi di sospetto Coronavirus? In sintesi, la risposta della direzione sanitaria dell’Ats Val Padana di Cremona e Mantova alle residenze per anziani non autosufficienti delle province è stata: «Non faremo i tamponi agli anziani». Nel dettaglio si legge: «Per le Rsa stiamo cercando di organizzare con le Asst del territorio l’esecuzione dei tamponi per gli operatori sanitari e sociosanitari, che contatti stretti con soggetti positivi hanno sviluppato sintomatologia e quindi allontanati dal lavoro adesso sono nelle condizioni di rientrare. Per quanto riguarda gli ospiti l’eventuale effettuazione dei tamponi ( a pag. 8 è scritto dovrebbe) è a carico della struttura. Non verranno effettuati i tamponi sugli ospiti». Non soltanto. Nella risposta vengono suggeriti «ditte produttrici e/o fornitrici ed i laboratori autorizzati». E questo in un territorio tra i più colpiti del Paese dal virus. La denuncia viene dall’avvocato Luga Degani, presidente di Uneba Lombardia: «Sono una minoranza le strutture che sono riuscite a far fare i tamponi. C’è una mancata presa in carico di queste persone, che sono lasciate in una struttura di lungodegenza per cronici spesso anche nella fase acuta della malattia. Manca il supporto per curarli all’interno». Tra le strutture dove i tamponi sono stati fatti c’è la Rsa Fondazione Brunenghi onlus di Castelleone (Cr), il cui presidente Bruno Melzi (73 anni) è morto domenica. Melzi era stato ricoverato all’Humanitas di Milano il 4 marzo scorso per una grave polmonite. Il direttore Rino Ferri, che si è ammalato di Covid-19 il 23 febbraio ed è guarito, conferma: «Nella mia Rsa da 125 posti letto registriamo un aumento dei decessi rispetto alla media. Nell’altra struttura di cure intermedie e terapia di riabilitazione da 30 posti letto abbiamo avuto un piccolo focolaio e sono morte sette persone, altre sette sono state ricoverate in ospedale. Ma i tamponi sono stati fatti e ora la struttura è stata riconvertita per accogliere pazienti Covid dimessi dagli ospedali».

Esplode il mercato privato dei test: sierologico 80 euro, tampone oltre 100. Da Piergiorgio Veralli su rainews.it il 29 maggio 2020. In vista delle vacanze, sale in Alto Adige la richiesta di test Covid sul mercato privato. Per 50 euro si possono chiedere i test rapidi antigenici: risultato in dieci minuti ma attendibilità dubbia. In Italia fa discutere la possibilità di chiedere un attestato di negatività al Covid ai turisti che vogliano raggiungere Sardegna o Sicilia. Il governo è contrario all'ipotesi, ma questa sorta di passaporto sanitario potrebbe esserci richiesto per i viaggi all'estero. L'offerta di test sul mercato privato è variegata. A Bolzano, Cityclinic offre a 85 euro i test sierologici. In 24 ore ci dicono se siamo entrati in contatto col virus e se abbiamo sviluppato gli anticorpi. Finora ne sono stati esgeuiti 720, con un tasso di positività dell'11 per cento. Costa invece 100 euro sottoporsi al tampone, per sapere se siamo infetti o no. Duecento euro il prezzo del tampone a Bressanone, presso la clinica Brixsana. Per 50 euro si possono chiedere i test rapidi antigenici. Una goccia di sangue e in dieci minuti abbiamo il risultato. Con solo una linea rossa, il test è negativo. Ma  l'attendibilità è dubbia. Anche Bressanone offre i test sierologici a 80 euro. La clinica ne ha eseguiti circa 2.500. La positività oscilla intorno al 15 cento, influenzata specie dai test eseguiti su cittadini della zona di Castelrotto e Val Gardena. 

Tamponi, rimborso della Regione. Ma solo se si è positivi. Da ecodibergamo.it Domenica 17 Maggio 2020. Tramite la Regione si recuperano 62,89 euro. Sui 90-130 richiesti mediamente dai laboratori privati. «Chi paga i tamponi?» A precisa domanda(finalmente), una precisa risposta. Scrive la Regione Lombardia in un chiarimento – le ormai famose «Faq» – pubblicato venerdì sul suo sito: «In caso di positività del tampone naso faringeo, il costo del tampone viene restituito al cittadino nei limiti di cui alla Dgr n. XI/3132/2020 tramite le Ats che a breve disporranno di apposita modulistica». Dopo giorni di confusione, la Regione fa finalmente chiarezza. E lo fa esprimendosi sul tema caldo delle ultime settimane, quello dei test sierologici: i test che, analizzando un campione di sangue, permettono di sapere se si è venuti a contatto con il virus. Se è vero che il Pirellone, nella tanto attesa delibera pubblicata martedì scorso, ha di fatto disciplinato solo il percorso per campagne collettive di screening (Comuni, aziende, enti), è altrettanto vero che – in assenza di esplicito divieto – i laboratori privati hanno iniziato a eseguire, a pagamento, i test sierologici anche a singoli cittadini. Migliaia di singoli cittadini.

Il dubbio. Ma, in assenza di indicazioni precise da parte della Regione, è rimasto – per giorni – un dubbio: se un cittadino deve (attenzione: deve. Non può sottrarsi) fare il tampone perché risultato positivo agli anticorpi individuati grazie al test sierologico, chi lo paga questo tampone? Nel chiarimento di venerdì la Regione, finalmente, si pronuncia. E spiega che il tampone al laboratorio privato lo paga, in prima battuta, il cittadino (le tariffe vanno dai 90 ai 130 euro, circa): ma se il tampone risulta positivo, Regione rimborsa la spesa nei limiti stabiliti dalla delibera del 12 maggio, che corrispondono a 62,89 euro. Cifra che la stessa Lombardia aveva indicato come quota da rimborsare alle strutture, pubbliche e accreditate, che fino ad oggi hanno processato tamponi. Se il tampone risulta invece negativo, a quanto pare il cittadino non ottiene alcun rimborso. Nessun dubbio, invece, su chi paga i test sierologici eseguiti privatamente (alla tariffa media di circa 40 euro): visto che la Regione – si legge nel chiarimento pubblicato venerdì – «offre questi test in specifiche situazioni, quali ad esempio percorsi di screening per specifiche tipologie di collettività o operatori (ospedali; strutture sociosanitarie; ecc.)», tutti coloro che fanno l’esame non rientrando in queste categorie – vedi i singoli cittadini – devono mettere mano al portafoglio: «Gli accertamenti eseguiti al di fuori del Sistema sanitario regionale – è il chiarimento – sono a totale carico degli utenti». E per chi nutriva un ulteriore dubbio – dove posso fare il tampone post test sierologico eseguito privatamente: ancora nel laboratorio privato o, invece, in strutture pubbliche? – ecco la risposta della Regione: «Il laboratorio che offre ai singoli cittadini il test sierologico deve garantirgli l’intero percorso, compresa l’effettuazione del tampone nasofaringeo in tempi rapidi». Ecco, sui tempi rapidi, ci sarebbe da aprire un capitolo a parte: com’è che – privatamente – si riescono ad avere tamponi (e risultati) in tempi rapidi, quando – dall’inizio dell’emergenza – il mantra ripetuto in coro ai cittadini bergamaschi è sempre stato solo e soltanto uno: «Mancano i tamponi». Servirebbe una «Faq» di risposta.

Test sierologici, la Regione Lombardia rimborsa soltanto se hai il Coronavirus. Fabio Giuffrida su open.online il 18 maggio 2020. Un test sierologico costa 35 euro. Chi risulta positivo (ma potrebbe aver già avuto il virus in passato) deve mettersi in isolamento. E il tampone per sapere se è malato lo anticipa lui. «Al momento non ci sono più disponibilità, le nostre agende sono temporaneamente piene», a scriverlo è il Centro medico Santagostino che, con sedi a Milano, Monza e Nembro, effettua i test sierologici privati a un prezzo di 35 euro. Ed è sui test sierologici che si sono accesi i riflettori già da settimane: sono utili, sono credibili, a cosa servono e che tipo di risultati ci restituiscono? Mentre lo Stato, nel pieno della fase 2 dell’emergenza sanitaria del Coronavirus, ha annunciato l’avvio di test sierologici su un campione di 150mila italiani, i privati si sono dati da fare per garantire «un prelievo di sangue dal braccio, che sarà poi analizzato dal laboratorio di analisi, per la rilevazione delle quantità di anticorpi IGM e IgG presenti». Tutto, al momento, a spese del paziente.

Se sei positivo al test sierologico, devi restare a casa. Per i test sierologici – riservati esclusivamente agli asintomatici e non a chi ha sintomi o è stato in contatto con altre persone sintomatiche nelle ultime due settimane – è arrivato il via libera della Regione Lombardia che ha spiegato chiaramente di non volersi fare carico di questi trattamenti eseguiti da laboratori medici privati. In caso di risultato positivo a uno dei due anticorpi, però, precisano, sulla base di quanto stabilito dall’ordinanza firmata dal governatore Attilio Fontana, il paziente dovrà sottoporsi obbligatoriamente al tampone, mettendosi poi in isolamento fiduciario (con il conseguente «avvio del percorso di sorveglianza di caso sospetto»). Il laboratorio privato, dunque, avrà l’obbligo di comunicare l’esito del test, se positivo, all’Ats di competenza e poi sarà il paziente a decidere dove sottoporsi al tampone che dovrà pagare di tasca sua. «Gli accertamenti eseguiti al di fuori del servizio sanitario regionale sono a totale carico degli utenti» precisano dal Pirellone.

La deliberazione della Regione Lombardia – Il documento. Chi si sottopone a un test sierologico, dunque, dopo circa 48 ore (questo il tempo stimato per i risultati dell’esame), può andare incontro a due ipotesi: se negativo «significa che l’organismo potrebbe non essere stato esposto al virus fino ad oggi, ma rimane suscettibile di infezione se entra a contatto con il virus a partire dal momento del test. Se positivo, invece, significa che «potrebbe essere avvenuta una reazione del sistema immunitario, a seguito di un’esposizione diretta al virus. La sola positività per IgM indica un contatto con il virus avvenuto nelle ore o giorni molto recenti. La positività per IgG o per entrambi IgG e IgM suggerisce un contatto con il virus avvenuto da almeno qualche giorno o settimana» spiegano dal centro medico Santagostino. Ed è in questo caso che bisogna sottoporsi obbligatoriamente al tampone, dovendo rimanere intanto a casa in isolamento fiduciario. Un “obbligo” a pagamento che, ad esempio, al Sant’Agostino costa 80 euro e che è totalmente a carico del paziente.

Il rimborso. Cosa succede a quel punto? La Regione rimborsa solo i malati: «In caso di positività del tampone naso faringeo, il costo del tampone viene restituito al cittadino nei limiti di cui alla DGR n. XI/3132/2020 (62 euro, ndr) tramite le ATS che a breve disporranno di apposita modulistica» si legge nelle FAQ della Regione Lombardia. Nel caso di tampone negativo, invece, nessun rimborso.

A cosa servono i test sierologici – Il documento del Ministero della Salute. È bene ricordare che i test sierologici non sostituiscono i tamponi, il loro impiego è «utile nella ricerca e nella valutazione epidemiologica della circolazione virale, mentre non è indicato nella diagnosi dell’infezione, in quanto i risultati ottenuti non sono sufficientemente attendibili». La sierologia è un ottimo strumento «per stimare la diffusione dell’infezione in una comunità, può evidenziare l’avvenuta esposizione al virus, può essere utile per l’identificazione dell’infezione da SARS-CoV2 in individui asintomatici o con sintomatologia lieve o moderata che si presentino tardi alla osservazione clinica».

Attenzione ai furbetti. «Ora è il momento della sierologia. La spinta popolare a fare il test sierologico è forte e, ovviamente, i furbacchioni hanno fiutato odore di business a lunga distanza» ha scritto su Facebook l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene all’Università di Pisa e consulente della Regione Puglia. Insomma, sui test ci vuole ancora molta, molta prudenza.

·         Il Tampone della discriminazione.

L'Italia delle disuguaglianze si vede anche con i tamponi 'Italia delle disuguaglianze si vede anche con i tamponi. Risposte veloci in Veneto, privati favoriti in Lombardia, zero controlli al porto di Napoli: la mappa dei test è lo specchio delle disparità e delle disorganizzazione. Gloria Riva il 09 settembre 2020 su L'Espresso. Regione che vai, tampone che trovi. O che, più spesso, non trovi (se non a caro prezzo). Dalla Lombardia, che sta demandando il compito di effettuare le analisi a laboratori e ospedali privati al costo di 97 euro (ovviamente a carico del cittadino), alla Liguria che non ha previsto alcun punto di screening per chi sbarca al porto di Genova. E ancora, dall’Emilia Romagna, dove si sta sperimentando un nuovo test in grado di offrire un risultato in meno di 13 minuti, al Lazio dove teoricamente l’azienda sanitaria dovrebbe contattare chi rientra dall’estero entro 48 ore per effettuare il test di positività al Covid-19, ma in pratica non va esattamente così, ogni Regione interpreta a modo proprio le disposizioni emanate dal ministero della Salute per contenere e contrastare il diffondersi del Coronavirus. Risultato? «C’è una grandissima disomogeneità di trattamento, non solo fra una Regione e l’altra, ma anche fra una provincia e quella a fianco. Questo sta creando una grande confusione e, soprattutto, è causa di enormi disuguaglianze, con cittadini di serie A e di serie B a seconda del luogo di residenza», avverte Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, associazione che vigila sulla qualità del servizio sanitario italiano, che per l’Espresso ha realizzato un dossier utile a raccontare l’arcobaleno di leggi e regolamenti, alcuni dei quali contraddittori, emanati dai governatori e dalle amministrazioni locali per affrontare il rientro dalle ferie dei cittadini. L’esempio più eclatante lo forniscono Alessia e Daniele, 36 anni lei, 34 lui. Per motivi di privacy chiedono l’anonimato, vivono insieme a Milano, ma lei è residente in Lombardia, lui in Veneto. «Siamo rientrati da una vacanza in Toscana il 17 agosto. Il mio compagno era andato in Veneto a far visita ai genitori, io ero rientrata direttamente a Milano per motivi di lavoro. Il 18 agosto un’amica frequentata durante la vacanza ci informa di essere risultata positiva al Covid», racconta Alessia. Entrambi, nella propria Regione, parlano con il medico curante: Alessia viene chiamata dall’azienda sanitaria di Milano, che per lei dispone subito la quarantena e la informa che verrà presto ricontattata per fissare l’appuntamento dove effettuare il tampone. Anche Daniele chiama il proprio medico, che gli consiglia di presentarsi al più vicino ospedale, dove è stato predisposto un triage apposito per effettuare il tampone. In meno di 24 ore Daniele scopre di essere positivo al Covid-19, entra in quarantena, viene fissato un secondo tampone a due settimane di distanza e richiesto l’elenco delle persone con cui è entrato in contatto in quelle ore. L’intera famiglia di Daniele effettua il test in ventiquattro ore. Nel frattempo, in Lombardia, le cose vanno diversamente: «Ho atteso oltre tre giorni che qualcuno mi contattasse per effettuare il tampone, ma nessuno si è fatto vivo. Così, grazie a un nulla osta del medico di base, mi sono recata all’ospedale privato San Raffaele per effettuare l’analisi, al costo di 92 euro. Nonostante il tampone avesse dato esito negativo, sono stata comunque confinata dall’Ats in quarantena. L’isolamento, mi è stato detto, terminerà solo quando avrò due esiti negativi di fila. Visti i tempi lunghi per effettuare l’analisi e avere il responso, mi aspetto di trascorrere più di tre settimane relegata in casa, sempre che il secondo tampone confermi il primo esito negativo». Ma la norma dei due tamponi negativi consecutivi, in Lombardia, non vale per tutti: «È a discrezione del medico di base far cessare la quarantena dopo un primo esito negativo», riferisce Alessia, avendo scoperto che altri amici lombardi, che si trovavano nella sua stessa situazione, dopo un primo tampone negativo sono stati esentati dall’obbligo di proseguire la quarantena dal medico di base. Insomma, Veneto batte Lombardia uno a zero: «Abbiamo avuto l’impressione che in Veneto si faccio il possibile per individuare i positivi, anche asintomatici, per mappare i contatti e arginare la diffusione dei virus. Mentre in Lombardia si punta molto sulla quarantena preventiva, sperando che le due settimane di confinamento vengano rispettate per ridurre il contagio». In base all’indagine di Cittadinanzattiva, solo alcune Regioni hanno recepito in pieno le disposizioni contenute nel decreto ministeriale dello scorso 7 agosto e l’ordinanza del ministero della Salute: in Campania ad esempio, vige l’obbligo di segnalarsi alle Asl entro le 24 ore dal rientro da viaggi in Croazia, Grecia, Malta e Spagna, oltre all’isolamento domiciliare fiduciario di 14 giorni dal rientro, mentre l’obbligo di effettuare il test viene posto in secondo piano. Sempre in Campania, non sono stati allestiti presidi di controllo al porto di Napoli, ma chi torna dalla Sardegna, o altre aree fortemente colpite dal virus, può recarsi all’ospedale Domenico Cotugno per sottoporsi al tampone. Nei porti toscani di Piombino e Livorno i presidi per i test sono stati allestiti dal 30 agosto, cioè quando il boom della stagione turistica è ormai alle spalle. Al porto di Genova e Savona, che servono l’intero Nord Italia per i collegamenti con Corsica e Sardegna, non viene misurata neppure la febbre all’imbarco dei traghetti, e lo stesso vale per il porto di Olbia, in Sardegna. In Sicilia e nel Lazio sono state create delle piattaforme web per la segnalazione del rientro da un viaggio all’estero, ma non sempre si viene ricontattati dall’Asl per effettuare il tampone. Marco M., cittadino italo-russo, è stato a Mosca per far visita ai genitori: «In Russia c’è l’obbligo di effettuare entro tre giorni dall’arrivo il test molecolare, che viene offerto gratuitamente. I risultati vengono pubblicati su un sito web. Tornato in Italia, a Fiumicino, la situazione mi è apparsa più confusa. Ad esempio, all’aeroporto dovrebbero essere stati allestiti dei covid taxi, ma non li ho trovati, così sono rientrato a casa con un normale taxi. Poi ho contattato il numero verde della Regione Lazio e sono stato posto in isolamento fiduciario in attesa del tampone, che ho effettuato una settimana dopo, mentre l’esito è giunto cinque giorni più tardi. Nonostante risulti negativo al test, per me continua l’obbligo di isolamento fiduciario, perché l’Ats mi ha spiegato che il tampone è solo una precauzione aggiuntiva e, per legge, devo terminare l’isolamento di 14 giorni. Il tutto è demandato all’onestà dei cittadini, che devono autodenunciare il proprio ingresso in Italia. E chi non la fa?». Nessuno se ne accorgerà, dal momento che le Ats locali, prive di personale aggiuntivo, faticano a stare al passo con le segnalazioni, i monitoraggi, i tracciamenti e tutto il lavoro extra venuto dal contenimento del Covid. In base ai dati forniti dalla Fondazione Gimbe, ente di ricerca sulla sanità pubblica, nel mese di agosto sono stati effettuati 1.824.246 tamponi, i valori per 100mila abitanti variano da 1.390 della Campania a 6.505 del Veneto. Se si escludono i test effettuati due volte sullo stesso soggetto, i casi testati ad agosto scendono a 1.098.704, e si va dai 973 ogni 100mila abitanti in Sicilia, fino ai 3.479 della Provincia Autonoma di Bolzano. «In ogni caso, come già successo in precedenza, è andato in scena l’ennesimo ritardo organizzativo: un’impennata dei contagi nelle località turistiche era ampiamente prevedibile, ma ancora una volta abbiamo lasciato un vantaggio al virus, ponendoci il problema dei test sui vacanzieri organizzando lo screening “in emergenza”», commenta Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, che continua: «Sull’utilizzo dei test sierologici non esistono dati comparativi tra le varie Regioni, che peraltro utilizzano test con accuratezza diagnostica molto diversa tra loro, trascurando che nei primi giorni dell’infezione il test ha una probabilità elevata di false negatività. Riguardo ai tamponi, a livello nazionale si registra un netto incremento dei tamponi totali effettuati, ma con notevoli differenze regionali, che si enfatizzano ancor più se rapportate alla popolazione residente». Dunque, ancora una volta è la qualità del sistema regionale a fare la differenza. Del resto, proprio dalle linee di indirizzo emanate dai governatori delle Regioni dipenderà il livello di libertà personale che i cittadini potranno sperimentare il prossimo inverno. Come spiega Cartabellotta, infatti, «in linea generale il servizio sanitario sta monitorando la situazione epidemiologica ed è ben organizzato per fronteggiare le emergenze ospedaliere, seppur con un livello di risposta differente tra le varie Regioni. Sicuramente bisognerà gestire in maniera ottimale la convivenza tra coronavirus e virus influenzale, sia aumentando le coperture per la vaccinazione antinfluenzale, sia potenziando i laboratori per effettuare rapidamente il tampone a persone con sintomi influenzali. In assenza di queste misure il rischio è che, con i primi malanni di stagione, i cittadini diventino di fatto ostaggio del sistema in attesa del tampone, con imponenti tassi di assenteismo dal lavoro e dalla scuola». Dunque, difficilmente gli italiani saranno costretti a un nuovo lockdown di massa, ma è molto probabile che molti finiranno ai domiciliari, specialmente in quelle Regioni dove scarseggiano sia le vaccinazioni antinfluenzali, sia il ricorso a tamponi e test sierologici veloci.

Stella attacca Rossi: “Test gratis ai migranti, non ai lavoratori”. Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. Il consigliere regionale di Forza Italia, Stella, attacca il governatore della Toscana, Rossi: "Test gratis ai migranti e non ai lavoratori". In Toscana vengono svolti test gratis ai migranti, mentre i lavoratori sono costretti a pagare. La denuncia arriva direttamente dal forzista Marco Stella, vicepresidente del Consiglio Regionale, che attacca duramente il Governatore Rossi: “La Regione Toscana, con l’ordinanza n. 54 del 6 maggio 2020, stabilisce che i migranti potranno fare i test sierologici gratuitamente, mentre invece lavoratori e liberi professionisti se li dovranno pagare”. Alla lettura del documento il forzista si è detto esterrefatto: “Non volevo crederci, ma purtroppo è così. Io mi chiedo cosa porti la sinistra toscana e il governatore Rossi ad applicare queste palesi, offensive e vergognose discriminazioni. Come toscani e come lavoratori, ci sentiamo profondamente amareggiati”. Secondo il vicepresidente del Consiglio Regionale della Toscana il punto focale è a pagina 5 dell’ordinanza 54/2020: “Si legge che l’esecuzione del test sierologico a beneficio dei lavoratori, operatori, liberi professionisti avverrà ‘a cura e spese degli stessi. Mentre alcune righe più sotto l’ordinanza identifica le categorie che potranno fare i test con oneri a carico delle Asl: oltre a medici, infermieri, insegnanti e altre categorie di lavoratori a rischio che si prodigano per il bene della collettività, ci sono ‘gli operatori e gli ospiti delle strutture di accoglienza per migranti’. Cioè le strutture che accolgono i clandestini. La Regione Toscana vuole fare i test gratis a chi viene illegalmente nel nostro Paese e viola la legge”. Per il forzista è una vera e propria vergogna: “Non ho altre parole”. In Toscana si è vicini alle elezioni regionali – slittate con ogni probabilità a ottobre 2020 – ed è per questo che sul tema test sierologici gratis ai migranti è intervenuta anche Susanna Ceccardi, europarlamentare della Lega e candidata alla presidenza della Regione Toscana. “Il business dell’accoglienza risulta ancora una volta privilegiato dal partito democratico: i migranti ospiti dei centri d’accoglienza potranno usufruire della corsia preferenziale per i test sierologici per verificare la positività al covid-19 e tutto gratuitamente. Con quale criterio questa categoria è stata inserita dalla giunta Rossi in quelle a rischio? Non ci risulta che gli ospiti dei centri accoglienza svolgano lavori a contatto diretto con il pubblico”.

Il privilegio dei veterinari: tamponi per tutti mentre ai medici sono negati. Redazione de Il Riformista il 3 Maggio 2020. Ci sono centinaia di persone, se non migliaia, che aspettano di fare il tampone per il Covid-19. Sintomatici e asintomatici. Ci sono in fila centinaia di dottori, di infermieri, di medici di famiglia, di personale sanitario che con il coronavirus è stato a contatto per giorni, nelle corsie degli ospedali, nei reparti di terapia intensiva. E ancora non è stato testato. Il privilegio però tocca a un’altra professione: quella dei veterinari. Succede infatti che un protocollo d’intesa con l’istituto Zooprofilattico Sperimentale di Portici, in provincia di Napoli, abbia previsto dei tamponi per i veterinari della Campania. Una precedenza che ha lasciato sconcertati anche molti membri della stessa categoria. L’organizzazione è certosina. Domenica 3 maggio, dalle 9:00 alle 17:00, gli iscritti possono sottoporsi al test. Gli orari sono scaglionati in ordine alfabetico e i tamponi eseguiti senza scendere dall’auto. E all’atto della registrazione “verranno consegnate mascherine chirurgiche donate dal Comune di Napoli e le FFP2 KN 95 che il Consiglio dell’Ordine ha provveduto ad acquistare”. Eppure c’è anche chi all’interno della categoria ha deciso di non sottoporsi al tampone. Perché non è obbligatorio, ma soprattutto per una motivazione politica, un privilegio che non vuol farsi riconoscere. “Tra di noi c’è anche chi si è negato la possibilità. È una questione di principio”, dice una fonte del Riformista. “Un collega ha lamentato che avendo rapporti con i clienti avremmo dovuto avere diritto ai tamponi. E così è andata a finire: che abbiamo buttato mille tamponi per i veterinari che hanno paura di ammalarsi. Questo fa capire anche quanto è forte la categoria”, racconta un’altra fonte. “Io sono dell’idea che chi ha paura di contrarre il virus, di ammalarsi stando a contatto con i clienti, dovrebbe chiudere lo studio e starsene a casa”.

Coronavirus in Sicilia: “Aspetto il risultato del tampone da due settimane”. Le Iene News il 19 aprile 2020. Il 17 aprile c’è stato un nuovo record di tamponi esaminati: oltre 65mila in un giorno. Eppure non in tutta Italia la situazione sembra uniforme, come ci racconta un sospetto positivo in provincia di Ragusa: “Io è da 15 giorni che aspetto il risultato del test, siamo sicuri di essere pronti per poter riaprire? “È da due settimane che aspetto il risultato del mio tampone”. A parlare con Iene.it è un insegnante che vive in provincia di Ragusa, che il 3 aprile si è sottoposto al test per sapere se è stato contagiato dal coronavirus: “Ho avuto un contatto diretto con un malato e quindi ho fatto il tampone. Da allora sono in quarantena in casa con la mia famiglia, ma non ho più avuto notizie”. Una situazione paradossale, tanto più che il 17 aprile si è registrato il record italiano di tamponi processati: 65.705. È lecito pensare che non tutte le regioni siano però pronte allo stesso modo, almeno a sentire quello che ci racconta l’insegnante. “So di molte altre persone nella mia stessa situazione in Sicilia”, ci racconta Paolo (il nome è di fantasia). “Ho provato a contattare tutti, ma c’è sempre una scusa diversa: una volta mancano i reagenti, una volta c’è stato un ritardo. Il mio medico curante mi segue, ma intanto sono chiuso in casa da due settimane. Per fortuna ho gli amici che vengono a portarmi la spesa e a buttare la spazzatura”. Nell’attesa di sapere se quel test è positivo o negativo, l’ansia cresce: “Per fortuna stiamo bene, speriamo che il tampone sia negativo, però emotivamente è difficile restare così in sospeso. Oltre al disagio di non poter nemmeno uscire per le commissioni urgenti”. E c’è anche un’altra cosa: “Per fortuna io sono un insegnante e ho lo stipendio garantito. Ma se avessi bisogno di lavorare per guadagnare come farei?”. Il problema purtroppo non è solo questo. Ce n’è anche un altro che pone Paolo, forse persino più urgente in vista della possibile riapertura delle attività dal 4 maggio: siamo davvero pronti a ripartire? “Se magari ci fossero duemila o tremila persone nella mia stessa situazione”, si chiede l’insegnante, “come facciamo a sapere quanti sono davvero i malati? Come facciamo a decidere di riaprire o meno se non abbiamo un numero chiaro dei malati? Sembra che ci sia un’incredibile sottovalutazione”. Anche perché il governo starebbe pensando di permettere le riaperture prima nelle zone in cui i numeri del contagio sono più bassi. E nella grande maggioranza dei casi, queste zone sono a Sud dove magari i meccanismi dei test anti contagio potrebbero essere appunto non così rodati. Per poter ripartire è necessario però essere pronti a riconoscere e tracciare subito i nuovi contagiati per evitare una seconda ondata. Ripetiamo la domanda di Paolo: siamo sicuri di essere davvero organizzati per tutto questo? 

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 18 aprile 2020. Prezzo 120 euro: basta pagare, ed ecco il tampone fatto. Al San Raffaele Resnati, in attesa che la Regione Lombardia faccia chiarezza una volta per tutte sulla questione tamponi, già si offre la possibilità a privati o aziende di accedere al test per capire se si è positivi o meno al coronavirus. Con ritiro referti direttamente in via Olgettina. "Mentre l'assessore Gallera ci dice che non si possono aumentare i tamponi perché mancherebbero i reagenti dice Samuele Astuti del Pd - veniamo a sapere che ci sono laboratori che li offrono privatamente per cifre molto variabili. Il San Raffaele, per esempio, li fornisce per un costo intorno ai 120 euro, altri al doppio". Il problema è che mentre si negano o vanno al rilento i test agli operatori sanitari, ai pazienti e al personale delle residenze per anziani, così pure a chi presenta evidenti sintomi, con ogni evidenza c'è un mercato privato dei tamponi, "un far west senza regole - continua Astuti - ma secondo quanto detto da Gallera oggi (ieri, ndr), questo non è possibile, cioè non si possono fare tamponi a privati a pagamento. Com'è possibile che questo avvenga? È forse stata una scelta quella di limitare il numero dei tamponi? La Regione deve spiegare ai lombardi che cosa sta succedendo. Soprattutto, è fondamentale che la Regione faccia quanto è in suo potere per aumentare il più possibile il numero di tamponi analizzati dal servizio sanitario regionale, perché in altro modo non si può pensare di avviare la fase 2". Non solo tamponi però, perché anche sui test sierologici la confusione sembra essere tanta. Due giorni fa il dirigente di settore del Pirellone, Luigi Cajazzo, ha inviato una missiva a ospedali e Ast spiegando che dal 23 aprile arriveranno i primi kit alle strutture di Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona, poi il 27 aprile nelle altre province. E c'è già il tipo di test, fornito dalla società Diasorin. Solo che ieri invece Gallera ha annunciato una nuova call da parte della centrale di acquisti regionale Aria, aperta anche ad altre aziende che sono pronte a entrare in questo mercato. "Stanno andando in tilt - sottolinea il dem Pietro Bussolati - continuano a cambiare idea continuamente, il 30 marzo la sperimentazione era stata vietata, adesso si fa confusione su chi invece se ne dovrà occupare. Lo stesso atteggiamento ondivago avuto sui tamponi". Tra le altre cose, un'impresa produttrice lodigiana, la TechnoGenetics, è pronta a fare guerra giudiziaria contro non solo l'affidamento diretto alla Diasorin ma pure contro il bando regionale aperto il 6 aprile e poi richiuso il giorno stesso proprio per chi dovesse occuparsi dei test in questione. Un pasticcio insomma che rischia di avere ripercussioni legali e amministrative.

Tamponi a 120 euro al San Raffaele. L’ospedale conferma: “Un errore, rimborseremo i pazienti”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Per l’assessore alla Sanità della Lombardia Gallera dovrebbero essere vietati. Eppure all’ospedale San Raffaele di Milano sono stati effettuati tamponi per il Coronavirus al costo di 120 euro. A denunciare la vicenda è stato il consigliere regionale del Partito democratico Samuele Astuti. “Esiste un mercato privato, un Far West senza regole – ha detto Astuti -. Sappiamo che ci sono altri 40 laboratori che possono processare i tamponi e aspettano solo il via libera dalla Regione. In compenso ci sono laboratori che li offrono per cifre molto variabili, alcuni a 150 euro, altri pure il doppio“. Dal San Raffaele fanno sapere che i tamponi sono stati eseguiti fino a dieci giorni fa per alcune aziende o Rsa che avevano necessità di testare i propri dipendenti per poter continuare a lavorare. E assicurano che nessun privato può accedere al test in via preferenziale, dietro compenso. In una nota hanno chiarito che il loro ospedale “non esegue tamponi naso-faringei per Covid-19 a utenza esterna e a pagamento, bensì li esegue esclusivamente ai pazienti, al personale sanitario proprio e di strutture sanitarie e socio sanitarie regionali, come indicato dalle delibere regionali”. Tuttavia, aggiungono: “A seguito di un disguido amministrativo, uno dei poliambulatori della società H San Raffaele Resnati ha erogato a poche persone la prestazione, associando un codice errato. Queste persone sono già state contattate per il rimborso dovuto”. L’assessore Gallera aveva già fatto sapere di aver consultato il governo centrale sul tema dei test, chiedendo una norma chiara a livello nazionale: “Ne ho parlato 15 giorni fa con il ministro Speranza quando c’è stato il primo caso in un piccolo comune, paventando il rischio di ingenerare un percorso sul territorio difficilmente controllabile e quindi un rischio per la salute pubblica. Io auspico che vengano bloccate queste iniziative, penso che sia necessaria una decisione nazionale”. Leu ha annunciato un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute per far luce sulla questione: “Basta con questa giungla in cui sopravvive il più ricco. Basta con la speculazione sulla salute – ha scritto Nicola Fratoianni su Facebook -. Ogni risorsa disponibile nella lotta al contagio deve essere messa a disposizione di un piano di salute pubblica. Tutto il resto è inaccettabile. Nelle prossime ore depositerò una interrogazione al Ministero per fare in modo che intervengano subito”. La polemica sui tamponi a pagamento effettuati da privati era già scoppiata in Toscana. Lì alcuni laboratori li avevano offerti a poco più di 100 euro ricevendo moltissime prenotazioni in poche ore. Operazione che il governatore Enrico Rossi aveva bloccato sul nascere annunciando denunce alla protezione civile.

Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 17 aprile 2020. La scritta nera è sul muro rosso del municipio di Nembro, provincia di Bergamo, uno degli epicentri del Coronavirus: "Politici e calciatori, vi siete fatti fare i tamponi. Quindi i nostri zii, padri e nonni sono coglioni?". Uno slogan sguaiato - comparso la mattina del 26 marzo - che però racconta una preoccupazione vera: di fronte al Coronavirus sono davvero tutti uguali? Sono molteplici le segnalazioni di cittadini comuni che hanno chiesto di fare il test del tampone e sono stati respinti, nonostante i sintomi di un possibile contagio. La stessa difficoltà per altre categorie invece non esiste, come si evince dai racconti dei "vip" sulle loro esperienze con la malattia e le cure. Nicola Zingaretti - ricorderete - è passato in pochi giorni dall' aperitivo a Milano all' annuncio della sua positività al Covid (7 marzo). Per lui il tampone è arrivato ai primi sintomi di malessere: qualche linea di febbre, mal di testa, occhi arrossati. Per un cittadino comune non bastano, per il presidente della Regione Lazio sì (anche perché Zingaretti era esposto "sul campo", visitando regolarmente l' ospedale Spallanzani di Roma). La dem Anna Ascani , viceministra dell' Istruzione, ha fatto il tampone e scoperto la sua positività malgrado non avesse avuto (per fortuna) sintomi gravi (come lei stessa ha dichiarato). Tra i numerosi politici che hanno contratto il Coronavirus ci sono anche il 5Stelle Pierpaolo Sileri (pure lui molto esposto, in quanto viceministro della Sanità), il governatore piemontese Alberto Cirio , il parlamentare del Misto Claudio Pedrazzini , l' ex renziano Luca Lotti , Edmondo Cirielli di Fdi, Chiara Gribaudo del Pd, gli assessori emiliani Raffaele Donini e Barbara Lori , il sindaco di Cremona Gianluca Galimberti , l' assessore in Lombardia Alessandro Mattinzoli. Se esiste una categoria che sicuramente ha avuto un accesso ai tamponi fuori da ogni canone è quella dei calciatori. A inizio marzo il lungo e ridicolo balletto sulla sospensione della Serie A fu risolto proprio dalle notizie dei professionisti contagiati. Il primo in assoluto è stato lo juventino Daniele Rugani . Il difensore ha scoperto di essere positivo malgrado fosse asintomatico, come ha raccontato la moglie Michela Persico : "Daniele non aveva sintomi, poi improvvisamente due linee di febbre, quasi niente, ma è partito il controllo". La stessa Persico ha fatto il tampone, malgrado stesse bene. Una buona notizia per lei che è in dolce attesa, ma non tutti i familiari dei contagiati "comuni" hanno la stessa possibilità. Dopo Rugani sono fioccati i casi di positività nel calcio: Paulo Dybala (e compagna), l' ex stella del Milan Paolo Maldini (e il figlio Daniel), Blaise Matuidi, Manolo Gabbiadini, Patrick Cutrone, Marco Sportiello e molti altri ancora. E poi ci sono artisti, giornalisti, vip generici. Piero Chiambretti è stato ricoverato con lievi sintomi da Coronavirus all' ospedale Mauriziano di Torino insieme alla madre Felicita: purtroppo la signora non ce l' ha fatta, Chiambretti è stato poi dimesso. Lucia Annunziata è stata ricoverata allo Spallanzani per una crisi respiratoria: malgrado due tamponi negativi, la tac a cui è stata sottoposta ha mostrato una brutta polmonite. Nicola Porro ha raccontato la malattia e l' isolamento domiciliare: "Ho avuto i sintomi di una brutta influenza". Per alcuni "famosi" non servono neanche quelli. Valeria Marini l' ha raccontato durante la partecipazione al Grande Fratello: "Ho fatto le analisi e il tampone prima di entrare, era negativo". Poi si è rimangiata tutto: "Era solo un tampone faringeo". Peccato che il tampone per il Coronavirus sia proprio un tampone faringeo .

Maria Giovanna Maglie contro il governo: "Menzogna di Stato sui tamponi, chi pagherà?" Libero Quotidiano l'1 aprile 2020. Balle, menzogne, bugie. Di Stato. In giorni di coronavirus. Che il governo più di una volta non ce l'abbia raccontata giusta è un sospetto che coltivano in molti: curve, contagi, mascherine, medici "eroi" però mandati allo sbaraglio. Tanti i punti che, una volta finita l'emergenza, dovranno essere chiariti. E a puntare il dito contro le autorità ci pensano sia Antonio Socci sia Maria Giovanna Maglie, in una sorta di attacco incrociato su Twitter. Ad aprire il fuoco è Socci, il quale cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?", si interrogava rilanciando un depliant in cui il ministero della Salute informava sulle circostanze in cui era necessario indossare la mascherina. Un tweet, quello di Socci, ripreso e rilanciato da Maria Giovanna Maglie. Che punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?", si interroga. Domanda tutt'altro che peregrina, se si pensa per esempio a quanto fatto da Luca Zaia in Veneto, con tamponi a tappeto ed asintomatici compresi.

Filippo Facci contro il Fatto Quotidiano: "Esempio di disinformazione scivolato sull'untuosa strisciata di lingua che dedica al governo".  Filippo Facci su  Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Seguono due esempi di grave disinformazione a cura del Fatto Quotidiano dell' altro ieri, probabilmente scivolato sull' untuosa strisciata di lingua che ogni giorno dedica al governo.

1) Il vicedirettore Marco Lillo (pagina 11) racconta di essere stato in Canada proprio a marzo (grande tempismo) e di essere tornato con la paranoia da coronavirus per via di una «tossetta» e una «febbriciattola» di 37,3 (che è la mia esatta temperatura normale, per dire). Allora, siccome la sanità per cose del genere non corre certo a farti il tampone (sennò dovrebbe farlo a 60 milioni di italiani, refertandoli dopo un periodo in cui farebbero in tempo ad ammalarsi altre tre volte) Lillo decide di fare da solo, o questo crede: ordina via internet un test sierologico made in Cina (5 euro l' uno, ma lui ne spende 270, perché li vendono a pacco) dopodiché si duole perché «si è dovuto bucare il dito da solo» (niente sala operatoria) e siccome però l' esito è ambiguo, e la linea dell' esito del test è grigina e non nera, telefona a un allergologo di Latina, che gli dice: «Lei è debolmente positivo all' Igg». Urca. Che significa? In realtà poco. Lillo deduce di aver avuto una forma blanda di coronavirus e di essere in pratica un asintomatico, e da lì in poi non ci capisce più un cazzo: perché quel test in ogni caso non serve tanto a capire se hai avuto o hai il morbo, serve a capire se ne sei immune a lungo termine (igG) o a breve termine (igM). Ma il test non ti dice, comunque, se sei infettivo o no. Ciò nonostante, Lillo ha scritto un' intera pagina per denunciare «l' insensato atteggiamento del governo che continua a vietare i tamponi e soprattutto vieta persino i test sierologici». Ma i tamponi non sono vietati: sono selezionati. Neanche i test sono vietati: ne stanno cercando uno serio per tutti, sennò sarà la catastrofe. Il test, comunque, non sostituisce il tampone: il Ministero l' ha precisato più volte. Lillo prenda appunti: se mezzo mondo perde tempo per validare un test sierologico serio, è perché serve un test che indichi sì la «sieroprevalenza», ma anche, e soprattutto, quanti falsi positivi o falsi negativi possano risultare dal test: non si può - soprattutto in vista della fase 2, il lento ritorno alla vita normale - rischiare di mandare in giro milioni di falsi positivi e falsi negativi, come anche Lillo potrebbe risultare senza saperlo. Si cerca un test che sia affidabile almeno per nel 90 per cento dei casi. Il test che ha fatto Lillo per ora non è stato giudicato abbastanza affidabile: neanche nella versione più accurata e professionale, senza «lineette» da far valutare a un allergologo (?) o a suo cugino. La medicina fai da te è una sciagura. Presente il test di gravidanza? Di norma si fa, ma poi vai dal ginecologo per conferma o da altri ancora, fai altri esami, che sia nera o grigina la linea: ed è un test molto più affidabile e sperimentato del test cinese di Lillo, che è meglio - è un consiglio - che se ne resti a casa per almeno un paio di settimane.

LA PUBBLICISTA. 2) La pubblicista Selvaggia Lucarelli (che vabbeh, è Selvaggia Lucarelli) l' altro ieri ha occupato un' altra intera pagina (la 6) per dimostrarci la sua ignoranza, che temiamo si possa estendere all' intero quotidiano, visto che ha pubblicato l' articolo e gli errori grossolani che contiene. La signora, sorta di attempata stagista del giornalismo tradizionale, ha intervistato con soddisfazione («l' incredibile racconto») un mentitore che aveva una polmonite interstiziale e che allora ha ben pensato di raccontare una balla ai sanitari (incontri ravvicinati con dei codognesi) pur di farsi ricoverare in ospedale quando gli ospedali scoppiavano: uno di quelli perennemente terrorizzati che chiedono continuamente il tampone, quel genere lì. Dopo una settimana di ossigenoterapia leggera, l' hanno dimesso e arrivederci. Però Marco - prosegue «l' incredibile racconto» - ha poi preteso tamponi per tutta la sua famiglia, si è procurato persino il numero di cellulare di Giulio Gallera (l' assessore alla Sanità) e lo ha tempestato di messaggi e telefonate: «Sono disperata», gli ha scritto Marika, moglie di Marco, «ho due bambini e mi sta tornando a casa un positivo al coronavirus». Allora. Spieghiamo. Marco, come la sua famiglia, è senz' altro molto giovane, come la moglie e i figli, e in quelle condizioni - con gli ospedali a dover selezionare chi doveva vivere e morire, in quei giorni - non doveva neppure essere ospedalizzato, ha rubato un posto a gente morente, e l' ha fatto mentendo. Aveva una polmonite interstiziale: se la poteva curare a casa sua, alla peggio con una bombola, come fa la maggior parte della gente che pure ha vaghi accenni di corona. Infatti l' hanno tenuto in corsia per una settimana, gli hanno fatto un po' di mascherina e ciao, tanti saluti.

LA PRASSI. L' hanno dimesso da positivo? Ma questa è l' assoluta prassi, la normalità: quando uno è clinicamente guarito, si libera il letto (ci sono moribondi in lista d' attesa, vecchi che non respirano) e lo si manda a casa a fare una cosa che si chiama quarantena; se vive in famiglia, la quarantena può farla in teoria in un hotel (se disponibile) oppure, come la maggioranza, come decine di altri migliaia, a casa sua, a Cernusco sul Naviglio, tenendo le dovute distanze dai familiari e prendendo le precauzioni del caso. Gallera peraltro gli rispose pure, dicendo che Marco era guarito: che volevano? Tamponi per tutti? Ma agli asintomatici i tamponi non si fanno: se anche si scoprisse che sono positivi, non cambia niente, dovrebbero semplicemente vivere distanziati come facciamo tutti. È dal 24 febbraio che la linea guida è la seguente: i tamponi si fanno solo a chi presenta sintomi evidenti come febbre e tosse. Gran parte di noi - parentesi - probabilmente si è già fatta il coronavirus e neppure lo sa. Ma sentite il dialogo accademico tra la Lucarelli e questo Marco. Lucarelli: «Ma come guarito? Dimissioni non vuol dire per forza guarigione». Marco: «Infatti! Io ero positivo e lo sono stato ancora per 20 giorni, dopo che sono uscito». Ossia la normalità assoluta: non è che ti fanno fare pure la convalescenza in ospedale, servito e riverito: e questo vale per qualsiasi malattia infettiva. Poi Marco aggiunge, a peggiorare il quadro dell' ignoranza: «Mia madre era stata qui mentre ero infetto, è tornata in Sicilia con l' aereo da Bergamo». E lo dice pure. È andata a infettare la Sicilia. «Marco, alla fine sei tornato a casa da positivo» si stupisce la Lucarelli. Scoop. Titolo dell' articolo: «Dimesso, ma infetto: Gallera disse che era guarito». Infatti. Riassunto: un' ignorante ne ha intervistati altri due.

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” l'8 aprile 2020. Per sapere se quella tossetta di tre settimane fa fosse collegata al virus abbiamo dovuto cercare le aziende e la documentazione da soli su internet senza che i professoroni di Iss, Css e Cts, cioè Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità e Comitato tecnico scientifico si degnassero di mettere nero su bianco la ormai celebre "validazione" o "standardizzazione" per farci capire quali siano i kit e i test buoni per l' attendibilità dei loro risultati. Il governo e le Asl se ne fregano altamente dei pauci-sintomatici e degli asintomatici e non fanno i tamponi. Eppure sono (siamo) in tanti. Abbiamo dovuto far da soli. Pagare 270 euro a una società belga, aspettare pazientemente il kit di fabbricazione cinese due settimane. Poi, poiché i laboratori non possono farlo, ci siamo dovuti bucare il dito da soli e ora finalmente abbiamo in mano questa stecchetta con la righetta grigia che ci guarda beffarda. Dunque il risultato del test del mio sangue dice che molto probabilmente (al 98,5 per cento se le ricerche cinesi del produttore non mentono) ho avuto il coronavirus e l' ho sconfitto. La righetta degli anticorpi dell' infezione Igm non si è "colorata" e quella degli anticorpi stabili Igg non è nera ma grigetta. Eppure un esperto del settore fredda le mie speranze. Adriano Mari del Caam di Latina spiega: "La linea c' è e significa che lei è positivo, anche se debolmente, all' Igg". Mari azzarda un' ipotesi: "Potrebbe essere stato contagiato tre-quattro settimane fa". Una "pista" buona penso di averla: il maledetto volo. Il 9 marzo, di ritorno dal Canada, sono stato 10 ore a contatto con un paio di persone che tossivano. Io indossavo la mascherina ma British Airways non obbligava i passeggeri a farlo: Boris Johnson straparlava ancora di immunità di gregge e non era ricoverato. Un tale tossiva a tre file da me e non stava bene: in piena notte si era pure steso per un attimo davanti al portellone prima che la hostess lo facesse ri-sedere. Come sempre bisogna essere garantisti. Non ho certezze che quella tosse fosse Covid e non posso escludere l' aeroporto di Londra Heathrow dove ho trascorso mezza giornata, quando British Airways ha cancellato il volo. Dal 10 marzo mi sono chiuso in casa anche perché due-tre giorni dopo l' arrivo ho sentito montare una faringite accompagnata da una lieve tosse secca, una febbriciattola ridicola che un solo giorno è salita fino a 37,3, poi un mal di gola passato in due giorni. Sintomi lievi che racconto qui solo per una ragione: spiegano meglio di un trattato quanto sia insensato l' atteggiamento del Governo che continua a vietare i tamponi, a chi non abbia almeno 38 o una polmonite incipiente. E soprattutto vieta persino i test sierologici, cioé quello con il kit da 5 euro più iva che ho fatto io e permette di scoprire gli asintomatici o quasi come me. Giustamente non è considerato valido per la diagnosi al contrario del tampone perché gli anticorpi insorgono di solito 9-10 giorni dopo l' infezione. Giusto. Ma se il tampone non lo fanno perché impedire a un cittadino di pagarlo di tasca sua? E perché impedirgli di fare almeno un test del sangue da 5 euro che può scongiurare qualche contagio e offrire informazioni utili per la collettività? Quando ho chiesto al mio medico di famiglia se potessi fare il tampone mi ha risposto che aveva una decina di pazienti molto più gravi di me per i quali aveva spedito mail alla Asl competente, senza risposta. Mi ha detto di stare in stanza chiuso e ogni mattina e sera mi contattava per sapere la febbre e la saturazione. Ma se io fossi stato un tassista? O un rider? O un edicolante, costretto a vivere della mia partita Iva? Se di fronte a uno Stato che se ne fregava di me me ne fossi fregato del prossimo? Avrei potuto infettare davvero molte persone. Potevo trascurare i sintomi lievissimi andando al lavoro. La quarantena anche dentro casa, consigliata dal medico, ha escluso dal contagio la mia compagna: ieri ha fatto il mio stesso test risultando negativa. Molti mi prendevano per matto e solo oggi so che avevo ragione. Ma avrei potuto saperlo prima se lo Stato, la Asl e la Regione fossero stati presenti permettendomi un test. Invece questo risultato è stato raggiunto contro di loro. I test sierologici da 5 euro più Iva permettono di trovare nel sangue gli anticorpi e sono facili da eseguire. Eppure il Ministero dispone che non siano venduti al pubblico (giustamente perché non tutti studiano il loro senso come ho fatto io, per lavoro) e non possono essere fatti a pagamento nemmeno dai laboratori. Io ho dovuto acquistarli all' ingrosso (una scatola di 40 kit 190 euro più Iva più spedizione: 270 euro) perché la confezione è venduta lecitamente con marchio CE-IVD , cioè per i laboratori che però non possono farli a pagamento ma solo per ricerca. All' interno della scatola c' è la boccetta di reagente per tutti i 40 test. Basta far cadere la goccia, aspettare 10 minuti e appare il risultato. Le case produttrici sono più di cento, in gran parte cinesi ma anche sud-coreane e americane. Il titolare della società belga Labomics da cui lo ho comprato (mai sentita prima e trovata sul web) è un biologo, Joel De Néve. La diffidenza verso questi test, ci spiega, non è solo italiana: "Non vendiamo in Belgio perché le autorità sanitarie locali in questo momento non ritengono che questo test sierologico sia utile e hanno imposto un bando per sei mesi". In compenso Labomics vende molto nel resto d' Europa. "Abbiamo avuto centinaia di ordini dall' Italia. Circa il 40 per cento dei kit li ho spediti nel vostro paese". I kit venduti dalla Labomics sono fabbricati dalla Wuhan UN Biotechnology Co. Ltd nella città dell' Hubei. Su internet si può leggere un clinical report di 32 pagine che ne valida, per la Cina almeno, la sensibilità e la specificità, cioè i valori che indicano quante volte sbaglia sui casi positivi e sui negativi. Su circa 600 casi analizzati, circa 400 campioni di sangue positivi e circa 200 negativi, il test del sangue avrebbe confermato la diagnosi positiva del tampone nel 98 per cento dei casi e il negativo nell' 88 per cento. Sono dichiarati nello studio dal produttore cinese e andrebbero validati da un' autorità terza italiana. Da settimane il Ministero della Salute ha sotto esame la questione. Il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità ha detto più volte che a giorni arriverà una "standardizzazione" dei test. Purtroppo il virus non aspetta. I kit sono in vendita sul web. Le regioni li comprano e li fanno. Se la risposta, pur impeccabile dal punto di vista scientifico, arrivasse troppo tardi, sarebbe praticamente inutile. Come la famosa operazione perfetta che però ha fatto morire il paziente.

Maurizio Giannattasio per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” l'11 aprile 2020. «Oggi ho disobbedito. Ho preso l' auto, ho fatto 81 chilometri per sottopormi a un test che la Regione non vuole si faccia. Sono stato costretto dopo aver chiesto inutilmente alla stessa Regione di verificare la mia contagiosità». Raffaele Leone, 59 anni, è il direttore di Focus. La sua è una storia comune a molte altre persone. Tosse, febbre, perdita del gusto, un' eruzione cutanea. Nessun tampone nonostante le ripetute richieste. Due settimane a casa senza febbre come prevedono i protocolli e lunedì la fine della quarantena. In testa un dubbio atroce. «Sono ancora positivo? Sono ancora contagioso? Posso attaccare il Covid 19 alle mie figlie che non vedo da un mese?». La risposta è stata prendere l' auto e guidare fino a Robbio in provincia di Pavia. al confine con il Piemonte e trovarsi in fila davanti a un palazzetto dello sport insieme a personale delle forze dell' ordine e medici di famiglia.

Direttore cosa è successo?

«È successo che sono un presunto malato e un presunto guarito di Coronavirus. Il 10 marzo mi sono ammalato, febbre che variava tra i 37,5 e i 38,9, perdita del gusto e dell' olfatto, tosse. Continuavo a misurarmi l' ossigenazione con il saturimetro, ma per mia fortuna non c' è stato interessamento dei polmoni. Mi sono rivolto al medico curante e a altri medici miei conoscenti, ho fatto tutta la trafila chiamando i numeri verdi».

La risposta?

«Mi ha hanno detto di restare a casa. Dopo un paio di giorni i sintomi sono peggiorati, il mio medico era sicuro si trattasse di Covid. Ho richiamato i numeri della Regione e ho chiesto di fare il tampone per poter mappare non tanto me, ma tutte le persone con cui ero venuto in contatto. Niente da fare».

A quel punto cosa ha fatto?

«Dopo che mi è passata la febbre ho scritto alla Regione. So benissimo che dopo due settimane di quarantena uno viene considerato guarito ma siccome sento che sempre più persone sono positive ben dopo i 14 giorni, ho chiesto di nuovo il tampone perché voglio certificare la mia guarigione e non contagiare nessuno. Nella lettera scrivo anche che li riterrò responsabili nel caso dovessi contagiare qualcuno».

Aveva qualche preoccupazione specifica?

«Mi raccontavano di più persone contagiate in diversi uffici, focolai che non sono mai rientrati nei radar dei bollettini ufficiali. In più c' era la grande preoccupazione per le mie figlie. Non le vedo da un mese. Avrei potuto incontrare la più grande già lunedì, ma ho preferito rimandare perché il dubbio ti rimane in testa. Posso contagiare qualcuno? Mi preoccupo per gli altri. In ogni caso non ho avuto nessuna risposta alla mia lettere e oggi (ieri per chi legge, ndr), al diciottesimo giorno, ho preso la mia decisione e ho disobbedito alle autorità regionali».

Come?

«Per sapere qualcosa in più sulla mia salute ho preso la mia auto, ho fatto 81 chilometri per andare a Robbio».

Perché Robbio?

«Perché mi è stato segnalato che a Robbio c' è un sindaco e un medico che hanno deciso di fare gli esami sierologici a chi vuole. Uno si prenota, si pagano 45 euro, ci si mette in fila davanti al palazzetto dello Sport, si fa il prelievo e dopo un paio di giorni arrivano i risultati per capire se effettivamente hai fatto la malattia».

Ma la Regione non ha ancora certificato i test.

«Il sindaco mi ha spiegato che la Regione non li ha vietati, ma ha solo detto di non farli. Lui li ha fatti fare lo stesso.

La Regione ha vietato però di refertare le analisi sul territorio lombardo e così il sindaco manda le provette in Liguria: 300 fiale ogni giorno. A fare la fila ci sono anche tanti uomini delle forze dell' ordine e tanti medici di famiglia che arrivano dal resto della Lombardia. È un pellegrinaggio continuo».

Uscendo da Milano ha rischiato. Se la fermavano la denunciavano.

«Chi avrebbe il coraggio di multare una persona che si va a fare il test per la malattia?».

Resta il fatto che il test, a differenza del tampone, non certifica la positività.

«Mi rimarrà sempre il dubbio, ma almeno tra un paio di giorni saprò se mi sono preso l' infezione o no. È già qualcosa, perché se non l' ho avuta dovrò stare ancora più attento. In ogni caso è preferibile disobbedire piuttosto che sentirsi dire stai a casa oppure esci. Qui in gioco c' è una cosa fondamentale: cercare di prevenire in ogni modo il diffondersi della malattia».

Coronavirus, il dottor Valli e lo sfogo prima della morte: “Tamponi a Zingaretti e Sileri e non ai medici”. Redazione de Il Riformista l'11 Aprile 2020. È uno degli oltre 100 tra medici e infermieri caduti sul campo, in trincea per fare fronte all’emergenza Coronavirus. Ma il decesso di Edoardo Valli, ginecologo, ricercatore e docente all’università di Tor Vergata, è diventato un caso. Perché Valli, 62 anni e da due decenni dirigente medico al Fatebenfratelli della Capitale, si è arresto all’infezione da Covid-19 non senza polemiche. Il medico ha contratto il Coronavirus dopo ritorno dalla settimana bianca in Trentino Alto Adige, l’8 marzo, sfogandosi con alcuni colleghi su Facebook. Parole che sono circolate sul web come un testamento amaro. Perché in un messaggio, rivolgendosi probabilmente a un collega, Valli scrive: “Vedi, fanno tampone a Zingaretti, Porro (il giornalista Nicola, ndr), Sileri (il viceministro della Sanità Paolo, anche lui contagiato, ndr) io ho febbre da tre gg stasera 38,7 ma chiamato il n Regionale mi dicono con questi sintomi non è necessario stai a casa (grazie) e se peggioro chiamare il 118! Boh spero che scenda preso Tachipirina già sto sudando ma faccio il medico boh”. Questa mattina ci ha lasciato dopo una strenua battaglia contro il Covid durata un mese, il prof Edoardo Valli, eccellente medico, caro amico di tutti noi colleghi, e gentiluomo di altri tempi. Come ricostruito dal Corriere della Sera, Valli il 9 marzo si mette in malattia ma solo una settimana dopo, con il cresce di malessere e febbre, riesce finalmente a sottoporsi al tampone andando personalmente al policlinico di Tor Vergata accompagnato dalla moglie. Qui risulta positivo e viene ricoverato, rimanendo nella struttura fino al 18 marzo quando, dopo che le sue condizioni sembrano migliorare, sta per essere dimesso. A questo punto un improvviso peggioramento del quadro clinico lo portata ad una crisi respiratoria, col trasferimento d’urgenza al Gemelli di Roma dove viene intubato e muore a un mese esatto dal ritorno dalla montagna, il 9 aprile. “Rra stimato ed amato da tutti i colleghi in modo trasversale, come nessun altro, non solo per la sua esperienza sul lavoro ma per la sua bontà, umanità e disponibilità”, è il ricordo di lui del rettore dell’Università Tor Vergata Orazio Schillaci.

Coronavirus, il dramma dei medici infettati: «Tamponi ai calciatori, a noi no». Mauro Evangelisti su ilmessaggero.it Martedì 24 Marzo 2020. Non siamo riusciti a difendere chi ci doveva difendere. Sono oltre 5.000 gli operatori sanitari contagiati, il 9 per cento dei totali dei positivi. Ci sono medici, infermieri, ma anche il resto del personale degli ospedali, dai tecnici delle radiologie a chi fa le pulizie. Il bilancio si aggrava giorno dopo giorno, ci sono già 24 medici morti come racconta il sito della Federazione nazionale degli Ordini, che pubblica una sorta di antologia di Spoon River dei camici bianchi uccisi dal coronavirus. «Elenco dei Medici caduti nel corso dell'epidemia di Covid-19» è il nome che è stato dato alla pagina del sito.

ERRORI. Cosa è stato sbagliato? «C'è il termoscanner nelle stazioni e negli aeroporti e non c'è negli ospedali» ha osservato il presidente dell'Ordine dei medici di Forlì, Michele Gaudio. «Fanno i tamponi ai calciatori ma non ai medici e infermieri» è una delle frasi più ricorrenti tra i camici bianchi. Bisognerà riflettere a lungo sulla scelta iniziale di non sottoporre tempestivamente ai test i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che nelle corsie, ma anche negli studi, sono entrati in contatto con pazienti positivi. I tamponi si facevano solo, nella maggior parte dei casi, ai sintomatici. Per non sguarnire i reparti, chi stava bene continuava a lavorare, ma poiché gli asintomatici trasmettono il virus, negli ospedali della Lombardia prima, poi in quelli di altre regioni, si sono prodotti drammatici effetti moltiplicatori del contagio. Sullo sfondo, certo, c'è stato anche qualche comportamento imprudente, qualche viaggio o qualche brindisi di troppo anche tra la classe medica, ma la maggioranza è rimasta contagiata mentre era in prima linea. Disarmata. Uno degli altri gravi problemi è stata la carenza di dispositivi, dalle mascherine alle tute di protezione. Ora si sta correndo ai ripari: quasi tutte le regioni hanno annunciato che si faranno molti più tamponi a medici, infermieri e operatori sanitari; si stanno rifornendo ospedali e studi con mascherine e dispositivi di protezione, ma rischia di essere tardi. Racconta Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei medici di Roma, che parla del Lazio, ma fa un ragionamento che vale per tutto il Paese: «Solo nella Capitale abbiamo 84 medici positivi. Due sono ricoverati in osservazione, gli altri sono in isolamento domiciliare. Per fortuna non sono gravi, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato. C'erano poche mascherine, non sono stati eseguiti sufficienti tamponi. Se non si proteggono gli operatori, non si proteggono neppure i cittadini». L'assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D'Amato, ha confermato: «Stiamo facendo più tamponi a medici, infermieri e operatori. Quando saranno pronti i test rapidi che si stanno sperimentando al Gemelli, sarà ancora più semplice controllare tutti coloro che si trovano nei posti più a rischio». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto «un immediato cambio di strategia nel Lazio per tutelare chi lavora negli ospedali», ma in realtà la situazione è critica in tutte le regioni. Dei 24 medici deceduti e positivi al coronavirus, venti erano della Lombardia, la regione che ha visto un'avanzata incontrollata del contagio anche e soprattutto negli ospedali. A Napoli quattro specializzandi hanno rifiutato l'assunzione, secondo Silvestro Scotti, presidente dell'Ordine dei Medici locale, anche perché i camici bianchi devono operare «a mani nude o con strumenti inadeguati».

CARENZE. Osserva Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, la fondazione che in questi giorni sta raccogliendo i dati sul personale medico e infermieristico contagiato: «A giudicare dalle innumerevoli narrative e dalla mancata esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e gli operatori sanitari, il numero ufficiale fornito dall'Istituto superiore di Sanità è ampiamente sottostimato. Un mese dopo il caso 1 di Codogno, i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell'impreparazione organizzativa e gestionale all'emergenza. Sollecitiamo l'esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e operatori sanitari, nonché l'integrazione delle linee guida Iss per garantire la massima protezione a chi è impegnato in prima linea contro l'emergenza coronavirus». In Lombardia quindici lavoratori positivi hanno denunciato l'Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano per avere tenuto «nascosti casi di lavoratori contagiati e impedito l'uso delle mascherine per non spaventare l'utenza». Replica della direzione: «Notizie false e calunniose, fin dal 24 febbraio abbiamo seguito i protocolli dell'Istituto superiore della Sanità, non c'è stata alcuna inadempienza».

·         Tamponateli…non rinchiudeteli!

Coronavirus: rinchiudono i sani per difenderli dai malati. La logica vorrebbe: relegare gli infettati in quarantena. Come? Individuarli col tampone a tappeto. Il costo sarebbe inferiore rispetto al blocco dell'economia. Ci hanno sottoposto alla cultura del sospetto. Diffidiamo, addirittura, dei nostri affetti. Ristretti ai domiciliari perdiamo gli ultimi momenti importanti con i nostri vecchi e i primi dei nostri giovani.

 (ANSA l'8 ottobre 2020) - Nel 50% delle province italiane il medico di famiglia non è autorizzato a richiedere direttamente il tampone per la ricerca biomolecolare del nuovo coronavirus. Esistono infatti "norme diverse a livello di Regioni, province o addirittura di singole Asl che determinano una situazione di estrema confusione". Ad evidenziarlo è la Federazione dei medici di medicina generale Fimmg. "In circa il 50% delle province, dunque - spiega Paolo Misericordia della Fimmg - il medico può prescrive direttamente il tampone, prendendo anche appuntamento con i drive-in delle Asl per farlo effettuare al paziente e accorciando i tempi. Ma nell'altra metà il medico deve fare la richiesta alla Asl che poi, a sua volta, prenderà in carico il cittadino convocandolo. Un passaggio in più, cioè, che allunga inevitabilmente i tempi". (ANSA).

L'assalto ai tamponi, ecco le regole città per città. Pubblicato giovedì, 08 ottobre 2020 da Michele Bocci su La Repubblica.it.

TORINO. Tamponi, hotspot, sierologici: il Piemonte vuole arrivare a 15mila test al giorno Sono 28 i laboratori nella regione che possono esaminare i campioni prelevati da naso e bocca dei sospetti positivi.

MILANO. Niente code per test a pagamento e urgenze. Diversi i centri che garantiscono la prenotazione dell'esame da un giorno con l'altro.

LIGURIA. Boom di tamponi, in migliaia alla postazione mobile alla Commenda. Presto test sugli alunni delle scuole genovesi: un laboratorio mobile si sposterà in tutti gli istituti.

BOLOGNA. In Emilia Romagna test sierologici e tamponi rapidi gratis nelle farmacie In arrivo gli esami rapidi che la Regione utilizzerà per le attività di screening nelle scuole.

FIRENZE. Toscana coronavirus, record di tamponi e i laboratori sono sotto pressione. Asl sotto pressione, record di richieste: nelle zone di Siena, Arezzo e Grosseto si è passati da 462 domande di aprile a 3572 di ottobre.

ROMA. Ressa per i tamponi. L'assessore chiude ai privati e i drive in scoppiano: "Li raddoppieremo"

Crescono i contagi, code anche di 8 ore. E i medici di base si offrono per aprire i loro studi per effettuare i test rapidi.

NAPOLI. La Regione autorizza le strutture private a effettuare tamponi

I risultati dovranno essere comunicati in 24/48 ore massimo, particolare attenzione ai casi sospetti nelle scuole.

BARI. In Puglia obiettivo tamponi rapidi: la Protezione civile acquista 70 macchinari

I test saranno somministrati dai dipartimenti di prevenzione nelle scuole, ma si possono fare anche privatamente.

PALERMO. Fino a 130 euro per un tampone: la Regione prepara la prima diffida.

Enrico Chillè per leggo.it l'8 ottobre 2020. Sei ore di fila al drive-in per fare un tampone a Roma. I tempi d'attesa, nella Capitale, diventano sempre più lunghi a causa del notevole incremento di persone che si presentano nelle varie postazioni delle singole Asl. Lo testimonia la vicenda della giornalista del Tg1, Costanza Crescimbeni, che su Twitter ha documentato la sua lunga 'odissea' in attesa del tampone contro il coronavirus. I tempi d'attesa per effettuare il tampone, a Roma, fino a meno di un mese fa si aggiravano su una media di due-tre ore, a seconda della pressione sulle singole Asl. La riapertura delle scuole, però, ha causato un vero e proprio tilt: diversi gli studenti risultati positivi e questo ha costretto tutte le classi e i loro contatti stretti, a cominciare dai familiari, a doversi recare presso le varie postazioni drive-in. Una situazione che rischia di diventare insostenibile ed è anche per questo che proprio oggi Alessio D'Amato, assessore alla Salute del Lazio, ha annunciato che il numero delle postazioni sarà raddoppiato a breve. Chi però deve effettuare il tampone in questi giorni è costretto ad estenuanti code, seduto nell'abitacolo in attesa che la fila si snellisca e che l'auto davanti si metta in moto e proceda di qualche metro. Un'attesa lunghissima: Costanza Crescimbeni ne sa qualcosa. La giornalista Rai si era già sottoposta ad un primo tampone lunedì 28 settembre, mettendosi in isolamento fiduciario in attesa di fare il secondo test. Proprio ieri, Costanza Crescimbeni aveva scritto su Twitter: «Domani nuovo giro al drive in. Se me la cavo in due ore sono fortunata, dicono dalla regia». Purtroppo, non sapeva ancora cosa l'avrebbe attesa stamattina. Giunta al drive-in di Santa Maria della Pietà, in zona Monte Mario, la giornalista del Tg1 ha trovato una lunghissima fila di auto: «Non avete idea la fila che c'è». Un sentimento comune ai tanti, tantissimi cittadini che arrivano al drive-in. «Lo sguardo terrorizzato di chi, arrivando in senso contrario, chiede al vigile: “ma questa è la fila per il tampone?". I vigili comunque sono bravissimi a gestire la fila e il traffico», racconta ancora Costanza Crescimbeni. Dopo due ore di attesa, la pazienza di Costanza Crescimbeni inizia a vacillare. Non mancano contrattempi, più o meno comici, che allungano ulteriormente i tempi d'attesa. «Cronache dalla fila al drive in: a una povera signora non si accende l’auto. Prontamente è arrivato signore con i cavetti per la batteria» - la divertente cronaca della giornalista Rai - «Superata la terza ora si fa amicizia con il vicino di macchina: “sono al primo tampone, tu? Io al secondo” e via». Quando le ore di attesa diventano quattro, lo spirito di Costanza Crescimbeni inizia ad accusare il colpo: «Quel pizzico di sconforto quando si avvicina la quarta ora in fila». Inizia poi ad abbattersi il maltempo su Roma, quasi un corredo meteorologico dello stato d'animo dei tanti cittadini in fila al drive-in: «Alla quinta ora di fila ecco fulmini e saette». Col passare dei minuti, Costanza Crescimbeni inizia ad avvicinarsi al gazebo. Solo chi ha fatto il tampone al drive-in può comprendere l'emozione provata dalla giornalista, che twitta ancora: «Il rumore più amato: quando senti le auto davanti a te che si mettono in moto. La fila si muove. Poi c’è sempre quello che non avanza. Chissà che gusto ci prova». Costanza Crescimbeni poi si lascia andare a varie riflessioni sul metodo dei tamponi drive-in. «Il personale medico e paramedico dei drive in va ringraziato: stanno facendo un grande lavoro, senza sosta» - scrive ancora la giornalista Rai - «L'affluenza ai drive-in sta diventando ingestibile. Una settimana fa, quando ho fatto il primo tampone, la situazione era molto diversa». Alla fine, dopo sei ore di attesa, Costanza Crescimbeni è riuscita a fare il tampone: «Fatto! Dopo sei ore sono fuori. Speriamo di avere il risultato in 48 ore». La speranza, ovviamente, è che la grande pressione sui drive-in non si traduca autonomamente anche sui laboratori che poi devono processare i tamponi. Fino a due settimane fa, due giorni era infatti il tempo d'attesa medio per ricevere il referto, ma l'incredibile richiesta dei cittadini di Roma e del Lazio potrebbe influire negativamente.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “Il Messaggero” l'8 ottobre 2020. (…) Nella Capitale si eseguono di media 12-13mila tamponi al giorno, ma solo le richieste dei medici di base sono il doppio: 25mila al dì. Senza contare i passeggeri in arrivo dai Paesi a rischio che vanno obbligatoriamente testati. A Milano le code ai drive-in si snodano per 3 chilometri: per arrivare davanti agli infermieri c' è chi ha dovuto pazientare 8 ore in auto. A Torino mamme e papà hanno dovuto aspettare in fila, all' aperto, coi bimbi febbricitanti. In Toscana le Asl hanno ammesso di avere i laboratori sotto stress. La macchina dei tracciamenti s' ingolfa, ma le indicazioni che arrivano dal Cts sono chiare: i tamponi vanno aumentati. Tocca farne quasi il doppio. Oggi in Italia i test giornalieri oscillano tra 90mila e 125mila, il record toccato ieri. La domenica, si scivola a 60mila. Secondo gli esperti del Comitato tecnico scientifico bisognerebbe arrivare almeno a 200mila tamponi ogni 24 ore. Alcune regioni come la Campania ieri hanno dichiarato di aver scoperto 544 positivi in un giorno, mai così tanti, ma a fronte di appena 7.504 esami. È per un mix di fattori che il sistema arranca. Le richieste di test sono aumentate a dismisura nelle ultime settimane. Soprattutto per via delle scuole. «Molti istituti - spiega Teresa Rongai, segretaria della Federazione medici pediatri di Roma - chiedono un certificato di negatività al primo raffreddore, anche quando non è richiesto». L' altro tarlo è la rete dei laboratori privati che finora è stata sfruttata solo marginalmente. Con una dichiarata ritrosia, in diverse regioni, per il «privato». (…)  La Regione Lazio si è prima opposta, in estate, ai tamponi dai privati, ma da qualche giorno ha iniziato ad autorizzarli (come la Campania ieri), con tariffa calmierata a 22 euro, proprio per alleggerire la pressione sulle strutture pubbliche. Ieri l' assessore alla Sanità, Alessio D' Amato ha fatto sapere che la Pisana vorrebbe raddoppiare i drive-in, già quintuplicati da inizio estate, oggi sono 29. Ma non bastano a drenare il fiume delle richieste. C'è poi un problema di macchinari: gli apparecchi delle Unitá Covid per i tamponi rapidi si stanno già guastando, probabilmente proprio perché sovraccarichi. Su 20 «macchinette» per elaborare i risultati dei test, 7 sono andate kappaò. Al drive-in di Fiumicino, gli operatori non hanno un lettore per il codice a barre dei certificati medici e chi si presenta, a volte, viene respinto. Anche il personale delle Asl, per quanto rimpolpato, non basta a coprire tutti i centri. Alcuni rimangono aperti solo 3 ore, in altri la sera restano due medici soltanto, per centinaia di auto. Nel Veneto del piano Crisanti, che a livello nazionale è rimasto lettera morta, la Regione ha annunciato che permetterà ai medici di base di effettuare i tamponi rapidi. Ora il Lazio replica lo schema, il patto con la federazione dei camici bianchi è stato siglato ieri. Ma molti studi di Roma, dal Tufello al Prenestino, già si tirano indietro: «Troppo rischioso - dicono - far venire qui i casi sospetti; i drive-in, con i pazienti a distanza in auto, sono più sicuri». E, di certo, molto più trafficati.

Flaminia Savelli per “Il Messaggero” l'8 ottobre 2020. In coda per ore, in attesa del tampone. Succede nei drive - in della capitale: da quello allestito sulla Palmiro Togliatti dove la fila ieri era di oltre due chilometri. Al padiglione 90 nel parco dell' ospedale Santa Maria della Pietà, a Monte Mario, che alle 14 registrava oltre 500 persone ancora in attesa ed è stato chiuso per maltempo. Ma lo stesso copione si registra, ormai da giorni, anche all' ospedale San Giovanni e nel piazzale dei test rapidi aperto all' aeroporto di Fiumicino dove le dieci file previste per le auto sono piene dall' alba. Con una media giornaliera di circa 600 tamponi a postazione, e la richiesta che nell' ultima settimana è raddoppiata. «Sono arrivata alle sei del mattino sperando di evitare la fila, ma c' erano almeno 60 macchine» racconta Elisabetta Clarini, studentessa universitaria di 23 anni. Alle 11 era ancora in attesa del turno al centro sulla via Palmiro Togliatti: «Una mia amica - spiega - è risultata positiva martedì e domenica eravamo insieme a pranzo. Per questo ho richiesto di poter fare il tampone, la paura ora è tanta». Lo stesso al Santa Maria della Pietà dove la lunga fila di auto, ieri poco prima delle 14, riempiva ancora ogni angolo della salita. Alcuni addirittura si sono organizzati con il pranzo: «Ho ordinato una pizza per me e mio figlio. Stiamo aspettando da questa mattina di poter fare l' esame - dice Elena Franceschini mentre mostra l' ordine - ci avevano avvisati che ci sarebbe stato da aspettare ma non credevo un' attesa tanto lunga». Pure qui, chi è arrivato prima dell' apertura dei cancelli, ha dovuto comunque attendere a lungo. «Sono arrivato alle sette e ho il numero 225 - precisa Stefano Oricchio, un operaio di 45 anni - sono risultato positivo a settembre, già negativo al primo tampone due settimane fa però non c' era questa situazione. Non ho mai visto tante persone». Gli addetti alla sicurezza del parcheggio confermano: «Da almeno una settimana, quando arriviamo alle sei del mattino per aprire i cancelli, c' è già un chilometro di coda. Da un giorno all' altro le persone sono raddoppiate se non triplicate». E chi era ancora in fila, quando il drive - in di Monte Mario è stato chiuso causa maltempo, dovrà ripresentarsi oggi: «Ho aspettato tutta la mattina e poi mi hanno rimandata via. Ho bisogno di fare il tampone, in casa vivo con due bambini e ho già preso una giornata di permesso in ufficio» denuncia Roberta Biancucci, impiegata di 39 anni. Che aggiunge: «Capisco che sono settimane delicate ma anche noi dobbiamo poter accedere ai servizi». Code e attese anche al dirve - in di Casal Bernocchi, periferia sud della capitale. Ieri a rallentare il lavoro allungando ancora di più i tempi di attesa, è stato un guasto tecnico ai portali andati in tilt. Poco dopo le 15 è stato necessario l' intervento dei vigili urbani per controllare il traffico: «Sono in attesa del tampone da ore - denuncia Federico Valentini, un meccanico di 29 anni - per oltre 40 minuti è stato tutto fermo. Qui siamo tutti potenziali positivi, molti hanno la febbre: questo sistema non funziona, non possiamo aspettare ore in macchina». C' è poi chi segnala anche un' assenza dei servizi e assistenza: «I luoghi per potere accedere al tamponi non sono sufficienti, nella nostra comunità molti già accusano febbre e raffreddore - segnala Amira, originaria del Bangladesh - ma non sono riusciti neanche ad avere la ricetta dal medico. Temiamo una nuova ondata». Dopo l' emergenza estiva, è tornato a riempirsi il piazzale lunga sosta dell' aeroporto Leonardo da Vinci dove vengono eseguiti i test rapidi: «Mio figlio è a casa da due giorni per un raffreddore - dice Ludovica Vallini - viviamo verso il centro, a San Giovanni, ma pensavo che qui ci fosse meno attesa ecco perchè mi sono allontanata. Invece alla fine, abbiamo aspettato comunque più di due ore per il tampone». Fino alla scorsa settimana il servizio era garantito in meno di un' ora. Ma: «La richiesta di esami è cresciuta in modo significativo negli ultimi giorni. Ormai lavoriamo a ritmo serrato anche oltre l' orario di chiusura per consegnare i test ai laboratori» spiegano i volontari della Croce Rossa impegnati nel servizio.

Attese lunghissime per tamponi drive-in a Milano, in coda anche bambini con i genitori: “Delirio, dovevano prevederlo con inizio scuole”. Il fatto Quotidiano il 6 ottobre 2020. “Avevo un appuntamento per il tampone a mia figlia al San Paolo, arrivata li mi hanno detto che l’attesa era dalle 6 alle 8 ore e mi hanno consigliato di venire qui al San Carlo, dove la situazione è la stessa”. Così uno dei tanti genitori in coda in macchina martedì mattina davanti agli ospedali milanesi in attesa del tampone per i loro figli. Di fronte al San Carlo ci sono chilometri di coda, in attesa, appunto, soprattutto genitori con figli: “Dovevano aspettarselo con l’inizio delle scuole, è inaccettabile pensare di tenere un bambino in macchina con la tosse e la febbre per così tante ore”. Anche una custode ammette che in coda “dall’inizio delle scuole” ci sono “tutti bambini e ragazzi mandati dai pediatri”. La situazione non è così tutti i giorni, sottolinea un agente di Polizia Municipale, che però ricorda il suo ruolo di “ausiliare del traffico” oggi spostato a “scaglionare gli ingressi” visto “il delirio”.

Coronavirus, a Milano ci sono code di 3 km e attese di 8 ore per fare il tampone col drive in. Ogni giorno ci sono 10 agenti impegnati nella gestione del traffico presso gli ospedali. S.M.P. il 06 ottobre 2020 su milanotoday.it. Il tampone per il coronavirus drive in è una modalità abbastanza diffusa per fare il test per comprendere se si è positivi o meno al covid-19. In pratica si arriva in auto in ospedale - non in tutti - e senza scendere dall'auto, il personale incaricato preleva il campione necessario per le analisi dal conducente del veicolo, senza che questo debba uscire dall'abitacolo. Insomma, funziona un po' come quando si ordina del cibo in modalità drive in solo che al posto dell'hamburger in questo caso si riceve un tampone laringo faringeo. Bene. Negli ultimi giorni, con l'impennarsi dei casi di coronavirus e col concreto timore della ripresa della pandemica, a Milano ci sono state code anche di 8 ore con l'auto, lunghe chilometri, per poter usufruire del servizio. Tanto che la prefettura ha richiesto alla polizia locale di Milano di dedicare del personale alla questione. Così, come confermano da piazzale Beccaria a MilanoToday, ogni giorno ci sono una decina di agenti per turno impegnati nella gestione del traffico presso gli ospedali San Paolo, San Carlo e al Buzzi. Non solo, i 'ghisa' prestano il loro servizio anche presso alcuni pronto soccorso incaricati di accogliere gli studenti 'rimandati' dalle scuole e dai medici di famiglia per fare i tamponi laringo faringei. "Dovevano aspettarselo. Così è inaccettabile: ci sono tre chilometri di coda, come si può tenere un bambino in macchina con la tosse e la febbre per così tante ore?", la protesta di una madre raccolta dalle agenzie. Il disagio non risparmia chi ha provato a presentarsi dietro appuntamento. "Lo avevo preso per mia figlia al San Paolo - racconta un'altra mamma all'Ansa – ma arrivata lì, mi hanno detto che l'attesa era dalle 6 alle 8 ore e mi hanno consigliato di venire qui al San Carlo, ma la situazione è la stessa".

Coronavirus: “Io prigioniera in casa da oltre due mesi per un tampone sparito”. Le Iene News il 24 maggio 2020. “Sono ancora in quarantena perché del tampone fatto il 6 maggio non c’è alcuna notizia”. Stefania racconta a Iene.it la sua storia di positività al coronavirus e quegli esami che sembrano spariti nel nulla. Tanto che perfino i sindaci della sua zona, in Calabria, hanno scritto per chiedere spiegazioni. Un’intera famiglia colpita dal coronavirus, una quarantena che non finisce mai e un tampone "sparito" da oltre due settimane. È la storia che racconta a Ienet.it Stefania, che vive a Santo Stefano di Rogliano, Calabria: “Ho fatto un tampone il 6 maggio e non ho mai ricevuto l’esito. Sembra sia sparito, intanto sono venuti a farmene un altro. E la mia quarantena continua”. Ma andiamo con ordine. Il calvario di Stefania e della sua famiglia inizia il 14 marzo: “Mio marito e mio suocero vengono ricoverati il 14 marzo dopo 9 giorni in cui i sintomi della malattia erano già presenti”, ci racconta Stefania. “La diagnosi è di polmonite bilaterale interstiziale”, tipico segno del Covid-19. “Avendo una bimba di appena 14 mesi ho cercato di insistere per avere i tamponi, ho chiesto di verificare la nostra condizione di salute ma non era inizialmente possibile. Dopo l’insistenza dei sindaci hanno fatto a me il tampone il 17 marzo, e poi il 19 anche a mia figlia, mia suocera e mia cognata”. La famiglia infatti vive su due appartamenti adiacenti e hanno avuto contatti in quelle settimane. “Siamo risultati tutti positivi tranne mia suocera”, racconta Stefania. “Anche mia figlia di 14 mesi era positiva”. A quel punto tutta la famiglia entra in quarantena. Il giorno 29 marzo il marito viene dimesso e Stefania chiede di poter essere ritestata: “Lui non poteva avere contatti con altri positivi, dovevamo saperlo per capire come comportarci”. La famiglia decide di dividersi: il marito e il suocero vanno in un appartamento, il resto del gruppo nell’altro. “I tamponi successivi si sono tutti negativizzati tranne il mio, ancora positivo dopo oltre due mesi”. Un caso, purtroppo, non isolato. Dei tempi di guarigione e dell’insufficienza della quarantena noi de Le Iene vi abbiamo parlato con il nostro Alessandro Politi, lui stesso positivo per 49 giorni. “Non esco di casa da quasi tre mesi”, ci dice Stefania. Fin qui comunque sembra una storia purtroppo quasi normale di questo terribile tempo di pandemia. Le stranezze, però, partono proprio da qui. “Il 6 maggio mi viene fatto un nuovo tampone”, ci racconta Stefania. “Speravo dopo tanto tempo di venirne fuori. E Invece dopo una settimana non ci sono tracce dell’esito. A quel punto contatto l’ufficio Igiene di competenza e mi dicono che non si sa che fine abbiano fatto questi tamponi e che mi conviene chiamare l’Asp territoriale per averne un altro”. A quel punto a Stefania viene un dubbio: il suo tampone è andato perduto? “Si aggiungono altre segnalazioni di persone che hanno fatto il test il 5 o il 6 maggio, e anche loro non hanno mai avuto l’esito. Altri invece lo hanno avuto dopo due settimane”. Un tempo però decisamente troppo lungo per sapere se una persona possa o meno essere ancora positiva. “A questo punto si mobilitano i sindaci della zona”, ci dice Stefania. Ed effettivamente, andando sulle pagine Facebook dei primi cittadini di Belsito, Mangone, Rogliano e Santo Stefano di Rogliano si vede il testo di una mail certificata inviata all’Asp in cui si sollecita l’esecuzione dei tamponi e la comunicazione degli esiti in tempi rapidi. E i sindaci Lucia Nicoletti e Giovanni Altomare scrivono di aver interessato alla situazione anche il Prefetto e la Regione, così da poter risolvere l’enigma: che fine hanno fatto i tamponi del 6 maggio? “Siamo chiusi in casa da 70 giorni e non riusciamo a uscirne perché non abbiamo l’esito di quel tampone”, ci dice Stefania. Intanto, incredibilmente, “mercoledì sono venuti a farmi un altro tampone”. Senza aver ancora ricevuto l’esito di quello precedente. “Ci sono anche altri in questa stessa situazione e non so se anche a loro è stato fatto un nuovo tampone”. Per fortuna almeno l’ultimo tampone è risultato negativo. Ora aspetta il secondo tampone di verifica, sperando che non ci siano altri intoppi. 

Il coronavirus e il parto da incubo di Adele con i tamponi che ogni volta si smentiscono. Le Iene News il 23 maggio 2020. Iene.it raccoglie l’incredibile storia di Adele che, entrata in ospedale per partorire, finisce protagonista suo malgrado di una vicenda che ancora oggi non riesce a spiegarsi. La storia che ci racconta Adele (il nome è di fantasia) sembra l’ennesima vicenda di errori e confusione nelle prime fasi dell’emergenza Covid-19. È la donna a chiedersi per prima se qualcuno ha sbagliato e quando. Con Noi con Veronica Ruggeri, nel servizio che potete rivedere sopra, vi abbiamo già raccontato l'avventura e le difficoltà di un parto durante l'emergenza coronavirus, con la storia di Manuela, Filippo e del piccolo Calogero. “Abito in un paese tra il Teramano e il Pescarese in un’area che all’inizio dell’epidemia viene dichiarata zona rossa”, racconta a Iene.it. “Ero al nono mese di gravidanza e avevo deciso di partorire a Pescara, perché lì lavorava il mio ginecologo benché casa mia fosse più vicina a Teramo. Un giorno esco per una visita di controllo e vengo fermata da una pattuglia della Guardia di Finanza, che mi spiega che non potevo assolutamente uscire dalla zona rossa. Mi dicono che era previsto un protocollo speciale per le donne nella mia condizione: avrei dovuto partorire a Teramo, che aveva istituito un reparto ad hoc. L’ospedale di Teramo mi conferma il divieto di partorire a Pescara, a meno che io non avessi avuto un tampone dall’esito negativo. Così il primo aprile faccio un tampone e risulto positiva al virus”. La donna è incredula: “Sul momento mi metto a ridere perché mi sembra incredibile che io sia positiva mentre il tampone del mio compagno e di mio padre, che vivono con me, sono negativi. Ero in casa dal’8 marzo, come avrei potuto prendere il coronavirus?”. Qualche giorno dopo anche l’Ospedale di Pescara si attrezza e il ginecologo di Adele la rassicura: “Mi ha tranquillizzato sul fatto che avrei potuto partorire a Pescara. Il 13 aprile, alla sera, forse per l’agitazione di quel tampone positivo, inizio ad avvertire dei dolori e, arrivata in ospedale a Pescara, mi si rompono subito le acque. Lì mi chiedono il certificato della mia positività ma l’Asl di Teramo aveva effettuato la sola comunicazione telefonica. Di lì a poco partorisco ma il bimbo non me lo fanno vedere, né a me né al mio compagno, perché ci spiegano che esistono procedure particolari in questo caso”. Adele, che continua ad avere dubbi sulla sua positività, racconta: “Come sintomi  del Covid forse c’era una blanda sinusite e la perdita di gusto e olfatto per due giorni, ma sono sintomi che non possono esserci in gravidanza. A mio figlio fanno subito un tampone che risulta negativo. Ne fanno uno anche a me, negativa anche io. Due giorni dopo però ne arriva un altro per me, risulto di nuovo positiva. Mi devono dimettere e io chiedo di poter lasciare il bambino in ospedale perché mi sento più tranquilla ma mi dicono che va riportato a casa. L’11 aprile torno a casa, io in ambulanza e il bimbo con il padre in auto. Un virologo mi spiega che posso allattarlo tranquillamente ma usando sempre mascherine e guanti e che ovviamente devo vivere separata da mio marito”. Dopo dieci giorni, il 22 aprile, Adele rifà un tampone: negativa. Due giorni dopo ancora un altro, per conferma: ancora negativa. Ma a mandare completamente in confusione la donna, che adesso si chiede cosa sia davvero successo, è l’esito di un test sierologico, che per scrupolo ha deciso di fare privatamente in questi giorni: “Oggi ho avuto il risultato: non sono positiva in questo momento né ho sviluppato gli anticorpi…”. Secondo questo test sembrerebbe che non sia mai entrata in contatto con il coronavirus. Adele continua a tormentarsi: “Il sierologico non è attendibile? Oppure qualcuno ha sbagliato prima e mi ha tenuto lontana da mio figlio cosi tanti giorni? Io ora vorrei proprio capire!”.

TAMPONATECI TUTTI! –  PERCHÉ IN ITALIA SI FANNO ANCORA TROPPI POCHI TAMPONI? Milena Gabanelli e Simona Ravizza per “Dataroom – Corriere della Sera” il 25 maggio 2020. È chiaro a tutti da tempo: lo ha detto l’Oms, lo ha dimostrato sul campo la Corea del Sud, lo ha appena ricordato il premier Conte in Parlamento: «Per contenere il Covid-19 bisogna testare, tracciare e trattare». Adesso che usciamo di casa, è cruciale isolare subito i nuovi focolai, e quindi torniamo sempre là: al tampone (che serve anche abbinato al test sierologico positivo per verificare che l’infezione non sia più in atto). Funziona così: un bastoncino infilato nel naso, un altro nella faringe, messi in una provetta, e inviati al laboratorio di microbiologia per l’analisi. Da metà marzo a metà aprile questi kit scarseggiavano, ora non più. Eppure, nonostante gli oltre tre milioni di analisi molecolari effettuate, abbiamo capito che — tranne casi eccezionali come il Veneto — nelle Regioni dove il virus è più diffuso il loro numero non è sufficiente a completare un buon tracciamento. E questo ha ricadute anche sulla ripresa: ci sono ex contagiati, che stanno bene, ma attendono da quasi un mese di poter fare il tampone definitivo che consenta loro di uscire di casa e tornare a lavorare. Dove sta il problema?

Cosa c’è dietro alla mancanza di reagenti. Per capire perché il numero dei tamponi non decolla come dovrebbe, bisogna andare oltre le dichiarazioni politiche («mancano i reagenti») e vedere come funziona il processo di analisi, anche per evitare che il problema si riproponga in autunno, quando è possibile una nuova ondata dell’epidemia. Un laboratorio di microbiologia per far marciare bene questo carico di lavoro ha bisogno di personale e un modello organizzativo che funzioni 24 ore al giorno. Ma non basta, perché il meccanismo si inceppa sulla macchina che processa i tamponi.

Cos’è il sistema chiuso. Quelle più diffuse al Nord sono a sistema chiuso: carichi il «bastoncino», ed esce l’esito. Sono macchine completamente automatizzate e richiedono una bassissima manualità. Lo svantaggio è che si può utilizzare soltanto il reagente specifico per ogni tipo di analisi (il kit coronavirus è diverso dal kit morbillo) e deve essere della stessa marca della macchina. Le principali sono Hologic, Roche, Elitech, Diasorin, Abbott, Arrow. Per quel che riguarda la produttività, possono processare fino a 800/1.000 tamponi al giorno, se lavorano h24. Dunque per farne tanti bisogna averne molte; alcune oggi sono diventate difficili da reperire sul mercato, come pure i kit specifici per il Covid-19. Il tema è sempre lo stesso: la Cina è il più grande produttore al mondo di tamponi, reagenti e componenti per le macchine. Tutto il mondo è stato travolto dallo stesso problema e così alla fine nei laboratori ci sono macchine ferme perché hanno bisogno di manutenzione o sottoutilizzate per mancanza di reagenti. È un po’ come avere pistole senza cartucce. Di solito le strutture le noleggiano: circa 20 mila euro l’anno, ma il costo più significativo è proprio il reagente, che in questi mesi è stato abbassato a 15-20 euro per ogni tampone. Con questo sistema chiuso, oggi l’ospedale Niguarda di Milano, che processa il numero più alto di tamponi per la Lombardia, fa 1.500 analisi al giorno con 6 macchine. Ma ne arriveranno di nuove e l’obiettivo è arrivare a 5.000 entro giugno.

Come funziona il sistema aperto. L’alternativa sono le macchine a sistema aperto, che sono composte da più pezzi: uno che estrae il contenuto del tampone (estrattore, costo medio 99 mila euro), un altro che lo mette a contatto con il reagente (pipettatrice, da 50 mila euro in su) e un amplificatore per vedere se c’è il virus (99 mila euro). Ha il grande vantaggio di poter usare un reagente generico, che è meno difficile da trovare e può essere adattato in casa per lo scopo che serve. Richiede un maggiore intervento umano, ma non è vincolato ad un unico produttore e si arriva a processare fino a 1.800 tamponi al giorno. Le marche più diffuse sono: Hamilton, Roche e Beckam. Il modello in Italia per questo sistema di analisi è l’ospedale di Padova dove inizialmente il laboratorio di microbiologia, con sei macchine che ogni tanto andavano in tilt, aveva una capacità di analisi di 1.200-1.400 tamponi al giorno. Il 23 marzo, però, ne hanno ordinate altre 4 con un investimento di 700 mila euro. Lo strumento della svolta è una pipettatrice di marca Beckman da 304 mila euro che serve per mettere a contatto il virus con il reagente, e a pieno regime può processare oltre 20 mila tamponi al giorno. Condizione possibile con il personale adeguato, estrattori e amplificatori. Oggi il laboratorio fa intorno alle 5.000 analisi al giorno e l’obiettivo è arrivare a 10.000. Perché questo sistema non viene adottato in modo più sistematico, per esempio, dalla Lombardia che è la Regione più colpita dal virus e la più attaccata politicamente per il numero limitato di tamponi? La risposta viene affidata a Carlo Federico Perno alla guida del laboratorio di Niguarda: «La Regione considera essenziale mantenere alta la qualità dei test, visto l’elevato numero di casi. Pertanto, in attesa di una validazione dell’Istituto Superiore di Sanità dei sistemi di estrazione tramite “shock termico”, la Regione preferisce al momento continuare ad utilizzare strumenti che diano un numero di falsi negativi più bassi possibili. Se e quando tali metodi saranno formalmente validati, saremo i primi ad utilizzarlo». Per il virologo del Veneto Andrea Crisanti, la Lombardia risponde parlando d’altro, e per l’Istituto Superiore di Sanità non si è mai posto il problema di sistema aperto (come quello utilizzato dal Veneto e da altri laboratori ospedalieri universitari italiani) o sistema chiuso.

Il numero insufficiente di tamponi. All’apice della diffusione del virus — e prendendo in considerazione la data di esordio dell’epidemia — su 23 Paesi, solo 4 (fra cui Francia e Regno Unito) hanno fatto meno tamponi dell’Italia. Dal 22 aprile al 18 maggio la media italiana è di 98 ogni 100 mila abitanti. Il Veneto 185, la Lombardia 112, l’Emilia Romagna 107. Questi numeri però comprendono anche i tamponi di controllo al termine della malattia, mentre se consideriamo quelli diagnostici per scoprire nuovi casi, sempre riferiti allo stesso periodo, vediamo che la media in Lombardia per esempio è di 63 al giorno, contro gli 82 del Veneto.

Gli acquisti da programmare. Solo il 12 maggio, a tre mesi dallo scoppio dell’epidemia, nel punto stampa della Protezione civile il commissario Domenico Arcuri scopre che servono i reagenti e lancia la procedura per le offerte pubbliche: «Abbiamo acquistato altri 5 milioni di tamponi perché possa essere incrementato il numero di cittadini che vengono sottoposti a questa analisi», dice. «Abbiamo fatto una richiesta di offerta perché da soli i tamponi non bastano. I reagenti sono un bene scarso nel mondo, in Italia ci sono pochi produttori e spesso non sono italiani». Alla domanda «quali tipi di reagenti comprerete»? Arcuri risponde «quelli compatibili con i 211 laboratori, e saranno le Regioni ad indicarmi di cosa hanno bisogno». L’offerta si è conclusa il 18 maggio, siamo al 25 e ancora ci stanno pensando. Altri ritardi non sono tollerabili, e sarebbe opportuna un’unica strategia per essere in grado di affrontare l’autunno, pianificando ora le macchine che servono, ed ordinarle subito per riuscire ad averle fra tre mesi. Chi vuol continuare con il sistema chiuso deve stabilire ed ordinare adesso anche la quantità di reagenti specifici necessari. Sperando di trovarli. Altrimenti si ricomincia da capo.

In Italia pochi tamponi:  ecco le ragioni mai spiegate. Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Per capire perché il numero dei tamponi non decolla come dovrebbe, bisogna andare oltre le dichiarazioni politiche («mancano i reagenti») e vedere come funziona il processo di analisi, anche per evitare che il problema si riproponga in autunno, quando è possibile una nuova ondata dell’epidemia. Un laboratorio di microbiologia per far marciare bene questo carico di lavoro ha bisogno di personale e un modello organizzativo che funzioni 24 ore al giorno. Ma non basta, perché il meccanismo si inceppa sulla macchina che processa i tamponi. Quelle più diffuse al Nord sono a sistema chiuso: carichi il «bastoncino», ed esce l’esito. Sono macchine completamente automatizzate e richiedono una bassissima manualità. Lo svantaggio è che si può utilizzare soltanto il reagente specifico per ogni tipo di analisi (il kit coronavirus è diverso dal kit morbillo) e deve essere della stessa marca della macchina. Le principali sono Hologic, Roche, Elitech, Diasorin, Abbott, Arrow. Per quel che riguarda la produttività, possono processare fino a 800/1.000 tamponi al giorno, se lavorano h24. Dunque per farne tanti bisogna averne molte; alcune oggi sono diventate difficili da reperire sul mercato, come pure i kit specifici per il Covid-19. Il tema è sempre lo stesso: la Cina è il più grande produttore al mondo di tamponi, reagenti e componenti per le macchine. Tutto il mondo è stato travolto dallo stesso problema e così alla fine nei laboratori ci sono macchine ferme perché hanno bisogno di manutenzione o sottoutilizzate per mancanza di reagenti. È un po’ come avere pistole senza cartucce. Di solito le strutture le noleggiano: circa 20 mila euro l’anno, ma il costo più significativo è proprio il reagente, che in questi mesi è stato abbassato a 15-20 euro per ogni tampone. Con questo sistema chiuso, oggi l’ospedale Niguarda di Milano, che processa il numero più alto di tamponi per la Lombardia, fa 1.500 analisi al giorno con 6 macchine. Ma ne arriveranno di nuove e l’obiettivo è arrivare a 5.000 entro giugno. L’alternativa sono le macchine a sistema aperto, che sono composte da più pezzi: uno che estrae il contenuto del tampone (estrattore, costo medio 99 mila euro), un altro che lo mette a contatto con il reagente (pipettatrice, da 50 mila euro in su) e un amplificatore per vedere se c’è il virus (99 mila euro). Ha il grande vantaggio di poter usare un reagente generico, che è meno difficile da trovare e può essere adattato in casa per lo scopo che serve. Richiede un maggiore intervento umano, ma non è vincolato ad un unico produttore e si arriva a processare fino a 1.800 tamponi al giorno. Le marche più diffuse sono: Hamilton, Roche e Beckam. All’apice della diffusione del virus — e prendendo in considerazione la data di esordio dell’epidemia — su 23 Paesi, solo 4 (fra cui Francia e Regno Unito) hanno fatto meno tamponi dell’Italia. Dal 22 aprile al 18 maggio la media italiana è di 98 ogni 100 mila abitanti. Solo il 12 maggio, a tre mesi dallo scoppio dell’epidemia, nel punto stampa della Protezione civile il commissario Domenico Arcuri scopre che servono i reagenti e lancia la procedura per le offerte pubbliche: «Abbiamo acquistato altri 5 milioni di tamponi perché possa essere incrementato il numero di cittadini che vengono sottoposti a questa analisi», dice. «Abbiamo fatto una richiesta di offerta perché da soli i tamponi non bastano. I reagenti sono un bene scarso nel mondo, in Italia ci sono pochi produttori e spesso non sono italiani». Alla domanda «quali tipi di reagenti comprerete»? Arcuri risponde «quelli compatibili con i 211 laboratori, e saranno le Regioni ad indicarmi di cosa hanno bisogno». L’offerta si è conclusa il 18 maggio, siamo al 25 e ancora ci stanno pensando.

Pochi i tamponi destinati ai privati. Bloccati gli esami nelle aziende. Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni. «Sono in grande difficoltà, non so che cosa farà il laboratorio. E che cosa dico ai lavoratori in attesa dell’esito del test sierologico?». A parlare è Luciano Lozar, 69 anni, medico del lavoro che segue circa un migliaio di dipendenti di grosse aziende in Lombardia. Ne sta accompagnando professionalmente alcune che hanno deciso di affidarsi a centri privati per sottoporre i lavoratori agli esami del sangue. Obiettivo: rintracciare chi ha gli anticorpi al coronavirus e quindi ha «incontrato» il Covid-19. È una delle possibilità regolamentate dalla delibera regionale del 12 maggio. «Ho rispettato tutte le indicazioni, poi siamo partiti» racconta il medico. La settimana scorsa sono stati organizzati i primi turni di prelievi del sangue. Poi giovedì l’Ats di Milano ha inviato ai laboratori una circolare con alcune precisazioni e tutto si è dovuto fermare. Perché? Il nodo sta nella disponibilità dei tamponi, utili a dire chi in questo momento ha l’infezione e può trasmettere il virus. Chi offre i test del sangue deve poi garantire anche questo secondo esame. Sono una cinquantina i laboratori, pubblici e privati, che fanno parte della rete regionale e analizzano tamponi e non è facile aumentare il volume di lavoro, anche per la mancanza diffusa dei «reagenti» necessari. Come si legge nella nota dell’Agenzia di tutela della salute, i privati che già lavorano per la sanità pubblica possono avviare l’offerta di esami a pagamento solo dopo aver sottoscritto con l’Ats un contratto di scopo, in cui specificano che l’ottanta per cento dei tamponi «in più» analizzati deve comunque essere destinato al pubblico e il rimanente venti può essere venduto a cittadini o aziende. La richiesta del contratto preventivo, sottolineano da Ats, garantisce che non vengano tolte risorse al sistema sanitario regionale, come previsto nella delibera del Pirellone. «Si invitano le strutture — prosegue la circolare — a non dare avvio all’erogazione di tali prestazioni in regime extra Sistema sanitario regionale prima della conclusione delle istruttorie con Ats». Molti laboratori però non hanno ancora firmato il contratto e così hanno dovuto sospendere i test. È il caso del centro a cui si è rivolta l’azienda seguita da Lozar. «Ho in ballo una settantina di prelievi, cosa devo fare? La circolare dell’Ats arriva in ritardo rispetto alla delibera, che non conteneva queste specifiche». Sono diversi i laboratori che hanno dovuto sospendere i test sierologici per le aziende e i cittadini. Tra questi c’è Humanitas, come segnalato ieri da Il Giorno. Hanno bloccato le nuove prenotazioni anche il Centro diagnostico italiano e l’Auxologico, che specifica: «Abbiamo già preso contatto con Ats e confermata la nostra disponibilità sia per sottoscrivere il contratto integrativo nei termini previsti dalla delibera regionale, sia per proseguire ed ampliare la collaborazione in corso». Nessuno stop invece per Multimedica, che spiega di aver «adempiuto a tutte le indicazioni». Al momento però solo due privati, Synlab e Cerba, avrebbero già siglato l’accordo. Il sistema adottato dal Pirellone non piace agli esponenti del Partito democratico. «La sorveglianza sui luoghi di lavoro dovrebbe essere in capo alla Regione tramite le Ats — dice la consigliera Carmela Rozza—. Responsabilmente, una marea di datori di lavoro sta cercando di testare i dipendenti a sue spese e ora tutto viene bloccato in maniera ingiustificabile».

Chi fa più tamponi? Ecco la mappa delle Regioni che controllano meglio. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza e Gianni Santucci. Il (maledetto) virus lo trovi se lo cerchi bene. E solo così puoi proteggere al meglio la popolazione della tua Regione, evitando anche che gli asintomatici diffondano il contagio. All’avvio della «Fase 2», chi davvero in Italia lo sta cercando, al di là dei bollettini quotidiani, dove ciascuno può dare ai numeri l’interpretazione che gli conviene? E chi può avere interesse a non trovare troppi casi che poi influenzano l’Rt , con conseguenti ricadute su chiusure e riaperture? Insieme con il Veneto, preso a modello a livello internazionale, troviamo a sorpresa, Umbria, Basilicata, Friuli: sono tra le Regioni che stanno monitorando con più accuratezza il coronavirus tra i propri abitanti. Certo, l’incidenza del Covid 19 è infinitamente diversa rispetto alla Lombardia, dunque la macchina della sorveglianza è meno oberata. Ma le situazioni sono molteplici: Valle d’Aosta e provincia di Trento, in proporzione ai cittadini, fanno quasi tre volte più tamponi rispetto all’Emilia-Romagna. Al contrario Lombardia, Liguria e Piemonte continuano ad avere un livello di ricerca ( testing ) piuttosto basso: in rapporto al numero di abitanti, le tre Regioni fanno tamponi appena sopra alla media nazionale, ma scoprono il triplo dei malati. Quanti sarebbero, allora, se riuscissero a cercarli su una fascia più ampia di popolazione?

L’entrata in «Fase 2». Il grafico in questa pagina, che permette di valutare l’attuale livello di ricerca del virus delle Regioni, è stato elaborato dagli esperti della Fondazione Gimbe per il Corriere della Sera . Il periodo di riferimento è tra il 22 aprile e il 20 maggio, il passaggio dal lockdown alla «Fase 2». Bisogna concentrare l’attenzione su tre dati: quanti tamponi «diagnostici» al giorno ogni 100 mila abitanti (i tamponi «diagnostici» sono i primi, quelli che servono a scoprire se una persona è infetta o no, escludendo i successivi di controllo); quanti «positivi» vengono scoperti (sempre per 100 mila abitanti), e infine la percentuale di tamponi «positivi» sul totale.

I quadranti. Incrociando i dati, le Regioni vengono collocate in quadranti: il primo è quello delle più virtuose, con numero di tamponi sopra la media italiana e numero di nuovi malati ben sotto la media. Tradotto: quelle Regioni cercano tanto il virus e lo trovano poco, dunque la bassa circolazione del Covid 19 è in qualche modo garantita da una vasta lente di ricerca. Umbria e Basilicata, ad esempio, nel periodo di riferimento hanno fatto 2.700-2.800 tamponi e hanno trovato solo 8 «positivi» (sempre su 100 mila abitanti). Nel secondo quadrante si posizionano invece le Regioni con tamponi sotto la media ma anche «positivi» sotto la media: trovano pochi malati, ma li cercano anche poco. Dunque, può restare il dubbio che circoli più virus di quello che viene intercettato.

Tamponi e ospedali. Puglia e Campania, ad esempio, hanno scoperto solo 19 e 10 «positivi» per 100 mila abitanti, tra il 22 aprile e il 20 maggio, ma hanno fatto anche meno di 600 tamponi. Riflette Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: «Il rischio è che il sistema non stia cercando abbastanza i casi e quindi non intercetti i malati asintomatici o con pochi sintomi». Fare pochi tamponi potrebbe essere una strategia opportunistica (e rischiosa): tenere il numero di casi ufficiali basso e non andare a cercare gli asintomatici, col pericolo che poi il sommerso riemerga in ospedale, all’improvviso, coi ricoveri. Dunque il vero tema è: quali Regioni stanno cercando il virus in maniera approfondita ed efficace? Per certe Regioni come la Lombardia con un elevato numero di casi, il tracciamento dei contatti dei «positivi» può diventare problematico (anche se da giorni il numero di tamponi è in crescita), ma per uno screening profondo e capillare non c’è altra strada. Nel terzo quadrante (il quarto è vuoto), si trovano Piemonte e Lombardia, più la Liguria e l’Emilia-Romagna, che fanno tamponi in media col resto d’Italia ma trovano più «positivi». «Vista l’incidenza dei nuovi casi, è auspicabile - ribadisce Cartabellotta - che queste Regioni aumentino la propria capacità di effettuare tamponi». La strategia può essere attendista (aspetto i ricoveri) o interventista (con testing massiccio e isolamento dei contatti): «Ma sarebbe almeno opportuno conoscere davvero qual è la scelta fatta da ciascuna Regione. Come atto di trasparenza verso i cittadini».

Michele Arnese e Giusy Caretto per startmag.it il 12 maggio 2020. I 5 milioni di tamponi che il governo si stava preparando a spedire alle Regioni erano realmente solo bastoncini. Non erano dotati di reagenti (soluzioni utilizzate per estrarre Rna virale, passaggio fondamentale dell’analisi dei tamponi molecolari). O almeno non ancora. Dopo la denuncia del virologo Andrea Crisanti sui kit di tamponi incompleti, il commissario all’emergenza Domenico Arcuri ha annunciato una gara per ottenere il maggior numero di reagenti possibili. Reagenti che, ha spiegato Sandra Zampa, sottosegretario alla Salute, sembrano essere il problema di “tutti i paesi Ue”. Ma andiamo per gradi. “Faremo una richiesta di offerta per chiedere alle imprese italiane ed internazionali di darci il numero massimo di reagenti che ci servono a fare 5 milioni di tamponi, che abbiamo già acquisito, ai cittadini italiani”, ha detto il commissario all’emergenza sanitaria Domenico Arcuri al Tg1. Arcuri ha dichiarato che pubblicherà in mattinata una “richiesta di offerta” per l’acquisto dei reagenti e dei tamponi, rivolta alle aziende nazionali ed internazionali. Queste richieste dovranno essere pubblicate entro una settimana: l’obiettivo è ottenere i prodotti richiesti in 15 giorni. I reagenti sono fondamentali per i tamponi sul coronavirus, e sono materiali che ormai scarseggiano in tutto il mondo. In Italia si sta provando anche ad aumentarne la produzione nazionale. Parole che sembrano essere una conferma a quanto affermato dal virologo Andrea Crisanti, che affianca Zaia nella gestione dell’epidemia in Veneto, sulla questione tamponi. “Cosa vuole dire 5 milioni di tamponi? Vuole dire due bastoncini con la garza assorbente per prendere il materiale dalla mucosa o sono tutti i reagenti che lo accompagnano?”, aveva commentato Crisanti, in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, mentre era in collegamento il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri (M5S), la notizia che il governo avrebbe inviato alle regioni 5 milioni di tamponi nei successivi due mesi. In realtà, già Sileri aveva in parte confermato quanto sostenuto da Crisanti, sempre a Piazza Pulita. Il viceministro della Salute aveva sostenuto che il materiale finora arrivato non sempre affianca ai bastoncini (necessari a prelevare il materiale naso-faringeo) i corrispondenti reagenti (essenziali per portare a termine l’analisi). Ulteriore conferma che il governo abbia impapocchiato sulla questione tamponi è quanto dichiarato da Sandra Zampa, sottosegretario alla salute: “La richiesta (dei reagenti, ndr) l’abbiamo sempre fatta, adesso parte in un’altra forma e cioè una gara, un bando, un appalto” perché c’è “la disponibiltà di arrivare ovunque a comprare”, ha detto stamattina Zampa, in collegamento ad Omnibus, la trasmissione di La7 condotta oggi da Gaia Tortora. Zampa ha sottolineato anche “che tutta l’Europa, tutti i Paesi Ue sono nella nostra condizione. L’Europa si è data uno strumento per acquisire sul mercato internazionale ciò che serve”. Ma perché – allora – il governo non si è mosso prima? Perché attendere la Fase 2 per decidere di investire pesantemente nei reagenti, sostanze essenziali per effettuare i tamponi?, ha incalzato la conduttrice di Omnibus. Perché, ha risposto Zampa, “la previsione che i reagenti non fossero sufficienti è stata fatta su delle richieste disordinate da parte delle regioni, solo ora è chiaro quanto ne serve perchè noi abbiamo deciso di intensificare enormemente la quantità di tamponi”. Oltre alle regioni, che hanno fatto pervenire al governo delle richieste disordinate, anche l’Europa secondo la sottosegretaria alla Salute ha le sue responsabilità: “Il nostro Paese, come tutti i Paesi europei, non produce più cose essenziali come le mascherine ed i reagenti. L’Europa le ha comprate per tutti e ce le da per 4 giorni”. Comunque, ha rassicurato Zampa, ora che il governo ha deciso di prendere in mano la questione “Ci vuole poco a produrre reagenti”, basta investire “denaro sufficiente a remunerare qualcosa che non si fa più perché non remunerativa. È un problema serio. Intanto ne abbiamo per un po’ e speriamo ci accompagni fino a quando non se ne produce di nuovo”. Intanto, dal virologo Crisanti, che già dal 20 gennaio si è mosso per produrre in house i tamponi (mentre dal governo è arrivato l’allarme sull’emergenza sanitaria il 31 gennaio), arrivano nuovi consigli per una ripartenza sicura: “La fase due è un terreno inesplorato per cui servono prudenza, tamponi mirati per diagnostica e sorveglianza, e prontezza nel creare microzone rosse”, ha detto Crisanti in un’intervista alla Stampa. E tra l’altro a febbraio il membro italiano del board dell’Oms e consulente del ministero della Salute, Walter Ricciardi, biasimava su giornali e tv la politica dei tamponi seguita dalla Regione Veneto presieduta da Zaia suggerita da Crisanti: “La strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica”, sentenziava il 27 febbraio Ricciardi. “Tra una settimana avremo i primi dati sulla fase due per decidere se i casi saranno ancora in diminuzione si potrebbe riaprire ovunque, ma suggerirei prudenza ad alcune Regioni”; per Piemonte e Lombardia “aspetterei qualche settimana. Tutto ciò che aumenta i contatti tra persone comporta un rischio, che diventa più accettabile con il calo dei contagi. L’epidemia non è finita e possono crearsi altri focolai. Bisogna essere pronti a fare delle microzone rosse, soprattutto in quelle regioni dove l’organizzazione territoriale non è efficiente”. Importanti erano e restano i tamponi, per Crisanti: “I tamponi vanno fatti mirati per mettere al sicuro un territorio e proteggere quelli confinanti. All’inizio il Veneto aveva più casi della Lombardia, ma siamo riusciti a contenerli”. I test “non permettono di stabilire se si è guariti, valgono solo come sondaggio, e a chi risulta positivo va fatto anche il tampone”, afferma Crisanti, aggiungendo: l’epidemia potrebbe “tornare dall’estero. Bisogna controllare gli aeroporti, tracciare chi arriva e fare tamponi mirati. Servono accordi internazionali”. “Voglio quella macchina. Compratela, e se non riuscite a trovarla rubatela a Padova”. Suonava più o meno così la battuta di un alto dirigente di una Regione italiana al suo staff. Parlava della super pipettatrice che ha permesso di far volare le analisi dei tamponi per la diagnosi del nuovo coronavirus in Veneto. Tutti la vogliono, tutti la cercano. Prodotta in California, ormai è introvabile, “per il blocco delle tecnologie ritenute strategiche voluto da Trump”, in un’America alle prese con la pandemia di Covid-19. La macchina è diventata “un mito che si autoalimenta. Funzionari, manager di ospedali di diverse Regioni da Nord a Sud hanno chiesto informazioni” ai fortunati che sono riusciti ad accaparrarsela, cioè l’azienda ospedaliera universitaria di Padova. A raccontarlo all’Adnkronos Salute è il direttore generale Luciano Flor. L’intuizione di poterla usare per eliminare il collo di bottiglia che rallenta il processo di analisi dei tamponi è nata proprio qui, dal virologo Andrea Crisanti.

Test sierologici in Lombardia: la Procura apre un fascicolo. Le Iene News il 14 maggio 2020. Gaetano Pecoraro, nel servizio che potete rivedere sopra, ha raccolto la testimonianza dell’azienda Technogenetics, che produce i test rapidi “pungidito”, bocciati da Regione Lombardia a favore di quelli, più lunghi e costosi, a prelievo. L’azienda ha presentato una denuncia in Procura, che adesso ha aperto un fascicolo. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo conoscitivo sulla scelta di Regione Lombardia di incaricare con affidamento diretto la multinazionale Diasorin per la sperimentazione dei test sierologici, portata avanti in collaborazione col Policlinico San Matteo di Pavia. Della scelta di Regione Lombardia sui test rapidi sierologici ce ne aveva parlato Gaetano Pecoraro, nel servizio che potete rivedere qui sopra. E ora sembra che anche la procura voglia vederci chiaro su quanto accaduto: il fascicolo, su cui stanno lavorando il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e il pm Stefano Civardi, parte da una denuncia penale presentata dall’azienda concorrente, la Technogenetics, che aveva anche fatto un esposto al Tar e che proprio al nostro Gaetano Pecoraro aveva espresso molti dubbi su tale affidamento diretto. Eravamo partiti dal raccontarvi come, avviata la “Fase 2”, fosse necessario acquisire più dati epidemiologici possibili. Vi avevamo raccontato che questo sarebbe stato possibile, in modo veloce ed economico, attraverso i cosiddetti test rapidi sierologici “pungidito”, ovvero quelli per cui basta una sola goccia di sangue prelevata con l’aiuto di un aghetto. Una scelta seguita dalla maggior parte delle regioni italiane, tranne la Lombardia: giudicava inadeguati tali test e aveva spinto per portare avanti quelli a prelievo, più lunghi e costosi, su cui stanno lavorando Diasorin e San Matteo di Pavia. Sui test pungidito era intervenuto anche il Prof. Galli, virologo del Sacco di Milano, che aveva spiegato:” "L’attendibilità, sulle persone con l’infezione, è decisamente sopra il 93-94-95%. Questi test servono per scremare chi ancora butta fuori virus e chi non lo butta fuori più, s scusate se è poco... Tra i 10 e i 12 minuti si ha la risposta e questo è l’altro grande punto di forza. E poi il costo di un test pungidito è dieci volte inferiore a quello di un test con la puntura del braccio”. Ma allora perché Regione Lombardia non ne aveva fatto scorta preferendo puntare sui test della Diasorin? Salvatore De Rosa, dirigente della Technogenetics, che ha presentato l’esposto in Procura, aveva detto alla Iena: “Lo studio di Regione Lombardia, che segnalava un’attendibilità sotto il 20%, partiva da un presupposto non corretto, perché andava a valutare i pazienti non al decimo, al 12esimo, al 14esimo giorno, ma lo faceva immediatamente, all’arrivo in pronto soccorso. La scienza insegna che per fare avere validità a un test sierologico devono essere passati almeno 7-8 giorni dal contagio. È una cosa che sanno tutti”. Gaetano Pecoraro ha scoperto che lo studio che ha di fatto bocciato i test “pungidito” è stato firmato dal professor Fausto Baldanti, membro del comitato che decide come si fanno le diagnosi in Lombardia. Ma Baldanti, è questa la cosa assai particolare, è anche a capo dell’équipe che al San Matteo di Pavia che sta sviluppando il test alternativo in collaborazione con l’azienda farmaceutica Diasorin. E c’è di più: sul contratto che regola il rapporto tra il San Matteo e la Diasorin, l’azienda farmaceutica che è titolare del test a prelievo, è scritto che la Diasorin corrisponderà alla fondazione dell’Ospedale, a partire dalla prima vendita e per i successivi 10 anni, una rojalty al tasso dell’1% sul prezzo netto di ciascun kit venduto. Quello che sappiamo è che poco dopo la validazione di quel test i titoli della Diasorin hanno guadagnato in borsa molto e regione Lombardia ne ha comprati 500mila kit, per un valore di 2 milioni di euro. Dopo che quell’accordo è stato reso pubblico, Baldanti si è dimesso dal comitato scientifico della Lombardia. Sul fatto che Regione Lombardia abbia comprato quei kit con affidamento diretto, senza gara, abbiamo sentito Renato Bonaita, presidente di Confindustria Assodiagnostici: "Ho rilasciato un’intervista, dopo la quale io mi sono dimesso dal mio ruolo. Diciamo che se il 99% delle aziende erano contente del fatto che ci fosse qualcuno che diceva come stavano le cose, un 1% si è incazzato molto. E ha minacciato molte cose… Io però non contestavo un’azienda ma il metodo”. Attendiamo ora il lavoro della Procura di Milano, che vuole vederci chiaro rispetto all’affidamento diretto di regione Lombardia, che ha acquistato i kit della Diasorin. Il professor Baldanti, raggiunto telefonicamente da Gaetano Pecoraro, non aveva voluto rilasciare nessuna intervista, limitandosi a dire: “È una storia nella quale io non c’entro niente”.

Perché la Lombardia non usa i test sierologici rapidi pungidito? Le Iene News il 13 maggio 2020. Costano un decimo dei test sierologici a prelievo e in 12 minuti ci dicono se abbiamo il virus. Perché la Regione Lombardia, contrariamente al resto d’Italia, non usa i test “pungidito” preferendo quelli a prelievo? Ci racconta tutto Gaetano Pecoraro. Da qualche giorno siamo entrati nella Fase 2 e ciò che conta adesso è acquisire più dati possibili, per isolare i positivi, trovare gli asintomatici, insomma tracciare l’andamento del virus. Lo si potrebbe fare per esempio con il test sierologico rapido, o pungidito, che si basa su una sola goccia di sangue prelevata con l’aiuto di un aghetto. Gaetano Pecoraro si sottopone  a questo test, che in quindici minuti rivela la sua negatività. E se molte regioni italiane sono partite con l’effettuare questi test a tappeto, la regione d’Europa più infettata, la Lombardia, ha scelto di non farlo. “La Lombardia ha bloccato fin dall’inizio questo tipo di attività”, sostiene Salvatore De Rosa, dirigente di Technogenetics, l’azienda che li propone e presso la quale effettuiamo il test rapido pungidito. La Regione lo ha fatto a fine marzo, scrivendo a tutte le Ats del territorio che i test per la ricerca di anticorpi non potevano essere utilizzati nella diagnostica, rimandando qualsiasi decisione in merito ai virologi del San Matteo di Pavia, coordinati dal prof .Fausto Baldanti. Una posizione che ufficialmente sarebbe dettata dai dubbi che ancora permarrebbero sull’efficacia dei test sierologici, nonostante a garantirne l’affidabilità siano anche virologi di fama, come l'epidemiologo Massimo Galli, che dice: "L’attendibilità, sulle persone con l’infezione, è decisamente sopra il 93-94-95%. Questi test servono per scremare chi ancora butta fuori virus e chi non lo butta fuori più, s scusate se è poco... Tra i 10 e i 12 minuti si ha la risposta e questo è l’altro grande punto di forza. E poi il costo di un test pungidito è dieci volte inferiore a quello di un test con la puntura del braccio”. Quando gli chiediamo perché la Lombardia, a differenza di altre regioni, non si stia muovendo in questa direzione, il prof Galli risponde così: “No comment. Ci vogliamo rendere conto che un atteggiamento ostile e preconcetto, in tempo di guerra, per l’utilizzazione dei test rapidi, è assurdo al limite dell’ingiustificabile?”. La spiegazione sembrerebbe darla uno studio del San Matteo di Pavia, che ha analizzato i test pungidito fatti ai pazienti giunti in pronto soccorso. Lo studio, che parla di una sensibilità del test inferiore al 20%, è stato firmato dal dottor Fausto Baldanti, membro del comitato che decide come si fanno le diagnosi in Lombardia. De Rosa, che abbiamo già sentito, spiega: "Lo studio partiva da un presupposto non corretto, perché andava a valutare i pazienti non al decimo, al 12esimo, al 14esimo giorno, ma lo faceva immediatamente, all’arrivo in pronto soccorso. La scienza insegna che per fare avere validità a un test sierologico devono essere passati almeno 7-8 giorni dal contagio. È una cosa che sanno tutti”. La Regione punta adesso, in collaborazione con l’Università di Pavia, a un nuovo test sierologico, che però si deve avvalere di un prelievo di sangue vero e proprio. E che quindi costa decisamente di più. A capo dell’équipe che sta sviluppando questo test alternativo è sempre il professor Fausto Baldanti, virologo del San Matteo di Pavia. “Se l’obiettivo è sapere in pochi minuti se una persona ha avuto o no contato con l’infezione, il test rapido è decisamente superiore”, ribadisce il prof. Galli. “Noi stiamo riaprendo la Lombardia senza avere uno screening epidemiologico ampio”, sostiene ancora De Rosa di Technogenetics. E questo, farebbe capire, perché i test del San Matteo, richiedendo il prelievo di sangue, richiedono anche molto più tempo a disposizione e comprensibilmente se ne sono fatti molti meno rispetto a quelli rapidi. “Se non ci accorgiamo immediatamente di un focolaio che riparte ci ritroveremo in grandissimo imbarazzo”, spiega ancora Massimo Galli. Sul contratto che regola il rapporto tra il San Matteo e la Diasorin, l’azienda farmaceutica che è titolare del test a prelievo, è scritto che la Diasorin corrisponderà alla fondazione dell’Ospedale, a partire dalla prima vendita e per i successivi 10 anni, una rojalty al tasso dell’1% sul prezzo netto di ciascun kit venduto. “No comment”, è di nuovo la risposta del Prof. Galli. Poco dopo la validazione di quel test i titoli della Diasorin hanno guadagnato in borsa molto e Regione Lombardia ne ha comprati 500mila kit, per un valore di 2 milioni di euro. Dopo che quell’accordo è stato reso pubblico, Baldanti si è dimesso dal comitato scientifico della Lombardia. Sul fatto che Regione Lombardia abbia comprato quei kit con affidamento diretto, senza gara, abbiamo sentito Renato Bonaita, presidente di confindustria Assodiagnostici: "Ho rilasciato un’intervista, dopo la quale io mi sono dimesso dal mio ruolo. Diciamo che se il 99% delle aziende erano contente del fatto che ci fosse qualcuno che diceva come stavano le cose, un 1% si è incazzato molto. E ha minacciato molte cose… Io però non contestavo un’azienda ma il metodo”. Nel frattempo la Technogenetics, ha fatto ricordo al Tar della Lombardia, che ha fissato un’udienza per questo mercoledì. Gaetano Pecoraro prova a chiamare il prof Baldanti, che però non vuole rilasciare nessuna intervista. “È una storia nella quale io non c’entro niente”, dice e riattacca il telefono.

Sara Bettoni e Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. È una delle incompiute della Fase due, cominciata ormai una settimana fa ma ancora poco lineare, anzi zigzagante. Le riaperture ci sono state. Un po' meno gli strumenti che le dovevano accompagnare, a partire dall' aumento dei tamponi, per vedere chi è positivo e chi no. Ma forse, finalmente, ci siamo. Stamattina il commissario Domenico Arcuri, pubblicherà una «richiesta di offerta» per acquistare kit per i tamponi e reagenti. La richiesta è aperta alle aziende di tutto il mondo. Le offerte andranno comunicate entro sette giorni con l' impegno a consegnare i prodotti il prima possibile e comunque entro 15 giorni. Non si tratta di un vero e proprio bando di gara. L' obiettivo è «acquisire la massima quantità di kit disponibili sul mercato nazionale e internazionale». Una specie di whatever it takes alla Mario Draghi, facendo le debite proporzioni. L' obiettivo è distribuire 5 milioni di tamponi a partire dalla prossima settimana. Al 9 maggio erano stati distribuiti 2,4 milioni di kit (tamponi e reagenti). Un numero non molto al di sotto dei tamponi effettuati finora in tutta Italia, 2,5 milioni. Quella cifra è stata raggiunta anche grazie a kit acquistati in autonomia dalle regioni. Ma la differenza è davvero minima, 100 mila pezzi. E, anche immaginando che le regioni abbiano scorte in magazzino, non si spiega la vera e propria guerra di queste settimane tra regioni e governo. Guerra che, consoliamoci, continuerà ancora. Dopo aver ricevuto le offerte, il commissario straordinario le dovrà incrociarle con i fabbisogni delle singole regioni. Sia per i kit, sia per i soli reagenti, ancora più difficili da trovare. E non sarà cosa semplice. I test indicati nel documento - sbloccato dal decreto legge approvato nella notte tra sabato e domenica, lo stesso che fa partire i test sierologici sul campione Istat - saranno di tre tipi: quelli rapidi, che possono essere utilizzati anche sul luogo di lavoro; quelli automatizzati, che hanno bisogno di laboratori ad alto contenuto tecnologico; e quelli compositi, in cui le due fasi di analisi, estrapolazione e amplificazione, sono separate. Tuttavia il vero problema sono i reagenti, che scarseggiano non solo in Italia ma in tutto il mondo. Con l' aggravante che non c' è un reagente uguale in tutto il Paese e che il tipo di prodotto cambia non solo da regione a regione ma anche all' interno della singola regione da laboratorio a laboratorio. Un federalismo del reagente che complica le cose ancora di più. Anche per questo Arcuri ha dichiarato la sua disponibilità a ricevere richieste di supporto per consentire l' aumento della produzione in Italia di kit e reagenti. I primi contatti ci sono già stati con le associazioni del settore, Federchimica e Farmindustria. E lo schema potrebbe essere lo stesso già scelto per le mascherine, pur con qualche polemica. Tra i grandi Paesi, comunque, l' Italia resta tra quelli con il più alto numero di tamponi rispetto alla popolazione: ne abbiamo fatti 4.244 ogni 100 mila abitanti, la Spagna 5.278, la Germania 3.289, gli Stati Uniti 2.730, la Gran Bretagna 2.682, la Francia 2.121. In Lombardia si fanno in media 99 tamponi al giorno ogni 100 mila abitanti, secondo la ricerca della Fondazione Gimbe di Bologna sui dati dal 22 aprile al 6 maggio. Pur essendo la regione più colpita dal coronavirus non svetta in questa classifica, anzi: la media di tamponi è molto inferiore a quella del Veneto che arriva a 166. Senza dimenticare la numerosità della popolazione (10 milioni di abitanti circa) e il fatto che da inizio epidemia sono stati processati 485 mila campioni, la difficoltà a reperire reagenti è un freno all' aumento di questo tipo di test. Il presidente lombardo Attilio Fontana qualche giorno fa ha sottolineato di non aver ricevuto aiuti da Roma nella caccia ai kit. «Ci continuano a chiedere come mai la Lombardia faccia pochi test diagnostici - ha detto -, visto che il commissario Arcuri ha dichiarato di averci inviato un numero ingente di tamponi. La risposta è semplice: insieme ai bastoncini si è scordato di mandare i reagenti, e senza è impossibile processare gli esami». Il Pirellone a inizio epidemia ha acquistato 2 milioni di tamponi, mentre le forniture di kit di reagenti sono più limitate proprio per l' alta richiesta a livello mondiale. Nonostante questo, nel corso delle settimane sono cresciuti il numero di laboratori che analizzano i «cotton fioc» necessari a scovare chi è positivo al Covid-19 e parallelamente la quantità di tamponi processati. Si è passati dagli iniziali 6 mila ai circa 13 mila al giorno attuali (ma ieri ne sono stati processati solo 7.369). «Ora sono 45 i laboratori attivi - spiega l' assessore alla Sanità Giulio Gallera - e stanno diventando 49». Si va dai grandi ospedali, come il Niguarda, che arriva ad analizzarne 1.500 ogni 24 ore fino alle strutture più piccole, che viaggiano al ritmo di qualche centinaio. «A queste condizioni potremmo fare 15 mila test al giorno - dice Gallera - se ci fossero più reagenti». Ma anche il traguardo dei 15 mila test sarebbe insufficiente, secondo la Regione, visto che la platea si sta ampliando: doppio test per chi finisce la quarantena, controlli periodici sul personale sanitario e socio-sanitario, verifiche ancora in corso sugli ospiti delle Rsa, analisi su chi dev'essere ricoverato in ospedale e sui dipendenti con febbre segnalati dai datori di lavoro. L' obiettivo del Pirellone è più alto: raddoppiare i test quotidiani nell' arco di due mesi. Come? In pieno spirito autonomista, punta sulle proprie forze più che sugli aiuti da Roma. È stata aperta una manifestazione di interesse per trovare nuovi laboratori da coinvolgere, anche fuori regione e oltre i confini nazionali. Si spera in una risposta da Paesi vicini come l' Austria, la Svizzera, la Slovenia e la Francia. Si stanno poi acquistando ulteriori macchine per processare i tamponi e sperimentando modalità per «risparmiare» sulla quantità di reagenti. «Le dichiarazioni di Arcuri evidenziano che il problema dei reagenti è nazionale - dice Gallera - . Ma abbiamo un piano di sviluppo per arrivare a 30-40 mila test al giorno». 

«Coronavirus, subito tamponi di massa». L’appello di Crisanti, Ricolfi e Valditara. Il Corriere della Sera il 5 maggio 2020. In undici punti le richieste dei tre professori, sottoscritte dai professori di Lettera 150: «Occorre cambiare rotta se non vogliamo che milioni di lavoratori perdano il posto. Incostituzionale bloccare a casa le persone sane».  Se vogliamo che la imminente riapertura non sia effimera, se vogliamo evitare la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, se vogliamo che milioni di lavoratori non perdano il posto di lavoro, occorre cambiare rotta. Bisogna iniziare subito a fare tamponi di massa. È necessario, ed è possibile. Ecco perché:

1 Finora nelle regioni italiane si è fatto un numero insufficiente di tamponi giornalieri per abitante e ciò è ancora più evidente quando si confronta questo numero con i casi positivi identificati.

2 Una recente comparazione internazionale mostra che il numero di tamponi giornalieri per abitante è inversamente correlato a quello dei morti: più tamponi, meno morti.

3 Gli studi epidemiologici collegano ormai una efficace strategia di contenimento del virus ad una campagna di tamponi di massa. Persino l’OMS ora caldeggia l’esecuzione di tamponi di massa.

4 Uno studio fatto dai professori Francesco Curcio e Paolo Gasparini ritiene che, utilizzando le esistenti strumentazioni di laboratorio, e con una efficiente organizzazione, ogni regione potrebbe processare già oggi un numero notevolmente superiore di tamponi.

5 Il costo per il processamento di un tampone, utilizzando reagenti almeno in parte prodotti nei laboratori di ricerca, è dell’ordine di 15 euro (inclusi il costo del personale tecnico, le utenze, il costo di ammortamento della strumentazione).

6 Risulta che molte imprese private, in diverse regioni italiane, si sono rese disponibili a pagare una campagna di indagini molecolari per i propri dipendenti e persino a finanziare laboratori che eseguano tamponi.

7 Macchinari di ultima generazione arrivano a processare fino a 10.000 tamponi al giorno.

8 La capacità di fare tamponi in grande numero permetterebbe di contenere ed eliminare prontamente la trasmissione del virus in caso di sviluppo di focolai epidemici, come effettuato con successo a Vo’.

9 Dopo 2 mesi di confinamento domiciliare esistono in Italia milioni di persone negative a Covid-19 che, adottando adeguati strumenti di protezione, potrebbero vivere nella pienezza dei propri diritti costituzionali invece finora conculcati. Una campagna di tamponamento può consentire a loro di riprendersi pienamente la libertà di movimento, e di riunione, la libertà religiosa, la libertà di lavorare, e quella di iniziativa economica, tutte attualmente e in vario modo compresse. Ovviamente, tutto ciò richiede che, sempre a scopo precauzionale, si osservi il distanziamento e si indossino obbligatoriamente le mascherine. È altresì auspicabile un efficace tracciamento con app.

10 Vietare a persone sane di circolare liberamente sul territorio nazionale, di lavorare o di intraprendere iniziative economiche è contrario ai principi costituzionali.

11 Senza una politica di tamponi di massa si avranno più morti, più danni alla salute, maggiori rischi di nuovi lockdown con conseguenze catastrofiche per la nostra economia.

Perciò invitiamo le autorità nazionali e regionali ad avviare una massiccia campagna di tamponi per contenere la diffusione di Covid 19, per difendere la vita, la salute, il lavoro, i risparmi degli italiani oltre ai loro diritti fin qui sospesi. Il tempo è poco, i rischi sono grandissimi: è ora di agire. L’appello è promosso dai tre professori firmatari, ed è stato sottoscritto dai professori di «Lettera 150».

Coronavirus, caccia ai test non autorizzati: così entriamo nella Fase 2 senza screening. Kit sierologici sequestrati in tutta Italia. Contestata la mancata registrazione al ministero della Sanità: procedura che però richiede mesi. In Friuli fuorilegge gli esami eseguiti dal vicino Veneto. Fabrizio Gatti il 30 aprile 2020 su L'Espresso. La ripresa dopo la prima ondata dell'epidemia di covid-19 avverrà senza la necessaria indagine sierologica sulla popolazione. In mancanza di esami certificati, che (forse) andranno a regime soltanto a fine maggio, il Nucleo antisofisticazioni dei carabinieri ha dato il via a una vera e propria caccia ai test offerti dai laboratori privati: denunce, sequestri e segnalazioni all'autorità giudiziaria e sanitaria sono cominciate un mese fa e continuano a pieno ritmo in questi giorni in tutta Italia. Il presupposto legale è che i prodotti offerti o gli esecutori del prelievo o entrambi non siano stati autorizzati. L'eventuale scarsa qualità dei kit e i margini di errore nell'esito (anche del 15 per cento) potrebbero dare false risposte e aumentare i rischi di contagio. Ma nell'assenza di indicazioni precise dal comitato tecnico scientifico del governo e nella mancanza di una vera campagna nazionale di tamponi, a cittadini, imprenditori e commercianti non restano più alternative per riaprire le attività con i dovuti margini di sicurezza. Pazienti positivi, ma senza sintomi gravi. Dopo settimane di clausura, non riescono a sapere se sono ancora contagiosi. Un rischio che mette in pericolo la ripartenza. E a Milano l'hotel per la quarantena resta vuoto. Trecento kit sequestrati a Rimini in una parafarmacia. Indagini da Parma e Salerno. Blitz in un laboratorio in Friuli Venezia Giulia. Se funziona ed è attendibile il modello Veneto, dove è stato avviato uno screening di accertamenti sulla popolazione con settecentomila test sierologici comprati dalla Regione, non si capisce perché i consiglieri scientifici del premier e del ministro della Sanità non lo abbiano adottato nel resto del Paese. Gli esami sierologici, eseguiti su un prelievo capillare o venoso di sangue, cercano la presenza di anticorpi che rivelano l'avvenuto contatto del paziente con il virus Sars-Cov-2: le immunoglobuline IgM compaiono per prime, poi generalmente scompaiono; le IgG costituiscono invece la difesa a lungo termine a infezione superata, anche se non si sa ancora per quanto. Se nel sangue viene rilevata soltanto la presenza di IgG e non di IgM, significa che l'infezione è passata da più tempo e non è recente. Se invece non vengono trovate le due classi di immunoglobuline, per la persona esaminata si aprono due ipotesi: o non è mai entrata in contatto con il coronavirus e quindi non è contagiosa, ma può infettarsi; oppure l'infezione è così recente che non ha ancora sviluppato anticorpi e nemmeno i sintomi, ma potrebbe essere altamente contagiosa. In questo caso, l'infezione in corso deve essere evidenziata dal test tampone, con l'analisi di biologia molecolare sulle secrezioni prelevate dalle vie aeree superiori: anche se non sono pochi i pazienti risultati negativi al tampone e finiti in terapia intensiva nel giro di poche ore. Ecco perché gli esami devono seguire protocolli unici per tutti, con kit scientificamente riconosciuti. Solo così è possibile prevedere l'evoluzione dell'epidemia sul territorio e scoprire dalle immunoglobuline IgG quanti sono in percentuale gli italiani asintomatici, diventati temporaneamente immuni senza mai aver sviluppato la malattia. Il test sierologico, spiegano comunque gli scienziati, non può costituire una patente di immunità: il virus è ancora sconosciuto e i casi di persone guarite che si sono nuovamente ammalate sono tuttora in fase di studio. Nell'attesa di risposte scientifiche, il ministero della Sanità e il suo Comitato tecnico scientifico si sono affidati totalmente all'Organizzazione mondiale della sanità che sta esaminando la validità di «circa 200 nuovi test rapidi basati su differenti approcci e che sono stati portati alla sua attenzione», informava un comunicato del 19 marzo: «I risultati relativi a quest’attività di screening saranno disponibili nelle prossime settimane. Nel suggerire cautela nell'impiego di test non validati, il Cts è disponibile a fornire opinioni e suggerimenti alle Regioni che lo dovessero richiedere». Da allora, solo il Veneto e in parte la Toscana hanno proseguito il loro percorso autonomo. La strategia giusta sui tamponi è stata quella della regione del Nord-Est. Scelta dagli scienziati che hanno avuto il coraggio di andare contro le direttive dei potenti burocrati locali. Ecco come si sono mosse le altre regioni e quali sono i problemi in vista della fase 2. Per questo alcuni imprenditori, dovendo garantire per legge la salute in azienda, si sono dovuti arrangiare da soli. La diffusione di test di vario tipo è cominciata proprio per rispondere a questa necessità. Tra i primi interventi del Nas dei carabinieri, il blitz a metà aprile nella Sbe di Monfalcone in provincia di Gorizia, un gruppo di settecento dipendenti che produce bulloneria per il settore automobilistico, macchine per il movimento terra e impianti industriali. I risultati dell'indagine sono significativi e allo stesso tempo preoccupanti. Le analisi rivelano infatti che l'11 per cento del personale della Sbe ha nel sangue anticorpi positivi al coronavirus: 6 per cento con infezione in corso pur senza sintomi, 5 per cento con infezione superata. L'azienda si è rivolta a sue spese a un laboratorio privato certificato che non ha somministrato un test rapido dai risultati incerti, ma un esame approfondito con prelievo di sangue. Lo stesso kit adottato dall'ospedale materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste per monitorare il personale sanitario. Eppure non basta. Gli operai vengono convocati a orari diversi. Ma soltanto duecento riescono a sottoporsi al prelievo. Venerdì 10 aprile nel laboratorio autorizzato si presentano i carabinieri del Nas di Udine. Sequestrano i kit perché, secondo il rapporto, sono «sprovvisti di una registrazione presso il ministero della Sanità». Registrazione che richiede mesi, mentre il virus uccide con tempi un po' più rapidi della burocrazia. E dopo l'operazione del Nas, la Regione ha vietato i test. «Ai miei dipendenti dovrò spiegare che esistono persone di serie A e persone di serie C, per le quali la sperimentazione non si deve fare», protesta il proprietario della fabbrica, Alessandro Vescovini, dalla sua pagina Facebook: «Non perché il test non sia ritenuto efficace, ma perché sprovvisto di registrazione e perché, a quanto pare, la Regione non ha ancora espresso un suo parere riguardo i test sierologici. I miei dipendenti, secondo qualcuno, debbono chinare la testa e andare a lavorare sapendo che un loro collega su dieci può avere un'infezione in atto, come è emerso dai primi prelievi». Il caso è finito in Parlamento con un'interrogazione firmata da Maurizio Lupi e da altri deputati: «Va sottolineato», spiegano, «che gli imprenditori sono penalmente e civilmente responsabili delle positività che dovessero emergere nelle proprie imprese, equiparabili a infortuni sul lavoro». Il proprietario della Sbe non si arrende: «Ho gia ordinato duecento kit portatili e terminerò entro sette giorni i test in modo totalmente autonomo, quindi senza aver bisogno di nessun laboratorio, allo scopo di continuare a monitorare i miei dipendenti e garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono gli stessi kit sierologici che le autorità sanitarie venete utilizzano per esempio a Portogruaro, a due passi da nostri confini per testare gratuitamente i dipendenti pubblici. Per evitare di pesare troppo sulle strutture regionali, nell'attesa che qualcuno da Trieste decida di ampliare la nostra capacità di fare tamponi, ho poi deciso che per i soggetti positivi invieremo privatamente i tamponi in Germania, dove eseguono, ricordo, 500.000 tamponi alla settimana, in strutture pubbliche e private». Friuli e Veneto sono due regioni governate dalla Lega, ma con un approccio all'epidemia completamente opposto. L'economia mondiale precipita nella recessione, ma per alcune aziende, dalle multinazionali farmaceutiche ai supermercati, è stata l'occasione per cavalcare la crisi aumentando i prezzi. Mentre Netflix vola in Borsa e il patrimonio di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nell'ultimo mese è cresciuto di 50 miliardi. Il commissario straordinario Domenico Arcuri ha affrontato la questione con una gara d'appalto. Il bando se l'è aggiudicato pochi giorni fa la multinazionale farmaceutica americana Abbott, scelta tra settantadue concorrenti. Lo screening del governo prevede dal 4 maggio 150mila test gratuiti: un campione piuttosto simbolico, visto che dovrebbe rappresentare regione per regione la diffusione dell'epidemia tra sessanta milioni di italiani. L'azienda scelta ha annunciato la distribuzione entro fine maggio in Italia di altri quattro milioni di test. Nulla si sa ancora di come e dove saranno analizzati i prelievi, visto che in molte regioni non si usano macchinari Abbott e i campioni prelevati non possono essere inseriti in altre apparecchiature. Il ministero della Sanità nel frattempo ha intensificato le operazioni dei Nas. I carabinieri hanno avviato le loro verifiche seguendo la pubblicità su Internet: da giorni il Nucleo antisofisticazioni sta verificando, spiegano negli uffici del ministro Roberto Speranza, «le autorizzazioni amministrative di alcuni laboratori che, nelle ultime settimane, hanno cominciato a pubblicizzare dei costosi esami diagnostici per la ricerca del covid-19. In particolare, due aziende in provincia di Piacenza si offrivano, dietro compenso in denaro, di effettuare dei prelievi ematici anche a domicilio, mentre un laboratorio campano effettuava l’esecuzione di test rapidi, nonostante fosse privo di autorizzazione da parte della Regione. Tutte le strutture sono state diffidate dal continuare le loro attività e segnalate alle autorità competenti per eventuali valutazioni di carattere amministrativo e sanitario». A tutto questo si aggiunge l'annuncio del commissario straordinario di imporre alle mascherine protettive un prezzo calmierato di 50 centesimi l'una: decisione che sta spingendo molti rivenditori, che all'ingrosso le hanno pagate più del doppio, a sospendere la distribuzione. Così, come due mesi fa, siamo senza protezioni, senza tamponi e nemmeno test sierologici: per la cosiddetta Fase 2 non ci resta che incrociare le dita.

Da romatoday.it l'1 aprile 2020. Un test rapido, a tappeto, per il coronavirus da fare a tutti i residenti della regione, per puntare tutto sulla diagnosi precoce, individuare gli asintomatici e isolarli. "La nostra arma contro il Covid-19 deve essere il test rapido a tappeto" ha detto l'assessore alla Salute Alessio D'Amato intervistato dal Corriere della Sera. Lo stanno testando all'istituto Spallanzani sulla popolazione di Nerola, il comune diventato zona rossa dopo i casi di contagio nella casa di riposo del paese, e al policlinico Tor Vergata. Si attendono le ultime validazioni scientifiche per entrare in azione. I normali tamponi infatti, ha spiegato D'Amato, non bastano. "Siamo la quarta regione d'Italia per numero, oltre 33mila. Ma anche se volessi triplicare lo sforzo, con i tempi di lavorazione degli attuali (otto ore, ndr) impiegheremmo anni a testare tutta la popolazione". Già, perché l'intento è proprio quello: "Se il test rapido funziona, lo estendiamo a tutti i sei milioni di abitanti del Lazio". Dell'utilizzo di test rapidi si sta parlando molto in queste ore anche a livello nazionale. Tanti presidi ospedalieri in tutto il Paese hanno avviato sperimentazioni a riguardo. Quanti sono davvero i positivi in Italia? Il timore è che accanto ai numeri accertati di chi ha fatto il tamponi ci siano poi i sommersi, coloro che sono contagiati ma che asintomatici o con sintomi lievi rimangono a casa senza essere sottoposti a esami. A quello serve il test rapido del sangue, a individuare gli anticorpi in tempi ridotti rispetto a quanto riesce a fare un tampone semplice, e a estendere quindi le verifiche su un campione molto più ampio di persone. Intanto a Roma e nel Lazio l'emergenza coronavirus continua, ma i dati degli ultimi giorni fanno ben sperare. Nelle ultime 24 ore del mese di marzo sono stati registrati 181 nuovi casi di positività, ventisette in meno di sabato e con un trend in decrescita per la prima volta al 6 per cento. Il numero totale dei pazienti che hanno contratto il Covid19 in tutta la regione salgono così a 3095. Meno di un terzo, ovvero 1127, sono quelli che sono ricoverati: di questi 173 richiedono il supporto respiratorio in terapia intensiva. I decessi purtroppo però aumentano. 

Luca Ricolfi per fondazionehume.it il 29 aprile 2020. Grande rilievo ha assegnato il Tg1 a questa dichiarazione del Commissario Governativo Domenico Arcuri, diffusa attraverso l’Agenzia Nova: “Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti: a ieri erano stati fatti 2.960 tamponi ogni 100 mila aitanti. In Germania 2.474, il 20 per cento in meno; in Inghilterra 1.061, un terzo che in Italia e 560 in Francia, un sesto”. La notizia comunicata è falsa: sono una decina i paesi che, alla data considerata dal Commissario Arcuri, fanno più tamponi dell’Italia. Alcuni sono paesi molto piccoli, come Islanda, Lussemburgo, Malta, Cipro, Lituania, Estonia, ma altri – Norvegia, Israele, Portogallo – lo sono assai meno, e comunque sono anch’essi “paesi del mondo”. Quanto al confronto con la Germania, è basato su un artificio, che sfrutta il fatto che in Germania il numero dei tamponi viene comunicato solo una volta la settimana. Il dato riportato nel comunicato di Arcuri non si riferisce al numero di tamponi della Germania ieri (27 aprile), ma al numero di tamponi comunicato dalla Germania l’ultima volta che ha aggiornato il dato, ovvero più o meno una settimana prima. Se Italia e Germania vengono confrontate alla medesima data (19 aprile), è la Germania a fare più tamponi, non l’Italia (25.1 ogni mille abitanti la Germania, 22.4 l’Italia). Dunque non è vero che la Germania ne fa “il 20% in meno”, la realtà è che ne fa l’11.9% in più. Questo per quanto riguarda le cifre nude e crude. Se però vogliamo fare una comparazione sensata, non è certo il numero di tamponi per abitante che dobbiamo confrontare. Per fare un confronto corretto fra due paesi si dovrebbe, come minimo, tenere conto della “anzianità epidemica” del paese. Le cifre da confrontare, in altre parole, non sono quelle dei tamponi totali per abitante, ma dei tamponi al giorno per abitante. In Italia l’anzianità epidemica è circa il doppio che in Germania.  Se si tiene conto di questo fattore ci si rende conto che la Germania fa più del doppio dei tamponi dell’Italia. Per l’esattezza, fatto 100 il numero di tamponi giornalieri per abitante dell’Italia, la Germania ne fa 241.5.

Sottigliezze statistiche? Per niente. Il fatto che gli esponenti del governo continuino a vantare un (inesistente) primato dell’Italia nel numero di tamponi è un chiaro segnale della volontà di non aumentarne troppo il numero. E’ come se dicessero: se già ne facciamo più di chiunque altro, perché voi giornalisti (e voi cittadini) continuate a infastidirci con questa faccenda dei tamponi? Una scelta che, inevitabilmente, non potrà non appesantire il già drammatico bilancio dei morti. Per un’analisi più sistematica leggi Tamponi. L’Italia ne fa di più degli altri paesi? 

Tamponi. L’Italia ne fa di più degli altri paesi? Fondazione David Hume il 16 aprile 2020.  La Fondazione Hume pubblica oggi (16 aprile) sul suo sito un confronto internazionale sulla capacità rispettiva di fare tamponi dei principali paesi avanzati. Il risultato è il seguente: Come si vede, su 23 paesi solo 4 (fra i quali Francia e Regno Unito) hanno fatto meno tamponi dell’Italia. La Spagna è di poco superiore a noi, negli Stati Uniti la capacità risulta quasi doppia che in Italia, in Germania è 3 volte e mezzo. Va detto comunque, per completezza e dovere di verità, che i paesi diversi dall’Italia hanno quasi tutti beneficiato, causa il ritardo con cui l’epidemia si è manifestata, della clamorosa marcia indietro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che dopo aver a lungo predicato di fare pochi tamponi, il 16 marzo ha repentinamente cambiato idea, e cominciato a predicare di farne il più possibile. Forse la vera colpa dell’Italia è stata di attenersi alle indicazioni dell’OMS, anziché alle voci di tanti suoi scienziati.

Nota esplicativa. Secondo il governo l’Italia è il paese del G20 che fa più tamponi per abitante. E’ vero. Anzi era vero quando, in risposta alle 7 domande del “Messaggero”, il governo rilevava (giustamente) il primato dell’Italia in materia di tamponi. Ora non è più vero, perché oggi 16 aprile la Germania ha sorpassato l’Italia, con 20.6 tamponi per 1.000 abitanti, contro i nostri 19.5. E questo nonostante l’epidemia, in Germania, sia partita con più di 3 settimane di ritardo rispetto all’Italia. La scelta dei paesi del G20 come termine di paragone solleva due problemi:

a) nella maggior parte dei paesi del G20 l’epidemia non ha ancora raggiunto neppure la soglia di 10 decessi per milione di abitanti (i    paesi del G20 significativamente interessati dall’epidemia sono solo 4, oltre all’Italia).

b) il confronto appropriato non è fra numero di tamponi per abitante adesso, ma in momenti comparabili dell’epidemia (ad esempio dopo 10 giorni, dopo 2 settimane, dopo un mese, ecc.).

Un modo di risolvere questi due problemi è il seguente:

a) considerare tutte le società avanzate (Oecd o Unione Europea) per cui esistono dati sui tamponi, e nelle quali si sia superata la soglia di allerta dei 10 morti per milione di abitanti;

b) confrontare il numero di tamponi di un paese con quello dell’Italia nel medesimo stadio dell’epidemia.

Test sierologici per trovare gli immuni, il piano per far ripartire il Paese. Redazione de Il Riformista il 2 Aprile 2020. Potrebbe essere la nuova frontiera della lotta al Coronavirus e il piano per far ripartire il Paese nella ‘fase 2’ annunciata nella conferenza stampa di mercoledì del premier Giuseppe Conte. La speranza per fronteggiare l’epidemia di Covid-19 sono i test sierologici, già avviati da pochi giorni in Veneto. Si tratta di un ‘semplice’ esame del sangue utile a rilevare, tramite alcuni parametri da esaminare, se il virus ha lasciato “traccia” nel corpo della persona sottoposta a prelievo e che pertanto potrebbe aver sviluppato l’immunità al nuovo Coronavirus. Un piano che ha già ricevuto il parere positivo del Comitato tecnico-scientifico della Protezione civile per una mappatura della popolazione e per individuare la fasce che hanno sviluppato la cosiddetta “immunità di gregge”. Una grossa quantità di test sierologici premetterebbe inoltre di iniziare a lavorare sulle riaperture, perché chi risulterà immune al virus potrà teoricamente tornare a lavoro. Attualmente test simili sono stati effettuati soprattutto in Veneto, ma con numeri minori anche in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna, alcune delle regioni più colpite dall’epidemia di Covid-19. Il test sierologico, va sottolineato, non è paragonabile al tampone che accerta la positività al Covid-19. Mentre il secondo dice se in un determinato momento la malattia è in corso, il primo attesta e certifica l’eventuale immunità al virus, con effetto retroattivo. Gli stess test seriologici possono dividersi in più tipi, tra quelli eseguibili con una semplice goccia di sangue, che offrono risultati in 15 minuti, a quelli che comportano un esame del sangue vero e proprio. Ma c’è chi mette in guardia dalla possibilità di utilizzare questi test come lasciapassare per far tornare a lavoro le persone. Spiega infatti Roberto Rigoli, vicepresidente dell’Associazione dei microbiologi clinici italiani, al Corriere: “Di test fast ce ne sono una miriade, tra cui la maggior parte sono porcherie. Il loro rischio è di risultati falsi negativi: ci dicono, cioè, che una persona non ha ancora sviluppato gli anticorpi al virus, mentre può essere al suo massimo di contagiosità. L’abbiamo verificando facendo l’esame su pazienti positivi ricoverati in ospedale. Dopodiché abbiamo trovato anche un paio di test rapidi validi su cui stiamo lavorando”.

Carla Vistarini per Dagospia il 29 marzo 2020. "Sono quasi venti giorni che siamo chiusi in casa a decine di milioni. Ora, se l'incubazione del coronavirus è di 14 giorni massimo come dicono, ormai chi sta bene o è sano da prima, o è sano perché può considerarsi immune o è sano perché l'ha avuto in modo asintomatico, e può ragionevolmente supporre di averlo superato (considerati sempre i 14 giorni). Bene, decidendosi a fare tamponi a tappeto per avere la conferma di quanto sopra esposto, si potrebbe tornare, almeno a scaglioni, e con le dovute cautele (mascherine, distanza di sicurezza, ecc.) a una vita quasi normale. Soprattutto al lavoro, ai propri cari, e a cercare di riacciuffare il riacciuffabile di questo Paese e di questa economia che stanno lentamente morendo. Altrimenti che si diano chiare e giustificate, scientificamente e socialmente parlando, ragioni per continuare a tenere (quo usque tandem?) decine di milioni di persone, presumibilmente sane e immuni, in quarantena. Farlo sine die e senza strategie è un rischio colossale le cui conseguenze, a parte quelle che iniziano a essere visibili già ora, si prospettano catastrofiche. Qui non si sta dicendo di fare uscire tutti, ma di fare uno screening per capire chi può uscire. Tenere 60 milioni di persone a casa a tempo indeterminato (perché è questo che sta succedendo ora) è una bomba sociale. Senza contare che non esiste al mondo la garanzia di estinzione del virus in assoluto per sempre e ovunque, e quindi la possibilità di contrarlo, pur se inferiore, resterà, come per ogni altra patologia. Ma non per questo per le altre patologie stiamo barricati in casa. Corriamo il ragionevole rischio. Si chiama vita. Il campa cavallo non porta da nessuna parte. O meglio, il campa cavallo, molto più che il virus, alla fin fine porta ai cipressi (quei famosi cipressi che "a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar...", come diceva Giosuè, premio Nobel).

MaS per “il Giornale” il 23 marzo 2020. A un mese dall' emergenza, non c' è ancora una linea unanime sui tamponi. Ma è chiaro a tutti che il metodo di analisi vada velocizzato: ad oggi i laboratori di microbiologia sono saturi di lavoro ed è già tanto se riescono a formulare una diagnosi entro le 24 ore. I virologi sono divisi sull' efficacia o meno del metodo coreano (finora in sperimentazione a Bologna): grazie al drive-thru, cioè un tampone fatto al paziente sospetto senza che nemmeno scenda dalla sua auto, i tempi si accorcerebbero di gran lunga, fornendo i risultati già in 6 minuti. E sarebbe possibile lo screening a tappeto, rispettando l' indicazione dell' Oms che chiede il maggior numero di test possibili, non solo su chi ha sintomi evidenti. «La strategia adeguata in questo momento è fare i test a tutti i sintomatici, anche lievi» dice chiaro Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute per l' emergenza coronavirus. La stessa richiesta arriva dall' Istituto superiore di sanità che incoraggia i tamponi soprattutto al Sud e nel Lazio, dove i numeri non sono ancora sfuggiti di mano. Al momento tuttavia la situazione è molto disordinata. La Lombardia esclude i test a tappeto perché ormai i numeri del contagio sono troppo alti. Il Veneto invece da oggi ci prova per scovare e isolare i soggetti positivi e asintomatici, incubatori capaci di contagiare ognuno una decina di persone. In Umbria, dove i numeri dell' epidemia sono ben inferiori a quelli lombardi, sta per debuttare un' app, StopCovid19, ideata da una società valtellinese, che ricalca il modello della Corea del Sud: intende cioè tracciare gli spostamenti di tutti e segnalare quando si avvicinano a persone risultate positive. Il governo sta analizzando tutti i pro e i contro del modello che in Corea del Sud ha permesso di dare un ritmo più contenuto (e gestibile) ai numeri dell' epidemia. Ma significherebbe non solo più test ma anche ricostruire la mappa dei contatti tra le persone tracciando i loro spostamenti. A Seul hanno utilizzato una sorta di Google Map locale che mostra una mappa del Paese piena di pallini verdi, gialli o rossi. Quei cerchietti indicano i luoghi visitati da pazienti infetti, con tanto di data dell' avvenimento, nome e indirizzo della zona da evitare. Al di là dei dubbi sul rispetto della privacy, non tutti sono d' accordo con il cambio di rotta sulla mappatura e le diagnosi. «La strategia di contact tracking e diagnosi avviata in Italia è la più razionale ed adatta alle nostre esigenze epidemiologiche. Non va cambiata - frena l' epidemiologo Pierluigi Lopalco - Finiamola con questa sciocchezza che dobbiamo fare più tamponi». Il virologo del San Raffaele Roberto Burioni pone un' altra questione: «In questo momento è fondamentale fare test sui guariti e chi ha sintomi lievi. Sappiamo che molti stanno a casa 15 giorni con sintomi chiarissimamente attribuibili al coronavirus, poi guariscono. Ma alcuni sono ancora positivi. Su di loro è evidente l' utilità del tampone, per evitare che diventino inconsapevolmente veicolo di contagio».

Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2020. La questione dei tamponi, per la ricerca del nuovo coronavirus, è un po' un pasticcio, il parere degli esperti non è univoco e, poi, ci si mette di mezzo la politica. A questo punto è opportuno fare qualche precisazione, ma soprattutto dare un' occhiata al futuro, vedere quali sono i nuovi test in arrivo, come possono aiutare a comprendere meglio l' epidemia e a stimolare la ricerca di nuove soluzioni. Lo facciamo con Roberto Burioni, professore di Microbiologia e virologia all' Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. «Il tampone, attualmente usato per intercettare la presenza del virus nel naso e nella gola, è molto affidabile e preciso. Però - spiega Burioni - ormai non ha molto significato in chi ha sintomi respiratori e per di più ha una polmonite che si può facilmente vedere con una lastra ai polmoni. Finita la circolazione del virus influenzale, questa condizione è praticamente solo da coronavirus». E il tampone non potrebbe nemmeno essere utile in chi ha sintomi lievi: «Queste persone devono, in ogni caso, stare a casa. Così pure i loro contatti. È invece indicato per capire chi è veramente guarito - dice Burioni -. Per parlare di guarigione occorre che due tamponi, eseguiti a distanza di uno o due giorni, risultino negativi». Questi dati, se raccolti in maniera organica, potrebbero aiutare i ricercatori a studiare, alla fine dell' emergenza, molti aspetti che riguardano la diffusione di questa pandemia. Ma potrebbe farlo ancora di più un altro test: la ricerca di anticorpi anti-coronavirus nel sangue. Questi anticorpi rappresentano il segnale della risposta immunitaria dell' organismo al virus. Per due o tre motivi questa indagine è importante. «Punto primo: permette di valutare quante persone sono venute, davvero, in contatto con il virus e si sono difese, anche senza sintomi - precisa Burioni -. Punto secondo, il più importante da valutare nel tempo: dobbiamo capire se queste persone, che hanno sviluppato anticorpi, saranno protette, cioè hanno sviluppato un' immunità, nei confronti di una successiva esposizione al coronavirus». Se la risposta è sì, potremmo mandare «sul campo» (nell' eventualità di una seconda ondata di contagio) queste persone, medici e sanitari, ad affrontare l' epidemia con rischi praticamente zero. E la popolazione «protetta», in generale, potrebbe stare tranquilla. Se è no, c' è un problema. Vuol dire che gli anticorpi sviluppati contro l' infezione non proteggono. E allora sarebbe un guaio per la messa a punto di un vaccino. Perché non sarebbe in grado di stimolare una difesa immunitaria protettiva dell' organismo. E il laboratorio di Burioni al San Raffaele ha già programmato protocolli di ricerca su questo tema. Poi c' è l' idea di sviluppare test rapidi per la diagnosi di infezione (ma non si parla di test disponibili in farmacia!). «Tutti questi test, utili per identificare i potenziali diffusori del virus (magari asintomatici) - conclude Burioni - devono poi essere confrontati con i dati (i Big Data) che ci arrivano dalla tecnologia digitale». In altre parole: attraverso i social, i tracciamenti su Internet, eccetera, eccetera (uniti alla classica ricerca scientifica) noi potremo capire come questa epidemia si sta diffondendo. E studiare nuove armi, per arginare questo virus.

Coronavirus, la denuncia della dottoressa: "Tamponi solo ai vip anche senza sintomi. Sconfortante". Libero Quotidiano il 18 marzo 2020. “È molto sconfortante per noi medici e operatori sanitari vedere politici e personaggi pubblici che sventolano il risultato del tampone, effettuato anche senza avere sintomi”. È la denuncia di Paola Pedrini, segretario regionale Fimmg Lombardia, a Sono le venti, il programma di informazione condotto da Peter Gomez su La7. “A noi medici il tampone non viene fatto - spiega la dottoressa - se prima non manifestiamo sintomi per qualche giorno. Questa situazione è molto sconfortante, noi chiediamo assolutamente che il tampone venga esteso a tutti gli operatori sanitari”. Quest'ultimi si stanno già ammalando in numero consistente, mettendo a rischio la propria salute e quella dei pazienti: al momento rappresentano l’8,3% dei contagiati totali, ciò indica che probabilmente è necessario un cambio di strategia. 

 Il primario: «Tamponi  ai calciatori e non ai medici: questa è discriminazione». Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Nicola Mumoli, direttore Uo Medicina interna Ospedale di Magenta. «Una dottoressa al lavoro fra pazienti affetti da Covid-19 si è ammalata, ma dopo molte chiamate ai numeri nazionali le è stato negato il tampone. Eppure le pagine delle cronache riportano le buone condizioni di calciatori, attori e politici, a cui il tampone è stato fatto». Nella sua lettera al Corriere Nicola Mumoli, primario di Medicina dell’ospedale di Magenta, parla di «discriminazione». Gentile redazione, dirigo l’Unità operativa di Medicina dell’ospedale di Magenta da più di due anni dove da settimane, con immenso e costante sforzo dei miei collaboratori, trovano cura oltre 130 pazienti affetti da Covid 19. L’impegno di ognuno di loro si concretizza in giornate di lavoro che ormai, è noto, disconoscono orari, riposo e recuperi, ma che soprattutto, si nutre inspiegabilmente di quella generosa follia che ci fa esporre ogni giorno allo stesso rischio da cui chiunque invece si difende. Sono attualmente 2.629 i sanitari contagiati — l’8,3% del totale dei colpiti — e tra essi 14 vittime. Tutti hanno nascosto sotto una mascherina la propria identità, nessuno ha cercato visibilità, di loro nessuno ha parlato perché queste notizie «non fanno più rumore del crescere dell’erba», come scriveva Ungaretti. Una mia collaboratrice, impegnata da subito in questa battaglia e con contatti quotidiani con pazienti affetti da Covid 19 disease, pochi giorni fa si è ammalata, manifestando sintomi e segni tipici della patologia virale; contattati più volte i numeri di emergenza nazionale, le è stato negato il tampone. Invece oggi le pagine delle cronache riportano le buone condizioni di calciatori, attori e politici che esattamente come la mia collaboratrice hanno avuto «contatto con persone positive e sintomi da virosi» ma cui, a differenza della dottoressa, è stato eseguito il tampone e quindi formulato un corretto programma sanitario di controllo. Non conoscere, ma solo ipotizzare per la mia collaboratrice un contagio da Coronavirus, oltre a essere ragione di preoccupazione e angoscia, non le consente di applicare le linee guida in fieri sull’eventuale assunzione di farmaci antiretrovirali né di scegliere i corretti tempi del rientro al lavoro. Inevitabile il pensiero di chiunque: grande solidarietà con il personale sanitario, striscioni ovunque, slogan buonisti sbandierati da tutti ma di fatto solo discriminazione e ipocrisia. Se si deve scegliere tra un calciatore e un medico non ci sono dubbi e ci sentiamo condannati a sparire sotto quella mascherina che indossiamo ogni giorno con grande fierezza, esercitando un lavoro che mai come ora consideriamo un privilegio. A nome di tutti i miei collaboratori

 (ANSA il 17 marzo 2020) - Per ogni caso confermato di covid-19 ci possono essere molto plausibilmente altri 5-10 casi 'che girano' non individuati. Questi sono in genere con sintomi più leggeri e sono di per sé meno contagiosi (la metà, il 50%, dei casi confermati), ma sono nel complesso responsabili addirittura di quasi l'80% di tutti i nuovi casi di infezione. È quanto emerso da un rapporto appena pubblicato sulla rivista Science, condotto da scienziati dell'Imperial College di Londra e coordinato da epidemiologi della Columbia University a New York. Lo studio si basa su dati cinesi relativi ai mesi di dicembre e gennaio, quando ancora in Cina non erano state implementate misure di controllo ad esempio sugli spostamenti e con i tamponi a tappeto. Gli scienziati stimano che in quel periodo in Cina circa sei casi su 7 di covid-19 non venivano riconosciuti. "Significa che se in America ci sono 3500 casi di covid-19 confermati - spiega il coordinatore del lavoro Jeffrey Shaman - in realtà ce ne potrebbero essere 35 mila in tutto". E lo stesso vale per tutti i paesi occidentali che hanno iniziato in ritardo a fare i tamponi e che comunque non ne hanno fatti a sufficienza. La situazione non è da sottovalutare, anche perché "anche se si prende la malattia da una persona con sintomi lievi, questo non significa che la si prende in maniera leggera - conclude Shaman -. Potresti ugualmente finire in terapia intensiva", per questo è importante il più possibile implementare i test e rendere disponibili test diagnostici più economici.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2020. Più tamponi, anche per gli asintomatici a rischio, ma non per tutti. Dopo giorni di discussioni e dibattito, la linea che sembra prevalere nelle decisioni di molte Regioni è questa. Le posizioni scientifiche sono diverse, spesso contrapposte, ma le richieste di molti esperti vanno nella direzione di aumentare il numero dei test effettuati, senza arrivare allo screening di massa. La linea del Comitato tecnico-scientifico e del governo continua invece a essere quella di effettuare i tamponi ai sintomatici. Lo spiega bene il presidente dell' Istituto superiore della sanità, Silvio Brusaferro, nella conferenza stampa quotidiana: «I test non sono l' arma decisiva, danno solo una visione istantanea, del momento. Non ci sono scorciatoie: oggi la battaglia si vince con i nostri comportamenti». Sulla linea del Veneto si stanno schierando diverse regioni, dalla Toscana all' Emilia-Romagna, alla Campania. Ma il governatore Luca Zaia sembra frenare: «Non ho mai detto che facciamo tamponi a tutti. Ho detto che li faremo secondo criteri epidemiologici, partendo dagli addetti alla sanità». C' è una questione di costi, che però il governatore riassume così: «Un tampone costa 18 euro e una persona in terapia intensiva costa circa 3 mila euro al giorno». La Sicilia valuta se fare il tampone, nei prossimi giorni, ai 35 mila tornati dal Nord. Sull' aumento del numero dei test si fanno sentire le categorie, a partire da medici e infermieri. Spiega Giorgio Palù, virologo dell' Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia: «Fare 10 mila test nelle microbiologie vorrebbe dire distogliere da altre esigenze, come le infezioni gravi, le setticemie e le meningiti. Andrebbero fatti test mirati: al personale sanitario e a chi non può star chiuso in casa, come le forze dell' ordine, dipendenti pubblici, negozianti. E poi anziani e immunodepressi». Per Palù è inutile uno screening di massa per gli asintomatici: «No, meglio i test che misurano gli anticorpi, come fanno in Cina. Solo così si capisce la tendenza. Costano poco e se ne possono fare molte migliaia al giorno». Ma il comitato dice no ai test rapidi, «inaffidabili rispetto ai tamponi rino faringei». Anche se c' è da segnalare, lo fa Brusaferro, il fenomeno dei «falsi negativi», persone positive che risultavano negative al test. Ogni asintomatico, spiega Zaia, può infettare anche dieci persone. Secondo uno studio condotto da un gruppo di infettivologi e pubblicato sulla rivista Emerging Infectious Diseases, una persona su dieci si infetta entrando in contatto con un asintomatico. Impossibile però individuarli tutti, se il virus assume dimensioni importanti. E una volta fatto il test, non essendoci terapie, l' unico rimedio sarebbe mandare in quarantena i positivi e chi è entrato in contatto. Ma in quarantena dovremmo essere tutti, già ora, senza bisogno di test. Per questo molti specialisti pensano che lo screening di massa ora sia improprio. Si cita spesso il caso della Corea del Sud, dove sono stati fatti 300 mila test, senza misure restrittive per i sani. Ma Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute e rappresentante all' Oms, precisa: «Anche in Corea sono stati fatti tutti a soggetti sintomatici». A Bologna si sperimenta il drive-through , metodo usato in Corea e in Australia, con il test effettuato in automobile. Il presidente di Confindustria dispositivi medici, Massimiliano Boggetti, assicura che alcune aziende si stanno attrezzando per riconvertirsi e produrre tamponi. In una petizione firmata #FuoriDalBuio 1.500 tra medici, docenti e imprenditori chiedono che vengano autorizzati tutti i laboratori tecnicamente capaci di fare i test e quindi di aumentare la capacità diagnostica. Ci sono centri privati, come il Centro medico Santagostino, pronti a fornire tamponi, se autorizzati. L' amministratore delegato, Luca Foresti, annuncia: «Abbiamo anche realizzato un' app che permette di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo». Cina, Corea e Israele usano droni, robot e cellulari per tracciare gli spostamenti. Ma è polemica sull' utilizzo della tecnologia e rischi su privacy e derive antidemocratiche.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2020. Ai tamponi, come arma per combattere la battaglia contro il coronavirus, il governatore Enrico Rossi ci crede eccome. «Sono insostituibili e in Toscana siamo stati i primi a utilizzarli anche nelle persone asintomatiche. Ne stiamo facendo duemila al giorno e pensiamo di salire a breve a quota cinquemila. Ma non ci facciamo illusioni: non li possiamo fare a tutti».

Però ci sono suoi colleghi che parlano di allargare l' esame a tutta la popolazione regionale...

«Stiamo incrementando l' uso dei tamponi e spingendo al massimo per aumentarne la produzione facendo anche accordi con privati. Abbiamo costituito unità speciali ogni 30 mila abitanti che operano su segnalazione dei medici di famiglia. Stiamo inoltre aumentando il numero di laboratori per questo tipo di analisi che da tre sono diventati cinque e presto saranno nove. Ma allo stesso tempo dubitiamo di chi promette tamponi per tutti. Questo significherebbe una potenza di intervento da parte del servizio sanitario inimmaginabile. Non riesco proprio a capire come si possa analizzare un numero altissimo di tamponi al giorno quando per ognuno servono dalle 4 alle 7 ore di analisi, si provocherebbero gravi rallentamenti ai laboratori. E dunque, dopo aver ascoltato gli esperti, in Toscana abbiamo elaborato una nuova strategia di screening pur continuando a fare più tamponi possibili».

Un nuovo metodo per individuare eventuali positivi?

«Sta per partire un grande programma di screening di massa con test sierologici, cioè con esami del sangue più veloci e semplici da effettuare. Abbiamo ordinato 500 mila kit, i primi arriveranno dalla Cina che li ha già sperimentati con successo. Il test sierologico individua quella parte della popolazione che ha avuto un contatto con il virus entro una settimana e ha sviluppato gli anticorpi. Alcuni sono asintomatici, altri hanno manifestato sintomi lievi. Però possono infettare e dunque è importante individuarli. Inizieremo con il personale sanitario, poi passeremo anche al resto della popolazione».

E i tamponi?

«Li utilizzeremo sulle persone risultate positive al test sierologico, quello del sangue per capirci: saranno messe in isolamento e dunque non potranno infettare altri soggetti. Dunque un doppio esame per avere dati ancora più esatti e approfonditi».

Quando inizierete?

«Appena arriveranno i primi kit dalla Cina, credo entro questo fine settimana. Poi arriveranno anche i kit italiani».

Test italiani per individuare i positivi al Covid-19?

«Certamente. In Toscana, a Siena, abbiamo un incubatore di ricerca molto importante nel settore farmaceutico. E un' impresa, si chiama Ds, Diagnostica Senese, che anche con finanziamenti della Regione sviluppa test e fa ricerca con l' Istituto Spallanzani. Stamani (ieri per chi legge, ndr ) ho parlato con Massimiliano Boggetti, amministratore delegato di Ds, che si è detto disponibile a produrre test per la Toscana da usare nello screening».

Presidente, ma i positivi asintomatici che non potranno stare a casa, dove trascorreranno l' isolamento?

«Negli alberghi sanitari. Abbiamo appena firmato un' intesa con gli albergatori che hanno messo a disposizione migliaia di camere nelle quali possiamo ricoverare queste persone. Garantiremo assistenza, vitto e alloggio».

Poi c' è il problema delle terapie intensive...

«Che la Toscana credo abbia risolto. Negli ultimi 15 anni i posti letto nelle nostre terapie intensive sono aumentati di un terzo: da 340 a 447. Ora, con un investimento di 20 milioni, arriveremo a 845 posti che mettiamo a disposizione dell' intero Servizio sanitario nazionale e non solo per la nostra Regione. Rispettando così un principio etico e giuridico che riteniamo categorico. Fortunatamente il coronavirus non aggredisce tutti allo stesso momento».

Coronavirus, la docente: «Occorre moltiplicare i tamponi. Soltanto così si contiene l’epidemia». Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Da più parti c’è l’esortazione verso il governo e le autorità sanitarie perché si aumenti in modo massiccio il numero di tamponi eseguiti in Italia, addirittura allargando lo screening all’intera popolazione e suggerendo alcune metodologie sull’esempio di altri Paesi, in primis la Corea del Sud. A favore dell’allargamento mirato Susanna Esposito, presidente WAidid (Associazione mondiale delle malattie infettive e i disordini immunologici) e professore ordinario di Pediatria all’Università di Parma: «Sono settimane che lo dico. L’Organizzazione mondiale della sanità ha preso una grande cantonata sui tamponi, ha sottovalutato il peso dei portatori asintomatici nella diffusione dell’epidemia: adesso dice di fare più test possibili, ma da poco. Laddove ci sia una diffusione epidemica, è essenziale che si esegua il tampone su tutti i soggetti con sintomi lievi e questo oggi nel nostro Paese non viene fatto».

Perché è così importante?

«Quello che sembra da alcuni studi è che l’eliminazione virale possa durare un tempo mediano di 21 giorni: il 50 per cento dei soggetti sarebbe contagioso oltre il limite dei quattordici giorni di quarantena. Attualmente a chi è febbrile e chiama i numeri di riferimento viene detto di tornare alle normali attività dopo sette giorni dalla risoluzione della sintomatologia».

A chi farebbe fare i tamponi, a tutta la popolazione?

«A tutti quelli che hanno sintomi (anche lievi), a tutti i contatti stretti dei casi positivi anche asintomatici, ai sanitari a contatto diretto con positivi anche se asintomatici: queste sono le priorità assistenziali. In più, per i positivi è necessario eseguire il secondo tampone dopo 14 giorni per capire se si sono negativizzati; a domicilio, oppure come si è fatto da qualche parte con i “drive-through” (presidi all’aperto dove si arriva in auto, si abbassa il finestrino e si viene sottoposti a test da parte di personale protetto, ndr). Il rischio per la comunità sono gli asintomatici che trasportano il virus senza saperlo».

Una delle obiezioni è che il tampone è «la fotografia di un istante»: sono negativo oggi e positivo domani.

«Può essere, ma intanto chi è positivo verrebbe isolato e non continuerebbe a contagiare. I sani che, per esigenze varie, devono uscire dovrebbero indossare la mascherina, proprio per ovviare a questo problema».

La seconda obiezione: come faccio a fare i test in sicurezza, dove trovo gli operatori che vadano nelle case?

«L’hanno fatto in Germania e a Bologna, ci sono questi tendoni e il metodo “drive-through”: potrei farlo anche se ho un po’ di febbre, tanto sono in macchina da solo. Adesso si sta facendo in modo che chi ha 37 di febbre sta a casa tre giorni, poi, appena gli passa, esce».

Gli asiatici dicono: diagnosi precoce e inizio della terapia.

«Molti Paesi sono più “aggressivi” di noi: anche le terapie a base di cocktail di antivirali sono più efficaci, quando prescritte subito. Facendo emergere più positivi all’esordio della malattia avremmo anche questo vantaggio, soprattutto in presenza di fattori di rischio. Intanto abbiamo il maggior numero di morti al mondo, domandiamoci come mai».

E l’aspetto economico?

«Ci sono donazioni di miliardi per comprare ventilatori per assistere la gente in terapia intensiva, che costa 2.500 euro al giorno, un tampone costa 30 euro. Facciamolo a tutti i sintomatici, ai contatti stretti dei positivi e agli operatori sanitari e avremmo gran parte dello screening. Sfuggirà qualcuno? Chi esce dovrà sempre indossare la mascherina chirurgica» 

Coronavirus, bisogna fare più tamponi? Cosa dicono i dati e il modello Corea del Sud. Le Iene News il 21 marzo 2020. L’Oms invita tutti a fare più test per trovare i possibili portatori del coronavirus. In Corea del Sud tamponi a tappeto hanno permesso di controllare la pandemia senza lockdown: questo modello si può replicare anche Italia? “Fare più test”. Questa frase la si sente ovunque, o meglio la si legge ovunque. Ormai uscire di casa per incontrarsi e parlare è non solo difficile, ma pure proibito. Eppure la voce continua a correre: serve fare più tamponi. Lo chiedono i cittadini, lo chiedono i lavoratori impauriti, lo chiedono persino gli operatori sanitari esposti tutti i giorni al coronavirus. Ma tra queste voci ce n’è anche un’altra, la più importante di tutte: quella dell’Organizzazione mondiale della sanità. All’inizio della diffusione del coronavirus, quando la situazione era ancora “solo” epidemica, le indicazioni erano chiare: fare il tampone solo a chi presenta una seria sintomatologia tale da far pensare un contagio da Covid-19. Per chi fosse stato in contatto con un malato, quarantena di 14 giorni. E a queste indicazioni si è attenuta - quasi subito - l’Italia. Tamponi a chi ha sintomi seri, isolamento per tutti, lockdown del Paese. Da qualche giorno però la posizione dell’Oms è parzialmente cambiata: “We have a simple message for all countries: test, test, test.”, “abbiamo un semplice messaggio per tutti i Paesi: test, test, test.”. A cosa è dovuta questa inversione di tendenza? Esiste forse un modello diverso per combattere la pandemia da coronavirus che non sia la chiusura totale delle attività e l’isolamento per tutti? Per cercare di rispondere, partiamo dai dati. In Italia sono stati fatti, a oggi, 206.886 tamponi che hanno trovato positive 47.021 persone: lo 0,078% della popolazione. Quindi circa un tampone ogni 4 ha rivelato la positività al coronavirus a livello nazionale. Però il dato, se analizzato regione per regione, è molto disomogeneo. La Lombardia, la regione più colpita, ha 22.264 casi totali scovati con 57.174 tamponi: più di uno su tre è risultato positivo. Il Veneto, che è la terza regione per numero di casi, ha registrato 4.031 malati attraverso 49.288 tamponi: meno di uno su dieci. Com’è possibile questa discrepanza? Semplicemente perché il governatore Zaia ha deciso di fare molti più test rispetto al suo omologo Attilio Fontana. La logica, dal punto di vista del Veneto, è semplice: se facciamo molti tamponi siamo più in grado di trovare i malati, anche tra coloro che sono asintomatici o hanno sintomi lievi. Così facendo è più facile isolarli e contenere la pandemia. “Modello Corea del Sud”, si è detto. Sì, perché a Seul hanno usato una tecnica molto diversa per gestire l’emergenza da coronavirus: tamponi a tappeto su tutti i cittadini, isolamento e sorveglianza attiva di tutti i positivi, restrizioni alla popolazione in salute in misura minore rispetto a quelle che stiamo conoscendo in Italia.

Anche qui vale la pena leggere i dati: la Corea del Sud ha effettuato sui suoi cittadini oltre 300mila tamponi contro i 200mila italiani, pur avendo 10 milioni di abitanti in meno rispetto a noi. Individuati così tempestivamente i positivi, il governo di Seul ha tracciato mappe degli spostamenti e dei contatti delle persone malate rendendo i dati disponibili a tutti online. Inoltre i numeri dei telefoni delle persone sottoposte a quarantena vengono registrati dal governo per permettere di controllarli. Queste misure hanno causato anche più di un dubbio sul rispetto della privacy dei cittadini, tuttavia la pandemia - la Corea del Sud è il secondo paese dell’Asia più colpito - è stata rapidamente controllata: i positivi sono poco più di 8mila con 92 vittime, e i casi aumentano di circa 100 unità al giorno. Ma perché la Corea del Sud ha applicato un sistema così diverso da quello europeo, in parte andando contro alle indicazioni delle istituzioni sanitarie globali? Perché memore della lezione subìta dalla Mers. Nel 2015 infatti il Paese si trovò a essere colpito da una epidemia del Middle east respiratory desease, un coronavirus per alcuni aspetti simile a quello attuale: il governo e le autorità si trovarono spiazzate e impreparate a gestire l’emergenza. Decisero un parziale lockdown, il turismo e altre attività precipitarono nell’incertezza e ci fu bisogno di un ingente intervento pubblico per far ripartire l’economia. L’epidemia fu per fortuna contenuta con poche centinaia di casi, ma la lezione fu imparata: è per questo che la Corea del Sud ha agito così tempestivamente per arginare la pandemia del nuovo coronavirus. E i dati attuali sembrano dare loro ragione. Allora perché gli altri Paesi non stanno adottando fin dall’inizio un modello simile? In primo luogo nessun altro Paese occidentale ha avuto a che fare con serie epidemie negli ultimi anni, quindi nessuno era preparato come la Corea del Sud a gestire l’emergenza. E poi si pone un altro problema: i nostri laboratori a oggi non sono attrezzati per svolgere più test di quelli che vengono fatti attualmente. Lo ha spiegato chiaramente anche Walter Ricciardi dell’Oms: “La nostra capacita di analisi è tale che non riusciamo a farli nemmeno ai sintomatici”, ha detto. Inoltre, Ricciardi ricorda anche come sia necessario essere certi che i test siano attendibili: "In Germania è stato scoperto che il 70% erano falsi positivi", ha affermato. In questo momento l’Italia non è quindi in grado di seguire il modello della Corea del Sud. Anche se il Veneto e l’Emilia Romagna stanno spingendo per adottare questo tipo di soluzione. Che sia questa la nostra vera arma per fermare la pandemia del coronavirus?

L’esperto: «In Lombardia molti malati  non emergono. Cambieremo strategia». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. «Nei conti del coronavirus non ci sono più né gli asintomatici, né di fatto chi è a casa con febbre, tosse e raffreddore ma non transita da un ospedale. Vuol dire che i potenziali contagiati potrebbero essere molti di più, anche il doppio rispetto alle statistiche. Occorre, quindi, aggiornare le strategie per gestire i pazienti a domicilio oltre che in ospedale». Vittorio Demicheli, epidemiologo dell’Ats di Milano (che comprende anche la provincia di Lodi) e dell’Unità di crisi del governatore Attilio Fontana, parla con franchezza.

Perché il numero di positivi accertati non corrisponde più alla realtà?

«Non sappiamo quanti pazienti si sono contagiati senza sviluppare sintomi o manifestando una normale influenza. Nel tempo l’aumento dei contagiati ha portato a spostare il test con tampone al momento del ricovero».

Ma non sarebbe meglio fare il tampone a tutti?

«Con una diffusione così a tappeto dell’epidemia noi al momento non lo consideriamo significativo. Per più d’un motivo. Innanzitutto l’esito del test è momentaneo: una persona può avere già contratto il virus, ma essere ancora negativa, oppure non averlo, ma mantenere senza saperlo contatti con soggetti positivi. Ogni quanti giorni dovremmo fare il tampone?».

Gli altri motivi?

«Chi ha la febbre ed è a casa ormai è molto probabile che abbia il Covid-19. Farlo andare in ospedale sarebbe ingestibile. E un’équipe può svolgere al domicilio non più di 20-25 tamponi al giorno e parliamo di migliaia di casi. Il tutto per un risultato che non influenza né la terapia né il modo di ridurre il contagio».

La soluzione allora qual è?

«Chi ha i sintomi deve adottare le precauzioni dei positivi accertati: isolarsi in casa e proteggere chi vive con lui. È importante che abbia il medico di famiglia che lo segue».

Finora non è stato così?

«Si, il medico di famiglia resta il punto di riferimento. Oggi, però, vorremmo che potesse restare in contatto con i pazienti a domicilio in modo sistematico e seguirne il decorso, attivando con le unità speciali di continuità assistenziale che stiamo costituendo una visita al domicilio quando serve».

Cosa vuol dire?

«Pensiamo che si possa ridurre molto l’attività di studio e mantenere un contatto continuo telefonico sia con i pazienti Covid-19, sia con chi ha sintomi influenzali, sia con i pazienti più fragili che devono essere incentivati a restare a casa e seguiti anche nei loro bisogni sociali».

Sorveglianza attiva?

«Esatto. All’Ats di Milano oggi abbiamo attivato un portale con un elenco di quasi 140 mila nominativi di persone da seguire da vicino. Ciascun medico di famiglia dovrà farsi carico dei propri pazienti. Monitorandoli al telefono giorno per giorno».

Ma gli asintomatici intanto senza tampone continuano a potersi muovere indisturbati.

«Non deve essere così ed è il grande equivoco. Tutti dovrebbero restare a casa».

Almeno i medici e gli infermieri non sarebbe meglio sottoporli al tampone?

«In questo momento è meglio che dispongano di dispositivi di sicurezza in abbondanza». 

"Tamponi anche sugli asintomatici". Ma gli esperti si dividono. Le Regioni vogliono aumentare i test. L'Iss frena: "La battaglia si vince con i comportamenti". Il pericolo: "Laboratori a rischio intasamento". Luca Sablone, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. "Test, test, test". Questo il messaggio rivolto nei giorni scorsi dall'Oms a tutti i Paesi. Uno slogan che è stato preso al balzo dalla Regione Veneto, che ha annunciato la volontà di andare alla ricerca di pazienti positivi al Coronavirus ma inconsapevoli di esserlo. Luca Zaia ha avanzato la proposta di sottoporre ai tamponi anche gli asintomatici, ponendo una particolare attenzione nei confronti di medici, infermieri e sanitari. E la sua linea è stata sposata anche da altri governatori, che ora chiedono più test: Stefano Bonaccini dell'Emilia-Romagna ha annunciato che aumenterà i controlli "anche fra chi non ha sintomi"; Luca Ceriscioli delle Marche ha annunciato che nella zona di Ascoli Piceno ci si sta "attrezzando con una macchina capace di processarne 800 al giorno, quadruplicando la capacità produttiva di oggi"; nella Toscana di Enrico Rossi i 500mila test seriologici acquistati "saranno a disposizione, su richiesta, dei medici di famiglia e dei pediatri"; la Campania di Vincenzo De Luca avrebbe già ordinato un milione di kit rapidi. Si tratta però di una tematica molto divisiva. Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore della sanità, nel corso del punto stampa quotidiano sull'emergenza Covid-19 in Italia ha sottolineato: "I test non sono l'arma decisiva, danno solo una visione istantanea, del momento. Non ci sono scorciatoie: oggi la battaglia si vince con i nostri comportamenti". Ma il leghista Zaia ha voluto fare una precisazione: l'intenzione non è quella di fare tamponi a tappeto, ma di effettuarli "secondo criteri epidemiologici, partendo dagli addetti alla sanità". C'è sicuramente una questione di costi, ma nei giorni scorsi il governatore ha dichiarato che la vita dei cittadini vale più del bilancio: "Un tampone costa 18 euro e una persona in terapia intensiva costa circa 3mila euro al giorno".

Opinioni contrastanti. Giorgio Palù, già presidente della Società europea di virologia, ha spiegato che fare 10mila test nelle microbiologie vorrebbe dire "distogliere da altre esigenze, come le infezioni gravi, le setticemie e le meningiti". Dunque a suo giudizio andrebbero fatti in maniera mirata: "Al personale sanitario e a chi non può star chiuso in casa, come le forze dell' ordine, dipendenti pubblici, negozianti. E poi anziani e immunodepressi". Il virologo dell'Università di Padova ha sostanzialmente bocciato uno screening di massa per gli asintomatici, preferendo invece i test che misurano gli anticorpi: "Solo così si capisce la tendenza. Costano poco e se ne possono fare molte migliaia al giorno". Il comitato però dice no ai test rapidi, considerati "inaffidabili rispetto ai tamponi rinofaringei". Comunque lo stesso Brusaferro ha posto l'attenzione sul fenomeno dei possibili falsi negativi, ovvero persone positive che tuttavia risultavano negative al test. Ma Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici, ha assicurato che già diverse aziende si stanno attrezzando per riconvertirsi e produrre tamponi. Intanto, come riporta il Corriere della Sera, a Bologna si sperimenta il drive-through: già usato in Corea e in Australia, si tratta di un test che viene effettuato in autonobile. In una petizione firmata #FuoriDalBuio 1.500 tra medici, docenti e imprenditori hanno chiesto che vengano autorizzati tutti i laboratori tecnicamente capaci di fare i test e dunque di aumentare la capacità diagnostica. Luca Foresti, amministratore delegato del Centro Medico Santagostino, ha annunciato la realizzazione di un'applicazione che consente di "tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo".

Coronavirus, tamponi: farli o non farli? Le Regioni accelerano, esperti divisi sugli asintomatici. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Più tamponi, anche per gli asintomatici a rischio, ma non per tutti. Dopo giorni di discussioni e dibattito, la linea che sembra prevalere nelle decisioni di molte Regioni è questa. Le posizioni scientifiche sono diverse, spesso contrapposte, ma le richieste di molti esperti vanno nella direzione di aumentare il numero dei test effettuati, senza arrivare allo screening di massa. La linea del Comitato tecnico-scientifico e del governo continua invece a essere quella di effettuare i tamponi ai sintomatici. Lo spiega bene il presidente dell’Istituto superiore della Sanità, Silvio Brusaferro, nella conferenza stampa quotidiana: «I test non sono l’arma decisiva, danno solo una visione istantanea, del momento. Non ci sono scorciatoie: oggi la battaglia si vince con i nostri comportamenti». Sulla linea del Veneto si stanno schierando diverse regioni, dalla Toscana all’Emilia-Romagna, alla Campania. Ma il governatore Luca Zaia sembra frenare: «Non ho mai detto che facciamo tamponi a tutti. Ho detto che li faremo secondo criteri epidemiologici, partendo dagli addetti alla sanità. Il criterio è quello dell’isolamento fiduciario per chi è positivo asintomatico». C’è una questione di costi, che però il governatore riassume così: «Un tampone costa 18 euro e una persona in terapia intensiva costa circa 3 mila euro al giorno». La Sicilia valuta se fare il tampone, nei prossimi giorni, ai 35 mila tornati dal Nord. Sull’aumento del numero dei test si fanno sentire le categorie, a partire da medici e infermieri. Spiega Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia: «Fare 10 mila test nelle microbiologie vorrebbe dire distogliere da altre esigenze, come le infezioni gravi, le setticemie e le meningiti. Andrebbero fatti test mirati: al personale sanitario e a chi non può star chiuso in casa, come le forze dell’ordine, dipendenti pubblici, negozianti. E poi anziani e immunodepressi». Per Palù è inutile uno screening di massa per gli asintomatici: «No, meglio i test che misurano gli anticorpi, come fanno in Cina. Solo così si capisce la tendenza. Costano poco e se ne possono fare molte migliaia al giorno». Ma il comitato dice no ai test rapidi, «inaffidabili rispetto ai tamponi rino faringei». Anche se c’è da segnalare, lo fa Brusaferro, il fenomeno dei «falsi negativi», persone positive che risultavano negative al test. Ogni asintomatico, spiega Zaia, può infettare anche dieci persone. Secondo uno studio condotto da un gruppo di infettivologi e pubblicato sulla rivista Emerging Infectious Diseases, una persona su dieci si infetta entrando in contatto con un asintomatico. Impossibile però individuarli tutti, se il virus assume dimensioni importanti. E una volta fatto il test, non essendoci terapie, l’unico rimedio sarebbe mandare in quarantena i positivi e chi è entrato in contatto. Ma in quarantena dovremmo essere tutti, già ora, senza bisogno di test. Per questo molti specialisti pensano che lo screening di massa ora sia improprio. Si cita spesso il caso della Corea del Sud, dove sono stati fatti 300 mila test, senza misure restrittive per i sani. Ma Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute e rappresentante all’Oms, precisa: «Anche in Corea sono stati fatti tutti a soggetti sintomatici». A Bologna si sperimenta il drive-through, metodo usato in Corea e in Australia, con il test effettuato in automobile. Il presidente di Confindustria Dispositivi Medici Massimiliano Boggetti assicura che alcune aziende si stanno attrezzando per riconvertirsi e produrre tamponi. In una petizione firmata #FuoriDalBuio 1.500 tra medici, docenti e imprenditori chiedono che vengano autorizzati tutti i laboratori tecnicamente capaci di fare i test e quindi di aumentare la capacità diagnostica. Ci sono centri privati, come il Centro medico Santagostino, pronti a fornire tamponi, se autorizzati. L’amministratore delegato, Luca Foresti, annuncia: «Abbiamo anche realizzato un’app che permette di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo». Cina, Corea e Israele usano droni, robot e cellulari per tracciare gli spostamenti. Ma è polemica sull’utilizzo della tecnologia e rischi su privacy e derive antidemocratiche.

Marco Pasciuti per “il Fatto quotidiano” il 18 marzo 2020. Massimo Galli, direttore del dipartimento Malattie infettive dell' ospedale "Luigi Sacco" e professore ordinario all' Università Statale di Milano.

Il tampone di massa annunciato dal governatore Luca Zaia per la Regione Veneto è una strategia vincente contro il coronavirus?

«Il tampone di massa non ha senso per definizione, perché quel che è negativo oggi può essere positivo domani. In Lombardia abbiamo dovuto fare di necessità virtù testando in primis le persone sintomatiche, anche se fin dall' inizio ho sottolineato la necessità soprattutto per la zona rossa di identificare i contatti avuti da queste ultime per verificare precocemente anche le infezioni sui paucisintomatici e sugli asintomatici».

A Vo' Euganeo sembra aver funzionato.

«Ha funzionato perché il criterio di allargare il numero dei test è stato applicato a un territorio limitato con lo scopo di ricostruire questi contatti. La differenza tra noi e altri Paesi si spiega anche così».

Cioè?

«In termini di letalità (tasso che si calcola dividendo i decessi con il numero dei casi confermati, ndr). In Corea hanno fatto la stessa cosa del Veneto: il numero limitato di morti è semplicemente dato dal fatto che nel denominatore ci sono tantissime persone che stanno bene e non solo, come da noi, quelle che stanno male. Ma ricominciare a fare i tamponi a tappeto ora non ha senso».

Perché?

«Allargarne il numero serve solo a seguire i contatti delle persone con infezione, cosa che può essere fatta soprattutto nelle aree del Centro e del Sud dove il virus non è arrivato ancora in maniera significativa per circoscrivere il più rapidamente possibile gli eventuali focolai. Può essere fatto anche nelle aree metropolitane al Nord, lì dove si venissero a verificare concentrazioni in particolari luoghi o settori».

Come nell' area di Milano?

«No, il modello Vo' lì sarebbe troppo dispersivo perché l'area è troppo popolosa. Fare lo screening a un' intera città o a un' intera Regione non ha senso. Potrebbe averlo se lo si applica su un singolo quartiere, nel momento in cui vi si riscontrasse una quantità ingente e crescente di infezioni. La necessità resta quella di circoscrivere eventuali focolai nascenti».

Da quali categorie bisogna partire?

«Dove non ci sia la possibilità di sostituirlo con qualche test sierologico, bisognerebbe prevedere una copertura per gli operatori sanitari. Gli ospedali sono sempre a rischio di amplificazione delle malattie».

Questa strategia potrebbe accorciare anche la durata delle misure straordinarie che stiamo sperimentando a livello nazionale?

«Sicuramente ne implementerebbe l'efficacia. Lo screening è importante sia nelle aree molto colpite sia in quelle che finora non lo sono, ma la vera grande misura resta ovunque questo distanziamento sociale che stiamo vivendo».

La ricetta di Ricciardi (Oms): “Tamponi solo ai sintomatici e tracciamento elettronico”. Claudio Rizza su Il Dubbio il 19 marzo 2020. “Sull’idea di immunizzarsi dal coronavirus infettandosi preferisco non parlare, la scienza ha già dato il suo parere e gli aggettivi sono finiti”. Ogni settimana si parlano in videoconferenza da tutto il mondo. Sono i consiglieri scientifici dei presidenti, capi di Stato e premier. C’è quello di Trump, che fa da coordinatore, Kevin Droegemeier, nominato solo a gennaio, dopo tre anni di vuoto, e con i capelli dritti per la fatica che ha dovuto fare a far ragionare il presidente degli Stati Uniti, campione di sottovalutazione del coronavirus, tanto da far rabbrividire gli scienziati di mezzo mondo. Droegemeier ha però avuto una fortuna, aiutato da consiglieri politici e commentatori conservatori: Trump era sulla direttissima per perdere le elezioni di novembre e tornarsene a casa. Lo ha capito in extremis, anche se bar e ristoranti non sono ancora chiusi e mentre le fabbriche d’armi stanno facendo affari d’oro: la gente si prepara a difendere le provviste, già svaligia i supermercati, e pensa di contenere la affamata rivolta sociale a suon di proiettili. Gli Usa, si sa, non hanno servizio sanitario nazionale e i poveri neanche un’assicurazione. La salute costa carissima. In linea c’è anche Patrick Vallance, consigliere di Boris Johnson, che essendo esperto di biomedica e senza esperienza di virus né competenza sulla sanità pubblica. Infatti gli inglesi sono nelle mani di Dio Boris che crede di immunizzare la perfida Albione facendo ammalare tutti o quasi. E anche in questo caso gli scienziati rabbrividiscono. Però possono ubriacarsi al pub, per non pensarci.

I consiglieri scientifici di Canada, Brasile, Giappone, Germania, Francia, Corea e Italia fortunatamente sono più attrezzati e la classe politica tiene in massimo conto i loro pareri. La riunione è appena terminata e il nostro Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, Speranza, ex presidente dell’Istituto superiore di sanità, oltre a tanti altri incarichi di prestigio, fa il punto sull’Italia e sul virus. Il problema, che spunta oggi qui e là nella babele del web, ancor più pericolosa adesso che la gente impaurita è costretta in casa, sballottata tra ansie e noia, è l’idea che stare chiusi non si può per troppo tempo, forse bisognerebbe allargare le maglie, vivere di più, lavorare, girare, sperando che il virus molli la presa. Una delle tesi aperturiste viene dalla famosa Ilaria Capua, che sta in America, colpita anch’essa dal morbo narcisista che ha infettato tutti gli scienziati e i medici mediatici: ormai si azzuffano in diretta, gelosi delle loro medicine, dei ritrovati antivirus, e pure della sperimentazione che l’Aifa ha consentito sul farmaco anti artrite reumatoide. La Capua, giova ricordarlo, come virologa veterinaria è un’eccellenza mondiale nel suo campo, quello animale. Dell’uomo e di sanità pubblica va più a orecchio. E la sua uscita morbida sul “restate a casa” a molti non è piaciuta.

Professor Ricciardi, c’è un sacco di gente che va in ordine sparso. Bisogna fare i tamponi a tutti, come avrebbe fatto la Corea che è riuscita a limitare moltissimo la propagazione del virus?

«Un risultato incredibile e straordinario. Vorrei raccontare cosa ci ha appena detto il consigliere scientifico di Seul, interpellato proprio su questo. E’ falso che i coreani abbiano fatto tamponi a tappeto. Ne hanno fatti 300 mila e solamente ai soggetti sintomatici. Dopodiché hanno tracciato elettronicamente i loro spostamenti e quelli di coloro che erano stati in contatto coi malati».

Tracciamento che si fa grazie ai cellulari e alla cellule telefoniche, le stesse usate dalla polizia e pubblicizzate nei film?

«Esattamente. Si risale a dove e con chi sei stato e si prendono le misure opportune: tamponi, quarantena, isolamento. Così non si scappa».

Gli europei si stanno muovendo sulla scia dell’Italia. Ma non tutti. Gli inglesi vanno dietro a Boris Johnson, i francesi sono più avanti no?

«Dell’idea di immunizzarsi dal coronavirus infettandosi preferisco non parlare, la scienza ha già dato il suo parere e gli aggettivi sono finiti. La Francia ha capito e fa bene a seguire la linea italiana».

Cosa avete deciso stamattina?

«L’unica strada corretta è distanziamento sociale e tamponi mirati, più il tracciamento elettronico. A Huan hanno quasi finito coi contagi, siamo agli sgoccioli. Sono stati bloccati tre mesi, lì sono dieci milioni. Ma il resto della Cina, che è immensa, ha continuato a lavorare e produrre. Il problema che dovremo risolvere è infatti quello di isolare il virus e non bloccare il Paese. Bisogna trovare un modello che ci aiuti. Ma finché non si trova, non esiste alternativa a rimanere a casa. E’ sicuro che funziona per non far propagare il virus».

In Italia contagiate più di 100.000 persone:  lo dicono i modelli matematici. Brescia ora è prima per nuovi casi - I numeri. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Uno studio non revisionato e basato su modelli matematici di previsione mostra come in Italia la popolazione di contagiati potrebbe essere di oltre 100.000 persone. La pubblicazione è stata fatta sul sito medRxiv ed è firmata da Livio Fenga dell’Istat. La stima corregge la mancanza di dati sul numero di infetti, calcolando in via statistica anche quelli che sono a casa in isolamento e gli asintomatici. I risultati mostrano che, mentre i dati ufficiali al 12 marzo riportano 12.839 casi in Italia, le persone infette dal SARS-CoV-2 potrebbero essere 105.789. Il calcolo ovviamente - si dice - presuppone anche dei margini di errore ma è stato fatto cercando di superare anche una serie di variabili. Usando i numeri certi, cioè i decessi e il numero di persone risultate positive al virus, il documento mira a stimare il numero reale di persone infette da SARS-CoV-2, in ciascuna delle 20 regioni italiane. Il set di dati include 18 punti di raccolta giornalieri a livello regionale durante il periodo dal 24 febbraio al 12 marzo. Il numero totale di regioni italiane considerate è 20. Tuttavia, un’area amministrativa speciale (Trentino Alto Adige) è divisa in due sottoregioni, ovvero Trento e Bolzano. Ci sono stime per difetto e per eccesso secondo cui i casi in Italia sarebbero tra i 74.950 e i 105.789. In Lombardia tra i 37.744 e i 49.723, in Emilia Romagna tra i 10.980 e i 14.897. Anche la Fondazione Gimbe ha fatto un calcolo analogo che arriva a risultati simili: «Ci sono almeno 100mila casi di contagi al coronavirus , di cui 70mila non identificati, mentre i tassi di letalità in Lombardia ed Emilia Romagna, prossimi al 10%, documentano un sovraccarico degli ospedali», ha detto il presidente Gimbe, Nino Cartabellotta, intervistato dal Sole 24Ore. «Assumendo una distribuzione di gravità della malattia sovrapponibile a quella delle coorte cinese – spiega Cartabellotta – si può ipotizzare che la parte sommersa dell’iceberg contenga oltre 70.000 casi lievi/asintomatici non identificati». Un nuovo studio pubblicato su Science a partire da casi di coronavirus cinesi e modelli matematici ci diceva questa settimana che l’86% di tutti positivi non sono stati documentati e che le infezioni non documentate (che avevano sintomi lievi, limitati o assenti), sebbene meno contagiose, sono state la fonte di trasmissione per il successivo 79% dei casi certi. Secondo le stime così fatte, il tasso di letalità diminuisce rispetto a quanto calcolato nelle statistiche ufficiali, c’è però da dire che la sottostima dei positivi è, in modo più o meno variabile, comune anche ad altri Paesi che hanno affrontato l’emergenza, ad esempio la Cina, dove ad un certo punto venivano considerati positivi i sintomatici gravi nemmeno testati con tampone, ma in base alle radiografie. Mentre il tasso di letalità ora è calcolato a circa 7,9%, con oltre 100.000 positivi andrebbe a 2,4% , allineandosi a quello di Wuhan ma aggravato dalla situazione di emergenza delle terapie intensive in alcune zone. La letalità scende ma la diffusione è sottostimata per cui bisogna #stareacasa perché il rischio di propagazione è ancora più forte: non conosciamo i casi che il sistema non rileva e potrebbero quindi essere moltissimi. In attesa di un tracciamento più puntuale, come richiesto da più parti (ma difficile in ambito emergenziale), quel che ci protegge e permette soprattutto di non portare al collasso le terapie intensive, è il distanziamento sociale. E dipende da noi.

«Per ogni caso positivo ce ne sono 5-10 non tracciati»: il modello matematico. Quando arriverà il picco? Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Un nuovo studio pubblicato su Science a partire da casi di coronavirus cinesi e modelli matematici ci dice che l’86% di tutti positivi non sono stati documentati e che le infezioni non documentate (che avevano sintomi lievi, limitati o assenti), sebbene meno contagiose, sono state la fonte di trasmissione per il successivo 79% dei casi certi.

Lo studio. Questa stima, fatta da Ruiyun Li e colleghi dell’Imperial College London, ha incrociato i dati sui positivi rilevati in Cina, con dati geolocalizzati sugli spostamenti della popolazione nel periodo prima delle restrizioni di viaggio del 23 gennaio 2020. Nel modello i casi erano divisi tra persone positive al tampone con sintomi abbastanza gravi da essere confermati e soggetti infetti privi di tampone più o meno sintomatici (lievi, limitati o assenti). Oltre al rischio di contaminazione da persone asintomatiche o con lievi sintomi, i ricercatori hanno documentato anche come, dopo la chiusura delle città, il tasso di contagiosità del virus, che si chiama “erre con zero”, sia sceso da 2,38 (dal 10 al 23 gennaio) a 1,36 (tra il 24 gennaio e il 3 febbraio) e ancora a 0,99 tra il 24 gennaio e l’8 febbraio, visto che anche in Cina le restrizioni sono state progressive. Arrivare a un Ro pari a -1 significa aver interrotto la catena dei contagi e la diffusione del virus.Questa stima, fatta da Ruiyun Li e colleghi dell’Imperial College London. Dopo la chiusura più completa anche la contagiosità delle infezioni non rilevate è scesa, riflettendo il fatto che a quel punto «solo le infezioni molto lievi e meno contagiose sono rimaste prive di riscontro o – scrivono i ricercatori - che il comportamento protettivo individuale e le precauzioni di contatto si sono dimostrate efficaci». I risultati sono paralleli ad altre ricerche sul ruolo degli asintomatici. In questo caso si parlava in realtà di sintomi lievi e/o assenti che, per quanto meno infettivi, è stato stimato potenzialmente in grado di contagiare il 55% delle persone entrate a contatto con loro. E i ricercatori hanno evidenziato come pazienti di età inferiore ai 30 anni hanno maggiori probabilità di manifestare sintomi lievi. Il modello mostra che, nelle due settimane successive alla limitazione della Cina, il 60% delle infezioni è stato documentato perché la capacità di controllo era aumentata. I ricercatori nel paper sottolineano l’importanza di test diffusi, in particolare durante le prime fasi di un’epidemia. «Procedure di test più attive segnalerebbero più casi che permetterebbero di ricostruire e spezzare sistematicamente le catene di contagio», ha detto ai giornalisti Jeffrey Shaman, co-autore dello studio. Il tracciamento consente di isolare i contagiati non sintomatici, per impedire che infettino altre persone, e di fornire loro cure tempestive (e sicure per il personale sanitario) nel caso manifestino i sintomi. «Significa che se in America ci sono 3.500 casi di COVID-19 confermati - spiega il coordinatore del lavoro Jeffrey Shaman - in realtà ce ne potrebbero essere 35mila in tutto». E lo stesso vale per tutti i paesi occidentali che hanno iniziato in ritardo a fare i tamponi e che comunque non ne hanno fatti a sufficienza.

Davide Lessi per “la Stampa” il 18 marzo 2020. «Zaia? Sì, lo sento spesso per messaggio. Era molto soddisfatto che l' Oms ci abbia dato ragione: bisogna fare più tamponi». Andrea Cristanti, 65 anni, risponde al telefono in una delle rare pause caffè. Dopo 20 anni di ricerca e insegnamento all' Imperial College di Londra, oggi guida il laboratorio di Microbiologia e Virologia dell' azienda ospedaliera di Padova da dove è diventato il referente sanitario della politica "tamponi a tappeto" sponsorizzata dal governatore.

Il Veneto vuol fare 11mila tamponi al giorno, contro i 3.200 attuale. Qual è la logica?

«Il punto di partenza è che l' infezione da coronavirus si diffonde perché c' è una grande percentuale di persone senza sintomi ma infette».

Come siete arrivati a questa constatazione?

«Perché a Vo', il primo comune veneto diventato focolaio, abbiamo fatto i test su tutti i 3300 abitanti. Dall' osservazione empirica ci siamo accorti che il 75% degli abitanti erano infetti ma asintomatici. Il fatto che poi quel comune sia finito in una delle prime zone rosse ha permesso isolare tutti i contagiati senza sintomi, con un tasso di guarigione del 50% in pochi giorni».

L' obiettivo del maxi-piano è scovare gli asintomatici per metterli in isolamento?

«Sì, ma sappiamo che non è possibile fare il tampone a tutti i 4,9 milioni di abitanti del Veneto. L' obiettivo non è la casalinga che sta bene ed esce a fare la spesa ma i contatti di un eventuale paziente infetto".

Come verranno scelti i cittadini a cui sottoporre il test?

«No, partiamo dalle segnalazioni. Con la Croce Rossa raggiungiamo l' abitazione di chi ha chiamato il medico curante perché aveva sintomi. Poi non ci limitiamo a fare il tampone alla persona che ci ha contattato ma ai parenti, gli amici e le persone del vicinato con cui ha avuto delle relazioni. Solo così possiamo evitare il nascere di tanti micro-focolai».

C' è un problema di sostenibilità? Quanto costa un tampone?

«Un tampone costa 30 euro. Un letto in terapia intensiva fino a 2500 euro al giorno ma il punto non è economico davanti a un' emergenza del genere"

Qual è?

«Usare le armi giuste contro l' epidemia. E sono due: il contenimento e la sorveglianza».

In Veneto sembra aver funzionato meglio rispetto alla Lombardia. Le misure governative sono le stesse. Perché?

«Abbiamo adottato misure di prevenzione più forti. Un esempio: i presidi sanitari, a parte poche eccezioni, sono diventate delle fortezze per la tutela di chi ci lavora. La Lombardia ha 700 tra medici e infermieri infetti, noi molti meno».

Avete preso esempio da altri?

«Il modello Veneto, oltre che a Vo' guarda alla Corea del Sud: con una politica di sorveglianza a tappeto sta funzionando».

Altre Regioni vi hanno chiesto come funziona?

«Sì, Campania e Toscana. Penso che quest' ultima si appresti a seguire il nostro esempio».

La domanda che si fanno in tanti: quando finirà?

«Ci vorranno mesi per uscire da questa situazione. In questi giorni si nota una diminuzione della percentuale dei contagi ma non possiamo ancora sbilanciarci. Le misure del governo sono quelle giuste».

Zaia vorrebbe vietare le passeggiate. Condivide la stretta?

«Più stiamo a casa e prima ne usciamo, in un certo modo concordo. Se tutti usciamo a fare una passeggiata da soli, poi tanto soli non lo siamo più».

La mossa delle Regioni: "Vogliamo fare tamponi a tappeto". Il ministro Speranza frena, così come l'Oms e il comitato tecnico scientifico: "No a screening di massa". Ma il modello Zaia piace anche agli altri governatori. Luca Sablone, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Il Veneto è visto da molti governatori come la Regione modello per quanto riguarda il piano sui tamponi per arginare la diffusione del Coronavirus: Luca Zaia nei giorni scorsi ha annunciato l'intenzione di andare alla ricerca di pazienti positivi al Covid-19 ma inconsapevoli di esserlo. Tradotto: test a tappeto. Altri suoi colleghi hanno sposato l'idea di fare luce anche sugli asintomatici, ponendo una particolare attenzione nei confronti di medici, infermieri e sanitari. Per l'Emilia-Romagna, ad esempio, Stefano Bonaccini ha annunciato che aumenterà i controlli "anche fra chi non ha sintomi". Per le Marche Luca Ceriscioli ha annunciato che nella zona di Ascoli Piceno ci si sta "attrezzando con una macchina capace di processarne 800 al giorno, quadruplicando la capacità produttiva di oggi". Pure per la Toscana Enrico Rossi ha spiegato che i 500mila test seriologici acquistati "saranno a disposizione, su richiesta, dei medici di famiglia e dei pediatri". Per la Campania invece Vincenzo De Luca avrebbe già ordinato un milione di kit rapidi.

Il modello Veneto. Nella giornata di ieri Zaia è uscito nuovamente allo scoperto affermando che "un tampone non fa mai male a nessuno" e che comunque se venisse trovato un solo positivo ne verrebbero evitati altri 10. Il leghista ha già ordinato di eseguirli sui 54mila dipendenti del sistema sanitario e i 3.150 medici di base. Tuttavia occorre fare una precisazione: "Non saranno tamponati tutti i veneti, sarebbe uno spreco di risorse. La casalinga che sta bene, ed esce con la mascherina per fare la spesa, non ha bisogno di test". Il prof Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia e Virologia di Padova, ha fatto sapere che andrebbero infatti effettuati dei tamponi ai contatti di un malato con l'intento di "trovare i portatori sani, chi sta vicino ai contagiati. Se una persona telefonerà segnalando sintomi da Coronavirus, manderemo i sanitari a fare il tampone a lei, ai familiari e agli inquilini del palazzo". Successivamente si passerà alle categorie più esposte come i cassieri dei supermercati, riporta La Repubblica.

Scienza e governo si oppongono. Ma c'è chi dice no. Su tutti l'Oms, che recentemente ha fissato un imperativo: "Test, test, test". Uno slogan preciso che però, fa notare Walter Ricciardi, non equivale a dire "fare tamponi a tutti". Il consulente del Ministero della Salute ha infatti chiarito che si limita a sottolineare "la necessità di effettuarli sui pazienti sintomatici con fattori di rischio, legati cioè al contatto con un soggetto positivo o proveniente da aree geografiche ad alta circolazione del virus". Un ulteriore monito è arrivato da Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Organizzazione mondiale della sanità, che giudica gli esami di massa "scientificamente inutili e logisticamente impossibili" in quanto il test "fotografa la situazione hic et nunc" e dunque andrebbe ripetuto altre due volte per accertarne l'esito. La linea del governo si basa sui consigli esposti dal Comitato tecnico scientifico, la cui indicazione principale è sì quella di "aumentare il più possibile l'identificazione e la diagnosi su casi sospetti e contatti sintomatici di casi confermati", ma senza suggerire "la raccomandazione ad effettuare screening di massa". Perciò il titolare del dicastero della Salute, Roberto Speranza, sostiene che il tampone "è la fotografia di un istante, puoi trovarlo negativo e il giorno dopo è positivo" e dunque non lo considera decisivo. A lanciare l'allarme è stata infine Claudia Dello Iacovo, delegata regionale per la Puglia dell'Ordine nazionale dei biologi, intervenuta duramente contro le iniziative autonome da parte delle Regioni: "Non passi l'idea che ciascuno possa liberamente prenotarsi tamponi o, peggio, comprarseli in farmarcia, per poi farli da solo, magari a casa propria". A suo giudizio i risultati potrebbero rivelarsi deleteri considerando che "la comparsa degli anticorpi igm non è evidenziabile prima di 4-5 giorni dall'infezione".

TAMPONATECI TUTTI. PERCHÉ IL GOVERNO NON HA MESSO IN CAMPO UNA STRATEGIA D'URGENZA SUI TAMPONI? Dagospia il 16 marzo 2020. Fabrizio Presicce, dirigente di urologia dell'ospedale San Filippo Neri di Roma, su Facebook: Oggi il mio post di analisi sui dati del COVID-19 avrà un tono polemico. Non è per partigianeria verso questo o quel partito politico, ma trovo le misure in ambito sanitario, sinora adottate dal Governo e dalla Protezione Civile, insufficienti e tardive da un punto di vista oggettivamente scientifico. Provo a spiegare meglio le mie ragioni:

Figura 1: Partiamo dalle buone notizie. In termini assoluti i numeri sembrano ogni giorno più sconfortanti ma l’incremento percentuale quotidiano dimostra negli ultimi giorni un trend stabile/al ribasso. Non è ancora l’agognato picco ma confido che da metà/fine della prossima settimana si apprezzeranno ancora meglio i benefici delle misure restrittive adottate sette giorni fa. Passiamo ora alle dolenti note per Governo e Protezione Civile…

Figura 2: Il Veneto tra tutte le Regioni è quello che ha già raggiunto un plateau in termini di deceduti e di pazienti in terapia intensiva. Inoltre anche in termini di pazienti in isolamento domiciliare è la Regione con il trend meno ripido.

Figura 3: Cosa fa il Veneto che le altre Regioni non fanno? Guardate il numero di tamponi! In proporzione per numero di abitanti è la Regione d’Italia che ha fatto più tamponi di tutte. Inoltre, come riportato ieri e oggi da numerosi organi di stampa, il Governatore Zaia ha intenzione di incrementare ulteriormente l’utilizzo dei tamponi.

Figura 4: Perché fare tamponi è importante? Leggete questo trafiletto che proprio oggi il Prof. Burioni ha deciso di twittare sul proprio profilo. Per fortuna in questa battaglia che conduco da settimane sull’implementazione nell’utilizzo di tamponi non sono solo. La pensano come me eminenze scientifiche come il Prof. Burioni, il Prof. Galli, il team di esperti cinesi che hanno gestito l’epidemia di Wuhan, la Corea del Sud (modello di grande successo), l’articolo del Lancet che provo ogni giorno a rilanciare. Ora mi chiedo perché davanti a queste evidenze non si provi ad incrementare il numero di tamponi? A mio avviso dovrebbe essere la priorità nel piano di azione del Governo Centrale e della Protezione Civile. Invece da giorni, dopo aver varato le misure restrittive in colpevole ritardo, Governo e Protezione Civile mi sembrano ormai appiattiti nel comunicare il triste bollettino di malati e morti alle ore 18, passivi nell’attesa di osservare l’agognata inversione del picco. Da settimane avrebbero dovuto trovare il modo di incrementare il numero di tamponi da eseguire e di dispositivi di protezione. I Dispositivi di protezione individuale (DPI) per il personale sanitario sono fondamentali perché l’organico era già carente prima, figurarsi ora in piena emergenza. Quindi, è poco utile bandire nuovi concorsi se già prima andavano deserti. Piuttosto bisogna preservare le risorse già esistenti e non rimpiazzabili con l’utilizzo di adeguati DPI. Sorvolando sulle vergognose dichiarazioni del Dr. D’Ancona di ieri apprendo mezzo stampa che solo oggi Conte si sta decidendo a dare un’accelerata sulla produzione/importazione di DPI. Pensarci due settimane fa, no? L’utilizzo su larga scala dei tamponi è utilissimo. Le misure restrittive da sole sarebbero sufficienti se tutti fossimo chiusi in casa, non infettando altri. Tuttavia tralasciando gli irresponsabili, ci sono alcuni individui che sono costretti a circolare ed entrare in contatto con altri (personale sanitario, di polizia, filiera agro-alimentare, banalmente chi esce a far la spesa). Se qualcuno tra chi circola dovesse essere inconsapevolmente infetto, contagia anche altri che circolano e poi tornando a casa questi a loro volta infettano i congiunti rallentando lo spegnimento del contagio. Per questo tutti quelli che di necessità circolano dovrebbero essere sottoposti ai tamponi periodici. Inoltre i tamponi sono utili perché permettono di individuare precocemente pazienti diffusori asintomatici e approntare misure di isolamento e circoscrizione del focolaio immediate. Qualcuno potrebbe obiettare che non è possibile incrementare il numero di tamponi eseguibili. In realtà l’esempio Veneto dimostra che è fattibile. Inoltre non penso sia accettabile da parte di un Governo lungimirante un atteggiamento del tipo “non ci sono, non si fanno”, l’obiettivo dovrebbe essere “non ci sono ma servono, diamoci da fare per produrre ogni giorno, ogni ora più DPI e tamponi!”. Insufficiente anche gran parte della stampa: appiattita sul bollettino dei morti/contagiati, sul rilanciare quotidianamente un medicamento miracoloso differente e a raccontare quanto sono bravi gli Italiani a cantare dai balconi. C’è poca inchiesta, poco approfondimento sui temi cruciali, poco pungolo ad azione di Governo. Ad esempio nessuno si è ancora chiesto che fine abbia fatto il Prof. Domenico Arcuri, nominato in pompa magna 4 gg fa super commissario all’emergenza. CHI L’HA VISTO? ?

FARE TAMPONI A TUTTI COSTA MOLTO MENO DELLE TERAPIE INTENSIVE (PER NON PARLARE DELLE VITE UMANE). Dagospia il 16 marzo 2020. Lettera di Sergio Romagnani, Già Professore di Immunologia Clinica e Medicina Interna, Professore Emerito dell’Università di Firenze. Carissimo Direttore: Visto che la mia previsione fatta nella precedente lettera del 25 febbraio u.s. è risultata esatta, in quanto la Lombardia sta vivendo la fase della difficoltà ad avere disponibili i letti di terapia intensiva necessari per salvare i pazienti affetti da polmonite con insufficienza respiratoria a seguito della infezione da virus Covid-19 ed io mi auguro che la Regione Toscana abbia nel frattempo provveduto ad aumentare le proprie diponibilità, mi permetto di sottoporre all’attenzione generale ed in particolare alle autorità sanitarie regionali un altro punto che a mio avviso merita di essere indubbiamente preso in considerazione. Mi riferisco ai risultati dello studio epidemiologico effettuato nel paese veneto di Vò su suggerimento e sotto la direzione del Dr. Andrea Crisanti, Direttore della Cattedra dell’Unità Diagnostica di Microbiologia e Virologia dell’Università di Padova. Premetto che il Dr. Crisanti subito dopo la laurea in Medicina ha frequentato il mio laboratorio di Immunologia per un periodo di sei mesi nel 1981, e successivamente si è trasferito nel Regno Unito diventando un virologo di fama internazionale e che è recentemente rientrato in Italia perché chiamato “per chiara fama” come Professore di Microbiologia presso l’Università di Padova. Avendo letto sul Corriere della Sera del 14 marzo u.s. del suo studio di Vò ho pertanto deciso di contattarlo personalmente per avere il riassunto dei risultati di questo studio. Quando ci siamo parlati, ha esordito con una frase per me molto commovente: “il breve periodo nel tuo laboratorio è stato fondamentale per la mia formazione e mi ha fatto capire che la ricerca era la mia strada”. Poi mi ha descritto i risultati del suo studio. In questo studio è stato eseguito il tampone per la ricerca del Covid-19 a tutti gli abitanti del paese di Vò ed è stato dimostrato che la grande maggioranza delle persone che si infetta, tra il 50 e il 75%, è completamente asintomatica, ma rappresenta comunque una formidabile fonte di contagio.  A Vò infatti con l’isolamento dei soggetti infettati il numero totale dei malati è scesa da 88 a 7 (almeno 10 volte meno) nel giro di 7-10 giorni. Quello che è anche più interessante e in parte sorprendente, è stata anche la dimostrazione che l’isolamento dei contagiati (sintomatici o non sintomatici) non solo risultava capace di proteggere dal contagio altre persone, ma appariva in grado di proteggere anche dalla evoluzione grave della malattia nei soggetti contagiati perché il tasso di guarigione nei pazienti infettati, se isolati, era nel 60% dei casi pari a soli 8 giorni. Questi dati forniscono due informazioni importantissime:

1) la percentuale delle persone infette, anche se asintomatiche, nella popolazione è altissima e rappresenta la maggioranza dei casi soprattutto, ma non solo, tra i giovani;

2) l’isolamento degli asintomatici è essenziale per riuscire a controllare la diffusione del virus e la gravità della malattia. Alla luce di questi dati straordinari, è evidente che le attuali politiche di contenimento del virus devono essere riviste. Risulta infatti assolutamente fondamentale per bloccare la diffusione del virus identificare il più alto numero possibile di soggetti asintomatici che sono fonte importante della malattia e di identificarli il più precocemente possibile.

Sulla base dei dati ottenuti a Vò, è già iniziata in tutto il Veneto una “sorveglianza attiva massiva”, cioè si è deciso in quella regione di sottoporre a tampone tutti i lavoratori più esposti al contagio (medici, infermieri, forze di polizia, lavoratori costretti per il loro tipo di lavoro ad avere molti contatti inter-personali), anche se asintomatici, uno studio finanziato da un industriale veneto il cui nome è sconosciuto, allo scopo di scovare tutti gli individui infetti, anche se asintomatici, e quindi di isolarli come è stato fatto nello studio pilota di Vò.

La prima considerazione che scaturisce da questa esperienza è che l’attuale modalità nazionale e quindi anche della nostra regione di affrontare il problema della infezione da Covid-19 (fare tamponi solo alle persone sintomatiche) è l’opposto di quello dovrebbe invece essere fatto. Infatti, adesso che il virus circola ampiamente non è più così importante fare il tampone ai soggetti sintomatici. Tutti coloro che presentano febbre, tosse e sintomi respiratori dovrebbero comunque essere posti in isolamento o essere trasportati in ospedale e curati in modo appropriato alla loro sintomatologia e tutti coloro che sono stati esposti a questi soggetti dovrebbero comunque stare in isolamento. Quello che però sembra adesso cruciale nella battaglia contro il virus è cercare di scovare le persone asintomatiche ma comunque già infettate, le quali hanno una maggiore probabilità di contagiare visto che nessuno le teme o le isola. Questo è particolarmente vero per categorie come i medici e gli infermieri che essendo esposti al virus sviluppano frequentemente un’infezione asintomatica continuando a veicolare l’infezione tra loro e ai loro pazienti. In molte regioni infatti, sia italiane che internazionali, si sta infatti decidendo di non fare più il tampone ai medici e agli infermieri a meno che non sviluppino sintomi. Ma alla luce dei risultati dello studio di Vò, questa decisione può essere estremamente pericolosa; gli ospedali rischiano di diventare zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun affetto è isolato. Il rischio di contagio per i pazienti e tra colleghi rischia di diventare altissimo ed esiste anche il rischio di creare delle comunità ad alta densità virale che sono quelle che, secondo lo studio di Vò, favoriscono anche la gravità del decorso della malattia. E’ quindi assolutamente essenziale estendere i tamponi alla maggior parte della popolazione, in particolare alle categorie a rischio (cioè esposti a contatti multipli), e quindi isolare i soggetti positivi al virus ed i loro contatti, anche se asintomatici, quanto più precocemente possibile. In particolare, è assolutamente necessario fare i tamponi a tutti coloro che hanno una elevata probabilità di trasmettere il virus, specialmente se vivono in comunità chiuse e con contatti molteplici e ravvicinati. Infine, è importantissimo che tutti i soggetti a rischio indossino le mascherine, non tanto per proteggere sè stessi dall’infezione, ma piuttosto per proteggere gli altri da sè stessi, anche quando non presentano sintomi. Si potrebbe obiettare che i costi di un numero elevato di tamponi, nonché le difficoltà di ordine tecnico che ne derivano) siano state le motivazioni addotte per sconsigliare finora questa strategia a livello di politica sanitaria nazionale e quindi anche della regione Toscana, scegliendo quella di effettuare il tampone solo alle persone fortemente sospette a causa della loro sintomatologia. Ma i costi, valutati in termini di vite salvate, di numeri molto inferiori di soggetti che richiedono i costi ed i rischi di una terapia intensiva, ed anche in termini economici, sarebbero alla fine enormemente inferiori a quelli legati alla esecuzione di un numero di tamponi molto maggiore di quello attualmente effettuato. Del resto risultati similari stanno arrivando in questi ultimi giorni dall’uso di una simile strategia nella Corea del Sud. La mia lettera vuole anche essere una forte raccomandazione ad esaminare il problema ai vertici della sanità della Regione Toscana. Sergio Romagnani

Coronavirus, perché è importante fare più test. Federico Giuliani su Inside Over il 17 marzo 2020. Tanti sono i pericoli provocati dal Covid-19. Oltre ai contagi accertati, ai decessi e ai danni economici, c’è un’altra minaccia fin qui presa troppo sotto gamba dalle autorità di mezzo mondo. Si tratta dei cosiddetti “casi sottotraccia”, ovvero quei pazienti che presentano sintomi lievi o, come nel caso degli asintomatici, addirittura nessuno. Secondo un nuovo studio pubblicato su Science e ripreso dall’agenzia Adnkronos, in Cina i casi sottotraccia erano molto numerosi prima che fossero introdotte le restrizioni ai viaggi intorno alla fine di gennaio 2020. Proprio queste infezioni non rilevate – circa l’86% del totale, secondo gli autori del paper – avrebbero contribuito per la maggior parte alla diffusione del virus, poi divenuto pandemico. Questi risultati, basati su uno studio di modellizzazione, spiegherebbero dunque la rapida diffusione geografica della Sars-CoV2 in Cina (e fuori), secondo i ricercatori della Columbia University che firmano la ricerca.

Identificare tutti i pazienti. L’aspetto più importante riguarda l’importanza di eseguire più test per identificare con certezza i pazienti. Al centro dello studio ci sono infatti proprio le infezioni non riconosciute, che “spesso presentano sintomi lievi, limitati o del tutto assenti”, spiega il team di Ruiyun Li. “Abbiamo sviluppato un modello matematico che simula la dinamica spazio-temporale delle infezioni in 375 città cinesi”, precisano i ricercatori. La stima della prevalenza e contagiosità delle infezioni non documentate “è fondamentale per comprendere il potenziale pandemico complessivo di Covid-19, in particolare poiché le infezioni non documentate possono esporre al virus una porzione molto maggiore della popolazione di quanto non si verificherebbe altrimenti”. Per comprendere meglio il ‘pesò delle infezioni non documentate, Ruiyun Li e colleghi hanno sviluppato un modello matematico che combinava i dati sui movimenti delle persone con quelli delle infezioni segnalate dalle autorità. E hanno anche applicato delle tecniche di inferenza statistica.

L’importanza dei casi sottotraccia. I risultati sono stati sorprendenti: prima delle restrizioni ai viaggi del 23 gennaio introdotte a Wuhan, l’86% dei casi di Covid-19 non era documentato, secondo gli autori. Insomma, i numeri ufficiali erano straordinariamente sotto-dimensionati. Inoltre, queste infezioni non documentate per ogni persona avevano una contagiosità di circa il 55% rispetto alle infezioni confermate, affermano gli autori. I risultati mettono in luce anche il ruolo degli sforzi di controllo del governo cinese e della consapevolezza della popolazione dopo il mese di gennaio, che “hanno notevolmente ridotto la trasmissione dei virus”. Sebbene non sia chiaro se questo effetto continuerà, una volta allentate le misure di controllo, affermano gli autori. Gli stessi ricercatori osservano che i risultati del loro studio “potrebbero essere utili in altri paesi con diverse pratiche di controllo, sorveglianza e comunicazione”. E sottolineano l’importanza di “un aumento radicale” nell’opera di identificazione delle infezioni attualmente non documentate, “per arrivare a controllare Sars-CoV2”. Insomma, servono più test. “Se il nuovo coronavirus segue il modello dell’influenza pandemica H1N1 del 2009, diventerà il quinto coronavirus endemico nella popolazione umana”, concludono i ricercatori.

Da adnkronos.com il 17 marzo 2020. "Le persone contagiate da Covid19 possono infettare gli altri dopo che non si sentono più male, quindi le misure di protezione dovrebbero continuare per almeno 2 settimane dopo la scomparsa dei sintomi". Lo ha sottolineato in conferenza stampa a Ginevra il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus. Ormai ci sono "più casi e decessi nel resto del mondo che in Cina", ha aggiunto, sottolineando che "abbiamo assistito a una rapida escalation delle misure di distanziamento sociale, come la chiusura delle scuole e la cancellazione di eventi sportivi e altri incontri. Ma non abbiamo visto un'escalation altrettanto urgente nei test, nell'isolamento e nel tracciamento dei contatti, che è il pilastro della risposta a Covid-19". "Le misure di allontanamento sociale possono aiutare a ridurre la trasmissione - ha insistito il Dg Oms - e consentire ai sistemi sanitari di far fronte all'emergenza. Ma da sole, non sono abbastanza per estinguere questa pandemia. È la combinazione che fa la differenza. Come continuo a dire, tutti i Paesi devono adottare un approccio globale". "Il modo più efficace per prevenire le infezioni e salvare vite umane è rompere le catene della trasmissione. Per farlo - ha insistito Ghebreyesus - , è necessario testare e isolare. Non si può combattere un fuoco con gli occhi bendati. E non possiamo fermare questa pandemia se non sappiamo chi è infetto". "Ogni giorno - ha sottolineato Ghebreyesus - vengono prodotti più test per soddisfare la domanda globale. L'Oms ha spedito quasi 1,5 milioni di test in 120 Paesi. Collaboriamo con le aziende per aumentare la disponibilità di test per i più bisognosi". Il direttore dell'Oms ha poi sottolineato che "anche se sembra che gli anziani siano i soggetti più colpiti" da Covid-19, "si sono verificati casi gravi e morti anche fra giovani e bambini. L'Oms ha pubblicato una nuova guida clinica, con dettagli specifici su come prendersi cura di bambini, anziani e donne in gravidanza". "Quello che sappiamo a oggi - gli ha fatto eco Maria Van Kerkhove, responsabile tecnico del programma per le emergenze dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms)- è che i bambini sono suscettibili all'infezione, che sviluppano forme più lievi di malattia, ma abbiamo anche visto bambini morire. Dobbiamo difenderli come categoria sensibile. Quello che non sappiamo - ha affermato Van Kerkhove - perché non abbiamo ancora i risultati dei test sierologici, è l'estensione delle infezioni asintomatiche nei bambini. Quando saranno disponibili, questo ci aiuterà a capire meglio che ruolo stanno giocando i più piccoli in questa pandemia", ha concluso l'esperta.

Perché non si fanno tamponi a tappeto  su tutta la popolazione? I pro e i contro. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Tamponi a tappeto, sì o no? Il dibattito è sempre più attuale. La linea ufficiale resta quella di fare i tamponi solo alle “persone sintomatiche” che hanno avuto contatti “sospetti”. Ma in molti, scienziati ed esperti, chiamano in causa altre esperienze a livello internazionale (come la Corea del Sud), che hanno dato buoni risultati e in Italia c’è anche il Veneto, che da subito ha portato avanti l’idea dei tamponare più soggetti possibile. «Che ci sia una circolazione del nuovo coronavirus superiore rispetto al numero dei pazienti positivi confermati è indubbio. La strategia di utilizzo dei tamponi merita un adeguato approfondimento del comitato tecnico scientifico». A sottolinearlo è Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid-19. In Corea del Sud la popolazione poteva fare tamponi anche “on the road” in una sorta di postazione “stop and go” simile a quella che permette di ritirare il cibo dall’auto senza scendere nelle catene di fast food. È un’idea che ha accolto la Germania e sta per mettere in pista anche il Veneto: «Abbiamo fatto 29 mila tamponi, siamo la comunità che ne ha fatti di più per milione di abitanti, a livello mondiale la Corea, di cui tanto si parla, viene dopo i veneti per numero tamponi», dichiara il presidente della Regione, Luca Zaia. L’Assessore regionale alla Sanità, Manuela Lanzarin, ha appena annunciato la scelta di allargare lo spettro dell’esecuzione dei tamponi anche ai contatti occasionali, puntando così a isolare anche i positivi asintomatici, e ragionando anche sulla possibilità di concentrarsi su particolari categorie specifiche particolarmente esposte.

L’obiezione da una parte del mondo scientifico è che tracciare tutti senza una regola potrebbe disperdere energie e non servire a contare ogni infettato: si può essere negativi anche da contagiati, quando il virus è presente in maniera ancora “leggera” dentro di noi. Facendo tamponi solo in presenza di sintomi la probabilità di trovare i malati è alta, se invece faccio il tampone a qualcuno che sta incubando (in media ci vogliono 5 giorni), potrebbe essere negativo oggi ma positivo domani. Quindi c’è il rischio di “mettere in libertà” persone che invece dovrebbero stare isolate e di disperdere soldi e tempo. «Sconsigliamo questo tipo di approccio, non è utile - ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza -: il tampone non è sufficiente, è la fotografia di un istante. L’incubazione del virus dura 14 giorni, se la persona fa il tampone in uno di questi giorni ha solo l’illusione di aver risolto il problema. La soluzione è invece l’isolamento: solo così avremo certezza che non sarà positiva, altrimenti abbiamo l’illusione della negatività del momento, ma magari potrebbe essere positiva due giorni dopo».

«Ma la tracciabilità si rivela fondamentale — sostiene Susanna Esposito, presidente WAidid (Associazione Mondiale delle Malattie Infettive e i Disordini Immunologici) e professore ordinario di Pediatria all’Università di Parma —. I positivi asintomatici o paucisintomatici (con lievi sintomi) continuano a mantenere alta la circolazione del virus e recenti dati pubblicati su The Lancet dimostrano come la mediana dell’eliminazione virale sia di 21 giorni. Ciò significa che una parte di positivi in Italia circola liberamente perché non sa di essere positiva e un’altra parte esce di casa ancora positiva dopo la quarantena domiciliare di 14 giorni perché nessuno controlla che il tampone si sia negativizzato. Ritengo sia corretto invitare la popolazione a stare a casa, ma non basta. È essenziale che ai contatti stretti di casi positivi sia effettuato il tampone per la ricerca di Covid-19, cosa che finora è avvenuta in un’assoluta minoranza di situazioni».

Nel dibattito entra anche la Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), secondo cui estendere l’esame del tampone a tutti i soggetti con sintomi respiratori potrebbe essere una misura decisiva per il rallentamento dei contagi. «Per affrontare quella che è ormai un’epidemia incontrollata su gran parte del territorio italiano sono necessari subito tamponi a tappeto per tutti i pazienti con un’affezione delle vie respiratorie, anche senza collegamenti con le zone più a rischio o con contagiati», ha affermato il presidente Simit Marcello Tavio. Fino ad oggi infatti, aggiunge Massimo Andreoni, direttore Scientifico Simit, «i tamponi sono stati limitati a persone sintomatiche che hanno avuto contatti con zone epidemiche o con persone contagiate. Riteniamo invece che in questa situazione tutte le persone che presentano sintomi di un’affezione delle vie respiratorie debbano esser valutate. Non farlo sarebbe un grave errore». La richiesta della Fimmg Lombardia: autorizzare i medici di medicina generale a fare i tamponi a domicilio ai pazienti con probabile polmonite interstiziale trattati a casa, visto il loro notevole aumento.

La procedura del tampone consiste in un cotton fioc che raccoglie campioni dal rinofaringe (naso e gola): il costo è di circa 30 euro a tampone. A Vo’ (il focolaio veneto) il 95% della popolazione si è sottoposta volontariamente al test. «Ovunque ci siano focolai, bisognerebbe eseguire test di massa alla popolazione e tracciare i contatti dei positivi (più o meno stretti), quindi isolare tutti i contagiati, anche se asintomatici — ha affermato al Corriere Andrea Crisanti, docente di Microbiologia e virologia e direttore dell’Unità complessa diagnostica di microbiologia della Asl di Padova, che ha gestito con successo il «caso Vo’» —. Ci vuole un’azione aggressiva, altrimenti il virus continuerà a circolare. L’alternativa è la via cinese, tutto chiuso per 3 mesi senza eccezioni. In Lombardia — ha aggiunto — c’è molto sommerso, bisogna farlo emergere, trovare e isolare tutti i positivi e i relativi contatti, diretti e indiretti. Costi quel che costi: servono 5 milioni di tamponi? Che si prendano. La Lombardia ha le risorse per farcela, ma servono misure drastiche».

Il coronavirus e i tamponi venduti agli Usa: perché l'Italia non fa come Francia e Germania? Le Iene News il 20 marzo 2020. Mezzo milione di tamponi per il coronavirus è partito da un’azienda di Brescia, una delle zone più colpite dalla pandemia, verso gli Stati Uniti. “Tutto in regola”, assicura l’azienda. Ma perché gli altri Paesi proteggono e trattengono il materiale medico realizzato da loro mentre l’Italia no? Mezzo milione. E’ questo l’enorme numero di tamponi che una società con sede a Brescia ha venduto agli Stati Uniti, sia a committenti pubblici che privati. Tamponi volati dall’Italia a bordo di un aereo militare. Tamponi che sono stati prodotti in una delle zone d’Italia più martoriate dal coronavirus e che adesso saranno utilizzati per i i bisogni di un’altra nazione. L’azienda ha detto a Repubblica: “Tutto è avvenuto alla luce del sole. Non dovevamo avvertire le autorità italiane: sono prodotti in libera vendita. In Italia non c’è carenza di tamponi”. E noi ovviamente non mettiamo in dubbio che sia stato fatto tutto secondo le regole: è il comportamento del nostro Paese a generare stupore. Fa strano vedere che, mentre un’azienda italiana vende tamponi all’estero, ai nostri medici e infermieri impegnati in prima linea questi tamponi non vengono proprio fatti. "Trovo inaccettabile che a medici, personale sanitario e medici di base non venga fatto il tampone”, ha detto appena l’altro ieri il sindaco di Milano Beppe Sala. Già, perché per il personale ospedaliero valgono le stesse regole che per gli altri cittadini: tampone solo in presenza di forte sintomatologia. E così un medico potrebbe trasformarsi in un untore a sua insaputa, tanto più vista la cronica difficoltà a reperire il materiale sanitario necessario per proteggersi. L’azienda che ha esportato quei tamponi però chiarisce un punto: “Il grosso problema in Italia è la capacità dei laboratori nell’eseguire la quantità di esami necessaria attualmente”. Quale che sia la necessità in questo momento, viene però da chiedersi: perché in un momento simile l’Italia non si difende e trattiene qui il materiale medico tanto necessario? La domanda sorge spontanea in un momento in cui altri Paesi - alcuni molto vicini a noi - si stanno comportando in modo differente sul materiale sanitario così importante in questa pandemia. E’ per esempio il caso della Francia: già il 3 marzo, quando sotto la Torre Eiffel si contavano solo 200 contagiati, il presidente Macron aveva annunciato di aver requisito tutte le aziende produttrici di mascherine protettive del Paese e tutte le scorte per “distribuirle agli operatori sanitari e ai francesi colpiti dal coronavirus”. Già, perché le mascherine sono dispositivi fondamentali per arginare la pandemia, in particolare per i medici e infermieri in prima linea in questa lotta contro il coronavirus: in Italia il fabbisogno di mascherine è attualmente di 90 milioni di pezzi al mese, e per adesso ne sono state consegnate appena 5 milioni. Ve lo abbiamo raccontato qui. E questo è accaduto anche perché altri Paesi si sono protetti in tutti i modi, a volte sequestrando materiale sanitario acquistato dall’Italia. “India, Romania e Russia erano mercati nei quali i fornitori avevano recuperato mascherine Fpp2 e Fpp3 ma poi hanno chiuso all'esportazione”, ha spiegato il commissario Angelo Borrelli. E c’è ancora un altro caso, molto noto, di Paese che ha fatto di tutto per proteggere il proprio materiale sanitario: la Germania, dove ha sede la società farmaceutica CureVac. La CureVac ha annunciato di essere vicina allo sviluppo di un vaccino per il coronavirus, e gli Stati Uniti - in modo simile a quanto accaduto da noi - hanno provato a impossessarsi della compagnia. Un’offerta shock, sembra un miliardo di dollari, per acquistare in esclusiva il diritto di sviluppare e commercializzare il vaccino. Ma la Germania si è messa di traverso e ha bloccato l’operazione: “Non possiamo consentire ad altri di acquisire in esclusiva i risultati di un lavoro di ricercatori tedeschi”, ha detto il ministro degli Esteri di Berlino. Una posizione chiara: il frutto del lavoro dei tedeschi, come degli altri Paesi che abbiamo citato prima, resta qui. Perché lo stesso non è accaduto in Italia? Perché mezzo milione di test per il Covid-19 prodotti a Brescia, tra le zone più colpite del nostro Paese e dove c’è un enorme bisogno, è stato lasciato partire senza colpo ferire verso gli Usa? "Gli Stati Uniti continueranno ad acquistare questi tamponi da aziende italiane secondo le proprie necessità”, ha detto l’ambasciatore americano a Roma. “Gli Stati Uniti e l'Italia continuano a lavorare insieme in strettissima collaborazione". Speriamo che questa collaborazione non rischi di mettere a repentaglio qualche vita.

Coronavirus, mezzo milione di tamponi da un'azienda di Brescia agli Stati Uniti. Prodotti nell'area focolaio dell'epidemia in Italia, sarebbero bastati per le esigenze di tutto il Nord. I kit diagnostici sono stati invece venduti agli Usa e trasferiti con un aereo militare. L'azienda: tutto regolare, non c'è carenza. Qualcuno nel nostro Paese lo sapeva? Gianluca Di feo il 19 marzo 2020 su la Repubblica. Il mondo intero dice che è una guerra. E per la prima volta nella Storia sembra essere di tutti contro tutti, senza più alleanze. Ogni nazione pensa per sé, usando ogni mezzo per garantirsi le armi vincenti contro il virus: tamponi, mascherine, respiratori. Così gli Stati Uniti sono riusciti a comprare mezzo milione di kit per individuare il contagio a Brescia. E li hanno trasferiti a Memphis con un aereo militare. Mercoledì l'America ha festeggiato per l'arrivo di un carico di tamponi, appunto mezzo milione di pezzi. Una scorta impressionante: nel nostro Paese dall'inizio dell'epidemia ne sono stati fatti poco più di 100 mila. Ma quella provvista sbarcata negli Usa proveniva dalla base americana di Aviano, poco distante da Pordenone. Sì, in Italia c'era una colossale riserva di test diagnostici, disponibile a poche decine di chilometri dall'epicentro del Covid-19: strumenti che le nostre regioni cercano in tutti i modi per arginare la diffusione del morbo ma che non riescono a trovare. L'annuncio della spedizione transatlantica è stato fatto su Istagram, assieme alla foto della stiva di un quadrireattore C-17 Globemaster dell'Air Force colma di contenitori con i kit. Poi il post è stato rimosso. Ma la notizia ha trovato conferma ufficiale nelle parole del portavoce del Pentagono, Jonathan Hoffman. "Ci sono elementi multipli per fare il test - ha spiegato il generale Paul Friedrichs, del comando medico centrale - I primi sono i tamponi che servono a raccogliere i campioni dalle persone, poi c'è il liquido dove svilupparli. Questo è ciò che abbiamo portato dall'Italia". Il generale ha detto che i materiali vengono prodotti negli Usa e all'estero, senza precisare dove fossero stati reperiti. E ha aggiunto: "Questo è un grande esempio di come le nazioni lavorino insieme per assicurare che venga data risposta alle domande globali". E il mezzo milione di test è stato prodotto proprio in Italia. Da un'azienda di Brescia, la città che in queste ore è in prima linea nella battaglia contro il morbo: la Copan Diagnostics. Lo conferma a Repubblica l'ambasciatore Lewis Einsenberg: "Siamo lieti che l'azienda italiana Copan Diagnostics continui a produrre tamponi per i test del Covid-19 in quantità sufficienti per soddisfare le richieste in Italia e le vendite all'estero. Il settore privato italiano contribuisce a salvare vite nel mondo. Mi congratulo per questo sforzo". E precisa: "Gli Stati Uniti continueranno ad acquistare questi tamponi da aziende italiane secondo le proprie necessità. Gli Stati Uniti e l'Italia continuano a lavorare insieme in strettissima collaborazione". La notizia appare sorprendente. Una ditta lombarda aveva a disposizione una quantità di tamponi sufficiente per i bisogni di tutto il Nord ed invece è stata venduta oltre Oceano. Ci hanno battuto sul prezzo? Circolano diverse informazioni sulle iniziative del governo americano per rifornirsi di mezzi contro il Covid-19. La Casa Bianca, ad esempio, avrebbe offerto somme altissime per ottenere l'esclusiva del vaccino sperimentato dai laboratori tedeschi CureVac: un'operazione bloccata dall'intervento di Berlino a cui è seguito quello dell'Unione Europea che ha stanziato 80 milioni per impedire la fuga del brevetto. In queste ore, ci sono aste mondiali per acquistare a prezzi crescenti anche stock di mascherine e respiratori: una sfida economica, in cui vince il più forte. Come in guerra. Ma senza più alleanze che tengano. All'inizio si era pensato che i tamponi venissero dalle basi militari americane. Ad Aviano esiste un grande deposito di materiali medici, accumulati in vista di un conflitto. E' il Medical War Reserve Materiel del 31mo stormo statunitense: un video dello scorso dicembre mostra un gigantesco hangar zeppo di componenti per ospedali da campo, strumentazione diagnostica e medicinali. Tutti pronti per essere imbarcati sugli aerei e arrivare ovunque in poche ore. Un'altra scorta dovrebbe trovarsi a Camp Darby, alle porte di Livorno, il più grande arsenale dislocato fuori dagli States. Entrambi i magazzini strategici nei documenti del Pentagono vengono indicati, seppur nell'ultimo punto delle priorità, come utilizzabili per "le nazioni ospiti". Ossia l'Italia. Ma nulla è stato messo a disposizione del nostro Paese. Citando Winston Churchill, nel suo libro il leggendario generale Jim Mattis, ex capo del Pentagono, ha scritto: "C'è una sola cosa peggiore che combattere assieme agli alleati, combattere senza alleati". Era una critica alla politica estera di Donald Trump. Un monito che vale anche nella guerra contro il virus. La realtà però è diversa. I tamponi erano pronti a Brescia, nel cuore dell'epidemia, dove medici e infermieri lottano per bloccare il morbo prima che travolga Milano, dove ogni giorno migliaia di persone rischiano il contagio. Il nostro governo ne era informato? La Copan Diagnostics replica che "tutto è avvenuto alla luce del sole. Non dovevamo avvertire le autorità italiane: sono prodotti in libera vendita. E noi siamo un'azienda leader che esporta in tutto il mondo. Non c'è carenza di tamponi: nelle scorse settimane in Italia ne abbiamo venduti più di un milione e possiamo soddisfare tutte le richieste. Il problema non sono i kit, ma i laboratori per analizzarli". E precisa: "Quello stock non è stato acquistato dal governo statunitense, ma da società private e distributori americani. Lo hanno trasportato con un volo militare soltanto perché non c'erano aerei commerciali disponibili". I siti web che tracciano il traffico nei cieli hanno accertato che il jet dei tamponi è decollato da Aviano lunedì 16 marzo nel primo pomeriggio. In quel momento in Italia erano censiti quasi 30 mila casi e 2.158 morti. Negli Stati Uniti i decessi erano solo 86 e i positivi 4.500.

L’azienda italiana  che ha venduto tamponi anche agli Usa: «I kit? Da noi non mancano». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Maurizio Caprara. «Non c’è mancanza di tamponi in Italia. Negli accertamenti per verificare la presenza del virus Sars-CoV-2 il grosso problema è un altro: la capacità dei laboratori nell’eseguire la quantità di esami necessaria attualmente», dice Lorenzo Fumagalli, il responsabile dell’ufficio legale della Copan, la piccola multinazionale italiana che ha mandato lunedì scorso a Memphis, in Tennesse, mezzo milione di kit di prelievo per gli accertamenti sul Coronavirus. Con circa 600 dipendenti, sede a Brescia e filiali in tutti i continenti, questa azienda è adesso una delle fonti da consultare per percepire la complessità di quanto sta avvenendo rinunciando a una delle tentazioni peggiori dei momenti di emergenza: i giudizi sommari.

Come mai avete fornito i tamponi agli Stati Uniti?

«Noi non abbiamo venduto prodotti al governo americano. I kit ci sono stati richiesti da clienti statunitensi sia privati sia pubblici. Per noi si tratta di forniture normali, soltanto ampliate dalle esigenze della crisi in corso dovuta alla diffusione del Coronavirus. La nostra fabbrica sta lavorando 24 ore su 24».

Perché è stato un aereo militare dell’Aeronautica statunitense a trasportare il vostro materiale?

«Perché era l’unico vettore aereo disponibile».

Quanti tamponi avete fornito nel nostro Paese?

«Con la consegna che eseguiremo lunedì prossimo, avremo distribuito a committenti in Italia un milione e centomila kit di prelievo dall’inizio della crisi. Se nel Paese i test effettuati risultano di meno è perché le forniture sono in quantità superiore alle capacità di svolgere gli esami nei laboratori italiani. Non è una critica. Sono i dati di fatto e tutti stiamo lavorando a ritmi eccezionali. Noi come dannati».

Quanti tamponi producete?

«In questo momento oltre dieci milioni a settimana. Vengono impiegati per raccogliere e conservare i campioni, i quali poi vanno sottoposti ai test diagnostici sul Covid-19. Ne stiamo fornendo in Italia, in Europa, nel mondo. Non c’è mancanza di tamponi in Italia. Il tampone è una cosa, l’esame è un’altra».

Avete in programma altre forniture all’estero?

«Certo».

Alzano, il sindaco conta i morti per Coronavirus: «Volevamo la zona rossa, nessuno ci ha ascoltato». Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Riccardo Nisoli. «La nostra idea era di fare un grande sacrificio subito per essere liberi prima: se ci avessero ascoltati, le cose sarebbero andate diversamente», ripensa il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi, 43 anni. E invece ora si contano i morti in questa roccaforte del centrodestra, che con i suoi 13.700 abitanti è tra i centri più popolati dell’operosa Val Seriana (leggi l’aggiornamento complessivo sull’emergenza dall’Italia e dal mondo). «Cinque solo l’altra mattina — spiega preoccupato —. Più di 50 nei venti giorni di emergenza. L’anno scorso, nello stesso periodo, furono otto. Mi è venuta la curiosità di capire se il virus fosse già aarrivato a fine 2019, ma i dati da dicembre a febbraio erano in linea. Ora sono esplosi: la conseguenza dei contagi di fine febbraio».

Non è un caso se la bassa e media valle siano state la culla del coronavirus nella Bergamasca (leggi il parere dell’esperto). Qui il manufatturiero ha solidi rapporti con la Cina. Il resto lo ha fatto l’ospedale di Alzano, che — come a Codogno — ha veicolato il contagio. Un paziente, poi deceduto, ha portato il Covid-19 al pronto soccorso, si sono ammalati medici e infermieri. «Penso che l’azienda ospedaliera svolgerà un’indagine interna — dichiara il consigliere regionale leghista Roberto Anelli, alzanese —, non vorrà rimanere nel dubbio che siano stati disattesi i protocolli, anche se per come conosco gli operatori sono sempre stati scrupolosi». La crescita dei positivi, ad Alzano, ma soprattutto a Nembro, è stata esponenziale. Serviva la zona rossa? «Dirlo adesso è facile — risponde Bertocchi —. Fin dal 23 febbraio abbiamo capito la gravità della situazione. Ed eravamo tutti per la linea rigida, ribadita anche il giorno 25, nonostante gli allentamenti a livello nazionale. Da noi bar chiusi anche dopo le 18. Ma vuol sapere una cosa? Non solo siamo stati criticati dagli operatori, ci è arrivato pure il richiamo dal ministero degli Interni tramite una circolare della prefettura che vietava ai sindaci di prendere misure. Chiedevamo rigore e chiarezza, non volevamo disorientare il cittadino. Il territorio va ascoltato: non era il segnale di un sindaco, ma di sette, da Torre Boldone ad Albino». La prima volta che si doveva decidere sulla zona rossa aveva appena preso piede lo slogan «Riprendiamoci le città», la seconda, quando i contagi erano dilagati, è stata osteggiata dagli imprenditori. «Sì, ma in quel momento si poteva creare garantendo un canale per il passaggio delle merci. Il fatto è che nessuno ci diceva nulla, eravamo sospesi. Quattro giorni assurdi, senza il minimo rispetto istituzionale. Poi, dal decreto dell’8 marzo, abbiamo capito che la linea era cambiata: non più contenere, ma rallentare il contagio. A quel punto c’era il “rischio rilassamento”: lungo il fiume Serio la gente passeggiava come niente fosse. Abbiamo richiamato l’attenzione e da una settimana tutti obbediscono». Camici e mascherine qui non sono mancati. Il centro operativo comunale ha acquistato per tempo le dotazioni, stoccate in un magazzino presidiato in municipio e distribuite dai volontari della protezione civile. «Portiamo l’ossigeno alle persone allettate in casa — dice il presidente Francesco Rossoni —. Facciamo quel che possiamo. Quando partivamo per le zone terremotate sapevo che avremmo dovuto salvare la gente scavando a mani nude. Qui non sai nemmeno contro cosa combatti. Alzano, così viva, è diventata il vuoto assoluto. Via Roma, dove si affacciano i negozi chiusi, ti spezza il cuore». Il supporto psicologico, oltre agli operatori, lo fanno gli esercenti dei piccoli alimentari rimasti aperti. «Non ci compri solo un chilo di pane, ma anche una buona parola», concorda Robertangelica Contessi Manenti, consigliera della lista del sindaco. Don Filippo Tomaselli cura le parrocchie di Alzano centro e Alzano Sopra: «Siamo costretti a fare pastorale telefonica: la gente soffre molto per l’impossibilità di accompagnare la persona cara negli ultimi giorni di vita. Le messe in streaming, via Facebook, ci fanno ancora sentire comunità». «Bergamo resta la provincia dove i contagiati crescono di più», annuncia l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera: 3.416, in un giorno 552. Ieri, nel capoluogo, per la prima volta sono state consentite le sepolture di domenica. Una ogni mezz’ora. La situazione delle onoranze funebri è al collasso. Come negli ospedali, dove si attendono rinforzi e aiuti per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale. La macchina della solidarietà non si ferma: dalla Brembo 150 mila euro all’ospedale Papa Giovanni. La direttrice generale, Maria Beatrice Stasi, si è commossa per la telefonata del premier Giuseppe Conte: «Mi ha espresso la vicinanza di tutto il Paese a Bergamo e all’ospedale, ai malati, ai nostri operatori e a tutta la cittadinanza. È stato importante fargli arrivare direttamente il nostro grido di aiuto: ci serve personale, dispositivi e attrezzature». «Bergamo reggerà per pochissimo», è l’Sos di Ivano Riva, anestesista rianimatore del Papa Giovanni. In serata, l’arrivo di venti medici militari.

Coronavirus, così il Veneto si attrezza a fare i tamponi in strada. Zaia: pronti al coprifuoco. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Cremonesi. «Tamponare» il Veneto. Con le microbiologie di tutte le province ad attrezzarsi in proprio per il rilevare il virus, al di là della disponibilità dei kit preconfezionati. Spiega il governatore Luca Zaia, che sta preparando anche la produzione in Veneto di mascherine: «Le proiezioni sul contagio sono in crescita. Se non si seguono le regole si rischia il crash sanitario e prima di questo c’è il coprifuoco». Il fermi tutti senza se e senza ma. A partire dalla possibile ordinanza «per chiudere parchi pubblici e giardini». L’idea del tampone a tappeto è controversa. Perché è vero che, nella maggior parte dei casi, negli asintomatici il test risulta negativo. Ma non sempre: a Vò Euganeo, dove tutti i 3.300 abitanti lo hanno fatto, si sono trovate 66 persone prive di sintomi ma positive. Quelle che rappresentano l’incognita maggiore di espansione del virus. E dunque, massima diffusione dei test, inclusi quelli a campione: «On the road» li chiama Zaia. L’idea è quella di una serie di controlli casuali, per esempio alle casse dei supermercati. E poi, «centri concentrici» rispetto ai positivi: «Per esempio, tampone su tutti i condomini e i colleghi di lavoro degli eventuali positivi asintomatici», spiegano dalla Regione. Già oggi il Veneto ha il record dei tamponi, battendo la Corea del Sud: 4.817 ogni milione di abitanti contro i 4.809 di Seoul. Un modello messo a punto dal responsabile del laboratorio di riferimento del Veneto, quello di Padova, Andrea Grisanti. Altre tornate di test potrebbero nascere dalle ispezioni disposte da Zaia: «Ho dato mandato a tutte le Spisal (Servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro) perché da domani si facciano controlli a tappeto in tutte le aziende per verificare il rispetto delle misure di sicurezza». Il presidente dell’Iss Brusaferro non pare convinto. Ricorda che l’Oms sconsiglia di fare il tampone anche agli asintomatici e sottolinea: «La posizione che posso esprimere è quella espressa a livello internazionale». Anche se un approccio alla veneta sembra condiviso dal responsabile delle Malattie infettive del Sacco di Milano Galli e dalla presidente dell’Associazione mondiale per le malattie infettive (Wadid) Susanna Esposito: «Ha permesso una letalità inferiore dei contagiati».

Coronavirus, Zaia: «Tamponi in Veneto? Li farò a tappeto. Del bilancio non mi importa». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio.

Presidente Zaia, il Veneto va per conto suo?

«Abbiamo solo fatto una scelta diversa. Tamponi a tappeto. Il tema è questo. Per carità, nessuna polemica con l’autorità centrale e nessuna rivendicazione di autonomia, non ora almeno».

Ma...

«Se la comunità scientifica mi dice che non servono, e io invece sono convinto che siano utili, ebbene, continuo a farli».

Con quale utilità?

«Cominciamo da quella più evidente. Anche se trovo un solo positivo, significa che avrò 10 contagiati in meno».

Aumento dei tamponi da tremila a 11.300 al giorno. Chi paga?

«Noi. La Regione. Del bilancio mi importa poco, vale sempre meno della vita dei miei concittadini. Non mi faccia dire che me ne frego dei soldi, ma insomma ci siamo capiti. Tutto a spese nostre».

Tutto o quasi?

«Abbiamo un sacco di imprese e di singole persone che ci danno i soldi».

Dove li trovate i tamponi?

«Ce ne sono pochi. Anche noi ne abbiamo comprati centomila, ma le aziende li distribuiscono con il contagocce. Quindi, li facciamo in casa».

In che modo?

«Con tecniche di laboratorio. A farla breve, si prepara il brodo, così viene chiamato, che sostanzialmente è reattivo, e lo si mette in una provetta sterile».

La differenza con il resto d’Italia?

«Stiamo usando tamponi già imbevuti, con dentro il liquido di reazione. Come bere acqua minerale o farsela dopo con la polverina. Non è mica una cosa da stregoni. Per i tecnici di laboratorio è una prassi regolare».

Perché il Veneto sì e gli altri no?

«Ogni sanità è un modello e una storia a sé. Un abito sartoriale per la propria comunità. E poi noi abbiamo avuto l’esperimento di Vo’ Euganeo».

Cosa ha insegnato?

«Quando ho deciso il doppio tampone per tutti a distanza di due settimane, apriti cielo. Mi hanno detto di tutto ma è stato fondamentale».

Quali sono stati i risultati?

«Su tremila tamponi, abbiamo trovato un cluster di 66 positivi più altri diciotto che non erano del paese ma avevano avuto contatti con persone infette. Quasi tutti asintomatici. Dopo la quarantena, ne abbiamo fatto un altro. E siamo rimasti con solo sei positivi».

Tirando le somme?

«Se non avessimo fatto i tamponi a tutti, a Vo’ ci sarebbe stata una epidemia. Se per assurdo fai il test a una intera popolazione, quanto meno hai una istantanea di chi è necessario isolare».

Il Veneto come una gigantesca Vo’ Euganeo?

«Magari potessi. Ci limitiamo a ricostruire i contatti di una persona trovata positiva e sintomatica, e poi li sottoponiamo a loro volta al tampone. Siamo a quota 40mila in tutta la Regione: 2.700 postivi asintomatici, e ne abbiamo isolato altre 7mila che hanno avuto contatti con loro».

In gergo tecnico la possiamo definire una pesca a strascico?

«È l’accusa che mi viene rivolta dal nostro mondo scientifico, a parte poche voci isolate».

Lei cosa risponde?

«Mi sembra fondamentale e determinante anche per noi la voce autorevole dell’Oms, che ha appena detto che servono tamponi per tutti».

Un modo per dire che ha scarsa fiducia nella comunità scientifica nostrana?

«Massimo rispetto per tutti, davvero. Ma è lo stesso mondo che non ci ha dato alcuna indicazione mentre il Corona virus stava arrivando. Molti suoi membri dicevano che era una semplice influenza. Altri che la mascherina va portata solo dalla persona sintomatica».

Lo facevano apposta?

«Certamente no. Ma la verità dietro tante versioni contrastanti è che non ci sono mascherine, come è venuto fuori in questi giorni. Sarebbe stato più corretto dirlo subito».

Per carità, nessuna polemica...

«Davvero. Qui nessuno è l’oracolo di Delfi. Rispetto la comunità scientifica e il suo libretto di istruzioni. Ma per inseguire questa bestia, forse serve anche creatività, nei limiti delle regole imposte. Ricordo che all’inizio, citando il modello Wuhan, ci era stato detto che ai pazienti sarebbe stata sufficiente la respirazione non invasiva, con il ventilatore portatile. Si è visto come è andata».

Come andrà, piuttosto?

«Non faccio proclami. Ma se domani mattina, volesse Iddio, finisse tutto per miracolo, cosa diremmo a chi ci chiederebbe consigli su come affrontare l’emergenza? Che ci vogliono mascherine, respiratori meccanici, e il numero più alto possibile di tamponi. Esattamente quel che stiamo cercando di fare in Veneto».

 (ANSA il 14 marzo 2020) - Da ieri Vo' non ha nessuno caso nuovo di positività al Coronavirus. E' quanto emerge dai dati ufficiali della Regione Veneto. La cittadina padovana, prima zona rossa insieme a Codogno, ha imboccato decisamente la strada della guarigione. "Abbiamo applicato la quarantena - racconta all'ANSA il sindaco Giuliano Martini - con grande senso di responsabilità e fatto due screening a cui ha aderito il 95% della popolazione". La località euganea era uscita dall'isolamento domenica scorsa. Proprio a Vo' era stata registrata la prima vittima veneta del coronavirus, il 67enne Adriano Trevisan. Sono solo 4 i casi di infezioni al coronavirus registrati ieri a Wuhan, capoluogo della provincia dell'Hubei e focolaio della pandemia. Secondo gli aggiornamenti forniti dalla Commissione sanitaria nazionale (Nhc) cinese, si tratta del livello più basso da quando da gennaio è iniziata la raccolta dei dati. Per la prima volta, inoltre, i casi importati di infezione hanno superato quelli locali: sugli 11 complessivi di ieri, oltre ai 4 di Wuhan, gli altri 7 sono contagi di ritorno, di cui 4 a Shanghai, due nel Gansu e uno a Pechino. In Spagna il numero di contagi per coronavirus si attesta a 5.100 casi mentre le persone decedute sono 132. E' quanto riporta El Pais citando il ministero della Sanità. In Scozia si registra il primo morto per la pandemia del coronavirus, l'undicesima vittima nel Regno Unito. Lo riferisce l'Independent. Il paziente, una anziana, aveva già altre patologie. Il numero di contagiati in Scozia è salito a 85, mentre quelli totale nel Regno Unito erano saliti a 798 ieri, 208 in più in 24 ore. Tuttavia, il numero dei tamponi è diminuito questa settimana e alcune persone con sintomi hanno riferito di non essere in grado di poter telefonare al numero di emergenza per poi fare il test perché le linee sono intasate.

Galli: "Tamponi anche agli asintomatici come in Veneto. Quarantenare almeno il 70% dei contatti di un positivo". Il primario infettivologo del Sacco: "Se non facciamo così, non si ferma l'epidemia in 3 mesi". HuffPost il 14 marzo 2020. l Veneto fa i tamponi per il nuovo coronavirus anche agli asintomatici? “Sono assolutamente d’accordo. È utile per il contenimento identificare persone che altrimenti non lo sarebbero e metterle in quarantena”. La rivista ”‘Lancet’ dice che se non si riesce a quarantenare almeno il 70% dei contatti di un positivo non si ferma la malattia in 3 mesi”. E’ la visione di Massimo Galli, responsabile di Malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano, in prima linea contro l’emergenza Covid-19, e ordinario dell’università Statale del capoluogo lombardo. La Lombardia, dice in un’intervista a ‘la Repubblica’ “dovrebbe trovare il modo di farli. O abbiamo un problema con il denominatore, il numero totale dei positivi. Se facciamo il tampone solo a chi ha sintomi importanti selezioniamo solo la parte più severa dei colpiti, e ci troviamo con una percentuale di letalità tra i ricoverati più alta della Cina, dove è stata del 10-15%. È meglio il modello veneto, se perseguibile. È simile a quello della Corea del Sud, che infatti ha avuto l’ 1% di decessi”. 

Galli promuove il modello Veneto: "Sì ai tamponi anche agli asintomatici". La posizione del responsabile di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano: "È utile per il contenimento identificare persone che altrimenti non lo sarebbero e metterle in quarantena". Luca Sablone, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. "Sono assolutamente d'accordo. È utile per il contenimento identificare persone che altrimenti non lo sarebbero e metterle in quarantena". Questa la posizione espressa dal professor Massimo Galli, che ha di fatto promosso il modello Veneto annunciato da Luca Zaia: il governatore della Regione ha fatto sapere che il piano è quello di andare alla ricerca di pazienti positivi al Coronavirus ma inconsapevoli di esserlo. Dunque tamponi a campione sui passanti. Nell'intervista rilasciata a La Repubblica, il responsabile di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano ha parlato anche della Lombardia, che dovrebbe trovare il modo di farli: "O abbiamo un problema con il denominatore, il numero totale dei positivi". Se si fanno i tamponi solamente a chi ha sintomi importanti, si seleziona prettamente "la parte più severa dei colpiti, e ci troviamo con una percentuale di letalità tra i ricoverati più alta della Cina, dove è stata del 10-15%". Dunque, qualora dovesse essere perseguibile, sarebbe meglio il modello Veneto: "È simile a quello della Corea del Sud, che infatti ha avuto l' 1% di decessi".

"L'imperativo è arginare". L'ordinario dell'Università Statale del capoluogo lombardo, in prima linea contro l'emergenza Covid-19, ha confessato di trovarsi in una situazione "in cui l'estensione dell'epidemia è importante. Capiamo che qua e là le persone la malattia ce l'hanno e il punto adesso è arginare, arginare, arginare". La città di Milano va protetta: questo è il messaggio che fa passare. Un contenimento che deve essere attuato attraverso una serie di misure il cui fine è "evitare il peggio in una zona di grande concentrazione di popolo come l'area metropolitana milanese. Su questo va fatto il massimo sforzo". In tutto ciò gli ospedali continuano a essere sotto stress: "Il limite è vicino". L'ospedale deve prepararsi a crescere ancora, ma la battaglia si vince sul campo e gli ospedali qui sono la retrovia: "Se sul campo di battaglia va male, gli ospedali vengono massacrati". E il campo di battaglia è "il territorio". Occorre perciò lavorare tutti insieme verso un unico, importante e complicato obiettivo: evitare il dilagare del problema. Il professor Galli infine ha concluso lanciando un appello ben preciso: "Oltre al distanziamento sociale va trovata una vicinanza assistenziale, per seguire davvero la gente in quarantena. Bisogna sfruttare ad esempio la telemedicina, finalmente".

Coronavirus, Susanna Esposito: "Così si diffonde epidemia", l'anomalia tutta italiana sul tasso di letalità. Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. In Italia i contagi e i decessi per coronavirus crescono esponenzialmente. Ieri, giovedì 12 marzo, le vittime sono arrivate a 1.016. Un dato terrificante che va di pari passo con il fatto che la letalità nel nostro Paese è molto più alta rispetto alla Cina. Il motivo? Secondo Repubblica ci sono due fattori: il primo è l'età più avanzata della nostra popolazione. Il secondo, invece, ci chiede di riflettere meglio sulle nostre priorità. Il tasso di letalità infatti è il rapporto fra i decessi e i casi positivi riscontrati con i tamponi. Aumenta se si riduce il bacino dei positivi.  Fare meno tamponi, dunque, è un pericolo. "Significa che spiega Susanna Esposito, presidentessa Waidid (Associazione mondiale delle malattie infettive) e ordinaria di pediatria all'università di Parma -, individui positivi, ma con pochi sintomi, escono ignari di casa e continuano a diffondere l'epidemia". Un vero e proprio danno, soprattutto se si considera che, uno studio condotto su The Lancet, prevede che ciascun contagiato diffonde il virus per un periodo compreso tra 8 e 37 giorni. Anche la Cina - prosegue il quotidiano di Verdelli -  il 13 febbraio rinunciò a testare tutti i suoi pazienti, affidandosi ai dati della Tac laddove non c'erano più tamponi. Ma Pechino, a differenza dell'Italia, includeva i malati empirici nel totale dei positivi. Per questo ha mantenuto il tasso di letalità relativamente basso. Un'altra caratteristica, questa volta uguale ai dati cinese, è che il coronavirus colpisce più duro fra gli uomini. "Da noi le donne sono il 25-26 per cento delle vittime - riferisce Graziano Onder, geriatra dell'Istituto superiore di sanità (Iss) -. Non sappiamo esattamente il perché. Le donne normalmente hanno una vita più lunga: 86 anni contro 80. In generale sono più resistenti alle malattie e l'età media delle vittime dell'epidemia è di 81 anni nel sesso maschile e di 85 in quello femminile. Ma cosa protegga il sesso femminile dal coronavirus resta ancora ignoto" conclude. 

Coronavirus, perché non si fanno tamponi a tappeto alla popolazione? Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Tamponi a tappeto, sì o no? Il dibattito è aperto, anche se la linea ufficiale è chiara. «La circolare del Ministero della Salute indica di sottoporre a test le persone sintomatiche. Altre politiche sull’uso dei tamponi non sono state esaminate. Ci sono esperienze a livello internazionale che potranno eventualmente essere prese in futuro in considerazione» ha affermato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. Una scelta che naturalmente incide sui dati complessivi. «Vediamo una percentuale di decessi piuttosto elevata, ma il coronavirus in Italia non è più cattivo di quello cinese — assicura Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore sanità —. Se stratifichiamo i dati per età, vediamo che non c’è un eccesso di mortalità, anzi da noi la percentuale è leggermente inferiore alla Cina. Il fatto è che noi abbiamo una popolazione più anziana e con patologie di base. Inoltre anche la strategia di fare tamponi solo ai sintomatici contribuisce a dare questa sensazione: se si testassero anche gli asintomatici il dato si abbasserebbe». Ad oggi in Italia i positivi sono quasi 13mila e i deceduti superano il migliaio. Facendo il calcolo sui casi totali (15mila, inclusi gli oltre 1.200 guariti) la letalità risulta al 6,7%. «Il numero totale (ufficiale) di persone con l’infezione è molto più piccolo di quello reale ed è quindi un numero inutile per capire le dimensioni dell’epidemia — ha detto Giorgio Parisi, esperto di sistemi complessi dell’Università Sapienza di Roma e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, oltre che presidente dell’Accademia dei Lincei —. Il numero totale dei contagiati non corrisponde alla realtà: bisogna capire quanti ne mancano. Va cambiata politica del campionamento: bisogna cercare di fare più tamponi». «La decisione di fare il tampone solo alle persone con i sintomi è una strategia fatta per massimizzare i vantaggi» ha replicato Rezza. «Diagnosi precoce, isolamento e trattamento sono i cardini per tenere a bada l’epidemia. Ma la tracciabilità si rivela fondamentale — è il parere di Susanna Esposito, presidente WAidid (Associazione Mondiale delle Malattie Infettive e i Disordini Immunologici) e professore ordinario di Pediatria all’Università di Parma —. I positivi asintomatici o paucisintomatici (con lievi sintomi) continuano a mantenere alta la circolazione del virus e recenti dati pubblicati su The Lancet dimostrano come la mediana dell’eliminazione virale sia di 21 giorni. Ciò significa che una parte di positivi in Italia circola liberamente perché non sa di essere positiva e un’altra parte esce di casa ancora positiva dopo la quarantena domiciliare di 14 giorni perché nessuno controlla che il tampone si sia negativizzato. Ritengo sia corretto invitare la popolazione a stare a casa, ma non basta. È essenziale che ai contatti stretti di casi positivi sia effettuato il tampone per la ricerca di Covid-19, cosa che finora è avvenuta in un’assoluta minoranza di situazioni». Ma quanti potrebbero essere i positivi asintomatici? Per Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra e responsabile dell’Unità di Epidemiologia Molecolare ed Esposomica presso l’Italian Institute for Genomic Medicine – IIGM (Torino), «una risposta potrebbe venire solamente da un test esteso a tutta la popolazione. Non sappiamo bene neppure con quali criteri il test venga somministrato in aree geografiche diverse — ha detto l’esperto in un’intervista a Repubblica —. Molti malati lievi vengono trattati da casa, e dunque manchiamo di un conteggio dei positivi asintomatici, dei positivi con pochi sintomi e anche dei sintomatici che non hanno Covid-19. Il test attuale, poi, ha un’accuratezza non del tutto ottima; sarebbe necessario avere test anticorpali. Più tamponi si fanno ad asintomatici o a pazienti con una malattia lieve, più il tasso di letalità si riduce. L’Imperial College l’ha stimato intorno allo 0,3-1%, ma in Italia per ora è superiore. E poi non si riesce ancora a distinguere tra coloro che sono morti a causa del virus e quelli che sarebbero comunque morti e semplicemente ospitavano il virus. È possibile che, quando saremo in grado di rianalizzare i casi di morte per ora catalogati sotto Covid-19, ci accorgeremo che una parte sono dovuti ad altre cause». Nel dibattito entra anche la Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), secondo cui estendere l’esame del tampone a tutti i soggetti con sintomi respiratori potrebbe essere una misura decisiva per il rallentamento dei contagi. «Per affrontare quella che è ormai un’epidemia incontrollata su gran parte del territorio italiano sono necessari subito tamponi a tappeto per tutti i pazienti con un’affezione delle vie respiratorie, anche senza collegamenti con le zone più a rischio o con contagiati» ha affermato il presidente Simit Marcello Tavio. Fino ad oggi infatti, aggiunge Massimo Andreoni, direttore Scientifico Simit, «i tamponi sono stati limitati a persone sintomatiche che hanno avuto contatti con zone epidemiche o con persone contagiate. Riteniamo invece che in questa situazione tutte le persone che presentano sintomi di un’affezione delle vie respiratorie debbano esser valutate. Non farlo sarebbe un grave errore». La richiesta della Fimmg Lombardia: autorizzare i medici di medicina generale a fare i tamponi a domicilio ai pazienti con probabile polmonite interstiziale trattati a casa, visto il loro notevole aumento. Opinioni non condivise da Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute e membro del consiglio esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «Vanno seguite le linee guida dettate dall’Oms e dal Centro europeo per il controllo delle malattie. E le evidenze scientifiche indicano l’utilità di effettuare i tamponi a soggetti sintomatici che hanno avuto contatti a rischio o che provengono da aree a rischio. Credo non si debba derogare da tali indicazioni — rileva Ricciardi —, altrimenti si possono determinare effetti collaterali. Per esempio, il fatto di aver effettuato all’inizio troppi tamponi ha generato una focalizzazione dell’attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come Paese di “untori”». Oms e Ecdc, ribadisce, «sconsigliano questo tipo di approccio, non è utile». Anche perché, come ha spiegato il ministro della Salute Roberto Speranza, il tampone «non è sufficiente, è la fotografia di un istante. L’incubazione del virus dura 14 giorni, se la persona fa il tampone in uno di questi giorni ha solo l’illusione di aver risolto il problema. La soluzione è invece l’isolamento: solo così avremo certezza che non sarà positiva, altrimenti abbiamo l’illusione della negatività del momento, ma magari potrebbe essere positiva due giorni dopo». Un’estensione a tappeto del tampone ai sintomatici determinerebbe anche «un problema organizzativo se le strutture non vengono preparate, oltre a porre un problema di costi», rileva il segretario nazionale della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg), Silvestro Scotti. Più utile, afferma, «sarebbe invece estendere la misura già adottata in Veneto che è appunto quella di effettuare il tampone a domicilio ai soggetti che rientrano nelle indicazioni previste. L’obiettivo è evitare gli spostamenti in ospedale per fare il test e, dunque, il rischio di contagio». La procedura del tampone consiste in un cotton fioc che raccoglie campioni dal rinofaringe (naso e gola): il costo è di circa 30 euro a tampone. A Vo’ (il focolaio veneto) il 95% della popolazione si è sottoposta volontariamente al test. «Ovunque ci siano focolai, bisognerebbe eseguire test di massa alla popolazione e tracciare i contatti dei positivi (più o meno stretti), quindi isolare tutti i contagiati, anche se asintomatici — ha affermato al Corriere Andrea Crisanti, docente di Microbiologia e virologia e direttore dell’Unità complessa diagnostica di microbiologia della Asl di Padova, che ha gestito con successo il «caso Vo’» —. Ci vuole un’azione aggressiva, altrimenti il virus continuerà a circolare. L’alternativa è la via cinese, tutto chiuso per 3 mesi senza eccezioni. In Lombardia — ha aggiunto — c’è molto sommerso, bisogna farlo emergere, trovare e isolare tutti i positivi e i relativi contatti, diretti e indiretti. Costi quel che costi: servono 5 milioni di tamponi? Che si prendano. La Lombardia ha le risorse per farcela, ma servono misure drastiche».

Da corriere.it il 3 marzo 2020. Nel laboratorio di Virologia presso l’Istituto Superiore di Sanità a Roma fino a prima dell’emergenza coronavirus si svolgevano le esercitazioni per l’individuazione in tempo reale di potenziali virus o batteri usati dal bioterrorismo. Il caso tipico è l’antrace, uno dei agenti più temuti per le cosiddette armi batteriologiche, ma ci sono anche il botulino, l’ebola, l’hanta. Per capirne la pericolosità basti pensare che un grammo di tossina di botulino è quasi tre milioni di volte più efficace del Sarin, un gas nervino sviluppato durante la seconda guerra mondiale e utilizzato, di recente, nel corso della guerra civile siriana del 2013. A causa del propagarsi del coronavirus, oggi in quei laboratori in via Regina Elena, si eseguono unicamente i test ai tamponi dei potenziali contagiati. Tutte le altre attività sono state sospese. All’Istituto Superiore di Sanità, infatti, arrivano i campioni biologici da tutta Italia per le analisi di conferma del test molecolare sul virus Sars Cov2 (il virus responsabile della COVID-19, il coronavirus). I tamponi, che sono come dei grandi cotton fioc con una superficie assorbente su una delle estremità, arrivano -trasportati da militari - in barattoli a chiusura stagna a loro volta inseriti in un altro involucro. Flavia Riccardo, ricercatrice del dipartimento Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, mostra come si effettua un tampone nel modo corretto. L’asticella con la parte spugnosa si deve inserire a livello faringeo. Il prelievo va fatto sulla mucosa della parte posteriore della gola senza contaminarlo con la saliva. Dopodiché si immerge in un flacone: contiene un liquido per il trasporto che ne impedisce il degradamento. Nei laboratori di virologia quei tamponi vengono poi divisi in due porzioni, una per l’indagine molecolare e l’altra per la coltivazione del virus. In un altro piccolo laboratorio poco distante c’è un macchinario che assomiglia a una stampante con un piatto scorrevole simile a quello di un lettore cd. Alessandra Ciervo, virologa dell’ISS, appoggia una piastra con tanti piccole cavità rotonde. Contiene miscele che le permettono di amplificare e analizzare porzioni specifiche del virus Sars Cov2. L’intero processo dura dalle quattro alle cinque ore. La piastra viene rappresentata su un monitor che mostra un piano cartesiano con una serie di onde rosse, venti in questo caso. Ognuna è un paziente a cui è stato riscontrato il coronavirus. Mentre le linee verdi (solo due) sono i negativi.

(ANSA il 12 marzo 2020) - Consip ha avviato due nuove procedure negoziate, che si chiuderanno entro oggi, per reperire sul mercato 390.900 tamponi rinofaringei e 267 kit diagnostici, corrispondenti ad un totale di 67mkila test per il coronavirus. Lo rende noto la società in una nota. Per ogni procedura - viene spiegato - sarà stipulato un contratto con il fornitore individuato e "gli ordini di fornitura verranno gestiti direttamente da Consip, sulla base dei fabbisogni definiti dalla Protezione Civile". Consip - è scritto nella nota - ha avviato la terza e quarta procedura negoziata per le attività di procurement connesse all'emergenza sanitaria Covid-19 - realizzata in coordinamento con il Dipartimento della Protezione Civile - perla fornitura di Tamponi rinofaringei e di Kit diagnostici per coronavirus. Nel dettaglio si tratta dell'acquisto di: 390.900 tamponi rinofaringei per un valore totale di 880mila euro; 267 Kit diagnostici per Coronavirus, corrispondenti a circa 67mila test diagnostici, per un valore totale di un milione 130mila euro. La data presunta di conclusione della procedura - conclude il comunicato - è oggi, 12 marzo 2020.

Manila Alfano per “il Giornale” il 12 marzo 2020. L'Italia dell'emergenza riscopre una domanda fondamentale: ora chi decide? Lo Stato o le Regioni? La macchina è pesante ma bisogna farla girare veloce. «Ora più che mai per il nostro Paese è necessario saper valutare le questioni a sistema. Ragionare avendo una visione allargata». Il professor Mario Mazzoleni, docente di economia aziendale all' università di Brescia e membro del Comitato scientifico consultivo di Confindustria si è trovato in prima linea con il coronavirus perchè affianca la famiglia Triva della Copan Group di Brescia leader nella produzione dei tamponi come strategia advisor.

Professore c' è un allarme sulla produzione dei tamponi?

«Oggi tutti stanno chiedendo tamponi. Dagli ospedali, ai centri d' acquisto regionali e la protezione civile a livello nazionale».

E c' è carenza?

«No. Il problema non è produttivo. Mi spiego meglio: oggi il problema non è avere a disposizione i tamponi, quelli ci sono, noi siamo in grado di dare tamponi nella misura in cui i laboratori sono in grado di lavorarli. Sarebbe possibile alzare le scorte in funzione della gestione».

E allora il problema dove sta?

«Il collo di bottiglia sono i laboratori, non la produzione. Processare un tampone non è una procedura semplice, non tutti i laboratori in Italia sono autorizzato a farlo. Il problema è trovare quelli da autorizzare».

Cioè un cortocircuito di burocrazia?

«Non di burocrazia quanto di un modello istituzionale che sta mostrando difficoltà, che dimostra delle lacune. Ora la vera sfida è trovare la visione d' insieme. Io stesso che lavoro in una azienda che produce tamponi non so quanti tamponi i laboratori sono ad oggi in grado di analizzare. Capisce che è una mancanza di informazione determinante in una situazione del genere».

E come si fa?

«Le strade potrebbero essere diverse: aumentare il numero di laboratori, o mettere in grado i laboratori già esistenti di processare i tamponi, oppure aprire laboratori privati».

Chi può decidere in quale direzione andare?

«Servirebbe un' autorizzazione da parte dello Stato, materia che però sarebbe di competenza delle Regioni che certo non può essere contestata».

Torniamo alla questione principale: chi decide?

«Servirebbe un coordinamento centrale che dia un indirizzo chiaro, una struttura competente capace di tradurre le esigenze in situazioni realizzabili».

Andiamo verso un blocco totale, quale problemi intravede?

«Rispetto alla Cina c' è una differenza fondamentale: là è stata chiusa una Regione, importante, produttiva, ma non tutto il Paese come da noi».

Cosa cambia?

«Che la zona rossa in Cina è riuscita a superare bene il blocco perchè il sistema ha agevolato e sostenuto questa situazione. In Italia il rischio è che aziende che producono mascherine, materiale medico e sanitario, i tamponi restano aperte ma per funzionare hanno bisogno di una rete. Le materie prime con cui vengono assemblati i prodotti, i mezzi per trasportare il materiale prodotto, fino ad arrivare banalmente alla mensa per i lavoratori. Ecco perchè c' è bisogno di quello stesso pragmatismo di cui parlavamo prima, di uno sforzo a leggere a sistema, un approccio che non si occupi dei singoli aspetti ma che trovi una soluzione d' insieme».

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 13 marzo 2020. «Basta avere solo 4 casi isolati di contagio da Covid-19, anche in parti diverse di un territorio, per ricominciare da capo». A sostenerlo è un paper realizzato da alcuni studiosi inglesi e pubblicato ieri su Lancet, tra le più autorevoli riviste scientifiche al mondo. «Ciò suggerisce che correremo un rischio fortissimo non appena abbasseremo la guardia dopo questo lockdown scolapasta. Per questo dovremmo iniziare a pensare anche una strategia diversa, come quella utilizzata in Corea del Sud dove dopo l'esplosione iniziale la curva dei contagi ha iniziato a flettere. Finora sono morti 66 pazienti su 7889» contro i 1016 decessi italiani a fronte di 15113 contagi. Ad utilizzare lo studio come esempio per spiegare la situazione in cui l'Italia potrebbe ritrovarsi, è invece Fabio Sabatini, professore di politica economica della Sapienza Università di Roma che, giustamente, sottolinea di «non essere un virologo» ma solo «uno che ha visto dati e informazioni». In pratica per Sabatini, che fa ampio riferimento a una conferenza stampa sul caso coreano tenuta dall'Oms, c'è il rischio che «se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti al fine di isolarli e curarli» o «se non intervengono nuovi fattori esogeni a rallentare l'epidemia come il caldo o una mutazione del virus» questa possa ripartire. Un'ipotesi che invece le autorità di Seul avrebbero scongiurato puntando su informazione aperta, partecipazione pubblica e test a tappeto. Tre pilastri «da cui possiamo imparare molto» ha spiegato il docente nel post su Facebook a cui ieri ha affidato una prima analisi del fenomeno. Anzitutto «le informazioni sono trasmesse continuamente attraverso conferenze stampa e comunicati dettagliati (molto diversi dai nostri stringati bollettini di guerra)». Una trasparenza che rassicura le persone e le rende più cooperative. In secondo luogo il Korean Center for Disease Control (Kcdc), che ha guidato le operazioni fin dall'inizio dell'emergenza con i contagi della setta Shincheonji, «ha organizzato un formidabile sistema di raccolta di informazioni geolocalizzate per il tracciamento dei contatti dei contagiati». Hanno cioè sottoposto prima a test gli oltre 200mila membri della setta, poi quelli delle persone che avevano avuto a che fare con loro (ci sono collegamenti tra il 65% degli infetti) e infine di chiunque avesse sintomi. Non solo, nel mentre hanno invitato «i potenziali contagiati e i viaggiatori che entrano nel Paese» a scaricare «una app per riportare volontariamente ogni giorno eventuali sintomi e la propria posizione». In questo modo applicazioni come CoronaMap e Corona 100m hanno assunto un ruolo determinante, permettendo agli utenti di non frequentare aree pericolose. Un sistema che ha dato «risultati eccellenti - continua - Il tasso di letalità è ora dello 0,7% (in Lombardia ha superato l'8%)». Se però il meccanismo ha funzionato è stato anche grazie al terzo pilastro della strategia e cioè ai test «mirati, rapidi e precoci» effettuati dal Kcdc. Sfruttando l'esperienza maturata con Sars e Mers (2003 e 2005) e le stazioni drive thru - check point in cui, senza scendere dall'auto, l'automobilista viene testato e riceve una risposta in dieci minuti - hanno raggiunto un ritmo di 20mila tamponi al giorno. In Italia ovviamente la situazione ora è diversa («sfuggita alla possibilità di controllo precoce») e il lockdown che darà risultati tra due settimane è «necessario» ma affiancare il sistema coreano al nostro potrebbe permettere di «conseguire risultati definitivi». Peraltro «sappiamo che la tecnologia per questi sistemi di tracciamento ce l'abbiamo già» conclude Sabatini. Probabilmente con la geolocalizzazione si aprirebbe una questione legata alla privacy ma se davvero i rischi sono quelli paventati dal paper inglese bisognerebbe almeno iniziare a parlarne.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 13 marzo 2020. Sono due le armi principali per sconfiggere il Covid-19. «Il distanziamento sociale. E va bene, questo l'abbiamo fatto. Ma se non tracciamo i contatti, quando mai fermiamo l'epidemia?». Il professor Massimo Galli, primario infettivologo del Sacco di Milano, ragiona da scienziato e affronta il virus con pragmatismo: il picco del contagio dipenderà dall'efficacia delle misure di contenimento, afferma, e «la politica del tampone solo a pazienti sintomatici potrebbe rivelarsi insufficiente».

Intanto però sono state varare disposizioni più stringenti in materia di mobilità e di stop alle attività. Le ritiene sufficienti, professore?

«Credo si debba specificare meglio ciò che si è iniziato a fare, c'è un po' di confusione nelle indicazioni e sarebbe necessaria maggiore chiarezza a livello di articolazioni locali: quali vengono ritenute attività indispensabili tali da giustificare gli spostamenti? Inviterei chi di dovere a precisarlo alla svelta, in questo momento abbiamo bisogno di chiarezza e di unità. Le indicazioni generali vanno bene. La chiusura dei negozi, di bar e ristoranti è decisamente importante, ma la definizione delle attività che possono essere continuate va subito specificata».

C'è qualcosa che, a suo avviso, non è stato ancora fatto ed è urgente?

«Due, in particolare, sono gli ambiti che dovrebbero essere implementati. Il fronte degli ospedali, che è sotto pressione rischia di sprofondare in una grave crisi. L'altro, fondamentale, riguarda la battaglia del virus sul territorio: dobbiamo contenere davvero l'epidemia, non possiamo pensare che gli ospedali possano farsi carico dei malati che arrivano. Questo aspetto va valutato con attenzione e bisogna agire con incisività».

Tracciando il maggior numero di contatti possibile.

«Uno studio, pubblicato il 28 febbraio sulla rivista The Lancet, rileva che considerando un tasso netto di riproduzione del 2.5, l'isolamento dell'80% delle persone che sono entrate in contatto con un paziente affetto da coronavirus permetterebbe di controllare il 90% dei focolai. Un altro parametro fondamentale è il tempo che intercorre tra insorgenza dei sintomi e isolamento: pur con l'isolamento dell'80% dei contatti, in questo modello matematico la probabilità di controllare il focolaio scende dall'89% al 31% se la quarantena avviene in ritardo, cioè circa otto giorni dopo i primi sintomi. Non solo. Il tasso netto di riproduzione del virus è tra 2 e 3 e secondo il modello sarebbe necessario rintracciare più del 70% dei contatti dei pazienti per controllare il focolaio».

Lo stiamo facendo?

«Non abbastanza e la cartina di tornasole è il numero dei morti: 6,6%, più alto rispetto all'attuale 4,5% di Huan. Bisogna risalire a tutti coloro che sono stati in contatto con le persone malate, metterli in quarantena, seguire la comparsa o meno dei sintomi dell'infezione. L'impressione è che vere indagini epidemiologiche su tutti i contatti reali dei malati non vengano fatte. Certo non è facile, sia chiaro, la mia non è una critica. Non punto il dito contro nessuno, dico solo che per fare ciò è importante mobilitare di più la medicina territoriale, il ruolo dei medici di famiglia, sviluppare programmi di telemedicina dedicati ai pazienti in isolamento a casa. Il distanziamento sociale è fondamentale, ma il tracciamento è importante per uscirne prima».

Gli ultimi dati mostrano un ulteriore aumento di malati e decessi. Siamo ancora lontani dal picco?

«I numeri prevedibilmente in progresso sono l'espressione di un'espansione dell'epidemia in termini di contagi già avvenuta. Poiché vengono forniti solo i dati dei pazienti sintomatici, e non sappiamo quanti asintomatici siano ancora in giro, considerato il trend di crescita al picco non siamo ancora arrivati»

Il coronavirus e le difficoltà di fare un tampone: perché alcuni sì e altri no? Le Iene News il 14 marzo 2020. Ce lo state chiedendo in tantissimi. Il test per il coronavirus non è più disponibile per chi non ha sintomi ma diversi personaggi pubblici, da Zingaretti a Vespa, lo hanno fatto anche se asintomatici: perché? Un’infermiera ci ha scritto: “Perché per noi operatori sanitari in prima linea non ci sono abbastanza tamponi e per i vip si?” Siamo tutti uguali davanti al coronavirus, a partire dal tampone che stabilisce se si è stati contagiati o no? Ce lo state chiedendo tantissimi con messaggi ed email. Da oltre due settimane questo esame può essere fatto solo se si hanno sintomi: già, ma allora perché diversi personaggi pubblici, da Zingaretti a Vespa, hanno fatto il tampone da asintomatici? Andiamo con ordine. All’inizio dell’epidemia i tamponi venivano fatti, anche se non si presentavano sintomi, a chiunque avesse avuto contatti con un caso sospetto. Le linee guida sono cambiate con la circolare ministeriale 0005889 del 25 febbraio 2020: niente esame per chi ha avuto contatti con persone positive al coronavirus ma non presenta sintomi. In questo caso si deve fare l’autoquarantena a casa, ma non si ha diritto al test. Aggiungiamo un elemento che ci è stato riferito da chi opera sul campo: in questo momento almeno in alcuni casi in Lombardia non solo non potrebbero farlo i pazienti asintomatici, ma anche quelli “poco sintomatici”. In pratica lo si farebbe ai “sintomatici gravi” e, quando è possibile, ai “sintomatici medi”, ma in questo caso non sarebbe garantito a tutti. Le conseguenze in generale non sono da poco, per usare un eufemismo, come ci raccontate. Ma se è per risparmiare indispensabili risorse mediche ovviamente non c’è alternativa. Vi segnaliamo una storia per tutte di cui siamo venuti a conoscenza. Una persona entrata in contatto con uno positivo al coronavirus aveva bisogno di andare a trovare il genitore morente: doveva essere sicuro di non avere contratto il virus per non trasmetterlo a parenti e a chiunque incontrasse. Purtroppo quella persona non è riuscita a ottenere il tampone che le avrebbe permesso di dare l'ultimo saluto al padre, che nel frattempo è morto. Se avesse potuto fare il tampone, che è stato negato, e fosse risultata negativa, quella persona, di cui rispettiamo l’anonimato richiesto, tutto questo sarebbe stato evitato. Negli ultimi giorni però abbiamo assistito ad alcuni casi di personaggi pubblici che hanno potuto fare il tampone anche se non presentavano sintomi. Parliamo, solo per fare alcuni esempi, del segretario Pd Nicola Zingaretti, del governatore del Piemonte Alberto Cirio, del calciatore della Juventus Daniele Rugani e del giornalista Bruno Vespa (l’unico di questi quattro a essere risultato poi negativo). E proprio su quest'ultimo si sono accese le polemiche. Il giornalista, infatti, si è sottoposto al tampone dopo aver ospitato nella sua trasmissione Zingaretti, risultato poi positivo. Ma questa mossa non è riuscita a fermare la decisione della Rai, che ha sospeso la sua trasmissione. Vespa però ha spiegato: "Nicola Zingaretti è venuto a 'Porta a porta' nel pomeriggio di mercoledì scorso e ha manifestato i primi sintomi di positività al virus sabato. Il direttore generale dello Spallanzani, professor Ippolito, mi ha confermato che il rischio si limita alle persone che nelle 48 ore precedenti abbiano avvicinato la persona infetta per più di mezz'ora a meno di un metro di distanza. Questo con Zingaretti non è avvenuto. Non esiste pertanto alcuna ragione sanitaria si cui si fondi il provvedimento”, conclude il giornalista. Ma il sindacato dei giornalisti Rai, l'Usigrai, mette addirittura in discussione il fatto che Vespa si sia realmente sottoposto al tampone: "Come avrebbe fatto, visto che i protocolli prevedono il tampone solo per persone a contatto con contagiati e contemporaneamente con sintomi? Se la quarantena è di 14 giorni, perché la tempistica preventiva che vale per tutti per lui dovrebbe essere diversa?". Noi de Le Iene abbiamo provato a chiederglielo per liberare il campo da ogni dubbio, ma non abbiamo ottenuto risposta. Ma le difficoltà a fare il tampone toccherebbero addirittura chi è malato. Su “Il Fatto Quotidiano” Claudio Bramini, medico di famiglia a Sagliano Micca (Biella), racconta che non può “sottoporre a tampone quattro pazienti con polmonite interstiziale”. Il dottore ha chiamato tutti i numeri di emergenza: “Mi dicono che la polmonite e la febbre a 38 e mezzo e a 39 non basta. Serve la certezza di un contatto con un positivo. Ma come si fa ad avere questa certezza? Sono commercianti, avranno incontrato centinaia di persone”. Il medico li ha trattati come fossero positivi. Si chiede anche lui: “Una cosa vorrei sapere come sia possibile: leggo di tante persone famose, calciatori, politici e vip vari, che pure senza sintomi hanno avuto la possibilità di essere sottoposti a tampone”.

Ed ecco ci ha scritto oggi un'infermiera, di cui teniamo nascosta l'identità: “Sono venuta a conoscenza tramite social della positività al virus di vari ministri, calciatori, sportivi in genere e gente dello spettacolo. Tutti fortunatamente asintomatici. Apprendo però di un regolamento per cui i tamponi possono essere fatti agli infermieri e al personale sanitario in genere solo se presentano sintomi e hanno una positività in reparto. Perché un politico TOTALMENTE ASINTOMATICO può essere meritevole di un tampone e un infermiere anche se ha febbre e tosse non ne ha diritto se non con un caso positivo accertato? Cosa abbiamo noi sanitari in meno dei politici per non poter ricevere il tampone? Anzi probabilmente ne avremmo più diritto visto che lavoriamo in prima linea! Questo governo che tanto ci loda, che tanto ci definisce eroi, in realtà non sta facendo altro che dimostrare quanta differenza ci sia tra cittadini di serie A e di serie B. Siamo carne da macello? Noi, i nostri pazienti, i nostri familiari? Quali sono i criteri secondo cui a Zingaretti, Cirio e tutti gli altri è stato fatto il tampone pur essendo, ripeto, TOTALMENTE ASINTOMATICI e invece a noi operatori ci viene risposto che non ne siamo meritevoli?”. Che il problema sia che non ci sono abbastanza tamponi per tutti?

Coronavirus, chi fa i tamponi di Wuhan e Codogno? La Copan di Brescia (che lavorò sul caso Yara). Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Carlo Cinelli. Imprenditrice e manager, è lei che dall’ufficio nella zona industriale di Brescia sta mettendo il turbo alla produzione di tamponi. La sua azienda, Copan (ossia, all’inizio, 41 anni fa, «Coadiuvanti Per Analisi» e oggi «Collection and Preservation for Analysis») è una multinazionale tascabile, circa 146 milioni di ricavi. Il 90 % della produzione destinata all’estero. Fondata nel 1979 da Giorgio Triva, padre dell’attuale presidente, Copan è leader globale nella progettazione e produzione di «dispositivi per il prelievo e la conservazione di campioni microbiologici per analisi» oltre che di sistemi di automazione correlati alla fase preanalitica della ricerca in ambito ospedaliero, genetico, alimentare e farmaceutico. Il gruppo non è sconosciuto alle cronache perché, tra le diverse produzioni, ha anche una «linea forensics» per la raccolta e l’analisi di campioni per la ricerca di tracce di Dna. Copan ha così collaborato con la Gendarmerie francese dopo l’attentato al Bataclan di Parigi e sulla tragedia Germanwings, tre anni fa. Il Ris di Parma l’ha chiamata sul caso di Yara Gambirasio. «Ma abbiamo buoni rapporti e collaboriamo anche con Scotland Yard e l’Fbi», spiega la presidente, che però in questi giorni pensa decisamente ad altro. Da venerdì 21 febbraio Triva ha spinto a pieno regime la catena produttiva anche per il mercato interno. Dall’inizio di gennaio la produzione è esplosa. «Di solito – racconta Triva, presidente del gruppo e ceo della divisione italiana – ogni anno, a settembre, sulla scorta delle nostre rilevazioni in Australia, dalla filiale di Sidney, ci prepariamo ai picchi produttivi dell’influenza. Quest’anno era previsto un volume medio-alto, più forte della stagione ’18-’19. Eravamo dunque pronti, ma l’avvento del Covid-19 ci sta spingendo su nuovi ritmi». L’invenzione dei tamponi di nuova generazione made in Italy è una storia a parte. La racconta, in un volume di recente pubblicazione per FrancoAngeli editore, Mario Mazzoleni, associato di Business administration and strategy e direttore della scuola di alta formazione dell’università di Brescia. Mazzoleni è anche advisor strategico di Copan. «Fino a quel momento nessuno aveva pensato di trovare un materiale, diverso rispetto a quelli già utilizzati, che fosse più efficace ed efficiente nel rilascio dell’analita. Esistevano i filati di cotone, incollati all’asticella che formava lo Swab, con il quale si prelevava il campione, oppure quelli di plastica o di altre fibre sintetiche. Punto. Invece Daniele — scrive Mazzoleni — inventò il tampone floccato, punto e a capo. Passando il dito sopra un appendino, un gesto banale e semplice, notò quanto il nylon che lo ricopriva fosse sottile eppure con un’ottima capacità di assorbimento, così immaginò di impiegare questo materiale sui tamponi. Perché no? Se le fibre di nylon di cui è composto quel vellutino si fossero potute applicare nella giusta densità, avrebbero creato un batuffolo abbastanza compatto da risultare assorbente come una “spugna”, ma in grado di rendere tutto il campione disponibile per il test in fase liquida e facendo davvero la differenza».

·         Epidemia e Vaccini.

La lezione dei vaiolo che l’Oms non ha imparato. Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo su Inside Over il 21 dicembre 2020. Il suo nome non dice nulla ai più ma per il mondo scientifico significa la fine di un’epoca, ovvero quella del vaiolo. Lei era Janet Parker, una fotografa medica: nel 1978 è stata l’ultima persona ad ammalarsi e morire di vaiolo nonostante già in quella fase il virus stava per essere eradicato. Dopo la fotografa non ci sono state più altre vittime. Come si è arrivati a questo risultato? E cosa oggi, in piena pandemia da coronavirus, possiamo imparare da allora?

Edward Jenner e il suo intuito sul vaccino. Si attribuisce ad Edward Jenner il merito della scoperta del vaccino contro il vaiolo nel 1798. Il medico inglese ha avuto una spiccata intuizione partendo dall’osservazione di un fenomeno particolare: le persone che lavorando con il bestiame avevano contratto il vaiolo bovino risultavano immuni al virus, al contrario di chi viveva in città. Le sue osservazioni non sono state sperimentate subito ma in un secondo momento. In particolare, quando i pazienti che si recavano nel suo studio per farsi visitare dopo aver contratto il vaiolo bovino, risultavano “protetti” da quello umano che stava sterminando la popolazione a Londra. La prima sperimentazione del medico è stata eseguita quando una lattaia locale ha iniziato a farsi curare dal medico dopo la comparsa dei sintomi del vaiolo bovino. È stata in questa occasione che Edward Jenner ha messo in pratica quella che fino a poco prima era stata solo una teoria: ha iniettato nel piccolo figlio del suo giardiniere del materiale infetto prelevato dalle lesioni del corpo della lattaia provocate dal vaiolo bovino. Il bambino, come già preventivato dallo stesso medico, ha avuto po’ di febbre come reazione, ma dopo due giorni stava bene. Dopo un paio di mesi Jenner ha avuto la conferma che cercava: dopo aver iniettato in entrambe le braccia del piccolo il materiale infetto prelevato da un caso umano di vaiolo, non c’è stato alcun effetto degno di nota. Il bambino stava bene. Quello è stato il cammino verso la nascita del primo vaccino, il cui termine è stato ideato da Jenner facendolo derivare dalla parola variolae vaccinae, ovvero vaiolo della vacca.

Cos’è il vaiolo. La malattia di variola virus in natura ha avuto la capacità di infettare solamente l’uomo, non c’è stata una trasmissibilità attraverso gli animali, al contrario del coronavirus per il quale si sta cercando ancora oggi di conoscere i dettagli circa il salto di specie dal pipistrello all’uomo. Il virus si manifesta con febbre alta, tosse e raffreddore e anche con rush e lesioni cutanee che si sollevano in papule piene di pus. Appartenente alla famiglia Orthopoxviridae, il virus del vaiolo è stabile a temperatura ambiente e, per la natura delle sue dimensioni, è facilmente trasmissibile via aerosol. Quindi basta l’inalazione delle goccioline contenenti i virioni per trasmettersi da persona a persona. La trasmissibilità avviene nelle distanze ravvicinate o venendo a contatto con oggetti contaminati. Il virus non è contagioso durante la fase dell’incubazione ma dal momento in cui iniziano le reazioni cutanee. Quando si stacca l’ultima crosta, il malato smette di essere infettivo.

La guerra al vaiolo. Le caratteristiche del virus e la sua alta letalità hanno tenuto l’umanità costantemente con il fiato sospeso. Al vaiolo è attribuita una delle più gravi catastrofi dell’Impero Romano, quella cioè dell’epidemia di peste antonina diffusasi soprattutto tra il 165 e il 180 d.C. e che, tra gli altri, ha ucciso lo stesso imperatore Lucio Vero. Nell’era moderna, la scoperta del vaccino ha permesso notevoli sforzi sul contenimento della malattia. Ma è soprattutto dal 1959 che a livello globale è iniziata una vera e propria guerra al vaiolo: in quell’anno infatti, l’Oms ha lanciato l’operazione volta ad eradicare del tutto l’agente patogeno. All’epoca in media due milioni di persone ogni anno morivano a causa del vaiolo. L’Oms, assieme agli Stati membri dell’organizzazione, ha stanziato miliardi di Dollari per raggiungere l’obiettivo. Protagonista della sfida al virus è stato il virologo australiano Frank Frenner: isolamento dei malati e vaccinazione di coloro che erano a contatto con loro, ha spiegato nel programma da lui redatto per l’Oms, gli elementi cardine per sconfiggere il vaiolo. La povera Janet Parker, ultima vittima di vaiolo accertata nel 1978, ha subito il contagio all’interno di un laboratorio di Birmingham, ma l’ultimo uomo a contrarre il virus da un focolaio ancora attivo è stato un cuoco somalo di 23 anni nel 1977. Da quel momento, come ricostruito in una pubblicazione del 2005 degli studiosi Atkinson, Hamborsky, McIntyre e Wolfe, non è stato registrato più alcun caso di vaiolo. L’eradicazione del virus è stata confermata da una commissione di esperti dell’Oms il 9 dicembre 1979 e dichiarata solennemente l’8 maggio del 1980.

Una lezione oggi non imparata. Partiamo per un attimo proprio dalla data della proclamazione solenne della sconfitta del virus: lo scorso 8 maggio l’Oms ha celebrato i 40 anni da quell’evento. Lo ha fatto mentre il mondo era già in lotta contro la pandemia da coronavirus: “Il vaiolo è la prima e unica malattia eradicata su scala globale, attraverso la collaborazione di paesi in tutto il mondo – si legge nella nota dell’Oms – Da questa eradicazione, ci sono molte lezioni da imparare che possono aiutare a combattere Covid-19”. Per eradicazione, come è possibile leggere dallo stesso sito dell’Oms, si intende la “riduzione permanente a zero dell’incidenza mondiale di un’infezione”. È lecito aspettarsi un simile successo nella lotta al nuovo coronavirus? Lo scetticismo in questo caso regna sovrano. In primo luogo, il successo contro il vaiolo non è attribuibile unicamente all’Oms. Studi contro questo virus erano iniziati ben prima della fondazione dell’organizzazione nel 1948. In secondo luogo, oggi la credibilità dell’Oms è ridotta ai minimi termini. Quanto accaduto a inizio 2020 con la diffusione del Covid-19, tra allarmi lanciati in ritardo e confusione nelle indicazioni date dall’Oms, ha messo in guardia anche la stessa comunità scientifica: “Oggi l’Oms è più un’organizzazione politica che scientifica”, ha ad esempio ribadito su InsideOver lo scorso 5 novembre il virologo Massimo Clementi. In un simile contesto, sono in pochi a credere alla possibilità che l’Oms sia in grado di lanciare oggi contro il Covid la guerra già vista negli anni ’60 contro il vaiolo. È probabile che si arrivi a una circolazione endemica del coronavirus e a un’attenuazione su scala globale dell’emergenza. Subito dopo nel mondo scientifico post Covid è probabile un’autentica resa dei conti. Con l’Oms sempre meno protagonista e con una lotta ai prossimi virus tutta da riscrivere.

La Chiesa apre ai vaccini: "Cellule di feti abortiti? Moralmente accettabile". Il Vaticano, mediante una nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha diffuso alcune specificazione morali sui vaccini creati o sperimentati mediante l'utilizzo di linee cellulari derivanti da feti abortiti. Francesco Boezi, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. Il Covid-19, ormai lo sappiamo, obbliga a delle scelte. Sembra essere il caso del Vaticano rispetto ai vaccini creati pure attraverso linee cellulari di feti abortiti. Un dettaglio vero a patto che esistano determinate condizioni. La questione attiene alla bioetica ed è molto complessa. La premessa è che la Santa Sede è contraria all'aborto. Se non altro perché è la dottrina cristiano-cattolica a sbarrare la strada alle pratiche abortive. Durante questo pontificato, papa Francesco ha usato l'espressione "sicari" in associazione a chi opta per l'aborto. Tanto per essere chiari. La nota della Congregazione per la Dottrina della Fede affronta invece l'annoso tema della disponibilità universale dei vaccini. Jorge Mario Bergoglio vorrebbe che fossero garantiti all'umanità intera, anche alle periferie del mondo, dove l'accesso alle cure è meno banale. L'ex Sant'Uffizio ha deciso di esprimersi sul tema. Questo avviene proprio mentre l'Europa si accinge a dare il via al piano di vaccinazione. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha detto qualche sì che potrebbe suonare come inaspettato: "Quando non sono disponibili vaccini contro il Covid-19 eticamente ineccepibili (ad esempio in Paesi dove non vengono messi a disposizione dei medici e dei pazienti vaccini senza problemi etici, o in cui la loro distribuzione è più difficile a causa di particolari condizioni di conservazione e trasporto, o quando si distribuiscono vari tipi di vaccino nello stesso Paese ma, da parte delle autorità sanitarie, non si permette ai cittadini la scelta del vaccino da farsi inoculare) - hanno fatto sapere dall'ex Sant'Uffizio - è moralmente accettabile utilizzare i vaccini anti-Covid-19 che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e produzione". La ratio della riflessione è chiara: affinché l'utilizzo di quei vaccini sia fattibile, bisogna che non esistano altre soluzioni. Come viene specificato, però, devono esistere quelle condizioni precise senza cui la morale cristiana non fa sconti. Stando a quanto si apprende dalla Lapresse, il Vaticano dichiara dunque possibile l'opzione dell'utilizzo di quella tipologia di vaccini a patto pure che linee cellulari utilizzate, nella fase della produzione o in quella della sperimentazione, non derivino da pratiche abortive volontarie. Non solo: non deve sussistere l'eventualità di alternative. Altrimenti c'è un niet. Una posizione che, nelle intenzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, che è presieduta dal cardinale e gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, potrebbe consentire l'accesso allo strumento chiamato a risolvere la situazione pandemica a popoli che altrimenti avrebbero delle difficoltà in più per reperire i vaccini. Tutto questo avviene mentre la scienza dibatte su come e quanto la cosiddetta "variante inglese" del nuovo coronavirus possa influire sull'efficacia delle vaccinazioni. C'è ottimismo, ma la novità rimane sul piano delle discussioni. Qualche consacrato, in specie nel contesto conservatore degli Stati Uniti, non era sembrato proprio concorde con la possibilità che i vaccini somministrati fossero stati creati mediante linee cellulari appartenenti a feti abortiti. Come spesso accade in materia di dottrina, però, il Vaticano ha messo la parola fine ad eventuali dispute dottrinali, circostanziando le occasioni in cui la somministrazione di un vaccino così concepito debba essere accettata sul piano morale. Niente di così sconvolgente rispetto alla dottrina e rispetto ad altre posizioni simili che erano state diffuse in precedenza, ma qualcuno potrebbe comunque gridare allo scandalo.

Vaccine Day, si parte il 27 in tutta Italia: borse ghiaccio, formazione e esercito in campo. Paolo Brera su La Repubblica il 18 dicembre 2020. Ecco il piano del governo per la distribuzione del vaccino Pfizer: sarà una somministrazione simbolica di 9.750 dosi, ma subito dopo scatterà la gestione ordinaria. Tutto pronto per il Vaccine Day italiano: il 27 dicembre saranno iniettate le prime 9.750 dosi del vaccino Pfizer. Ecco le tappe, giorno per giorno.

Lunedì il via libera definitivo. L’Agenzia europea del farmaco (EMA) ha annunciato che il Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP) è stato convocato il 21 dicembre per una riunione straordinaria che dovrebbe decidere l’immissione in commercio del vaccino Pfizer/BioNtech. Se tutte le procedure di verifica Ema e Aifa saranno completate favorevolmente, l’avvio della campagna di vaccinazione italiana - spiega il protocollo del Piano vaccini Covid della presidenza del Consiglio - potrà iniziare nei giorni immediatamente successivi.

Vaccine Day, il 27 dicembre. Se arriverà il via libera definitivo si partirà dunque il 27 dicembre con la prima spedizione simbolica di 9.750 dosi. Dovrebbero partire dal Belgio giovedì 24. "Le dosi saranno consegnate direttamente da Pfizer in un unico punto nazionale, l’Ospedale Spallanzani di Roma, il 26 dicembre". Da lì saranno le forze armate a distribuirlo a tutte le Regioni e alle province autonome. L’invio simbolico è una percentuale, identica per tutte le Regioni, del quantitativo totale condiviso per la prima distribuzione ordinaria ad ogni Regione. Ad avere il maggior numero di dosi per le prime inoculazioni sarà la Lombardia, con 1.620 dosi, seguita da Emilia Romagna (975), Lazio (955), Piemonte (910) e Veneto (875). Le regioni che riceveranno meno dosi sono la Valle d'Aosta (20), il Molise (50) e l'Umbria (85).

La vaccinazione ordinaria. Dal 28 partirà invece la distribuzione ordinaria: le prime dosi spedite da Pfizer nei punti che le Regioni hanno dichiarato essere provvisti di celle frigo adatte alle temperature rigide richieste per la conservazione del principio attivo, le Ult. Dove non risultassero ancora attrezzati, le dosi saranno inviate nei presidi ospedalieri più vicini. Scatterà dunque l’invio sistematico e ordinario delle dosi, con cadenza ancora da confermare ma dovrebbe essere su base settimanale: le dosi dovranno essere spedite con cadenza e quantità sufficiente a garantire la somministrazione delle due dosi che ciascun vaccinato dovrà assumere entro i termini previsti.

Le borse ghiaccio. Le dosi saranno distribuite in Cryo–box, all’interno di una borsa, per mantenere la temperatura di 2-8°. La Cryo-box conterrà il codice del lotto per assicurarne la tracciabilità. Sarà dotata di un data logger analogico per la verifica di stabilità della temperatura. Le borse contenenti le Cryo-box saranno prelevate dall’esercito allo Spallanzani e, su gomma e con mezzi aerei, trasportate nei 20 punti di somministrazione che saranno individuati entro le 7 del mattino del 27 dicembre. Le dosi così consegnate dovranno essere conservate alla temperatura di 2-8° e dovranno essere interamente utilizzate nei successivi 4 giorni.

La macchina organizzativa. Comunicati al Commissario i punti di somministrazione regionale e del referente per l’organizzazione del Vaccine Day, entro domenica dovrà essere comunicato al Commissario il numero di addetti alla campagna di somministrazione nel punto di somministrazione regionale per il Vaccine Day (medici, infermieri, assistenti sanitari, personale amministrativo, Oss). Entro martedì saranno raccolte le adesioni e le prenotazioni e dovranno essere organizzati i punti di somministrazione, evitando code e assembramenti. Compatibilmente con le dosi disponibili dovrà essere organizzata la somministrazione in una RSA del territorio. Dalla prossima sessione di somministrazione sarà disponibile il sistema informativo centralizzato. Entro mercoledì  saranno inviati al Commissario le prenotazioni e il calendario con il numero di vaccinazioni ogni giorno.

La formazione del personale. Domani arriveranno le linee guida per la conservazione e la somministrazione. Da mercoledì partirà la formazione per il personale coinvolto, a cura dell'Istituto superiore di sanità.

I primi vaccini. Il 27 dicembre ecco finalmente il Vaccine day, con l'avvio della campagna di vaccinazione: i punti di somministrazione dovranno garantire l'operatività dalle 7 del mattino alle 22 di sera. Si partirà con l'acquisizione delle dosi da parte del personale addetto: chi verrà vaccinato farà il checkin, riceverà la somministrazione, resterà in attesa fino alla consegna del certificato e riceverà una conferma dell'appuntamento per seconda dose.

Dieci domande (e risposte) sulla campagna di vaccinazione italiana. Federico Giuliani su Inside Over il 20 dicembre 2020. È partito il conto alla rovescia in vista del Vaccine Day, previsto per il prossimo 27 dicembre. Quel giorno otto Paesi europei, tra cui l’Italia, daranno il via libera alla somministrazione delle prime dosi di vaccino anti Covid-19. Sul tavolo dell’Unione europea ci sono già diversi accordi stipulati con varie aziende farmaceutiche. Nel corso del 2021, ogni Paese membro provvederà a imbastire la propria campagna di vaccinazione, in linea con le road map allestite dai rispettivi governi. In riferimento all’Italia, cerchiamo di sciogliere gli ultimi dubbi in merito all’inoculazione dei vaccini.

Quando inizierà la vaccinazione?

«Non c’è ancora una data precisa sul calendario. Sappiamo che il 27 dicembre l’Italia somministrerà le prime 9.750 dosi del vaccino realizzato da Pfizer e BioNTech in occasione del Vaccine Day simbolico. La vera e propria campagna di vaccinazione dovrebbe partire a metà gennaio, presumibilmente tra il 12 e il 15».

Chi verrà vaccinato per primo?

«La precedenza spetterà ad alcune categorie di persone. Il vaccino sarà somministrato prima agli operatori sanitari, al personale dei presidi ospedalieri e agli ospiti e ai lavoratori delle residenze per anziani. In un secondo momento, quando tutto sarà pronto per lo step numero due, le dosi potranno essere iniettate al resto della popolazione, secondo un ordine decrescente di fragilità. Si partirà, dunque, con i cittadini più fragili. Scendendo nel dettaglio, sono in prima fila le persone in età avanzata (non sappiamo ancora quale sarà l’età di riferimento per avere la priorità), gli insegnanti, il personale scolastico, le forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità».

Quali vaccini saranno somministrati?

«Come detto, l’Europa ha stretto accordi con varie aziende. In lizza troviamo i vaccini realizzati da AstraZeneca-Oxford, Sanofi-GSK, Johnson & Johnson, Moderna e Pfizer-BioNTech. Sarà proprio quest’ultimo vaccino quello che verrà iniettato durante il Vaccine Day. Da gennaio in poi, e nel corso del 2021, sarà la volta di tutti gli altri vaccini».

Quanto ci vorrà prima di vaccinare tutta la popolazione italiana a rischio?

«Difficile dirlo con certezza. A detta degli esperti, la prima fase potrebbe concludersi già a febbraio, visto che coinvolgerà personale sanitario e altri soggetti da intercettare presso le strutture ospedaliere. In ogni caso, per vedere effetti apprezzabili sulla popolazione generale sarà necessario pazientare ancora qualche mese. Numeri alla mano, bisognerà raggiungere una percentuale di vaccinati di almeno 10-15 milioni di persone vaccinate. Tempo stimato: primavera 2021».

Cosa succederà quando milioni di persone saranno immunizzate?

«Il processo, ripetiamolo, sarà lento e non certo istantaneo. Tuttavia, gli effetti dell’immunizzazione saranno visibili nel conteggio generale dei dati epidemiologici. Ricoveri e decessi dovrebbero gradualmente calare, e questo per due motivi: 1) il vaccino proteggerà dal Covid-19 e 2) ospedali e Rsa non saranno più focolai. Nei primi sei mesi del 2021 potremo essere in grado di proteggere almeno i soggetti più a rischio».

Quando scenderanno i contagi?

«Per quanto riguarda gli effetti sui contagi, per assistere a una loro diminuzione si dovrà prima raggiungere una specie di “massa critica” di persone vaccinate. Secondo alcuni ricercatori, dovremo attendere che il 20-30% delle persone siano vaccinate».

I vaccinati continueranno a essere contagiosi?

«I vaccini realizzati da Pfizer-BioNTech, Sanofi e Moderna possono proteggere dalla malattia e, al tempo stesso, scongiurare il contagio tra persone. Dunque, non dovrebbe esserci questo rischio».

Quando raggiungeremo la famigerata immunità di gregge?

«Alcuni esperti sostengono che per raggiungere l’immunità di gregge, e quindi bloccare la circolazione del virus, sarà necessario vaccinare una percentuale di popolazione compresa tra il 65 e l’85%».

Quante dosi saranno ricevute da ciascuna regione?

«La Lombardia riceverà 304.955 dosi di vaccino Pfizer-BioNTech contenuto nella prima consegna all’Italia (non sappiamo quando avverrà). Questa la lista completa: Abruzzo 25.480; Basilicata 19.455; Calabria 53.131; Campania 135.890; Emilia Romagna 183.138; Friuli VG 50.094; Lazio 179.818; Liguria 60.142; Marche 37.872; Molise 9.294; PA Bolzano 27.521; PA Trento 18.659; Piemonte 170.995; Puglia 94.526; Sardegna 33.801; Sicilia 129.047; Toscana 116.240; Umbria 16.308; Valle d’Aosta 3.334; Veneto 164.278. La seconda fornitura di dosi di vaccino garantita da Pfizer all’Italia sarà di 2.507.700 dosi».

Ci sono Paesi che hanno già iniziato a somministrare vaccini?

«Sì, e non solo in Europa. Le vaccinazioni sono partite in Gran Bretagna (primo Paese europeo), ma anche in Cina (si attende l’annuncio ufficiale del governo centrale, anche se è possibile vaccinarsi in alcune città), negli Emirati Arabi, negli Stati Uniti e in Russia».

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 22 novembre 2020.

1 - Quanto tempo è necessario di norma per lo sviluppo di un vaccino?

Risponde Guido Rasi, ex direttore dall' Ema, l'agenzia europea del farmaco, professore di microbiologia all' università di Tor Vergata: «Il tempo è variabile e imprevedibile. Per l' antinfluenzale basta un anno perché si parte da una piattaforma tecnologica dove viene inserito il virus che cambia. Col vaccino dell' epatite C si tenta da anni ed é stato un fallimento così come per l'Aids. Per l'anti Ebola ci sono voluti 8 anni per le difficoltà legate alla breve durata delle epidemie».

2 - Perché l'anti Sars-CoV-2 invece arriva dopo un anno?

«Non c' è stato nessun problema nell' arruolamento pazienti in quanto l' epidemia non si è mai interrotta. È stato facile fare la sperimentazione in una popolazione molto esposta al virus».

3 - Cos' altro ha velocizzato i tempi?

«Sono stati investite somme mai viste e utilizzate piattaforme tecnologiche che hanno messo insieme più gruppi di ricerca che hanno lavorato su elementi messi subito a disposizione della comunità scientifica. Si è lavorato per grandi consorzi e non per singoli laboratori».

4 - Il vaccino ha «viaggiato» su una corsia preferenziale?

«In Ema è stata costituita una task force che lavora solo sul Covid, composta da esperti indicati dalla rete delle autorità regolatorie nazionali. A loro spetta la valutazione dei dati prodotti per lo sviluppo di farmaci e vaccini anti Covid. Le aziende sono state autorizzate a mandare i dati man mano che ne avevano e la task force li ha esaminati volta per volta senza dover attendere la conclusione dell' intero dossier per l' autorizzazione. In questo modo i tempi di valutazione si accorciano: da 1 anno a 3 mesi. L'Ema sta lavorando da 3 mesi su sui vaccini di Astrazeneca, Moderna e Pfizer/Biontec».

5 - La velocità va a scapito della sicurezza?

«No, nessuna tappa è stata saltata. Sono state eliminate solo le inefficienze amministrative e burocratiche e le aziende hanno messo in campo tutte le forze».

6 - Sono stati semplificati i test di fase 1 e 2?

«No. Quando si dice che le fasi 1 e 2 sono state portate avanti in parallelo significa che mentre un gruppo di pazienti veniva osservato con la metodologia inerente la fase 1, un altro gruppo veniva osservato per la fase successiva. Il rischio è di chi produce il farmaco. Se la fase 1 andasse male si sprecherebbero le risorse impiegate in fase 2».

7 - Quante persone sono state vaccinate?

«Oltre 130mila, compresa la fase 3. Tradizionalmente vengono arruolate tra 300 e 3000 persone».

8 - Come mai i risultati delle sperimentazioni non sono ancora stati pubblicati ma solo pre annunciati dalle aziende?

«Non è la prima volta che le aziende anticipano i risultati, secondo un gioco commerciale che non sorprende, ma questo non influenza le autorità regolatorie. E a loro che spetta richiedere i dati da analizzare. Il mondo della comunicazione industriale e dei tecnici non si incontrano. Di sicuro le anticipazioni creano confusione. I dati ufficiali dell' Agenzia del farmaco vengono pubblicati sul sito dell' Ema e chiunque li potrà consultare, compresa la metodologia e i passaggi che hanno portato all' approvazione dei singoli prodotti».

9 - I tre vaccini hanno provocato effetti collaterali durante i test?

«Qualsiasi vaccino sviluppa effetti collaterali nel 3-5% dei vaccinati: si va dal gonfiore sul braccio per la puntura alla febbricola di 2 giorni».

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 9 dicembre 2020.

1 Quando scatta la vaccinazione in Italia?

La data di inizio della campagna è legata alle autorizzazioni che devono essere rilasciate dall' agenzia regolatoria europea per i medicinali (Ema) alle aziende Pfizer/BioNTech e Moderna. L' ente di Amsterdam si riunirà in via straordinaria per «perfezionare la valutazione» sui due farmaci rispettivamente il 29 dicembre e il 12 gennaio. La distribuzione delle dosi ai Paesi dell' Ue che le riceveranno sulla base di accordi presi dalla Commissione partirà subito dopo.

2 Quali sono i tempi?

Una iniziale disponibilità di 28 milioni di dosi entro la fine di marzo sarà sufficiente per garantire la profilassi a quasi 6,5 milioni di italiani appartenenti alle categorie ritenute più urgenti: operatori sanitari (1.404.037), personale e ospiti delle Residenze sanitarie (570.287), anziani sopra gli 80 anni (4.444.048).

3 Quanto durerà la campagna?

Con l'arrivo di altre dosi il vaccino andrà alle altre fasce di popolazione: persone tra 60 e 79 anni, cittadini con almeno una malattia cronica, insegnanti, lavoratori di servizi essenziali, carceri. Tra terzo e quarto trimestre saranno protetti la maggior parte degli italiani. L'Italia ha acquistato oltre 202 milioni di dosi (anche di AstraZeneca che ieri ha annunciato la pubblicazione su Lancet di dati sull' efficacia: 70%) sufficienti per vaccinare due volte ogni cittadino (seconda dose a un mese dalla prima) e tenere delle scorte. In base ad accordi preliminari sono previsti i quantitativi di Johnson and Johnson, Sanofi/Gsk e Curevac.

4 Bisognerà prenotarsi?

È in corso di realizzazione una app per prenotarsi e monitorare eventuali reazioni avverse con un sistema di farmacovigilanza. L'applicazione manderà l' avviso sulla data del richiamo.

5 Il vaccino è obbligatorio?

No, è su base volontaria. Il presidente Sergio Mattarella si sottoporrà alla profilassi quando verrà il suo turno in base all' età, «senza scavalcare l' ordine di precedenza». Il quotidiano Il Foglio ha lanciato un appello per chiamare cariche istituzionali e i politici alla vaccinazione e molti hanno già aderito.

6 Le fiale possono essere acquistate in farmacia?

No, la vaccinazione sarà gratuita per tutti quindi quest' anno le dosi non andranno in vendita. È prevista una campagna di sensibilizzazione affinché i cittadini si convincano dell' importanza della profilassi e contribuiscano al raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge: il 70% degli italiani vaccinati .

7 Si andrà dal medico di famiglia, dal pediatra o alla Asl?

Nella prima fase il vaccino sarà portato, sotto il controllo delle forze armate, in 300 centri ospedalieri dall' hub dell' aeroporto di Pratica di Mare, dove arriveranno le forniture. Ci saranno unità mobili che si muoveranno poi da questi 300 centri per portare le dosi a destinazione, ad esempio nelle Rsa. In una seconda fase il vaccino sarà presente in 1.500 punti di somministrazione e le unità mobili lo porteranno da qui a casa delle persone anziane o con problemi di salute e impossibilitate a muoversi.

8 Come mai il Regno Unito è partito prima?

Dopo la Brexit l' ente regolatorio britannico Mhra è indipendente dall' Ema. Per questo il 2 dicembre ha potuto autorizzare l' uso in emergenza del vaccino Pfizer/BioNTech. Negli Stati Uniti, l' agenzia americana Fda ha fissato la riunione del suo comitato Vrbpac ( Vaccines and related biological products advisory committee ) per il 10 dicembre e il 17 dicembre darà il parere sul vaccino di Moderna.

9 Quali altri Paesi hanno già avviato le vaccinazioni?

In Russia è cominciata da alcuni giorni la somministrazione gratuita di Sputnik V, creato dall' istituto Gamaleya che Mosca ha autorizzato secondo una procedura autonoma, sperimentato su 40mila soldati volontari. La Russia ha stipulato accordi per la produzione di 100milioni di dosi, vendute anche all' Ungheria.

10 E la Cina?

Il Paese, dove è nata l' epidemia circa un anno fa, dispone di almeno 5 vaccini prodotti da industrie locali. Ne ha promesso una fornitura ai Paesi amici (Corea del Nord, Iran). Israele riceverà le prime dosi da Pfizer già questa settimana dopo il presunto via libera del 10 dicembre. Tutti i piani vaccinali indicano gli anziani come prima categoria da difendere.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 7 dicembre 2020. La regina d' Inghilterra Elisabetta II, 94anni, e suo marito il principe Filippo, 99anni, riceveranno entrambi la prossima settimana il vaccino Pfizer-BioNTech contro il Covid, che ha appena ottenuto il via libera dalle autorità sanitarie britanniche, e la coppia reale sarà vaccinata in via prioritaria a causa della loro età e non come trattamento preferenziale, riferisce il Daily Mail, rendendo pubblica questa profilassi al fine di incoraggiare e sostenere la campagna di vaccinazione per estenderla a quante più persone possibile. Sono ben 11 i vaccini già pronti al mondo per essere impiegati, sviluppati con tecnologie diverse e sintetizzati ognuno con caratteristiche differenti tra loro, sia in termini di efficacia terapeutica che di costo sul mercato, per cui noi di Libero vi offriamo una panoramica orientativa e completa su questi farmaci innovativi che, una volta distribuiti, eviteranno milioni di morti per Covid19 nel mondo.

1-PFIZER (Usa) e BIONTECH (Germania), (BMT162b2), è un vaccino a mRna (Rna messaggero) che fornisce istruzioni genetiche per costruire e produrre, una volta iniettato, le proteine Spike del Coronavirus, le quali, una volta rilasciate nel circolo sanguigno provocano la risposta del sistema immunitario contro la Spike, ossia l'«uncino» che consente al virus di attaccarsi alle cellule ed iniziare la sua opera distruttiva. Il farmaco viene somministrato in 2 dosi a 28giorni di distanza, e dai risultati annunciati garantisce un' ampia protezione dal virus vicina al 100%, e sarebbe in grado di prevenire la malattia ma anche di renderla meno severa. L' unico problema per la distribuzione è che questo farmaco per essere conservato necessita di temperature bassissime vicine a -80 gradi celsius.

2-MODERNA (Cambridge e National Institute of Health Usa), (mRNA-1273), come il precedente è un vaccino mRna, con le stesse caratteristiche di produzione della proteina Spike per la risposta immunitaria, con una efficacia riferita del 94,5%; si tratta di un farmaco che promette di proteggere anche dalle forme più gravi di Covid19. Anche lui per essere conservato in sicurezza necessita di temperature bassissime di -40 gradi celsius, ma sarebbe in grado di restare stabile tra i 2 e gli 8 gradi centigradi, quelli di un normale frigorifero, per un mese.

3-ASTRAZENECA & OXFORD UN, (AZD1222), prodotto dallo Jenner Institute (UK) insieme all' Advent-Irmb (Italia) e AstraZeneca (UK-Svezia) è un vaccino a vettore virale non replicante, ovvero il vettore del farmaco è costituito da un virus (ChAdOx1) che è una versione indebolita di un comune virus del raffreddore, un adenovirus che causa infezione negli scimpanzé, che è stato geneticamente modificato in modo da rendere impossibile la replicazione nell' essere umano. A questo virus è stato aggiunto il codice genetico per fornire istruzioni per la produzione della proteina Spike del Coronavirus, cosa che terapeuticamente si traduce nella formazione di anticorpi contro la proteina Spike, la stessa che si trova sulla superficie dei coronavirus. La procedura per la sintesi di questo vaccino può contare su una piattaforma già consolidata, la stessa da anni in uso per produrre tutti i vaccini per l' influenza, per la Tbc, per il MeningococcoB, per la Chikungunya, per la Zika e per la Peste. Sono necessarie due dosi a distanza di 28 giorni, anche se un gruppo di scienziati sulla rivista Nature ha sperimentato maggior efficacia di questo vaccino se somministrato alla dose più piccola. Il farmaco promette una forte risposta immunitaria negli anziani.

4-JOHNSON&JOHNSON, Usa (AD26.COV2-S), come il precedente è un vaccino a vettore virale non replicante, costituito da un virus (Ad26), la versione indebolita di un comune virus del raffreddore (adenovirus), anche lui modificato geneticamente in modo che sia impossibile la sua replicazione nell' organismo umano e ricombinato con l' aggiunta di un codice genetico per la produzione della proteina Spike del Coronavirus. L' immissione in circolo della proteina avviene una volta iniettato il vaccino, innescando la risposta immunitaria. Questo vaccino può essere somministrato in una sola dose, oppure in 2 dosi a distanza di 56 giorni.

5-NOVAVAX (Maryland, Usa) (NBX-CoV2373), è un vaccino a "subunità proteica" che impiega cioè una proteina, o parte di essa, del virus mirato, più un adiuvante, ovvero un componente di potenziamento immunitario che provoca la risposta di difesa antivirale. Questo tipo di vaccino è molto conosciuto e ampiamente utilizzato già da diversi anni, al punto che la rivista Science lo presenta come il miglior candidato vaccino in corsa, poiché sfrutta tecnologie già ampiamente testate per altri vaccini come quelli contro l' epatiteB e l' herpes zoster. Le dosi necessarie sono 2 a 21 giorni di distanza. Questo farmaco non ha ancora ultimato la sua sperimentazione.

6-SPUTNIK V, Gamaleya Institute (Russia) è un vaccino a vettore virale non replicante, con la differenza che il vettore virale è costituito da due versioni indebolite di un adenovirus del raffreddore (Ad5 e Ad26), anche lui geneticamente modificato affinché non si replichi nel corpo umano, e "ricombinato" con l' aggiunta di un codice genetico affinché produca, una volta iniettato, la proteina Spike del Corona ed attivi la risposta immunitaria, con la stessa piattaforma dei vaccini per l' influenza. Annunciato l' 11 agosto dal presidente Putin prima ancora che le sperimentazioni in fase3 fossero iniziate, è stato testato su oltre 40mila volontari in Russia ed altrettanti tra Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Venezuela ed India. Anche questo farmaco può contare su una piattaforma molto consolidata, e la sua caratteristica è che può essere conservato anche a temperature normali.

7-CORONAVAC, Sinovac (Cina), Istituto Butantan (San Paolo Brasile), 8-CorV, Beijing Institute Sinopharm (Cina) 9-NEW CROWN COVID19, Wuhan Institute Sinopharm (Cina) Sono 3 vaccini cinesi a virus inattivato, che usano cioè virus uccisi e mescolati ad un adiuvante (idrossido di alluminio) prima di essere iniettati nei pazienti, che ottengono agevolmente la risposta immunitaria senza causare alcuna infezione. Questi vaccini con virus inattivati utilizzano tecnologie già note e sperimentate, oltre a meccanismi usati per la sintesi di molti vaccini esistenti, inclusi quelli contro il morbillo e la poliomielite. La caratteristica di questi farmaci è che possono essere somministrati anche a persone con sistema immunitario indebolito, e non hanno particolari indicazioni per la conservazione e la distribuzione. Hanno ricevuto l' approvazione anticipata per l' uso di emergenza in Cina nell' agosto 2020 e negli Emirati Arabi nel settembre 2020. Le dosi necessarie sono sempre 2 a 21 giorni di distanza. 10-nCoV Ad5, Cansino Biologics (Cina), Academy of Military Medical Science (Cina) È un vaccino a vettore non replicante costituito da un virus Ad5 che è una versione indebolita dell' adenovirus del raffreddore, anche lui geneticamente modificato affinché non si replichi e ricombinato con un codice genetico per produrre la proteina Spike del Coronavirus. A maggio sono stati pubblicati gli studi sulla sicurezza, che dimostravano la forte risposta immunitaria prodotta e con una azione senza precedenti. Il 25 giugno l' esercito cinese ha approvato il farmaco come "particolarmente necessario" e ad agosto CanSino ha iniziato a eseguire le prove della fase 3 in diversi Paesi, inclusi Arabia Saudita, Pakistan e Russia coinvolgendo migliaia di volontari. Questo vaccino si somministra in 1 sola dose.

11-COVAXIN, Bharat Biotech (Hyderabad, India), NIV (India) è il vaccino a virus inattivato che usa virus uccisi e mescolati ad adiuvante (idrossido di alluminio) prima di essere iniettati, ottenendo una risposta immunitaria senza contrarre alcuna infezione. La sperimentazione è in fase 3 in tutta l' India dal luglio 2020, prevede risultati all' inizio del 2021 con distribuzione del farmaco dal prossimo giugno. Le dosi necessarie sono 2 a 28 giorni di distanza.

PRIMA GLI INGLESI. Il Regno Unito è il primo Paese al mondo ad aver dato il via libera al vaccino anti-Covid della Pfizer, che sarà somministrato a 400mila inglesi entro la fine dell' anno, un traguardo dovuto al fatto che Londra è ormai libera dalle laboriose procedure comunitarie. In Europa i vaccini saranno gratuiti per tutti e non obbligatori. Attualmente sono 165 i vaccini in via di sperimentazione, ma gli 11 elencati in questo articolo presentano caratteristiche di sicurezza accertate, che sono il primo criterio per la loro autorizzazione ed approvazione sanitaria, mentre il secondo criterio rimane la loro efficacia sulla profilassi della infezione virale. Il terzo criterio è il prezzo, che non deve superare i 15 a fiala. Tutti gli Stati membri avranno un accesso uguale a tutti i vaccini approvati, interpretati come un bene comune, fermo restando le strategie di vaccinazione, che individueranno i gruppi e le categorie a cui somministrarlo per prime, a cui seguirà il monitoraggio. La più grande campagna mondiale di vaccinazione di massa ormai in atto sarà l' unica strategia terapeutica che consentirà di riprenderci le nostre vite stravolte dalla pandemia, di tornare ad una normalità senza le attuali restrizioni, e soprattutto a rimettere in moto l' economia nazionale ed internazionale ormai allo stremo.

COVID: GB, PARTITO PROGRAMMA VACCINAZIONI. (ANSA l'8 dicembre 2020) - E' partito questa mattina come previsto il programma di vaccinazioni anti-Covid nel Regno Unito e la prima dose è stata somministrata ad una signora novantenne: secondo quanto riporta la Bbc, la donna - Margaret Keenan, che compirà 91 anni la settimana prossima - ha ricevuto il vaccino Pfizer-BionTech questa mattina alle ore 6:31 (le 7:31 in Italia) nell'Ospedale universitario di Coventry. Entro fine mese dovrebbero essere vaccinate nel Paese fino a quattro milioni di persone. (ANSA).

Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” l'8 dicembre 2020. «(…) Emerge che il 2 per cento dei volontari ha avuto la febbre? Le pare che questa prospettiva sia raffrontabile con il pericolo di contrarre un virus che sta causando molti morti?». Il professor Roberto Cauda è direttore di Malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma. Anche lui, come tanti scienziati, sta seguendo con attenzione la diffusione dei dati della sperimentazione dei vaccini in dirittura d'arrivo, in particolare i due che usano la tecnologia mRna, cioè Moderna e Pfizer-BioNTech (oggi nel Regno Unito comincerà la vaccinazione contro Covid-19 con quest' ultimo prodotto). La rivista Science, in un articolo intitolato L'opinione pubblica deve essere preparata agli effetti collaterali del vaccino, parla della sperimentazione. Per Moderna il 2 per cento dei volontari ha sviluppato, per un giorno, la febbre alta; il 9,7 per cento affaticamento; l'8,9 per cento dolori muscolari; il 5,2 dolori articolari; il 4,5 mal di testa. Per Pfizer le percentuali sono più basse. In entrambi i casi, nulla di drammatico, ma se le persone non vengono seguite e informate, possono spaventarsi. Per questo, tutti gli esperti intervistati da Science concordano sulla necessità di trasparenza, «le compagnie dovrebbero avvertire i pazienti ecco cosa ti potrebbe succedere, nel caso prendi il Tylenol per qualche giorno», dice Drew Weissman, immunologo dell'Università della Pennsylvania. Il Tylenol è un farmaco a base di paracetamolo. Anche il professor Cauda sostiene che la prima regola è la trasparenza: «Come si fa con qualsiasi altro vaccino, bisognerà dire al cittadino: potrebbe venirti la febbre, potresti avere il mal di tesa, sono tutte reazioni normali. La fiducia si ottiene con la chiarezza. In questi mesi sarà decisivo aiutare gli italiani a vincere la diffidenza nel confronto di vaccini che, una volta autorizzati, saranno garanzia di sicurezza. Successe anche con il vaccino contro la poliomielite, quando Elvis Presley decise di vaccinarsi proprio per convincere gli americani». Informare prima, ma assistere anche dopo. «Certo, sarà giusto dare dei punti di riferimento a chi è stato vaccinato. D'altra parte - ricorda il professor Cauda - ci sarà la fase della sorveglianza. Dovremo capire, ad esempio, quanto a lungo durerà la protezione anticorpale». Per questo in un documento presentato dal ministro della Salute, Roberto Speranza, al Parlamento, viene spiegato: «Sarà condotta un'indagine sierologica su un numero rappresentativo di individui vaccinati, con l'obiettivo di valutare la specificità della risposta immunitaria, la durata della memoria immunologica e identificare i correlati di protezione. Gli esami saranno eseguiti immediatamente prima della vaccinazione (tempo zero) e a distanza di uno, 6 e 12 mesi».

Cina, gli scandali sanitari del passato “minacciano” il vaccino anti Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 19 dicembre 2020. Tre colossi farmaceutici cinesi, CanSino, Sinopharm e Sinovac, hanno sfornato quattro vaccini contro il coronavirus, tutti in procinto di ricevere il via libera definitivo per essere immessi sul mercato. È importante fare una premessa: stiamo parlando, per il momento, di vaccini sperimentali. Significa cioè che dobbiamo ancora attendere gli ultimi dati per scongiurare l’insorgenza di possibili effetti indesiderati nel lungo periodo dopo la loro somministrazione. In ogni caso, dall’estate, in alcune città cinesi, chi rientra in una delle categorie di persone a rischio (studenti o lavoratori all’estero, funzionari doganali e via dicendo) può registrarsi e fare richiesta per la vaccinazione. Dal momento che in Cina il virus ha smesso di circolare ormai da mesi, Pechino non ha più alcuna fretta di accelerare i tempi. Sembra però che il governo cinese abbia intenzione di vaccinare contro il Covid-19 una cinquantina di milioni di persone appartenenti ai gruppi prioritari prima che inizi la stagione dei viaggi per il Capodanno lunare. Calendario alla mano, stiamo parlando della prossima metà di febbraio. Tuttavia, dietro ai grandi numeri, ai proclami vittoriosi, alla certezza di aver superato i rivali occidentali, sia nelle tempistiche che nella qualità dei vaccini realizzati, ci sono almeno due zone d’ombra che non possono – né devono – essere ignorate.

Tra ottimismo e dubbi. Ci sono diverse testimonianze di cittadini cinesi che hanno ricevuto il vaccino anti Covid. Tra cui anche quelle di diversi commercianti cinesi italiani volati in patria e poi rientrati in Italia una volta vaccinati. Nessuno ha segnalato problemi, disturbi o fastidi. Per quanto si possa sapere, tutto sarebbe filato liscio anche tra i primi soggetti ad aver fatto richiesta per il siero. Eppure, nonostante l’enorme fiducia che moltissimi cinesi nutrono nei confronti del proprio governo, anche in Cina c’è chi è titubante all’idea di vaccinarsi. Sia chiaro: è normale che in una popolazione formata da 1,4 miliardi di abitanti possano esserci cittadini timorosi dei possibili effetti del vaccino o tendenzialmente contrari alla vaccinazione. Niente di strano, dunque, se non che, fino a questo momento, voci del genere non erano mai riuscite a trovare spazio. Sommerse, come erano, dai toni trionfalistici di media e governo. Invece ci sono anche loro: cittadini che si preoccupano per le possibili controindicazioni dei vaccini sperimentali. “Adesso in Cina la situazione sanitaria è buona, e non abbiamo particolare bisogno del vaccino”, spiega a InsideOver un contatto cinese che chiede di restare anonimo. “Non mi sono ancora vaccinato, ma sono preoccupato per eventuali effetti indesiderati”, ha aggiunto la nostra fonte, richiamando un oscuro episodio del passato riguardante proprio il rapporto tra la Cina e i vaccini.

Lo scandalo dei vaccini Changchun. Sono ormai passati due anni dal più grande scandalo dei vaccini mai accaduto in Cina. Era il 2018 quando il Partito Comunista Cinese arrestò 15 persone e inviò una task force investigativa nel quartier generale di Changchum Changsheng Life Sciences Ltd., produttore di vaccini situato nella provincia di Jilin. L’azienda, dichiarata fallita nel novembre 2019, è stata coinvolta in una vicenda a dir poco losca. Changchum aveva venduto centinaia di migliaia di dosi di vaccini DTP, poi rivelatisi inefficaci, da inoculare sui bambini per combattere tetano, pertosse e difterite. Molti genitori dei bambini a cui erano stati somministrati i sieri scaduti (e scadenti) hanno descritto i gravi problemi di salute subiti dai loro figli: problemi al midollo osseo, paralisi, gonfiore e altri danni permanenti agli organi interni. Già nel 2016 il governo cinese aveva lanciato a livello nazionale un’indagine su centinaia di persone ritenute coinvolte in un giro di vendita di vaccini illegali, obsoleti o conservati in modo improprio. Quasi 350 funzionari locali finirono nel tritacarne della giustizia in seguito a uno scandalo emerso nella provincia dello Shandong. La Changchun Changsheng, stando alla ricostruzione di Lancet, avrebbe falsificato la documentazione e modificato i parametri di produzione del suo vaccino anti-rabbia.

Un vaccino efficace. A 215.184 bambini cinesi furono somministrati vaccini scadenti di difterite, pertosse e tetano prodotti dalla Changsheng Biotechnology, mentre 400.520 vaccini DTP scadenti prodotti dal Wuhan Institute of Biological Products furono venduti alle amministrazioni dello Hebei e della municipalità di Chongqing. Morale della favola: l’azienda incriminata dovette richiamare 250mila provette del suo vaccino DTP, ammettendo di aver falsificato i documenti per nascondere la produzione scadente di oltre 100mila vaccini per la rabbia. “Ti avverto – ha proseguito il nostro contatto – noi cinesi non siamo molto abili nella produzione dei vaccini. Le nostre ricerche non sono ottimali”. Questa è la sua opinione, in contrasto con altre versioni, ed è probabilmente influenzata dallo scandalo che ha coinvolto la Changchun Changsheng (e come altri episodi avvenuti tra il 2013 e il 2016). È anche per cancellare macchie del genere che i colossi farmaceutici cinesi hanno intenzione di dare vita a un vaccino anti coronavirus super efficace. Secondo quanto riportato dall’agenzia cinese Xinhua, che ha citato l’annuncio effettuato dall’autorità di regolamentazione sanitaria del Bahrein, il vaccino sviluppato da Sinopharm avrebbe un’efficacia pari all’86%, oltre che un tasso di sieroconversione del 99% di anticorpi neutralizzanti e un’efficacia del 100% nella prevenzione di casi moderati e gravi di Covid-19. Basteranno dati del genere a convincere tutti sulla buona riuscita dei vaccini cinesi?

Melina Chiapparino per ilmattino.it l'8 dicembre 2020. Il vaccino anti Covid potrebbe essere già sbarcato tra le comunità cinesi in Campania dove il mercato nero sarebbe ancora circoscritto a pochissimi “eletti”. Per ottenerlo non basterebbero solo ingenti risorse economiche. Condizione indispensabile e necessaria più dei soldi, sarebbero, infatti, i giusti “agganci” con la rete della distribuzione del farmaco cinese che, ad oggi, non è commercializzato per la massa. «Siamo a conoscenza che, nell’ambito delle comunità cinesi campane, c’è stato qualche episodio riguardo l’arrivo del vaccino direttamente dalla Cina ma prendiamo le distanze da quanto accaduto in maniera clandestina e illegale», spiega Wu Zhiqiang, portavoce della comunità cinese a Napoli che dall’inizio della pandemia è impegnato in campagne di prevenzione e rispetto delle norme di sicurezza anti Covid. «Nelle ultime settimane c’è stato un passaparola nelle chat che vengono condivise tra le comunità cinesi riguardo la possibilità di far arrivare il vaccino ma sembra che siano veramente pochi ad averlo provato realmente», racconta Wu che è conosciuto da tutti come Savio. «Dalle informazioni che abbiamo, il vaccino arriverebbe per posta privata ed è di semplice somministrazione, come una qualsiasi siringa ma si tratta di un’operazione complessa», spiega Savio che rappresenta anche il sindacato nazionale cinese e che sottolinea come «per disporre del vaccino sia necessaria un’ingente somma di danaro ma soprattutto la possibilità di avere conoscenze e amicizie nell’ambito del circuito di distribuzione e commercializzazione del farmaco in Cina». Una pratica più diffusa e decisamente legale, rispetto al vaccino comprato in maniera clandestina, è la possibilità di viaggiare e sottoporsi alla vaccinazione in Cina. «Alcuni membri delle nostre comunità in Campania, hanno avuto l’opportunità di vaccinarsi, tornando nei paesi di origine ma, anche in questo caso, non è semplice perché bisogna avere ugualmente una buona rete di conoscenze», prosegue Savio che attende la distribuzione del farmaco approvato dalla comunità europea senza rincorrere l’antidoto cinese. «Il fenomeno della rincorsa al vaccino cinese si sta verificando recentemente perché, dalle notizie che abbiamo, solo il farmaco attuale ha una reale efficacia, stimata intorno al 92% - spiega il portavoce della comunità orientale partenopea - i vaccini cinesi precedenti non si sono rivelati adatti e hanno avuto un uso sperimentale senza arrivare alla vera commercializzazione e distribuzione da parte degli enti sanitari». In realtà, in Cina, i tempi non sono ancora maturi per l’uso di massa del farmaco secondo le notizie trapelate dai membri delle comunità cinese di Napoli e provincia. «Un paio di settimane fa, in Cina, è stato effettuato un sondaggio per raccogliere informazioni su chi volesse testare i nuovi vaccini - spiega Deng Zhe, rappresentante dell’agenzia Beijing Zhongyiukun Technology per lo studio dei cinesi all’estero - la priorità emersa, riguardava le persone che avrebbero viaggiato all’estero, compresi gli studenti ma, per il momento, il vaccino non è stato commercializzato». Dall’esplosione della pandemia di Coronavirus, il filo diretto tra le comunità cinesi a Napoli e la Cina, viaggia sulle chat che connettono circa 5000 persone registrate ufficialmente nel capoluogo campano. Sulle piattaforme delle conversazioni digitali, ultimamente, abbondano i consigli su farmaci e prodotti omeopatici da prendere per contrastare il Covid e, spesso, si tratta di prodotti che vengono acquistati direttamente in Cina. «Molti membri delle nostre comunità si fanno spedire dai connazionali prodotti omeopatici e farmaci che possono essere acquistati legalmente e che servono a rafforzare il sistema immunitario», continua Wu che, ad esempio, da mesi assume dosi di estratto di aglio, conosciuto in Cina come potente antivirale e utilizzato sia in fiale che in pillole. Una cosa è certa: dal boom del Covid sono veramente pochi i cinesi sul territorio italiano ad essersi ammalati e i dati dell’Asl napoletana riflettono alla perfezione questa proporzione. Basti pensare che dalla seconda ondata della pandemia, l’Asl partenopea ha registrato da ottobre, solo 5 contagiati di nazionalità cinese sul totale dei 5200 censiti... Si tratta di persone comprese tra i 36 e i 58 anni, salvo un bimbo di 7 mesi, nella maggioranza dei casi asintomatici o con lieve sintomatologia e in nessuno dei casi con la necessità di cure ospedaliere. Un dato che infittisce il mistero e la domanda sul perché il numero ufficiale degli ammalati Covid sia così ridotto tra le comunità cinesi trapiantate in Italia e, in particolare, a Napoli. La risposta al numero ridotto di contagi tra le comunità cinesi, potrebbe non escludere la pista del vaccino clandestino o addirittura contemplare l’ipotesi di difese immunitarie più strutturate per natura ma, per ora, resta un’incognita. Chi è tornato in patria per sottoporsi al vaccino in Cina, però, non ha dubbi. Da una parte, infatti c’è la spiegazione della «grande attenzione dei cinesi nel rispettare le norme, non abbassare mai la mascherina e igienizzare sempre le mani»; dall’altra c’è il vaccino. «A novembre mi sono vaccinata contro il Covid-19 in un ospedale in Cina e ora sono immune - ha dichiarato all’Adnkronos Gioia Wuang, una commerciante a Roma di nazionalità cinese - sto bene, non ho avuto né febbre né dolori. Non è obbligatorio, chi vuole può farlo. Da ottobre la popolazione cinese ha iniziato a vaccinarsi contro il Coronavirus e nello Zhejiang, la mia regione, non c’è più nessun contagiato». Secondo Gioia «molti connazionali che vivono in Italia, e che sono andati in Cina per il vaccino, hanno paura di tornare qui per l’alto numero di contagi», ma nel suo caso, si è trattato di una scelta personale. «Ho fatto due punture e ho pagato 60 euro. Un mio amico, dopo aver fatto il vaccino, è andato in ospedale e ha fatto il test per vedere se aveva gli anticorpi contro il Covid-19 e ce li aveva. Il valore era 2,1». Il consiglio, allora è «di farlo a tutti - spiega - così nessuno si ammalerebbe».

Mauro Giacon per ilgazzettino.it il 14 dicembre 2020. «Sono andato in Cina a gennaio per assistere mio padre che stava molto male. E sono ritornato in Italia a ottobre, già vaccinato contro il Covid il 30 settembre». Paolo Xia Jin Wen, 70 anni, è il titolare del ristorante cinese Shanghai in centro storico, il più rinomato della città, aperto dal 1987. Potremmo definirlo il primo padovano residente vaccinato.

Ma lei come l'ha avuto?

«Tramite alcuni conoscenti mi sono recato a Pechino. Lì sono stato vaccinato dall'autorità sanitaria con un vaccino cinese».

E com'è la procedura?

«Sono arrivato un'ora prima. Mi hanno fatto compilare una certificazione dell'assenso poi ho fatto una iniezione alla spalla destra e dopo dieci minuti a quella sinistra. Ho aspettato 30 minuti e sono andato via. Ma questa è solo una delle possibilità, per chi non ha tempo».

In che senso?

«Che ci sono altri due modi per vaccinarsi. Una puntura adesso e una fra 14 giorni. O una adesso e una dopo 28 giorni. Tutti quelli che l'hanno fatto finora non si sono ammalati».

E dopo come si è sentito?

«Il terzo giorno dalla somministrazione mi sentivo debole, ma è passato subito».

Ma il vaccino è per tutti?

«In questo momento stanno vaccinando il personale medico e gli anziani. La prima linea insomma. E poi tutti coloro che lavorano all'estero, per il governo, alle ambasciate o i soldati. O per le aziende».

Facoltativo oppure obbligatorio?

«In Cina tutti si devono vaccinare».

Gratis o a pagamento?

«Sarà gratuito ma finora si pagavano 200 yen a puntura, che per due fa 50-60 euro».

E com'è la situazione ora?

«Guardi, in Cina il virus non esiste praticamente più. Si gira senza mascherina tranne quando si entra negli autobus, in ospedale o in banca. La gente è molto tranquilla».

Come avete fatto?

«Il governo è molto rigoroso in queste cose. Abbiamo chiuso tutto come sapete per 40 giorni. Ogni famiglia aveva due pass al giorno per andare a fare la spesa. Nella mia città, circa 50mila abitanti a sud di Shanghai, c'erano solo due supermercati aperti. Quando uscivi si prendevano un permesso. In strada non c'era nessuno e così il virus è stato sconfitto».

E se trovano un positivo?

«Adesso ce ne sarà solo qualche decina. Ma finiscono come in galera. Cioè dentro un hotel dove sono serviti di tutto. Fuori dalla stanza però c'è una telecamera. Se escono ricominciano la quarantena».

Soddisfatto del suo governo dunque?

«La Cina è forte, l'hanno sistemata molto bene quelli al potere. Io ho fiducia nel governo».

E adesso qui la porta la mascherina?

«Qui certo, non voglio dare problemi».

Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2020. Mentre il mondo intero è alle prese con una pandemia con pochi precedenti e attende speranzoso il vaccino Pfizer-Biontech, che dovrebbe essere distribuito in maniera massiccia a partire dal prossimo anno, Wuhan è ormai Covid-free da mesi. O almeno è quanto sostiene il regime comunista cinese, che ha pubblicato un video per promuovere la città che era stata l’epicentro dell’epidemia: la clip pubblicitaria, intitolata “Incontriamoci a Wuhan” ha fatto il giro del mondo, con le immagini di persone felici e rigorosamente senza mascherina che sono un pugno nello stomaco per tutti gli altri. Un video che rafforza la teoria secondo cui la Cina in realtà ha sviluppato e sperimentato il suo vaccino già da tempo: ha fatto scalpore negli ultimi giorni la notizia secondo cui a Prato, dove vive una delle più grandi comunità cinesi del nostro paese, in molti avrebbero testato l’efficacia del vaccino durante i viaggi tra Cina e Italia e sarebbero quindi immuni a questa seconda ondata. Intanto le autorità del turismo della città-epicentro hanno lanciato in pompa magna l’invito a visitare la capitale della provincia di Hubei: “Wuhan non è mai avara nel presentare la sua bellezza e noi, che la amiamo, speriamo che più persone possano capire. Non vediamo l’ora di incontrarsi a Wuhan”. Peccato però che il resto del mondo è impossibilitato a viaggiare: che sia un’altra trovata di marketing per affermare la presunta superiorità cinese nella gestione dell’epidemia?

Il mistero dei cinesi di Prato che non si ammalano. Da liberoquotidiano.it il 2 dicembre 2020. Il caso di Prato è molto particolare e da tempo abbiamo iniziato a occuparcene: come mai nella più grande comunità cinese esistente in Italia i contagiati dal coronavirus sono pochissimi? Ovviamente è una cosa positiva, ma sarebbe interessante avere una spiegazione di questo fenomeno: il consolato ha smentito le voci di viaggi in Cina dei membri della comunità per sottoporsi a una sorta di vaccino, motivando i soli cento contagi su 26mila cinesi di Prato con un lockdown “applicato alla perfezione”. Le telecamere di Quarta Repubblica sono andate nel comune toscano per provare a capire qualcosa in più: la trasmissione di Nicola Porro non ha messo in dubbio il rigido rispetto delle regole da parte di questa comunità, ma ha trovato conferme riguardo al vaccino cinese. “Da noi sono già iniziate le somministrazioni - ha rivelato l’imprenditore Luca Zhou Long, smentendo di fatto la versione ufficiale del consolato - le dosi vengono assunte per due volte nel giro di quindici giorni, in molti sono già andati e tornati. Si tratta di un vaccino simile a quello antinfluenzale, costa 80 euro”. Dettagli piuttosto specifici, che appaiono quantomeno verosimili: la sensazione è che il caso non sia finito qui, anche se probabilmente lo sarà quando arriveranno i veri vaccini certificati dalle autorità farmaceutiche mondiali. Un racconto che, se fosse confermato, spiegherebbe il bassissimo numero di contagi in Cina e a Wuhan.

Da liberoquotidiano.it il 3 dicembre 2020. I cinesi sono stati più bravi a difendersi dal virus. Probabilmente è questo il motivo per cui quelli residenti fra le province di Prato, Firenze e Pistoia si sono ammalati meno degli italiani residenti nella stessa zona. La pensa così Wu Yang, imprenditore cinese di 42 anni che vive a Prato. Insieme alla moglie si è sottoposto volontariamente alla vaccinazione anti-Covid all'ospedale di Wenzhou. "In agosto mi sono messo in lista per la sperimentazione del vaccino Sinovac e a settembre mi hanno chiamato", ha raccontato l'uomo. Che non ha avuto alcun timore per un farmaco non ancora sicuro al 100%: "Avevo troppa paura di ammalarmi. Ora sto benissimo e non ho avuto effetti collaterali", ha detto in  un'intervista al Giorno. Molti pensano che la comunità cinese nella capitale toscana del tessile sia quasi immune al coronavirus solo perché tutti stanno andando in massa a vaccinarsi. Ma secondo Yang non è assolutamente così: "Sono pochissimi i connazionali che si sono sottoposti al vaccino. Il biglietto aereo costa circa 4mila euro, un viaggio con tutta la famiglia è molto oneroso". Ma allora come hanno fatto i cinesi della zona ad ammalarsi così poco? Dallo studio di incidenza realizzato dal dipartimento di Prevenzione dell’Asl Toscana centro emerge che su una popolazione di 50.010 cinesi residenti fra le province di Prato, Firenze e Pistoia, i casi positivi sono stati solo 308. I ricoveri sono stati solamente 18 sui 109 attesi e non ci sono stati decessi sui 18 ipotizzabili. Come se lo spiega Wu Yang? "I cittadini cinesi, sin dall’inizio dell’epidemia in Cina, hanno applicato rigorosamente tutte le misure di protezione individuale. Siamo stati i primi a ritirare i bambini da scuola". Parlando della sua esperienza, l'uomo ha raccontato: "Io ero tornato a Wenzhou con mia moglie e i nostri due figli a marzo, quando era esplosa l’epidemia in Italia, mentre da noi, nello Zhejiang, le cose andavano abbastanza bene. Avevamo seguito con grande apprensione quello che era accaduto a Wuhan e temevamo che qui potesse succedere lo stesso, quindi siamo partiti". Yang poi ha raccontato di essere tornato con la moglie in Italia solo dopo il vaccino.

Silvia Bini per lanazione.it il 23 novembre 2020. Sono soltanto cento i cittadini cinesi residenti a Prato che sono risultati positivi al Covid dall’inizio della pandemia. In nove mesi la comunità orientale ha totalizzato meno della metà dei casi che Prato registra quotidianamente (ieri erano 231) ormai da tempo. A ufficializzare il dato è l’Asl Toscana Centro che per comprendere meglio il fenomeno, decisamente eccezionale, ha chiesto aiuto al consolato cinese. Da febbraio scorso tra i 26.000 cinesi registrati ufficialmente all’anagrafe di Prato soltanto 100 persone hanno contratto il virus e fatto ricorso alle cure dell’ospedale nei casi più gravi. Il resto della comunità è rimasto immune, come se attorno avesse una cortina di difesa impenetrabile. Smentita l’ipotesi che i cinesi di Prato da settimane abbiano iniziato una fuga verso la madrepatria per fare ricorso a un vaccino sperimentale, l’unica spiegazione al fenomeno dell’immunità è quella del lockdown applicato alla perfezione. Ipotesi confermata anche dai mediatori che il consolato cinese ha messo a disposizione dell’Asl per fare da ponte con la comunità orientale. "Abbiamo incontrato il console cinese a cui abbiamo chiesto collaborazione per comprendere meglio alcune dinamiche che osserviamo all’interno della comunità", conferma Renzo Berti, direttore del Dipartimento di igiene e prevenzione dell’Asl Toscana Centro. "Ci sono stati forniti mediatori e garanzie di cooperazione". L’Asl studia il fenomeno cinese grazie all’aiuto delle autorità asiatiche. La provincia di Prato dalla fine del mese di ottobre è stata continuativamente al vertice della classifica toscana del rapporto quotidiano fra i contagiati da Covid-19 e il numero dei cittadini residenti: un primato dal quale i cinesi sono esenti. "All’inizio della pandemia la comunità orientale è stata molto attenta e si è posta in un lockdown ancora più severo rispetto a quello poi deciso dal governo italiano", prosegue Berti. "Dopo un breve periodo tra luglio e agosto, durante il quale hanno allentato le misure restrittive, si è registrato un piccolo picco di casi tra cinesi. In seguito è partita una nuova stretta con cui la comunità si è nuovamente autoisolata". Lo abbiamo visto nella prima ondata della pandemia e adesso stiamo assistendo allo stesso fenomeno: pronto moda serrati, niente scuola per bambini e ragazzi, negozi chiusi. Isolati dal resto dei connazionali e dal resto della città: è questa la strategia di difesa dei cinesi che abitano a Prato, dove vive una delle più grandi comunità d’Europa e che ricalca quanto fatto a Wuhan focolaio del virus, oggi Covid-free. Niente vaccino quindi: la la notizia che circola in rete da giorni, viene smentita da più parti. "Vaccino cinese? Sì, sì in Cina lo fanno ma io non posso andare", dice Paolo Wang, titolare del Caffè Per Bacco di piazza Ciardi. "Dovrei fare un mese di quarantena, impossibile...", sorride e spiega che in Cina la quarantena è doppia: 14 giorni per chi scende da un aereo proveniente dall’Italia e altri 14 giorni appena si arriva nella città di destinazione, nel suo caso Wenzhou, ammesso che con le restrizioni attuali si riesca a salire su un aereo. In totale si tratta di 28 giorni di quarantena, "troppo tempo, non è possibile fare", insiste Paolo, smentendo le voci che da giorni circolano in città sulla fuga verso il vaccino orientale. Anche l’Asl prende le distanze: "Non ci risultano evidenze correlate al vaccino, secondo quanto analizzato dal dipartimento i pochi contagi nella comunità sono riconducibili ai comportanti molto rigorosi". Attenendosi a fatti, dati e numeri, a salvare i cinesi (e in parte la città) dalla prima ondata di Covid e adesso dalla seconda è l’applicazione scrupolosa, quasi militare, della quarantena.

Mister Vaccino. Report Rai PUNTATA DEL 16/11/2020 di Chiara De Luca, collaborazione di Marzia Amico e Lorenzo Vendemiale. Report è entrato nell'azienda italiana che sta producendo insieme a Oxford e Astrazeneca il vaccino per il Covid.19. L'Irbm gestisce anche una collezione di composti chimici, lasciata in eredità dalla multinazionale farmaceutica Merck, che viene manutenuta dallo Stato attraverso un consorzio pubblico-privato, il CNCCS. Ma la collaborazione con Oxford come è nata?

MISTER VACCINO Di Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA Lei nasce come produttore tv; lavora nel marketing, lavora nella Fondazione Versiliana, fa il sindacalista, è lobbista. Come ha fatto ad avere questo gioiellino nelle sue mani?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Ho fatto una scommessa che penso che sia stata vincente e oggi, incrociando le dita, aspettiamo un ulteriore timbro.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ovvero il vaccino per il Covid 19 che IRBM sta producendo insieme ad Oxford e AstraZeneca. Pietro Di Lorenzo in passato era un produttore di fiction, poi fonda una società di lobbying, la BDL, che ha tra i suoi maggiori clienti la British American Tobacco. Nel 2009 acquisisce l’IRBM dalla multinazionale farmaceutica Merck.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Io mi occupavo dei rapporti istituzionali di Merck da 15 anni e quindi conoscevo ed ero conosciuto dai vertici della Merck.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pietro Di Lorenzo, Pietro all’anagrafe, Piero per gli amici. È un ex sindacalista, ex produttore televisivo, ex manager delle pubbliche relazioni. Lo ha fatto anche per la farmaceutica Merck. Merck era proprietaria della IRBM di Pomezia. Ad un certo punto decide di chiudere. C’è un problema occupazionale, Di Lorenzo la acquisisce. E gira la proprietà in testa ai figli. Ecco lui rimane presidente e amministratore di questa azienda che negli ultimi dieci anni ha fatturato utili per circa 18 milio di euro. La cui metà è andata in dividendi ed emolumenti per la famiglia, ecco. Ma come ha fatto Di Lorenzo a diventare Mister Vaccino? Uno che da ragazzo neppure ha giocato al piccolo chimico. Tutto ruota intorno al virus del raffreddore dello scimpanzé. L’adenovirus. È il veicolo per trasportare la proteina spike, quella che dovrebbe suscitare, stimolare la risposta immunitaria del nostro corpo. I primi scienziati a studiarlo sono italiani e lo fanno in quei laboratori di Pomezia. E ad un certo punto però sono gli stessi che trovano anche il vaccino per Ebola. Ad un certo punto però questi brevetti volano in Svizzera e a Pomezia, all’IRBM di Di Lorenzo rimane l’expertise. Ma su questa vicenda c’è un segreto che nasconde dei contrasti, che nasconde una transazione del valore di decine di milioni di euro. Ed è importante fare chiarezza perché rappresenta la metafora della visione che ha la politica della nostra ricerca. La nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma se è vero che la fortuna bacia solo gli audaci, è anche vero che Di Lorenzo negli anni qualche aiutino lo ha avuto. Merck infatti ha lasciato in dote a Di Lorenzo anche una importante collezione di composti chimici che, anche se appartiene a un privato, viene di fatto manutenuta dallo Stato attraverso un consorzio misto pubblico-privato, il CNCCS, finanziato con circa 6 mln di euro l’anno. Del consorzio l’IRBM detiene il 70 per cento delle quote, il CNR il 20 per cento e l’Istituto Superiore di Sanità il 10.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Noi abbiamo preteso di avere la gestione perché non volevamo trovarci di fronte a qualche problematica tipo “assumificio” o cose di questo genere. C’è stato concesso e quindi ci è stato detto che saremmo stati in maggioranza assoluta in cambio del fatto che nello Statuto è scritto che qualunque perdita viene sanata dal socio privato.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dei 58 milioni di euro stanziati dal Miur tramite il CNR negli ultimi 10 anni, la maggior parte è andata a progetti svolti dal socio privato.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Penso più o meno 80-85 per cento sono stati lavorati dall’IRBM che aveva l’expertise specifica.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Tutti i progetti per convenzione vanno rendicontati all’ente erogatore, il CNR. CHIARA DE LUCA È possibile vederle queste rendicontazioni?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Si figuri, vada al CNR, è rendicontato tutto fino all’ultima lira.

CHIARA DE LUCA Lei non ce le può farcele vedere?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Lei vada al CNR. Per me, io non pongo problemi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Qualcuno al posto suo se li è posti perché il CNR ha respinto la nostra richiesta di accesso agli atti. Alla faccia della trasparenza.

VITO MOCELLA - EX CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR L’anomalia non è il Consorzio: l’anomalia è il pubblico. Il CNR in particolare, sembra asservito alle necessità, alle esigenze, alle volontà, del socio privato.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Da quello che abbiamo intuito è che Di Lorenzo riceve i finanziamenti per mantenere una struttura per la ricerca scientifica che lo Stato non riesce neppure a mettere in piedi.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Questa qui è una delle sei risonanze magnetiche che noi utilizziamo per scrinare le molecole. Se in un’università ha una di queste fanno i salti di gioia noi così ce ne abbiamo sei. Cioè; è una roba che… la ricerca pubblica da sola non ce la può fare. In ognuno di questi buchini c’è un composto quindi qua dentro ce ne stanno 350 mila. Quello che noi facciamo, collezioniamo tutti i composti. Il tutto però va manutenuto, implementato, corretto, sostenuto continuamente perché altrimenti i 350 mila – se lei lo lascia così - tra sei mesi saranno 320 mila perché si deteriorano.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Anche in Francia, a Parigi, esiste una collezione di composti chimici, che però è gestita al 100 per cento dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e finanziata dal ministero dell’Istruzione.

FLORENCE MAHUTEAU BETZER - DIRETTRICE DELLA RICERCA CNRS Questa libreria di composti chimici è totalmente pubblica e per questo è accessibile a tutti. È formata da 60000 composti che provengono dai laboratori di tutta la Francia; questi composti sono stati realizzati da studenti, ricercatori per i lori progetti.

NICOLA FANTINI - CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR Quella li è acqua che cade a terra e questo è uno dei laboratori messo meglio. Non è propriamente un ambiente ideale.

CHIARA DE LUCA Anche perché quello mi sembra abbastanza pericoloso pure, no?

NICOLA FANITNI - CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR È abbastanza pericoloso. Qui si fa davvero si fa molto fatica a mantenere le strutture in maniera adeguata.

CHIARA DE LUCA Ma quella è muffa?

NICOLA FANTNI - CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR Quella è evidentemente muffa.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo a Monte Libretti, nell’hinterland di Roma. Questa è l’area di ricerca più grande del CNR.

CHIARA DE LUCA Il CNR come istituto di ricerca pubblico sarebbe in grado di gestire da solo una collezione di composti chimici?

NICOLA FANTINI - CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR Se 10 anni fa si fosse scelto di creare una facility nell’area di ricerca di Monte Libretti o nell’area ricerca di Tor Vergata, a questo punto avremmo una facility in un ente pubblico messa magari a disposizione di imprese.

CHIARA DE LUCA Il CNR ha le competenze per poterle portare a termine senza il socio privato a questo punto?

NICOLA FANTINI - CONSIGLIERE DI AMMINISTRAZIONE CNR La competenza in senso di conoscenza, la risposta è: sì. Poi c’è la natura di competenza infrastrutturale e in quel caso la risposta è: non sempre.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Passare dal CNR di Montelibretti al centro di ricerca IRBM di Pomezia, sembra di scendere su Marte. Per mettere a punto una serie di progetti collaterali, la regione Lazio ha finanziato il Consorzio e dunque soprattutto Di Lorenzo con 16 milioni di euro. poi pure il Cipe ha finanziato i progetti del Consorzio prima con 11 milioni di euro per il progetto Pronat e poi la tv scientifica con 9 milioni e 7.

CHIARA DE LUCA Ma che c’entra la collezione di composti con la tv scientifica?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Non c’entra con la specifica della collezione dei composti chimici, ma c’entra con un progetto di divulgazione scientifica che fa parte dello statuto del Consorzio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il progetto è stato presentato al premier Conte. D’altronde Di Lorenzo ha presentato addirittura al Papa le sue ricerche. Il presidente dell’IRBM non è certamente un uomo sconosciuto alla politica. Zingaretti, Matteo Renzi, l’attuale ministro Manfredi, perfino Beppe Grillo hanno fatto la loro apparizione a Pomezia. Non si capisce bene se sono loro a essere utili a lui o viceversa.

CHIARA DE LUCA Per un imprenditore come lei, quanto è importate avere rapporti con la politica?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Zero.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Se è vero che la politica finanzia i progetti di Di Lorenzo, Di Lorenzo finanzia i politici: 160 mila euro alla fondazione Open vicina a Matteo Renzi. Di questi 50 mila euro sono stati versati tramite Promidis, società che per il 10 per cento è gestita dal consorzio pubblico privato. Poi un finanziamento di circa 10 mila euro tramite sua moglie Carmela Vitter ed Ezia Ferrucci, lobbista per la British American Tobacco, è arrivato anche all’eurodeputato grillino Dino Giarrusso.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Se ho un amico che si candida e ho un buon rapporto, lo finanzio!

CHIARA DE LUCA Ha un sacco di amicizie quindi?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Sì, ho tante amicizie.

CHIARA DE LUCA Si può sapere quali sono i politici che finanzia?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM No. Per loro, io lo posso dire tranquillamente, ma siccome…

CHIARA DE LUCA Io chiedo, è legittimo chiedere insomma…

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Lei legittimante può chiedere, io legittimante le dico no. Io finanzio i miei amici; in altri termini, finanzio chi mi pare.

CHIARA DE LUCA Amici a destra, sinistra...

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM A destra, sinistra, centro, vice destra… come le pare. Ma io finanzio delle persone di cui mi fido.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma la storia del vaccino come è andata veramente?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Noi lavoriamo con Oxford da una decina di anni. Quando loro hanno sintetizzato il gene della proteina spike, avevano bisogno di una expertise specifica: quella dell’adenovirus. Noi abbiamo queste expertise.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO L’adenovirus è il virus del raffreddore, nel caso specifico dello scimpanzé. Viene depotenziato e utilizzato come cavallo di Troia per trasportare la proteina Spike nell’organismo stimolando la risposta immunitaria. In pochi sanno che è stato studiato per la prima volta in Italia, e proprio nei laboratori di IRBM. È per questo che Oxford chiama Di Lorenzo.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Oxford quando ci ha chiamato per invitarci ad entrare nella partnership ha chiarito subito che, essendo loro un ente statale e una struttura accademica, non avrebbero esercitato in nessun modo il diritto di brevetto.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Governo inglese da subito ha investito su questo vaccino.

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Ha investito prima 40 milioni di sterline poi 92 milioni di sterline. E questo gli ha consentito poi di decidere chi fosse il player di natura globale: AstraZeneca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ovvio che il Governo inglese scegliesse una multinazionale a trazione anglosassone. Ad AstraZenca, alla fine, è stata ceduta la licenza esclusiva sul brevetto del vaccino.

CHIARA DE LUCA Quando ha ricevuto la chiamata da Oxford lei ha avvisato il Governo italiano?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Io ho avvisato il governo italiano dopo 15 giorni cioè dopo che noi avevamo messo a punto il vaccino.

CHIARA DE LUCA Con chi ha parlato?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Ho parlato con il ministro Di Maio, ho parlato con il ministro Manfredi, ho presentato il progetto al Premier e ho parlato anche con il ministro Speranza. Non ce ne è stata una che non si è data da fare per risolvere il problema e per arrivare a goal.

CHIARA DE LUCA Per arrivare a goal per finanziare intende?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci manca il goleador, il goal alla fine l’hanno fatto gli altri. Abbiamo perso l’occasione come paese di poter operare scelte determinanti sulla produzione del vaccino. Scelte anche strategiche. Che cosa succede? Che a marzo l’Università di Oxford scopre il vaccino per il Covid la proteina spike. Ma serve il veicolo per portarlo nel corpo umano e per stimolare la reazione immunitaria. Ecco, allora pensano di telefonare a Pomezia perché proprio in quei laboratori gli scienziati un po’ di tempo fa, erano stati i primi al mondo a fare ricerca sul quel tipo di virus. Quello del raffreddore dello scimpanzé. Un virus che poi deve essere depotenziato. Ecco, quei scienziati non ci sono più, ma Oxford comunque chiama Di Lorenzo perché collabora da tempo con lui e soprattutto perché Di Lorenzo ha conservato l’expertise, non i brevetti, ma l’expertise. Allora, Di Lorenzo chiama, avverte il premier Conte e anche il ministro della Ricerca Manfredi e Di Maio e anche il ministro della Salute, Speranza. Gli chiede di intervenire, loro tentennano un pochettino, nel frattempo si inserisce Boris Johnson che mette sul piatto 130 milioni di sterline. E così la licenza per poter produrre in esclusiva se la incassa AstraZeneca. Con sede a Cambridge. Ecco dobbiamo rassegnarci. Abbiam perso un’occasione, ma è la visione della politica sulla ricerca in Italia. Preferisce finanziare a piccole tranches dei progetti di un privato che è in pancia ad un consorzio dove ci sono degli enti pubblici, piuttosto che avere e finanziare un’industria pubblica della ricerca scientifica. Noi abbiamo anche chiesto di vedere a Di Lorenzo, ma avete speso questi soldi? Lui ha detto: io non ho problemi, non mi oppongo, poi però quando abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti, qualcuno si è opposto. Se non è lui, o CNR o Istituto Superiore della Sanità. Perché? Insomma, poi tornando al vaccino a Report risulta che il governo italiano sarebbe in trattativa per acquisire delle quote di IRBM. Ecco, e ride sotto i baffi Di Lorenzo che pensa anche di quotarsi in borsa.

I segreti del virus dello scimpanzé. Report Rai PUNTATA DEL 16/11/2020 di Manuele Bonaccorsi, collaborazione di Marzia Amico e Lorenzo Vendemiale. Per sconfiggere la pandemia bisogna trovare il vaccino anti-Covid. In settimana sono arrivati gli ennesimi annunci, il traguardo sembra vicino. Ma quale partita economica e geopolitica si nasconde dietro la corsa al vaccino? Report racconterà il “nazionalismo del vaccino”, la concorrenza tra potenze mondiali per arrivare alla prima, preziosissima dose. Un business che vale miliardi, affidato tutto ai privati, che saranno proprietari del brevetto e intanto volano in borsa. Mentre il pubblico finanzia la ricerca e se ne prende i rischi, firmando contratti segreti e pagando in anticipo un prodotto che ancora non esiste. Con interviste esclusive e documenti riservati, Report svelerà come “big pharma” ha provato a trasferire sugli stati gli oneri per i risarcimenti in caso di difetti e reazioni avverse. In questo scontro tra giganti, si muove anche l’italiana Advent  S.r.l, la società che fa capo a Piero Di Lorenzo e che sta collaborando al vaccino di Oxford-Astrazeneca, che potrebbe essere uno dei primi a ricevere l’approvazione. Ma l’Italia ha voluto anche imbarcarsi nell'impresa di realizzare un “vaccino tricolore”: ad agosto è iniziata all'Istituto Spallanzani di Roma la sperimentazione del candidato prodotto dalla società ReiThera. Report ha seguito le sue orme, partendo dall’intuizione di alcuni scienziati nel lontano 2004 e arrivando fino in Svizzera. Per scoprire, alla fine, che il vaccino italiano finanziato dal governo forse non è poi così italiano.

“I SEGRETI DEL VIRUS DELLO SCIMPANZÈ” Di Manuele Bonaccorsi di Manuele Bonaccorsi Collaborazione Marzia Amico – Lorenzo Vendemiale Immagini Paolo Palermo Montaggio Riccardo Zoffoli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci manca il goleador, e il gol alla fine l’hanno fatto gli altri. Abbiamo perso l’occasione come paese di poter operare scelte determinanti sulla produzione del vaccino, scelte anche strategiche. Che cosa succede, che a marzo l’Università di Oxford scopre il vaccino per il Covid, la proteina Spike, ma serve il veicolo per portarlo nel corpo umano e per stimolare la reazione immunitaria. Ecco, allora pensano di telefonare a Pomezia. Perché proprio in quei laboratori gli scienziati un po’ di tempo fa erano stati i primi al mondo a fare ricerca su quel tipo di virus, quello del raffreddore dello scimpanzè, un virus che poi deve essere depotenziato. Ecco, quegli scienziati non ci sono più ma Oxford chiama comunque Di Lorenzo perché collabora da tempo con lui e soprattutto perché Di Lorenzo ha conservato l’expertise, non i brevetti ma l’expertise. E allora Di Lorenzo chiama, avverte il premier Conte e anche il ministro della Ricerca Manfredi, e Di Maio e anche il ministro della Salute Speranza. Gli chiede di intervenire. Loro tentennano un pochettino, nel frattempo si inserisce Boris Johnson, che mette sul piatto 130 milioni di sterline. E così la licenza per poter produrre in esclusiva se la incassa Astrazeneca con sede a Cambridge. Ecco, dobbiamo rassegnarci, insomma abbiamo perso un’occasione ma è la visione della politica sulla ricerca in Italia: preferisce finanziare a piccole tranche dei progetti di un privato che è in pancia ad un consorzio dove ci sono degli enti pubblici piuttosto che avere e finanziare un’industria pubblica della ricerca scientifica. Ecco, noi abbiamo anche chiesto di vedere a Di Lorenzo ma come avete speso questi soldi? Lui ha detto: io non ho problemi, non mi oppongo, poi però quando abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti qualcuno si è opposto. Se non è lui o il Cnr o Istituto superiore della Sanità. Perché? Insomma poi tornando al vaccino a Report risulta che il governo italiano sarebbe in trattativa per acquisire delle quote di Irbm. Ecco, ride sotto i baffi Di Lorenzo che pensa anche di quotarsi in borsa. Poi sempre a Pomezia, a pochi chilometri di distanza, c’è un’altra azienda, Rheitera. Ruota intorno a quegli scienziati che proprio nei laboratori di Di Lorenzo avevano studiato per primi l’adenovirus, il virus del raffreddore dello scimpanzè. Ora si propongono per produrre un vaccino tutto italiano. Ma è veramente tutto italiano? Ecco, perché lungo l’inchiesta è spuntata una società svizzera. Il nostro Manuele Bonaccorsi

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Roma, 24 agosto. All’Istituto Spallanzani, viene annunciata la sperimentazione del primo candidato vaccino italiano contro il Covid.

NICOLA ZINGARETTI – PRESIDENTE REGIONE LAZIO Stiamo parlando del vaccino italiano, sostenuto da un progetto di ricerca della regione Lazio e del ministero dell’Università e della Ricerca scientifica

NICOLA MAGRINI – DIRETTORE GENERALE AIFA Tutte le organizzazioni a cominciare dallo Spallanzani hanno dato grande sostegno a questa impresa, piccola industria, Reithera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A Castel Romano, a 10 minuti di auto dalla IRBM di POMEZIA, ha sede Reithera, la biotech che possiede il brevetto del vettore adenovirale, il mezzo per veicolare la particella fondamentale per immunizzare dal Covid.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO FARMACOLOGICO MARIO NEGRI E’ un virus da primati che diciamo veicola nelle cellule l’Rna del virus e quindi l’organismo produce anticorpi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In pratica l’adenovirus viene utilizzato come un cavallo di troia. Entra nell’organismo e trasporta il materiale genetico di una malattia, in questo caso del Covid. Oggi alcuni dei più promettenti candidati vaccini usano questa tecnologia, a partire da quello di Oxford Astrazeneca, realizzato con l’IRBM di Pomezia. Ma questo non è un caso. Proprio nei laboratori di Pomezia, allora controllata dalla multinazionale Merck, nel 2002 si costituisce un gruppo di lavoro molto ambizioso, come ci racconta un componente che è legato da stringenti accordi di riservatezza.

RICERCATORE ANONIMO La nostra intuizione fu di utilizzare gli adenovirus dei primati.

MANUELE BONACCORSI Ma voi eravate i primi a fare queste ricerche nel mondo?

RICERCATORE ANONIMO Sì, i pionieri siamo stati noi. Tre anni prima di Oxford brevettammo 23 adenovirus di scimpanzè.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il brevetto è questo: chimpanzee adenovirus vaccine carriers. E a guidare il gruppo di ricerca sono tre italiani: Riccardo Cortese, Alfredo Nicosia e Stefano Collòca. La ricerca italiana è in anticipo sul resto del mondo.

MANUELE BONACCORSI Ma voi lo immaginavate che questi brevetti potevano avere un certo valore economico?

RICERCATORE ANONIMO Io no di certo, però Collòca, Nicosia e Cortese lo immaginavano. Infatti riuscirono in qualche modo ad ottenere i diritti dei brevetti da Merck e crearono uno spinoff per continuare le ricerche che stavano facendo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nel 2005 i tre ricercatori specializzati sugli adenovirus fondano Okairos. La sede è una Srl italiana, ma dal 2007 la proprietà sta a Basilea, in Svizzera, in una società anonima. Per continuare la sua ricerca, Okairos si appoggia ai laboratori della IRBM di Di Lorenzo con il quale condivide una società al 50%, di nome ADVENT. La sede è proprio nei laboratori di Pomezia. Ed è qui nel 2013 che si scopre il primo vaccino contro Ebola. Ma i tre ricercatori di Okairos decidono che è subito il momento di monetizzare. E la società svizzera viene venduta alla multinazionale Gsk, con tutti i brevetti sugli adenovirus, per 250 milioni di euro.

MANUELE BONACCORSI Possiamo sapere chi c’era dietro Okairos?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Alcune strutture societarie svizzere sono perfettamente anonime.

MANUELE BONACCORSI Ma quindi questi 250 milioni di euro….

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO A chi vanno non sappiamo

MANUELE BONACCORSI Non si sa chi li ha presi.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO No.

MANUELE BONACCORSI 250 milioni non è che uno li fa sparire.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma ho capito. Ma la Svizzera è la Svizzera.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’anomalia, a quanto risulta dai bilanci di Advent, è che la società italiana che ha fisicamente prodotto il vaccino di Ebola, non vede un euro. La transazione avviene in Svizzera, dove sono conservati i preziosi brevetti. Nel 2017 Nicosia e Collòca vendono tutte le quote di Advent a di Lorenzo al valore nominale, 5 mila euro.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Il prezzo di mercato non è 5mila euro. Questo è pacifico.

MANUELE BONACCORSI Perché?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché questa Advent è una società ricchissima. Il patrimonio netto contabile di oggi è 5 milioni e mezzo.

MANUELE BONACCORSI Ma se la finanza viene a sapere di una cessione di una società che ha un patrimonio di 5 milioni a 5 mila euro che fa?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Va chiedergli il perché.

RICERCATORE ANONIMO Credo che ci sia stata una transazione economica tra di loro.

MANUELE BONACCORSI Ma ce n’è traccia da qualche parte, c’è qualche documento che si può vedere?

RICERCATORE ANONIMO No, no, questi accordi tra privati, li fanno gli avvocati.

PIETRO DI LORENZO – PRESIDENTE IRBM C’è stato un accordo transattivo su questa cosa specifica, sono legato alla riservatezza di quell’accordo.

CHIARA DE LUCA Ma quel vaccino fu venduto a Glaxo?

PIETRO DI LORENZO – PRESIDENTE IRMB SPA Non voglio parlare di questa cosa.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Immaginiamo che se qualcuno tra i protagonisti dovesse parlare, scatterebbero delle penali pesantissime. La posta in gioco è molto alta. Oggi le strade di Di Lorenzo e dei ricercatori di Okairos si sono divise. Ma entrambi concorrono per il vaccino. Di Lorenzo con la sua azienda di Pomezia collabora con gli inglesi di Oxford e Astrazeneca perché i finanziamenti sono inglesi. Invece Nicosia e Colloca quando scoppia il covid si fanno avanti con le istituzioni italiane per proporre un vaccino, con una società nata dalla vecchia Okairos, di nome Reithera. A far partire tutto è il professor Alfredo Nicosia, che è anche docente alla Federico II di Napoli. Eccolo mentre interviene alla Leopolda nel 2014.

ALFREDO NICOSIA - PROFESSORE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI Allora io sono Alfredo, avete sentito.

MATTEO RENZI tira su Alfredo il microfono.

LFREDO NICOSIA - PROFESSORE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI Si sente? sono Alfredo, e sono il direttore scientifico di una piccola società di biotecnologie.

ALFREDO NICOSIA – PROFESSORE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI Ho chiamato un mio amico, un collega dell’università che conosce e conosceva il ministro Manfredi, gli ho detto: mi è venuta una idea, ho detto: perché non mettere in contatto le istituzioni con questa piccola società privata, e magari nasce qualche cosa.

MANUELE BONACCORSI Questo suo amico è il professor Russo?

ALFREDO NICOSIA – PROFESSORE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI sì esatto.

MANUELE BONACCORSI lo conosceva anche lei Manfredi, era il suo rettore.

ALFREDO NICOSIA – PROFESSORE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI il giorno dopo noi eravamo dal ministro Manfredi al quale raccontammo questa idea ancora in nuce, molto così, però di creare un’alleanza pubblico privato.. A Manfredi gli piacque molto l’idea, e quindi mi aiutò a mettere in contatto tutti questi players con la Regione, con Zingaretti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il 17 marzo si svolge una riunione ai massimi livelli: c’è il ministro della Salute Speranza, quello della Ricerca Manfredi, il presidente della regione Lazio Zingaretti, e tutte le massime autorità sanitarie. Dall’incontro scaturisce questo verbale. Il progetto viene presentato a nome Reithera/Spallanzani/Federico II, e a illustrarlo c’è il professor Nicosia. A vagliarlo ci sono 4 esperti, tra cui il professor Tommaso Russo della Federico II. La stessa università di cui, prima di essere nominato al governo, era rettore Manfredi. Alla fine si decide di finanziare il progetto con 8 milioni di euro: 5 li mette le regione Lazio, 3 il CNR. Di questa cifra ben 6 milioni andranno a Reithera. Nasce così il cosiddetto vaccino italiano.

MANUELE BONACCORSI Non è un po’ una contraddizione il fatto che l’ex rettore della Federico II indica riunione in cui un professore della Federico II presenta progetto scientifico che viene approvato da un altro professore della Federico II?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Ma guardi, non mi faccia queste domande, per il semplice fatto che per me se un ministro della Repubblica convoca delle persone io do per scontato che non ci sia nessun altra dietrologia o interesse.

MANUELE BONACCORSI Chi ha scelto gli esperti?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Si sono contattati, sono stati contattati anche dai nostri… dalla nostra comunità di ricerca.

MANUELE BONACCORSI Quindi voi li avete diciamo scelti come Spallanzani per valutare il vostro stesso progetto?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Il progetto che avevamo pensato… ma come facciamo di solito, cioè si fa una specie di controllo tra pari.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La sperimentazione di fase 1 è cominciata allo Spallanzani il 24 agosto con 90 volontari. Il progetto viene presentato con un moto di orgoglio nazionale.

NICOLA ZINGARETTI – PRESIDENTE REGIONE LAZIO Noi crediamo molto nel vaccino bene comune, il vaccino italiano sarà un vaccino pubblico. Parliamo della scienza e della ricerca italiana, della sua forza, della sua potenza.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Solo che il vaccino non è del tutto italiano. Perché Reithera è controllata al 100% da una nuova scatola societaria Svizzera, la Keires AG, con sede in questa casetta medievale, a Basilea. Tre stanze in un sottotetto di legno. Proviamo a bussare per due giorni.

MANUELE BONACCORSI C’è nessuno? Madame, excuse me, an information. Conosce qualcuno della società Keires, ha sede qui, all’ultimo piano.

SIGNORA SVIZZERA I don’t know, I’m sorry.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma chi c’è dietro la società anonima svizzera Keires? Da una visura internazionale emerge che a controllare la società è lo stesso Stefano Colloca, insieme a Maurizio Cortese, figlio del luminare della scienza Riccardo, morto nel 2017. Ma nel capitale figurano anche Emmanuel Hanon e Jamila Louahed, vice presidenti della multinazionale inglese GSK vaccine.

MANUELE BONACCORSI Voi su reithera avevate fatto una due diligence?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Sì abbiamo fatto delle verifiche.

MANUELE BONACCORSI vi eravate accorti che la società che controlla reithera ha sede in Svizzera

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI ma non ha rilevato per quello che ci poteva concernere l’aspetto scientifico.

MANUELE BONACCORSI non vi eravate accorti che all’interno del capitale risulterebbero esserci due alti dirigenti di Gsk vaccine?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI no, non ho queste informazioni.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dai documenti presentati da Reithera alle istituzioni italiane emerge che il vaccino si basa su due tecnologie brevettate. Una è l’adenovirus, di nome Grad23; l’altra è un metodo basato su cellule hek293. Ma in banca dati a nome Reithera non ve n’è traccia.

CRISTINA BIGGI – CONSULENTE BREVETTI BUGNION SPA Potrebbero essere segreti. Noi abbiamo trovato qualcosa relativo alla linea cellulare hek 293 a nome Gsk.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cioè Glaxo. Report ha potuto consultare il contratto firmato tra Reithera e lo Spallanzani. “Si specifica che qualsiasi diritto di proprietà intellettuale di una parte resterà nella piena titolarità della stessa”. Nel contratto Reithera si impegna solo a “concordare con successivi atti modalità per garantire accesso al vaccino che possa soddisfare le esigenze nazionali”.

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Il protocollo prevede allo stato soltanto la fase 1.

MANUELE BONACCORSI Dico, ma finita la fase 1 nulla impedirebbe a Retihera di rivolgersi a una multinazionale per fare la sperimentazione di fase 2 e 3 altrove.

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Certo, il brevetto del vaccino è della società.

MANUELE BONACCORSI Questi brevetti voi li avete visti?

MARTA BRANCA – DIRETTRICE GENERALE INMI SPALLANZANI Io queste informazioni non posso darle all’esterno perché sono coperte da segreto, tuttavia le posso garantire che noi questa cosa l’abbiamo verificata, quindi nessuno di noi ha dichiarato il falso.

MANUELE BONACCORSI Presidente, salve Bonaccorsi, Report, Rai 3, senta sul vaccino Reithera lei ha parlato di vaccino pubblico, italiano, bene pubblico globale, non vi eravate accorti che i brevetti sono privati?

NICOLA ZINGARETTI- PRESIDENTE REGIONE LAZIO Guarda, noi abbiamo finanziato la ricerca all’istituto Spallanzani e al Miur che gestisce tutta questa parte, per un vaccino pubblico, cioè di proprietà pubblica.

MANUELE BONACCORSI Il problema è che il brevetto è di Reithera, è una società privata Keires Ag la controllante ha sede in svizzera, non avete fatto manco una visura prima di dare 5 milioni di euro?

NICOLA ZINGARETTI- PRESIDENTE REGIONE LAZIO Noi abbiamo finanziato lo Spallanzani che è un istituto scientifico sul quale penso non ci sia nessun dubbio, o minimo dubbio.

MANUELE BONACCORSI Certo, il quale a sua volta gira le risorse alla società.

NICOLA ZINGARETTI- PRESIDENTE REGIONE LAZIO Adesso vediamo, adesso che me lo stai dicendo…

MANUELE BONACCORSI Quindi non è bene pubblico

NICOLA ZINGARETTI- PRESIDENTE REGIONE LAZIO Adesso chiederemo conto anche allo Spallanzani e al Miur.

MANUELE BONACCORSI La ringrazio arrivederci.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il vaccino italiano forse non è così tutto italiano: i tre ricercatori, Nicosia, Collòca e Cortese nel 2004 brevettano 23 adenovirus. Sono il virus del raffreddore dello scimpanzè che depotenziato è fondamentale per veicolare il vaccino contro il Covid. All’epoca fanno la loro ricerca nei laboratori di Pomezia, è di proprietà della Merck, loro decidono i tre scienziati di mettersi in proprio e la Merck gli consente la possibilità di poter continuare la ricerca su quel tipo di adenovirus. Ecco, quando nel 2010 invece Di Lorenzo acquisisce l’Irbm i tre con lui costituiscono una nuova società, si chiama Advent, continuano la ricerca in quei laboratori, scoprono anche il vaccino di Ebola, però quando c’è il momento di brevettarlo, ecco lo brevetta una società anonima svizzera, Okairos, in greco significa il momento opportuno. Il momento opportuno per Okairos capita nel 2014, quando viene ceduta la Glaxo, con i brevetti in pancia per la cifra di 250 milioni di euro. Ecco, però non un solo euro torna in Italia. È a quel punto che si rompe il feeling tra Di Lorenzo e gli scienziati, scoppia una guerra e la pace viene sancita solo dopo una transazione che viene tombata in una cassaforte e che contemplerebbe penali per decine di milioni di euro. Ecco, e poi gli scienziati cedono anche le quote della società Advent a Di Lorenzo però quote al valore nominale 5 mila euro quando la società ha un valore di milioni di euro. Poi a distanza di anni Collòca & company si ripresentano. Ecco, Nicosia parla con il suo ex rettore, Manfredi, oggi diventato ministro per la Ricerca, illustra il progetto di fabbricare, produrre un vaccino tutto italiano, il progetto viene finanziato attraverso lo Spallanzani, 3 milioni li mette il Cnr, 5 la Regione Lazio. Tutti inneggiano, evocano il vaccino italiano, in realtà ha la testa in Svizzera. Zingaretti non sapeva nulla eppure qualcuno lo sapeva. Ecco, chi ha fatto la due diligence, il controllo dei conti della società degli scienziati di Rheitera? Invitalia di Domenico Arcuri. Parla di residenti all’estero, genericamente, ma non ci dice chi sono. Ecco, a noi invece risulta da visura internazionale aggiornata a pochi giorni fa che ci siano dentro personaggi, persone legate alla multinazionale farmaceutica Glaxo. Reithera, gli scienziati smentiscono ma non ci hanno fornito una prova contraria. Nulla dice Invitalia neppure sul brevetto, su come è regolamentato. Noi abbiamo avuto la possibilità di leggere il contratto e abbiamo scoperto che dopo, terminata la fase 1, il brevetto, il contratto prevede un libera tutti, possono farci quello che vogliono. Peccato che non sappiamo chi sia il proprietario del brevetto. Ecco, insomma, noi abbiamo chiesto informazioni anche a Reithera; però, chi sono i vostri proprietari, chi sono quelli che hanno le quote, quante ne hanno? Insomma, non hanno voluto risponderci, ci hanno detto perché ci avete fatto delle domande errate. Ora, le domande servono proprio per chiarirsi le idee e in tanti anni di onorata carriera nessuno ci aveva detto che facevamo domande errate. Semmai errate sono le risposte. Evidentemente su tutta questa vicenda vogliono mantenere il silenzio perché sulla partita dei brevetti si gioca la fase più importante.

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTORE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Questa è la farmacia dell’ospedale Policlinico San Martino, qua dentro in questo momento ci sono circa 10 milioni di farmaci. Si è visto negli anni un aumento continuo di costi delle terapie, è per questo motivo che si deve utilizzare a parità efficacia e di sicurezza dei farmaci con brevetto scaduto. È importante capire che nel momento in cui scade il brevetto, non scade per tutte le indicazioni registrate. Questo ad esempio è il Glivec: in questo caso è scaduto il brevetto per tutte le patologie ematologiche, ma non è scaduto per quello che riguarda il Gist che è un tumore gastrointestinale.

MANUELE BONACCORSI Questo è quello coperto dal brevetto.

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTORE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA sì, noi lo prendiamo a 2.100 euro. Questo è il bioequivalente.

 MANUELE BONACCORSI cioè il generico.

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTORE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Che noi paghiamo 36 euro a confezione.

MANUELE BONACCORSI Ma sono uguali, identici?

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTORE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Sì.

ANUELE BONACCORSI Quindi lei ha in farmacia un farmaco che costa 36 euro ed è obbligata dal brevetto a spenderne 2mila. Ma scusi lei non potrebbe dare il generico, tanto l’effetto è uguale?

SABRINA BELTRAMINI – DIRETTORE FARMACIA OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Noi non possiamo, perché la casa farmaceutica può farti causa.

MANUELE BONACCORSI qualcosa del genere sta accadendo oggi per il vaccino contro il Covid?

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU Assolutamente. Primo: oggi le aziende si muovono in segreto, mentre condividere le innovazioni ci renderebbe più veloci nella scoperta di un vaccino. Secondo, le case farmaceutiche non avranno la capacità di fabbricarlo subito per tutti e il brevetto impedirà di farlo ad altre aziende che pure ne avrebbero i mezzi.

MANUELE BONACCORSI Se il virus ha colpito tutti, senza distinzione di ceto sociale, il vaccino potrebbe creare delle discriminazioni tra ricchi e poveri.

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU Due terzi del mondo probabilmente dovranno aspettare fino al 2022 per il vaccino. È già accaduto con l’Aids. I farmaci antiretrovirali per molti anni furono disponibili solo nei Paesi ricchi. In quelli poveri, come la mia Uganda, la gente continuava a morire perché i prezzi erano troppo alti.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO FARMACOLOGICO MARIO NEGRI È interesse comune bloccare lo sviluppo del virus, perché se rimane ancora in giro in certe parti del mondo ritorneremo ad averlo. Quindi c’è anche un interesse nostro a fare in modo che il vaccino sia disponibile per tutti, al di là dei criteri della solidarietà.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Invece accade questo: oltre 200 case farmaceutiche sono in gara per arrivare per prime al vaccino, ognuna col proprio brevetto. Anche gli Stati sono in competizione: Russia e Cina preparano i loro vaccini nazionali; mentre gli Stati Uniti hanno inondato di dollari le case farmaceutiche, per assicurarsi di avere le dosi prima degli altri. È quella che Trump ha chiamato Operation Warp Speed. Velocità della luce.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR I contratti siglati negli Stati Uniti ammontano oggi a circa 11 miliardi di dollari, fra l’altro prevedono anche delle opzioni per successive consegne che quindi porterebbero il pacchetto complessivo a 17 miliardi.

MANUELE BONACCORSI Quante dosi ha comprato in totale l’amministrazione americana?

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR Secondo i nostri dati sono circa 450 milioni di dosi già prenotate.

MANUELE BONACCORSI Quindi più dell’intera popolazione americana.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR Esatto. Il Paese che per primo riuscirà a vaccinare gran parte della popolazione potrà anche ripartire economicamente prima degli altri.

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU Lo chiamerei “nazionalismo del vaccino”. I Paesi ricchi si si stanno accaparrando tutte le dosi che possono. Ciò che l’Onu può fare è proporre una soluzione globale e incoraggiare i governi a seguirla. Ogni Paese, quindi, dovrebbe vaccinare solo il 20% più esposto della sua popolazione e lasciare il resto agli altri.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma le scelte politiche vanno in direzione opposta. Il governo statunitense ha opzionato prima dell’Unione Europea le dosi del vaccino in sperimentazione di un’azienda francese come Sanofi mentre la tedesca Curevac Trump ha pure provato a comprarsela, prima di essere stoppato dal governo di Berlino. All’inglese Astrazeneca gli Stati Uniti hanno versato 1,2 miliardi di dollari, alle americane Novavax e Johnson & Johnson oltre un miliardo e mezzo ciascuna. Sono contratti dove si compra in anticipo un prodotto che ancora non c’è.

MANUELE BONACCORSI In questo caso il rischio è tutto sulle spalle dello Stato.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR Sì. Se questi progetti o uno di questi, dovesse veramente fallire, lo Stato ha speso dei soldi per dei vaccini che non arrivano.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lo stesso potrebbe accadere in Europa. Von der Leyen ha parlato di “vaccino bene pubblico globale”, ma ha già sottoscritto per conto degli Stati membri quattro contratti con Astrazeneca, Sanofi-Gsk, Johnson & Johnson e Pfizer-Biontech. Per l’acquisto in anticipo delle dosi, l’Ue attinge a un fondo di 2,7 miliardi di euro.

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO Il termine che utilizza la Commissione europea è derisk in inglese. Derisk che cosa vuol dire? Che il rischio lo togliamo, cioè lo togliamo, lo prendiamo noi. Il vaccino, anche se pagato, sviluppato con soldi nostri, rimarrà proprietà dell’azienda.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In pratica noi paghiamo subito. E se non ci consegnano la merce, si tengono i soldi. Quanti esattamente? Impossibile saperlo. Il contratto è secretato T. METZ La commissione ha intenzione di garantire piena trasparenza sugli accordi firmati con l'industria?

N. STEFANUTA Questo non è un contratto come gli altri, sono soldi pubblici. COMIN possiamo rassicurare che non sprecheremo un euro pubblico?

PIETRO DI LORENZO - PRESIDENTE IRBM Sento, leggo una polemica, il contratto è visibile, non è visibile… È talmente lapalissiano quello che ha detto il presidente di Astrazeneca, che ha dichiarato: il vaccino sarà venduto in costanza di pandemia a prezzo industriale senza aggiungere un centesimo di valore brevettuale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Per il vaccino Astrazeneca si parla di un prezzo tra i 2,5 e i 4 dollari a dose. Ma fino a quando? Lo chiediamo a Nathalie Moll, direttrice dell’Efpia, l’associazione di lobby delle case farmaceutiche a Bruxelles.

MANUELE BONACCORSI Il contratto già firmato con Astrazeneca lei è riuscito a vederlo?

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE No, i contratti rimangono confidenziali.

MANUELE BONACCORSI Immagino che lei sappia un po’ cosa c’è dentro, no? La nostra curiosità è sapere se questo prezzo rimarrà basso nel corso del tempo, nel caso della necessità di ulteriori dosi di vaccino.

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Sulla durata nel tempo non so se ci sia una durata nel tempo dei contratti.

MANUELE BONACCORSI Non è lei a deciderlo, ovviamente. Dipende dal contratto che però né io né lei purtroppo abbiamo potuto vedere.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo un contratto firmato tra la casa farmaceutica e un produttore industriale brasiliano pubblicato dal Financial Times, la fine dell’emergenza Astrazeneca l’ha già decisa in maniera autonoma: luglio 2021. Da quel momento, grazie al brevetto esclusivo, la multinazionale potrebbe fissare liberamente il prezzo del vaccino. E questo nonostante abbia ricevuto circa 2,5 miliardi di fondi pubblici.

MANUELE BONACCORSI Sul vaccino Covid le aziende farmaceutiche private quanto hanno investito di tasca loro?

NATHALIE MOLL – DIRETTORE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Mi chiede una domanda alla quale non ho una risposta.

MANUELE BONACCORSI Noi ci saremmo attesi una riduzione dei vincoli di proprietà intellettuale su questi vaccini, definiti da Von der Leyen “bene pubblico globale”.

NATHALIE MOLL – DIRETTORE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Innanzitutto, per ogni prodotto il brevetto sarà anche nel contratto, quindi penso che le discussioni sui brevetti siano in quei contratti individuali con la commissione Europea.

MANUELE BONACCORSI Grazie mille, grazie davvero, grazie… Io vedo una contraddizione tra quanto Von Der Leyen dice: vaccino bene pubblico se c’è il brevetto sopra, esclusivo.

NATHALIE MOLL – DIRETTORE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE sì, quindi il bene pubblico è l’acqua e l’aria, però il vaccino è un’invenzione, non esiste nella natura.

MANUELE BONACCORSI Quindi ha sbagliato Von Der Leyen a dire bene pubblico?

NATHALIE MOLL – DIRETTORE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Secondo me non puoi dire che un’invenzione è un bene pubblico, perché voglio dire fosse un bene pubblico allora dovrebbe essere available a tutti, ma chi lo crea? allora ok benissimo, allora le istituzioni good luck, cercate voi la soluzione. È facile a dire, politicamente è super sexy, ma non è che aiuti molto, poi.

MANUELE BONACCORSI Presidente, perché tenete segreto il contratto con Astrazeneca per il vaccino e il nome dei negoziatori. È una questione di trasparenza, presidente…. Si tratta di fondi pubblici, perché tenete segreti i contratti, per favore… Perché il contratto con Astrazeneca è un segreto nell’Unione Europea, perché è un segreto, presidente, per favore…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La commissione si rifiuta pure di rivelare il nome dei sette negoziatori scelti dagli Stati membri per trattare con le case farmaceutiche.

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO La commissione ha detto: non vorremmo che queste persone siano vittime di pressioni.

MANUELE BONACCORSI Quindi ci sono dei negoziatori segreti che fanno dei contratti segreti per conto dell’intera popolazione dell’Unione Europea.

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO Sì, qualche nome lo sappiamo, e il primo, il più emblematico diciamo che è filtrato è quello di Richard Bergstrom.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Richard Bergstrom, classe 1966, svedese, nominato dal governo di Stoccolma. È l’ex direttore dell’Efpia, la potente associazione delle case farmaceutiche a Bruxelles.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY Quando il suo nome è divenuto noto, ci è preso un colpo. Dopo essere stato a capo della lobby farmaceutica per più di cinque anni, Bergstrom è passato a gestire diverse società che forniscono servizi all'industria farmaceutica. Ed è un chiaro conflitto di interessi.

MANUELE BONACCORSI Noi sappiamo il nome dello svedese, c’è anche un italiano?

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO Ci sarebbe anche un italiano, sì.

MANUELE BONACCORSI si sa il nome dell’italiano?

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO Io no, però in Italia si dovrebbe poter trovare.

MANUELE BONACCORSI Cioè lo dovremmo chiederlo noi, giustamente.

MANUELE BONACCORSI Il governo italiano ha nominato un negoziatore per i vaccini, è segreto, ce lo dice il nome? GIUSEPPE CONTE Oggi ho dichiarato.

MANUELE BONACCORSI Ce lo dica!

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO non rilascio dichiarazioni.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chi è il negoziatore italiano? Report può rivelarlo in esclusiva: è il dr. Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero della Salute e anche membro del Comitato tecnico scientifico. Ma a gestire i rapporti con le case farmaceutiche, a partire dal primo contratto con Astrazeneca, sarebbe stato, in base alle nostre informazioni, il dr. Walter Ricciardi, ex presidente dell’Iss e consulente del ministero della Salute, vanta alle spalle numerosi rapporti con varie case farmaceutiche. Ora se il virus è stato fino ad oggi ecumenico, nel senso che ha colpito tutti, nord e sud del mondo, ricchi e poveri, il vaccino in realtà potrebbe creare delle discriminazioni. Secondo uno studio dell’Ong Oxfam, le case farmaceutiche sono in grado di produrre 6 miliardi di dosi. In questo momento sono state già prenotate il 90% di queste dosi. Se venissero distribuite in base alle prenotazioni noi ci troveremmo di fronte a un’anomalia: tre circa dosi per ogni abitante del Paese ricco, e invece una dose sola per circa tre abitanti dei Paesi poveri. Ecco, se ci fosse una distribuzione più equa viene stimato che forse riusciremmo a ridurre del 58% i morti stimati. Abbiamo capito intanto che le case farmaceutiche stanno producendo il vaccino attraverso dei contratti derisk: cioè senza rischio, il rischio di un fallimento economico lo sobbarca lo Stato, e forse anche quello di effetti collaterali. In un documento rimasto a lungo riservato, firmato Vaccine Europe, l’associazione delle case farmaceutiche, si scrive: “La velocità dello sviluppo e la scala del lancio dei vaccini rende impossibile generare gli stessi elementi di prova che sarebbero normalmente disponibili. Questo crea rischi inevitabili”. Ecco, chi paga in caso di effetti collaterali? Le aziende farmaceutiche chiedono che siano gli Stati ad assumersi l’onere. Su questo tema è intervenuta anche la potente direttrice della direzione sanità della commissione europea.

SANDRA GALLINA – DIRETTRICE DG SANITA’ COMMISSIONE EUROPEA Le aziende manterranno tutta la responsabilità, non ci sono cambiamenti. Quindi per favore smettiamola con tutte queste notizie diciamo scorrette, per essere diplomatici. Solo in questo periodo in cui i vaccini sono stati sviluppati molto velocemente, c’è la possibilità per gli Stati membri di coprire i costi del risarcimento per i difetti nascosti.

MARC BOTENGA - PARLAMENTARE EUROPEO Qual è la definizione di difetto nascosto? Un difetto nascosto può essere di tutto, e quindi i danni da pagare potrebbero cadere sulle spalle dei cittadini.

MANUELE BONACCORSI Parlate di rischi inevitabili. Cosa vuol dire?

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Credo che quello che crea dei rischi più grandi è la quantità di persone che dovrà essere immunizzata, quindi se parliamo di miliardi e miliardi di persone allo stesso tempo, è piuttosto quello che crea più rischi di reazioni avverse.

MANUELE BONACCORSI Ci sono dei rischi in più, è questo quello che voi scrivete.

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Però era un documento interno, ma comunque… il punto non è questo.

MANUELE BONACCORSI Avreste preferito non fosse uscito?

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Il punto… Era un documento di dialogo, infatti.

MANUELE BONACCORSI Ci spiega cosa vuol dire?

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE Quando non è una responsabilità dell’azienda, ci vuole rapidamente un fondo di compensazione, per aiutare il paziente.

MANUELE BONACCORSI Finanziato dalle casse pubbliche.

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE O da una concomitanza, fra aziende e cassa, dipende da ogni Paese, ogni Paese ha una legislazione diversa.

MANUELE BONACCORSI Comunque con un intervento dello Stato.

NATHALIE MOLL – DIRETTRICE FEDERAZIONE EUROPEA INDUSTRIE FARMACEUTICHE anche, sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dura e cruda ma vera, alla fine è la lobbista delle case farmaceutiche a dirci come stanno le cose perché la politica si trincera dietro il silenzio, mentre intorno alla produzione e distribuzione del vaccino si consuma una battaglia geopolitica tutta a vantaggio delle imprese.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTARS Allora il caso più eclatante è sicuramente Novavax, un’azienda americana quotata al Nasdaq, a gennaio 2020 aveva una capitalizzazione di mercato inferiore ai 150 milioni di dollari, al 10 agosto ha sfiorato i 10,5 miliardi di dollari, il titolo è salito del 2764% .

MANUELE BONACCORSI una cosa strabiliante, una misura fuori dal mondo.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTARS sì. Ricordiamo solo che Novavax è un’azienda che era in rosso, non aveva mai ricevuto un’autorizzazione dalla Food and drug administration.

MANUELE BONACCORSI quindi mai fatto entrare in commercio nessun farmaco.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTARS mai, mai. Però Novavax ha ricevuto a maggio da Cepi 388 milioni di dollari per sviluppare il proprio vaccino, il che ha scatenato una corsa all’acquisto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cepi è un’organizzazione filantropica internazionale che ha l’obiettivo di promuovere la ricerca sui vaccini, ed è finanziata in gran parte dagli Stati e dalla fondazione di Bill Gates. Cepi annuncia il suo finanziamento da 388 milioni di dollari a Novavax l’11 maggio, quanto il titolo della biotech valeva ancora 18 dollari. Una settimana dopo ne varrà 57. Una crescita del 300%.

MANUELE BONACCORSI È normale che un’istituzione filantropica produca queste conseguenze in borsa?

FREDERIK KRISTENSEN – VICE CEO-CEPI Non seguo la borsa e non ho niente da commentare. I nostri investimenti servono ad assicurare che i vaccini siano disponibili per tutti e prima possibile. Ora, se questo produce conseguenze sui mercati azionari, pazienza. Non ci interessa.

MANUELE BONACCORSI Possiamo vedere i vostri contratti, è possibile?

FREDERIK KRISTENSEN – VICE CEO-CEPI Stiamo preparando un report su tutti i nostri contratti. Ma i singoli accordi non sono pubblici, perché contengono alcune informazioni commerciali sensibili.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR Questi finanziamenti che ha ricevuto in realtà poi le servono per sviluppare dei processi, una tecnologia, un know how interni che potrebbero molto essere utili poi in futuro per sviluppare prodotti che sono più redditizi dei vaccini.

MANUELE BONACCORSI E questo però dipende dal fatto che nonostante i finanziamenti siano pubblici il brevetto sviluppato all’interno di quell’azienda deve rimanere privato, se no l’affare salta.

VALERIO BASELLI - MORNINGSTAR Assolutamente sì. I brevetti rimarranno privati, ovviamente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cepi insieme a un’altra organizzazione sovranazionale di nome Gavi, sotto l’egida dell’ONU, ha lanciato il progetto Covax. Obiettivo: creare un unico centro di acquisto a livello globale finanziato da tutti gli Stati secondo le proprie capacità economiche, in modo da favorire un’equa distribuzione del vaccino. Covax si è posto l’obiettivo di acquistare per i Paesi più poveri 2 miliardi di dosi.

MANUELE BONACCORSI Avete posto condizioni riguardo alla proprietà intellettuale?

FREDERIK KRISTENSEN – VICE CEO-CEPI Non richiediamo né pretendiamo vincoli sulla proprietà intellettuale, per noi non è un tema fondamentale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nemmeno le organizzazioni filantropiche come Cepi e Gavi hanno messo in discussione il sistema basato sul brevetto. Per quale motivo?

VIVIANA GALLI – EUROPEAN ALLIANCE FOR AFFORDABLE MEDICINES Dietro sia Cepi e Gavi c’è Gates. Poiché c’è Gates dietro a tutto, ma dietro a tutto, loro non stanno sfidando questa cosa dei brevetti assolutamente, perché tutto il mondo Gates è fondato sui brevetti, quindi anche in tutta la sua filantropia in campo sanitario lui si basa sui brevetti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Bill Gates è il secondo uomo più ricco del mondo, e lo è diventato proprio grazie ai brevetti della sua Microsoft, che ha inventato il sistema operativo proprietario Windows. Nel 2000 decide di creare la fondazione filantropica Bill e Melinda Gates, che finanzia Cepi con 20 milioni di dollari, Gavi con 1,5 miliardo, l’Oms con 530 milioni, e siede in tutti i tavoli decisionali, allo stesso livello degli Stati.

MANUELE BONACCORSI Il responsabile dei contratti di Cepi è Richard Wilder, in passato era il capo dei brevetti di Microsoft. Questo ci dà l’impressione che Cepi voglia difendere il modello basato sulla proprietà intellettuale.

FREDERIK KRISTENSEN – VICE CEO-CEPI È una grave semplificazione affermare che un investitore o un individuo ha una particolare attenzione su questo.

MANUELE BONACCORSI Cosa pensa della fondazione Gates?

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU La fondazione è un nostro partner nella difesa della salute globale.

MANUELE BONACCORSI Gioca un ruolo nella difesa della proprietà intellettuale, secondo lei?

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU La fondazione nasce da un grande innovatore con una grande tecnologia.

MANUELE BONACCORSI È un grande supporter della proprietà intellettuale.

WINNIE BYANYIMA– SOTTOSEGRETARIO GENERALE ONU lo immagino. Ma dev’essere chiaro che noi non vogliamo che la proprietà intellettuale non esista proprio. Eh, l’ultima domanda era dura, la domanda spinosa l’hai tenuta alla fine! Ah, ah! La tenevi in tasca?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Gates ha lanciato un appello per un vaccino “aperto a tutti”, denunciando l’egoismo degli stati Occidentali. Ma sui brevetti, l’inventore di Microsoft, ovviamente non dice una parola. Questo è il Jenner Institute di Oxford, il centro di ricerca universitario pubblico inglese che ha brevettato il primo vaccino anticovid quello realizzato con l’Irbm di Pomezia e Astrazeneca. Il direttore dell’istituto, il professor Adrian Hill, ad aprile dichiara:

ADRIAN HILL – DIRETTORE JENNER INSTITUT OXFORD “Personalmente non credo che in una pandemia dovrebbero esserci licenze esclusive. È quello che noi chiediamo alle aziende: nessuno dovrebbe fare soldi su questo vaccino”.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi un emissario di Gates attraversa l’Atlantico.

BILL GATES “Siamo andati a Oxford e abbiamo detto loro: “ehi, state facendo un lavoro brillante. Ma per fare la sperimentazione e la produzione in tutto il mondo, devi avere una collaborazione”. Abbiamo detto loro un elenco delle persone con cui andare a parlare.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poco dopo sarà annunciata la cessione della licenza ad Astrazeneca, anche a quanto pare su pressione del governo inglese. Cosa sia successo davvero ce lo rivela a latere della nostra intervista il direttore del Medicine Patent Pool, un importante organismo tecnico a servizio dell’Onu. Perché Oxford ha cambiato idea?

ESTEBAN BURRONE – MEDICINES PATENT POOL GINEVRA tutte le imprese con cui parlavano, secondo quello che ci dicono loro, dicevano la condizione è che sia licenza esclusiva. A quel punto hanno cambiato un po’ di strategia, lo hanno fatto un po’ anche senza dirlo ad alta voce. Il governo britannico quando mette tanti soldi sul tavolo per aiutare lo sviluppo di questo prodotto ha detto ok, però fate una partnership con impresa inglese farmaceutica, con una big pharma inglese, quindi era gsk o astrazeneca, non ce ne sono altre. C’è sempre questo, se vuoi, tra di noi, ricatto.

MANUELE BONACCORSI questi sono i rapporti di forza.

ESTEBAN BURRONE – MEDICINES PATENT POOL GINEVRA così funziona il business.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bill a sentire la testimonianza avrebbe anche consigliato i ricercatori dell’Università pubblica di OXFORD. Alla fine la licenza di produrre in esclusiva è finita nelle mani di Astrazeneca. Ecco, mettere in discussione la logica del brevetto è come mettere in discussione l’uomo che ha costruito la sua fortuna su questa logica. Noi di Report abbiamo anche scoperto che una parte, circa 331 milioni di dollari nel 2019 Bill Gates li ha investiti proprio nel settore sanitario, una parte anche nelle società che stanno producendo il vaccino. E in particolare nell’agosto del 2019 ha sottoscritto azioni per un valore di 55 milioni di dollari in Biontech, la partner di Pfizer, quella che sta producendo il vaccino di cui tutti parlano in questo momento. Quelle azioni oggi sono diventate di un valore di 340 milioni di dollari. Denaro fresco che può trasferire attraverso la fondazione, all’OMS, al Cepi che deve sviluppare il vaccino, in Gavi, che è l’ente sovranazionale che deve divulgare il vaccino nei Paesi poveri del mondo. Ecco, può incidere in sostanza sulle campagne del vaccino, che è prodotto da quelle stesse aziende dove lui ha investito. Ecco, più che un conflitto di interessi, sembra la visione di un mondo. Ma se alla fine il mondo del brevetto ha un prezzo, ce l’ha anche perché ci sono persone che hanno un valore, inestimabile e nobilissimo che è quello del senso della collettività.

Covid, pronto un altro vaccino “super”: si chiama “Moderna”, funziona nel 94,5% dei casi. Redazione lunedì 16 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Buone notizie dalla ricerca sul vaccino anti-Covid-19 Moderna. Il candidato sviluppato dalla biotech americana mRna-1273 “ha raggiunto il parametro primario di efficacia nella prima analisi preliminare dello studio Cove di Fase 3”. Lo fa sapere l’azienda in una nota, annunciando che lo studio della fase 3 mostra “un’efficacia del vaccino del 94,5%“. La prima analisi preliminare ha visto 95 partecipanti con casi confermati di Covid-19. La notizia arriva nel giorno dell’avvio della revisione accelerata sul vaccino da parte dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco. L’Italia dovrebbe muoversi in fretta anche su questo fronte, dopo l’attivazione del procacciamento di quello della Pfizer. Il lavoro illustrato oggi ha analizzato anche i casi gravi di Covid-19: sono stati inclusi in particolare 11 casi gravi (come definiti nel protocollo di studio) in questa prima analisi ad interim. “Tutti gli 11 casi si sono verificati nel gruppo trattato con placebo e nessuno nel gruppo vaccinato con mRna-1273″. I 95 casi di Covid-19 includevano 15 over 65 e 20 partecipanti appartenenti a minoranze. Sulla base di questi dati, Moderna intende presentare la richiesta d’autorizzazione all’uso d’emergenza alla Food and Drug Administration Usa “nelle prossime settimane”. “Questo è un momento cruciale per lo sviluppo del nostro candidato al vaccino contro il Covid-19. Dall’inizio di gennaio, abbiamo inseguito questo virus con l’intento di proteggere il maggior numero possibile di persone in tutto il mondo. Da sempre sappiamo che ogni giorno è importante. Questa analisi preliminare del nostro studio di Fase 3 ci ha dato la prima conferma clinica che il nostro vaccino può prevenire Covid-19, incluse le forme gravi“, ha dichiarato Stéphane Bancel, amministratore delegato di Moderna. L’autorizzazione all’uso d’emergenza si baserà sull’analisi finale di 151 casi e su un follow-up mediano di oltre 2 mesi, ricorda Moderna. L’analisi degli eventi avversi ha indicato inoltre che il vaccino è “generalmente sicuro e ben tollerato”. La maggior parte, infatti, “è stata di gravità lieve o moderata”. Fra questi: dolore al sito di iniezione (2,7%) affaticamento (9,7%), mialgia (8,9%), artralgia (5,2% ), mal di testa (4,5%), dolore (4,1%) ed eritema/arrossamento al sito di iniezione (2,0%). Questi eventi avversi “sono stati generalmente di breve durata”. Moderna sta lavorando con i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), con l’Operation Warp Speed ​​e con McKesson, un distributore di vaccini Covid-19 incaricato dal governo degli Stati Uniti, all’organizzazione della distribuzione del vaccino mRna-1273, nel caso in cui riceva l’autorizzazione all’uso. Entro la fine del 2020, la società prevede di avere circa 20 milioni di dosi di mRNA-1273 pronte per la spedizione negli Stati Uniti. Moderna si dice anche sulla buona strada per produrre da 500 milioni a 1 miliardo di dosi a livello globale nel 2021.

(LaPresse/AP il 16 novembre 2020) - L'azienda statunitense di biotecnologie Moderna ha annunciato che il suo vaccino contro il coronavirus ha un'efficacia del 94,5%, stando ai dati preliminari ricavati dallo studio ancora in corso. Vittorio Sabadin per lastampa.it il 16 novembre 2020. Tutti prenotano e aspettano il vaccino di Pfizer-BioNTech, ma può darsi che sia quello allo studio di Oxford-Zeneca, alla fine, a vincere la gara come prodotto più economico e più affidabile. Oxford ha promesso di concludere i test entro poche settimane e tutto lascia pensare che i risultati saranno positivi. C’è bisogno di molti vaccini, perché nessun produttore da solo riuscirà a soddisfare la domanda, ma anche perché il vaccino proposto da Pfizer è troppo complicato e costoso da distribuire. Basato su una tecnologia innovativa, adottata anche da Curevac e da Moderna, il vaccino di Pfizer somministra il Rna messaggero che provoca la reazione del sistema immunitario contro le proteine “spike” che agganciano il virus alle cellule.  Il materiale genetico contenuto in questo vaccino deve essere trasportato e conservato a una temperatura glaciale, - 70°,  ottenibile solo con particolari frigoriferi dei quali la maggior parte degli ospedali e delle case di cura non è al momento dotata. Inoltre, il vaccino Pfifer ha bisogno di essere somministrato due volte nell’arco di quattro settimane, cosa che complica la logistica e la distribuzione. Il professor Jonathan Stoye, virologo presso il centro di ricerca biomedica Francis Crick di Londra, ha confermato all’Independent che ci sono “almeno due inconvenienti” per il vaccino Pfizer. “Il primo è che richiede due iniezioni per essere pienamente efficace e il secondo è che deve essere conservato a -70 gradi. La somministrazione del vaccino sarà molto complessa per molti destinatari, in particolare nei paesi che hanno un clima caldo e dispongono di catene del freddo meno sviluppate. Ci sono quindi tutte le ragioni per continuare la ricerca di nuovi vaccini, in particolare quelli che richiedono una sola dose, che possono essere distribuiti in polvere e ricostituiti prima dell'uso”. Il vaccino di Oxford-AstraZeneca è basato su un adenovirus (il virus del raffreddore degli scimpanzé) il cui patrimonio genetico è sostituito con la proteina Spike prodotta chimicamente in laboratorio. Iniettata nel sangue, la proteina stimola la produzione di anticorpi e previene lo sviluppo del Covid-19. A differenza del vaccino Pfizer, quello di Oxford può essere però conservato a temperature tra i 2 e gli 8 gradi e ha bisogno di una sola somministrazione. Non si conoscono ancora i costi di una singola dose, ma si stima che il Pfizer possa essere venduto a circa 35 euro. Molto più basso il costo dell’Oxford, che si aggira intorno ai 4-5 euro. In questo giorni l’Unione Europea e i governi del mondo stanno prenotando milioni di dosi di vaccini di vario tipo anche da aziende che non hanno ancora annunciato di averlo sperimentato con successo e di essere pronte alla produzione. Si firmano assegni in bianco nella speranza di poter soddisfare le necessità della popolazione e ci si prepara: la Germania ha già predisposto decine di congelatori sparsi per il territorio e ha invitato ogni Lander a elaborare un piano di vaccinazioni. I responsabili delle regioni collaborano con il governo e pensano a cosa fare domani, invece di litigare su quello che avrebbero dovuto fare ieri, come avviene tristemente in Italia.

Paolo Russo per “la Stampa” il 17 novembre 2020. «Gli studi fino a qui condotti dopo due-tre mesi di sperimentazione allargata sull' uomo indicano che i vaccini riescono a prevenire il contagio e quindi la malattia. E la risposta anticorpale generata è a livelli elevati in tutte le fasce di età». Nicola Magrini, direttore generale dell'Aifa, pronuncia le parole che molti volevano sentire. Ossia che gli antidoti in arrivo proteggono non solo dai sintomi ma anche dal contagio. Poi però ammette che un contratto di acquisto con Moderna ancora non c'è. «Ma se non lo fa l' Europa siamo già pronti a farlo noi». Oramai si fa a gara a chi ha il vaccino più efficace.

Ma avete elementi per dire che quelli in arrivo riusciranno veramente a debellare il virus?

«I dati comunicati oggi da Moderna sono più esaustivi dell' annuncio di Pfizer della scorsa settimana. E i dati ci dicono che sui quindicimila volontari ai quali è stato somministrato il vaccino solamente 5 hanno contratto l'infezione contro i 90 malati che si sono registrati tra gli altri 15 mila, ai quali era stato somministrato un semplice placebo. Ho potuto intravedere anche i dati della Pfizer e devo dire che sono analoghi a quelli di Moderna».

Ma quando potremo dire che saremo usciti dal tunnel?

«Quando almeno il 70% delle persone sarà stata immunizzata, la soglia minima che serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge che impedisce al virus di circolare. Ma sarà un' operazione lunga e difficile, perché parliamo di vaccinare almeno 40 se non 50 milioni di italiani. E per ottenere una piena immunizzazione per tutti e tre i vaccini in fase avanzata di sperimentazione, i due già menzionati più quello di AstraZeneca, servirà un richiamo a distanza di 3 settimane. Quattro nel caso di Moderna. Solo il vaccino dell' americana Merk Sharp & Dohme richiede una sola somministrazione, ma non arriverà prima dell' estate prossima».

Con la prima dose si resta esposti al virus come prima?

«No, perché dopo i primi 10-14 giorni si genera una prima barriera anticorpale che viene poi rafforzata dalla seconda dose».

Quanto ci vorrà per arrivare all' approvazione dei magnifici tre?

«Per metà dicembre mi aspetto che tutti e tre possano consegnare i dossier con i dati completi per avviare la valutazione da parte dell'Ema, l' Agenzia europea del farmaco. Qualche settimana per completare la revisione dei dati sarà necessaria, ma per metà gennaio potremmo arrivare a una valutazione comparativa di tutti e tre in modo da averli contemporaneamente a disposizione».

Abbiamo già acquistato dosi del vaccino di Moderna?

«L'Europa deve ancora firmare l' accordo, che invece è stato sottoscritto con Pfizer per l' acquisto di 3,4 milioni di dosi, mentre con AstraZeneca c' è un contratto europeo per l' acquisto di 400 milioni di dosi, 49 destinate all' Italia. Con Moderna se l' accordo non lo fa l' Europa lo faremo comunque noi. Abbiamo già avuto contatti con il loro quartier generale».

Chi inizieremo a vaccinare?

«Cominceremo dal personale sanitario, perché vogliamo che i nostri ospedali continuino a funzionare. Contemporaneamente somministreremo i vaccini agli anziani delle Rsa e alle forze dell' ordine. Poi passeremo ai grandi anziani, anche se dobbiamo ancora decidere se conterà soltanto l' età o anche la presenza di altre patologie gravi. Via via sarà poi il turno di tutti gli altri. Diciamo che entro il 2021 potremmo aver coperto l' intera popolazione».

Servirà un grande sforzo logistico e organizzativo.

«Sì, e si sta già lavorando a un piano. Con il vaccino di Pfizer che deve essere conservato a meno 70° serviranno consegne periodiche e frequenti. Per gli altri due basterà utilizzare i mezzi di cui già disponiamo perché non hanno bisogno di una catena del freddo così rigida. Poi bisognerà mobilitare tutti i centri vaccinali, otre che medici di famiglia e pediatri, ai quali dovrebbe competere anche il compito di individuare i pazienti fragili che hanno la precedenza».

Con una sperimentazione lampo chi ci assicura che non ci saranno eventi avversi?

«Come Aifa manterremo una doppia vigilanza, sia sulla popolazione generale che sui ricoverati, per rilevare tempestivamente eventuali eventi avversi. Che però dopo studi di queste dimensioni sono sempre rarissimi, in linea con quelli che si verificano abitualmente per qualsiasi tipo di farmaco».

Melania Rizzoli a Dritto e rovescio: "In Lombardia non ho mai visto un cinese ricoverato o in farmacia, c'è qualcosa che non va". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. "Non ho visto mai un paziente cinese ricoverato in un nostro reparto, tra migliaia di pazienti di tutte le nazionalità". Melania Rizzoli, in collegamento con Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio, avanza un sospetto sulla pandemia in Lombardia: "Sono una comunità che si è chiusa in un lockdown durissimo  - riconosce la Rizzoli, assessore all'Istruzione della Regione Lombardia -. Da medico, è la cosa che mi stupisce di più".

Prato, cinesi immuni al coronavirus? Ecco cosa succede a Wuhan, il video di propaganda: città "Covid-free", sospetti sul vaccino segreto. Libero Quotidiano il 14 novembre 2020. Mentre il mondo intero è alle prese con una pandemia con pochi precedenti e attende speranzoso il vaccino Pfizer-Biontech, che dovrebbe essere distribuito in maniera massiccia a partire dal prossimo anno, Wuhan è ormai Covid-free da mesi. O almeno è quanto sostiene il regime comunista cinese, che ha pubblicato un video per promuovere la città che era stata l’epicentro dell’epidemia: la clip pubblicitaria, intitolata “Incontriamoci a Wuhan” ha fatto il giro del mondo, con le immagini di persone felici e rigorosamente senza mascherina che sono un pugno nello stomaco per tutti gli altri. Un video che rafforza la teoria secondo cui la Cina in realtà ha sviluppato e sperimentato il suo vaccino già da tempo: ha fatto scalpore negli ultimi giorni la notizia secondo cui a Prato, dove vive una delle più grandi comunità cinesi del nostro paese, in molti avrebbero testato l’efficacia del vaccino durante i viaggi tra Cina e Italia e sarebbero quindi immuni a questa seconda ondata. Intanto le autorità del turismo della città-epicentro hanno lanciato in pompa magna l’invito a visitare la capitale della provincia di Hubei: “Wuhan non è mai avara nel presentare la sua bellezza e noi, che la amiamo, speriamo che più persone possano capire. Non vediamo l’ora di incontrarsi a Wuhan”. Peccato però che il resto del mondo è impossibilitato a viaggiare: che sia un’altra trovata di marketing per affermare la presunta superiorità cinese nella gestione dell’epidemia? 

Prato, cinesi immuni al coronavirus e viaggi a Pechino: le indiscrezioni sul "vaccino già testato". Enrico Paoli su Libero Quotidiano il 13 novembre 2020.  Dove tutto ha avuto inizio, in Cina, tutto potrebbe avere una fine. Mentre noi aspettiamo il farmaco della Pfizer, il colosso americano della farmaceutica, nel Paese della grande muraglia già sperimentano il «loro» vaccino. Prima su gruppi selezionati (militari, medici e infermieri), ora anche sulla popolazione civile, compresi i cinesi che vivono e lavorano in Italia, in particolare a Prato, una delle più grandi comunità del nostro Paese, disposti a testare l'efficacia del prodotto. «Di persone partite appositamente per farsi vaccinare non so, non tutti parlano e raccontano», spiega a Libero Marco Wong, consigliere comunale di maggioranza, eletto con la lista del sindaco di centrosinistra, Matteo Biffoni, «ma di imprenditori andati là per lavoro, o di persone tornate in Cina per ragioni familiari e sottoposte al protocollo vaccinale ce ne sono». Wong, presidente Onorario di "Associna, seconde generazioni cinesi", misura le parole (lo fa con noi, così come lo ha fatto a Mattino 5, qualche giorno fa) consapevole della delicatezza della questione. In Comune, a Prato, non sono da meno: «Non sappiamo nulla di questa storia del vaccino». La corsa al farmaco e la rincorsa al primato per la registrazione, non sono temi di poco conto. «È chiaro che dietro a tutto ciò vi sia anche una questione politica, oltre che economica», sostiene Wong, «probabilmente ci sarà la tendenza a fidarsi di certi prodotti invece di altri». Tradotto: non tutti si potrebbero fidare del vaccino cinese, aspettando quello della Pfizer, o quello russo, denominato Sputnik V. Una volta era lo spazio il campo di battaglia fra le superpotenze. Oggi sono i laboratori di ricerca. E poi c'è l'aspetto commerciale. Il farmaco di Pechino, in fase avanzata di sperimentazione, richiede tempi molto lunghi. Il protocollo prevede tre richiami, a distanza di 28 giorni l'uno dall'altro, con relative quarantene. «Bisogna avere del tempo a disposizione», spiega a Mattino 5 un imprenditore cinese di Prato, Fabio il nome, «per fare questa terapia». E tre, quattro mesi, non tutti possono permetterselo. Però è oggettivo un fatto: tanto da Prato, quanto da Milano (anche se con numeri ridotti) c'è chi è tornato in Cina per sottoporsi al protocollo. Chi può, lo fa. In pratica hanno scelto di fare da «cavie», volontariamente, par di capire. Se poi il vaccino arriverà anche nelle comunità di Prato e Milano è presto per dirlo. «Al momento sono in fase avanzata di studio 12 vaccini», spiega Fabrizio Pregliasco, virologo e membro del Cts, «e quello cinese potrebbe essere alla fase 3. I test sono fondamentali, soprattutto per capire i tempi di reazione e gli eventuali effetti collaterali». Dunque la teoria secondo la quale i cinesi residenti in Cina e quelli emigrati a Prato, a quali è stato inoculato il vaccino, siano delle «cavie» è più di una semplice teoria. Un dato, in particolare, inquadra bene il tema. Durante la prima ondata la comunità cinese di Prato, ufficialmente 24mila residenti, non ha avuto contagi. Da fine settembre sì. Il numero sarebbe sotto le cento unità, però sono iniziati i viaggi in Cina. Tutto casuale, forse. O forse no.

Da liberoquotidiano.it il 13 novembre 2020. "Pensiamo solo ai vaccini anti-influenzali, come siamo ridotti?". Roberto D'Agostino, fondatore e direttore di Dagospia, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia picchia duro contro Giuseppe Conte, Roberto Speranza e il governo. Il tema è quello della lotta al coronavirus: "Se penso all'arrivo del prossimo vaccino anti-Covid, quello che ci salverà e che la prossima estate ci potrebbe far dire 'Ti ricordi che brutti tempi?', è molto complesso, va conservato a -70 gradi e dura 4 giorni". Bene, "immaginiamo che in Germania e negli altri Paesi hanno già pronto il piano per il vaccino. Noi dobbiamo ancora prepararlo, dobbiamo ancora discuterlo". Lo sconforto italiano riassunto in 30 secondi.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 13 novembre 2020. Il Domenico Arcuri della Germania - senza offesa - è un tedescaccio di 67 anni che in dodici secondi ti mette in piedi un esercito, e che, dettaglio, era l' amato e storico capo dei Vigili del fuoco. Di fatto, l' altro ieri, la Germania aveva già programmato l' attivazione di 60 centri di vaccinazione nei 17 stati federali del suo territorio: mentre l' Italia, l' altro ieri, aveva programmato solo che sul territorio (nostro) dovrà occuparsene il soporifero Arcuri, gettando nella disperazione chiunque non sia vissuto su un altro pianeta da marzo a oggi. Il ritardante Arcuri - già bradipo umano su mascherine, respiratori, bandi, tamponi e cablatura delle scuole - dovrà dunque occuparsi di come trasportare, conservare, distribuire e somministrare almeno 40 milioni di dosi (per circa 20/27 milioni di persone, due iniezioni a cranio a distanza tre settimane) e meno male che esiste la Pfizer, che, oltre ad aver inventato il vaccino, contribuirà a mantenere la catena del freddo (i -70/80 gradi necessari) grazie allo sviluppo di scatole imbottite con materiale isolante e ghiaccio secco, così da conservare la temperatura giusta per qualche giorno. Per il resto, in Italia mancano soltanto le celle frigorifere negli aeroporti, i camion refrigeranti per il trasporto, i grossisti farmaceutici e relative farmacie dotate di analoghe celle, in sostanza tutta la logistica e anche il personale istruito che dovrà occuparsene: ma ci penserà Arcuri. Mentre in Germania, o perlomeno in quell' immensa città-stato che è Berlino, l' Arcuri locale è appunto Albrecht Broemme, pensionato e soprattutto ex capo storico dei Vigili del Fuoco tedeschi e berlinesi che in Germania è una sorta di leggenda, anche perché la cittadinanza, diversamente da Arcuri rispetto agli italiani, l' ha quantomeno sentito nominare da tempo: anche perché, sino al 2019, Broemme ha comandato anche l' Agenzia federale per i soccorsi tecnici, tipo la nostra Protezione civile. Ma è la storica appartenenza al corpo dei Vigili del fuoco a riscuotere particolare fiducia tra i tedeschi; parliamo dei Feuerwher, vigilanti cittadini per tradizione ottocentesca a cui spesso sono affidate anche missioni alternative (non solo incendi, cioè) e che, tipicamente rappresentati dalle loro rosse e veloci ambulanze, sono una rassicurazione e un patrimonio comune. Nei paesi e nei comuni minori, oltretutto, l' adesione al Corpo è su base volontaria - come la guardia civile negli Usa - e quindi è tutta gente spesso conosciuta e stimata dai locali. Il pensionato Albrecht Broemme, ergo, non è stato strappato ai giardinetti: già nel marzo scorso aveva praticamente creato e coordinato un centro di trattamento del Covid-19, e per farlo aveva pensato di utilizzare - tu guarda - alcuni spazi delle strutture fieristiche di Berlino, senza per questo essere deriso per una scelta rivelatasi lungimirante. Ora, invece, dovrà decidere in particolare tempi e luoghi del vaccino per milioni di berlinesi, ma, come detto, per questo è già in pista da tempo. Ha già detto - al quotidiano Berliner Zeitung - che non perderà tempo nell' allestimento di tendopoli o container o roba del genere: gli estesi quartieri berlinesi ridondano di uffici e palazzine pubbliche che si prestano allo scopo molto più di palestre e spazi similari: nel caso della bundesland berlinese (città-stato, in pratica un' area metropolitana) si parla di oltre sei milioni di abitanti, mentre il comune è comunque il più popoloso dell' intera Unione europea: l' intera area resta la più problematica da amministrare, ed ecco perché è spuntata una figura come Broemme, uno di cui, per dire, nelle librerie tedesche si trova la biografia. Nelle librerie italiane la biografia di Arcuri non è ancora comparsa (un chiaro deficit editoriale) ma a far passare la voglia di scriverla contribuiscono conferenze stampa come quella di ieri, dove il commissario per l' emergenza Covid si è prodigato in esternazioni poco rassicuranti e in buona parte risapute: «Il vaccino sta arrivando ma non è ancora arrivato», e sin qui c' eravamo, «non sarà disponibile da domani né da subito per tutti», sì, capito, «ma confidiamo di poter vaccinare i primi italiani alla fine di gennaio, un milione e 700mila». Confidiamo. Poi è passato a spiegare «la complicata conservazione della profilassi» di cui si è già letto su tutti i giornali: i meno ottanta gradi, la conservazione, le categorie prioritarie a cui somministrare il vaccino: «Confidiamo di avere il target delle prime persone da vaccinare». Confidiamo. «Aspettiamo il piano del ministero». Aspettiamo. Anziché prospettare una soluzione dei vari problemi, Arcuri li ha elencati. Seràfico. Con calma.

Alberto Flores d’Arcais per "notizie.tiscali.it" il 10 novembre 2020. Arriva il vaccino ed è subito scontro politico. Dopo una giornata in cui è stato relativamente silenzioso, alle dieci di sera Donald Trump inizia a lanciare messaggi via Twitter. Quattro post, uno in fila all’altro con pesanti accuse nei confronti della casa farmaceutica Pfizer e della Fda (Federal Drug Administration), l’agenzia federale che deve dare il via libera al vaccino anti-Covid: “Come dico da molto tempo, Pfizer e gli altri hanno finito per annunciare il vaccino solo dopo le elezioni, perché prima non avevano il coraggio di farlo!”; “Allo stesso modo, la Fda avrebbe dovuto annunciarlo prima, non per scopi politici, ma per salvare vite umane!”; “La Fda e i Democratici non volevano che ottenessi il vaccino della vittoria prima delle elezioni, così è uscito cinque giorni dopo”; “Se Joe Biden fosse stato presidente, non avreste avuto un vaccino per altri quattro anni! La burocrazia avrebbe distrutto milioni di vite”.

DAGONEWS il 10 novembre 2020. «L’effetto del vaccino? Quelli di una sbornia pesante». Alcuni volontari che hanno partecipato alla sperimentazione del vaccino Pfizer hanno raccontato quali effetti collaterali ha avuto il vaccino sul loro fisico. Carrie, una pubblicista 45enne del Missouri, ha detto di aver fatto la prima puntura a settembre e il secondo richiamo il mese scorso. Ha detto di aver avuto mal di testa, febbre e dolori in tutto il corpo, paragonabili a quelli dell’influenza. La seconda volta è andata anche peggio, ma tutto si è risolto in pochi giorni e adesso si sente orgogliosa di aver preso parte alla sperimentazione. Un altro volontario, il 44enne Glenn Geshields, ha detto che il vaccino di Pfizer lo ha fatto sentire come se si fosse preso una brutta sbornia, ma i sintomi sono passati in breve tempo: «Sono molto eccitato per le buone notizie arrivate lunedì». Più di 43.500 persone in sei paesi hanno preso parte alle sperimentazioni in tre fasi del colosso farmaceutico alla ricerca di un efficace vaccino contro il Covid-19. La notizia dell’efficacia del vaccino al 90% fa sperare che si possa tornare a una normalità nel medio termine.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 10 novembre 2020. La grande notizia del giorno è che la multinazionale biofarmaceutica Pfizer, con sede a New York, e l'azienda di biotecnologia BioNTech, con sede a Magonza, Germania, hanno sviluppato un vaccino contro il Covid efficace al 90 per cento, dicono i ricercatori, ed entro l'anno potrebbero essere distribuiti i primi cinquanta milioni di dosi. Sperando sia tutto vero, la storia è cominciata così. A metà di gennaio il dottor Ugur Sahin lesse su Lancet i dettagli delle peripezie di una famiglia cinese alle prese col coronavirus. Mentre il mondo guardava da un' altra parte, Uur guardò nella direzione giusta e molto lontano. Scrisse subito al consiglio di amministrazione di BioNTech, da lui stesso fondata dodici anni prima con la moglie, Özlem Türeci. Passerà subito, gli risposero. Non passerà, replicò lui. Gli diedero il via libera. Piccolo passo indietro: Ugur ha 55 anni, a quattro è arrivato in Germania dalla Turchia per ricongiungersi col padre lavoratore alla Ford. Frequenta le scuole pubbliche, si laurea in medicina, si sposa con un' immigrata turca di seconda generazione, Özlem Türeci, oggi oncologa di fama. Grazie anche ai finanziamenti di Bill Gates, ogni mattina Ugur e Özlem si sono messi in contatto con gli scienziati cinesi e nel pomeriggio con quelli americani. L' unica strada, hanno detto, è la cooperazione internazionale, e il vaccino sarà di tutti. Benissimo: l'immigrazione, specialmente islamica, l' accoglienza, i ricongiungimenti, i giganti della farmaceutica, quelli del digitale, la globalizzazione, la scienza. Non c' è pregiudizio populista che regga a queste venticinque righette.

Ilario Lombardo Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 10 novembre 2020. Il primo raggio di speranza nella lotta contro il Covid viene dalla compagnia americana Pfizer e dalla tedesca BioNTech, che hanno annunciato di aver sviluppato un potenziale vaccino efficace nel 90% dei casi. Gli studi sono preliminari e hanno bisogno di conferme, ma gli scienziati che li hanno condotti contano di poter chiedere l'autorizzazione all'uso di emergenza già entro la fine del mese, per fermare il Covid-19 che ha già ucciso oltre 1,2 milioni di persone in tutto il mondo. I mercati hanno preso la notizia come un segnale molto incoraggiante, reagendo con rialzi in tutte le borse mondiali. BioNTech e Pfizer hanno avviato un trial che ha coinvolto 44.000 volontari. Le regole della Food and Drug Administration (Fda) stabiliscono che la risposta di questi test può essere valutata in maniera affidabile dopo che 164 volontari sono stati infettati, ma la Pfizer ha deciso di pubblicare i risultati preliminari dopo 94 infezioni. L'amministratore delegato del colosso americano Albert Bourla ha detto che lo studio continua e che la sua azienda è in grado di produrne 50 milioni di dosi entro la fine dell'anno, 1,3 miliardi entro il 2021. L'amministrazione Trump aveva offerto alla Pfizer 1,95 miliardi per produrre 100 milioni di dosi, ma l'azienda ha rifiutato, finanziando tutto con i propri fondi. Bourla ha escluso motivazioni politiche dietro all'annuncio, avvenuto dopo le presidenziali americane: «Il nostro lavoro si basa solo sulla scienza». Non sembra esserne molto convinto il figlio di Trump, Donald Jr, che parla di «tempistica piuttosto sorprendente». Poco prima era stato il padre, il presidente uscente, a gioire su Twitter, ma concentrando l'attenzione sulla reazione dei mercati. Il presidente eletto Joe Biden ha fatto sapere che ci vorranno mesi per una distribuzione capillare ma che sarà gratis. E Tony Fauci, virologo della task force della Casa Bianca ha commentato: «Un risultato straordinario. Non ci aspettavamo che la percentuale di protezione fosse così alta, saremmo stati contenti del 60%». Ora però i trial devono continuare per verificare anche quanto dura l'immunizzazione, chi ne beneficia di più per età, gli effetti collaterali. Il sospetto di un'attesa calcolata per evitare di influenzare le elezioni è comunque supportato dalle indiscrezioni di fonti interne al governo italiano sull'altro vaccino in dirittura di arrivo: quello italo-inglese frutto della collaborazione tra AstraZeneca, Oxford University e l'Irbm di Pomezia. In Italia l'annuncio di Pfizer era atteso dopo il voto Usa. A breve potrebbe arrivare uno molto simile di AstraZeneca, già in fase di produzione: «Nel giro di sei mesi avremo 5-6 vaccini diversi e sicuramente entro il 2021 una dozzina», ha commentato il presidente e Ad di Irbm Piero Di Lorenzo. Per quanto riguarda i tempi, l'obiettivo di Irbm slitta di un mese rispetto alle indicazioni date dal governo, con le prime dosi per le categorie a rischio che arriverebbero «entro i primi di gennaio». La distribuzione massiccia è prevista a marzo-aprile, con il prodotto disponibile per tutti «entro fine giugno». Sui tempi però resta l'incognita dell'autorizzazione. Per il momento, all'Ema, l'Agenzia europea del farmaco, non sono ancora giunti i dati clinici di nessun produttore. La Commissione europea ha già stipulato con AstraZeneca un contratto per 300 milioni di dosi più 100 milioni opzionati. Ieri, la presidente Ursula von der Leyen ha confermato che presto arriverà la firma per le 300 milioni di dosi del vaccino Pfizer. Secondo i criteri di distribuzione, all'Italia ne toccherebbe una fetta pari al 13,6%, circa 40,8 milioni. Inoltre, ha prenotato 70 milioni di dosi da AstraZeneca, e il fatto di aver partecipato allo sviluppo di questo vaccino gli permette di avere un diritto di prelazione, e tre milioni di dosi già in partenza, tra dicembre e gennaio. Per il prossimo mese la Commissione punta a completare un piano europeo per la distribuzione dei vaccini che garantisca ai cittadini Ue di accedervi per tempo e in larga scala. Ovviamente ogni singolo Paese deve farsi trovare pronto. L'Italia, come raccontato dalla Stampa, non ha ancora definito un piano di distribuzione né è stato convocato un tavolo con i settori della logistica. Dopo le diverse sollecitazioni, il commissario straordinario Domenico Arcuri ha fatto un primo punto della situazione al ministero della Salute ieri.  

Ugur e Ozlem, quei prof visionari che capirono il virus prima di tutti. Francesco Semprini per “la Stampa” il 10 novembre 2020. Appena completata l' ultima riga dell' articolo, Ugur Sahin lascia scivolare tra le mani la copia di Lancet e corre a chiamare un amico, uno molto fidato perché quello che gli sta per dire è di importanza vitale. Sulla rivista di divulgazione scientifica Sahin, 54 enne immunologo turco, ha appena letto di un nuovo virus emerso a Wuhan, nella provincia cinese di Hubei. La testimonianza racconta di come la malattia si sia diffusa tra i membri di una famiglia di sei persone, ma è ben lungi dall' ipotizzare un contagio a livello regionale, nazionale o continentale, figuriamoci una pandemia. Sahin legge tra le righe e capisce di essere davanti non solo a un fenomeno di portata planetaria, ma potenzialmente devastante. È la metà di gennaio e il Covid-19 è ancora una piaga "segregata" nell' orbita cinese dal pugno di ferro della dittatura sanitaria e politica di Pechino. La gran parte del mondo ne è ancora all' oscuro. Ma il regime si dimostra presto impotente dinanzi a un nemico così perfetto, invisibile e potente, tanto da eludere il segreto di Stato e infettare senza pietà il Pianeta. Sahin lo intuisce: «Ha capito subito», racconta mesi dopo un suo amico. La sua è un' illuminazione provvidenziale: il dottore turco, oltre ad essere immunologo, è il "padre" di BioNTech, che ha fondato nel 2008 assieme alla moglie e collega Özlem Türeci, e al suo ex professore Christopher Huber. La stessa che assieme a Pfizer ha lavorato sul vaccino i cui risultati, resi noti ieri, hanno dimostrato efficacia nel prevenire il 90% delle infezioni durante la fase 3 della sperimentazione. Un successo (in divenire) in cui la coppia di immunologi ha avuto un ruolo pionieristico. Dopo l' illuminazione di Lancet, Sahin e Türeci inviano una e-mail al consiglio di amministrazione di BioNTech, che convoca una riunione nel quartier generale dell' azienda biotecnologica, nella città tedesca di Mainz. Alcuni muovono obiezioni: «Gli esperti con esperienza di epidemie hanno detto che i virus vanno e vengono». «No, questa volta è diverso», ribatte la coppia di immunologi che a conferma della loro tesi dedicano subito più di 400 dipendenti alla ricerca sul Covid-19. La scelta si rivela determinante e Sahin diventa «il visionario del Covid», la sua vita cambierà per sempre. Il medico turco pur avendo costruito aziende per due miliardi di dollari (il suo precedente è con Ganymed Pharmaceuticals), ha sempre lavorato in riservatezza tanto da essere sconosciuto al di fuori del mondo accademico e delle biotecnologie. Ha sviluppato un' importante esperienza nell' RNA messaggero (mRNA) ma lo ha fatto sempre al riparo dai media. La notorietà tuttavia non ne cambia la frugalità: va al lavoro in bicicletta e le sue giornate sono pianificate con cura, costretto ad adottare un programma impuntato all' austerità in quanto comandante di un' azienda sul "piede di guerra". Inizia la giornata con videochiamate alle squadre in Cina, prima di controllare i progressi del vaccino Covid-19. Evita di controllare il prezzo delle azioni della società e ignora le pressioni di Casa Bianca e Bruxelles. Trascorre il tempo libero (poco) a preparare i dati per autorità di vigilanza e investitori, è l' unico membro del cda ad avere un ufficio nell' edificio in cui viene svolto il lavoro di laboratorio, e generalmente dà la priorità al tutoraggio degli studenti di dottorato e alla supervisione degli esperimenti. Oltre a vantare un record nella raccolta fondi: la Bill & Melinda Gates Foundation, ad agosto, ha investito 55 milioni di dollari nella società di Sahin e Türeci, coloro che passeranno alla storia per essere stati tra le prime avanguardie nella lotta al coronavirus, giocando d' anticipo sulla curva dei contagi.

 Vaccino anti Covid, Russia batte Usa: sputnik V efficace al 92%. La Russia annuncia l'efficacia al 92% del suo vaccino Sputnik V. Coinvolti 40mila volontari. Pronte 6 milioni di dosi mensili entro aprile. Martina Piumatti, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Dopo il sorpasso, la Russia torna in testa nella corasa al vaccino anti Covid. Il vaccino Sputnik V, il primo al mondo registrato l'11 agosto scorso, farebbe addirittura meglio in quanto efficacia del rivale americano Pfizer-BioNTech, fermo 'solo' al 90%. "Ha un tasso di efficacia del 92% dopo la seconda dose", ha dichiarato, come riporta Adnkronos, il National Research Center for Epidemiology and Microbiology 'Gameleya Center' e il Russian Direct Investment Fund sul sito internet del progetto. La conferma arriva dai primi dati dello studio clinico di fase 3 che ha coinvolto in Russia 40mila volontari. Ad oggi sono stati vaccinati con una prima dose in 29 centri russi, nell'ambito degli studi clinici per lo sviluppo del vaccino, più di 20mila volontari, e oltre 16mila anche con la seconda. Dopo 21 giorni dalla prima somministrazione, il vaccino è risultato efficace per 16mila volontari che hanno ricevuto l'immunizzazione e il placebo. Buone notizie arrivano anche al di là della sperimentazione clinica. A settembre Sputnik V è stato somministrato, fuori dallo studio clinico, per la prima volta a un gruppo di volontari degli ospedali russi nelle zone 'rosse'. Anche in questo caso "è stato confermato il tasso di efficacia di oltre il 90%". I dati raccolti dai ricercatori del Gamaleya Center verranno pubblicati appena terminati gli ultimi test clinici. Attualmente le sperimentazioni di fase 3 di Sputnik V sono in corso in Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Venezuela e in altri paesi, oltre alla Fase 2-3 in India. Secondo Mikhail Murashko, ministro della Salute della Federazione Russa, "l'utilizzo e i risultati degli studi clinici dimostrano che Sputnik V è una soluzione efficiente per fermare la diffusione dell'infezione da coronavirus. È uno strumento di prevenzione e questo e questa è la strada per sconfiggere la pandemia". In quanto a effetti collaterali non si differenzia dal rivale targato Pfizer-BioNTech. "Non sono stati identificati eventi avversi - chiariscono i ricercatori - Sono stati segnalati disturbi minori come il dolore nel sito della vaccinazione, sindrome simil-influenzale, febbre e debolezza". Per ora nella corsa della Russia verso il vaccino, mancano solo le ultime conferme dalla sperimentazione clinica e il via libera dell'ente regolatore dei farmaci. Ma, intanto, da Mosca si portano avanti, pianificando le tappe della commercializzazione già durante la fase finale dei test. "La Russia prevede di produrre 500 mila dosi del vaccino Sputnik V nel mese di novembre, di portare la produzione a 1,5 milioni di dosi a gennaio e di raggiungere quota 6 milioni di dosi mensili a partire da aprile", ha dichiarato la vicepremier russa Tatjana Golikova alla Duma di Stato, la camera bassa del Parlamento.

“Il vaccino russo è efficace al 92%”.  Andrea Walton su Insode Over il 12 novembre 2020. La (rin)corsa al vaccino per il Covid-19 è entrata nel vivo e la Federazione russa non ha alcuna intenzione di lasciare campo libero alle aziende farmaceutiche americane ed occidentali. Il preparato russo, denominato Sputnik V, ha dimostrato un’efficacia del 92 per cento sulla base delle prime analisi ottenute 21 giorni dopo che ai volontari è stata somministrata la prima iniezione del farmaco. Parola dell’Istituto Gamaleya, che si è occupato di produrre il vaccino e che ha pubblicato un comunicato ufficiale sul proprio account Twitter. “Gli studi hanno valutato l’efficacia fra oltre 16mila volontari che hanno ricevuto il vaccino o il placebo 21 giorni dopo la prima iniezione. Come risultato di un’analisi statistica di 20 casi confermati di coronavirus, la suddivisione del caso tra individui vaccinati e coloro che hanno ricevuto il placebo indica che il vaccino Sputnik V ha avuto un tasso di efficacia del 92 per cento dopo la somministrazione della seconda dose”, si legge nel comunicato riportato dall’agenzia di stampa Nova.

La guerra fredda del vaccino. L’annuncio di Mosca giunge a pochi giorni dalle dichiarazioni della società farmaceutica americana Pfizer. Quest’ultima ha rivelato che il proprio vaccino, basato sulla tecnica innovativa dell’Rna messaggero, è risultato efficace – secondo i dati preliminari della Fase 3 della sperimentazione clinica – al 90 per cento nel prevenire la malattia. Kirill Dmitriev, a capo del Fondo di investimento russo che si è occupato di curare lo sviluppo e la commercializzazione dello Sputnik V, ha dichiarato, come riporta Al Jazeera: “Stiamo dimostrando, in base ai dati, che siamo in possesso di un vaccino molto efficace” e che si tratta di una notizia talmente rilevante da essere ricordata per generazioni. Le analisi sono state avviate dopo che venti partecipanti, sui 16mila che hanno preso parte alle sperimentazioni, hanno sviluppato il Covid-19 e si è cercato di capire quanti di loro avevano ricevuto il vaccino e quanti il placebo. Il Fondo di investimenti ha reso noto che i test clinici proseguiranno per altri sei mesi e che i risultati verranno pubblicati in una prestigiosa rivista internazionale che si occupa di questi argomenti. La fase 3 della sperimentazione si sta svolgendo in 29 cliniche situate nei pressi di Mosca e vi stanno prendendo parte 40mila volontari. La Federazione russa è stata la prima nazione al mondo, nel mese di agosto, a registrare ufficialmente il proprio vaccino. Il presidente Vladimir Putin aveva dichiarato che le campagne di immunizzazione di massa avrebbero avuto inizio intorno alla fine dell’anno.

La Russia e il Covid-19. La Federazione russa è alle prese, come molte altre nazioni europee, con la seconda ondata della pandemia. Il governo non vuole ricorrere ad un nuovo lockdown per evitare di danneggiare, eccessivamente, il tessuto economico del Paese e spera che il proprio vaccino fornisca una via d’uscita alla crisi. I nuovi casi giornalieri hanno raggiunto picchi preoccupanti –  sono stati 21mila nella sola giornata di martedì – e ciò ha costretto le autorità a trasformare cinque gigantesche strutture di Mosca in veri e propri ospedali da campo. La capitale al momento sembra reggere, ma la situazione è molto diversa in altre regioni. Qui la Tv di Stato ha segnalato che tanto gli ospedali provinciali quanto gli obitori sono pieni. Il sindaco di Mosca, dove si concentra la maggior parte dei nuovi casi, ha annunciato l’introduzione di nuove restrizioni, nello specifico la chiusura anticipata di bar e ristoranti alle undici di sera e l’introduzione della didattica a distanza per le scuole superiori, nel tentativo di tenere sotto controllo il virus. A mancare, però, è una strategia efficace a livello nazionale: è stato imposto l’uso obbligatorio delle mascherine facciali in tutti i luoghi pubblici ma la maggior parte delle altre decisioni in materia sono nelle mani dei governatori regionali.

Da “il Giornale” il 13 novembre 2020. Il progetto è in fase avanzata, la produzione è già attiva, ma per la commercializzazione si attendono le certificazioni. Gli ultra congelatori compatti in grado di conservare in perfetto stato farmaci e vaccini come quello della Pfizer, a temperature comprese tra i -60 e -86 gradi saranno prodotti dalla Pluris, braccio operativo della Desmon, con sede a Nusco (Avellino). L' azienda, che fa parte del gruppo statunitense The Middleby Corp, sta lavorando da oltre un mese al progetto, che porterà a immettere sul mercato impianti refrigeranti che, per caratteristiche e dimensioni, saranno perfettamente compatibili con le esigenze legate al vaccino anti Sars-Cov-2.

Mauro Evangelisti Alberto Gentili per “il Messaggero” il 12 novembre 2020. Domenico Arcuri, commissario per l' emergenza coronavirus, seguirà la parte logistica, ma solo per l'«ultimo miglio», la distribuzione finale. Gianni Rezza, direttore Prevenzione del Ministero della Salute, è a capo del pool di scienziati che deve stilare le linee guida sui vaccini anti Covid, a partire dai criteri per le categorie a cui dovranno essere somministrati. Ma la task force che dovrà seguire una operazione che non ha precedenti nella storia del Paese - vaccinare in quattro mesi 60 milioni di italiani - ancora deve nascere. I problemi sono giganteschi, dalla sicurezza a garantire la catena del gelo per uno dei vaccini di cui si sta parlando, quello di Pfizer e BioNThech, che per essere conservato deve restare sempre a una temperatura inferiore ai meno 70 gradi centigradi. Per questo, sarà utilizzato l' Esercito, sarà coinvolta la Protezione civile, saranno utilizzate tutte le forze del Paese per riavvicinare alla normalità la nostra vita. Ci saranno anche problemi di sicurezza e il materiale sarà conservato in depositi segreti e blindati. Inoltre, tutti i passaggi dagli aeroporti, dai porti, il trasporto con i camion, ai depositi, fino alle aziende sanitarie, dovranno essere organizzati in modo puntuale. Nel caso del vaccino di Oxford-Irbm-AstraZeneca non ci sarà la variabile della necessità di bassissime temperature (sarà sufficiente conservarlo a meno 8), in quello di Pfizer-BioNtec invece il tema della conservazione a meno 80 è centrale. Osserva il professor Andrea Crisanti, dell' Università di Padova: «Bene fa l' Italia a giocare su più tavoli, a prepararsi all' acquisizione di vaccini differenti, perché al momento, fino a quando non ci saranno dati pubblicati, non possiamo avere certezze su quale realmente funzionerà. E auspico che tutti i dati siano pubblicati con trasparenza, visto il percorso accelerato della sperimentazione». E afferma il professor Massimo Galli, del Sacco di Milano: «Non c' è Paese al mondo che troverà facile fare una catena del freddo per grandi quantitativi di vaccino che deve essere conservato a temperature così basse. Mi auguro che ne arrivino anche altri, in contemporanea, e che l' utilizzo di più vaccini ci garantisca una copertura importante e la mitica immunità di gregge, ma questa volta davvero». Ieri l' Unione europea ha confermato l' acquisto di 200 milioni di dosi del vaccino Pfizer (con opzione per altri 100 milioni) di cui 27 milioni andranno all' Italia. Ulteriori contatti erano stati stipulati per altri tipi di vaccini alla fase 3 di sperimentazione (AstraZeneca, Sanofi-Gsk e Johnson & Johnson). Vista l' accelerazione sul fronte della produzione, anche il governo italiano accorcia i tempi per mettere a punto il sistema di stoccaggio, distribuzione e somministrazione del vaccino, le cui prime dosi dovrebbero arrivare in Italia a fine anno. Nel corso di un vertice tra il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e i capidelegazione della maggioranza è stato deciso appunto di affidare ad Arcuri il piano operativo. Questo perché, è stato osservato dai più di un partecipante all' incontro, il gruppo di lavoro istituito il 3 novembre presso il ministero della Salute rischiava di non essere «sufficientemente rapido nel processo decisionale e operativo». Da qui la necessità di «un unico referente per la parte della logistica, in modo da garantire efficienza e piena sicurezza». Arcuri, che ha già provveduto a organizzare la distribuzione di mascherine e banchi scolastici, si occuperà del trasporto, stoccaggio e distribuzione del vaccino che deve essere conservato a una temperatura di -70° prima di essere messo in fiale. Un' operazione complessa. Tant' è, che non è escluso che Arcuri debba ricorrere alle strutture dell' esercito, oltre a quelle ospedaliere, per la gestione delle scorte, la loro conservazione e poi distribuzione sul territorio nazionale. Sul lato sanitario e politico sarà Speranza, a inizio dicembre, a portare in Parlamento il piano per la somministrazione del vaccino. Sarà quello il momento in cui verranno indicate le categorie cui verrà somministrato per prime (medici, infermieri, pazienti delle Rsa, etc).

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 novembre 2020. L'Italietta di Giuseppe Conte e di Domenico Arcuri ha nuove opportunità di dimostrare la sua cronica attitudine al ritardo e all' inefficienza: la Commissione europea ha chiesto che il piano di vaccinazione contro il Covid19 (piano che da noi c' è) sia pronto entro fine mese. Il piano dovrebbe contenere soluzioni che a loro volta non ci sono, per ora: il Governo dovrà indicare come farà a trasportare, conservare, distribuire e somministrare i vaccini, oltre alle categorie che ne fruiranno per prime. E a chi è stata affidata l' organizzazione di tutto questo? Al soporifero Domenico Arcuri, un ritardante naturale, l' uomo già in ritardo storicamente su mascherine, respiratori, bandi, tamponi e cablatura delle scuole, il manager che solo ad ascoltarlo vale mezza boccia di Valium. I vaccini dovrebbero essere distribuiti in base alla popolazione, e per l' Italia si parla di circa 40 milioni di dosi (per circa 20/27 milioni di persone, perché servono due iniezioni per ciascuno a distanza di 20 giorni) e tra gli aspetti organizzativi non c' è uno che appaia semplice, soprattutto per un Paese abituato a improvvisare con l' ansia dell' ultimo minuto. Basti un esempio: la Germania ha programmato l' attivazione di 60 centri di vaccinazione nei 17 stati federali del suo territorio, e quando? Ieri: ha già finito. In Italia, invece, neppure le categorie che ne fruiranno per prime appaiono scontate: dovrebbero essere - secondo le linee guida Ue - gli operatori sanitari, gli over 60, i soggetti già affetti da altre patologie e i lavoratori essenziali come le forze dell' ordine e gli insegnanti (in teoria anche i carcerati e gli immigrati dei campi profughi, impossibilitati a mantenere il distanziamento) ma il dettaglio è che queste categorie, messe insieme, potrebbero superare i vaccini disponibili. Ma questo è il meno: il problema numero uno è la conservazione e il trasporto di un vaccino che necessita di una temperatura di -80 gradi per - così pare - tutta la catena del freddo, dalla produzione alla somministrazione: e in Italia non c' è niente che lo assicuri. Aeroporti: in Italia solo Malpensa e Fiumicino sono abilitati a ricevere farmaci, ma non risulta abbiano celle frigorifere da Antartide. Ieri i vertici Malpensa hanno fatto sapere che i loro frigoriferi ce la farebbero, ma che il problema - grosso - sarebbe semmai il trasporto: non basta un camion dei gelati, servono container speciali che nessuno possiede se non la Pfizer (in Belgio) e l' Ups negli Usa, a Cincinnati. Altri, all' estero, hanno incaricato Dhl di trovare soluzioni. D' accordo che il responsabile per la distribuzione italiana sarà Arcuri, e che quindi stiamo freschi: ma non freschi a tal punto, non a -80. Si auspica che Pfizer fornisca strutture speciali in grado di preservare le dosi (da non aprire prima della destinazione finale) ma il resto del problema sta a noi. La catena del freddo in uso alle farmacie non fa testo: loro si appoggiano a grossisti con celle frigorifere che mantengono al minimo i -25 mentre i camion reggono dai 2 agli 8 gradi, mentre le stesse farmacie hanno frigoriferi con due comparti entrambi sopra lo zero. In queste condizioni, non è chiaro come possa la sanità militare occuparsi di questi aspetti logistici - come si mormora che dovrebbe fare - curando il trasporto e l' allestimento sino al luogo fisico delle iniezioni: non risulta che ne abbiano i mezzi. Quali luoghi fisici, poi? Si parla di ospedali, centri medici specializzati, poli fieristici riconvertiti, studi medici di medicina generale e di pediatria, farmacie convenzionate: si parla, appunto. Forse serviva uno specialista vero in vaccini, non un generico Domenico Arcuri già noto per i suoi ritmi pachidermici. Ricordiamo che il nostro Paese ha già affrontato (e non risolto) problemi enormi in merito alla conservazione per il vaccino antinfluenzale, talvolta ammassato in scatoloni nelle varie Ats e non nelle celle frigorifere (da -2 a -8 gradi) che avrebbero dovuto conservarlo. Ecco perché oltre a un manager «sul pezzo» (non Arcuri, quindi) si pone il problema dell' addestramento o formazione di personale capace di maneggiare vaccini del genere: non basta pensare al solito coinvolgimento di studenti e personale in pensione (che poi, spesso, non si riesce neanche a coinvolgerli) e infatti l' esecutivo Ue ha invitato i governi a prendere «in considerazione nuovi programmi di assunzione e formazione», oltre a «valutare la possibilità di fornire gratuitamente i vaccini» nonché a predisporre campagne per garantire «chiarezza e tempestività nell' accesso alle informazioni». Nell' Italietta di Conte, un' impresa disperata. Ci sono da mettere in conto anche i deficienti no-vax, ergo «contrastare la disinformazione e rafforzare la fiducia del pubblico nei vaccini», ha scritto la commissaria alla Salute Stella Kyriakides. È proprio la mancanza di fiducia, come si sa, ad aver determinato un' adesione insufficiente ad altri vaccini fondamentali per l' infanzia, con la conseguenza di far insorgere nuovi focolai di malattie prevenibili come il morbillo. Per accelerare i tempi, tra l' altro, l' Ue ha deciso di non far riprodurre le etichette in tutte le lingue europee (che sono 24) ma solo in inglese: altro problema galattico per l' italiano medio. Tuttavia le case farmaceutiche tradurranno le istruzioni in tutte le lingue, sui foglietti distribuiti a parte. A ogni modo ieri mattina - dice l' Ansa - Giuseppe Conte ha incontrato Arcuri e ne hanno parlato: e ci sentiamo tutti più tranquilli. Alla nota efficienza di questo governo, almeno a quella, gli italiani sono vaccinati.

Conte sceglie ancora una volta Arcuri: sarà commissario per la distribuzione del vaccino anti-Covid. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Alla guida della macchina che dovrà gestire il piano di distribuzione del vaccino anti-Covid ci sarà Domenico Arcuri, commissario straordinario all’emergenza Covid. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come anticipato dall’Ansa, ha deciso di affidare il piano nazionale per la vaccinazione della popolazione all’ex AD di Invitalia, che dall’inizio dell’emergenza si è già occupato del reperimento di mascherine, tamponi, ventilatori polmonari e di tutto il materiale medico richiesto dalle Regioni per fa fronte al coronavirus. Arcuri ha anche gestito la riapertura delle scuole a settembre, con il caso dei banchi a rotelle diventato "simbolo" dei ritardi del governo, con l’arrivo quando per gli studenti era già applicata la Didattica a distanza.

PFIZER E LA "CATENA DEL FREDDO" – Secondo le previsioni, che dovranno essere confermate "sul campo", il vaccino di Pfizer-ioNTech potrebbe essere disponibile a partire da metà gennaio. Gli sviluppatori americani-tedeschi hanno già spiegato che il vaccino dovrà essere conservato a temperature tra i 70° e gli 80° sotto zero, durante tutta la catena, dalla produzione alla somministrazione, quella che è stata definita “catena del freddo” ed è attualmente la sfida logisticamente più importante da affrontare nel breve periodo.

L’ALTRO VACCINO – Attualmente l’Italia è riuscita ad ottenere 3,4 milioni di dosi per 1,7 milioni di italiani (il vaccino prevede due somministrazioni) del vaccino Pfizer. Non solo. L’Italia ha prenotato altre 70 milioni di dosi ad AstraZeneca, che produce e commercializza un vaccino messo a punto in collaborazione anche con Irbm di Pomezia e dall’Università di Oxford.

LA LOGISTICA DEL VACCINO – Nell’ottica di non farsi trovare impreparati va letta la richiesta di Raffaella Paita, parlamentare di Italia Viva presidente della Commissione Trasporti della Camera, di convocare “un ciclo di audizioni, da svolgersi in accordo con la commissione Affari sociali, che permettano di mettere in luce i vari aspetti della questione, in modo da offrire al Parlamento gli strumenti necessari per affrontarla, ascoltando le principali associazioni della logistica, i ministri competenti e il Commissario straordinario per l’emergenza”. “L’operazione di distribuzione dei vaccini rappresenta una difficilissima sfida logistica. Come spiegano i rappresentanti del settore, per vincerla è indispensabile giocare d’anticipo chiarendo già ora quali sono i mezzi e i metodi necessari”, aggiunge la Paita.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 10 novembre 2020. Catena del freddo. Questo sarà uno degli ostacoli principali da superare per una distribuzione massiccia del vaccino di Pfizer (Usa) e BioNTech (tedesca). Il vaccino che hanno sviluppato e che è arrivato alla fase 3, si basa sulla tecnologia innovativa dell'Rna messaggero, la stessa che, ad esempio, sta usando un altro colosso statunitense, Moderna. Le dosi dei vaccini, per funzionare, devono restare costantemente sotto gli 80 gradi centigradi. Questo significa che tanto per il trasporto, quanto per la distribuzione e la somministrazione, serviranno strutture adatte, celle frigorifere di alto livello, bisogna allestire una macchina organizzativa che ha pochi precedenti. Non tutti i vaccini arrivati alla fase 3 (la più avanzata della sperimentazione, nel mondo sono 6 in questa condizione) hanno questa esigenza. Quello su cui l'Italia ha puntato con più forza (il vaccino creato dall'istituto Jenner di Oxford in collaborazione con l'Irbm di Pomezia, prodotto e commercializzato dalla multinazionale AstraZeneca) ad esempio non ha questa necessità, può essere conservato come i vaccini più tradizionali e questo semplifica distribuzione e somministrazione (e non richiederebbe una doppia dose, a differenze di quello Pfizer). Premesso che, se saremo fortunati, il mondo avrà più di un vaccino validato dalle autorità regolatorie e questo velocizzerà l'uscita dalla pandemia, a che punto è il vaccino di Oxford? Spiega Piero Di Lorenzo, ad di Irbm: «Ci aspettiamo la fine della fase 3 della sperimentazione tra l'ultima settimana di novembre e la prima di dicembre. Poi parola passa alle agenzie regolatorie. Legittimo pensare, se non ci saranno intoppi, che a gennaio si potranno consegnare le prime dosi riservate alle categorie a rischio. Giustamente il ministro Speranza parla di marzo-aprile per l'arrivo di un numero consistente di dosi, qualche decina di milione. L'Italia ha già prenotato 70 milioni di dosi». Ma il nostro Paese sarà escluso dal vaccino Pfizer che, secondo la compagnia, ha già dimostrato una efficacia al 90 per cento? Non sarà escluso. Ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha spiegato: «Sigleremo un contratto con Pfizer-BioNTech per l'acquisto di 300 milioni di dosi di vaccino». Di queste, se teniamo conto del numero di abitanti, poco meno di 40 milioni dovrebbero essere destinate al nostro Paese, un numero tale da fermare in modo decisivo la diffusione del virus. Ma il problema è rappresentato dai tempi: in primis, in Italia non è ancora stato approntato un piano di vaccinazione (Regno Unito e Germania lo hanno già fatto), inoltre nel caso di Pfizer c'è il nodo non secondario della conservazione sotto gli 80 gradi. Altro tema: è presumibile che le prime dosi siano riservate agli Stati Uniti, visto che Pfizer e BioNTech, che stanno già producendo 50 milioni di dosi, avevano firmato un contratto con l'amministrazione Trump da 1,9 miliardi di dollari per la consegna di 100 milioni di dosi entro dicembre e l'opzione per acquisirne altre 500 milioni. Tutti questi dati ci fanno comprendere che, se ci limitiamo solo al vaccino sviluppato da Pfizer, per una somministrazione di massa bisognerà attendere la fine del primo semestre del 2021 in Italia. Se invece arriverà l'autorizzazione dell'Ema (l'autorità regolatoria europea) per il vaccino di AstraZeneca, allora i tempi saranno molto più rapidi. In entrambi i casi, comunque, bisognerà decidere da quali categorie cominciare per la vaccinazione. Sembra scontato che si dovrà cominciare con il personale sanitario, medici e infermieri, perché bisogna proteggerli, in modo che sia sempre garantita l'operatività degli ospedali. Inoltre, anche se su questo c'è un dibattito in corso, così come avviene per il vaccino anti influenzale, bisognerà privilegiare le categorie a rischio, dunque i più anziani e coloro che soffrono di altre patologie. Per evitare aspettative che potrebbero essere deluse vanno comunque chiariti alcuni punti fermi: ad oggi, nessuno dei sei vaccini in fase 3 è ancora stato autorizzato (anche se in Cina, Russia ed Emirati Arabi la somministrazione ad alcune categorie ristrette di persone è già cominciata per tre vaccini), dunque non vi sono ancora certezze; per vedere la vittoria definitiva sul coronavirus bisognerà aspettare molti mesi, come lo stesso Biden ha spiegato agli americani dopo l'annuncio di Pfizer. Oggi è importante restare lucidi in questo ultimo tratto del tunnel, rispettando tutte le precauzioni (mascherina, distanziamento, igiene, protezione della popolazione a rischio) necessarie a rallentare il contagio.

Enza Cusmai per “il Giornale” il 12 novembre 2020. La seconda sfida, dopo la creazione del vaccino, sarà quella logistica. E per accogliere l'arrivo delle famose fiale anticovid di Pzifer e BioNTech, il mondo dei trasporti terra-aria del nostro paese sta scaldando i motori da mesi. In attesa di indicazioni governative. Maneggiare fiale da gestire a temperature artiche (a meno 80) sarà una vera sfida. Alla Sea sanno che un Cargo 747 può contenere 4 milioni e mezzo di vaccino per la meningite, mentre non sanno ancora come saranno trasportate le confezioni del nuovo vaccino. A Malpensa però, dove transita il 50% delle merci che viaggiano nel nostro paese, la parte dedicata ai farmaci esiste da sempre. Ci sono 400 mila mq di magazzini refrigerati (da più 15 a meno 20 gradi) a tutela dei prodotti che non devono interrompere la catena del freddo. «Il problema logistico spiega Giovanni Costantini, cargo manager di Sea - non è all'arrivo in aeroporto, ma nel trasporto. Se la temperatura a cui le dosi devono essere conservate è infatti di circa 70 gradi sotto zero, servono container speciali che al momento, però, nessuno possiede, tranne (forse) la Pfizer stessa in un magazzino sito in Belgio e l'Ups in uno di Cincinnati. La palla adesso non è in mano a noi, ma alla Pfizer e agli spedizionieri. Saranno loro, probabilmente, i responsabili per la fornitura di strutture speciali in grado di preservare le dosi». Qualcosa però si chiarisce leggendo le notizie che arrivano dagli Usa. Sembra che per mantenere i vaccini al sicuro durante il trasporto e per spostarli velocemente, Pfizer abbia progettato un nuovo contenitore riutilizzabile che può mantenerli a temperature ultra fredde fino a 10 giorni e contenere tra le 1.000 e le 5.000 dosi. Le scatole delle dimensioni di una valigia, sono imballate con ghiaccio secco e tracciate da GPS, dandogli una maggiore flessibilità per spedire i vaccini più velocemente in quanto aerei e camion non dovranno attendere le scatole di metallo refrigerate standard. Pfizer prevede di caricare queste scatole su un totale di 24 camion al giorno da Kalamazoo e Puurs che trasporteranno circa 7,6 milioni di dosi al giorno negli aeroporti. Il tempo totale di consegna, dal centro di distribuzione al punto di utilizzo, dovrebbe essere in media 3 giorni. E il vaccino dovrebbe essere conservato fino a 5 giorni a temperatura di frigorifero. Se le confezioni sono blindate, una volta scaricate dagli aerei dovranno essere gestite dai terminalisti. Nel Gruppo Alha, azienda leader del settore cargo che gestiscono tra l'altro, il trasporto di vaccini, insulina e farmaci tumorali, già da mesi ci si sta preparando per ottimizzare gli spazi, aggiornare il personale, la pianificazione e la continuità del servizio. E, secondo loro, le fiale viaggeranno all'interno di contenitori attivi che hanno azione refrigerante. Il prodotto sdoganato e stoccato va poi consegnato. Paola Vercesi, 59 anni, dirige la flotta di 140 camion con celle frigorifere, distribuisce farmaci in tutta Europa e spiega che nessuno al mondo possiede mezzi che possano trasportare a -80 gradi. «Al massimo si viaggia a -25 - racconta - come nel caso del succo d'arancia usato nelle pastiglie effervescenti». Ma la sua azienda, che da 60 anni serve le multinazionali farmaceutiche, Pzifer in testa, è pronta ad accogliere la sfida: con un magazzino dotato di celle frigorifere di 30 mila metri quadrati, diecimila posti pallet. E tanta esperienza.

Perché non sarà affatto facile avere il vaccino. Andrea Muratore su Inside Over il 12 novembre 2020. Nella giornata del 9 novembre la multinazionale farmaceutica Pfizer ha annunciato avanzamenti significativi nella corsa al vaccino contro il Covid-19 che hanno suscitato comprensibili entusiasmi e speranze. Il 90% dei test realizzati dal colosso farmaceutico di New York, infatti, avrebbero prodotto risultati positivi, e questo è un passaggio cruciale verso la possibilità di avere un vaccino efficiente ed operativo già nei prossimi mesi. Dopo l’ondata di entusiasmo, è tuttavia necessario rimettersi con i piedi per terra e studiare le implicazioni strategiche e le necessità industriali, logistiche e organizzative richieste da un’eventuale distribuzione del vaccino. “Colli di bottiglia” produttivi che rappresentano altrettanti vincoli alla circolazione delle dosi in tutto il mondo. Il primo nodo è quello della manifattura dei prodotti vaccinali. Essa richiede impiantistiche complesse che necessitano tempi lunghi di installazione e rende difficile pensare che una lunga campagna di produzione di macchinari e centri di sviluppo possa precedere la manifattura globale del vaccino. Risulta utile quanto riportato da Il Sole 24 Ore in un reportage del 2017 da un impianto francese della Sanofi leader globale della produzione di vaccini anti-influenzali, che dà l’idea dell’elevata complessità del processo. La coltura del vaccino, la preparazione delle fiale e la sua conservazione sono altrettanti processi che richiedono un monitoraggio continuo e vagli sistemici, rendendo di conseguenza difficile credere che impianti costruiti ex novo possano essere edificati nel raggio di poche settimane. Le economie di scala per la produzione del vaccino dovranno dunque fare riferimento agli impianti già esistenti. Valorizzando nella catena produttiva un importante attore dell’economia globale. Come ha ricordato recentemente il Guardian, è l’India a disporre del 60% della capacità produttiva assoluta di vaccini e farmaci, e dunque a poter risultare la nazione decisiva in questo frangente. I colossi indiani della manifattura farmaceutica (Dr. Reddy’s, Bharat, Biological E, Serum Institute) hanno già firmato accordi con gli attori del big tech attivi nella corsa al vaccino (dalla Johnson&Johnson alla AstraZaneca, passando per la Russia con il suo Sputnik V) per concordare la produzione di almeno due miliardi di dosi dei futuri vaccini. Pfizer non ha sciolto definitivamente la riserva, ma in caso di vittoria della corsa difficilmente potrà fare diversamente. Il governo indiano di Narendra Modi ha dunque imposto un vero e proprio “sovranismo sanitario” negli accordi-quadro con le multinazionali del farmaco, puntando ad incassare almeno metà delle dosi di ogni lotto produttivo per curare la diffusione del Covid-19 nel subcontinente. Adar Poonawalla, figlio del fondatore e leader del Serum Institute di Pune che è capace di produrre da solo un quarto della capacità manifatturiera globale nel settore (1,5 miliardi di dosi l’anno), ha stretto ad esempio con il governo indiano un accordo che gli garantisce almeno metà della produzione delle fiale del vaccino Oxford-AstraZeneca e offre il restante all’export verso Paesi in via di sviluppo. Mettendo in second’ordine i Paesi occidentali. I produttori indiani sanno di poter dettare le regole al mercato perché “pochi al mondo possono produrre vaccini al nostro prezzo, alla nostra scala e alla nostra velocità”, come ha dichiarato Poonawalla al New York Times. Fatto il vaccino, bisognerà distribuirlo. E non sarà una sfida facile. Per due ordini di questioni. La prima compete la conservazione delle dosi di vaccino. Come ricordato su Repubblica, “alcune delle fiale infatti hanno bisogno di essere conservate a temperatura di frigo (fra 2 e 8 gradi). Ma altre – a seconda del metodo di preparazione – devono restare a meno 80 dalla fabbrica fino all’iniezione, pena il deperimento. Se la catena del freddo si interrompe, l’etichetta cambia colore e il vaccino va buttato”. E quelli prodotti da Pfizer sembrano essere destinati a venire conservati tra i -75 e i -80°C, in appositi contenitori e frigoriferi di cui anche nei Paesi ad economia più avanzata c’è ridotta disponibilità. Pfizer, insieme a BionTech, propone di costruire box per la spedizione riutilizzabili in grado di immagazzinare 1.000-5.000 dosi di vaccino cadauno, ma anche in questo caso si aprirebbe una partita di politica industriale tutt’altro che di breve durata. Uno studio della società di logistica Dhl pubblicato a settembre ha evidenziato che si renderebbero obbligatorie “misure straordinarie” per distribuire un vaccino congelato negli oltre 25 Paesi che attualmente hanno la capacità di immagazzinarlo a lungo. Paesi che coprono un terzo della popolazione umana, mentre per i restanti due terzi, comprendenti larga parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, si creerebbero numerosi grattacapi. La stessa India avrebbe di fronte una sfida difficilmente affrontabile, mentre chiaramente sarebbe l’Africa il continente più penalizzato anche se, come fa notare Industria e Informazione, “Gavi e Unicef, da anni, stanno lavorando alla realizzazione di refrigeratori a pannelli solari in Africa, e l’attuale emergenza le ha spinte a moltiplicare gli sforzi: dalle unità 40mila già installate si spera di superare le 100mila entro la fine del 2021. Paradossalmente, le zone colpite dalle recenti epidemia di ebola saranno avvantaggiate, disponendo già delle infrastrutture di emergenza”. Ancora più importante appare la sfida della distribuzione delle dosi in tutto il mondo. Nella sua ricerca, Dhl ha stimato che per portare in tutto il mondo il vaccino potrebbero essere necessari 15mila voli di cargo intercontinentali contenenti in tutto 15 milioni di contenitori. Uno sforzo spalmato su più mesi, o addirittura anni, che dovrebbe necessariamente fare i conti con l’avanzamento delle filiere distributive a terra in tutti i Paesi. Una catena logistica, del resto, ha la forza del suo anello più debole. E anche in Italia dovremmo iniziare a porci numerose domande: esiste un piano per favorire la logistica e il trasporto dei vaccini verso i centri di conservazione? Come evitare ritardi paragonabili a quelli sorti a marzo per la distribuzione delle mascherine? Esistono i mezzi necessari a garantire una distribuzione diversa da quella capillare dei vaccini anti-influenzali trasportati a temperatura frigo? L’esecutivo nazionale deve preparare una strategia omnicomprensiva in materia, perché queste domande, nel nostro Paese come in altri, potrebbero richiedere al più presto risposta. Specie se, come prevedibile, ci vorranno mesi prima di vedere un vaccino certificato entrare in produzione e potrebbero volerci anni prima di coprire una quota consistente della popolazione.

Marco Antonellis per affaritaliani.it il 10 novembre 2020. La Camera dei deputati ha deciso di avviare una campagna di vaccinazione antinfluenzale rivolta a tutti i soggetti che operano presso le sedi di Montecitorio (giornalisti compresi). Non solo: ha avviato un ulteriore screening relativo a eventuale contagio da SARS CoV-2 di tutti i soggetti che operano stabilmente nelle sedi della Camera. Ci sarà dunque la possibilità di effettuare il test antigenico (cosiddetto test rapido). Peccato però che questa efficienza non ci sia anche nel resto d'Italia dato che troppo spesso la vita al cittadino comune viene resa impossibile da file interminabili presso i "drive in" piuttosto che dalla scarsità dei vaccini antinfluenzali disponibili nelle farmacie. Sentite cosa dicono i farmacisti in giro per l'Italia: "Ad oggi i vaccini antinfluenzali non sono disponibili in nessuna farmacia di Palermo, ma il problema è a livello provinciale e anche regionale. Sono arrivate dosi insufficienti, parliamo di appena 12-13 a farmacia. Questa situazione ci preoccupa molto", si spiega all'Adnkronos Salute. La scorsa settimana, continua l'agenzia di stampa, e' arrivata nelle farmacie la prima tranche di vaccini contro l'influenza stagionale: numericamente sono stati distribuiti "circa 18mila dosi, che diviso per le 1650 farmacie campane, fa piu' o meno 11 dosi a farmacia". A parlare e' Vincenzo Santagada, presidente dell'Ordine dei Farmacisti della Campania, in merito alla difficolta' di reperire vaccini contro l'influenza stagionale. Fino allo scorso anno, era sufficiente recarsi in farmacia e chiedere di acquistare il vaccino. Quest'anno, causa la paura di contrarre anche il covid, le richieste dei singoli cittadini sono aumentate. Anche in Lombardia non va meglio: la mancanza di vaccino anti-influenza disponibile per la protezione delle categorie non incluse nell'offerta gratuita delle campagne di profilassi è "un problema reale". Senza dubbio "la difficoltà più grande" per le farmacie lombarde che, ancora sprovviste di dosi "almeno fino alla terza settimana di novembre", non riescono a soddisfare "la domanda principale" rivolta dai cittadini in questo momento. Insomma, dal sud al nord Italia il vaccino antinfluenzale è spesso un miraggio ma non, evidentemente, per i frequentatori delle sacre stanze parlamentari che molto comodamente, e su appuntamento, potranno usufruirne.

Striscia la Notizia, la scoperta: ecco cosa si trova nei più comuni vaccini. Servizio inquietante, ora come si fa? Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. A Striscia la Notizia, nella puntata in onda su Canale 5 giovedì 1 ottobre, si indaga anche sui chiacchieratissimi vaccini. In questo caso il coronavirus non c'entra, si tratta dei vaccini più comuni. Ad occuparsi della vicenda, al tg satirico ideato da Antonio Ricci, è l'inviata Rajae Bezzaz, la quale ha scoperto, come spiega il lancio del servizio, "che tra gli eccipienti più comuni in alcuni vaccini ci può essere la gelatina di maiale". E insomma, l'inviata di Canale 5 si chiede come potrebbero prendere questa notizia alcune categorie di persone, quali ebrei, musulmani e vegani. Tutti loro, infatti, non possono o non vogliono avere in corpo una componente quale la gelatina di maiale.

"Il vaccino anti-Covid? Poco efficace". Ecco la verità sull'arma contro il virus. Il luminare americano Robert Gallo, che ha scoperto il virus dell'Hiv, ci ha spiegato in esclusiva come la corsa al vaccino rischia di trasformarsi in un boomerang. "Non abbiamo un piano b e se dovessero esserci problemi..." Alessandro Ferro, Mercoledì 21/10/2020 su Il Giornale. Tutti i vaccini in questo momento in sperimentazione per combattere il virus Sars-Cov-2 sono "too much of the same thing" (troppo simili) e per questo motivo potrebbero essere poco efficaci. E soltanto dopo 4-6 mesi potremmo aver bisogno di un'altra iniezione di vaccino perché gli anticorpi "non dureranno a lungo". Per non parlare dei rischi legati alla velocità di produzione per salvare il mondo dal Covid-19. Se lo dice lui, dovremmo crederci ad occhi chiusi: parola del dottor Robert Gallo, scienziato e luminare americano che per primo ha scoperto e dimostrato (tra il 1983 ed il 1984) che la causa dell’Aids doveva essere attribuita ad un retrovirus successivamente chiamato HIV. Co-fondatore e direttore dell'Istituto di virologia umana presso l'Università del Maryland School of Medicine e co-fondatore e presidente del comitato direttivo scientifico internazionale del Global Virus Network, in esclusiva a ilGiornale.it ci ha spiegato come sta procedendo la corsa al vaccino contro il Covid-19. Ma le notizie, sotto tanti fronti, non sono confortanti.

Ci sono circa 200 vaccini in fase di sperimentazione nel mondo, di cui 9-10 già in fase tre. Cosa significa questo?

"Vuol dire quello che dice. Non hai un vaccino efficace fino a quando non hai un vaccino efficace: sono candidati, niente di più, niente di meno".

Lei è un luminare, è uno scienziato che ha fatto scoperte sensazionali come quella del virus dell'Aids. Qual è la verità sul vaccino anti-Covid?

"C'è una ragione per cui alcuni di essi si trovano nei trials clinici ma la mia impressione è che ci siano troppi candidati che fanno esattamente la stessa cosa. La stragrande maggioranza dei vaccini sperimentali sta prendendo di mira la proteina spike del virus nella speranza di indurre anticorpi neutralizzanti. Questo può o non può funzionare. Abbiamo un candidato vaccino per altri virus che produce anticorpi neutralizzanti, ma questi non si sono rivelati efficaci nonostante l'induzione di quantità significative di anticorpi neutralizzanti".

Cosa sa dirci di più su questi vaccini in corso d'opera?

"Per quanto riguarda tutti i vaccini candidati, per un po' di tempo non ne sapremo l'efficacia nè la facilità di distribuzione in tutto il mondo. Non ne conosceremo la reale sicurezza finché non passeranno mesi e le persone saranno infettate dopo essere state vaccinate. È ancora ampiamente prematuro prevedere l'efficacia di questi vaccini e starei molto attento a come i media riportano i primi annunci senza analizzarli con esperti indipendenti dalle aziende. In conclusione sì, incoraggio a fare il vaccino una volta disponibile, ma no, non sono sicuro che questo risolverà il problema".

Quali sono le cose che non sappiamo sul vaccino contro il Covid-19? C'è qualcosa di "nascosto"?

"Non sappiamo se funzionerà. Non sappiamo se sarà sicuro. Bisognerà vedere: queste sono domande premature. Semplicemente non lo sappiamo. I vaccini candidati sono sensati e validi ​​ma sono troppo simili e non abbastanza per essere un 'piano b e piano c' se dovessero esserci dei problemi".

Gran parte della popolazione mondiale è preoccupata perché, l'esigenza di avere un vaccino al più presto, possa provocare dannosi effetti collaterali per l'organismo umano. Quanto c'è di vero? È giusto essere preoccupati?

"Vedremo. Non credo che ci saranno effetti negativi acuti e immediati. Dobbiamo vedere in tempo se ci saranno complicazioni in qualche percentuale di persone ma non lo sapremo se non nei mesi successivi, dopo che un numero significativo di persone sarà stato vaccinato".

Quali sono i rischi legati alla velocità con la quale si sta provando a produrre il vaccino vincente? E quali sono i benefici?

"I vantaggi sono la velocità ed i rischi sono... la velocità. Quando vai veloce non ottieni diversità di approcci, non abbiamo grandi quantità di dati sugli animali per conoscere i correlati della protezione ma questo è un virus relativamente semplice per ottenere un vaccino. La maggior parte del successo di un vaccino si ha con infezioni acute come morbillo, parotite, poliomielite, ecc. Tutti speriamo nella sua efficacia. Quando sollevi la domanda sulla velocità, rispondi già alla tua domanda: con la velocità può arrivare prima e questo è positivo ma in alcuni casi la velocità può significare anche che le cose non sono state pensate bene, il che non è necessariamente questo caso ma rimane un pensiero nella mia mente".

Solitamente, per un vaccino efficace sono necessari alcuni anni, stavolta potremmo averlo entro un anno dall'inizio della pandemia. Quali sono i passaggi che verranno "saltati" per accelerarne la produzione?

"La risposta è la stessa di quella precedente".

Se tutto andrà bene, uno o più vaccini fermeranno il Covid-19. Ma poi, quanto durerà l'effetto degli anticorpi? Cosa sappiamo su questo?

"Non credo che gli anticorpi dureranno a lungo. Credo che dureranno meno di 6 mesi, forse circa 4-6 mesi, lo dico in base al passato della nostra esperienza con la proteina spike, che è simile ad altre proteine ​​che abbiamo e non hanno anticorpi di lunga durata. Questo è probabilmente un problema significativo".

Questo nuovo Coronavirus è davvero un virus naturale o potrebbe essere "nato" in laboratorio? Quali sono le prove a favore dell'una o dell'altra tesi?

"Non c'è assolutamente dubbio che si tratti di un virus naturale. Non ci sono prove del contrario. Dichiarazioni di altri che affermano diversamente mostrano che provengono da persone che non comprendono la struttura del genoma e stanno cercando di causare controversie".

In attesa del vaccino, alcune terapie (come quella somministrata al presidente Trump) sono in fase di sperimentazione con risultati molto promettenti. Cosa sa dirci in merito? Potrebbero addirittura sostituire il vaccino?

"Sicuramente gli anticorpi monoclonali sono un buon approccio nella fase iniziale della malattia ma non nella fase avanzata. Il problema è distribuire una quantità sufficiente di questi anticorpi monoclonali in tutto il mondo ed utilizzarli con la frequenza necessaria. Ciò potrebbe comportare un enorme onere finanziario e logistico, ma è un progresso importante".

L'Italia è una delle nazioni che hanno saputo contenere meglio l'avanzata del virus. Qual è la sua opinione?

"Hai parlato troppo presto..."

Mascherine e distanziamento sono le uniche armi che abbiamo per contenere la diffusione del contagio o si può fare dell'altro?

"Una cosa fortunata dell'Italia, in particolare del Centro e del Sud, è che si può trascorrere molto tempo all'aria aperta. Bisognerebbe stare all'aperto il più possibile. Certamente, non bisognerebbe entrare in ambienti con grandi gruppi di persone".

Contrordine virologi, il vaccino non basta. Max Del Papa, 11 settembre 2020 su Nicolaporro.it. Non bastava la girandola di ipotesi sul virus, adesso c’è pure quella sull’antivirus. Sul vaccino. E l’informazione mainstream, quella per intenderci ispirata dalle varie Ue, Omse compagnia affarista, debbono correre, poverette, in soccorso della verità edulcorata. Succede che, dopo gli annunci trionfali del ministro Speranza, nomen non omen, che lo dava già per scontato, la lunga marcia verso l’antidoto si sta rivelando una lunga strada accidentata: prima lo stop di AstraZeneca, incappata durante i test in un caso di mielite, così abbiamo letto, salvo poi trovare la faccenda molto ammorbidita, almeno nei termini: “una infiammazione spinale”. Ah, beh, che vuoi che sia.

Virologi cabaret. Panico, minimizzazioni (“una sola su 50mila sottoposti a verifica”), grande arrampicarsi sui vetri insaponati con le dita unte d’olio: partono i virologi utilité a spiegarci che loro “avevano ragione” (naturalmente, hanno sempre ragione, specie quando sbagliano cioè ogni volta) nel preoccuparsi, e che comunque è una splendida notizia perché gli standard etici, sanitari, spirituali, esoterici vengono rispettati, restano altissimi – e già questo, è come dire che il dubbio era lecito, più che fondato. Solo che a escluderlo, il dubbio, erano proprio loro, i virologi cabaret. Sed non satiata, tocca pure correre, a sirene spiegate, a interpellare, come fa Repubblica, il direttore esecutivo di Ema, l’agenzia europea del farmaco: e Guido Rasi fa quello che può, in un sublime equilibrismo più politico che scientifico: no ai facili entusiasmi ma neppure agli allarmismi, la metodologia di controllo delle sperimentazioni funziona (e vorremmo pure vedere…), ci saranno tante soluzioni, noi all’Ema abbiamo 38 ipotesi di vaccino ma nel mondo sono più di 100… “Ma non saranno troppi?”, chiederebbe Alberto Sordi fruttarolo delle Vacanze Intelligenti.

Ma il vaccino dov’è? Insomma, il vaccino-Fenice, donde sta? Doveva essere qui, subito, adesso, pronti, via, si parte, però no, arriva in autunno, massimo in inverno, alla peggio a inizio 2021, tuttalpiù in primavera; adesso la Oms s’allarga: non prima del 2022, come minimo. E intanto? Intanto tocca convivere con i veterinari alla Ilaria Capua che un giorno sì e l’altro pure cambiano oracolo, adesso ci spiega che la mascherina è il nuovo preservativo, e chissà se qualcuno si è sentito offeso nel farsi dare della faccia da…, e chissà Freud se non si rivolta nella tomba come una rumba. Ancora nessuno ha capito niente del virus, e nessuno ha capito di più del rimedio, insomma grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Per chi deve durare, un nome a caso: Giuseppi. Perché finché c’è emergenza c’è speranza, perché la pandemia è un grande affare e non solo per Big Pharma, perché qui tra mascherine ballerine, banchetti rotanti, presìdi deliranti (anche presidi, poveretti, visto com’è ridotta la scuola), distanziamenti asociali, suicidi di risacca, più fomenti il casino e più la gente, stordita, confusa, spaventata, non ha forza né voglia di reagire. Lezione cinese.

Emergenza infinita. E fosse ancora questo il male peggiore; no, ne discende una conseguenza questa sì apocalittica davvero: che col virus pipistrello, o quello che è, toccherà convivere probabilmente per sempre, sentire proprio Rasi: “Il tempo di durata degli studi è variabile, dipende da una serie di condizioni”; “Nessun vaccino è efficace al 100%. Non conosciamo la capacità di copertura che ha il singolo prodotto”; “Quando un vaccino è pronto non ci sono automaticamente anche tutte le dosi necessarie, per averle, e in questo caso ne servono centinaia di milioni, bisogna aspettare ancora perché devono essere prodotte. E quindi è bene ricordarlo: l’arrivo di un vaccino non coincide con la scomparsa dell’epidemia”. Meglio di così si muore. Potevano anche dirlo subito, che il vaccino-Fenice era una panacea, un miraggio, un inganno. Potevano pure spiegarcelo, che gli annunci di copertura integrale, di tutela globale erano attendibili quanto i discorsi da balcone di Giggino Di Maio. E, soprattutto, i virologi da ballando con le stelle, cioè astrologi, potevano anche risparmiarsi l’ennesima ribalta: ci avrebbero fatto assai migliore figura tacendo, ma contro la vanitas vanitatum et omnia stupiditas non esiste vaccino. Alla fine, avranno ragione quelli che dicono: col Covid toccherà convivere, per fortuna si è ridimensionato a livello di raffreddore o poco più. Tenendo presente che, a determinate condizioni, pure di raffreddore si muore: ma questo è un altro discorso. Quello che possiamo, e che dovremmo fare, è sottrarci alla logica dell’emergenza infinita. Perché, vaccino o non vaccino, è questa che vanno apparecchiandoci: poi le conseguenze – fisiche, mentali, professionali, economiche, sociali – sono volatili per diabetici: nostri, solo nostri, perché quanto a virologi, ministri, primiministri, burocrati dell’Unione Europea o dell’Oms, il problema non sussiste, o, come diceva quel tecnico della sanità governativa: “Non sono affare nostro, noi ci preoccupiamo solo di isolare tutti”. Prosit! Questi il posto non lo perdono, e, se pure si beccano il morbo, non tremano: la verità la sanno, rischiano poco e niente, sono insieme virus e antivirus. Anche nel contagio, qualcuno è più uguale degli altri. Max Del Papa, 11 settembre 2020

Coronavirus, l'immunologo Guido Forni: "I vaccini arriveranno in primavera ma non salveranno tutti". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020. I vaccini arriveranno entro la primavera, saranno sicuri ma non salveranno tutti. E' questa la previsione di Guido Forni, accademico dei Lincei e già professore ordinario di Immunologia all'università di Torino con un passato da ricercatore a Bethesda negli Stati Uniti e a Londra, intervistato da La Stampa.  I vaccini anti Covid-19, spiega Forni, arriveranno entro primavera, saranno sicuri, forse efficaci, in una seconda fase di più, ma in ogni caso non potranno salvare tutti".  I vaccini, spiega l'esperto, saranno sicuri, anche perché l'unica fase sperimentale "che non è stata accelerata è la 3 sulla sicurezza".. Il Governo ha prenotato diversi vaccini e molto dipenderà da come questi accordi verranno onorati". Forni si dice convinto che saranno disponibili per tutti, "ma il vaccino non è un farmaco bensì uno stimolo al sistema immunitario, che funziona meglio su persone sane e giovani. I primi in arrivo saranno sicuri per tutti, ma meno efficaci su bambini e anziani. Serve il lusso del tempo per elaborare vaccini universali". Attualmente i vaccini più promettenti, analizza Forni, "sono gli 11 in fase finale, di cui molti se non tutti verranno registrati entro gennaio. Quattro cinesi e uno russo, facendo forza sulla mancanza di democrazia, sono già stati somministrati a un gran numero di persone". Sono avanti dunque? "Non è detto - risponde l'esperto - Anche Trump voleva approvare un vaccino prima delle elezioni, ma l'istituto regolatore Usa si è rifiutato. Conta molto chi ottiene dei risultati. I vaccini americani, russi e europei si basano sull'Rna, novità che riduce tempi e costi, ma sconosciuta. I cinesi si fondando sul metodo del virus ucciso chimicamente, che nella storia ha funzionato. Un altro vaccino americano, più tradizionalmente, si basa su una proteina. Tutti hanno avviato la produzione, molte dosi sono già pronte ed eventualmente andranno buttate". In fase 1 e 2 ci sono attualmente una quarantina di vaccini "partiti dopo che potrebbero essere più efficaci e facili da usare, come i nasali - prosegue Forni - Mentre i primi avrebbero quasi tutti bisogno di due dosi. Funzioneranno, ma non si sa quanto. Un vaccino può impedire di ammalarsi, diminuire l'effetto della malattia e addirittura bloccare il contagio. Secondo i dati disponibili, i primi vaccini difetterebbero di questa ultima caratteristica". 

L’annuncio di De Luca: “Il Pascale e Ascierto stanno lavorando a un vaccino con altri due ospedali”. Redazione su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. “Si sta lavorando” a un vaccino prodotto dal Pascale di Napoli, dallo Spallanzani di Roma e da un ospedale di Milano con la direzione del professore Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto nazionale per lo studio e la cura dei tumori partenopeo. E’ quanto annuncia nel corso della consueta diretta Facebook del venerdì il governatore della Campania Vincenzo De Luca. “Il vaccino interviene sulla sequenza genetica del cittadino, è una ricerca di avanguardia che speriamo possa produrre risultati in tempi rapidi” ha aggiunto il presidente della regione. Nei giorni scorsi Ascierto è tornato ad avvertire sulla pericolosità del covid-19, sull’importanza delle misure di sicurezza e delle precauzioni da adottare per evitare il contagio. L’oncologo dell’Istituto Pascale di Napoli – che con la sua equipe ha sperimentato l’uso del farmaco anti-artritico tocilizumab sui pazienti positivi al coronavirus ricoverati al Cotugno di Napoli, il principale avamposto e tra i centri di riferimento per la cura delle malattie infettive a livello nazionale – ha rinnovato un appello a non sottovalutare la pandemia in corso. E lo ha fatto sulla sua pagina Facebook. “Indossiamo la mascherina – ha scritto Ascierto – manteniamo la distanza di almeno un metro e laviamoci spesso le mani. La seconda ondata del virus è iniziata ad agosto perché purtroppo non siamo stati abbastanza ligi nel rispetto di queste semplici indicazioni, sottovalutando la carica virale. Anche gli asintomatici sono contagiosi ed è adesso fondamentale fare massima attenzione: la loro carica virale può essere molto alta”. Sugli asintomatici, già qualche giorno fa, il professore aveva dichiarato in un’intervista a Radio Crc: “Possono contagiare e questo dipende dalla carica virale. Ad agosto si immaginava una carica virale bassa e invece era molto alta, quello è stato l’inizio della seconda ondata del virus”. E sull’efficacia del tocilizumab aveva chiarito che i risultati sono “contrastanti perché il farmaco deve essere dato in un momento preciso. Non funziona con gli intubati, gli studi hanno evidenziato questo: il paziente intubato ha già danni e per questo gli effetti del farmaco sono limitati. Quando inizia la tempesta citochinica può invece dare risposta immediata in 24-48 ore”.

Da "rainews.it" il 17 ottobre 2020. La casa farmaceutica Pfizer prevede di chiedere l'autorizzazione per il suo vaccino anti-Covi dall'agenzia americana Fda nella terza settimana di novembre. E' quanto rende noto l'amministratore delegato di Pfizer, Alber tBourla, in una lettera pubblicata sul sito internet della società e rilanciata dal professor Roberto Burioni. "Ci sono tre aree in cui, come per tutti i vaccini, dobbiamo dimostrare di avere successo per ottenere prima l'approvazione per l'uso pubblico -  scrive il Bourla - Innanzitutto il vaccino deve essere  efficace, il che significa che può aiutare a prevenire il Covid 19 nella maggior parte dei pazienti vaccinati. In secondo luogo bisogna dimostrare che il vaccino sia sicuro, con dati affidabili generati da migliaia di pazienti. Infine, dobbiamo dimostrare che il vaccino può essere costantemente prodotto secondo i più elevati standard di qualità". 

Flavio Pompetti per "Il Messaggero" il 17 ottobre 2020. «Che bello il mio vaccino Bigfoot» dice il premier britannico in una foto manipolata, nella quale la testa e le mani sono quelle di uno yeti, mentre cammina a Trafalgar Square con un fascicolo Astrazeneca sotto il braccio. In un'altra foto un gruppo di persone aspetta in fila di entrare in una clinica Astrazeneca per ricevere il vaccino, e dalla parte opposta dell'edificio escono gorilla e scimpanzé. Queste immagini sono state mostrate per la prima volta dalla rete televisiva statale russa Vesti News, in un commento caricaturale del vaccino sviluppato dalla casa farmaceutica britannica presso i laboratori della Oxford University, in quanto il progetto ha usato scimmie come ponte di passaggio per trasferire il gene del Covid in laboratorio prima di elaborarlo e inocularlo su cavie umane. Una versione più cruda e fraudolenta del messaggio circola in queste ore in Internet, dove il potere del vaccino di far regredire gli umani allo stadio di primati viene dato come un fatto acclarato.

LICENZA DI EMERGENZA. La vicenda mostra il triste stato in cui versa la comunicazione sul web, nella quale oramai tutto è diventato credibile. Ma nel caso specifico del coronavirus, la diffamazione mostra anche la magnitudine della lotta globale per la supremazia nel campo dei vaccini, e il potere economico e politico che c'è in ballo nella ricerca, come sottolinea l'annuncio della statunitense Pfizer, la quale ieri ha chiesto una licenza di emergenza alla Fda per iniziare a distribuire il vaccino prima della fine di novembre. La Russia è stata la prima nazione al mondo a validare un vaccino la scorsa estate. L'intelligence britannica accusa lo spionaggio moscovita di averlo sviluppato sulla base di dati hackerati della Oxford University tramite attacchi lanciati dai ben noti pirati della Cozy Bears e The Duke, che hanno penetrato lo scudo telematico che il National Cyber Security Center aveva installato lo scorso marzo intorno ai laboratori. Lo studio Oxford-Astrazeneca come gli altri sei in area occidentale che hanno raggiunto la fase della pre-produzione, risponde a rigidi criteri di controllo, e non sarà pronto almeno fino alla fine dell'anno. Lo Sputnik V russo invece è stato realizzato da aziende di stato, ed ha avuto il via libera dopo essere stato testato in patria su sole 67 cavie. Da allora è stato inoculato, sempre in Russia, su 2000 lavoratori indispensabili, e su 13.000 volontari. Ma è all'estero che Putin guarda per gli sviluppi futuri. I paesi ricchi (Europa, Giappone, Usa e Inghilterra) hanno già prenotato 3,7 miliardi di dosi dei vaccini ancora in fase di sperimentazione, e gli Stati Uniti hanno già speso 18 miliardi per assicurarsi scorte. Quelli più poveri sarebbero tagliati fuori a lungo dal mercato, ma le geopolitica li richiama in gioco. Russia e Cina stanno spingendo la diplomazia del vaccino su un bacino che va dai paesi del Golfo Persico alla regione sudorientale del pacifico. Mosca è a caccia di influenza presso i produttori di petrolio; Pechino ha nelle mani un'occasione preziosa per incunearsi nella rete di alleanze che gli Usa vantano nel Sud Est asiatico. Una settimana fa il vaccino della Sinofarm cinese è arrivato in Indonesia, Brasile, Emirati arabi e Pakistan, con accordi di sperimentazione privi di fattura. Il conto verrà dopo, come i 40 miliardi di credito che Pechino vanta oggi con gran sorpresa da parte di Islamabad nei confronti del Pakistan, per gli investimenti infrastrutturali della Via della seta. Vladimir Putin si vanta di avere richieste per lo Sputnik da 50 paesi, e ha firmato l'accordo con l'Oms per agevolare la distribuzione del vaccino nei paesi più poveri. Il fronte della lotta contro l'epidemia si sta trasformando in una guerra disarmata, il cui esito potrebbe ridisegnare le zone di influenza delle grandi potenze. E in questa guerra gli Usa di Donald Trump, arroccati sul principio dell'unilateralismo e della supremazia degli interessi interni, stanno già accusando un ritardo pericoloso per i riflessi che avrà sulla politica estera.

"Il vaccino italo-inglese è fatto con le scimmie" Disinformazione russa contro la concorrenza. Campagna social con meme e video per infangare il farmaco di AstraZeneca. Fausto Biloslavo, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. I russi avrebbero lanciato una campagna di «disinformazia» contro il vaccino inglese creato con la collaborazione dell'Italia. Lo rivela il Times di Londra grazie alle informazioni di una gola profonda. In realtà, ammesso che sia vero, è solo la punta dell'iceberg della guerra segreta sul vaccino, di tutti contro tutti e senza esclusione di colpi. La campagna di disinformazione scoperta dagli inglesi dissemina sui social foto, meme, brevi video che rilanciano allusioni o attacchi più diretti con teorie cospirative sulla presunta non sicurezza del candidato vaccino di AstraZeneca realizzato in collaborazione con la società di Pomezia Irbm. Il messaggio banale, ma efficace della campagna in rete è che il vaccino utilizza un virus che usa come vettore gli scimpanzé. Non è un caso che alcuni esperti in Russia abbiano parlato di «vaccino delle scimmie». Il sospetto che si vuole infilare nelle menti è che porterebbe alla trasformazione di chi lo utilizza in mezzi animali. Gli obiettivi principali sono l'India e il Brasile, dove Mosca ha già venduto in anticipo lo Sputnik V, il primo vaccino annunciato al mondo. Anche l'Europa occidentale è un obiettivo secondario della campagna di disinformazione. Il generale Nick Carter, capo di stato maggiore britannico, ha accusato la Russia di organizzare «un'offensiva politica» sul vaccino inglese grazie alle teorie cospirative. Il servizio segreto interno, MI5, ha confermato che l'intelligence sta proteggendo la ricerca sull'antivirus di Oxford. Anche il servizio di controspionaggio italiano, Aisi, è mobilitato per garantire la sicurezza non solo della società di Pomezia, ma di ospedali e laboratori che lavorano al vaccino in Italia. La Difesa ha costituito appositamente la task force Covid. Mosca smentisce seccamente sostenendo che «la suggestione che lo stato russo possa condurre qualsiasi tipo di propaganda contro il vaccino Astrazeneca è di per sé un esempio di disinformazione». Il 17 luglio, però, la costola dell'intelligence inglese di sorveglianza elettronica ha lanciato l'allarme: i russi spiavano la ricerca sul vaccino che coinvolge l'Italia. Grazie al monitoraggio dei cavi di fibra ottica internazionali è stato individuato il tentativo di intrusione del gruppo hacker APT29, conosciuto anche con il nome di Cozy Bear. Dietro ai pirati informatici ci sarebbe l'Srv, il servizio segreto russo. I cinesi non sono da meno: Li Xiaoyu e Dong Jiazhi, due ex studenti cinesi di ingegneria elettronica, sono ricercati dal 21 luglio dagli Stati Uniti per spionaggio sulla ricerca americana di una cura al Covid 19. Non caso i mandarini comunisti hanno nominato il generale Chen Wei, una donna scienziato dell'Istituto di biotecnologie di Pechino, a capo della ricerca sul vaccino. Per la corsa all'anti virus gli Usa hanno lanciato l'operazione Warp Speed, in parte coperta da segreto, che coinvolge anche il dipartimento della Difesa con il generale Paul Ostrowski.

La lotta al Covid-19 passerà dal vaccino contro la tubercolosi? Andrea Walton su Inside Over il 12 ottobre 2020. Il bacillo di Calmette e Guérin, utilizzato come vaccino contro la tubercolosi sin dal 1921, potrebbe rivelarsi utile nel contrastare l’avanzata del virus Sars-CoV-2. Una parte della comunità scientifica ritiene che il preparato potrebbe potenziare la risposta immunitaria nei confronti del Covid-19. La correttezza di questa ipotesi verrà messa alla prova da una sperimentazione internazionale, denominata Brace-Study, a cui stanno prendendo parte circa diecimila volontari in Australia, Brasile, Olanda, Spagna e Regno Unito. I volontari sono stati reclutati tra i lavoratori ospedalieri data la maggiore probabilità di entrare in contatto con il virus. Il Professor John Campbell, attivo presso la University of Exeter Medical School, ha affermato (riportato dalla BBC) che “la protezione fornita dal bacillo non è specifica per il Covid ma può far guadagnare tempo nell’attesa che vengano sviluppati trattamenti efficaci”.

Le evidenze della scienza. Tedros Adhanom Ghebreyesus, presidente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è tra i sostenitori del possibile uso del vaccino per la tubercolosi e lo ha confermato in un articolo, scritto insieme ad altri scienziati, pubblicato su Lancet. Tra gli inconvenienti c’è il fatto che le persone già vaccinate contro la tubercolosi dovrebbero ricevere una nuova somministrazione del preparato (che non fa sviluppare anticorpi specifici) per trarne beneficio. La presenza di un vaccino esistente in grado di indurre immunità nei confronti del Covid-19 e la cui sicurezza sia già stata testata è il sogno di molti medici ed esponenti politici. Un progetto di ricerca curato, tra gli altri, dal Dottor Nadav Rappoport dell’Università Ben Gurion del Negev e pubblicato su Vaccines ha fatto una scoperta significativa. La somministrazione del vaccino contro la tubercolosi, in particolare per le persone con meno di 24 anni che lo hanno ricevuto negli ultimi 15 anni, è associata ad una migliore prognosi in caso di infezione da Covid-19. I ricercatori hanno evidenziato una riduzione nel tasso di infezione e di mortalità per milione di abitanti nella fascia d’età presa in esame ma non ci sarebbero stati effetti significativi negli adulti di età più avanzata a cui è stato somministrato in passato. Altri vaccini, come quelli contro il morbillo ed il virus rubella, risulterebbero invece ininfluenti in caso di infezione da Covid-19.

I possibili sviluppi. Il vaccino contro la tubercolosi risulta efficace nei bambini ma non è chiaro se potrebbe giocare un ruolo positivo per gli adulti a rischio di contrarre il Covid-19. La produzione del preparato potrebbe inoltre risultare più difficile del previsto ed anche in passato sono state riscontrate carenze su scala globale che hanno impedito a molti bambini di vaccinarsi. Le scorte non sono dunque illimitate e bisognerebbe verificarne la migliore modalità di somministrazione possibile. Sullo sfondo (ma neanche troppo) c’è la pandemia che continua ad espandersi ed a provocare perdite di vite umane e gravi danni economici. La comunità internazionale ha cercato di correre ai ripari favorendo la ricerca e lo sviluppo di vaccini contro il Covid-19. Una vera e propria corsa contro il tempo che, nel giro di pochi mesi, ha portato 40 candidati vaccini ad entrare nella fase 3 della sperimentazione clinica. Si tratta di un’accelerazione impressionante dato che, in tempi normali, sono necessari oltre 5 anni per giungere allo sviluppo di un trattamento efficace. Le speranze di miliardi di persone sono così affidate alla ricerca, un settore troppo spesso trascurato e soggetto a tagli di fondi e scarsa considerazione da parte delle classi dirigenti. Il Paese che riuscirà, per primo, a trovare una cura per il Covid-19 si aggiudicherà la gratitudine del mondo e la possibilità di espandere la propria influenza geopolitica su vasta scala. La (rin)corsa al vaccino è appena cominciata e si svilupperà nei mesi a venire.

"Morto un volontario ​del vaccino anti-Covid". Ma qualcosa non torna. Giallo sul decesso di un volontario in Brasile. La sua morte avvolta da una "fitta nebbia". Spunta l'ipotesi placebo. Qual è la vera causa della scomparsa? Federico Giuliani, Mercoledì 21/10/2020 su Il Giornale. È morto in Brasile un volontario coinvolto nella sperimentazione clinica del vaccino Covid-19 sviluppato da AstraZeneca e dall’Università di Oxford, uno dei possibili antidoti in corsa per debellare il Sars-CoV-2. Lo ha reso noto l’Agenzia nazionale di vigilanza sanitaria (Anvisa) del Paese, che ha comunque annunciato, a seguito di un’indagine, che i test non si fermeranno. Non si conoscono ufficialmente né le generalità della vittima né i dettagli in merito al decesso. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters si sarebbe trattato di un uomo brasiliano; Bloomberg parla di un medico 28enne di Rio de Janeiro. In ogni caso, Reuters sostiene che il decesso sia da collegare alla sperimentazione.

Il giallo del volontario deceduto. L’accaduto è ancora avvolto da una fitta nebbia. Il quotidiano brasiliano O Globo, citando fonti anonime, ha scritto che all’anonimo volontario era stato somministrato un placebo e non il vaccino di prova. Anche Bloomberg ha scritto che il volontario si era iscritto per la sperimentazione ma non aveva ancora ricevuto la dose. Anvisa non ha fornito ulteriori dettagli, citando la riservatezza medica delle persone coinvolte nelle sperimentazioni. Dal canto suo Oxford ha confermato il piano per proseguire nelle analisi, affermando in una dichiarazione che, dopo un’attenta valutazione, "non ci sono state preoccupazioni sulla sicurezza della sperimentazione clinica". AstraZeneca, le cui azioni sono scese dell’1,7% in seguito al decesso del volontario, si è rifiutata di fornire commenti "su casi individuali coinvolti nella sperimentazione in corso del vaccino Oxford, aderendo in modo stringente alla regolamentazione dei trial clinici, ma possiamo confermare che tutti i processi di verifica richiesti sono stati seguiti". Certo è che il vaccino di AstraZeneca è considerato uno dei più promettenti. Il governo federale brasiliano ha intenzione di acquistarlo dal Regno Unito e produrlo presso il centro di ricerca biomedica FioCruz a Rio de Janeiro. Nel frattempo un vaccino concorrente, realizzato dalla cinese Sinovac Biotech Ltd, è testato dal centro di ricerca dello stato di San Paolo Butantan Institute. Non solo: lo scorso 8 settembre AstraZeneca aveva dovuto fare i conti con una prima sospensione del processo di sperimentazione avvenuta a causa di una malattia inspiegabile in un paziente del Regno Unito. Pare che il soggetto in questione avesse sviluppato un’infiammazione del midollo spinale, nota come mielite trasversa. Al termine di una breve indagine, il processo è tuttavia ripreso nel Regno Unito e in altri Paesi. Non negli Stati Uniti, dove avrebbe dovuto riprendere nei prossimi giorni. Ricordiamo che il vaccino realizzato da AstraZeneca e Università di Oxford si chiama AZD1222 e che utilizza materiale genetico del coronavirus con un adenovirus modificato. Lo scorso luglio sono stati pubblicati dati che mostravano come l’antidoto in questione fosse in grado di produrre una risposta immunitaria promettente in uno studio in fase iniziale.

Che succede adesso? La notizia del decesso del volontario brasiliano arriva proprio nel giorno in cui Piero Di Lorenzo, il presidente del centro di ricerca Irbm di Pomezia (che collabora con l’Università di Oxford) aveva annunciato la disponibilità delle prime dosi di vaccino entro dicembre. Nel caso in cui non fossero emersi problemi rilevanti, infatti, la sperimentazione avrebbe dovuto concludersi entro la fine di novembre o, al massimo, nei primi giorni di dicembre. "Se le ultime fasi di preparazione del vaccino Oxford-Irbm Pomezia-AstraZeneca saranno completate nelle prossime settimane, le prime dosi saranno disponibili all'inizio di dicembre", aveva invece affermato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte intervistato nell'ultimo libro di Bruno Vespa. "Già all'inizio avremo i primi due o tre milioni di dosi - ha precisato Conte - Altri milioni ci arriveranno subito dopo. La Commissione europea ha commissionato ad AstraZeneca e ad altre società alcune centinaia di milioni di dosi. Penso che per contenere completamente la pandemia dovremo aspettare comunque la prossima primavera". Alla luce del decesso avvenuto in Brasile, resta da capire se la tabella di marcia della produzione del vaccino subirà rallentamenti o meno.

Coronavirus: Johnson & Johnson ferma studio vaccino, volontario sta male.  Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 13/10/2020. L’azienda farmaceutica ha temporaneamente interrotto lo sviluppo di un potenziale vaccino. L’azienda farmaceutica Johnson & Johnson ha temporaneamente interrotto lo sviluppo di un potenziale vaccino contro il Covid-19 a causa di una «malattia inspiegabile» insorta in uno dei volontari cui il farmaco era stato somministrato. Lo riferisce l’emittente «Cnn». «Sulla base delle nostre linee guida — recita una nota della multinazionale Usa —, la malattia del partecipante ai test clinici è oggetto di valutazione da parte del Consiglio indipendente per il monitoraggio della sicurezza dei dati (Dsmb) e dal nostro personale interno». «Eventi avversi, come malattia o incidenti, anche seri — ha sottolineato la società — rientrano ogni studio clinico, soprattutto se di larga scala». Johnson & Johnson non ha fornito spiegazioni in merito alla natura della reazione avversa, di cui andrà anzitutto accertata la relazione con la somministrazione del farmaco oggetto degli studi clinici. L’8 settembre, un ampio studio su un altro vaccino Covid-19 sviluppato da AstraZeneca e dall’Università di Oxford è stato sospeso a causa di una sospetta reazione avversa in un paziente nel Regno Unito. Si ritiene che il paziente avesse la mielite trasversa, un problema del midollo spinale. Gli studi sul vaccino sono ripresi circa una settimana dopo essere stati messi in pausa nel Regno Unito, e da allora sono stati ripresi anche in altri Paesi. Rimane comunque in attesa negli Stati Uniti. Johnson & Johnson ha iniziato ad arruolare volontari nel suo studio di fase 3 il 23 settembre . I ricercatori hanno pianificato di iscrivere 60.000 partecipanti negli Stati Uniti e in altri paesi.

La corsa al vaccino. Coronavirus, sospesa sperimentazione del vaccino Johnson & Johnson: un volontario si è ammalato. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. La sperimentazione del potenziale vaccino contro il coronavirus di Johnson & Johnson è stata bloccata, per consentire alla compagnia di indagare sulla “malattia non spiegata” di un partecipante. Lo ha fatto sapere il marchio, che in una dichiarazione ha sottolineato come malattie, incidenti e fatti avversi siano una parte prevista dei grandi studi clinici. Gli esperti e il panel sulla sicurezza tenteranno di stabilire che cosa abbia causato la malattia. Si tratta almeno della seconda sospensione del genere, tra i vari candidati vaccini che hanno raggiunto le fasi finali di test negli Usa. La compagnia non ha fornito informazioni sullo stato del candidato, citando il rispetto della sua privacy. Siccome decine di migliaia di persone partecipano alle sperimentazioni, è frequente che qualcuna abbia reazioni inattese, e talvolta si tratta di coincidenze scollegate ai farmaci. La prima verifica che la compagnia farà, ha precisato per questo J&J, sarà stabilire se al soggetto sia stato somministrato il farmaco o il placebo. Nel frattempo, la fase finale di test del potenziale vaccino AstraZeneca-Oxford University resta sospesa negli Usa, mentre le autorità valutano se una malattia riscontrata costituisca un rischio. La sperimentazione è stata bloccata dopo che una donna ha sviluppato gravi sintomi neurologici coerenti con mielite trasversa, infiammazione del midollo spinale, ha spiegato la compagnia, i cui test sono ripresi altrove. Johnson & Johnson ha previsto il coinvolgimento di 60mila volontari per testare il suo approccio monodose, diverso da altri farmaci candidati che negli Usa richiedono due dosi.

Stop a un altro vaccino. E l'immunità è un rebus. Johnson&Johnson ferma i test: un volontario malato. Usa, un caso di reinfezione più grave. Francesca Angeli, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. Brusca frenata per candidato vaccino anti Covid della Johnson & Johnson. L'azienda ha annunciato l'interruzione «temporanea» della sperimentazione condotta su un campione di 60mila pazienti. La ragione è sempre la stessa ed è uno scoglio che normalmente si presenta quando si sta testando un nuovo farmaco o una nuova profilassi: un volontario sottoposto allo studio clinico ha contratto una patologia per la quale al momento i ricercatori non hanno individuato l'origine. In sostanza non possono escludere che sia collegata all'assunzione del vaccino. È la seconda volta che uno dei trial clinici allo studio viene interrotto a causa di un paziente che si ammala. La prima interruzione aveva interessato lo studio condotto da Astrazeneca in collaborazione con l'Università di Oxford. In questo caso una volta stabilito che la patologia del volontario in questione non aveva nulla a che fare con il vaccino la sperimentazione è ripartita. La Johnson & Johnson ha fatto sapere di aver affidato la valutazione di quello che potrebbe essere un effetto collaterale alla somministrazione del vaccino sperimentale all'organismo indipendente Data Safety Moinitoring Board oltre che ai i suoi esperti interni. Una volta chiarita l'origine della patologia l'azienda renderà pubblici i risultati. «Ci impegniamo a fornire aggiornamenti trasparenti durante il processo di sviluppo clinico del nostro candidato vaccino», promette J&J che ha tenuto a specificare che questo stop temporaneo è diverso da una «sospensione normativa» richiesta dalle autorità sanitarie. Ed è indubbiamente vero, come asserisce l'azienda che in qualsiasi studio clinico, questo genere di interruzioni è inevitabile. Ed è proprio per questo che gli esperti ritengono troppo ottimistica la previsione di un vaccino disponibile alla fine dell'anno. All'inizio di settembre la J&J aveva annunciato con enfasi di aver riscontrato una evidente risposta immunitaria da parte dei volontari nella prima fase dello studio clinico e per questo aveva dato il via allo studio allargato a 60mila persone i cui risultati sono previsti per la fine di quest'anno o all'inizio del 2021. E sulla questione dell'immunità da Covid19 si sta interrogando tutto il mondo scientifico visto che sono stati confermati casi di reinfezione. In particolare quello di una donna di 89 anni morta in Olanda dopo un secondo contagio da coronavirus. Caso riferito da Bno News che cita i risultati pubblicati da Oxford University Press. Si tratta del primo caso di decesso dopo un secondo contagio da Sars Cov2. La donna era in cura per macroglobulinemia di Waldenström, un raro tipo di cancro alle cellule del sangue trattabile ma incurabile. Un altro caso di reinfezione dopo quello registrato in Usa. Un giovane che la seconda volta si è ammalato in modo più grave ma che poi è guarito. Le sequenze relative ai due contagi, distanti di qualche mese, erano troppo diverse per essere causate dalla stessa infezione. La mancata acquisizione dell'immunità potrebbe anche avere implicazioni sulla ricerca di un vaccino e ricadute sulla possibilità che in prospettiva sul lungo periodo si riesca a raggiungere la discussa immunità di gregge.

 (ANSA l'1 ottobre 2020) - L'Ema ha iniziato ad analizzare i dati del vaccino contro il Covid-19 messo a punto da AstraZeneca e dall'università di Oxford, il primo passo dell'iter di approvazione. Lo scrive la stessa agenzia europea del farmaco sul proprio sito, che precisa che è il primo candidato che arriva a questa fase. "L'inizio della “rolling review” - spiega l'Ema - vuol dire che il comitato per i medicinali umani ha iniziato a valutare il primo set di dati, che viene dagli studi di laboratorio (non dai dati clinici)!". L'inizio dell'iter, prosegue la nota, "non implica che una conclusione possa già essere raggiunta sulla sicurezza o l'efficacia del vaccino, visto che la maggior parte dei dati deve ancora essere sottoposto al comitato". La “rolling review”, spiega l'Ema, è uno degli strumenti regolatori messi in campo per accelerare l'approvazione. Normalmente tutti i dati sono forniti insieme all'inizio della richiesta di autorizzazione alla commercializzazione, mentre in questo caso il Chmp, il comitato dell'Ema incaricato della valutazione, li revisiona man mano che sono disponibili, fino a decidere che sono sufficienti per una richiesta formale. "La decisione di iniziare la rolling review del vaccino si basa sui risultati preliminari non clinici e sulle prime sperimentazioni cliniche - afferma il comunicato -, che suggeriscono che il vaccino stimola la produzione di anticorpi e di cellule T del sistema immunitario che hanno il virus come obiettivo. Sperimentazioni cliniche su larga scala su migliaia di persone sono in corso, e i risultati saranno disponibili nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Questi forniranno informazioni su quanto sia efficace il vaccino nel proteggere dal Covid-19, cosa che verrà valutata in cicli di revisione successivi". Il vaccino di AstraZeneca è uno di quelli più avanti nella sperimentazione, nonostante uno stop di alcuni giorni dovuto alla revisione dei dati su alcuni pazienti che avevano mostrato effetti collaterali gravi.

DAGOREPORT il 22 settembre 2020. A Bruxelles ancora ridono per la conferenza stampa organizzata a Roma per annunciare al mondo che una scienziata dell’ospedale Spallanzani aveva isolato il virus del Covid 19. Non avevano considerato che il virus era già stato isolato in sei Paesi e per farlo, avendo a disposizione il sangue di un malato e la sequenza genetica postata su internet dai cinesi, era sufficiente seguire una procedura che qualunque buon tecnico di laboratorio deve saper fare senza problemi. Ma evidentemente l’ospedale Spallanzani gode di autorevoli raccomandazioni "colà dove si puote ciò che si vuole". E infatti apprendiamo che subito dopo, il 17 marzo scorso nella sede della Protezione civile si sono riuniti, sotto la sapiente regia del plenipotenziario di Nicola Zingaretti, l’Assessore della Regione Lazio Alessio D’Amato, due ministri, Manfredi e Speranza, il presidente dell’ISS Silvio Brusaferro, il direttore generale dell’Aifa Nicola Magrini, il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli ed il direttore scientifico dello Spallanzani, il dottor (non professore come ama farsi chiamare) Giuseppe Ippolito. Cotanto senno tutto insieme per ascoltare un tal professor Alfredo Nicosia (da Napoli) in “quasi” rappresentanza della società di Castelromano, Reithera srl. Nicosia partecipava per spiegare ai capoccioni della sanità italiana che la Reithera era lì lì per sfornare il vaccino anticovid19 “tutto italiano” (mentre forse i veri amministratori della società mancavano perché evidentemente bloccati da impegni improrogabili). E’ partita così una vispa campagna mediatica, spinta dalle telefonate dei ministri ai direttori di giornali e tv, sul ''vaccino italiano”, anche detto “vaccino dello Spallanzani”. Questo perché nei piani dei maggiorenti, oltre a Reithera che lo stava già mettendo a punto, per i test clinici era pronta l’eccellenza nazionale Irccs Spallanzani. E giù conferenze stampa, ospitate tv e comunicati giornalieri che informavano che la Regione Lazio aveva erogato cinque milioni ed il ministero della Ricerca tre milioni di euro per realizzare il vaccino “tutto italiano” pronto per essere testato nell’ospedale Spallanzani, dove già venivano mostrati alle telecamere i letti preparati. Ovviamente la prima domanda che facevano i giornalisti era “quando sarà pronto?“, e lì cascava l’asino perché, mentre già otto vaccini nel mondo si trovavano in sperimentazione clinica di fase 3 su decine di migliaia di volontari e intravedevano il traguardo a pochissimi mesi, il gruppetto del vaccino “italiano” era costretto a rispondere che il vaccino sarebbe arrivato, con tanto ottimismo, solo dopo un anno (Corriere.it del 1/8/2020). Nell’attesa, ogni giorno il dottor Ippolito rilasciava una intervista per annunciare che era stato deciso il numero dei volontari, quanti avevano risposto alla call, poi di che sesso erano, poi ancora, se erano emozionati …e così passavano le settimane. Se qualche giornalista obiettava che i vaccini di almeno otto multinazionali (Pfizer, Merck, Roche, Johnson & Johnson, Astrazeneca, Moderna, Sanofi) erano molto vicini alla meta, mentre la coppia Reithera-Spallanzani era ancora al palo, subito il direttore scientifico Ippolito, a volte sostituito dallo squillante Franco Locatelli, lo bacchettava in tv pontificando, col piglio del grande scienziato, che è più importante la sicurezza che la velocità (la volpe e l’uva). Come se otto multinazionali non si curassero della sicurezza e potessero contare sulla complicità delle Agenzie regolatorie internazionali, mentre Ippolito che, guarda caso, al battesimo del finanziamento era insieme al Direttore generale dell’Aifa (sulla cui serietà professionale non abbiamo dubbi ), fosse il custode dell’ortodossia scientifica mondiale. Del resto, lo Spallanzani, che come ospedale è davvero eccellente, ma come ricerca clinica è semplicemente inesistente perché non ha mai fatto un test clinico su candidati vaccini, e trova difficoltà anche a presentare i protocolli all’ISS, e alla fine il test clinico, il più basico, viene dirottato sul Centro clinico di Verona. Ma non era un’eccellenza della ricerca clinica e, come affermato, sfidando il ridicolo, dall’assessore Alessio D’amato, “chi attacca lo Spallanzani attacca l’Italia”? Ma la cosa più incredibile riguarda Reithera srl di Castelromano, la quale era stata rappresentata alla riunione di tutti i capoccioni della Sanità da un ex amministratore fuori dalla società da due anni, (e non si capisce perché non da un amministratore o ricercatore in carica). Poi si scopre che Reithera, per provare a realizzare il vaccino, si è dovuta consorziare con due aziende straniere, una tedesca, la Lekocare di Monaco di Baviera e una belga, la Univercelles di Bruxelles (AGI 24/04/20 ore 06:57). E l’italianità del vaccino? Ma il colpo di teatro arriva quando viene fuori che Reithera srl è di proprietà 100% della Keires GA, società anonima svizzera, cioè una società che paga le tasse in Svizzera e di cui non è possibile conoscere i soci di ora e nemmeno quelli di domani quando arriveranno gli utili ricavati dai soldi che hanno generosamente donato a Reithera srl l’assessore plenipotenziario di Zingaretti, molto vicino alla direttrice generale dello Spallanzani Marta Branca, ed il napoletano ministro Manfredi. Ora la cosa che si aggiunge è che sentiamo dire che l’Italia pensa di prenotare le dosi del candidato vaccino tutto italiano, che gli amministratori di Reithera promettono che verrà riservato all’Italia. Grazie ma in farmacia ci saranno i vaccini delle multinazionali Pfizer, Merck, Roche, Johnson & Johnson, Astrazeneca, Moderna, Sanofi ecc. già da minimo un anno. Intanto tanti milioni di euro pagati dagli italiani saranno andati in Svizzera dove li aspettano gli anonimi proprietari di Reithera srl di oggi che magari non saranno tutti gli stessi di domani. Buon vaccino a tutti!

TUTTO SU REITHERA. Da startmag.it il 22 ottobre 2020. Fondata nel 2014 da un team ex Okairos, la società con sede legale a Roma si occupa dello sviluppo, della produzione e dei test clinici di vaccini adeno-vettori di origine non umana. Tra le malattie cui si lavora nei laboratori, trasferiti ora a Napoli (a Roma il centro di produzione GPM), ci sono epatite C, malaria, HIV, virus respiratorio sincinziale ed Ebola. Okairos, una volta acquisita da Gsk, cambiò nome in Reithera. L’azienda, presieduta da Antonella Folgori, capo di immunologia e fondatrice di Okairos e già in Irbm, è di proprietà di Keires Ag, società del settore finanziario con sede a Basilea. Reithera ha chiuso il 2019 con ricavi pari 19.565.923 euro, in crescita rispetto ai 14.223.015 euro del 2018. Più che triplicato l’utile 2019: 2.244.495 euro, contro i 664.858 dell’anno precedente. I costi della produzione totali sono stati pari a 16.680.460. Anche Unicredit ha scommesso sul vaccino anti-Covid dell’azienda biotecnologica italiana Reithera (prodotto in collaborazione con Sgs). Dal gruppo bancario capeggiato dall’amministratore delegato, Jean-Pierre Mustier, è arrivato nei giorni scorsi un finanziamento di 5 milioni di euro per accelerare nella ricerca dell’antidoto.

DAGONEWS il 23 ottobre 2020. Ci risiamo. Allo IRCCS Spallanzani di Roma scappa il comunicato come ad un neonato la pipì: incontenibile. Il 5 ottobre scorso si sono inventati un comunicato, ripreso dall’ADNKRONOS, sul “numero dei candidati vaccini allo studio sull’uomo”. Una banalità incredibile per giustificare l’aggiunta che lo Spallanzani collabora con le società italiane Takis e Reithera la quale ultima è finanziata dal Ministro Manfredi tramite il CNR, e dalla Regione Lazio di Nicola Zingaretti, con il sostegno del Ministro della Salute Speranza. Cioè la stessa trita notizia già lanciata e veicolata fino alla nausea, (ma ovviamente tacendo che, essendo Reithera di proprietà di una società “anonima” svizzera, la Keires, i suoi utili andranno in Svizzera non si sa a chi. Cosa che ad un attento amministratore come l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, regista dell’operazione, non poteva sfuggire).  Ma la cosa più esilarante è l’articolo apparso sul settimanale “Chi” del 14 ottobre. Dopo una disamina dell’attuale situazione dei vaccini nel mondo, l’articolista ci informa che “c’è anche un vaccino italiano, quello di Retihera, che però è ancora indietro nella produzione…il 24 agosto insieme all’Istituto Spallanzani è stata avviata la fase 1 di sperimentazione”, (3 volontari). Continua l’articolo: “peccato, è più indietro di altri: perché? In Italia le leggi sono più restrittive, a tutela della salute dei cittadini e di certo lo Spallanzani non può esporsi al rischio che qualcosa non funzioni. Quando arriverà, però, potremo essere certi che sarà perfetto. D’altra parte la corsa al vaccino è come un viaggio in macchina; se andiamo a 50 all’ora vediamo tutti i segnali, gli ostacoli e i pericoli; a 150 se siamo fortunati arriviamo prima, altrimenti ci schiantiamo. E con il vaccino anticovid non è il caso di rischiare”. Questa può essere solo letta come una operazione di un ufficio stampa che, pur di produrre una rassegna stampa priva di ritagli, è disposta non a sfiorare il ridicolo, ma entrarci dentro con la banda che suona. Ma chi ha pronunciato o scritto simili stupidaggini vuole anche lontanamente ipotizzare che negli altri Paesi europei o nel nordamerica le leggi consentano di approvare farmaci pericolosi e che qualche multinazionale, (ce ne sono 8 in fase sperimentale clinica 3), possa esporsi a quei rischi che lo Spallanzani e Reithera non vogliono correre? E poi la storiella della macchina. Mancava solo che avessero aggiunto “chi va piano va sano e va lontano”. Ma perché un’Istituzione rispettata come l’Ospedale Spallanzani per accreditarsi come centro di ricerca con esperienza e know-how che non ha, deve rendersi così ridicola? Qualche anima buona e pia spieghi all’ufficio stampa che segue lo Spallanzani e la società della “prudente” Reithera che l’ansia da prestazione gioca brutti scherzi e rende al cliente un pessimo servizio. Spieghi loro bene che la loro efficienza e bravura non si misura a chili di ritagli, ma all’incremento di prestigio, autorevolezza e reputazione che il proprio lavoro “lascia” al cliente. Ebbene loro stanno ottenendo esattamente l’effetto opposto. Ne esce danneggiato perfino il Centro clinico di Verona che, finalmente, dopo i tre volontari siringati allo Spallanzani ad uso di telecamere, ha preso in carico la sperimentazione ed essendo gente seria ha subito chiarito a “Padovaoggi” il 3 agosto che “il vaccino sarà pronto per Natale 2021(non avete letto male: Natale 2021)……certo difficile prima”. Questo perché i signori di Verona, a differenza dell’Istituto Spallanzani, un po’ d’esperienza nel realizzare test clinici su candidati vaccini ce l’hanno. A meno che non ci sia un accordo secondo il quale i ricercatori di Verona provano a fare ricerca sul candidato vaccino e lo Spallanzani con l’Ufficio stampa si occupa dei comunicati e delle interviste a sostegno della vanità di qualche aspirante professore scienziato alla vaccinara. Ma il top della fantasia l’ufficio stampa Spallanzani-Reithera viene toccato lo scorso 22 settembre quando Repubblica.it annuncia che “l’Unione europea sta trattando per comprare il vaccino italiano di Reithera”. Azz! Da dove sbuca questa preziosa notizia? A Bruxelles, nessuno degli uffici competenti ha mai sentito parlare di questo scoop. Meglio chiarire prima che qualcuno per caso smentisca: una notizia uscita poche ore dopo che Dagospia sbugiardava la bufala dello Spallanzani.

Francesca Bernasconi per ilgiornale.it il 10 settembre 2020. La sperimentazione del vaccino contro il Covid-19, sviluppato da AstraZeneca in collaborazione con l'università di Oxford, ha subito uno stop. Secondo quanto ha dichiarato il ministro della Salute britannico, Matt Hancock, la pausa è dovuta ad un'imprevista reazione avversa in uno dei volontari a cui era stato somministrato l'antidoto, arrivato all'ultima fase della sperimentazione. Sui sintomi del paziente sta indagando un team di investigatori, che cercherà di capire l'eventuale correlazione tra il vaccino e la reazione imprevista nel volontario.

Le indiscrezioni. Il ministro non ha fatto cenno al tipo di problema causato al volontario, ma già nelle prime ore dopo la notizia dello stop hanno iniziato a diffondersi alcune indiscrezioni. Stando a quanto rivelato da una fonte anonima del New York Times, il partecipante alla sperimentazione, arruolato in uno studio con sede nel Regno Unito, avrebbe ricevuto una diagnosi di mielite trasversa, una sindrome infiammatoria che colpisce il midollo spinale e che spesso viene innescata da infezioni virali. Il quotidiano ha provato a chiedere ad AstraZeneca che, però, avrebbe rifiutato di commentare la situazione del volontario della sperimentazione, senza confermare la diagnosi di mielite trasversa. "L'evento è oggetto di indagine da parte di un comitato indipendente- ha spiegato la società- ed è troppo presto per concludere la diagnosi specifica".

La mielite trasversa. Se le indiscrezioni sull'infiammazione scatenata dal vaccino si rivelassero veritiere, il volontario avrebbe sviluppato la mielite trasversa. Come ha spiegato ad Agi il genetista Giuseppe Novelli, dell'Università Tor Vergata di Roma e della Fondazione Lorenzini, la mielite è "una infiammazione acuta della sostanza grigia e della sostanza bianca in uno o più segmenti adiacenti del midollo spinale, generalmente a livello toracico". Si tratta, cioè, di un'infiammazione al sistema nervoso spinale che, a seconda dell'aggressività con cui emerge, può portare anche a gravi conseguenze, come disfunzioni motorie e sensoriali o paresi. Non è ancora noto cosa possa causare questa malattia, ma il sospetto è che derivi da una reazione autoimmune, quando cioè il sistema immunitario si scatena contro i tessuti corporei, perché li percepisce come una minaccia. Nel caso della mielite, i tessuti danneggiati sono quelli del midollo spinale. Il vaccino dell'Università di Oxford potrebbe aver scatenato questo meccanismo, dato che si basa su un adenovirus di scimmia modificato per trasportare alcuni geni del coronavirus e quindi stimolare la risposta immunitaria contro il virus. "Gli adenovirus- spiega Novelli-possono innescare le proprie risposte immunitarie, che potrebbero danneggiare il paziente senza generare la forma di protezione prevista". Secondo la neurologa dell'ospedale di Yale, New Haven, "la mielite trasversa può derivare da una serie di cause che provocano le risposte infiammatorie del corpo, comprese le infezioni virali. Ma la condizione è spesso curabile con gli steroidi".

Cosa succede ora. Per il momento, in ogni caso, si tratta di ipotesi, non confermate da alcuna diagnosi certa. Inoltre, non è detto che l'"imprevista reazione avversa" sia stata scatenata dal vaccino."In questa fase, non sappiamo se gli eventi che hanno innescato la sospensione siano legati alla vaccinazione- ha spiegato la dottoressa Luciana Borio- Ma è importante che vengano indagati a fondo". Inoltre, gli esperti hanno definito come "fisiologica" la pausa alla sperimentazione del vaccino, un evento da tenere presente in questo ambito, data la delicatezza della situazione e la necessità di curare e controllare ogni aspetto delle varie fasi. "L'interruzione della sperimentazione dopo la segnalazione di un evento avverso di tipo grave è una procedura prevista- specifica Novelli- richiede un necessario approfondimento per poter stabilire se esista una causalità diretta del vaccino o indiretta, prima di continuare". per il momento, però, non è possibile sapere quanto tempo servirà per controllare l'efficacia del vaccino.

Paolo Russo per ''la Stampa'' il 10 settembre 2020. «Il time out di Astra Zeneca alla sperimentazione? Normale quando si testa un vaccino innovativo su decine di migliaia di persone. Ma in otto casi su dieci si scopre che non c'è relazione con l'antidoto e si va avanti». Rino Rappuoli, scienziato di fama mondiale, padre di tanti vaccini di nuova generazione, ad e chief scientist della Glaxo Vaccines è ottimista non solo sul vaccino, ma anche sulla cura a base di anticorpi monoclonali che sta sperimentando con successo.

«Potremmo avere entrambi in primavera per combattere il virus sul doppio fronte della cura e della prevenzione».

Lo stop di AstraZeneca, Fauci che frena sul vaccino di Moderna entro l'anno. Lei è un grande esperto in materia: avremo mai un vaccino. E se sì quando?

«Dai dati pubblicati che ho visionato confido che ne avremo più di uno. Dire quando, è molto più difficile. Quelli più avanzati sono anche i vaccini che usano tecniche più innovative. Come quello statunitense di Moderna a base di Rna sintetico, o quello di AstraZeneca e Oxford che usa un vettore per generare la risposta immunitaria. Solitamente per vaccini così innovativi occorrono 10 anni di sperimentazione. Qui ne stiamo impiegando uno. Normale che qualche ostacolo lo si incontri».

Il vaccino più promettente, quello di AstraZeneca, potrebbe dunque tagliare lo stesso il traguardo?

«Credo di sì. Quando si sperimenta un vaccino innovativo su decine di migliaia di persone è normale che possa verificarsi una reazione avversa, che magari non ha nulla a che vedere con la vaccinazione. Aspettiamo ora le analisi di controllo. Ma per mia esperienza in 8 casi su 10 si scopre che il problema non è legato al vaccino e si va avanti».

Bastano pochi mesi di sperimentazione in fase 3 per capire quanto può durare l'effetto protettivo di un vaccino?

«No, non bastano. Ma in questo momento la domanda più importante è se funzionano e sono sicuri. Poi, in caso, studieremo come estendere la copertura. Ci sono alcuni vaccini in fase ultima di sperimentazione che usano tecnologie più tradizionali a base di proteine ricombinanti che confido possano dare una immunità anche di qualche anno».

Sul vaccino assistiamo da mesi a una corsa agli annunci. Ha influito anche qualche tornaconto elettorale o in Borsa per caso?

«Una spinta di tipo nazionalistico ad accelerare i tempi c'è stata. Ma chi i vaccini poi li sviluppa sul campo ha fatto capire a chiare lettere che non ci si assume nessun rischio quando si parla di sicurezza ed efficacia».

Lei sta sperimentando la cura più promettente contro il Covid. Di cosa si tratta e come funziona?

«Stiamo utilizzando gli anticorpi monoclonali prodotti dall'uomo per creare un farmaco. Grazie all'intesa con lo Spallanzani e il Policlinico di Siena dal sangue dei pazienti convalescenti abbiamo isolato 450 anticorpi in grado di neutralizzare il virus. Poi, con tecniche sofisticate, abbiamo isolato e riprodotto sinteticamente tre super-anticorpi capaci di impedire per sei mesi la replicazione del virus, anche con piccoli dosaggi, con una semplice iniezione sottocutanea. Abbiamo stipulato già un accordo con la Menarini per produrre il farmaco».

Quando passerete a sperimentarlo sull'uomo?

«A fine anno o ai primi di gennaio. Lo somministreremo prima ai pazienti Covid così potremo vedere in tempi brevi se funziona così come gli anticorpi monoclonali hanno funzionato per tanti tipi di tumore e di malattie autoimmuni. Tanto che oggi rappresentano la metà dei fatturati dell'industria farmaceutica. Entro primavera se tutto va bene potremmo chiedere l'autorizzazione al commercio».

A questo punto arriverà prima il farmaco o il vaccino?

«Dovrebbero impiegare lo stesso tempo. E comunque non c'è una gara tra i due perché sono complementari. Il vaccino garantisce un'immunità più lunga ma produce i suoi effetti protettivi dopo circa due mesi. La terapia monoclonale azzera da subito la carica virale e serve soprattutto a guarire chi è già infetto. Serviranno entrambi».

 Secondo il nostro Istituto di fisica nucleare, calcolando anche gli asintomatici, avremmo già raggiunto un indice Rt di contagiosità di 3 contagi per ogni positivo. Rischiamo di fare la fine della Francia?

«No, se rispetteremo le regole su igiene e distanziamento. E isoleremo i positivi. Senza fare sconti sui 14 giorni di quarantena».

Stop al vaccino AstraZeneca cancella ombre di complotto, argomento in meno per i no vax. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Come si fa quando una cosa è potenzialmente pericolosa?  Facciamo conto di aver attaccato il ferro da stiro, ma di non sapere se funziona bene. La piastra potrebbe essere rovente, se ci mettiamo il dito sopra rischiamo di farlo porchettato. Allora, restando a debita distanza, esponiamo il palmo della mano parallelamente al ferro. Avvertiamo un flusso di calore? No. Ok, fase I ultimata con successo. Ora, per sentire se scotta, bisognerà toccarlo ma sempre con la massima precauzione. Un rapido passaggio del polpastrello sulla lingua e sfioriamo per un brevissimo istante la superficie. Sfrigola al contatto e fa una nuvoletta di vapore? No? Bene, fase II ultimata con successo. Conclusione provvisoria: il ferro non è né rovente e nemmeno caldissimo. Però potrebbe essere caldo… Possiamo provare a poggiare il palmo della mano sulla piastra, ma con ogni cautela. Se sentiremo che è comunque più caldo di quanto possiamo sopportare senza danno, saremo pronti a ritirarla subito. Poggiamo la mano, non pare che scotti. La lasciamo un po’… Ancora niente. Aspetta, sento qualcosa. Sì, sta arrivando adesso il calore, lentamente. Aumenta, mi pare, anche se non sono sicuro. Forse avevo io la mano calda e sento il calore che si è accumulato al contatto. Va bene, meglio non rischiare. Lasciamo stare per ora… Fase III, provvisoriamente sospesa in attesa di accertamenti. A volte si sente dire che il protocollo scientifico non è altro che la traduzione del buon senso in termini rigorosi e matematici. Forse non sempre è così, ma spesso sì. Se qualcosa è utile, ma potenzialmente dannoso, va sperimentato con calma, un passo alla volta. Solo quando ci accorgiamo che è davvero innocuo, possiamo pensare di usarlo allo scopo desiderato. Vale per il ferro da stiro e vale per i vaccini. Il vaccino dell’azienda AstraZeneca, su cui riposano le speranze italiane di arrivare primi nella corsa all’immunizzazione globale, è temporaneamente incappato in un blocco nella fase III. La fase I di un vaccino si apre quando il preparato che dovrà essere somministrato ai pazienti per stimolare la loro risposta immunitaria senza che si manifestino effetti collaterali rilevanti, è inoculato a pochi volontari. Solo qualche decina, tanto per verificare se l’azione che il preparato ha manifestato in laboratorio si ripete anche su soggetti umani, senza che insorgano effetti collaterali. Se l’esito di questi primi test è favorevole, si passa alla fase II, allargando il gruppo di soggetti che si sottopongono alla prova, da decine a centinaia. A questo punto la statistica è sufficiente per avere una prima idea sulle vere capacità del vaccino di indurre una vigorosa reazione immunitaria nell’organismo umano. Se anche la fase II va liscia, ovvero ci sono effetti indesiderati modesti e rari, accompagnati invece dalla produzione massiccia di anticorpi per il patogeno inoculato, si avvia la fase III, estesa a migliaia di volontari. Essendo adesso così numerosi, anche reazioni rare e poco probabili si manifesteranno sicuramente in qualcuno dei soggetti e si potrà valutare la reale sicurezza e innocuità del vaccino. Ed è qui che il vaccino (almeno in parte) italiano si è momentaneamente arenato. Uno dei volontari ha accusato un’infiammazione al midollo della spina dorsale. Solo uno su cinquantamila, ma anche uno su cinquantamila è comunque troppo. Il decorso dell’infiammazione non appare particolarmente preoccupante, ma non importa. Non deve accadere. Siamo in piena pandemia, un centinaio di gruppi e case farmaceutiche stanno concorrendo alla realizzazione del primo vaccino. È un affare da decine e decine di miliardi di dollari. Eppure, appena si è avuta una sola reazione avversa su cinquantamila, la corsa di AstraZeneca ha subito un pericoloso rallentamento. Amici Novax, ma dove trovate qualcuno che stia perseguendo i suoi interessi, interessi miliardari, che siccome una prova su cinquantamila è andata storta, si ferma un giro prima di ripartire? Uno su cinquantamila è lo 0,002% … Se qualcuno vi dicesse che avete una probabilità di fallire dello 0,002%, vi buttereste in quell’impresa a capofitto, scommettereste tutti i soldi che avete sul conto corrente, vi ipotechereste casa. Quando andate in macchina, la probabilità di incidente, anche grave, è enormemente più alta di una su cinquantamila. Cinquantamila giorni è più di un secolo. Quindi, è come vivere gli anni di Pippo, guidando ogni giorno, e avere un solo incidente in tutta la vita. Magari gli incidenti si verificassero una sola volta al secolo, guidando tutti i giorni! Le compagnie di assicurazione farebbero più soldi di Jeff Bezos e andare in macchina sarebbe più sicuro che stare sdraiati sul divano del salotto. Eppure anche solo una sola risposta avversa su cinquantamila è inaccettabile. Bisogna necessariamente fermarsi, capire cosa c’è che non va per poi risolvere il problema. E bisogna fermarsi comunque, anche se non si sa con sicurezza se l’infiammazione al midollo sia stata davvero provocata dal vaccino. «Post hoc ergo propter hoc?». È accaduto dopo la somministrazione del vaccino, quindi è causata dal vaccino? Non per forza. A me hanno clonato la carta di credito il giorno del compleanno. Avrei potuto pensare che fosse una forma di regalo originale, ma più probabilmente a quello interessava fare acquisti a sbafo e non festeggiarmi in modo stravagante. Allo stesso modo l’infiammazione potrebbe essere dovuta ad altre cause, magari genetiche o accidentali. Si potrebbe andare avanti con i test mentre si approfondisce il caso. Il vaccino è prioritario, l’urgenza è massima, non dovremmo fermarci per un piccolo inconveniente. Abbiamo tutte le ragioni dalla nostra parte. Ci sono oltre cinquemila morti al giorno per Covid, figuriamoci se un singolo caso dubbio, e neanche fatale, può bloccare l’avanzamento della sperimentazione. Una vittima del fuoco amico, non ha mai fermato l’avanzata di un esercito. E invece no. Pur piangendo le future vittime della pandemia, molte delle quali si sarebbero potute salvare accelerando le pratiche ed essendo un po’ più flessibili sui criteri di valutazione, bisogna fermarsi. Ci si augura solo temporaneamente, ma bisogna fermarsi. I protocolli sanitari non ammettono deroghe. Non sono un ingenuo. So bene che le industrie farmaceutiche sono aziende con fini di lucro e che perseguono il proprio profitto, ma non a qualunque costo. L’AstraZeneca era tra le aziende in pole position. Adesso invece sarà probabilmente raggiunta e superata dalla concorrenza. E, sebbene il primo che arriverà a brevettare il vaccino non riuscirà ad accaparrarsi tutto il mercato, tuttavia se ne mangerà una buona fetta. Quindi arrivare primi, o nel plotone dei primi, sarebbe vitale per ogni azienda farmaceutica. Eppure AstraZeneca deve accettare lo stop: non si passa col semaforo rosso, anche se si ha una fretta indiavolata di vincere la caccia al tesoro.

L'immunologo Cossarizza: "Stop necessario per capire se la colpa è del vaccino. Potrebbe durare mesi". Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Elena Dusi su La Repubblica.it Gli eventi avversi nella fase tre, quella con decine di migliaia di volontari, sono frequenti. Potrebbero non avere a che fare con la vaccinazione. Ma è obbligatorio che i test restino fermi fino a quando non sarà fatta completa chiarezza. "Le reazioni avverse capitano abbastanza di frequente, quando si sperimenta un vaccino. La regola in questo caso è fermarsi e capire. A seconda della gravità, lo stop potrebbe arrivare a sei-otto mesi". Andrea Cossarizza, immunologo dell'Università di Modena e Reggio Emilia fra i più impegnati nella ricerca sul Covid, proprio ieri aveva inviato alla rivista The Lancet una lettera di avvertimento, firmata insieme al collega Enrico Bucci e una dozzina di importanti ricercatori: "Nella pubblicazione dei test sul vaccino russo, abbiamo trovato dei dati ripetuti in modo sospetto, che ci fanno sospettare un "copia e incolla", o quantomeno un errore. Abbiamo quindi chiesto chiarimenti, e la possibilità di analizzare in modo indipendente i dati originali". 

Parla di una vicenda del tutto diversa rispetto ad AstraZeneca? 

"Certo, diversa. Ma stiamo correndo a rotta di collo, senza fare o quasi test sugli animali e, quel che è peggio, stiamo trasformando il vaccino in uno strumento di politica interna per alcuni paesi, e internazionale. Non è questo il metodo giusto. Si calcola che una sperimentazione su due, quando è coinvolto un grande numero di volontari, registri qualche evento avverso. In questo caso tutte le somministrazioni vengono immediatamente bloccate fino a quando non si chiarisce cosa sia successo. La regola in questo caso è fermarsi e capire. Si forma un comitato di una decina di esperti indipendenti, con la supervisione delle autorità regolatorie, e si esamina il caso. A seconda della gravità, lo stop potrebbe durare poche settimane o arrivare a diversi mesi. E' un sistema di controllo molto rigido". 

Avete delle informazioni sul volontario malato? 

"Non si sa nulla di preciso. Potrebbe essere una grave reazione locale, febbre troppo elevata o qualcosa di più grave ancora, anche se è appena arrivata la notizia che il volontario si rimetterà presto in salute. A volte accade che il problema non dipenda dal vaccino ma sia semplicemente accaduto dopo la vaccinazione per altri motivi, spesso preesistenti. Un infarto, per fare un esempio, può benissimo avvenire a prescindere dalla somministrazione di un farmaco o di un vaccino. E in questa fase dei test parliamo di numeri di volontari piuttosto grandi, 30mila solo negli Stati Uniti, per cui un evento simile non è affatto improbabile. E' essenziale però fermarsi e capire. Nel caso estremo di un decesso bisogna eseguire l'autopsia ed esami tossicologici nel modo più accurato possibile, per scavare a fondo sulle cause della malattia, che possono benissimo essere indipendenti dal vaccino". 

Sarà un ritardo importante?

"Conosciamo il coronavirus da otto mesi. Abbiamo già accelerato moltissimo. Non possiamo esagerare". 

Il vaccino di AstraZeneca e Oxford usa il metodo del vettore virale. Un virus geneticamente modificato induce il nostro corpo a produrre la proteina spike di Sars-Cov-2, stimolando il sistema immunitario. E' un metodo usato da molti altri candidati vaccini. Lo stop ritarderà anche gli altri? 

"Può darsi. Se si scoprirà che è stato proprio il metodo del vettore virale a causare problemi, anche gli altri dovranno rivedere le loro sperimentazioni. Sappiamo che si tratta di una tecnologia innovativa, che ha il pregio di stimolare un'immunità in tempi rapidi, ma che ha una storia recente nell'ambito dei vaccini". 

Anche il vaccino russo usa questa tecnica? 

"Sì, anche lì i tempi di pubblicazione dei dati sono stati rapidissimi. Troppo. Con un gruppo di colleghi abbiamo analizzato i risultati usciti su The Lancet e abbiamo trovato diverse cose che non quadravano: pochissimi pazienti arruolati, livello sierico di anticorpi completamente identico nei diversi gruppi di volontari. In mancanza dei dati di partenza, che i russi non hanno pubblicato, abbiamo deciso di scrivere una cosiddetta "note of concern", una lettera di segnalazione, a The Lancet". 

Il vaccino italiano ReiThera usa il metodo del vettore virale? 

"Sì, ma è presto per dire cosa accadrà. Bisognerà prima di tutto capire cosa è successo. Se il problema nascesse proprio dal vettore virale, abbiamo comunque dei candidati vaccini che usano tecniche più tradizionali, come il virus ucciso o la somministrazione di singole proteine di Sars-Cov-2, capaci di stimolare il sistema immunitario. In ogni caso, però, temo che l'allungamento dei tempi sia inevitabile".  

Vaccini, lo stop della AstraZeneca: la situazione in Europa. Ecco cosa succede quando c'è un "evento avverso". Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Michele Bocci su La Repubblica.it In Italia si aspettavano i primi lotti già a novembre. Il problema su uno dei volontari sul quale è stato testato il vaccino come minimo ritarderà la disponibilità. Il vaccino che AstraZeneca sta sviluppando insieme ricercatori dell'Università di Oxford con anche un contributo italiano (della Irbm di Pomezia) è il primo sul quale l'Italia e l'Europa hanno investito. C'è un contratto firmato ad agosto dalla Commissione europea con l'azienda farmaceutica per far sì che le dosi arrivino il più rapidamente possibile nei Paesi dell'Unione. Da noi si aspettavano i primi lotti già a novembre. Il verbo va usato al passato perché il problema su uno dei volontari sui quali è stato testato il vaccino come minimo ritarderà la disponibilità.

“Adesso bisogna aspettare”. Walter Ricciardi, incaricato dal ministro alla Salute Roberto Speranza di seguire proprio la questione dei vaccini anti coronavirus, spiega che adesso “bisogna aspettare. E' normale che nello sviluppo di farmaci o vaccini succedano cose di questo tipo, cioè si incontri una reazione avversa grave”. A questo punto i ricercatori devono chiarire se il volontario “ha avuto problemi a causa del vaccino o indipendentemente da questo – procede Ricciardi – Non conosciamo la natura della reazione, aspettiamo che venga fatta la verifica e si sottoponga quella persona a tutti gli accertamenti”. Dall'azienda farmaceutica fanno notare che le persone testate fino ad ora sono state 50mila.

Cosa succede quando in uno studio c'è un evento avverso. Ogni ricerca su farmaci e vaccini ha un comitato indipendente che valuta la sicurezza e quindi le reazioni avverse. Se ce n'è una anomala e non spiegabile nelle condizioni di salute precedenti del volontario su cui sono riscontrati problemi il comitato può interrompere l'arruolamento e lo studio, come in questo caso. Gli esperti ricontrollano tutte le cartelle cliniche degli altri casi testati, per cercare eventuali segnali di reazioni anche leggere che collimano con la reazione avversa più grave. In pratica si ricontrolla tutto alla luce del nuovo evento. L'intento è di capire se tra quella reazione e il vaccino c'è un rapporto di causa-effetto. Solo dopo aver escluso ogni possibile legame con la reazione avversa, la sperimentazione può riprendere. Non è facile dire quanto ritardo si può accumulare in questo caso, secondo gli osservatori si perde almeno un mese. Se il rapporto causa-effetto c'è, il passaggio successivo è quello di studiare il vaccino e vedere se la responsabilità del problema è di un elemento modificabile, cosa che permetterebbe allo studio di riprendere. Se invece quell'elemento del vaccino non si può cambiare bisogna abbandonare la sperimentazione. "I test sui vaccini, anche quelli anti Covid, nonostante l'emergenza pandemica, sono severi, rigorosi e affidabili – dice Piero di Lorenzo, ad di Irbm - Prova di questo è stata la sospensione volontaria della sperimentazione da parte di AstraZeneca del vaccino anti Covid messo a punto dal nostro istituto di ricerca Irbm assieme all'università di Oxford”.

Le dosi per l'Italia. L'Italia doveva ricevere tra le 2 e le 3 milioni di dosi come prima fornitura a novembre e somministrarle a persone a rischio, come chi svolge lavori sensibili come gli operatori sanitari. A questo punto, anche se tutto si risolverà, si slitta perlomeno a dicembre anche se si ritiene più probabile arrivare direttamente al 2021. Il nostro Paese era stato incaricato, insieme a Germania, Francia e Olanda di individuare le farmaceutiche sulle quali investire perché avevano in corso le sperimentazioni più promettenti. Alla conclusione di quel lavoro, il 14 agosto, la Commissione europea ha chiuso l'accordo preliminare con AstraZeneca per “l'acquisto di un potenziale vaccino contro la Covid-19 anche al fine di donarlo a Paesi a reddito medio-basso o ridistribuiro ai Paesi dello spazio economico europeo”. La Comissione si è spiegato a suo tempo “ha concordato un quadro contrattuale che permetterà, non appena siano dimostrate la sicurezza e l'efficacia del vaccino, l'acquisto per conto degli Stati membri dell'Ue di 300 milioni di dosi, con un'opzione di altri 100 milioni”. Il prezzo sarebbe di circa 2,5 euro a dose.

Altri in campo se AstraZeneca si ferma. “Una brutta tegola”, dicono adesso gli esperti. Il vaccino di AstraZeneca è in fase III di sperimentazione ed era considerato quello più vicino alla fase produttiva e quindi alla distribuzione. L'azienda inglese però non è l'unica ad essere al terzo livello della ricerca. Ci sono altri sei vaccini nella stessa situazione sui quali il nostro Paese e l'Europa si stanno concentrando per chiudere nuovi accordi. A svilupparli sono aziende come Pfizer, Sanofi, Janssen, CureVac. Si valutava di fare contratti con alcuni di questi produttori comunque, per avere a disposizione più vaccini. Se AstraZeneca non riuscirà ad arrivare in fondo sarebbero questi i candidati a diventare il primo fornitore del nostro Paese. Riguardo al vaccino tutto italiano di Reithera e Spallanzani di Roma, il nostro Paese lo ha segnalato all'Unione europea come potenzialmente molto utile ma la sperimentazione è ancora nella fase I quindi è troppo presto perché venga preso in considerazione a livello continentale.

AstraZeneca sospende i test clinici sul vaccino: “Reazione avversa”. Notizie.it l'08/09/2020. L'azienda AstraZeneca ha sospeso tutti i test sul vaccino anti coronavirus a causa della reazione avversa da parte di un volontario. AstraZeneca ha annunciato la sospensione temporanea dei test clinici del vaccino anti coronavirus sviluppato dall’Università di Oxofrd a causa della reazione avversa mostrata da uno dei volontari britannici dopo la somministrazione. Ad annunciarlo è la stessa società, che ha già iniziato a produrre le dosi da tempo, sottolineando che lo stop è un’azione di routine che si adotta durante i test nel caso ci si trovi davanti a un’inspiegata reazione. Non è chiaro di quale natura sia quest’ultima ma il trial non dovrebbe comunque essere in pericolo: la sospensione, ha continuato l’azienda, si è resa utile per assicurare l’integrità del processo dei test. “Nei test più ampi reazioni possono accadere per caso ma devono essere valutate con attenzione“, hanno spiegato dal colosso. Dopo l’annuncio della sospensione AstraZeneca è calata del 6% a Wall Street nelle contrattazioni after hours. Quello sviluppato ad Oxford era uno dei candidati vaccino maggiormente sotto osservazione. I test iniziali si erano rivelati molto promettenti e lo strumento si era mostrato in grado di produrre una forte risposta immunitaria e soltanto deboli effetti collaterali. La terza e ultima fase stava coinvolgendo non solo la Gran Bretagna ma anche il Brasile e il Sud Africa, ma ora tutto rimarrà sospeso in attesa di studiare e approfondire la reazione avversa. L’Italia stessa aveva infatti stipulato un contratto per la vendita di milioni di dosi che, secondo il ministro Speranza, sarebbero potute arrivare già alla fine del 2020 per somministrarle alle categorie più fragili.

Vittorio Sabadin per lastampa.it l'11 settembre 2020. Dopo la sospensione della sperimentazione del vaccino AstraZeneca-Oxford per la reazione di rigetto di una volontaria, c’è un altro ostacolo sulla strada della ricerca di un rimedio al Covid-19. Ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università di Nanchino hanno scoperto che gli anticorpi prodotti dall’organismo di soggetti guariti decadono dopo un solo mese, rendendo possibile un nuovo contagio. La ricerca condotta dall’università cinese conferma i dati di un analogo esperimento del King’s College di Londra: in 60 soggetti su 96 esaminati, la risposta degli anticorpi si era rivelata particolarmente efficace all’apice dell’infezione, ma tre mesi più tardi era risultata significativa solo nel 17% dei casi. A Nanchino gli scienziati hanno esaminato 26 pazienti per sette settimane. Di questi, 19 erano in condizioni non gravi e sette erano invece a rischio. Uno su cinque non ha generato anticorpi e pochi lo hanno fatto in modo significativo. Ma tre-quattro settimane dopo essere stati dimessi dall’ospedale tutti quelli che avevano sviluppato anticorpi hanno mostrato un declino importante. “Studi come questi – ha detto Danny Altmann, docente di Immunologia all’Imperial College di Londra – sono una componente vitale dello studio su chi ha un’immunità e per quanto tempo. Ancora una volta, la sperimentazione dimostra che la vita di questi anticorpi nel sangue non è particolarmente duratura”. La ricerca cinese e quella britannica, se saranno confermate da altri test, pone una serie di interrogativi sulla futura efficacia del vaccino sul quale si ripongono così tante speranze per chiudere il capitolo della pandemia da Covid-19. Molti scienziati ritengono tuttavia che sia ancora presto per trarre conclusioni. Esistono infatti due tipi di reazioni immunitarie: quella prodotta dall’organismo umano, che reagisce allo stesso modo quando un intruso lo minaccia, e quella invece “adattativa”, costituita dalle cellule B e T che memorizzano le caratteristiche di un agente patogeno anche per tutta la vita. Quando l’intruso si ripresenta, le cellule B e T sono in grado di comunicare al sistema immunitario qual è il modo migliore per sconfiggerlo, invece di sparare proiettili a caso come l’organismo fa quando si trova davanti a un virus sconosciuto. Un soggetto potrebbe avere un basso livello di anticorpi, ma le sentinelle B e T potrebbero essere pronte a scatenare la reazione immunitaria se già conoscessero l’intruso. Questo processo di immunità “adattiva” richiede un po’ di tempo per la messa a punto. Tutte le reazioni immunitarie dell’organismo perdono efficacia con il passare dei mesi e le stesse vaccinazioni divenuto ormai pratica comune devono in molti casi essere ripetute dopo un certo lasso di tempo. Quella contro il raffreddore, un altro coronavirus, va fatta ogni anno. Il calo della risposta immunitaria di per sé non significa dunque il fallimento della ricerca sui vaccini. Ma bisogna tenerne conto per sviluppare un rimedio che sia efficace sul lungo periodo e che non ci riporti dopo pochi mesi al punto di partenza dopo essere costato altri miliardi ai servizi sanitari nazionali. 

Da leggo.it il 12 settembre 2020. Buone notizie per il vaccino elaborato dall'Università di Oxford, insieme alla multinazionale AstraZeneca e al centro di ricerca di Pomezia, Irbm. Una commissione indipendente di esperti, nel Regno Unito, ha dato il via libera alla ripresa della sperimentazione. Come si ricorderà nei giorni scorsi c'era stata un sospensione perché uno dei 50mila volontari aveva sviluppato una reazione sospetta, un'infiammazione spinale. La verifica eseguita dal comitato tecnico indipendente ha appurato che non vi è collegamento con il vaccino e dunque la sperimentazione può ripartire. Si tratta del vaccino sul quale l'Italia, insieme ad altri paesi europei, ha investito più risorse con la speranza di avere le prime dose, per alcune categorie di cittadini, già a novembre. La sospensione della sperimentazione aveva alimentato il pessimismo, la svolta di oggi sembra andare nella direzione dell'ottimismo, anche la prudenza è sempre necessaria.

Mariolina Iossa per il Corriere della Sera il 12 settembre 2020. Si mantiene stabile la curva del contagio. Ieri a fronte di circa 6 mila tamponi in meno (92.706 in 24 ore, il giorno prima 98.880) i contagiati positivi in più sono stati 1.501, in calo rispetto a venerdì quando si erano registrati 1.616 casi. Diminuisce il numero di morti (6 le vittime, il giorno prima erano state 10), aumentano i ricoverati con sintomi (ieri 1.951, 102 in più rispetto a venerdì quando l' aumento era stato più contenuto, +58) e delle terapie intensive (182, 7 in più rispetto al giorno prima). Una buona notizia però arriva dalla Gran Bretagna: i test clinici del candidato vaccino anti-Covid messo a punto dall' Università di Oxford che l' azienda farmaceutica AstraZeneca sta sviluppando anche con il contributo dell' Istituto di ricerca Irbm di Pomezia, possono continuare. Il via libera al proseguimento della sperimentazione in Gran Bretagna è arrivato dopo la sospensione precauzionale per una «reazione avversa» in uno dei 50 mila volontari che stanno testando il vaccino. «È una buona notizia - ha commentato il ministro della Salute Roberto Speranza - ma serve ancora tanta prudenza. La scienza è al lavoro per dare al mondo cure e vaccini efficaci e sicuri. Nel frattempo la vera chiave continuano ad essere i comportamenti di ciascuno di noi». Non sempre improntati alla precauzione, stando almeno a quanto accaduto all' ospedale «Santi Antonio e Biagio» di Alessandria, dove un medico positivo al coronavirus è ricoverato nello stesso ospedale dove avrebbe lavorato pur avendo la febbre a 38,5. Ha contagiato 4 infermiere. Il caso, su cui l' ospedale ha avviato un' indagine interna, è ancora da chiarire. Sembrerebbe che il medico pensasse di avere solo un po' di influenza. Intanto, tornando al bollettino del ministero della Salute, sono Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria e Campania le regioni con il maggior numero (a tre zeri) di nuovi casi. E nessuna regione, ieri, era a contagio zero in 24 ore. Il virus continua a circolare in tutto il Paese, e ci sono ancora molti italiani che hanno scelto questo settembre per andare in vacanza, complici le belle giornate. L' assessore alla Sanità sardo Mario Nieddu ha chiarito ieri, a proposito dell' ordinanza del presidente della Sardegna Christian Solinas, che per chi arriva sull' isola «non c' è l' obbligo di presentarsi all' imbarco con una certificazione di negatività perché nell' ordinanza si parla solo di un invito, c' è però l' obbligo di sottoporsi a tampone molecolare o antigenico in Sardegna entro 48 ore dallo sbarco se non si è esibita la certificazione richiesta». E ha concluso: «Il provvedimento impone l' isolamento fiduciario sino all' esito del tampone».

Maria Rosa Tomasello per la Stampa il 14 settembre 2020. Basta una battuta di Piero Di Lorenzo, presidente della Irbm di Pomezia, per capire quali aspettative si concentrino sul lavoro che il centro di ricerca italiano sta facendo per mettere a punto il vaccino anti-Covid19: «Con il presidente Conte ci siamo visti e sentiti, con il suo capo di gabinetto Goracci e con il suo consigliere giuridico Recinto possiamo dire che siamo "fidanzati in casa"» scherza.  Nella sede del parco scientifico che sorge a 30 chilometri da Roma dove è stato messo a punto il vettore, una sorta di "shuttle" che trasporta nell' organismo il gene depotenziato della proteina spike, anima nera del coronavirus, si sono visti i ministri della Salute Speranza e della Ricerca Manfredi. Da un mese qui si lavora con Merck&Co anche a un farmaco che inibisca tutti i coronavirus, ma l' attesa è ora per il rush finale della sperimentazione del vaccino prodotto dalla multinazionale AstraZeneca, di cui l' Italia ha prenotato 70 milioni di dosi, dopo lo stop innescato da una presunta risposta avversa in un volontario inglese.

La sperimentazione è ripartita in fretta...

«Non abbiamo fatto neppure in tempo a fermarci: tutto si è risolto in 24 ore con la commissione scientifica indipendente che ha stabilito che la reazione non dipendeva dal vaccino. Stiamo parlando di una fase clinica in "doppio cieco", in cui né gli scienziati né i vaccinati sanno se hanno ricevuto il vaccino o il placebo. Non si può escludere dunque neppure che l' infiammazione spinale si sia verificata per cause naturali in un soggetto trattato con placebo».

Quindi possiamo dire che nei 50 mila volontari su cui è in corso la sperimentazione non si sono registrate fino a oggi reazioni avverse?

«Esatto. Se nella fase 1 e 2 si vaccinano soggetti sani, nella fase 3 si reclutano anche persone con patologie a volte severe quindi è assolutamente fisiologico che si registrino criticità: 50 mila persone sono un capoluogo di provincia, sarebbe fantascienza. Il protocollo in questo caso prevede che si sottoponga il problema all' agenzia regolatoria, l' Ema a livello europeo, mentre si continua la sperimentazione. AstraZeneca ha ritenuto di dare pubblicità all' accaduto e, fatto non dovuto, a scanso di equivoci, ha bloccato il reclutamento in Gran Bretagna e Brasile».

Quali sono ora i tempi? Il ministro Speranza parla di vaccino entro novembre...

«Come ha detto il presidente di AstraZeneca Pascal Soriot può tranquillamente arrivare a distribuzione entro fine anno se non si verificano altri eventi. L' ipotesi novembre è tuttora in campo, incrociando le dita, aspettiamo con cauto ottimismo».

Nessuna delle big-pharma in campo però ha presentato domanda all' Ema, l' Agenzia europea del farmaco, per attivare la procedura velocizzata di valutazione. Perché?

«Sì, ma tutte tengono costantemente informate gli enti regolatori di ogni passo della sperimentazione dei candidati vaccini. Quindi alla fine potranno arrivare all' approvazione in una settimana o anche meno».

Per arrivare al risultato si marcia a tappe forzate, ma c' è chi teme che questa velocità possa avere conseguenze sulla sicurezza del vaccino...

«Quando è stato messo a punto il vaccino anti-Ebola per trovare i volontari c' è voluto un anno, in questo caso sono bastate tre ore. Con la pandemia tutti i tempi burocratici sono stati tagliati».

Che risultati sta dando?

«Quelli pubblicati su Lancet. Una forte risposta immunitaria e una produzione importante di linfociti, esattamente quello che un vaccino deve fare. Un risultato anche migliore delle nostre aspettative».

Lei vaccinerebbe i suoi figli?

«Ho una figlia che lavora in azienda con il marito, e hanno due bambini. Appena il vaccino sarà validato saranno tutti vaccinati».

Quante dosi saranno distribuite in Italia?

«L' Europa ne ha ordinato 300 milioni di dosi e opzionate 100 milioni, che dovranno essere distribuite entro giugno 2021, e sarà la Commissione europea man mano che arrivano a distribuirle in base alla percentuale della popolazione. L' Italia ne ha ordinate 70 milioni. Di questi i primi 2-3 milioni arriveranno entro fine anno».

Dove sarà prodotto quello distribuito in Europa?

«In Germania. Noi siamo un istituto di ricerca e fino a oggi abbiamo prodotto le dosi necessarie per la sperimentazione, ma se necessario saremo a disposizione per contribuire ad accelerare la produzione».

Quanto costerà?

«Due euro e mezzo a fiala, il prezzo industriale all' osso, secondo la policy messa in campo dal primo momento di non far pagare nulla oltre i costi industriali durante il periodo dipandemia».

Sette vaccini in fase 3: chi batterà tutti sul tempo?

«Non c' è concorrenza, e sono vaccini di tipo diverso. Ci sarà mercato per tutti, un mercato sterminato che ha 8 miliardi di potenziali acquirenti. La nostra è una corsa con i vaccini occidentali, quelli russi e cinesi non hanno le nostre regole stringenti. Ma sarebbe una ipocrisia dire che non spero di arrivare al risultato prima degli altri».

Putin annuncia: “La Russia ha il primo vaccino, testato su mia figlia”. Redazione su Il Riformista il 11 Agosto 2020. La corsa al vaccino è aperta nei laboratori di tutto il mondo. Ma potrebbe essere che stavolta la “bandierina sulla luna” la mette la Russia. Il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che un vaccino contro il coronavirus sviluppato nel suo Paese è stato registrato per l’uso e a una delle sue figlie è già stata inoculato e si sente bene. Parlando a una riunione del governo oggi, Putin ha affermato che il vaccino è stato sottoposto ai test necessari e si è dimostrato efficace, offrendo un’immunità duratura dal coronavirus. “Stamattina per la prima volta al mondo un vaccino contro la nuova infezione da coronavirus è stato registrato”, ha affermato Putin. La fase 3 dei test clinici è iniziata la settimana scorsa. Anche a una delle sue figlie è stato somministrato il vaccino sperimentale russo contro il Covid-19 e sta bene. Lo riporta la Tass. Secondo il presidente russo, sua figlia, dopo la prima dose ha avuto la febbre a 38, che il giorno dopo è scesa poco sopra i 37 gradi. “Poi, dopo la seconda dose, ha avuto di nuovo una leggera febbre, e dopo tutto tutto era a posto, si sente bene e ha un alto numero di anticorpi”. Le autorità russe hanno affermato che operatori sanitari, insegnanti e altri gruppi a rischio saranno i primi ad essere vaccinati. La Russia è il primo Paese a registrare un vaccino contro il coronavirus. Molti scienziati nel Paese e all’estero sono stati tuttavia scettici, mettendo in dubbio la decisione sulla registrazione dello stesso prima delle sperimentazioni di fase 3 che normalmente durano mesi e coinvolgono migliaia di persone. Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che la vaccinazione deve essere effettuata “a condizioni assolutamente volontarie” in modo che tutti coloro che lo desiderano possano “sfruttare le conquiste degli scienziati russi”. Lo riporta la Tass. Putin si aspetta poi che la Russia inizi la produzione di massa del vaccino contro il coronavirus “nel prossimo futuro”. “So che altre istituti stanno lavorando su vaccini simili in Russia. Auguro successo a tutti gli specialisti. Dovremmo essere grati a coloro che hanno fatto questo primo passo estremamente importante per il nostro Paese e per il mondo intero”, ha concluso Putin.

Esperti mondiali su Nature, vaccino russo avventato. Anche direttrice associazione russa studi clinici, pochi dati. Da "Ansa" il 12 agosto 2020. Avventata, sconsiderata e basata su pochi dati: così esperti e ricercatori di tutto il mondo, intervistati dalla rivista Nature, valutano la registrazione del vaccino russo anti-Covid, annunciata ieri dal premier Vladimir Putin. Preoccupa soprattutto la sicurezza poiché non c'è stata una sperimentazione su larga scala. Per Francois Balloux, dello University College di Londra, "è una decisione avventata e incosciente. Fare vaccinazioni di massa con un vaccino non testato adeguatamente non è etico", mentre per Svetlana Zavidova, capo dell'Associazione delle organizzazioni per gli studi clinici in Russia, è "ridicolo dare l'autorizzazione sulla base di questi dati".

Da ansa.it il 17 agosto 2020. La Cina ha dato la sua prima approvazione a un possibile vaccino contro il Covid-19: è l'Ad5-nCoV, sviluppato da CanSino Biologics con l'Istituto di biotecnologia dell'Accademia delle scienze mediche militari.  Il via libera spiana la strada alla possibile produzione di massa in tempi rapidi nel caso di un ritorno della pandemia, ha spiegato precisato la China National Intellectual Property Administration, citata dal network statale Cctv. L'approvazione, ricevuta l'11 agosto scorso ma resa nota solo ora, "è un'ulteriore conferma dell'efficacia e della sicurezza" del prodotto messo a punto, ha detto in una nota il gruppo di Tianjin, i cui titoli hanno intanto registrato cospicui rialzi in Borsa.

La Cina brevetta il suo vaccino prodotto dall'azienda CanSino. Pubblicato lunedì, 17 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il vaccino cinese di CanSino ha ottenuto un brevetto ufficiale a Pechino. E’ uno dei candidati allo stadio più avanzato, con dei buoni dati pubblicati alcune settimane fa sulla rivista medica The Lancet e una sperimentazione di fase tre – quella conclusiva – in corso sia in Cina che in Canada, Russia, Brasile, Cile e Arabia Saudita. L’azienda biotech ha lavorato con l’Accademia militare delle scienze mediche e ha annunciato la somministrazione del vaccino su tutti i soldati dell’Armata Rossa a partire dal 25 giugno. Il vaccino di CanSino usa il metodo del vettore virale, anche detto del “cavallo di Troia”. Un virus della categoria degli adenovirus (quelli che causano il raffreddore) viene reso inoffensivo poi iniettato nell’uomo, dove inizia a infettare le nostre cellule. Al suo interno contiene un frammento di Dna aggiunto in laboratorio, che ordina alle nostre cellule di produrre la proteina spike di Sars-Cov-2: la punta della corona del coronavirus. La spike è innocua per il nostro organismo, ma è sufficiente a stimolare il sistema immunitario, come hanno dimostrato le fasi uno e due delle sperimentazioni di CanSino. La memoria immunitaria immagazzinerà fra i suoi “ricordi” quello della spike. Se e quando entreranno in contatto con Sars-Cov-2, le nostre difese saranno così pronte a scattare in modo efficiente. L’uso di un adenovirus umano lascia perplessi alcuni: il sistema immunitario li ha incontrati e ne conserva memoria in circa metà degli individui. Le nostre difese potrebbero dunque contrastare l’infezione delle cellule da parte dell’adenovirus, rendendo inefficace il vaccino. Gli Stati Uniti, che sarebbero un ottimo terreno per la sperimentazione perché i suoi cittadini hanno un basso livello di immunità contro l'adenovirus usato da CanSino, non hanno dato il via libera alla sperimentazione a causa dell'ostilità fra i due governi. Il vaccino oggi è considerato un bene di importanza strategica assoluta. Chi lo otterrà per primo, potrà limitare i danni della pandemia e riavviare la vita economica e sociale del paese. Per ovviare al problema dell'immunità da adenovirus, il vaccino di Oxford e quello di Johnson&Johnson ne usano uno proveniente dello scimpanzé, a noi sconosciuto. L’azienda italiana ReiThera si è orientata invece verso un adenovirus dei gorilla. Ma ci si attende che nessuno dei circa 200 vaccini allo studio (una decina in sperimentazione sull’uomo) offra una protezione al 100% dal contagio, se non dai sintomi. La messa a punto di tante strategie diverse viene considerata un punto di forza della nostra lotta contro l’epidemia. Il brevetto, secondo un reportage della televisione nazionale cinese Cctv, permetterà la produzione del vaccino su larga scala. Secondo l’azienda che ha sede a Tianjin, che ha registrato un grosso balzo in borsa (sul mercato di Hong Kong il valore delle sue azioni è triplicato dall'inizio dell'anno), è “un’ulteriore prova della sua efficacia e sicurezza”. La Cina spinge molto per accelerare la sperimentazione. Oltre a CanSino, Pechino ha in corso un’altra sperimentazione nelle fasi finali sull’uomo, con il candidato prodotto dall’azienda Sinovac. A differenza del vaccino annunciato dal presidente russo Vladimir Putin la settimana scorsa, chiamato Sputnik V e dato come pronto all’uso generale nella popolazione, i ricercatori cinesi hanno pubblicato i loro dati su riviste scientifiche qualificate. Ma il nazionalismo resta un rischio concreto: l'azienda di Tianjin, che in passato ha messo a punto anche un vaccino contro Ebola, non lo ha mai distribuito al di fuori dei suoi confini nazionali. 

Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 13 agosto 2020. La Russia brucia tutti e si proclama vincitrice nella corsa al vaccino contro il Covid. Vladimir Putin ha annunciato al mondo che Mosca ha registrato il primo storico vaccino contro il nuovo virus Sars-Cov-2 e che presto inizierà la produzione di massa e quindi la somministrazione. Una grande conquista, un primato internazionale: così il Cremlino ha raccontato l'avvenimento. E giusto perché fosse chiara la portata del grande trionfo geopolitico ha battezzato il nuovo vaccino Sputnik V, paragonandolo senza mezzi termini a un indimenticabile successo sovietico come il lancio del primo satellite nello spazio, il leggendario Sputnik. Eppure c'è chi solleva qualche dubbio sul nuovo vaccino. Naturalmente tutti sperano che sia efficace come ha assicurato Putin, annunciando che anche una delle sue figlie si è vaccinata. Ma il punto è che il nuovo vaccino è stato registrato dopo meno di due mesi di sperimentazione sull'uomo e la terza e ultima fase dei test clinici, che normalmente dura mesi e coinvolge migliaia di persone, non è ancora terminata. Il sospetto insomma è che, pur di battere tutti, Putin abbia accorciato troppo i tempi e questo ha suscitato perplessità tra gli scienziati. Per di più non ci sono ancora risultati pubblicati e verificati a livello internazionale sui test del vaccino sviluppato dall'Istituto Gamaleya di Mosca. Russia, Usa, Cina, India, Europa, tutte le superpotenze rincorrono il vaccino. Non è solo una questione di prestigio. Si insegue un vantaggio geopolitico che va dalla stabilità interna al rilancio graduale dell'economia. Ma avere un vaccino significa anche rafforzare i legami con tutti quei Paesi che saranno disposti a produrre l'antidoto o a comprarlo per metterlo a disposizione dei propri cittadini. «Abbiamo ricevuto richieste per l'acquisto di oltre un miliardo di dosi da 20 Paesi», hanno subito precisato da Mosca, che col vaccino punta anche a ridurre la dipendenza dall'Occidente. La corsa al vaccino può cambiare insomma gli equilibri mondiali e non per niente gli Usa hanno accusato Russia e Cina di voler carpire i segreti dei ricercatori americani servendosi dei loro hacker. A parte la Russia, che si è già piazzata da sola sul gradino più alto del podio, al momento la gara è un testa a testa tra Cina e Stati Uniti. Pechino sta portando avanti ben 15 dei 44 studi in corso a livello mondiale e due di essi sono in fase 3: quello di Sinovac e quello dello Henan Provincial Center. Ma anche la Cina ha fretta: ha già autorizzato un vaccino per il suo esercito e pare voler bruciare le tappe come la Russia. Gli Usa seguono a ruota Pechino con otto ricerche, la più avanzata è quella di Moderna, già al terzo e ultimo stadio dei test clinici. In Gran Bretagna si conducono cinque studi e il più promettente è sviluppato dall'università di Oxford e da Astrazeneca con il contributo dell'Italia, che sta anche testando allo Spallanzani di Roma il vaccino sperimentale di Reithera. In India, il Serum Institute, la più grande istituzione al mondo per volume di produzione dei vaccini, ha annunciato un accordo con l'alleanza internazionale Gavi Alliance per produrre oltre 100 milioni di dosi di un futuro vaccino non appena ci sarà l'ok dell'Oms. Secondo il segretario alla Salute Usa Alex Azar, «il punto è avere un vaccino sicuro per gli americani e per il mondo, non essere i primi». Eppure pare che anche Trump voglia fare presto e sogni un vaccino contro il Covid poco prima delle presidenziali in modo da recuperare qualche punto dopo la pessima gestione dell'epidemia.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 13 agosto 2020. Sputnik V. È il nome del vaccino anti-Covid 19 che gli scienziati russi hanno scoperto. Parola di Vladimir Putin. Presidente della Federazione che ha aggiunto: «A mia figlia è stato somministrato». Insomma un certificato di garanzia, questo il messaggio sottotraccia dell'inquilino del Cremlino, sulla validità del prodotto. A ciò si aggiunga la scelta del nome, che non nasconde affatto le ambizioni da superpotenza di Mosca. Dal momento che gli Sputnik furono i primi satelliti artificiali inviati dall'Urss in orbita, battendo la concorrenza Usa e incassando un primato mondiale nella corsa allo spazio. In questo caso si sarebbe vinta la corsa al vaccino. Il condizionale è d'obbligo. E infatti al di là degli obiettivi strategici perseguiti da Putin, ciò che rileva per la comunità scientifica internazionale e se il vaccino, realizzato dall'istituto Gamaleya, sia realmente efficace: Funziona o non funziona? Nessuna via di mezzo. L'Oms ha sollevato i primi interrogativi: «Dovrà essere sottoposto a rigorosi esami e valutazioni, richiesti per la sicurezza e l'efficacia prima di ottenere la nostra approvazione», ha spiegato il portavoce dell'Oms, Tarik Jasarevic. Più severa la valutazione di Walter Ricciardi consulente del ministero della Salute e professore ordinario d'Igiene e medicina preventiva. «Non è una notizia che può essere presa in considerazione dalla comunità scientifica», taglia corto.

GLI SCIENZIATI ITALIANI. Il motivo Ricciardi lo spiega subito: «non è stata realizzata una pubblicazione, non sappiamo i nomi dei ricercatori, non sono stati consegnati dei dati concreti che attestino lo stato dell'arte di questa sperimentazione». Ma c'è di più, perché secondo il consulente del Ministro Roberto Speranza lo stesso presunto vaccino russo non avrebbe superato, nemmeno in Patria, le tre fasi che poi lo rendono sicuro e quindi commercializzabile. «Penso abbia superato la fase 2, non credo ancora la fase 3. Ovvero quella in cui si attesta che non sia nocivo alla salute». Meno severo nell'analisi è invece Roberto Cauda ordinario di Malattie infettive all'Università Cattolica e direttore dell'Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma. Con Ricciardi condividono la stima per i colleghi russi «di valore assoluto, non c'è dubbio». Poi Caudo precisa: «Si potrà avere una risposta definitiva solo dopo che il vaccino verrà approvato da enti regolatori internazionali e di altri Paesi, e non solo da quello russo anche se questo è già un primo passo». Il medico e professore indica poi quelli che possono essere i problemi teorici, ne individua tre, a cui può andare incontro un qualsiasi nuovo vaccino in fase di studio. In primo luogo «dal momento che la Sars-CoV-2 è un nuovo virus non sappiamo quale potrà essere la durata dell'immunità garantita dal vaccino. Quanto dureranno questi anticorpi 1, 2, o 5 anni?». E ancora: «bisogna verificare che gli anticorpi prodotti siano veramente proteggenti». L'ultimo aspetto: «questo virus finora non è mutato ma potrebbe andare incontro a mutazioni, tutto ciò potrebbe rappresentare un problema, gli anticorpi prodotti non sarebbero più efficaci».

CORSA ALLA CURA. Insomma la comunità scientifica attende di avere informazioni chiare. Di certo il fatto che lo abbia testato la figlia di Putin non è per forza sinonimo di garanzia. Anche perché il presidente russo non ha mai confermato i nomi delle due figlie, né la loro età, o il loro lavoro. Ad ogni modo dovrebbe trattarsi di Maria Vorontsova, una endocrinologa. «La temperatura dopo la prima dose è salita a mia figlia a 38 gradi per un giorno - ha spiegato Putin - poi è tornata a 37». Questo sarebbe l'unico effetto collaterale. Il ministero della Salute russo ha fatto sapere che a settembre verrà realizzata, in Patria, la «distribuzione a medici, infermieri e insegnanti, e al resto del Paese dal 1 gennaio». Intanto «oltre un miliardo di dosi» sono state pre-ordinate da 20 governi stranieri fanno sapere da Mosca. Per adesso solo 4/5 i vaccini al mondo, su 160, sono entrati o stanno entrando nella fase finale di sperimentazione, la terza: AstraZeneca (azienda svedese con progetto realizzato all'Università di Oxford e il vettore virale prodotto all'Irbm di Pomezia), Moderna (che collabora con i National Institutes of Health Usa), BioNTech/Pfizer (accordo industriale Usa-Germania), CanSino (società cinese) e il Reithera (azienda biotecnologica italiana) in sperimentazione all'Istituto nazionale di malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, dove il 24 agosto partiranno i primi test dal momento che sono stati selezionati 90 volontari. In 3000 si sono candidati. Il rush finale è appena iniziato.

Crisanti scettico su vaccino russo: "Fatto con scorciatoie". Il virologo e genetista Andrea Crisanti è scettico sul vaccino entro l'anno: "Servono tempi di sperimentazione molto lunghi". Rosa Scognamiglio, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale.  Un vaccino contro il coronavirus entro la fine del 2020? "Si tratta di una cosa seria, molto complessa. Servono tempi lunghi". A dirlo è il virologo Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Ospedale universitario di Padova, nel corso di un intervento al programma televisivo 'In Onda', sul La7. L'antidodo al Covid-19 potrebbe essere già pronto o, almeno, queste sono le ''buone notizie'' che giungono dalla Russia. Nella giornata di martedì 11 agosto, il presidente Vladimir Putin ha annunciato la sperimentazione di 'Sputnik V', il "primo vaccino al mondo contro il Coronavirus'' sviluppato dall'Istituto Gamaleya di Mosca e finanziato dal fondo sovrano RDIF. Scettico al riguardo il professor Crisanti che commenta duramente l'indiscrezione: "Lo hanno fatto con molte scorciatoie. - dice in accordo con il resto della comunità scientifica italiana - Ma più scorciatoie si prendono, più aumentano il rischio che il vaccino non sia efficace oppure che crei effetti collaterali. E quindi diventerebbe un’arma formidabile per tutti quelli che si oppongono al vaccino. Nella maggior parte dei casi i vaccini non hanno effetti collaterali, ma in alcuni casi sì. Ci sono stati vaccini che sono stati ritirati proprio per una sperimentazione inadeguata". Il virologo spiega poi tutte le fasi della sperimentazione di un vaccino: dai primi test di laboratorio sulle cavie animali a quelli che coinvolgono l'uomo. "È uno studio che viene condotto nella fase 3. Perché non abbia nessun effetto collaterale per fascia di età, per sesso, per etnia, per patologie sottostanti, va testato su decine e decine di migliaia di persone. -spiega -Poi bisogna dimostrare che il vaccino induca la produzione di anticorpi, bisogna verificare che rimangano per mesi e che siano in grado di neutralizzare il virus in laboratorio. Successivamente bisogna dimostrare che le persone vaccinate hanno una probabilità di ammalarsi inferiore a quelle non vaccinate, a parità di trasmissione del virus. Capite bene che queste fasi richiedono tempi molto lunghi".

Fermo sulle sue posizioni, Crisanti frena gli entusiasmi facili di chi spera nell'arrivo di un vaccino entro l'anno. "Rendere obbligatorio un vaccino anti-covid? Solo se ha passato tutte le fasi di controllo, perché si tratta di una grandissima responsabilità politica, ma soprattutto etica e morale. Guardate che finora non è stato pubblicato nessun dato su questi vaccini. Questa è una cosa su cui dobbiamo riflettere. Ci vogliono anni per sviluppare vaccini con cui conviviamo da millenni. Adesso per un virus che conosciamo da pochi mesi – conclude – vogliamo sviluppare un vaccino in un anno? Solo per il vaccino anti-ebola, che è stato quello sviluppato più velocemente, ci sono voluti tre anni e mezzo, ma solo per una serie di circostanze estremamente fortunate. Il vaccino russo? Non dico che sia tarocco, ma penso che esista questa politica di annunci prevalentemente motivata da interessi politici. Si vuol dimostrare che si fa qualcosa e si desidera tranquillizzare l’opinione pubblica. E’ giusto investire nei vaccini, ma non credo che sia giusto illudere la gente".

Dubbi su Sputnik, il vaccino russo che fa arrabbiare gli americani: testato solo su 150 persone. Riccardo Amati su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Il vaccino c’è, parla russo e poco importa se non ha completato la sperimentazione clinica standard: «È estremamente efficace, induce una forte immunità. Ha passato i test che servivano. E lo ha provato anche mia figlia», ha detto Vladimir Putin in diretta tivù annunciando la vittoria in una gara globale che evidentemente a Mosca è stata vissuta come la corsa allo spazio col lancio del satellite Sputnik, il cui inatteso “bip-bip” nell’ottobre del ’57 fece tremare l’Occidente. Infatti il vaccino l’hanno chiamato proprio “Sputnik V”. E lo sfruttamento propagandistico del risultato ha toni kruscioviani, o addirittura da sbarco sulla Luna: «Un primo grande passo per il nostro Paese e in generale per il mondo», ha chiosato il Presidente. A cui una botta di popolarità non può che giovare, visto che i suoi rating sono ai minimi di sempre. Il problema è che sull’efficacia e sulla sicurezza di questo vaccino ci sono parecchi dubbi. L’agenzia del farmaco russa lo ha già approvato. È la prima autority farmacologica al mondo a dare il via libera a un prodotto del genere. Dopo l’estate inizieranno ad essere vaccinati i medici, gli infermieri, gli insegnanti e gli appartenenti alle altre categorie a rischio, rende noto il governo. Dal 1° gennaio, il prodotto sarà disponibile per tutti. In teoria è un’ottima notizia: con 900mila casi, la Russia è il quarto paese maggiormente colpito dalla pandemia. E poi c’è l’export: 20 Paesi di Asia, Medio Oriente e America Latina si son già fatti avanti, ha detto il capo del Fondo sovrano d’investimenti russo Kirill Dimitriev. In pratica, la cosa è ben più complessa. Il fatto è che lo “Sputnik V” è stato sperimentato sugli esseri umani per soli 55 giorni, e solo su 152 persone: si legge sul sito dell’Istituto Gamaleya, che lo ha sviluppato. Il trial su larga scala che gli addetti ai lavori chiamano “fase tre” e può durare molti mesi è stato saltato a piè pari, come risulta anche dalla documentazione in mano all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Solo durante la “fase 3” – che Gamaleya farà soltanto nel futuro – si possono identificare gli effetti collaterali più subdoli e si può valutare l’efficacia su un campione ampio della popolazione. Le authority sanitarie del resto del mondo saranno di certo assai più severe di quella di casa, rispetto allo “Sputnik V”. Molti esperti ritengono che l’annuncio di Putin abbia più a che fare con la politica che con la scienza. E che iniziare una somministrazione di massa senza le verifiche universalmente adottate possa essere molto pericoloso. «Non mi vaccinerò con questo prodotto, né farei mai vaccinare i miei pazienti», dice al Riformista Anastasia Vasilieva, medico e segretario del sindacato russo di medici Alianz. «È estremamente rischioso utilizzare un vaccino che difetta di sperimentazione e di chiarezza su quanto sia sicuro. Potrebbero, per esempio, esserci effetti negativi a lungo termine sul sistema immunitario». Della stessa idea un altro camice bianco moscovita, che abbiamo raggiunto telefonicamente e che preferisce restare anonimo per il timore di conseguenze sul posto di lavoro: «Non mi vaccinerò, e sconsiglierò i miei pazienti, fin quando non ci saranno test su un campione 100 volte più ampio. Servirà almeno un anno. I nostri immunologi sono bravi, ma è stato fatto tutto troppo in fretta. Questa è solo propaganda. Meno male che a quanto pare la vaccinazione non sarà obbligatoria ma su base volontaria». Alla domanda se lo “Sputnik V” possa creare nel corpo umano condizioni che paradossalmente favoriscano l’infezione invece che evitarla, il direttore dell’Istituto Gamaleya Alexander Gintsburg ha risposto che il vaccino – basato sull’adenovirus umano come quello in sperimentazione tra Oxford e Pomezia – non include particelle vive di virus: «Non possono moltiplicarsi, e quindi non possono danneggiare l’organismo», ha detto Gintsburg alla testata giornalistica Rbc. «Balle», commenta la dottoressa Vasilieva. «Questo vaccino è composto da una serie di proteine inesplorate, sconosciute, delle quali non si sa esattamente la provenienza. Può essere pericoloso quanto il coronavirus stesso». Pochi giorni fa, l’Associazione per la ricerca clinica (Acro), di cui fanno parte le principali aziende farmaceutiche internazionali, aveva chiesto al ministero della Salute russo di non affrettare le cose, col vaccino – di cui da tempo si sapeva lo stadio avanzato di sviluppo. Le due figlie di Putin sono un segreto di Stato: non esistono foto né indirizzi di residenza. Il Presidente non ha specificato se a essere inoculata sia stata Maria o Ekaterina. Le sue parole sembrano comunque confermare quanto aveva scritto tempo fa l’agenzia Bloomberg: le prime dosi del vaccino russo erano state riservate alla élite associata al potere politico. «Mia figlia si sente bene e ha un alto numero di anticorpi», ha detto Putin. Aggiungendo che nel giorno della prima iniezione la donna ha avuto la febbre a 38, scesa a 37 dopo 24 ore. Lieve e passeggera alterazione della temperatura anche per la seconda iniezione. Il farmaco ha due componenti e sarà disponibile in fiale da 0,5ml. Nel mondo, oltre 30 degli oltre 165 vaccini in via di sviluppo sono alla fase della sperimentazione umana. Quattro sono già alle fasi finali, rileva l’Oms. I regulator dei Paesi occidentali non si aspettano che un vaccino possa essere nelle farmacie prima della fine di quest’ anno, se tutto va per il meglio. I dubbi sullo “Sputinik V” sono legittimi e doverosi, a giudicare dai fatti e dalla documentazione al momento disponibili. Se fossero fugati da una sperimentata e quindi reale efficacia e da una sperimentata e quindi reale sicurezza, sarebbe la cosa migliore per tutti: il covid ha fatto almeno 734mila morti, finora. A quanto pare, a far da cavia in questo esperimento saranno i russi. Compresa la figlia di Putin.

Le pandemie ieri e oggi, ma cento anni fa Milano regalò il vaccino. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 da Corriere.it. Tra il 1918 e il 1920 si diffuse una delle più gravi pandemie della storia, una forma influenzale particolarmente grave, la cosiddetta «spagnola». Non si conosce il numero esatto delle vittime (studi recenti stimano 50-100 milioni nel mondo). Il Corriere diede informazioni quasi quotidiane sui decessi verificatisi a Milano e nei paesi limitrofi, sulla profilassi da osservare («sobrietà, pulizia personale scrupolosa, disinfezione degli umori della bocca e del naso, lavaggio frequente delle mani, astensione da ogni contatto colle folle»), sui provvedimenti adottati dalle autorità (chiusura di scuole, cinema e locali pubblici, disinfezione dei treni, limitazione ai parenti stretti dei cortei funebri). I medici diedero grande prova di sé, come ricorda un articolo del 17 ottobre 1918: «non c’è medico oggi a Milano che non sia costretto a un super-lavoro». L’influenza ha colpito in un momento difficile per varie ragioni, ma specialmente in causa della mancanza di medici: per richiami alle armi o malattie, solo 18 condotte su 50 sono coperte dai titolari, ma la sanità comunale ha provveduto perché a tutte sia assicurato almeno un medico; ha richiamato in servizio i pensionati; ha cercato di organizzare presso le Guardie Mediche un servizio per i casi urgenti; ha fatto appello ai liberi professionisti. Le farmacie comunali, sulle quali pesa tutto il servizio dei poveri, hanno aumentato l’orario e fatto tutto il possibile per rispondere alle necessità del momento». L’istituto Sieroterapico preparò un vaccino e lo distribuì gratis alla cittadinanza, come annunciò il Corriere il 10 gennaio 1919. Sforzi encomiabili che arginarono solo in parte la malattia che colpì una popolazione indebolita dalle privazioni della guerra e dalle cattive condizioni igieniche.

1964, il vaccino della Naja. Un ricordo d’altri virus, quando eravamo immuni. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Era una fila lunghissima, tutti a torso nudo, uno dietro l’altro, e giù in fondo col camice e le stellette il tenente medico con accanto l’inserviente infermiere, a terra un secchio di liquido rossastro rimestato ogni volta con un lungo manico di scopa e un batuffolone di garza in cima a sgocciolarci sul petto appena arrivato il nostro turno, con siringone poi quasi un fendente appena sopra il capezzolo, e c’era chi sveniva prima e altri dopo — l’impressione, certo: il «film» che si vedeva in quello stanzone non era confortante. Era il 1964, nelle caserme le sale «celtiche» smesso il permanganato di potassio erano state ri-organizzate come bar, e per l’odiata e temuta vaccinazione della «Naja», per quanto salutare se poi batteri e virus lì alla scuola e poi al reggimento in giro per l’Italia non si fecero vivi (bisogna anche dire che la varichina era ben presente odore ficcante compreso in ogni momento della giornata). Purtroppo però per questo «corona» di vaccinazione non si parla e sembra ancora per molti mesi... e per questo la mia memoria corre a quei tempi in cui con quella «roba» in corpo si diventava immuni (specie per la meningite).Come meno il giorno oggi in questo frangente quasi da «day after»? Stando a casa, due passi solo per il super e i giornali all’angolo e l’edicolante bangladese che dice «non chiudo per voi clienti»: da applaudire: io senza il «cartaceo» non so vivere (più o meno…). Musica, film, letture, qualche forum, se sereno guardo il cielo, disinfetto gli interruttori della luce, la tastiera e il mouse, ho riparato uno sciacquone, tirato lo spazzolone — mia moglie felice e anche preoccupata però —, dato un’occhiata di sotto al tendone pre-triage dell’ospedale fronteggiante, nessuno per ora tranne gl’infermieri bardati per l’occasione, e a partire da Piazza del Duomo solo un gruppetto di soldati e auto di polizia, carabinieri e vigili urbani. Tutto qui. Ah ecco però: a differenza di quel gatto qui descritto come insofferente alla presenza inusuale di gente in casa, il nostro ci segue come un’ombra per piazzarsi dove noi decidiamo di metterci: non sarà che avrà capito tutto e vuole darci — lei potenzialmente inattaccabile dal virus — tutta la sua confortante solidarietà? Teniamo duro. Passerà. Tanto preoccuparsi non aiuta.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 12 maggio 2020. Fbi e Homeland Security - il superministero degli Interni - stanno per lanciare un allarme: lo spionaggio cinese è a caccia dei vaccini americani contro il coronavirus. La notizia, anticipata dal New York Times , ha ricevuto conferme dalla comunità dell' intelligence. Brian Ware, che dirige le operazioni di cyber-sicurezza al Dipartimento di Homeland Security, ha detto: «La nostra priorità in questo momento è proteggere il settore medico e tutto ciò che riguarda il Covid 19». La corsa alla produzione dei vaccini fa irruzione nel clima da guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. Tra le multinazionali farmaceutiche americane è la Pfizer la prima ad aver avviato i test del vaccino anti- coronavirus su esseri umani. La somministrazione sperimentale a pazienti sani avviene alle facoltà di medicina della New York University e della University of Maryland. Tra gli altri gruppi in gara negli Stati Uniti c' è la Johnson&Johnson. Nello scenario più favorevole un vaccino potrebbe essere utilizzabile in autunno. A proteggere la segretezza del lavoro di scienziati e ricercatori nei laboratori universitari o nelle multinazionali Usa, si mobilitano tutte le centrali del contro- spionaggio, dalla National Security Agency allo United States Cyber Command. Come nella gara per la conquista dello spazio che oppose Stati Uniti e Unione sovietica negli anni Cinquanta e Sessanta, la scienza diventa un terreno di battaglia strategico. Oltre alle due superpotenze, spuntano altri attori: dall' Iran, che non è nuovo a queste attività, fino a paesi meno ovvii come Corea del Sud e Vietnam. Per quanto riguarda gli hacker iraniani, in America hanno provato di recente a espugnare i siti della Gilead Sciences, azienda farmaceutica che fabbrica una cura anti-coronavirus approvata di recente ed entrata nella sperimentazione clinica. La reazione da Pechino alle nuove accuse americane è stata sdegnata: «Stiamo guidando il mondo - ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese - nella ricerca su cura e vaccini. È immorale colpire la Cina con voci e calunnie in assenza di prove». La denuncia su hacker e spie in arrivo dall' Fbi s' inserisce nel clima arroventato da un' altra accusa, relativa all' origine del coronavirus. Il segretario di Stato Mike Pompeo, in parte riecheggiato da Donald Trump, ha ribadito più volte che il virus potrebbe essere nato in laboratorio; non come risultato di un esperimento bensì per un incidente o negligenza nel maneggiare animali infettati. La Cina ha continuato a negare quella pista. La minaccia dello spionaggio sui centri di ricerca americani si aggiunge anche ad un clima di sospetto che si era aggravato molto prima della pandemia. Le attività di spionaggio nelle università americane da parte di cinesi - ricercatori e scienziati - cominciarono ad essere oggetto di una vigilanza accentuata già sul finire della presidenza Obama. La dimensione accademica si aggiungeva ai casi di spionaggio già documentati da tempo nel settore privato, per esempio ai danni delle aziende tecnologiche della Silicon Valley. In una dichiarazione al New York Times , il direttore della Cybersecurity and Infrastructure Agency, Christopher Kerb, ha detto che «la lunga storia antecedente della Cina è ben documentata per i suoi attacchi nel cyber-spazio, non c' è da stupirsi che ora prenda di mira le organizzazioni più coinvolte nella battaglia alla pandemia». Nel testo dell' allarme che verrà lanciato da Fbi e Homeland Security sarà specificato che la Cina «cerca di procurarsi con mezzi illeciti conoscenze e proprietà intellettuali ad alto valore, informazioni sulla salute pubblica relative a vaccini, medicinali e test». Il furto della proprietà intellettuale è un problema annoso che avvelena le relazioni tra Washington e Pechino. Nell' ultima guerra commerciale tra le superpotenze - che si è fermata a gennaio con la tregua sui dazi - la delegazione americana aveva cercato di strappare maggiori tutele per i brevetti e i copyright delle sue aziende. Il settore privato si è mobilitato quanto le forze di polizia e i servizi d' intelligence: gli esperti di sicurezza di Google avrebbero individuato gruppi di hacker che usano email collegate al coronavirus per penetrare nei network aziendali.

Chi trova il vaccino trova un amico. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020 di Chiara De Luca. È iniziata la produzione dei vaccini contro Covid-19, cinque team di scienziati e aziende sono già nella fase di sperimentazione sull'uomo. Altri studiosi invece stanno proseguendo il lavoro iniziato con il virus della Sars, il coronavirus che si diffuse nella Cina meridionale e nel sud est asiatico nel 2003. Quegli studi oggi hanno dato un contributo all'attuale ricerca del vaccino, ma perché all'epoca si dovettero fermare?

Il comunicato dell'Oms sulla Sars del luglio 2003. Sars (2003). L’epidemia di Sars è contenuta in tutto il mondo COMUNICATO DELL’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ (5 Luglio 2003) (traduzione libera a cura della redazione di EpiCentro). Oggi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso Taiwan e la Cina dalla lista delle zone che recentemente hanno sofferto la trasmissione locale della Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS). Taiwan è l'ultima regione ad essere tolta dalla lista. Sono passati venti giorni, cioè due periodi consecutivi di incubazione da dieci giorni, dall'ultimo caso verificatosi il 15 giugno. In base ai rapporti della sorveglianza nazionale, la catena umana della trasmissione del virus della SARS sembra essere stata interrotta ovunque nel mondo. Tuttavia, anche viste le molte problematiche che rimangono sulla SARS e la possibilità che alcuni casi possano essere sfuggiti alla rete di sorveglianza, la OMS avvisa che la continuazione della vigilanza globale per la SARS è necessaria nel futuro. Il mondo non è ancora libero dalla SARS. “Questo non segna la fine della SARS oggi, ma prendiamo atto di un importante risultato: l'epidemia di SARS globale è stata contenuta,” ha detto Gro Harlem Brundtland, direttore generale della OMS. “In questo momento, dovremo fermarci per ringraziare gli scienziati, gli operatori sanitari e ospedalieri che hanno corso dei rischi di fronte a una malattia nuova e sconosciuta. E, dovremo ricordare tutti quei lavoratori in prima linea che sono morti di SARS. Le loro dedizione quotidiana, coraggio e vigilanza ha evitato una catastrofe globale.” Dalla provincia cinese del Guangdong, il virus della SARS ha viaggiato attraverso gli esseri umani in 30 paesi e zone del mondo, ma si è profondamente annidato solo in sei. In queste zone, la modalità di trasmissione è stata la stessa: un caso importato e ospedalizzato di SARS ha infettato gli operatori professionali e altri pazienti; hanno infettato i loro contatti più vicini e poi la malattia si è trasmessa alla comunità allargata. Nelle zone affette circa il 20 per cento di tutti casi ha interessato gli operatori sanitari. A oggi, sono state infettate 8439 persone, e 812 sono morte. Ora, cinque mesi dopo l'inizio della diffusione della SARS nel mondo, siamo vicini ad averla allontanata dagli esseri umani. La SARS continua a minacciare il mondo. Circa 200 persone malate sono ancora ospedalizzate. Inoltre, è possibile che casi non identificati siano sfuggiti al network di sorveglianza. Quindi, anche se oggi non abbiamo notizie di trasmissione locale, domani potrebbe essere diverso. “Non è il momento di rilassarci nella vigilanza. Il mondo deve restare all'erta per i casi di SARS.” ha detto Brundtland. La SARS e continuerà a minacciare il sistema pubblico di salute globale. È possibile che ci saranno nuovi casi. Potrebbe essere una malattia stagionale e tornare in un periodo più avanzato dell'anno - una possibilità basata su quello che conosciamo rispetto ad altri membri della famiglia dei coronavirus. Inoltre, la fonte originale di quest'epidemia di SARS potrebbe ancora essere nell'ambiente e quindi dare luogo a una nuova epidemia nei prossimi mesi. Per esempio, è possibile che il virus circoli ancora in una riserva animale e possa trasferirsi agli esseri umani quando ci saranno le appropriate condizioni. “Per rispondere a queste e ad altre preoccupazioni, la ricerca sulla SARS deve continuare. I risultati scientifici saranno fondamentali per la nostra capacità di gestire un'altra epidemia di SARS se dovesse essercene una,” ha detto Brundtland. Gli appuntamenti che attendono la ricerca medica sono tanti e in continua crescita. In cima alla lista c’è un test diagnostico rapido, che possa rivelare la presenza della malattia nei primi giorni dopo il contagio. Questo sarà necessario per distinguere i pazienti di SARS da quelli che soffrono per altre malattie respiratorie, specialmente quando arriverà la stagione influenzale. Senza un test diagnostico, gli ospedali potrebbero trovarsi nella condizione di mettere in isolamento tutte le persone con malattie respiratorie con sintomi che rientrano nella definizione di caso di SARS, e questo sarà enormemente costoso e devierà le risorse essenziali da altre aree di necessità sanitaria. L’OMS sta lavorando con i suoi partner per sviluppare un protocollo per indagine dei casi, la gestione dei casi e la sorveglianza nel caso della SARS per una situazione post-epidemia. Questi documenti saranno regolarmente revisionati man mano che aumentano le nostre conoscenze. In secondo luogo, sono necessarie indagini intense su una possibile risacca animale del virus. Solo identificando la fonte di questa epidemia, e comprendendo il modo in cui il virus si è spostato dall’ospite originario all’uomo, future epidemie potranno essere prevenute. In terzo luogo, è necessario un database globale per dare agli epidemiologi e ai clinici la possibilità di accedere a grandi numeri per comprendere meglio la SARS. Inoltre, abbiamo bisogno di conoscere meglio i vantaggi di differenti approcci terapeutici nel trattamento della SARS. “La SARS è un monito”, ha spiegato la Brundtland. “La SARS ha spinto anche i più avanzati sistemi sanitari pubblici verso un punto critico. Queste protezioni hanno tenuto, ma solo a mala pena. La prossima volta, potremmo non essere così fortunati. Abbiamo una opportunità ora, e vediamo chiaramente di cosa abbiamo bisogno, di ricostruire le difese della sanità pubblica. Saranno necessarie per la prossima epidemia globale, che sia di SARS o di qualunque altra infezione”. Prepararsi alla prossima epidemia richiede di rinnovare e rinforzare le infrastrutture della sanità pubblica. Sono necessari molti epidemiologi e altri specialisti di sanità pubblica. Bisogna mettere a punto un sistema di sorveglianza e risposta migliore che include un rafforzamento dei legami fra strutture nazionali regionali e globali. E i governi devono investire di più nel controllo delle infezioni ospedaliere. “La SARS ci sta insegnando molte lezioni”, ha detto la Brundtland. “Ora dobbiamo tradurre queste lezioni in azioni. Potremmo avere poco tempo, e dobbiamo usarlo nel modo più saggio”.

CHI TROVA IL VACCINO TROVA UN AMICO di Chiara De Luca collaborazione Greta Orsi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Quando L’11 gennaio 2020 i ricercatori cinesi hanno reso nota la sequenza genetica del Sars Cov 2, è cominciata la corsa al vaccino. Ma chi ne tratterà il prezzo una volta scoperto e a quale condizioni?

CHIARA DE LUCA Con chi contratta il prezzo l’Agenzia Nazionale del farmaco?

FRANCESCO TROTTA - DIRIGENTE MONITORAGGIO DELLA SPESA FARMACEUTICA AIFA Con il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio, quindi le singole aziende farmaceutiche, con l’azienda che commercializza il farmaco o il vaccino.

CHIARA DE LUCA Data questa straordinaria emergenza si può ipotizzare che ci sarà un prezzo uguale per tutti gli stati?

FRANCESCO TROTTA - DIRIGENTE MONITORAGGIO DELLA SPESA FARMACEUTICA AIFA È molto prematuro parlare di prezzo. Le cose che sono sul campo ovviamente è di dare l’accesso a tutta la popolazione.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Sono 115 le ditte che concorrono. Sei, quelle che hanno avviato la sperimentazione di un vaccino sull’uomo. Ci sono le cinesi Cansio Bio e la Shenzen Geno Immune Medical Institute, le americane Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals. Poi l’inglese Jenner Institute, dell’Università di Oxford, che sta sperimentando in collaborazione con l’italiana IRMB di Pomezia. Mentre l’Università di Pittsburgh sta testando anche un vaccino che aveva già sperimentato per la Sars.

CHIARA DE LUCA Si potrebbe verificare uno scenario di questo tipo, cioè che lo Stato in cui il vaccino verrà prodotto avrà poi la priorità?

FRANCESCO TROTTA - DIRIGENTE MONITORAGGIO DELLA SPESA FARMACEUTICA AIFA Sarebbe preferibile che non avvenisse. Voglio dire: al momento la discussione a livello europeo è quella di cercare di coordinare maggiormente a livello europeo questo tipo di discussione, questo tipo di azioni proprio per evitare fenomeni di, come si di dice in gergo, accaparramento tra i vari Stati membri. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo, sarà interessante vedere se e come dialogheranno Stati Uniti e Cina, se una delle due potenze dovesse arrivare a mettere prima le mani sulla produzione del vaccino. E vedere anche a quali paesi consentiranno di sedersi al tavolo delle forniture. Ma magari sarà un terzo paese ad arrivare per primo. Buonasera, la corsa alla produzione del vaccino è cominciata e chi lo produrrà per primo potrebbe essere l’artefice di un nuovo equilibrio geo-politico. Si potrebbero ridisegnare nuovi equilibri e scardinare quelli vecchi. Per questo il mondo è un po’ col fiato sospeso. E pensare che ci si sarebbe potuti arrivare anche in tempi più brevi: il percorso poteva essere meno tortuoso. Il coronavirus, il Covid 19, certamente ha sorpreso per la sua velocità impressionante di contagio. Però con i coronavirus abbiamo a che fare da tempo, la comunità scientifica li sta studiando da tempo, nel 2003 addirittura si era arrivati a cominciare a studiare un vaccino. Ecco, e per fortuna poi c’è stato qualcuno che si è ricordato che aveva lasciato le fialette in un frigorifero. La nostra Chiara de Luca.

ANDREA GAMBOTTO - PROFESSORE SCHOOL OF MEDICINE UNIVERSITÀ DI PITTSBURGH Nel 2003 abbiamo immunizzato questo vaccino, avevamo tutti i sieri di quasi sei mesi di queste scimmie. Sono andato a rovistare nei miei frigoriferi ho trovato tutti i sieri di queste scimmie e ora abbiamo mandato questi sieri al mio collaboratore in Olanda.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Professor Gambotto sostiene che il vaccino sperimentato sulle scimmie potrebbe funzionare perché il Covid 19, condivide con il coronavirus della Sars l’80 per cento del genoma, a partire dalla proteina Spike che sarebbe il cavallo di troia del virus per penetrare nelle cellule umane.

ANDREA GAMBOTTO - PROFESSORE SCHOOL OF MEDICINE UNIVERSITÀ DI PITTSBURGH In realtà l’avevamo individuata già dal 2003 quando noi abbiamo sviluppato il primo vaccino per la Sars. Avevamo determinato che la proteina Spike era essenziale e necessaria anche da sola a indurre una risposta di tipo antircorpale neutralizzante.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO L’Università di Pittsburgh nel 2003 fu una delle prime a sviluppare un potenziale vaccino per la Sars, ma poi gli studi poi furono interrotti.

ANDREA GAMBOTTO - PROFESSORE SCHOOL OF MEDICINE UNIVERSITÀ DI PITTSBURGH La Sars scomparve completamente, ci furono 0 casi per una settimana, due settimane che fu una cosa bellissima…

CHIARA DE LUCA Il fatto che non c’è stata sperimentazione sul vaccino della Sars in qualche modo oggi ha rallentato la corsa al vaccino?

ANDREA GAMBOTTO - PROFESSORE SCHOOL OF MEDICINE UNIVERSITÀ DI PITTSBURGH Probabilmente sì. Avere individuato una piattaforma che funziona e che non dà effetti collaterali, ci trovavamo davanti almeno di 6-8 mesi rispetto ad adesso. Ma se alla fine ci hanno pure convinto che non serviva…

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, quando il 5 luglio 2003 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò la fine della Sars mise in guardia il mondo intero.

GRO HARLEM BRUNDTLAND - DIRETTRICE GENERALE OMS (1998-2003) 5 Luglio 2003, Ginevra Oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità può affermare che l’epidemia di Sars è stata contenuta in tutto il mondo. Ma questo non è il momento di allentare la nostra vigilanza. È possibile che vengano visualizzati nuovi casi di Sars. La Sars potrebbe essere una malattia stagionale e tornare più avanti: la ricerca sulla Sars deve continuare.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Invece ci fu lo stop delle ricerche. Perché?

CHIARA DE LUCA Nel 2003 quando l’OMS dichiara la fine dell’epidemia Sars invita a continuare gli studi su questo coronavirus, secondo lei perché non sono stati continuati?

FLAVIA BUSTREO - VICEDIRETTRICE GENERALE OMS 2010-2017 Un fallimento delle istituzioni sia pubbliche che private che, quando passa la paura immediata del contagio di una malattia, non continuano le ricerche perché le ricerche sono guidate molto dagli investimenti.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Anche la Baylor University di Houston aveva avviato gli studi clinici per un vaccino anti Sars. Ma dopo aver vinto un Grant insieme al New York Blond Center non ha ricevuto più fondi federali.

MARIA ELENA BOTTAZZI – CONDIRETTRICE CENTRO DI SVILUPPO VACCINI OSPEDALE DEL TEXAS Abbiamo perso quattro anni. Se noi avessimo potuto portare questo vaccino, che ancora ce l’abbiamo nel nostro freezer, oggi potevamo dire agli altri gruppi: “Guardate, questi erano già i risultati di questi vaccini che avevamo sviluppato contro Sars”, sapendo che Sars con il Covid 19 sono virus molto simili.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In un recente rapporto del’Icahn School of Medicine di New York, solo un piccolo numero di vaccini SARS-CoV-1 è arrivato alla prima fase degli studi clinici prima che i fondi per finanziarlo fossero prosciugati a causa dell’estinzione del virus.

FABIO PALOMBO – IMMUNOLOGO TAKIS BIOTECH Nello sviluppo dei vaccini la piattaforma tecnologica deve essere validata, deve essere sicura, deve essere in grado di arrivare fino alla fase di milioni di dosi per tutte le persone sane di questo paese. Se noi avessimo cominciato con la Sars, oggi saremmo un passo avanti, sarebbe già validata la tecnologia, avremmo solo cambiato il pezzettino di DNA da inserire dentro, ma la tecnologia sarebbe stata riutilizzabile in pieno.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E se da una parte i ricercatori che avrebbero voluto continuare gli studi sulla Sars, non hanno ricevuto fondi, dall’altra l’industria farmaceutica mondiale evidentemente non l’ha considerato un business su cui investire.

PAUL STOFFELS - DIRETTORE SCIENTIFICO JOHNSON&JOHNSON Lo studio sulla Sars è stato fermato perché nessuno aveva più interesse in esso, era sotto controllo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E quindi il vaccino non sarebbe stato venduto. Basta guardare i ricavi annuali delle case farmaceutiche per capire su cosa puntano. Su circa 1300 miliardi di dollari l’anno, i vaccini valgono come vendite solo 35 miliardi: meno del tre per cento, mentre i farmaci da banco da soli valgono 160 miliardi di fatturato. FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO Le grandi farmaceutiche preferiscono lavorare su farmaci per le malattie croniche, pensate al colesterolo, pensate alle malattie del sistema nervoso. Il paziente è costretto a prendere magari per 20/30 anni lo stesso farmaco e quindi le farmaceutiche godono di questo flusso di profitti continuo nel tempo. Ebbene chi è che lavora sui vaccini? Società biotecnologiche quotate al Nasdaq, capitalizzano miliardi di dollari ma sono tutte in perdita perché hanno solo costi e non avendo il vaccino non hanno ricavi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Le biotech quotate in borsa, possono aumentare il valore delle proprie azioni se trapela la voce che sono vicine al vaccino, ma avendo soprattutto costi perché le loro ricerche durano mesi, o anni, alla fine se trovano il vaccino non hanno la forza di commercializzarlo.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO Quando la grande farmaceutica sa che c’è un vaccino disponibile si propone per commercializzarlo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Quello che abbiamo capito è che sulle grandi case farmaceutiche non si può puntare per gli investimenti sui vaccini.

FLAVIA BUSTREO - VICEDIRETTRICE GENERALE OMS 2010-2017 Purtroppo, le dinamiche che sono in atto, anche per quanto riguarda le case farmaceutiche, sono le dinamiche di mercato. C’è un nuovo organismo, una nuova entità che si chiama Cepi, che è una Coalition for Emergency Preparedness and Innovations, che fu creata subito dopo l’esperienza di Ebola, per cercare di immediatamente consolidare risorse e fondi e stimolare ricerca per il vaccino su nuove malattie.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il consorzio nato a Davos nel 2017 e che vede tra i suoi fondatori anche la Bill & Melinda Gates Foundation, riceve finanziamenti pubblici e privati. E tra questi c’è anche il colosso Johnson and Johnson che oggi sta sperimentando un vaccino anti Covid 19.

PAUL STOFFELS - DIRETTORE SCIENTIFICO JOHNSON&JOHNSON Abbiamo usato il DNA della proteina Spike che abbiamo elaborato dal coronavirus, abbiamo utilizzato 12 parti della Spike proteine per vedere quale funzionava meglio e abbiamo notato che allo stesso tempo si può avere protezione dal coronavirus e produrre un vaccino in grandi quantità. Possiamo prevedere 300 milioni in un anno. Abbiamo deciso di creare un vaccino gratuito per assicurare che possa essere accessibile a tutti.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La partita del vaccino la sta giocando anche l’inglese Jenner Institute dell’Università di Oxford che sta sperimentando in collaborazione con l’italiana IRMB di Pomezia.

CHIARA DE LUCA Quali sono i ruoli di IRBM e quali quelli di Oxford University?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Oxford University con i finanziamenti che ha preso dal Cepi e da altri finanziatori, in quindici giorni ha sintetizzato il gene della proteina Spike.

CHIARA DE LUCA Dico, dunque il brevetto è di Oxford?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Assolutamente, la proprietà intellettuale è di Oxford.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Di Lorenzo ci confida un segreto: il governo britannico li avrebbe già incaricati di produrre dosi per il vaccino.

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Il governo inglese ci ha già incaricato di produrre a tutto spiano.

CHIARA DE LUCA Quindi avete già iniziato la produzione?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Sì, non lo diciamo chiaramente, ma… assumendosi il rischio, cioè: se il vaccino fallisce, non vi preoccupate, problema nostro, ma se non fallisce vogliamo le dosi pronte. Ha messo a disposizione 20 milioni di sterline e alla Oxford University…

CHIARA DE LUCA Finanziati dal governo inglese?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Io adesso ne ho parlato con i nostri. Ho detto: guardate, qui c’è questa soluzione. Quindi adesso stanno prendendo loro anche delle… stanno valutando la cosa perché sono disperati.

CHIARA DE LUCA I nostri intende?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Io ho una interlocuzione costante con la Presidenza del Consiglio italiana, mi sento spesso col Capo di Gabinetto del Presidente del Consiglio, ieri ho visto il Ministro della Ricerca Manfredi, l’altro ieri ho visto il Ministro degli Esteri Di Maio.

CHIARA DE LUCA Il governo italiano quindi ha intenzione di investire su questo vaccino?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Penso proprio di sì.

CHIARA DE LUCA Questo cosa comporterà in termini di fruibilità del vaccino?

PIERO DI LORENZO – PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO IRBM Un diritto di prelazione. Questo vaccino io penso che verrà distribuito prioritariamente alla popolazione inglese e italiana e poi al resto del mondo. Il problema è mettere la bandierina sulla luna.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di Lorenzo è ottimista, però prima di avere un vaccino che sia sicuro per l’uomo e averne le dosi in quantità sufficienti, bisognerà aspettare parecchio tempo ancora. Però lui dice: io sono in contatto con gli inglesi, mi hanno dato il via per la produzione, rischiano loro, ne ho parlato con i nostri governanti che sono disperati; dice di essere in contatto col gabinetto del premier, con il ministro della Ricerca e con il ministro degli Esteri Di Maio. Noi abbiamo provato invece a chiedere al Ministero della Salute, che non sa praticamente nulla, non è in contatto con Di Lorenzo. Cominciamo bene, bisognerebbe che si parlassero tra loro, che si coordinassero perché non se ne esce altrimenti. Anzi, bisognerebbe che ci fosse un coordinamento di tutti i governi per evitare che ce ne sia uno solo che compri il brevetto e lo blindi per distribuirlo in esclusiva alla propria popolazione. Quello che avrebbe tentato di fare Trump un po’ di tempo fa, cercando di acquistare il brevetto per un miliardo di dollari alla multinazionale, alla farmaceutica Curevac. E insomma, significa che l’esperienza passata non ci ha insegnato nulla. Quando la direttrice generale dell’OMS Brundtland aveva caldeggiato la comunità scientifica e i governi di investire sul vaccino della Sars, era il 2003, perché – aveva detto – prima o poi si ripresenterà, magari in un'altra forma. E invece le ricerche si sono bloccate per mancanza di finanziamenti pubblici. I governi non ci hanno creduto e le farmaceutiche, invece, che hanno le risorse, non hanno avuto l’interesse nel continuare le ricerche. Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che bisogna investire, perché poi c’è il vantaggio a lungo termine, sulla ricerca e sulla sanità pubblica. E invece noi, cosa abbiamo fatto? In questi decenni abbiamo trasformato la più importante e imponente organizzazione mondiale della sanità pubblica in un’agenzia privata. Quella che racconteremo stasera sarà l’incredibile catena di errori e di relazioni opache che hanno contribuito alla diffusione del virus.

Da repubblica.it il 4 aprile 2020. "Non siamo cavie, figli di put...a".  E' la durissima reazione di due glorie del calcio di origine africana come Didier Drogba e Samuel Eto' che bocciano la proposta avanzata in tv, sull'emittente francese Lci, da due medici di sperimentare i vaccini per combattere il coronavirus in Africa "dove non ci sono mascherine e rianimatori".

Giacomo Galeazzi per lastampa.it il 28 aprile 2020. Vaccino pronto a settembre. I ricercatori dell’Università di Oxford sono a un passo dalla svolta che il mondo attende. Gli scienziati del team internazionale al lavoro contro il coronavirus nell’ateneo del Regno Unito comunicano che milioni di dosi di vaccino saranno pronte per l’inizio dell’autunno se entro un mese ne verranno confermate l’efficacia e la sicurezza riscontrate sulle scimmie. «I macachi sono quanto di più vicino agli uomini possa esistere”, spiega al Times il ricercatore Vincent Munster che pubblicherà il resoconto scientifico della scoperta per condividerla con gli altri laboratori in prima linea a livello planetario nella caccia al vaccino. Se l’immunità ottenuta nei test sulle scimmie verrà confermata in quelli sugli uomini, sarà effettiva la svolta attesa dall’umanità. Per il vaccino gli scienziati dell’Università di Oxford stanno usando una tecnologia già sperimentata con successo su altri coronavirus in passato, puntando alla produzione di anticorpi e alla copertura immunitaria a livello mondiale a partire da settembre. Nei giorni scorsi il miliardario cofondatore di Microsoft Bill Gates aveva dichiarato la propria disponibilità ad  assumersi parte dei costi della produzione del vaccino contro Sars-CoV2 che l'università di Oxford sta testando sugli esseri umani, precisando di aver preso contatto con le autorità accademiche britanniche e con le più importanti case farmaceutiche mondiali. Una sperimentazione, ha detto il magnate e filantropo statunitense che, «sta procedendo a vele spiegate».

E ha aggiunto: «Se i loro risultati degli anticorpi saranno quelli promessi, allora io e gli altri ci metteremo insieme in un consorzio e faremo in modo che sia prodotto in maniera massiccia. Nessuno di quanti stanno realizzando il vaccino si aspetta di guadagnarci, sarà un bene comune». Ed Elisa Granato è la seconda volontaria, la prima italiana, ad aver testato il prototipo del vaccino sviluppato ad Oxford per combattere il Covid-19. Il 23 aprile si è sottoposta al test e fa sapere che sta «benissimo». La ricercatrice italiana ha inaugurato subito dopo il collega oncologo Edward O'Neill la prima fase clinica di sperimentazione umana del vaccino messo a punto dal Jenner Institute: il dipartimento di virologia dell'ateneo britannico. Il vaccino non contiene proprio il Covid-19, c'è solo una piccola parte del suo genoma inserito in un virus differente e non nocivo. In questo modo si evita che possa propagarsi, ma può potenzialmente attivare il sistema immunitario e proteggere così dal coronavirus.

Alcuni scienziati temono che non si troverà un vaccino contro il coronavirus, e dovremo convivere con la minaccia del Covid-19. Adam Bienkov il 28 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Alcuni scienziati temono che possa essere impossibile produrre un vaccino efficace contro il coronavirus. Venerdì, il Chief Medical Officer britannico ha avvertito circa l’esistenza di segnali “preoccupanti” che suggeriscono come le persone possano essere reinfettate dal virus. Ha dichiarato che gli elementi raccolti dalle altre forme di coronavirus indicano inoltre come l’immunità passi rapidamente. Contro le forme precedenti di coronavirus non è mai stato approvato l’uso di nessun vaccino. David Nabarro, professore di salute globale all’Imperial College, ha detto che il mondo potrebbe dover imparare a convivere con la “minaccia costante” del Covid-19. Alcuni scienziati temono che la produzione di un vaccino valido contro il coronavirus potrebbe rivelarsi impossibile e ritengono che il mondo dovrebbe semplicemente imparare ad adattarsi alla minaccia costante del COVID-19. Il Chief Medical Officer britannico, Christopher Whitty, ha riferito venerdì a una commissione parlamentare dell’esistenza di prove “preoccupanti” che indicano come potrebbe non essere possibile stimolare l’immunità al virus. “La prima domanda è: una volta passata, si diventa immuni alla malattia per un periodo di tempo prolungato?”, ha detto Whitty. “Ora, pur non sapendolo, è ancora possibile produrre un vaccino, anche se meno probabile; e semplicemente non lo sappiamo ancora”. Ha riferito che sussistono “prove circa persone che sono state reinfettate dopo avere avuto un’infezione precedente”; e ha aggiunto: “È una situazione un po’ preoccupante”. I dubbi circa la possibilità di realizzare un vaccino valido si basano soprattutto sul fatto che negli Usa o in Gran Bretagna nessun vaccino sia mai stato approvato per l’uso contro altre forme di coronavirus. Whitty spiegato al comitato che le prove derivanti da altre forme di coronavirus mostrano che “l’immunità [al virus] svanisce relativamente in fretta”. Ha detto che il mondo deve “essere consapevole che non è scontato che arrivi un vaccino per questa malattia come lo abbiamo avuto per, diciamo, il morbillo che, una volta fatto, ti protegge per tutta la vita”. “Non possiamo garantire il successo”, ha aggiunto. “Si cercano vaccini per tutte le malattie, ma non tutti vengono trovati“. Sabato, l’Organizzazione mondiale per la sanità ha inoltre messo in dubbio che sia possibile indurre l’immunità al virus.

In una dichiarazione sui piani di alcuni governi per introdurre i cosiddetti “passaporti d’immunità” per chi ha già contratto il virus, l’organizzazione ha detto che: “attualmente non è dimostrato che le persone guarite da Covid-19 e con anticorpi siano protette da una seconda infezione“. Altri scienziati hanno anche ipotizzato che potrebbe non arrivare mai un vaccino efficace per affrontare Covid-19. In un‘intervista rilasciata a The Observer, David Nabarro, professore di salute globale all’Imperial College di Londra ha detto che il mondo deve rendersi conto che porrebbe non apparire un vaccino. “Non è detto che sia sempre possibile sviluppare un vaccino sicuro ed efficace contro qualsiasi virus”, ha detto al giornale. “Alcuni virus sono davvero complessi in quanto a sviluppo di vaccino – per cui, nell’immediato futuro, dovremo trovare modi per vivere la nostra vita con la minaccia costante di questo virus”. Anche se si dimostrasse impossibile un vaccino completamente efficace, Whitty crede che valga comunque la pena cercare un vaccino parzialmente efficace. “Possono esistere vaccini che non riescono a fornire [elevati livelli di] immunità, ma che proteggono le persone al punto da non ammalarsi gravemente. “Potremmo quindi ottenere un vaccino che è un po’ meno efficace, pur restandolo in modo sufficiente, al punto che se vaccinassimo tutti quando c’è ancora un elevato livello di mortalità… potremmo in ogni caso riuscire a ridurre in modo massiccio i decessi, anche in presenza di infezioni naturali”.

Il coronavirus è già mutato 33 volte da quando è apparso in Cina nel dicembre 2019. Ecco le possibili conseguenze. Mariella Bussolati il 27 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Ricerche sul Covid-19 all'Imperial College School of Medicine (ICSM) di Londra. Tolga Akmen/AFP via Getty Images. Il coronavirus non è uno solo. Come fanno anche altri virus continua a mutare, producendo diversi risultati, per esempio la diversa severità dell’infezione nei Paesi che ne sono stati colpiti. E’ questo il risultato di una ricerca appena pubblicata da Li Lanjuan, una dei più stimati ricercatori cinesi. E’ grazie alla sua analisi e ai suoi consigli se Wuhan è stata chiusa in una notte per cercare di contenere il virus. Secondo i risultati dello studio il Sars CoV 2 è stato capace di mutare 33 volte da quando è apparso in Cina nel dicembre 2019. La parola mutazione mette spesso paura. Nell’immaginario che dipende anche dai racconti di fantascienza, si pensa sempre porti a qualcosa di molto più potente e mortale. In realtà questo genere di cambiamenti sono pare del ciclo naturale di vita di qualsiasi organismo, e in particolare di quelli più piccoli e ancora di più di quelli formati da una sola stringa di Rna, come il Covid-19. La maggior parte di queste variazioni sono mortali per il virus stesso, perché se non sono utili vengono eliminate. Nathan Grubaugh, un ricercatore del Dipartimento di Epidemiologia della Yale University (Usa), ha scritto su Nature un articolo intitolato Perché non dovremmo preoccuparci delle mutazioni che avvengono durante una epidemia. Grubaugh fa notare che un virus, per diventare più letale, deve cambiare molti tratti genetici contemporaneamente, un’operazione che gli riesce difficile fare in un lasso di tempo così limitato. Forse la sua nocività non peggiora, ma Li Lanjuan ha scoperto che i cambiamenti riguardano aspetti così rari che finora non erano stati studiati e che possono influire sulla infettività. In particolare possono produrre effetti diversi sulle cellule e la carica virale. Alcuni sono effettivamente più pericolosi di altri. Per esempio una varietà particolarmente aggressiva ha dimostrato di essere capace di generare una carica virale 270 volte più alta di altre varietà, e di uccidere le cellule più velocemente. In particolare ceppi più aggressivi sono stati riscontrati in Europa e a New York, che hanno avuto tassi di mortalità simili, mentre altri più leggeri hanno infettato altre parti degli Stati Uniti, come per esempio lo stato di Washington. Proprio quello proveniente da quest’area era quello diffusosi sulla nave da crociera Gran Princess. Altri generi hanno colpito la California. La pandemia insomma può avere tassi di infezione e letalità diversi da Paese a Paese, e questa potrebbe essere una spiegazione delle differenze, sebbene la mortalità dipenda anche da fattori come età, condizioni di salute e perfino il gruppo sanguigno. Chi ha il gruppo A è più sensibile, chi ha lo 0 meno. Questo avviene perché ci possono essere cambiamenti funzionali nella proteina spike, quella attraverso cui viene attaccata la cellula. Per verificare questi meccanismi sono state infettate cellule con i diversi tipi e ne è stato analizzato l’effetto. Secondo Lanjuan individuare la mutazione locale potrebbe aiutare meglio nell’azione contro il virus. Le medicine che si stanno sperimentando infatti sono molto importanti, così come lo è la ricerca dei vaccini. Ma è evidente che se le possibili forme del virus cambiano, dovrebbero essere efficaci per tutte, altrimenti si corre il rischio di un fallimento. Altre ricerche sulle mutazioni sono state compiute al Campus Biomedico di Roma. Domenico Benvenuto, studente e ricercatore al 6 anno di medicina, il primo a individuare la struttura del coronavirus, e Massimo Cicozzi, docente di statistica medica ed epidemiologia, hanno stabilito che una sequenza che regola l’autofagia, dunque la possibilità di contagiare, assente in Cina, è risultata invece presente poi in America ed Europa. Un’altra ricerca effettuata con Robert Gallo riguarda invece la polimerasi, l’enzima necessario per la replicazione. Sono state individuate 8 mutazioni, alcune prevalenti in Europa, altre presenti esclusivamente in Nord America. Dai dati sembrerebbe che il virus stia diventando meno efficiente lasciando dunque supporre che stia perdendo di potenza. E’ solo una ipotesi, ma di sicuro per un patogeno non è utile uccidere tutti i propri ospiti, mentre potrebbe trovare più conveniente trasformarsi diventando meno letale.

Far ammalare per testare i vaccini. È etico? Gioia Locati il 12 aprile 2020 su Il Giornale. Mai come oggi il mondo attende con il fiato sospeso un rimedio contro la pandemia. Al momento vi sono 78 progetti di vaccini già approvati. Qui. E sono decine le terapie usate off label sui malati gravi che stanno rientrando in nuove sperimentazioni. Dagli anticorpi monoclonali agli anti malarici, dagli anti virali alle cellule staminali, dagli antiparassitari agli anticoagulanti, dal cortisone all’ozonoterapia. In ogni Paese vi è un brulicare di proposte. In Giappone si sta cercando di realizzare un prodotto formulato con gli anticorpi del plasma delle persone guarite. Cliccate qui e qui e qui e qui. Vi è anche tanta – comprensibile – fretta. Ci si chiede perciò se il desiderio di fare presto, e nel caso dei vaccini, di arrivare per primi, non porti poi a “un altro” problema di salute pubblica, il venir meno delle regole di sicurezza. Su Scienze del 27 marzo, Seth Berkley, chief executive officer of Gavi, the Vaccine Alliance, si chiede se il primo vaccino a tagliare il traguardo sarà anche il più sicuro ed efficace. “O – domanda – saranno i vaccini più finanziati a diventare disponibili per la prima volta, o forse quelli che usano le tecnologie dei vaccini con il minor numero di ostacoli regolamentari?” La nostra attenzione è caduta sul lavoro intitolato: “Studi sulle sfide umane per accelerare l’approvazione dei vaccini contro il coronavirus” proposto dall’università di Harward qui, e ripreso da Nature, qui. Di prassi, di un vaccino, si testano prima la sicurezza e poi l’efficacia. Si parte dai test in vitro, non sempre si passa attraverso le prove su animali e poi si arriva all’uomo. Dapprima con numeri poco rappresentativi, via via con sempre più partecipanti. Il tutto richiede dai diciotto mesi ai due anni. Quando si parla di efficacia di una vaccinazione ci si riferisce alla presenza di anticorpi nelle persone vaccinate. Si presume che un certo livello di anticorpi indotti faccia da scudo nei confronti dell’infezione (quando questa si presenterà, se si presenterà). L’efficacia stimata è riportata sul bugiardino di ciascun vaccino. In passato gli studi condotti su cavie per trovare un vaccino contro altri coronavirus sono stati deludenti (si è verificata in alcuni casi la morte delle cavie. Olsen CW. A review of feline infectious peritonitis virus: molecular biology, immunopathogenesis, clinical aspects, and vaccination. Vet. Microbiol. 36(1-2),1-37 (1993).).  Dopo 16 anni dalla comparsa della SARS, non esiste ancora un vaccino. 

La sfida umana. Anche il lavoro dell’università americana suggerisce un modo per velocizzare l’iter di approvazione dei vaccini. Come? Proponendo una “human challenge trial”. Di reclutare un centinaio di volontari sani, fra i 20 e i 45 anni facendoli ammalare “sotto osservazione”. A un primo gruppo si somministra il nuovo vaccino da testare, a un secondo gruppo un placebo. I test sono “in cieco”, ossia i partecipanti devono ignorare ciò che assumeranno. Poi tutti quanti verrebbero esposti all’infezione da virus Sars Cov-2. Si parla anche di un terzo gruppo di volontari che dovrebbe contrarre il virus in maniera progressiva per capire quale sia la dose minima infettante. Questo gruppo andrebbe sottoposto a un’escalation di infezione crescente. Per capire se il vaccino, qualora non riuscisse a proteggere dalla malattia, possa ridurre qualche sintomo. I ricercatori a questo punto precisano che “i giovani adulti sani sono a rischio relativamente basso di malattia grave a seguito di infezione naturale” e che “durante la sperimentazione riceverebbero frequenti controlli e a seguito di malattia avrebbero le migliori cure”. Quali cure, ci si chiede. Ma tant’è. Nature nel presentare la sfida pare quasi giustificare il …sacrificio dei giovani. È scritto: “Potrebbe anche essere curiosamente più sicuro per alcuni aderire allo studio piuttosto che attendere una probabile infezione e quindi provare a fare affidamento sul sistema sanitario generale”. Nature prosegue spiegando che “normalmente si lascia che gli esseri umani si offrano volontari per fare cose rischiose. Ad esempio si acconsente che le persone facciano volontariato nei servizi medici di emergenza durante questo periodo. Ciò aumenta significativamente il rischio di essere infettati”. L’autore conclude con una precisazione: è importante non pagare troppo i volontari per garantire “un alto livello di fiducia nel pubblico”. È descritta, infine, una terza fase del progetto. Dopo l’escalation e il challenge trial si testa il vaccino su 3.000 volontari per capire se il prodotto è innocuo ed efficace (rilascia anticorpi nei soggetti) in condizioni normali, cioè senza indurre l’infezione. Tuttavia, secondo gli sperimentatori, questa fase potrebbe arrivare anche dopo la messa in commercio del vaccino a causa della fretta generata dalla pandemia.

È etico far ammalare per testare un vaccino? Abbiamo chiesto più pareri sull’eticità della proposta dell’Università di Havard già sostenuta dalla rivista Nature. Al momento hanno risposto Silvio Garattini, professore di Farmacologia, ricercatore e medico, Ivan Cavicchi, professore di Medicina, di Sociologia delle organizzazioni sanitarie e di Filosofia della medicina e Luciano Eusebi, professore di Diritto penale, già membro del Comitato nazionale per la bioetica e presente (anche in questi giorni) nei comitati etici di due ospedali.

Silvio Garattini: “Non penso che sia fattibile perché il virus non è innocuo. Ciò che si fa in questi casi è di iniettare il vaccino a soggetti sani e osservare se dopo qualche settimana si formano anticorpi. A questo punto si utilizzano gli anticorpi per vedere se sono in grado di inattivare il virus in vitro e negli animali d’esperimento”.

Ivan Cavicchi: “Per prima cosa occorre chiedersi quanto tempo si guadagnerebbe nel procedere in questo modo. Se fossero solo due settimane, non ne vale la pena. I tempi delle sperimentazioni sono ineludibili. Per testare la sicurezza su animali e su uomini, ci vuole tempo. Da esperto di etica medica non comprimerei neanche un giorno. È gia capitato in passato che si trascurasse questo aspetto. E la ricaduta è stata enorme, per il danno biologico, ed economico. Le aziende furono costrette a ritirare il farmaco".

E se si trattasse di velocizzare solo la fase che valuta l’efficacia?

“Anche questa seconda fase ha bisogno di test su animali e uomini, occorre sempre tempo. Sono contrario a omettere le garanzie. Prefiggersi un vaccino entro un anno è già uno sconto. Servono almeno 18 mesi”.

Nei periodi di emergenza non si rispettano più tutte le regole.

“Vero. Stiamo già vivendo in periodo di deregulation completa (pensiamo alla quantità di denaro che sta arrivando da ogni parte senza regole o al fatto che i nuovi medici assunti non hanno sostenuto l’esame di Stato). Uno dei problemi che dovremo affrontare sarà portare nuovamente il sistema dentro le regole. Non è difficile allestire letti e macchine ma dove sono gli anestesisti e gli infermieri specializzati?”.

Tornando alla sfida umana?

“In linea teorica sul piano scientifico non è impossibile che si faccia. Quanti galeotti sono stati arruolati in passato per testare farmaci o vaccini? Si tratta però di una deroga alla regola e, come la regola, ha bisogno di un’autorizzazione specifica, in genere politica. Tuttavia non basta stabilire che una cosa si possa fare, occorrono delle garanzie…Sempre di vita si tratta”.

Luciano Eusebi: “Sono alquanto diffidente quando, facendo riferimento all’emergenza in atto, si propone di abbandonare alcuni criteri ampiamente riconosciuti della ricerca e della pratica medica, secondo valutazioni di efficienza che non è affatto detto giovino agli stessi risultati. Pensi solo all’idea, che qualcuno lasciava emergere nelle settimane scorse, della esclusione “a priori” di certe categorie di malati dalle terapie (per esempio secondo l’età), quando invece qui (abito a Brescia) gli ospedali hanno sempre agito nelle scorse settimane, per quanto mi risulta, sulla base dei criteri di proporzionalità relativi a tutti i parametri in gioco, come è giusto che sia, di una data persona, cercando di dilatare all’inverosimile gli strumenti disponibili (soprattutto intensivi e subintensivi). Sulla ricerca e i vaccini, noi, in Italia, sulla base delle norme europee e internazionali, non abbiamo mai consentito sperimentazioni sulla base del semplice consenso (e, di fatto, sulla base di una remunerazione economica di persone povere), bensì avviamo sperimentazioni soltanto sulla base della valutazione fra rischi e benefici per i soggetti coinvolti e di molteplici parametri scientifici, in questo modo garantendo anche la qualità delle sperimentazioni e l’attendibilità per l’appunto scientifica dei loro esiti. Di fronte all’emergenza, possono essere velocizzati alcuni passaggi delle fasi di sperimentazione, ma non possono essere scardinati i cardini di quest’ultima. C’è, del resto, un’ampia esperienza sulle modalità di validazione dei vaccini. Tra l’altro, pare che si sia favoriti anche dal fatto che il coronavirus infetta anche animali. E credo che a quelle modalità si debba fare riferimento. Ovviamente cercando nei tempi brevi di sperimentare al meglio, come si sta facendo, farmaci utilizzabili per chi è attualmente contagiato”. 

Cosa ne pensa l’OMS? Al contrario dei professori Garattini, Cavicchi e Eusebi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità approverebbe. Nel 2016, infatti, aveva ipotizzato uno human challenge trial simile a quello proposto oggi dall’università di Havard, anche senza epidemia.

Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 15 aprile 2020. L’attesa per un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere inutile: “Se il virus ha come sembra una variante cinese e una padana, sarà complicato averne uno che funziona in entrambi i casi esattamente come avviene per i vaccini antinfluenzali che non coprono tutto”. Giulio Tarro è un virologo di fama internazionale, discepolo di Albert Sabin – padre del vaccino contro la poliomelite – di cui ha diretto il laboratorio dopo la scomparsa. In Italia, invece, è molto discusso anche per i frequenti scontri a distanza con la star del web Roberto Burioni: “Non voglio fare polemica, ma è curioso – dice Tarro – che ancora si ascolti chi a inizio febbraio diceva che il rischio di contrarre il virus fosse zero perché in Italia non circolava, quando invece era già in giro da tempo”. La lotta al virus ha diviso gli esperti in fazioni con le parti che – spesso – tendono a screditarsi, ma Tarro, classe 1938, non sembra interessato alla voci: “Oggi ci si informa su internet, alla mia età e dall’alto della mia esperienza mi tengo alla larga. Ho isolato il vibrione del colera a Napoli, ho combattuto l’epidemia dell’Aids e ho sconfitto il male oscuro di Napoli, il virus respiratorio ‘sincinziale’ che provocava un’elevata mortalità nei bimbi da zero a due anni affetti da bronchiolite”. Primario in pensione dell’Ospedale Cotugno di Napoli – l’unico secondo Ernesto Burgio ad aver “protezioni adeguate per i medici” – è stato in prima linea contro tante influenze e per questo ricorda che “né per la prima Sars, né per la sindrome respiratoria del Medio Oriente sono stati preparati vaccini, si è fatto, invece, ricorso agli anticorpi dei soggetti guariti”. Come a dire che la chiave di volta per tornare verso la normalità è nella messa a punto di una terapia antivirale efficacie, “una cura che potrebbe arrivare anche per l’estate. Spero che la scienza e il caldo possano essere alleati. E confido che potremo andare a fare i bagni. Troppa gente parla del coronavirus senza avere il supporto dei dati scientifici e senza le giuste conoscenze”. Tarro è convinto che intorno al Covid-19 ci sia molta esagerazione perché pur essendo “un virus un po’ particolare, fortunatamente non ha la stessa mortalità della Sars e neppure della Mers che uccideva un malato su tre. Oggi non lottiamo contro l’Ebola, ma il nostro nemico è una malattia che non è letale per quasi il 96% degli infetti”. Sarebbero dunque una serie di concause ad aver mandato in crisi il sistema sanitario lombardo: “Il problema – prosegue il professore – è nel restante 4% che si è scatenato contemporaneamente. In pratica in meno di un mese abbiamo avuto gli stessi malati di influenza di un’intera stagione. Un’ondata a cui era impossibile far fronte a causa dei tagli alla sanità degli ultimi anni. Secondo l’Oms, tra il 1997 e il 2015 sono stati dimezzati i posti letto in terapia intensiva. E, peggio, non siamo stati abbastanza veloci a riparare i danni”. Secondo l’esperto l’Italia – e la Lombardia in particolare – ha perso troppo tempo tra la dichiarazione dello stato d’emergenza del 31 gennaio e l’attivazione di misure ad hoc per fronteggiare l’emergenza: “Perché quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi sono intervenuti subito sui posti in terapia intensiva e noi no? Abbiamo preferito bloccare i voli con la Cina: una misura davvero inutile. Per non parlare poi del caos mascherine. La verità è che all’inizio non le avevamo quindi si diceva che dovessero usarle sono medici e pazienti, poi siamo diventati produttori di mascherine e quindi diciamo che servono a tutti. E’ incredibile, bisognava dire a tutti subito di usarle e di mantenere le distanze, invece, è stato fatto un pasticcio dopo l’altro. Si voleva blindare la Lombardia come la Cina e poi si è permesso a migliaia di persone di migrare al sud… Francamente non si è capito quale sia stato l’approccio del governo e le misure di contenimento sono state prese in ritardo”.

A non convincere l’esperto è anche la strategia di comunicazione: “L’allarme è fonte di stress e lo stress, paradossalmente, determina un calo delle difese immunologiche. Lo sanno tutti gli esperti, eppure ogni giorno assistiamo a questi inutili numeri che comunica la Protezione civile. Sono dati che non vogliono dire nulla: non conosciamo il numero preciso dei contagiati e di conseguenza ci ritroviamo di fronte a un tasso di mortalità altissimo. Se andiamo a vedere alcuni studi inglesi, però, scopriamo che gli infetti sarebbero molti di più: secondo uno studio dell’Università di Oxford addirittura il 60-64% dell’intera popolazione; per l’Imperial College almeno 6 milioni. Con queste stime il tasso di decessi si abbassa enormemente. Credo che arriveremo sotto l’1% come in Cina”.

In attesa di un antivirale efficace, l’esperto fa tre ipotesi sulla fine dell’epidemia: “Potrebbe sparire completamente come la prima Sars; ricomparire come la Mers, ma in maniera regionalizzata o diventare stagionale come l’aviaria. Per questo serve una cura più che un vaccino. Il fatto che in Africa non attecchisca mi fa ben sperare in vista dell’estate”.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 22 luglio 2020. Il ministro Speranza lo ha già detto: «Entro la fine dell' anno, se il vaccino si dimostrerà efficace, avremo 60 milioni di dosi già utilizzabili». Tutto lo chiamano, semplificando, il vaccino di Oxford e AstraZeneca (multinazionale di bio-farmaceutica), ma un ruolo chiave lo ha una eccellenza della ricerca di Pomezia, in provincia di Roma, la Irbm. Quale? Andiamo per gradi. Premessa: questo vaccino è tra i più promettenti (insieme ad altri cinesi e americani) ma le certezze ci saranno solo alla fine del percorso della sperimentazione, non ora. Sarah Gilbert, ricercatrice dell' Università di Oxford, alla Bbc ha chiarito: «È possibile ma non certo che sia disponibile entro l' anno». La produzione, non solo per la sperimentazione che prosegue dopo la pubblicazione su The Lancet dell' esito delle prime fasi molto incoraggianti, è già cominciata: questo consentirà di avere molte dosi disponibili se tutto andrà come si spera. Bene, questo è il quadro generale, ma come si arriva a Pomezia? Racconta Piero Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato di Irbm, con sede centrale a Pomezia, 250 dipendenti, ricercatori arruolati in tutto il mondo, risultati molto importanti già raggiunti per il vaccino di Ebola: «Noi siamo un centro di ricerca. Lo Jenner Institute dell' Università di Oxford è un partner di lavoro da dieci anni. Bene, lo Jenner, ha una esperienza pazzesca sul fronte dei coronavirus perché ha già messo a punto il vaccino anti Sars e anti Mers. Quando in Cina, il 10 gennaio, hanno pubblicato su internet il sequenziamento della proteina spike del virus, lo Jenner, che con la famiglia dei coronavirus combatte da vent' anni, in due settimane ha preparato l' inoculo virale, cioè il nocciolo del vaccino. Dopo, ci hanno chiamato e ci hanno chiesto: ci mettere a disposizione la vostra expertise sull' adenovirus?». Irbm ha una grande esperienza sull' adenovirus, che è il vettore virale che viene utilizzato come un autobus, «un cavallo di Troia». Di Lorenzo: «L' adenovirus non è altro che un virus di raffreddore, depotenziato perché non si possa replicare nell' organismo. Oxford ci ha mandato l' inoculo virale e noi avevamo l' adenovirus che avevamo già sperimentato sul vaccino anti Ebola. La loro expertise era stata sperimentata sull' uomo con il vaccino anti Mers. Abbiamo potuto saltare alcuni passaggi, velocizzare i tempi. Noi abbiamo partecipato come centro di ricerca nella messa a punto del vaccino anti Covid-19. Si tratta di un contributo scientifico. Il vaccino di Oxford non viene prodotto a Pomezia, come ho invece sentito dire. Noi dobbiamo piuttosto produrre le dosi per le sperimentazioni scientifiche. Fondamentalmente siamo un centro di ricerca». La vocazione di Irbm è la produzione scientifica, non quella di massa. Ma non è escluso che il centro di Pomezia possa diventare protagonista della parte produttiva per l' Italia, tenendo conto che AstraZeneca, come player globale, sta individuando dei laboratori in tutto il mondo, dall' India all' America, perché in ogni continente possa scattare la produzione.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 23 luglio 2020. A una trentina di chilometri dal centro di Roma, in un complesso di palazzine che occupa un'area di circa 80 mila metri quadrati, si sta lavorando giorno e notte. Ricercatori provenienti da tutto il mondo, età media 35 anni, sono impegnati senza sosta perché - e per una volta non c'è un eccesso di enfasi - stanno scrivendo la Storia, o almeno così sperano. Hanno avuto un ruolo decisivo nell'elaborazione del vaccino il cui inoculo virale è stato preparato dall'Istituto Jenner dell'Università di Oxford. L'esito delle prime fasi della sperimentazione, riassunto l'altro giorno sulla rivista The Lancet, è stato unanimemente giudicato promettente. Ora sta scattando la fase tre: a gruppi di diecimila volontari in Usa, Brasile e Sud Africa viene somministrato il vaccino. Anzi viene iniettato a una metà di loro, all'altra metà viene data la dose placebo. «Eh sì - racconta il presidente di Irbm, Piero Di Lorenzo - le fiale le stiamo preparando qui, nei nostri laboratori. Di volte in volta le spediamo, la fase tre è ormai in corso da due mesi». Spoiler sul possibile finale: se tutto andrà bene - ma si tratta di un se importante - tra novembre e dicembre ci saranno le prime dosi anche in Italia. Riassunto delle puntate precedenti: a metà gennaio fu pubblicato dagli scienziati cinesi il sequenziamento del gene della proteina spike del virus; l'Istituto Jenner dell'Università di Oxford, nel Regno Unito, utilizzò le competenze maturate nello studio della famiglia dei coronavirus e in due settimane preparò l'inoculo virale, il nocciolo del vaccino. Poi, si rivolse alla Irbm di Pomezia, che invece ha una specializzazione importante sugli adenovirus, il vettore virale. In questo modo si è arrivati all'elaborazione, con tempi in passato inimmaginabili, del candidato vaccino che vede in prima fila anche la multinazionale AstraZeneca (anglo-svedese) che si occuperà della produzione globale (2 miliardi di dosi, sempre se anche la fase 3 della sperimentazione darà i risultati sperati). Anche se la stampa americana e britannica spesso lo dimentica, la Irbm di Pomezia ha avuto un ruolo chiave nella preparazione del vaccino. E per la produzione della quota italiana, Irbm ha dato la sua disponibilità alla capofila AstraZeneca e al governo (potenzialmente 20 milioni di dosi all'anno, ma se servirà anche di più; una industria di Anagni si occuperà dell'infialamento). Nel frattempo bisogna produrre le prime 15 mila dosi per la sperimentazione: su questo Irbm sta già lavorando. E nella parte in cui sono ospitati i laboratori (20mila metri quadrati, uno spazio esteso come un grande centro commerciale) non esistono più orari. Per Irbm - 43 milioni di fatturato che riflettono l'attività di un centro di ricerca di eccellenza - si tratta di una sfida epocale (e anche qui l'enfasi è giustificata). Di Lorenzo: «Quando undici anni fa rilevai la struttura dalla multinazionale Merck, non avrei certo immaginato che ci saremmo trovati a svolgere un ruolo chiave in una storia così importante, con partner prestigiosi come Oxford e AstraZeneca». Nel polo della ricerca di Pomezia quando si scherza si usa l'italiano e, per i più scafati, il romanesco, ma quando si lavora c'è solo l'inglese, visto che sono rappresentati molti paesi del mondo. E il livello di sicurezza, normalmente molto alto, è stato moltiplicato: bisogna evitare incursioni fisiche e informatiche, lo spionaggio industriale in una partita come questa è un rischio quotidiano. Anche i corrieri che partono per consegnare le dosi della sperimentazione seguono protocolli e attuano contromisure che non si possono raccontare. Tutto questo sta succedendo a Pomezia, a una trentina di chilometri dal centro di Roma.

Michele Arnese per startmag.it il 4 maggio 2020. Si accelerano i tempi per il vaccino anti Covid-19 al quale sta lavorando lo Jenner Institute della Oxford University con la partnership dell’azienda italiana Advent del gruppo Irbm di Pomezia. La multinazionale farmaceutica AstraZeneca ha stretto un accordo con lo Jenner: sarà responsabile dello sviluppo, della produzione e distribuzione del vaccino a livello mondiale. Finora, ha fatto sapere AstraZeneca, il vaccino è stato somministrato ad oltre 320 volontari sani evidenziando di essere “sicuro e ben tollerato” ed i risultati di questa prima fase sono attesi “entro maggio”. Poi, già da giugno, la sperimentazione sarà allargata ad un campione più ampio di 5.000 soggetti. La sperimentazione clinica sull’uomo, dopo i risultati positivi già ottenuti in laboratorio e sulle scimmie, è partita in 5 centri in Inghilterra lo scorso 23 aprile su 550 volontari sani e su altri 500 cui verrà somministrata una soluzione placebo. “Se il vaccino si dimostrerà efficace, entro fine settembre si dovrebbe entrare in produzione”, ha detto oggi al Giornale Piero Di Lorenzo, amministratore delegato e presidente di Irbm: “Se il vaccino si dimostrerà efficace, previo il via libera dalle autorità di controllo internazionali, entro fine settembre si dovrebbe entrare in produzione”, dice Di Lorenzo, precisando che “un solo produttore non può essere in grado di affrontare la scala globale. Per questo è stato siglato l’accordo con la multinazionale AstraZeneca”. “Si prevede che il primo lotto (2 milioni di dosi) sia pronto a gennaio  – ha affermato – è ancora presto per stimare i costi, però saranno contenuti. L’accordo siglato per la produzione prevede, infatti, che in tutto il periodo della pandemia, il vaccino verrà distribuito al prezzo di costo, not for profit, come richiesto dall’Istituto Jenner di Oxford”. “Con la Oxford University lavoriamo da 10 anni: è un’eccellenza, a livello mondiale, che ha già studiato la Sars. Si sono rivolti a noi per l’esperienza acquisita con l’adenovirus, un virus influenzale, impiegato depotenziato per trasportare il gene Spike sintetizzato del Sars-Cov-2 nell’organismo umano”, ha sottolineato nei giorni scorsi Di Lorenzo, fino a pochi anni fa comunicatore e consulente per le relazioni istituzionali di società (pubbliche e private) e della Guardia di Finanza. Irbm è controllata al 98% da Ilaria Di Lorenzo e ha un valore della produzione (dati al 2018) di 23 milioni di euro e un utile di poco meno di 3 milioni di euro. Da un articolo di Dagospia, si evince una certa irritazione verso presidenza del Consiglio e ministero della Salute: “Quando l’Irbm di Piero di Lorenzo ha cercato di convincere il governo di Conte ad entrare fra i finanziatori del progetto italo-inglese per portare a termine la ricerca per il vaccino, ma l’importanza della proposta è stata ”sottovalutata” (il capogabinetto di Conte, Goracci, e il capo segreteria l’hanno girata alla Cdp)”. Il gruppo Cdp (Cassa depositi e prestiti) presieduto da Giovanni Gorno Tempini e guidato dall’ad, Fabrizio Palermo, e la Banca europea per gli investimenti (alla vicepresidenza della Bei c’è l’italiano Dario Scannapieco – fa capire Dagospia – sono state contattate da Di Lorenzo per un eventuale supporto economico. Cdp e Bei stanno valutando eventuali modalità di supporto finanziario all’iniziativa, tenuto conto dello stato dell’arte delle modalità di sviluppo del progetto, al momento in fieri. L’eventuale finanziamento sarebbe destinato a sostenere la produzione del vaccino in Italia. La Gran Bretagna non è la sola in corsa per il vaccino contro il virus Sars-Cov-2. Il virologo Anthony Fauci, della task force Usa contro il nuovo coronavirus, non esclude che gli Usa possano arrivare al vaccino entro il prossimo gennaio. La strada, ha spiegato nei giorni scorsi, “è assumersi il rischio di cominciare la produzione con le società coinvolte presumendo che funzioni e, in tal caso, aumentarla”. Complessivamente, ha sottolineato l’Ansa, sono oltre 90 i possibili vaccini contro il Covid-19 in fase di sviluppo in tutto il mondo, usando diverse tecnologie, alcune delle quali mai provate prima.

Melania Rizzoli per Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. La vera sfida geopolitica tra i giganti della ricerca è solo una, considerata la corsa all' oro contemporaneo: il vaccino contro il coronavirus, l' oggetto del desiderio più ambito a livello globale, la molecola sulla quale si concentra la maggior parte delle risorse economiche investite a palate, il principio attivo più ricercato contro ogni evidenza scientifica, perché la posta in gioco è molto alta, ed è chiaro che chi arriva primo vince su tutti. Da due mesi il fervore tra i ricercatori è evidente, la riservatezza quasi assoluta, ma tra le tante bocche cucite del mondo scientifico trapela la notizia che le prime dosi sperimentali potrebbero essere italo-britanniche, pronte addirittura a settembre, una data molto attraente perché precede l' autunno, quando si teme una seconda ondata del Covid19. Sono infatti 115 i gruppi al mondo che da febbraio hanno avviato l' impresa, ma Oxford e Pomezia sembrano avanti rispetto agli altri laboratori, poiché allo Jenner Institute della Oxford University in collaborazione con l' azienda italiana Advent-Irbm di Pomezia partner nello sviluppo, è stato messo a punto un vaccino molto promettente contro il coronavirus, che secondo il New York Times è stato testato su sei scimmie macao nel Montana il mese scorso, e gli animali, dopo essere stati esposti ad alte dosi del virus, sono rimasti in salute per i 28 giorni consecutivi, mentre le scimmie rimaste senza vaccino si sarebbero tutte ammalate.

La sperimentazione. Dopo questi risultati incoraggianti il "vaccino Jenner" è stato somministrato a 320 volontari sani, nei quali è risultato «sicuro e ben tollerato», per cui è iniziata una prima sperimentazione in 5 centri in Inghilterra, dove il vaccino verrà testato su ulteriori 500 volontari, (i risultati di questa fase sono attesi entro la fine di maggio), dopodiché i primi test clinici verranno effettuati a giugno su 5mila soggetti, che spianeranno la strada alle prime dosi disponibili per categorie previste nel prossimo mese di dicembre. Oggi creare un vaccino capace di proteggere contro il Covid19 è un' impresa titanica, primo perché non ne abbiamo mai creato uno contro un coronavirus e secondo perché sappiamo ancora troppo poco riguardo la risposta immunitaria di reazione al contagio, la sua efficacia nel tempo e la possibilità della perdita progressiva di memoria immunologica e quindi di una seconda infezione, tutte variabili che disorientano gli studiosi i quali si interrogano e si chiedono se una molecola costruita in laboratorio sia davvero in grado di garantire l' immunità contro un virus naturale molto aggressivo ed ancora sconosciuto, che a quanto pare non ci rende immuni in modo permanente dopo la sua prima infezione. L'azienda italiana Irbm di Pomezia ha reso noto di aver raggiunto un accordo, insieme allo Jenner Institute, con la multinazionale AstraZeneca, al fine di imporre un' accelerazione ulteriore del prototipo di vaccino antiCovid, della sua realizzazione, produzione e distribuzione a livello mondiale, aggiungendo che verrà adottato un modello no profit per tutta la durata della pandemia, cioè senza margini di profitto. Normalmente i tempi medi per arrivare ad immettere un vaccino sul mercato sono di 2-3 anni, ma a fronte della grave emergenza sanitaria del nostro Paese, l' azienda di Pomezia ha deciso di passare direttamente alla fase di sperimentazione clinica sull' uomo, ritenendo sufficientemente testata la non tossicità e l' efficacia del vaccino sulla base dei risultati di laboratorio ottenuti e definiti particolarmente buoni, promettendo uno stock di dosi «ad uso compassionevole» per coloro che sono esposti in prima linea, gli agenti delle forze dell' ordine e il personale sanitario, puntualizzando che sarà necessario molto più tempo per la produzione industriale e perché possa essere disponibile su larga scala per la popolazione. Se tutti i test di questa promettente sperimentazione daranno gli esiti positivi auspicati, il primo stock di vaccino antiCovid verrà messo a disposizione per iniziare la profilassi di alcune categorie più fragili e di quelle più a rischio, come ha sottolineato il presidente di Irbm Pietro Di Lorenzo, che punta comunque ad ottenere un numero considerevole di dosi in tempi ristretti. Anche se questo italo-britannico non è l' unico prototipo di vaccino in corsa (altri sono in via di sperimentazione negli Usa, in Cina, in India e in Australia) di sicuro è quello che ha mostrato i risultati più positivi in tempi più brevi, confortati dai test pre-clinici certificati e pubblicati.

Corsa mondiale.  Nel giorno in cui l' Oms ha ammesso che solo un vaccino specifico potrà interrompere definitivamente la trasmissione del coronavirus a livello globale, tra la nebbia che avvolge l' integrazione tra il nuovo agente virale e il sistema immunitario umano, questione che ancora disorienta i ricercatori, i quali sanno bene che esistono virus contro i quali è impossibile sintetizzare un vaccino, dall' alleanza nata tra Oxford e Pomezia, una gloriosa Università ed un centro di ricerca situato sulla Pontina alle porte di Roma, arriva la speranza di una scoperta scientifica di importanza mondiale, processata in corsa e in piena emergenza, in una sfida ai limiti dell' impossibile, sulla quale sventolerà anche il nostro tricolore in segno di vittoria, la bandiera simbolo di uno dei Paesi più duramente colpiti ed umiliati dal Corona.

DAGOREPORT il 2 maggio 2020. Come mai il vaccino anti-Covid più avanzato del mondo, sviluppato da una partnership tra lo Jenner Institute della Oxford University e la società IRBM di Pomezia, verrà prodotto e distribuito in esclusiva dalla multinazionale britannica AstraZeneca e non da una azienda italiana? E noi saremo costretti a pregare Boris Johnson di darci qualche dose? Semplice, e tragico: quando l’IRBM di Piero di Lorenzo ha cercato di convincere il governo di Conte ad entrare fra i finanziatori del progetto per portare a termine la ricerca per il vaccino, l’importanza della proposta è stata "sottovalutata" (eufemismo per dire che il premier e il ministro Sperranza non l'ha nemmeno ricevuto). E dopo due mesi di inutili tentativi con CDP Private Equity, la società di Pomezia, che non avrebbe comunque preso un euro dall’intervento  finanziario dello Stato italiano, essendo interamente  destinato alle casse della Oxford University, ha dovuto lasciare campo libero al governo di Boris Johnson. Alla delusione si è aggiunta la mortificazione: un finanziamento governativo di 10 milioni per lo sviluppo del vaccino anti-Covid finiva nella cassa della Reithera, azienda svizzera con sede a Castel Romano, cara alla direttrice dell'ospedale Spallanzani e all’Assessore alla Salute della Regione Lazio. Poi seguiremo i risultati...Il dicastero della Sanità britannico, invece, non ha avuto nessun tentennamento a finanziare con la somma di 20 milioni la ricerca italo-inglese Jenner-IRBM. Risultato finale? Ora la produzione e la distribuzione globale del vaccino è nelle mani dell’AstraZeneca britannica. Naturalmente adesso il ministro dell’università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, quota PD, e la presidenza di Palazzo Chigi sono in contatto con la società di Pomezia per riservare una parte della produzione del vaccino al nostro paese ma accorrerà sganciare tanti soldi...

Marco Pasqua per Il Messaggero il 2 maggio 2020. Il presidente della biotech Irbm: "A giugno, se la prima fase di test su 500 volontari sani darà esiti positivi, inizierà la fase ulteriore su 5000 soggetti". Alla collaborazione italo-inglese si aggiunge AstraZeneca, che si occuperà della produzione e distribuzione. Se lo sono chiesto in molti: perché il "Jenner Institute" della Oxford University, ha scelto una società di Pomezia per lavorare al vaccino contro il Coronavirus? A spiegarlo è il presidente e amministratore delegato della IRBM, Piero Di Lorenzo, l'azienda che ha già inviato centinaia di dosi per i test sui macachi prima e sull'uomo, adesso. «Con la Oxford University lavoriamo da 10 anni: è un'eccellenza, a livello mondiale, che ha già studiato la Sars. Si sono rivolti a noi per l'esperienza acquisita con l'adenovirus, un virus influenzale, impiegato depotenziato per trasportare il gene Spike sintetizzato del SarsCov2 nell'organismo umano». Come se fosse un “cavallo di Troia”, quando l'adenovirus “trasportatore” entra nell'organismo, quest'ultimo reagisce e crea anticorpi. «Inoltre – ricorda Di Lorenzo – nei nostri laboratori a Pomezia è stato prodotto il vaccino anti-ebola». L'Irbm è una società italiana, fondata nel 2009 a Pomezia, specializzata nel settore della biotecnologia molecolare, della scienza biomedicale e della chimica organica. È proprio in questi laboratori che i ricercatori hanno messo a punto il vaccino italiano anti-ebola, il cui brevetto è stato acquistato nel 2013 dalla società britannica Gsk. Centrale, nel vaccino contro il Coronavirus, il ruolo della multinazionale farmaceutica Astrazeneca, che nei giorni scorsi ha annunciato di essere pronta a lanciare e fornire fino a 100 milioni di dosi entro la fine dell'anno: a lei toccherà il compito di pianificare questa produzione. «La capacità di produzione attuale è tra i 100 e i 200 milioni di dosi l'anno – spiega Di Lorenzo – ma la richiesta sarà pari a miliardi di dosi. La decisione sulle modalità di distribuzione del vaccino toccherà ai diversi governi». Quanto ai tempi, il presidente di IRBM, spiega che, dopo i test positivi sui macachi, sono iniziati quelli sull'uomo: in particolare su 510 volontari. «Per fortuna non c'è reazione per adesso – dice Di Lorenzo – I test sono iniziati da giorni ed è prematuro fare qualunque considerazione: bisogna aspettare le evidenze scientifiche, che arriveranno a settembre. Poi, nel giro di pochi mesi, con Astrazeneca, potremo avere una prima produzione». Di Lorenzo evidenzia che il Coronavirus è una “brutta bestia”: «E' molto contagioso. Si propaga in maniera incredibile, molto più delle altre malattie virali che abbiamo testato e vissuto. E sarà una brutta bestia almeno fino a quando non ci sarà un vaccino e una terapia specifica».

COME MAI IL VACCINO DI OXFORD, SVILUPPATO INSIEME ALLA IRBM DI POMEZIA, SARÀ CONSEGNATO A NOVEMBRE NEGLI OSPEDALI DI LONDRA MENTRE IN ITALIA LE DOSI PER TUTTI ARRIVERANNO SOLO ENTRO GIUGNO 2021? SEMPLICE, IL REGNO UNITO NON DOVRÀ ASPETTARE L'AUTORIZZAZIONE DELL'EMA, NON FACENDONE PIÙ PARTE DOPO LA BREXIT.

Dagospia il 26 ottobre 2020. Da dailymail.co.uk. “Il vaccino contro il coronavirus di Oxford deve ottenere l'approvazione prima di Natale in modo che possa essere utilizzato per medici e anziani prima che siano terminate le sperimentazioni finali”. Lo ha detto Adrian Hill, il professore che guida il progetto. Il vaccino secondo Hill sarà disponibile entro la fine dell’anno per le fasce protette, e all’inizio del 2021 per tutti gli altri.

Da cronacaoggi.com - notizie dall’italia e dal mondo scelte da Marco Benedetto il 26 ottobre 2020. Vaccino anti Coronavirus in consegna dal 2 novembre negli ospedali di Londra. Il vaccino è quello noto come Oxford Astra-Zeneca, prodotto anche a Pomezia (Roma). Ma in Italia entro giugno 2021. Vuol dire che in Italia si produce il vaccino ma prima, anzi first gli inglesi. Alla faccia di quelli che dicono prima gli italiani. Sarà invece prima gli operatori sanitari e gli anziani. Inglesi. E da gennaio anche a tutti gli altri. Inglesi. Poi gli italiani. O è solo azzardo propagandistico britannico contro ragionevole prudenza italiana?

DAGONOTA il 26 ottobre 2020. La risposta alle domande di Marco Benedetto è semplice: il vaccino di Astrazeneca/Oxford/IRBM sarà pronto a metà novembre. Non facendo più parte dell'Ema, il Regno Unito potrà distribuire il vaccino anti-coronavirus non appena terminata la fase tre della sperimentazione, senza aspettare l'ok dell'Unione Europea...

Da repubblica.it il 26 ottobre 2020. Il vaccino contro il Covid sviluppato dall'università di Oxford, in collaborazione con l'azienda farmaceutica AstraZeneca, genera una forte risposta immunitaria tra gli anziani, il gruppo più vulnerabile: è quanto scrive il Financial Times, parlando di "speranze" generate dai trial. Le sperimentazioni cliniche di questo vaccino sono nella fase 3, l'ultima prima di sapere esattamente se è sicuro e se permette di proteggere la popolazione dalla malattia (dopodiché ovviamente bisognerà attendere l'approvazione degli enti regolatori prima che il vaccino possa essere immesso sul mercato). Comunque, due fonti citate dal quotidiano come al corrente degli studi in corso hanno sostenuto che il vaccino in questione genera gli anticorpi e i cosiddetti linfociti T tra gli anziani (le cellule il cui compito principale è identificare e uccidere gli agenti patogeni invasori o le cellule contagiate). "Grazie alla forza economica e organizzativa della leader del progetto, la multinazionale AstraZeneca, abbiamo cominciato a produrre il vaccino" contro Covid-19 "già da mesi - spiega Piero Di Lorenzo, presidente dell'Irbm di Pomezia, il centro che ha sviluppato insieme all'università di Oxford il candidato vaccino prodotto da AstraZeneca, ospite di "Omnibus" su La7 - Il ministro Speranza è stato attivo ed efficace nell'inserirsi nel gruppo di testa dell'Ue per prenotare i vaccini. Se tutto andrà bene, è ragionevole aspettarsi che le prime dosi di vaccino, 2-3 milioni, arrivino in Italia entro la fine dell'anno. Il contratto tra AstraZeneca e l'Ue prevede la consegna di 300 milioni di dosi entro giugno 2021. In Italia ogni mese arriveranno in Italia una decina di milioni di dosi. Entro giugno 2021, tutti quelli che vorranno vaccinarsi in Italia potranno farlo". Non per spargere facile ottimismo, ma per rispondere ad una giusta fame di informazione: è assolutamente credibile che la sperimentazione del progetto AstraZeneca-Oxford possa arrivare a conclusione con le sperimentazioni di fase III a fine novembre-metà dicembre - ha aggiunto - E' ragionevole pensare che entro la fine dell'anno possa esserci la validazione. Alla fine della sperimentazione, la documentazione viene data alle agenzie regolatorie che normalmente impiegano 6-12 mesi per completare il processo. In questa situazione, che non è normale visti milioni di malati e di morti, sono certo che le agenzie si daranno da fare per eliminare tutti i tempi burocratici e per accelerare il processo senza minimamente cancellare regole relative alla sicurezza". "Ho visto una statistica dell'Istat, prevede che il 75% degli italiani è pronto a vaccinarsi: è ragionevole che il 75% degli italiani entro giugno 2021 sia vaccinato", ha stimato Di Lorenzo. "Nei protocolli  un vaccino diventa tale se garantisce come minimo il 50% di efficacia. Nelle sperimentazioni di fase I già pubblicate, il vaccino presentava un'efficacia del 90% che con un richiamo può arrivare al 95%". 

ANSA il 2 maggio 2020 - "Procedendo con questi ritmi sarà possibile avviare da luglio le prime sperimentazioni sull'uomo". Così il direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, in merito al vaccino contro il Covid 19 che verrà sperimentato nell'Istituto per le malattie infettive di Roma. "Se i primi test daranno un esito positivo, porteranno nel 2021 alla somministrazione del vaccino su un alto numero di persone a rischio e, spero, alla dimostrazione della sua efficacia" ha aggiunto Vaia. "Lo Spallanzani sta allestendo un'area dell'ospedale che sarà specificatamente dedicata alla somministrazione del vaccino a volontari sani, nel rispetto di tutte le garanzie di sicurezza" spiega il direttore sanitario Francesco Vaia. Secondo quanto si è appreso, si tratta di un vaccino genetico basato su un vettore virale che è stato messo a punto dalla società ReiThera, un'azienda di biotecnologie con sede a Castel Romano. Il coordinamento scientifico è stato affidato all'istituto Spallanzani che agirà d'intesa con il Cnr. "A differenza dei vaccini tradizionali, i vaccini genetici non utilizzano un microorganismo inattivo o parte di esso ma il gene che codifica per l'antigene del microrganismo che si vuole neutralizzare" spiega Vaia. In questo caso - a quanto si è appreso - verrà utilizzato il gene che codifica per la proteina spike che permette l'ingresso del virus nelle cellule. Questo gene, una volta entrato nelle cellule dell'organismo, induce la produzione della proteina che a sua volta stimola la risposta immunitaria contro il coronavirus. Per la sperimentazione di questo vaccino è scesa in campo la Regione Lazio in accordo con il ministero dell'Università e della Ricerca. Nelle scorse settimane la Regione aveva annunciato di destinare 5 milioni di euro allo Spallanzani proprio per contribuire alla ricerca del vaccino contro il Covid-19.

Premio Oscar Mikhalkov accusa Gates, poi grida alla censura russa. Redazione Notizie.it il 02/05/2020.  Milano, 2 mag. (askanews) – Nikita Mikhalkov prima punta il dito contro il miliardario Bill Gates istillando il virus del complottismo che vorrebbe il miliardario americano impegnato a usare la pandemia di coronavirus a suo vantaggio. Poi accusa addirittura la tv russa di censure perchè ha deciso di sospendere le repliche della puntata del suo programma di commento “BesogonTV”, dove appunto accusa Gates. In realtà la puntata intitolata “Chi ha lo stato in tasca?”, presentata in anteprima il 1 maggio 2020, ma poi rimossa da Rossiya24, si trova ancora in rete. Eppure il cineasta nonchè premio Oscar dice di essere stato censurato. E sui social russi è un fioccare di commenti talora semiseri su Mikhalkov – considerato comunque parte della nomenklatura sin dai tempi sovietici – e sull’ennesima teoria del complotto.

Spunta il vaccino made in Italy. E Gates adesso chiama Conte. "Se i primi test daranno esito positivo, nel 2021 il vaccino sarà somministrato ad un alto numero di persone a rischio”, ha sottolineato il direttore sanitario dell’ospedale, Francesco Vaia. Andrea Pegoraro, Sabato 02/05/2020, su Il Giornale. A luglio partiranno i primi test sull’uomo di un vaccino anti-Covid made in Italy. Le sperimentazioni verranno svolte all’Istituto Nazionale Malattie Infettive (Inmi) Spallanzani di Roma. “Se i primi test daranno esito positivo, nel 2021 il vaccino sarà somministrato ad un alto numero di persone a rischio”, ha sottolineato il direttore sanitario dell’ospedale, Francesco Vaia. Quest’ultimo ha spiegato che l’Istituto sta predisponendo uno spazio del nosocomio, destinato alla somministrazione del vaccino a volontari sani rispettando tutte le garanzie di sicurezza.

Il progetto. Arrivano quindi buone notizie su una possibile cura. A tal proposito, Vaia ha illustrato il progetto che vedrà impegnato l’ospedale nella fase 2 dell’emergenza. Il dirigente medico ha detto che “un comitato di esperti guidato da Mauro Piacentini dell'Università Tor Vergata di Roma, ha deciso di puntare su un vaccino genetico basato su un vettore virale”. Il comitato ha individuato un partner industriale, ovvero l’azienda ReiThera che ha sede a Castel Romano, una zona a sud della Capitale. Questa società ha sviluppato una tecnologia in questo settore. Basti pensare che il vaccino è in fase di sviluppo avanzata da parte di ReiThera. Vaia ha aggiunto che il coordinamento scientifico è stato affidato allo Spallanzani che agirà d'intesa con il Consiglio nazionale delle ricerche. Per realizzare la sperimentazione del vaccino sono stati erogati 8 milioni di euro: 5 milioni a carico della Regione Lazio, trasferiti all’Inmi, e 3 milioni a carico del ministero dell'Università e della ricerca scientifica. Questo progetto nasce infatti dal protocollo d'intesa tra il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il ministro della Salute, Roberto Speranza, il ministro dell'Università e della ricerca scientifica, Gaetano Manfredi, il Consiglio Nazionale delle Ricerche e lo Spallanzani.

Un vaccino genetico. Vaia ha spiegato che “a differenza dei vaccini tradizionali, i vaccini genetici non utilizzano un microorganismo inattivato o parte di esso, ma il gene che codifica per l'antigene del microrganismo che si vuole neutralizzare”. Il direttore sanitario ha sottolineato che per il Covid-19 si è pensato a un gene che codifica lo spike, ossia una proteina di superficie che permette l'ingresso del virus nelle cellule. “Questo gene - ha proseguito il dirigente medico - una volta entrato nelle cellule dell'organismo induce la produzione della proteina spike che a sua volta stimola la produzione immunitaria contro il coronavirus”. Vaia ha detto che per trasferire il gene nelle cellule, ReiThera ha perfezionato una tecnologia che utilizza un virus, un adenovirus, derivato da primati non umani. Si tratta di una tecnologa già impiegata dall’azienda per mettere a punto un vaccino contro Ebola.

Telefonata Gates-Conte. Il premier Giuseppe Conte ha ricevuto questo pomeriggio una telefonata da Bill Gates. Durante la conversazione, l’imprenditore statunitense ha riconosciuto l'impegno assicurato dall'Italia, durante gli anni, al contrasto alle pandemie e al sostegno della ricerca scientifica finalizzata ai vaccini. Il presidente del consiglio ha sottolineato l'intenzione italiana di tenere ben in evidenza queste tematiche nell'agenda del G20 del 2021, di cui il nostro Paese assicurerà la Presidenza.

Vaccino italiano: “Gli anticorpi funzionano, vogliamo sperimentarlo a Napoli con Ascierto”. Redazione de Il Riformista il 4 Maggio 2020. Gli anticorpi generati dal vaccino italiano dell’azienda Takis nei topi funzionano. Lo ha detto l’amministratore delegato Luigi Aurisicchio.  I test fatto sono stati eseguiti all’ospedale Spallanzani di Roma grazie a una procedura che ha permesso di isolare il virus e verificare poi l’efficacia dei candidati vaccini direttamente sul virus. È il risultato più incoraggiante raggiunto fin qui nella sperimentazione di un vaccino nato in Italia. I test diretti sull’uomo sono previsti dopo l’estate e l’azienda vorrebbe avviare la sperimentazione a Napoli con l’equipe del dottor Ascierto. “È andata  bene – ha detto Aurisicchio – il saggio effettuato sul virus di Covid-19 allo Spallanzani ci  ha permesso di individuare i due ‘candidati vaccini’ più promettenti.  Nel giro di due settimane avremo i risultati di un mega-studio in corso a Castel Romano che ci dirà quanto dura la risposta immunitaria  innescata, e ci permetterà di individuare il vaccino migliore da portare in sviluppo. E, se tutto andrà bene, potremo iniziare gli  studi sull’uomo dopo l’estate: vogliamo farli a Napoli, con il gruppo dell’oncologo Paolo Ascierto“. Mentre un altro laboratorio romano, la Irbm di Pomezia, insieme con il gruppo di Oxford ha già avviato i test sull’uomo, la Takis continua la sua corsa. “Avevamo messo a punto cinque  candidati vaccini contro il virus Sars-Cov-2 – ricorda – che nei test  sui topi hanno mostrato una forte immunogenicità, con una buona  risposta anticorpale. Il saggio allo Spallanzani ci ha permesso di  individuare i due che danno una risposta migliore: non è tanto la  quantità di anticorpi, ma la qualità che è in grado di neutralizzare  bene la regione ‘chiave’ della proteina Spike“, la proteina che il virus usa per penetrare nelle cellule. “È vero, altri gruppi sono già ai trial sull’uomo – ammette Aurisicchio – ma noi abbiamo voluto valutare con un saggio funzionale direttamente sul virus l’efficacia dei nostri candidati. E lo potevamo fare solo allo Spallanzani. Questo ci ha permesso di individuare i due più promettenti. Nel giro di due settimane avremo altri risultati,  frutto dello studio che si chiude oggi a Castel Romano. Un’azienda  austriaca produrrà poi il vaccino su larga scala per avviare lo studio sull’uomo dopo l’estate. Ma la nostra speranza è quella di accedere al mega-finanziamento europeo che verrà annunciato oggi, mirato proprio allo sviluppo di un vaccino. E di riuscire a svilupparlo in Italia”.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Su cinquanta vaccini in corsa come candidati alla prevenzione della malattia da coronavirus uno dei più lanciati sembra essere quello studiato in un laboratorio di Pomezia, piccolo centro in provincia di Latina. L' azienda italiana Advent-Irbm e lo Jenner Istitute della Oxford University, centro di ricerca ai primissimi posti a livello mondiale, hanno annunciato che a fine aprile in Inghilterra cominceranno i test su 550 volontari sani. Secondo Piero Di Lorenzo, amministratore delegato di Irbm, alcune dosi potranno essere disponibili già a settembre in uso compassionevole, vale a dire prima delle autorizzazioni delle agenzie del farmaco, procedura che scatta in situazioni di emergenza, quando c' è l' evidenza che un farmaco può funzionare, non è dannoso e mancano strumenti terapeutici e di profilassi per cercare di intervenire sull' epidemia non altrimenti contenibile. L' iniziale, ridotta distribuzione non deve far pensare però a un imminente impiego su larga scala, per la popolazione. Se va bene se ne riparlerà il prossimo anno. Il primo impiego al di fuori dei test riguarderà il personale sanitario e le forze dell' ordine, poi l' eventuale allargamento sulla base di risposte certe e il via libera degli enti regolatori. La notizia va maneggiata con molta cautela. Nell' ultimo mese gli annunci sul vaccino si sono moltiplicati e i fallimenti sono da mettere in conto. Però qui le premesse di serietà ci sono. Giovanni Rezza, direttore del Centro malattie infettive all' Istituto superiore di sanità è prudente: «C' è una grande accelerazione della ricerca, le agenzie regolatorie sono più generose nel dare le autorizzazioni. Il vantaggio del progetto di Pomezia è di poter sfruttare una piattaforma già utilizzata per il vaccino anti-Ebola (poi prodotto da Merck Sharp & Dohme, ndr ). È un candidato promettente come altri in sperimentazione». Per piattaforma si intende un vettore virale preso dalle scimmie, innocuo per l' uomo, capace di esprimere la proteina Spike e di indurre una risposta immunitaria. La Spike permette al virus di attaccare le cellule di rivestimento di bronchi e polmoni ed è stata scoperta allo Jenner. L' obiettivo delle inoculazioni è di indurre la risposta del sistema immunitario, di fargli produrre anticorpi neutralizzanti del virus. Una strada seguita da altri «sviluppatori» di vaccini anti Covid-19. Un recente articolo di Science riferisce che sono cinque i candidati vaccini già in sperimentazione clinica. Fra questi c' è quello di Inovio, compagnia del Massachusetts, sostenuta dall' americano National Institute of Health (NIH), la massima autorità nel campo della valutazione dei farmaci. Le prime inoculazioni hanno preso avvio alla metà di marzo. Secondo Di Lorenzo «in virtù dei dati acquisiti nelle ultime settimane, alla fine di questo mese il primo lotto del vaccino partirà da Pomezia, destinazione Inghilterra dove inizieranno i test». Nella corsa ai test sierologici rapidi, che permettono di scoprire se un individuo è stato infettato dal virus sviluppandone gli anticorpi, è la Lombardia a bruciare i tempi. Dal 21 aprile «saranno effettuati 20mila test cominciando da operatori sanitari e socio sanitari e dai cittadini che devono tornare al lavoro con particolare riferimento alle province di Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi». I test sono quelli ideati e validati dall' Irccs pubblico San Matteo di Pavia. «Certificheranno l' immunità e permetteranno di gestire in modo consapevole la cosiddetta fase 2», afferma la Regione.

Coronavirus, a Londra al via il test del vaccino sull’uomo. Alessandra Tropiano il 22 aprile 2020 su Notizie.it. Mentre il mondo intero fronteggia l’emergenza coronavirus, nei laboratori si cerca di trovare un vaccino (unica soluzione, secondo i medici, per fermare l’epidemia). Il Regno Unito è già lanciato nello sviluppo del vaccino contro il Covid-19, e da giovedì partono i test sull’uomo. Buone notizie dal Regno Unito: i ricercatori dell’Università di Oxford inizieranno a testare un vaccino contro il Covid-19 sugli esseri umani. Da giovedì, le prime dosi verranno somministrate ad alcuni volontari. “In tempi normali, raggiungere questo stadio avrebbe richiesto anni” ha commentato il ministro della Sanità Matt Hancock. Obiettivo del Regno Unito è quello di avere il vaccino pronto già per l’autunno, così da poter vaccinare personale sanitario e forze dell’ordine già da settembre. Il vaccino che potrebbe salvare il mondo dal coronavirus è frutto di una partnership anglo-italiana, che vede la collaborazione tra la Advent-IRBM, una piccola azienda di bioingegneria di Pomezia, e il Jenner Institute dell’Università di Oxford. “Personalmente sono molto fiduciosa -commenta Sarah Gilbert, responsabile del team-. Penso, con un buon grado di ottimismo, che ci sono ottime possibilità che funzioni“. Gli occhi del mondo sono puntati sul vaccino inglese, tanto che diversi governi sarebbero in trattativa per fornire investimenti che accelererebbero la produzione del vaccino. Da parte sua, il ministero della Sanità inglese ha fornito 20 milioni di sterline per supportare il vaccino dell’Università di Oxford e altri 22 per un progetto dell’Imperial College. “Daremo loro tutte le risorse di cui hanno bisogno -afferma Matt Hancock- per massimizzare le loro possibilità di successo al più presto. I vantaggi di essere il primo Paese al mondo a sviluppare un vaccino -continua- sono così enormi che ci mettiamo tutte le risorse possibili. Così se uno di questi due vaccini funziona ed è sicuro, possiamo renderlo disponibile ai britannici non appena umanamente possibile”.

Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. In questi giorni si parla molto del vaccino contro il Covid-19 che sta mettendo a punto una partnership tra l' azienda italiana Advent e lo Jenner Institute della Oxford University. Già da fine aprile in Inghilterra partiranno i test sull' uomo su 550 volontari sani. La premessa è dunque d' obbligo: la priorità è trovare un vaccino efficace e in tempi brevi, ma si spera garantendo sicurezza alle persone sane. L' italiana Advent, coinvolta nel progetto, è una società fondata nel 2010 e controllata al cento per cento dalla Irbm Spa, azienda di Pomezia che si occupa di ricerca per nuovi farmaci e di cui è presidente del Cda Piero di Lorenzo, imprenditore con un passato da produttore televisivo. Del vaccino, una voce autorevole come Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell' Istituto superiore di sanità (Iss), rispondendo a una domanda durante la conferenza stampa della Protezione Civile del 13 aprile, ha detto: è un "candidato promettente". Per Rezza la Irbm però non è un nome nuovo. Il 30 marzo scorso è stato nominato vice presidente del Consiglio di amministrazione del Cnccs, Collezione nazionale di composti chimici. Si tratta di un consorzio pubblico-privato costituito nel 2010 dal Cnr, Consiglio Nazionale delle Ricerche (che detiene il 20 per cento delle quote), dall' Iss (10 per cento), mentre il restante 70 per cento è della Irbm.

La Advent, società di proprietà della Irbm. "Non ho alcun conflitto di interessi - spiega Rezza al Fatto -. Il Cnccs non è il consorzio che produce il vettore del vaccino, ma è Advent che è una società credo legata a Irbm ma che non fa parte del consorzio". Quella di marzo scorso non è la prima carica di Rezza nel Cnccs. Era già successo nel 2010 quando fu nominato presidente del consiglio di amministrazione, carica cessata due anni dopo. E nel consorzio, in passato, nel 2016 (carica cessata nel 2019), è stato nominato vicepresidente del Cda anche un altro nome importante dell' Iss, ossia Walter Gualtiero Ricciardi, oggi consulente scientifico del ministro della Salute per Covid e dal 2014 al 2018 presidente dell' Iss. Ma torniamo a Rezza. Per l' epidemiologo, insomma, il punto è che del consorzio Cnccs non ha fa parte la Advent ma la Irbm, che come detto è proprietaria della prima. "Ma anche se fosse - aggiunge Rezza al Fatto -, come dire, io sarei contento di far parte della cordata che fa il vaccino, ma non lo è. () Advent produce il vettore, come l' ha prodotto per Oxford per quanto riguarda Ebola. Però lo spike, la proteina di superfice, l' ha ideata Oxford. Non conosco i dettagli, ma credo che sia l' università di Oxford a produrre il vaccino". La proprietà del vaccino resta a Londra Come ribadito sul sito della Oxford University, infatti, Irbm non ha "elaborato" alcun vaccino, ma opera in conto terzi per Oxford, vero detentore del brevetto che include sia il vaccino che la tecnologia per trasportarlo nel dna delle cellule umane, cioè il vettore virale. Irbm è una delle tre aziende che ha un contratto per produrre una certa quantità del vettore sviluppato da Oxford, un virus di scimmia inattivato che verrà usato per veicolare all' interno dell' organismo un gene in grado di innescare, si spera, il processo di immunizzazione contro Sars-CoV-2. Contattati dal Fatto, dall' ufficio stampa di Oxford Vaccine Group spiegano che "l' adenovirus in questione, denonimato ChAdOx1, è stato sviluppato dall' Oxford' s Jenner Institute," non da Irbm, che produrrà, per ora, adenovirus solo per la fase di trial clinico. Oxford specifica che "i test sull' uomo verranno condotti da Jenner Institute e dall' Oxofrd Vaccine Group".

L' incognita delle risposte immunitarie. Sul vaccino è cauto anche lo stesso Rezza. "Io penso che sia un candidato promettente - spiega - perché è una piattaforma già utilizzata, ossia per ebola. Dopodiché ho anche detto però che ci sono altri cinque candidati vaccini in sperimentazione umana che usano diverse piattaforme". Il punto interrogativo sono le risposte immunitarie al virus. "Speriamo che ci siano vaccini efficaci. Per ora si sa poco sulle risposte immunitarie al virus - continua Rezza -. Compaiono gli anticorpi e abbiamo ancora delle recidive. Allora il dubbio maggiore che viene agli esperti è: gli anticorpi proteggono? Sono sufficienti? C' è l' immunità cellulare che può aiutare?". Prima di chiudere la telefonata però l' epidemiologo ribadisce: "Non ne ho di particolari conflitti di interessi. L' unico interesse degli italiani, qualora si mettesse a punto un vaccino efficace, è quello di non essere gli ultimi ad averne dosi. Bisogna vedere se i vaccini saranno efficaci e tra quanto tempo saranno disponibili".

Vaccino coronavirus Italia-Gb, ad aprile test accelerati su 550. «Utilizzabile a settembre». Da ilmessaggero.it il 13 aprile 2020. Coronavirus, i laboratori di ricerca di tutto il mondo sono impegnati nello studio di un vaccino stabile che metta termine all'emergenza coronavirus. Importante annuncio oggi dell'ad di Irbm Piero Di Lorenzo. Inizieranno, infatti, a fine aprile in Inghilterra i test accelerati sull'uomo - su 550 volontari sani - del vaccino messo a punto dall'azienda Advent-Irbm di Pomezia insieme con lo Jenner Institute della Oxford University. Si prevede, afferma, di «rendere utilizzabile il vaccino già a settembre per vaccinare personale sanitario e Forze dell'ordine in modalità di uso compassionevole». L'accordo. L'Istituto Jenner, l'Università di Oxford, il Regno Unito e la Advent - una società italiana, con sede a Pomezia - hanno annunciato oggi un accordo per sviluppare un nuovo vaccino per il coronavirus.L'Istituto Jenner dell'Università di Oxford ha assegnato alla Advent la produzione del nuovo vaccino contro il coronavirus per i test clinici. Il «brodo di semi» di vaccino - si sottolinea in un comunicato - è attualmente in produzione presso la Clinical Biomanufacturing Facility dell'Università  e quindi sarà trasferito all'Advent che inizialmente produrrà 1000 dosi per i primi studi clinici su questo vaccino. L'Istituto Jenner ha già lavorato a un vaccino contro la Mers, che ha dato prova di indurre solide risposte immunitarie nel primo studio clinico condotto a Oxford. Un secondo studio clinico sul vaccino MERS è in corso in Arabia Saudita. Lo stesso approccio alla produzione del vaccino viene adottato per il nuovo vaccino contro il coronavirus. L'Advent sta elaborando un programma di sviluppo rapido che incorpora un processo di produzione per lo sviluppo di un vaccino per test clinici il più rapidamente possibile. Piero Di Lorenzo, presidente e CEO di Advent e IRBM, sottolinea come «questo progetto ha un grande significato per la comunità internazionale a causa dello scoppio di nuovi coronavirus». Di Lorenzo: «A settembre primi vaccini per le categorie a rischio». «Abbiamo iniziato a produrre i primi vaccini tre settimane fa e a fine aprile ne manderemo un primo lotto a Oxford: la sperimentazione sui volontari sani parte a giugno in Inghilterra ma non è detto che non si faccia anche in Italia visto che il Regno Unito oggi non fornisce una validazione anche per paesi dell'Unione Europea. Ne stiamo parlando con le autorità di governo e quelle regolatorie. Lavoriamo per essere pronti a settembre per distribuire il vaccino 'in via compassionevole' alle categorie più a rischio» ovvero personale sanitario e forze dell'ordine. A illustrare all'Adnkronos i progressi nella preparazione del primo vaccino contro il coronavirus è Piero Di Lorenzo, presidente e CEO di Advent e IRBM, la società di Pomezia che ha stretto un accordo con l'Istituto Jenner dell'Università di Oxford, il più importante istituto mondiale per i vaccini.

Nino Luca per video.corriere.it il 3 aprile 2020. Un cerotto di un centimetro e mezzo con 400 piccoli aghi. Ecco come potrebbe essere il vaccino che dovrà fermare la corsa letale del coronavirus. «Basterà tenerlo premuto per un minuto all’altezza del braccio. Chiunque potrà farlo da solo». Andrea Gambotto, professore associato all’Università di Pittsburgh, co-autore senior con il professor Louis Falo dello studio pubblicato da EBioMedicine, rivista pubblicata da Lancet, guida una squadra di ricercatori impegnata nella corsa al vaccino. Scuole e specializzazione all’università di Bari poi il trasferimento 25 anni fa negli Usa. È notte fonda da noi quando il professore dal suo ufficio risponde alle nostre domande. «Certo, vediamo la tv italiana. Sappiamo del numero dei morti. Le notizie che ci arrivano sono uno strazio. Questo ci dà più ancora più forza per farlo più velocemente. Mi capita di parlare al telefono con mia madre, mia sorella a Bari. E anche per questo ci stiamo impegnando al lavoro per 14-16 ore al giorno».

L’acronimo «Come chiamiamo il nemico? Semplicemente con un acronimo: PittCoVacc. Ad oggi i risultati dei primi test sui topi sono positivi. Il vaccino ha prodotto anticorpi specifici in ritenute sufficienti per neutralizzare il virus». Già nel 2003 la stessa squadra aveva messo a punto un vaccino per la Sars, e nel 2014 ha condotto studi su un vaccino per la Mers. Ricerche che sono servite, come l’ultima sui cammelli, come base di partenza per la sperimentazione di un vaccino contro il Covid-19. I primi test hanno dimostrato che siamo in grado di produrre, grazie ad una proteina, gli anticorpi per il nuovo coronavirus SARS-CoV-2».

I tempi. «A giugno - spiega Gambotto - partiremo con i test clinici sull’uomo. Forse anche fuori da Pittsburg. Alla fine, tra un test e l’autorizzazione della Fda americana, ci vorrà almeno un anno ancora. Ma se ci sarà ancora la pandemia si proverà ad accelerare, anche se bisogna agire con cautela. Certo se avessimo a disposizione 18 mesi sarebbe meglio. Ma potremmo farcela anche per fine 2020».

Come agisce la proteina. «Nel 2003 avevamo la proteina “spike” per combattere la Sars, una sorta di chiave che il virus usa per entrare nelle cellule. Bloccata quella impediamo al virus di entrare nella cellula. La proteina “spike” viene rilasciata dai 400 microaghi in un punto particolarmente sensibile: la pelle, punto nel quale la reazione immunitaria è più forte. La tecnica è simile a quella della somministrazione del vaccino antivaiolo basata sul metodo di scarificazione cutanea, una sorta di ferita su cui il vaccino ha facile presa. Così il sistema immunitario riconosce immediatamente il corpo estraneo al nostro organismo e inizia a produrre gli anticorpi che bloccheranno l’infezione. Alla fine il nostro cerotto-vaccino avrà anche la facilità di essere trasportato in temperatura ambiente e richiede una quantità minima di dose. Non serviranno miliardi di dosi. Si potrà cominciare con il personale medico, poi con chi lavoro nelle case di riposo e poi il resto della popolazione».

Dosi e costi. «Non ci importa di arrivare primi o secondi. Importante è che qualcuno arrivi. Ad esempio a Seattle una compagnia, con la sponsorizzazione del governo americano, sta già sperimentando da una decina di giorni sull’uomo un vaccino sperimentale, usando la tecnica dell’Rna. Se funzionerà sarà una rivoluzione. Noi invece siamo una università, il nostro vaccino non sarà costoso, non sarà un prodotto commerciale per facili guadagni. Un consorzio di industrie potrà produrlo a larghissima diffusione. Insomma non diventeremo ricchi».

Garattini: vaccino in arrivo, ma non per tutti. Entro la fine dell’anno potrebbe essere pronto. Ma non tutti lo potranno subito fare. Prima le categorie a rischio. Valentina Dardari, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. Il professor Silvio Garattini, presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha spiegato, come riportato da Quotidiano.net, che in fatto di vaccino contro il coronavirus dovremmo essere abbastanza avanti. “Abbiamo una cinquantina di laboratori al lavoro nel mondo con vari tipi di approccio, entro fine anno sapremo se almeno uno di questi ha la probabilità di arrivare in porto. Ci sono interessi economici rilevanti, quindi grande competizione” ha sottolineato il professore. Importante però che questa sia una competizione sana, corretta e che soprattutto segua le regole.

Garattini: vaccino a chi ne ha più bisogno. Garattini ha inoltre spiegato che, quando verrà scoperto il vaccino, soprattutto inizialmente non sarà possibile somministrarlo a tutti, dato che le quantità non saranno ancora tantissime. Sarà quindi necessario “individuare i gruppi che hanno più bisogno, come anziani e operatori sanitari”. Non verrà fatto come con i tamponi, si dovrà arrivare a un accordo internazionale, in modo da evitare speculazioni e garantirne la distribuzione. Ma il virus potrebbe comunque tornare anche in seguito, come avviene con l’influenza? A questo Garattini non ha una risposta certa, e ammette che “nessuno lo sa, dipende molto dal comportamento di questi Coronavirus, dalle eventuali mutazioni. Ci saranno comunque più tipi di vaccino, presumo, come è stato anche per la poliomielite. Oggi, per una persona anziana, è consigliato il vaccino antinfluenzale e anti-pneumococco. Se avremo un vaccino anche per il Coronavirus si potrebbe pensare a raggrupparli in un trivalente, non possiamo iniettare cento volte la stessa persona".

Arrivare a una strategia comune. Questa potrebbe essere l’occasione, come auspicato dal professore, per arrivare a una strategia comune per una sanità europea. Garattini pensa che l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, abbia sul tavolo almeno una quarantina di proposte che dovrà esaminare in fatto di nuovi farmaci. Il professore ha infine fatto una considerazione riguardante i test sugli animali: “Con la legge vigente in Italia, si deve passare attraverso quattro comitati, aspettare mesi. Non è solo burocrazia, ci sono anche ostacoli ideologici. A livello mondiale siamo il Paese che ha le maggiori difficoltà a fare sperimentazione. Anche solo per sfiorare un topo devo rispondere a cinquanta domande, fare un protocollo, passare dal Comitato etico animale, dall’Istituto superiore di Sanità e dal ministero e alla fine bisogna pure pagare una tassa. Per sperimentazioni sull’uomo basta un parere del comitato etico”.

Dagospia il 18 marzo 2020. Da radiocusanocampus.it. Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul lavoro di Farmindustria in relazione al Coronavirus. "Dobbiamo lavorare in due direzioni -ha affermato Scaccabarozzi-. La prima è quella della ricerca, bisogna trovare un vaccino e qui devo dire che le notizie sono abbastanza positive. Ad oggi ci sono 41 candidati possibili a diventare vaccini. Poi bisognerà capire quanti di questi riusciranno ad arrivare fino in fondo. Sono provenienti da tutto il mondo, hanno iniziato appena la sequenza virale è stata trovata in Cina. Attualmente sui vaccini sono state fatte ricerche solo in vitro, ma in alcuni casi sono pronti a testare sull'uomo. La seconda ricerca è quella delle cure, nuovi farmaci che possano essere attivi sulle persone già malate. Poi dobbiamo garantire ovviamente anche la salute di tutti i nostri operatori e di tutti gli ammalati delle altre patologie". Sul rifornimento delle farmacie. "Al momento la situazione è sotto controllo, dipende da quanto durerà la situazione. Al momento abbiamo scorte per 3 mesi, perchè abbiamo aumentato le scorte". Sui virus. "Fin dagli inizi del 900 di tanto in tanto succedono queste cose. Di volta in volta si cerca sempre di imparare qualcosa. Siamo in un momento diverso rispetto a 15 anni fa. Il modo di reagire deve essere il più rapido possibile. Anche il mondo della comunicazione è molto cambiato, la comunicazione è rapidissima come le reazioni. Per quanto riguarda il Covid 19, bisogna rimanere a casa perchè in questo momento è importante fare in modo che il virus non circoli". Riguardo le fake news sui medicinali anti Coronavirus. "Ci sono dei video che dicono addirittura che l'aspirina è attiva contro il virus. Purtroppo ci sono persone malvagie o che vogliono giocare con questi aspetti, quindi lancio un appello: fidatevi solo delle fonti ufficiali".

Il vaccino, il test e la "trappola". Ecco le tre "bombe" antivirus. Oggi, negli Stati Uniti, al primo essere umano sarà iniettata una dose di vaccino sperimentale contro il Covid-19, mentre in Cina, una sperimentazione sui primati verificherà l'efficacia di un test pilota. In Australia, invece, gli studiosi lavorano sulla "molecular clamp". Lavinia Greci, Martedì 17/03/2020 su Il Giornale. Contro la diffusione del nuovo Covid-19 ognuno prova a fare la sua parte. E così, visto che la diffusione del nuovo virus riguarda ormai mezzo mondo, gli studiosi di diversi Paesi stanno cercando di trovare una soluzione per far fronte a questa malattia. Secondo quanto riportato da Dagospia, il Kaiser Permanente Washington Health Research di Seattle, nella giornata di oggi, dovrebbe inoculare la prima dose di vaccino sperimentale a un essere umano.

Il vaccino in America. In base a quanto ricostruito dal quotidiano, che cita l'Associated Press, l'uomo che si sottoporrà all'iniezione, è stato scelto da un gruppo di 45 volontari, giovani e sani. La sperimentazione è finanziata dal National Institutes of Health, anche se, in via ufficiale, sembra servirà un anno o 18 mesi per poter avviare un vaccino per una più ampia popolazione. Le dosi sono state sviluppate dall'istituto e da Moderna Inc e i partecipanti non rischiano di infettarsi con il coronavirus perché non lo contengono. L'obiettivo è quello di verificare l'assenza di eventuali effetti collaterali preoccupanti, aprendo così la strada a verifiche e test più approfonditi.

Lo studio australiano. E un altro passo avanti, in queste ore, sul fronte dello sviluppo di un vaccino per trattare o prevenire il Covid-19 lo sta facendo anche l'Australia, dove gli scienziati della Univeristy of Queensland sono ricorsi alla "molecular clamp", una tecnologia innovativa per neutralizzare le proprietà infettive del virus. Dopo aver sperimentato 250 diverse formulazioni, Paul Young, Keith Chappell e Trent Munr avrebbero optato per un vaccino di nome "S-Spike", testato su topi da laboratorio all'interno dello stesso ateneo. La prova è stata fatta in vista di sperimentazioni sull'uomo già nei prossimi mesi. L'obiettivo degli studiosi sembrerebbe quello di essere i primi al mondo a introdurre il vaccino sul mercato.

Il "molecular clamp". "Un virus non è altro che un insieme di informazioni genetiche maligne, che hanno uno scopo nella vita: trovare un posto dove alloggiare e replicarsi", ha spiegato Chappel a The Australian. Come riportato dal quotidiano, la superficie del virus Covid-19 è irta di cosiddette "proteine a spillo", compresse come molle fino a quando si legano a una cellula ospite. La tecnologia utlizza un polipeptide creato in laboratorio (una sequenza di amminoacidi) per bloccare la proteina in posizione compressa e consentire al sistema immunitario di prenderla di mira prima che il virus abbia la possibilità di attivarsi. Così un adiuvante, o agente potenziante, verrebbe aggiunto al vaccino per stimolare la risposta immunitaria. Come spiegato dal quotidiano, mentre il progetto si sviluppa nel loro laboratorio e presso il Peter Doherty Institute for Infection and Immunity dell'università di Melbourne, gli studiosi starebbero già negoziando con l'autorità di regolamentazione del governo federale Therapeutic Goods Administratione e con lo European Medical Association.

Il test pilota in Cina. La Cina, intanto, dopo aver affrontato la diffusione del coronavirus per prima, ha lanciato un test pilota sui primati del potenziale vaccino mRNA, generalmente considerati più veloci da produrre dei vaccini tradizionali. A dichiararlo è stato il direttore della commissione per la Scienza e la Tecnologia di Shanghai, Zhang Quan, citato dal quotidiano China Daily. Il test pilota, ha spiegato il funzionario asiatico, si focalizzerà sulla tossicologia animale e sull'efficacia stessa del vaccino e si prevede che i test clinici partano già dalla metà di aprile. Sempre secondo quanto riferito da Zhang, sarebbero registrati altri progressi sulla sperimentazione avviati sui topi, con la scoperta di un anticorpo specifico presente nei roditori, che potrebbe rivelarsi un'arma utile nella lotta contro il Covid-19.

Wuhan sperimenta il vaccino su 108 persone ma si teme per il numero degli asintomatici. Le autorità negherebbero i test alle persone contagiate dopo le dimissioni. Roberto Fabbri, Martedì 24/03/2020 su Il Giornale. A tre mesi dall'inizio ufficiale dell'epidemia di Covid-19, Wuhan, la città cinese dove il disastro ha avuto inizio, mostra ancora due volti contraddittorii. Da una parte c'è quello positivo, con l'incoraggiante notizia di un centinaio di volontari che stanno testando un vaccino contro il nuovo coronavirus a pochi giorni dall'annuncio dei primi test di un vaccino americano nella città di Seattle; e dall'altra ci sono ancora i dubbi e le paure sulla veridicità della sbandierata vittoria sull'emergenza sanitaria, con le preoccupazioni crescenti per i casi asintomatici tuttora presenti in città e potenzialmente in grado di riattivare la trasmissione del virus. Secondo la stampa cinese, le prime iniezioni del preparato anti-Covid-19 sono già state effettuate venerdì scorso. A riceverle, 108 volontari di età compresa tra i 18 e i 60 anni di età, tutti di Wuhan, che saranno seguiti per sei mesi per verificare l'efficacia del vaccino. Rimane però alta la preoccupazione per il ruolo che i pazienti asintomatici, ossia le persone che sono portatrici del virus ma non presentano sintomi evidenti della malattia, possono avere nella sua diffusione. A Wuhan, dove da cinque giorni ormai non si registrano in base ai dati ufficiali nuovi contagi, risultano ancora ogni giorno la fonte della notizia è un funzionario del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie, citato dalla rivista Caixin e ripreso dall'agenzia Bloomberg «alcuni o una decina di persone asintomatiche», motivo per cui «non è possibile determinare se la trasmissione del virus sia stata completamente interrotta» in città. Questi casi sono stati evidenziati da test eseguiti su persone che sono entrate in contatto con ammalati, oppure su personale attivo in luoghi dove è alto il livello di esposizione al coronavirus. Il punto è che i pazienti identificati come positivi asintomatici che secondo il giornale di Hong Kong South China Morning Post sono stati da fine febbraio più di 43mila in tutta la Cina - vengono inviati in quarantena per due settimane, e poi conteggiati nelle statistiche dei contagiati solo se sviluppano sintomi, a differenza di quanto accade in altri Paesi, come ad esempio in Corea del Sud. Insomma, i contagiati in Cina potrebbero essere ben più degli 81mila registrati, e le possibilità di diffusione della malattia ancora presenti in termini difficili da quantificare. Non è tutto. Secondo il sito di notizie di Hong Kong RTHK, a Wuhan verrebbe ora attuata consapevolmente una politica di diniego dell'accesso ai tamponi per la ricerca del Covid-19 per mantenere basse le statistiche ufficiali dei contagi. In altre parole, per ragioni politiche. Residenti della città citati da RTHK denunciano la seguente situazione: nonostante la quarantena di massa sia ancora in vigore, con i cittadini obbligati a restare in casa, i diversi ospedali costruiti in fretta e furia per far fronte all'emergenza delle scorse settimane sono stati già chiusi e le autorità sanitarie rifiuterebbero ulteriori test alle persone che sono nuovamente affette da polmonite dopo essere state dimesse come guarite. Così i nuovi malati sarebbero costretti a rimanere in casa, senza ufficialmente risultare tali. Inutile dire che se queste notizie fossero vere, ci sarebbe da preoccuparsi, e non solo in Cina.

Coronavirus, la geopolitica della corsa al vaccino. E i primi volontari già lo provano. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Il nuovo coronavirus non scomparirà nel nulla. È una legge della natura. Ma l’umanità ha le capacità scientifiche per proteggersi. Servono farmaci che curino i malati e un vaccino per immunizzarci dal Covid-19 in futuro. La ricerca si sta muovendo in tutto il mondo. Purtroppo non ci si può nascondere che ci sia un elemento nazionalista in ogni campo del progresso tecnologico e anche il vaccino contro il coronavirus rischia di diventare terreno di competizione geopolitica. In questa nuova corsa alle armi mediche di protezione di massa, Pechino ha annunciato che i ricercatori dell’Accademia militare delle scienze mediche sono già avanti e stanno reclutando volontari per i test clinici. Prima di inorridirsi per le «cavie umane», bisogna sapere che si tratta di una pratica comune e che anche in Gran Bretagna e Stati Uniti si sta seguendo la stessa strada. La Oxford University avvierà i test il prossimo mese. I laboratori hVivo a Londra hanno offerto 3.500 sterline ai cittadini disposti a collaborare. Hanno risposto in 20 mila. A Seattle lunedì il Kaiser Research Institute ha cominciato test di un vaccino sui volontari. «È una grande opportunità di rendermi utile», ha detto Jennifer Haller, 43 anni, dopo aver ricevuto l’iniezione. E con una nota lieve ha spiegato: «I miei due figli dicono che è “cool” (figo)». Non è una kamikaze, Jennifer. E non lo sono i 20 mila volontari britannici. A differenza dei farmaci, che sono sperimentati su soggetti che hanno già contratto una patologia particolare, i vaccini debbono essere somministrati a persone sane che vengono in seguito esposte alla malattia. Si sviluppa un vaccino e lo si dà a migliaia di soggetti che vivono in una zona dove circola l’infezione; poi li si segue e controlla per mesi, o anni e il vaccino viene considerato valido se alla fine chi lo ha ricevuto non si ammala. Il Covid-19 serpeggia intorno a noi, quindi chiunque lo provi è esposto. Ci vorrebbe una grande coalizione globale contro il Covid-19. Ma a partire dalla risposta sul fronte del contenimento, con le assurde incongruenze tra i Paesi che ordinano la quarantena e quelli che si compiacciono perché «come in guerra si va sempre al pub la sera», purtroppo stanno emergendo tutte le crepe del vecchio ordine mondiale.Così c’è da pensare (temere) che un vaccino capace di immunizzare dal Covid-19 diventi anche strumento di potenza nazionale. Cina, Stati Uniti, Unione europea, Russia, anche Italia e Israele sono impegnati in questa nuova corsa alla difesa anti virus. E quando il primo vaccino sarà pronto, all’inizio sarà in quantità limitata e potrebbe essere monopolizzato da questa o quella potenza, osserva il “New York Times”. Basta guardare alla frenetica ricerca di mascherine che si è scatenata in tutto il mondo. E le mascherine sono semplici da produrre, tanto insignificanti fino a poche settimane fa che la produzione era stata lasciata a Paesi a basso costo del lavoro, come la Cina, il Vietnam, la Turchia. Tra le primissime uscite di Xi Jinping a Pechino, a febbraio, spicca quella nel centro dell’Accademia militare medica: il segretario generale comunista ha ispezionato i laboratori incitando i 1.000 ricercatori a fare presto. Promettendo il massimo delle risorse. Il presidente Donald Trump ha chiamato a raccolta le industrie farmaceutiche per spronarle a trovare un «vaccino americano». Fonti di Berlino hanno detto che Trump ha cercato di convincere la tedesca CureVac a svolgere le sue ricerche negli Stati Uniti. Saputo dell’interesse americano, la Commissione Ue ha offerto 80 milioni di euro alla CureVac per sostenere la sua ricerca nell’ambito di un consorzio europeo. BionTech, altra azienda tedesca, ha ricevuto un’offerta di partecipazione cinese da 125 milioni. Bisogna prendere il lato buono di questo giro di denaro: i fondi aiutano la ricerca.

Coronavirus, iniettata alla scienziata italiana Elisa Granato la prima dose del vaccino. Davide Falcioni per fanpage.it il 24 aprile 2020. Ha avuto inizio  a Oxford la prima sperimentazione europea del vaccino anti-coronavirus sugli umani. Le prime dosi sono state iniettate a due volontari tra le 800 persone reclutate per lo studio. E la prima è stata, guarda caso, una cittadina italiana: la ricercatrice Elisa Granato. "Sono una scienziata – ha commentato alla Bbc – quindi volevo provare a supportare il processo scientifico in ogni modo possibile". Il vaccino è stato sviluppato in meno di tre mesi dal team della Oxford University e coordinato dalla professoressa Sarah Gilbert, docente di virologia: "Personalmente ho molta fiducia in questo vaccino", ha detto. La scienziata ha aggiunto che "ora dobbiamo testare il vaccino e raccogliere dati sulla sua efficacia sull'uomo. Dobbiamo dimostrare che funziona davvero e impedisce alle persone di essere infettate dal coronavirus, poi potremo somministrarlo a una popolazione più ampia". La professoressa Gilbert ha aggiunto di essere "sicura all'80%" che il vaccino avrebbe funzionato, ma ora preferisce non pensarci, dicendosi semplicemente "molto ottimista".

Cinque vaccini in avanzata fase di sviluppo. Proprio questo pomeriggio Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore della Sanità, ha annunciato che "è in corso una virtuosa competizione mondiale per un vaccino efficace". Locatelli ha spiegato che sono cinque, in particolare, i potenziali vaccini "in avanzata fase di sviluppo: due negli Stati Uniti, uno nel Regno Unito, uno in Germania e uno in Cina". Il leader del CSS ha precisato che "ciò non significa che è imminente la loro commercializzazione, perché ci sono delle tappe ineludibili per stabilirne sicurezza ed efficacia". In particolare secondo Locatelli, "gli studi in corso dovranno rispondere a una domanda: quanto durerà l'immunità nei soggetti sottoposti a vaccino?". Due gli scenari possibili: quello di una protezione permanente dal virus o quello di una protezione transitoria che renderà "necessario ripetere il vaccino fino alla scomparsa dell'epidemia".

Primo vaccino su una donna di Seattle: "Io, cavia, per salvare il mondo". La signora Jennifer Haller, americana di 43 anni, è la prima persona al mondo a sperimentare il vaccino contro il Covid-19. "Ho fatto la puntura prima di andare a lavorare, i miei figli sono orgogliosi". Alessandro Ferro, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. È la prima persona al mondo a testare il vaccino sperimentale contro il Coronavirus. Madre di due figlie e ribattezzata "mamma coraggio", la donna è un'americana di 43 anni di Seattle, negli Stati Uniti, ed ha accettato di fungere da cavia per il bene del mondo. Come riportato da LaStampa, nella mattinata di ieri e prima di andare a lavoro, la signora Jennifer Haller, funzionaria in una società tecnologica, ha deciso di diventare la prima volontaria sulla quale gli scienziati misureranno gli effetti del farmaco chiamato a sconfiggere il Covid-19. Ha accettato pur non avendo alcun sintomo e nessuna patologia. "Mi sento bene e sono motivata - ha detto ieri la Haller - devo andare a fare prelievi di sangue e farmi monitorare un paio di volte a settimana. Entro un mese ci sarà una seconda iniezione, poi diventerà un processo controllato a distanza che andrà avanti per 18 mesi prima dei risultati conclusivi". Il video che la ritrae nello studio medico del "Kaiser Permanente Washington Research Institute" di Seattle è diventato subito virale facendo il giro del mondo. Al termine dell'iniezione, la signora Haller ha dichiarato di sentirsi bene ed essere felice per quello che aveva appena fatto. "Non sono pentita di questa scelta perchè sento che sto facendo qualche cosa di utile. Anche la mia famiglia ha approvato la mia scelta e mi appoggia. Le mie due figlie si sentono molto orgogliose per quello che sto facendo", ha detto alla stampa americana, sorridente, la Haller. La donna non corre il rischio di venir contagiata perché, nel vaccino sperimentale che le hanno iniettato, non c' è traccia di Coronavirus, ma l' impegno per il completamento del programma è significativo. Dopo di lei, un ingegnere della Microsoft, Neal Browing, riceverà il vaccino come parte del primo gruppo di 4 persone. Con loro, 45 volontari uomini e donne compresi nella fascia tra i 18 ed i 45 anni inizieranno la stessa procedura entro marzo. Il test, realizzato dal Kaiser Permanent Healt Research Insititute, potrebbe fornire risultati sensibili prima delle date stabilite (probabilmente alla fine dell'estate) mentre negli Stati Uniti ci sono decine di laboratori impegnati in una gara contro il tempo prima che il contagio diventi uno tsunami senza barriere.

DAGONEWS il 16 marzo 2020. La corsa verso un vaccino contro il Covid-19 fa un grande balzo in avanti: oggi il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle inoculerà la prima dose di vaccino su un uomo, selezionato tra 45 giovani volanti sani. Come riporta l’Associated Press il progetto è stato finanziato al National Institutes of Health (NIH): anche se ci vorranno da un anno a 18 mesi per avere un vaccino pronto per essere diffuso tra la popolazione si tratta del primo grande passo in avanti. I test inizieranno su 45 giovani volontari sani sui quali verranno iniettate diverse dosi di vaccino sviluppate congiuntamente da NIH e Moderna Inc.: non c’è pericolo che i partecipanti possano contrarre il coronavirus perché il vaccino non lo contiene. L'obiettivo della sperimentazione è quello di verificare che il vaccino non porti effetti collaterali preoccupanti, ponendo le basi per test più ampi. Decine di gruppi di ricerca in tutto il mondo sono in corsa per creare un vaccino, seguendo diverse strade: ci sono vaccini sviluppati con nuove tecnologie che non solo sono più veloci da produrre rispetto ai tradizionali, ma potrebbero dimostrarsi più potenti. Alcuni ricercatori mirano persino a vaccini “temporanei”, ovvero inoculazioni che potrebbero  garantire una protezione di un mese, massimo due, durante i quali il corpo sviluppa una “protezione” più duratura nel tempo. "Inovio Pharmaceuticals" ha in progetto di iniziare i test il mese prossimo su alcune dozzine di volontari presso l'Università della Pennsylvania e in un centro a Kansas City, Missouri. La stessa cosa accadrà in Cina e Corea del Sud. Anche se i test iniziali andranno bene, «ci vorrà comunque un anno o un anno e mezzo» prima che qualsiasi vaccino possa essere pronto per un uso diffuso, secondo il dottor Anthony Fauci, direttore del “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” del NIH. In ogni caso si tratta di un ritmo da record. Donald Trump ha spinto per un'azione rapida per arrivare a un vaccino, affermando nei giorni scorsi che il lavoro sta "procedendo molto rapidamente" e spera di avere un vaccino "relativamente presto". Oggi non ci sono cure certificate. In Cina, gli scienziati hanno stanno testando una combinazione di farmaci per l'HIV contro il nuovo coronavirus, nonché un farmaco sperimentale chiamato remdesivir che era in fase di sviluppo contro l'Ebola. Negli Stati Uniti, anche il Medical Center dell'Università del Nebraska ha iniziato a testare il remdesivir in alcuni americani che avevano contratto il Covid-19 dopo essere stati fatti scendere da una nave da crociera in Giappone. Anche l’Italia parteciperà a due studi per valutare l’efficacia e la sicurezza del farmaco sperimentale remdesivir nei malati ricoverati per Covid-19: gli studi saranno inizialmente condotti presso l’Ospedale Sacco di Milano, il Policlinico di Pavia, l’Azienda Ospedaliera di Padova, l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma e l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. Sulla maggior parte delle persone, il nuovo coronavirus provoca solo sintomi lievi o moderati, come febbre e tosse. Su alcuni, in particolare gli adulti più anziani e le persone con problemi di salute preesistenti, può causare complicazioni più gravi, inclusa la polmonite. La stragrande maggioranza delle persone guarisce. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, le persone che lo contraggono in maniera lieve guariscono in circa due settimane, mentre per coloro che contraggono la forma più grave possono volerci da tre settimane a sei settimane per riprendersi.

Silvio Berlusconi, Massimo Clementi: "Il tampone ha evidenziato una carica virale alta". Libero Quotidiano il 06 settembre 2020. Su Silvio Berlusconi ricoverato al San Raffaele per coronavirus le informazioni non sono molte. Ieri, sabato 6 settembre, lo scarno bollettino di Alberto Zangrillo: "Condizioni cliniche stabili" e "cauto ma ragionevole ottimismo". Ma a sbottonarsi un poco di più, interpellato dal Corriere della Sera, è Massimo Clementi, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia proprio dell'ospedale San Raffaele di Milano. Come sta davvero Berlusconi? "Non sono un clinico, ma so che l'onorevole Berlusconi non è sottoposto a ossigenoterapia e non lo è mai stato. Ora sta seguendo una terapia con antivirali", spiega. Poi aggiunge che è in cura con "il Remdesivir, l'unico farmaco anti-virale finora autorizzato dagli enti regolatori per la cura di infezioni da virus Sars-Cov-2". Il Remdesivir è efficace solo nelle prime fasi della malattia e Clementi lo conferma, aggiungendo: "La scelta di questo trattamento testimonia che l'infezione è limitata a una replicazione virale. In altre parole, Berlusconi non è andato incontro alla famosa tempesta citochinica. Sta solo combattendo contro il virus e dal punto di vista respiratorio le cose stanno andando bene". Ma c'è un elemento che non può essere sottovalutato, un elemento che ancora non era stato reso noto: "Dopo tanti esami negativi, l'ultimo, la settimana scorsa, si è rivelato positivo e con una carica virale alta. E questo è stato un elemento che ne ha suggerito il ricovero e l' uso di antivirali". Insomma, il tampone ha rivelato una carica virale alta. E un ricovero, per quanto precauzionale, è risultato doveroso.

Caterina Galloni per "blitzquotidiano.it" il 17 settembre 2020. Coronavirus, alla ricerca del vaccino. Remdesivir è il nome di un farmaco che potrebbe segnare una svolta. In Italia è stato già usato con successo a Genova e Caserta. Potrebbe diventare, secondo il settimanale inglese Economist, quel farmaco efficace per il trattamento di Covid-19 che trasformerebbe la battaglia contro la pandemia. Questa speranza ha alimentato la caccia a un farmaco contro il Covid-19 sin dai primi giorni della pandemia. È remdesivir, un antivirale sperimentale, che si sta rivelando il più interessante. Il 17 aprile, dopo la pubblicazione su STAT – sito di notizie mediche online – che la sperimentazione del farmaco lasciava ipotizzare risultati impressionanti, il prezzo delle azioni del produttore, Gilead Sciences, è salito del 12%. A differenza dei farmaci come l’idrossiclorochina, che curano altre malattie ma potrebbero avere effetti antivirali, fin dall’inizio remdesivir è stato progettato per uccidere i virus. È una molecola nota come “analogo nucleosidico”. La sua struttura simula le lettere utilizzate per creare le sequenze di RNA del virus. L’idea è che quando i virus provano a usare queste pseudo-lettere, il loro meccanismo si inceppa. Gilead, farmacista californiano, ha sviluppato remdesivir per curare l’Ebola. Seppure poco soddisfacente su Ebola, i test di laboratorio hanno dimostrato che è efficace contro una vasta gamma di virus. C’è una speranza che possa funzionare contro il nuovo coronavirus, chiamato SARS-CoV-2. Un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, riferisce che è migliorato il 68% di 53 pazienti gravemente malati di Covid-19, a cui è stato somministrato il remdesivir. Tra gli scienziati, lo studio non ha mancato di sollevare polemiche. La prima: dato il piccolo numero di pazienti, gli errori possono essere enormi. Inoltre, lo studio non è stato “randomizzato”, dunque non c’è modo di sapere se il campione riflette correttamente la popolazione di pazienti gravemente malati. Infine, non vi era alcun gruppo di confronto a cui era stato somministrato un placebo, ovvero una sostanza senza effetti terapeutici, per stabilire la reale efficacia del farmaco. Nonostante l’entusiasmo che ha sollecitato, il report di STAT è stato poco più di una conversazione trapelata tra i medici. L’argomento riguardava una sperimentazione presso l’University of Chicago su 125 pazienti, per lo più gravemente malati di covid-19. Uno dei dottori afferma che la maggior parte dei pazienti era stata dimessa e solo due erano deceduti. Ma anche se ciò fosse corretto, la mancanza di un gruppo placebo rende difficile valutare la reale efficacia del farmaco. Anche se la terapia con il farmaco avesse successo, è ancora sperimentale e di solito in queste circostanze è disponibile solo in quantità limitate. Per soddisfare la domanda di utilizzo nella sperimentazione, Gilead ha aumentato la produzione. Il 5 aprile, ha affermato di avere abbastanza prodotti, sufficienti per più di 140.000 pazienti. Cifre più grandi di quanto solitamente è richiesto dagli studi clinici, e ciò fa ipotizzare che Gilead stia aumentando la produzione per uso clinico. L’azienda ha inoltre affermato che spera di aumentare di nuovo la produzione non appena saranno disponibili le materie prime. In prospettiva, pensando a un uso ancora più ampio, l’azienda ha fissato un “obiettivo ambizioso”: entro ottobre produrre, grazie a un gruppo di distributori geograficamente diversificato, oltre 500.000 cicli di trattamento e 1 milione entro la fine dell’anno. La migliore soluzione alla pandemia è ancora un vaccino contro la SARS-CoV-2: impedirebbe il contagio anziché essere curati dopo aver contratto il virus. Ma un farmaco efficace, anche in piccole quantità, farebbe un’enorme differenza, e inoltre accelererebbe lo sviluppo di un vaccino. Il modo più rapido per verificare se un vaccino funziona è somministrarlo a un gruppo di volontari (e un placebo a un altro), dunque esporli al coronavirus. Ciò è eticamente discutibile per una malattia per cui non esiste una cura. Un buona terapia consentirebbe di andare avanti nella sperimentazione.

Coronavirus, Usa acquistano tutte le scorte mondiali di Remdesivir per 3 mesi – articolo dell’1 luglio 2020. Da "blitzquotidiano.it". L’antivirale, prodotto dalla società californiana Gilead Sciences, è uno dei due farmaci che hanno dimostrato di funzionare contro il Covid-19. “Per quanto possibile, vogliamo garantire che qualsiasi paziente americano che abbia bisogno del Remdesivir possa ottenerlo”, ha detto il ministro Usa. Il farmaco è pensato per disinnescare il meccanismo mediante il quale il virus si replica e magari surclassa il sistema immunitario dell’ospite. A maggio ha ottenuto l’approvazione urgente dalla Food and Drug Administration (FDA) americana; e alla fine di giugno, quella dell’Agenzia europea per il farmaco, l’Ema, prima dell’ok definitivo della Commissione. La raccomandazione dell’Ema si basa sui risultati preliminari del più grande studio finora condotto sul Redemsivir, pubblicato sul New England Journal of Medicine, secondo il quale accelera di 4 giorni (da 15 a 11 giorni) il recupero dei pazienti più gravi (ma uno studio realizzato in Cina e pubblicato da Lancet non ne ha confermato l’efficacia). L’amministrazione Usa acquisterà il 100% della produzione farmaceutica di luglio e il 90% di quella di agosto e settembre in modo da poter curare circa 80 mila pazienti.

Remdesivir, Paesi Ue restano a bocca asciutta. Il farmaco è decisamente costoso: 309 dollari per fiala, pari a un totale di 2.340 dollari per l’intera cura. A maggio la Gilead aveva donato al governo americano il suo intero magazzino. E in 127 Paesi poveri e a medio reddito, la società già permette ai produttori di fornire una versione generica del farmaco. Ma adesso i Paesi europei rimarranno a bocca asciutta: non saranno in grado di acquistarlo o produrlo. Se l’Europa, seppur con diverse zone d’ombra, sta uscendo dalla pandemia, rimane il timore di una possibile seconda ondata in autunno. Ma gli Stati Uniti sono ancora immersi nel pieno della crisi: sono la nazione più colpita al mondo, solo martedì sono stati segnalati 47.000 nuovi casi e conta praticamente un quarto dei 10 milioni di contagi nel mondo. L’amministrazione Trump ha già dimostrato di essere pronta a superare, in termini di offerte e manovre, qualunque altro Paese pur di garantire le forniture mediche di cui ha bisogno per gli Stati Uniti: a marzo fece clamore la notizia che la Casa Bianca aveva tentato di convincere l’azienda tedesca CuraVac a produrre un vaccino esclusivamente per gli americani. L’attuale mossa unilaterale allarma anche per le prospettive future, ad esempio nel caso in cui si arrivi a un vaccino. L’altro farmaco, insieme al Remdesivir, risultato efficace contro il Covid-19 è uno steroide economico e molto usato, il desametasone, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito “una svolta” nella lotta contro il virus. 

Il vaccino è vicino (ma c’è un grosso problema). Davide Bartoccini su Inside Over il 15 marzo 2020. Una società biofarmaceutica canadese, appaltata dal Pentagono, afferma di aver prodotto un vaccino efficace per il Covid-19 appena 20 giorni dopo aver “ricevuto la sequenza genetica” del Coronavirus. Lo stesso è stato affermato – con il medesimo beneficio del dubbio – da un laboratorio di ricerca israeliano che avrebbe ottenuto un vaccino per il virus impiegando una tecnologia “unica” che attende solo il completamento per di essere sottoposta all’approvazione della Food and Drug Administration: l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici e che deve vagliare anche il risultato ottenuto dai canadesi. Lo sviluppo di un vaccino certificato ed efficace porrebbe fine a questa crisi globale causata dal virus incubatosi in Cina (forse già a novembre) e proteggerebbe l’intera popolazione mondiale che conta sette miliardi di abitanti dalla pandemia che ormai ha toccato tutti e cinque i continenti e che non accenna a fermarsi. Evitando l’applicazione pratica di teorie bislacche come quelle proposta dai britannici: sconfiggere il virus attraverso la strategia dell'”immunità di gregge“. A riportare queste due potenziali buone notizie sono rispettivamente il portale specializzato in analisi e difesa DefenseOne e il portale d’informazione israeliano Haaretz, e riguardano la Medicago: una società biofarmaceutica canadese con sede a Québec ma finanziata dalla Darpa – la Defense Advanced Research Projects Agency del Dipartimento della Difesa statunitense – che ha annunciato pubblicamente di aver prodotto una particella virus-simile del coronavirus a soli 20 giorni dall’ottenimento del gene del Sars-CoV-2 (ossia il virus che causa la malattia da coronavirus 2019); e il Biological Research Institute di Nes Tziona (in parte inquadrato del Corpo di Scienza delle Forze di Difesa israeliane) che ha reso noto come gli scienziati israeliani abbiano fatto, e stiano facendo, passi da gigante nelle fasi di studio pre-clinico di un vaccino; raggiungendo “progressi significativi nella comprensione del virus” legate alla “comprensione del meccanismo biologico” e allo sviluppo di anticorpi. Il risultato sarebbe la messa in produzione di un vaccino efficace che però attende una serie di approvazioni in campo internazionale. La conferma del completamento della fase di sviluppo del vaccino israeliano per il nuovo Covid-19 dovrebbe giungere nei prossimi giorni – nonostante il ministero della Difesa israeliano non abbia voluto sbilanciarsi, limitandosi a dichiarare che sono stati fatti dei “passa avanti” nella ricerca. Gli scienziati israeliani hanno tenuto a specificare come il processo di sviluppo “richieda una serie di test ed esperimenti che possono durare molti mesi prima che la vaccinazione sia considerata efficace o sicura da usare”, e il medesimo problema è stato annunciato dagli scienziati canadesi. La Modicago ha spiegato come il suo vaccino sia stato ottenuto in tempi record sfruttando una combinazione di know-how, proteine vegetali (al posto delle consuete uova) e fondi del Pentagono, che attraverso la Darpa, nel 2010 ha sborsato 100 milioni di dollari per dare vita a un programma soprannominato “Blue Angel”, con l’obiettivo “esaminare nuove forme di scoperta e produzione di vaccini”. Gran parte di questi soldi, secondo le parole del Ceo Bruce Clark, andarono proprio a Medicago per costruire dei laboratori nella Carolina del Nord. È li che gli scienziati canadesi avrebbero trovato il vaccino in soli 20 giorni, vaccino che ora attende di essere testato e vagliato per poter entrare rapidamente in produzione. L’azienda “potrebbe produrre fino a 10 milioni di dosi al mese”, afferma il vertice di Medicago, ma il vaccino potrebbe essere disponibile solo da novembre (formalmente invece si parla di 12-18 mesi). Troppo tardi rispetto alla velocità con la quale avanza il virus. “Ci sono altri che affermano di avere dei vaccini per Covid-19”, e impiegano “tecnologie diverse. Alcuni sono vaccini a base di Rna o Dna – Spero che abbiano successo”. Gli israeliani invece non hanno specificato quale speciale tecnologia sia stata impiegata per combattere il virus che è giunto attraverso campioni isolati in Italia e Giappone. In Europa attualmente stiamo testando la reattività del Tocilizumab, anticorpo presente un farmaco per l’artrite reumatoide impiegano nel campo dell’Oncologia. A questo va ovviamente sommato lo sforzo degli scienziati militari e civili cinesi che sono in prima linea nella ricerca di un vaccino già da gennaio. Attualmente nel mondo sono oltre 150mila gli uomini e le donne contagiati da Covid-19. Oltre 5.500 gli uomini e le donne che nel contagio hanno trovato la morte. Una quantità infinitesimale della popolazione mondiale secondo una cinica visione che però non può e non deve trovare spazio nella visione d’insieme. La lotta contro il tempo prosegue e c’è speranza all’orizzonte. La moderna tecnologia e l’umanità unita nella sfida a questo unico nemico sono a lavoro notte e giorno per trovare una soluzione.

Andrea Di Consoli per fondazioneleonardo-cdm.com il 13 marzo 2020. “Siamo pronti”, dice Piero Di Lorenzo, “sto affrontando questo momento con un prudente ottimismo”. Ad di IRBM Spa, società impegnata nel settore della biotecnologia molecolare, della scienza biomedicale e della chimica organica, Di Lorenzo, va dritto al punto: “L’ora del vaccino anti-Covid-19 è praticamente già arrivato. Siamo pronti. Entro maggio andremo in sperimentazione sui topi, ed entro giugno in sperimentazione sull’uomo. Se non sia mai la pandemia dovesse diventare inarrestabile, le autorità regolatorie nazionali e internazionali potrebbero decidere di accorciare tantissimo i tempi dei test – sia sugli animali che sull’uomo – perché prevarrebbe la legge del male minore. Sa, anche i vaccini, come qualunque farmaco, hanno effetti collaterali; ma se questi sono meno pericolosi dell’espandersi del contagio epidemiologico, allora le autorità regolatorie potrebbero scegliere di far saltare alcuni protocolli e andare subito, nel più breve tempo possibile, su una produzione di massa del vaccino.” Eccoli, i ricercatori di Pomezia: “Duecentocinquanta persone”, spiega Di Lorenzo, “di cui la maggior parte laureati e con PHD. Su questo specifico vaccino stanno lavorando venti persone applicate ai laboratori Gmp (Good Manifacturing Practices) e altre venti sulle attività di supporto. Contemporaneamente in IRBM vanno avanti anche le ricerche nel campo oncologico, delle neurodegenerazioni e delle malattie rare e della povertà, come per esempio la malaria.

Come avete lavorato per arrivare a questo risultato?

«Anzitutto c’è da spiegare qual è il tipo di vaccino su cui stiamo lavorando e in che modo si sostanzia la nostra importante partnership con lo Yenner Institute della Oxford University. Ci siamo avvantaggiati in questa corsa al vaccino grazie allo sforzo di due expertise già testate. Lo Yenner Institute già a dicembre, quando i cinesi hanno isolato e sequenziato il virus, ha sintetizzato immediatamente il gene della proteina Spike, che è la proteina del coronavirus, cioè la parte cattiva del virus, la parte contagiosa. I ricercatori dello Yenner hanno potuto sintetizzare subito questo gene della proteina del Covid-19 mettendo a frutto uno studio di vent’anni. Dieci anni fa, per dire, hanno messo a punto il vaccino anti-MERS. Loro hanno avuto facilità a partire subito e a sintetizzare questo nuovo virus, avendo già un’importante esperienza alle spalle. Ora questo gene della proteina Spike, sintetizzato e quindi depotenziato, deve essere inoculato nell’organismo umano, e qui è intervenuta la nostra expertise, l’expertise della Advent/IRBM, perché cinque anni fa siamo stati noi, nei nostri laboratori, ad aver testato il vaccino anti-ebola».

Come funzionerà esattamente il vaccino contro il Covid-19?

«Non è altro che un virus di un normale raffreddore che viene depotenziato e viene usato come shuttle nel quale viene inserito il gene depotenziato della proteina Spike del Covid 19, già sintetizzato dallo Yenner. Questo virus viene utilizzato come Cavallo di Troia nell’organismo umano, perché quando entra, l’organismo umano riconosce la presenza di un corpo estraneo, il gene della proteina Spike, e reagisce producendo anticorpi. Per cui, pur essendo depotenziato, induce l’organismo a produrre degli anticorpi, che saranno preziosi nell’ipotesi in cui il corpo venisse aggredito dal vero gene della proteina Spike. Il fatto che questo vaccino venga messo a punto da due expertise già collaudate, una per la MERS e l’altra per ebola, pone i presupposti per essere più che ottimisti sulla non tossicità e sull’efficacia del vaccino».

Qual è la specificità del coronavirus?

«Rispetto ad altri virus della famiglia, il Covid-19 appare meno pericoloso di altri virus della stessa famiglia, come per esempio la SARS e la MERS, ma sembra essere molto più contagioso. Siccome non ci sono terapie specifiche per la cura, l’unica possibilità oggettiva di fermare il contagio è quella di evitare che ci sia una proliferazione incondizionata dell’epidemia. E quindi a mio parere bene hanno fatto le autorità a prendere i provvedimenti restrittivi che hanno preso».

Quando si arriva alla commercializzazione in tempi brevi di un vaccino?

«Un farmaco per entrare in farmacia è costato alla filiera circa un miliardo e mezzo di dollari. Perché per ogni medicina che arriva sul bancone ce ne sono novantanove che hanno registrato un fallimento degli studi o della sperimentazione. Nello specifico dei vaccini, poiché quando arriva un’epidemia i tempi per mettersi a studiare non ci sono, è buona norma occuparsene prima, cioè finanziare prima la ricerca, quando non c’è l’emergenza. Penso, per fare un esempio, a una decisione della Regione Lazio che ha finanziato una ricerca, nell’ambito di una convenzione col Cnr affinché un consorzio pubblico/privato, di cui l’IRBM fa parte, cominciasse a porre le basi per la ricerca di un vaccino contro il virus Zika, cioè il virus trasmesso dalla puntura delle zanzare, e che è endemico in Brasile, e che tre anni fa ha manifestato un caso ad Anzio. I virus viaggiano in aereo in prima classe, e ci mettono un attimo a passare da un continente all’altro, è bene ricordarlo»

Quanto tempo ci vuole per arrivare al vaccino anti-Covid-19? Non siete gli unici a lavorare sul vaccino?

«No, certo, non siamo i soli. Vicini al traguardo ci sono, oltre a noi di IRBM, un consorzio americano e una bio-tech israeliana».

Da it.businessinsider.com l'11 marzo 2020. Il possibile vaccino contro il coronavirus messo a punto dalla startup biotech del Massachusetts “Moderna” entra nella sua fase di sperimentazione. La clinica di ricerca di Kaiser Permanente Washington ha lanciato un bando online per cercare volontari: 45 persone in tutto, tra i 18 e i 55 anni che proveranno sulla propria pelle il vaccino. Anche se quelli con "determinate condizioni di salute" potrebbero non essere inclusi. Le condizioni che colpiscono il sistema immunitario sono considerate particolarmente problematiche per i potenziali partecipanti. Lo studio del vaccino non infetterà i pazienti con il virus stesso. Piuttosto, sarà "simile ai vaccini sperimentali di mRNA sviluppati per il virus Zika e il metapneumovirus umano che sono stati testati sull'uomo". "L'obiettivo dello studio è quello di conoscere la sicurezza del vaccino e come il sistema immunitario risponde ad esso", ha sostenuto la Kaiser Washington in un comunicato stampa. Ai partecipanti verrà chiesto di partecipare a 11 visite di studio di persona e di partecipare a quattro visite telefoniche per 14 mesi. Riceveranno 100 dollari per visita, fino a un massimo di 1100 dollari. Ciò include una visita di screening iniziale, due visite per ricevere la vaccinazione e otto visite di follow-up per monitorare i progressi. Le dosi della vaccinazione verranno somministrate a distanza di 28 giorni. Le visite di persona si svolgeranno presso la clinica di ricerca del centro di Seattle del Kaiser Washington.

Scienziato italiano dagli Usa: “Ci sono tre speranze contro il coronavirus”. Redazione de Il Riformista il 10 Marzo 2020. Gli scienziati di tutto il mondo si sono rimboccati le maniche per trovare una soluzione all’epidemia del coronavirus. In attesa che arrivi un vaccino anti-Covid19, per il quale secondo gli esperti bisognerà aspettare ancora diversi mesi,  la scienza scende in campo. Le strade intraprese sono tre. Le ha elencate su Facebook Guido Silvestri, scienziato italiano negli Usa dove insegna alla Emory University di Atlanta, fondatore con Roberto Burioni del Patto trasversale per la scienza. Silvestri le chiama “le tre speranze”.

La prima si chiama Remdesivir. “È il farmaco antivirale che, almeno a livello aneddotico, sembra funzionare in molti casi di COVID-19 (oltre che in modelli animali di SARS e MERS) – spiega il docente – Il farmaco va usato solo in casi di sintomi polmonari e sotto guida medica. Trials clinici di Remdesivir, sono in corso in Cina ed USA”.

Poi ci sono i Farmaci immuno-modulatori. Sono promettenti in quanto possono ridurre la cosiddetta “tempesta delle cytokine” (cytokine storm) che è alla base delle complicanze polmonari gravi. Tra questi Tocilizumab (Actemra),  l’anti-artrite che ha dato risultati promettenti all’ospedale Cotugno di Napoli, che è un anticorpo contro il recettore della interleukina-6 e Anakinra (Kineret) che è un anticorpo contro il recettore della interleukina-1. Sono allo studio anche farmaci che bloccano il TNF e la tyrosine-kinase c-Abl.

Infine la terza speranza: “Allo stadio pre-clinico presso l’università di Gottingen, in Germania, c’è il farmaco Camostat mesylate che inibisce la serine-proteasi TMPRSS2, una proteina che è necessaria per “preparare” la cosiddetta spike del SARS-CoV-2 ad interagire con il recettore ACE2, che è la molecola che il virus usa come un “cancello” per entrare dentro la cellula.

Flavia Fiorentino per "corriere.it" il 10 marzo 2020. È uscito da qui il primo vaccino anti-Ebola che, nel 2014, per fermare la pandemia dilagante nel Continente africano, ottenne l’autorizzazione alla produzione di un milione di dosi, in un giorno (contro i tempi molto più lunghi delle sperimentazioni ordinarie). Alcuni anni prima, nel 2009 fu lo stesso laboratorio, l’Irbm di Pomezia (al tempo di proprietà dell’americana Merck), a mettere a punto l’«Isentress», un farmaco per la cura dell'Aids, tuttora usato per la terapia di questa malattia tutt’altro che sconfitta. Oggi, dal centro di ricerca nella cittadina alle porte di Roma, dove lavorano 250 scienziati in laboratori distribuiti su una superficie di 22mila mq sugli 80mila complessivi del Science Park, è subito partita la corsa per questa nuova grande sfida. E i risultati per la realizzazione di un vaccino anti Covid-19 sono incoraggianti: «Stiamo lavorando in partnership con l’istituto Jenner dell’Università di Oxford — spiega Piero Di Lorenzo, amministratore e proprietario della società italiana che ha acquistato Irbm nel 2014 — ed a luglio il vaccino sarà pronto. Inizieremo a sperimentarlo a giugno sui topi e subito dopo sull’uomo». In gara, su questo fronte, anche la biotech statunitense «Moderna» e molti laboratori israeliani. «È una competizione globale dove vincono tutti — sottolinea Di Lorenzo — perché ognuno avrà i suoi compratori e i suoi canali distributivi. E saremo tutti utili per debellare il virus». Poi Di Lorenzo entra nel dettaglio dei passaggi tecnici che inducono ottimismo: «È stata determinante la collaborazione con l’Università di Oxford che ha messo a punto il vaccino per la Mers in sperimentazione sull’uomo in Arabia Saudita — precisa l’imprenditore — e ha un’expertise importante sul Coronavirus. Da parte nostra, invece, contano gli studi sugli Adinovirus che hanno portato alla creazione del farmaco anti Ebola. La combinazione di queste due competenze ci sta portando alla realizzazione del vaccino anti Covid 19». Quando a dicembre i cinesi hanno isolato il virus, l’istituto Jenner ha subito sintetizzato il gene della proteina «spike» (la corona, la parte più cattiva, quella che trasmette il contagio). «Ora, quel gene sintetizzato e depotenziato va inoculato nell’organismo umano per generare gli anticorpi - conclude Di Lorenzo — ma per fare questo serve una sorta di shuttle, un carrello trasportatore all’interno dell’uomo che, come per il nostro farmaco anti Ebola, è rappresentato dall’”adenovirus”, quello di un banale raffreddore, su cui lavoriamo da anni. Stiamo purificando la molecola e tra una settimana cominceremo a produrre le prime mille dosi. Non è escluso che, se la pandemia si aggravasse, possa essere autorizzato in tempi brevissimi».

Da lastampa.it il 9 marzo 2020. Il Galilee Reasearch Istitute (Migal) di Israele ha annunciato di aver raggiunto «risultati scientifici» tali da poter «portare alla rapida creazione di un vaccino contro il coronavirus». Lo ha fatto sapere già alcuni giorni fa lo stesso Migal secondo cui «questa possibilità è stata identificata come sottoprodotto dello sviluppo di un vaccino contro l'Ibv (virus della bronchite infettiva), una malattia che colpisce il pollame, la cui efficacia è stata dimostrata in studi preclinici condotti presso l'Istituto stesso». Il Migal, dopo aver apportato «le necessarie modifiche genetiche per adattare il vaccino al Covi-19 (il ceppo umano del coronavirus) sta lavorando per ottenere le approvazioni di sicurezza che consentiranno test in vivo e consentire l'avvio della produzione di un vaccino per contrastare il coronavirus». Dalla ricerca – continuato l’Istituto – è stato scoperto che «il coronavirus del pollame ha un’elevata somiglianza genetica con il Covid-19 umano e che utilizza lo stesso meccanismo di infezione, un fatto che aumenta la probabilità di ottenere un vaccino umano efficace in breve tempo periodo di tempo». 

Coronavirus, vaccino: «Decine di laboratori ci lavorano. In un anno lo avremo». Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Rino Rappuoli, 67 anni, microbiologo esperto di vaccini. Avremo, prima o poi, un vaccino per Covid-19? «Io sono ottimista» risponde Rino Rappuoli, uno dei massimi esperti internazionali di vaccini e direttore scientifico di Gsk vaccini. «Nella migliore delle ipotesi forse anche entro un anno, perché, più o meno, sappiamo come farlo e perché le tecnologie sono avanzate moltissimo: alcune, che soltanto cinque o sei anni fa erano pionieristiche, oggi sono a disposizione di tutti i soggetti più competenti di questo settore».

Quali sono i passi da fare?

«In laboratorio, una volta avuta la sequenza genetica del virus - che in questo caso è disponibile dallo scorso 7 gennaio - si possono realizzare vaccini anche in una settimana, utilizzabili però soltanto in laboratorio e su modelli animali, dopodiché vanno provati nell’uomo e questo comporta due fasi, per una durata complessiva di almeno sei mesi».

Chi è più avanti?

«Da gennaio ci sono decine di laboratori nel mondo, sia accademici sia industriali, impegnati, e diversi di essi hanno già prototipi in laboratorio. Non escludo che alcuni possano iniziare le sperimentazioni preliminari sull’uomo anche fra poche settimane».

Quando dovesse essere pronto un vaccino si potrà produrlo su grande scala?

«Dal 2010 ci sono tecnologie che possono essere applicate a più vaccini, per cui un impianto predisposto per uno può servire anche per altri. È il caso, per esempio, di quello per il vaccino approvato a dicembre del 2019 per Ebola, che potrebbe essere usato, in linea teorica, anche per un vaccino contro questo coronavirus».

Com’è possibile che un vaccino per Ebola funzioni anche per il coronavirus?

«Non sarebbe lo stesso vaccino, ma potrebbe essere prodotto allo stesso modo se fosse anch’esso un vaccino a vettore virale . Questi vaccini utilizzano, appunto, virus che non hanno nulla a che vedere con quelli verso i quali si vuole far sviluppare l’immunità, e che sono innocui per l’uomo. Però, proprio in quanto virus, sono capaci di infettare una cellula e di fargli produrre determinate proteine. Il trucco sta nell’inserire in questi virus un gene che fa sintetizzare una proteina del virus da cui ci si vuole difendere. La proteina verrà “esposta” sulla superficie della cellula cosicché il sistema immunitario imparerà a riconoscerla e si preparerà a costruire anticorpi quando dovesse incontrarla di nuovo, questa volta portata dal virus “cattivo”. Per Ebola c’è un impianto di produzione, non enorme ma già pronto. Quello che va fatto è sostituire il gene che codifica per la proteina del virus Ebola con un gene che codifichi per la proteina del nuovo coronavirus. C’è chi ci sta già lavorando, mentre altri gruppi stanno percorrendo la stessa strada usando adenovirus».

Ci sono altri tipi di vaccini che potrebbero essere pronti relativamente in fretta?

«Quelli a Rna. Il concetto è lo stesso. Si fa un gene sintetico che fa produrre la proteina del virus che si vuole combattere, ma invece di metterlo all’interno di un vettore virale si inietta direttamente nelle cellule in una formulazione speciale. Non richiede di far crescere virus o batteri ed è più facile la sua industrializzazione. Però non c’è ancora un vaccino già approvato da un ente regolatorio come nel caso di quello per Ebola».

I vaccini tradizionali in che cosa differiscono? E potrebbero essere pronti altrettanto presto?

«I vaccini classici si basano sulla produzione di una proteina del virus, che poi viene iniettata nell’uomo, con o senza adiuvanti, cioè preparati che sono capaci di facilitare la risposta immunitaria. La realizzazione di questi vaccini richiede più tempo, perché per approntare la proteina ci vogliono almeno sei mesi e non bastano certo poche settimane in laboratorio. Il loro vantaggio è rappresentato dal fatto che poi, però, possono essere prodotti in grandi quantità e sappiamo che funzionano bene. Per farli “lavorare” in modo efficiente contro il coronavirus serviranno anche adiuvanti e per svilupparne di adatti all’uomo ci vogliono molti anni».

In questi giorni è stato sollecitato più volte l’impegno italiano nella ricerca contro il coronavirus. È stato chiamato a partecipare a qualche task force in questo senso?

«Ho partecipato a un incontro presso l’Istituto Superiore di Sanità nel corso del quale ho potuto esprimere le mie opinioni per quanto attiene alle mie competenze e sono in contatto con chi prende le decisioni in questo momento. Però, per adesso, devo ribadire che gli unici mezzi che abbiamo sono soltanto l’isolamento e la quarantena».

Massimo Finzi per Dagospia il 4 marzo 2020. La notizia viene direttamente da Ofir Akunis, ministro israeliano della scienza e della tecnologia. Il Galilee Reasearch Istitute (Migal) di Israele studiava da tempo il coronavirus responsabile della bronchite infettiva dei polli (IBV). Contro tale agente infettivo sarebbe stato messo a punto un vaccino, attivo per via orale, che avrebbe dimostrato la capacità di stimolare la produzione di anticorpi specifici contro l’IBV. Questo coronavirus dei polli non solo ha una elevata somiglianza con il Covid-19 umano ma ne condivide il meccanismo di infezione. Se questi risultati troveranno conferma sugli esseri umani, presto potrebbe essere avviata la necessaria sperimentazione e la successiva produzione del vaccino su scala industriale.

 (askanews il 28 febbraio 2020) – Un team di scienziati israeliani è in procinto di sviluppare il primo vaccino contro il coronavirus. L’annuncio è del ministro israeliano della Scienza e della Tecnologia, Ofir Akunis come riporta il Jerusalem Post secondo il quale, se tutto va come previsto, il vaccino potrebbe essere pronto entro tre settimane e disponibile in 90 giorni. “Congratulazioni al MIGAL (Galilee Research Institute, ndr) per questa eccitante svolta. Sono fiducioso che ci saranno ulteriori rapidi progressi, che ci consentiranno di fornire una risposta necessaria alla grave minaccia globale COVID-19 “, ha affermato Akunis. Negli ultimi quattro anni, un team di scienziati MIGAL ha sviluppato un vaccino contro il virus della bronchite infettiva, una malattia che colpisce il pollame, la cui efficacia è stata dimostrata in studi preclinici condotti presso l’Istituto veterinario, ricorda il Jerusalem Post. “Il nostro concetto di base era quello di sviluppare la tecnologia, e non specificamente un vaccino per questo tipo o quel tipo di virus”, ha affermato Chen Katz, leader del gruppo biotecnologico del MIGAL, che ha spiegato che “il quadro scientifico per il vaccino si basa su un nuovo vettore di espressione proteica, che forma e secerne una proteina solubile chimerica che trasporta l’antigene virale nei tessuti della mucosa mediante endocitosi autoattivata, inducendo l’organismo a formare anticorpi contro il virus”. L’endocitosi è un processo cellulare in cui le sostanze vengono introdotte in una cellula circondando il materiale con la membrana cellulare, formando una vescicola contenente il materiale ingerito. Katz ha affermato che negli studi preclinici, il team ha dimostrato che la vaccinazione orale induce alti livelli di anticorpi specifici anti-IBV. “Chiamiamolo pura fortuna”, ha continuato. “Abbiamo deciso di scegliere il coronavirus come modello per il nostro sistema, proprio come una prova di concetto per la nostra tecnologia.” Ma dopo che gli scienziati hanno sequenziato il DNA del nuovo coronavirus, COVID-19, i ricercatori del MIGAL lo hanno esaminato e hanno scoperto che il coronavirus del pollame ha un’elevata somiglianza genetica con il coronavirus umano e che utilizza lo stesso meccanismo di infezione, un fatto che aumenta la probabilità di ottenere un vaccino umano efficace in un periodo di tempo molto breve. “Tutto ciò che dobbiamo fare è adattare il sistema alla nuova sequenza”, ha continuato Katz. “Siamo nel mezzo di questo processo e speriamo che tra qualche settimana avremo il vaccino nelle nostre mani. Sì, tra qualche settimana, se tutto funzionasse, avremmo un vaccino per prevenire il coronavirus”. Katz ha avvertito che MIGAL sarebbe responsabile dello sviluppo del nuovo vaccino, ma che il vaccino dovrebbe quindi passare attraverso un processo regolatorio, compresi studi clinici e produzione su larga scala. Akunis ha dichiarato di aver incaricato il direttore generale del Ministero della Scienza e della Tecnologia di accelerare tutti i processi di approvazione con l’obiettivo di portare sul mercato il vaccino umano il più rapidamente possibile. “Data l’urgente necessità globale di un vaccino contro il coronavirus umano, stiamo facendo tutto il possibile per accelerare lo sviluppo”, ha affermato David Zigdon, CEO di MIGAL, che ha dichiarato di ritenere che il vaccino potrebbe “ottenere l’approvazione della sicurezza in 90 giorni”. Ha detto che si tratterà di un vaccino orale, che lo renderà particolarmente accessibile al grande pubblico. “Attualmente stiamo discutendo intensamente con potenziali partner che possono aiutare ad accelerare la fase di sperimentazione sull’uomo e ad accelerare il completamento dello sviluppo del prodotto finale e le attività normative”, ha concluso.

Coronavirus, azienda Usa produce il primo vaccino sperimentale. La sperimentazione clinica dovrebbe iniziare entro la fine di aprile: si baserà su circa 20-25 pazienti sani. Speranza per i contagiati? Luca Sablone, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale.  Moderna ha prodotto quello che potrebbe essere il primo vaccino contro il Coronavirus. La società farmaceutica di Cambridge - nel Massachusetts e quotata sul mercato newyorchese del Nasdaq (Mrna) - grazie alla collaborazione con il Niad (National Institute of Allergy and Infectious Diseases) americano e il Centro di ricerca sui vaccini (Vrc) ha potuto diramare l'annuncio nella notte, a mercati chiusi: sede principale l'impianto di Norwood, che si trova a circa 40 chilometri a sud di Boston. E la novità sostanziale è che sarebbe pronto per essere testato sull'uomo. Moderna ha provveduto a inviare alcune fiale di vaccino al National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Nih) di Bethesda, nel Maryland. Questa potrebbe rappresentare la svolta? Una speranza per i pazienti cinesi e italiani contagiati nelle ultime ore? Ciò che al momento risulta evidente è il fatto che per la somministrazione su larga scala bisognerà attendere: i tempi non saranno affatto brevi. Ma parallelamente i passi in avanti proseguono a ritmi notevolmente spediti.

La sperimentazione. La sperimentazione clinica dovrebbe iniziare entro la fine di aprile: si baserà su circa 20-25 pazienti sani, sui quali bisognerà verificare se le due dosi del vaccino sono sicure e se inducono una risposta immunitaria che potrebbe proteggere dalle infezioni. Tra luglio e agosto potrebbero arrivare addirittura i risultati iniziali del test in questione; un vaccino comunque potrebbe essere in commercio non prima del 2021. Anthony Fauci, l'immunologo a capo del Nih, ha fatto sapere che non è da escludere che durante i mesi più caldi la diffusione del Covid-19 possa diminuire. Tuttavia nel corso del prossimo inverno potrebbe tornare prontamente protagonista diventando un virus stagionale a tutti gli effetti come l'influenza, rendendo così utile il vaccino. Intanto nella giornata di ieri Walter Ricciardi, in un'intervista rilasciata ai microfoni di Tv2000, ha informato: "I vaccini tradizionali per l’influenza non hanno alcun effetto perché il vaccino va studiato specificatamente per questo nuovo Coronavirus. Per questo dobbiamo lavorare ancora un paio di anni". Il membro dell'esecutivo Oms, nominato consigliere del ministro della Salute, ha fatto notare che nei casi di morte di Covid-19 in Italia "si è determinata una polmonite interstiziale con un grande danno respiratorio che ha portato la persona a cessare di respirare perché la funzione polmonare non ce la faceva più". L'obiettivo principale è quello di contenere i due focolai epidemici in Lombardia e Veneto: "Dobbiamo assolutamente evitare che diventi un’epidemia che coinvolga anche le altre Regioni".

Coronavirus, negli Usa partono i test clinici di un possibile vaccino. Ma in Cina ne hanno già chiesto il brevetto. Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Le azioni della società californiana Gilead Sciences si sono apprezzate nel corso dell’ultima settimana, sulla scia delle indiscrezioni — poi confermate — che il suo remdesivir, un farmaco antivirale utilizzato per test in laboratorio contro la Sars e la Mers (la sindrome respiratori mediorientale), ha ricevuto il via libera per iniziare la sperimentazione su pazienti. In un articolo pubblicato martedì scorso su Cell Research si descriveva l’efficacia del remdesivir anche nel neutralizzare il nuovo ceppo di coronavirus 2019-nCoV. Le perplessità nei confronti di questo farmaco sono comunque ancora molte, osserva il settimanale cinese Caixin. Il remdesivir non ha ottenuto finora nessun tipo di autorizzazione per nessuna patologia, ed è stato testato ancora su un numero troppo ristretto di persone, quindi i suoi effetti sul corpo umano sono ancora completamente sconosciuti. La cautela è dunque d’obbligo. «È importante confrontarlo con qualcosa in modo da sapere definitivamente se funziona», commenta Allen Cheng, l’epidemiologo a capo dell’unità di prevenzione delle infezioni dell’ospedale Alfred Health di Melbourne, in Australia. «Non sappiamo davvero cosa succede se non si tratta il nuovo virus. Alcuni pazienti sembrano avere un decorso della malattia molto leggero e migliorano da soli, altri invece hanno sintomi gravi e continuano a peggiorare». Questo rende difficile capire se qualcuno si riprende grazie ad un farmaco o se sarebbe guarito comunque. Inoltre, nessuno vuole rischiare degli effetti collaterali involontari che possono mettere a rischio la vita dei pazienti, soprattutto se questi avrebbero finito per migliorare. «Il tasso di mortalità dei pazienti ricoverati in ospedale per il nuovo coronavirus è del 10%», nota Tony Cunningham, esperto di antivirali per il trattamento dell’Hiv (il virus dell’Aids) al Westmead Hospital di Sydney: «Quindi i problemi etici nel condurre uno studio controllato, quando non si ottiene nient’altro sono davvero molto difficili». Insomma, siamo di fronte ad un’emergenza e bisogna tentare l’impossibile, anche con un uso «off-label» (cioè al di fuori delle condizioni autorizzate) di farmaci ancora in via di sperimentazione. In diversi ospedali di Wuhan, ad esempio, è stato somministrato il remdesivir a 761 malati, per studiarne l’efficacia a dispetto di tutte le incognite e i possibili rischi. Questi esperimenti evidentemente devono aver dato risultati soddisfacenti, se l’Istituto di virologia di Wuhan ha deciso di brevettare l’uso del farmaco della Gilead per il trattamento del 2019-nCoV. La richiesta di brevetto è stata depositata addirittura lo scorso 21 gennaio, ed è stata motivata con la volontà di «proteggere l’interesse nazionale». Un portavoce della compagnia ha confermato che la società era a conoscenza dell’iniziativa cinese, ma che qualsiasi discussione su licenze e brevetti al momento appare prematura. «Vogliamo per ora determinare rapidamente il potenziale del remdesivir come trattamento per il nuovo ceppo di coronavirus, accelerando la produzione in previsione delle potenziali esigenze future di approvvigionamento», ha aggiunto.

Coronavirus, il vaccino e il business: le aziende che stanno guadagnando in Borsa miliardi in pochi giorni. Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Il coronavirus terrorizza la Cina e il mondo intero, ma qualcuno si sta sfregando le mani: in Borsa, come sottolineato dal Sole 24 ore, le società farmaceutiche che stanno lavorano a un vaccino contro il virus 2019-n-Cov hanno iniziato a volare. L'americana Vir Biotechnologies, quando i contagi sono esplosi su scala mondiale, ha visto le proprie azioni aumentare di valore per il 97%, con capitalizzazione di 3 miliardi di dollari. L'azienda si dice ora vicina a trovare una soluzione al virus di Wuhan. Anche altre aziende americane come Inovio pharmaceuticals, Moderna e Novavax, impegnate nelle ricerche, hanno guadagnato rispettivamente il 61%, il 16% e il 13%, mentre anche la Cina ha annunciato che parteciperà alla corsa per il vaccino.

Perché il titolo delle industrie del farmaco vola in borsa. Andrea Muratore su Inside Over il 27 febbraio 2020. Molti analisti e commentatori hanno recentemente sottolineato il fatto che le industrie farmaceutiche stiano, in queste ultime settimane contraddistinte dalla crescente tensione per il Coronavirus, sperimentando una fase di espansione e rally borsistico. Ad esempio a Piazza Affari, nella giornata di tonfo del 24 febbraio scorso, tra i titoli migliori si è piazzato Gilead Sciences, con un rialzo del 7,66%. Troppo spesso semplificazioni e disinformazioni di varia natura portano a ritenere naturale che ciò sia, in qualche modo, un effetto voluto, un cinico tentativo di guadagnare dal panico tra la popolazione; i complottisti più esasperati arrivano a vedere l’ombra sinistra di Big Pharma dietro l’inizio stesso dell’epidemia. Non si vuole in questa sede dare alcuna pubblicità o notorietà agli artefici di queste teorie che, purtroppo, stanno aggiungendo confusione su confusione al dibattito online sul Coronavirus, ma provare a spiegare i fondamenti economici di questa evoluzione. “Il diffondersi di nuovi virus genera una apparente attivazione dei comparti della ricerca e della sperimentazione che di solito ha, soprattutto in Borsa, un effetto positivo per le società farmaceutiche e biotech”, sottolinea Il Fatto Quotidiano. Si aggiunge a ciò un effetto psicologico che porta gli investitori a ritenere veri e propri beni rifugio le azioni delle società che ricercano e sperimentano contro le epidemie. Le borse scontano i progressi globali della ricerca sul virus, non a caso certificati anche dai maggiori dirigenti dell’Organizzazione mondiale della sanità in un articolo su The Lancet. Non si tratta però necessariamente di un effetto duraturo: “Le oscillazioni spesso dipendono dalle notizie che vengono fatte circolare e dai progressi che le aziende riescono a fare. Nonché dalle dimensioni dell’epidemia” e, di conseguenza, delle prospettive di una pronta risposta della comunità scientifica. Aziende e gruppi farmaceutici nel mondo hanno accumulato, negli ultimi decenni, un carico di critiche non indifferente su temi quali la crisi degli oppiacei statunitensi o i finanziamenti targettizzati alle organizzazioni internazionali che si occupano di ricerca farmacologica, ma definirle in maniera manichea come immacolate o, dal lato opposto, ciniche speculatrici sulla salute dei cittadini del pianeta significa operare un pericoloso riduzionismo. Da smentire con grande forza l’idea che negli armadi di Big Pharma fosse pronto un farmaco o un vaccino pronto solo a essere commercializzato: aziende come la GlaxoSmithKline e la Pfizer, possono spendere fra i 500 e mille milioni di dollari per la ricerca e la sperimentazione di un vaccino con la certezza di poter commercializzare solo circa il 7% dei prodotti di ricerca. Un vaccino, poi, prima di essere operativo deve superare test clinici e sperimentazioni serrate che rendono impossibile pensare a un prodotto pronto a essere messo in circolazione prima di aver raggiunto un livello di maturazione e una soglia di sicurezza accettabile. Come sottolinea StartMag, il boom in borsa potrebbe essere stato determinato proprio dall’inizio di una corsa massiccia al vaccino da parte di aziende contemporaneamente in cooperazione e concorrenza, che ha attratto sul settore un aumento delle prospettive di investimento pubblico e privato. Tra le aziende più ottimiste sul campo, sottolinea StartMag, si trovano due gruppi italiani biomedici che lavorano al vaccino, “la Takis e la Evvivax, che se pensano di avviare la sperimentazione sull’uomo solo in poche settimane, sono costrette ad ammettere che l’antidoto non arriverebbe in commercio prima dell’estate”. “In quattro, massimo cinque settimane potremmo concludere gli studi sui roditori e passare poi all’ uomo, per averlo disponibile forse anche entro questa estate”, ha detto alla testata Luigi Aurisicchio, amministratore delegato delle due aziende. Più cauta sul tema la virologa Ilaria Capua, secondo cui per un vaccino pienamente operativo ci vorrà più tempo, da sei a otto mesi. Tutto questo creerà pressioni e aspettative sul sistema sanitario e sull’industria attiva nel settore. Per un’azienda farmaceutica che si ritrova a dover sopportare investimenti iniziali notevoli, ampi costi di gestione e ricavi incerti, inoltre, un boom borsistico in una fase emergenziale può essere un’arma a doppio taglio: sul lungo periodo esso corrisponde a investitori da soddisfare, dividendi da distribuire, risultati da realizzare. Cosa che non è certamente garantita in partenza: l’intreccio tra borsa e salute è sempre da guardare con occhio clinico e ampie prospettive. Nella certezza che nel caso Coronavirus i complottismi stanno a zero, e aiutano solo a amplificare la pericolosa “infodemia” delle ultime settimane.

Perché va messo un guinzaglio a Big Pharma. I colossi multinazionali del farmaco producono solo le medicine che danno profitto e abbandonano la ricerca nei settori chiave per la salute. Per le nuove emergenze occorre un’azienda pubblica finanziata da tutti i paesi dell’Unione Europea. Gloria Riva su L'Espresso il 05 ottobre 2020. Un guinzaglio a Big Pharma. Dopo anni di liberismo, in cui le aziende farmaceutiche hanno prodotto e venduto pillole in base a una logica del massimo profitto, anziché porsi l’obiettivo di rispondere alle reali esigenze di pazienti e cittadini, la Commissione Europea prova a cambiare rotta. Proprio la scelta delle imprese del farmaco di mettere in secondo piano la ricerca e la sperimentazione su vaccini e antibiotici, perché sono meno redditizi, è alla base della totale impreparazione di fronte alla pandemia di Covid-19. Una leggerezza che, in base alle stime di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel 2020 costerà all’Eurozona un calo dell’8,7 per cento del Pil, vale a dire una perdita superiore ai millecinquecento miliardi di euro, senza considerare le vittime della pandemia, la disoccupazione galoppante e i debiti che l’Unione dovrà contrarre per far fronte alla crisi economica peggiore dalla propria fondazione.

«Le multinazionali del farmaco fanno...«Le multinazionali del farmaco fanno miliardi sfruttando la ricerca pubblica. È assurdo». "Le società farmaceutiche hanno dismesso i propri poli scientifici e hanno scelto di andare in cerca di start up da acquisire. E questi costi li scaricano sui consumatori". Parla Silvio Garattini, il fondatore del Mario Negri. Gloria Riva su L'Espresso l'1 ottobre 2020. «Quello che vedo è che in Italia, nella ricerca farmacologica, non c’è stato alcun passo in avanti. Considerando anche il contributo privato delle aziende, il nostro paese spende l’1,2 per cento del pil per i ricercatori e dovremmo investire almeno 20 miliardi l’anno per avere una condizione simile a quella francese. La nostra è una situazione di miseria». Silvio Garattini, scienziato e farmacologo di fama internazionale, presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è scettico rispetto alla possibilità di un cambio di rotta nel business dei medicinali. Chi è stato un adolescente a cavallo tra i ’70 e gli ’80 poteva fregiarsi di un poster di Eddie Van Halen in camera, magari in regalo con una delle tante riviste di musica che riempivano le edicole. Le ragazzine si liquefacevano davanti a quel tipo così cool, dallo sguardo furbo, sorridente e magnetico, canotta d’ordinanza a scoprir braccia atletiche, ciuffoni altissimi da gallo pietrificati a lacca con spruzzate di colori vari. I ragazzi, che ammettevano la resa, avevano l’alternativa pratica di tentare l’azzardo, prendere una chitarra in mano e sfasciarsi le dita per ore, cercando di tirar fuori un riff, un frammento dei prodigi che sfoggiava quel maledetto mostro di Eddie. Suonava e rideva, ammiccava e smitragliava migliaia di note al minuto. Erano gli anni dei “guitar heroes”, prima che diventassero un giochetto per la playstation, ed era tutto dannatamente romantico. Ecco perché la notizia della morte di Van Halen in chi ha oggi la mezza età, i capelli grigi, gli acciacchi e una valigia di disincanti, suona come l’ennesima crepa che va ad ingombrare la “strage delle illusioni”, zavorra del tempo ladrone. Si potrebbe esser tentati dal troppo facile giochino dei padri e dei figli al grido di “ai miei tempi”, per celebrare una stagione in cui la figaggine della musica stava tutta dentro la tecnica e il sudore, ore per far cantar uno strumento e l’autotune di Ghali o Sfera Ebbasta un futuribile, potentissimo emetico. E sì, un giochino irresistibile tuttavia, per cui volentieri vi si aderisce qui: ai miei tempi, per la miseria! A guardarlo suonare sembrava tutto facilissimo, qualcosa che qualunque stupidotto avrebbe potuto facilmente riprodurre. E invece. Eddie Van Halen è stato uno degli ultimi innovatori della tecnica chitarristica che, come in tanti altri casi della storia musicale, è nata per un limite personale. Se Wes Montgomery iniziò a suonare col pollice per far piano e non svegliare la moglie di notte, Van Halen iniziò a provare il tapping (che magari non ha inventato, come la vulgata vuole, ma certamente ha portato ad un livello di assoluta perfezione esecutiva) perché non riusciva a suonare alcuni passaggi dei solo di Jimmy Page coi i Led Zeppelin. Anzi, a sua volta imbambolato da quel proto guitar hero, impazziva a vederlo suonare solo sul manico, mentre l’altra mano era rivolta verso l’alto, illuminato dai riflettori, per raccogliere applausi. Geniaccio dello strumento, Eddie aveva cambiato il modo di suonare lo stile hard-heavy senza sapere granché di scale e teoria musicale, perché l’artigianalità stava tutta nell’orecchio fine di ascolto e la versatilità di trovare soluzioni pratiche alle asperità tecniche. Tanta grande musica, alcune tra le pagine più importanti, sono nate proprio così, dai caparbi “illetterati” lontani dalle Accademie. C’era qualcosa di circense nel rock, la voglia di stupire, di creare uno spettacolo straordinario di suoni e di luci guidati da un virtuoso inimitabile. C’era la voglia di diventare, un po’ da belle époque fine Ottocento, il "più grande chitarrista del mondo" (e tante volte Van Halen è stato paragonato, non fuori luogo, a Paganini, per l’irraggiungibile velocità di esecuzione). Quella voglia, qualche volta, entrava nelle case della gente comune e spingeva i ragazzi a prendere in mano uno strumento e suonarlo fino a slogarsi gli arti. In piccoli crochi davanti alla scuola, qualche altra volta, ci si ritrovava a discutere su chi fosse il chitarrista più bravo del mondo; si può anche personalmente riferire di discussioni che sfioravano la rissa. Qualche spinta, pure, ci sarà stata tra chi urlava Brian May, chi Clapton, chi Page, chi Gilmour e chi Van Halen. Roba da vecchi, memorie che scoloriscono. Tutto il resto di Eddie Van Halen è cronaca: la nascita del gruppo nella west coast, i successi, gli eccessi, gli addii, i ritorni, la malattia, le classifiche e i baratri. E la cronaca non può interessare a chi voleva farsi Mito, oltre la storia. Rip, Eroe!

·         Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

La reazione di Eto'o, Drogba e altri giocatori. Anche altri giocatori sulla rete hanno rilanciato il video dei medici, accompagnandolo con insulti, come riferisce l'edizione online di Marca e pure 'As'. "Figli di put..a, siete solo merda, l'Africa non è il vostro parco giochi", ha scritto l'ex attaccante di Barcellona e Inter, Samuel Eto', riprendendo un tweet di Demba Ba, centravanti senegalese dell'Istanbul Basaksehir, che a sua volta aveva manifestato il suo sdegno nei riguardi delle parole dei due esperti: "Benvenuti in Occidente, dove i bianchi pensano di essere così superiori che il razzismo e la debolezza diventano in qualche modo banali. È tempo di ribellarsi". Duro anche la presa di posizione dell'ex attaccante ivoriano Drogba: "E' assolutamente inconcepibile che dobbiamo continuare a sopportare. L'Africa non è un laboratorio di test, non prendete gli africani come cavie".

Testare il vaccino in Africa? Quando i miserabili sono cavie da laboratorio. Daniele Zaccaria su Il Dubbio l'11 aprile 2020. In Francia hanno creato scandalo e polemiche le parole di due noti medici che in diretta tv hanno proposto questa soluzione per accelerare la lotta al Covid- 19. La scorsa settimana, quando anche i francesi si sono accorti che il Covid- 19 non si ferma alle frontiere nazionali e la malattia ha iniziato a mietere centinaia di vittime anche oltre le Alpi, Jean- Paul Mira, direttore del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cochin ha lanciato una proposta choc: «Perché non testiamo il vaccino in Africa dove in ogni caso non ci sono mascherine e strutture sanitarie adeguate?». Parole che hanno fatto sobbalzare dalla sedia milioni di persone visto Mira ha parlato sugli schermi di Lci, la rete di informazione televisiva più seguita in Francia. Per corroborare la sua idea Mira ha citato candidamente i precedenti: «Abbiamo fatto la stessa cosa per alcuni studi sull’AIDS, e d’altra parte anche tra le prostitute, che, come si sa, sono molto esposte e non si proteggono». Ancora più sconcertante la risposta in studio di Camille Locht, direttore di ricerca al celebre Istituto Pasteur che gli dà man forte: «Lei ha ragione e infatti stiamo già pensando a degli studi da realizzare proprio in Africa».

I centralini e gli indirizzi di posta elettronica di Lci sono stati comprensibilmente inondati di proteste, sui social sono spuntate petizioni con centinaia di migliaia di firme per pretendere le scuse immediate dei vertici della rete i quali hanno replicato in modo goffo e parziale. Il dialogo raggelante dei due luminari francesi scandalizza noi gentili ma sorprende solo gli ingenui. Lo sfruttamento inumano delle popolazioni del Terzo mondo, in questo caso dei loro stessi corpi trasformati in cavie da laboratorio, è una pratica che viene da lontano, nata nell’era coloniale e mai del tutto abbandonata dall’Occidente. Nell’esperienza francese esiste una sterminata letteratura e una consolidata tradizione storica e intellettuale. In fondo anche un periodo radioso come l’Illuminismo teorizzava una gerarchia precisa delle razze ( Voltaire era un noto antisemita) in cui i neri, naturalmente, occupavano l’ultimo gradino della scala, concetti poi formalizzati da Arthur de Gobineau, padre del razzismo moderno e autore dell’Essai sur l’inégalité des races, il cui materialismo biologico ha ispirato l’ideologia del Terzo Reich. Nel migliore dei casi quei popoli colonizzati e vinti erano “selvaggi” da istruire e assimilare, un approccio “zoologico” cristallizzato nelle stampe e nelle illustrazioni d’epoca in cui il negro veniva raffigurato come una specie di scimmia indolente, fenomeno da baraccone sub- umano, da far esibire assieme ai gorilla e alle giraffe. Nella buona coscienza occidentale c’è un’intenzione “filantropica” nel civilizzare il selvaggio che serve da cauzione permanente per giustificare le atrocità commesse. In questo campo la medicina coloniale è emblematica, il materiale di cui dispone sono veri e propri corpi di riserva, poco più che ratti e molto più utili di questi ultimi perché, in fondo anche i razzisti lo sanno, per la biologia apparteniamo tutti alla stessa specie. Lo storico americano Deirdre Cooper Owens nel suo Medical Bondage fa luce sui raccapriccianti esperimenti dell’irlandese James Marion Sims uno dei fondatori della ginecologia moderna, compiuti sugli schiavi africani. Pagine insostenibili di bassa macelleria in cui si racconta di operazioni chirurgiche senza anestesia con strumenti sperimentali, di urla e sofferenze atroci, di trattamenti estremi contro le malattie che spesso portavano alla morte dei malcapitati. All’inizio degli anni 30 il direttore dell’Istituto Pasteur Émile Roux aveva preparato un vaccino contro il virus della Febbre gialla ma aveva timore di effetti collaterali e quindi esitava a sperimentarlo sulla popolazione. Ci pensò un suo collega virologo Charles Nicolle a trovare la soluzione: «Lo proviamo sui tunisini, lì ilo materiale umano non manca». Se in quel caso i medici furono fortunati, vent’anni dopo le cose andarono molto peggio. Nel 1954 le autorità coloniali francesi decidono di provare un vaccino contro la Malattia del sonno( la Tripanosomiasi Africana) a Gribi, un villaggio del Camerun. Gli effetti sono devastanti: nei giorni che seguono il tentativo di vaccinazione muoiono quasi mille persone, e lo fanno tra atroci tormenti, vittime di cancrene e necrosi folgoranti che si sviluppano a partire dall’area della puntura non dando alcuno scampo ai malati. La vicenda è raccontata con crudezza e profondità dallo storico Guillaume Lachenal, in Le médicament qui devait sauver l’Afrique: Un scandale pharmaceutique aux colonies, il lavoro più completo sulla vergogna di Gribi. Anche se le colonie non esistono più, le vecchie potenze ma soprattutto le multinazionali non esitano a proseguire la tradizione. Nel 1996 la Pfizer sperimenta a Kano in Nigeria la Tovrafloxacina, una molecola creata nei suoi laboratori per contrastare la meningite. Il risultato è funesto e porta alla morte di undici bambini. Stesso copione ma con esiti meno drammatici per i test clinici del Tenofivir, un farmaco antivirale che tiene a bada la progressione del Hiv, somministrato a diverse migliaia di persone in diversi Stati africani. Se in quel caso non ci sono stati decessi, il ministero della Salute nigeriano è riuscito a fermare i test perché i protocolli non erano stati autorizzati. Basta un rapido sguardo a questa storia lugubre e rimossa per non restare stupiti dalle parole dei due medici francesi e dalla loro idea di provare i vaccini contro il Sars- Cov2 sui selvaggi africani. Anche perché in molti a pensarla come loro, persino tra la comunità scientifica.

·         Il Costo del Vaccino.

Coronavirus, i vaccini stanno arrivando ma non sappiamo quanto li abbiamo pagati. Le Iene News il 13 dicembre 2020. La corsa al vaccino è ormai finita, molti prodotti sono in attesa del via libera dell’Agenzia europea del farmaco per essere distribuiti. L’Unione europea ha già acquistato 1,3 miliardi di dosi, mettendo in campo decine di miliardi di euro per lo sviluppo e la distribuzione: eppure ha deciso di non dire quanto ha pagato quelle dosi. Ormai la corsa al vaccino per il coronavirus sembra finita: con l’iniezione della prima dose a una cittadina del Regno Unito, e con l’arrivo in Italia di 28 milioni di vaccini previsto entro fine marzo, la luce in fondo al tunnel sembra sempre più vicina. C’è però una importante informazione che - per adesso - non abbiamo: quanto ci costa quella luce? Cioè quanto paghiamo per avere quei vaccini? Facciamo un passo indietro: subito dopo l’esplosione della prima ondata in Europa, è diventato evidente quanto fosse urgente potenziare i sistemi sanitari e adoperarsi per avere il prima possibile un vaccino. Il 4 maggio, il giorno della fine del lockdown in Italia, la Commissione europea guidata da Ursula Von der Leyen ha lanciato il Coronavirus Global Response, un’azione globale - si legge sul sito stesso - per garantire “accesso universale economicamente sostenibile al vaccino, ai trattamenti e ai test”. A oggi, secondo quanto recita il sito stesso, sono stati raccolti 15.9 miliardi di euro. Di questi, 11.9 sono stati messi sul piatto dagli Stati membri, dalla Commissione europea e dalla Banca europea d’investimento. Inoltre 6.15 miliardi sono stati mobilitati grazie al summit "Global Goal: Unite for our Future", organizzato da Global Citizen e dalla Commissione. Fondi destinati a “finanziamenti aggiuntivi per aiutare a sviluppare e assicurare un accesso equo ai vaccini, ai test e alle cure”. Come sono stati utilizzati questi soldi? A comunicarlo è lo stesso sito del progetto della Commissione europea, che rendiconta dove sono stati investiti circa 9.8 miliardi di euro raccolti al 28 maggio: 4,3 miliardi sono stati destinati a partnership per i sistemi sanitari, 800 milioni a partnership terapeutiche, 200 milioni a partnership diagnostiche, 2 miliardi sono ancora da utilizzare e 2,3 miliardi sono stati destinati a partnership per i vaccini. Ma non è tutto, perché a giugno la commissaria europea alla Salute Stella Kyriakides aveva annunciato che l’Unione avrebbe finanziato le case farmaceutiche con sede in Europa in cambio di contratti che assicurino la fornitura del vaccino ai cittadini europei “velocemente e nelle quantità necessarie”, una volta disponibile. “Una parte della proposta è stilare un accordo di acquisto con i produttori di vaccini, dando agli Stati membri il diritto di acquistare un certo numero di dosi, per un certo prezzo”, per il quale sarebbero stati impegnati 2 miliardi di euro provenienti dall'Emergency support Instrument, uno strumento dell’Unione europea per assistere i paesi colpiti da gravi crisi. La commissaria aveva poi spiegato che “questa iniziativa sarà strettamente coordinata con quella per raccogliere fondi a livello internazionale”, cioè la Coronavirus Global Response di cui vi abbiamo parlato prima. Insomma, una vera montagna di soldi. Molti, moltissimi dei quali provenienti da fondi pubblici. Oggi la corsa a sviluppare il vaccino è finita, e molte case farmaceutiche sono in attesa del via libera dell’Agenzia europea del farmaco per distribuire i loro prodotti. A oggi la Commissione europea ha siglato accordi o pre-accordi con Pfizer-BioNtech, CureVac-Moderna, AstraZeneca, Sanofi-Gsk e Johnson&Johnson per raccogliere 1,3 miliardi di dosi, circa tre volte la popolazione dell’Unione, subordinati all’effettivo via libera per la distribuzione. Ma, dopo tutte le risorse messe in campo di cui vi abbiamo dato conto qui sopra, quanto sono stati pagati questi vaccini? Ebbene, non lo sappiamo. La Commissione europea infatti ha deciso di non rendere pubblici gli accordi con le case farmaceutiche. A spiegare il perché è la stessa Commissione sul suo sito: “I contratti sono protetti per ragioni di riservatezza, garantita dalla natura altamente competitiva del mercato globale”. Tradotto, per paura che qualcuno faccia un’offerta più alta e si porti via quelle dosi di vaccino per cui l’Unione ha già impegnato una fortuna. Per la Commissione la decisione di non pubblicare gli accordi è presa per “proteggere le trattative importanti e le informazioni industriali, come i dati finanziari e i piani di sviluppo e produzione”. Specificando poi che “tutte le compagnie richiedono che tali informazioni sensibili rimangano confidenziali tra le parti in causa”. Quello che sappiamo invece, per voce delle case farmaceutiche stesse, è quanto costano le singole dosi: i produttori dei vaccini infatti avevano dichiarato già all’inizio di questa corsa che si sarebbero impegnati a mantenere il costo d’acquisto intorno a quello di produzione. Il vaccino di AstraZeneca - come riporta il Sole24Ore - dovrebbe costare 2,8 euro a dose, quello di Moderna 25 dollari, quello di Pfizer 19,5 dollari. Proprio quest’ultimo vaccino però, secondo quanto riporta Reuters, dovrebbe costare all’Europa meno dei 19,5 dollari di costo della singola dose per via dei finanziamenti ricevuti da parte dell’Unione europea e della Germania per sviluppare il vaccino. Quale sarà il costo finale però non lo sappiamo, appunto perché la Commissione ha deciso di non rendere noti i dettagli degli accordi. Serve davvero tutta questa riservatezza, dopo i tantissimi soldi pubblici che sono stati investiti? Oppure i cittadini hanno diritto di conoscere dalle loro istituzioni quanto abbiamo pagato questi vaccini?

N.C. per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2020. I Paesi dell'Unione europea pagheranno 12 euro a dose per il vaccino contro il Covid-19 sviluppato da Pfizer e BionTech e 18 dollari a dose per quello di Moderna. Sono i prezzi riportati dal giornale fiammingo Het Laatste Nieuws, che ha pubblicato lo screenshot di un tweet della sottosegretaria al Bilancio belga, Eva de Bleeker, la quale ha lanciato i prezzi in rete per errore. La sottosegretaria ha poi cancellato il tweet, ma Hln lo ha screenshottato e lo ha pubblicato. Per l'eurodeputato Peter Liese (Cdu Germania), responsabile per la Salute del gruppo Ppe, i prezzi riportati nel tweet pubblicato da Hln sono «realistici». Secondo la tabella, il vaccino Oxford/AstraZeneca è il più economico (1,78 euro a dose). Per Curevac sono 10 euro a dose, per Sanofi/Gsk 7,56 euro a dose, per Johnson&Johnson 8,5 dollari a dose. I prezzi finora erano rimasti riservati, anche perché la Commissione sta ancora negoziando un contratto con Novavax. A innescare la diffusione dei prezzi, che finora erano rimasti riservati, così come sono tuttora segreti (non agli Stati membri, ma all'opinione pubblica) i contratti di preacquisto siglati dalla Commissione Ue con le case farmaceutiche, è stato un bisticcio via Twitter, tutto in fiammingo, tra la De Bleeker, che milita nell'Open Vld, un partito fiammingo liberaldemocratico, e i rivali dell'N-Va (Nieuw Vlaamse Alliantie), indipendentisti di centrodestra, oggi all'opposizione. L'N-Va, ricostruisce il Brussels Times, aveva sostenuto che il governo federale non aveva stanziato soldi per i vaccini nel 2021. La De Bleeker ha replicato, via social, che quest'anno il governo ha stanziato 297 mln di euro, più 500 mln per l'anno venturo. Presa dalla vis polemica nel rispondere agli avversari politici, come accade usando i social, la De Bleeker non si è limitata a fornire la cifra totale, ma l'ha accompagnata, puntigliosamente, con le cifre relative ad ogni vaccino, in una tabellina. «Sono stata troppo trasparente», ha ammesso la politica. Ormai la frittata era fatta.

Antonio Grizzuti per “La Verità” il 19 dicembre 2020. Nemmeno il tempo di partire che negli Stati Uniti la campagna di vaccinazione contro il Covid fa già segnare i primi effetti collaterali di una certa importanza. Due infermieri di un ospedale in Alaska, alle quali era stato somministrato il farmaco sviluppato dall'americana Pfizer e dalla tedesca Biontech, hanno riportato giovedì una forte reazione allergica. La prima infermiera ha mostrato i segni tipici dello shock anafilattico: prima la sensazione di arrossamento, poi il rush cutaneo sul viso e sul busto e infine la mancanza di respiro e il battito accelerato. Una volta ricoverata, i medici le hanno somministrato epinefrina e antistaminici, ma i sintomi si sono ripresentati, e a quel punto i dottori hanno deciso di darle degli steroidi. Secondo quanto si apprende dalle autorità sanitarie, la donna non ha mai sofferto di allergie in passato. Un elemento preoccupante, perché non esclude reazioni gravi anche a carico di soggetti con precedenti. Nonostante l'esperienza da dimenticare, l'infermiera ha detto di sentirsi bene e di essere ancora «entusiasta del vaccino». Più stoica di così - letteralmente - si muore. Il secondo operatore è stato colpito da una reazione meno grave rispetto alla collega: occhi gonfi, sensazione di testa vuota e gola irritata appena dieci minuti dopo aver ricevuto la dose. È bastato somministrargli un antistaminico e nel giro di un'ora i sintomi sono spariti. Entrambi i casi sono stati inseriti nel database delle reazioni avverse del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. Certo, viene spontaneo chiedersi come sarebbe andata a finire se una sintomatologia del genere avesse interessato, anziché soggetti giovani e in salute, una persona anziana e affetta da altre patologie. Uno dei target, cioè, di questa prima fase della campagna vaccinale. C'è poi il caso di Tiffany Dover, operatrice sanitaria al Chi memorial di Chattanooga (Tennessee), svenuta in diretta davanti alle telecamere pochi minuti dopo aver ricevuto il vaccino. Ma stavolta non è chiaro se a causare la reazione sia stata la puntura o l'eccessiva pressione psicologica. «Ci aspettavamo che effetti collaterali di questo tipo potessero verificarsi, specie dopo le segnalazioni inviate in Inghilterra a seguito della somministrazione del vaccino Pfizer», ha spiegato il direttore medico dell'Alaska Anne Zink. Come chiarito dal capo dell'autorità regolatrice britannica June Raine, «chiunque abbia sperimentato in passato una reazione anafilattica a un vaccino, un farmaco o un alimento non dovrebbe assumere il vaccino Pfizer-Biontech». Una linea confermata anche dal professor Guido Forni, accademico dei Lincei e docente di immunologia all'università di Torino il quale, intervistato ieri dalla Stampa, ha spiegato che «nel caso di persone allergiche le reazioni possono essere più intense», e dunque questi soggetti «in rari casi possono provare fastidi maggiori». Secondo il dottor Paul Offit, pediatra e membro del comitato consultivo sui vaccini della Food and drug administration, la probabilità che si verifichi una reazione allergica grave è una su un milione. Molto rara, dunque, ma non impossibile. Considerando che nel lungo periodo gran parte della popolazione mondiale si vaccinerà contro il Covid, dovremmo aspettarci che a essere colpiti siano alcune migliaia di individui. Come spiega sempre il professor Forni, il vaccino Pfizer-Biontech «è molto reattogenico, cioè induce reazioni più forti dei vaccini soliti: la metà delle persone, in particolare giovani, prova mal di testa, febbre e brividi, che però si risolvono in 24 ore». L'uso su larga scala del vaccino potrebbe, come ammesso dal comitato di esperti della stessa Fda, poi rivelare effetti collaterali nuovi e potenzialmente più gravi rispetto a quelli emersi nel corso dei test. Big pharma ha già messo le mani avanti: nel caso di danni causati dal vaccino anti Covid a pagare dovranno essere i governi. E così, dopo aver ricevuto miliardi di euro di finanziamenti per la ricerca, le case farmaceutiche in futuro non dovranno sobbarcarsi nemmeno il rischio di elargire risarcimenti. Consci dei reali seppur remoti pericoli sulla popolazione, Regno Unito e Stati Uniti hanno scelto la linea della trasparenza. Se a margine dell'autorizzazione del vaccino Pfizer-Biontech rilasciata ai primi di dicembre Londra ha annunciato che i danneggiati sarebbero rientrati nel piano nazionale di risarcimenti (120.000 sterline a persona, circa 130.000 euro), sull'altra sponda dell'Atlantico il Prep act ha chiarito che a farsi carico delle spese sarà il governo americano. Nulla è dato sapere, invece, sul versante dell'Unione europea. I contratti siglati tra le case farmaceutiche e Bruxelles sono secretati, perciò non è dato sapere se a monte sia prevista o meno una clausola che esenti Big pharma dalla responsabilità civile. La legislazione italiana prevede un indennizzo solo nel caso di vaccinazioni obbligatorie, e sembra proprio che quella contro il Covid-19 non lo sarà. Si alza il velo su un altro aspetto tenuto top secret, e cioè il costo sostenuto dall'Ue per l'acquisto dei vaccini. Con un incauto tweet, il ministro del Bilancio belga Eva De Bleeker ha pubblicato una tabella con i prezzi per dose, frutto di un misterioso negoziato e mai rivelati dalla Commissione europea. Manco a farlo apposta, i due vaccini più cari sono quelli in procinto di essere autorizzati: 12 euro a dose per Pfizer-Biontech e 18 euro per Moderna. Complessivamente, l'esborso per 202 milioni di dosi spettanti all'Italia sarebbe di 1,53 miliardi di euro. Il tweet è stato poi cancellato dalla De Bleeker, ma la sensazione di aver preso una bella fregatura rimane.

Svelati (per errore) i prezzi dei vaccini: ecco quanto costa ogni dose. Federico Giuliani su Inside Over il 20 dicembre 2020. “I vaccini contro il coronavirus stanno arrivando”: tante volte, negli ultimi mesi, abbiamo sentito i governanti di mezzo mondo ripetere questa formuletta magica. Adesso quel momento sta per arrivare sul serio, anche se qualcuno ha già bruciato le tappe. È il caso del Regno Unito, primo Paese europeo a inaugurare la somministrazione degli antidoti anti Covid ai propri cittadini, della Russia, dove migliaia di persone hanno potuto usufruire dell’ombrello protettivo generato dallo Sputnik V, della Cina, in cui la vaccinazione, su base volontaria e solo per alcune categorie di persone, è iniziata in estate, degli Emirati Arabi e degli Stati Uniti, ultimi ad aggiungersi alla lista dei privilegiati. Il prossimo 27 dicembre scatterà il Vaccine Day, il giorno simbolico in cui un primo gruppo di Paesi europei, tra cui l’Italia, inietteranno le prime dosi ad alcuni cittadini. Restando in Europa, sappiamo che Bruxelles ha stretto accordi con diverse case farmaceutiche per accaparrarsi quante più dosi possibili. Ciascun Paese, quindi, riceverà il proprio stock di dosi in relazione ad ulteriori accordi sulla base – aveva spiegato la Commissione Ue – della popolazione rispetto al totale degli abitanti dell’Ue. L’Italia ha diritto al 13,5% delle dosi complessive previste dagli accordi preliminari d’acquisto stretti da Bruxelles.

Il tweet rimosso. Tra i vaccini acquistati dai Paesi dell’Unione europea troviamo quelli realizzati da Pfizer-BioNTech, AstraZeneca-Oxford, Sanofi-GSK, Johnson & Johnson e Moderna, in attesa di altri attori protagonisti, come il siero di CureVac. Sul costo dei vaccini non sapevamo pressoché niente, fino a quando la sottosegretaria al Bilancio belga, Eva de Bleeker, ha twittato una tabella con prezzi e dati relativi agli antidoti anti Covid. Un’informazione che avrebbe dovuto restare riservata, a uso delle autorità, e che non sarebbe dovuta circolare sui social network. La sottosegretaria ha cancellato il cinguettio poco dopo averlo scritto, ma il danno era ormai fatto. Il giornale fiammingo Het Laatste Nieuws ha immortalato quello schema, che presto ha fatto il giro del continente (e non solo). Certo, resta da capire se quelle sono effettivamente le reali cifre pagate dai Paesi dell’Unione per ogni dose. Per l’eurodeputato tedesco Peter Liese (Cdu), responsabile per la Salute del gruppo Ppe, quei prezzi sono realistici. Dunque, con il beneficio del dubbio, diamo un’occhiata.

Il costo dei vaccini. Stando alla tabella diffusa dalla sottosegretaria de Bleeker, i Paesi dell’Ue pagheranno 12 euro a dose per il vaccino Pfizer-BioNTech (per intenderci: quello che sarà iniettato durante il Vaccine Day). Il siero sviluppato da Moderna, invece, ha un costo di 18 dollari a dose. Il più economico di tutti? Sembrerebbe essere quello di AstraZeneca-Oxford, a 1,78 euro a dose. Più caro CureVac, con 10 euro a dose. Per una dose del vaccino Sanogi-Gsk è necessario sborsare 7,56 euro a dose, mentre per Johnson & Johnson 8,5 dollari a dose. I prezzi, come detto, erano rimasti riservati. L’opinione pubblica non avrebbe dovuto conoscere queste cifre, così come non avrebbe dovuto conoscere i contratti di preacquisto stretti dalla Commissione Ue con le singole case farmaceutiche. In attesa di saperne di più, è importante ricordare che i prezzi per dose sono frutto di un misterioso negoziato e che poco o niente, ad eccezione di qualche annuncio di facciata, è stato diffuso da Bruxelles. I vaccini più cari (è senza dubbio un caso) sono quelli targati Pfizer-BioNTech e Moderna, gli stessi pronti a essere autorizzati. L’Italia ha ipotecato 202 milioni di dosi di vaccino. Calcolatrice alla mano – sempre affidandoci alla suddetta tabella – avrebbe speso 1,53 miliardi di euro.

La guerra per i vaccini contro il coronavirus. Paolo Mauri il 22 maggio 2020 su Inside Over. L’ombra è arrivata improvvisamente. Come un temporale estivo la pandemia ha colpito il mondo intero oscurando l’umanità, costretta in casa per non diffondere il contagio. Una tempesta che si è mossa spinta dai venti della stessa vita moderna iperconnessa, globalizzata, interdipendente. Venti che hanno portato nubi nere che però erano ben visibili all’orizzonte a oriente, e già si sentiva in lontananza il rombare cupo del tuono che avrebbe colpito proprio qui, in Italia, più pesantemente che altrove. Il virus serpeggiava come un drago già a novembre ad est, alcuni dicono anche prima, ad ottobre: si muoveva nascosto a Wuhan, si riproduceva celato agli occhi più per volontà degli uomini che per sua caratteristica. A gennaio la sua penombra si allungava verso l’Europa dopo aver ricoperto col suo scuro manto l’Asia, in un inarrestabile cammino che ha travolto dapprima l’Iran, che per ironia della sorte, quando si chiamava Persia, era il crocevia degli scambi tra oriente ed occidente. In quel tempo se ne poteva già percepire la presenza, sentirne l’odore, come quello di terra bagnata sospinto dalla brezza che preannuncia la pioggia. E la pioggia è arrivata.

Una pioggia che ci ha colti allo scoperto, anche colpevolmente senza riparo perché presuntuosamente pensavamo che non ci avrebbe colpito, che è cominciata lentamente con qualche caso che sembrava si potesse confinare, circoscrivere, e che poi è dilagata diventando tempesta. Francia, Germania, Italia, Regno Unito: nessun Paese europeo si è salvato da questo tifone. Quando la pioggia si è trasformata in tempesta è cominciata la nostra battaglia, quella dell’uomo contro il virus, e tra le armi a nostra disposizione c’è la scienza, quella con la esse maiuscola, che si è mobilitata proprio come nei manuali militari, ovvero partendo dalla regola base: conoscere il nemico per poterlo sconfiggere. Come si conosce un virus? Come si può imparare qualcosa su una forma di “vita” che sfugge mutevolmente? La risposta è nell’infinitamente piccolo, nei mattoni che lo compongono, nei suoi geni. Il primo “colpo” al virus da questo punto di vista arriva proprio da là dove tutto è cominciato, dalla Cina. È il 10 gennaio quando Xu Jianguo, direttore del laboratorio nazionale cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive di Pechino (China Cdc), annuncia che il genoma del nuovo virus, ovvero la mappa dei suoi geni, è stato completato. Così il mondo ha saputo che cosa stava causando quelle polmoniti atipiche in oriente, qual era il male che faceva svenire la gente per strada ad Hong Kong o a Wuhan. Ed il male ha un nome che ci ricorda il suo parente più stretto, Sars-CoV-2, ed una famiglia, quella dei coronavirus. È sempre grazie ai geni che sappiamo l’origine di questo male, una particolare specie di pipistrello, e che non è frutto del “giocare a fare Dio” di un laboratorio. Il male, come già anticipato, si muove con ali veloci, sospinto dai venti della modernità, e sbarca in Europa dove viene riconosciuto e codificato nuovamente: per prima la Francia, che grazie all’Istituto Pasteur, il 29 gennaio è in grado di dare un nome e un volto alla malattia divenuta nel frattempo Covid19, poi l’Italia, che qualche giorno dopo, al laboratorio di virologia dello Spallanzani di Roma isola il virus e ne identifica il codice genetico. Là dove arriva, là dove colpisce, esso viene scoperto ed i suoi geni sequenziati: il primo passo per sconfiggerlo, la prima mossa per trovare una terapia e soprattutto un vaccino, l’arma definitiva che ci permetterà di debellare questa malattia. Così veniamo a sapere che il mostro ha tre teste, come Cerbero, il cane infernale. Sono tre infatti i ceppi che si sono diffusi nel mondo: la variante A, quella primigenia nata in Cina e diffusasi in America e Australia; la variante B, sviluppatasi grazie a due mutazioni chiave e diffusa nell’Asia orientale; infine la variante C, la “figlia” della B che ha colpito Europa, Singapore, Hong Kong e Corea del Sud. Individuato il nemico, analizzate le sue armi, è cominciata la battaglia per sconfiggerlo. Una battaglia che si combatte nei laboratori di ricerca di tutti i Paesi più avanzati: dalla Cina agli Stati Uniti passando per Israele, Regno Unito, Francia, Italia e Australia. Una “corsa agli armamenti”, rappresentati dai vaccini, che stabilirà chi avrà il merito, ed il vantaggio, di sconfiggere per primo questa malattia. Facciamo però un momentaneo passo indietro per spiegare un concetto fondamentale, che fungerà da discriminante anche per il futuro proprio per quanto riguarda la ricerca di un vaccino. Un passo indietro che ci riporta nel biennio 2002/2004, quando il mondo era alle prese con un’altra epidemia da coronavirus: la Sars. Una malattia molto più letale rispetto a Covid19, ma anch’essa nata in Cina. In quel periodo la macchina della sanità mondiale, oltre a cercare di contenere la diffusione del contagio, si mise in moto per cercare un vaccino, ma questo non fu mai trovato e non per inefficacia della ricerca o impossibilità intrinseca, semplicemente perché l’epidemia si autoestinse e non ci fu più la necessità di produrlo. Una scelta cosciente, dettata da interessi economici piuttosto che da reali motivazioni mediche, perché il virus della Sars non è stato debellato, la malattia esiste sempre, non è diventata un “semplice raffreddore” come abbiamo sentito nei primi giorni di questa pandemia, ma semplicemente non è stato più conveniente investire risorse finanziarie per trovare un vaccino. Un puro calcolo economico: i vaccini costano, richiedono mesi, perfino anni, per metterli a punto, e se la malattia non è più diffusa non ci si può permettere di investire centinaia di milioni di dollari che non possono essere recuperati vendendone le dosi. Facciamo un rapido calcolo sui costi: in media, solo per la fase di sperimentazione umana, il costo è di 25mila dollari per singolo volontario, e ne servono decine di migliaia perché si possano ottenere risultati validi; questo significa 250 milioni di dollari che vanno moltiplicati per 10, il numero minimo di vaccini “in sperimentazione” contemporaneamente; se a questi sommiamo i costi della ricerca e dei processi di produzione si può facilmente arrivare a 10 miliardi di dollari per un singolo vaccino. Soldi che devono essere recuperati in qualche modo: anche la medicina segue le ciniche leggi del mercato nel mondo globalizzato. Stato di necessità, bilancio economico, curva epidemica. Forse sono questi i tre principi che regolano la guerra dei vaccini che è nata qualche settimana dopo la diffusione del contagio su scala mondiale, non lo “spirito di Ippocrate”. La necessità è data appunto dall’impatto della malattia sul tessuto economico: le misure di quarantena hanno colpito non solo i Paesi più esposti al contagio, ma proprio perché il nostro è un mondo globalizzato, ne hanno risentito anche altri Paesi. Il bilancio economico è dato appunto dal conteggio tra la spesa per un vaccino e le perdite causate dalle chiusure, a cui si sommano gli investimenti statali per sostenere l’economia stessa: finché la bilancia pende verso quest’ultima voce è necessario puntare sulla ricerca di un vaccino. La curva epidemica parla da sé: contagi che tendono a zero portano a zero malati, quindi nessuna necessità di trovare un vaccino in base proprio alle considerazioni fatte fin’ora. Oggi questi tre principii sono soddisfatti allo stesso tempo, ed è anche per questo che la battaglia per un vaccino si fa sempre più serrata: chi prima ne esce prima può “ripartire” senza limitazioni e senza la spada di Damocle del possibile ritorno del contagio. Così dopo soli due mesi dalla prima codificazione genetica di Sars-CoV-2, erano 20 i vaccini candidati a passare alla fase di sperimentazione. Circa un mese dopo, il 4 aprile, erano diventati 60. La Cina, che ha bisogno anche di ricostruire la sua immagine per passare da Paese untore a Paese salvatore del mondo, si trova in fase avanzata di sperimentazione clinica: il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping, avrebbe dato ordini precisi secondo i quali la Cina, che vuole essere protagonista del nuovo ordine mondiale, deve avere il vaccino per prima. Il lavoro effettuato dalla Sinovac Biotech e dal Wuhan Institute of Biological Products, affiliato alla società di Stato China National Pharmaceutical Group sta ottenendo risultati che hanno permesso di partire con la sperimentazione sull’uomo di due vaccini lo scorso 14 aprile. Una guerra senza esclusione di colpi: gli Stati Uniti, che sembrano essere tra i migliori candidati per vincerla, non hanno rinunciato a usare tutti i mezzi possibili. Troppo importante il prestigio internazionale che ne deriva, troppo seria la questione geopolitica che oppone Washington a Pechino su più fronti. Ecco perché, nonostante diversi istituti scientifici e società americane, come la Moderna che già a gennaio aveva individuato una possibile scorciatoia per accorciare i tempi di gestazione del vaccino (stimati tra i 12 e i 18 mesi), siano impegnati costantemente e con una pioggia di dollari nella ricerca di una profilassi, la Casa Bianca avrebbe cercato di assicurarsi l’esclusiva della produzione in almeno un caso: a marzo la società tedesca CureVac avrebbe ricevuto un’offerta dal governo americano per spostare interamente la sua ricerca scientifica negli Stati Uniti. Ma la Moderna non è sola: i risultati più promettenti sono stati raggiunti, per il momento, anche dalla Inovio, la società di Bill Gates, che il 28 aprile annunciava la fine della fase 1 delle sperimentazioni, e dalla Novavax, che qualche giorno prima, l’8 aprile, affermava di aver trovato il suo candidato. Tanti soldi sul piatto significa maggior competizione per un mercato che potenzialmente potrebbe essere globale, e avere anche le caratteristiche di un monopolio. Non ci sono, però, solo gli Stati Uniti e la Cina, i due grandi attori protagonisti del panorama politico internazionale in senso generale: il Regno Unito, insieme all’Italia, è molto avanti nella ricerca. Già ad aprile l’università di Oxford e l’Imperial College di Londra avevano avviato una sperimentazione sull’uomo, in collaborazione con l’azienda di Pomezia Advent-Irbm; il 30 la stessa università inglese annuncia un accordo con la multinazionale britannica del farmaco AstraZeneca per la produzione di 100 milioni di dosi di un vaccino, il ChAdOx1 nCoV-19, che ha ottenuto risultati promettenti dopo la sperimentazione su 500 soggetti e potrebbe già essere commercializzato a settembre. Parla esclusivamente italiano, invece, un altro candidato, quello dell’azienda di biotecnologie Takis di Castel Romano: a maggio veniamo a sapere che gli anticorpi generati dal vaccino nelle cavie di laboratorio funzionano e che i test sull’uomo partiranno dopo l’estate con la speranza di poter cominciare la prima campagna di vaccinazione su soggetti a rischio nel 2021. Restando in Europa anche la francese Sanofi si candida a diventare la potenziale vincitrice di questa serratissima gara: sebbene sia in ritardo rispetto ad altri candidati – il suo vaccino è ancora in fase preclinica – potrebbe raggiungere la fase 1 dei test tra marzo e agosto del 2021. Anche dall’altra parte del mondo, in Australia, la ricerca è a buon punto: proprio nello Stato/continente dell’Oceania un candidato vaccino aveva superato i test di laboratorio già a febbraio diventando il secondo dopo quello cinese a passare alla sperimentazione animale. All’appello non poteva mancare la Russia. Mosca sta facendo la sua parte per cercare di assicurarsi la vittoria: a marzo il Rospotrebnadzor, il Servizio Federale Russo per la Salute e i Diritti dei Consumatori, aveva comunicato di aver iniziato i primi test umani effettuati dal centro di ricerca statale di virologia e biotecnologia Vector. Forse a sorprenderci sarà un altro attore, un attore che ha lavorato da subito alla ricerca di un vaccino sebbene non fosse stato colpito con la stessa violenza che è toccata ad altri: si tratta di Israele. Il 17 maggio viene annunciato che un laboratorio di ricerca collegato al Ministero della Difesa ha completato con esito positivo i test di un vaccino su cavie animali e che si accinge a passare alla sperimentazione sull’uomo. Tel Aviv aveva già isolato un anticorpo specifico nelle settimane precedenti, diventando la prima al mondo a raggiungere un obiettivo fondamentale: la scoperta di un anticorpo in grado di distruggere questo virus specifico. Del resto da quelle parti, durante l’epidemia di Sars, si erano già sviluppati trattamenti simili. Se tutto va bene, quello che ci immunizzerà da Sars-CoV-2 sarà il vaccino sviluppato più velocemente nella storia dei vaccini, ma bisogna sempre considerare che non si possono avere risultati immediati: le fasi di sperimentazione non sono accorciabili più di tanto e non si possono saltare passaggi fondamentali nella sperimentazione proprio per la natura del vaccino stesso, che, lo ricordiamo, è sostanzialmente una sorta di “virus depotenziato” che attiva la risposta immunitaria dell’organismo. Affrettare la tempistica significa aumentare i rischi di cadere in errori che possono rivelarsi fatali per i vaccinati, tra cui, quello maggiore, è rappresentato dall’immuno-potenziamento, ovvero una reazione indesiderata e spropositata del sistema immunitario che, anziché eliminare il virus, finisce per avere una risposta opposta che ne aumenta i danni.

La guerra per il vaccino è appena cominciata e coinvolge circa 80 tra istituti universitari e società private in tutto il mondo, ma già aleggia lo spettro che potrebbe porre fine anche a questa ricerca scientifica: Covid19 potrebbe fare la stessa fine della Sars ed estinguersi da sé prima che si raggiunga il traguardo finale, proprio a causa della lunga gestazione vaccinale. Se la sorte di questa malattia dovesse essere la stessa di quella della Sars, questa guerra finirà molto probabilmente in un armistizio generale in cui i laboratori di ricerca biologica “deporranno le armi” e smantelleranno il loro “apparato bellico” che non ha più senso di esistere in quanto si regge sui principi di necessità, di bilancio economico e di diffusione epidemica, facendo perdere non solo quanto sino a qui raggiunto in termini di investimenti, ma soprattutto in termini di sicurezza sanitaria dell’intera umanità.

La «guerra» dei vaccini: chi vincerà? Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. La «guerra» dei vaccini anti Sars-CoV-2: chi vincerà? Sono 118 i candidati a cui stanno lavorando gruppi di ricerca in tutto il mondo, ma solo 8 hanno raggiunto la fase clinica con i test sull’uomo. Proviamo a fare il punto della situazione con l’aiuto di Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi».

Un numero impressionante di ricercatori in tutto il mondo sta lavorando per mettere a punto un vaccino contro Sars-CoV-2. L’elenco dei candidati, stilato dall’Organizzazione mondiale della sanità, è lunghissimo: ad oggi sono 118, di cui 8 in stadio più avanzato perché hanno raggiunto la fase clinica (composta a sua volta da 3 fasi: I, II e III), volta a dimostrare efficacia e sicurezza del prodotto. Gli altri 110 sono a livello pre-clinico: vengono testati in laboratorio, anche su animali, per valutarne le caratteristiche e decidere se procedere al passaggio sull’uomo. I vaccini si dividono in quattro famiglie: vettori virali e Vlp (virus-like-particles); proteine ricombinanti; vaccini basati su acidi nucleici (Dna e Rna); virus inattivati o attenuati. «Al momento tutti i gruppi di ricerca hanno l’obiettivo principale di indurre anticorpi contro la proteina spike, la chiave con cui il virus entra nelle nostre cellule, anticorpi che abbiano la capacità di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule umane — afferma Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi» —. Non avendo tempo per studiare in dettaglio quale sia il correlato di protezione dall’infezione, abbiamo assunto che gli anticorpi contro la Spike che neutralizzino l’infezione prevengano l’infezione delle cellule e quindi la malattia ed è probabile che sia davvero così, visto che Sars-CoV-2 ha dimostrato di mutare relativamente poco. Se questa ipotesi fosse vera, potremmo avere, con tutte le scorciatoie che ci permette l’emergenza pandemica, un vaccino disponibile per tutti ad inizio 2022, a due anni dall’inizio degli studi. La produzione di un farmaco biologico è complessa e costosa: sarà quindi necessaria una “santa allenza” fra le più grandi aziende produttrici di vaccini per produrre in fretta un vaccino biologico in miliardi di dosi, perché se fosse una singola azienda a produrlo, a parte i soldi, servirebbero 2-3 anni solo per la messa a punto dell’impianto». Parlando di anticorpi, va detto che i vaccini costituiscono un intervento immunologico attivo, perché inducono la produzione di anticorpi neutralizzanti da parte dei soggetti sani vaccinati prima che siano esposti al virus. Esiste poi l’immunoterapia passiva, indirizzata a chi è già infettato e malato, in cui gli anticorpi vengono prodotti industrialmente e poi iniettati per bloccare l’infezione in atto e quindi la malattia. L’immunoterapia passiva può essere fatta con il plasma, arrichito in anticorpi neutralizzanti, dei pazienti guariti o con anticorpi monoclonali neutralizzanti creati in laboratorio. Entrambe queste strade sono oggetto di studio, anche in Italia.

Quattro famiglie. I vaccini si dividono in quattro famiglie: quelli basati su vettori virali e Vlp (virus-like-particles); suproteine ricombinanti; su acidi nucleici (Dna e Rna); su virus inattivati o attenuati. «Al momento tutti i gruppi di ricerca hanno l’obiettivo principale di indurre anticorpi contro la proteina spike, la chiave con cui il virus si diffonde, quindi anticorpi che abbiano la capacità di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule umane — afferma Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi» —. Non avendo tempo per studiare in dettaglio quale sia il correlato di protezione dall’infezione, abbiamo assunto che gli anticorpi contro la spike prevengano l’infezione delle cellule e quindi la malattia ed è probabile che sia davvero così, visto che Sars-CoV-2 ha dimostrato di mutare relativamente poco. Se questa ipotesi fosse vera, potremmo avere, con tutte le scorciatoie che ci permette l’emergenza pandemica, un vaccino disponibile per tutti a inizio 2022, a due anni dall’inizio degli studi. La produzione di un farmaco biologico è complessa e costosa: sarà quindi necessaria una “santa allenza” fra le più grandi aziende produttrici di vaccini per produrre in fretta un vaccino biologico in miliardi di dosi, perché se fosse una singola azienda a produrlo, a parte i soldi, servirebbero 2-3 anni solo per la messa a punto dell’impianto». I vaccini costituiscono un intervento immunologico attivo, perché inducono la produzione di anticorpi neutralizzanti da parte dei soggetti sani vaccinati prima che siano esposti al virus. Esiste poi l’immunoterapia passiva, indirizzata a chi è già infettato e malato, in cui gli anticorpi vengono prodotti a livello industriale e poi iniettati per bloccare l’infezione e quindi la malattia. L’immunoterapia passiva può essere fatta inoltre con il plasma, arricchito di anticorpi neutralizzanti, dei pazienti guariti. Entrambe queste strade sono oggetto di studio, anche in Italia.

Difenderci dall’influenza. Se il vaccino contro Sars-CoV-2 non arriverà prima di un paio d’anni, come potremo proteggerci nel frattempo? «Il prossimo autunno dovremmo fare tutti l’antinfluenzale — sottolinea Sergio Abrignani —: sicuramente non ci salverà dal coronavirus (che è molto diverso dai virus influenzali), ma è un antidoto alla confusione diagnostica che potremmo avere in inverno, dato che Covid e influenza hanno un esordio simile. Si eviterebbe quindi l’intasamento degli ospedali e dei servizi sanitari: perché altrimenti qualunque persona con febbre e tosse secca (tipici della normale influenza che colpisce in forma lieve ogni anno milioni di italiani) si riterrà a rischio di aver contratto il coronavirus e chiederà di poter accedere al tampone. Si verificherebbe uno spreco di risorse della sanità e un intasamento dannoso per il nostro Sistema sanitario». Anche le Società dei medici e pediatri di famiglia hanno lanciato un appello perché in autunno tutti — bambini inclusi — possano vaccinarsi con l’antinfluenzale.

I vaccini basati su acidi nucleici. Mediamente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per arrivare alle fasi avanzate di sperimentazione di un vaccino, ma siamo di fronte a una situazione eccezionale. Dopo che l’epidemia di Sars-CoV-2 è stata confermata dall’Organizzazione mondiale della sanità a dicembre, in soli 6 mesi sono stati fatti grandi passi avanti. E i risultati sono incoraggianti, come nel caso del vaccino a cui sta lavorando da gennaio l’azienda farmaceutica statunitense Moderna, che al momento è il più avanzato. L’approccio è quello dell’iniezione di un Rna codificante per proteine del virus, Rna che — entrato nelle cellule umane — dovrebbe essere tradotto nella proteina spike che dovrebbe poi indurre anticorpi neutralizzanti. Nella fase 1 dei test sugli esseri umani sembra che il vaccino abbia avuto effetti positivi: Moderna ha recentemente riportato che 8 su 45 persone vaccinate non hanno avuto effetti collaterali importanti e soprattutto hanno sviluppato anticorpi anti-spike con attività neutralizzante. «Molti altri gruppi di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di vaccini basati su acidi nucleici (Rna o Dna) — sottolinea Abrignani —: si tratta di una tecnica più rapida da realizzare, ma anche meno nota rispetto a quelle “classiche” basate su proteine ricombinanti o virus uccisi; infatti ad oggi non abbiamo sul mercato alcun vaccino basato su Rna o Dna. La speranza è che in questo caso invece il metodo possa funzionare». Secondo uno studio condotto dai ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston e pubblicato sulla rivista Science, sei candidati vaccini a Dna che esprimono varianti della proteina spike hanno indotto risposte anticorpali neutralizzanti e protetto i macachi da Sars-CoV-2.

Vettori virali. In seconda posizione, per quanto riguarda l’avanzamento degli studi, c’è un vaccino in sperimentazione a Oxford, basato su vettori virali derivati da adenovirus, in grado di codificare per la proteina spike. La multinazionale farmaceutica AstraZeneca ha concluso i primi accordi per la produzione di almeno 400 milioni di dosi del potenziale vaccino anti-Covid, con una (annunciata) capacità di produzione di 1 miliardo di fiale nel 2020 e 2021. Dopo la prelazione di 30 milioni di dosi da parte del Governo inglese, la compagnia rende noto che sta lavorando ad accordi in parallelo, anche con altri governi europei, per assicurare un’«ampia ed equa fornitura del vaccino nel mondo, con un modello non profit, durante la pandemia». Lo Jenner Institute della Oxford University, che sta realizzando il vaccino in partnership dell’azienda italiana Advent-Irbm di Pomezia, ha fatto sapere che la prima sperimentazione di fase I su 510 volontari (partita ad aprile) si è conclusa «positivamente». I volontari vaccinati, ha affermato il presidente di Irbm Pietro Di Lorenzo, stanno bene e dunque partirà la fase successiva, l’ultima, di sperimentazione su circa 3mila volontari, che si concluderà a fine settembre». AstraZeneca sarà responsabile dello sviluppo, della produzione e distribuzione del vaccino a livello mondiale. L’obiettivo, ha annunciato il chief executive dell’azienda, Pascal Soriot, è «essere pronti con 100 milioni di dosi entro la fine dell’anno e poi ampliare». Secondo quanto riportato dalla Bbc, ora verranno arruolate altre 10.200 persone tra i 56 e 69 anni, ma anche over 70 e bambini tra i 5 e i 12 anni. Queste sperimentazioni serviranno a vedere gli effetti sul sistema immunitario del vaccino, che nelle scimmie sembra aver dato buoni risultati, dando protezione contro Covid. Gli animali avevano meno particelle del virus nei polmoni e nelle vie respiratorie, ma non è certo che gli stessi risultati si possano replicare nell’essere umano.

Virus inattivati o attenuati. Un’altra strada che si sta tentando di percorrere è quella del vaccino basato su virus inattivato. Ci lavorano diversi gruppi di ricerca cinesi (tra cui la società Sinovac): si tratta di una vecchia tecnica, conosciuta fin dagli albori della vaccinologia. Più difficile, dal punto di vista della sicurezza, la scelta di due gruppi indiani, che stanno operando su virus vivo attenuato.

Proteine ricombinanti. Ultimo, ma solo perché partito più tardi, il progetto che nasce da un accordo tra due big pharma, Sanofi e Gsk: l’obiettivo è produrre un vaccino basato sulla proteina spike ricombinante (prodotto da Sanofi), combinata con un adiuvante a base di squalene (prodotto da Gsk). Si tratta di una tecnica molto più collaudata, quella che negli anni ha portato a produrre diversi vaccini che conosciamo e utilizziamo. La procedura è più lunga e complessa rispetto a quella utilizzata nei vaccini a base Rna o vettori virali. Ha però dei vantaggi: è ampiamente conosciuta e offre una più alta probabilità di arrivare a prodotti efficaci e sicuri.

Che cosa succede in Italia? L’Italia non compare tra i principali player nella produzione di un vaccino contro Sars-CoV-2, anche se come detto la società belga Gsk (la cui divisione vaccini ha sede a Siena) ha stretto un importante accordo con la francese Sanofi. C’è poi l’azienda italiana Advent-Irbm di Pomezia che sta collaborando con lo Jenner Institute della Oxford University nella produzione di uno dei vaccini al momento in prove cliniche (insieme a quello della statunitense Moderna). Non solo: l’Istituto per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma è impegnato, con la società italiana ReiThera, nella realizzazione di un vaccino basato su un vettore virale; i primi test sull’uomo sono previsti a luglio. «Nel nostro Paese c’è una grande tradizione di immunologia e vaccinologia — sottolinea Sergio Abrignani —. Quello che in tanti stiamo facendo è studiare la risposta immunitaria nel sangue dei pazienti, sia nella fase di malattia moderata/grave che nei paucisintomatici e negli asintomatici. Inoltre valutiamo l’evoluzione della risposta a distanza di tempo dalla guarigione. Poiché molti di noi sospettano che sia la guarigione che le complicanze dell’infezione dipendano dalle risposte immunitarie, questi studi ci potrebbero aiutare a capire come si struttura la risposta del nostro organismo e perché alcuni pazienti se la cavano con pochissimi sintomi o nessuno, mentre altri arrivano a complicanze estreme. Un ulteriore aspetto che si sta indagando è quello della durata della risposta: nei coronavirus più noti, quelli che scatenano i semplici raffreddori, la memoria immunitaria è limitata nel tempo. Non è detto però che sia così anche per Sars-CoV-2». 

Mauro Evangelisti per ''il Messaggero'' il 10 maggio 2020. Se avremo un vaccino, inizialmente non ci sarà per tutti, gli Usa hanno finanziato con 450 milioni di dollari l' azienda Moderna, tra le più avanti con la sperimentazione, questo significa che l' Italia rischierebbe di dovere aspettare tre anni. Discorso diverso per gli anticorpi bloccanti, farmaco risolutivo, che potrebbe essere distribuito già entro la fine di quest' anno. Pier Paolo Pandolfi è professore di Biotecnologia e Biologia del cancro alle Università di Harvard e Torino. Insieme al professor Giuseppe Novelli, dell' Università di Tor Vergata, sta lavorando a un progetto di sperimentazione per anticorpi monoclonali contro Covid-19 di cui si è parlato, l' altro giorno, in un webinar organizzato da Edra e moderato dall' ex ministro Beatrice Lorenzin.

Lei da Boston mette in guardia sulle insidie per l' Italia di questa corsa verso il vaccino. Perché da noi potrebbe arrivare tardi?

«Facciamo l' esempio del vaccino influenzale: ogni anno si devono produrre centinaia di migliaia di dosi e nel mondo ci sono pochi centri. Si parla di 200 milioni di dosi perché va solo alla popolazione a rischio. Immaginiamo cosa succederà con il vaccino per il coronavirus destinato a tutti: si dovrebbe distribuire su scala globale, ma la produzione diventerebbe uno dei problemi più seri. Il vaccino poi non è stabile, continuamente muta, dovremo fare un vaccino semestrale o annuale e questo richiederà uno sforzo mostruoso».

Alternative più rapide?

«Molti gruppi che stanno lavorando sull' anticorpo bloccante. E daremo questo farmaco solo ai pazienti con una sintomatologia avanzata come lo sviluppo della polmonite».

Si troverà un vaccino?

«Tutto il movimento sta spingendo dalla stessa parte: si troverà un vaccino, perché questo virus è molto immunogenico, viene visto molto bene dal sistema immunitario. Ad esempio il vaccino che sta sperimentando la società americana Moderna probabilmente funzionerà. Ma ci vorranno anni produrne in vasta scala. Se il virus muta, servirebbe comunque aggiustare il vaccino, come succede per quello dell' influenza, che viene cambiato ogni 2 o 3 anni. Non a caso è quadrivalente, va contro 4 diversi ceppi e probabilmente faremo così anche per il coronavirus. Anche negli Stati Uniti si è notato che tra costa Est e costa Ovest il virus è mutato, ci sono già vari ceppi. L' anticorpo bloccante viene prodotto in tempi molto più brevi e si può adattare al tipo di virus. Nel giro di settimane».

Il virus si sta indebolendo?

«I dati sono troppo limitati. Forse ora è meno infettivo. Dovrebbe avere meno capacità di resistere sulle superfici. E se scema l' infettività, diminuisce l' impatto sul sistema sanitario».

Potremo avere gli anticorpi bloccanti già per l' autunno?

«Direi di sì, saremo in fase clinica. Avremo tempi molto più brevi rispetto al vaccino. Ipotizziamo che il vaccino vada sul mercato nell' estate del 2021, ma se il virus non si attenua ci saranno moltissime persone fino ad allora che andranno a soffrirne. Se invece entriamo in fase di produzione dell' anticorpo bloccante, la distribuzione inizierà entro la fine dell' anno. Diventerà fondamentale produrlo per il proprio paese. Vedo difficile che a livello europeo ci possa essere un centro comune. Questo progetto nasce in Canada, da un gruppo molto esperto, è un consorzio internazionale, con l' Italia (sperando che lo supporti) e l' India. La mia speranza e del professor Novelli è che venga portato in Italia per la sperimentazione clinica e la produzione quanto prima. Sarà complementare al vaccino, che comunque sarà molto utile per evitare che l' epidemia continui a cuocere. Ma il farmaco è fondamentale. Questa sconvolgente pandemia spingerà il mondo a realizzare anticorpi bloccanti per l' influenza ma anche per altre malattie che fanno molti morti, come la dengue. E anche per il prossimo corona, perché il rischio che vi sia un continuo attacco di pandemie c' è».

Oltre a quello di Moderna, ci sono altri vaccini promettenti come quello di Oxford, a cui partecipa un' azienda italiana, e quello la cui sperimentazione inizierà a giugno allo Spallanzani.

«Questa competizione, sia per i vaccini, sia per gli anticorpi bloccanti, è virtuosa. Se io fossi il governo italiano inizierei a negoziare sull' approvvigionamento di alcune centinaia di migliaia, se non milioni di dosi. Magari con più di una casa farmaceutica».

Quando ci sarà un vaccino - se ci sarà - avremo tensioni sociali e internazionali perché i più ricchi, sia singoli cittadini, sia singole nazioni, saranno privilegiati?

«Il pericolo c' è. Le nazioni che hanno un Pil più alto avranno la possibilità di fare offerte più elevate alle industrie farmaceutiche. Ci sarà un problema non solo di accaparramento e produzione, ma anche di prezzi delle dosi. Spero che si comprenda una cosa: è ovviamente giusto lasciare margine a un equo profitto, ma c' è un obbligo sociale e morale perché il vaccino sia diffuso a più persone possibili. Il caso di Moderna: gli Usa hanno mostrato di essere in grado di acquistarsi, di fatto, l' intera produzione. Gli altri Paesi così rimangono tagliati fuori. E in questi Paesi, Italia compresa, il vaccino arriverebbe tardi».

"Vaccino Covid? Non ci sarà per tutti, l'Italia dovrà aspettare". Durante un webinar moderato da Beatrice Lorenzin, il professor Pier Paolo Pandolfi ha parlato del vaccino anti-Covid, spegnendo le speranze di coloro che speravano di vederlo arrivare presto in Italia: “Gli Usa hanno dato 450 milioni di dollari a Moderna, le prime dosi ovviamente andranno agli americani”. Federico Garau, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Brutte notizie per chi attende un vaccino contro il Coronavirus. Secondo il dottor Pier Paolo Pandolfi, genetista, biologo molecolare e professore presso la Harvard Medical School, l'Italia dovrà attendere parecchio per veder arrivare le prime dosi. Ad usufruirne inizialmente sarà infatti l'America, principale promotrice, soprattutto a livello finanziario, della ricerca. Stando a quanto riferito dallo studioso durante una sessione informativa via web dal titolo “Pandemia Covid-19: la strada per una cura” moderata da Beatrice Lorenzin, ex ministro della Salute, gli Stati Uniti hanno già donato ben 450 milioni di dollari alla società di biotecnologia Moderna, attualmente impegnata nella ricerca di un vaccino efficace per contrastare il Coronavirus. Secondo gli ultimi dati forniti, la società sarebbe più avanti rispetto alle altre nello sviluppo di un vaccino, tanto da essere passata alla fase due dello sviluppo. Il dottor Pandolfi ha tuttavia spiegato che, una volta ottenuto un risultato soddisfacente, la difficoltà starà proprio quella di distribuirlo ai tanti paesi che ne faranno richiesta. Per spiegare meglio il concetto ha fatto l'esempio degli annuali vaccini contro l'influenza stagionale. “Ogni anno si devono produrre centinaia di migliaia di dosi e nel mondo ci sono pochi centri. Si parla di 200 milioni di dosi perché va solo alla popolazione a rischio. Immaginiamo cosa succederà con il vaccino per il Coronavirus, destinato a tutti: si dovrebbe distribuire su scala globale, ma la produzione diventerebbe uno dei problemi più seri. Il virus poi non è stabile, continuamente muta. Dovremo fare un vaccino semestrale o annuale e questo richiederà uno sforzo mostruoso”, ha dichiarato il professore, come riportato da Dagospia. “Tutto il movimento sta spingendo dalla stessa parte. Si troverà un vaccino, perché questo virus è molto immunogenico, viene visto molto bene dal sistema immunitario. Ad esempio il vaccino che sta sperimentando la società americana Moderna probabilmente funzionerà. Ma ci vorranno anni produrne in vasta scala”, ha aggiunto. “Se il virus muta, servirebbe comunque aggiustare il vaccino, come succede per quello dell'influenza, che viene cambiato ogni 2 o 3 anni. Non a caso è quadrivalente, va contro 4 diversi ceppi e probabilmente faremo così anche per il Coronavirus. Gli Stati Uniti hanno dato 450 milioni di dollari a Moderna. Questo vuol dire che le prime dosi ovviamente andranno agli americani e forse in Italia arriveranno tre anni dopo. Questo ragionamento va discusso perché in fase di pandemia i finanziamenti sono intersecati ed è molto importante come aspetto”. Dal momento che per il vaccino ci sarà da attendere, il dottor Pandolfi ha proposto un'alternativa più rapida. Nel corso della informativa, ha infatti parlato del progetto a cui sta lavorando insieme al professor Giuseppe Novelli, dell'università di Tor Vergata. I due scienziati, infatti, stanno sperimentando degli anticorpi monoclonali da utilizzare contro il Covid-19. “Daremo questo farmaco solo ai pazienti con una sintomatologia avanzata, come lo sviluppo della polmonite”, ha spiegato lo scienziato, che si è detto certo di poter aver pronti gli anticorpi per il prossimo autunno. “Avremo tempi molto più brevi rispetto al vaccino. Ipotizziamo che questo vada sul mercato nell'estate del 2021, ma se il virus non si attenua ci saranno moltissime persone fino ad allora che andranno a soffrirne. Se invece entriamo in fase di produzione dell'anticorpo bloccante, la distribuzione inizierà entro la fine dell'anno. Diventerà fondamentale produrlo per il proprio paese. La speranza mia e del professor Novelli è che venga portato in Italia per la sperimentazione clinica e la produzione quanto prima. Sarà complementare al vaccino, che comunque sarà molto utile per evitare che l'epidemia continui a cuocere”, ha affermato Pandolfi. Dal momento che vi sono molte società impegnate nella ricerca di un vaccino o di una cura a base di anticorpi bloccanti, il professore ha consigliato al governo italiano di farsi avanti nella negoziazione, così da garantirsi almeno alcune centinaia di migliaia di dosi. La competizione per ottenere vaccini e medicinali sarà infatti fortissima. “Le nazioni che hanno un Pil più alto avranno la possibilità di fare offerte più elevate alle industrie farmaceutiche. Ci sarà un problema non solo di accaparramento e produzione, ma anche di prezzi delle dosi”, ha infatti affermato senza mezzi termini Pandolfi. “Il caso di Moderna: gli Usa hanno mostrato di essere in grado di acquistarsi, di fatto, l' intera produzione. Gli altri Paesi così rimangono tagliati fuori. E in questi Paesi, Italia compresa, il vaccino arriverebbe tardi”, ha aggiunto. Quanto alla diminuzione di aggressività del Coronavirus, lo scienziato si è mostrato prudente: “I dati sono troppo limitati. Forse ora è meno infettivo. Dovrebbe avere meno capacità di resistere sulle superfici. E se scema l'infettività, diminuisce l'impatto sul sistema sanitario”, ha commentato.

L’Italia versa 140 milioni di euro per il vaccino. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Conte annuncia l’impegno del nostro paese per le cure da Coronavirus. Ma Macron “versa” 500 milioni. L’Italia contribuirà con 140 milioni di euro alla raccolta fondi mondiale per arrivare ad un vaccino contro il coronavirus. Lo ha annunciato il premier Giuseppe Conte, partecipando all’iniziativa Ue "Coronavirus Global Response". “Oggi sono onorato di annunciare i seguenti impegni, a nome del popolo italiano – ha spiegato -. Contribuiremo con 10 milioni di euro” alla ricerca per trovare un vaccino, “contribuiremo con 10 milioni di euro all’Organizzazione mondiale della sanità, per continuare a sostenere i paesi più vulnerabili nella preparazione e nella risposta a Covid-19. Stanzieremo mezzo milione di euro” al Fondo globale contro il coronavirus e “infine, poichè la distribuzione del vaccino in maniera sicura, efficace ed equa deve essere la nostra priorità comune, ci impegniamo ad un contributo di 120 milioni nei prossimi cinque anni per la Gavi Alliance”. Nelle stesse ore la Francia annunciava di aver donato 500milioni: “Quella di oggi è un’iniziativa storica”, ha spiegato il presidente francese Emmanuel Macron. Affrontare questa sfida contro il Covid-19 “ciascuno per sé sarebbe un errore. Non ne possiamo che uscire tutti insieme. La Francia farà la sua parte, rafforzeremo il nostro sostegno per i due anni prossimi all’Oms e doniamo 500 milioni (rpt. 500 milioni) di euro alla raccolta fondi World against Covid-19”. Così il presidente francese Emmanuel Macron, intervenendo alla raccolta fondi, per la cooperazione globale allo sviluppo di un vaccino contro il Coronavirus.

 (ANSA il 2 maggio 2020) - 'World against Covid-19', il mondo contro il coronavirus: su iniziativa della Commissione europea Italia, Francia, Germania e Norvegia insieme al Consiglio europeo annunciano un piano di cooperazione globale per la ricerca di un vaccino contro il Covid-19. L'iniziativa è definita in un lettera che la 'Stampa' ha pubblicato ieri sera in esclusiva per l'Italia e culminerà lunedì 4 maggio in una conferenza di donatori con cui si punta a mettere insieme almeno 7,5 miliardi di euro. Il testo è firmato dal premier Giuseppe Conte, dal presidente francese Emmanuel Macron, dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel, dalla premier norvegese Erna Solberg e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. "È questo il dovere della nostra generazione - si legge nella lettera - e sappiamo di potercela fare: sostenendo insieme la scienza e la solidarietà oggi, getteremo le basi per una maggiore unità domani. La posta in gioco è alta per tutti: nessuno è immune, nessuno può sconfiggere il virus da solo e nessuno sarà davvero al sicuro finché non lo saremo tutti, in ogni paese. Dobbiamo riunire le menti più brillanti e più preparate del mondo per trovare i vaccini e le terapie necessari per rimettere in salute il pianeta". "Stiamo concretizzando l'impegno dei leader del G20 a fornire una risposta coordinata al virus su larga scala - annunciano i leader Ue -. Sosteniamo l'appello all'azione dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Abbiamo inaugurato di recente l'acceleratore Access to Covid-19 Tools (Act), una piattaforma di cooperazione globale che intende dare impulso e potenziare la ricerca, lo sviluppo, l'accesso e la distribuzione equa del vaccino e di altri strumenti diagnostici e terapeutici in grado di salvare vite. Questo ha gettato le basi di una vera alleanza internazionale contro il Covid-19. "Il nostro obiettivo - spiegano - è semplice: il 4 maggio, in occasione di una conferenza dei donatori online, puntiamo a raccogliere una somma iniziale di 7,5 miliardi di euro per sopperire alla carenza globale di finanziamenti che emerge dalle stime del Global preparedness monitoring board (Gpmb) e di altri. Tutti noi metteremo i nostri impegni sul tavolo e siamo lieti che i nostri partner di tutto il mondo faranno altrettanto. I fondi che raccoglieremo avvieranno una cooperazione globale senza precedenti che coinvolgerà scienziati e autorità di normazione, industria e governi, organizzazioni internazionali, fondazioni e operatori sanitari. Sosteniamo l'Oms e siamo lieti di unire le forze con organizzazioni esperte come la fondazione Bill e Melinda Gates e il Wellcome Trust". "Ogni euro raccolto - assicurano i leader Ue - sarà convogliato principalmente tramite organizzazioni sanitarie mondiali riconosciute come Cepi, Gavi, l'Alleanza per il vaccino e tramite il Fondo mondiale e Unitaid, per sviluppare e distribuire il più rapidamente possibile e a più persone possibili gli strumenti diagnostici, le terapie e i vaccini che aiuteranno il mondo a superare la pandemia. Se riusciamo a sviluppare un vaccino prodotto dal mondo per il mondo, questo vaccino sarà un bene pubblico globale unico del 21º secolo. Insieme ai nostri partner, ci impegniamo a renderlo disponibile e accessibile a tutti".

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 22 aprile 2020. Quattro vaccini e cinque medicine in sviluppo. Quasi un miliardo e mezzo di dollari investiti dal governo federale praticamente da un giorno all’altro. E una tabella che prende forma: a settembre-ottobre la terapia; dopo gennaio 2021, non prima, l’antidoto anti-Covid 19. Ecco che cosa si muove nel più grande istituto di ricerca degli Stati Uniti, il National Institutes of Health (NIH) di cui fa parte il NIAID, il National Institute of Allergy and Infectious Diseases, sede a Bethesda, pochi chilometri da Washington. Da gennaio scorso centinaia di scienziati sono al lavoro, coordinati da Anthony Fauci, direttore del Niaid e figura chiave della task force contro il coronavirus insediata da Donald Trump. Lo sforzo è sostenuto direttamente da Barda, «Biomedical Advanced Research and Development Authority», l’organismo incardinato nel Dipartimento federale della Salute.

I soldi. Anche in questa battaglia così convulsa i soldi contano, eccome. Per tutto il mese di gennaio e anche oltre Trump ha pubblicamente sottovalutato la pericolosità del contagio. Ma l’agenzia Barda, il ramo competente dell’amministrazione, ha messo immediatamente denaro fresco nelle mani dei laboratori e delle principali società private di ricerca farmaceutica. Alla Moderna Tx sono andati 430,2 milioni di dollari; alla Janssen Research & Devolepment (gruppo Johnson&Johnson) 456,2 milioni; alla Protein Science, 30,7 milioni. Totale: 917 milioni di dollari. Inoltre la Barda ha distribuito altri 310 milioni di dollari a sette aziende impegnate nella sperimentazione dei farmaci per la terapia. Tanto o poco? Sul sito dell’Unione europea leggiamo in un comunicato del 6 marzo che «l’ammontare totale delle risorse mobilitate da Horizon 2020 (programma della Commissione ndr) e dalla partnerhsip con l’industria privata potrebbe raggiungere circa 140 milioni di euro», per finanziare lo studio di 17 vaccini. A questi potrebbero aggiungersi altri 80 milioni di euro offerti alla società tedesca CureVac, al centro di una presunta operazione condotta dagli americani per ottenere in esclusiva il prototipo di un vaccino. Vicenda smentita da Washington. In ogni caso a Bethesda stanno procedendo a tutta velocità. Le risorse sono da mesi nel circuito e si possono vedere i primi risultati.

Vaccini. Spiega Cristina Cassetti, vice direttrice della Divisione di Microbiologia e Malattie infettive del Niaid: «Ci sono diversi progetti sui vaccini. Il più avanzato è il frutto della collaborazione tra il nostro istituto, altre agenzie pubbliche e Moderna. In questo caso il prototipo del vaccino è stato realizzato nei nostri laboratori. Poi stiamo collaborando con Barda per far avanzare altri progetti di vaccino inclusi quelli di Janssen, Sanofi e Merck». Sappiamo che il lavoro di Moderna, sede a Cambridge in Massachusetts, è già entrato nella fase di sperimentazione sugli esseri umani. C’è, invece, ancora incertezza sulla tabella di marcia da qui in avanti. La dottoressa Cassetti fa chiarezza: «Tra giugno e luglio si entra in quella che chiamiamo la “fase due”, con test su molte persone per studiare la sicurezza e la capacità di stimolare una risposta immunitaria del vaccino. Il momento decisivo dovrebbe cadere dopo settembre quando si capirà se la formula è efficace oppure no». Paolo Lusso, responsabile della Sezione del Laboratorio di patogenesi virale del Niaid, dice di essere «fiducioso»: «Il Covid-19 non sembra essere estremamente mutevole come altri virus. Per esempio quello dell’influenza, che cambia ogni anno, o quello dell’Hiv, su cui ci stiamo rompendo la testa da decenni».

Dosi di massa. In autunno la scienza lascerà il campo all’industria e quindi anche alla politica. L’amministrazione ha già semplificato al massimo le procedure di approvazione. Il problema, invece, è la produzione. La stima prudenziale di Fauci è che il composto dovrebbe essere messo in commercio in primavera. Ma se tutto va bene le prime dosi potrebbero essere disponibili già nel gennaio 2021. Il governo dovrà decidere come distribuirle. L’idea è cominciare con il personale degli ospedali, le forze di polizia, gli addetti ai trasporti, i lavoratori della filiera alimentare. Poi tutti gli altri. A Washington si sta esaminando l’ipotesi di lanciare un’alleanza tra diversi produttori, coinvolgendo anche aziende europee. Certo, ci sono ancora tanti problemi da risolvere, a cominciare dalla compatibilità delle diverse tecnologie. Si procederà, comunque, a ondate. Lo sviluppo degli altri tre vaccini viaggia con qualche mese di ritardo rispetto a quello di Moderna. Dovrebbero arrivare al traguardo a scaglioni nel corso del 2021, moltiplicando quindi le fonti di produzione e di distribuzione.

Farmaci e terapie. I ricercatori di Fauci stanno accelerando anche sulla terapia. I filoni sono due: gli antivirali, che neutralizzano direttamente il Covid-19, e gli anti infiammatori per contrastare gli effetti dell’infezione, a cominciare dalle polmoniti. Ancora una volta il momento della verità dovrebbe arrivare intorno al mese di ottobre, quando, dice ancora la dottoressa Cassetti, «dovremmo cominciare ad avere dati sufficienti e solidi per stabilire quali di queste medicine siano efficaci. Stiamo studiando anche possibili cocktail di sostanze diverse». Sempre in autunno si dovrebbe capire se anche l’idrossiclorichina, farmaco anti-malaria, potrà essere arruolato nel team anti-coronavirus.

Coronavirus, Trump vuole comprare il brevetto di un vaccino tedesco in esclusiva per gli Usa. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. Donald Trump sta cercando di acquistare da un’azienda tedesca in esclusiva per gli Stati Uniti, il brevetto di un vaccino contro il Covid-19. Il presidente americano avrebbe offerto 1 miliardo di dollari alla casa farmaceutica CureVac, che lavora all’antidoto ed è in fase avanzata di sviluppo. L’offerta incontra la ferma opposizione del governo tedesco, che invece cerca di far rimanere il vaccino in Germania, per farlo poi distribuire anche nel resto d’Europa. A fare la clamorosa rivelazione è il settimanale Welt am Sonntag, che cita fonti governative e spiega in dettaglio la manovra del capo della Casa Bianca, plastica dimostrazione di cosa Trump intenda quando parla di «America first». La vicenda ha i contorni di un giallo. CureVac è un’azienda privata con sede a Tubinga, collegata con il Paul-Erhlich-Institut, il Centro di ricerca federale per i vaccini e i farmaci biomedici. All’inizio di marzo Daniel Menichella, amministratore delegato della compagnia, partecipa a un incontro riservato con Donald Trump alla Casa Bianca insieme ai principali boss dei grandi gruppi farmaceutici americani. Otto giorni dopo, improvvisamente e senza alcun motivo apparente, Menichella si dimette dalla guida di CureVac. A sostituirlo è Ingmar Hoerr, l’uomo che Menichella aveva fatto fuori due anni fa. Nel comunicato ufficiale che annuncia il cambio al vertice, c’è un vago ma ora significativo riferimento al vaccino: «CureVac ha una grande squadra, competenze straordinarie e un grosso potenziale. Il vaccino contro il Covid-19 gioca un ruolo chiave». Ora le fonti del governo tedesco fanno chiarezza, denunciando apertamente l’operazione. Trump ha «comprato» Menichella e adesso sta mettendo sotto pressione la CureVac offrendo una montagna di denaro per avere il vaccino: «Ma soltanto per gli Stati Uniti», è la condizione posta dal presidente americano. Berlino sta cercando di impedirglielo. Non sarebbe un problema se si trattasse della ricerca del Paul-Ehrlich-Institut, che è di proprietà dello Stato. Ma la CureVac è privata e un divieto di vendita sarebbe possibile solo sotto circostanze particolare. Per questo i ministeri della Salute e dell’Economia stanno cercando in prima battuta un’altra strada, quella del negoziato con il gruppo di Tubinga: «Noi siamo molto interessati che vaccini e farmaci contro il Coronavirus vengano sviluppati in Germania e in Europa», ha spiegato un portavoce governativo alla Welt am Sonntag, confermando «contatti intensi» con CureVac. In pratica, il governo tedesco starebbe facendo una controfferta. Ma fino a venerdì sera, spiega il settimanale, non c’era accordo. In caso di fallimento della trattativa, il governo di Berlino pensa tuttavia che il caso della CureVac potrebbe far scattare le circostanze eccezionali previste dall’accordo di Schengen. Siamo infatti in presenza dello sviluppo di un farmaco necessario alla sopravvivenza umana, che interessa la sicurezza nazionale. L’articolo 6 del codice di Schengen dice che i che controlli alle frontiere devono contribuire fra le altre cose, «a prevenire ogni minaccia alla sicurezza interna, all’ordine pubblico e ai rapporti internazionali degli Stati membri». Come dire che, cercando di assicurarsi un vaccino europeo unicamente per i suoi connazionali, Donald Trump è una minaccia alla nostra sicurezza interna e all’ordine pubblico. Sarebbe questa l’estrema arma legale, per decidere un divieto di vendita all’estero del vaccino. Ma la vicenda è molto più grande del successo o del fallimento del negoziato nello specifico caso. «Abbiamo di fronte una minaccia globale – spiega Michael Huether, capo dell’IW, l’Istituto per l’economia tedesca di Colonia – e non è ammissibile che un capo di governo cerchi di assicurarsi possibili farmaci esclusivamente per la sua popolazione». Detto altrimenti, un mondo dove domina la logica «my contry first», prima il mio Paese, non ha alcuna speranza di far fronte alle pandemie globali.

La partita geopolitica per il vaccino. Andrea Muratore su Inside  Over il 22 marzo 2020. La corsa al vaccino del coronavirus prosegue, impetuosa, e si appresta a conoscere l’accelerazione più importante in occasione della stretta dei tempi per l’inizio dei test sui pazienti sani, avviata dai laboratori hVivo a Londra, da quelli del Kaiser Research di Seattle negli Stati Uniti e dall’Accademia militare delle scienze mediche, intenta a reclutare volontari, in Cina. La marcia per la ricerca di un vaccino sul Covid-19 è in pieno svolgimento e vede coinvolte aziende e centri di ricerca in tutto il mondo. L’aumento esponenziale delle conoscenze sulla pandemia e la relativa facilità con cui, grazie alla conoscenza ormai assodata di meccanismi biochimici cruciali, dalla mappatura del virus si è potuti arrivare a prototipi di vaccini hanno rappresentato segnali incoraggianti per l’inizio del lavoro sul campo. Altra questione sarà, ovviamente, verificare l’applicabilità sull’uomo di vaccini funzionanti: ed è sul tema che si scontrano le previsioni sulle tempistiche necessarie ad ottenere un vaccino pienamente funzionante, che vanno dai sei-otto mesi prospettati dalla virologa Ilaria Capua ai 12/18 ipotizzati da Richard Hatchett, amministratore delegato della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi). Per risolvere questa problematica servirà doppiare un altro scoglio non secondario: quello della potenziale rivalità politica che è destinata ad accendersi attorno al controllo strategico del vaccino da parte della prima potenza che saprà ottenerlo. “Cina, Stati Uniti, Unione europea, Russia, anche Italia e Israele sono impegnati in questa nuova corsa alla difesa antivirus. E quando il primo vaccino sarà pronto, all’ inizio sarà in quantità limitata e potrebbe essere monopolizzato da questa o quella potenza”, fa notare il Corriere della Sera. La solidarietà sul coronavirus è andata avanti in maniera discontinua, così come la collaborazione su misure da adottare in maniera comune dentro e fuori l’Occidente. Nella risposta al contagio sanitario così come in risposta a quello economico. “Basta guardare alla frenetica ricerca di mascherine che si è scatenata in tutto il mondo. E le mascherine sono semplici da produrre, tanto insignificanti fino a poche settimane fa che la produzione era stata lasciata a Paesi a basso costo del lavoro, come la Cina, il Vietnam, la Turchia”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, abile a distribuire nel mondo le conoscenze di base per un’efficace diagnosi del Covid-19 ai Paesi che non avrebbero altresì potuto permetterselo, sul vaccino non sta esercitando il necessario potere di coordinamento per evitare che, al momento della verità, la legge del più forte prevalga. Certo, Ginevra ha avvertito con decisione sulla necessità di avere un vaccino accessibile al vasto pubblico. Ma, complice anche la necessità di non poter eccessivamente tendere la sua struttura, un intervento più diretto non è nelle sue facoltà. La mossa a sorpresa con cui Donald Trump avrebbe tentato di acquisire per gli Stati Uniti, in esclusiva, il brevetto del vaccino elaborato dalla tedesca CureVac, mettendo sul piatto fino a un miliardo di dollari per poterlo industrializzare con priorità per gli Usa, testimonia quanto la competizione nel settore sia sentita e accesa. E quanto molto spesso agli stessi decisori politici sfugga la necessità di alleanze internazionali per la ricerca accelerata di vaccini funzionanti: la CureVac ha infatti beneficiato di un finanziamento da oltre 8 milioni di dollari della citata Cepi, al cui centro vi è la fondazione di un moghul della finanza statunitense come Bill Gates. Sfruttare la sanità come leva geopolitica per acquisire una posizione di forza nel contesto di una pandemia globale è un’arma a doppio taglio che rischia di ritardare la risposta all’epidemia. E questo i leader di tutto il mondo non possono sottovalutarlo.

Da “Libero quotidiano” il 7 marzo 2020. Lo sviluppo di un vaccino contro il Covid-19 «alla velocità richiesta» costerà circa 2 miliardi di dollari, una somma da stanziare nei prossimi 12-18 mesi. È la stima di Richard Hatchett, l' amministratore delegato di Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations), una partnership di governi, industria ed enti di beneficenza creata tre anni fa per combattere le malattie emergenti che minacciano la salute globale, e che sta già sponsorizzando quattro progetti di vaccini anti-Covid-19, e altri quattro sono in fase di chiusura, secondo quanto riportava ieri l' Irish Times. Secondo l' Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ci sono almeno 20 sieri in sviluppo nel mondo: alla fine di febbraio, Moderna, un gruppo biotecnologico con sede fuori Boston, ha battuto il record di velocità di tempo intercorso tra l' identificazione di un virus - in questo caso il coronavirus - e la creazione di un vaccino pronto per essere testato sull' uomo: solamente quarantadue giorni. Ma nonostante la fretta che tutto il mondo ha di arrivare a uno "scudo" rotettivo contro il nuovo virus, gli esperti ribadiscono che ci vorrà da un anno a un anno e mezzo prima che un prodotto sia disponibile per l' uso diffuso. In genere, tutto l' iter richiede diversi anni: dopo un primo studio sulla sicurezza, infatti, devono essere condotti studi clinici molto ampi per testare l' efficacia dell' antidoto al virus.

·         Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Galli (Sacco) contro Ascierto (Pascale): “Non avete scoperto nulla, protocollo testato prima al nord”. Delle due l’una:

o hanno nascosto la sperimentazione ufficiosa della cura non condividendo i risultati al resto d’Italia;

o sono dei bugiardi patentati, oltre che essere egoisti, invidiosi e razzisti. 

Nel 44% dei casi ridotto il rischio di andare incontro a ventilazione meccanica o morte. Coronavirus, la soddisfazione di Ascierto: “Studi fase III promuovono efficacia Tocilizumab”. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Nel 44% dei casi il tocilizumab ha ridotto il rischio di andare incontro a ventilazione meccanica o morte rispetto a chi non ha ricevuto il farmaco. E’ quanto emerge dal trial di fase III Empacta che ha valutato l’efficacia del farmaco anti-artrite, sperimentato per la prima volta dall’oncologo italiano Paolo Ascierto, direttore del Dipartimento Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto dei tumori Pascale di Napoli, utilizzato in aggiunta alle terapie standard rispetto alle sole terapie standard sui pazienti covid-19. “Questo risultato – spiega Ascierto – avvalora quella che è stata la nostra impressione sul campo, ovvero l’utilità del tocilizumab nel ridurre il rischio di aggravamento nei pazienti in subintesiva, quando vi è una vera e propria tempesta citochinica in corso, dimostrando che questo sottogruppo di pazienti può trarre beneficio dal trattamento con anti-interleuchina-6”. La Roche, l’azienda farmaceutica che produce il tocilizumab, fa sapere sul proprio sito ufficiale che è pronta a condividere i dati della sperimentazione con la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti e altre autorità sanitarie di tutto il mondo. Se a maggio scorso l’Aifa, l’agenzia del farmaco, ha promosso la "cura Ascierto" sui pazienti affetti da polmonite da covid19, in base a uno studio sulla Fase II su circa 1220 casi analizzati che ha evidenziato il calo della mortalità a 30 giorni senza comportare effetti collaterali significativi sui pazienti a cui è stato somministrato, gli aggiornamenti sulla Fase III non erano partiti nel migliore dei modi. In uno studio iniziale effettuato da La Roche, il tocilizumab “riduceva i tempi di dimissione nei pazienti trattati” ma “non dimostrava un vantaggio statisticamente significativo nel ridurre la mortalità a quattro settimane dal suo utilizzo e nel miglioramento clinico nei pazienti con covid-19”.

Tocilizumab, il bilancio di Ascierto: “Funziona nei pazienti in sub-intensiva, in quelli intubati no”. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. “Per quanto riguarda il tocilizumab, quello che abbiamo visto noi, che è stato visto nelle sperimentazioni cliniche che hanno dato dei risultati contraddittori, è che ha una sua utilità ma va usato nel paziente giusto al momento giusto. Così come in oncologia si parla di biomarcatori anche nel Covid prima di fare il tocilizumab bisogna vedere i livelli di interleuchina-6, una citochina, cioe’ una molecola infiammatoria”. Queste le parole di Paolo Ascierto, Direttore Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto "Pascale" di Napoli, che insieme col collega Vincenzo Montesarchio dell’ospedale Cotugno ha lanciato la terapia con il Tocilizumab contro il Covid-19 negli scorsi mesi, a margine di una conferenza stampa sull’immuno- oncologia. “Il concetto – aggiunge – è che dove c’è una tempesta citochimica bisogna agire quanto prima possibile perché altrimenti si innescano dei danni. Il tocilizumab nel paziente intubato funziona poco, lo abbiamo visto. Il paziente ideale è quello che va in terapia sub-intensiva che in quel momento inizia ad avere dei valori elevati di interleuchina-6 e dei parametri infiammatori e va trattato: e se trattato in quel momento ha un beneficio immediato, in 24-48 ore”.

Coronavirus, Milano contro Napoli su farmaco sperimentale. Ascierto: “Il protocollo è nostro”. Redazione de Il Riformista il 18 Marzo 2020. Parte la sperimentazione su 330 pazienti del farmaco anti-artrite tocilizumab per valutarne l’impatto sui pazienti colpiti da Coronavirus. A comunicarlo è stato Nicola Magrini, direttore Aifa, Agenzia italiana del farmaco, alla conferenza stampa alla Protezione civile. Ma è subito polemica. Nella puntata di Carta Bianca di martedì sera Massimo Galli, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, ha mosso critiche verso Paolo Ascierto, direttore della Struttura Complessa Melanoma e Terapie Innovative dell’istituto dei tumori Pascale di Napoli, che sarebbe stato secondo molti il primo in Italia a sperimentare il tocilizumab su 11 pazienti ricoverati al Cotugno per via del Coronavirus. “Non facciamoci sempre riconoscere – ha detto Galli – Queste sperimentazioni sono in atto da diverso tempo in Cina. Abbiamo fra i vari centri delle zone più colpite ormai qualche centinaio di pazienti trattati in questo modo. Non facciamo quelli che non danno a Cesare quello che è di Cesare e ai cinesi quello che è dei cinesi. Non è un anti-virale. E dobbiamo capire esattamente il momento in cui va utilizzato”. E poi ha aggiunto: “Non esageriamo a fare provincialismi di varia natura”. La replica di Ascierto: “Ci deve dare atto che il protocollo è un protocollo al quale ha lavorato all’Ospedale Tumori di Napoli”. 

Milano contro il farmaco "napoletano", Ascierto replica in tv: “A Napoli l’uso anti covid19”. Il botta e risposta tra il Dottor Massimo Galli e il Dottor Paolo Ascierto durante la trasmissione Rai "Carta Bianca". Redazione di vocedinapoli.it il 18 marzo 2020. Paolo Ascierto ha superato polemiche e inutili discussioni conquistando anche il web. Dopo la piccola diatriba avuta con il Dottor Massimo Galli, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano – in merito alla somministrazione del tocilizumab – gli utenti si sono scatenati sui social con commenti di stima e sostegno nei confronti del Prof. napoletano. Ma facciamo un salto indietro nel tempo e andiamo al nocciolo della questione. Cos’è che ha infiammato il confronto tra i due medici, ospiti entrambi ieri sera di Carta Bianca la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer su Rai 3? Probabilmente, viste le dichiarazioni di Galli, che il tocilizumab – farmaco anti artrite – utilizzato per contrastare la polmonite severa causata dal coronavirus sia stato somministrato a Napoli. Un protocollo avvenuto grazie alla collaborazione del Pascale con il Monaldi insieme ad alcuni ricercatori cinesi. “Non facciamoci sempre riconoscere – ha detto Galli – Queste sperimentazioni sono in atto da diverso tempo in Cina. Abbiamo fra i vari centri delle zone più colpite ormai qualche centinaio di pazienti trattati in questo modo. Non facciamo quelli che non danno a Cesare quello che è di Cesare e ai cinesi quello che è dei cinesi. Non è un anti-virale. E dobbiamo capire esattamente il momento in cui va utilizzato. Non esageriamo a fare provincialismi di varia natura”. Questa è stata la replica signorile di Ascierto: “Ci deve dare atto che il protocollo è un protocollo al quale ha lavorato all’Ospedale Tumori di Napoli”. Dunque, altro che unità. A qualcuno il fatto che la somministrazione del tocilizumab (che ha avuto anche l’ok dell’Aifa) sia avvenuta a Napoli non è piaciuto. Un’altra occasione persa per sentirsi tutti orgogliosamente italiani.

“Il dottor Paolo Ascierto, oncologo dell’Istituto Pascale di Napoli e la sperimentazione del farmaco usato per la cura dell’artrite reumatoide: È un po’ la scoperta dell’uovo di Colombo. Noi lo utilizziamo nel trattamento degli effetti collaterali di alcuni tipi di immunoterapia. poiché il processo che determina gli stress respiratori in seguito al covid-19 è simile. Ci è venuta quest’idea, supportata dai colleghi cinesi, che l’avevano usata su alcuni pazienti con risultati importanti. I pazienti che rispondono hanno un miglioramento anche nelle 24/28 ore dopo il trattamento”.

Galli (Sacco) contro Ascierto (Pascale): “Non avete scoperto nulla, protocollo testato prima al nord”. Redazione de  linserto.it il 18 Marzo 2020. Galli (Sacco) contro Ascierto (Pascale): “Non avete scoperto nulla, protocollo testato prima al nord”. “Al Pascale di Napoli non avete scoperto nulla, il protocollo per curare il coronavirus col farmaco usato per la cura dell’artrite reumatoide è stato testato prima al nord”, è questa in sintesi la risposta arrivata dal Professor Massimo Galli, direttore e responsabile Malattie infettive dell’ospedale Luigi Sacco, al collega Paolo Ascierto, oncologo e ricercatore dell’ospedale Pascale di Napoli dove da giorni si sta testando il Tocilizumab, il farmaco che ora ha ricevuto il via libera dall’Aifa per la sperimentazione. Intervenendo alla trasmissione televisiva Casta Bianca su Raitre, Ascierto aveva spiegato. È un po’ la scoperta dell’uovo di Colombo. Ci è venuta quest’idea, supportata dai colleghi cinesi, che l’avevano usata su alcuni pazienti con risultati importanti. Noi lo utilizziamo nel trattamento degli effetti collaterali di alcuni tipi di immunoterapia, poiché il processo che determina gli stress respiratori in seguito al covid-19 è simile. I pazienti che rispondono hanno un miglioramento anche nelle 24/28 ore dopo il trattamento.” Nei giorni scorsi, dopo la diffusione dei dati sui buoni risultati del Pascale utilizzando il farmaco per la cura dell’artrite reumatoide, lo stesso Galli aveva sottolineato: “Anche noi stiamo usando il Tocilizumab qui al Sacco. Abbiamo oltre quindici pazienti in trattamento e il numero cresce. Va però ricordato che non si tratta di un farmaco con un’azione diretta contro il virus, ma in teoria in grado di limitare i danni di un’infiammazione eccessiva da esso causata. Il che comunque al momento è già tantissimo”.

 Coronavirus: Milano attacca Napoli sulla cura, negato il merito ai medici del Pascale. Paola Palmieri su grandenapoli.it il 18 Marzo 2020. Un duro scontro nel programma Carta Bianca. Ieri durante la puntata di Carta Bianca in onda su Rai 3 c’è stato un brutto momento in cui si parlava di coronavirus, quando ad un certo punto la conduttrice Bianca Berlinguer si è collegata con il dottor Paolo Ascierto del Pascale di Napoli, coordinatore del team che ha il merito di aver messo a punto il protocollo di utilizzo del Tocilizumab, il farmaco anti artrite efficace contro la polmonite da coronavirus. Il dottor Ascierto è stato aggredito, senza poi avere opportunità di rispondere, da un collega, il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano che ha praticamente negato ogni merito al Pascale di Napoli affermando: “Non facciamoci sempre riconoscere. Questa cosa viene da sperimentazioni in atto da diverso tempo in Cina. Abbiamo tra i vari centri delle zone più colpite ormai, credo, qualche centinaio di pazienti trattati in questo modo. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, il primo a usare questa cosa in Italia è stato sicuramente il collega Rizzi a Bergamo nonostante le sue migliaia di casi affrontati nel suo ospedale. Accetto tutto, mi sta bene che si attribuiscano anche meriti, ma non facciamo quelli che non danno a Cesare quello che è di Cesare e ai cinesi quello che è dei cinesi”. Ascierto ha cercato di rispondere ma era tardi e Bianca Berlinguer gli ha detto che bisognava andare in pubblicità. Il dottore quindi non ha potuto fare altro che rivolgere soltanto una frase a Galli: “Ci deve dare atto che il protocollo che in questo momento c’è è un protocollo dove ha lavorato l’Istituto Tumori di Napoli”. Il medico del Sacco ha perciò replicato, con  tono polemico e aggressivo: “Sì sì per carità. Peccato che comunque lo stesso protocollo era già applicato da tempo in almeno 12 unità operative. Non esageriamo anche a fare provincialismi di varia natura perché questo diventa intollerabile”. Secondo Massimo Galli, dunque, lo stesso protocollo veniva già usato in Lombardia. Ammesso che sia vero, e nessuno vuole dubitare della sua parola, si tratterebbe però di un fatto gravissimo: la procedura non era stata comunicata nel resto d’Italia. Dopo la puntata, infatti, il dottor Ascierto ha scritto sulla pagina Facebook del Pascale: “In un momento di emergenza come questo, tengo a precisare che il lavoro di brain storming fatto con il dr Franco Buonaguro e le giovani oncologhe Claudia Trojaniello e Maria Grazia Vitale, la discussione “cruciale” fatta con il dr Ming, la professionalità dei dr Montesarchio, Punzi, Parrella, Fraganza e Atripaldi dell’Ospedale dei Colli, il supporto dei nostri Direttori Generali Bianchi e Di Mauro e del nostro Direttore Scientifico Dr Botti, sono tutti elementi che ci hanno portato sabato 7 marzo ad incominciare a trattare i primi pazienti al Cotugno di Napoli. Non ci risulta che qualcuno lo stesse facendo in contemporanea e saperlo ci avrebbe peraltro aiutato. In questa fase, non è importante il primato. Quello che abbiamo fatto è comunicarlo a tutti affinchè TUTTI fossero in grado di poterlo utilizzare, in un momento di grande difficoltà. Non solo. Grazie alla grande professionalità del dr Franco Perrone del Pascale, in pochi giorni siamo stati in grado di scrivere una bozza di protocollo per AIFA che ha avuto un riscontro positivo. Il nostro deve essere un gioco di squadra e la salute dei pazienti è la cosa che ci sta più a cuore. Andiamo avanti con cauto ottimismo … nel frattempo parte la sperimentazione di AIFA. Ce la faremo di sicuro !!!” Quanto è accaduto risulta essere grave poichè c’è sta la mancata comunicazione da parte del personale lombardo della terapia in uso al resto del Paese, sempre che effettivamente stesse utilizzando quel preciso protocollo. I medici napoletani, appena hanno riscontrato risultati positivi li hanno subito comunicati ed in pochi giorni l’AIFA ha approvato il protocollo estendendolo all’Italia intera. Perché non esistono ammalati di serie A e Ammalati di serie b. Siamo di fronte, forse, a un’altra falla dell’efficientissima e finanziatissima sanità lombarda?

"L'ospedale mette le strutture, io le conoscenze. Lei la voglia di vivere". Ascierto, Marilena e gli invisibili del Pascale: sconosciuti finché non si vince il bingo di un melanoma. Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Nel corso di queste settimane è diventato uno dei simboli in Italia nella lotta al Coronavirus. Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale, si è ritrovato ad essere la speranza non solo dei napoletani ma di un’intera nazione alle prese, giorno dopo giorno, con la drammatica ascesa di un virus che ad oggi ha contagiato oltre 40mila persone provocando più di 4mila vittime. Così uno dei massimi esperti, anche in ambito internazionale, della lotta al cancro si è ritrovato gruppi social dedicati, striscioni di incoraggiamento affissi per le strade di Napoli e una popolarità forse inaspettata. Tutti parlano di Ascierto e del tocilizumab, il farmaco anti-artrite che ha dato miglioramenti nel trattamento della polmonite che complica l’infezione da Covid 19. La sperimentazione clinica del farmaco è stata approvata in tempi record da AIFA e dal Comitato Etico in una sinergia tra ricercatori e istituzioni di tutta Italia. Le richieste di entrare nel protocollo sono centinaia e giungono soprattutto dagli ospedali del Nord, i più colpiti dall’emergenza. Ascierto e l’equipe medica del Pascale, composta dall’oncologo Franco Perrone, da tanti bravi medici (tra cui Marilena Di Napoli e Marilina Piccirillo) e infermieri, compiono silenziosamente miracoli tutti i giorni. Sono invisibili ai più da decenni ma ci sono sempre stati, ci sono ora e ci saranno sempre. La loro assistenza è una missione che viene celebrata solo quando si sconfigge il “mostro”. Sergio Califano, apprezzato cronista di nera a Napoli, oggi in pensione, da 10 anni conosce gli “invisibili” del Pascale. “L’ospedale mette le strutture, io le conoscenze. Lei la voglia di vivere” gli venne detto da un oncologo subito dopo la diagnosi tremenda. A distanza di 10 anni da grande giornalista quale è stato, Sergio ha pubblicato una riflessione sul tifo da stadio per Ascierto delle ultime settimane che il Riformista è orgoglioso di riproporvi: Ricordate quando a Napoli si diceva, e forse si dice ancora, “stai chino ‘e Solopaca“? E’ una frase ironica, scherzosa, rivolta a chi viene ritenuto poco lucido e con idee confuse. Perché il Solopaca è un vino della Campania, orgoglio e spina dorsale dell’economia di un paese in provincia di Benevento da cui prende nome. Un paese di poche migliaia di anime. Un paese dove la gente non passa la giornata a ubriacarsi nelle cantine, ma a farsi un mazzo così nei campi sperando che d’inverno non arrivi troppa grandine e che d’estate il sole non spacchi eccessivamente il terreno arso dalla siccità. A Solopaca è nato Paolo Ascierto, 54 enne, oncologo dallo sguardo giocondo e simpatico, dal viso onesto perché i beneventani sono persone semplici di cui fidarsi. Ed è pure juventino, che è un titolo in più (punti di vista, certo). Ascierto è uno dei cento, mille invisibili che ogni mattina varcano il cancello di quell’ospedale al Rione Alto dove la gente non entra mai sorridendo. Perché varcare quel cancello sembra quasi una condanna senza appello: perché il Pascale è l’ospedale del cancro. Il Pascale che ogni tanto qualcuno, quando esco per fare la spesa (abito di fronte) mi chiede, uscendo dalla metro: “Scusate, per andare al Pasquale?” Oppure, i più intellettuali “Vado bene per il Pascàl?”. Oggi tutti parlano del Pascale, tutti conoscono Ascierto, tutti hanno fatto il liceo insieme, qualcuno l’università, qualcuno le vacanze, qualcuno lo incontra abitualmente il sabato sera alle cene. Io Ascierto lo vedo, senza conoscerlo, ogni volta che vado al Pascal e mi dicono ‘no no, non muori, non muori’. Vedo Ascierto e vedo Marilena, dottoressa che viene ogni giorno al Pascàl da un paesino in provincia di Salerno e si sveglia all’alba e torna a casa che stanno già dormendo tutti e lei sogna di fare un altro figlio (ma per fare un figlio occorre il tempo necessario, e se rientri al paese che già sei mezzo addormentato è complicato). Ascierto, Marilena e gli altri stanno lì, invisibili e sconosciuti finché non si vince il bingo di un melanoma. E allora diventano le persone più importanti della tua vita. Loro sorridono sempre (ci ho fatto caso, anni fa) e non pronunceranno mai il verbo morire. Come l’oncologo che mi diede il verdetto dieci anni fa: “L’ospedale mette le strutture, io le conoscenze. Lei la voglia di vivere“. E siamo ancora qui. Perché le tre condizioni hanno funzionato. E Bianca Berlinguer guarda perplessa Ascierto e con aria inquisitrice gli fa “Ma lei è professore o dottore?”. Ah Berlinguer Berlinguer, te la potevi risparmiare … E’ il vostro vecchio karma, il vostro difetto di fabbrica veterocomunista di voler sempre dividere il mondo in classi. Sempre e comunque.

Parigi chiama il Pascale: “Usiamo insieme il Tocilizumab per la lotta al coronavirus”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Il direttore della medicina interna dell’ospedale di Foch a Suresnes, cittadina vicino a Parigi, ha scritto al direttore generale del Pascale, Attilio Bianchi, accogliendo l’invito di quest’ultimo ad avviare una collaborazione scientifica tra i due istituti. Lo scambio di missive è avvenuto all’indomani della notizia che anche in Francia si sta sperimentando, da alcune settimane, il Tocilizumab, il farmaco di solito usato in reumatologia passato alla cronaca come la cura Ascierto, dal nome dell’oncologo del Pascale che per primo lo ha sperimentato con successo in Italia. E anche in Francia, diceva ai giornali Felix Ackermann, i risultati dello studio sui primi pazienti trattati sono estremamente promettenti. Ora il via alla collaborazione tra i due enti. “Siamo impegnati nella lotta contro il Covid 19 ed usiamo, come voi, il  Tocilizumab dal 20 marzo – ha scritto Ackermann a Bianchi – La mia squadra ed io stesso siamo pronti per una cooperazione tra i nostri ospedali per massimizzare il nostro atteggiamento terapeutico”. Ringrazia il collega francese per avere risposto al suo invito alla collaborazione, il direttore del Pascale, Attilio Bianchi: “Una guerra planetaria – dice il manager – non si vince con opzioni localistiche. 1+1=3 vuol dire proprio questo”.

Il nord chiama Ascierto, centinaia di richieste per il farmaco che combatte il coronavirus. Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Sono soprattutto gli ospedali del Nord Italia a chiedere al Pascale di trattare con il Tocilizumab i pazienti affetti da polmonite da Covid 19. Al Cotugno, intanto, migliorano le condizioni dei pazienti trattati. I due pazienti estubati ieri, sono tornati oggi in reparto. Le richieste di entrare nel protocollo sono centinaia e giungono da ogni parte di Italia. Un numero non quantizzabile perché cresce di minuto in minuto. Molte, moltissime arrivano dagli ospedali del Nord. “Ovvio, è lì che l’emergenza è più forte”, dice Marilina Piccirillo, medico oncologo del Pascale che, da quando il suo collega Paolo Ascierto ha avuto l’intuizione di usare il Tocilizumab, già conosciuto per l’artrite reumatoide e gli effetti collaterali dell’immunoterapia, contro le complicanze del Covid 19, è al lavoro per mettere in piedi la sperimentazione anche 14 ore al giorno. E’ lei che, dopo aver scritto il protocollo di ricerca, insieme con i colleghi che compongono il comitato scientifico dello studio, da ieri, dopo l’ok dell’Aifa e del Comitato Etico dello Spallanzani, gestisce il sistema della raccolta dati. Lavora senza risparmiarsi perché il virus si combatte anche fuori dalle corsie, nei centri di ricerca, supportata dal suo capo, Franco Perrone, e dagli altri collaboratori dell’Unità Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto dei tumori di Napoli, tra medici, study coordinator, data manager, informatici e farmacisti. E’ da queste stanze del secondo piano del day hospital che, in stretta collaborazione con AIFA, si analizzano i dati e, col tempo, si capirà quali pazienti avranno maggiore beneficio dalla cura. “L’obiettivo dello studio – continua la giovane ricercatrice – è di ridurre la mortalità a un mese. Il Tocilizumab viene somministrato ai pazienti ricoverati per polmonite da Covid. In particolare, nello studio di fase due, il trattamento viene somministrato a pazienti con stadio di malattia abbastanza iniziale, vale a dire: non intubati o intubati da massimo 24 ore. Mentre nell’osservazionale verranno trattati anche i pazienti intubati da più di 24 ore. Alla fine della fase 2, in ogni modo tutti i pazienti potranno essere inseriti nella coorte osservazionale”.

Ma in cosa consiste questo trattamento?

“Il farmaco – spiega la Piccirillo – si somministra in vena al massimo per due volte, a distanza di 12 ore”.

E intanto al Cotugno migliorano le condizioni dei pazienti trattati dal 7 marzo scorso con il Tocilizumab. Dei due estubati ieri, uno è passato in reparto.

“Siamo tutti impegnati – dice il direttore generale del Pascale, Attilio Bianchi – per questa area di ricerca che coinvolge competenze differenziate in tutto l’Istituto. La sinergia è la parola d’ordine, nei rapporti interni e nelle relazioni esterne. Mai più di oggi 1+1 è uguale a 3”.

Da corrieredellosport.it il 22 aprile 2020. I ricercatori dell'Università di Brescia hanno pubblicato i dati sui primi 100 pazienti con Covid-19 trattati con il farmaco antiartrite Tocilizumab presso gli Spedali Civili di Brescia: nel 77% dei pazienti trattati, affermano, le condizioni respiratorie sono migliorate o stabilizzate. Si tratta della serie ad ora più ampia al mondo di pazienti trattati con Tocilizumab, che fa seguito ai risultati incoraggianti ottenuti in 20 pazienti in Cina e nei primi due pazienti italiani trattati all'Ospedale Cotugno di Napoli. I risultati saranno pubblicati sulla rivista Autoimmunity Reviews a luglio. Lo studio, spiega l'Università, "mostra che la polmonite Covid-19 con sindrome da distress respiratorio acuto è caratterizzata da una sindrome iperinfiammatoria e sostiene l'ipotesi che la risposta al Tocilizumab si associ ad un significativo miglioramento clinico". Anche l'Agenzia italiana del farmaco ha avviato uno studio sul tocilizumab, su 330 pazienti, che è al momento in corso. "Su 100 pazienti trattati - spiega Nicola Latronico dell'Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione e portavoce dello studio - 43 hanno ricevuto il Tocilizumab nell'unità di terapia intensiva, mentre 57 fuori dalla unità di terapia intensiva per indisponibilità di letti. Di questi 57 pazienti, 37 (65%) sono migliorati e hanno sospeso la ventilazione non invasiva, 7 (12%) pazienti sono rimasti stabili nella unità di terapia intensiva e 13 (23%) pazienti sono peggiorati (10 morti, 3 ricoverati in terapia intensiva). Dei 43 pazienti trattati in terapia intensiva, 32 (74%) sono migliorati (17 sono stati tolti dalla ventilazione artificiale e sono stati trasferiti in reparto), 1 (2%) è rimasto stabile e 10 (24%) sono deceduti". Complessivamente, a 10 giorni, la condizione respiratoria è migliorata o si è stabilizzata in 77 pazienti (77%), di cui 61, in sede di esame di radiografia del torace, hanno mostrato una "riduzione significativa delle lesioni polmonari e 15 sono stati dimessi dall'ospedale".

7 pazienti su 10 salvati dal Tocilizumab, nuovo studio conferma efficacia della Cura Ascierto. Redazione de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Dall’Università di Brescia arrivano i primi risultati del trattamento con Tocilizumab, il farmaco sperimentato contro il coronavirus, somministrato agli Spedali Civili su 100 pazienti con polmonite da Covid-19, che avevano sviluppato un’insufficienza respiratoria grave e refrattaria a tutti i trattamenti disponibili. Si tratta della serie prospettica più ampia al mondo di pazienti trattati con Tocilizumab, che fa seguito ai risultati incoraggianti ottenuti in 20 pazienti in Cina e all’Ospedale Cotugno di Napoli. “Su 100 pazienti trattati – spiega il professor Nicola Latronico dell’Unita’ Operativa di Anestesia e Rianimazione – 43 hanno ricevuto il Tocilizumab nell’unita’ di terapia intensiva, mentre 57 fuori dalla unita’ di terapia intensiva per indisponibilità di letti. Di questi 57 pazienti, 37 (65%) sono migliorati e hanno sospeso la ventilazione non invasiva, 7 (12%) pazienti sono rimasti stabili nella unita’ di terapia intensiva e 13 (23%) pazienti sono peggiorati (10 morti, 3 ricoverati in terapia intensiva). Dei 43 pazienti trattati in terapia intensiva, 32 (74%) sono migliorati (17 sono stati tolti dalla ventilazione artificiale e sono stati trasferiti in reparto), 1 (2%) e’ rimasto stabile e 10 (24%) sono deceduti. Complessivamente, a 10 giorni dal trattamento, la condizione respiratoria è migliorata o si è stabilizzata in 77 pazienti (77%), di cui 61, in sede di esame di radiografia del torace, hanno mostrato una riduzione significativa delle lesioni polmonari e 15 sono stati dimessi dall’ospedale”. Le indagini di laboratorio fatte prima di somministrare il farmaco hanno dimostrato in tutti i pazienti livelli altissimi, talora addirittura fuori scala, di proteina C reattiva (PCR), ferritina, D-Dimero e trigliceridi, confermando l’ipotesi che una sindrome iper-infiammatoria fosse presente quando le condizioni respiratorie dei pazienti peggioravano e confermando l’utilizzo del Tocilizumab. Aprendo la strada alle future ricerche, questo studio sostiene l’ipotesi che nei pazienti con polmonite COVID-19 la risposta al Tocilizumab si associ ad un significativo miglioramento clinico.

«Io atleta 38enne, in terapia intensiva, sto uscendo dal calvario grazie al Tocilizumab: non capisco chi si lamenta perché sta a casa». Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 da Corriere.it. Fausto Russo ha 38 anni, è un atleta e ha contratto il COVID-19 per una settimana se l’è vista brutta in terapia intensiva con un casco pressurizzato, il catetere, senza la possibilità di muoversi. Poi all’ospedale Santa Maria Goretti di Latina una dottoressa gli ha proposto di aderire alla sperimentazione, in corso a Napoli presso gli ospedali Pascale e Cotugno di un farmaco utilizzato per l’artrite reumatoide. E così Fausto ha firmato gli è stato somministrato il Tocilizumab e dopo un paio di giorni tutto è cambiato. «Nel giro di quarantott’ore sono migliorato di circa il 60 – 70%. Posso solo ringraziare il dottore Ascierto per aver portato a conoscenza di tutti gli altri centri in Italia di questo farmaco e per aver guidato la sperimentazione perché si tratta di salvare vite umane, ringrazio anche tutto lo staff dell’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina. Io l’ho visto: di questo virus purtroppo si muore. Oggi ho ancora la mascherina vicino ma sto bene e so che non devo sforzarmi, il tampone ho detto che sono ancora positivo ma forse tra 3/4 giorni cambierà tutto e potranno dimettermi». Fausto non sa dire come abbia contratto il virus: «Non sono stato a contatto con persone provenienti dal Nord Italia o dalle zone rosse, però forse facendo l’allenatore, incontrando tante persone, devo averlo preso senza accorgermene. Sta di fatto che mi è venuta una febbre molto forte e questa febbre non passava, poi ci sono state complicazioni respiratorie e a quel punto sono finito in ospedale. Lì mi hanno fatto il tampone, sono risultato positivo e da quel giorno è cominciato il calvario. Solo il fatto di poterlo raccontare e di poterne parlare per me è tanto». Fausto da qualche giorno ha cominciato a frequentare di nuovo i social e si meraviglia che in tanti si lamentino di dover restare a casa: «E’ l’unico modo che abbiamo per fermare tutto questo, per fermare il contagio. Se mi avessero detto che sarei dovuto rimanere a casa per 15 giorni l’avrei fatto volentieri anche perché riesco a stare così poco con mia moglie e i miei bambini che mi mancano tanto e spero di riabbracciare tra qualche giorno».

Coronavirus, a Napoli estubati altri 4 pazienti dopo Tocilizumab. Uno ha 27 anni, gli altri 3 sono in sperimentazione nazionale. La Repubblica il 23 March 2020. Altri quattro pazienti che erano in rianimazione a Napoli per covid19 sono stati estubati oggi, dopo essere stati trattati con il Tocilizumab. Lo rende noto Vincenzo Montesarchio, infettivologo dell'ospedale Cotugno di Napoli, che ha dato il via alla cura insieme al collega Paolo Ascierto del Pascale. "I quattro erano tutti in terapia intensiva covid19 al Monaldi - spiega Montesarchio - e hanno reagito molto bene al farmaco, migliorando nettamente in pochi giorni". Uno dei 4 pazienti ha solo 27 anni, è del 1993 ed era in terapia intensiva per la polmonite grave, anche se non aveva altre patologie gravi se non l'asma. Il giovane ha preso il Tocilizumab il 18 marzo e da oggi è solo in ventilazione assistita, in attesa di essere trasferito presto in normale degenza covid19. Gli altri tre estubati sono stati trattati il 19 marzo, e sono i primi tre inseriti nella sperimentazione Aifa sul farmaco su 330 pazienti in Italia. I tre uomini sono rispettivamente del 1963, del 1964 e del 1969 e non sono più in terapia intensiva ma solo in ventilazione assistita in attesa di tornare in degenza.

Cura Ascierto, cresce la speranza: “Al Cotugno 4 estubati, anche giovanissimo salvato dal Tocilizumab”. Redazione de Il Riformista il 23 Marzo 2020. Ancora notizie positive da Napoli, dove questa mattina quattro pazienti positivi al Coronavirus sono stati estubati dopo esser stati sottoposti al "protocollo Ascierto", ovvero al trattamento col farmaco per l’artrite reumatoide Tocilizumab, attualmente in uso su circa 300 pazienti in Italia. I quattro pazienti passeranno nelle prossime ore in reparto se le condizioni non dovessero peggiorare. Tra i quattro c’è anche un giovanissimo, un ragazzo di soli 27 anni che nei giorni scorsi era stato ricoverato, come riferito a ‘Il Riformista‘ dal direttore generale dell’Azienda dei Colli (Monaldi, Cotugno e Cto) Maurizio Di Mauro. I quattro era ricoverati in terapia intensiva al Monaldi. Si tratta di quattro uomini di 57, 58, 51 e, come detto, 27 anni. Quest’ultimo era ricoverato per una polmonite grave. Sono attualmente in ventilazione assistita in attesa di essere trasferiti in reparto. “Abbiamo trattato per il momento un numero limitato di casi anche se il protocollo è stato riconosciuto dall’Aifa e sono circa 300 i pazienti trattati. Il dato bellissimo di questa mattina, che ci dà ancora più coraggio, è che quattro pazienti sono stati estubati al Cotugno e nel giro di 24 ore ritorneranno in reparto”. Così Maurizio Di Mauro, direttore generale Ospedali dei Colli (Monaldi, Cotugno, Cto), ai microfoni del Riformista sottolinea i risultati positivi riscontrati nei pazienti curati con il Tocilizumab, il farmaco anti-artrite che ha dato miglioramenti nel trattamento della polmonite che complica l’infezione da Covid 19, con l’Aifa che ha dato l’ok, nei gironi scorsi, alla sperimentazione in tutta Italia su 300 pazienti. “Tra loro  -aggiunge -anche un ragazzo di 27 anni. Questo per noi è un motivo d’orgoglio perché è un protocollo che nasce qui dai nostri scienziati, dalla nostra Regione e dobbiamo quindi essere soddisfatti della sanità che si produce in Campania”.

IL PRECEDENTE – La scorsa settimana altri due pazienti erano stati estubati. “Al primo era stato somministrato il farmaco il 7 marzo, al secondo il 10 marzo. Erano entrambi in rianimazione in prognosi riservata”, aveva spiegato Vincenzo Montesarchio, infettivologo dell’ospedale Cotugno di Napoli. I due pazienti, rispettivamente 63 e 48 anni, sono stati i primi a far registrare questo miglioramento tra quelli che a Napoli vengono trattati con il Tocilizumab.

COME FUNZIONA IL TRATTAMENTO – Lo scorso 16 marzo era arrivato il via libera dall’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, sulla sperimentazione scientifica del Tolicizumab, con Napoli e Modena capofila.  Il farmaco non previene l’infezione da coronavirus ed è stato testato solamente sugli ammalati molto gravi. Dai primi dati a disposizione in Italia il Tocilizumab sta dando buoni risultati nei casi gravi di polmonite interstiziale. “L’idea è nata perché noi usiamo l’immunoterapia nei tumori e alcuni effetti collaterali li trattiamo con il tocilizumab. Il meccanismo che sta alla base del distress del Covid -19 è molto simile a quello dei trattamenti oncologici per questo motivo abbiamo incominciato ad usarlo sui pazienti Covid. Inoltre ci siamo confrontati con i medici cinesi che avevano già usato il farmaco in 21 pazienti e in 20 si era registrato un miglioramento importante” ha raccontato all’agenzia di stampa Dire Paolo Ascierto, presidente Fondazione Melanoma e direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli, che insieme all’ospedale Cotugno, centro di riferimento regionale per l’emergenza coronavirus e specializzato in malattie infettive, ha utilizzato il farmaco tocilizumab nel trattamento dei primi pazienti in Italia con Covid-19. “Il farmaco – precisa meglio Ascierto – agisce sulla complicanza di questo virus cioè sull’infiammazione importante che il Covid-19 crea. Insomma diminuisce l’iperattività del sistema immunitario che è quella che causa l’insufficienza respiratoria”. Molti si chiederanno ma i pazienti, una volta guariti, riprendono da subito la funzionalità respiratoria? “Quello che ci hanno detto i colleghi cinesi- risponde l’esperto- è che in due settimane dal trattamento i pazienti sono stati dimessi e sono tornati a casa. Chiaramente segue per loro un periodo di convalescenza nel proprio domicilio. Ma è davvero un grande risultato”. Per chiudere, però, Ascierto vuole ribadire che “l’isolamento contenitivo è la prima misura importante, l’unica che in questo momento può in qualche modo ridurre il numero dei contagiati. E’ quello che hanno fatto in Cina e ha dato i suoi risultati. La Cina sta uscendo dalla crisi ne usciremo sicuramente anche noi ma a patto di fare fronte unico”.

Fabio Tonacci il 22 Marzo 2020 su La Repubblica. Zaia vuole sperimentare in Veneto anche l'Avigan, il farmaco antinfluenzale usato in Giappone contro il virus, protagonista nelle ultime ore di un video sul web nel quale si dice che l'antivirale è efficace contro il Coronavirus se somministrato ai primissimi sintomi. "Spero di partire con la sperimentazione già oggi", dice Zaia. Ma l'Agenzia italiana del farmaco, che inizia anch'essa la valutazione, avverte: "Non ci sono prove che funzioni".

Coronavirus, Locatelli: "Farmaco Avigan? Bene sperimentazione, ma su efficacia mancano prove certe".

Per Zaia No al Protocollo Ascierto, troppo Meridionale!.

Caro Massimo Galli ti spiego perché ieri sera hai fatto una pessima figura…Francesco De Rosa il 18 marzo 2020. Caro Massimo Galli, so bene che questo non è il tempo delle polemiche, ma ciò che ieri sera, martedì 17 marzo, è accaduto nel corso della trasmissione di Bianca Berlinguer “Carta Bianca” merita un momento di attenzione. Scrivo con lucida fermezza e somma umiltà, uscendo fuori da ogni campanilismo dentro il quale è facile cadere, attorno a ciò che credo avresti potuto fare e non hai fatto: dare un esempio di coesione, d’unità, del collega che incoraggia altri colleghi e non li denigra. Dare contezza della tua saggezza visto che sei stato scelto nel gruppo d’esperti del governo nazionale. E così testimoniare che essere di supporto ad altri colleghi non è poi così difficile nemmeno per te. E, invece, non hai perso tempo a riportare fuori ciò che avevo già notato di te in forma molto più lieve in altre trasmissioni: quella protervia, la supponenza tipica di chi si crede il primo della classe e non sopporta se c’è qualcuno che riesce a fare meglio di lui perché, magari, è più lesto, più umile o semplicemente più curioso di capire quale possibile via possa esserci per uscire da questo incubo individuale e collettivo. Incubo d’Italia ma anche, prima ancora, della Cina. E poi di altri Stati europei o degli Stati Uniti per restare ancorati solo ad una parte del mondo occidentale. Che poi il presenzialismo e la visibilità possano nuocere e far perdere il limite del proprio senno a molti è noto a tutti. Accade ancora di più quando si è parte di una comunità medico/scientifica in un momento in cui il mondo vive un dramma collettivo rappresentato da un virus (che sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale) che nessuno conosce e nessuno ancora riesce a debellare. Così, con questo breve articolo, ho pensato fosse utile, per te, per noi, per Paolo Ascierto, ma, soprattutto, per tutti coloro che stanno soffrendo negli ospedali in queste settimane, aspettando una cura efficace che possa alleviare la sofferenza, capire assieme a quali sterili e stupidi luoghi comuni si può arrivare. E quale polemica si può montare, in diretta televisiva, senza il minimo garbo nei confronti di un collega medico e dei telespettatori che vi seguivano. Rivedendo il tuo intervento e la reazione sbalordita e muta (persino signorile) di Paolo Ascierto, capirai come la stupida invidia possa far diventare sgarbato e rozzo persino un uomo come te che, essendo nato nella Milano/bene, ed essendo navigato, dovrebbe avere ogni qualità ed ogni aplomb per dire le cose come si dovrebbero dire, per capire che fare squadra in un momento così è molto più utile che fare il protagonista nelle decine di trasmissioni televisive a cui stai partecipando in questi giorni. Te lo suggerisco, con tutto il rispetto che si deve a chiunque abbia vocato la sua vita ad una nobile impresa come hai fatto tu, come ha fatto il mio conterraneo Paolo Ascierto e tanti altri in altri ambiti. Ti suggerisco di rivedere e risentire le tue parole. Osserverai la frenesia della tue mani subito dopo l’intervento di Paolo. Vedrai la tua impazienza a quale grado arriva davanti alla calma serafica offerta dal tuo collega campano che, nato a Solopaca, ha imparato come si agisce nell’ombra per una vita intera. E come ci si muove nella periferia geografica d’Italia quando hai un obiettivo. Qualcosa che noi impariamo da bambini. Da esistenze che, dal primo giorno di vita, ti insegnano il lavoro, il sacrificio, la gavetta. Tu sei nato a Milano e potresti avere, per tua natura, il convincimento di essere più in alto di chi è nato a Solopaca, una piccola comunità operosa di una provincia del sud, famosa per il vino e per i tanti emigranti che sono andati altrove a studiare e a lavorare. Capirai, mi auguro, rivedendo il video, che la tua invidia si tocca con mano e raggiunge livelli tali di provocazione proprio quando dici che ciò che sta facendo al Cotugno/Pascale Paolo Ascierto con altri suoi (e tuoi) colleghi medici e ricercatori lo si fa già da tempo nella tua regione, a Bergamo ed altrove. Vorrebbe allora dire che da tanto tempo in Lombardia vi tenete per voi una faccenda simile e non sentite la necessità di condividerla con il resto della comunità scientifica non tanto per vanagloria ma perché potrebbe essere utile per salvare vite umane o perlomeno alleviare la sofferenza nel resto d’Italia ed altrove? Voglio, invece, solo pensare che ti sia saltato ogni livello di prudenza e di saggezza e che, per reazione, per sminuire un merito altrui tu abbia messo nelle tue parole ogni livore per cercare di offendere non solo un tuo collega che non ha minimamente reagito ma anche chi come lui, con una storia simile alla sua, non andando tutti i giorni in televisione come sta accadendo a te in questo periodo, cerca un modo, una strada, un farmaco per alleviare la sofferenza di chi viene contagiato dal virus. Senza nessuna offesa personale, ti auguro che rivedere il tuo intervento da Bianca Berlinguer possa evitarti, nelle altre decine di trasmissioni a cui parteciperai in questi giorni, la stessa magra figura che hai fatto ieri. Esemplare metafora del detto popolare secondo cui, forse, con “tanti galli a cantare non spunta mai l’alba”. Una frase che noi usiamo con il dialetto/lingua, molto efficace, delle nostre origini che mi consentirai di riportare qui, data l’assonanza con il tuo cognome, per sdrammatizzare su una triste vicenda nella quale possiamo essere tutti un po’ più nervosi e po’ meno pazienti. Ti auguro, senza alcun livore, ogni bene e, soprattutto, che tu possa cogliere, davanti a certe cose ed in certe situazioni estreme come questa, non l’impeto della polemica stupida ed inutile ma la saggezza e la necessità di fare squadra, di supportare, incoraggiare per dare, questa volta sì, a Paolo Ascierto e al gruppo che lavora a Napoli, ciò che è di Paolo e del gruppo che lavora con lui. E cioè l’umiltà di cercare a tutti i costi una via d’uscita da questa sofferenza immane, di pensare d’averla trovata e di volerla condividere, da subito, con il resto del mondo. Ecco di seguito il video del tuo intervento con l’augurio di una buona visione. Un saluto d’incoraggiamento, Francesco De Rosa

Galli torna a criticare Ascierto: “Aveva curato due casi e già tirava conclusioni”. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2020. “Non so se lo ricorda, ma una sera mi sono lasciato un po’ andare in tv con un collega”, ricorda Massimo Galli in un’intervista a Tpi.it. Il direttore del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, uno dei volti della comunità scientifica più esposti durante l’emergenza coronavirus, ricostruisce quello che è stato il suo scontro con Paolo Ascierto, andato in diretta su Raitre durante la trasmissione Carta Bianca. Ascierto, oncologo dell’Ospedale Pascale di Napoli, con la sua equipe aveva curato alcuni pazienti positivi al Covid-19 all’Ospedale Cotugno, principale centro specializzato in malattie infettive della Regione Campania, con un farmaco anti-artrite. Galli lo aveva in qualche modo criticato, dando il via a una sorta di contrapposizione tra Nord e Sud, una narrazione campanilistica e “confondente” secondo Galli. “L’Italia è questa. Non si può assumere una posizione di dissenso senza che si scambi per una guerra tra campanili”. Proprio lui durante la diretta di Carta Bianca aveva detto: “Non esageriamo a fare provincialismi di varia natura”. E Ascierto aveva rivendicato il protocollo al quale aveva lavorato l’Istituto Tumori di Napoli. “L’uso dei farmaci come il famoso Tocilizumab dà buoni risultati – riconosce Galli nell’intervista a Tpi.it – in determinati pazienti è utile a far superare la fase peggiore. Attenzione, però, perché agisce su un sistema immunitario spesso già malridotto e in alcuni di questi pazienti ha effetti collaterali imponenti, soprattutto un possibile danno da infezioni intercorrenti. Rischiano di non morire di Covid ma di altro“. Da queste considerazioni l’inizio delle frizioni con il collega napoletano: “Perché ero molto irritato con lui? – spiega Galli – Perché questa terapia non può essere spacciata come il toccasana che va bene per tutti e salva le persone. Se lo si dà in maniera indiscriminata provoca più guai che vantaggi. Ascierto aveva trattato la bellezza di due casi e già tirava conclusioni, altri medici attraverso contatti continui da vari ospedali in Lombardia e non solo, si consultavano tutte le sere condividendo le perplessità oltre che i possibili successi di questa terapia”. A Galli non era andata giù la presentazione di quella cura come un’occasione “di presentazione quasi autoreferenziale con troppe certezze sulla base di evidenze fornite da due casi” e che di conseguenza “i parenti dei pazienti ci richiedevano questa terapia certi del successo”. Sul farmaco anti-artrite tocilizumab, sperimentato anche in Cina, dopo i risultati incoraggianti ottenuti al Cotugno a metà marzo, l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha avviato la sperimentazione scientifica, con Napoli e Modena capofila. Nella stessa intervista a Selvaggia Lucarelli Massimo Galli ammette di aver sottovalutato l’epidemia all’inizio: “La sera del 20 febbraio, quella in cui poi venne fuori il caso del paziente 1 di Codogno, io stavo di fronte a 100 medici di base per una conferenza. Dissi: ‘Abbiamo avuto i due turisti cinesi che non hanno lasciato strascichi, sono stati chiusi i voli diretti dalla Cina prima che in altri paesi, forse ce la siamo cavata. L’unica possibilità è che ci sia arrivato il virus triangolando di sponda senza che ce ne siamo accorti, ma mi sembra una visione troppo apocalittica’. Mentre dicevo quelle cose un collega di fronte a me riceveva una telefonata si scusava “Mi spiace devo schizzare via per un’emergenza”. Era per il caso 1 di Codogno.

Aifa promuove Cura Ascierto, col Tocilizumab mortalità ridotta a un mese e nessun effetto collaterale. Redazione su Il Garantista il 13 Maggio 2020. A un mese e mezzo dal via ufficiale dello studio clinico, affidato al Pascale, Aifa promuove il Tocilizumab, il farmaco anti artrite usato per la prima volta in Italia dall’oncologo Paolo Ascierto su pazienti affetti da polmonite da Covid 19.  Il farmaco off label ha superato la prova riducendo la mortalità a un mese e, cosa ancora più importante, senza comportare effetti collaterali significativi sui pazienti a cui è stato somministrato. Inevitabile la soddisfazione di Ascierto: “L’analisi riguarda 301 pazienti – spiega l’oncologo – registrati per lo studio di fase 2 (in 20 ore tra il 19 e il 20 marzo) e 920 pazienti registrati successivamente tra il 20 e il 24 marzo, provenienti da 185 centri clinici distribuiti su tutto il territorio italiano. A causa della limitata disponibilità iniziale di farmaco, e della rapidissima richiesta da parte dei centri, in entrambi i gruppi, solo il 60% dei pazienti è stato trattato con Tocilizumab, in qualche caso anche a rilevante distanza di tempo dalla registrazione. Inoltre, verosimilmente a causa di una selezione operata nei centri, i pazienti trattati erano clinicamente peggiori di quelli non trattati, con insufficienza respiratoria più grave e forme di assistenza respiratoria più intensiva. L‘efficacia del Tocilizumab – continua Ascierto – è stata valutata attraverso il tasso di mortalità a 14 e a 30 giorni. A 14 giorni il tasso di mortalità riportato nella fase 2 è risultato 18.4%, considerando tutti i pazienti (trattati e non), e 15.6%, considerando solo quelli che hanno ricevuto il farmaco. Questi valori, pur se inferiori al 20% previsto a priori, non possono essere considerati significativi. Invece, i risultati sono significativi a 30 giorni, quando i valori di letalità sono 22.4% in tutti i pazienti e 20.0% nei soli trattati (rispetto al 35% che ci si aspettava a priori). L’analisi degli effetti collaterali non ha mostrato segnali rilevanti di tossicità specifiche. Complessivamente, quindi, lo studio TOCIVID-19, pur con i limiti di uno studio a singolo braccio (ovvero senza il braccio di controllo con il placebo), suggerisce che Tocilizumab possa ridurre significativamente la mortalità a un mese, ma che il suo impatto sia meno rilevante sulla mortalità precoce. Ci si augura che gli studi di fase 3 randomizzati tutt’ora in corso possano nelle prossime settimane confermare questi risultati. Infine, sarà anche interessante estrapolare i dati relativi a possibili biomarcatori [per esempio il valore basale dell’interleuchina-6] per verificare se possono essere utili nel selezionare i pazienti che possano avere un beneficio dal trattamento. I prossimi mesi ci vedranno sicuramente impegnati in una serie di ulteriori analisi dei dati“. Ascierto si lascia poi andare alla lista dei ringraziamenti: “Un grazie – dice – innanzitutto a due colleghi del Pascale, il virologo Franco Buonaguro con cui ho condiviso l’intuizione di somministrare il farmaco off label, e Franco Perrone, per il lavoro svolto con grande professionalità e perseveranza, e per essere stato in grado di finalizzare in soli 10 giorni questo importantissimo studio. Inoltre AIFA che ha dimostrato che quando il gioco si fa duro, è il momento in cui i duri scendono in campo. Grazie di cuore a nome di tutta la comunità scientifica e non. Non ultimi, i miei direttori Attilio Bianchi e Gerardo Botti, nonché il direttore Di Mauro, per averci supportato h24 in questi giorni intensi e per essere sempre stati al nostro fianco. Infine, mio “fratello” Enzo Montesarchio, senza il quale non avremmo mai potuto iniziare questa avventura“. Grande soddisfazione anche per il direttore dell’Irccs partenopeo, Attilio Bianchi: “1+1=3, la formula magica del Pascale rappresenta il paradigma fondamentale di questo risultato. Uno più uno 3 con ciascuno dei protagonisti di questa fantastica avventura, nei rapporti all’interno tra noi in Istituto, tra noi e il Cotugno, tra noi e tutti i centri che hanno supportato la ricerca. Grazie a tutti quelli che ci hanno creduto. Andiamo avanti nella lotta al Covid, perfezioneremo le nostre ricerche e contribuiremo insieme anche alla ricerca del vaccino. Dal Pascale al mondo l’idea di portecela fare, insieme“. E il direttore scientifico del più grande polo oncologico del Mezzogiorno, Gerardo Botti, aggiunge: “Esprimo innanzitutto la mia soddisfazioe e i miei più vivi complimenti ai colleghi che hanno tradotto una inaspettata quanto drammatica emergenza clinica in una brillante intuizione scientifica. Risultato più che soddisfacente considerando che lo studio Tocivid 19 è stato realizzato in condizioni di notevole difficoltà a causa della rapidità di arruolamenti di pazienti e della limitata disponibilità del farmaco. Pur tuttavia emerge un dato molto significativo relativamente al fatto che il Tocilizumab possa ridurre la mortalità a un mese. Ci aspettiamo a questo punto che gli studi di fase 3 radomizzati attualmente in corso  possano a breve confermare questo dato emerso dal protocollo lanciato dalla comunità scientifica partenopea“.

Buonaguro, il virologo del Pascale: “Vi racconto com’è nata con Ascierto l’idea di usare il Tocilizumab”. Rossella Grasso de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Le buone idee nascono spesso da una riflessione notturna. È successo così anche per il Tocilizumab, il farmaco proposto dal gruppo di Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale di Napoli. “Erano le due di notte e come talora accade stavamo chattando sul nostro gruppo di Whatsapp. Ci chiedevamo cosa potessimo fare per contribuire scientificamente nella lotta contro il Coronavirus. Ed è stato in quel momento che è venuto spontaneo dire che la parte finale dell’infezione Covid-19 è dovuta alla tempesta citochinica, come avviene anche in altre infezioni. Così ad Ascierto è venuto in mente il Tocilizumab che si usa per trattare le complicanze respiratorie che si sviluppano in corso di terapia in alcuni pazienti oncologici”. A raccontare quel momento che sta cambiando le sorti dell’emergenza è Franco Maria Buonaguro, Direttore della Struttura Complessa di Biologia Molecolare e Virologia Oncologica dell’Istituto Pascale. 1+ 1 = 3 – La forza di questa intuizione sta proprio nella multidisciplinarietà di tutto il gruppo del Pascale. “È una chat interna dove ci sono esponenti delle varie branche, dalla radiologia alla chirurgia, e a volte ci stuzzichiamo a vicenda su argomenti che saranno sviluppati il giorno successivo. L’interazione di competenze diverse permette di elaborare idee e concetti difficili da affrontare se uno rimane solo nella sua superspecializzazione”. Il medico virologo cita una storia della tradizione campana: “Già nel 1400 la Campania era famosa perché riusciva a risolvere problemi di matematica, come il triangolo di Tartaglia, perchè si lanciavano delle sfide pubbliche che venivano puntualmente vinte grazie all’interazione di competenze diverse”. Un modus operandi arrivato con successo fino ad oggi e che il Direttore Generale Attilio Bianchi ha fatto proprio definendolo “1+1=3”. “Vuol dire che la messa in comune di peculiarità diverse e complementari tra di loro possono dare dei risultati incredibili, come quello che stiamo ottenendo adesso con il Tocilizumab”.

IL TOCILIZUMAB – La “tempesta citochinica” di cui parla Buonaguro consiste in una eccessiva risposta del sistema immunitario stimolato dal virus con una sovraproduzione di sostanze mediatrici dell’infiammazione che finiscono per indurre un ulteriore danno al polmone anziché favorire la guarigione. Ed è qui che interviene il Tocilizumab. “Io non lo definirei un farmaco anti artrite reumatoide che quasi  sminuisce l’uso da parte del nostro gruppo di questa molecola. È un farmaco che blocca la risposta immunitaria in eccesso, cioè quella che determina un problema patologico ed è per questo che si utilizza nelle patologie autoimmuni. Serve a bloccare una risposta immunitaria eccessiva, come avviene anche per il Coronavirus. Ridotto a semplice "anti artrite reumatoide", sembra che siamo dei folli a volerlo usare per combattere le fasi severe della COVId-19”. Dopo l’intuizione è scattata la corsa alla messa in pratica. Il gruppo napoletano ha contattato più volte quello cinese, parlando in inglese e anche in cinese con l’aiuto di una interprete che lavora alla radioterapia del Pascale, per l’accoglimento dei medici cinesi durante il loro stage. “Il mercoledì notte chattavamo alle 2, il giovedì mattina abbiamo visto come muoverci con le aziende farmaceutiche, il venerdì abbiamo stilato un piccolo protocollo e subito consultato il lavoro scritto dal gruppo cinese non ancora pubblicato. Poi li abbiamo chiamati al telefono e fatto insieme tutte le riflessioni necessarie. È stata una lotta contro il tempo e il fuso orario”. Buonaguro racconta la gioia dei medici cinesi di quel giorno perché dopo mille pazienti curati ne erano rimasti solo 5: “Questi uomini stanno davvero lottando contro il virus”. Così poi già il sabato è iniziato il trattamento dei pazienti con il Tocilizumab. In soli 3 giorni il gruppo è riuscito a partire con la sperimentazione. “E altrettanto da record sono state le autorizzazioni da parte dell’AIFA: in 10 giorni siamo riusciti ad avviare una procedura che normalmente richiede almeno 3 mesi elaborata dal dottor Francesco Perrone”. Lo studio va avanti, consapevoli che si tratta di una terapia che cura i sintomi della malattia e che non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di un vaccino, che va prodotto studiando il virus stesso.

E SE IL TOCILIZUMAB FINISSE? – “Tutto può finire – continua Buonaguro – ma contemporaneamente anche se con caratteristiche diverse ci sono anche altri due anticorpi monoclonali che riescono a bloccare l’interleuchina 6. E inoltre si potrebbero individuare lungo il percorso biomolecolare di questo processo altri punti e altre molecole con cui poter intervenire. Questa scoperta ha aperto un filone nuovo di interventi per bloccare la tempesta citochinica. Quello che noi non sapevamo era se questo trattamento portasse complicazioni, favorendo il virus come succede con il cortisone e aumentasse la severità della malattia. Per questo è stato fondamentale contattare i cinesi: avere la certezza che il Tocilizumab non avrebbe minato la sopravvivenza di chi si ammala”.

L’AVIGAN – Sull’Avigan, il farmaco miracoloso di cui si parla tanto, che avrebbe risollevato le sorti del Giappone, il virologo resta cauto. “Va attenzionato – spiega – L’FDA Americana ha già autorizzato il suo utilizzo per patologie influenzali. C’è stato qualche problema di genotossicità durante la sperimentazione sui topi. Ma questi studi vanno presi con le pinze: bisogna ancora vedere come migliorare la dose, capire se si può somministrare in tutte le fasce d’età. Ma il fatto che gli americani ne abbiano approvata la somministrazione, e loro sono sempre molto stringenti su questo, mi rassicura molto. So che questo farmaco è stato utilizzato anche in Cina e che da lì è partito anche uno studio clinico per testarlo. Certamente è un farmaco che come tanti altri antivirali potrebbe essere usato in una fase molto precoce della malattia, certamente non quando un paziente viene intubato”.

CI SI PUO’ RIAMMALARE DI CORONAVIRUS? – “Si, ma di un altro ceppo”. Il virologo spiega che il sistema immunitario di solito riesce a sviluppare una memoria duratura nei confronti di virus a DNA. “Questi sono più stabili perché il DNA è composto da una doppia catena di acidi nucleici la cui sequenza tende a conservarsi”. Per questo motivo gli antigeni virali che risultano dalla trascrizione proteica tendono a essere molto simili tra loro se non uguali e ciò facilita la produzione di anticorpi che garantiscono una memoria a lungo termine che impedisce la reinfezione. “Il Coronavirus invece è un virus con genoma ad RNA, come quello dell’epatite C, molto meno stabile e tendente alla mutazione continua”. Questo significa che il sistema immunitario ha più difficoltà a elaborare anticorpi che possano proteggere da un nuovo attacco. Ecco perché è anche più complesso trovare un vaccino come già avviene per la classica influenza: gli antigeni variano e di conseguenza gli anticorpi non riescono a neutralizzare i nuovi virus ed a proteggerci da una nuova infezione.

La Cura Ascierto salva la vita, risultati più forti delle polemiche. Bruno Buonanno de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Il progetto della Regione è di tenere pronti per l’eventuale picco di Coronavirus in Campania 280 posti letto di terapia intensiva dotati di respiratore polmonare. E ogni ospedale con trasferimenti di pazienti e ristrutturazioni lampo lavora per fronteggiare la pandemia di Coronavirus. Attualmente, in Campania, i pazienti di Covid-19 in terapia intensiva sono 111, 198 i posti letto attivi in terapia intensiva e 408 quelli attivati per la degenza dei malati. La prima buona notizia arriva dall’Azienda dei Colli che ieri ha “recuperato” nell’ospedale Cotugno quattro posti letto di terapia intensiva. I controlli Tac in mattinata hanno permesso al professore Paolo Ascierto, leader degli studi sul melanoma, e a Vincenzo Montesarchio, direttore dell’oncologia del Monaldi, di programmare i trasferimenti nel reparto Covid per quattro ricoverati che hanno superato la fase acuta (e grave) di contagio da Coronavirus grazie alla sperimentazione che la Fondazione Pascale autorizzata dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) porta avanti con gli infettivologi e i colleghi oncologi dell’Azienda dei Colli. Il tocilizumab, farmaco per la cura dell’artrite reumatoide, è stato usato in Cina su oltre venti pazienti contagiati dal Coronavirus e ha garantito risposte molto positive. La Fondazione Pascale ha da tempo referenti in tutti i continenti: Ascierto era in contatto con i colleghi di Whuan che lo hanno aggiornato su tempi e modalità della sperimentazione asiatica. L’arrivo del Coronavirus in Italia e in Campania ha dato la possibilità al Pascale e all’azienda dei Colli di far partire una sperimentazione “off label” a base di Tocilizumab su diciotto pazienti contagiati dal Coronavirus e ricoverati in terapia intensiva. I risultati ottenuti con il farmaco per la cura dell’artrite reumatoide hanno permesso al Pascale di ottenere dall’Aifa il via libera far partire, come centro pilota, una sperimentazione nazionale con il Tocilizumab. “Questi quattro pazienti – ammette con soddisfazione Ascierto – oggi sono usciti dal tunnel della terapia intensiva. I loro parametri respiratori miglioravano di giorno in giorno, abbiamo controllato con la Tac le loro condizioni polmonari decidendo di liberarli dall’intubazione e di trasferirli in un reparto ordinario per pazienti Covid. Siamo contenti, ma il nostro rimane un ottimismo moderato: questo è un primo risultato positivo della sperimentazione che stiamo portando avanti. L’arruolamento si è chiuso in 24 ore con l’adesione di strutture ospedaliere di tante città italiane e ogni giorno da altri ospedali arrivano richieste all’Aifa per collaborare a questo studio”. Cabina di regia al Pascale, il ciak spetta ad Ascierto che nell’Azienda dei Colli ha come primo referente il direttore dell’oncologia del Monaldi, Enzo Montesarchio. “Abbiamo altri venti pazienti – chiarisce Ascierto – che partecipano alla sperimentazione con il Tocilizumab, farmaco che non combatte il Coronavirus ma ci permette di superare una serie di complicanze in chi ne è contagiato. La collaborazione del Cotugno è eccezionale, giusto ricordare con Enzo Montesarchio i colleghi Fiorentino Fragranza, Roberto Parrella e Luigi Atripaldi, l’analista che costantemente controlla l’interleuchina 6 nei pazienti inseriti nella sperimentazione”. Sul Coronavirus lavora tutta l’Italia e, mentre Napoli trasferisce dalla terapia intensiva al reparto “ordinario” quattro pazienti, a Catania sono stati dimessi per tornare a casa, dopo un ricovero di qualche giorno nel reparto di malattie infettive, tre contagiati da Coronavirus che non presentavano un quadro particolarmente complicato. Ma com’è arrivato e da dove questo virus? All’interrogativo risponde il Campus biomedico di Roma chiarendo che il Coronavirus avrebbe attraversato due volte le frontiere italiane arrivando da Cina e Germania, Paese dove i contagi sono in crescita.

Il volto di Ascierto è ormai il simbolo della scienza contro il Coronavirus. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. Dopo Maradona, Pasolini e Martin Luther King anche il dottor Paolo Antonio Ascierto entra nell’olimpo delle opere di Jorit. Lo street artist napoletano in una sua Instagram stories ha mostrato il volto del ricercatore del Pascale, in prima linea in questa emergenza sanitaria. Il professore beneventano è a capo della task force che, insieme ai medici del Cotugno e ad alcuni ricercatori cinesi, ha avviato le prime sperimentazioni sul Tocilizumab, il farmaco contro l’artrite reumatoide, utilizzato per la prima volta a Napoli per combattere le infiammazioni polmonari più gravi provocate dall’infezione da Coronavirus. Sotto l’immagine del viso del dottor Ascierto, contrassegnato dai segni rossi della Human Tribe, tipici delle opere di Jorit, un invito dell’artista: “Difendiamo e miglioriamo il servizio sanitario pubblico nazionale”.

·         Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..

Giuseppe Remuzzi, la ricetta anti-pandemia: "Il coronavirus si cura da casa, inutile aspettare il risultato del tampone". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 15 dicembre 2020. Proprio là, nella Bergamasca, dove più ha infierito il virus, il cerchio potrebbe chiudersi. Tre settimane fa, Marco Imarisio, inviato del Corriere della Sera, aveva scritto di un documento firmato dal professor Giuseppe Remuzzi e altri tre suoi colleghi, Fredy Suter, per anni primario nel reparto di Malattie Infettive all'Ospedale di Bergamo, Monica Cortinovis e Norberto Perico. Nel testo ci sono le indicazioni su come prevenire l'infiammazione da Covid-19, impedendole di degenerare in polmonite interstiziale, curando a casa i primi sintomi. Libero è venuto in possesso del prezioso manoscritto. Remuzzi vanta decine di pubblicazioni scientifiche. È direttore dell'Istituto Farmacologico Mario Negri ma oggi parla unicamente come medico di corsia, che combatte il male tutti i giorni , ricavandone esperienza. Seduto alla sua scrivania, è restio ad aprirsi, dopo le polemiche che nei giorni scorsi hanno travolto gli scienziati, attaccati per il vezzo di andare spesso in televisione a esprimere pareri discordanti. «Ora fanno anche le classifiche e danno il voto» scherza il professore, che vanta uno tra gli indici scientifici più elevati tra i ricercatori italiani. Alla sua scrivania è prudente, sa che l'argomento è delicato e lui sta per dire qualcosa di importante, ma non vuole suscitare polveroni né impartire lezioni di medicina. Obiettivo dell'intervista è solo comunicare la sua esperienza di dottore ospedaliero e ricercatore.

Cos' è questo documento?

«Innanzitutto le dico cosa non è. Non è un protocollo scientifico né una linea guida, ma semplicemente la sintesi delle nostre esperienze sull'efficacia dei farmaci nella cura del Coronavirus messa nero su bianco. Tutto quello che c'è scritto si basa sul poco che c'è in letteratura sul Covid-19 e sulla nostre (poche) conoscenze della malattia sul campo».

Com' è nato il documento?

«Riceviamo centinaia di richieste di informazioni da tutto il mondo, specie dall'America Latina e dall'Africa. Noi rispondiamo a chiunque, anche se ci richiede moltissimo tempo. Questo documento contiene i consigli che noi diamo ai medici di Paesi che non hanno un sistema sanitario come il nostro su come curare il Covid. L'abbiamo pubblicato anche sulla rivista Clinical and Medical Investigation; ma, ci tengo a precisare, non è attribuibile all'Istituto Mario Negri».

Si tratta di linee guida?

«No. Una terapia, prima di diventare linea guida, impiega degli anni. Il meccanismo è complesso, richiede molti studi, poi deve formarsi una letteratura medica, così finisce che i protocolli di cura, nel momento in cui vengono emanati, sono già vecchi. Il documento è solo l'indicazione della terapia che noi utilizziamo».

Quindi non segue le linee guida?

«Di fronte all'emergenza bisogna secondo me utilizzare le conoscenze sulle cause della malattia. Sono saperi imperfetti, ma ci sono. Ti aggrappi a tutto quello che c'è in letteratura e alle esperienze che hai maturato nel trattare malattie simili. Se hai troppe persone che stanno male e i letti in ospedale sono pieni, devi iniziare ad assistere la gente a casa».

Parliamo della terapia.

«Come per tutte le malattie, anche per il Covid-19 è fondamentale intervenire tempestivamente. Prima curi, più hai successo. Bisogna evitare il più possibile di arrivare al ricovero in ospedale. E questo aiuta anche gli ospedali ad assistere i malati gravi, e solo quelli, senza essere impegnati su troppi fronti anche con malati di forme lievi. Secondo noi, il discorso vale anche per le persone anziane: se le curi per tempo a casa, probabilmente eviti il ricovero anche a loro. Gli anziani hanno molto spesso problemi di coscienza, ricoverarli li destabilizza».

D'accordo, ma se non so di essere malato, non mi posso curare...

«La malattia funziona così: si ha una prima fase asintomatica che dura da tre a cinque giorni. La quantità di virus in corpo in quel momento è già alta, e lo è molto di più nei giorni successivi, proprio quando cominciano i primi sintomi; per questo il contagio si propaga rapidamente. La peculiarità del nostro approccio è iniziare la cura ai primi sintomi, senza aspettare il risultato del tampone».

Non è pericoloso curarsi senza sapere cosa si ha?

«No. È più pericoloso aspettare di fare il tampone, e quindi che arrivi l'esito, senza intanto fare nulla, perché rischia di passare anche una settimana e a quel punto si interviene quando l'infiammazione è avanzata e la patologia tende ad aggravarsi, cosa che di solito succede dopo dieci giorni dai primi sintomi. La malattia nella fase iniziale, prima di scendere ai polmoni, si comporta come le altre malattie virali delle vie respiratorie alte, ed è lì che va affrontata. Noi vorremmo prevenire la fase che gli inglesi chiamano "hyperinflammation", infiammazione eccessiva, che trascina con sé una serie di fenomeni negativi».

Cosa bisogna fare allora?

«Appena si avvertono i sintomi più comuni: tosse nel 67,8% dei casi, febbre (43%), affaticamento e spossatezza (38,1%) e meno frequentemente dolori ossei e muscolari (14,9%), mal di gola (13,9%) e mal di testa (13,6%) o, più raramente, nausea e vomito (5%) o diarrea (3,8%) noi suggeriamo di assumere nimesulide o celecoxib, per via orale, se non ci sono controindicazioni, per un massimo di dieci giorni. Nimesulide e celecoxib sono inibitori della ciclossigenasi 2 e ci sono molti dati, riassunti in un lavoro pubblicato sul Journal of Infectious Diseases, che dimostrano che questi farmaci inibiscono quella che gli immunologi chiamano "tempesta citochinica" e limitano la fibrosi interstiziale dei polmoni. Per quanto riguarda le dosi e il periodo di somministrazione però, è il medico di famiglia che deve decidere. Può ispirarsi, se vuole, al nostro lavoro appena pubblicato su Clinical and Clinical Investigations. Lì c'è tutto: dosi, tempi di somministrazione, controindicazioni».

Questi antinfiammatori sono sufficienti?

«Sì. In subordine, per esempio se i pazienti hanno segni di danno epatico o problemi cardiaci, possono sostituire quei farmaci con l'aspirina».

Molti prendono la Tachipirina...

«Abbassa la febbre ma non ha un'azione antinfiammatoria. E poi, secondo un lavoro pubblicato su Science Direct da ricercatori francesi per conto della società di farmacologia, ci sono ragioni teoriche per pensare che non sia il farmaco ideale (potrebbe anche favorire, in seguito, un aggravarsi della malattia)».

Se poi si scopre che non sono positivo, ci sono controindicazioni?

«No, perché questo è quello che si fa per qualunque virosi delle alte vie respiratorie che dia dolori muscolari, articolari e febbre. Se uno non ha il Covid-19, si limiterà a guarire i malesseri che l'hanno messo in allarme».

Quando va chiamato il medico?

«Appena compaiono i primi sintomi. Gli antinfiammatori sono farmaci da maneggiare con attenzione. In certi casi, per fortuna rari, possono avere effetti negativi. Insomma, cura a casa non significa affatto cura fai da te. Su questo vorrei essere molto, molto chiaro, perciò in questa prima fase sarebbe molto importante che il medico vedesse il paziente a casa almeno una volta, poi potrebbe essere sufficiente sentirsi al telefono, molto meglio se tramite videochiamate».

Che risultati si ottengono con gli antinfiammatori?

«I pazienti che abbiamo curato così di solito stanno meglio subito, nel giro di tre-quattro giorni. Al quarto giorno, facciamo comunque pochi esami del sangue. Se è tutto normale, si procede ancora per qualche giorno con nimesulide o aspirina. Se i valori sono alterati, il medico giudica se è il caso di fare una radiografia del torace (sempre a casa) e passare eventualmente ad altre terapie».

Cosa significa valori alterati?

«Se si evidenzia che si procede verso una iper-infiammazione o una coagulazione».

A quel punto si viene ricoverati?

«Tendenzialmente no. Ripeto che, se si parte per tempo, il ricovero è una rarità. Si può continuare da casa anche se i sintomi peggiorano, ma allora può servire il cortisone; anche qui, di nuovo, lasciamo dosi e modalità di somministrazione al medico di famiglia. Se il D-dimero aumenta anche di poco, per prevenire la trombosi somministriamo eparina a basso peso molecolare. Anche qui, sempre al medico saranno affidati i dosaggi e i tempi di somministrazione».

Però secondo il Comitato Tecnico Scientifico per somministrare l'eparina serve il ricovero.

«Ma l'Agenzia del Farmaco la autorizza anche a casa e nelle residenze per anziani. Solo in Lombardia ci sono quasi trecentomila persone curate a casa con qualche forma di eparina».

Niente antibiotici?

«Per le persone più fragili e anziane, o se la patologia è già degenerata in polmonite batterica, o si sospettano infezioni batteriche, somministriamo azitromicina. Se il paziente però ha una storia di aritmie cardiache, meglio cefixima: può essere ritenuta una valida alternativa all'azitromicina».

E l'ossigeno?

«Un supporto di ossigeno nelle prime fasi della malattia, possibilmente prima della comparsa dei sintomi polmonari, se il saturimetro indica una diminuzione progressiva dell'ossigeno nel sangue».

Scusi se insisto, ma mi sembra un approccio rivoluzionario: tutto questo stando a casa?

«Se si parte presto, di solito si riesce a evitare il ricovero».

Parliamo anche di pazienti anziani e con diverse patologie?

«Sì, secondo il professor Suter ne abbiamo perso solo uno, ma perché siamo intervenuti in ritardo, a situazione già compromessa».

Nel complesso che efficacia riscontra nella terapia?

«Per adesso è tutto empirico anche se ci sono importanti lavori in letteratura a supporto di quanto noi facciamo. Per esempio c'è un lavoro pubblicato su Anesthesia and Analgesia, un giornale americano, che dimostra come l'aspirina riduca la necessità di terapia intensiva e di ventilazione assistita e riduca la mortalità. Presto inizieremo uno studio vero e proprio, questo sì è un ambito di competenza dell'Istituto Mario Negri. Alla fine di questo studio, che durerà però diversi mesi, potremo dire se questo tipo di approccio ha o no una dignità scientifica. Adesso il nostro lavoro si limita a rispondere alla domanda che ci fanno spessissimo tanti medici: "come curo il mio paziente a casa?" E questo è proprio il titolo del lavoro».

Quanti medici seguono il vostro approccio?

«Per ora il professor Suter ha coinvolto una quindicina di medici di base. I primi risultati sono incoraggianti. Lui mi ripete tutte le sere: "Chi inizia a seguire la cura come diciamo noi, non ha nessuna intenzione di tornare indietro", e la sua voce esprime una sicurezza che infonde ottimismo».

Cosa pensa della terapia monoclonale, tratta dagli anticorpi dei pazienti guariti?

«Nella maggior parte dei casi funziona nel prevenire l'evoluzione della malattia. Lo fa potenziando le difese dell'individuo, perché non tutti sono in grado di produrre abbastanza anticorpi per difendersi da soli. Ma la risposta clinica è molto diversa da paziente a paziente e dipende anche dalla fase della malattia in cui si inizia».

La prossima sfida però è fermare il contagio.

«Se il 95% dei cittadini seguisse alla lettera le indicazioni mediche: mascherine, locali areati, igiene, distanziamento, poche persone nella stanza, il virus farebbe molta fatica a circolare e, secondo uno studio pubblicato su uno dei giornali di Science riferito alla popolazione americana, si risparmierebbero moltissimi morti. Il contagio può avvenire anche nei giorni immediatamente precedenti allo sviluppo dei sintomi, cioè quando si è del tutto asintomatici. Invece chi è guarito, anche se ancora positivo, di solito ha una carica virale molto bassa».

E poi ci sono altri asintomatici...

«Sì, quelli delle fasi finali dell'epidemia. Uno studio cinese, pubblicato su Nature Communication ha identificato 300 asintomatici su nove milioni di persone, ha rintracciato tutti i contatti, erano più di 1174 e nessuno si è infettato». 

Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone". Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale.

È davvero così?

«Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi».

Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?

«Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale».

Che attualmente però non c’è…

«No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine».

Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?

«Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico».

Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?

«Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa».

Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?

«Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale».

Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?

«C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione».

Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?

«Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale».

Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?

«Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid».

Cure a casa: il cortisone  si può prendere? Serve il saturimetro, come si usa? Il Corriere della Sera il 14/11/2020.

1. Sono positivo al coronavirus, ho sintomi non gravi. Quali sono le prime cure?

La prima regola è non prendere iniziative autonome e seguire le indicazioni del medico curante. L’eventuale assunzione di qualsiasi farmaco deve sempre essere preceduta dal colloquio col medico.

2. Devo prendere il paracetamolo per abbassare la febbre?

Sì, va preso quando la febbre supera i 38,5, in caso di mal di testa e dolori muscolari anche se i tre sintomi si presentano isolatamente. Se la febbre è più bassa, può essere tollerata e non dà fastidio, non ha senso assumere questi farmaci. Il paracetamolo è un antipiretico con scarsa attività antinfiammatoria ed è anche il più sicuro tanto che viene dato ai bambini. Non causa danni allo stomaco.

3. Devo avere in casa il saturimetro?

È lo strumento più importante da tenere in casa assieme al termometro. Applicato al dito, serve a monitorare la funzione respiratoria, cioè a misurare la saturazione di ossigeno. I valori normali sono attorno al 96-98%. Il modo più corretto di utilizzare il piccolo apparecchio è a riposo e anche dopo aver camminato per 6 minuti, dentro casa, il cosiddetto walking test. Se dopo questa prova la saturazione non varia rispetto al valore iniziale significa che i polmoni funzionano bene. Se invece i valori scendono sotto il 93-94% il medico predisporrà il tipo di intervento ed eventualmente l’esecuzione di un’ecografia polmonare a domicilio. Sarebbe questo il percorso ideale per evitare, quando la situazione non desta allarme, il ricovero.

4. E il cortisone?

Secondo le indicazioni dei maggiori organismi internazionali va riservato a pazienti con grave insufficienza respiratoria, sotto il 90%, che richiedono ricovero. Quindi non dovrebbe avere un impiego casalingo. C’è invece un certo abuso quando viene consigliato impropriamente per abbassare la febbre. Può essere dannoso. La raccomandazione è non usarlo se non c’è reale necessità perché può favorire la replicazione del virus. Il cortisone si è invece dimostrato una terapia fondamentale in caso di ricovero, dato precocemente. Nei pazienti giovani, adulti e anziani paucisintomatici le linee guida della Regione Lazio sconsigliano spray, aerosol (entrambi favoriscono la diffusione del virus) e cortisone.

5. Posso prendere l’eparina?

Può essere usata a casa in basse dosi, come prevenzione dei fenomeni trombo-embolici, vale a dire dei coaguli di sangue che finiscono nei polmoni, prevalentemente in chi è a letto. Qualcuno ritiene possa avere attività antivirale e infiammatoria. Si tratta di un’iniezione somministrata con un piccolo ago, sempre su consiglio del medico.

6. Gli antibiotici hanno un effetto sul Covid-19?

Servono raramente ma nonostante la raccomandazione a usarli con cautela in questi mesi viene registrato un abuso. Non basta avere tosse o febbre per assumerli, può essere prescrizione inappropriata. Se febbre e tosse si protraggono per qualche giorno, possono essere prescritti ma sempre dietro valutazione del medico, meglio se in seguito a visita domiciliare.

7. Le vitamine C e D mi aiutano?

Pur non essendoci prova di sicuro beneficio, l’assunzione di 1 g al giorno di vitamina C e un certo dosaggio di vitamina D e zinco, metallo di cui possiamo essere potenzialmente carenti, può essere ragionevole. Questo tipo di integrazione può aiutare ad aumentare le difese all’aggressione del virus e non ha controindicazioni. (Ha collaborato Francesco Menichetti, ordinario di Malattie infettive all’Università di Pisa).

Coronavirus, come ci si cura a casa: tutto quello che c'è da sapere. Chi presenta sintomi lievi può curarsi a casa seguendo i consigli del proprio medico curante. Fondamentale non prendere iniziative autonome. Federico Giuliani, Sabato 14/11/2020 su Il Giornale. Il piano per frenare la diffusione del coronavirus passa anche (e soprattutto) dalla cura dei pazienti che presentano sintomi lievi, come febbre, tosse, mal di gola e dolori muscolari. Queste persone, ovviamente, non devono essere ricoverate in ospedale: possono curarsi direttamente da casa, seguendo qualche semplice regola e le prescrizioni del proprio medico. Sono sempre più numerosi i cittadini che si trovano in una situazione del genere. Per evitare di farsi trovare impreparati è bene focalizzare l’attenzione su un paio di concetti fondamentali.

Farmaci e medici di famiglia. Innanzitutto è fondamentale non prendere iniziative autonome. Bisogna sempre seguire le indicazioni del medico curante, a maggior ragione se stiamo pensando di assumere un farmaco. Nel caso in cui la febbre dovesse superare i 38,5, con mal di testa e altri dolori sparsi, è possibile prendere una tachipirina. Se la febbre è bassa ha poco senso prendere il paracetamolo.

Due sono gli strumenti da avere sempre a portata di mano: il saturometro e il termometro. Quest’ultimo non ha bisogno di presentazioni, trattandosi dell’oggetto del quale ci si serve per misurare la temperatura corporea. Il saturometro, applicato al dito, serve invece a monitorare la funzione respiratoria, ovvero la saturazione dell’ossigeno. Ricordiamo che i valori normali si aggirano intorno al 96-98%. Per quanto riguarda il cortisone, sottolinea il Corsera, va riservato ai pazienti con grave insufficienza respiratoria. L’eparina può essere usata a casa in basse dosi per prevenire fenomeni trombo-embolici, come i coaguli di sangue che possono finire nei polmoni. Gli antibiotici servono raramente e non se ne dovrebbe abusare. Nessun problema per l’assunzione di un grammo al giorno di vitamina C e un certo dosaggio di vitamina D e zinco: non ci sono prove di benefici assicurati ma neppure indicazioni.

Le linee guida. Ricapitolando, chi ha il Covid in forma lieve può essere curato a casa con l’ausilio dei medici di famiglia. Paracetamolo per chi ha soli sintomi febbrili; antinfiammatori se il quadro del soggetto inizia a presentare altri sintomi; cortisone solo in casi più gravi; eparina per prevenire fenomeni trombo-embolici a fronte di grande difficoltà di movimento. La malattia può essere classificata all’interno di quattro fasce. Abbiamo un’infezione lieve qualora il paziente presenti febbre ma non dispnea e alterazioni radiologiche. L’infezione è moderata in caso di polmonite e ossigenazione del sangue sui valori di soglia, severa se quest’ultimo valore si abbassa sotto la suddetta soglia e in stato critico se si presenta insufficienza respiratoria, choc settico o insufficienza multiorgano. Le linee guida sono queste, ma sono soggette a modifiche di regione in regione. Basta leggere la storia di Salvo Amato, imprenditore 35enne di un comune della provincia di Palermo. Salvo ha contratto una forma lieve di Covid ed è uno dei tanti pazienti che si è curato a casa propria. "Ho chiamato il medico e gli ho spiegato i miei sintomi: affaticamento respiratorio, apnea e dolori muscolari. Mi ha prescritto una terapia a casa", ci racconta. La terapia assegnata al paziente consisteva in una pillola al giorno per sei giorni di Zitromax, e una pillola al giorno per sette giorni di Deltacortene con dosaggio a scalare fino a un quarto di pasticca. "Dopo cinque giorni – ha concluso Salvo – sono venuti per farmi il tampone che ha dato esito negativo. Per fortuna dopo una decina di giorni il mio corpo ha reagito e sono uscito dal tunnel anche se non sono stati giorni facili. Adesso ho paura di riprendere nuovamente il virus". Le linee guida sono chiare: antibiotici e cortisone andrebbero assegnati con cautela e solo se l'infezione è di una certa gravità. Eppure, nel caso di Salvo, il medico ha comunque prescritto questi farmaci.

Valentina Arcovio per ilmessaggero.it il 3 novembre 2020. Integratori di vitamina d e lattoferrina per prevenire e combattere più efficacemente l'infezione. Eparina e cortisonici per contrastare le complicanze. Antivirali e antimalarici, invece, bocciati. E il sogno, si spera presto raggiungibile, di una cura con gli anticorpi monoclonali e di un vaccino. L'armamentario anti-Covid è piuttosto eterogeneo. Non c'è nulla ancora che possa prevenire o combattere direttamente l'infezione. Ma si comincia ad avere un'idea più chiara di cosa funziona davvero e cosa invece no. Vitamina D in primis. Ma anche vitamina A, B, C ed E. Poi minerali come zinco e selenio. E la lattoferrina, promossa da uno studio dell'Università Tor Vergata di Roma. Questi sono gli integratori principali che, a vario titolo, stanno riscuotendo un gran successo per il loro presunto ruolo di «rinforzo» del sistema immunitario e per le potenziali attività antivirali. In alcune farmacie e sul web questi integratori stanno andando a ruba. «Ma sarebbe meglio assumere le vitamine tramite l'alimentazione e passare agli integratori solo su consiglio del medico», dice Silvia Migliaccio, specialista in Scienze della Nutrizione Umane presso l'Università degli Studi di Roma Foro Italico, che proprio sull'argomento ha tenuto un corso ECM FAD dal titolo «Nutrizione ai tempi del coronavirus», organizzato da Consulcesi.

Antivirali. Remdesivir, sviluppato contro l'Ebola, e la combinazione dei farmaci anti-Hiv liponavir/ritonavor sono stati molto utilizzati all'inizio della pandemia. Diversi studi preliminari ne hanno incoraggiato la somministrazione ai malati. «Poi quando sono iniziati a venire fuori i dati completi abbiamo capito che non sono efficaci», dice Silvio Garattini, presidente dell'Istituto Mario Negri di Milano. La bocciatura finale è arrivata di recente da uno studio dell'Organizzazione mondiale della sanità, che ha parlato di «effetti minimi o nulli».

Antimalarico. Altro farmaco bocciato dall'Oms è l'idrossiclorochina. Il suo uso è stato consentito nelle prime fasi dell'epidemia, l'uso off-label o sulla base dei dati preliminari disponibili. All'inizio della pandemia lo stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ne ha decantato i presunti effetti contro Covid-19. «Ora però sappiamo che non funziona», precisa Garattini.

Eparina. «È uno degli anticoagulanti più utilizzati per la prevenzione e la terapia delle tromboembolie venose e arteriose nei soggetti sottoposti a intervento chirurgico o allettati», dice Garattini. Il suo utilizzo è in corso di valutazione per contrastare le alterazioni della coagulazione e le complicazioni trombotiche nei pazienti Covid-19. «Ma si è mostrata risolutiva in certi casi di infiammazione per liberare i capillari ostruiti e permettere al corpo di ossigenarsi», spiega Garattini.

Desametasone. È un farmaco steroideo utilizzato anche per curare Trump. Viene somministrato ai pazienti nella fase più acuta di Covid-19 e sembra efficace nei pazienti affetti da iperattivazione del sistema immunitario, ultima fase della malattia. «È stato dimostrato che questo derivato del cortisone riduce del 30% la mortalità dei pazienti», dice Garattini.

Anticorpi. «È probabilmente la nostra più importante chance di avere una cura in tempi relativamente brevi», dice Giuseppe Novelli, genetista presso l'Università di Roma Tor Vergata, impegnato attualmente in una collaborazione internazionale che ha individuato quattro potenziali molecole efficaci. Secondo il genetista, neanche la battuta d'arresto annunciata da Eli Lilly, riguardante un anticorpo monoclonale che stava testando, dovrebbe scoraggiare la ricerca su questo fronte. «Allo studio ce ne sono tantissimi e circa una decina sono in fase avanzata di sperimentazione», riferisce Garattini. Entro la fine dell'anno dovrebbero arrivare in Italia le prime dosi del vaccino Oxford/Astrazeneca, a cui ha contribuito anche l'azienda Irbm di Pomezia. A livello globale, la Cina fa da apripista, somministrando i vaccini prodotti dalle sue aziende - Sinovac Biotech, Sinopharm e CanSino Biologic - prima che si concluda l'ultima fase di sperimentazione.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2020. «Carissimi, io e la mia famiglia stiamo bene, anche se sfortunatamente i casi di Covid-19 stanno aumentando velocemente in tutta l' Africa, compreso il mio Ghana. Il vostro documento è molto utile, lo faremo circolare in tutto il Continente, perché è necessario togliere pressione dagli ospedali, che sono oramai sovraccarichi». L' ultima lettera è arrivata dal dottor Dwomoa Adu, primario dell' ospedale di Accra, che è stato il primo a scrivere chiedendo aiuto, insieme a un suo collega sudafricano, seguiti poi da medici del Messico, del Cile, dell' India. C' era una volta, e non era molto tempo fa, un Paese che si vantava di essere un esempio per tutti nella lotta alla pandemia. Le cose sono un po' cambiate dall' inizio dell' estate. Ma è vero che la grande livella del coronavirus pone a tutti gli stessi problemi. Uno dei più importanti, forse il più sottaciuto nel Grande dibattito, riguarda la cura. Come curarsi, e come farlo a casa. Le richieste arrivate all' Istituto Mario Negri e all' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dai medici di mezzo mondo con i quali Giuseppe Remuzzi aveva collaborato quando era presidente della Società internazionale di Nefrologia, hanno avuto l' effetto di produrre un documento in fase di pubblicazione sulla rivista Clinical e Medical Investigation. E qui la storia non è più l' aiuto internazionale dato da alcuni medici italiani, ma il contenuto del documento firmato anche da Norberto Perico, Monica Cortinovis e dal professor Fredy Suter, per dodici anni primario di Malattie infettive all' ospedale di Bergamo. Perché c' è qualche novità di rilievo. La prima è che la cura dei pazienti a casa non aspetta l' esito del tampone e prevede interventi molto semplici. Tutto passa dal medico di base, ovviamente. Dalla sua visita, che sia in presenza o via Internet. Il fai da te non esiste, con il coronavirus, e anche qui il concetto viene ribadito a lettere cubitali. Ma quei 5-7 giorni di attesa per il responso sono preziosi, perché senza fare nulla possono diventare il ponte tra una infiammazione alle alte vie respiratorie e una possibile polmonite interstiziale. Negli altri approcci prima si chiama il medico, come è giusto che sia, poi si aspetta l' esito del tampone. Partendo in anticipo, scrivono i quattro autori, «si previene nella maggior parte dei casi la reazione infiammatoria che comunque quando si manifesta viene colta precocemente ed è quindi trattabile a domicilio». Appena c' è un sintomo, quelli soliti, tosse (presente nel 67% dei casi), febbre (43%), stanchezza, mialgia, mal di gola, nausea, vomito, diarrea, si fa il tampone, ma non si aspetta, e si comincia, trattando così il coronavirus come qualunque altra infezione delle vie respiratorie. Già, ma in che modo? L' altro aspetto importante è lo sdoganamento dei farmaci antiinfiammatori, che in questo nuovo approccio alla terapia domiciliare vengono somministrati dall' inizio. Qui la Tachipirina, l' elemento base di quasi tutte le cure cosiddette preventive, è sostituita dall' Aspirina ai primi sintomi, in caso di dolori anche dall' Aulin (mai insieme) o altri rimedi simili, usati in quanto inibiscono l'enzima che scatena le infiammazioni all' interno del corpo, fino ad arrivare, soltanto nei casi più seri, al tradizionale cortisone. È un protocollo frutto dell' esperienza sul campo, sperimentato su cinquanta persone con tampone positivo e con sintomi, tutte guarite senza passare dall' ospedale. Suter, uno di quei dottori in pensione che nello scorso febbraio ha sentito il dovere di tornare in corsia per dare una mano, aggiunge che finora in Italia sono una trentina i medici di base che hanno provato questo metodo, sperimentandolo quindi su una platea stimata intorno ai quattrocento pazienti. «E nessuno di loro vuole tornare indietro». L' opinione degli autori è che sia necessaria una medicina che abbia proprietà antinfiammatorie, come le due sopracitate, virtù che manca al paracetamolo, elemento base della Tachipirina. «Già durante la prima ondata a nostro avviso fu un errore utilizzare il cortisone in ritardo». Ovviamente, non è che con tre giorni di Aspirina finisca tutto. Si procede con pochi e semplici esami, fattibili anche a domicilio, come il classico prelievo di sangue, per vedere se non vi sia un rialzo degli indici di infiammazione e tenere sotto controllo gli altri valori, a cominciare dalla coagulazione e dalla funzione renale. La durata del trattamento dipende dall' evoluzione clinica. In caso di peggioramento, si passa a cortisone ed eparina. L' antibiotico, in genere l' Azitromicina, si è riservato ai soggetti fragili. In certe condizioni, il medico di base può procedere alla somministrazione di ossigeno. «Sono piccole modifiche che speriamo risultino interessanti per curare subito e limitare i ricoveri», dicono Remuzzi e Suter. Purché se ne parli, non solo di vaccini, tamponi e negazionismi. Ma anche di cure.

Ecco come funziona il farmaco che ora può bloccare il Covid. Si chiama Molnupiravir e sui furetti riesce a bloccare l'avanzata del virus. Attenzione, però: tra animali e uomo c'è un abisso. "Sono ancora in corso sperimentazioni". Alessandro Ferro, Sabato 12/12/2020 su Il Giornale. La nuova speranza contro il Covid-19 arriva da un farmaco testato sugli animali: si chiama Molnupiravir e blocca la trasmissione del virus nei furetti. Che sia adatto anche all'uomo c'è di mezzo un oceano ma intanto, in attesa dei vaccini, c'è un'altra potenziale buona notizia nella guerra alla pandemia.

L'esperimento su furetti. Soltanto pochi giorni fa (clicca qui per la lettura dell'articolo) avevamo dato notizia sul nostro giornale di questo farmaco antivirale di tipo sperimentale che era stato creato per fronteggiare il virus dell’influenza. Lo studio sui furetti è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Microbiology da alcuni ricercatori della Georgia State University, negli Stati Uniti. "Oltre a migliorare la malattia acuta, abbiamo dimostrato in un modello di trasmissione di cavia che l'Nhc blocca efficacemente la diffusione del virus dell'influenza da animali infetti ad animali da contatto non trattati", afferma il Prof. Richard Plemper, coordinatore dello studio. I virus sono stati somministrati agli animali tramite inoculazione intranasale e la carica virale nei lavaggi nasali, nei tamponi rettali e nei tessuti respiratori è stata monitorata periodicamente (4 o 10 giorni dopo l'esposizione). MK-4482/EIDD-2801 (questo il nome tecnico del farmaco) è stato somministrato, per via orale, due volte al giorno agli animali infetti che hanno risposto positivamente a questa cura. "Abbiamo testato l’efficacia del molnupiravir a scopo terapeutico per attenuare l’infezione e bloccarne la trasmissione - ha spiegato Robert Cox, co-autore dello studio - scegliendo questi animali perché trasmettono facilmente il virus ma hanno dei sintomi clinici minimi e ciò è molto simile a quanto accade nella propagazione del virus nell’uomo tra i giovani adulti".

Il farmaco che blocca l'infezione. Insomma, la trasmissione del Covid tra i furetti è simile a quanto avviene sull'uomo, anche per quanto riguarda la sintomatologia generale. L'esperimento può dichiararsi riuscito quando, nella stessa gabbia, sono stati messi animali infettati accanto a furetti sani e non trattati e nessuno è stato infettato. La domanda, quindi, è automatica: questo farmaco potrà funzionare anche nell'uomo? Lo abbiamo chiesto ad un esperto del campo, Renato Bernardini, Professore ordinario di Farmacologia all'Università di Catania e membro del Consiglio Superiore di Sanità. Ma che farmaco è il Monlupiravir? "È un antivirale che, in passato, è stato sperimentato ed ideato per altri virus ad Rna come quello dell'influenza o come quello del Sars-Cov-1: si tratta di una molecola analoga ad una delle basi degli acidi nucleici che conserva la capacità di inserirsi nella sequenza di basi dell’Rna virale trasferendo al virus dei falsi messaggi che ne comportano la mancata replicazione e la sua morte. Di fatto, impedisce il corretto utilizzo degli acidi nucleici del virus, essenziali per le sue funzioni vitali", ha risposto Bernardini. "Un abisso tra animali ed uomo". Nonostante Molnupiravir sembri funzionare bene su quella tipologia di animale, non bisogna tuttavia gridare al miracolo o farsi prendere da facili entusiasmi. Tra animali ed uomo c'è di mezzo il mare, un oceano, "anche un viaggio siderale" afferma il Prof. "Faccio una premessa: migliaia di farmaci che potrebbero dare un beneficio nelle patologie umane, non soltanto il Covid, vengono studiati quotidianamente e vengono pubblicati gli esperimenti in vitro o nelle specie da esperimento. Per molti di questi farmaci, però, molto spesso non viene poi riscontrata una loro efficacia nell'uomo, oppure si riscontra un eccesso di tossicità e per questo motivo non potranno essere utilizzati".

L'MK-4482 / EIDD-2801 terapeutico è efficace per via orale contro SARS-CoV-2 nei furetti. Il precedente del Remdesivir. Il farmacologo Bernardini sottolinea come il Molnupiravir, nonostante sia molto efficace sui furetti, "non lo è necessariamente nell’uomo in termini di beneficio clinico". Torna in mente il caso del Remdesivir, nato per contrastare il virus Ebola che è stato approvato dall'Fda americana e da EMA per i malati di Covid anche se, con il passare del tempo, i benefici visibili appaiono molto più limitati dell’atteso. "È l'unico farmaco registrato che annunciava grandi benefici, ma quando ne è stato autorizzato l’utilizzo, nella pratica clinica ha mostrato benefici modesti, nonostante la sperimentazione clinica avesse dato risultati incoraggianti", ha detto Bernardini. Insomma, nonostante sia doveroso un cauto ottimismo, per Molnupiravir la strada è ancora lunga. Alla domanda se dal furetto sia possibile estrapolare dati sull'uomo, la risposta del farmacologo è stata un "no" secco: "sono in corso sperimentazioni cliniche di fase 2 e 3 sul Molnupiravir di cui ancora non sono stati resi noti i risultati. Ritengo che se in corso di sperimentazione fossero emersi risultati particolarmente incoraggianti o entusiasmanti, sarebbero stati comunicati nell’interim. Questo mi fa pensare che non ci siano dati ancora maturi per trarre delle ragionevoli conclusioni per quanto riguarda l’efficacia e la sicurezza nell'uomo". In virtù di questo, non è possibile stabilire con certezza nemmeno quali potrebbero essere i benefici e gli effetti collaterali del farmaco, ma, vista la natura della molecola che agisce sugli acidi nucleici, "potrebbe dare effetti collaterali simili a tante altre molecole antivirali che hanno lo stesso meccanismo d'azione". Per questa ed altre risposte bisogna attendere la fine dei trial clinici, attesa già, sembra, per la fine di questo mese. "Aspettiamo con fiducia e moderato ottimismo i dati relativi".

L'altro farmaco anti-Covid. Recentemente, sul nostro giornale abbiamo pubblicato un approfondimento su un altro farmaco potenzialmente efficace contro la pandemia: si tratta del Baricitinib, già in commercio ed utilizzato per la cura dell'artrite reumatoide. Lo studio, che ha visto in campo anche ricercatori italiani dell'Università di Pisa e da poco pubblicata su Science Advances, ha visto una "mortalità ridotta del 71% in 83 pazienti con polmonite Sars-Cov-2 moderata o grave con pochi eventi avversi indotti dal farmaco, inclusa una grande coorte di anziani (età media 81 anni)", scrivono i ricercatori. Quali sono, quindi, le differenze tra il nuovo farmaco testato sui furetti ed il baricitinib? "Curano aspetti molto diversi della malattia: il Molnupiravir inibisce la replicazione del virus, il baricitinib invece agisce contrastando l'imponente infiammazione messa in moto dal virus, due meccanismi totalmente diversi", ci ha spiegato Bernardini. "L'Fda ha autorizzato l'uso in emergenza di Baricitinib con l’obiettivo di contenere l'infiammazione ed è indicato nelle forme moderate/severe di Covid. Sono attualmente in corso trials clinici sotto il controllo diretto di Aifa, che ci diranno di più quando ne saranno resi noti i risultati definitivi; ad oggi, i pochi dati disponibili, sono infatti difficilmente interpretabili in senso univoco".

Dagospia il 29 ottobre 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “La spermidina fa molto bene. E’ presente oltre che nello sperma anche nei formaggi stagionati come grana e pecorino, salmone, funghi, patate , pere, piselli, broccoli e cavolfiori. E’ considerata il Santo Graal della longevità, rafforza la memoria. Elimina le cellule danneggiate nel cervello e le sostituisce con cellule nuove. Ci fa tornare giovane la memoria”. A La Zanzara su Radio 24 la nutrizionista Samantha Biale spiega le virtù della spermidina, che adesso alcuni scienziati hanno individuato come un integratore che può aiutare il sistema immunitario contro il Covid (Unibo: un integratore alimentare per aiutare il sistema immunitario nella lotta contro coronavirus). “La spermidina - dice la Biale – è presente in grande quantità nello sperma dell’uomo”. Si può dire dunque che ingoiare lo sperma porta vantaggi al cervello?: “Non promuovo la fellatio, faccio un altro mestiere. Però in grande quantità è contenuta lì, nello sperma”. Ingoiare fa bene dunque?: “Lasciamo perdere la questione delle malattie. Però è così, soprattutto con un partner fisso”.

Da bolognatoday.it il 29 ottobre 2020. Grazie al progetto europeo SPIN (SPermidin and eugenol INtegrator for contrasting incidence of coronavirus in EU population), promosso da EIT Food, è in corso lo sviluppo di un integratore alimentare che possa aiutare l'azione del sistema immunitario nella lotta all'infezione da SARS-CoV-2 per la popolazione ad alto rischio. L'integratore sarà ricco di Spermidina, una poliammina ricavata dal germe di grano che ha un ruolo cruciale nel favorire l'autofagia, e di Eugenolo, un olio essenziale antivirale ad ampio spettro che agisce diminuendo la capacità di replicazione dei virus. Parte della EIT´s Crisis Response Initiative, questa attività contribuisce in modo diretto alla risposta dell'Unione Europea alla pandemia di COVID-19. Coordinato dall'Università di Bologna, il progetto SPIN coinvolge inoltre: IMDEA Food, Institute of Animal Reproduction and Food Research of the Polish Academy of Sciences, Molino Naldoni, Targeting Gut Disease e Xeda.

Pensato come aiuto contro il coronavirus, in attesa del vaccino. Questo nuovo supplemento nutrizionale è pensato come aiuto contro il coronavirus fino a quando un vaccino non sarà disponibile per tutti, e anche in seguito, per mitigare la gravità dei sintomi e dei contagi attraverso un approccio antivirale naturale. Non è pensato per sostituire o potenziare i vaccini attualmente in fase di sviluppo.

Studiosi a caccia din Eugenolo e Spermidina. Il consorzio di studiosi è già al lavoro per individuare le fonti di materie prime ad alto contenuto di Spermidina (germe di grano) e di Eugenolo (olio essenziale di chiodi di garofano). Le migliori fonti di principi attivi verranno elaborate per ottenere l'integratore, che sarà poi testato in diversi modelli cellulari in vitro per ottenere ulteriori prove scientifiche delle sue capacità protettive. È stato dimostrato - spiegano dall'università  - "che l'Eugenolo ha capacità antivirali ad ampio spettro: è in grado di inattivare diversi virus, incluso il coronavirus, e di bloccare la replicazione dei virus all'interno delle cellule. L'assunzione di Spermidina, invece, è stata associata in modo significativo a un ridotto rischio rispetto a tutte le principali cause di mortalità". Agisce attraverso diversi meccanismi, tra i quali ha un ruolo cruciale l'azione dell'autofagia, che è strettamente controllata dal metabolismo cellulare. "È stato recentemente dimostrato - spiega una nota Unibo - che l'infezione da SARS-CoV-2 limita l'autofagia interferendo con diverse vie metaboliche e che, in vitro, la presenza esogena di Spermidina riduce la propagazione del coronavirus. In teoria, questa azione potrebbe quindi ostacolare o inibire la progressione della malattia verso forme polmonari più gravi, limitando così il rischio di mortalità per coloro che contraggono il coronavirus SARS-CoV-2 e sviluppano la COVID-19." "Questo integratore - si legge ancora sulla nota dell'Università -  rappresenta una strategia innovativa nella lotta contro il virus, attraverso l'utilizzo di ingredienti antivirali naturali. Per questo motivo, in Polonia, in Spagna e in Italia verranno organizzati anche programmi di formazione per dietisti e nutrizionisti con l'obiettivo di evidenziare l'importanza degli integratori alimentari a scopo preventivo. "In attesa di un vaccino efficace - concludono dall'Unibo- è importante potenziare il sistema immunitario della popolazione, riducendo così il numero di infezioni e diminuendo in questo modo la gravità dei sintomi. Inoltre, questo nuovo integratore potrebbe dimostrare di avere un'attività protettiva anche contro altri virus, come quello dell'influenza, che possono rappresentare una minaccia per la popolazione dell'Unione europea".

Ecco quali sono i farmaci ​per curare i malati a casa. Il cardiochirurgo Spagnolo spiega che i pazienti possono essere curati nelle loro case con aspirina, cortisone ed eparina. La cura però deve essere tempestiva. Valentina Dardari, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Salvatore Spagnolo, cardiochirurgo calabrese con una competenza specifica nel trattamento dell’embolia polmonare massiva, ha spiegato all’Agi che i farmaci anti coronavirus ci sono ma che in pochi lo sanno. I pazienti, se presi in tempo, potrebbero essere curati nelle loro abitazioni, attraverso l’Aspirina, l’Eparina e il Cortisone. Questo trattamento potrebbe limitare l’aggressività del virus, andando a bloccare alcuni dei suoi effetti più letali, quali le patologie polmonari. I pazienti, perché i farmaci abbiano successo, devono però essere trattati subito, prima che si manifestino i sintomi.

Importante informare la popolazione. Quello che chiede Spagnolo è che le autorità sanitarie informino la popolazione su questa possibilità. "Affrontare il virus nella fase iniziale costerebbe meno e migliorerebbe i risultati. Purtroppo, invece, i medici prescrivono i farmaci solo quando i pazienti si presentano da loro con la malattia in fase avanzata" ha spiegato il medico che opera a Rapallo, nella cardiochirurgia dell'Iclas di Rapallo. Secondo quanto raccontato, lo scorso marzo aveva ipotizzato che la causa di morte nella patologia da coronavirus non fosse solo una polmonite interstiziale ma anche un’embolia polmonare diffusa. Propose quindi di somministrare l’eparina, un anticoagulante. Per validare questa sua ipotesi, aveva anche pubblicato un articolo sul Journal of Cardiology Research, intitolato: Covid-19 as a Cause of Pneumonia and Diffuse Peripheral Pulmonary Embolism. Early Anticoagulant Treatment to Prevent Thrombi Formation. Ma nessuno prese in considerazione quanto sostenuto da Spagnolo. Fino alla fine di aprile, quando degli studi autoptici confermarono la presenza di trombi nei polmoni dei pazienti deceduti per coronavirus. Solo a quel punto l’eparina venne data ai pazienti positivi al Covid che si trovavano in terapia intensiva. E i miglioramenti si videro. Il professor Nicola Magrini, Direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, aveva dichiarato poi che l’eparina è un pilastro nel trattamento del Covid-19. Il farmaco viene però abitualmente usato solo nei pazienti ricoverati con segni di polmonite. Perché i pazienti abbiano dei benefici, la somministrazione del farmaco deve essere tempestiva. "Oggi sappiamo che, a differenza dei comuni virus antinfluenzali, i coronavirus non danneggiano solo i polmoni ma entrano nei capillari polmonari e si riproducono nella loro parete interna chiamata endotelio. È dimostrato da studi anatomopatologici e clinici che, quando il virus passa dalle narici alla trachea e raggiunge gli alveoli polmonari, entra direttamente nei capillari che circondano gli alveoli e naviga nella corrente sanguigna. Spinto dalla pressione di perfusione, raggiunge il cuore ed i vari organi del corpo umano. Esso ha la proprietà di riprodursi nell’endotelio sia degli alveoli polmonari che dei capillari e determinare una progressiva infiammazione dei polmoni ed una trombosi del microcircolo. In alcuni pazienti, la distruzione dell’endotelio vascolare causa trombosi anche nel tessuto cardiaco, cerebrale o renale e determina infarti miocardici, ictus cerebrali o infarti renali", ha spiegato Spagnolo.

Se somministrati in tempo riducono la mortalità. Eparina e Cortisone potrebbero quindi contrastare gli effetti letali del Covid, anche se prescritti a casa, andando a contrastare l’insorgenza di sviluppi infiammatori e trombotici.

"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. Spagnolo ha riferito che, secondo l’Università Americana del Maryland, nei pazienti affetti da coronavirus i farmaci antiaggreganti, se dati in tempo, possono ridurre la mortalità. Un team di ricercatori ha confrontato le cartelle cliniche di centinaia di pazienti rilevando che l’utilizzo abituale di aspirina andava a ridurre notevolmente il rischio di un ricovero in terapia intensiva e anche di decesso. I medici della New York University, usando Eparina, Cortisone e antivirali hanno riscontrato un calo della probabilità di morte dal 25.6% al 7.6% su 5mila ricoverati tra marzo e agosto. Anche uno studio condotto dall’Alan Turing Institute ha riportato che, su 21 mila pazienti ospedalizzati in Gran Bretagna, vi è stato un abbassamento dei tassi di mortalità di circa 20 punti. Spagnolo si augura quindi che “l’Aifa introduca nelle linee guida l’aspirina 100 per il trattamento dei pazienti positivi al Covid ma asintomatici e l’eparina a basso peso molecolare (Enoxaparina, clexane ecc.) quando compaiono i sintomi dell’influenza. Recentemente, le ASL di diverse Regioni hanno inserito l’eparina nella terapia a domicilio per i pazienti positivi al Covid e sintomatici, ma pochi sanno di questa possibilità terapeutica e moltissimi sono i pazienti che vengono ospedalizzati”. Il cardiochirurgo ha ricordato di aver vissuto una situazione simile a quella attuale. I medici erano riusciti a spiegare alla popolazione, tramite una efficace campagna pubblicitaria, “che il dolore al petto era un segno caratteristico della ischemia cardiaca e che il salvataggio del muscolo cardiaco era legato alla velocità con cui si faceva diagnosi. Questo portò ad una rapida diminuzione del numero di decessi per infarto. È auspicabile che l’organizzazione sanitaria nazionale informi la popolazione di questa possibilità terapeutica e faciliti la somministrazione di questi farmaci. Questo, probabilmente, impedirebbe di essere travolti da un numero sempre crescente di ricoveri per Covid" ha concluso il medico chirurgo.

Una vitamina "spegne" il Covid. "Ma il ministero non ci ascolta". Centinaia di studi mondiali dimostrano come l'uso della vitamina D migliori i pazienti affetti da Covid-19. Una ricerca italiana mette in relazione i raggi Uv ed i benefici correlati alla malattia. Ma il Ministero della Salute nicchia...Alessandro Ferro, Martedì 15/12/2020 su Il Giornale. In tempo di pandemia, si moltiplicano studi e ricerche scientifiche per combattere il Covid-19. Molte di queste, ancora ampiamente sottovalutate, riguardano l'uso della vitamina D che fornirebbe più di un prezioso aiuto contro la malattia riducendo la mortalità e limitando gli effetti potenzialmente letali del virus.

L'Accademia di Medicina di Torino ha istituito un gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Giancarlo Isaia, Specialista in Endocrinologia, Medicina Interna e Medicina Nucleare del Dipartimento di Scienze Mediche dell'Università di Torino e da Antonio D’Avolio, Professore di Farmacologia all'Università di Torino che hanno elaborato un documento, inviato alle autorità sanitarie nazionali e regionali, che riporta le "più recenti e convincenti evidenze scientifiche sugli effetti positivi della vitamina D, sia nella prevenzione che nelle complicanze del coronavirus". Il documento ha già ricevuto le firme di 65 medici di ogni parte d'Italia.

Cosa dicono gli studi. Ad oggi, sono più di 340 i lavori sviluppati in tutto il mondo durante il 2020 e pubblicati su PubMed che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D (carenza di vitamina D) nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forma severa e di una più elevata mortalità ad essa associata. In uno studio osservazionale di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti ipovitaminosici D è risultata del 31,86% negli asintomatici e del 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva, un dato incredibile. In pratica, quasi tutti i "carenti" hanno avuto complicazioni severe della malattia. Un altro studio americano retrospettivo condotto su ben 190mila pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione fra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli circolanti di '25OHD' (che è la vitamina). "Gli studi suggeriscono un'associazione tra carenza di vitamina D e rischio di infezioni virali del tratto respiratorio superiore e mortalità per malattia da coronavirus-2019. Questa relazione è anticipata, dato che la vitamina D ha numerose azioni che influenzano il sistema immunitario innato e adattativo", scrivono gli autori di questa ricerca. Per citare anche un terzo studio, in una sperimentazione clinica su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% (10/16) dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo (60.000 UI/die per 7 giorni), contro il 20,8% (5/24) dei pazienti del gruppo di controllo. Il colecalciferolo è una delle vitamine del gruppo D.

Vitamina D e raggi solari. Se tre indizi forniscono una prova, qui ne abbiamo a sufficienza. Pur non potendo citare tutti gli oltre 300 studi su questa materia, la conclusione è praticamente unanime: la vitamina D può 'bloccare' il virus, fa bene all'organismo e non ha controindicazioni. "Questi dati forniscono, a nostro giudizio, interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D", afferma il Prof. Isaia intervistato in esclusiva per ilgiornale.it. Anche se sono necessari ulteriori studi controllati, la vitamina D sembra efficace contro il Covid-19 sia per la velocità di negativizzazione, sia per l’evoluzione benigna della malattia in caso di infezione se somministrata con obiettivi di prevenzione soprattutto nei soggetti anziani, fragili e istituzionalizzati. "La vitamina D ha effetto attivo sull'immunità potenziando le nostre difese: se la diamo, riduciamo l'evoluzione clinica sfavorevole. Se si deve beccare, il virus si becca ugualmente ma riteniamo, ragionevolmente, che la vitamina D sia un'arma per arrestare il decorso sfavorevole dovuto al Covid e ridurne la mortalità", sottolinea lo specialista. Lo studio italiano. "Abbiamo fatto un lavoro in cui si è valutata l'intensità dei raggi ultravioletti in Italia nel periodo giugno-dicembre 2019. In collaborazione con Arpa ed Enea, usando i sistemi satellitari abbiamo visto una sorprendente (fino ad un certo punto) la correlazione tra questi due valori: i raggi ultravioletti di tipo B, quelli che danno la vitamina D, migliorano nettamente la situazione", ci ha detto Isaia. L'esempio lampante è tra le città di Lampedusa e Bolzano, messe a confronto sia singolarmente (sui rispettivi numeri di infetti e decessi) ma anche su scala nazionale, ed è il risultato è stato incontrovertibile: man mano che si procede da sud verso nord, il numero di persone contagiate e decessi sale esponenzialmente.

Raggi Uv determinanti. "Non c'è dubbio che la correlazione tra raggi Uv e la manifestazione clinica della malattia è molto significativa ed è dovuto a due fattori: la vitamina D ha costruito la pelle dei siciliani nel periodo precedente ed i morti inferiori ad altre regioni sono stati l'effetto diretto dei raggi Uv sul virus", ha affermato Isaia. In pratica, la pelle agisce facendo da schermo, da barriera contro il virus ed i raggi ultravioletti lo fanno secco in un tempo nettamente inferiore a tante altre condizioni climatiche più tipiche del Nord Italia. Il Prof. fa un esempio lampante che, quantomeno, dà spunti su cui riflettere. "La curva dei decessi a maggio è improvvisamente calata per tutta l'estate ed è ricominciata a salire ai primi di ottobre. L'ipotesi è che i raggi Uv abbiano avuto anche un effetto diretto sul virus nel periodo estivo. D'estate gli assembramenti erano all'ordine del giorno ma non hanno causato mortalità". "Meglio il sole degli alimenti". Ma qual è la differenza tra la vitamina D contenuta negli alimenti e nei raggi solari? "Con gli alimenti se ne introduce pochissima: di fatto, si calcola che l'intake alimentare non superi il 20% del fabbisogno, gran parte la prendiamo quando siamo d'estate al mare", ha spiegato Isaia, raccontando che viene immagazzinata nel tessuto adiposo della pelle con un meccanismo tipo 'powerbank', ed il nostro orgamismo la consuma durante l'inverno. Il problema degli anziani è che ne prendono poca e, di conseguenza, ne sintetizzano poca: "Abbiamo contestato ferocemente il tenere chiusi gli anziani durante la seconda ondata, è stato un errore colossale".

Zero effetti collaterali. Qual è adesso la strada da seguire? L'accademia torinese ha inviato il documento a 76 istituzioni regionali con l'idea di suggerire uno studio clinico, anche perché la vitamina D non ha alcun effetto collaterale. "Per dare un'idea, il fabbisogno medio di una persona sana è di mille unità al giorno: ai malati di Covid sono stati somministrati, sia in prevenzione che in terapia, addirittura 60mila unità al giorno di vitamina D per una settimana-dieci giorni senza alcun effetto collaterale".

Lo scetticismo del Ministero della Salute. Una circolare del Ministero della Salute con oggetto “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sar-Cov-2” dove vengono elencate varie indicazioni riguardanti anche diagnosi, indicazione per la gestione di casi e focolai nelle scuole e principi di gestione della terapia farmacologica, il Ministero specifica che "non esistono, ad oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato", firmato da Giovanni Rezza, attuale Direttore generale. "Autorizzato anche in Regno Unito". "Nonostante tutti i dati scientifici, il Ministero della Salute ha fatto una circolare il 30 novembre dicendo che nelle cure domiciliari di Covid-19 la vitamina D non è indicata perché manca 'un'evidenza scientifica sufficiente'. L'ho contestata perché non è vero: l'evidenza non c'è per altre vitamine ma c'è, eccome, per la D", spiega il Prof. Isaia rifacendosi al caso della Gran Bretagna dove il primo ministro Boris Johnson ha già autorizzato all'utilizzo della vitamina D per 2,7 milioni di britannici. Sulla stessa lunghezza d'onda anche la Royal Society che ha affermato che "non c'è nulla da perdere e tutto da guadagnare". "Abbiamo fatto l'appello, firmato da 65 medici, ed un sito americano sta raccogliendo le firme dei medici di tutto il mondo (me compreso) ed è già a 200. Non capisco perché il Ministero si ostini a non autorizzare la vitamina D".

La Vitamina D ci salverà dal Covid? Intervista al professor Giancarlo Isaia il cui studio sull'incidenza della Vitamina D sul covid sta aprendo una nuova strada di prevenzione dell'infezione. E mentre il suo studio sta per essere pubblicato in tutto il mondo, nel Regno Unito stanno già distribuendo Vitamina D a tutta la popolazione. Roberta Damiata, Venerdì 20/11/2020 su Il Giornale.

Professor Giancarlo Isaia, noi chiamiamo la Vitamina D "vitamina". La realtà è però diversa. Ci può spiegare meglio?

«Questo è un problema etimologico che ha creato molti equivoci e, forse, ha ostacolato l'adozione di provvedimenti a riguardo. Quando si parla di vitamine nell'immaginario collettivo delle persone, ma anche dei medici, si tende sempre un po' a banalizzare anche se invece sono sono molto importanti. Se si guarda nel vocabolario a questo termine c’è scritto: "Sostanza che non può essere prodotta dall'organismo, e quindi deve essere assunta dall'esterno e che agisce a distanza sul piano metabolico”. Al contrario il nostro organismo produce Vitamina D tramite i raggi solari che irradiano la cute. In piccola parte può essere assunta con gli alimenti anche se questi, eccetto forse il salmone, sono di raro consumo come i funghi Shiktake, le aringhe e alcuni formaggi. L’unica fonte quindi è il sole che una volta entrato tramite la cute, viene accumulata nel nostro tessuto adiposo e poi viene rilasciata lentamente nel resto dell’anno soprattutto in inverno. Questo avviene per un retaggio filogenetico dovuto ai nostri antenati che vivevano nelle caverne tutto l’inverno prendendo poca luce solare e se non ci fosse stato questo sistema “naturale” di immagazzinamento la specie si sarebbe estinta e non è avvenuto proprio per questo meccanismo di accumulo e rilascio progressivo».

Che associazione esiste tra la Vitamina D e il Covid?

«Prima di parlare di questo è importante spiegare che nella scienza si distinguono due ambiti, uno teorico e l’altro applicativo. Il primo è quello in cui io trovo una sostanza facendo un esperimento che produce un determinato effetto, che però non è detto sia riproducibile nell’uomo. Ci sono molte osservazioni scientifiche in cui una sostanza in vitro funziona che poi non sono visibili sul piano umano e quindi inutilizzabili dal punto di vista terapeutico. È importante quindi distinguere. Scientificamente avevamo moltissimi lavori che evidenziavano, sia negli animali da esperimento, sia vitro, come la Vitamina D aveva effetti importanti sul sistema immunitario. Questo lo sapevamo già da 150 anni da quando i nostri progenitori medici dell’800 dovevano combattere la Tubercolosi e non avevano antibiotici, mandavano i pazienti al mare o in montagna nei sanatori. Queste strutture erano state create come i primi provvedimenti presi nel Regno Unito d’Italia, dove il Ministero della Salute, che all’epoca era una costola del Ministero dell’interno, obbligò tutte le province allora costituite a costruirle. Questi pazienti andavano lì e venivano messi al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo Vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti di questa sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi prendevano più raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di Tubercolosi o guarivano più velocemente”».

Tornando al discorso Coronavirus?

«L’esperienza su questo virus è ovviamente più limitata perché è esploso a fine 2019, ma già dal primo gennaio sulla Vitamina D c’erano circa 250 lavori pubblicati in tutto il mondo. Noi che avevamo ipotizzato questa cosa siamo stati un po’ accusati di divulgare fake news o di essere gente poco seria è questa è stata una cosa che mi ha fatto molto arrabbiare perché io non mi sono mai pronunciato se non sono sicuro. Ho avuto l’intuizione di andare a vedere con qualche sistema possibile se le diverse regioni italiane differivano in quanto a radiazioni solari per poi quantificarle e correlare i dati clinici del covid per trovare una corrispondenza. Ho chiesto aiuto per farlo ai fisici dell’Arpa (l’Agenzia Regionale per la protezione Ambientale ndr) in particolare il dott. Henri Diémoz che ha estrapolato questi dati da alcuni di satelliti chiamati Themis che girano intorno alla terra mandando dati meteorologici. Per essere sicuri che fossero precisi, sono stati confrontati con quelli a terra per vedere se coincidevano ed è venuta fuori una correlazione perfetta. Confortati da questo, abbiamo preso tutti questi dati delle radiazioni ultraviolette e le abbiamo correlate con i morti, con il numero degli infetti e degli infetti per tampone. Il risultato è stata un correlazione molto alta arrivata all’83% circa che ci confermava che dove i raggi ultravioletti erano più bassi, ad esempio Lombardia e Piemonte, c’era maggiore incidenza del virus e dei decessi. Sottolineo che questo è uno studio statistico, anche se molto concreto, che dice che la distribuzione della pandemia nelle zone italiane era in qualche modo spiegata statisticamente dai raggi ultravioletti che ci sono piovuti addosso nel semestre precedente».

Qui entra in gioco quindi la Vitamina D?

«Esatto, proprio in virtù di quello che dicevo prima, ovvero dell'accumolo di Vitamina D da giugno 2019 a dicembre 2019 ovvero il semestre prima della pandamia. Per questo, abbiamo realisticamente ipotizzato che quelli che sono stati più al sole e che quindi hanno accumulato più Vitamina D da spendere nei mesi invernali, sono stati in qualche modo protetti. Ovviamente per essere più precisi, abbiamo correlato anche altre variabili come la temperatura dell’aria, il pm10 (materiale particolato con dimensione inferiore o uguale a 10 micrometri considerato un potente inquinante ndr), l’età media della popolazione coinvolta, l’incidenza di malattie cardiovascolari e di diabete, ed in effetti alcune di queste variabili sono risultate significative, ma il fattore predominante rimaneva sempre quello dei raggi ultravioletti che occupava circa l’80% della statistica di tutte le variabili. Quindi questo si comprende facilmente che è un dato importante».

Il vostro studio di prossima pubblicazione sulla prestigiosa STOTEN (Science of the Total Envinroment) è stato anche revisionato da altri scienziati?

«Per usare un termine popolare gli hanno fatto proprio “le pulci” facendolo visionare da ben 7 reviewer, quando al massimo per uno studio se ne usano un paio.

Basandosi sul vostro ragionamento, si spiegherebbe anche perché nella prima ondata della pandemia sono state in parte preservate le zone del sud del mondo dove c’è stata meno incidenza del Covid 19. È corretto?»

«Esattamente.

Mentre il vostro lavoro è in fase di pubblicazione, nel Regno Unito, stanno già distribuendo la Vitamina D a tutta la popolazione...

«Gli effetti della Vitamina D sono noti e in Inghilterra evidentemente hanno un comitato scientifico che ha ritenuto fondamentale darla alla popolazione come forma di prevenzione anche per il Covid, oltre che per tutti gli altri benefici noti che questa Vitamina apporta».

Possiamo però anche dire che lì c’è molto meno sole quindi meno raggi ultravioletti che da noi...

«Proprio su questo c’è una questione interessante. L’enorme letteratura scientifica sui benefici del sole, ha inciso in termini culturali da sempre sui paesi del nord, che hanno visto delle vere e proprio migrazioni di massa verso l’Italia o in Spagna. Forti di questo retaggio da sempre hanno ritenuto opportuno, e maggiormente ora, fornire la Vitamina D a tutta la popolazione».

In concreto come agisce sia il sole, quindi i raggi ultravioletti, che la vitamina D sul Covid?

«Esiste uno studio che dice che il virus viene inattivato dai raggi ultravioletti. Quindi fa bene alla pandemia per due motivi: il primo perché inattiva il virus direttamente sulle superfici, quindi questo può spiegare il fatto che durante l’estate c’è stato il crollo della mortalità, il secondo è l’aspetto della Vitamina D. La nostra ipotesi è questa: durante l’inverno nella prima ondata gennaio/maggio, si sono protetti di più quelli che avevano preso e immagazzinato nel semestre precedente più sole e quindi Vitamina D, mentre invece in estate ne hanno beneficiato un po’ tutti perché chi più chi meno sono andati al mare o sono stati all’aria aperta. Dopo le vacanze i morti sono ricominciati a salire, un po’ meno rispetto a gennaio perché abbiamo ancora Vitamina D immagazzinata nella cute, però se non facciamo niente i morti continueranno ad aumentare e questo voglio dirlo forte e molto chiaramente».

Cosa consiglia quindi?

«Secondo me sarebbe bene che si facesse una campagna di stampa e lo abbiamo anche scritto in un comunicato, per promuovere la somministrazione di Vitamina D a tutti i pazienti fragili, nelle RSA o ai pazienti a rischio».

A parte con il sole, come si assume la Vitamina D?

«Può essere presa con integratori quindi auto prescritti, facendo però attenzione alle dosi che a volte sono opinabili, oppure come preparati farmaceutici che sono dei farmaci prescritti dal medico. Noi in generale, e parlo come geriatra, la diamo abbastanza facilmente perché gli effetti collaterali sono scarsi. Se preferiamo invece gli integratori la dose giornaliera a persona consigliata è di mille unità di Vitamina D. che sia in compresse o in gocce».

Professore anche nei bambini è importante far assumere Vitamina D?

«Assolutamente sì, anche se dovremo maggiormente pensare alla fascia di popolazione anziana perché è in quella che si concentrano di più i morti. Se guardiamo le tabelle del Ministero della Sanità possiamo vedere che nella fascia 70/90 anni, l’incidenza è dell’85%. Secondo me se anche in Italia si distribuisse, soprattutto agli anziani sarebbe una cosa molto importante».

Coronavirus e vitamina D, l'appello di 61 prof e medici italiani: “Diamola ai soggetti a rischio”. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Sono 61 i professori, ricercatori e medici che hanno sottoscritto un appello alle istituzioni per somministrare alle categorie più a rischio per il coronavirus la vitamina D in via preventiva: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione ai pazienti di COVID-19”. Una richiesta simile a quella fatta un mese fa dai colleghi inglesi. Un appello di 61 tra professori, ricercatori e medici sul modelli di quello firmato dai colleghi inglesi: “Diamo la vitamina D ai soggetti a rischio per contrastare il coronavirus”. Vi abbiamo raccontato di questo appello oltre un mese fa: un gruppo di scienziati inglesi guidati dal professor Gareth Davies ha indicato come circa la metà della popolazione inglese abbia una carenza di vitamina D, e secondo loro questo basso livello potrebbe comportare un maggior rischio di contrarre il coronavirus. Non solo: se ci si ammala, e si ha poca vitamina D, la possibilità di avere sintomi gravi sarebbe più alta. E per questo il gruppo di scienziati ha lanciato un appello al governo per intervenire, facendo aggiungere dosi di vitamina D ai cibi più consumati come il latte o il pane. Adesso in Italia un documento sottoscritto da 61 tra professori, ricercatori e medici propone alle istituzioni italiane un percorso simile. “Ad oggi è possibile reperire circa 300 lavori con oggetto il legame tra COVID-19 e vitamina D”, scrivono i ricercatori. Gli studi “hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata”. Per questo i 61 studiosi suggeriscono, nel documento inviato alle istituzioni sanitarie italiane, di valutare la “somministrazione preventiva” di vitamina D “a soggetti a rischio di contagio come anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse”. Secondo loro non ci sarebbero, in questo contesto, “sostanziali effetti collaterali”. La motivazione di questa richiesta è chiara: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione di vitamina D a pazienti COVID-19”. Un tema che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo: a inizio novembre vi abbiamo raccontato dello stato degli studi sul possibile legame tra vitamina D e coronavirus, dopo che gli scienziati inglesi avevano lanciato l’appello al governo per aggiungere la sostanza al cibo “per aiutare nella lotta contro il Covid”. Una richiesta seguita dall’annuncio del ministero della Salute britannico, che ha chiesto ai propri consiglieri sanitari di fornire linee guida per utilizzare la vitamina D come possibile modo per prevenire e trattare il coronaviurs. Con Giulia Innocenzi poi abbiamo intervistato il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino, tra i 61 firmatari dell’appello e coautore di uno studio secondo cui le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. I risultati dello studio, ci ha detto il professore “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Pochi giorni fa infine vi abbiamo dato conto di una circolare del ministero della Salute, per la quale “non esistono ad oggi evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercetina), il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato". A quelle parole ha replicato a Iene.it il professor Isaia, che ci ha detto: “La circolare è discutibile perché un nostro nuovo documento riporta nuove evidenze su quanto andiamo dicendo. Chi ha scritto il documento ha accomunato la vitamina D, che è cosa ben diversa, ad altre vitamine e integratori. Le nostre evidenze, che partono dall’inizio del 2020, possono essere discutibili ma meritano almeno un approfondimento”.

Covid in Italia: “Bassi livelli di vitamina D possibile causa dell'alto numero di casi e morti”. Le Iene News il 2 dicembre 2020. Per il professor Andrea Giustina, presidente della European Society of Endocrinology, “la carenza di vitamina D potrebbe essere un fattore predisponente per ammalarsi di Covid-19 e per un esito severo o letale della malattia”. Un tema, quello del possibile legame tra la vitamina D e il coronavirus, che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo. Una nuova e autorevole voce si è alzata per parlare del possibile legame tra bassi livelli di vitamina D e il coronavirus: il professor Andrea Giustina, presidente della European Society of Endocrinology, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport ha infatti affermato che “la carenza di vitamina D potrebbe essere un fattore predisponente per ammalarsi di Covid-19 e per un esito severo o letale della malattia”. Un tema che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo: a inizio novembre vi abbiamo raccontato dello stato degli studi sul possibile legame tra vitamina D e coronavirus, dopo che gli scienziati inglesi avevano lanciato un appello al governo per aggiungere la sostanza al cibo “per aiutare nella lotta contro il Covid”. Una richiesta seguita dall’annuncio del ministero della Salute britannico, che ha chiesto ai propri consiglieri sanitari di fornire linee guida per utilizzare la vitamina D come possibile modo per prevenire e trattare il coronaviurs. E infine con Giulia Innocenzi abbiamo intervistato il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino, coautore di uno studio secondo cui le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. I risultati dello studio, ci ha detto il professore “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Insomma, meno vitamina D potrebbe comportare un rischio più alto di contrarre il coronavirus e sviluppare sintomi gravi. Un’ipotesi che sembra confermata adesso dalle parole del professor Giustina: “Da studi epidemiologici emerge che nella popolazione italiana si hanno bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno i paesi scandinavi, tanto che questa situazione è nota come paradosso scandinavo: quei Paesi che non conoscono una grande esposizione alla luce solare, fonte principale di vitamina D, la addizionano ai cibi. E così i loro livelli sono in media il doppio di quelli degli abitanti di Paesi del Sud Europa come Spagna, Grecia e, appunto, Italia”. L’Italia quindi registra bassi livelli di vitamina D, in particolare in quelle regioni che sono le più colpite dal coronavirus: “La maggior parte degli studi suggeriscono che i pazienti con Covid hanno livelli di vitamina D più bassi rispetto alla popolazione generale. Apparentemente la carenza di vitamina D sembra essere un fattore predisponente ad ammalarsi di Covid. Questo è emerso da diversi studi in vari setting: non si tratta di una evidenza locale, ma di evidenze oramai diffuse”. Come sempre il professor Giustina fa una specificazione importante: “Ciò non definisce con certezza che la vitamina D sia una terapia potenzialmente efficace contro il Covid. Molti dati in questo senso non sono ancora disponibili”. Riassumendo, “ci sono sufficienti evidenze sul fatto che bassi livelli di vitamina D si associno all’infezione da Sars-CoV-2”, spiega il professor Giustina: “Non ci sono grandi evidenze del fatto che dare la vitamina D sia una potenziale terapia nei pazienti Covid ospedalizzati”.

“Vitamina D e coronavirus: guardate i dati!”. Il prof. Isaia replica al ministero. Le Iene News il 7 dicembre 2020. Il ministero della Salute ribadisce in una circolare che non esiste dimostrazione scientifica dell’efficacia di integratori e vitamine nella lotta al coronavirus. Noi di Iene.it abbiamo sentito il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino che ci ha parlato degli studi che mettono in correlazione la carenza di vitamina D con la maggiore incidenza di coronavirus. La vitamina D può aiutare nel contrasto al coronavirus? Il ministero della Salute nella circolare intitolata “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” ha appena dichiarato che: "Non esistono ad oggi evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercetina), il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato". Che non esistano studi clinici controllati sulla materia è incontrovertibile. Il governo inglese però, nel frattempo, ha deciso di distribuire gratuitamente la vitamina D a due milioni di persone fragili in funzione anti Covid. E in Italia si stanno registrando incrementi importanti nella vendita di integratori e vitamine, tra cui appunto quella D. Il dato è riportato da Uif-Avedisco, secondo la quale farmacie, parafarmacie e grande distribuzione organizzata hanno segnato un +11% nei volumi di vendita. Dopo la circolare del ministero della Salute, abbiamo deciso di sentire ancora una volta il prof. Giancarlo Isaia, docente di Geriatria dell’università di Torino e presidente dell’Accademia di medicina del capoluogo piemontese, che Giulia Innocenzi ha intervistato nel servizio che potete rivedere qui sopra. Il professore ci aveva parlato dello studio da lui coordinato, assieme al ricercatore Henri Diémoz, secondo il quale le regioni italiane in cui si è meno esposti a raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. Uno studio, pubblicato sulla rivista “Science of the total environment”, che potrebbe aggiungere un tassello ulteriore nella ricerca sul possibile ruolo nella lotta al coronavirus della vitamina D, la cui produzione nel nostro corpo è stimolata proprio dall’esposizione ai raggi UV. “La circolare è discutibile perché un nostro nuovo documento riporta nuove evidenze su quanto andiamo dicendo”, ci dice al telefono il prof. Isaia. “Chi ha scritto il documento ha accumunato la vitamina D, che è cosa ben diversa, ad altre vitamine e integratori. Le nostre evidenze, che partono dall’inizio del 2020, possono essere discutibili ma meritano almeno un approfondimento”. Il suo studio è partito dall’ipotesi che l’evoluzione dell’epidemia sia influenzata anche dall’intensità della radiazione ultravioletta solare. Le regioni del Nord Italia, meno esposte, sono state come noto più colpite dalla pandemia. Dallo studio emergerebbe come la differente esposizione ai raggi UV solari sia in grado di spiegare fino all’83,2% della variazione dei casi di coronavirus nella popolazione italiana. Sebbene la coincidenza statistica non comporti necessariamente un rapporto di causa-effetto, i risultati sarebbero “coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sul contrasto alla diffusione del coronavirus e alle sue manifestazioni cliniche”. “Risulta che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”, sostiene Giancarlo Isaia. Tra i vari studi e pubblicazioni citate, particolarmente significativo sembra un lavoro del 2017: analizzando 25 studi clinici, emergerebbe che integrare i livelli di vitamina D nelle persone che ne hanno una carenza riduce di due terzi l’incidenza di infezioni respiratorie acute. I cibi utili per mantenere un adeguato livello di vitamina D non sono molto comuni nella dieta mediterranea. Tra questi, solo per citarne alcuni, ci sono aringa, sgombro, funghi shitake, uova e alici. Esistono anche i supplementi farmacologici di vitamina D, ovviamente da assumere esclusivamente sotto stretto controllo medico.  E per sapere se effettivamente la vitamina D possa aiutare nel contrasto al coronavirus occorrerebbe uno studio clinico controllato, che per il momento non è stato ancora fatto.

Coronavirus e vitamina D, lo studio: più casi e vittime dove i raggi UV sono minori. Le Iene News il 16 novembre 2020. Uno studio italiano mostra come le zone più colpite dal coronavirus siano quello che ricevono una minor irradiazione di raggi UV. Per gli autori i risultati “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare, che è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus sia di favorire la sintesi della vitamina D, che potrebbe svolgere un ruolo da antagonista dell’infezione”. Le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti: a sostenerlo è uno studio italiano coordinato dal professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino e dal ricercatore Henri Diémoz, in corso di pubblicazione sulla rivista “Science of the Total environment”. Uno studio importante, che potrebbe aggiungere un tassello ulteriore nella ricerca sul possibile ruolo della vitamina D nella lotta al coronavirus. Lo studio è partito dall’ipotesi che l’evoluzione dell’epidemia sia influenzata, tra i vari fattori, anche da alcuni fattori ambientali come l’intensità della radiazione ultravioletta solare. Le regioni del Nord Italia sono state, come noto, più colpite dalla pandemia: per cercare di capirne le ragioni i ricercatori hanno analizzato vari fattori ambientali, demografici e fisiopatologici: dallo studio emerge come la differente esposizione ai raggi UV solari sia in grado di spiegare fino all’83.2% della variazione dei casi di coronavirus nella popolazione italiana. Una scoperta importante: sebbene la coincidenza statistica non comporti necessariamente un rapporto di causa-effetto, i risultati “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Per questa ragione gli autori dello studio si augurano che “vengano organizzate campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sugli effetti sia positivi sia negativi dell’esposizione alla radiazione solare e sul consumo alimentari di cibi contenenti la vitamina D, oppure la sua supplementazione farmacologica sempre sotto controllo medico”. Insomma, lo studio aggiunge un ulteriore elemento all’ipotesi che la vitamina D possa giocare un ruolo nel contrastare il coronavirus. Già a marzo il professor Isaia, insieme al collega Enzo Medico, aveva pubblicato un position paper dal titolo “Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19”. Nel documento, da cui ha preso le mosse lo studio di cui vi abbiamo parlato sopra, i due professori riassumono le evidenze scientifiche sul ruolo di adeguati livelli di vitamina D nel supportare il sistema immunitario e aiutarlo così a combattere le infezioni, in particolare del sistema respiratorio. Vitamina che, come ricordano, “può essere sintetizzata dalla cute, per effetto delle radiazioni ultraviolette emesse dalla luce solare”. Tra i vari studi e pubblicazioni citate, particolarmente significativo sembra un lavoro del 2017: analizzando 25 studi clinici, emerge che integrare i livelli di vitamina D nelle persone che ne hanno una carenza riduce di due terzi l’incidenza di infezioni respiratorie acute. Nel position paper i professori, che sottolineano come non si stia affatto parlando di una cura per il coronavirus quanto piuttosto un valido alleato nel rafforzare il sistema immunitario di chi può venire o già è stato contagiato, elencano anche quali sono i cibi utili per mantenere un adeguato livello di vitamina D: l’aringa, lo sgombro, l’uovo e le alici, solo per citarne alcuni. Ed esistono anche i supplementi farmacologici di vitamina D, ovviamente da assumere esclusivamente sotto stretto controllo medico. Del possibile ruolo della vitamina D nella lotta al coronavirus, in attesa del vaccino e di una cura, noi di Iene.it vi abbiamo parlato più volte: prima abbiamo elencato gli studi già pubblicati e dato conto dei dubbi a riguardo, che restano comunque diffusi nella comunità scientifica. Ad aprile infatti - prima che venissero pubblicati gli studi di cui vi abbiamo parlato - il ministero della Salute ha bollato come “falsa” l’ipotesi che la vitamina D protegga dal coronavirus, in assenza di evidenze scientifiche. Vi abbiamo poi raccontato della decisione del governo inglese di distribuire la vitamina D a 2 milioni di persone fragili. E presto torneremo a parlarvene!

L'aspirina per combattere il Covid-19? Ci provano nel Regno Unito. Le Iene News l'8 novembre 2020. Il governo inglese ha deciso di somministrare ad almeno 2000 pazienti contagiati dal Covid-19 il popolare farmaco, nella speranza di ridurre i gravi rischi di coagulazione del sangue, un danno da coronavirus potenzialmente letale. L’aspirina come potenziale trattamento per il coronavirus? Arriva sempre dal Regno Unito, come già vi abbiamo raccontato in questo articolo a proposito della Vitamina D, un possibile aiuto nella dura battaglia contro il Covid-19. Saranno in migliaia in Inghilterra i pazienti affetti dal virus che riceveranno dosi di aspirina (nome commerciale dell’acido acetilsalicilico) nell’ambito di una sperimentazione che vuole verificare se questo farmaco sia in grado di ridurre il rischio di pericolosi coaguli di sangue. Un farmaco, la conosciutissima aspirina, che va ad aggiungersi ad altri già pronti ad essere testati nell’ambito del “Randomized Evaluation of Covid-19 therapy (Recovery)”, uno degli studi clinici più grandi in questo momento in Gran Bretagna. Si è deciso di utilizzare questo trattamento dopo aver osservato come i contagiati dal Covid-19 presentino un elevatissimo rischio di sviluppare coaguli di sangue, che sono potenzialmente mortali. L'aspirina, già utilizzata in funzione anti-coagulante nei casi di infarto e ictus, verrà data dalle autorità sanitarie inglesi ad almeno 2000 pazienti contagiati dal virus, ai quali gli scienziati prevedono di somministrare una dose di 150 mg al giorno. L’utilizzo di aspirina per combattere gli effetti potenzialmente letali del Covid-19 è stato deciso dai ricercatori dell'Università di Oxford e dal direttore medico dell'Inghilterra, il professor Chris Whitty, dopo una raccomandazione in tal senso del comitato consultivo inglese terapeutico contro il Covid-19. I vantaggi del suo utilizzo potrebbero essere, laddove ovviamente venisse confermata l’efficacia medica, nella facile reperibilità e nel prezzo a portata di tutte le tasche, mentre un’altra cura (quella del remdesivir, approvato negli Usa ma che avrebbe mostrato  scarsi risultati in uno studio dell'Oms), appare assai costosa per il sistema sanitario del Paese.

Lattoferrina contro il Covid? "Mangia il nutrimento del virus". La lattoferrina avrebbe effetti benefici sui malati di Covid-19 e potrebbe aiutare nella lotta alla malattia: la scoperta degli studiosi di Tor Vergata. Ma la ricercatrice avverte: "Per sconfiggere il virus serve il vaccino". Francesca Bernasconi, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. La proteina contenuta nel latte materno, la lattoferrina, potrebbe aiutare a combattere il Covid-19. È la scoperta di uno studio, condotto dai ricercatori dell'Università di Tor Vergata, tra cui anche la dermatologa Elena Campione che, in un'intervista a Repubblica, ne ha spiegato il funzionamento. "Era marzo, all'inizio del lockdown quando abbiamo cominciato a ragionare sul perché ci fosse questa enorme differenza di esposizione al virus che esiste tra gli anziani e i bambini", ha raccontato la ricercatrice, che porta sulle spalle diversi riconoscimenti internazionali e una serie di lavori pubblicati sulle riviste scientifiche. E proprio partendo dai bambini è iniziata la ricerca: "Tutti noi veniamo al mondo con una immunità innata. Prima di compiere il terzo mese, i bambini non ricevono altra protezione che il latte della mamma. E proprio la lattoferrina è una proteina contenuta anche all'interno del latte materno". La sperimentazione è partita da circa 100 positivi, con sintomi lievi o asintomatici, "che sono stati curati solo con lattoferrina. È stata l'equipe stessa di ricercatori ad andare casa per casa per somministrare la proteina". Così, hanno scoperto che la lattoferrina può avere effetti benefici e contribuire alla lotta contro il Covid-19. "Sappiamo che il virus Sars-Cov-2 si alimenta del ferro presente nell'organismo umano- spiega Elena Campione- La lattoferrina riduce il ferro e quindi mette il virus in una posizione di svantaggio". In poche parole, questa proteina lascia il virus senza il suo nutrimento. Non solo, perché provoca due effetti: "Il primo in chiave di prevenzione, rendendoci molto più forti e quindi meno vulnerabili al contagio; il secondo in chiave di cura, perché abbiamo dimostrato che rispetto ai tempi medi di guarigione che arrivano anche a 30, 32 giorni, i pazienti ai quali viene somministrata anche la lattoferrina si negativizzano dopo 12 giorni". Una precisazione, però, è necessaria: "Usciremo da questo incubo solo con il vaccino e il vaccino è la strada maestra per sconfiggere il Covid-19". Come precisa Repubblica, lo studio è stato pubblicato sull'International Journal of Molecular Sciences, ma si tratta solo di "una prima parte della nostra ricerca". In arrivo, promette Campione, c'è molto di più: "Stiamo mettendo a punto la seconda parte del lavoro che è in procinto di essere pubblicata con nuovi e importanti risultati".

Ma quale cura miracolosa contro il Covid: la lattoferrina è solo speculazione. Le ipotetiche virtù terapeutiche di questa proteina hanno scatenato la corsa agli acquisti, gonfiando i profitti dei produttori. Ma ora studiosi e aziende fanno marcia indietro. «Nessuna certezza». E arriva anche una condanna per pubblicità ingannevole. Vittorio Malagutti e Patrizio Ruviglioni su L'Espresso il 06 novembre 2020. Chi soffia sull'equivoco della lattoferrina come arma anti-covid? In tutt’Italia è corsa alle farmacie. Le scorte sono esaurite. Gli integratori basati sulla molecola naturale vanno a ruba. E a poco sono fin qui serviti i richiami e gli avvertimenti di medici e studiosi. Roberto Burioni, per esempio, nei giorni scorsi ha chiarito che «non esiste alcuna evidenza clinica» in merito all’efficacia della lattoferrina contro il Covid, visto che i risultati sono ancora tutti da verificare. A innescare l’euforia collettiva per questa presunta cura è stata una ricerca pubblicata nelle scorse settimane dall’università di Tor Vergata, a Roma. Non c’è nessuna certezza, affermano adesso gli stessi autori dello studio. Ormai la miccia è stata accesa, però. E nel giro di poche settimane, mentre la seconda ondata del contagio investe l’Italia, la lattoferrina è diventata l’oggetto del desiderio di milioni di italiani in cerca di rassicurazioni, tra articoli pseudoscientifici in Rete, passa parola e medici di famiglia poco scrupolosi. È un boom commerciale senza precedenti, mentre le aziende che producono e vendono gli integratori vedono aumentare ricavi e profitti. Tutto sul filo del conflitto d’interessi, perché è stata proprio la ditta la napoletana Tdc (Technology Dedicated to Care), in prima linea nel nuovo business, a promuovere e finanziare lo studio di Tor Vergata. E così, una proteina solitamente usata in maniera generica per combattere le infezioni, e che in quanto tale "non può che far bene", è finita con l'essere scambiata per un rimedio risolutivo al virus. Questa storia, una commedia degli equivoci al tempo del virus, va però raccontata da principio, partendo proprio dallo studio accademico che per primo ha illuminato le ipotetiche virtù anticovid della lattoferrina. Nei mesi scorsi, l’università Tor Vergata, con la collaborazione della Sapienza, altro ateneo romano, ha svolto una ricerca sugli effetti benefici di questa proteina in tempo di pandemia. Elena Campione, professore associato di Dermatologia del Policlinico di Tor Vergata, aveva notato come i bambini, che ne hanno un'alta concentrazione, al contrario degli adulti, sviluppassero meno i sintomi del covid. L'ipotesi: la lattoferrina, presente soprattutto nel latte materno, "mangerebbe" il ferro di cui si nutre il virus, bloccandone la "crescita". Insieme a Campione, partecipano allo studio, tra gli altri, Luca Bianchi (Ordinario e Direttore della UOSD di Dermatologia), Massimo Andreoni (Ordinario di Malattie Infettive al Policlinico Tor Vergata), Piera Valenti (Ordinario di Microbiologia della Sapienza). Come oggetto della sperimentazione, usano l'apo-lattoferrina in ribosomi, una variante dell'originale "protetta" da (appunto) ribosomi e privata di un atomo di ferro per aumentarne gli effetti benefici. Il suo brevetto (col nome commerciale di Apo-Lact) appartiene alla Tdc, che ha anche fornito agli studiosi la proteina al centro dell’indagine scientifica. Secondo gli autori, i primi risultati, calcolati su un campione di appena cento persone, evidenziano «la remissione dei sintomi clinici nei pazienti» dopo il trattamento. La ricerca viene pubblicata in sordina, a luglio, sulla rivista Journal of molecular sciences. Poi in settembre, con la seconda ondata che avanza, lo studio viene ripreso dai giornali italiani, sulla base di un comunicato stampa diffuso dall’università di Tor Vergata. Il titolo è eloquente: “Una risposta contro il Covid-19: la glicoproteina lattoferrina”. Nel testo si legge che “le proprietà antivirali ed antinfiammatorie della lattoferrina (…) la candidano come molecola ideale per trattare i pazienti Covid19 positivi”. La buona novella si diffonde in fretta tra medici di base e pediatri, che consigliano l’integratore ai pazienti. Il 28 settembre, parlando con la testata online “Sanità informazione”, Andreoni, coinvolto nella ricerca dell’ateneo romano, dichiara che «somministrando la lattoferrina sia in compresse sia come spray, abbiamo visto che i tempi di eliminazione del virus effettivamente si accorciano». Poi il professore romano, un luminare dell’infettivologia, precisa: «Sono dati preliminari e bisogna attendere dati più ampi e definitivi per poterlo affermare con certezza, ma è certamente una questione interessante da approfondire». Una settimana fa, però, quando ormai la lattoferrina-mania è esplosa in tutta Italia, Andreoni getta acqua sul fuoco. «La proteina si compra in farmacia come la vitamina C o qualsiasi altro prodotto, quindi non si fanno danni, ma io lo sconsiglio», dice all’emittente romana Radio Radio. Insomma, rispetto a un mese prima, toni e parole si sono fatte più prudenti. Del resto, lo stesso comunicato ufficiale di Tor Vergata a luglio definiva «probabile» l'efficacia anti-covid, senza citare esplicitamente che si trattasse di un'indagine "pilota". Quello studio diventa il trampolino sfruttato da un’azienda di San Marino, la PromoPharma, per lanciare un integratore a base di lattoferrina. In una pubblicità pubblicata il 28 ottobre dal Corriere della Sera il prodotto di PromoPharma viene testualmente definito “l’alleato naturale contro il coronavirus”. Tempo pochi giorni e arriva la condanna dell’Iap, l’Istituto per l’autotutela pubblicitaria, che rileva come il messaggio promozionale sia tale da “generare erronee aspettative nel consumatore”.  Viene inoltre qualIficato come “scorretto il riferimento a studi di letteratura scientifica che il pubblico non è in grado di valutare criticamente”. «Ma è sempre stato chiaro che si trattava di valori preliminari», dice a L’Espresso Elena Campione, che ha promosso lo studio di Tor Vergata. E aggiunge che «in casi così i dati vanno ogni volta approfonditi, non sono mai definitivi». Anche Biancardi, fondatore, direttore tecnico ed ex azionista di controllo (le quote sono state cedute ad altri famigliari) della Tdc, ora prende le distanze. «Ha ragione Burioni - dice - non comprate la lattoferrina, non aiuta contro il covid». La piccola ditta di Biancardi, una decina di dipendenti, ricavi per un milione di euro circa nel 2019, fino a un paio di anni fa era conosciuta tra gli addetti ai lavori più che altro per i prodotti veterinari destinati ai cavalli. Nel 2018 l’azienda ha anche cambiato nome. Prima si chiamava Terra di Cuma. Tdc, la sigla è la stessa, l’insegna è diversa, certo più utile alle vetrine internazionali rispetto a quella precedente. E l'Apo-Lact, il prodotto di punta della società? «Gli studi sull’Apo-Lact vanno ancora approfonditi», ammette il farmacista napoletano e racconta che è stata l’università di Tor Vergata a cercarlo. Nel comunicato stampa sulla ricerca accademica si parla però genericamente di lattoferrina e non della variante sviluppata dall’azienda campana. Un equivoco non da poco, secondo Biancardi. Che afferma: «Credo che questa comunicazione sbagliata, che poi è arrivata ai giornali, abbia generato confusione e creato queste code inutili in farmacia». Inutili per la salute, s'intende. «Nessun equivoco», ribatte Campione, la professoressa di Tor Vergata, che ha firmato lo studio. «Ci sono accordi fra aziende private e università», dice. Conflitti d’interessi? «Le ricerche avvengono così, ovunque. Senza guadagnarci un euro. Semplicemente, ci si accorda con le aziende affinché mettano a disposizione il materiale necessario: altro che finanziamenti. E io non ho mai detto di correre in farmacia: a salvarci sarà il vaccino, la lattoferrina al massimo può servire da “scudo”». Tutto nella norma, insomma. L’università diffonde dati ottimistici, sulla base di un semplice studio preliminare. La notizia fa il giro della rete. Inizia il passaparola che innesca la corsa agli acquisti. Fino a quando gli esperti precisano, correggono, spiegano. Dopo quasi due mesi di follia collettiva la bolla della lattoferrina infine scoppia. Restano i profitti. Quelli delle aziende. E delle farmacie.

 Coronavirus, 14enne scopre una molecola che inibisce il virus. La ragazza ha vinto un importante concorso grazie alla scoperta di un farmaco per curare il Covid. Valentina Dardari, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Una speranza nella battaglia contro il virus potrebbe essere arrivata una ragazzina americana Anika Chebrolu, studentessa di terza media alla Independence High School di Frisco, in Texas. La giovane si è aggiudicata il concorso 3M Young Scientist Challenge grazie a un lavoro basato sull'identificazione di un farmaco per curare il Covid. La 14enne ha così vinto il premio di 25mila dollari, oltre 21mila euro.

Una molecola inibisce il coronavirus. Anika sarebbe riuscita a trovare una molecola capace di legarsi a una proteina del virus SARS-CoV-2 e, inibendolo, gli impedirebbe di funzionare. L’adolescente ha scoperto la molecola in questione attraverso una simulazione al computer, e i composti presenti nel database erano più di 682. La ragazza ha spiegato in una intervista alla Cnn, di aver iniziato lo studio per trovare un rimedio capace di combattere il virus influenzale stagionale, decidendo poi di passare allo studio del coronavirus una volta iniziata l’emergenza mondiale. Anika ha inoltre detto: “Negli ultimi giorni ho visto molto clamore mediatico intorno al mio progetto, poiché coinvolge il virus SARS-CoV-2 e riflette le nostre speranze di porre fine a questa pandemia poiché io, come tutti gli altri, desidero che torniamo presto alle nostre vite normali”. La 14enne si augura adesso che la popolarità che l’ha investita improvvisamente possa, grazie anche alla collaborazione con veri scienziati ed esperti, portare alla scoperta di una cura definitiva contro il virus. “Il modo in cui svilupperò ulteriormente questa molecola con l'aiuto di virologi e specialisti nello sviluppo di farmaci determinerà il successo di questi sforzi” ha aggiunto la giovane.

La scoperta grazie al nonno. L'ispirazione principale è stata suo nonno, un insegnante di chimica, che è riuscito a trasmetterle l'amore per la scienza. Infatti la ragazza ha ricordato che quando era più piccola, suo nonno l’aveva sempre incoraggiata a seguire la via della scienza. Essendo un insegnante di chimica, le diceva sempre di imparare la tavola periodica degli elementi e altre nozioni sulla scienza e con il tempo l’allora bambina si è appassionata a quel mondo. E proprio per quell'amore, il suo desiderio oggi è quello di diventare un giorno ricercatore medico e insegnante. “Sono sempre stata appassionata di esperimenti scientifici sin dalla mia infanzia e volevo trovare cure efficaci per la malattia influenzale dopo un grave episodio di infezione lo scorso anno. Vorrei imparare di più dagli scienziati 3M per continuare lo sviluppo del mio farmaco. E, con il loro aiuto, eseguire test in vitro e in vivo” ha confessato al 3M Young Scientist Lab.

Saracino (Policlinico di Bari): "Curiamo i pazienti Covid con due farmaci. E usiamo il plasma". L'intervista alla docente di Malattie infettive: "Non è più così facile ricostruire l'origine dell'infezione". Cenzio Di Zanni su La Repubblica l'11 ottobre 2020. Quello degli Infettivi non è l'unico reparto Covid al Policlinico di Bari, ma una cosa è certa: "I nostri 28 posti letto sono sempre quasi tutti occupati. La cosa va avanti da settimane e c'è un turnover costante". Annalisa Saracino, cinquant'anni, insegna Malattie infettive all'Università di Bari. È in prima linea contro il Covid-19 e conosce bene l'andamento della malattia.

Cos'è cambiato?

"Da quando s'è innescata la seconda ondata, a metà agosto, abbiamo visto pazienti più giovani che quasi sempre tornavano da viaggi all'estero oppure erano stati in contatto con chi era rientrato dalle vacanze oltreconfine. Adesso non è più così, vediamo pazienti di varie tipologie. Ma c'è un altro aspetto che ci preoccupa di più".

Quale?

"Spesso non riusciamo a trovare una correlazione diretta fra il virus e un evento particolare. Qui vediamo contatti di contatti e fra i pazienti c'è chi dice di non ricordare quale possa essere stata la fonte o l'occasione del contagio. Insomma, la catena si allunga, ci sono anche le infezioni in ambito familiare, ma nell'ultimo periodo non è più così facile ricostruire l'origine dell'infezione".

Il che complica le cose.

"Certo che le complica. È così per i colleghi che lavorano sul territorio e devono ricostruire la catena del contagio nell'attività di contact tracing. E vuol dire che la soglia di attenzione deve alzarsi sempre".

Qual è l'età media dei pazienti?

"Tende a salire. Non stiamo vedendo più soltanto pazienti giovani, come quelli che erano andati in Grecia ad agosto, per intenderci, ma non siamo ai livelli della Fase 1, naturalmente. Allora l'età media era molto più alta perché c'erano stati diversi focolai nelle Rsa".

Come curate i vostri pazienti?

"In alcuni casi abbiamo chiesto le sacche di plasma iperimmune, ovvero quello donato dalle persone guarite dal Covid. È stato così soprattutto per i pazienti in uno stadio più avanzato della malattia anche perché noi facciamo parte del protocollo Tsunami, che in Italia valuta l'efficacia e il ruolo del plasma nella terapia anti-Covid. Lo studio è ancora in corso, però. Per il resto, invece, le strategie di cura si basano su due tipi di farmaci".

Ovvero?

"Uno è il Remdesivir, un antivirale diretto. È il primo farmaco di questo genere ad aver ottenuto l'autorizzazione dell'Ema, l'Agenzia europea dei medicinali, con l'indicazione specifica per il trattamento del Covid-19: diversi studi clinici ne hanno dimostrano l'efficacia. Viene distribuito per il singolo paziente, se ha i requisiti. E per questo va inoltrata una richiesta nominativa all'Agenzia italiana del farmaco".

E l'altro farmaco?

"È il cortisone. Viene somministrato ai pazienti che hanno bisogno di ossigeno in una seconda fase della malattia. Sono farmaci che hanno dimostrato la loro efficacia clinica.

Poi c'è la profilassi antitrombotica, una costante nelle nostre cure".

Il farmaco che impedisce al virus di replicarsi: la scoperta del dottore calabrese Arnaldo Caruso. Franco Maurella su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Metotrexato: dall’Università di Brescia una nuova arma contro il Coronavirus. Ancora una volta, la “speranza” arriva dall’Università di Brescia ed ancora una volta è il calabrese Arnaldo Caruso, docente universitario di microbiologia, l’autore della ricerca il quale evidenzia: «Il Metotrexato toglie energia alla cellula impedendo che il virus replichi. Con questo semplice meccanismo noi possiamo bloccare il virus ed i suoi effetti patogenetici, se utilizzato sui pazienti ai primi sintomi o che hanno sviluppato sintomi lievi della malattia». La scoperta – per ora a livello di laboratorio, ma destinata alla sperimentazione clinica – è stata fatta da ricercatori dell’Università di Brescia e dell’Università di Milano-Bicocca ed è descritta nell’articolo Methotrexate inhibits Sars-CoV-2 virus replication “in vitro”, appena pubblicato sul Journal of Medical Virology. La ricerca, è partita da un approccio sistemico, che ha focalizzato una funzione virale, però connessa al metabolismo della cellula ospite. Come tutti i virus, il Sars-CoV-2 per replicarsi ha bisogno di fare tante copie delle due parti di cui è costituito: l’Rna – l’acido ribonucleico, ovvero il corredo genetico – e la parte proteica (esterna). Per replicare il suo Rna, il virus deve utilizzare nucleotidi, metaforicamente dei “mattoncini da costruzione” che però devono venir forniti dalla cellula umana che lo ospita. L’idea dei ricercatori è stata quindi di intervenire non sul virus, ma sulle cellule ospiti dei pazienti lievi o ai primi sintomi: se si blocca la produzione dei nucleotidi, il virus non riceve più materiali per fare copia di se stesso. Per riprodurre questo meccanismo biologico, i ricercatori hanno sperimentato su cellule in vitro, presso il laboratorio di Microbiologia dell’Università di Brescia, diretto dal professore Arnaldo Caruso che ha come prima collaboratrice la dottoressa Francesca Caccuri, anch’ella calabrese, il Metotrexato, un farmaco approvato dalla FDA (Food and Drug Administration, l’agenzia governativa statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici) e utilizzato da decine di anni in terapie antitumorali e su patologie autoimmuni. Questo farmaco è in grado di inibire la biosintesi delle purine, uno dei costituenti dei nucleotidi che vengono prodotti dalle cellule per costruire il proprio RNA. «Questo studio è il risultato di un metodo molto innovativo – afferma Lilia Alberghina, Direttore scientifico di ISBE.IT-SYSBIO Centro di Systems Biology dell’Università di Milano-Bicocca – su diversi piani: l’approccio scientifico la ricerca cui hanno preso parte clinici, biochimici, virologi e microbiologi; una forte collaborazione tra più istituzioni». «Un approccio nuovo alla terapia antivirale – aggiunge Arnaldo Caruso, Docente di Microbiologia dell’Università degli Studi di Brescia e Presidente della Società Italiana di Virologia – che parte dalle nostre conoscenze su Sars-CoV-2. Un virus che ha bisogno di replicare continuamente nella cellula che infetta altrimenti viene degradato ed eliminato. Il Metotrexato toglie energia alla cellula impedendo che il virus replichi. Se poi consideriamo i già noti effetti anti-infiammatori del Metotrexato, la sua efficacia nei pazienti Covid potrebbe diventare ancora più significativa. Una speranza in attesa della sperimentazione sul paziente».

Articolo di “Bloomberg” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 29 ottobre 2020. Regeneron Pharmaceuticals Inc. ha detto che i dati di uno studio clinico in fase avanzata suggeriscono che la sua terapia con cocktail di anticorpi per Covid-19 riduce significativamente i livelli di carica virale e la necessità di ulteriori cure mediche – riporta Bloomberg. I risultati offrono un altro segnale incoraggiante nella corsa alla ricerca di trattamenti per il virus mortale. I pazienti fuori dall'ospedale che hanno ricevuto la terapia hanno mostrato il 57% di probabilità in meno di aver bisogno di cure mediche in seguito. La società di Tarrytown, con sede a New York, ha condiviso i risultati con le autorità di regolamentazione statunitensi che stanno attualmente valutando il cocktail di anticorpi per un'autorizzazione all'uso d'emergenza per i pazienti ad alto rischio con Covid-19 da lieve a moderato. La terapia di Regeneron è stata somministrata al presidente Donald Trump all'inizio di questo mese dopo che è risultato positivo al coronavirus. Le azioni di Regeneron sono aumentate del 3,1% nelle contrattazioni dopo l'orario di lavoro di mercoledì a New York. Durante la chiusura, le azioni sono salite del 51% quest'anno, alimentate in gran parte dalla speranza che la terapia anticorpale offrirà presto ai medici una potente opzione di trattamento per il virus. Dal momento che la terapia ha avuto un beneficio simile a dosi alte e basse, Regeneron sta considerando una modifica del dosaggio che sta utilizzando in altri studi ambulatoriali in corso. Il passaggio a una dose più bassa potrebbe aiutare a prolungare la limitata disponibilità del farmaco. Il trattamento è sembrato essere il più potente per coloro che sono a più alto rischio, compresi i pazienti più anziani e quelli con altre condizioni mediche tra cui l'obesità, cuore, polmoni, fegato o malattie renali, ha detto la società . I pazienti che avevano i più alti livelli virali, o che producevano i più bassi livelli di anticorpi, erano i più propensi a rispondere al trattamento. "Continuiamo a vedere gli effetti più forti nei pazienti che sono più a rischio di scarsi risultati a causa dell'elevata carica virale", ha detto il Chief Scientific Officer George Yancopoulos. Il trattamento di Regeneron, chiamato REGN-COV2, consiste di due anticorpi monoclonali contro la proteina del coronavirus spike. È considerato uno dei più promettenti trattamenti potenziali di coronavirus in fase di studio. Le terapie anticorpali sperimentali potrebbero diventare una potente componente dell'arsenale che i medici usano per trattare i pazienti che hanno contratto il coronavirus. Anthony Fauci, il principale funzionario statunitense per le malattie infettive, ha fatto riferimento ai farmaci a base di anticorpi che potrebbero trattare i pazienti infetti subito dopo aver contratto il virus come ponte verso un vaccino. Le terapie anticorpali sono anche in fase di studio in ambito ospedaliero per curare i pazienti con casi più gravi e come trattamenti a breve termine che potrebbero essere somministrati a persone come i residenti delle case di cura o il personale che potrebbe essere stato esposto durante un'epidemia locale per evitare che si ammalino. Tra le altre aziende che testano trattamenti anticorpali vi sono Eli Lilly & Co., AstraZeneca Plc e GlaxoSmithKline Plc e il suo partner Vir Biotechnology Inc.

Da corriere.it il 30 ottobre 2020. «Ha già detto tutto Crisanti», così il professor Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, non nasconde il malumore per la gestione del tempo per gli interventi nella puntata di Cartabianca, a cui partecipa come ospite in collegamento come il professor Andrea Crisanti. «Lei è molto generoso oggi, siamo d’accordo su tutto», dice Crisanti . «Parla solo lui, non capisco cosa mi abbiate invitato a fare. Va bene così, va bene», risponde Bassetti rivolgendosi a Bianca Berlinguer. “Non l’ho costretta in tempi più rigidi rispetto a quelli del professor Crisanti”, dice la giornalista. Sui titoli di coda, nuove scintille “Avete detto che Trump ha ricevuto terapie che gli italiani non possono ricevere. Tutti i malati in Italia hanno avuto il trattamento che ha avuto Trump”, dice Bassetti. “Io parlavo di cittadini americani”, replica la giornalista. “Trump ha ricevuto il remdesevir, il cortisone e un anticorpo monoclonale che non è in commercio. I nostri pazienti ricevono il remdesivir, il cortisone, gli antibiotici e i farmaci di cui hanno bisogno come il signor Trump e il signor Berlusconi”, le parole del medico. “Molte persone durante l’epidemia sono state lasciate a casa” controbatte in conclusione la giornalista, ponendo fine al dibattito con Basetti.

Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone". Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale.

Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale. È davvero così?

«Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi».

Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?

«Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale».

Che attualmente però non c’è…

«No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine».

Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?

«Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico».

Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?

«Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa».

Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?

«Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale».

Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?

«C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione».

Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?

«Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale».

Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?

«Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid».

Cocktail di anticorpi anti Covid: funziona ma non si trova in giro. L'azienda americana che lo produce, la Regeneron, ha pensato di rivedere il dosaggio per rendere il medicinale più duraturo nel tempo. Ignazio Riccio, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. All'inizio del mese, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato curato con la terapia della società di biotecnologia american Regeneron Pharmaceuticals, con sede a Tarrytown, New York, dopo essere risultato positivo al Covid-19. Si tratta di un cocktail di anticorpi che avrebbe grossa efficacia soprattutto nei pazienti più gravi, riducendo in maniera importante la carica virale ed evitando altri tipi di cure mediche. Un risultato che sembra aprire uno spiraglio di luce nella lotta serrata al virus che sta producendo danni sanitari ed economici in tutto il mondo. Segnali positivi che hanno permesso a Regeneron di aumentare del 3,1% le azioni in Borsa, mercoledì scorso, durante le ore di contrattazione e, addirittura, del 51% nell’anno corrente. C’è voglia di sperare che gli anticorpi possano salvare l’umanità dalla feroce pandemia. D’altronde i risultati ottenuti sul campo sembrano incoraggianti. I contagiati curati con la terapia di Regeneron fuori dagli ospedali hanno evidenziato un’altra percentuale di non aver bisogno di altre cure per vincere la malattia da Coronavirus. Dato che sembra oramai accertato che il cocktail di anticorpi sia funzionale, la stessa Regeneron, come riporta Bloomberg, ha pensato di rivedere il dosaggio. Siccome il farmaco comincia a scarseggiare, in questo modo si cerca si prolungare l’utilizzo del medicinale nel tempo. Ad essere trattati con questo tipo di terapia sono, in particolare, gli anziani e i pazienti più a rischio, con patologie pregresse gravi, che potrebbero rivelarsi letali con il contagio da Covid-19. Ma in che cosa consiste il cocktail messo a punto da Regeneron? Regn-Cov2 è composto da una miscela di due anticorpi monoclonali, Regn10933 e Regn10987. La combinazione di diversi anticorpi ha lo scopo di prevenire la fuga mutazionale. Si tratta di copie create in laboratorio di quegli anticorpi che sono una delle armi principali che il sistema immunitario mette in gioco per combattere le infezioni. Siamo di fronte a una miscela di anticorpi generati in vitro, specificamente per il Coronavirus, simili agli anticorpi naturali ma creati artificialmente. I pazienti generalmente impiegano almeno una settimana per sviluppare questo tipo di difese. Per questo, secondo gli esperti, "se non li si fornisce nei primi giorni di ricovero, farlo in seguito non ha senso". Queste terapie sono in fase di studio anche nelle strutture ospedaliere, per somministrarle ai pazienti che arrivano già in condizioni gravi ed evitare il decesso, una sperimentazione che continua sotto il segno dell’ottimismo.

Silvia Turin per corriere.it l'8 ottobre 2020. Donald Trump ha annunciato in un video postato su Twitter che intende promuovere gratis per tutti gli americani il Regeneron, il trattamento sperimentale a base di anticorpi sintetici con cui è stato curato dal Covid-19. «Mi sono sentito bene subito, è incredibile come funzioni. Voglio per voi quello che ho avuto io e lo renderò gratis, non voglio che paghiate per una colpa non vostra, la colpa è della Cina e pagherà un grande prezzo», ha promesso il presidente, confidando nell’autorizzazione all’uso di emergenza.

I farmaci presi da Trump. Trump ha ricevuto in ospedale un cocktail antivirale sperimentale fatto da Regeneron attraverso un’esenzione per “uso compassionevole”. La sicurezza e l’efficacia del farmaco non sono state ancora dimostrate completamente. E non c’è modo per il presidente o per i suoi medici di sapere se sia stato proprio il Regeneron ad aver avuto da solo l’effetto benefico, anche perché Trump ha ricevuto anche il remdesivir che è uno dei pochissimi medicinali di cui scientificamente si sia dimostrata l’efficacia contro il coronavirus. Il Regeneron (REGN-COV2), della Pharmaceuticals Inc., è un cocktail anticorpale sperimentale prodotto in laboratorio, che agisce attaccando il virus mentre è in circolo ed è indicato in una fase precoce della malattia.

Il Regeneron. Prodotto di biotecnologie, è uno dei candidati più promettenti per curare Covid-19 insieme ad un altro trattamento con anticorpi sviluppato da Eli Lilly. Nello studio clinico in fase 1 su 275 pazienti contagiati con il Covid-19, coloro che averano ricevuto la terapia sperimentale Regeneron nella fase iniziale dell’infezione avevano livelli di virus più bassi nel sangue rispetto ai pazienti che avevano ricevuto un placebo. I loro sintomi si sono risolti in media da 6 a 8 giorni, rispetto ai 13 giorni di coloro che hanno ricevuto un placebo. Non solo: gli esperti stanno cercando di capire se REGN-COV2 potrebbe dimostrarsi utile nei pazienti più gravi (ospedalizzati) e se sia in grado di prevenire lo sviluppo dell’infezione in soggetti entrati a contatto con il virus. In generale, l’obiettivo degli anticorpi ricreati in laboratorio è quello di indurre una risposta immunitaria efficace contro Sars-CoV-2 in persone che per vari motivi non possono produrla autonomamente.

Le autorizzazioni. Mercoledì Eli Lilly ha chiesto formalmente alla Food and Drug Administration Usa di consentire l’uso di emergenza del suo anticorpo sperimentale sulla base dei primi risultati che suggeriscono che riduca i sintomi. L’agenzia dovrebbe rispondere entro poche settimane. Lilly afferma che potrebbe fornire fino a 1 milione di dosi della sua terapia nell’ultimo trimestre del 2020, con 100.000 dosi disponibili a ottobre. Regeneron conferma di aver chiesto l’autorizzazione di emergenza e ha detto mercoledì di avere dosi sufficienti per circa 50.000 pazienti e si aspetta che 300.000 siano disponibili entro i prossimi mesi. La società ha affermato che questa produzione anticipata consentirebbe la distribuzione del trattamento “immediatamente” se fosse autorizzato dalla FDA.

 Da ilmessaggero.it il 9 ottobre 2020. Il Regeneron, il cocktail sperimentale di anticorpi monoclonali usato da Donald Trump contro il Covid-19 e da lui promesso gratis a tutti, è stato sviluppato con cellule derivate da tessuto fetale, una pratica che il presidente ha ripetutamente condannato. Lo scrive il New York Times. Nel giugno del 2019 l'amministrazione Trump ha sospeso i fondi federali per gran parte delle nuove ricerche scientifiche che utilizzano tessuti fetali derivati da aborti. «Promuovere la dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale è una delle massime priorità dell'amministrazione Trump», scrisse il ministero della salute Usa, vietando «ricerche interne che richiedono l'acquisizione di tessuti fetali da aborti selettivi». Questo tipo di cellule è stato usato inoltre per testare l'antivirale Remdesivir, anch'esso assunto da Trump, ed è usato da almeno due aziende per il vaccino anti Covid, Moderna e Astrazeneca. Una rivelazione imbarazzante per un presidente pro vita che sbandiera la lotta all'aborto per aumentare i suoi consensi nell'elettorato più conservatore, a partire da quello evangelico.

La cura di Trump contro il Covid altera il cervello? La pesante accusa. Le Iene News il 10 ottobre 2020. Se lo chiede la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, che invoca il 25esimo emendamento della Costituzione per rimuovere il presidente Usa dal suo incarico: “i farmaci che prende potrebbero alterare le sue facoltà mentali”. Il Presidente degli Usa Donald Trump è ancora in grado di esercitare i poteri legati alla sua carica? È pesante il sospetto avanzato dalla speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, che ha chiesto una commissione di indagine per valutare il ricorso al 25esimo emendamento della Costituzione, per sollevare Trump dalla presidenza. La speaker ha spiegato: “Non so se il Presidente sia nelle condizioni di governare. Secondo alcuni dottori i farmaci che sta assumendo possono alterare le facoltà mentali dei pazienti”. Ma come è stato curato il Presidente, che dieci giorni fa ha ricevuto il primo tampone positivo dopo essere stato contagiato da una sua strettissima collaboratrice? Donald Trump spiega di aver appena terminato di assumere i farmaci di una terapia sperimentale, che non ha ancora ricevuto il via libera della Food & Drug Administration, a base di “anticorpi monoclonali” e un cocktail di altri medicinali, tra cui il Remdesivir. Una cura i cui protocolli prevedono la somministrazione di 2.4 grammi di farmaco e che non avrebbe fatto finora emergere gravi effetti collaterali, anche se il tycoon ne ha assunta una dose più massiccia, circa 8 grammi. Il co-fondatore e direttore scientifico di Regeneron, l’azienda che ha sviluppato questi anticorpi monoclonali, ha spiegato che “esiste un rischio molto, molto limitato” che gli anticorpi provochino danni all’organismo con l’aumento delle dosi assunte, ma la speaker della Camera tira dritto per la sua strada: “Trump è alterato dai farmaci”. A dieci giorni dal primo tampone positivo (e in attesa del primo negativo, che potrebbe arrivare oggi) Donald Trump, uscito dall’ospedale, dovrebbe tornare in pista, partecipando questa sera al primo comizio dopo il coronavirus, in Florida. Nel frattempo è stato annullato il secondo dibattito tv contro Joe Biden, previsto per giovedì. Il Presidente Usa si è infatti rifiutato di svolgerlo in modalità on line, spiegando: “Non ho intenzione di sprecare il mio tempo, non sono contagioso, sto benissimo". La replica del suo sfidante Biden è stata immediata:” è vergognoso che Donald Trump abbia schivato l'unico dibattito in cui erano gli elettori a fare le domande, ma non è una sorpresa. Tutti sanno che il presidente è un bullo con i giornalisti, ma ovviamente non se la sente di rispondere agli elettori".

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 23 ottobre 2020. Remdesivir approvato negli Usa per curare il Covid. La notizia dell’approvazione è arrivata dal produttore del farmaco, Gilead Sciences, che lo ha pubblicizzato come il primo trattamento per il coronavirus a ottenere il pieno via libera dell’agenzia.

Remdesivir ora si chiamerà Veklury. “Veklury”, il nome commerciale del remdesivir, è stato al centro dell’attenzione quando il presidente Trump, tre settimane fa risultato positivo, ha ricevuto un ciclo di cinque dosi. Il farmaco viene somministrato per via endovena per cinque giorni ed è stato inizialmente sviluppato da Gilead per combattere l’ebola. Tuttavia un recente studio clinico in fase preliminare condotto dall’Organizzazione mondiale della sanità ha rilevato che remdesivir non ha avuto alcun effetto sostanziale sulla sopravvivenza dei pazienti COVID-19. La FDA ritiene che il farmaco abbia comunque ridotto i tempi di guarigione in media di 5 giorni.

50 Paesi del mondo hanno approvato l’uso del farmaco. Secondo quanto riportato dal New York Post e affermato da Gilead, circa 50 paesi in tutto il mondo hanno approvato l’uso di remdesivir. Trump si è ripreso dopo tre giorni al Walter Reed Naitonal Military Medical Center. Oltre a remdesivir, ha ricevuto come cura un cocktail di anticorpi monoclonali sperimentali, e desametasone. (Fonte: New York Post)

Da blitzquotidiano.it l'8 ottobre 2020. Remdesivir, un antivirale inizialmente sviluppato per Ebola, è l’unico trattamento per pazienti COVID-19 che necessitano di ossigeno. Il Guardian ha messo in fila le carenze in Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Olanda.

Remdesivir, antivirale inizialmente sviluppato per Ebola. Tuttavia in Italia, rassicura l’Aifa, il problema non si è manifestato. Qualche numero: lo scorso luglio l’amministrazione statunitense ha acquistato 500mila dosi del farmaco. Quasi l’intera produzione trimestrale. E del resto l’hanno utilizzato per curare anche il presidente Usa Donald Trump. L’Unione Europea ne aveva prenotate 30mila dosi. Addirittura in Gran Bretagna hanno ordinato ai medici di razionarlo, l’Olanda ha segnalato di aver esaurito le scorte. Nel nostro paese 100 pazienti al giorno ricevono il farmaco. 

La Commissione Ue si assicura un milione di trattamenti. Una urgenza c’è, l’Europa l’ha capito. Per questo è importante la notizia di oggi: la Commissione ha appena firmato un contratto di appalto congiunto con la società farmaceutica Gilead per 500mila trattamenti. Con l’opzione di raddoppiare la fornitura. Il contratto vale 70 milioni di euro, provenienti dallo strumento di sostegno alle emergenze (Esi) della Commissione. E’ l’unico medicinale autorizzato nell’Ue per il trattamento di pazienti COVID-19 che necessitano di ossigeno. All’appalto congiunto partecipano 36 paesi, tutti quelli Ue, dello spazio economico europeo, il Regno Unito e sei paesi candidati all’adesione. Dosi del farmaco sono state distribuite l’altro ieri a Grecia e Olanda, e ieri ad Austria, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia e Grecia. (fonte Ansa)

Franco Manzitti per blitzquotidiano.it l'8 ottobre 2020. Uno dei tre medici che ha portato in Italia il Remdesivir, farmaco in pista contro il Coronavirus, è Matteo Bassetti, direttore della Clinica delle Malattie Infettive al Policlinico di san Martino a Genova. È figlio d’arte, in quanto erede diretto di uno storico infettivologo genovese e italiano, arrivato sotto la Lanterna quasi due anni fa da Udine, con un curriculum di carriera e pubblicazioni alto così, molto mediatico e per questo anche contestato. Nei giorni in cui il titolo alla borsa di New York della Gilead Science, la società che produce il farmaco antivirale, vola, il virologo superstar Anthony Fauci definisce “positivo” il suo effetto per bloccare il virus. Bassetti non rivendica meriti speciali per sé e la sua équipe, da sessanta giorni nella front line contro l’epidemia nella corsia del San Martino. “Conoscevamo quel farmaco – spiega in tutta tranquillità – che era stato usato contro l’ebola e poi in altri casi contro i Coronavirus, anche in casi di epidemia dei cammelli. “Per questo motivo dopo lo Spallanzani di Roma e insieme a qualche ospedale ticinese, lo abbiamo chiesto all’azienda americana che lo produceva.” L’iter, incominciato a Genova ai primi di marzo , come sempre in questi casi, non è stato rapidissimo. Bisognava ottenere il farmaco negli Stati Uniti, chiedere al comitato etico il suo “uso compassionevole”, cioè assolutamente ridotto nei casi e sperimentale. ”Il protocollo per usarlo in una pratica sperimentale non è stato quindi rapido”, aggiunge Bassetti. “Lo avevo chiesto per trattare 21 pazienti, il progetto è stato approvato per 11 e io ho avuto il tempo di sperimentarlo per tre casi, qualcuno dei pazienti per i quali lo aveva programmato erano deceduti nel frattempo”. E come è andata per quei tre casi? “Molto bene in tutti e tre i casi”, risponde l’infettivologo. E spiega come, in questi casi, in attesa di uno studio più allargato, si parla di “medicina anedottica”, che secondo la scienza e gli scienziati come lui necessita di una sperimentazione maggiore. Per questo la Clinica di Genova aveva chiesto di poter sperimentare a largo raggio. Come è noto l’Agenzia per il Farmaco ha autorizzato dieci centri in Italia, ma ha tagliato fuori San Martino, che era stato il primo a chiederlo. Bassetti ha reagito molto polemicamente, sostenendo anche che la scelta aveva risposto a criteri geopolitici sfavorevoli a Genova e in favore di centri anche molti più piccoli, ma protetti da maggioranze politiche più vicine al governo romano, al Ministro della Salute. Ne è nata una gran bagarre a Genova, con Bassetti sbattuto in mezzo a un ciclone soprattutto da qualche “colonnello” del Pd locale, che lo accusava di fare politica con i farmaci, insomma di buttarla in politica. [Alla fine, con qualche giorno di ritardo, è arrivato il congrordine. Anche Genova, informa il Secolo XIX, sarà inclusa.] Senza capire che attaccare lui significava anche prendersela con l’Università della quale il medico è un professore. La scelta di esclusione aveva colpito un medico in trincea da due mesi con la sua squadra. Mentre il suo reparto era sotto la pressione di ricoveri e emergenze massicce e la sua Clinica era diventata in Liguria il cuore della battaglia contro il virus sconosciuto. Essa probabilmente derivava non solo da una “piccola” battaglia sanitario politica, ma piuttosto dallo scontro economico di grandi aziende farmaceutiche in guerra tra loro sulla frontiera dell’epidemia mondiale. Inghiottita la delusione per la esclusione, Bassetti preferisce analizzare ancora l’efficacia del Redmesivir. “Recentemente uno studio dell’autorevolissima rivista New England ne raccomanda l’utilizzo – dice. – So anche che uno studio cinese è sfavorevole e sostiene che il farmaco “non accelera il recupero dei pazienti”. Ma quest’ ultimo lavoro non è completo e sopratutto non è suffragato da sufficienti trial.“ Il parere critico di Bassetti sulla sentenza arrivata dalla Cina è stato confermato proprio nelle ultime ore dalla rivista Lancet, in un articolo molto secco sulla vicenda: i ricercatori invitano a prendere con le molle i risultati cinesi, appunto per le piccole dimensioni del trial. Ma quando va usato questo farmaco nel corso della malattia e per quali scopi nella sua evoluzione ancora così misteriosa? “In una patologia come questa ricorrere al Redmisivir è utile proprio perché partiamo praticamente da zero e i primi risultati sono stati positivi – risponde Bassetti. “Il tempo di utilizzo, a mio avviso, deve essere il più precoce possibile, all’insorgere dell’infezione per sperare di avere un effetto fausto. “L’obiettivo è quello di abbassare la carica virale e, quindi, di bloccare il decorso della malattia. “In una battaglia come questa abbiamo sperimentato e sperimentiamo tanti farmaci,come per esempio l’idrossoclorichina, che purtroppo non ha avuto esiti positivi… “Abbiamo usato anche terapie sperimentate contro l’HIV….. in questo momento tutte le terapie che stiamo facendo per i pazienti con Coronavirus sono sperimentali . Il protocollo regionale è fatto, appunto, anche di farmaci per l’Hiv, come Lopinvir o Ritonavir….. “Ed è in corso una sperimentazione supportata da Roche su oltre 50 pazienti anche per il Tocilizumab , il farmaco per l’artrite reumatoide, che si è rivelato efficace per ridurre l’infiammazione polmonare, scatenata dal Covid 19. Come dire, lasciateci studiare, lasciateci sperimentare nell’interesse dei pazienti. Ora anche la Food and Drugs Administration americana è pronta ad autorizzare in emergenza l’uso del farmaco sperimentale Remdesivir. Anche Anthony Fauci approva dal cratere americano dell’epidemia. La battaglia iniziale di Matteo Bassetti, insieme allo Spallanzani di Roma, assume una importanza maggiore e le polemiche che lo hanno coinvolto per un suo presunto uso politico della questione Remdesivir appaiono esagerate, fuori tempo rispetto all’emergenza. Abituato oramai a comparire frequentemente nelle trasmissioni tv di ogni livello, rete e audience, Bassetti è molto deluso di pagare la sua visibilità con questo prezzo di aggressioni politiche. “Sono tornato a Genova dopo 8 anni a Udine, vincendo il concorso – dice- se immaginavo che la città era diventata così non sarei certo tornato……” Il prezzo di questa esposizione medica e anche “politica” continua intanto a salire. Negli ultimi giorni il professore è stato attaccato perché la sua foto è apparsa sui muri di un Hotel Residence, in un elegante quartiere genovese, gestito da sua moglie, come garanzia di una corretta sanificazione degli ambienti preparati a ospitare i pazienti Covid positivi in convalescenza, grazie a un accordo con la Regione. Si è scatenata una seconda tempesta con l’accusa di uso improprio dell’immagine professionale contro l’infettivologo che, non essendo certo uno con i peli sulla lingua, ha replicato che lui usa “la sua popolarità come meglio crede. D’altra parte Bassetti non è uno che tace e se ne sta quieto in corsia: la frontalità davanti all’emergenza dell’epidemia di questo medico, cui i mezzi di comunicazione hanno fatto ricorso massicciamente negli ultimi mesi da ogni parte, è sempre più esplicita. “Continuare con le chiusure del Paese in questo modo – commenta per esempio- mi sembra un azzardo pericoloso, è come inseguire la pancia della gente, la paura, invece di ragionare bene su come contrastare i contagi e combattere la malattia. L’11 maggio la Francia, che confina con noi a due passi da qua, apre tutto e noi restiamo chiusi……che senso ha?” Intanto Bassetti il Redmesivir non lo può usare sui suoi pazienti. E pensare che a inizio tempesta, quasi in sintonia con la sua richiesta alla casa americana di spedirglielo, il New Yorker, una delle più autorevoli riviste americane, aveva dedicato a questo farmaco una analisi precisa e stringente. Insieme al NHC il Remdesivir veniva indicato come il farmaco più efficace nelle ricerche più recenti delle case farmaceutiche americane. La grande esposizione del clinico infettivologo genovese ha ovviamente suscitato la domanda di una sua possibile candidatura politica, ovviamente nelle fila del centro destra, governato dal potente e molto appariscente presidente Giovanni Toti, alla vigilia di una campagna elettorale “sotto Coronavirus”. “ Me l’hanno chiesto in tanti di entrare in politica - è la risposta secca - Non ci penso nemmeno!” 

La Russia approva due farmaci per il trattamento del Covid-19. Andrea Walton su Inside Over il 19 settembre 2020. La Federazione russa ha compiuto un importante passo in avanti per giungere ad una cura del Covid-19. Le autorità sanitarie del Paese hanno autorizzato la distribuzione nelle farmacie di due rimedi in grado di curare i casi d’infezione lievi e moderati provocati dal virus Sars-CoV-2. Si tratta dell’Areplivir, prodotto dalla Promomed e del Koronavir, che è stato sviluppato dalla R-Farm. Entrambi i farmaci sono varianti del favipiravir, un antivirale sviluppato dalla giapponese Fujifilm che viene raccomandato in alcuni Paesi, tra cui Cina, India e Russia, per curare le infezioni provocate dal coronavirus. R-Farm ha dichiarato che il Koronavir dovrebbe ridurre lo sviluppo di complicazioni legate al Covid-19. Il 50% dei pazienti che lo hanno assunto nell’ambito delle sperimentazioni avrebbe mostrato segni di miglioramento nel giro di sette giorni.

Una questione di metodo. La R-Pharm ha reso noto di aver ricevuto l’autorizzazione per la produzione di massa del Coronavir dopo aver completato la Fase 3 dei test clinici, che ha coinvolto appena 178 pazienti. Si tratta di un problema ricorrente nella Federazione russa e che ha segnato anche il vaccino Sputnik V, che dovrebbe essere lanciato nel mese di novembre. Le fasi uno e due della sperimentazione dello Sputnik V hanno visto la partecipazione di appena 76 volontari ed il vaccino è stato brevettato prima dell’inizio della decisiva fase tre dei test. Si tratta di una procedura del tutto inusuale in Occidente: la fase 3 di una sperimentazione, che è di vitale importanza per comprendere la reale efficacia di una cura e la presenza di gravi effetti collaterali, vede coinvolte molte migliaia di volontari. Mosca ha però deciso di bruciare le tappe spinta da motivazioni geopolitiche: lo sviluppo di una cura in grado di fermare il Covid-19 consentirebbe all’economia russa di ripartire per prima e di espandere la sfera d’influenza del Cremlino. La comunità scientifica mondiale è focalizzata, ormai da mesi, sullo sviluppo di un trattamento farmacologico o di un vaccino per riuscire ad imbrigliare il virus Sars-CoV-2.

Le complesse trame geopolitiche. Il compito non è dei più semplici: normalmente servono anni per raggiungere un risultato di questo genere. I tempi sono stati compressi per ovvie esigenze economiche e sanitarie ed il Cremlino potrebbe trarne dei vantaggi politici. La Federazione russa ha recentemente raggiunto un accordo con l’India per la fornitura di cento milioni di dosi dello Sputnik V a Nuova Delhi in cambio della produzione di 300 milioni di dosi del vaccino da parte delle autorità indiane. Il vaccino russo fa gola anche all’Egitto che, stando a quanto riferito dai vertici del Fondo di investimento russo, potrebbe fungere da porta di accesso per il resto dell’Africa. Sono poi state siglate intese con Brasile e Messico per rifornire i due Paesi con 80 milioni di dosi del trattamento.

Tentativi di normalizzazione. Le autorità russe non sembrano comunque preoccupate dalla diffusione del Covid-19 nel Paese. Il virus ha infettato oltre un milione di cittadini e provocato la morte di quasi ventimila persone ma, secondo la Ria Novosti Rospotrebnadzor, il servizio federale dei consumatori, si starebbe adattando alla popolazione umana e potrebbe divenire una malattia stagionale. Una tesi che sarebbe corroborata, secondo l’ufficio stampa di Rospotrebnadzor. dal calo del tasso di mortalità del Covid-19, passato dal 7.2 al 3.2 per cento e dalla crescente trasmissibilità della malattia. Il calo del tasso di mortalità è stato osservato anche in altre nazioni del Vecchio Continente ed è stato giustificato dal fatto che i nuovi casi di infezione hanno coinvolto, nel corso dell’estate, principalmente le fasce d’età giovanili, meno propense a sviluppare sintomi severi oppure a perdere la vita a causa del morbo.

Annalisa Tellini per "focustech.it" il 7 luglio 2020. La radiazione UV-C, quella tipicamente prodotta da lampade a basso costo al mercurio ha un’ottima efficacia nel neutralizzare il coronavirus SARS-COV-2. Lo conferma uno studio sperimentale multidisciplinare effettuato da un gruppo di ricercatori, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Università Statale di Milano, dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano  e dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi. “Gli studi effettuati sono di grande rilievo nell’ambito del contrasto alla pandemia da COVID-19 e dimostrano come l’approccio multidisciplinare condotto da ricercatori di Istituti diversi possa portare a eccellenti risultati”, spiega Mario Clerici, docente di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore scientifico dell’IRCCS.

La dose giusta di raggi ultravioletti che inattiva il covid. È noto il potere germicida della luce UV-C su batteri e virus, una proprietà dovuta alla sua capacità di rompere i legami molecolari di DNA e RNA che costituiscono questi microorganismi. Diversi sistemi basati su luce UV-C sono già utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici in ospedali e luoghi pubblici. Tuttavia, per quanto spesso questa tecnologia venga richiamata pubblicamente a livello internazionale anche per la lotta alla diffusione della pandemia da COVID-19, una misura diretta della dose di raggi UV necessaria per rendere innocuo il virus non era stata ancora effettuata. “Abbiamo illuminato con luce UV soluzioni a diverse concentrazioni di virus e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola, per inattivare e inibire la riproduzione del virus, indipendentemente dalla sua concentrazione”, spiega Mara Biasin, docente di Biologia Applicata dell’Università Statale di Milano. “Con dosi così piccole è possibile attuare un’efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile a imprenditori e operatori pubblici per sviluppare sistemi volti a contrastare lo sviluppo della pandemia”, aggiunge Andrea Bianco, tecnologo INAF.

Il ruolo del sole nell’evoluzione del Covid. Il risultato ottenuto è molto importante al fine comprendere come gli ultravioletti prodotti dal sole possano incidere sulla pandemia, inattivando in ambienti aperti il virus. In questo caso ad agire non sono i raggi ultravioletti corti UV-C, bensì i raggi UV-B e UV-A. In estate, specialmente nelle ore più calde, bastano pochi minuti perché la luce ultravioletta del sole riesca a rendere inefficace il virus. “Il nostro studio sembra spiegare molto bene come la pandemia si sia sviluppata con più potenza nell’emisfero nord della Terra durante i primi mesi dell’anno; e ora stia spostando il proprio picco nei Paesi dell’emisfero sud, dove sta già iniziando l’inverno, attenuandosi invece nell’emisfero nord”, aggiunge Fabrizio Nicastro, ricercatore INAF. Le attività intraprese da INAF contro la pandemia sono iniziate lo scorso marzo su specifico impulso del ministero di Università e Ricerca. Le tecnologie e le competenze sviluppate in ambito astrofisico trovano ora applicazione e grande utilità per la società civile e sono utili al mondo imprenditoriale.

Da ilmessaggero.it il 12 giugno 2020. Alcune forme del raffreddore comune potrebbero aiutare a proteggere Covid-19. Lo suggerisce uno studio scientifico. E l'immunità al coronavirus potrebbe durare fino a 17 anni, secondo la ricerca di esperti di immunologia. Lo studio condotto da scienziati della Duke-Nus Medical School di Singapore ha scoperto che alcune forme del raffreddore comune potrebbero aiutare a offrire protezione da Covid-19, un passo avanti nella lotta al virus che arriva dagli scienziati che proprio in questi giorni inizieranno attraverso una società di biotecnologia di Singapore, Tychan, studi clinici sull'uomo per un potenziale trattamento anticorpale monoclonale per Covid-19. La prima fase della sperimentazione sarà condotta su volontari sani per determinare la sicurezza e la tollerabilità di TY027, un anticorpo monoclonale o una proteina del sistema immunitario che colpisce specificamente il virus che causa Covid-19. Ma torniamo al raffreddore. Secondo lo studio i pazienti che avevano precedentemente avuto raffreddori causati da virus correlati a Covid-19, chiamati betacoronavirus, «potevano avere immunità o soffrire di una forma più lieve della malattia», affermano i ricercatori. I betacoronavirus, in particolare OC43 e HKU1, causano raffreddori comuni ma anche gravi infezioni toraciche nei pazienti più anziani e più giovani. Condividono molte caratteristiche genetiche con i coronavirus Covid-19, MERS e SARS, tutti passati dagli animali all'uomo. Si ritiene che i coronavirus rappresentino fino al 30% di tutti i raffreddori, ma non si sa in particolare quanti siano causati dai tipi di betacoronavirus. Ora gli scienziati sembra abbiano trovato prove che un'immunità può essere presente per molti anni a causa delle cellule T "memoria" del corpo dagli attacchi di precedenti virus con un simile corredo genetico - anche tra le persone che non hanno avuto un'esposizione nota a Covid-19 o SARS. Le cellule T sono un tipo di globuli bianchi e fanno parte della seconda linea di difesa del sistema immunitario contro qualsiasi attacco virale, che si attiva circa una settimana dopo l'infezione. Si pensa da tempo che offrano una protezione duratura ai virus e come tali sono chiamate celle di "memoria". L'ultimo studio, condotto dall'immunologo Professor Antonio Bertoletti e dai colleghi della Duke-NUS Medical School di Singapore, offre alcuni risultati "notevoli" sul potenziale ruolo delle cellule T nella lotta contro Covid-19. L'effetto protettivo di queste cellule contro Covid-19 deve essere dimostrato in ulteriori studi, ma gli esperti sostengono che i pazienti che si sono ripresi dal virus del polmone mortale SARS nel 2003 mostrano risposte immunitarie alle proteine chiave trovate in Covid-19. I ricercatori hanno scoperto che i pazienti che in precedenza avevano raffreddori causati da virus correlati a Covid-19, chiamati betacoronavirus, potevano avere immunità o soffrire di una forma più lieve della malattia. I ricercatori hanno affermato: "Questi risultati dimostrano che le cellule T di memoria specifiche del virus indotte dall'infezione da betacoronavirus sono di lunga durata, il che supporta l'idea che i pazienti di Covid-19 svilupperebbero l'immunità a lungo termine delle cellule T. «Le nostre scoperte aumentano anche la possibilità intrigante che l'infezione con virus correlati possa anche proteggere o modificare la patologia causata da SARS-Cov-2, il ceppo di coronavirus che causa Covid-19». Il sangue è stato prelevato da 24 pazienti che si erano ripresi da Covid-19, 23 che si erano ammalati di SARS e 18 che non erano mai stati esposti né alla SARS né a Covid-19. Più sorprendente, secondo gli scienziati, è stata che la metà dei pazienti nel gruppo senza esposizione a Covid-19 o SARS possedeva cellule T che mostravano una risposta immunitaria ai betacoronavirus animali, Covid-19 e SARS. Ciò ha suggerito che l'immunità dei pazienti si è sviluppata dopo l'esposizione a raffreddori comuni causati da betacoronavirus o eventualmente da altri agenti patogeni ancora sconosciuti.

Si sperimentano cure antivirali. Ossia inibitori del virus al fine di impedirne la prolificazione nell’organismo.

Si sperimentano cure antinfiammatorie per ridurre gli effetti letali del virus.

Antivirale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

I farmaci antivirali sono una categoria di chemioterapici attivi contro infezioni causate dai virus. In particolare, la loro azione si manifesta in vari stadi della replicazione virale. Hanno sia azione profilattica sia terapeutica verso malattie virali, alcune note fin dall'antichità. Spesso è possibile intervenire preventivamente mediante profilassi con vaccini o sieri; questo è un vantaggio, poiché nel momento in cui si riconoscono i sintomi, i virus sono tanto numerosi che i farmaci possono avere effetti non immediati. I farmaci sono considerati efficaci se interferiscono con la replicazione virale senza modificare le normali funzioni cellulari; poiché i virus sono parassiti intracellulari obbligati questo non è sempre possibile. Esistono farmaci ad applicazione topica per trattare herpes labiale, oculare o genitale, che riducono lo sfogo senza però eliminare completamente l'infezione. Gli interferoni sono proteine prodotte dal corpo e coinvolte nella risposta immunitaria e nella funzionalità cellulare; nel 2011 è stata scoperta l'efficacia dell'interferone nel ridurre l'infiammazione nelle persone con epatite B o C.

Profilattici.Tra i farmaci chemioprofilattici è importante ricordare:

metisazone (1962), profilattico del vaiolo non in atto, agisce provocando la formazione di RNA messaggero di lunghezza minore rispetto al normale con conseguente blocco della sintesi di alcune proteine necessarie per incapsidare il DNA;

amantadina, profilattico antinfluenzale;

inibitori delle neuraminidasi (zanamivir), agiscono a livello di enzimi coinvolti nell'attivazione dei virus dell'influenza A e B.

Terapeutici.

I farmaci aventi attività chemioterapica si distinguono in base alla loro azione:

Inibizione della replicazione dell'acido nucleico virale:

antimetaboliti della timidina (floxuridina, trifluridina...);

antimetaboliti dell'adenosina e guanosina (vidarabina, ribavirina...);

Blocco della trascrittasi inversa, sono inibitori nucleosidici o non nucleosidici, spesso usati contro ceppi di virus che provocano AIDS.

Stimolazione dei processi immunitari dell'ospite (levamisolo):

inibitori delle proteasi (inibiscono il processamento dei polipeptidi virali e quindi la maturazione dei virioni);

inibitori della fusione (prevengono la fusione della membrana virale con quella dei linfociti T).

Effetti collaterali. I principali effetti avversi riguardano danni epatici, quindi è necessario controllare periodicamente la funzionalità del fegato e sospendere il trattamento se necessario.

Antinfiammatorio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

L'aggettivo antinfiammatorio o antiflogistico è riferito alla proprietà di una sostanza, o di un particolare trattamento terapeutico, di ridurre un'infiammazione.

Classificazione. I farmaci antinfiammatori costituiscono una parte degli antalgici, rimediando al dolore attraverso la riduzione dell'infiammazione, al contrario, ad esempio, dei farmaci oppioidi o oppiacei che agiscono sui recettori oppiacei presenti nel cervello e nel midollo spinale. Gli antinfiammatori sono a loro volta divisi in steroidei e non steroidei (comunemente chiamati FANS). Combattono infiammazioni di diverse cause, come i reumatismi, fratture, stomatite, febbre, distorsioni, borsite.

Antinfiammatori steroidei. Gli antinfiammatori steroidei diffondono attraverso le membrane cellulari e formano un complesso con specifici recettori citoplasmatici (recettori glucocorticoidi). Questi complessi penetrano nel nucleo e si legano al DNA, stimolano ed inibiscono la trascrizione di m-RNA e comportano l'induzione di lipomodulina e macrocortina (conosciuta anche con il nome di lipocortina 1 o annessina 1), proteine inibitrici della fosfolipasi A2. Le lipocortinee sopprimono il rilascio di acido arachidonico, un importante precursore delle prostaglandine e dei leucotrieni, entrambi potenti mediatori nella risposta infiammatoria.

Antinfiammatori non steroidei. I FANS vanno invece ad inibire l'attività degli enzimi Cicloosigenasi di tipo 1 e 2 (COX 1-2) che convertono l'acido arachidonico in prostaglandine e trombossani. Ciò riduce la dilatazione dei capillari e l'edema, l'essudazione fibrinosa, la migrazione fagocitaria e l'infiltrazione dei tessuti (in particolare da parte dei leucocitipolimorfonucleati), inibisce l'attività fibroblastica di deposizione di collagene e formazione di cicatrici, ritarda la rigenerazione epiteliale, diminuisce la proliferazione capillare (cioè la neovascolarizzazione postinfiammatoria).

Modalità d'azione. Questi farmaci presentano strutture chimiche spesso diverse. Tuttavia, condividono quattro aspetti comuni:

Farmacologia:

tutti gli antinfiammatori inibiscono la sintesi delle prostaglandine (mediatori dell'infiammazione).  Le prostaglandine, oltre alla loro funzione infiammatoria, spingono le piastrine ad aggregarsi. Provocano peraltro la febbre (piressia) e infiammano il muco gastrico;

Attività: possiedono, oltre alle loro proprietà antinfiammatorie, effetti antalgici e antipiretici.

Chimica: presentano gruppi acidi (o funzioni acide).

Effetti collaterali: possono provocare lesioni della mucosa gastrica e duodenale, specificamente emorragie e ascessi.

I FANS agiscono inibendo l'azione delle ciclo-ossigenasi COX-1 e COX-2, due enzimi che catalizzano la formazione di prostaglandine dall'acido arachidonico.

Decalogo semiserio per guarire dal Coronavirus. Gian Paolo Serino, 1 marzo 2020 su Nicola Porro.it. Il Coronavirus si guarisce in pillole. Il contagio ormai è pandemico, almeno quello delle dichiarazioni pubbliche in “battuta”. Il vaccino non è ancora stato trovato, soprattutto tra i politici. Ecco un decalogo, il punto dieci aggiungetelo Voi. Secondo me i pericoli maggiori ad oggi sono questi:

1) Le più tragiche conseguenze del Coronavirus: quelli guariti cominciano a scrivere un libro di memorie.

2) “Le fake news sono più pericolose dell’epidemia” ha dichiarato Di Maio eliminando i post.

3) Zurigo, dipendente Google contagiato. Su Internet bloccata la ricerca sul Coronavirus.

4) Le scuole restano chiuse in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Dopo l’amuchina adesso in farmacia non si trovano tranquillanti per i genitori.

5) Anche in Germania hanno iniziato a saccheggiare i supermercati. Come se la roba che mangiano loro fosse meglio del coronavirus.

6) Poste italiane riapre nelle zone della quarantena. Tanto il tempo che arriva il tuo turno e l’hai già fatta tutta.

7) “Tour degli Emirati”, due ciclisti italiani positivi al coronavirus. Ora va messo in quarantena il donatore di urina.

8) Chissà se dopo i due cinesi allo Spallanzani riescono a resuscitare anche la sinistra italiana.

9) Nel 2019 in Italia ci sono stati 1218 morti sul lavoro. Probabilmente non avevano la mascherina.

Tutto Travaglio. "Trovata la cura! Basta protocolli del ’ndo cojo cojo". Daniele Luttazzi Il Fatto Quotidiano il 18 aprile 2020. - Trovata una cura per il CoVid-19. Lo ha annunciato ieri pomeriggio il dottor Neil Obstat, uno dei diciottomila membri del Comitato Tecnico Scientifico istituito con un decreto dal commissario per l’emergenza Borrelli (tutta gente sveglia, gente che ha fatto il Politecnico e la Bocconi, gente che cammina fischiettando cruciverba). Obstat (gli scienziati che scoprono qualcosa vanno sempre chiamati per cognome, senza il “dottor”) ha scoperto la cura per caso, bevendo accidentalmente un liquido colorato che stava fermentando in una beuta del suo laboratorio clandestino di margarina. “Porca puttana!” ha esclamato Obstat, assaporandone un sorso. “Questa è la cura per il Coronavirus! Allappa un po’, ma sa di barolo chinato!”. E in effetti era la cura per il Coronavirus, quella cura che ha beffato la Scienza fin dal 1956, quando ci fu il primo caso di polmonite interstiziale da CoVid-19, con defunto subito cremato e tutti zitti, mi raccomando. (Per la cronaca, si trattava di Jan Jansen, un lunatico che gironzolava per Amsterdam a incollare ali di pipistrello alle pantegane). Poiché quella del dottor Obstat (lo so, lo so, ma a volte si possono fare eccezioni, come in questo caso) è la prima cura trovata, è stata chiamata Siero A, con soddisfazione di tutti i membri del Comitato Tecnico Scientifico, che hanno celebrato l’avvenimento fischiettando cruciverba, dopo aver deposto la contessa sul suo letto (è una storia lunga). L’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, la cui Commissione era riunita da un mese in seduta telematica permanente, immaginatevi in che stato avevano le mutande, ha subito bloccato i protocolli di sperimentazione avviati due giorni fa. I protocolli erano una quarantina, un numero altissimo, all’insegna del ’ndo cojo cojo, ma si era in emergenza; per non parlare poi del pressing di Big Pharma, che voleva poter utilizzare molecole off label, come il tocilizumab, il remdesivir e la varechina. Farmaci che non sono privi di effetti collaterali importanti. Il tocilizumab, per esempio, ti dà un odore corporeo che fa scattare gli allarmi antigas in tutto il quartiere. Il remdesivir ti fa urlare all’improvviso come Vittorio Sgarbi. Il sarilumab ti fa fare singhiozzi che arrapano i gabbiani. L’anakinra ti gonfia la faccia come fosse Tyson. L’emapalumab fa vincere la Juve. “Rispetto a quelli, la varechina è una limonata”, dicevano imbarazzati i membri della Commissione, svuotando le pipe all’unisono. La situazione era così disperata che si stava approvando uno studio randomizzato, multicentrico, contro placebo e in doppio cieco per valutare l’efficacia e la tollerabilità della somministrazione di ceffoni rapidi a sorpresa per ridurre il distress respiratorio nei pazienti intubati. C’era anche chi proponeva di somministrare remdesivir e sarilumab INSIEME! Poi dice che uno non s’incazza. Il Siero A è in attesa di approvazione da parte del Comitato Etico dell’Istituto Superiore di Sanità, composto da 20 probiviri, fra cui il cardinal Ravasi, Topo Gigio e Marino Bartoletti; ma insomma direi che ci siamo. L’Aifa ha anche approvato l’impiego delle sanguisughe. Verranno usate per sollecitare il pagamento delle parcelle mediche negli ospedali privati.

Coronavirus: ecco come stiamo tentando di combatterlo. Le Iene News il 6 maggio 2020. Antonino Monteleone e Marco Fubini ci guidano in un lungo viaggio attraverso le molte sperimentazioni cliniche in corso in Italia, alla ricerca di una strada per vincere la battaglia contro il Covid-19 prima che, si spera, arrivi il vaccino. Nei giorni di inizio della cosiddetta fase 2, il Covid-19 è ancora attivo e continua a uccidere, anche se in misura minore. Siamo pronti a un’eventuale seconda ondata del contagio del virus che ad oggi, ufficialmente, sarebbe arrivato in Europa, in Germania, attraverso una manager cinese di un’azienda tedesca? Antonino Monteleone e Marco Fubini ci fanno fare un viaggio attraverso le sperimentazioni in corso in diverse strutture ospedaliere italiane, alla ricerca di una cura efficace contro il coronavirus in attesa, si spera, del vaccino. “Quando ci siamo accorti che il virus era arrivato in Italia avevamo già centinaia per non dire migliaia di infezioni”, spiega l’infettivologo Massimo Galli, primario del Sacco di Milano. Forse ci siamo fatti trovare impreparati anche perché esperti, oggi molto ascoltati, raccontavano all’inizio che il rischio di contrarre il coronavirus era “pari a zero”. “Ci si ricordava dei 4 casi di Sars che avevamo avuto nel 2003 quando i traffici commerciali con la Cina erano cosa ben diversa rispetto a quelli dei giorni nostri”, spiega ancora Galli ad Antonino Monteleone. Ma c’ è anche un altro motivo. “Questo virus è molto subdolo e anche gli asintomatici possono diffonderlo”, spiega il Andrea Casadio, ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University. “Noi esseri umani riusciamo a combattere il virus e a ucciderlo, grazie alla risposta immunitaria ma in un piccolo numero di casi questa risposta diventa troppa, diventa una tempesta di citochine. È una reazione di super difesa che può diventare nociva”. Una reazione che, in alcuni casi, porta alla morte. Oggi in Italia sono tante le sperimentazioni di farmaci, usati per altre cure e dirottati a combattere il Covid-19, come il tocilizumab, di cui ci parla il  Francesco Perrone, dell’Istituto nazionale dei Tumori Pascale di Napoli: “Alcuni dei meccanismi che si realizzano nelle malattie reumatiche e negli effetti collaterali di alcune cure del cancro sono simili a quelli di alcuni ammalati di Covid-19, che vanno incontro a complicanze quali la polmonite interstiziale”. E sono tanti altri i farmaci usati per tentare di bloccare le ormai famose “interleuchine”, ovvero quei messaggeri che dal polmone arrivano al cervello e lo avvertono che il virus ci sta attaccando. L’obiettivo è quello di bloccare il messaggio, di modo che l’infiammazione di risposta non sia così violenta da impedire del tutto la respirazione. All’Umberto I di Roma si studia intanto l’uso dell’ozono per ridurre l’aggressività del virus e dei suoi effetti collaterali. “L’obiettivo è riuscire a evitare la terapia intensiva e poi ovviamente la guarigione”, ci racconta il Francesco Pugliese. Anche il remdevisir, un antivirale, è in fase di sperimentazione contro il Covid-19: “È l’antivirale si cui si appuntano le maggiori speranze di efficacia”, spiega ancora il Galli. Ma non l’abbiamo già vinta questa battaglia, perché come spiega Andrea Casadio ”contro il virus non esiste un farmaco perfetto, non è come per gli antibiotici. Tutti questi farmaci fanno un po' di solletico al virus, e magari il nostro sistema immunitario non combatte contro 1000 soldati ma contro 500 e magari ce la fa”. Antonino Monteleone ci parla anche di Avigan, un farmaco conosciutissimo in Italia dopo il video virale di un uomo che dal Giappone sosteneva: "Cura il 90% dei casi di coronavirus”. Il prof Galli, sentito sul punto dalla Iena, spiega che “non esiste una riga scritta che sostenga in termini rigorosamente scientifici questa affermazione”. Ma è lunga la lista dei farmaci che apparentemente si sono rivelati inefficaci: a partire dal kaletra, un anti virale usato per la terapia del’Hiv. O come anche l’idrossiclorochina, che lo stesso Presidente Usa Donald Trump aveva dichiarato di aver comprato in grandissime quantità. Un ottimismo però smentito dai suoi stessi esperti, come il famoso immunologo Anthony Fauci, a capo della task force del presidente. A inizio di aprile le prime autopsie sulle vittime di Covid in Italia hanno rivelato una cosa molto interessante: il sangue di questi pazienti è aumentato in modo significativo di densità e si è riscontrata spesso la presenza di embolia polmonare e di trombi, dannosissimi per lo scambio di ossigeno tra capillari e alveoli polmonari. Ed è per questo motivo che l’AIFA ha dato l’ok per lo studio sull’eparina, il più noto anti-coagulante in commercio. “L’eparina però non sempre risolve il problema dell’embolia polmonare”, interviene il prof. De Donno. Intanto a Pavia e a Mantova è iniziata la sperimentazione di un nuovo protocollo, che prevede l’utilizzo di plasma di pazienti guariti dal Covid-19, la parte che contiene gli anticorpi contro il virus. “Andiamo a iniettare in questo malati un siero che contiene una grande quantità di anticorpi specifici, è come se noi iniettassimo in questi pazienti un vaccino che agisce immediatamente", spiega De Donno. "Stiamo vedendo un miglioramento della clinica generale e si riducono i tempi di degenza. Lo abbiamo sperimentato su 50 pazienti e ovviamente aspettiamo la rielaborazione statistica”. La fine della guerra contro il Covid-19 è ancora la lunga, ma occorre riconoscere il grande valore di chi, anche in questo momento, sta combattendo numerose battaglie, per il bene di tutti.

Coronavirus: l’Oms interrompe la sperimentazione dell’idrossiclorochina. Notizie.it il 18/06/2020. L'Oms ha ufficialmente interrotto la sperimentazione dell'idrossiclorochina per trattare i malati di coronavirus: il farmaco non riduce la mortalità. Sulla base delle evidenze scientifiche combinate, l’Oms ha deciso di interrompere la sperimentazione dell’idrossiclorochina perché “non riduce la mortalità né il periodo di ricovero dei pazienti con coronavirus“. Ad annunciare la volontà dell’executive group del Solidarity Trial è stata Ana Maria Henao Restrepo, funzionaria del dipartimento di immunizzazione, vaccini e medicinali biologici dell’Organizzazione mondiale della sanità. La decisione giunge dopo mesi di incertezze sull’efficacia del farmaco in questione. Dopo un’iniziale fase di buoni risultati, il 22 maggio The Lancet aveva pubblicato uno studio che dimostrava l’esistenza di rischi eccessivi per i pazienti infetti a fronte di un’efficacia non ben dimostrata. Poco prima poi l’Oms aveva già annunciato la sospensione dei test avviati così come l’Agenzia italiana del farmaco. La rivista scientifica però, a fronte di perplessità a livello metodologico e statistico nonché di incongruenze rilevate nella ricerca, aveva ritirato la pubblicazione su richiesta dell’autore principale, il professor Mandeep Mehra. A quel punto l’Organizzazione mondiale della sanità aveva fatto ripartire il trial sull’idrossiclorochina. “Il comitato per la sicurezza e il monitoraggio dei dati continuerà comunque a monitorare attentamente la sicurezza di tutte le terapie testate nell’ambito dello studio Solidarity“, aveva spiegato il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Ora però è arrivata la bocciatura definitiva. Dato che la mortalità non diminuisce utilizzando il prodotto, sperimentato su oltre 3500 pazienti in 35 paesi, il farmaco non verrà più somministrato.

Nuova tecnica per salvare i malati Covid: l'estrazione degli anticorpi dai soggetti sani. L'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha avuto un'intuizione vincente: con l'aiuto del reparto di Nefrologia, si sta sperimentando una nuova tecnica, l'estrazione degli anticorpi dai soggetti sani trasferiti nei malati, terapia diversa dal plasma. "È la cura più sicura che abbiamo in questo momento".Alessandro Ferro, Lunedì 04/05/2020, su Il Giornale. L'intuizione vincente arriva da Bergamo, epicentro della pandemia in Italia: con una nuova tecnica sperimentale, si possono estrarre gli anticorpi dei pazienti guariti per infonderli in quelli gravemente malati.

L'idea vincente della Nefrologia. L'ospedale è il Papa Giovanni XXIII, sempre in prima linea per l'emergenza Covid-19. Da loro ecco l'intuizione vincente, merito di chi normalmente si occupa di altro, in particolare di malattie renali. La nuova tecnica, infatti, è merito dei medici del reparto di Nefrologia che hanno riconvertito un macchinario fino a questo momento usato per curare un'altra patologia.

Dai reni al Covid. “Usavamo la tecnica per la nefropatia membranosa, una malattia dei reni dovuta ad anticorpi che impazziscono e aggrediscono l’organo distruggendolo – spiega Piero Luigi Ruggenenti, il direttore dell’unità di Nefrologia e Dialisi che coordina il progetto, a cui partecipano anche i medici Stefano Rota e Diego Curtò, come riportato dal FattoQuotidiano -. Per la malattia dei reni il macchinario estrae quasi tutti gli anticorpi nocivi che finiscono in una sacca che poi buttiamo. Allora, ci siamo resi conto che avremmo potuto applicare la procedura sottoponendo pazienti guariti dal Covid-19, in modo da prendere i loro utilissimi anticorpi“.

La procedura. Come avviene l'estrazione? Una cannula prende il sangue, lo passa attraverso questo macchinario che glielo restituisce privato degli anticorpi che vengono bloccati da un filtro speciale. L’estrazione dura circa due ore ed è praticamente indolore per il paziente donatore. I primi risultati sono molto incoraggianti: nessun effetto collaterale a chi si è sottoposto a questa procedura. Una volta terminata l’operazione, la sacca gialla con i preziosi anticorpi passa al centro trasfusionale per verificare che non ci siano altri virus. "Dopo i test di sierologia viene congelata a -80 gradi in attesa di utilizzarla per il paziente che ha lo stesso gruppo sanguigno del donatore – spiega Anna Falanga, la direttrice del reparto di Immunoematologia e medicina trasfusionale – È una terapia promettente e, soprattutto, in attesa di un vaccino definitivo va tenuta seriamente in considerazione".

Non è la terapia al plasma. A differenza dell'estrazione del plasma, che viene già sperimentata negli ospedali di Mantova, Novara e Padova, con questa nuova tecnica studiata dall’ospedale di Bergamo il donatore rilascia solo gli anticorpi. "Con una normale donazione di sangue il donatore avrebbe bisogno di una pari quantità da reintegrare nel corpo, – spiega Ruggenenti, come si legge su Fanpage, che ringrazia Aferetica per aver fornito gratuitamente il macchinario, "un’azienda che si trova nel polo industriale di Mirandola (Bologna), un centro con grandi menti italiane", sottolinea il direttore, che pur mantenendo la cautela non nasconde l’ottimismo per i risultati finora raggiunti.

"Non possiamo ancora dire se sia la soluzione, dobbiamo continuare a raccogliere risultati. Di certo è una tecnica nuova, diversa da quella dell’estrazione del plasma. Posso solo dire finora nessun paziente è morto o ha avuto effetti collaterali".

"Procedura più sicura in questo momento". "Credo che in questo momento l’infusione degli anticorpi sia la cosa più sicura che abbiamo per i malati gravi - afferma Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche "Mario Negri" di Bergamo - malati che in questo modo possono essere curati a casa, seguendo protocolli molto semplici che stiamo ultimando. Bisogna restare cauti ma potrebbe essere la soluzione".

Da huffingtonpost.it il 23 giugno 2020.“Sebbene i dati siano ancora preliminari, la recente scoperta che lo steroide desametasone ha un potenziale salvavita per i pazienti di Covid-19 in condizioni critiche ci ha fornito un motivo per festeggiare”. Lo ha detto il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus nel consueto briefing sul coronavirus. “La prossima sfida - ha aggiunto - è aumentare la produzione e distribuire rapidamente ed equamente il desametasone in tutto il mondo, concentrandosi su dove è maggiormente necessario. La domanda è già cresciuta, a seguito dei risultati del processo britannico che mostra il chiaro vantaggio del desametasone”.

Da "corrieredellosport.it" il 28 aprile 2020. Ormoni femminili sugli uomini come arma contro il Coronavirus: è l'ipotesi che stanno verificando alcuni medici americani in un paio di esperimenti clinici a New York e a Los Angeles. Lo scrive il New York Times. L'ipotesi parte dalla constatazione che le donne, che si tratti della Cina, dell'Italia o degli Usa, hanno meno probabilità di ammalarsi gravemente e più probabilità di sopravvivere. Ci si è chiesti quindi se gli ormoni prodotti in maggiore quantità dal sesso femminile possano essere efficaci. La scorsa settimana alcuni dottori della Renaissance School of Medicine alla Stony Brook University di Long Island hanno cominciato a trattare pazienti con estrogeni nella speranza di rafforzare il loro sistema immunitario. I risultati preliminari saranno disponibili in alcuni mesi. La prossima settimana invece alcuni loro colleghi a Los Angeles cominceranno a curare dei malati con un altro ormone predominante nelle donne, il progesterone, che ha proprietà anti infiammatorie e può prevenire dannose iperreazioni del sistema immunitario.

"Pensiamo che gli ormoni siano protettivi". "C'è una forte differenza tra il numero degli uomini e delle donne nei reparti di terapia intensiva e gli uomini stanno chiaramente facendo peggio", ha osservato la dottoressa Sara Ghandehari, pneumologa e medico di terapia intensiva al Cedars-Sinai di Los Angeles, che è il principale investigatore nello studio sul progesterone. Ghandehari ha riferito che il 75% dei pazienti della sua rianimazione e quelli intubati sono uomini. La dottoressa ha sottolineato che anche le donne incinta, che hanno alti livelli di estrogeno e progesterone, tendono ad avere forme lievi di coronavirus.  "Qualcosa che ha a che fare con l'essere donna e' protettivo, come pura la gravidanza, e questo ci fa pensare agli ormoni", ha spiegato. Ma alcuni esperti che studiano le differenza di sesso nell'immunità hanno ammonito che gli ormoni potrebbero non essere la soluzione che alcuni sperano, ricordando che anche le pazienti anziane malate di covid-19 sopravvivono più a lungo dei pazienti maschi e che nelle donne c'è una drastica riduzione dei livelli di ormoni dopo la menopausa.

Elisabetta Reguitti per il Fatto Quotidiano.it il 21 aprile 2020. La strada da seguire è quella dell’ossigeno: una persona su 5 che si ammala gravemente di Covid-19 infatti presenta difficoltà respiratorie. Una volta superata la fase acuta e il recupero, con molta probabilità avrà bisogno di quella che viene definita “ossigeno long-term” in terapia domiciliare. “Serve dunque investire nelle previsioni”. A parlare è Il dott. Carlo Lombardi Responsabile dell’unità di allergologia e pneumologia dell’Istituto ospedaliero fondazione Poliambulanza di Brescia.

1) Ossigeno terapia domiciliare come si inserisce in questo contesto?

Partiamo con il dire che tutti i pazienti broncopneumopatici - anziani in particolare ma anche no - con più comorbidità, sono più a rischio se contraggono l’infezione da COVID-19. Secondo i numeri 1 persona su 5 che oggi si ammala gravemente presenta difficoltà respiratorie. Questa infezione ha come complicanza principale lo sviluppo di polmonite a focolai multipli che spesso esita in insufficienza respiratoria. Quindi oggi sappiamo che evita il contagio, chi segue la terapia farmacologica e quella con ossigeno long-term già prescritto per altre patologie, in qualche modo rischia meno.

2) Quindi l’ossigeno può essere un valido alleato?

Direi di sì. Nello specifico, quando si tratta insufficienza respiratoria o ipossiemia cronica stabile l’ossigeno terapia a lungo termine per un numero adeguato di ore (almeno 15-18, meglio se 24 ore al giorno) è considerata a tutti gli effetti una terapia fondamentale.

3)Varrebbe dunque la pena investire di più sulla ossigeno terapia domiciliare?

Sì.

4) Che rapporto e differenze sussistono tra ossigenoterapia domiciliare e terapie intensive entrate in crisi per questa pandemia.

L’ossigeno non è solo un elemento essenziale per la respirazione è stato infatti documentato (Nocturnal Oxygen Therapy Trial (NOTT) e Medical Research Council (MRC) il suo utilizzo come farmaco per quei pazienti che non sono in grado di scambiare adeguatamente l’ossigeno dall’aria alla circolazione sanguigna. Si prende quindi in considerazione la sua prescrizione long-term domiciliare quando un paziente presenta stabilmente una ridotta tensione arteriosa di ossigeno, cioè una bassa saturazione di ossigeno e un’ altrettanto limitata pressione parziale di ossigeno. In terapia intensiva l’ossigenoterapia è invece impiegata in situazioni di insufficienza respiratoria acuta e quindi anche in pazienti che possono incorrere in un evento acuto polmonare e che prima potevano essere del tutto sani.

Gianni Giacomino per ''La Stampa - Torino'' il 20 aprile 2020. In alcuni ospedali italiani come quelli di Bergamo, Brescia, Palermo, Napoli e Pavia, solo per citare alcune città, contro la diffusione del covid-19 si sta utilizzando l'ossigeno ozono-terapia. Questa miscela, mescolata al sangue del paziente tramite appositi strumenti, è da un lato un antivirale, in quanto danneggia gli involucri che rivestono il virus, e dall'altro un potente antinfiammatorio e antitrombotico. Il soggetto trattato in questo modo all'inizio della malattia migliora notevolmente e guarisce riducendo di molto il rischio di finire in terapia intensiva. Almeno questo è quello che è stato riscontrato la dove la terapia è già utilizzata.

«Nessun riscontro dalle istituzioni». «Da tre settimane io e molti altri medici ci stiamo offrendo come volontari per praticare questa terapia anche nel Torinese, ma raccogliamo scarso interesse – allarga le braccia il dottor Ettore Giugiaro, docente di ossigeno ozono terapia all'Associazione Italiana di Medicina Funzionale. Siamo frustrati perché sembra difficile parlare con chi può prendere la decisione di agire in tal senso. Qualche giorno fa abbiamo contattato l'unità di crisi e ci hanno detto di mandare una mail spiegando quello che volevamo fare, è davvero avvilente».

I protocolli. Le società scientifiche di ozonoterapia che, da 40 anni studiano e applicano in numerosi ambiti clinici questa pratica medica, hanno redatto protocolli terapeutici per il trattamento dei malati colpiti da covid-19, che già applicati in molti ospedali di Italia. «Prima il paziente viene trattato e più velocemente può guarire – continua Giugiaro - gli ammalati positivi, così come i malati con sintomi evidenti, anche se privi di diagnosi certa, essendo così scarsi i tamponi disponibili, posso venir trattati immediatamente o al loro domicilio o presso un servizio ambulatoriale dedicato che permetterebbe di trattare molte più persone. Cosi facendo si otterrebbe un minor numero di aggravamenti ed un minor ricorso al ricovero ospedaliero con conseguente liberazione di molti posti letto per i casi più gravi».

I vantaggi. Il duplice ruolo di antiossidante e di antinfiammatorio consentirebbe all’ozono di impedire il verificarsi della «tempesta citochinica», quella che, nel covid-19 provoca i microtrombi che si riscontrano nei polmoni, fegato e cervello dei pazienti deceduti. Le sedute avrebbero un costo vivo da pochi euro a 15-20 al massimo, a seconda dei trattamenti. «E le case produttrici sono disponibili a fornire i macchinari in comodato d’uso” - ammette Giugiaro. Che termina: «Un’altra importante caratteristica dell’ozono nella terapia contro l’infezione da covid-19 è rappresentata dalla capacità di contrasto verso l’ipossiemia critica causata da questo virus. Sperimentazioni eseguite con la collaborazione dell’Università di Pavia e del Politecnico di Torino mediante la spettroscopia hanno evidenziato un aumento dell’ossigenazione rappresentato da un aumento della concentrazione dell’emoglobina ossigenata e da valori costanti di quella non ossigenata. Sotto l’aspetto clinico si traduce in una potente risposta alla drammatica caduta dei valori di saturazione con relativo ripristino in ambiti parafisiologici».

Il mercato nero russo punta sul farmaco anti-Hiv. Andrea Massardo su Inside Over il 21 aprile 2020. Nemmeno il direttore generale della R-Pharm – la casa farmaceutica russa produttrice del medicinale anti-Hiv Kaletra – fino a qualche mese fa si sarebbe aspettato che il suo preparato avesse un successo di mercato così elevato. Eppure, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso le vendite del medicinale sono incrementate del 5mila per cento, in un boom della domanda che ha messo in allarme i principali operatori del settore sanitario. Ma a che cosa è stato dovuto questo successo inaspettato del Kaletra? Semplicemente, secondo i primi studi sarebbe efficace per combattere l’infezione da coronavirus – nonostante siano nel frattempo giunte anche smentite dalle rilevazioni cinesi – e per questo attorno al prodotto sarebbe nato un fiorente mercato nero, come riportato dalle testimonianze dei farmacisti russi.

Il prezzo al dettaglio è quadruplicato, ma sul mercato nero è ancora più costoso. Secondo quanto rivelato dall’agenzia di stampa Reuters, sino allo scorso mese di gennaio, il prezzo di mercato del Kaletra si aggirava attorno ai 900 rubli a confezioni (che corrispondono a circa 12 dollari). Adesso, invece, nelle stesse farmacie è reperibile ad un prezzo non inferiore ai 3’800 rubli (circa 50 dollari americani), ma gli acquirenti sarebbero disposti a pagare anche più del doppio pur di accedere al prodotto. La bolla speculativa che si aggira attorno al farmaco ha indotto gli esperti a pensare che sul mercato parallelo il prodotto possa essere venduto per cifre che si avvicinano ai 15mila rubli a confezione: prezzo che i consumatori finali senza prescrizione medica sono disposti a pagare pur di acquistare il Kaletra. Tuttavia, come sottolineato dagli stessi esperti del settore della Russia, al momento non sussistono prove certe riguardo all’efficacia del medicinale, che sarebbe ancora utilizzato più che altro in via sperimentale e a causa dei suoi effetti su altri ceppi di coronavirus. Inoltre, a causa degli effetti collaterali, potrebbe diventare particolarmente dannoso se assunto da pazienti con problematiche cardiache e respiratorie alle spalle e andrebbe quindi utilizzato con cautela.

I malati di Hiv faticano ad accedere al farmaco. Differentemente da quanto accade in Italia, i malati di Aids hanno la possibilità di accedere ad un fondo di distribuzione dei medicinali erogato direttamente dalle autorità statali nelle mani dei pazienti. Tuttavia, sovente accade che le riserve di farmaci non siano sufficienti per coprire la domanda e in questo caso ci si deve rivolgere ad una farmacia del territorio. Nel pieno della bolla speculativa tuttavia anche accedere alle confezioni presenti nei negozi sanitari diventa un’impresa, sia per i costi spropositati a cui è giunto il Kaletra sia per le scorte a zero anche nel settore privato. E in queste circostanze, i malati di Aids rischiano di non riuscire a curarsi adeguatamente con l’unico farmaco utilizzato nel Paese contro la riproduzione del virus Hiv. In questo scenario, appare chiaro come la nascita di un fluente mercato nero del farmaco attorno alla pandemia di coronavirus stia danneggiando gli stessi canali di distribuzione regolari, nonché i pazienti affetti da gravi patologie. E nonostante le rassicurazioni della casa farmaceutica R-Pharm riguardo le produzioni che saranno adeguate alla domanda, la sensazione è quella che con il fenomeno i malati di Aids dovranno convivere ancora per le prossime settimane.

La colchicina, farmaco utilizzato da anni per combattere la gotta ed altre infiammazioni croniche, potrebbe essere un valido alleato nella lotta contro il virus. Ecco il progetto tutto italiano chiamato "Colvid-19". I test inizieranno su 308 pazienti positivi ospedalizzati ma non in terapia intensiva. Alessandro Ferro, Lunedì 20/04/2020 su Il Giornale. Si fa sempre più serrata la lotta al Covid-19. In attesa del benedetto vaccino, si sta valutando il possibile impiego di un vecchio farmaco antireumatico, la colchicina, utilizzato da anni contro la gotta ed altre forme infiammatorie croniche.

Nasce "Colvid-19". È questo l'obiettivo di un nuovo progetto, chiamato "Colvid-19", promosso dalla Sezione di Reumatologia del dipartimento di Medicina dell’Università di Perugia e realizzato sotto la protezione della Sir (Società italiana di reumatologia, che finanzia la ricerca), della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) e dell’Associazione italiana pneumologi ospedalieri (Aipo).

Cos'è la colchicina. L'idea è quella di reclutare 308 pazienti positivi e ricoverati in ospedale ma per i quali non è ancora necessario il trattamento in terapia intensiva. "La colchicina è un vecchio farmaco che da molti anni utilizziamo contro alcune patologie infiammatorie acute, come gotta e pseudogotta, e altre forme infiammatorie croniche - afferma Roberto Gerli, presidente Sir ed uno dei ricercatori dello studio - presenta delle peculiarità e delle potenzialità estremamente interessanti". Questo farmaco è attualmente usato per combattere la gotta, malattia del metabolismo caratterizzata da ricorrenti attacchi di artrite infiammatoria acuta con dolore, arrossamento e gonfiore delle articolazioni.

La doppia azione del farmaco. Il Prof. Gerli spiega la doppia, potenziale, efficacia del farmaco "che può avere un’azione antivirale ma, contemporaneamente, è in grado di bloccare la risposta infiammatoria del sistema immunitario senza però causare una immunodepressione. Sono tutte caratteristiche che possono essere sfruttate per limitare e quindi prevenire alti livelli di infiammazione responsabili dei danni d’organo determinati da un agente patogeno estremamente pericoloso e insidioso come il Coronavirus", spiega il ricercatore.

Progetto aperto a tutti. Lo studio "Colvid-19", come si legge su AdnKronos, si svolgerà sull’intero territorio nazionale e potranno partecipare tutti i centri che inoltreranno una richiesta. "Dai dati finora disponibili emerge che circa il 25% dei pazienti ricoverati, a causa del virus, ha un peggioramento clinico che causa la necessità di ventilazione meccanica o il ricovero in terapia intensiva - prosegue Gerli - come comunità scientifica dobbiamo quindi trovare nuovi trattamenti per ridurre l’infiammazione polmonare e di altri organi e di conseguenza le ospedalizzazioni".

Italia in prima linea. Con questo farmaco, si cercherà di "dare nuove chance di sopravvivenza agli uomini e donne colpiti dal Covid e ridurre accessi e ricoveri nelle strutture sanitarie - afferma Gerli - stiamo inoltre già lavorando a nuovi progetti di studio per il coinvolgimento di pazienti anche a livello domiciliare". Gli fa eco Luigi Sinigaglia, affermando che " la Sir e tutta la reumatologia italiana sono in prima linea per arginare questa terribile pandemia. Siamo all’avanguardia nel mondo per il livello di ricerca scientifica prodotta e nel nostro Paese sono attive strutture sanitarie di riferimento a livello europeo".

Gli altri farmaci. Al vaglio di scienziati e studiosi ci sono già diversi farmaci, alcuni dei quali adoperati nei pazienti Covid più gradi. "Al momento - ricorda Sinigaglia - diversi studi sono in corso per dimostrare se alcuni trattamenti utilizzati per la terapia di alcune patologie reumatologiche possono essere utilizzati anche per contenere l’infiammazione da Covid-19. Il nostro auspicio è di riuscire, a breve, a produrre evidenze scientifiche rilevanti da mettere poi a disposizione dell’intera comunità scientifica".

Da ilgazzettino.it il 15 aprile 2020. Nuove speranze contro il Covid-19 dai ricercatori di Padova: la Fondazione per la Ricerca biomedica avanzata (Vimm, Istituto Veneto medicina molecolare), in stretta collaborazione con l’Università di Padova, ha trovato un nuovo approccio farmacologico per fermare il Coronavirus. Il gruppo di ricerca  guidato dal prof. Andrea Alimonti,  ordinario di farmacologia (Dipartimento di Medicina), ha sviluppato un’ipotesi promettente  nata con la collaborazione dei docenti Francesco Pagano, Monica Montopoli e Sara Richter, virologa e microbiologa del Dipartimento di Medicina Molecolare. Il prof. Alimonti spiega: «Una delle proteine utilizzate dal coronavirus per infettare le cellule è l’enzima TMPRSS2, che è studiato come marcatore tipico del tumore alla prostata. E gli inibitori specifici sono utilizzati nella terapia oncologica. Alla luce delle evidenze che questa terapia è in grado di fermare lo sviluppo del tumore alla prostata, potrebbe rivelarsi efficace anche contro l’infezione da Sars-CoC-2». L’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) sta verificando, in una stretta collaborazione tra la Regione Veneto e l’Università di Padova, la percentuale di malati di tumore alla prostata tra i malati Covid-19. I risultati si stanno dimostrando molto interessanti e a breve verranno pubblicati.

Graziella Melina per “il Messaggero” l'8 aprile 2020. Per curare il Covid 19 d'ora in poi si potrà utilizzare anche un antitrombotico. L'Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) oggi darà il via libera all'uso della enoxaparina, un medicinale finora utilizzato per la prevenzione delle forme tromboemboliche. La notizia arriva però alla vigilia di uno strappo destinato a fare rumore: Mauro Ferrari, presidente del Consiglio europea per la ricerca (Erc) ha presentato le sue dimissioni alle presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. «Sono stato estremamente deluso dalla risposta europea» all'emergenza coronavirus, ha dichiarato Ferrari. Uno strappo che corre parallelo, seppur su altri binari, con il nuovo farmaco italiano pronto a essere sperimentato. A chiederne l'autorizzazione per la cura dei pazienti contagiati dal nuovo coronavirus era stato Pierluigi Viale, direttore dell'unità operativa Malattie infettive dell'Ospedale Sant'Orsola-Malpighi di Bologna e Filippo Drago, a capo dell'unità operativa di Farmacologia clinica del policlinico di Catania. L'idea dei due scienziati, avvalorata da diversi studi scientifici, nasce dalla osservazione clinica che a causare la morte di molti pazienti siano fenomeni tromboembolici. «Noi siamo fortemente convinti che le persone muoiono non tanto per insufficienza respiratoria grave ma più frequentemente per una embolia polmonare, una patologia tromboembolica, una coagulazione intravasale. Tutte patologie gravi acute mortali, che si verificano per un danno endoteliale che l'enoxaparina può prevenire», spiega Drago. Si tratta di un farmaco abbastanza diffuso per la prevenzione del tromboembolismo venoso, per la terapia di diverse forme di malattie vascolari in cui c'è la tendenza a formare trombi, emboli. «E' dimostrato che il virus si lega all'eparina circolante e la inattiva. Ne deriva quindi la tendenza da parte dei pazienti ad avere trombi e coaguli, per cui è necessario supplementare dall'esterno con l'enoxaparina quella quota di eparina che noi abbiamo fisiologicamente e che serve a mantenere il sangue liquido». Il farmaco anticoagulante è tra quelli suggeriti dall'Oms, ma l'uso consigliato è preventivo e con dosi basse. «Noi suggeriamo un utilizzo terapeutico a dosi medio-alte: vogliamo dimostrare che è in grado di risolvere le acuzie nel Covid. La dose bassa suggerita e utilizzata nelle varie situazioni cliniche in Italia serve a prevenire fenomeni dovuti all'allettamento». Intanto si allunga l'elenco delle nuove sperimentazioni. Ieri l'Aifa ha autorizzato l'uso di ruxolitinib, un farmaco utilizzato normalmente in ematologia. Si tratta di un protocollo di uso compassionevole per pazienti affetti da Covid-19 con insufficienza respiratoria che non necessitano di ventilazione assistita invasiva. Come per gli altri farmaci non esistono però ancora evidenze che sia efficace per tutti, si ipotizza che «potrebbe ridurre il numero di pazienti che necessitano di terapia intensiva e ventilazione meccanica». Il ruxolitinib «ha un meccanismo molto complesso che ha come target non solo le interleuchine 6, e in teoria è più efficace del tocilizumab che è un anticorpo monoclonale attivo sul recettore dell'interleuchina 6», spiega Drago. Altri farmaci autorizzati per il Covid sono per esempio la clorochina e l'idrossiclorochina «che oggi rappresenta il farmaco più usato al mondo per il Covid e forse anche il più efficace. Con l'idrossiclorochina l'unico problema è dovuto al fatto che è un farmaco dotato di tossicità non irrilevante, quindi può provocare un arresto cardiaco quando associato ad altri farmaci con lo stesso effetto». Sono almeno 10 gli studi clinici autorizzati dall'Aifa, per lo più su farmaci alternativi al tocilizumab, che è il farmaco principe: pur avendo un'indicazione per l'artrite reumatoide ha avuto un impiego per la cosiddetta sindrome di rilascio di citochine in una terapia genica, la Car-T in oncoematologia. E' un farmaco sperimentato per correggere tutti gli effetti dovuti al rilascio importante di interleuchina 6, che è un mediatore dell'infiammazione. «È bene sottolineare comunque - rimarca il farmacologo - che siamo ancora nel campo della sperimentazione. Non ci sono farmaci che nascono con indicazione Covid, ma per altre patologie».

Coronavirus, interrotto il test con alte dosi di clorochina: troppi morti. Laura Pellegrini il 15 aprile 2020 su Notizie.it. Il test con alte dosi di clorochina sui pazienti positivi al coronavirus è stato interrotto per l'elevato numero di morti registrati. Era stata avviata la sperimentazione di alte dosi di clorochina sui pazienti contagiati dal coronavirus, ma i ricercatori brasiliani hanno dovuto interrompere le sperimentazioni a causa di un elevato tasso di mortalità. La clorochina è un farmaco antimalarico che, insieme alla idrossiclorochina, è considerato uno dei più promettenti nella cura contro il Covid-19, ma non sono pochi i suoi effetti collaterali. Sono molti i farmaci che stanno dando risultati promettenti nella cura al coronavirus, ma la clorochina ha causato anche diversi morti. Una possibile cura stata promossa anche dal presidente americano Donald Trump, che univa un farmaco all’antibiotico azitromicina. E ancora: alcuni pazienti sono guariti utilizzando farmaci anti-artrite, altri con farmaci contro il diabete, ma ancora non si è arrivati al vaccino. I ricercatori brasiliani si sono visti però costretti ad interrompere le loro sperimentazioni sulla clorochina dopo aver registrato un elevato numero di decessi. Lo studio è stato effettuato su un campione di 81 pazienti divisi in due gruppi e ha confermato quelle che erano le complicanze legate alla clorochina. “Le complicanze – si legge in un comunicato dell’American Hearth Association – includono gravi irregolarità elettriche nel cuore come aritmie, tachicardia ventricolare polimorfa e sindrome QT lunga e aumento del rischio di morte improvvisa”. Nonostante l’interruzione delle sperimentazioni, però, “i risultati preliminari suggeriscono che il più alto dosaggio di clorochina (regime di 10 giorni) non dovrebbe essere raccomandato per il trattamento con COVID-19 a causa dei suoi potenziali rischi per la sicurezza”. Il basso dosaggio, infine, non è stato affatto confermato come sicuro.

Laura Cuppini per "corriere.it" il 27 aprile 2020. «Clorochina e idrossiclorochina possono causare problemi del ritmo cardiaco e questi potrebbero essere aggravati se il trattamento è combinato con altri farmaci, come l’azitromicina antibiotica, che hanno effetti simili sul cuore». A ribadire i possibili effetti collaterali di una terapia in sperimentazione contro Covid-19 è l’Agenzia europea dei medicinali (Ema). La clorochina e l’idrossiclorochina sono autorizzate in Europa per il trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni e vengono utilizzate da tempo, in studi clinici, nell’infezione da Sars-CoV-2. «I dati sono ancora molto limitati e inconcludenti e gli effetti benefici di questa terapia in Covid non sono stati dimostrati. Sono necessari risultati di studi ampi e ben disegnati per trarre qualsiasi conclusione» spiega l’Ema in una nota. Quello che invece indagini recenti hanno mostrato in modo chiaro è che con l’uso di clorochina o idrossiclorochina, alcuni pazienti «hanno riportato problemi gravi, in alcuni casi fatali, del ritmo cardiaco, in particolare se assunti a dosi elevate o in associazione con l’azitromicina antibiotica». L’Agenzia europea raccomanda quindi agli operatori sanitari di monitorare attentamente i malati, soprattutto se hanno problemi cardiaci preesistenti. Questi medicinali, infine, «non devono essere acquistati senza prescrizione né utilizzati senza la supervisione di un medico». L’Ema chiede di «segnalare eventuali sospetti effetti collaterali alle rispettive autorità nazionali di regolamentazione» (In Italia l’Agenzia del farmaco, Aifa). Oltre agli effetti indesiderati a carico del cuore (inclusa un’anomala attività elettrica che influisce sul ritmo cardiaco, con il prolungamento del tratto Qt), clorochina o idrossiclorochina possono causare problemi a fegato e reni, danni alle cellule nervose e riduzione dei livelli di glucosio nel sangue (ipoglicemia).

Combinazione promossa da Trump. Crescono anche negli Usa i dubbi sulla clorochina, indicata tra i farmaci più promettenti nella fase iniziale dell’epidemia. Uno studio dell’Università della Virginia — non ancora pubblicato — riporta i dati dell’uso dell’idrossiclorochina (derivato della clorochina) su 368 pazienti ricoverati in un ospedale per veterani. Il 28% di quelli a cui era stata data solo idrossiclorochina è morto, mentre in chi è stato curato con terapie standard, non specifiche per Covid-19, il tasso è risultato dell’11%; infine un gruppo che ha ricevuto idrossiclorochina associata a un antibiotico ha avuto un tasso di morte del 22%. In merito alla necessità di ricorrere alla ventilazione meccanica, l’analisi non ha mostrato miglioramenti con il trattamento. La combinazione di idrossiclorochina e azitromicina è stata promossa da Donald Trump come presunta terapia efficace contro l’infezione da nuovo coronavirus. In un tweet del 21 marzo il presidente Usa scriveva che «idrossiclorochina e azitromicina, assunte insieme, hanno una chance reale di essere una delle più grandi svolte nella storia della medicina». Oggi arriva la secca bocciatura dei National institutes of health (Nih) americani: nelle nuove linee guida pubblicate online si legge che la combinazione tra l’antibiotico azitromicina e l’antimalarico idrossiclorochina va evitata, «tranne che nell’ambito di uno studio clinico», a causa di «potenziali effetti tossici».

Aumentato rischio di aritmie. Non solo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Circulation, nato dalla collaborazione tra l’Azienda ospedaliero-universitaria Senese e un gruppo di ricerca della New York University, i pazienti con Covid sono esposti — già di per sé — a un aumentato rischio di sviluppare aritmie cardiache. «L’infezione da Sars-CoV-2 — spiega Pier Leopoldo Capecchi, direttore Unità di Medicina interna e dell’urgenza dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese — provoca un aumentato rischio di sviluppare aritmie potenzialmente mortali. Attualmente si ritiene che ciò sia in parte legato a un danno miocardico da invasione diretta virale e dalla scadente ossigenazione dovuta all’interessamento polmonare, e in parte all’utilizzo di alcuni farmaci con azione antivirale che interferiscono con l’attività elettrica del cuore». Per Capecchi, «dal momento che l’infezione grave da coronavirus è caratterizzata da una vera e propria tempesta infiammatoria, abbiamo suggerito di considerare lo stato infiammatorio di per sé come un fattore aggiuntivo di rischio aritmico nei pazienti e di valorizzare, in tal senso, il potenziale effetto protettivo svolto da farmaci in grado di bloccare specifiche molecole infiammatorie».

Cuore e polmoni, ma anche reni, occhi e cervello. Ma la ferocia del virus Sars-CoV-2 non colpisce solo il cuore (e i polmoni): Covid è una malattia sistemica, il cui raggio d’azione si allarga all’intero organismo, danneggiando anche vasi sanguigni, reni, intestino (diarrea), occhi (congiuntivite) e cervello (encefaliti, crisi epilettiche, perdita di coscienza, perdita dell’olfatto, ictus). «Questa malattia può attaccare quasi tutto nel corpo con conseguenze devastanti», spiega Harlan Krumholz, dell’Università di Yale, sulla rivista Science. Il virus inizia il suo cammino entrando nella gola e nel naso, dove trova un ambiente accogliente. Quindi produce infinite copie di sé stesso per invadere altre cellule. Quando il virus si moltiplica, la persona contagiata può diffonderlo, rimanendo asintomatica oppure iniziando ad avere febbre, tosse secca, mal di gola, perdita di gusto e olfatto, dolori al corpo e alla testa. Se il sistema immunitario non riesce a respingerlo in questa fase iniziale, il virus avanza causando la polmonite. In altre persone le cose possono peggiorare all’improvviso e si sviluppa la cosiddetta “sindrome da stress respiratorio acuto”, dove i livelli di ossigeno nel sangue crollano e respirare diventa sempre più difficile, con possibilità di arrivare alla morte. Si pensa che ciò possa dipendere da una iper reazione del sistema immunitario, chiamata “tempesta di citochine”.

Nessun danno da farmaci per ipertensione. C’è infine una buona notizia, o meglio una conferma. I farmaci per la pressione alta (come gli ACE-inibitori o i bloccanti del recettore per l’angiotensina) non sembrano influenzare gravità e mortalità nei pazienti Covid-19: dubbi in tal senso erano sorti in quanto Sars-CoV-2 utilizza il recettore per l’enzima ACE-2 all’inizio del processo infettivo. Le rassicurazioni arrivano da uno studio di Aiping Deng, del Central Hospital of Wuhan in Cina, pubblicato sulla rivista Jama Cardiology. Lo studio ha considerato 1.178 pazienti con età media 55 anni, di cui 362 ipertesi; il 31,8% degli ipertesi era in cura con ACE-inibitori o bloccanti del recettore per l’angiotensina (ARB). La mortalità ospedaliera media per i pazienti si è assestata all’11%, nel gruppo di ipertesi al 21,3%. Non sono però emerse differenze, sia in termini di gravità della patologia sia di mortalità, nel gruppo degli ipertesi tra coloro che assumevano i farmaci per la pressione alta e coloro che, invece, non erano in terapia. Queste prime evidenze cliniche suggeriscono che i farmaci per l’ipertensione non influenzano mortalità e gravità dell’infezione da Sars-CoV-2, supportando quindi le linee guida secondo cui i pazienti con pressione alta non devono sospendere la terapia.

Cristina Marrone per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. L' eparina potrà contribuire a vincere la battaglia contro il coronavirus? Secondo studi preliminari cinesi una terapia a base di questo anticoagulante ridurrebbe, almeno in alcuni pazienti, il tasso di mortalità da Covid-19. Ma che cosa c' entra l' eparina, conosciutissimo farmaco anticoagulante, con le temute polmoniti interstiziali causate dall' infezione da Sars-Cov-2? «L' evidenza clinica, supportata da esami autoptici, è che i pazienti Covid-19 muoiono non tanto per insufficienza polmonare grave, quanto per embolia polmonare massiva o altri gravi fenomeni trombo-embolici» spiega Filippo Drago, direttore dell' Unità di Farmacologia clinica al Policlinico di Catania e membro dell' unità di crisi Covid-19 della Società Italiana di Farmacologia. Il noto anticoagulante a una dose medio-alta potrebbe però avere un ruolo anche sul meccanismo stesso di azione del virus perché il principio attivo sembra determinare una significativa riduzione dell' agente patogeno, che si legherebbe all' eparina invece di attaccare le cellule dell' organismo. «Dati preclinici - aggiunge Drago - ci dicono che Sars-Cov-2 si lega all' eparan-solfato e all' eparina endogena prodotti dal nostro corpo e localizzati soprattutto nella membrana basale delle arterie polmonari, inattivandoli. A questo si aggiunge il fatto che il virus penetra all' interno delle cellule endoteliali degli alveoli polmonari e dei vasi sanguigni, provocandone la morte, con un successivo quadro di danno vascolare che complica la reazione infiammatoria del tessuto. Da qui la necessità di supplementare l' eparina dall' esterno con una molecola come l' enoxaparina, che è un' eparina a basso peso molecolare». L' uso di questo tipo di medicinale è già raccomandato dalle linee guida dell' Organizzazione mondiale della sanità per gestire anche i pazienti Covid, come preventivo di eventi tromboembolici. Il punto è ora vagliare gli effetti terapeutici dell' eparina, non solo quelli preventivi. Su questo aspetto l' Aifa (Agenzia Italiana del farmaco) invita a valutare caso per caso, ma ha comunque autorizzato uno studio specifico sull' utilizzo del farmaco a scopo terapeutico e non solo preventivo per la risoluzione delle complicanze trombo-emboliche, che spesso possono portare alla morte di questi pazienti. Si attende ora il via libera del comitato etico dell' Istituto Spallanzani di Roma. La ricerca, promossa da Pierluigi Viale, direttore dell' Unità Operativa Malattie infettive dell' Ospedale Sant' Orsola-Malpighi di Bologna, da Filippo Draghi e altri clinici, prevede il trattamento con enoxaparina di 300 pazienti: 100 con una dose medio-alta (azione terapeutica) e 200 con una dose per la prevenzione dei fenomeni trombo-embolici per valutare l' eventuale riduzione dell' incidenza di morte, dell' aggravamento del quadro clinico e del ricovero in Terapia intensiva. L' eparina ad alto dosaggio nei pazienti più gravi è una pratica che già alcuni ospedali utilizzano, ma solo un trial clinico potrà stabilirne l' effettiva efficacia. Quindi l' eparina, farmaco a basso costo, può rappresentare la soluzione «miracolosa» che addirittura ci farà chiudere le Terapie intensive come sostengono certe mail che circolano in queste ore? «Sappiamo che alcuni pazienti - chiarisce Sergio Harari, direttore dell' Unità operativa di Pneumologia all' ospedale San Giuseppe di Milano - sviluppano disordini trombo embolici, anche particolarmente gravi. La maggior parte dei decessi avviene però per polmonite interstiziale e per insufficienza respiratoria. Che i malati con seri problemi trombotici siano sottostimati è verosimile - aggiunge - perché non è facile una diagnosi clinica, ma dire che non serve intubarli è qualcosa che è davvero fuori luogo».

 “L’eparina funziona contro il Coronavirus”, nuova speranza da una ricerca britannica. Redazione de Il Riformista il 14 Aprile 2020. Nella pratica, tra le corsie degli ospedali, viene già utilizzata per contenere gli effetti dell’infezione da coronavirus ma, al momento, mancava un trial clinico consolidato che ne confermasse i risultati. Per questo motivo l’Aifa – l’Agenzia italiana del farmaco – ha dato il via libera a uno studio specifico sull’efficacia dell’eparina a basso peso molecolare nei pazienti Covid. L’efficacia dell’anti coagulante, infatti, non è correlata ai suoi effetti sul coronavirus quanto, piuttosto, alla sua capacità di prevenire trombosi, una delle causa di morte ricorrenti tra i pazienti Covid. Il farmaco infatti, rendendo più fluido il sangue, aiuta a sciogliere i coaguli ematici che portano all’occlusione delle vene e delle arterie. Uno studio inglese pubblicato sul  "Journal of Thrombosis and Haemostasis" ha dimostrato che l’uso dell’eparina riduce fino al 20% la mortalità, e non solo in relazione al suo effetto anti coagulante. “L’eparina – si legge nel paper -può influire sulla disfunzione microcircolatoria, ridurre il danno d’organo e agire sulla disfunzione endoteliale che contribuisce agli effetti cardiaci, un’altra complicazione sempre più ricorrente del Covid19”. Secondo i ricercatori inglesi, poi, l’eparina potrebbe svolgere un’azione anche sul virus stesso. “Il ruolo antivirale dell’eparina – spiegano – è stato studiato in modelli sperimentali: è in grado di legarsi a diverse proteine ​​e quindi agire come efficaci inibitori dell’attaccamento virale. Ad esempio, nel caso di infezioni da virus dell’herpes simplex, l’eparina compete con il virus a livello delle glicoproteine ​​della superficie della cellula ospite, per limitare l’infezione, e nell’infezione da virus zika, previene la morte cellulare indotta da virus di cellule progenitrici neurali umane”.

G. Flavio Campanella per lagazzettadelmezzogiorno.it il 13 aprile 2020. La resurrezione sembra vicina. Per chi crede, è una speranza perpetua che si rinnova. Per la scienza è una prospettiva che necessita di indiscutibili evidenze empiriche. Ma, dopo la via crucis (e decine di migliaia di morti) una luce fulgente si scruta nel tunnel. La molecola di... Dio ha un nome: si chiama eparina. Non è un nuovo farmaco, è un conosciuto anticoagulante dal costo irrisorio, ma, a quanto pare, dall'efficacia decisiva nella lotta contro il Sars-CoV-2. Fluidificante del sangue, previene la formazione di coaguli sanguigni anomali. Sono, infatti, i trombi gli alleati più preziosi della Covid-19, secondo le rilevazioni degli specialisti italiani dopo le prime autopsie effettuate sui cadaveri infetti. L'uovo di Colombo si è schiuso a poche ore dalla Pasqua in alcuni ospedali italiani dopo essere stato tenuto in quarantena. Nessuno osava toccarlo, visto che il nuovo Coronavirus è catalogato tra i patogeni di livello 4 in quanto a pericolosità (al pari di ebola). Ma è scandagliando il corpo umano che anatomopatologi, su suggerimento di altri specialisti (cardiologi, neurologi), hanno fatto una scoperta che potrebbe cambiare clamorosamente lo scenario: «Il problema principale non è il virus - spiegano gli specialisti in continuo contatto con altri medici italiani (Milano, Brescia, Pavia, Bergamo, Napoli, Palermo) che in questa fase sperimentale preferiscono manetenere l’anonimato - ma la reazione immunitaria che distrugge le cellule dove il virus entra. Il problema è cardiovascolare, non respiratorio. La gente va in Rianimazione per tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto (ma non solo) polmonare (sono attesi anche gli esami autoptici sul cervello, ndr). Molti morti, anche quarantenni (ecco spiegati presumibilmente i decessi di persone giovani, ndr), avevano una storia di febbre alta per 10-15 giorni non curata adeguatamente. L'infiammazione ha distrutto tutto e preparato il terreno alla formazione dei trombi. Non era facile capirlo perché i segni delle microembolie apparivano sfumati, anche all'ecocardio». Il cocktail che potrebbe sconfiggere definitivamente il morbo è costituito appunto da anti-infiammatori («la letteratura scientifica, soprattutto cinese, affermava fino a metà marzo, che non bisognava usarli») e anti-coagulanti, una miscela che potrebbe farci tornare molto presto alla normalità. «La nostra - spiegano gli ambienti della ricerca - è la più ampia casistica mondiale, poiché i cinesi hanno pubblicato praticamente quasi nessun report sulle autopsie». Ma gli studi sono comunque agli albori. Gli anatomopatologi hanno chiesto di procedere soprattutto per investigare i decessi di pazienti relativamente giovani, e altrimenti sani, aggiungendo quanti più dati possibili circa la data di esordio dei sintomi, le eventuali comorbilità, le terapie effettuate, il sistema di supporto di ossigeno, il passaggio in terapia intensiva, per capire quanto ci sia di pregresso nei polmoni disastrati esaminati e spiegarsi alcuni reperti anomali. Ma le terapie a base di eparina, di fatto in corso da qualche giorno, anche prima del via libera dell'Agenzia italiana del farmaco, hanno acceso l'entusiasmo (ma senza abbandonare la necessaria prudenza). «Non vorremmo sembrare eccessivi - chiariscono i ricercatori - ma crediamo di aver dimostrato la causa della letalità del Coronavirus. Se così fosse non servono le rianimazioni e le intubazioni perché innanzitutto devi sciogliere, anzi prevenire, queste tromboembolie. Serve a poco ventilare un polmone dove il sangue non arriva. L'efficacia del trattamento terapeutico, poi, ci induce a ritenere che sia questo il motivo principale per cui in Italia le ospedalizzazioni si riducono (come registrato anche dalla Gazzetta - ndr). Sta diventando una malattia curabile a casa. Per me si potrebbe tornare alla vita normale e riaprire le attività commerciali. Insomma, basta con le attuali restrizioni. Non subito, certo. Ma molto presto».

PROTOCOLLO. Il prossimo passo è adottare ufficialmente i protocolli terapeutici già seguiti. Anche a Bari un gruppo di medici sta preparando un documento da sottoporre agli organi istituzionali. «La causa principale dell’aggravamento di una parte dei pazienti, fino a rendere necessario il ricovero nelle terapie intensive, sembra in effetti essere una attivazione potente del sistema coagulativo del sangue. In poche parole sembrerebbe che il virus scateni una reazione infiammatoria piuttosto intensa da parte dell’organismo, che a sua volta produrrebbe un danno delle cellule che rivestono i piccoli vasi sanguigni. Il danno, né più né meno di quando ci procuriamo una ferita, scatena la reazione coagulativa del sangue. Naturalmente, essendo il virus diffuso in larghe parti del nostro organismo, il tutto determinerebbe una microtrombosi diffusa. Le terapie in atto sembrerebbero fornire già ottimi risultati, che sarebbero ancora più importanti se questa terapia fosse instaurata precocemente, all'inizio del decorso. Già in molti ospedali di tutta Italia si sta iniziando ad operare in tal senso e la pratica si sta diffondendo anche a livello territoriale perché i pazienti con i sintomi iniziali della patologia da Covid-19 potrebbero tranquillamente essere seguiti a domicilio riducendo drasticamente sia il numero dei ricoveri sia soprattutto l’incidenza di quelle severe complicanze che portano il paziente in terapia intensiva e spesso a morire». Dopo la... passione e la morte, c'è sempre una resurrezione. Il momento di abbassare guardia e mascherine non è ancora giunto. Ma il ritorno all’abbraccio potrebbe essere più vicino di quanto si pensi grazie alla molecola di... Dio. Poi, ci vorrà un altro miracolo. Ma stavolta non saranno medici e ricercatori a essere in prima linea. Sconfitto il Sars-CoV-2, sarà il momento di far ripartire il Paese. E qui ci vorranno santi politici navigatori (e navigati).

Mauro Evangelisti per ''Il Messaggero'' il 12 aprile 2020. «A Roma e nel Lazio ci sono almeno mille pazienti di Covid-19 curati a casa, molti di questi con l'idrossiclorochina, il farmaco normalmente usato per la malaria. I risultati sono buoni. Però sia chiaro: non si può usare in tutti i casi e comunque è necessaria l'assistenza continua del medico che, caso per caso, deve valutare il rapporto rischio-beneficio. Inoltre bisogna avere assolutamente a casa un pulsossimetro». Pierluigi Bartoletti è vicepresidente dell'Ordine dei medici di Roma e leader della Federazione dei medici di medicina generale. Segue da vicino un gruppo, con circa 300 professionisti, che utilizza con risultati incoraggianti la clorochina, il farmaco di cui si parla molto, sia in Francia, sia in Usa, a partire da Trump.

Cosa sta emergendo a Roma?

«Partiamo da un dato: finalmente abbiamo cominciato a curare più persone a casa. Due-tre settimane fa avevamo meno informazioni, eravamo travolti, si diceva al paziente con la febbre che non sentiva gli odori di andare in ospedale solo quando si aggiungevano difficoltà respiratorie. Ora che abbiamo capito più cose di una malattia nuova, interveniamo prima. I dati dicono: più malati, più guariti, meno ospedalizzati in terapia intensiva, più isolamenti domiciliari».

Che terapia prescrivete?

«Non ci sono ricette miracolistiche, bisogna sempre valutare caso per caso la situazione. Molte volte la idrossiclorochina è il farmaco che può essere indicato (escluso chi soffre di favismo o chi ha problemi di ritmo cardiaco). Abbiamo cominciato a usarlo quando abbiamo visto che c'erano lavori internazionali promettenti e quando ci sono state aperture sulla prescrizione in terapia domiciliare, sia pure fuori indicazione. Chiediamo un consenso ed informiamo i nostri assistiti che ad oggi non ci sono evidenze validate. Questo vale per molti dei farmaci usati, come gli antivirali. I pazienti che stiamo seguendo a casa ad oggi stanno tutti meglio».

Come funziona l'idrossiclorochina?

«Sono compresse, un antimalarico. Ci sono i protocolli per usarlo, possiamo prescriverlo non a tutti, ma a chi può assumerlo in relazione al rapporto tra rischio nel prescriverlo e il beneficio. Non è un farmaco banale, non è la vitamina C. Può essere utilizzato solo sotto stretto controllo medico e da chi ha a disposizione un pulsossimetro con cui può controllare il livello di ossigeno. Si usa per chi è a rischio complicanze, non certo per un giovane paucisintomatico. Ma se è un cinquantenne, magari sovrappeso, allora ci si può pensare. Tenga conto che chi è sovrappeso, anche se non è un grande obeso, è molto più a rischio. Se è uomo e diabetico, ci sono ancora più elementi di preoccupazione. Se l'ossigeno è a 95-96, si misura la frequenza respiratoria. Abbiamo una serie di valori, decisi con la Regione, con cui capiamo se pazienti sono gestibili a domicilio. L'automedicazione è da proibire, sia chiaro. Stiamo ottenendo clinicamente buoni risultati con l'idrossiclorochina, molti ci riferiscono un miglioramento dei sintomi dopo poco tempo. Ma si tratta solo di un pezzo della terapia».

Covid, in Usa pronto test molecolare rapido. Professore di Noci a Pittsburgh: «Autorizzato in emergenza, risultato in 5 minuti». Sperimentazione in corso. Il professore: «Potrebbe essere usato anche negli studi medici». Nicola Simonetti l'11 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Cos’è il nuovo test molecolare «breve» che gli Stati Uniti stanno iniziando ad utilizzare? Lo chiediamo a Giuseppe Intini, professore di odontoiatria all’Università di Pittsburgh, nato a Noci, punto di riferimento sulla medicina rigenerativa e cellule staminali. «Si chiama - risponde - Id now e a mio avviso è il prodotto al momento più promettente per gli studi odontoiatrici e per altri, vista la sua capacità di identificare direttamente la presenza del virus (e non degli anticorpi, come per gli altri test rapidi disponibili e sperimentati in Italia, ndr) in maniera molto rapida, da 5 a 15 minuti. Si potrebbe fare test giornaliero a tutti gli operatori sanitari (dentisti, igienisti e assistenti, in questo caso) e a tutti i pazienti che giungono a studio. Metodica da adattare ad ogni altra specialità od ospedale». L’Id Now di Abbott si basa sulla stessa piattaforma già usata negli Usa per la diagnosi di influenza A o B: identifica il gene RdRp del coronavirus tramite «amplificazione isotermica» e pertanto dovrebbe avere sufficiente capacità di identificare i pazienti realmente non-infetti). «In quanto alla sensibilità (la capacità di identificare i pazienti realmente infetti, ndr) non sono ancora disponibili abbastanza dati. Dovremo capire - dice il professor Intini - quanto sia affidabile e sfruttabile con sufficiente sicurezza nella nostra pratica». Il test è disponibile? «Attraverso l’incredibile lavoro dei team Abbot - dice Chris Scoggins, senior vice president Rapid Diagnostics - potremo consegnare 50.000 test al giorno, dalla prossima settimana, al sistema sanitario statunitense e prevediamo di produrre circa 5 milioni di test in aprile. I test offrono agli operatori sanitari risultati rapidi in più contesti specie in prima linea dove più servono risposte immediate. «I test molecolari portatili - aggiunge il professor Intini - espandono la capacità del Paese di ottenere risposte più veloci e rimangono un passaggio cruciale nel controllo della nuova pandemia». Il test Abbot è approvato dalla Fda? «È stato autorizzato - precisa Scoggins - per l’uso d’emergenza da parte di laboratori autorizzati solo per il rilevamento di acido nucleico da SARS-CoV-2, non per altri virus o agenti patogeni finché ne è giustificato per l’ emergenza. Nel frattempo si intensifica la raccolta di dati statistici e sul campo, idonea a meritare l’approvazione definitiva».

Il vaccino di un italiano supera la sperimentazione animale. Il Dubbio il 3 Aprile 2020. Lo hanno annunciato oggi i ricercatori della University of Pittsburgh School of Medicine coordinati dall’italiano Andrea Gambotto. Il vaccino contro il virus che causa la Covid-19 potrebbe essere disponibile prima del previsto. Lo hanno annunciato oggi i ricercatori della University of Pittsburgh School of Medicine coordinati dall’italiano Andrea Gambotto e Louis Falo. Un vaccino ha superato già la fase della sperimentazione animale e i primi test nel modello murino hanno mostrato che produce anticorpi specifici per il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 in quantità ritenute sufficienti a neutralizzare il virus. I risultati di questi primi test sono stati pubblicati su EBioMedicine, rivista pubblicata da Lancet. Si tratta del primo studio ad essere pubblicato in seguito a revisione da parte di scienziati di altri istituti e descrive un potenziale vaccino contro il COVID-19. I ricercatori hanno potuto agire rapidamente poichè erano già state gettate le basi grazie a precedenti lavori durante le precedenti epidemie di coronavirus. L’Università di Pittsburgh opera in Italia attraverso UPMCl che lavora in stretta collaborazione con la University of Pittsburgh School of the Health Science e che è presente in Italia da venti anni e in particolare a Palermo, con IRCCS ISMETT, Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad Alta Specializzazione, oggi ISMETT ha realizzato un’unità COVID-19 a disposizione della Regione Siciliana. “Abbiamo lavorato in passato con l’epidemia di SARS-CoV nel 2003 e MERSCoV nel 2014. Questi due virus, strettamente connessi alla SARS-CoV-2, ci insegnano che una particolare proteina, chiamata spike, è importante per indurre l’immunità contro il virus. Sapevamo esattamente dove combattere questo nuovo virus”, ha spiegato Andrea Gambotto, coautore senior – già in forza al Dipartimento di genetica molecolare e biochimica presso l’Università di Pittsburgh – da sempre impegnato nella ricerca sui vaccini. “Ecco perchè è importante finanziare la ricerca sui vaccini. Non si sa mai da dove arriverà la prossima pandemia”. “La nostra capacità di sviluppare rapidamente questo vaccino è il risultato della collaborazione tra scienziati con competenze in diverse aree di ricerca che lavorano con un obiettivo comune,” ha continuato Louis Falo, M.D., Ph.D., coautore senior e professore e direttore del Dipartimento di dermatologia della Facoltà di Medicina dell’Università di Pittsburgh e UPMC. Rispetto all’altro potenziale vaccino sperimentale con mRNA su cui sono appena stati avviati i trial clinici il vaccino studiato all’Università di Pittsburgh, che gli autori hanno battezzato PittCoVacc, abbreviazione di Pittsburgh CoronaVirus Vaccine, segue un approccio più consolidato, utilizzando frammenti di proteine virali creati in laboratorio in grado di sviluppare l’immunità. Gli attuali vaccini antinfluenzali funzionano in maniera analoga. I ricercatori hanno inoltre usato un approccio innovativo per somministrare il vaccino basato sull’impiego di un vettore a micro-aghi, che ne aumenta la potenza. Si tratta di un cerotto delle dimensioni di un polpastrello con 400 minuscoli aghi che somministrano frammenti della proteina spike attraverso la cute, dove la reazione immunitaria è più forte. Il dispositivo si utilizza come un normale cerotto e i micro-aghi, fatti interamente di glucosio e frammenti di proteina, si dissolvono nell’epidermide. “Ci siamo basati sul metodo di scarificazione cutanea usato originariamente per somministrare il vaccino antivaiolo, ma impiegando una versione ad alta tecnologia più efficiente e riproducibile da paziente a paziente,” ha affermato Falo. “Ed è inoltre abbastanza indolore, più o meno come la sensazione del velcro sulla pelle”. Il sistema è anche altamente scalabile. I frammenti di proteina sono realizzati da una cell factory con strati su strati di cellule coltivate progettate per esprimere la proteina spike SARS-CoV-2 e che possono essere ulteriormente accatastati per moltiplicarne la resa. La purificazione della proteina può anche essere effettuata su scala industriale. La produzione in serie dei micro-aghi implica la miscela di proteine e zuccheri in stampi usando una centrifuga. Una volta prodotto, il vaccino può rimanere a temperatura ambiente fino al suo utilizzo, eliminando la necessità di refrigerazione durante il trasporto o lo stoccaggio. “Per la maggior parte dei vaccini non e’ inizialmente necessario affrontare la questione della scalabilità,” ha spiegato Gambotto, “ma quando si tenta di sviluppare rapidamente un vaccino contro una pandemia, questa è la prima condizione necessaria”. Dopo essere stato testato sui modelli murini, si è potuto notare che il PittCoVacc ha generato una grande quantità di anticorpi contro il SARS-CoV-2, e il tutto è avvenuto entro due settimane dall’applicazione del cerotto.

I modelli animali non sono stati ancora valutati sul lungo termine, ma i ricercatori sottolineano come i topi ai quali è stato somministrato il vaccino contro il MERS-CoV hanno prodotto un livello sufficiente di anticorpi per neutralizzare il virus per almeno un anno, e finora i livelli di anticorpi nei modelli vaccinati contro il SARS-CoV-2 sembrano seguire lo stesso andamento. E’ importante sottolineare come il vaccino con cerotto a micro-aghi contro il SARS-CoV-2 mantiene la sua potenza anche in seguito alla sterilizzazione con raggi gamma, un passo fondamentale verso la realizzazione di un prodotto adatto all’impiego nell’uomo. Gli autori hanno presentato la richiesta di approvazione di nuovo farmaco sperimentale (IND) alla Food and Drug Administration in previsione di iniziare uno studio clinico di fase I sull’uomo nei prossimi mesi. “I test clinici sui pazienti richiedono tipicamente almeno un anno e probabilmente di più,” ha detto Falo, “la situazione particolare che stiamo vivendo è nuova e senza precedenti, non sappiamo quindi quanto tempo richiederà il processo di sviluppo clinico. Le recenti revisioni ai normali processi ci suggeriscono la possibilità di un avanzamento rapido”

Giuliano Aluffi per repubblica.it il 3 aprile 2020. Una piccola puntura - anzi, 400 micropunture erogate da sottilissimi aghetti disposti su un cerotto largo 1,5 centimetri - sul braccio o sulla spalla, e l'immunità al virus SARS-CoV-2 può svilupparsi entro due settimane, per raggiungere entro altre 3-4 settimane un livello di anticorpi sufficiente a contrastare in modo decisivo il virus. E' questo il vaccino sperimentale - "PittCoVacc", il primo descritto in uno studio peer-reviewed - sviluppato da ricercatori della School of Medicine dell'Università di Pittsburgh, centro di eccellenza nella lotta alle malattie emergenti. I ricercatori - tra cui l'italiano Andrea Gambotto e Louis Falo di UPMC (University of Pittsburgh Medical Center) - sono gli stessi che nel 2003 hanno realizzato il primo vaccino in assoluto contro un coronavirus emergente (in quel caso si trattava della SARS, e quel vaccino non fece in tempo ad essere sperimentato sull'uomo perché la SARS si eclissò da sola) e hanno poi studiato nel 2014 un vaccino per un altro coronavirus, la MERS.

La stessa proteina chiave per Sars e per l'attuale Coronavirus. "Con la SARS già nel 2003 avevamo identificato la proteina chiave che dobbiamo usare come target anche per il nuovo SARS-Cov-2: la proteina "spike", ovvero quella che forma le punte (in realtà più simili a minuscoli ombrelli) di cui è composta la corona del virione e che serve al virus per entrare nelle cellule legandosi ai loro recettori. La proteina "spike" è una specie di chiave che il virus usa per entrare nelle cellule: se blocchi quella chiave, puoi fermare il virus", spiega Gambotto a Repubblica. "Il successivo lavoro sulla MERS ci ha permesso poi di trovare la via più efficace per somministrare il vaccino, ovvero i microaghi". I 400 microaghi sono lunghi 0,5 millimetri e larghi 0,1 millimetri, sono fatti di carbossimetilcellulosa (polimero derivato dalla cellulosa) e quando entrano nella pelle si sciolgono liberando la proteina "spike". "A questo punto il sistema immunitario si rende conto che è un corpo estraneo al nostro organismo e inizia a produrre gli anticorpi contro di essa -  spiega Gambotto - quando poi la persona vaccinata viene infettata dal virus, gli anticorpi ingloberanno rapidamente le particelle del virus e bloccheranno l'infezione".

La pelle prima barriera. La scelta di questo sistema di somministrazione ha a che fare con il fatto che la pelle è la prima barriera del nostro corpo contro virus e batteri. "E' come la muraglia di un castello, e proprio per questo è ben presidiata dal sistema immunitario: la pelle è uno dei posti migliori per generare una risposta immunitaria rilevante, superiore a quella che si ha iniettando nel muscolo -  sottolinea Gambotto - un altro vantaggio è che se si inietta un vaccino nel muscolo, questo si diluisce in tutto il corpo, quindi per generare una risposta forte serve una maggiore quantità di vaccino. Invece l'iniezione attraverso la pelle tramite microaghi è localizzata: c'è una concentrazione del vaccino molto più elevata, tutte le cellule immunitarie vanno ad attaccare l'invasore e basta una quantità minore di vaccino per dare l'immunità".

Minore quantità di vaccino. La minore quantità di vaccino  - ne serve tra 1/5 e 1/10 di quello che servirebbe con una classica iniezione con siringa - richiesta è un vantaggio soprattutto quando bisogna produrre quantità enormi di vaccino per rispondere all'emergenza di una pandemia. E il particolare sistema di iniezione tramite i microaghi è un altro punto di forza del vaccino studiato a Pittsburgh: "I microaghi proteggono la proteina spike, liberando i medici dalla necessità di conservare il vaccino attraverso la catena del freddo - sottolinea Gambotto - questo significa che il vaccino è più facilmente trasportabile anche nelle zone più povere del pianeta". I risultati sperimentali sui topi sono promettenti: un test dopo due settimane dall'iniezione del vaccino mostra che i topi hanno già sviluppato anticorpi specifici contro il Sars-Cov-2. "Gli anticorpi maturano progressivamente, diventano più potenti e selettivi contro il virus, e dopo 5-6 settimane dalla prima iniezione se ne sviluppa una quantità sufficiente ad arrestare la malattia - spiega Gambotto - naturalmente dovremo condurre la sperimentazione clinica per assicurarci che quanto abbiamo visto nei topi possa replicarsi anche nell'uomo: entro 1-2 mesi - a seconda della celerità della FDA americana nell'autorizzarci - dovremmo essere in grado di far partire la sperimentazione clinica, che - magari limitata agli studi di fase 1, vista l'emergenza mondiale della pandemia - potrebbe concludersi entro altri 2-3 mesi. La sperimentazione clinica ci aiuterà a calibrare la dose giusta di vaccino che può essere efficace con l'uomo. Se questa fase si concluderà con successo, il vaccino potrebbe essere pronto per la produzione industriale entro 5 mesi da ora".

Coronavirus. L’Università di Pittsburgh testa vaccino sui topi: "Funziona". Vito Salinaro giovedì 2 aprile 2020 su Avvenire. Si chiama PittCoVacc e ha l’ingombro di un cerotto. Chiesta l’autorizzazione a testarlo sull’uomo. Si chiama “PittCoVacc”, che sta per Pittsburgh CoronaVirus Vaccine, ha l’ingombro di un cerotto delle dimensioni di un polpastrello e, nei topi, in due settimane ha prodotto anticorpi specifici per il Sars-CoV-2 "in quantità ritenute sufficienti a neutralizzare il virus". Una condizione che ha indotto i ricercatori dell’istituto di Scienze della salute dell’Università di Pittsburgh a presentare all’ente regolatore dei farmaci degli Stati Uniti la richiesta di approvazione di un farmaco sperimentale per iniziare lo studio sull’uomo. Anche in questo caso è bene essere prudenti rispetto al potenziale vaccino: se lo studio rivelasse la sua capacità di eliminare il virus anche nell’uomo, non sarebbe comunque possibile immaginarne una diffusione immediata. "I test clinici sui pazienti richiedono tipicamente almeno un anno", dice Louis Falo, tra gli autore della ricerca e direttore del dipartimento di Dermatologia del prestigioso ateneo della Pennsylvania. Tuttavia, ammette Falo, "la situazione particolare che stiamo vivendo è nuova e senza precedenti, non sappiamo quindi quanto tempo richiederà il processo di sviluppo clinico. Le recenti revisioni ai normali processi ci suggeriscono la possibilità di un avanzamento più rapido". La nuova procedura ha guadagnato la pubblicazione su eBioMedicine, una rivista edita da Lancet: si tratta del primo studio, spiegano da Pittsburgh, pubblicato dopo aver ricevuto la revisione di scienziati di altri istituti. I ricercatori hanno potuto agire velocemente perché avevano passato al setaccio cause ed effetti delle precedenti epidemie di coronavirus. "Abbiamo lavorato in passato con l'epidemia di Sars-CoV, nel 2003, e MersCoV nel 2014 – afferma Andrea Gambotto, origini pugliesi, coautore dello studio, in forza al Dipartimento di genetica molecolare e biochimica dell'Università di Pittsburgh -. Questi due virus, strettamente connessi al Sars-CoV-2, ci insegnano che una particolare proteina, chiamata spike, è importante per indurre l'immunità contro il virus. Sapevamo esattamente dove combattere questo nuovo virus". Dunque, un altro potenziale vaccino sfiderà il virus che ha messo in ginocchio i sistemi sanitari di mezzo mondo. Rispetto all’altro vaccino in sperimentazione sempre negli Usa, chiamato mRna-1273, per il quale sono cominciati i trial sull’uomo lo scorso 16 marzo, il vaccino di Pittsburgh "segue un approccio più consolidato, utilizzando frammenti di proteine virali creati in laboratorio in grado di sviluppare l’immunità"; proprio come gli attuali vaccini antinfluenzali che funzionano in maniera analoga. E la somministrazione, che sfrutta un cerotto con 400 minuscoli aghi che rilasciano frammenti della proteina “spike” attraverso la cute, riprende un metodo utilizzato per il vaccino antivaiolo.

Coronavirus, è barese il ricercatore che ha scoperto il «vaccino cerotto»: pronto per essere testato. Il suo nome è Andrea Gambotto e lavora nel team dell'Università di Pittsburgh. Si tratta dello stesso gruppo che ha messo a punto il vaccino per la Sars. Il test effettuato sui topi funziona. Graziano Capurso il 2 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una scintilla di speranza si accende nella lotta scientifica contro il Coronavirus: ci sono i primi buoni risultati dei test effettuati sui topi di un vaccino-cerotto (che rilascia il principio attivo nella pelle) contro il Covid 19. Un tipo di vaccinazione potenzialmente semplice ed economica da produrre su vasta scala. Da quanto divulgato dal team di studiosi a lavoro sulla possibile cura, i topi vaccinati producono una serie di anticorpi specifici contro il virus. L'idea è stata sviluppata dai ricercatori della School of Medicine dell'Università di Pittsburgh, centro di eccellenza nella lotta alle malattie emergenti. Nel team di ricercatori c'è anche il barese Andrea Gambotto che già nel 2003 ha realizzato il primo vaccino in assoluto contro un coronavirus emergente (in quel caso si trattava della SARS, e quel vaccino non fece in tempo ad essere sperimentato sull'uomo perché quella patologia si eclissò da sola) e ha poi studiato nel 2014 un vaccino per un altro coronavirus, la MERS. Il ricercatore barese ha riportato l’esito dei primi test sulla rivista EBiomedicine (Lancet) e ha anticipato: «il vaccino potrebbe entrare già entro un mese nei test clinici di fase I su individui». Gambotto è originario della Puglia, in particolare di Bari, da ragazzo ha studiato al liceo scientifico Scacchi e si è laureato all'Università degli Studi di Bari in Medicina nel 1994: una eccellenza tutta pugliese sbarcata come tanti altri colleghi, negli Stati Uniti. Quella di Andrea Gambotto è la storia di tanti altri giovani ricercatori che all’estero cii rendono orgogliosi di essere italiani e soprattutto fieri di essere del Sud. IL VACCINO CEROTTO - Si tratta di una piccola puntura - per la precisione, 400 micropunture erogate da sottilissimi aghetti disposti su un cerotto largo 1,5 centimetri - sul braccio o sulla spalla, e l'immunità al virus SARS-CoV-2 può svilupparsi entro due settimane, per raggiungere entro altre 3-4 settimane un livello di anticorpi sufficiente a contrastare in modo decisivo il virus. È questo il principio del vaccino sperimentale "PittCoVacc", sperimentato a Pittsburgh. Secondo quanto scoperto dal team di ricercatori, il  "vaccino-cerotto", ha consentito sui topi analizzati e vaccinati, di produrre degli anticorpi specifici contro il Covid 19 che sta martoriando il mondo in questo momento storico. Secondo Gambotto, se la Fda autorizzasse il passaggio del test direttamente sull'uomo, in 5 mesi si potrebbe cominciare la produzione del vaccino su larga scala.

Gambotto: “No complotti, 2 mesi per vedere la luce”. Parla l’italiano che ha scoperto il vaccino anti covid. Conosce Ascierto, tifa Bari e ha un'idea libera della ricerca. L'intervista ad Andrea Gambotto ricercatore presso l'Università di Pittsburgh. Andrea Aversa il 3 aprile 2020 su vocedinapoli.it. Adesso dipenderà tutto dalla decisione della Food and Drug Administration (“Agenzia per gli alimenti e i medicinali“, FDA). L’equivalente statunitense dell’Aifa dovrà stabilire se la sperimentazione del vaccino anti-covid19 potrà avere inizio. “Potranno volerci un paio di mesi. Poi per un uso clinico del vaccino potrebbe passare ancora più tempo“. A dirlo è stato Andrea Gambotto ricercatore italiano membro del team che all’Unversità di Pittsburgh ha scoperto la possibile cura per il coronavirus. Intervistato da VocediNapoli.it, Gambotto ha spiegato che per lui e i suoi collaboratori la strada per arrivare a questa scoperta è stata difficile ma abbastanza in discesa. “Sono anni che lavoriamo sui virus. Possiamo definirla la nostra ‘specialità’. Già nel 2003 abbiamo trovato quello per la Sars e nel 2014 quello contro la Mers. Arrivare a quello del covid19 è stato come un percorso naturale“. Eppure i tempi per giungere ad una somministrazione ordinaria per le persone sono ancora molto lunghi: “Potrebbero volerci anche anni ma l’importante è che a breve potrà iniziare la sperimentazione da parte dell’Fda. Tutto dipenderà dalla nostra rapidità. Noi dobbiamo essere veloci nel completare il nostro lavoro qui in laboratorio, l’Fda nel pronunciarsi sul possibile vaccino. Un processo che in due mesi porterà alla sua sperimentazione“. Lo stesso periodo che secondo Gambotto sarà necessario affinché le persone possano vedere la definitiva uscita dal tunnel: “È difficile fare una previsione esatta sul quando terminerà l’emergenza. Ad oggi credo che entro due mesi potrebbero finire l’isolamento sociale e la chiusura parziale delle attività commerciali“. Secondo il ricercatore, “la politica difficilmente avrebbe potuto reagire meglio rispetto all’emergenza. È difficile prevedere alcuni fenomeni, comunque – ad oggi – è meglio lavorare uniti per sconfiggere il virus, piuttosto che fare inutili cacce alle streghe“. Gambotto ha le idee molto chiare anche in merito alle tante idee complottiste nate nelle ultime settimane intorno al covid19: “Complottismo vuol dire ignoranza. Si trascende in determinate teorie quando non si conosce la materia della quale si parla. Basterebbe conoscere la mappa genetica di un virus per comprendere se esso può essere costruito in laboratorio o se può essere clonato. Io posso dirlo perché si tratta della mia materia. Ecco, se ognuno si limitasse a parlare di ciò che sa il mondo sarebbe migliore“. Infine una curiosità, il rapporto che lega Gambotto al Prof. Paolo Ascierto e alla città di Napoli: “Conosco Paolo, è un grande professionista. La mia esperienza dice che la ricerca italiana è un’eccellenza. Ma i laboratori scientifici sono porzioni di mondo. Io lavoro con asiatici, europei e africani. Ed è giusto che sia così, anche il mondo della ricerca ha bisogno di scambi“. E poi ha concluso, “lo sa che abbiamo un Presidente in comune? Si, perché io tifo Bari“. Da anni a Pittsburgh senza dimenticare le proprie origini. Si è laureato a Bari in medicina nel lontano 1994 prima di sbarcare, come tanti altri colleghi, negli Stati Uniti. Quella di Andrea Gambotto è la storia di tanti altri giovani ricercatori che all’estero cii rendono orgogliosi di essere italiani.Andrea Gambotto studia e lavora nel centro ricerche dell’Università di Pittsburgh. È proprio li che il team di ricercatori coordinati proprio da Gambotto ha messo basi importanti per lo sviluppo di un vaccino che possa curare e sconfiggere il coronavirus. Tra titoli e numerose pubblicazioni, Andrea Gambotto è professore associato di Chirurgia presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Pittsburgh. Il suo staff è stato protagonista di altre importanti scoperte in ambito scientifico e sanitario. Infatti, si tratta degli stessi ricercatori che nel 2003 hanno sviluppato il primo vaccino in assoluto contro un’altro virus, la SARS. In quel caso si trattò di una scoperta ‘superflua’ in quanto la malattia sparì da sola senza la necessità di combatterla e curarla. Nel 2014, invece, hanno individuato il vaccino contro la MERS, un’altra tipologia di virus.

LA SCOPERTA. Il vaccino contro il virus che causa la Covid-19 potrebbe essere disponibile prima del previsto. Lo hanno annunciato oggi i ricercatori della University of Pittsburgh School of Medicine coordinati dall’italiano Andrea Gambotto e Louis Falo. Un vaccino ha superato già la fase della sperimentazione animale e i primi test nel modello murino hanno mostrato che produce anticorpi specifici per il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 in quantità ritenute sufficienti a neutralizzare il virus. I risultati di questi primi test sono stati pubblicati su EBioMedicine, rivista pubblicata da Lancet.

Vaccino contro Coronavirus, pubblicato il primo studio. Si tratta del primo studio ad essere pubblicato in seguito a revisione da parte di scienziati di altri istituti e descrive un potenziale vaccino contro il COVID-19. I ricercatori hanno potuto agire rapidamente poichè erano già state gettate le basi grazie a precedenti lavori durante le precedenti epidemie di coronavirus. L’Università di Pittsburgh opera in Italia attraverso UPMCl che lavora in stretta collaborazione con la University of Pittsburgh School of the Health Science e che è presente in Italia da venti anni e in particolare a Palermo, con IRCCS ISMETT, Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad Alta Specializzazione, oggi ISMETT ha realizzato un’unità COVID-19 a disposizione della Regione Siciliana. Abbiamo lavorato in passato con l’epidemia di SARS-CoV nel 2003 e MERSCoV nel 2014. Questi due virus, strettamente connessi alla SARS-CoV-2, ci insegnano che una particolare proteina, chiamata spike, è importante per indurre l’immunità contro il virus. Sapevamo esattamente dove combattere questo nuovo virus“, ha spiegato Andrea Gambotto, coautore senior – già in forza al Dipartimento di genetica molecolare e biochimica presso l’Università di Pittsburgh – da sempre impegnato nella ricerca sui vaccini.

“CONOSCO ASCIERTO”. “La ricerca è un settore libero. È come nel calcio. In una squadra si cerca di prendere i migliori calciatori al mondo. In un laboratorio scientifico si assumono i migliori professionisti. Non esistono confini. Lavoro con asiatici, africani, europei. Il bello è anche questo“, ecco cosa pensa Andrea Gambotto del mondo di cui fa parte: quello della ricerca. Un tema al centro delle cronache soprattutto perché siamo in piena emergenza coronavirus. La famosa fuga dei cervelli, i tagli e gli scarsi investimenti. Tuttavia, questo processo di scambio di cui ha parlato Gambotto – in un’intervista rilasciata a VocediNapoli.it – ha permesso al ricercatore pugliese di incontrare il Prof. Paolo Ascierto dell’Istituto Pascale. C’è una cosa, o meglio una missione, che ha accomunato i due studiosi: la lotta al covid 19. Il Prof. napoletano ha ottenuto (in collaborazione con lo staff del Monaldi coordinato dal Dottor Vincenzo Montesarchio) il protocollo dell’Aifa per il trattamento del tocilizumab (un farmaco anti artrite) contro la polmonite severa causata dal virus. Gambotto fa invece parte del team che presso l’Università di Pittsburgh ha scoperto un possibile vaccino che possa sconfiggere il coronavirus. “Conosco bene Paolo. L’ho visto un pò di tempo fa. Sarei dovuto tornare in Italia a giugno. Spero di poterlo fare presto“.

 Coronavirus, parla lo scienziato barese «Così abbiamo scoperto il vaccino». Gambotto dagli Usa: ci vorrà un anno, poi sarà come l'influenza. Il Rettore Bronzini: Le istituzioni non investono a sufficienza nella ricerca. Il ricordo di Gesualdo: quando eravamo insieme a Pittsburgh girava con "la scatola dei sogni" in cui portava i virus. Nicola Pepe il 03 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno.  Lui lo definisce un vaccino abbastanza semplice, che hanno realizzato nel giro di 18 giorni, dal 21 gennaio all'8 febbraio quando hanno iniziato la fase di test sui topi. Andrea Gambotto, barese, laureato all'Università di Bari, associato al dipartimento di Surgery dell'Università di Pittsburgh, è uno dei membri del team di ricerca dell'Università americana che ha realizzato il cosiddetto vaccino-cerotto contro il Coronavirus. Lo abbiamo intervistato insieme al rettore dell'Università di Bari, Stefano Bronzini, che è stato suo compagno di liceo allo Scacchi, e insieme al prof. Tino Gesualdo, preside della facoltà di Medicina di Bari che con Gambotto ha lavorato insieme tre anni proprio a Pittsburgh. Dopo la laurea in Medicina, Gambetto è volato negli Usa dove vive e lavora lì da tantissimi anni. Come siete arrivati a questo risultato? «Lavoriamo da un po' di anni su questo tipo di vaccini e grazie alle tecnologie che abbiamo a disposizione siamo riusciti a metterla a punto in breve tempo. Questo tipo di malattia pandemica aveva bisogno di essere sperimentata velocemente e prodotta in grandi dosi. Con il team abbiamo isolato il virus utilizzando un pezzo di proteina del Covid 19 che si chiama Spike. Attraverso questo meccanismo se blocchi la chiave d'accesso, il virus non può più entrare nella cellula, e così le persone vaccinate possono sviluppare gli anticorpi». «Diventerebbe quindi come un banale vaccino anti influenzale - spiega Gambotto - noi istruiamo il sistema immunitario per creare degli anticorpi contro questa chiave che ti permettono di essere protetto e di avere un decorso dall'infezione più blando». «Stavamo lavorando su vaccini della Mers - ricorda - che stavamo testando sui cammelli in Arabia Sudita, l'approccio è simile: abbiamo cambiato la sequenza e la ricerca è stata pubblicata il 21 di gennaio. Già l'8 di febbraio avevamo questo vaccino in mano, così abbiamo fatto partire i test sugli animali, i topi in questo caso, in modo tale che ci desse una risposta anticorpale. I risultati di ieri sono a 6 settimane e ci dicono che la risposta immunitaria è quella che ci aspettavamo, perciò siamo abbastanza ottimisti sulla qualità del risultato. Promette bene insomma».

I TEMPI - Indubbiamente c'è grande attesa da parte di tutto e la gente si chiede: quando sarà pronto e disponibile il vaccino? Sulle tempistiche il prof. Gambotto spiega: «Rapidamente significa che non avendo una industria farmaceutica sono leggermente al di sotto delle aspettative, il nostro è uno sforzo accademico, poi se il vaccino diventa commerciale è compito dell'industria farmaceutica che lo porta nel pubblico, renderlo "virale". Con questa malattia è tutto cambiato l'Fda richiede almeno 2-3 anni per la messa in commercio, ma in questo caso c'è un programma accelerato per la produzione. Non sarà al 100% accettabile per gli standard soliti dei vaccini, ma è talmente comune che la produzione non dovrebbe essere differente da quella dei vaccini contro l'epatite o l'influenza». «In America c'è la corsa per trovare delle cure - prosegue Gambotto - nel giro di uno o due mesi inizieremo la sperimentazione clinica sugli umani. In questo caso dopo 8-10 settimane passiamo agli animali e dopo 2-3 settimane, una volta sviluppati gli anticorpi neutralizzanti, nelle successive 4-6 settimane gli anticorpi diventano efficaci».

I MORTI ITALIANI - Sull'eccessivo tasso di letalità in Italia, Gambotto spiega: «ci sono due fattori da tenere in considerazione ad oggi ci sono in Italia 115mila persone infette ce ne saranno 10 volte tante le persone veramente infette, quindi siamo intorno all'1,5%. Ciò che succede in Lombardia è simile a un imbuto: troppi casi nello stesso momento, così la struttura non ha retto. I numeri non funzionavano già da prima: 10 pazienti per un solo rianimatore. L'effetto è un po' come accadde per lo stadio Heysel, non ha retto ed è crollato. Geneticamente parlando il virus è lo stesso, la situazione si sta aggravando in Spagna e in Usa come a Whuan, perciò l'aumento dei casi comporta l'aumento della mortalità. Nella fase acuta, quando non ci sono letti e il giusto rapporto tra rianimatori per paziente, si crea un cortocircuito».

IL VIRUS E I CONDOTTI DI ARIA - «Questo virus, al contrario di ciò che si dice - sottolinea il ricercatore - resiste nell'aria. Dipende quindi da com'è la situazione in un reparto con dieci affetti da Covid 19, l'aria diventa pesante. Perchè il virus resiste due tre ore sospeso nell'aria e per contenerlo sono essenziali i sistemi di areazione. Il problema non è solo debellarlo, il virus può essere distribuito in tutto l'ospedale se passa in un condotto d'aria, così diventano tutti potenzialmente infetti. Con la Mers nel 2014 è successa una cosa simile in un ospedale in Corea dove c'era un cluster. Trovato il modo di isolare l'infettività del virus le cose si potrebbero sistemare». IL VACCINO - «La nostra ricerca - spiega Gambotto - inizierà un iter che porterà alla sperimentazione umana, serviranno max 4 settimane per vedere i risultati. Quando questo vaccino rileverà la sua efficacia e quando sarà distribuito? Nelle più rosee delle previsioni? Non sarà mai pronto per i prossimi 6-8 mesi, dobbiamo sperare che la pandemia cali l'incidenza. Al massimo sarà disponibile in un anno, ma se questo vaccino funziona il Covid. 

IL RICORDO DI GESUALDO - Il prof. Gesualdo ricorda pezzi di vita vissuti con Gambotto: «a Pittsburgh, nel 1997 siamo stati insieme lì, mi ha accolto come un fratello. Andrea si è sempre occupato di terapia genica e quando veniva a trovarci nei laboratori era il nostro carrier, che portava con sé una scatola con tante piccole provette e lui ci diceva: «Qui dentro vi porto sogni». Mentre parla Gambotto mostra la laurea conseguita all'Università di Bari, firmata dal rettore Aldo Cossu. 

LE PAROLE DEL RETTORE BRONZINI - Ma se Gambotto fosse rimasto in Italia, avrebbe ottenuto questo successo? Alla domanda sui cervelli in fuga il magnifico rettore ha così replicato: «Il problema non è chi se ne va, ma perché se ne vanno. All'estero i nostri studenti hanno maggiori possibilità, non so se qui Andrea avrebbe avuto la stessa struttura a sostegno della sua ricerca. Questo non è un problema Covid, ma un problema sociale e produttivo tutto italiano che non va. La laurea inizia a servire, e che abbia i colori sociali baresi è un surplus. Le istituzioni non investono a sufficienza nella ricerca. E si sa la ricerca è un investimento a tempo perduto. Quello di Andrea è un esempio virtuoso, ma il Paese si deve svegliare.

Sangue savese nel ricercatore che può sconfiggere il Covid-19. Dopo essersi laureato in Medicina all’Università degli Studi “Aldo Moro” nel 1994, si è trasferito negli States. La Voce di Manduria sabato 04 aprile 2020. Scorre sangue savese nelle vene dello scienziato che fa parte del team che negli Stati Uniti ha messo a punto il vaccino-cerotto contro il nuovo coronavirus. Si chiama Andrea Gambotto, nato e cresciuto a Bari dove si è laureato in medicina da padre torinese, anche lui medico e la madre di Sava. I suoi genitori si sono conosciuti al Policlinico barese dove entrambi lavoravano e dove, cinquantatré anni, è nato Andrea.

La storia di Andrea Gambotto da scienzecue.it. Dopo essersi laureato in Medicina all’Università degli Studi “Aldo Moro” nel 1994, si è trasferito negli States, dove vive da oltre venticinque anni, occupandosi di ricerca presso la School of Medicine dell’Università di Pittsburgh. Il suo nome – sconosciuto fino a poco tempo fa – è salito agli onori della cronaca negli ultimi giorni per una vicenda che lo vede coinvolto in prima persona e che riguarda la pandemia da coronavirus in corso. Andrea Gambotto, infatti, fa parte del team di ricerca che ha messo a punto il “vaccino-cerotto” contro il nuovo coronavirus, denominato PittCoVacc: non la classica iniezione, dunque, ma un piccolo cerotto largo 1,5 centimetri sul quale sono presenti 400 minuscoli aghi e che va applicato sul braccio o sulla schiena. Questi, realizzati in carbossimetilcellulosa, si dissolvono una volta penetrati nella pelle, rilasciando la proteina. L’accesso attraverso la pelle non è casuale. È infatti così che è possibile scatenare una reazione immunitaria più forte, essendo la pelle la prima barriera che ci protegge da virus e batteri: un gran vantaggio perché i vaccini così fatti non richiedono refrigerazione, ma possono essere mantenuti a temperatura ambiente fino al loro utilizzo, facilitandone il trasporto e la distribuzione. La sperimentazione sui topi fatta dagli scienziati ha prodotto esiti positivi che fanno ben sperare. Ora il team è pronto per la fase successiva: l’isolamento degli anticorpi prodotti dai topi vaccinati e la valutazione della loro azione sulle cellule umane “infettate” dal Sars-CoV-2. Riguardo le tempistiche per i primi test sull’uomo, il ricercatore barese ha fatto sapere che “il vaccino potrebbe entrare già entro un mese nei test clinici di fase I su individui“. “Abbiamo avuto esperienze precedenti su SARS-CoV nel 2003 e MERS-CoV nel 2014. Questi due virus, che sono strettamente correlati a SARS-CoV-2, ci hanno insegnato che una particolare proteina, chiamata proteina spike, è importante per indurre l’immunità contro il virus. Sapevamo esattamente dove combattere questo nuovo virus“ – ha affermato l’italiano Andrea Gambotto, coautore senior e professore associato di Chirurgia presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Pittsburgh. Non è la prima volta che la brillante mente pugliese si rende protagonista di scoperte così rilevanti in campo medico. Nel 2003 infatti, all’interno del dipartimento di genetica molecolare e biochimica dell’Università di Pittsburgh presso cui svolge attività di ricerca, Gambotto ed i suoi colleghi realizzarono il primo vaccino contro un altro coronavirus, quello responsabile della SARS (Severe acute respiratory syndrome), facente parte della stessa famiglia del Sars-CoV-2. In quel caso però non furono necessarie ulteriori sperimentazioni: l’epidemia di SARS, partita nel 2002 dalla Cina, si arrestò da sola nel 2004. In più, nel 2014 ha avuto modo di studiare anche un vaccino contro il Mers-CoV, agente virale che causò la MERS (Middle East Respiratory Syndrome).(sciencecue.it)

Coronavirus, mavrilimumab abbatte mortalità da Covid-19: lo studio italiano. Notizie.it il 18/06/2020. Scienziati italiani del San Raffaele hanno dimostrato che l’anticorpo monoclonale mavrilimumab riduce la mortalità da Covid-19.

Perché mavrilimumab è efficace? Dopo le voci sull’Avigan, farmaco che pare sia stato molto usato in Giappone, e i dubbi sul vaccino utile a debellare il coronavirus, ricercatori italiani dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e dell’Università Vita-Salute di Milano hanno dimostrato che l’anticorpo monoclonale mavrilimumab è in grado di ridurre la mortalità da Covid-19. L’infusione dell’anticorpo monoclonale mavrilimumab sembra dare risultati promettenti. I medici ne consigliano l’uso per combattere l’artrite reumatoide. Nei pazienti risultati positivi al Covid-19, invece, garantirebbe una guarigione anticipata e soprattutto una riduzione del tasso di mortalità. Al momento, il mavrilimumab rappresenta uno dei migliori farmaci per il trattamento dei pazienti gravi affetti da coronavirus. Tuttavia, gli esiti finora riscontrati devono essere confermati da ulteriori studi clinici e controllati con un placebo. A condurre lo studio, il reumatologo Giacomo De Luca e il professor Lorenzo Dagna, primario dell’Unità Clinica di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare e docente presso l’ateneo milanese. Ha partecipato alla ricerca anche il professor Alberto Zangrillo. Con loro anche il professor Fabio Ciceri, docente di Ematologia e Trapianto di Midollo ed esperto di ricerca clinica.

Il gruppo di ricerca ha coinvolto 39 pazienti risultati positivi al virus e ricoverati presso il nosocomio lombardo tra il 17 marzo e il 15 aprile del 2020. 13 dei 39 pazienti, con un età media di 57 anni e per il 92% di sesso maschile, sono stati sottoposti al trattamento standard anti Covid e a quello sperimentale con l’anticorpo monoclonale. Gli esperti hanno poi messo a confronto il loro percorso di miglioramento con quello degli altri 26 pazienti, dall’età media di 60 anni e, anche in tal caso, principalmente uomini (62%). Per questo gruppo, invece, i ricercatori si sono serviti solo della terapia standard. Al 28esimo giorno dall’avvio della terapia, tutti i pazienti trattati con mavrilimumab hanno riscontrato diversi miglioramenti, a differenza del secondo gruppo. Nessuno dei malati trattati con l’anticorpo monoclonale è deceduto. Al contrario 7 pazienti a cui è stata somministrata la sola terapia standard sono morti. Inoltre, al 14esimo giorno, la febbre è passata nel 91% dei casi, contro il 61% di quelli del gruppo di controllo. Il mavrilimumab non ha provocato gravi controindicazioni. In un comunicato stampa, il dottor De Luca ha fatto sapere i pazienti ai quali i medici hanno somministrato l’anticorpo monoclonale sono stati dimessi in media 10 giorni prima rispetto a quelli del gruppo di controllo.

Perché mavrilimumab è efficace? Si tratta di un farmaco immunosoppressore progettato per bloccare una specifica molecola (chiamata GM-CSF) prodotta dal sistema immunitario e legata al processo infiammatorio. Il coronavirus può provocare reazioni immunitarie spropositate, danneggiando seriamente gli organi e, talvolta, portando alla morte. Farmaci antiinfiammatori come il tocilizumab, il desametasone e il mavrilimumab – usato contro le complicazioni dell’arterite a cellule giganti – possono rivelarsi utili nel trattamento del Covid-19, soprattutto se somministrati precocemente. “L’idea di bloccare la molecola GM-CSF per contrastare Covid-19 è nata proprio dalla nostra esperienza sull’arterite a cellule giganti. Oggi siamo i primi al mondo a dimostrare che si tratta di una strategia sicura ed efficace contro il Covid-19”, ha commentato Lorenzo Dagna. Quindi ha aggiunto: “Sono risultati che confermano l’importanza di interferire il più in alto possibile nella cascata di segnali infiammatori che causa la malattia”. Tuttavia, ha precisato: “Dovranno essere confermati in studi più ampi. Così si potrà controllare l’efficacia del farmaco rispetto a un placebo”.

Eculizumab, a Napoli sperimentazione anti-coronavirus: due giovani migliorano. Redazione de Il Riformista l' 8 Aprile 2020. Le attività del coronavirus negli ospedali napoletani di Pozzuoli, Ischia, Frattamaggiore e Giugliano sono sotto la lente di un centro di ricerca di Boston. Qui, infatti, in provincia di Napoli, si sta utilizzando su venti pazienti – attualmente il maggior numero di casi al mondo – un approccio terapeutico con un farmaco statunitense: l’eculizumab, un anticorpo monoclonale prodotto con la tecnologia del DNA ricombinante e approvato per il trattamento di malattie rare: la sindrome emolitico uremica atipica e l’emoglobinuria parossistica notturna. Anche questo farmaco, come il tocilizumab sperimentato al Cotugno, contrasta la risposta infiammatoria polmonare determinata dal COVID19; nel caso dell’eculizumab, però, il farmaco non interviene nella parte finale del processo infiammatorio, ma a monte. DUE PAZIENTI GIA’ MIGLIORATI – Attualmente due pazienti giovani trattati con questi protocolli terapeutici sono già usciti dalla terapia intensiva e sono stati trasferiti nella degenza ordinaria. Il lavoro dell’ASL Napoli 2 Nord anticipa analoghe ricerche che stanno partendo negli Stati Uniti, con lo stesso tipo di farmaco. I primi risultati di questo studio saranno pubblicati già nei prossimi giorni su riviste scientifiche internazionali, a firma tra gli altri, di tre primari del Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli: Francesco Diurno, primario della Terapia Intensiva, Fabio Numis, primario della Medicina d’Urgenza, Gaetano Facchini, primario dell’Oncologia. “Stiamo portando avanti un’analisi di real world sui nostri pazienti, utilizzando l’Eculizumab dell’approccio di Boston – dice Gaetano Facchini, ricercatore appena trasferitosi dal Pascale e già firmatario di 198 pubblicazioni scientifiche internazionali -. Ovviamente siamo ancora all’inizio, ma i primi risultati ci paiono molto interessanti. Già nelle prossime due settimane pubblicheremo i primi dati su una rivista scientifica internazionale. L’approccio terapeutico di Boston è stato messo a punto lo scorso 11 marzo con uno studio effettuato su due pazienti. Attualmente la nostra realtà è quella che sta analizzando la casistica più numerosa al mondo. Siamo molto fiduciosi”. L’approccio di Boston nell’ASL Napoli 2 Nord viene integrato dall’uso di anticoagulanti in tutti i pazienti COVID 19. Tale terapia, sempre più in utilizzo in diverse realtà italiane, è stata adottata dal confronto degli esami diagnostici e dalla condizione clinica dei pazienti. “Già dai primi casi trattati a metà marzo ci ha meravigliato vedere che alcuni pazienti con una condizione polmonare più compromessa presentavano meno difficoltà respiratorie di altri con i polmoni in uno stato migliore – fa sapere Francesco Diurno, primario di Terapia Intensiva -. Inoltre, tutti questi pazienti presentavano resistenze del circolo polmonare elevate. Abbiamo ipotizzato, allora, che tale fenomeno fosse legato ad un interessamento del sistema circolatorio polmonare e che il virus potesse provocare fenomeni trombotici nel microcircolo polmonare. Da qui la scelta di trattare tutti i pazienti con una forte terapia anticoagulante adeguata. Tale intuizione è stata di recente confermata dalle prime autopsie su pazienti COVID19 effettuate in Emilia-Romagna, che confermano un diffuso interessamento del sistema circolatorio periferico polmonare e non solo. Anche se siamo nelle primissime fasi, ad oggi la combinazione degli anticoagulanti con l’Eculizumab ci sta dando risultati interessanti che vogliamo presentare e mettere a disposizione della comunità scientifica internazionale”. “Stiamo lavorando all’unisono in tutti e quattro gli ospedali dell’ASL Napoli 2 Nord, condividendo terapie, dati, informazioni e riscontro –  dichiara Fabio Giuliano Numis, primario della Medicina d’Urgenza -. L’impatto con questa patologia è stato duro perché tutto era nuovo, tutti noi abbiamo avviato un lavoro di confronto multidisciplinare per poter integrare le competenze e le prospettive. Questo approccio ci sta dando buoni frutti perché ci sta permettendo di sviluppare approcci terapeutici originali, a partire dalla clinica. Le ricerche su questi farmaci nascono esattamente da questo modo di lavorare”. Soddisfazione per il direttore Generale dell’ASL Napoli 2 Nord, Antonio d’Amore: “Questo studio è frutto di un lavoro comune fatto dai medici, gli infermieri, gli oss, i farmacisti, i biologi, i tecnici. È motivo di grande orgoglio vedere che una ricerca potenzialmente tanto importante parta da un’Azienda Sanitaria territoriale campana. Il nostro Sistema Sanitario ha capacità, competenze e risorse enormi che stanno evidenziando tutta la propria valenza in questo momento di difficoltà per tutti noi. Da queste persone e da queste competenze dobbiamo ripartire”.

Gli effetti dei farmaci usati contro il coronavirus. Centinaia di migliaia di casi in tutto il mondo vengono trattati con farmaci già utilizzati per affrontare altre patologie, con successi più o meno evidenti. Francesca Venturi su agi.it il 20 marzo 2020. La ricerca farmacologica mondiale è in queste settimane impegnata nelle cure per i malati di coronavirus: centinaia di migliaia di casi in tutto il mondo vengono trattati con farmaci già utilizzati per affrontare altre patologie, con successi più o meno evidenti. Dopo la smentita da parte dell'Agenzia europea del farmaco del fatto che il popolare antinfiammatorio Ibuprofene possa addirittura provocare un peggioramento dei sintomi, la conferma più recente riguarda invece un antimalarico, l'idrossiclorochina, "sdoganata" addirittura dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, mentre le autorità sanitarie cinesi hanno parlato di un farmaco utilizzato in Giappone per curare l'influenza che sarebbe efficace anche nei pazienti di coronavirus. Si tratta del favipiravir (nome commerciale Avigan), sviluppato da una controllata di Fujifilm: i risultati dei trattamenti su 340 pazienti a Wuhan e Shenzen sono "incoraggianti". L'Agenzia italiana del farmaco ha in corso una procedura rapida di approvazione per i medicinali utilizzati "off label" nei protocolli adottati nell'emergenza dagli ospedali, e per le sostanze che si stanno sperimentando come i farmaci a base di remdevisir e tocilizumab. Quest'ultima, sperimentata con successo all'Ospedale Cotugno di Napoli su due pazienti in terapia intensiva per effetto di una polmonite scatenata dal coronavirus, è una molecola pensata per combattere l'artrite reumatoide prodotta da Roche che è stata autorizzata anche in Cina. Il farmaco è stato in grado di contrastare la risposta autoimmune scatenata dal virus e responsabile della sindrome respiratoria acuta che colpisce le persone infette da coronavirus. Un'altra ricerca riguarda lo sviluppo di molecole in grado di inibire l'attacco del virus rendendolo meno offensivo. Mentre per curare i primi due casi dei coniugi cinesi a Roma, allo Spallanzani hanno utilizzato due farmaci antivirali: il lopinavir/ritonavir e il remdesivir. I due primi farmaci vengono somministrati congiuntamente per potenziare gli effetti che hanno sull'organismo e vengono utilizzati per la terapia anti HIV negli adulti e nei bambini di età superiore almeno ai due anni. Il secondo farmaco che è stato somministrato ai due pazienti è invece il remdesivir. È più sperimentale e fu prodotto da Gilead per contrastare il virus di Ebola e Marburg. Sviluppato molto velocemente per poter essere impiegato nell'epidemia di Ebola del 2013-2016 in Africa Occidentale, è stato poi utilizzato nel corso dell'epidemia di Ebola del 2018 in Congo dove è stato dichiarato inefficace dai funzionari sanitari. Ora lo si riprova, visto che in fase sperimentale si era dimostrato attivo nei confronti dei virus Sars e Mers, della stessa famiglia del Covid-19. Ancora, in Giappone si sta sviluppando un farmaco usando parti del sistema immunitario prelevate dal plasma delle persone contagiate dal nuovo coronavirus e poi guarite, per trasferire gli anticorpi. La società che la sta studiando, Takeda, chiamerà il trattamento TAK-888 e ha precisato che potrebbe essere utilizzato solo da un numero esiguo di malati. E sarà indirizzata ai pazienti che hanno una malattia grave. I trattamenti a base di cellule staminali rappresentano una ulteriore strada percorribile per combattere le infezioni causate dal nuovo coronavirus. Le sperimentazioni cliniche basate sull'uso delle cellule staminali condotte fino ad oggi in Cina sono almeno 14. Studi condotti sugli animali avevano suggerito che queste preziose cellule potessero riparare il grave danno d'organo causato dal Sars-CoV-2. Inoltre, alle MSC è stata associata una forte capacità di modulare l'attività del sistema immunitario.

Virus Cina, ecco come si cura. Pubblicato da adnkronos.com il: 24/01/2020. I sintomi del nuovo coronavirus emerso in Cina "sono tipicamente respiratori: febbre, tosse, raffreddore, mal di gola, affaticamento polmonare. Non ci sono terapie specifiche, quindi la malattia attualmente si cura come i casi di influenza grave, con terapie di supporto, farmaci antipiretici e antinfiammatori, e idratazione. Quando c'è una forma più grave, il paziente viene seguito in rianimazione con il supporto meccanico alla respirazione". A spiegarlo all'Adnkronos Salute è Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità (Iss), che fa il punto sulla terapia delle infezioni da nuovo coronavirus cinese. Non sono disponibili antivirali specifici. "E in teoria non occorre una terapia antibiotica, a meno che non ci siano complicanze batteriche. In pratica, se c'è una diagnosi di polmonite si tratta come una polmonite virale". Non esiste ancora un vaccino contro questo virus, ma nei giorni scorsi al World Economic Forum di Davos in Svizzera, è stato annunciato che il National Institute of Health americano ha avviato una collaborazione per la messa a punto di un vaccino con l’Università australiana del Queensland e due società farmaceutiche. Anche la Russia nei giorni scorsi ha annunciato che un team di ricercatori è al lavoro sul vaccino.

Cina, “la terapia a base di sangue dei guariti sta funzionando”. Il Dubbio il 7 aprile 2020. Lo studio segnala dei miglioramenti in un piccolo gruppo di pazienti già dopo 3 giorni dalla somministrazione della terapia a base di plasma. Uno studio pilota realizzato in Cina suggerisce la fattibilità della terapia a base di “plasma convalescente”, il cosiddetto sangue dei guariti, per il trattamento di pazienti con Covid-19. Lo studio, pubblicato su “Pnas” e condotto dai ricercatori della Shanghai Jiao Tong University School of Medicine, segnala dei miglioramenti in un piccolo gruppo di pazienti già dopo 3 giorni dalla somministrazione della terapia a base di plasma. Il team di Zhu Chen, Xinxin Zhang, Xiaoming Yang e colleghi ha esplorato la fattibilità di questo approccio su 10 pazienti con forme gravi di Covid-19, tra i 34 e 78 anni. I pazienti hanno ricevuto la trasfusione di una dose di 200 ml di plasma convalescente derivato da donatori guariti da poco da Covid-19 e contenente «alti livelli di anticorpi neutralizzanti». Entro 3 giorni dalla trasfusione i sintomi clinici, come febbre, tosse, respiro corto e dolore toracico «sono notevolmente migliorati e i pazienti hanno mostrato un aumento della conta dei linfociti, un miglioramento della funzionalità epatica e polmonare e una riduzione dell’infiammazione», fanno sapere i ricercatori. Inoltre i livelli di anticorpi neutralizzanti sono aumentati o rimasti elevati dopo la trasfusione. Ed entro 7 giorni dalla trasfusione, sono stati osservati vari gradi di riassorbimento delle lesioni polmonari grazie alle Tac toraciche. E ancora, dopo l’infusione di plasma convalescente «non sono state osservate gravi reazioni avverse». I risultati, sebbene preliminari, suggeriscono che la terapia a base di “sangue dei guariti” potrebbe essere «un trattamento sicuro e promettente per pazienti con Covid-19 gravi». Secondo gli autori il lavoro evidenzia anche la necessità di ulteriori indagini in studi clinici controllati e randomizzati.

Da "ilmessaggero.it" il 4 aprile 2020. Coronavirus, i ricercatori australiani stanno testando un farmaco che ucciderebbe il Covid19 in 48 ore. Il farmaco oggetto degli studi dei ricercatori australiani della Monash University di Melbourne, in collaborazione con il Doherty Institute, è l'Ivermectin, farmaco che viene utilizzato per trattare altre malattie come dengue o zika. Negli studi condotti dai ricercatori australiani sulle colture cellulari al Biomedicine Discovery Institute (BDI) della Monash University, come riportano The Canberra Times e il Daily Mail, è stato scoperto che l'Ivermectin riesce a eliminare la carica virale del Coronavirus in 48 ore. La Ivermectina è un farmaco antiparassitario disponibile in tutto il mondo e riconosciuto dalla Fda, l'Agenzia del farmco americana. «Una singola dose potrebbe eliminare tutto l'Rna virale entro 48 ore - dicono i riceratori -. Entro le prime 24 ore si nota una riduzione davvero significativa». Dalla ricerca in laboratorio alla cura sulle persone, tuttavia, il passo non è breve: i ricercatori australiani ammettono che ci vorrà ancora del tempo per verificare l'efficacia del farmaco sulle persone, determinando quale sia la dose da somministrare efficace nell'uomo.

La scoperta australiana: "Farmaco antiparassitario uccide il Covid". I ricercatori autraliani hanno dimostrato che l'Ivermectina può uccidere il coronavirus in sole 48 ore. L'efficacia è emersa in test di laboratorio e dovrà essere confermata sull'uomo. Ecco di che farmaco si tratta. Giorgia Baroncini, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Nei laboratori di tutto il mondo, i ricercatori sono al lavoro per individuare un vaccino e farmaci contro il coronavirus. Tra test e sperimentazioni, i tempi sembrano lunghi, ma ora una risposta potrebbe arrivare dall'Australia. Gli studiosi della Monash University di Melbourne, in collaborazione con il Doherty Institute stanno testando un farmaco che ucciderebbe il Covid-19 in sole 48 ore. Si tratta dell'Ivermectina, medicina che viene utilizzata per trattare altre malattie come dengue o zika. Negli studi condotti dai ricercatori sulle colture cellulari, ha spiegato il Messaggero, è stato scoperto che l'Ivermectina riesce a eliminare la carica virale del coronavirus in 48 ore. Quello australiano è però uno studio preclinico e in provetta, quindi ci vorrà ancora del tempo per dimostrare l'effettiva efficacia del farmaco sull'uomo. Intanto però l'Ivermectina si aggiunge alla lista dei medicinali potenzialmente efficaci contro il coronavirus.

L'Ivermectina. Farmaco antiparassitario o antielmintico, l'Ivermectina è stata scoperta nel 1975 e utilizzata con successo contro diverse patologie parassitarie causate da artropodi e nematodi. È disponibile in tutto il mondo a un costo ridotto, fa parte dell'elenco dei cosiddetti "farmaci essenziali" dell'Organizzazione mondiale della sanità ed è approvata dalle principali agenzie dedicate alla regolamentazione dei farmaci, come l'FDA americana. Alcuni studi più recenti, come riporta Fanpage, hanno fatto emergere le proprietà antivirali del principio attivo ad esempio contro il virus dell'HIV, lo zika e la dengue. Gli scienziati hanno anche testato il farmaco contro il virus dell'encefalite equina venezuelana (VEEV) e il West Nile. E così, alla luce di queste ricerche, gli studiosi australiani hanno deciso di sperimentarlo in provetta contro il nuovo coronavirus che si sta diffondendo senza ostacoli in tutto il mondo. "Una singola dose potrebbe eliminare tutto l'Rna virale entro 48 ore - hanno spiegato i riceratori -. Entro le prime 24 ore si nota una riduzione davvero significativa". Come già spiegato però, il farmaco ha avuto un esito positivo nei test di laboratorio in vitro. Si è infatti visto che l'Ivermectina impedisce al Covid di replicarsi nelle cellule e così lo distrugge. Per arrivare alla sua applicazione sull'uomo ci sono ancora molti passaggi da affrontare. "L'Ivermectina è ampiamente utilizzata e considerata un farmaco sicuro, dobbiamo capire ora se il dosaggio a cui puoi usarlo negli esseri umani sarà efficace, questo è il prossimo passo", ha spiegato la dottoressa Kylie Wagstaff, alla guida del team di ricerca.

Vitamina D: il Regno Unito la distribuisce contro il Covid-19. Le Iene News l'8 novembre 2020. Dal prossimo mese, per tutto l’inverno, il governo inglese distribuirà vitamina D a oltre 2 milioni di persone ritenute categoria fragile e ricoverate in case di cura. Sono sempre di più gli studi internazionali che dimostrerebbero la correlazione tra bassi livelli di vitamina D e morte per Covid-19. Ma a maggio uno studio italiano era stato preso di mira dalle critiche. La vitamina D aiuta a combattere meglio il Covid-19 e ne riduce il tasso di morte? Ne è convinto il governo inglese, che a partire dal prossimo mese la distribuirà a oltre 2 milioni di persone ritenute “clinicamente fragili” e ospitate nelle case di cura del Paese. Il Regno Unito, che è tornato in lockdown meno di una settimana fa, registra ad oggi oltre 1 milione di casi e quasi 49mila morti. La mossa inglese segue un’iniziativa analoga del governo scozzese e ha trovato tra i primi fautori il ministro della Salute Matt Hancock, secondo il quale starebbero emergendo evidenze sul collegamento tra assunzione di vitamina D e minor rischio di morte per Covid-19. Il premier Boris Johnson ha detto: “stiamo guardando ai possibili benefici della vitamina D e presto riferiremo in Parlamento”. A quanto pare alcuni studi, in primis quello del gruppo di ricercatori guidato da Gareth David, avrebbero già evidenziato la correlazione tra bassi livelli di vitamina D e rischio di morte per coronavirus. Studi incoraggianti, a seguito dei quali diversi scienziati hanno chiesto al governo inglese di aggiungere la vitamina D ai cibi base dell’alimentazione della popolazione, quali pane e latte. La vitamina D, che aiuta il corpo a mantenere corretti livelli di calcio e di fosfati, preservando le ossa, i denti e i muscoli, viene prodotta naturalmente dall’organismo durante l’esposizione al sole e si può trovare in cibi quali salmone, tonno, pesce spada, ma anche tuorli delle uova, latte, funghi e persino cioccolato fondente. Un alleato importante a difesa della salute, del quale però non bisogna abusare, perché un’assunzione eccessiva può causare disturbi quali mal di testa, vomito, contrazioni muscolari e nei casi più gravi anche formazione di calcoli. Qualche tempo fa, come vi avevamo già raccontato in questo articolo, anche uno studio spagnolo aveva evidenziato la carenza di vitamina D come fattore di rischio di sintomi gravi legati al Covid, osservando come oltre l’80% dei pazienti ricoverati per il virus avesse  livelli pericolosamente bassi di vitamina D. Un ulteriore studio condotto dall’Università di Chicago e pubblicato sul Journal of American Medical Association Network Open era arrivato a conclusioni simili: le persone con bassi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60 per cento di probabilità in più di risultare positive al coronavirus. "La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario”, ha spiegato il professor Meltzer. "Saranno necessari test clinici per dimostrare questi risultati, ma secondo i nostri dati la vitamina D, pur non rappresentando una garanzia come protezione dal coronavirus, sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave". Anche in Italia, nel maggio scorso, si era parlato dei benefici della vitamina D, dopo la conferma di due docenti dell’Università di Torino, Giancarlo Isaia e Enzo Medico. Nonostante lo studio mostrasse come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D, erano stati criticati per la mancanza di validazione scientifica delle loro affermazioni.

Coronavirus, la scoperta dei ricercatori: "Vitamina D placa l'infezione". Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori di Torino ha evidenziato una carenza importante di vitamina D nei pazienti affetti da coronavirus. Rosa Scognamiglio, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. "La vitamina D riduce il rischio di infezioni respiratorie di origini virali e irrobustisce il sistema immunitario". Ad affermarlo è un gruppo di ricercatori dell'Università di Torino che, nell'ultime settimane, ha analizzato la correlazione tra l'insorgenza dell'infiammazione polmonare ingenerata dal coronavirus e la carenza di vitamina D, specie nei soggetti immunodepressi. Lo studio, condotto da Giancarlo Isaia, docente di geriatria e presidente dell'Accademia di Medicina di Torino e da Enzo Medico, ordinario di Istologia, ha evidenziato che una buona percentuale di italiani affetta da Covid presenta un notevole deficit vitiminico. Anzi, a dirla tutta, questa insufficienza interessa una vasta fetta della popolazione, senza distinzione di età e sesso. Alla luce dell'indagine svolta, gli studiosi suggeriscono un incremento della vitamina D attraverso il consumo di alimenti specifici - quali latte e formaggi, per esempio - e l'esposizione moderata al sole. La dritta è rivolta soprattutto ai medici affinché "in associazione alle ben note misure di prevenzione di ordine generale, di assicurare adeguati livelli di vitamina D nella popolazione, ma soprattutto nei soggetti già contagiati, nei loro congiunti, nel personale sanitario, negli anziani fragili, negli ospiti delle residenze assistenziali, nelle persone in regime di clausura e in tutti coloro che per vari motivi non si espongono adeguatamente alla luce solare". I dati emersi in seno alla ricerca evidenziano "una elevatissima ipovitaminosi D" (carenza di vitamina) negli ammalati di Covid con infiammazione polmonare. Inoltre, spiegano gli esperti alle pagine del quotidiano Leggo: "Potrebbe anche essere considerata la somministrazione della forma attiva della vitamina D, il calcitriolo, per via endovenosa in quei pazienti affetti da Coronavirus e con funzionalità respiratoria compromessa". Sia chiaro, non si tratta di una cura prodigiosa, ma di un prezioso suggerimento utile ad irrobustire il sistema immunitario. Le evidenze scientifiche segnalano "un ruolo della vitamina D sulla modulazione del sistema immune, ma anche un effetto nella riduzione del rischio di infezioni respiratorie di origine virale, incluse quelle da Covid". Ma dove si trova la vitamina D? La risposta è presto detta. Gli alimenti più ricchi sono: fegato, olio di pesce, pesce marino e tuorlo d’uovo. E anche l’esposizione al sole aiuta ad aumentarne i livelli. Il suggerimento, pertanto, è quello di "esporsi alla luce solare, anche su balconi e terrazzi, alimentandosi con cibi ricchi di vitamina D, come latte, formaggio, yogurt e assumendo preparati farmaceutici". Ad avvalorare la tesi dei ricercatori c'è il caso delle 32 suore di clausura in un convento di Tortona, diventato focolaio del coronavirus nell'Alessandrino. Non a caso, nel buio delle celle e dei chiostri del monastero, tutte le monache sono state contagiate, cinque sono morte dopo pochi giorni, mentre un'altra decina si trova ancora ricoverata in rianimazione negli ospedali di Cuneo e Tortona ed ad ogni suora è stata riscontrata una grave carenza vitaminica. Fanno eccezione dallo studio i bambini che, per fortuna, non riportano tale deficit. "La ridotta incidenza di Covid 19 nei bambini, - concludono gli esperti - potrebbe essere anche attribuita alla minore prevalenza di ipovitaminosi D conseguente alle campagne di prevenzione del rachitismo attivate in tutto il mondo dalla fine dell’Ottocento, mentre la distribuzione geografica della pandemia sembra potersi individuare maggiormente nei Paesi situati al di sopra del tropico del cancro, con una relativa salvaguardia di quelli subtropicali, più caldi e soleggiati".

Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 30 marzo 2020. È successo con una partita di medicine. Un farmaco specialissimo, impiegato per sedare i ricoverati nelle terapie intensive che respirano grazie ai macchinari, prodotto da una grande azienda multinazionale con una filiale in Lombardia. Si chiama Propofol, e la partita in questione era destinata al Messico: il commissario all' emergenza sanitaria l' ha fatta sequestrare dai carabinieri del Nas, con la motivazione che quei farmaci servono come il pane agli ospedali italiani impegnati nella battaglia contro il Covid-19. La guerra, perché per tutti ormai la sfida al coronavirus è evento bellico, ha le proprie regole d' ingaggio. Anche (e forse soprattutto, in questo caso) sotto il profilo commerciale. E una delle regole è, appunto, il controllo alle frontiere e il sequestro delle merci. Così sabato 28 marzo il commissario Domenico Arcuri ha firmato un' ordinanza dai contenuti clamorosi: se non fosse giustificata, appunto, da quello che è ormai considerato un clima di guerra. Dice che le dogane devono provvedere a far entrare in Italia tutti i dispositivi di protezione individuale, a cominciare proprio dalle mascherine e per finire ai respiratori, che siano esplicitamente destinati alle strutture statali e agli ospedali pubblici o privati accreditati inseriti nelle reti regionali per l' emergenza. Oltre ai «soggetti che esercitano servizi pubblici essenziali». E allo sdoganamento di quei prodotti si dovrà provvedere velocemente, senza il pagamento di imposte doganali e dell' Iva. I dispositivi che invece arrivano dall' estero non per le strutture pubbliche ma per il mercato privato dovranno essere segnalati al commissario «affinché disponga, ove lo ritenga, la requisizione della merce». L'istruzione impartita all' Agenzia delle dogane e dei monopoli ora diretta da Marcelo Minenna è senza precedenti. C'è scritto che si tratta di una misura giustificata dalla necessità «di assicurare il funzionamento del servizio sanitario nazionale » che continua a lamentare carenze negli approvvigionamenti. Ma l' operazione mira anche a colpire le manovre commerciali che hanno mandato in orbita, per esempio, i prezzi delle mascherine. Con l' emergenza Covid-19 sono diventate pressoché introvabili. Un servizio delle Iene ha documentato situazioni ben oltre i limiti della decenza: con mascherine vendute non al mercato nero, bensì da una farmacia al centro di Milano, al prezzo astronomico di 60 euro l' una.

(ANSA l'1 aprile 2020) - L'Agenzia europea del farmaco (Ema) sta valutando, in continuo contatto con le aziende ed enti che li sviluppano, 40 farmaci contro il Covid-19 come possibili terapie. Al momento sono attesi i risultati ma sulla base dei dati preliminari ancora non ci prove di efficacia per nessuno di questi. Tuttavia tra le "potenziali terapie" su cui sono in corso sperimentazioni ci sono due antimalarici, due antivirali usati contro l'Hiv, un anvirale sviluppato per Ebola, un farmaco per la sclerosi multipla e un antireumatico. L'Agenzia europea del farmaco (Ema) sta valutando anche una dozzina di potenziali vaccini contro il Covid-19. Di questi, due hanno già iniziato la prima fase di sperimentazione, che richiede volontari sani. E' però difficile prevedere, spiega sul suo sito, quando saranno pronti. Sulla base delle informazioni disponibili e delle esperienze passate, si stima che ci possa volere almeno un anno prima di avere un vaccino pronto per essere approvato e disponibile in sufficienti quantità per un uso diffuso.

L’esperto: “Attenzione agli antimalarici, se siete sani non li usate”. Giulio Seminara de Il Riformista il 3 Aprile 2020. La peste, la rivoltosa folla affamata e l’assalto ai forni certo, quante volte abbiamo citato Manzoni in questi giorni. Ma adesso rompiamo il silenzio sul rapporto tra Coronavirus, psicosi da pandemia e assalto alle farmacie. Anche qui c’è molta gente che ha fame, ma di salute. Una metafora per approcciarsi al delicato allarme lanciato da numerosi scienziati e medici italiani: «A causa del Coronavirus decine di migliaia di pazienti affetti da malattie autoimmuni si stanno ritrovando senza i loro farmaci». Il messaggio, pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Annals of the Rheumatic Diseases, apre un dibattito scientifico e sociale: «È corretto ipotizzare, anche in assenza di dati scientifici al riguardo, l’utilizzo degli antimalarici per la profilassi (prevenzione, ndr) al Coronavirus, rischiando che i pazienti in terapia cronica ne rimangano sprovvisti?». Perché i pazienti in terapia per le malattie autoimmuni reumatologiche come il lupus, bisognosi di questi farmaci, adesso hanno difficoltà a reperire il farmaco nelle farmacie. Su questa piccola, grande, emergenza sanitaria, facciamo il punto con il professore Fabrizio Conti, docente di reumatologia alla Sapienza e direttore del reparto di reumatologia all’Umberto I di Roma, nonché firmatario dell’appello.

Professore, come sta?

«Io bene, grazie».

(La voce tradisce la stanchezza di chi in questo periodo ne ha viste tante)

Esattamente cosa sta succedendo?

«Vede, nel mondo contro il Coronavirus ormai da mesi si sta facendo uso dei farmaci antimalarici come la clorochina e soprattutto l’idrossiclorochina, nota col nome commerciale di Plaquenil. Non è una cura ancora ufficiale, ma empirica, ma che al momento sembra promettente, attendiamo comunque l’esito degli studi in corso».

Bene, ma cosa c’entrano i soggetti affetti da malattie autoimmuni?

«Chi ha una malattia autoimmune, come il lupus e diverse connettiviti, è spesso curato, e per tanti anni, con farmaci antimalarici come appunto la clorochina e l’idrossiclorochina. E adesso, dato che questi prodotti sono utilizzanti anche nella lotta al Coronavirus, rischiano di esserne sprovvisti, ma il bisogno rimane».

Quanta gente si è ritrovata senza il proprio farmaco di fiducia?

«Li usano decine di migliaia di persone con malattie reumatologiche, tra le quali il 70% degli affetti da lupus, una patologia che può colpire diversi organi. Riceviamo diverse richieste di aiuto ogni giorno. Questa gente, privata degli antimalarici, rischia il peggioramento delle proprie condizioni in poco tempo».

Voi cosa proponete?

«Da più parti è stato proposto di usare gli antimalarici anche nella profilassi, cioè nella prevenzione del Covid-19, ma in attesa di dati scientifici di efficacia diamo priorità ai pazienti affetti da Covid-19 e ai pazienti reumatologici da anni in terapia con questi farmaci. Come noi la pensa anche l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco, ndr). Va garantito l’approvvigionamento per tutti i pazienti che ne hanno bisogno».

Quel farmaco contro il virus che può evitare l'intubazione. Si tratta del ruxolitinib, sperimentato con successo in 8 pazienti dell'ospedale di Livorno. Il medico che ha avviato la sperimentazione: "Il trattamento sta funzionando". Francesca Bernasconi, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. Due compresse al giorno, per 15 giorni, e la terapia intensiva potrebbe essere evitata. La speranza, per i pazienti malati di Covid-19, arriva dall'ospedale di Livorno dove, da qualche settimana, viene sperimentato un farmaco che potrebbe diventare un valido avversario del virus. Si chiama ruxolitinib e i risultati del suo utilizzo sembrano promettenti. Il medicinale è stato sperimentato su 8 pazienti affetti da difficoltà respiratorie, non ancora in ventilazione assistita, e ha portato a un miglioramento del loro quadro clinico, evitando l'intubazione. A intuirne le potenzialità di utilizzo contro il Sars-CoV-2 è stata l'equipe guidata da Enrico Capochiani, direttore di ematologia dell'Asl Toscana Nord Ovest che, insieme all'infettivologo Spartaco Sani e dopo il confronto con l'Università di Pisa e il Cnr, ha pensato di somministrare ad alcuni malati di coronavirus il medicinale. Il ruxolitinib viene prodotto dall'azienda Novartis e usato solitamente per le malattie del sangue e contro i tumori. Ora, con il consenso dell'Agenzia italiana del farmco (Aifa) può essere utilizzato anche contro il Covid-19, in modalità off label, cioè fuori indicazione. Presto il farmaco potrebbe essere sperimentato in altre parti della Toscana. Gli esperti sono partiti dai dati delle ultime settimane, che hanno mostrato come "i quadri Covid-19 che evolvono negativamente con necessità di supporto rianimatorio, abbiano molte caratteristiche simili alle reazioni immunitarie derivanti da patologie ematologiche e che, conseguentemente, possano essere efficaci i medesimi trattamenti". Da qui, l'idea di somministrare un farmaco che "prima di esercitare un'azione di controllo, ha una forte azione antinfiammatoria": "Ci è sembrato un ottimo candidato", ha spiegato Enrico Capochiani, in un'intervista a Repubblica. La terapia, che dà un'arma in più per sconfiggere il virus, è rivolta ai pazienti di tutte le età: "I pazienti sui quali abbiamo avviato il trattamento hanno tra i 28 e i 72 anni", ha riferito Capochiani. Tutti avevano una polmonite da Sars-CoV-2 e, "sebbene non avessero ancora bisogno della respirazione polmonare assistita, le loro condizioni facevano comunque intravedere un ricorso imminente alla terapia intensiva e all'intubazione". Il farmaco, però, ha bloccato il processo, facendo evolvere le condizioni cliniche positivamente. "Già dopo tre giorni dalla somministrazione abbiamo cominciato a vedere i primi risultati - aggiunge l'ematologo-Il trattamento sta funzionando e i pazienti si sentono meglio. Chi aveva bisogno di ossigeno ora è in grado di respirare in completa autonomia, chi aveva la febbre alta l'ha vista scendere vertiginosamente, chi aveva qualche linea non ce l'ha più". Inoltre, il fatto che bastino pochi dosaggi, "​fa ben sperare anche sul fatto che possa essere messo a disposizione di tutti coloro che potrebbero averne bisogno". Dato il successo del farmaco sugli 8 pazienti di Livorno, la Regione Toscana, in condivisione con Aifa, avvierà una vera e propria sperimentazione, che coinvolge Massa, Viareggio, Firenze e Pistoia. Ma anche la Regione Marche, in cui i casi di Covid-19 sono aumentati, si è mostrata interessata al medicinale. "Otto casi di successo cominciano a essere una percentuale significativa - afferma il medico - In momenti normali i numeri andrebbero moltiplicati per dieci, ma purtroppo siamo in emergenza. Il tempo è prezioso e dobbiamo bilanciare la necessità di restituire analisi rigorose con la necessità di trovare soluzioni tempestive". E avverte: "Questa malattia non la vinceremo con un unico strumento terapeutico. In attesa del vaccino è quindi importante combatterla sia con farmaci antivirali, sia con farmaci come questo che possano impedirne l'evoluzione critica".

Farmaco anti-rigetto funziona contro il coronavirus: risultati incoraggianti in Toscana. Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. Potrebbe evitare ai contagiati di entrare nella fase più grave della malattia. E quindi potrebbe essere in grado di agire evitando il ricorso alla rianimazone. Gli ematologi dell’Usl Toscana Nord Ovest a partire dal 24 marzo hanno sperimentato su otto pazienti contagiati dal coronavirus il Ruxolitinib. E hanno riscontrato dei miglioramenti sensibili nel giro di poche ore. La sperimentazione è stata condotta su contagiati ricoverati presso l’Ospedale di Livorno e potrebbe rappresentare una nuova strategia farmacologica per il contrasto al Covid-19. Una speranza contro il virus. Ma cos’è il Ruxolitinib? Si tratta di un farmaco che agisce contro il rigetto dopo il trapianto di midollo. E all’Ospedale di Livorno lo hanno adottato per agire sul sistema immunitario dei contagiati. L’infiammazione polmonare acuta provocata dalla reazione del sistema immunitario contro il virus toglie il respiro ai malati. I quali per guarire da questa grave forma di polmonite interstiziale atipica devono ricorrere all’intubazione e alla ventilazione artificiale in terapia intensiva. Coordinatore del progetto di sperimentazione all’Ospedale di Livorno è Enrico Capochiani, direttore di Ematologia Toscana Nord Ovest, che a Il Telegrafo ha dichiarato: “Dal 24 marzo stiamo trattando qui a Livorno, per la prima volta in Italia, 8 pazienti covid giovani e meno giovani, il cui quadro clinico in rapida evoluzione li stava portando al trasferimento in terapia intensiva. Ebbene grazie alla somministrazione del Ruxolitinib le loro condizioni si sono evolute in modo incoraggiante al punto di scongiurare il ricovero in terapia intensiva con la respirazione assistita”. Sempre Capochiani ha raccontato di come l’adozione di questa cura abbia portato a risultati incoraggianti. “È veloce – ha detto a Rainews – abbiamo visto benefici addirittura nelle prime 12 ore. Già alla seconda compressa lo stato clinico del paziente andava rapidamente migliorando sia come parametri respiratori che come febbre”. Il Ruxolitinib si assume per via orale. L’intenzione è dunque quella di estenderne l’uso anche in altre aziende sanitarie della Usl Toscana Nord Ovest, in particolare in quelle con la situazione più critica, come Massa. In questo senso offerte di collaborazione sono arrivare dall’Università di Siena e dalla Regione Marche. Tali collaborazioni potrebbero tornare utili anche per chiarire più a fondo quanto questa strategia è effettivamente  efficace. I risultati dell’uso del Ruxolitinib sono stati comunicati all’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, che dovrebbe far partire una sperimentazione condivisa. L’aspetto più positivo della questione è che questo farmaco anti-rigetto può diventare anche un farmaco anti-rianimazione. Un dettaglio rilevante che potrebbe migliorare non solo la salute dei contagiati ma anche la situazione degli ospedali, i cui reparti dedicati al Covid-19 sono allo stremo. Il Ruxolitinib agisce nella fase precedente al Tocilizumab, il farmaco anti-artrite sperimentato all’Ospedale Cotugno di Napoli che viene utilizzato negli ospedali di tutta Italia sui malati in gravi condizioni, già intubati. Il farmaco contro il rigetto è prodotto dalla Novartis, che si è detta già disponibile a fornirne ai pazienti che dovessero averne bisogno.

Il farmaco che blocca l'infiammazione: "Primi miglioramenti in 48 ore". Al San Raffaele di Milano, un paziente è stato trattato con amy-101, un farmaco sperimentale che blocca la "tempesta di citochine" a monte. Francesca Bernasconi, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Un farmaco sperimentale potrebbe inibire il nuovo coronavirus. È quanto osservato all'ospedale San Raffaele di Milano, dove un uomo di 71 anni è migliorato dopo 10 giorni di trattamento. Il paziente era tra le persone più a rischio, con diverse patologie, tra cui ipertensione, insufficienza renale e ipercolesterolemia. All'uomo, ricoverato in ospedale per un intervento, era stata diagnosticata una polmonite, rivelatasi la conseguenza dell'infezione da Covid-19. I medici, che hanno raccontato il caso in uno studio, gli hanno somministrato il farmaco sperimentale: dopo 48 ore dall'inizio del trattamento, "il paziente ha mostrato un notevole miglioramento di tutti i parametri anormali al basale, con conseguente rapida risoluzione dell'ampia risposta infiammatoria associata a COVID-19". Al miglioramento dei parametri da laboratorio è stato associato anche quello delle "prestazioni respiratorie, con una graduale riduzione del fabbisogno di ossigeno", che lo hanno portato a respirare autonomamente dopo una decina di giorni. Il farmaco sperimentale somministrato al "paziente 1" si chiama amy-101 e appartiene agli "inibitori di complemento". Il sistema di complemento è un insieme di proteine usato dal sistema immunitario per combattere virus e batteri. Uno studio sul Sars-CoV-2 ha dimostrato che l'attivazione del componente C3 del sistema di complemento possa aggravare la malattia. "Ciò suggerisce che l'inibizione della C3 può anche alleviare le complicanze infiammatorie polmonari dell'infezione da Sars-CoV-2", hanno spiegato i ricercatori in un articolo su Nature. Amy-101 bersaglia la proteina C3, cercando di evitare l'inizio della "tempesta di citochine" all'origine dell'aggravamento della malattia. Il farmaco agisce a monte della "tempesta", a differenza di altri due farmaci sperimentali (tocilizumab e anakinra), che bloccano le interleuchine 6 e 1. I risultati dello studio sul primo paziente a cui è stato somministrato il farmaco sono positivi e "indicano che l'inibizione della C3 ha il potenziale come nuova terapia antinfiammatoria nel Covid-19 e apre la strada a studi prospettici sistematici". Una sfida portata avanti da Fabio Ciceri, vice direttore scientifico per la ricerca clinica del San Raffaele di Milano: "Abbiamo deciso di puntare all'interruttore a monte di tutto, ovvero l' attivazione del complemento (C3), che è il primo evento della cascata infiammatoria- spiega l'esperto, secondo quanto riporta il Sole24ore- Se agisco sull'interleuchina 1 (IL1) spengo solo la mediazione dell'infiammazione che è orchestrata da IL1, lo stesso se intervengo solo sull' interleuchina 6. Con l'inibitore del complemento, invece, blocco tutto, perchè intervengo alla radice dell' infiammazione, di conseguenza tutto ciò che è valle si spegne". E ora, secondo quanto riferisce il Sole24ore, ci sarebbe un secondo paziente di 58 anni, migliorato dopo aver seguito lo stesso trattamento. Per il momento, si tratta solamente di due pazienti, ma i risultati sono incoraggianti.

Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 28 marzo 2020. L' elenco è significativo, riflette l' urgenza e l' emergenza del momento, la gravità dell' infezione virale e la sua veloce diffusione sul territorio italiano. Ieri sono stati inseriti, a totale carico del nostro Servizio Sanitario Nazionale, tutti i farmaci attualmente usati come terapia di supporto dei pazienti affetti da Coronavirus, fino ad ora in uso "sperimentale", e si è ritenuto "opportuno", così è descritto nel documento ufficiale, consentire la prescrizione autorizzata di tali medicinali, anche in regime domiciliare, «unicamente in considerazione dell' emergenza sanitaria sul territorio italiano legata alla pandemia da Covid19 per un periodo complessivo di mesi 3». Di fatto l' Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ha sdoganato l' uso di questi principi attivi sugli ammalati da Corona, previe condizioni da osservare e parametri per il monitoraggio clinico da rispettare, ritenendo necessario ed urgente l' uso dei medicinali Clorochina, Idrossiclorochina, Lopinavir/Ritonavir, Darunavir/Cobicistat, regolandone l' impiego, il dosaggio, lo schema terapeutico e la durata del trattamento, da stabilire a seconda dell' evoluzione clinica della malattia virale. È stato incluso, nell' elenco dei farmaci erogabili, anche l' Interferone beta1a, un ulteriore antivirale, un supporto in più per garantire la pronta valutazione dei cocktail di terapie più opportune, in queste settimane infuse abbondantemente tramite fleboclisi direttamente nelle vene degli ammalati, nel tentativo di fronteggiare lo stato di emergenza e di pericolo di vita in cui essi si trovano. Tutti questi farmaci non sono affatto nuove molecole, poiché tutti sono ben noti nella pratica medica, vengono comunemente utilizzati nella cura di molte malattie virali, principalmente contro l' Aids e l' epatite, e parassitologiche come la Malaria, ma è la prima volta che gli stessi vengono testati sui pazienti affetti dal Covid19, un virus assolutamente nuovo e sconosciuto, del quale non si conosce il metabolismo, il suo ciclo di azione, le modalità di infezione, la durata della sua vita intracellulare, nonché le sue eventuali mutazioni, per cui tutti insieme vengono miscelati in combinazione, in un micidiale bolo intravenoso destinato a contrastare l' azione distruttiva del virus soprattutto a livello polmonare e vascolare.

MANCANO STUDI SPECIFICI. Se queste medicine mischiate insieme funzioneranno o se stanno funzionando ancora non è dato da sapere, mancando ancora uno studio di follow-up specifico, ma quello che è certo è che noi medici ancora non siamo in grado di capire se, in caso di guarigione, quel paziente guarisce grazie all' azione terapeutica di tali principi attivi, come pure, in caso di decesso, se lo stesso paziente muore perché questi farmaci sono stati inefficaci nel contrastare l' azione e il decorso virale. L'unica molecola che ha chiaramente dimostrato un miglioramento della polmonite virale e di conseguenza delle condizioni cliniche generali, anche se non nella totalità dei ricoverati, è il Remdesivir, un antivirale prodotto dalla Gilead, rivelatosi in grado di abbassare in 24/48 ore il livello di infiammazione polmonare, consentendo agli alveoli respiratori di tornare a ripristinare lo scambio di ossigeno nel sangue, la condizione primaria per evitare la morte. Pur non essendo ancora stato approvato per uso terapeutico contro il Covid19, ed essendo fino ad oggi infuso sperimentalmente e messo a disposizione per uso compassionevole negli infetti senza speranza, ovvero quelli in gravi condizioni e senza valide alternative terapeutiche, questa molecola ha dimostrato una sua efficacia, che necessita comunque di approfondimento con futuri trial clinici. L' altra molecola ad aver riscosso attenzione in questi giorni è il Tolicizumab, un anticorpo monoclonale sviluppato da Roche e attivo conto il recettore dell' interleuchina-6, nato per il trattamento dell' artrite reumatoide, che ha rivelato un ruolo importante per modulare la risposta immunitaria, impiegato per la prima volta contro il Corona all' Ospedale Cotugno di Napoli su due pazienti terminali con gravissima sindrome respiratoria, che a seguito di tale terapia sperimentale sono migliorati ed alcuni di essi considerati guariti.

ABBIAMO POCHE ARMI. Non esistendo a tutt' oggi farmaci antivirali specifici contro il Coronavirus, e poiché quelli contro l' Hiv-Aids rispondono in maniera parziale contro questo collega che è molto differente da loro, per azione e metabolismo, l' idea è quella di tentare di spegnere l' eccessiva risposta infiammatoria collegata all' infezione polmonare Covid con le armi che abbiamo, ossia con farmaci "orfani" di patologie specifiche, ma che hanno una azione sui sintomi più temibili scatenati dal Corona, senza stare troppo a temporeggiare, ad interrogarsi, o ad indagare sui meccanismi molecolari da cui si sviluppa la malattia, purché tali molecole portino a soluzioni mirate sulle complicanze più letali della infezione virale in corso. In medicina in ogni condizione di emergenza servono misure emergenziali, ed anche se scientificamente non c' è evidenza di un reale beneficio derivante dall' utilizzo di determinati farmaci, l' importante è tentare di ricorrere a tutte le possibili armi terapeutiche a disposizione per arrestare l' evoluzione e l' influenza di un qualsiasi agente patogeno, in questo caso di questo virus ancora sconosciuto, ed i risultati dei primi studi clinici saranno di basilare importanza per capire quale sia la direzione migliore da intraprendere in questo delicatissimo intrico di terapie. Fermo restando che in nessun ospedale si procede a tentoni o senza cognizione, che in nessun reparto di terapia intensiva ci si affida alla speranza bensì alle certezze scientifiche che si hanno in memoria, anche se poche ed incerte, basandosi su evidenze terapeutiche certificate, e fermo restando che ovunque si opera con forza, coraggio e determinazione, nell' animo di ogni medico che assiste un malato infetto grave o gravissimo, insorge la triste consapevolezza comune, confermata da secoli di storia della medicina, che contro ogni tipo di virus esiste un' unica soluzione, sicura, efficace e definitiva, per evitare la sua infezione e la sua azione malefica spesso mortale: il suo vaccino.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2020. Non sarà un solo farmaco a curare i malati di Covid-19. I ricercatori ritengono che la battaglia terapeutica contro l' infezione scatenata dal virus SARS-CoV 2 verrà vinta grazie all' utilizzo sinergico di una serie di molecole. Ne è convinto Gennaro Ciliberto, direttore scientifico degli IFO, Istituti fisioterapici ospitalieri, di cui fa parte il Regina Elena. «Un unico farmaco non basta, esistono più prodotti con diversi meccanismi d' azione che potrebbero dare buoni risultati in tempi non lunghi», dice Ciliberto, biologo molecolare che si è occupato molto di immunologia e ha lavorato tra l' altro all' IRBM di Pomezia dove è stato studiato il vaccino contro Ebola. Ecco una breve rassegna delle terapie antivirali che sono state provate dall' avvio dell'epidemia in Cina.

Il più promettente è il Remdesivir, in sperimentazione in Italia su pazienti con gravi forme di polmonite. Sviluppato e testato per infezione da Ebola, è stato portato fino alla seconda fase di sperimentazione sull' uomo e si è rivelato efficace contro la febbre emorragica. Agisce bloccando il processo di replicazione del coronavirus all' interno della cellula. Il SARS-CoV 2 è un virus a RNA, una sorta di catenella situata al suo interno che ha bisogno di allungarsi. Il Remdesivir impedirebbe che questo accada. L' antivirale è stato disegnato per essere riconosciuto dall' enzima deputato alla replicazione del materiale genetico del virus. I dati disponibili su sistemi semplificati in provetta dicono che funziona molto bene.

Un antivirale di cui si è parlato molto negli ultimi giorni, presentato come la panacea in un video molto cliccato di un italiano che vive in Giappone. Nome commerciale «Avigan», creato per combattere l' influenza, ha un diverso meccanismo d' azione. Blocca la replicazione del virus inducendo delle mutazioni che finiscono per debellarlo. È però meno specifico di altri farmaci ad ampio spettro che si pensa possano funzionare contro Covid, e dunque meno potente. Va usato ad alte dosi. Con Ebola non ha avuto efficacia, in questo caso potrebbe averla negli stadi iniziali della malattia. Il fatto che sia stato approvato solo in Giappone sembra significare che non ha goduto di grande fama, altrimenti altri Paesi lo avrebbero introdotto. C' è stato un piccolo studio in Cina con risultati promettenti nei casi lievi. Un problema possibile è che le mutazioni prodotte dal Favipiravir potrebbero addirittura essere pericolose.

Un recente articolo pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine ha bocciato una combinazione di antivirali utilizzati come anti-Hiv, il virus dell' Aids. La sperimentazione di Lopinavir-Ritonavir non ha avuto successo. «Non sono stati osservati benefici», concludono i ricercatori cinesi che hanno analizzato i risultati della terapia sui pazienti di Wuhan. Ma non escludono del tutto che successivi approfondimenti potrebbero riabilitare la combinazione che ancora compare nella lista dei farmaci anti-Covid stilata dall' Organizzazione Mondiale della Sanità Funziona pur non essendo un diretto antivirale, bloccando la penetrazione dell' agente infettivo nella cellula in fase precoce. Molto utilizzato in tutto il mondo, anche in Italia, come profilassi alla malaria, ha il vantaggio di costare poco. Anche questo non è un antivirale. Autorizzato per il trattamento dell' artrite reumatoide, agisce in modo indiretto sull' infiammazione indotta dal virus, causata dalla produzione di una proteina, l' interleuchina 6, dannosa per vari organi, non solo i polmoni. Nei casi molto gravi potrebbe essere un farmaco salvavita, sicuramente su una certa percentuale di pazienti che versano in condizioni gravissime. L' Italia ha avviato una sperimentazione.

Coronavirus, il punto sui farmaci. Dal tocilizumab all'Ibuprofene. Occorre distinguere tra antinfiammatori, antivirali, anticorpi monoclonali, antipertensivi e via dicendo. Alessandro Malpelo su quotidiano.net il 20 marzo 2020. La ricerca scientifica a livello mondiale si sta prodigando nelle soluzioni per debellare il nuovo Coronavirus. Si parla spesso di remdesivir e tocilizumab, ibuprofene e idrossiclorochina, ma ci sono tante altre cose da sapere, perciò occorre distinguere tra antinfiammatori, antivirali, anticorpi monoclonali, antipertensivi e via dicendo. Una prima distinzione da fare subito è tra prevenzione, cura e profilassi, cioè tra misure igieniche per evitare i contagi (disinfettanti, protezioni e distanziamento tra persone), terapie per quanti si sono infettati, e corsa al vaccino.

In prima battuta parliamo di farmaci per impiego ospedaliero, che sono il tema del momento, e anche qui occorre distinguere tra

1. terapie di uso comune

2. farmaci avviati alla sperimentazione clinica con procedura accelerata o per uso compassionevole

3. molecole nella pipeline delle case farmaceutiche, cioè che potranno essere impiegate in un prossimo futuro, ma che ancora sono allo stadio embrionale.

Fuori dall'ospedale, ricordiamo, transitano dal triage (tenda infermeria, primo filtro) tutti i casi sospetti Covid-19, selezionati per riscontro di tosse secca insistente e altri sintomi caratteristici, con o senza febbre, soggetti che su giudizio del medico vengono sottoporsi a test rapidi (tampone naso faringeo, con prelievo indolore sulle mucose mediante cotton fioc) e lastra al torace (la presenza di segni radiologici specifici depone per una polmonite interstiziale da nuovo Coronavirus). I malati con insufficienza respiratoria saranno ricoverati in ospedale, in appositi reparti per infettivi, mentre in presenza di sintomi lievi è possibile stare a casa, in isolamento.

L'Agenzia italiana del farmaco ha autorizzato protocolli al fine di testare medicinali registrati per altre patologie che potrebbero essere utili come salvavita, per attenuare le sofferenze e abbreviare il periodo di malattia. Questi medicinali sono utilizzati "off label", cioè fuori dalle indicazioni canoniche e sotto stretto controllo medico, sapendo che potrebbero risultare efficaci, ma potrebbero anche dare effetti inattesi. Del resto vale anche quanto accadde con l’Hiv-Aids, il primo farmaco utilizzato (AZT) era derivato da un farmaco sviluppato nel 1964 come antitumorale.

Idrossiclorochina e clorochina. Sono due farmaci antimalarici che hanno mostrato in fase preliminare una potenziale attività antivirale. L'Aifa li ha presi in carico, in deroga alla legge 648, per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2. L'antimalarico coadiuvante è stato sdoganato, per così dire, anche dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Ritonavir. Nelle prime fasi dell’infezione in Cina, ricorda una nota della Sif, Società italiana di farmacologia, fu autorizzato l’uso di interferone-alfa assieme con Ritonavir e Lopinavir, un cocktail usato con successo per l’Aids. Tra l’altro, anche la sola combinazione tra Ritonavir e Lopinavir fu usata con successo anche contro la SARS. Analogamente, è stata autorizzata anche la combinazione di Ribavirina con gli inibitori della trascrittasi inversa. Ci sono però scienziati per i quali sarebbe opportuno evitare farmaci che si sono dimostrati attivi su altri virus, ma il cui bersaglio ha una scarsa rilevanza nel Covid-19.

Remdesivir. Si tratta di un antivirale, reso disponibile tramite due studi clinici randomizzati autorizzati in soggetti con malattia Covid-19 moderata o severa e anche tramite la fornitura per uso compassionevole in soggetti ricoverati in terapia intensiva. Remdesivir ha ottenuto rapporti lusinghieri nel suo impiego per Ebola, per certi versi un virus che condivide qualche parentela con Covid-19. Remdesivir è uno dei pochi farmaci per i quali  sussiste un’evidenza sperimentale di possibile efficacia in questo contesto.

Tocilizumab. Si tratta di un anticorpo monoclonale attivo nel sistema immunitario, autorizzato per differenti forme di artrite reumatoride e per il trattamento della sindrome da rilascio di citochine. L’accesso a questo farmaco potrà avvenire, su giudizio del medico, iscrivendo il paziente in uno studio di fase 2 non randomizzato per valutare l’efficacia e la sicurezza della terapia, sperimentata con successo all'Ospedale Cotugno di Napoli per l’attuale emergenza COVID-19. Contrasta la risposta autoimmune scatenata dal virus e responsabile della sindrome respiratoria acuta che colpisce le persone infette.

Ibuprofene. L'Agenzia europea del farmaco ha smentito le illazioni riguardanti il popolare antinfiammatorio Ibuprofene, che si temeva potesse provocare un peggioramento dei sintomi, invece è sicuro.

Anticorpi. AbCellera ed Eli Lilly and Company hanno annunciato di aver siglato un accordo per lo sviluppo congiunto di anticorpi terapeutici per il trattamento e la prevenzione della malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Prossimo passo sarà selezionare questi anticorpi funzionali per poi impiegare quelli più adatti a neutralizzare il nuovo Coronavirus.

TAK-888.  Una globulina iperimmune policlonale (H-IG) denominata TAK-888 è allo studio in Giappone. Takeda sta sviluppando questa terapia sperimentale a partire da anticorpi. Le H-IG sono derivate dal plasma di soggetti che hanno sviluppato difese contro infezioni respiratorie virali acute da Covid-19.

Favipiravir. Le autorità sanitarie cinesi hanno parlato di un farmaco utilizzato in Giappone per curare l'influenza di tipo A e B, che sarebbe efficace anche nei pazienti Covid-19. Si tratta del favipiravir: i risultati dei trattamenti su 340 pazienti a Wuhan e Shenzen sono stati definiti "incoraggianti". Aifa ha però ribadito, con una nota urgente, che Favipiravir (nome commerciale Avigan) è un antivirale autorizzato in Giappone dal Marzo 2014 per il trattamento di forme di influenza causate da virus influenzali nuovi o riemergenti e il suo utilizzo è limitato ai casi in cui gli altri antivirali sono inefficaci. Il medicinale non è autorizzato né in Europa, né negli USA. Ad oggi, non esistono studi clinici pubblicati relativi all'efficacia e alla sicurezza del farmaco nel trattamento della malattia.

In aggiunta ai farmaci sperimentali, per uso compassionevole e off label, è il caso di ricordare che in ospedale si impiegano decine di farmaci diversi per i pazienti in terapia intensiva e sub-intensiva, ossigeno, flebo reidratanti, anestetici, antidolorifici, sedativi, nutrizione clinica, supporto alla dialisi nei casi di sofferenza renale e via dicendo. Per casi particolari di soggetti positivi al tampone (diabetici, cardiopatici, oncologici, asmatici con Bpco, reumatologici e immunodepressi) il medico deve destreggiarsi tra più patologie, impostando la terapia a seconda dei casi per proteggere gli organi maggiormente colpiti.

Ace-inibitori. Per quanto riguarda gli Ace-inibitori e i sartani, l’Aifa ha emanato un comunicato in cui si specifica che, alla luce delle attuali conoscenze, si raccomanda di mantenere la terapia in atto con anti-ipertensivi senza modificarla (qualunque sia la classe terapeutica) nei pazienti ipertesi ben controllati. Evitare di utilizzare farmaci Ace-inibitori e sartani anche in persone sane a fini di profilassi.

Coronavirus, allo Spallanzani isolato il virus: "Ora si aprono nuovi spazi per le cure". L'annuncio del ministro Speranza e del direttore dell'istituto Ippolito: "Significa poterlo studiare, capire e verificare meglio cosa si può fare per bloccare la diffusione". La Repubblica il 2 febbraio 2020. Il codice genetico del coronavirus è stato isolato allo Spallanzani di Roma. Lo ha annunciato il ministro della Salute Roberto Speranza durante una conferenza stampa. "Aver isolato il virus significa molte opportunità di poterlo studiare, capire e verificare meglio cosa si può fare per bloccare la diffusione". Sarà messo a disposizione di tutta la comunità internazionale. Ora sarà più facile trattarlo". "Ora i dati saranno a disposizione della comunità internazionale. Si aprono spazi per nuovi test di diagnosi e vaccini. l'Italia diventa interlocutore di riferimento per questa ricerca". ha spiegato il direttore scientifico dell'Istituto Spallanzani Giuspeppe Ippolito.

 Coronavirus, allo Spallanzani isolato il virus: "Ora si aprono nuovi spazi per le cure". L'annuncio del ministro Speranza e del direttore dell'istituto Ippolito: "Significa poterlo studiare, capire e verificare meglio cosa si può fare per bloccare la diffusione". La Repubblica il 2 febbraio 2020. Il codice genetico del coronavirus è stato isolato allo Spallanzani di Roma. Lo ha annunciato il ministro della Salute Roberto Speranza durante una conferenza stampa. "Aver isolato il virus significa molte opportunità di poterlo studiare, capire e verificare meglio cosa si può fare per bloccare la diffusione". Sarà messo a disposizione di tutta la comunità internazionale. Ora sarà più facile trattarlo". "Ora i dati saranno a disposizione della comunità internazionale. Si aprono spazi per nuovi test di diagnosi e vaccini. l'Italia diventa interlocutore di riferimento per questa ricerca". ha spiegato il direttore scientifico dell'Istituto Spallanzani Giuspeppe Ippolito.

 (ANSA 3 febbraio 2020) -  Primi in tutta Europa, i virologi dell'Istituto Nazionale Malattie Infettive "Lazzaro Spallanzani", a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia, sono riusciti ad isolare il virus responsabile dell'infezione. Lo spiega lo stesso Istituto sottolineando che "avere a disposizione in modo così tempestivo il virus è un passo fondamentale, che permetterà di perfezionare i metodi diagnostici esistenti ed allestirne di nuovi. La disponibilità nei laboratori del nuovo agente patogeno permetterà inoltre - continua lo Spallanzani - di studiare i meccanismi della malattia per lo sviluppo di cure e la messa a punto del vaccino". La sequenza parziale del virus isolato nei laboratori dello Spallanzani, denominato 2019-nCoV/Italy-INMI1, è stata già depositata nel database GenBank, e a breve anche il virus sarà reso disponibile per la comunità scientifica internazionale. "Come ribadito in conferenza stampa l'isolamento del coronavirus all'Istituto Spallanzani e' stato fra i primi in Europa" lo dice il direttore scientifico dell'Istituto che riferisce il lavoro gia' realizzato dalla Cina, Australia, Giappone, Usa e Francia.

Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” 3 febbraio 2020. È il primo passo. Ed è fondamentale. Quando c' è in ballo un contagio, una malattia infettiva nuova che si trasmette da uomo a uomo e crea panico, bisogna capire innanzitutto chi è «l' agente provocatore». Ora l' Istituto Spallanzani di Roma, dove sono ricoverati i due turisti cinesi con l' infezione da nuovo coronavirus, in sigla il 2019-nCoV, è riuscito a isolare il virus che li ha colpiti.

L' isolamento del coronavirus in Italia è una novità? È importante, ma non è una «prima mondiale». Già i ricercatori cinesi hanno identificato il nuovo coronavirus, il 10 gennaio , una quindicina di giorni dopo le segnalazioni dei primi casi di polmonite a Wuhan. Lo hanno isolato, sequenziato e i risultati li hanno subito inseriti in una banca dati (GenBank) il cui accesso è libero. Va dato atto ai ricercatori cinesi di avere svolto un buon lavoro e di avere messo a disposizione della comunità internazionale i dati (la risposta è di Marcello Tavio, presidente della Simit, Società italiana di Malattie infettive).

Perché è importante questo nuovo isolamento dei ricercatori italiani? Perché permette di verificare se il virus si sta modificando. Una premessa: i coronavirus sono diffusissimi fra gli uomini e gli animali. A volte sono pure responsabili di raffreddori, nell' uomo. Ma hanno una grande capacità di mutare e, nel caso di Wuhan, sono diventati capaci di provocare polmoniti. Quindi vanno «monitorati» nel tempo (parla Carlo Federico Perno, ordinario di Malattie infettive all' Università di Milano).

Che differenza c' è fra isolamento e sequenziamento del virus? Isolare un virus significa identificarlo nei campioni biologici prelevati dai pazienti, analizzando tamponi prelevati per esempio dalla gola, o la saliva. Il sequenziamento, invece, è un' attività di laboratorio. Questi campioni vengono analizzati per ricercare il virus su cui, poi, si fanno analisi per identificare la carta di identità genetica del virus stesso.

E se il virus isolato a Roma fosse diverso da quello di Wuhan? Sarebbe una brutta notizia perché di solito i coronavirus non cambiano molto quando colpiscono una stessa specie: gli uomini per esempio (da notare che i coronavirus sono presenti in molte altre specie animali: i cani per esempio, ndr). Quindi, se il virus dovesse modificare il suo patrimonio genetico potrebbe significare che si sta adattando a vivere fra gli umani. E, quindi, in futuro, non si dovrebbe più parlare di epidemie, ma di endemie, cioè di una situazione in cui il virus circola nella popolazione, come del resto avviene per altre infezioni, come l' influenza (parla ancora Perno).

Che cosa ci possono insegnare i mutamenti del coronavirus? Il motto, anche degli scout, è «estote parati»: siate pronti a ogni evenienza. Negli ultimi venti anni abbiamo visto tre epidemie di coronavirus: la Sars (la sindrome respiratoria acuta che è comparsa nel 2002 in Cina, si è diffusa nel mondo, ma poi si è esaurita), la Mers (la sindrome respiratoria Medio orientale, che è comparsa nel 2012 ed è ancora presente in alcune zone del Medio Oriente) e ora la polmonite da coronavirus di Wuhan (il virus in questione è simile a quello che ha provocato la Sars e la Mers). E di fronte a quest' ultima l' Italia, grazie all' Istituto Spallanzani ha dimostrato la sua capacità di risposta. Noi abbiamo un ottimo sistema sanitario che ci permette di far fronte a queste emergenze (il commento è di Alberto Mantovani, direttore scientifico dell' Istituto Humanitas di Milano).

L' isolamento del virus potrebbe aiutare a produrre un vaccino? Certamente. Attualmente chi si sta occupando di costruire vaccini sta pensando di colpire le proteine di superficie del virus, quelle che permettono al virus di entrare nelle cellule (si chiamano spike, sono quelle palline che hanno conferito al virus il nome di coronavirus). Ma proprio queste proteine sono le più esposte al sistema immunitario dell' ospite, cioè di chi è colpito dall' infezione, e quindi si adattano e si modificano: ecco perché bisogna capire se cambiano nella trasmissione da paziente a paziente. Ed ecco perché monitorare i virus è importante (il commento è di Perno).

E per quanto riguarda i test diagnostici? Certo, conoscere il virus significa anche mettere a punto test diagnostici capaci di intercettarlo in tempi rapidi e, di conseguenza, trovare il modo per arginarlo. Al momento si parla di «contenimento dell' infezione»: più sai del virus, meglio puoi combatterlo (risposta di Massimo Galli, professore di Malattie Infettive all' Università di Milano) 8L' isolamento del virus potrebbe aiutare anche a testare nuovi farmaci? La risposta è sì (e molte istituzioni ci stanno provando) (Lo conferma Giovanni Rezza, direttore delle malattie infettive all' Istituto Superiore di Sanità).

Coronavirus, non chiamatele signore o ragazze: sono scienziate! Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 da Corriere.it. I loro nomi sono finiti sulle prime pagine di tutti i giornali. Parliamo di Maria Rosaria Capobianchi, Concetta Castilletti e Francesca Colavita: le tre ricercatrici dello Spallanzani che per prime in Italia (e fra le prime in Europa) hanno isolato il coronavirus. Finalmente una buona notizia, si dirà. Peccato per il paternalismo peloso con cui giornali televisioni e siti hanno dato l’annuncio. «Le nostre ragazze», «il team in rosa», «le signore che hanno cullato (sic!) il virus», giù giù fino al tweet di Vittorio Feltri sinceramente sorpreso che una scoperta di tale portata fosse stata fatta da «tre signore meridionali». «E poi dicono che i terroni sono incapaci», ha commentato magnanimo. Anche se alla fine a fare più male non sono i commenti francamente machisti (o antimeridionalisti) ma i complimenti involontariamente sessisti. Passi per Colavita (ricercatrice di 30 anni, precaria ahilei), ma Capobianchi e Castilletti hanno rispettivamente 67 e 56 anni. Qualcuno si sognerebbe mai di definire Mantovani o Burioni dei ragazzi? E allora perché loro sì? Perché non chiamarle semplicemente col loro nome: scienziate, ricercatrici, dottoresse? Qui sotto un campionario degli annunci immaginifici fatti in rete con relativi commenti al vetriolo.

Donne, se a “discriminare” sono i giornaloni di sinistra. Michel Dessi il 3 febbraio 2020 su Il Giornale. “Gli angeli del virus. Isolato a Roma grazie a tre ricercatrici”. “Le scienziate che vincono contro il virus”. “È tutto al femminile il team di virologhe dello Spallanzani che, primo in Italia, ha isolato il coronavirus: lavoro in coppia e turni di 12 ore”. “Ormai da anni, anche nel resto del Paese, il settore (e i laboratori) sono in mano alle donne.” “È stato un pool di donne a isolare il coronavirus responsabile dell’epidemia…” Oggi ha deciso di titolare così il megafono della “sinistra” moderata: Repubblica. Più leggo questi titoli e più penso: Perché? Perché specificare che il team dello Spallanzani sia tutto al femminile? Perché sottolineare più volte che, ad isolare il virus, siano state tre donne? Che bisogno c’è di specificare il sesso della mente geniale che ha dato un contributo importantissimo per curare e combattere il virus cinese che sta terrorizzando e bloccando il Pianeta? Se è M o F c’è poca differenza. Sotto il camice bianco ci sono degli esperti. Sarebbe cambiato qualcosa se ad isolare il virus fosse stato un uomo? No. Nulla. Quello che conta è il risultato. Aldilà del sesso. Italiani. Uomini o donne che siano. Mi fermo e leggo ancora. Rileggo. Non riesco a capire. Colpa della mia giovane età e, dunque, poca esperienza nel giornalismo? Rileggo. Eccome se rileggo. “Donne.” Ma cosa vuole dirci Repubblica? Non riesco prorpio a capirlo. Che le Donne possono fare altro? Che le Donne non sono fatte per occuparsi della casa? Oltre che lavare, stirare, cucinare e fare figli? È questo quello che ci vogliono dire tra le righe? Loro, quelli per la “parità dei sessi”. Non credo. Non è da loro. O meglio, lo spero. Sarebbe da cavernicoli pensarlo. Sarebbe da ignoranti pensare che ci sia la necessità di sottolineare alcuni concetti. Spero che al titolista non gli sia passato per la testa nemmeno per un istante. Noi sappiamo chi sono le Donne. Sappiamo quando valgono. Chi sono. Sappiamo che il Mondo senza di loro sarebbe inutile. Non avrebbe senso di esistere, girare. Sono la linfa vitale della società. Sono le nonne, le mamme, le fidanzate, le spose. E allora perché ripetere come un mantra “sono tre donne… sono tre donne… sono tre donne…” Fossero stati uomini non lo avrebbero fatto notare. Sono scienziati che hanno fatto semplicemente il loro lavoro. Anche sottopagati. Bravi. Bravissimi. Tanto quanto gli scienziati che hanno isolato il virus in America, Australia, Cina, Francia. A loro e a tutta l’equipe dello Spallanzani va un Grazie. Ah, qualcuno potrebbe chiedersi: “nessun commento sul titolo di Libero?” Beh, si sa, i titolisti di Libero sono da sempre dei provocatori. Dunque, nessuna novità. Anche perché non sono abituati a farci quotidianamente la morale. Anzi. NB* Questo pezzo è stato scritto con la supervisione di una giovane donna, Costanza Tosi che, di mestiere, fa la giornalista proprio per questo giornale. Lo sottolineo solo perché essendo uomo potreste pensare che sia un maschilista. E, di conseguenza, aver scritto questo articolo solo per mero e puro orgoglio maschile. Non è così. Le etichette non mi sono mai piaciute. E vado su tutte le furie. Il pensiero, inoltre, è stato condiviso con altre donne iscritte, peraltro, a movimenti per le donne.

Donne del Sud. Chi sono le tre ricercatrici che hanno isolato il nuovo Coronavirus. Redazione de Il Riformista il 2 Febbraio 2020. Sono tre donne del sud Italia le ricercatrici dell’istituto Lazzaro Spallanzani di Roma riuscite a isolare il nuovo coronavirus, una svolta fondamentale nello sviluppo di terapie e possibili vaccini.

A capo del laboratorio di Virologia dell’ospedale esperto in malattie infettive c’è una napoletana, la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi. Nata sull’isola di Procida 67 anni fa, laureata in scienze biologiche e specializzata in microbiologia, dal 2000 lavora allo Spallanzani e ha dato un contributo fondamentale nell’allestimento e coordinamento della risposta di laboratorio alle emergenze infettivologiche in ambito nazionale.

Con lei lavora la giovane ricercatrice molisana Francesca Colavita, 30enne originaria di Campobasso. Da 4 anni lavora nel laboratorio (anche se non ha ancora un contratto a tempo indeterminato) dopo diverse missioni in Sierra Leone per fronteggiare l’emergenza Ebola.

La terza donna è Concetta Castilletti, 57enne nata a Ragusa, responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta mani d’oro, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), specializzata in microbiologia e virologia. L’equipe è poi completata da Fabrizio Carletti, esperto nel disegno dei nuovi test molecolari, e Antonino Di Caro che si occupa dei collegamenti sanitari internazionali. Maria Capobianchi ha spiegato che il risultato ottenuto “è il frutto del lavoro di squadra, della competenza e della passione dei virologi di questo Istituto, da anni in prima linea in tutte le emergenze sanitarie nel nostro Paese”. “L’isolamento del virus  ci permetterà di migliorare la risposta all’emergenza coronavirus, di conoscere meglio i meccanismi dell’epidemia e di predisporre le misure più appropriate”, ha aggiunto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani. “La grande professionalità dei nostri medici, biologi e ricercatori – ha concluso Roberto Speranza, ministro della Salute – ci fornisce ulteriori strumenti di contrasto per fronteggiare questa emergenza sanitaria, e conferma la qualità e l’efficienza del nostro Servizio Sanitario Nazionale su cui dobbiamo”.

Lo stesso Istituto sottolinea che “avere a disposizione in modo così tempestivo il virus è un passo fondamentale, che permetterà di perfezionare i metodi diagnostici esistenti ed allestirne di nuovi. La disponibilità nei laboratori del nuovo agente patogeno permetterà inoltre – continua lo Spallanzani – di studiare i meccanismi della malattia per lo sviluppo di cure e la messa a punto del vaccino”. La sequenza parziale del virus isolato nei laboratori dello Spallanzani, denominato 2019-nCoV/Italy-INMI1, è stata già depositata nel database GenBank, e a breve anche il virus sarà reso disponibile per la comunità scientifica internazionale.

La squadra di donne che ha isolato il virus: «Notti al microscopio, poi i salti di gioia». Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. La donna che lavora con i virus non ama ritrovarsi sotto i riflettori anche se ammette di essere riuscita a fare con la sua squadra «quello di cui pochi sono capaci». Isolarne uno non è roba da poco. Soprattutto se non è conosciuto, lo hanno fotografato in pochi, ed ha sul collo il fiato di tutti i migliori gruppi di ricercatori del mondo. Maria Rosaria Capobianchi, 67 anni, di Procida, è la coordinatrice del team quasi interamente rosa che ha stanato l’agente infettivo responsabile di migliaia di contagi e circa 300 morti. «Quando lo abbiamo visto al microscopio e abbiamo capito che era proprio lui, in reparto ci sono stati salti di gioia», ricorda l’annuncio in notturna delle colleghe Francesca Colavita e Concetta Castilletti, presenti nel laboratorio di massima sicurezza dello Spallanzani, il BL3, nel momento in cui il microrganismo importato dalla Cina si è rivelato. Il 2019-nCov, preso dal liquido del paziente cinese tuttora ricoverato in ospedale, ha cominciato a replicarsi velocemente e si è dimostrato capace di danneggiare le cellule aggredite, alterandone la forma. La prova schiacciante che fosse proprio lui il grande ricercato. Maria Rosaria dirige da 20 anni il laboratorio di virologia dell’istituto nazionale per le malattie infettive. Altri venti ne ha passati china sui banconi dell’università la Sapienza dove ha imparato a diventare una virologa «artigiana». Laureata in genetica umana, specializzata in virologia, decise di trasferirsi a Roma per realizzare i sogni di ricercatrice e, soprattutto, per seguire nella capitale Felice Cerreto, l’uomo che ha sposato nell’80, con il quale ha due figli. Dice che è merito suo se è arrivata a questo livello: «Ha tollerato le mie assenze, i continui viaggi, il ritorno a casa in orari improbabili. Ha capito quanto fosse importante per me poter coccolare le mie cellule». Già perché così è. Descritte da questa virologa schiva e poco avvezza a interventi mediatici i virus sono dei «tipetti» da maneggiare con le dovute cautele, rispettando i loro tempi di risposta, quasi vezzeggiandoli con dei trucchetti. Ha le stesse frasi carezzevoli nei confronti dei suoi perfidi sfidanti Concetta Castilletti, 56 anni, due figli, orgogliosa di essere ragusana («ho concittadini accoglienti, come me»), soprannominata «mani d’oro» per la capacità di sfruculiare i microbi sotto la cappa. Ha alle spalle una famiglia unita che è sua grande alleata: «A casa sono abituati a vedermi impelagata nelle emergenze. Non ricordo una vita diversa da questa. È stato sempre così». Ha l’hobby del basket. Non lo gioca ma con marito e figli si occupa di una società romana con squadra in serie B e C. Lei accompagna i bimbi ai campi estivi. Come responsabile del laboratorio virus emergenti, Concetta ha vissuto l’esperienza della Sars, Ebola, pandemia da H1N1 (la cosiddetta influenza suina), del brasiliano Zika e della chikungunya, il virus trasportato dalla zanzara che due estati fa ha imperversato anche a Roma. La più giovane è Francesca Colavita, 30 anni, in squadra da quattro, molisana di Campobasso. Durante l’epidemia di Ebola è partita diverse volte per la Liberia e la Sierra Leone, dove il virus della febbre emorragica ha colpito duramente. Non si è tirata indietro quando si è trattato di partecipare a progetti di sicurezza e cooperazione al termine dell’emergenza in quei Paesi. Allo Spallanzani Francesca ha un contratto a tempo determinato in scadenza. Era lei di turno quando il coronavirus si è infine lasciato isolare: «Che emozione, è stato meno difficile del previsto. Ora mi scusi devo lasciarla, mi chiamano per un’urgenza». Quando c’è stato bisogno di raddoppiare i turni dell’h24 normalmente utilizzato per i test su sospette meningiti, malaria e trapianti, hanno chiamato lei. Non se lo è fatto ripetere due volte.

Sorpresa: gli italiani e i politici hanno scoperto l’eccellenza della nostra sanità. Davide Varì il 2 Febbraio 2020 su Il Dubbio. L’isolamento del Coronavirus ha generato un trionfalismo che non si sentiva dai tempi della conquisa del K2. Ma sono anni che l’Oms ci dice che siamo i migliori. Servivano tre donne, tre ricercatrici precarie, e una pandemia per convincere gli italiani del livello d’eccellenza della nostra sanità pubblica. Bistrattata e portata ad esempio dello sfascio italiano, in realtà il nostro sistema sanitario è da anni, decenni, in cima alle classifiche dell’Organizzazione mondiale della sanità. Perché spesso tra i reparti cadenti e ingialliti, e il caos dei Cup, i famigerati centri di prenotazione, si nascondono professionalità di altissimo livello, eccellenze a disposizione di tutti i cittadini. Poveri o ricchi che siano. Fatto sta che dopo aver saputo del miracolo dello Spallanzani che per primo ha isolato il Coronavirus,  la politica italiana si è lasciata andare a fiumi di elogi con toni che non si sentivano dai tempi della conquista del K2 da parte di Lacedelli e Compagnoni. Tanto che Forza Italia ha chiesto che le tre ricercatrici, le tre eroine delle ricerca, sfilino sul palco di Sanremo come tre Madonne. Ma loro, le tre donne dello Spallanzani, non si sono montate la testa e hanno spiegano che quel che è accaduto è pura normalità: “Abbiamo cullato il virus e abbiamo avuto anche un po’ di fortuna”, ha infatti dichiarato Concetta Castilletti. “Sono abituati a questo genere di emergenze a casa mia – continua – anche perché io non mi ricordo una vita diversa da questa. E’ sempre stato così”. Lo Spallanzani è un centro di eccellenza ed è da sempre in prima linea in questi casi”. Normalità, appunto. Una normalità che 60 milioni di italiani non conoscevano.

Francesca Colavita, precaria 30enne ricercatrice allo Spallanzani. «Isolare il Coronavirus meno difficile del previsto». Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac e redazione online. Tre ricercatrici italiane sono riuscite a isolare il nuovo coronavirus, passo fondamentale per sviluppare terapie e possibile vaccino. La più giovane di loro è Francesca Colavita, 30 anni, in squadra da quattro, molisana di Campobasso. Durante l’epidemia di Ebola è partita diverse volte per la Liberia e la Sierra Leone, dove il virus della febbre emorragica ha colpito duramente. Non si è tirata indietro quando si è trattato di partecipare a progetti di sicurezza e cooperazione al termine dell’emergenza in quei Paesi. Allo Spallanzani Francesca ha un contratto a tempo determinato in scadenza. Era lei di turno quando il coronavirus si è infine lasciato isolare: «Che emozione, è stato meno difficile del previsto. Ora mi scusi devo lasciarla, mi chiamano per un’urgenza». Quando c’è stato bisogno di raddoppiare i turni dell’h24 normalmente utilizzato per i test su sospette meningiti, malaria e trapianti, hanno chiamato lei. Non se lo è fatto ripetere due volte.

Ricercatrice precaria isola il Coronavirus: “Alla ricerca solo briciole”. Redazione de Il Riformista il 3 Febbraio 2020. “In queste ore è stato isolato il nuovo coronavirus dall’Istituto Spallanzani“. Così il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato durante una conferenza il miracolo compiuto all’Istituto Spallanzani di Roma. “Aver isolato il virus significa molte opportunità di poterlo studiare, capire e verificare meglio cosa si può fare per bloccare la diffusione” aggiunge il Ministro. Ma a parlare è stata anche Maria Capobianchi, responsabile della ricerca che ha portato all’isolamento del nuovo virus: “Siamo pronti da domani per fare il sequenziamento dell’intero genoma e a distribuirlo a livello internazionale per aiutare la lotta al coronavirus”. La notizia è subito rimbalzata ovunque attraverso una risonanza mediatica che ha portato alla conoscenza non solo della dottoressa capo, ma anche delle altre due ricercatrici che hanno dato il via ad una svolta fondamentale nello sviluppo di terapie e possibili vaccini: Francesca Colavita e Concetta Castilletti.

MANCANZA DI FONDI – Dopo l’entusiasmo iniziale però, non sono mancate le polemiche e soprattutto le critiche nei confronti dello Stato per la mancanza di fondi che l’Istituto nazionale di malattie infettive di Roma. Il direttore dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, denuncia di ricevere ogni anno un fondo pari a 3.541.840 di euro che lui stesso definisce “briciole” rispetto ai finanziamenti che altri Paesi europei forniscono a strutture simili. Lo Spallanzani di Roma è considerato un’eccellenza nel campo della cura delle malattie infettive. A dimostrarlo è il recente annuncio sull’isolamento del coronavirus, primo istituto europeo a riuscire in tale impresa, ma anche gli importanti contributi dati in passato nella lotta ai virus della Sars ed Ebola. L’istituto vanta 700 dipendenti, tra cui 400 medici, mentre la struttura può ricoverare fino a 150 persone e ospita un laboratorio italiano di biosicurezza 4, il massimo previsto. “I tre milioni e mezzo sono l’unico finanziamento di Stato che riceviamo – spiega il direttore in un’intervista a La Repubblica – Se dipendesse da queste risorse non potremmo fare ricerca né scoperte”. La cifra dei 3 milioni e mezzo è stata donata dal 2018, mentre in precedenza i fondi erano ancora minori. Come spiega lo stesso direttore dell’Istituto, portare avanti l’Istituto con queste risorse diventa difficile: “Viviamo grazie all’ampia rete di rapporti e finanziamenti europei costruita negli ultimi vent’anni” ha poi spiegato Ippolito. “Se ci trasferissimo domani in Germania, riceveremmo risorse pubbliche quattro volte più grandi” conclude, poi, il direttore dell’istituto di via Portuense.

LA RICERCATRICE PRECARIA –  “Sono sei anni che lavoro per lo Spallanzani, prima con un co.co.co, ora con un contratto annuale. Guadagno sui 20 mila euro all’anno”. Così ha parlato Francesca Colavita, la ricercatrice all’ospedale Spallanzani di Roma protagonista del team che ha isolato il coronavirus. “L’Italia deve dare più dignità ai ricercatori. Il nostro lavoro non è un gioco: anche la più piccola ricerca è il tassello di un puzzle che porta cure ed effetti. Ma bisogna passare per i piccoli passi, esperimenti a volte molto basilari. Mi auguro che questa occasione possa contribuire a far vedere la ricerca in modo diverso”, dichiara la ricercatrice. “Sembra strano, ma studiare i virus è stimolante, è una sfida costante, una battaglia in cui stare sempre all’erta. Da parte mia, ho solo fatto il mio lavoro: quello che voglio, devo e mi piace fare. Nulla di più rispetto ai miei colleghi. In questi giorni tutto è amplificato, abbiamo avuto successo, ma la ricerca è questa”, spiega la dottoressa. In merito a chi nelle ultime ore ha parlato di sessiamo nell’ambito della ricerca la Colavita ha sottolineato: “I problemi sono altri. La ricerca è importante per una nazione, e sarebbe importante fare investimenti a lungo termine per quello che riguarda i lavoratori”.

Stefano Rizzuti per fanpage.it il 3 febbraio 2020. Il bilancio delle vittime del Coronavirus cresce. Così come il numero dei contagiati. E tra questi c’è anche chi non riesce ad affrontare la malattia dopo il contagio e decide di farla finita. È quanto successo a un malato, contagiato dal Coronavirus, che si è suicidato nella città cinese di Wuhan, lì dove l’epidemia si è diffusa. L’uomo si sarebbe impiccato a un cavalcavia, secondo quanto riferisce France24, precisando che la decisione del malato è arrivata dopo il rifiuto da parte di un ospedale di accoglierlo. Nello specifico, l’uomo non sarebbe stato accolto da un ospedale per essere curato e avrebbe quindi deciso di ricorrere a un gesto estremo. Il motivo che l’ha spinto al suicidio sarebbe la volontà di non tornare a casa e non rischiare di contagiare anche la sua famiglia. Il panico a Wuhan sembra crescere ora dopo ora, con una città bloccata e tantissime persone terrorizzate dal virus. Come dimostra anche quanto avvenuto pochi giorni fa, quando un uomo, morto e steso sul marciapiede con le buste della spesa ancora in mano, non è stato avvicinato da nessuno per la paura di essere contagiati dal Coronavirus. La paura di contagio rimane altissima, in una città in cui i suoi milioni di abitanti sono in quarantena e hanno paura anche di uscire da casa. Quell’episodio risale a qualche giorno fa, a giovedì mattina: la vittima era a terra, davanti a un negozio chiuso, in una via solitamente affollata per lo shopping. Ma in quel caso era deserta. Nessuno, dopo aver visto l’uomo steso, ha avuto il coraggio di avvicinarsi fino a che non sono arrivati i soccorsi medici, come ha raccontato un reporter dell'Afp.

ISOLATO CEPPO ITALIANO CORONAVIRUS AL SACCO DI MILANO. Redazione de Il Riformista il 27 Febbraio 2020.– Una importante notizia arriva dall’ospedale Sacco di Milano, dove i ricercatori hanno isolato il ceppo italiano del coronavirus. Lo ha annunciato all’Ansa il professore Masssimo Galli, direttore dell’Istituto di scienze biomediche, che ha illustrato i risultati del lavoro di ricerca che procede ininterrottamente da domenica scorsa, coordinato dalla professoressa Claudia Balotta. Del team di ricerca fanno parte le ricercatrici Alessia Loi, Annalisa Bergna e Arianna Gabrieli, precarie, insieme al collega polacco Maciej Tarkowski e al professor Gianguglielmo Zehender.

“Abbiamo isolato il virus di 4 pazienti di Codogno – ha spiegato il professor Galli -. Siamo riusciti a isolare virus autoctoni, molto simili tra loro ma con le differenze legate allo sviluppo in ogni singolo paziente”. Si tratta di una scoperta che consentirà ai ricercatori di “seguire le sequenze molecolari e tracciare ogni singolo virus per capire cos’è successo, come ha fatto a circolare e in quanto tempo”.

Coronavirus, le tre ricercatrici (precarie) dell’ospedale Sacco che hanno isolato il ceppo italiano. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni. Alle cinque di pomeriggio Alessia Lai ha «appena finito di pranzare», dopo lunghe ore passate in laboratorio imbacuccata nello «scafandro». È una dei ricercatori precari dell’ospedale Luigi Sacco di Milano che hanno isolato il coronavirus «italiano», quello che ha infettato i pazienti nella zona rossa del Lodigiano. «Lavorativamente parlando è un successo — spiega la biologa —, ma ora stiamo andando avanti. L’isolamento non basta, ci sono altre indagini da fare. In ricerca non c’è quasi mai l’arrivo del percorso». Un po’ come nella carriera da ricercatore, incerta e dipendente dalla presenza (o mancanza) di finanziamenti. Lai, 40 anni, di Parabiago (Milano) da qualche mese ha aperto partita Iva ed è libera professionista. «Ho iniziato a lavorare al Sacco prima della tesi nel 2004 — racconta —, nel 2005 mi sono laureata, poi ho proseguito con un dottorato concluso nel 2009». Negli ultimi dieci anni è stata «appesa» a vari assegni di ricerca, «che insieme alle borse di studio sono il modo migliore per andare avanti». A spingerla verso la biologia è stato il dramma dell’Aids degli anni ‘80. I primi studi sull’Hiv, poi sull’epatite B, C e altre infezioni sia virali sia batteriche. Ora si sta occupando del virus cinese, sotto la guida di Claudia Balotta e Gianguglielmo Zehender, professori associati nell’Università statale di Milano e di Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive al Sacco. «Se mi spaventano le incertezze di questo mestiere? Voglio fare la ricercatrice dai tempo del liceo — dice Lai —, la carriera universitaria non è mai stata semplice. A 40 anni spero di poter continuare la passione di una vita», nonostante l’altelena dei fondi per la ricerca: «Si accorgono di noi solo nelle emergenze». Se non fosse spinta dalla passione le sarebbe difficile lavorare per 13 ore al giorno, come accade da venerdì a questa parte. «Passo più tempo in laboratorio che a casa». Per ora le tocca accantonare gli hobby: la palestra, il beach volley, le immersioni subacquee. Condivide la fatica nel «bunker» del Sacco con i colleghi precari Annalisa Bergna, Arianna Gabrieli e con il polacco Maciej Tarkowski. Bergna è la più giovane del gruppo: 29 anni, di Paderno Dugnano (Milano), vede questo successo come un punto di partenza per un intenso lavoro di ricerca e spera in un «miracolo» per la stabilizzazione della sua carriera. Gabrieli, 35enne, è originaria invece di Galatina, in Puglia. Per loro la strada è ancora in salita: scafandro, mascherine e in queste settimane si continuerà ad analizzare il Covid-19 per capire come è possibile sconfiggerlo.

Amalia Bruni, la ricercatrice che scoprì il gene dell’Alzheimer: «Per me a Lamezia niente fondi». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Se la ricerca sulla malattia dell’Alzheimer ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni, lo si deve alla scienziata calabrese Amalia Bruni, 65 anni, direttrice del Centro regionale di neurogenetica a Lamezia Terme. La scienziata nel 1995 ha individuato la «presenilina», il gene più diffuso dell’Alzheimer. Oggi, però, il suo Centro rischia la chiusura. «I nostri studi sulla conoscenza della “geografia” delle malattie ereditarie negli ultimi anni hanno trovato ostacoli che non ci permettono più di continuare nella ricerca —, conferma Amalia Bruni —. Presto avremmo potuto concepire farmaci per combattere in maniera più sostanziosa l’Alzheimer». I fondi necessari per la ricerca e per pagare il personale non arrivano più e così quattro biologhe se ne sono già andate. Altre dieci figure professionali — infermieri, informatici, psicologi, assistenti sociali — in servizio all’Associazione per la ricerca neurogenetica (Arn), hanno ricevuto le lettere di licenziamento e dal 1° marzo prossimo resteranno a casa. «Tutto ciò accade tra l’indifferenza della politica regionale, dei commissari prefettizi che guidano l’Azienda sanitaria di Lamezia Terme commissariata per mafia, e del generale Saverio Cotticelli, commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro della sanità in Calabria. C’è il rischio che il Centro di neurogenetica diventi un ambulatorio sanitario, perché la spoliazione in atto porterà a questo» prosegue Bruni. Nei giorni scorsi la scienziata ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, informandolo di quanto sta accadendo, ripercorrendo le tappe del Centro che ha avuto come sponsor il premio Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini. Una legge regionale del 2007 aveva garantito uno stanziamento di cinquecentomila euro annui che sarebbero dovuti servire per coprire le spese del Centro. Con la promessa che per favorire la ricerca sulle malattie del cervello umano la struttura sarebbe stata dotata di una pianta organica a tempo indeterminato. «Fino al 2018 l’erogazione della somma è avvenuta in maniera regolare e anche tra mille difficoltà siamo riuscite ad andare avanti. Non si è capito il motivo, ma ad un certo punto i finanziamenti non sono più arrivati e non è stato sufficiente avvertire che quei soldi facevano parte di un Fondo istituito con legge regionale, mai abrogata» chiarisce Amalia Bruni. Nel 2018 la Regione ha inserito in bilancio un nuovo fondo di duecentomila euro. «Ma quei soldi già finiti e per questo ogni giorno siamo costretti a mandare a casa centinai di pazienti e abbiamo bloccato anche le prenotazioni perché con un solo infermiere il Centro non può far fronte alla domanda di speranza» conclude la scienziata.

Covid, in terapia intensiva pazienti intubati a pancia in giù: ecco perché. Redazione  de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Le immagini dei pazienti Covid-19 intubati a pancia in giù nella terapia intensiva dell’ospedale di Cremona sono state il punto di non ritorno per chi ancora sosteneva, o sperava, che si trattasse di una semplice influenza. I pazienti, in quelle immagini trasmesse qualche settimana fa da Piazza Pulita, non erano, come ci saremmo aspettati, distesi sui loro lettini ma a faccia in giù, seminudi e con le gambe leggermente rialzate. In realtà, quelle immagini drammatiche riflettono un protocollo medico giù utilizzato in passato per curare alcune gravi insufficienze respiratorie. Un protocollo messo a punto da Luciano Gattinoni professore emerito alla Statale , ex primario del Policlinico di Milano e oggi professore a Gottinga, in Germania, che già alla fine degli anni ’80 notò come questa tecnica permettesse una migliore ossigenazione dei polmoni e quindi un maggior tasso di sopravvivenza. In un’intervista al Corriere della Sera, il medico spiega che, nel curare alcune sindromi da distress respiratorio acuto, notarono che “la parte superiore del polmone era piena d’aria, mentre la parte compromessa era quella più vicina alla colonna vertebrale“. E continua: “Immagini un tondo, metà chiuso e metà aperto: avevamo pensato che mettendo il paziente a pancia in giù il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazione migliore. E questo in effetti succedeva”. La pressione esercitata sul polmone permette di distribuire meglio l’energia meccanica esercitata dal respiratore artificiale, arrivando fino alle parti più basse del polmone. Questo protocollo, che non incontrò subito il favore di tutta la medicina, “all’inizio ridevano tutti di quella manovra”, trae spunto dall’osservazione delle mamme con i neonati: “Le donne lombarde – racconta Gattinoni – tenevano i bambini che facevano fatica a respirare a pancia in giù e poi davano loro dei colpetti sulla schiena”. E conclude: “Non fu facile far passare l’idea, forse anche perché era a costo zero“.

Il medico che ebbe l'idea di mettere i pazienti proni: "All'inizio tutti ridevano". L'idea dei pazienti a pancia in giù grazie alle donne lombarde: "Tenevano così i bambini che faticavano a respirare e gli davano dei colpetti sulla schiena". Francesca Bernasconi, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. Le immagini dei pazienti, ricoverati in terapia intensiva, sdraiati a pancia in giù hanno fatto il giro di tutti i telegiornali. Si tratta di una tecnica, che permette una migliore ossigenazione dei polmoni, consentendo una maggiore possibilità di sopravvivenza. In queste settimane viene usata anche per i malati di Sars-Cov-2. Ad avere l'intuizione fu Luciano Gattinoni, per anni primario del Policlinico di Milano, e ora la tecnica dei pazienti a pancia in giù è la più diffusa. "E pensare che all' inizio ridevano tutti di quella manovra...", ha commentato il medico, nel corso di un'intervista rilasciata al Corriere della Sera. Inizialmente, si pensava che le gravi insufficienze respiratorie "interessassero tutto il polmone", ma le prime tac mostrarono che ad essere interessata era solamente la parte del polmone più vicina alla colonna vertebrale: "La parte superiore del polmone era piena d'aria". "Immagini un tondo, metà chiuso e metà aperto- spiega Gattinoni- avevamo pensato che mettendo il paziente a pancia in giù il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazione migliore. E questo in effetti succedeva". Poi, con la seconda tac, i medici capirono "che il miglioramento non era tanto dovuto all' ossigenazione, quanto al fatto che in posizione prona le forze si distribuiscono nel polmone in modo più omogeneo. Pensi ad un polmone sottoposto all' energia meccanica del respiratore, è come se gli venissero dati continui calci: tam, tam, tam. Ovviamente più questa forza viene distribuita omogeneamente, meno danni fa. Adesso questa tecnica è entrata nel bagaglio delle conoscenze ed è usata in tutto il mondo". Gattinoni ebbe l'idea osservando le donne lombarde che, "tenevano i bambini che facevano fatica a respirare a pancia in giù e poi davano loro dei colpetti sulla schiena". Le prime manovre vennero fatte alla fine degli anni Ottanta e, ai tempi, "non fu facile far passare l' idea, forse anche perché era a costo zero". Adesso questa tecnica viene usata anche per trattare i pazienti affetti da Covid-19, ma ora "girare così tanti pazienti sta diventando uno stress notevole per il personale", che deve fare i conti anche con il sovraffollamento degli ospedali e turni massacranti. "In terapia intensiva non guariamo nessuno- conclude il professore-compriamo solo il tempo per l'organismo per organizzare le difese. Dobbiamo tenere il paziente vivo, assicurare uno scambio gassoso al minor prezzo possibile, cioè evitare i danni che sono sempre associati alla ventilazione meccanica. Ma questa è una malattia lunga".

Sanità, Gattinoni se ne va in polemica con il ministro. Il responsabile della Sanità aveva detto di ritenere che in quel ruolo "ci vuole un manager" La Repubblica 1 luglio 2001. Prima spina per il neo ministro della Sanità, Girolamo Sirchia, che si scontra con uno dei massimi esponenti della ricerca italiana: Luciano Gattinoni, grande esperto di anestesia e rianimazione. Lo scienziato infatti, in polemica con il successore di Veronesi, rassegna le dimissioni da direttore scientifico del Policlinico di Milano. La storia inizia una settimana fa. Il titolare del dicastero traccia ai giornali l'identikit del direttore scientifico prossimo venturo: "Secondo me deve essere un manager e non uno scienziato". Gattinoni è dall'altra parte del mondo, in Sudamerica, per un ciclo di conferenze. Lui non è un manager, bensì uno scienziato di prestigio mondiale. Torna a Milano, apre il pacco dei giornali arretrati e fa un salto sulla sedia. Le parole del ministro non gli devono piacere granché, tenuto conto che i due non si sono mai amati molto. Così Gattinoni non ci pensa sopra due volte, prende la carta da lettere e scrive la sue dimissioni da direttore scientifico del Policlinico milanese. Le motivazioni sono lampanti: "Ho letto una dichiarazione del neoministro della Sanità sulle caratteristiche di un direttore scientifico: non uno scienziato ma un gestore. Poichè tale visione non corrisponde a quanto richiesto a livello internazionale e nazionale per dirigere un istituto scientifico, ovvero essere innanzitutto, come requisito base, uno scienziato, e non riconoscendomi nei desiderata del ministro, rassegno le mie dimissioni". Irrevocabili, naturalmente, e polemiche, ovviamente. Il ministro, da parte sua, si guarda bene dallo stracciarsi le vesti. Il suo commento è altrettanto lapidario: "Prendo atto delle dimissioni del direttore scientifico del Policlinico di Milano, Luciano Gattinoni, ma non vedo alcuna consecutio fra questa decisione e il mio pensiero". Poi, Sirchia, si affretta a confermare l'identikit che tanto non piace a Gattinoni: "Il direttore scientifico deve ovviamente capire ciò che succede nella ricerca, ma non è necessario che sia un premio Nobel, uno scienziato. Deve invece saper reperire i fondi e saperli gestire. Comunque non vedo perchè dimettersi se io la penso in un modo e Gattinoni in un altro. Io non sono il commissario dell'ospedale. Ad ogni modo prendo atto della sua decisione". Il commissario del Policlinico, Giuseppe Di Benedetto, ora ha una bella gatta da pelare. 

Luciano Gattinoni, il padre della posizione prona nel distress respiratorio. Scritto il 19 Marzo 2020 su storiadellamedicina.net. “Non lo auguro a nessuno, ma se entrerete in una Rianimazione con la bestia che vi affligge i polmoni, sappiate che, se sopravviverete, lo dovrete anche a lui, che anni fa dimostrò che l’ossigenazione migliore, in alcuni tipi di malattie polmonari, avviene in posizione prona.” [Il dottor Carlo Serini, riguardo a Luciano Gattinoni, Professore dell’Università di Milano, Primario del Policlinico oggi in pensione, grande pianista di talento.] Il professor Luciano Gattinoni è nato il 12 gennaio 1945. Ha ottenuto la ‘maturità classica’ presso il Liceo Carducci di Milano nel 1963 e si è laureato in Medicina nel 1969 presso l’Università di Milano. Sempre a Milano si è specializzato in Anestesia e Rianimazione nel 1974 e nel 1980 in Igiene. In questi giorni di polmoniti da COVID-19 sono tante le immagini che ci giungono dai reparti di rianimazione di tutto il mondo. Un occhio attento noterà facilmente che spesso la posizione dei pazienti non è supina, come ci attenderemo di vedere, bensì in pronazione. Anche per questa particolarità, apparentemente insignificante, esiste una precisa ragione scientifica, e tale ragione scientifica è stata scoperta e dimostrata da un rianimatore italiano. Il professore Luciano Gattinoni ha mostrato che, in posizione prona, le densità di scansione tomografica computerizzata si ridistribuiscono dalla sede dorsale a quella ventrale poiché la regione dorsale tende a espandersi mentre la zona ventrale tende a collassare. Sebbene l’influenza gravitazionale sia simile in entrambe le posizioni, il reclutamento dorsale di solito prevale sul deprezzamento ventrale, a causa della necessità polmonare e della sua parete toracica a conformarsi allo stesso volume. Il risultato finale della posizione di pronazione è che l’inflazione polmonare complessiva è maggiormente omogenea da dorsale a ventrale rispetto alla posizione supina, con stress e tensione distribuiti in modo più omogenei. La sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) è stata descritta per la prima volta nel 1967 dal dottor Dave G. Ashbaugh e colleghi dell’Università del Colorado. I 12 pazienti descritti in quel lavoro presentavano ARDS di origine polmonare ed extra-polmonare, alcuni con sovraccarico idrico e shock. La “pressione positiva di fine espirazione” (PEEP) fu utilizzata per cinque di loro (tre i sopravvissuti) mentre i rimanenti sette furono trattati con “zero di pressione positiva a fine espirazione” (ZEEP) (due i sopravvissuti). Il riscontro autoptico evidenziò polmoni pesanti (peso medio di 2110 g) e l’esame microscopico la presenza di aree alveolari atelettasiche, di emorragia, di edema interstiziale ed alveolare e capillari dilatati e congesti. Con l’avvento della Tomografia Computerizzata (TC) la visione dell’ARDS cambiò in maniera drammatica. Ciò che era abitualmente considerato un “polmone omogeneo”, come dimostrato dalla radiografia antero-posteriore, appariva non omogeneo alla TC del torace, con densità concentrate maggiormente nelle regioni più declivi. Quando il professor Gattinoni, con il suo gruppo di lavoro a metà degli anni ottanta del novecento, inizio la valutazione quantitativa delle immagini alla TC che misura le quantità di polmone normalmente/scarsamente aerato, sovra-disteso e non aerato, scoprì che, nell’ARDS grave, la quantità di tessuto normalmente aerato misurato a fine espirazione era di 200-500 grammi, cioè equivalente al tessuto normalmente aerato di un bambino sano di 5-6 anni. Da questo risultato è derivato il concetto di “baby lung” che è una conseguenza dell’esame della TC.

LA POSIZIONE IN PRONAZIONE. Lo schema mostra gli effetti relativi e combinati della corrispondenza della forma del polmone con la parete toracica e della gravità sulla distribuzione della dimensione alveolare (inflazione) lungo l’asse verticale. Il primo report sul posizionamento in pronazione nei pazienti con ARDS apparve nel 1976  e descriveva un notevole miglioramento dell’ossigenazione quando i pazienti erano passati dalla posizione supina a quella prona. Il lavoro era opera dei dottori M. A. Piehl e R. S. Brown. Esperimenti sugli animali mostrarono chiaramente che il posizionamento in pronazione ritardava o preveniva il danno polmonare indotto dalla ventilazione, probabilmente a causa in gran parte di stress e tensione distribuiti in modo più omogeneo. Tra gli anni novanta e gli inizi del duemila, il professor Gattinoni condusse diversi studi per confrontare le posizioni prone e supine nella sindrome da distress respiratorio acuto, per quanto riguarda il vantaggio di sopravvivenza. La maggior parte dei dati ha indicato che, nel distress respiratorio acuto severo, la “prone positioning” eseguita con cura offre un vantaggio di sopravvivenza assoluto del 10-17%.

IL MODELLO A SPUGNA ED IL VANTAGGIO DI SOPRAVVIVENZA CON LA POSIZIONE SUPINA. La tomografia computerizzata mostra lo spostamento delle densità dalle regioni dorsale a ventrale del polmone durante la posizione prona e l’inversione completa quando il paziente viene girato in posizione supina. Ciò ha portato all’idea del “modello a spugna”. Nel frattempo, la ridistribuzione della densità che Gattinoni aveva osservato nella posizione prona lo spinse a rivedere la teoria alla base del miglioramento dell’ossigenazione durante il posizionamento in pronazione e a suggerire un modello di spiegazione diverso. Questo modello, che era stato chiamato nel 1993 “modello a spugna” dal dottor R. C. Bone, fornisce una spiegazione sia per la ridistribuzione della densità in posizione prona che per il mantenimento del reclutamento con pressione positiva di fine espirazione (PEEP). Il miglioramento della PaO2, osservato senza eccezioni in tutti gli studi clinici e sperimentali riguardanti la posizione prona, può essere dovuto al reclutamento ed aerazione di regioni polmonari perfuse e precedentemente prive di ossigenazione o allo spostamento del flusso sanguigno da regioni non aerate a quelle aerate.

Coronavirus: Luciano Gattinoni, il medico che ha scoperto la tecnica della pancia in giù. «All’inizio tutti ne ridevano, ora è la più diffusa». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Giovanni Viafora. Se, in tutto il mondo, migliaia di persone colpite da Covid escono vive dalla terapia intensiva lo devono anche a Luciano Gattinoni, classe 1945, professore emerito alla Statale e per anni primario del Policlinico di Milano (oggi guest professor a Gottinga, in Germania). È sua l’intuizione di girare a pancia in giù i pazienti intubati con gravi insufficienze respiratorie: una tecnica che permette una migliore ossigenazione dei polmoni e quindi un maggior tasso di sopravvivenza. Professore, l’immagine dei pazienti proni nelle terapie intensive è entrata drammaticamente nella nostra quotidianità. Anzi, si può dire che sia diventata uno dei simboli di questa emergenza planetaria.

«E pensare che all’inizio ridevano tutti di quella manovra...».

Cioè?

«La medicina, si sa, è molto conservatrice. Nei primi tempi si riteneva che alcune gravi insufficienze respiratorie, che noi chiamavamo ARDS (ovvero, sindrome da distress respiratorio acuto), interessassero tutto il polmone. Fummo i primi a fare le tac polmonari, vedendo invece che la parte superiore del polmone era piena d’aria, mentre la parte compromessa era quella più vicina alla colonna vertebrale. Immagini un tondo, metà chiuso e metà aperto: avevamo pensato che mettendo il paziente a pancia in giù il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazione migliore. E questo in effetti succedeva».

E poi?

«Poi rifacendo la tac capimmo che il miglioramento non era tanto dovuto all’ossigenazione, quanto al fatto che in posizione prona le forze si distribuiscono nel polmone in modo più omogeneo. Pensi ad un polmone sottoposto all’energia meccanica del respiratore, è come se gli venissero dati continui calci: tam, tam, tam. Ovviamente più questa forza viene distribuita omogeneamente, meno danni fa. Adesso questa tecnica è entrata nel bagaglio delle conoscenze ed è usata in tutto il mondo».

C’è una specificità per i pazienti Covid?

«Metterli proni risponde in realtà un po’ al meccanismo che pensavamo all’inizio, cioè portare l’ossigenazione nelle parti più basse del polmone. Certo ora girare così tanti pazienti sta diventando uno stress notevole per il personale».

L’idea come le venne? E quando?

«È una lunga storia. Già le donne lombarde tenevano i bambini che facevano fatica a respirare a pancia in giù e poi davano loro dei colpetti sulla schiena. Le prime manovre mi ricordo che le facemmo a fine anni Ottanta. Non fu facile far passare l’idea, forse anche perché era a costo zero».Lei ha lavorato per anni a Milano. Oggi le rianimazioni scoppiano. Cosa prova?«Un profondissimo disagio. In terapia intensiva non guariamo nessuno, compriamo solo il tempo per l’organismo per organizzare le difese. Dobbiamo tenere il paziente vivo, assicurare uno scambio gassoso al minor prezzo possibile, cioè evitare i danni che sono sempre associati alla ventilazione meccanica. Ma questa è una malattia lunga».

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 19 marzo 2020.

«La cosa che mi impressiona di più è la "trasformazione repentina"».

In che senso?

«Nel senso che i pazienti arrivano con difficoltà respiratorie e sembrano "normali" ma un' ora dopo "precipitano", li intubiamo e in un attimo somigliano a zombi».

Cioè, così, da un momento all' altro?

«L' altro giorno è arrivato un signore di 81 anni, gli abbiamo messo una "maschera" e ossigenava bene, nel giro di 45 minuti è precipitata la situazione, l' acqua ha invaso gli alveoli e lo abbiamo intubato d' emergenza, è ancora vivo ma...».

È spaventoso.

«No, la cosa più spaventosa è un' altra, almeno per me. Per farli respirare li "proniamo", li mettiamo a pancia in giù per tante ore, serve per "reclutare" il polmone, quando li giriamo hanno i volti trasfigurati per la pressione, non sono più loro».

Carla (nome fittizio) parla dei "suoi" malati, ovvio. Quelli positivi al Coronavirus, altrettanto ovvio. Carla è infermiera di terapia intensiva in un ospedale lombardo («puoi scrivere "della Brianza"») e ci racconta cosa significa affrontare un turno di 12 ore ai tempi del Coronavirus.

«Io in realtà sono una perfusionista, in genere assisto le operazioni di cardiochirurgia, ma ho fatto la scuola da infermiera e vista l' emergenza mi hanno trasferito alla terapia intensiva. È successo a tanti colleghi come me».

Praticamente fate un lavoro nuovo.

«Ci si adatta, siamo tutti professionisti. Qualcuno non se la sente e viene mandato in terapia intensiva "bianca", quella dove non ci sono i contagiati, in generale facciamo il massimo per imparare le procedure. Il problema semmai è un altro».

La mancanza di posti.

«Anche, ma non solo. Come tutti seguiamo le direttive dell' organizzazione mondiale della sanità, solo che cambiano una settimana dopo l' altra a seconda di quello che dicono gli studi sul virus e dobbiamo adattarci più in fretta possibile. Si rischia di sbagliare».

Com' è la situazione, siete al limite?

«Al momento tutti i posti in terapia intensiva sono occupati, ma ce la caviamo. Erano 10, ne abbiamo "costruiti" altri 6. L' altro giorno è arrivato un paziente da Bergamo in condizioni critiche - ce li manda la Regione - non c' era ancora una postazione pronta e allora un collega lo ha ventilato artificialmente per tre ore. Alla fine era stremato».

In che condizioni arrivano i pazienti? Saranno spaventati.

«La maggior parte devono superare la polmonite e una volta guariti tornano a casa, per questi abbiamo 50 posti, attualmente tutti pieni. Arrivano terrorizzati, uno mi ha detto "che brutta fine che faccio", aveva 60 anni e per fortuna sta bene. Il problema è che molti arrivano già in condizioni drammatiche».

Età media?

«55/60 anni, molti più maschi che femmine. E giocoforza sono soli, arrivano in pronto soccorso con i loro vestiti in una sacca, i parenti non possono salire sulle ambulanze, né possono venire a trovarli. Al massimo parlano al telefono con i dottori».

Dev' essere durissima affrontare una roba del genere senza sostegno dei familiari...

«Gli intubati ovviamente sono costantemente addormentati, li sediamo, il problema sono gli altri 50. Se uno di quelli "precipita" e ha bisogno di essere intubato non trova posto. Il timore è di dover arrivare a fare delle scelte tra giovani e meno giovani, da altre parti lo stanno già facendo, e comunque dalla terapia intensiva ne torna uno su due».

Qual è la sua più grande paura?

«Ce ne sono tante. La visione ripetuta della morte, il fatto di non sapere quando finirà tutto questo, la sensazione costante che la situazione possa precipitare. E poi c' è la paura personale, quella di portare la malattia "a casa". Il primo giorno alla scuola da infermieri ci dissero "se avete paura di ammalarvi questo non è il vostro posto" e ho fatto la mia scelta, nessuno ci aveva detto "un giorno avrete terrore di contagiare i vostri figli". In fondo loro non possono scegliere».

Come vi proteggete?

«Abbiamo la tuta chirurgica, tre paia di guanti, lo scafandro che deve coprire tutta la testa per impedire che il virus si attacchi ai capelli, la mascherina, la visiera e i calzari sopra gli zoccoli. Lavorare con tutta questa roba addosso è realmente complicato, ma non si può fare altrimenti. E poi c' è la svestizione, il momento più delicato».

Racconti.

«Il termine del turno di 12 ore andiamo in una stanza e seguiamo la procedura. Ci guardiamo tra colleghi per non sbagliare. Togliamo la tuta "alla rovescia" per non toccare le parti contaminate, buttiamo tutto in un sacco, solo la visiera viene sanificata. Poi cambiamo gli zoccoli, ci laviamo le mani con un gel a base alcolica al 70% e entriamo in un' altra stanza dove facciamo la doccia, poi ancora gel per le mani, quindi ci vestiamo e lasciamo l' ospedale. Di mio, quando arrivo a casa, mi faccio aprire, mi spoglio all' ingresso e faccio un' altra doccia. Del resto da noi in ospedale il virus è ovunque».

Inutile dire che i ritmi sono vertiginosi.

«Non ci fermiamo mai, chi si ferma - per mangiare o per fare una telefonata a casa - lascia più lavoro agli altri e deve affrontare tutta la procedura. E comunque anche togliersi la mascherina è un problema: se te la levi e mangi, poi non riesci più a rimetterla. Il viso si gonfia e ti si taglia la faccia».

Vi definiscono "eroi".

«È solo il nostro lavoro. La cosa più importante è poter continuare a farlo nelle condizioni migliori, per questo servono postazioni e rinforzi, anche perché nessuno può sapere quando finirà questa storia».

Decathlon regala 10mila maschere da sub alle regioni: diventeranno respiratori. Il Dubbio il 26 marzo 2020. L’idea di trasformare la maschera da sub in un ventilatore  è venuta ad un ex primario dell’Ospedale di Gardone Val Trompia, il quale ha contattato un team di ingegneri. Decathlon Italia ha deciso di donare 10mila delle proprie maschere da snorkeling Easybreath alle Regioni italiane, responsabili della sanità pubblica, per far fronte all’emergenza sanitaria Covid-19, “nell’attesa dei test e delle sperimentazioni in corso presso il Politecnico di Milano e sulla base delle risultanze del brevetto della Società Isinnova”. Lo comunica il gruppo in una nota. “La chiave di distribuzione utilizzata – si legge – sarà la quota di accesso abitualmente adottata per la ripartizione dei fondi statali”. L’idea di trasformare una maschera da sub in un ventilatore  è venuta ad un ex primario dell’Ospedale di Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, il dottor Renato Favero, che conosceva la maschera Decathlon, il quale ha contattato la società Isinnova, costituita da un team di ingegneri, designer ed esperti di comunicazione che si dedica alla raccolta di idee per trasformarle in oggetti concreti, la quale stava realizzando in stampa 3D le valvole di emergenza per respiratori.Così da questo connubio è nata l’idea che ha concretamente trasformato la maschera Decathlon per far fronte “alla penuria di maschere C-Pap” che sta emergendo in questi giorni come la problematica principale legata alla diffusione del Covid-19. Il prototipo delle valvole Charlotte e del nuovo raccordo al respiratore è di fatto nato in 7 giorni ed è stato testato direttamente nell’ospedale di Chiari, nel bresciano, “e si è dimostrato perfettamente funzionante” come ha spigato la società che l’ha realizzato, collegando direttamente la maschera all’ossigeno tramite la presa al muro.In questa gara dell’ingegno a tempo di record, c’è un altro punto non indifferente: chiunque potrà stampare liberamente valvole e raccordo, a condizione che non siano utilizzate per fini commerciali. Cioè a scopo di lucro. Quindi nessuno potrà percepire diritti e guadagni sull’idea del raccordo e, tantomeno sulla vendita delle maschere Decathlon. Genialità e buoni sentimenti.

Coronavirus: Rocco, che aiutò Steven, inventa e regala la maschera con amplificatore. Matteo Gamba Le Iene il 29 marzo 2020. Abbiamo conosciuto Rocco De Lucia con Nina Palmieri: continuò a pagare un suo operaio colpito da un tumore nonostante l’Inps dopo sei mesi avesse smesso. Mattarella gli aveva consegnato un premio per questo. Ne meriterebbe un altro per questa sua invenzione che permette a medici e pazienti di parlare senza rischi di contagio e che lui regala: “Mi vergognerei se ci guadagnassi solo un euro”. “Che Dio mi fulmini se ci guadagno un euro: le regalo tutte. Ma non devo perdere tempo, un sacco di ospedali mi stanno chiamando e hanno bisogno delle mie maschere. Non dormo nemmeno per fare presto. Dobbiamo salvare più vite possibile”. In un’emergenza straordinaria e terribile come quella del coronavirus si incontrano e si ritrovano anche uomini straordinari. Abbiamo avuto la fortuna di tornare a parlare con uno di questi, Rocco De Lucia, che ha appena inventato la maschera isolante e amplificata del video qui sopra che permette le comunicazioni in tutta sicurezza tra pazienti e medici senza il rischio di contagio. L’avevamo conosciuto per la prima volta nel novembre 2017 con Nina Palmieri. Un suo operaio, Steven Babbi, allora 22enne, colpito da una forma gravissima di tumore, non riceveva più lo stipendio dall’Inps durante la malattia perché erano passati i sei mesi previsti dalla legge (qui trovate il servizio, emozionante e commovente). Rocco De Lucia e la moglie Barbara Burioli hanno continuato a pagarlo loro nella Siropack di Cesenatico. “Il patrimonio primario della nostra azienda sono i nostri ragazzi, che lavorano con noi ogni giorno. Vanno tutelati non solo nel bene ma anche quando purtroppo arriva il momento del male”, dicevano. “Ci sembra di aver fatto una cosa normale”, ribadivano qualche mese dopo quando li abbiamo risentiti perché il presidente della Repubblica li ha nominati per quel loro gesto Cavalieri dell'Ordine al Merito della Repubblica (qui l’articolo e la video intervista). Dopo oltre 10 anni di lotta il sorriso e il coraggio di Steven, che nell’azienda di Rocco si sentiva come in famiglia, si sono spenti nel febbraio scorso. È rimasto però il suo spirito nell’anima di quest’uomo, che oggi come allora inizia con una frase: “Il bene porta bene”.

Rocco, come funziona la tua maschera?

“Indossandola pazienti e medici possono parlarsi senza rischiare contagi. Ora c’è da produrla in fretta per salvare e proteggere vite. Mi sento in colpa per ogni secondo perso, sto lavorando alle prime 70 da consegnare agli ospedali di Cesena, Rimini e al Rizzoli di Bologna”.

Com’è nata l’idea?

“Fin da gennaio quando è esplosa l’epidemia a Wuhan volevo fare qualcosa. Intanto ho procurato mascherine, gel e disinfettanti a tutti i miei operai. Ma continuavo a pensare a come si poteva aiutare tutti. Un mio amico medico mi aveva raccontato gli enormi problemi in ospedale: I pazienti fanno una fatica terribile a respirare e a parlare, noi siamo tutti bardati: comunicare è difficilissimo ed è pericoloso per i contagi. Poi ho saputo della moglie di un altro amico, un cliente, morta di coronavirus a 46 anni a Milano: non potevo restare fermo”.

Come sei arrivato alla maschera?

“Ho visto quei ragazzi che a Brescia avevano trasformato le maschere da sub per la terapia intensiva a Brescia (li abbiamo intervistati in questo articolo, ndr). È da lì che mi è venuta l’idea: perché non mettiamo un amplificatore nella maschera per far parlare medici e pazienti senza rischiare la pelle? Le ho prese dalla Seascub di Genova, ci ho applicato una griglia prodotta con una stampante 3D, filtri sostituibili antivirus FFP2 e FFP3 e un impianto di amplificazione. Facile a dirlo, difficilissimo da fare. Con il laboratorio di ricerca Tailor e il professor Marco Troncossi dell’università di Bologna, abbiamo seguito ogni dettaglio previsto dalla legge. Mi sono messo ad aggeggiare come MacGyver, l’agente buono e inventore fai-da-te del telefilm, ed alla fine è nata la C-Voice Mask, senza un brevetto ovviamente”.

Perché quel nome? Perché senza brevetto?

“C e V, stanno per CoronaVirus e CoVid-19. Un collega mi ha detto: Sei pazzo! Brevettala, ci farai migliaia se non milioni di euro. Non lo farò mai. Non me ne frega niente: mi vergognerei se ci guadagnassi anche solo un euro, sarebbe la cosa più grave che potrei fare alla mia anima, la venderei al diavolo. L’ho anche messo per iscritto, per ogni tutela legale se qualcuno volesse approfittarne: ‘Siropack ha deciso di rilasciare disegni, logiche ed ogni altro diritto di proprietà intellettuale relativo al dispositivo C-Voice Mask a titolo gratuito, a condizione che non vengano utilizzati per fini commerciali’. Come ha detto il Papa pregando nella piazza vuota di San Pietro: siamo tutti nella stessa barca in questo momento drammatico. Dobbiamo aiutarci l’un l’altro”.

Sta già producendo in serie la C-Voice Mask?

“Da quando ho realizzato il prototipo, con le prime comunicazioni di tre giorni fa è iniziato un delirio. Ho ricevuto un sacco di telefonate che mi fanno star male, dai 118, dai chirurghi, dai reparti, dai medici di base: mi dicono che serve come il pane, bisogna pensare a fare, presto, senza perdere tempo. La voce mi trema mentre ne parlo. Ho dormito pochissimo, anche troppo comunque. Sto chiedendo aiuto per fabbricarne il più possibile. Le prime 70 andranno al pronto soccorso di Cesena, alla chirurgia di Rimini e al Rizzoli di Bologna (sì, quell’ospedale da sogno dove si curano i tumori con la stampante 3D di cui vi abbiamo parlato con Gaetano Pecoraro, ndr). Ma è solo l’inizio. Da domani rendiamo pubblico il tutto rivolgendoci anche all’Istituto superiore di sanità. C’è solo un’amarezza che mi resta di sottofondo”.

Quale?

“Perché a questo ci sono arrivato io e non, prima, ben altri esperti ottimamente preparati e pagati? Io ho fatto solo le medie: sesto di otto figli ho lasciato la scuola e sono andato a lavorare un giorno in cui vidi mia madre piangere perché le si erano smagliate le calze e non ne aveva un altro paio per andare a un matrimonio. Non voglio fare polemiche, è un discorso generale: perché i medici e paramedici, i nostri eroi, non sono stati tutelati meglio e prima? Stanno continuando a morire. Tempo fa mi ha chiamato la responsabile degli infermieri di un grande ospedale piangendo perché non avevano protezioni: noi della Siropack le avevamo già regalato 5mila mascherine”.

Complimenti ancora una volta, Rocco.

“Figuriamoci: il bene porta bene, come le avevo detto parlando del povero Steven: lo portiamo sempre nel cuore, ci ha dato la dignità di quello che deve essere un imprenditore”.

In Irpinia stampate in 3D le valvole per respiratori per le maschere da sub. Franco Insardà su Il Dubbio il 27 marzo 2020. Il piccolo “miracolo” della 3DRap, azienda nata in un piccolo laboratorio nel centro storico di Mercogliano, a pochi chilometri da Avellino. «In due giorni siamo riusciti a produrre i 50 kit di valvole e trasformare le maschere per lo snorkeling in maschere respiratorie per gli ospedali di Brescia. Tenga presente che una stampante 3D ha bisogno di quattro ore per realizzarne uno. Noi abbiamo 40 stampanti e ci siamo riusciti. Ora siamo fermi, come prevede l’ultimo decreto del governo per l’emergenza Covid- 2019». A parlare è Domenico Orsi, uno dei cinque soci della 3DRap, azienda nata in un piccolo laboratorio nel centro storico di Mercogliano, a pochi chilometri da Avellino e alle pendici del monte Partenio, dove sorge il santuario della Madonna di Montevergine, famoso anche per la “juta dei femminielli” nel giorno della Candelora. Alla fine della maratona lavorativa, ovviamente gratuita, la 3DRap mercoledì ha scritto sui social con soddisfazione: “Ce l’abbiamo fatta! È stata una vera e propria corsa contro il tempo, ma siamo riusciti a produrre gli oltre 50 kit di valvole per respiratori polmonari promesse al Fablab di Brescia, soddisfacendo così il 10% delle richieste della Protezione Civile Lombarda. Oltre 230 ore di stampa, impegnando tutte le macchine presenti nel lab ed il nostro personale che si è alternato suddividendosi in 4 turni per rispettare le norme di sicurezza. Il pacco è già partito e ringraziamo ancora una volta Ups per averci aperto un canale preferenziale, così da assicurare la celerità di questa importante consegna. Forza Lombardia e Forza Italia!”. Domenico Orsi insieme con i suoi amici e soci ( Antonio De Stefano, Davide Cervone, Beniamino Izzo e Giovanni Di Grezia) ha fondato la 3DRap che si occupa di prototipazione digitale e stampa 3D. Il loro core business è la stampa di prodotti per le corse automobilistiche virtuali, realizzati con le stampanti 3D e con materiali interamente biodegradabili. Uno dei prodotti di maggiore successo è l’hand controller per simdriver disabili, il dispositivo manuale che permette di accelerare e frenare con le dita. Ma anche tanti pezzi di ricambio, trofei a impatto zero per i campionati on line e nuove collaborazioni con i piloti delle corse simulate hanno permesso ai giovani ingegneri di 3DRap di ottenere numerosi premi e riconoscimenti e di partecipare a vetrine internazionali come Smau. La 3DRap commercializza i suoi prodotti in oltre cento paesi in tutto il mondo e a breve si trasferirà in un capannone industriale, lasciando il piccolo laboratorio dal quale è partita. «Abbiamo La nostra attività è molto flessibile, non è difficile e abbastanza veloce riconvertire la produzione delle stampanti digitali. L’idea è venuta all’ex primario dell’Ospedale di Gardone Valtrompia ( BS), Renato Favero, che ha contattato Isinnova per condividere il progetto. In seguito il Fab- Lab bresciano ha lanciato un appello sui social per intensificare la produzione dei pezzi per modificare le maschere da snorkeling, rendendole un dispositivo da impiegare in caso di conclamata situazione di difficoltà. La Protezione civile ha chiesto 500 pezzi ed è partita in rete la ricerca di aziende in stampa 3D in grado di realizzarle. Noi abbiamo subito aderito con entusiasmo». Raggiunto l’obiettivo i cinque soci della 3DRap si sono dovuti fermare perché, come spiega Domenico Orsi «prima di questa produzione avevano già aderito alle misure previste dal decreto “Cura Italia”, chiedendo la cassaintegrazione per i nostri tre dipendenti. Poi è partita la produzione dei kit». Ma i ragazzi non si sono persi d’animo e hanno messo in condivisione in rete il progetto Isinnova per cercare aziende e privati con stampanti 3D in grado di realizzare le valvole per le maschere. «A Brescia hanno raggiunto i 500 kit di cui avevano bisogno – spiega Orsi -, ma ora siamo sommersi di richieste da parte delle strutture ospedaliere del Sud. Abbiamo istituito un indirizzo mail ( info@ 3DRap. it) al quale ci si può rivolgere per mettere a disposizione la propria stampante 3D. Noi abbiamo contattato un’azienda casertana che ha disponibilità di oltre 2000 maschere da snorkeling, come quelle utilizzate a Brescia. Abbiamo chiuso la filiera anche con la logistica e stiamo riuscendo a fare da tramite e da megafono per questo progetto per gli ospedali del Sud».

Coronavirus, con la nostra stampante 3D maschere da sub salvano i malati. Le Iene News il 25 marzo 2020. Anche le maschere da sub, trasformate, possono salvare le persone che combattono contro il coronavirus in terapia intensiva. È l’ultima sfida partita dall’ospedale di Brescia: chiunque può dare il proprio aiuto con una stampante 3D. Come fanno Armando e Andrea. La guerra contro il coronavirus si può combattere anche con le maschere da sub: dopo averle trasformate, possono diventare vitali nei reparti di terapia intensiva. Basta aggiungere una particolare valvola che può essere prodotta da chiunque con una stampante 3D. Armando e Andrea, due ragazzi della provincia di Brescia di 29 e 26 anni, hanno raccolto la sfida mettendo a disposizione il loro laboratorio digitale aperto da neanche un anno.

Siamo a Edolo, nel cuore della Valcamonica. “Sono finite le maschere per l’ossigeno necessarie per i malati in terapia intensiva. I tempi per la loro fornitura sarebbero troppo lunghi”, spiegano a Iene.it i due ragazzi anche con il video che vedete qui sopra. “Così abbiamo accolto l’appello di Isinnova”. L’azienda bresciana ha avuto l’intuizione: trasformare le maschere da sub che sono state offerte da Decathlon in maschere per l’ossigeno: “Per adattarle serve una valvola che può produrre chiunque abbia una stampante 3D. Loro hanno realizzato il brevetto lasciandolo libero per chiunque volesse dare una mano”. Ovviamente tutto è senza scopo di lucro. Armando e Andrea ci lavorano da domenica scorsa: “L’ospedale di Brescia ha bisogno di 500 maschere. Per realizzare una coppia di valvole impieghiamo 4 ore più i tempi per resettare la stampante”, spiegano. “Con una modifica alla macchina riusciamo a stampare 8 pezzi in contemporanea in 12 ore di produzione”. Il loro lavoro va avanti giorno e notte a ritmi serratissimi: “Anche da casa teniamo tutto sotto controllo. Abbiamo le telecamere per vedere se tutto va bene o se ci sono imprevisti”. In questi primi giorni hanno prodotto oltre una trentina di valvole che hanno inviato all’ospedale di Brescia, in una provincia dove si contano già 6.200 contagiati e 800 morti.

Così la maschera da sub di Decathlon si trasforma in un respiratore. La nuova trovata della Isinnova. Andrea Sparaciari il 21 marzo 2020 su it.businessinsider.com. Fonte: sito Isinnova. Dopo le valvole stampate in 3D, la maschera da sub di Decathlon trasformata in respiratore. È il nuovo colpo di genio di Cristian Fracassi, l’ingegnere balzato all’onore delle cronache mondiali per aver ingegnerizzato e poi stampato una valvola necessaria ai respiratori dell’ospedale di Chiari, proprietario della Isinnova. Ma quel network scientifico, nato per iniziativa del fisico e divulgatore Massimo Temporelli, non si è fermato. Anzi. E così è nata la maschera da snorkeling trasformata in una maschera C-PAP ospedaliera per terapia sub-intensiva dalla società di Fracassi, uno dei componenti che maggiormente stanno mancando nei nosocomi italiani. «L’idea è venuta a un ex primario, il dottor Renato Favero», racconta a Business Insider Italia, Fracassi, «il quale, dopo aver letto delle valvole in 3D, ci ha contattato e ci ha detto: “Ho l’idea di trasformare una maschera da sub in un ventilatore. Mi date una mano?”. Ci ha fatto tre ore di lezione di anatomia e poi ci ha detto: “A voi…”». E così, in sette giorni è nato il prototipo, con il raccordo che è stato battezzato “Valvola Charlotte”. E, a differenza di quanto avvenuto per la valvola Venturi del respiratore, Decathlon ha sposato immediatamente l’idea. «Abbiamo contattato in breve tempo Decathlon, in quanto ideatore, produttore e distributore della maschera Easybreath da snorkeling. L’azienda si è resa immediatamente disponibile a collaborare fornendo il disegno CAD della maschera che avevamo individuato. Il prodotto è stato smontato, studiato e sono state valutate le modifiche da fare. È stato poi disegnato il nuovo componente per il raccordo al respiratore, che abbiamo chiamato valvola Charlotte, e che abbiamo stampato in breve tempo tramite stampa 3D. Il prototipo nel suo insieme è stato testato su un nostro collega direttamente all’Ospedale di Chiari, agganciandolo al corpo del respiratore, e si è dimostrato correttamente funzionante», spiega la società. A oggi già due maschere Charlotte sono impiegate nell’ospedale. Non solo, la maschera può essere collegata direttamente all’ossigeno tramite la presa a muro, rendendo non necessario il respiratore. «Non è sostitutiva del ventilatore polmonare», tiene a chiarire Fracassi, «ma può essere usata nei pronto soccorso, dove i pazienti rimangono anche tre giorni in attesa di un letto. Grazie a questa maschera, possono ora attendere un posto-letto rimanendo sotto ossigeno e senza inquinare l’ambiente». Altro punto fondamentale è che «chiunque potrà stamparla liberamente, a condizione che non sia utilizzato per fini commerciali». La valvola Charlotte è stata infatti brevettata «per evitare eventuali speculazioni sul prezzo del componente», ma tale brevetto «rimarrà ad uso libero perché è nostra intenzione che tutti gli ospedali in stato di necessità possano usufruirne. Abbiamo infatti deciso di condividere liberamente il file per la realizzazione del raccordo in stampa 3d», fa sapere Fracassi. Che chiarisce: «La nostra iniziativa è totalmente priva di scopo di lucro, non percepiremo diritti sull’idea del raccordo, né sulla vendita delle maschere Decathlon». A differenza della valvola dei respiratori, si tratta di un raccordo relativamente facile da realizzare, quindi è possibile per tutti provare a stamparlo. «Le strutture sanitarie in difficoltà potranno acquistare la maschera Decathlon e accordarsi con stampatori 3d che realizzino il pezzo e possano fornirlo», aggiunge. Tuttavia una cosa deve essere chiara: «L’idea si rivolge a strutture sanitarie e vuole aiutare a realizzare una maschera d’emergenza nel caso di una conclamata situazione di difficoltà nel reperimento di fornitura sanitaria ufficiale, solitamente impiegata. Né la maschera né il raccordo valvolare sono certificati e il loro impiego è subordinato a una situazione di cogente necessità», fa sapere Isinnova. Tanto che il suo utilizzo è subordinato all’accettazione dell’utilizzo di un dispositivo biomedicale non certificato da parte del paziente, tramite dichiarazione firmata.

Un ventilatore per due pazienti, la scoperta italiana che raddoppia i posti in terapia intensiva. Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Soltanto 72 ore dall’ideazione alla realizzazione del prototipo, già testato e pronto per l’uso quotidiano, grazie ad un’azienda di Mirandola, la Intersurgical del distretto biomedicale modenese. È grazie al team guidato dal professore Marco Ranieri, direttore del reparto di Rianimazione e Anestesia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, che in Emilia Romagna si sta per fronteggiare l’emergenza Coronavirus con respiratori capaci di collegarsi a due persone invece una una sola, raddoppiando di fatto i posti in terapia intensiva. Per Sergio Venturi, commissario per l’emergenza in Emilia Romagna, è “come moltiplicare i pani e i pesci”. “Hanno costruito il primo prototipo, che è già al Sant’Orsola di Bologna: l’hanno testato e funziona. Nei prossimi giorni saremo in grado di ordinarli e naturalmente andranno per primi a Piacenza e Parma, che sono i territori più in difficoltà”. Per Venturi, “si tratta di una notizia formidabile che ci riempie di orgoglio: molti, anche chi ci guardava con scetticismo, ci riconoscerà quello che siamo stati capaci di fare”. Una scoperta eccezionale che potrà essere distribuita anche nel resto degli ospedali d’Italia, soprattutto in Lombardia, dove la situazione è ormai allo stremo. Sul respiratore ‘doppio’ è intervenuto anche il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, entusiasta per la novità arrivata grazie al team di Ranieri: ““72 ore per realizzare un circuito innovativo che permette di utilizzare un ventilatore polmonare per più pazienti contemporaneamente. Uno strumento messo a punto da un’azienda di Mirandola, nel distretto biomedicale modenese, che potrebbe rivelarsi fondamentale per moltiplicare i posti letto in terapia intensiva. E’ già stato testato all’ospedale Sant’Orsola di Bologna e funziona”.

Coronavirus, da un barese l'intuizione di due pazienti per ogni ventilatore. Il guizzo creativo è del professore barese Marco Ranieri e dei suoi collaboratori del Sant'Orsola di Bologna: collegare un ventilatore a due pazienti. Antonio V. Gelormini su Affari Italiani Venerdì, 20 marzo 2020. Ancora una volta il guizzo creativo pugliese dà vita a qualcosa che segna la svolta. Sembra la scoperta dell’acqua calda, ma ad avere l’intuizione di collegare un vetilatore polmonare a due o più pazienti - così da raddoppiare quantomeno gli interventi di terapia intensiva -.è venuta al prof. Marco Ranieri e ai suoi collaboratorid del Sant'Orsola di Bologna. A Bari sono in tanti a ricordare Marco Ranieri, giovane militante della Fgci con i genitori entrambi funzionari del PCI, prima di trasferirsi a Bologna. Il professor Marco Ranieri, ordinario dell’Università di Bologna, Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche, è stato il primo ad aver ideato insieme a dei colleghi lombardi un circuito in grado di consentire a un solo respiratore la fornitura di ossigeno ad almeno due pazienti, anziché uno solo. Circuito poi realizzato da un’azienda di Mirandola, distretto biomedicale modenese, la Intersurgical. “Una notizia che ci riempie di orgoglio - ha commentato il commissario per l’emergenza Coronavirus dell’Emilia Romagna Sergio Venturi - un’impresa di Mirandola, in sole 72 ore, ha fornito il primo prototipo che è già stato testato dall’ospedale Sant’Orsola di Bologna: funziona, e nei prossimi giorni saremo in grado di fare gli ordinativi, destinando la strumentazione alle province più colpite dal virus”. “Una collaborazione straordinaria tra clinici e industria - ha sottolineato Venturi - che metterà a disposizione del sistema sanitario un dispositivo preziosissimo in grado di raddoppiare i posti in terapia intensiva. Non solo, in questo modo daremo anche ad altri Paesi, che ci guardavano con scetticismo e che hanno avuto più tempo di noi per affrontare l’emergenza, un prodotto dell’ingegno della nostra comunità”.

Vito Marco Ranieri - Nato a Bari (20.7.1959) è Professore ordinario all'Università di Bologna dal 2018. E’ stato Ordinario di Anestesia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Anestesia e Rianimazione all' Università di Torino (dal 2001 al 2015) ed alla Sapienza Università di Roma (dal 2015 al 2018). In quegli anni ha diretto il dipartimento di Anestesia degli ospedali Molinette (Torino) e Umberto I (Roma). Svolge le sue ricerche nell'ambito della terapia intensiva. Gli interessi di ricerca sono rivolti in particolare al trattamento delle diverse forme di insufficienza respiratoria acuta. Attualmente coordina studi clinici randomizzati e controllati sull'efficacia della ventilazione meccanica e della circolazione extra-corporea, e sull'efficacia di interventi farmacologici per il trattamento della ARDS. Studia i meccanismi biologici del danno da ventilazione meccanica. Coordina progetti finanziati dalla Comunità Europea, AIFA, Ministero della Salute, MIUR. Autore di numerose pubblicazioni; H index 83 (TIS). E' stato presidente della European Society of Intensive Care Medicine (2006-2008)

Coronavirus, ecco il barese che ha inventato il «ventilatore per due»: caso da Medicina di guerra. Il prof. Marco Ranieri, 61 anni, opera alla Rianimazione dell'ospedale S. Orsola di Bologna. Daniele Amoruso il 22 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Le emergenze richiedono reazioni immediate. L’idea di collegare un respiratore ad un circuito multiplo di ventilazione è nata dalla disperazione, ma è stata l’intuizione che ha reso subito meno disperato lo sforzo di una équipe allo stremo da settimane, nel padiglione 23 dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove si ricoverano i casi più gravi tra i 148 in insufficienza respiratoria da COVID-19 del capoluogo emiliano. Un ventilatore per due pazienti. La scoperta italiana che raddoppia i posti in terapia intensiva ha fatto subito il giro del mondo, anche perché a idearla è stato Marco Ranieri, 61 anni di Bari, uno dei più autorevoli esperti di ventilazione assistita, noto in tutto il mondo scientifico per le sue pubblicazioni.

«È una soluzione da medicina di guerra - dice subito il prof. Ranieri -. Solo il fatto di averci pensato vuol dire che siamo al limite della tenuta.»

Ranieri, insieme al suo collega dell’Università di Milano, il prof. Antonio Pesenti, ha creato una task force operativa che dall’inizio dell’emergenza coronavirus ha stabilito uno stretto collegamento tra le due regioni, Emilia Romagna e Lombardia.

«Insieme in questi giorni abbiamo studiato la particolare ARDS (la sindrome da distress respiratorio acuto) che provoca la più grave criticità nei malati COVID-19. Per cercare nuove soluzioni abbiamo iniziato a rivedere la letteratura mondiale e a condividere le nostre riflessioni con molti colleghi all’estero.»

È stato tra lunedì e martedì scorso, nel momento in cui la Lombardia ha iniziato a vivere la sua crisi più drammatica per l’assoluta mancanza di respiratori, che Marco Ranieri, Professore Ordinario di Anestesia e Rianimazione dell’Università di Bologna (dopo aver ricoperto lo stesso incarico prima a Torino poi alla Sapienza di Roma), ha avuto l’intuizione che ora permette di intravedere un soluzione possibile per tamponare la crisi.

«Avevamo lavorato tutta la notte, cercando all’estero cosa era stato fatto, consultando altri colleghi. Eravamo disperati e avevamo bisogno di trovare una soluzione in tempi rapidi.»

Così è nata l’idea di realizzare un doppio circuito, capace di portare nella prima fase il flusso di ossigeno da una sola macchina a due pazienti diversi e poi, nella seconda fase, di riportare il flusso di gas espiratorio dai polmoni dei malati al respiratore, per essere depurato e ossigenato nuovamente.

«Mi sono rivolto ad un’azienda di Mirandola, vicino Bologna, la Intersurgical, e in 48 ore il prototipo era da noi, pronto per essere testato. Hanno dato il massimo, come stanno facendo tutti, del resto, in queste ore.» Da quel momento i pazienti che possono essere accoppiati, iniziano a respirare insieme, uno accanto all’altro, sincronicamente.

«Sì, i due malati iniziano a respirare con la stessa modalità di respirazione. Si imposta sul respiratore la frequenza e la pressione di gas, per esempio 20 cm di acqua, la ventilazione diventa sincrona e da quel momento viene attentamente monitorata.»

Solo al Sant’Orsola entreranno in funzione circa 100 dispositivi. A Piacenza e Parma hanno iniziato subito a usarli. In Lombardia potrebbero alleviare la crisi più difficile. Si diffonderanno rapidamente, Marco Ranieri non intende brevettare “i ventilatori per due”, nati dal pragmatismo che è nel carattere dei pugliesi, abituati a trovare soluzioni innovative per risolvere situazioni difficili.

«Sì, mi riconosco pienamente, è un pragmatismo che unisce molto i baresi e i milanesi. L’ho ripetuto in questi giorni al mio amico Antonio Pesenti. Se un barese e un milanese si mettono a lavorare insieme, riescono sempre a realizzare progetti interessanti e concreti.»

Buon lavoro, Professore!

Coronavirus, l'Oms: "Se temete di essere contagiati non prendete l'ibuprofene". Libero Quotidiano il 17 marzo 2020. Se avete il dubbio di essere stati contagiati dal coronavirus non dovete prendere farmaci a base di ibuprofene (per intenderci, Nurofen, Cibalgina, Moment e Antalgil fra quelli più comuni) senza prima aver consultato un medico. Lo ha detto l'Organizzazione mondiale della sanità. Il portavoce dell'Oms Christian Lindmeier ha dichiarato in conferenza stampa a Ginevra, che non ci sono studi recenti che collegano il farmaco antinfiammatorio con un aumento dei tassi di mortalità, ma ha aggiunto che gli esperti stanno indagando per far luce sulla questione. "Raccomandiamo il paracetamolo, non l'ibuprofene, per l'automedicazione", ha detto Lindmeier. L'indicazione dell'agenzia delle Nazioni Unite è arrivata dopo che importanti funzionari sanitari francesi avevano messo in guardia dall'uso di farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) per Covid-19. Un recente articolo su The Lancet, infatti, aveva avanzato l'ipotesi che alcuni farmaci, incluso l'ibuprofene, possano rappresentare un rischio per i pazienti con Covid-19 che soffrono anche di ipertensione o diabete.

Emanuela Fontana per “il Giornale” il 18 marzo 2020. L' allarme viene lanciato dall' Organizzazione mondiale della sanità. Chi sospetta un contagio da Coronavirus non deve assumere ibuprofene, uno dei più diffusi antinfiammatori. Dietro questa raccomandazione ufficiale, espressa dal portavoce dell' Oms Christian Lindmeier, ci sarebbero una serie di osservazioni avviate in più Stati sugli effetti degli antinfiammatori in pazienti affetti da Covid-19 nella fase inziale della malattia. Per ora l' Oms avverte di non assumere ibuprofene senza aver prima consultato un medico. Dal quartier generale di Ginevra, Lindmeier ha chiarito: «Raccomandiamo il paracetamolo, non l' ibuprofene per l' automedicazione». Non esistono studi che possano collegare l' assunzione di anti-infiammatori con un aumento dei tassi di mortalità da Coronavirus, ma gli scienziati stanno lavorando per far luce sul ruolo di alcuni farmaci nella fase iniziale dell' infezione, un momento a detta degli esperti molto delicato, perché è il periodo in cui il corpo si «arma» per affrontare il virus. Un avvertimento ulteriore arriva dalla Francia, da cui sarebbero partite le prime avvisaglie. La raccomandazione ha carattere di assoluta ufficialità. Sul suo profilo Twitter, Il ministro della Salute, Olivier Veran, ha scritto che «l' assunzione di farmaci anti-infiammatori (ibuprofene, cortisone...) potrebbe essere un fattore aggravante dell' infezione. Se avete la febbre», ha avvisato il titolare della sanità del governo di Parigi, «prendete il paracetamolo. Se state già assumendo farmaci antinfiammatori o in caso di dubbio, chiedete consiglio al medico». Alla stessa conclusione è arrivata di recente la rivista scientifica Lancet, spingendosi a scrivere che «alcuni farmaci, incluso l'ibuprofene, possano rappresentare un rischio per i pazienti con Covid-19 che soffrono anche di ipertensione o diabete». Un avviso che nella giungla delle fake news sta acquistando sempre più consistenza. In Italia a una conclusione simile era arrivato nelle scorse ore un messaggio che girava via Whatsapp e attribuito a un medico di un ospedale milanese, messaggio poi smentito dall' ospedale e dal diretto interessato. Ma l' Oms ha ritenuto opportuno dare comunque una linea. Il senso della raccomandazione è soprattutto quello di attenersi alle prescrizioni del proprio medico curante. I medici di famiglia raccomandano per chi sospetta di essere infettato, o per chi vive il coronavirus da casa, paracetamolo come antipiretico per il controllo della temperatura, insieme a un' attenta auto-osservazione dei cambiamenti del proprio corpo: tosse, respiro corto. Il rischio fai-da-te deve assolutamente essere scongiurato. Intanto la corsa al vaccino, dopo gli annunci dagli Stati Uniti della prima sperimentazione su uomo (la prima una donna di 43 anni), prosegue con un' accelerazione europea. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha detto in un messaggio via social di sperare «che potremo avere un vaccino sul mercato forse prima dell' autunno. Ieri ho parlato con il management di una società di ricerca innovativa di Tubinga. Lavorano su una tecnologia promettente per sviluppare un vaccino. L'Ue fornisce loro fino a 80 mln di euro. Questo potrebbe salvare vite in Europa e anche nel resto del mondo». Per quanto riguarda una delle ricerche più avanzate su un vaccino italiano, quello della Takis, azienda di Castel Romano, la sperimentazione sull' uomo «potrebbe partire in autunno». Intanto l' Aifa, l' agenzia del farmaco, ha annunciato una novità importante: partirà finalmente «giovedì prossimo» su 330 pazienti affetti da Covid-19 «un ampio studio di fase 2 per valutare efficacia e sicurezza» del farmaco anti-artrite reumatoide Tocilizumab, un antinfiammatorio già somministrato con buoni risultati in alcuni ospedali italiani.

«Coronavirus, non c’è alcuna prova che ibuprofene peggiori Covid-19». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Non ci sono prove scientifiche che dimostrino che l’ibuprofene, farmaco antinfiammatorio ampiamente utilizzato, possa aggravare gli effetti del coronavirus Sars-CoV-2. Nel dibattito partito dalla Francia è intervenuta — ultima in ordine di tempo — l’Agenzia europea per i medicinali (Ema): «All’inizio del trattamento della febbre o del dolore dovuti a Covid-19 i pazienti e gli operatori sanitari devono considerare tutte le opzioni di trattamento disponibili, incluso il paracetamolo e i Fans (farmaci antinfiammatori non steroidei). Ogni medicinale ha i suoi benefici e i suoi rischi, come descritto nelle informazioni del prodotto, che devono essere presi in considerazione insieme alle Linee guida europee, molte delle quali raccomandano il paracetamolo come opzione di primo trattamento nella febbre e nel dolore». Dunque, in accordo con le linee guida nazionali di trattamento, i pazienti e gli operatori sanitari possono continuare a utilizzare i Fans (come l’ibuprofene): le raccomandazioni attuali prevedono che questi medicinali vengano utilizzati alla dose minima efficace per il periodo più breve possibile. «In ogni caso — conclude l’Ema —, attualmente non ci sono ragioni per interrompere il trattamento con ibuprofene. Ciò è particolarmente importante per i pazienti che assumono ibuprofene o altri Fans per malattie croniche». L’Ema comunque sta monitorando la situazione ed esaminerà tutte le nuove informazioni che saranno disponibili sull’argomento. «A maggio 2019 — ricorda l’Agenzia — il nostro Comitato per la sicurezza ha iniziato una revisione dei farmaci antinfiammatori non steroidei ibuprofene e ketoprofene, a seguito di un’indagine dell’Agenzia nazionale francese per la sicurezza dei medicinali che suggeriva come l’infezione dovuta alla varicella e alcune infezioni batteriche possano essere aggravate da questi prodotti. Nei foglietti illustrativi di molti Fans sono presenti avvertenze che gli effetti degli antinfiammatori non steroidei possono mascherare i sintomi di un peggioramento dell’infezione. Il comitato sta rivedendo tutti i dati disponibili per verificare se siano necessarie misure aggiuntive». Era stato il ministro francese della Salute, Olivier Véran, a scatenare il dubbio con una dichiarazione pubblicata su Twitter e diventata presto virale. Prendere farmaci anti-infiammatori, come quelli a base di ibuprofene o di cortisone — ha scritto Véran — «potrebbe essere un fattore aggravante dell’infezione. In caso di febbre, prendete del paracetamolo. Se siete già sotto anti-infiammatori o in caso di dubbio, chiedete consiglio al vostro medico». Uno studio pubblicato recentemente su Lancet ha ipotizzato che alcuni farmaci, incluso l’ibuprofene, possano rappresentare un rischio per i pazienti con Covid-19 che soffrono anche di ipertensione o diabete. Come spesso accade per le informazioni affidate ai social, se ne è perso il controllo. Girano in Rete messaggi secondo cui farmaci usati da migliaia di persone, come gli antinfiammatori e gli antipertensivi, accelererebbero e aggraverebbero il quadro clinico dei malati. Informazioni su cui sono intervenute con posizioni ufficiali l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e l’Organizzazione mondiale della sanità. Sui farmaci antipertensivi ACE inibitori e sartani e il loro presunto effetto sulla trasmissione ed evoluzione del Covid-19, è intervenuta l’Aifa, dopo la posizione espressa dalla Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa, Società Italiana di Medicina Generale e delle cure Primari, Società europea di Cardiologia e dalla Società Italiana di Farmacologia. In una nota ufficiale ha spiegato che ad oggi non esistono prove scientifiche, basate su studi clinici o epidemiologici, sul presunto effetto di questi farmaci in Covid-19. Al momento si tratta «solo di ipotesi molecolari verificate con studi in vitro». Pertanto, in base alle conoscenze attuali, «si raccomanda di non modificare la terapia in atto con antipertensivi nei pazienti ipertesi ben controllati, in quanto esporre pazienti fragili a potenziali nuovi effetti collaterali o a un aumento di rischio di eventi avversi cardiovascolari non appare giustificato». Per lo stesso motivo, rispetto all’ipotesi di utilizzare farmaci ACE-inibitori e sartani anche in persone sane a fini profilattici, «è opportuno ricordare - continua l’Aifa - che tali farmaci vanno utilizzati esclusivamente per il trattamento delle patologie per cui c’è un’indicazione approvata e descritta nel foglietto illustrativo». Per quanto riguarda gli antinfiammatori (ibuprofene o aspirina), che favorirebbero le forme gravi della malattia, un messaggio circolante sui social è stato attribuito a Walter Pascale, medico dell’Istituto ortopedico Galeazzi di Milano, che però ha smentito e provveduto a denunciare all’autorità competente l’accaduto. Per prudenza l’Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato a chi riscontra sintomi che fanno sospettare il contagio da Covid-19 di non assumere l’ibuprofene di propria iniziativa, ma solo se prescritto dal medico. Il portavoce dell’Oms Christian Lindmeier ha sottolineato che gli esperti «stanno effettuando approfondimenti a riguardo per dare indicazioni più precise. Raccomandiamo il paracetamolo, non l’ibuprofene, per l’automedicazione». In un articolo pubblicato sul British Medical Journal, si riporta l’opinione di Ian Jones, professore di Virologia all’Università inglese di Reading, secondo cui le proprietà antinfiammatorie dell’ibuprofene potrebbero indebolire il sistema immunitario, rallentando il processo di recupero. Secondo Jones, date le somiglianze tra il nuovo virus Sars-CoV-2 e Sars, è possibile che Covid-19 riduca un enzima chiave che parte regola la concentrazione di acqua e sale nel sangue e possa favorire lo sviluppo di polmonite nei casi più gravi. «L’ibuprofene può aggravare questo processo, mentre il paracetamolo no», ha concluso il virologo.

Virus, trovata la molecola che ne blocca il "motore". I ricercatori tedeschi hanno individuato la molecola in grado di inibire la proteina che permette la replicazione del virus. In laboratorio si lavora per creare farmaci efficaci. Ma ci vorrà tempo. Francesca Bernasconi, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Si chiama 13b, la nuova arma che potrebbe essere usata per la produzione di farmaci efficaci contro il nuovo coronavirus. Si tratta di una molecola, individuata da un gruppo di ricercatori tedeschi, in grado di inibire il "motore" del Covid-19, quello che ne consente la replicazione. La scoperta di questa molecola è stata possibile grazie all'analisi in 3D della struttura dell'enzima usato dal virus per replicarsi nelle cellule umane, chiamato proteasi. Grazie al modello "a cristallo" del Covid-19, messo a punto dagli scienziati dell'Helmholtz-Zentrum Berlin für Materialien und Energie e dell'University of Lübeck , si è potuto analizzare la proteasi in tre dimensioni. La vista in 3D della proteina, infatti, ha permesso agli scienziati di individuare i punti deboli del virus, per capire quali bersagliare, per sconfiggerlo. Per il momento, come riferisce l'Ansa, la molecola 13b è stata testata in provetta sulle cellule di polmone umano, infettate dal coronavirus. La molecola è entrata subito in azione. La sperimentazione è stata avviata anche sui topi, dimostrando di non essere tossica e di poter essere somministrata per via inalatoria. Ora, il gruppo di ricercatori è al lavoro per cercare di trasformare la molecola che blocca il "motore" del virus in un farmaco. Ma, prima che diventi disponibile, potrebbero volerci degli anni. Ma, grazie alla nuova scoperta e grazie all'analisi in 3D della struttura del virus, sarà possibile progettare dei nuovi farmaci, individuando i punti deboli del Covid-19. Per ricavare le immagini della struttura virale, i ricercatori hanno usato i raggi X ad alta intensità della struttura di Berlino, messo a disposizione per contribuire alla sconfitta del Covid-19. Nuove speranze arrivano anche da altri farmaci. Il presidente americano, Donald Trump insiste sull'uso dell'idrossiclorochina, un antimalarico, mentre le autorità cinesi hanno riferito di un farmaco usato in Giappone per curare l'influenza, il favipiravir. In Italia, l'agenzia del farmaco sta procedendo con un rapido processo di approvazione per i medicinali usati "off label" negli ospedali: si tratta di farmaci a base di remdevisir e tocilizumab. Allo Spallanzani, invece, sono stati usati due farmaci antivirali, il lopinavir/ritonavir e il remdesivir, per curare i due coniugi cinesi.

"Coronavirus come un cristallo", gli scienziati studiano un nuovo inibitore. Il coronavirus (in giallo) tra le cellule umane. L'analisi 3D della proteasi apre una nuova strada per inibire la riproduzione del virus. In uno studio tedesco la molecola  “13b” è indicata come una possibile arma in grado di bloccare Sars-CoV-2. La Repubblica il 20 Marzo 2020. Il coronavirus visto come un cristallo è ciò che gli studiosi hanno ottenuto attraverso la riproduzione dettagliata in 3D di una parte essenziale del nuovo coronavirus, la proteasi responsabile della sua replicazione. L'analisi dell'architettura 3D di questa proteina, descritta su Science e ottenuta grazie a tecnologie all'avanguardia, consentirà, secondo gli autori, lo sviluppo sistematico di farmaci che inibiscono la riproduzione del virus. Lo studio è stato pubblicato senza embargo, come accade per tutti i lavori che possono dare un contributo alla lotta contro Covid-19, ed è firmato dai ricercatori dell'Helmholtz-Zentrum Berlin für Materialien und Energie e dell'Università di Lubecca. L'analisi strutturale delle proteine viste nell'architettura 3D può contribuire in modo decisivo a identificare specifici punti di attacco per i farmaci. In particolare, il team tedesco guidato dal virologo di fama mondiale Rolf Hilgenfeld dell'ateneo di Lubecca, ha decodificato l'architettura della principale proteasi virale (Mpro o anche 3CLpro) di Sars-CoV-2. I ricercatori hanno utilizzato la luce a raggi X ad alta intensità della struttura BessY II dell'Helmholtz-Zentrum di Berlino.  E' così che gli scienziati pensano di aver individuato in '13b' una possibile arma in grado di bloccare Sars-CoV-2. Si tratta di una molecola che lega e inibisce l'enzima proteasi usato dal virus per replicarsi nelle cellule infettate. Questo è considerato il bersaglio principale per colpire il virus e la sua struttura 3D, finalmente svelata grazie ai raggi X del sincrotrone Bessy di Berlino, che aiuterà a sviluppare nuovi farmaci.

Da lastampa.it il 27 marzo 2020. Autorizzati in Italia i farmaci antimalarici a base di clorochina e idrossiclorochina: sono a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale per il trattamento dei pazienti affetti da infezione da Sars-CoV2. Si legge nella Gazzetta Ufficiale. Autorizzate inoltre per lo stesso uso le combinazioni dei farmaci anti-Aids lopinavir/ritonavir, danuravir/cobicistat, darunavir, ritonavir, anche queste a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale.

Coronavirus, Aifa autorizza tre nuove sperimentazioni su farmaci. Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato tre nuove sperimentazioni cliniche su farmaci per il trattamento della malattia Covid-19. Saranno dello studio due farmaci biologici, emapalumab e anakinra, per testarne su 54 pazienti la capacità di ridurre il distress respiratorio causato dal cosiddetto coronavirus. Autorizzati due studi anche con i farmaci anti-artrite sarilumab e tocilizumab, quest’ultimo già utilizzato a Napoli. Una nota introduce alle sperimentazioni. Quella su emapalumab e anakinra: “Lo studio Sobi.IMMUNO-101 è uno studio di Fase 2/3, randomizzato, in aperto, a 3 gruppi paralleli, multicentrico per valutare l’efficacia e la sicurezza di somministrazioni endovenose di emapalumab, un anticorpo monoclonale anti-interferone gamma, e di anakinra, un antagonista del recettore per la interleuchina-1(IL-1), a confronto con terapia standard, nel ridurre l’iper-infiammazione e il distress respiratorio in pazienti con infezione da SARS-CoV-2”. La sperimentazione, si legge nella stessa nota, sul sarilumab “è uno studio di Fase 2/3, randomizzato, in doppio-cieco, controllato rispetto a placebo, per valutare l’efficacia e la sicurezza di somministrazioni endovenose di sarilumab, un antagonista del recettore per la interleuchina-6 (IL-6), autorizzato in Italia per il trattamento dell’artrite reumatoide”. E infine “lo studio RCT-TCZ-COVID-19 è uno studio indipendente italiano coordinato dall’Azienda unità sanitaria locale-Irccs di Reggio Emilia. Si tratta di uno studio randomizzato di fase 2 in aperto a due braccia in cui, in pazienti con polmonite da Covid-19, viene confrontata la somministrazione precoce del tocilizumab (un inibitore dell’interleuchina IL-6) verso la somministrazione del tocilizumab all’aggravamento”. A oggi, le terapie indicate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come più indicate per combattere il virus sono quelle che si riferiscono alla combinazione di farmaci anti-Aids Lopinavir/Ritonavir (prescrivibili ora anche dai medici di famiglia per la cura dei malati a domicilio) e del farmaco antivirale Remdesivir, sviluppato per combattere l’epidemia di Ebola. Mentre si moltiplicano, in tutto il mondo, sforzi per trovare un vaccino, si cercano comunque strumenti terapeutici immediati che possano contrastare la pandemia. E si parte da farmaci già esistenti. Come, per l’appunto, i medicinali anti-Aids e anti-malaria, da oggi a carico del Servizio sanitario Nazionale. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale autorizza infatti all’uso di farmaci anti-malarici come clorochina e idrossiclorochina e alle combinazioni di quelli anti-Aids come lopinavir/ritonavir, danuravir/cobicistat, darunavir, ritonavir. In Cina si lavora sul plasma dei pazienti guariti per clonare gli anticorpi dei convalescenti e sviluppare una cura e un vaccino. Tale approccio è stato già adottato tra Toscana LifeSciences e l’Ospedale Spallanzani di Roma, il maggiore centro per le malattie infettive d’Italia.

Coronavirus: c'è il primo farmaco testato clinicamente. Piccole Note il 18 marzo 2020 su Il Giornale.

Si chiama Favipiravir il primo farmaco effettivo contro il coronavirus. Non che non ve ne siano altri, ché tanti sono stati sperimentati con alterna efficacia. Ma il Favipiravir è il primo farmaco che ha superato tutti i test clinici, con risultati positivi e senza alcuna controindicazione, dato che in Giappone si usa dal 2014 per altro. A produrlo su scala industriale sarà la Cina, dove ha avuto luogo la sperimentazione e che lo ha inserito nel protocolli ufficiali. A dare la notizia è il China Daily, che dettaglia come la ricerca si è sviluppata all’ospedale di Shenzen, che ha monitorato 80 pazienti. Di questo gruppo, 35 hanno ricevuto il farmaco. Le “condizioni polmonari del 91,43% del gruppo trattato con tale farmaco sono migliorate come mostrato nell’imaging toracico, rispetto al 62,22 percento del gruppo di controllo”, ha spiegato Zhang Xinmin, capo del Centro nazionale cinese per lo sviluppo delle biotecnologie. Altri studi sono stati effettuati in un ‘ospedale di Zhongnan dell’Università di Wuhan, “i risultati hanno mostrato che il gruppo trattato aveva un tasso di recupero più elevato a fine del trattamento e impiegava meno tempo per ridurre la febbre e alleviare la tosse”. La battaglia è ancora lunga, e sarà combattuta su più fronti. Tre sostanzialmente le direttrici di ricerca che si stanno sviluppando in tutto il mondo, tutte importanti. Anzitutto rendere più facili e veloci e test diagnostici, che aiuterebbe non poco sia a contenere l’epidemia che a trattare più velocemente i pazienti e, peraltro, libererebbe personale medico, risorsa primaria in questa crisi. La seconda direttrice riguarda appunto la ricerca di farmaci più efficaci per contrastare la malattia, da qui l’importanza della ricerca cinese che si affianca a tante altre sperimentazioni, sul campo e non. Infine, e più importante, la ricerca di un vaccino, l’unica arma di distruzione di massa in grado di chiudere questa orribile parentesi. Una corsa contro il tempo che sta avanzando su più fronti. I cinesi stanno sviluppando nove diversi vaccini, che dovrebbero entrare nella fase clinica ad aprile, ma il presidente cinese Xi jinping ha chiesto di accelerare al massimo i tempi (South china morning post). Si è poi saputo dell’esistenza di un vaccino in realizzazione presso una ditta tedesca grazie alla proposta indecente di Trump, che avrebbe offerto un miliardo di dollari per l’esclusiva mondiale, con offerta respinta al mittente. Evidentemente c’è qualcosa di reale se si è mosso il presidente degli Stati Uniti, che può avvalersi  di un servizio di intelligence alquanto efficace, sicuramente allertato su una questione tanto cruciale. Dopo il nein di Berlino, gli Usa si sono messi a lavorare in proprio e ieri, evidentemente saltando qualche passaggio formale, hanno iniziato la sperimentazione sull’uomo, a Seattle. Altri si stanno muovendo in tal senso, non ultima l’Italia. I tempi son lunghi, un anno dicono esperti, ma potrebbero essere abbreviati dal fatto che si tratta di una corsa anomala: per il vaccino anti-coronavirus saranno impiegate risorse economiche, scientifiche e umane come mai successo prima per analoghe ricerche. I tempi potrebbero essere abbreviati se vi fosse una effettiva collaborazione internazionale, auspicabile dato che il nemico è comune. Ma l’offerta indecente di Trump, o chi per lui, ci ha mostrato che i tedeschi stavano già lavorando nel segreto e che l’America voleva utilizzare quegli studi in maniera alquanto egoistica. Peraltro tale vicenda non può non far nascere un retro-pensiero cattivello, che cioè a qualcuno sia venuto in mente di usare il vaccino come arma di influenza geopolitica, offrendolo a quanti l’accoglieranno con la giusta deferenza per l’offerente. A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, diceva Giulio Andreotti che l’America la conosceva bene. Già, perché quanto sta avvenendo lascia intuire che chi primo arriverà al vaccino, con i Paesi al collasso, tale la prospettiva attuale, avrà in mano una vera e propria arma di distruzione di massa, spendibile sul piano geopolitico in vari modi. Si spera che tale follia sia evitata al mondo.

Virus, l'ospedale di Bergamo testa farmaco su pazienti gravi. Avviata la sperimentazione su anticorpo monoclonale siltuximab: l'azienda farmaceutica Eusa Pharma, insieme alla struttura ospedaliera della città lombarda particolarmente colpita dal contagio, dovrebbe fornire i primi dati in pochi giorni. Lavinia Greci, Venerdì 20/03/2020 Il Giornale. Potrebbe rivelarsi efficace nei malati affetti da coronavirus e, per questo motivo, Eusa Pharma, azienda biofarmaceutica globale specializzata in oncologia e malattie rare, ha annunciato con l'ospedale papa Giovanni XXIII di Bergamo, l'avvio di una nuova sperimentazione su un farmaco già approvato in Italia per altre indicazioni, utile nel trattamento del Covid-19. Secondo quanto riportato da Adnkronos, si tratterebbe di uno studio con l'anticorpo monoclonale Siltuximab in pazienti affetti dalla nuova malattia, che hanno sviluppato gravi complicanze respiratorie.

L'anticorpo monoclonale. L'anticorpo monoclonale, mirato all'interleuchina-6 (IL-6), è già autorizzato negli Stati Uniti e in Unione europea per il trattamento della malattia di Castleman multicentrica idiopatica (iMcd), un disordine linfoproliferativo raro. L'azienda dedicata a servizi specializzati per l'industria farmaceutuica Ergomed plc fornisce i servizi di ricerca clinica per il trial denominato "Sisco". Sponsorizzato dall'ospedale della città lombarda, come spiegato in una nota congiunta di Asst ed Eusa Pharma, si tratta di uno studio osservazionale caso-controllo che consiste nella raccolta e nell'analisi dei dati di una serie di pazienti trattati secondo un protocollo di uso compassionevole in emergenza continua.

Come funziona "Sisco". Come riportato dal quotidiano, il trial avrà il compito di indagare due coorti in maniera retrospettica, cioè i pazienti ospedalizzati prima del trasferimento in un'unità di terapia intensiva (Uti), e pazienti già con necessità di terapia intensiva e le confronterà con i controlli abbinati. Gli "endpoint" primari sono la riduzione della necessità di ventilazione invasiva, la durata del ricovero in Uti o la mortalità a 30 giorni.

Perché è importante. Come ricordato dall'ospedale papa Giovanni XXIII ed Eura, emergenti evidenze suggeriscono che l'esacerbazione della produzione della citochina infiammatoria IL-6 si associa con la gravità della patologia polmonare Covid19, correlata associata alla sindrome da distress respiratorio acuto (Ards). Pertanto, quindi, un'azione mirata direttamente su questa citochina potrebbe migliorare gli esiti clinici in questi pazienti con malattia allo stadio critico.

La sperimentazione. La sperimentazione punterebbe a fornire "dati importanti per informare studi clinici futuri, dei quali si sta discutendo, per indagare ulteriormente l'efficacia di siltuximab in pazienti con Covid-19, che sviluppano gravi complicazioni respiratorie". In base alle prime ricostruzioni, i dati inziali sono attesi per la fine di marzo. Alessandro Rambaldi, direttore dell'unità di Ematologia e del dipartimento di oncoematologia, ha ringraziato la casa farmaceutica "per la fornitura di siltuximab per uso compassionevole in pazienti con gravi complicazioni da Covid-19 e per l'opportunità di produrre dati per comprendere il potenziale del blocco dell'IL-6 in questi pazienti".

L'importanza dello studio. Sempre secondo quanto riportato dal medico, "lo studio 'Sisco' ci consentirà di produrre dati credibili come evidenza per guidare future decisioni di trattamento e ricerca e siamo impazienti di pubblicare questi dati il più velocemente possibile". E aggiunge: "L'ospedale è in una situazione molto difficile di emergenza e la rapida raccolta e analisi dei dati, attraverso la modalità dello studio caso-controllo procurerà molte informazioni necessarie per contribuire ad affrontare questa situazione critica e guidare in maniera approppriata l'uso dei farmaci in una situazione off-label".

Il messaggio della casa farmaceutica. "Siamo felici di supportare questo studio per indagare il potenziale di siltuximab nell'aiutare pazienti con malattia grave causata da Covid-19. Dopo la pubblicazione dei dati iniziali provenienti dalla Cina, che suggeriscono un ruolo dell'IL-6 nello sviluppo dell'Ards causata da Covid-19, Eusa Pharma è stata lieta di assistere l'ospedale papa Giovanni XXIII con la fornitura di siltuximab per uso compassionevole e supportare la raccolta, l'analisi e la pubblicazione dei dati raccoli", ha dichiarato Lee Morley, amministratore delegato dell'azienda farmaceutica. Che, infine, aggiunge: "Siamo desiderosi di continuare a lavorare con l'ospedale e anche con le autorità regolatorie italiane e di tutto il mondo e con altri enti di ricerca, per capire in modo completo il potenziale di siltuximab in questo momento critico di pandemia globale".

La speranza di cura viene dai farmaci usati per Hiv, Ebola (e anche artrite). Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Sono basati principalmente sull’esperienza cinese le cure per pazienti con Covid, la malattia da nuovo coronavirus. Sono stati i lavori pubblicati da ricercatori e medici di Wuhan, la prima città colpita dalla pandemia, a fungere da riferimento per i colleghi italiani che hanno poi declinato sui loro pazienti, raccomandati anche dall’Oms. Non esistono antivirali specifici contro il coronavirus Sars-CoV-2. Fin dall’inizio dei focolai verificatisi in Cina, i medici hanno fatto ricorso a molecole studiate e già in commercio per combattere infezioni di altro tipoma causate da gruppi di agenti patogeni cui appartiene anche il nuovo «nemico», i retrovirus. Si tratta di formulazioni anti-Hiv (il virus responsabile dell’Aids) a base di Ritonavir e Lopinavir, in combinazione con vecchie sostanze antimalaria, la clorochina e l’idrossiclorochina che hanno un’azione antinfiammatoria e infatti sono utilizzati anche per l’artrite reumatoide. Nella lista delle terapie, anche un antivirale in sperimentazione in Cina, Remdesivir, studiato dall’azienda Gilead per la Sars e poi Ebola e finora consegnato gratuitamente agli ospedali che ne hanno fatto richiesta secondo la procedura dell’uso compassionevole (previsto quando non esistono alternative e se il paziente è in gravi condizioni). Nicola Petrosillo, infettivologo dell’Istituto Spallanzani, ne ha esperienza diretta: «I risultati sembrano incoraggianti, peccato che almeno nel nostro ospedale abbiamo dovuto rinunciare al Remdesivir. Pur avendolo richiesto, l’azienda non lo consegna probabilmente per l’altissimo numero di domande». Una delle speranze terapeutiche è un farmaco nato per l’artrite reumatoide, malattia cronica caratterizzata da un’infiammazione che provoca dolore, rigidità muscolare e difficoltà di movimento. Ed è proprio l’infiammazione il comune denominatore di artrite e Covid. Nei casi di polmonite grave può infatti subentrare una «tempesta di citochine», sostanze che vengono prodotte in eccesso dall’organismo per difendersi dal virus e vanno ad infiammare i polmoni. Tra queste la più pericolosa è l’interleuchina 6, bersaglio di questo farmaco in commercio da diversi anni per l’artrite, prodotto da Roche. Disinnescare l’infezione polmonare significa evitare che il paziente vada in terapia intensiva. L’azienda farmaceutica sta consegnando, secondo il progetto «Roche si fa in 4», il farmaco agli ospedali che ne hanno bisogno e si accinge a partire con una sperimentazione di Tocilizumab il cui avvio è subordinato all’approvazione della speciale unità di crisi anti-Covid dell’agenzia italiana Aifa. Per lo pneumologo della Fondazione Gemelli Luca Richeldi, è un «enorme vantaggio poter contare su una molecola di cui conosciamo gli effetti collaterali». L’Università di Utrecht ha pubblicato sul sito BioRxiv una ricerca che dimostrerebbe la validità di un farmaco biologico, un anticorpo monoclonale, specializzato nell’aggredire il Sars-CoV-2, capace di riconoscere il recettore con cui il virus si aggancia alla cellula umana. Ma i tempi perché venga prodotto sono molto lunghi.

Amalia De Simone per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2020. Dall' ospedale Padova sud: «Due pazienti in sub intensiva hanno avuto miglioramenti già due ore dopo il trattamento». Da Potenza: «Paziente di 77 anni in rianimazione in miglioramento e paziente di 57 anni in malattie infettive P/F 325 dopo un' ora dal trattamento». Dall' ospedale di Cosenza: «Il primo paziente in rianimazione (molto grave) ha evidenziato una riduzione dei lattati e sta migliorando». Marco Palla legge ad alta voce e la mascherina che porta sul volto non attutisce la timida soddisfazione che prova. Lui è uno dei giovani ricercatori che lavora fianco a fianco con Paolo Ascierto, lo scienziato napoletano che ha avuto l' intuizione di sperimentare la terapia farmacologica con il tocilizumab (un farmaco per l' artrite reumatoide) nei pazienti affetti da Covid-19 dopo i primi utilizzi in Cina. Cifre, termini medici incomprensibili per chi non è del mestiere e una parola su tutte che accende la speranza: miglioramenti. Nella stanza numero 3 al quinto piano della palazzina «degenze» dell' Istituto R Pascale, si legge come un mantra la chat informale di coordinamento tra il team napoletano guidato da Ascierto e una trentina di altri centri in tutta Italia che stanno utilizzando il farmaco. «Bisogna fare rete - dice Ascierto, guardando uno a uno i suoi collaboratori -. In questo momento il network è fondamentale così come è importante la condivisione dei dati e delle esperienze concrete: per esempio capire cosa succede con i pazienti che vengono trattati con antivirali o che hanno delle comorbilità. Sono tutte informazioni utili. È ovvio che aspettiamo tutti la certezza della sperimentazione fatta con rigore scientifico e secondo i principi della good clinical practice, però in questo momento di emergenza bisogna anche avere un' idea di quello che accade sul campo». E il campo ora è piuttosto vasto poiché la casa farmaceutica ha distribuito gratuitamente più di mille trattamenti. «Ormai stiamo testando la cura in tutta Italia e ogni centro può farne richiesta. Perciò scambiarsi queste opinioni nell' attesa dei risultati della sperimentazione è importantissimo, così cominciamo a capire tempistiche e metodi di utilizzo. Anche il numero dei pazienti trattati sta diventando interessante perché almeno il 60 - 70% dei trattamenti distribuiti sono stati somministrati». Palla si occupa di coordinare le chat in relazione al Covid 19. «Ce ne sono due, una tutta napoletana dove è nata l' idea di sperimentare il farmaco, nell' altra invece siamo costantemente in interazione con gli altri centri che ci aggiornano sulla situazione dei loro pazienti». Le cifre provenienti da tutta Italia finiscono in un database gestito dal ricercatore Marcello Curvietto, che compila fogli excel mentre, coalizzato con gli altri, prende in giro Ascierto per la sua fede calcistica juventina, minacciando di strappare la maglia firmata da Ronaldo affissa su una delle pareti. «Abbiamo messo in piedi questo database subito dopo aver trattato i primi pazienti all' ospedale Cotugno: così riusciamo a costruire dei casi clinici e a monitorare le curve e i grafici di tutti i valori dei pazienti trattati con il tocilizumab». La donna del team è Claudia Troianiello ed è tornata in fretta e furia da Pittsburgh dove stava studiando proprio alcune applicazioni del tocilizumab. «Anche noi abbiamo una chat ma è molto meno formale e asettica di quelle mostrate finora - scherza - infatti si chiama "crick e croc" che sono i nomignoli che usa il dottor Ascierto per me e per una collega che in questo momento si trova a Udine, proprio su questa chat è nata l' idea di utilizzare il tocilizumab per il coronavirus». Nel frattempo fa capolino l' oncologo Antonio Grimaldi che in questo momento si sta occupando dei pazienti in reparto. «Loro restano la nostra priorità perché la ricerca è al loro servizio», dice Ascierto che sorride maneggiando un segnalibro con una frase di Einstein: «Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo».

La gioia di Gabriele: “Guarito dal Covid dopo 27 giorni grazie ad Ascierto e ai medici del Cotugno”. Redazione de Il Riformista il 28 Marzo 2020. Era risultato positivo al Coronavirus, con un ‘viaggio’ di 27 giorni nel reparto dell’ospedale Cotugno di Napoli, sottoposto alle cure dei medici e del personale sanitario. Dopo quasi un mese Gabriele ce l’ha fatta: è guarito. Lo ha reso noto lo stesso paziente, in un messaggio di ringraziamento ai “medici e infermieri del Cotugno” e in particolare “al grande professore Ascierto”, l’oncolo del Pascale di Napoli a capo della task force che per prima, assieme ad alcuni ricercatori cinesi, ha avviato le prime sperimentazioni sul Tocilizumab, il farmaco contro l’artrite reumatoide utilizzato per la prima volta a Napoli per combattere le infiammazioni polmonari più gravi provocate dall’infezione da Coronavirus. Un ringraziamento d’obbligo per chi, scrive Gabriele sui social, “si è occupato di me e non solo”. Nel post poi il ringraziamento a “tutti i miei amici, parenti e non, che non ci hanno mai lasciato soli. Ringrazio tutti voi – continua il paziente guarito dal Covid-19 – che con un messaggio o una chiamata mi avete dimostrato il vostro affetto e non mi avete fatto sentire mai solo”.

LA CURA ASCIERTO FUNZIONA ANCHE A CASERTA – Primi importanti risultati nella lotta al nuovo Coronavirus con la ‘Cura Ascierto’ arrivano anche dall’ospedale di Caserta. A spiegare i successi ottenuti è Paolo Maggi, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive dell’ospedale casertano: “Sono già guariti sei pazienti, di cui cinque dimessi e uno in divezzamento dall’ossigenoterapia. Abbiamo trattato otto pazienti con il nuovo farmaco Tocilizumab”. Nel Reparto di Rianimazione si è ottenuto inoltre uno dei pochi trattamenti erogati in Italia con il farmaco Remdesivir, con il tampone del paziente si è negativizzato ed è stato estubato. “Questi primi importanti risultati – spiega Carmine Mariano, Commissario Straordinario dell’ospedale – ci motivano a proseguire con sempre maggior impegno in un momento così difficile, senza troppi clamori, lontano dai riflettori, ma consapevoli di offrire una qualità assistenziale di valore”.

Coronavirus, la cura Ascierto funziona: “Erano gravissimi ma grazie al Tocilizumab sono salvi”. Redazione de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Sono stati estubati oggi due pazienti positivi al coronavirus e curati all’ospedale Cotugno di Napoli con il Tocilizumab, il farmaco anti-artrite che ha dato miglioramenti nel trattamento della polmonite che complica l’infezione da Covid 19. E’ quanto annuncia all’Ansa Vincenzo Montesarchio, infettivologo dell’ospedale Cotugno di Napoli. “Al primo era stato somministrato il farmaco il 7 marzo, al secondo il 10 marzo. Erano entrambi in rianimazione in prognosi riservata”. I due pazienti hanno rispettivamente 63 e 48 anni, e sono i primi a far registrare questo miglioramento tra quelli che a Napoli vengono trattati con il Tocilizumab. Attualmente sono in ventilazione assistita ma da qui a un paio di giorni, se mantengono il livello di respirazione attuale, potranno essere trasferiti in reparto. “E’ un’ottima notizia – commenta Montesarchio – erano in condizioni molto gravi, in rianimazione, intubati con una polmonite a evoluzione pessima e con prognosi riservata”. I due erano in pericolo di vita e invece hanno reagito molto bene al farmaco. Sono in tutto 20 i pazienti trattati al Cotugno di Napoli con il Tocilizumab: i due estubati oggi erano tra i primi su cui era iniziato il trattamento. “E’ una bellissima notizia, arrivata proprio nel giorno in cui è partita la sperimentazione, questo ci incoraggia”. Queste le parole Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale che insieme a Vincenzo Montesarchio del Cotugno ha iniziato l’impiego del Tocilizumab contro la polmonite da covid19. “Il fatto che due pazienti che erano in gravi condizioni siano stati estubati – spiega – e’ un segnale positivo e di speranza anche per gli altri pazienti che abbiamo trattato nei giorni successivi e continuiamo a monitorare. Siamo contenti, ma sempre nel cauto ottimismo, in attesa dei risultati della sperimentazione partita oggi”.

IL BOLLETTINO – Ad oggi in Campania il numero dei positivi è di 641 persone, 22 i decessi. Al Cotugno, al momento, sono ricoverate in via ordinaria 93 persone (85 delle quali positive al coronavirus) più altre 15 in terapia intensiva. PARTE SPERIMENTAZIONE FARMACO – E’ partita stamattina al Pascale la sperimentazione clinica del Tocilizumab, il farmaco finora usato nell’artrite reumatoide e che ha dato miglioramenti nel trattamento della polmonite che complica l’infezione da Covid 19. Una complicanza temuta che si spera possa essere resa meno grave grazie al farmaco, riducendo la letalità della malattia. Si lavorerà secondo il protocollo approvato in tempi record da AIFA e dal Comitato Etico in una sinergia tra ricercatori e istituzioni di tutta Italia, passando per l’Università di Modena e lo Spallanzani, forse, mai vista prima d’ora. Una sinergia tra diverse branche della medicina per affrontare l’emergenza, ognuno con il suo bagaglio di esperienza e capacità operativa. Il gruppo, coordinato dall’equipe di Franco Perrone, oncologo del Pascale come l’altro oncologo, Paolo Ascierto, il primo in Italia ad avere avuto l’intuizione di trattare il farmaco off label, si muoverà su una piattaforma informatica dove vengono raccolti i dati di tutti i pazienti degli ospedali italiani che verranno trattati con il farmaco. I centri si iscriveranno con una procedura di qualche minuto, via internet, e potranno registrare pazienti da trattare nelle prossime ore e giorni. Sempre tramite la piattaforma partiranno due volte al giorno gli ordini per il farmaco, che la casa farmaceutica Roche che lo produce, spedirà direttamente alle farmacie dei centri. Ci vorranno mediamente 24 ore per il trasporto. “La cosa bellissima – dice Francesco Perrone, direttore dell’Unità Sperimentazioni Cliniche del Pascale – è che in tempi record si è fatto un lavoro di altissima qualità metodologica. La Commissione Tecnico Scientifica di AIFA, compulsata dal direttore generale Nicola Magrini ancor prima che il decreto del Ministro le affidasse poteri specifici in materia di Covid, ha lavorato sodo sul protocollo; ha proposto che il gruppo di ricercatori napoletani collaborasse con il gruppo emiliano, guidato da Carlo Salvarani, con il quale ho stabilito un immediato eccellente rapporto personale. E poi il Comitato Etico dello Spallanzani che poche ore dopo essere stato indicato come quello che decide per tutta Italia era al lavoro e nella notte di ieri, dopo un intenso scambio di commenti e due importanti miglioramenti del protocollo stesso lo ha approvato. E poi i componenti del comitato indipendente di revisione, metodologi e clinici esperti, tra cui alcuni di quelli che in Lombardia stanno affrontando l’immane emergenza di questi giorni”. Un lavoro di equipe: i ricercatori del Pascale lavorano 14 ore al giorno compreso il sabato e la domenica. “Un gruppo di persone eccezionali – continua Perrone – per competenze e per spessore umano. Faccio un nome per tutti, Marilina Piccirillo, oncologa, formalmente la mia vice, senza la quale non avrei avuto il coraggio di affrontare questa sfida e le prossime che si presenteranno. Ma anche altri 6 collaboratori, alcuni dei quali erano precari fino a tre mesi fa. Persone che hanno anteposto il senso di appartenenza e la volontà di contribuire per quello che sanno e sappiamo fare ad affrontare questa terribile crisi”. Ci va cauto il direttore scientifico del Pascale, Gerardo Botti: “Quello che ora è importante è che il farmaco funzioni e che l’intuizione dell’equipe dei nostri ricercatori risulti valida anche alla prova di una sperimentazione prospettica importante per la condivisione con la comunità scientifica e per fare un passo avanti contro questa maledetta pandemia”. Il direttore generale del Pascale, Attilio Bianchi: “La sinergia è la chiave. Collaboriamo tutti, ciascuno nel suo ruolo e ciascuno consapevole che è un anello di una catena che, siamo fiduciosi, ci porterà lontano. Mai come in questo momento ha valore quello che sosteniamo da sempre, 1+1=3”.

Ricercatori israeliani: “Cura Ascierto appiattisce curva contagi, grandi speranze dal Tolicilzumab”. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. “Eravamo nel pieno dell’epidemia, i pronto soccorso pieni e i pazienti attaccati ai respiratori in pericolo di morte. Le loro condizioni sembravano non migliorare. Ero disperato. Ma negli ultimi giorni, le persone hanno iniziato a recuperare, in parte grazie ai nuovi farmaci“. A parlare è Carmi Sheffer, medico israeliano dell’ospedale universitario di Padova. In un’intervista al Times of Israel, il ricercatore racconta come l’Italia abbia affrontato l’epidemia di Coronavirus e come la cura testata per la prima volta a Napoli dal dottor Paolo Antonio Ascierto, con l’utilizzo del farmaco anti reumatoide, il tocilizumab, abbia iniziato a dare i suoi frutti.  “Penso che il peggio sia dietro di noi. Controlleremo il virus e appiattiremo la curva entro poche settimane, ma la chiusura del Paese continuerà fino a giugno”, ha ipotizzato Sheffer. Secondo il ricercatore, gli alti tassi di mortalità in Italia sono in qualche modo collegati alla lunga aspettativa di vita nel nostro Paese, all’elevata percentuale di anziani, ma anche alla diffusione del virus all’interno degli ospedali geriatrici. “Nel momento in cui il virus arriva in un luogo in cui è concentrata una popolazione anziana, si diffonde come un incendio“, ha detto il medico. Non appena l’emergenza sarà terminata a Padova e in Italia, il dottor Sheffer vorrebbe rientrare in Israele per mettere in pratica lì quanto ha imparato durante le ultime difficili settimane qui. “Mi sento come se stessi imparando di più sulle malattie respiratorie ora che durante tutti i 16 anni da quando ho iniziato a studiare medicina”, ha concluso. 

Burioni conferma: “La Cura Ascierto funziona, risultati Tocilizumab promettenti”. Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. “Buone notizie stanno arrivando anche dal campo dei farmaci. C’è un farmaco che viene utilizzato come antinfiammatorio in malattie come l’artite e che sembra essere efficace e i dati sono abbastanza promettenti”. Il virologo Roberto Burioni, nel fare il punto dell’epidemia di Coronavirus in Italia ospite di Che tempo che fa, la trasmissione di Rai2 condotta da Fabio Fazio, cita il lavoro del professore Paolo Ascierto. L’antinfiammatorio “utilizzato in malattie come l’artite” è infatti il Tocilizumab, usato nel trattamento sperimentale nato grazie alla task force guidata dal professore Ascierto. L’oncologo del Pascale di Napoli ha avviato le prime sperimentazioni col farmaco contro l’artrite reumatoide, utilizzato per la prima volta a Napoli, per combattere le infiammazioni polmonari più gravi provocate dall’infezione da Coronavirus. Burioni ha parlato anche di un secondo farmaco, che negli anni Cinquanta si usava per la malaria, il Plaquenil. Il virologo ha spiegato che “fu valutato nel 2005 come molto efficace per inibire la replicazione del coronavirus della Sars. La cosa passò nel dimenticatoio. Ora si è provato a usarlo clinicamente e a sperimentarlo. Ci sono diversi studi in atto, lo abbiamo fatto anche noi al San Raffaele”. Per il virologo inoltre i numeri del contagio “cominciano a essere meno negativi e in un’epidemia significa positivi. Stiamo raccogliendo i frutti del nostro comportamento, come prima raccoglievamo i frutti della nostra irresponsabilità. Dobbiamo perseverare con i nostri sacrifici. Non possiamo predire il futuro, ma sembra che le cose stiano rallentando”.

Dalla Cina maxi donazione all’Italia di Tocilizumab, l’introvabile farmaco della Cura Ascierto. Redazione de Il Riformista il 28 Marzo 2020. La Cina arriva in soccorso dell’Italia. Pechino ha infatti deciso di donare il tocilizumab, il farmaco per l’artrite reumatoide che, grazie al ‘protocollo Ascierto’, l’oncologo del Pascale di Napoli che per primo ha avuto l’intuizione di usare il farmaco per le complicanze della polmonite da Coronavirus, è attualmente oggetto di una sperimentazione coordinata dall’Aifa. Da alcuni giorni infatti la Roche, la casa farmaceutica produttrice del tocilizumab, ha comunicato ad alcune regioni che ne fanno uso per la somministrazione ai pazienti ricoverati di non avere più scorte. A fronte di una domanda di circa 4000 trattamenti, ne avrebbe a disposizione circa la metà. Un aiuto fondamentale è arrivato quindi dalla Cina, che stando alle comunicazioni ufficiali di Pechino ha praticamente arrestato il contagio. La Croce rossa italiana ha infatti ricevuto un’importante donazione dagli omologhi cinesi: 3045 fiale di Tocilizumab. Il farmaco è stato successivamente donato all’Aifa e alla Regione Lombardia. Le fiale sono state quindi ripartite sull’intero territorio nazionale, mentre la Croce Rossa ha costituito due punti di distribuzione alle farmacie regionali, uno presso il suo Nucleo di pronto intervento di Legnano e uno presso il suo Centro operativo nazionale emergenze di Roma. La stessa Croce Rossa ha poi consegnato il farmaco direttamente a Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Valle d’Aosta.

Emiliano: "Coronavirus, colpo di genio napoletano. Forse avrebbe potuto salvare vite al Nord". Redazione areanapoli.it il 16 marzo 2020. Il governatore della Regione Puglia ha elogiato la sperimentazioni dei medici napoletani in merito al Tolicizumab. L'epidemia di Coronavirus ha messo in ginocchio l'Italia, il popolo italiano è diviso tra paura, speranza e fiducia in vista di un futuro migliore. La fiducia arriva anche da Napoli dove alcuni medici napoletani stanno portando avanti con risultati incoraggianti la sperimentazione del Tolicizumab su alcuni malati di Covid-19 con polmoniti in stato avanzato. Alcuni pazienti hanno dato importanti segnali di miglioramento, oggi l'Aifa ha dato l'ok al protocollo della sperimentazione. Una sperimentazione che è stata elogiata anche da Michele Emiliano, a Rete 4, nel corso della trasmissione "Diritto e rovescio", condotta da Paolo Del Debbio. Il governatore della Regione Puglia ha parlato di "colpo di genio napoletano sul farmaco. Che forse avrebbe potuto salvare molte persone in Lombardia. Il colpo di genio napoletano è aver ampliato alcuni studi cinesi". Ricordiamo che la sperimentazione dei medici napoletani proseguirà con il sostegno anche dell'ospedale di Modena. 

Maddalena Guiotto per “la Verità” il 17 marzo 2020. Usato tempestivamente, il tocilizumab, farmaco immunoterapico indicato per la cura dell' artrite e degli effetti collaterali di alcuni trattamenti oncologici (Car-T), potrebbe evitare l' intubazione in terapia intensiva per Covid-19. A una settimana dai primi trattamenti all' ospedale dei Colli (Napoli), si accende la speranza di poter ridurre la percentuale - oggi intorno al 10% - di pazienti che finiscono in letti di rianimazione. La battaglia contro il coronavirus potrebbe quindi spostarsi nei reparti di terapia subintensiva dove, accanto ai caschi respiratori - ordinati a migliaia in Lombardia e Veneto - si potrebbe ottimizzare una cura farmacologica innovativa. Anche perché ci vorranno parecchi mesi per testare efficacia e sicurezza del primo farmaco specifico per il coronavirus di Wuhan, sviluppato in questi giorni dall' Università olandese di Utrecht per bloccare in modo specifico una proteina fondamentale del virus Sars-Cov2. Tocilizumab «è stato somministrato in sette pazienti intubati», spiega alla Verità Paolo Ascierto, oncologo dell' Istituto Pascale di Napoli. «Tre hanno avuto un miglioramento, di cui uno importante: la tac ha mostrato un' importante riduzione della polmonite e potrebbe essere presto estubato. Degli altri quattro, tre sono stabili, mentre purtroppo uno è morto dopo poche ore dalla somministrazione del farmaco per un peggioramento del distress respiratorio. Venerdì abbiamo trattato altri tre pazienti non intubati. Erano in reparto con condizioni respiratorie critiche. Due di questi, sabato hanno avuto miglioramenti importanti: uno ha anche tolto l' ossigeno, l'altro è stazionario e ripete il trattamento».

Quanti sono i pazienti trattati?

«Attualmente ne risultano 600. L' azienda produttrice (Roche, rdr) sta fornendo il farmaco gratuitamente per questo impiego, è distribuito praticamente su tutto il territorio nazionale».

Ha già dei dati dagli altri centri?

«Tra i dati molto interessanti ci sono quelli di Fano-Pesaro, ove su 11 pazienti trattati otto hanno avuto un miglioramento. All' ospedale di Padova Sud (quello di Schiavonia, dove è stato scoperto il focolaio di Vo', ndr), su sei pazienti trattati, i primi dati di due mostrano un miglioramento importante dopo 24 ore».

Su quali presupposti avete iniziato l'uso di tocilizumab nella Covid-19?

«Quando abbiamo fatto un brain storming in istituto (al Pascale di Napoli, ndr) e c' è venuta questa idea, abbiamo contattato i nostri colleghi cinesi, dato che c' è una partnership tra l' istituto e la Cina. Ci hanno detto che era un' ottima idea: l' avevano usato su 21 pazienti e 20 di loro avevano avuto miglioramenti in 24-48 ore. Questo è stato lo studio che ci ha aperto la strada. Poche ore dopo eravamo all' azienda dei Colli per decidere sui primi due pazienti da trattare».

Quando partirà lo studio?

«A giorni, grazie a un protocollo già presentato ad Aifa. A fianco della sperimentazione continua l' impiego off label, cioè fuori indicazione, visto i risultati promettenti che abbiamo avuto. I dati dei pazienti trattati off label verranno messi insieme a quelli della sperimentazione, per capire quali sono i soggetti che hanno avuto un beneficio maggiore e le tempistiche per la somministrazione».

Alcuni usano il farmaco in terapia subintensiva per evitare l'aggravamento.

«Quello che ci dicevano i cinesi, e che stiamo vedendo anche noi, è che un trattamento fatto prima evita, praticamente, al paziente di andare in terapia intensiva. Dei nostri sette soggetti, tre hanno avuto miglioramento. Fra i pazienti critici in reparto, ma non intubati, che abbiamo trattato, tre hanno avuto miglioramento e l'altro tutto sommato era stazionario, ma siamo fiduciosi che possa rispondere al ritrattamento. Tutte le informazioni che abbiamo dagli altri centri vanno in questa direzione. I pazienti in terapia subintensiva sono quelli che potrebbero avere vantaggi maggiori ed evitare l' intensiva».

Dei medici osservano che ridurre l'attività del sistema immunitario potrebbe favorire l' aggressione del virus. Cosa ne pensa?

«Bisogna conoscere l' immunologia e l' immunoterapia dei tumori, dove usiamo strategie che danno a volte effetti collaterali dovuti all' iperattivazione del sistema immunitario. Quello che avviene nel polmone in seguito a infezione da Covid-19 è una iperattivazione del sistema immunitario che diventa deleteria. L' immunosoppressore serve a ridurre questa iperattivazione e, utilizzato come facciamo noi, e come ci hanno suggerito i cinesi, one shot, cioè un solo trattamento ripetibile la seconda volta dopo 12 ore e non più, non dà questi problemi».

(AWE/LaPresse il 16 marzo 2020) - Il gruppo Roche ha annunciato che si impegnerà a fornire gratuitamente per il periodo dell'emergenza coronavirus il farmaco tocilizumab (RoActemra) a tutte le Regioni che ne faranno richiesta, "fatte salve le scorte necessarie a consentire la continuità terapeutica ai pazienti affetti da patologie per cui il prodotto è autorizzato". Il farmaco, attualmente impiegato per il trattamento dell'artrite reumatoide, non è indicato per il trattamento della polmonite da covid-19, specifica l'azienda, ma la comunità scientifica sta dimostrando interesse al suo utilizzo dopo l'inserimento nelle linee guida cinesi. Oltre alla donazione del farmaco, l'azienda ha dato la propria disponibilità ad Aifa per avviare uno studio clinico sull'efficacia e la sicurezza di tocilizumab anche in questi pazienti.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Sono basati principalmente sull' esperienza cinese le cure per pazienti con Covid, la malattia da nuovo coronavirus. Sono stati i lavori pubblicati da ricercatori e medici di Wuhan, la prima città colpita dalla pandemia, a fungere da riferimento per i colleghi italiani che hanno poi declinato sui loro pazienti, raccomandati anche dall' Oms. Non esistono antivirali specifici contro il coronavirus Sars-CoV-2. Fin dall' inizio dei focolai verificatisi in Cina, i medici hanno fatto ricorso a molecole studiate e già in commercio per combattere infezioni di altro tipo ma causate da gruppi di agenti patogeni cui appartiene anche il nuovo «nemico», i retrovirus. Si tratta di formulazioni anti-Hiv (il virus responsabile dell' Aids) a base di Ritonavir e Lopinavir, in combinazione con vecchie sostanze antimalaria, la clorochina e l' idrossiclorochina che hanno un' azione antinfiammatoria e infatti sono utilizzati anche per l' artrite reumatoide. Nella lista delle terapie, anche un antivirale in sperimentazione in Cina, Remdesivir, studiato dall' azienda Gilead per la Sars e poi Ebola e finora consegnato gratuitamente agli ospedali che ne hanno fatto richiesta secondo la procedura dell' uso compassionevole (previsto quando non esistono alternative e se il paziente è in gravi condizioni). Nicola Petrosillo, infettivologo dell' Istituto Spallanzani, ne ha esperienza diretta: «I risultati sembrano incoraggianti, peccato che almeno nel nostro ospedale abbiamo dovuto rinunciare al Remdesivir. Pur avendolo richiesto, l' azienda non lo consegna probabilmente per l' altissimo numero di domande». Una delle speranze terapeutiche è un farmaco nato per l' artrite reumatoide, malattia cronica caratterizzata da un' infiammazione che provoca dolore, rigidità muscolare e difficoltà di movimento. Ed è proprio l' infiammazione il comune denominatore di artrite e Covid. Nei casi di polmonite grave può infatti subentrare una «tempesta di citochine», sostanze che vengono prodotte in eccesso dall' organismo per difendersi dal virus e vanno ad infiammare i polmoni. Tra queste la più pericolosa è l' interleuchina 6, bersaglio di questo farmaco in commercio da diversi anni per l' artrite, prodotto da Roche. Disinnescare l' infezione polmonare significa evitare che il paziente vada in terapia intensiva. L' azienda farmaceutica sta consegnando, secondo il progetto «Roche si fa in 4», il farmaco agli ospedali che ne hanno bisogno e si accinge a partire con una sperimentazione di Tocilizumab il cui avvio è subordinato all' approvazione della speciale unità di crisi anti-Covid dell' agenzia italiana Aifa. Per lo pneumologo della Fondazione Gemelli Luca Richeldi, è un «enorme vantaggio poter contare su una molecola di cui conosciamo gli effetti collaterali». L' Università di Utrecht ha pubblicato sul sito BioRxiv una ricerca che dimostrerebbe la validità di un farmaco biologico, un anticorpo monoclonale, specializzato nell' aggredire il Sars-CoV-2, capace di riconoscere il recettore con cui il virus si aggancia alla cellula umana. Ma i tempi perché venga prodotto sono molto lunghi. 

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. Non è la cura contro il Covid-19 ma potrebbe rappresentare la speranza di vita per chi viene colpito dalle conseguenze più gravi provocate dal contagio: la polmonite, causa o concausa di tutti i decessi dell' epidemia. La terapia a base di Tocilizumab viene adottata in questi giorni in numerosi ospedali di diverse regioni, e i primi che vi hanno fatto ricorso sono stati i medici del Cotugno di Napoli. Perché è a Napoli che è stata messa a punto dal direttore dell' unità di Immunologia clinica dell' Istituto per tumori Pascale, Paolo Ascierto e dal primario di Oncologia dell' azienda ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio. Entrambi hanno alle spalle una profonda conoscenza del farmaco che, nato per curare l' artrite reumatoide, ha trovato da tempo applicazione in oncologia nel contrasto alle infiammazioni polmonari.

Dottor Ascierto, di cosa stiamo parlando, precisamente?

«Non di un antivirale, e quindi non di un farmaco che possa sostituire le terapie attualmente in uso».

Quando è che il Tocilizumab può rivelarsi utile?

«Quando siamo in presenza di casi in cui riscontriamo polmonite severa e alti livelli di una specifica proteina che si chiama interluchina 6».

E non tutti i pazienti affetti da coronavirus presentano questo quadro clinico?

«Fortunatamente no. E nemmeno tutti quelli che hanno complicanze polmonari».

Solo quelli più gravi, quelli che oggi purtroppo affollano i reparti di terapia intensiva?

«Noi abbiamo cominciato a trattare proprio alcuni dei ricoverati in rianimazione, successivamente siamo ricorsi al Tocilizumab anche per chi in rianimazione non ci era ancora arrivato ma i suoi valori rientravano tra quelli in cui ci si può aspettare un beneficio dal ricorso al farmaco».

E il beneficio c' è stato?

«Sostanzialmente sì. In totale abbiamo trattato una decina di pazienti, tra terapia intensiva e sub-intensiva. C' è stato un decesso, ma da tutti gli altri stiamo ricevendo risposte incoraggianti. Per uno dei ricoverati in terapia intensiva siamo prossimi all' estubazione, contiamo che sia davvero questione di ore. Mentre uno dei pazienti che non erano ancora in rianimazione, dopo il trattamento ha potuto fare a meno dell' ossigeno».

Così rapidamente?

«Sì, ma non ci sorprende: questa terapia i risultati li dà nell' arco di 24 o 48 ore».

Anche in Cina vi hanno fatto ricorso?

«Io i primi contatti li ho avuti proprio con colleghi cinesi. Loro l' hanno utilizzata su ventuno persone affette da Covid-19 e mi risulta che poi sia partita una sperimentazione e che l' uso del Tocilizumab sia stato inserito nelle linee guida contro questa malattia».

Anche in Italia l' Aifa (l' Agenzia del farmaco) ha autorizzato la sperimentazione. Ma lei che cosa si aspetta dall' eventuale diffusione della terapia?

«In questo momento ciò che preoccupa maggiormente è che gli ospedali non riescano più a fare fronte alla quantità di interventi cui sono chiamati. E la crisi, ormai è chiaro a tutti, riguarda i reparti di rianimazione, che sono allo stremo. Se con il ricorso a questo farmaco riusciremo a fermare le polmoniti e le relative complicanze per le quali si finisce in terapia intensiva, e quindi a tirarne fuori i pazienti o addirittura a non farceli proprio andare, tutto il sistema se ne avvantaggerà. Gli ospedali non saranno più messi in ginocchio e l'emergenza potrebbe finalmente anche attenuarsi».

Contro il Covid-19  nuovo farmaco olandese Speranze forse, ma non a breve. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Sarebbe «pronto», secondo quando diffuso da diversi organi di stampa in tutto il mondo, il primo farmaco specializzato per aggredire il coronavirus Sars-CoV2. È un anticorpo monoclonale capace o nel riconoscere la proteina che il virus utilizza per aggredire le cellule respiratorie umane. La ricerca è pubblicata sul sito BioRxiv dal gruppo dell’Università olandese di Utrecht guidato da Chunyan Wang. I ricercatori hanno detto alla Bbc che saranno necessari mesi prima che il farmaco sia disponibile perché dovrà essere sperimentato per avere le risposte su sicurezza ed efficacia. È sicuramente una buona notizia e c’è da sperare che i risultati saranno positivi. Vale però forse la pena di puntualizzare alcuni aspetti. Il primo è che il sito BioRxiv, per quanto non privo di prestigio in ambito biomedico, è comunque una sede, a quanto risulta, in cui gli scienziati possono pubblicare senza il passaggio di peer-review, cioè di controllo da parte di esperti terzi prima della pubblicazione, che è la condizione necessaria posta dalle riviste scientifiche tradizionali accreditate. Questo non significa, ovviamente, che gli scienziati olandesi e cinesi non siano credibili e che il loro lavoro non abbia valore, anche perché in momenti di emergenza come questi è ragionevole far circolare nella comunità scientifica tutte le informazioni che possono essere utili. Però si tratta, appunto, di informazioni utili agli scienziati. Il fatto che un grande sito britannico di grande prestigio nel mondo dell’informazione l’abbia rilanciato, gli ha fornito un’eco che potrebbe indurre a pensare che «ci siamo quasi». Purtroppo è probabile che non sia così. O perlomeno non ci sono elementi che possano far pensare che sia così a breve termine, come del resto dicono gli stessi ricercatori. Perché un farmaco sia reso disponibile su larga scala servono almeno tre fasi di sperimentazione (più una quarta di sorveglianza post-marketing), che richiedono il coinvolgimento di un numero crescente di persone e condizioni precise di controllo (randomizzazione, numerosità del campione eccetera) che è difficile possano essere risolte in pochi mesi, senza contare poi i passaggi necessari presso gli enti regolatori, sovranazionali e nazionali. Quindi, pur con tutti i canali preferenziali di cui potrebbe godere ora un farmaco efficace contro questo coronavirus, per ora le attese a brevissimo termine sono giocoforza poste su farmaci già disponibili (che quindi abbiano passato tutte o almeno in parte) le fasi di sperimentazione e che possono rivelarsi utili contro il virus sebbene in origine pensati per altre indicazioni.

Melania Rizzoli per “Libero” il 3 marzo 2020. Contro i virus la medicina più efficace e più sicura, che offre una buona protezione dalle malattie da loro provocate, è e resterà il vaccino specifico. Tutti gli altri farmaci antivirali esistenti, che solitamente hanno una loro tossicità, e come tali risultano lesivi sia per il virus che per la cellula che lo ospita, sono pochi e difficili da sintetizzare, perché il virus non è un batterio, è fatto di un' altra pasta, ed ancora oggi si discute se sia una forma di vita oppure no, e c' è persino chi lo definisce «un essere ai margini della vita», che non può sopravvivere da solo a lungo nell' ambiente, poiché per vivere e moltiplicarsi deve invadere una cellula di un altro organismo, che sia un animale, una pianta o un batterio, e quando si integra dentro una cellula vivente utilizza le sue vie metaboliche per riprodurre se stesso, moltiplicandosi al suo interno fino a farla scoppiare, propagando il tal modo le sue particelle virali. È chiaro quindi che un antibiotico non ha appigli per contrastarlo, ed un farmaco antivirale efficace deve avere un principio attivo che basi la sua interazione con le varie fasi della replicazione virale, con il suo genoma, con la sua sintesi proteica e con i suoi sistemi enzimatici, ma per ogni nuova molecola antivirale prodotta dall' uomo, questo perfido microbo, incredibilmente intelligente, sviluppa ceppi virali in grado di inattivarla o produrre resistenza al farmaco stesso. In ogni contrasto farmacologico infatti, il virus mette in atto le sue difese, si nasconde in trincea sviluppando svariate strategie, con la formazione di pompe di efflusso che "sputano" fuori dalla cellula il farmaco, mentre altri ne disattivano la funzione, spezzando la catena chimica o bloccando il sito dove la molecola curativa si attacca per inattivarli.

Diversità. Inoltre ogni virus è diverso dall'altro, vive, attecchisce ed esplica la sua azione patologica in modo differente, oltre ad avere la capacità di virare, di mascherarsi in forme più o meno aggressive nelle cellule del corpo umano in cui penetra e si insedia, le quali si difendono in vari modi al suo ingresso, e dal momento che quasi ogni virus ha la capacità, durante la sua azione infettante, di "cambiare faccia", la monoterapia risulta in genere inefficace, motivo per cui bisogna necessariamente somministrare più farmaci contemporaneamente, in un cosiddetto cocktail potenzialmente mortale per lui e il suo habitat. Questa mia lunga premessa per spiegare perché oggi non esiste ancora una terapia specifica contro il nuovo Coronavirus, e perché si stanno provando varie cure sperimentali sugli ammalati, in una corsa folle contro il tempo, nel tentativo di non far degenerare la temibile polmonite primaria provocata da questa nuova virosi, e in quello di evitare il sovrapporsi di altre complicanze più gravi, per poter condurre i pazienti alla guarigione. È stata l' Oms (Organizzazione Mondiale Sanità) ad autorizzare e suggerire contro il Conad-19 l' uso di una molecola sperimentale, un farmaco con azione antivirale già utilizzato per la malattia da Virus Ebola, sintetizzato dal colosso farmaceutico Gilead, chiamato Remdesivir, lo stesso che si sta somministrando in Cina alle migliaia di pazienti infetti, e che è stato usato sui pazienti ricoverati all' Ospedale Spallanzani di Roma, oggi tutti e tre considerati guariti, compresa la coppia di cinesi che erano stati accettati in condizioni critiche, e tenuti intubati in rianimazione per tre settimane. Al momento il Remdesevir è l'unico farmaco che si ritiene possa avere una reale efficacia, il più promettente sulla base dei dati disponibili, l'unica soluzione e quello che sembra potenzialmente attivo contro l' infezione.

La molecola. In Italia questa nuova molecola è stata somministrata ai contagiati dal Coronavirus in combinazione con altri due farmaci antivirali, il Lopinavir ed il Ritonavir, due molecole comunemente utilizzate per l' infezione da Hiv-Aids, già approvati, considerati sicuri e ben tollerati dall' uomo, e tale connubio di principi attivi ha mostrato effettivamente un' attività antivirale anche sul Coronavirus. A volte è stata somministrata anche la Ribavirina, un vecchio antivirale utilizzato per l' influenza, oltre a vari antibiotici per prevenire il sovrapporsi di infezioni batteriche in questi pazienti. Al momento, in assenza di un vaccino, dobbiamo accontentarci dei risultati preliminari che sono incoraggianti, e non c' è ancora un follow-up a lungo termine, ma naturalmente sono in corso studi per verificare in che misura, su pazienti con sintomi moderati o gravi della malattia, questo farmaco agisca rispetto ad un placebo, e tra circa tre settimane si saprà meglio della sua efficacia contro il virus, poiché tali sperimentazioni stanno procedendo su una corsia preferenziale, data la vastità del problema e l' alta contagiosità dell' agente virale. In molti casi i farmaci antivirali sono realizzati in modo di ingannare i virus super-intelligenti, in una sorta di sfida di cervelli alla furbizia, portandoli a produrre materiale genetico inattivo, impedendo la costruzione di nuove particelle virali e la replicazione all' interno della cellula infettata.

Senza sosta. Una guerra combattuta senza sosta, utilizzando strategie e contro strategie molto sofisticate contro questi super-virus che sfidano beffardi l' intelligenza umana, capaci di resistere anche all' azione del più potente farmaco prodotto, pur essendo microrganismi viventi piccolissimi, di alcuni micron di diametro, praticamente invisibili, forniti di temibili enzimi che consentono loro di sviluppare al bisogno un proprio metabolismo, che permette loro di variare, di nascondersi e mimetizzarsi, oltre che di simulare, mentendo sulla propria identità, che diventa molto difficile da mettere a bersaglio, da colpire e da annientare. E mentre la battaglia tra l' intelligenza umana e quella virale prosegue, nel mondo si assiste ad un aumento dei contagi del nuovo arrivato, il Covid-19, contro il quale si stanno facendo passi avanti anche nella ricerca del vaccino specifico, ed un primo gruppo di profilassi sperimentale, sintetizzata alla Westlake University di Hangzhou, ha già prodotto anticorpi consentendo l' avvio di test sugli animali, ma dato che lo sviluppo del farmaco antivirale vaccinico richiede un lungo ciclo, per le cure dei malati urgenti di devono rispettare le regole scientifiche e le linee guida dell' Oms. Tre giorni fa, al Sacco di Milano, è stato isolato il ceppo italiano del Coronavirus, e da questi laboratori riparte la battaglia tra il microscopico virus e migliaia di cervelli umani impegnati, in una sfida epocale, per inattivarlo, abbatterlo e possibilmente annientarlo.

I ricercatori cinesi portano in dono a Roma l’antivirale di Wuhan. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 da Corriere.it. La settima e ultima versione dell’antivirale usato in Cina contro il coronavirus, quello che finalmente sta dando dei risultati a Wuhan, sarà presentata sabato dal vicepresidente della Croce Rossa cinese, Sun Shuopeng, al direttore dell’ospedale Spallanzani, Giuseppe Ippolito. È il primo atto della missione del team di medici ed esperti della Commissione sanitaria di Pechino, in tutto 9 persone (6 uomini e 3 donne), sbarcato nella Capitale giovedì sera. Gli scienziati resteranno in Italia 10 giorni, andranno anche a Padova e Milano e già venerdì sera hanno cominciato a studiare l’epidemia nel nostro Paese. «Voi ci avete aiutato in passato, ora tocca a noi ricambiare, nel nome della grande amicizia che ci lega», ha detto l’ambasciatore a Roma, Li Junhua, ricordando i due pazienti cinesi curati e guariti allo Spallanzani e il volo organizzato il 15 febbraio scorso dalla Farnesina con 18 tonnellate di materiale sanitario per l’emergenza a Wuhan. La Croce Rossa cinese è giunta a Roma con un carico di 31 tonnellate: ventilatori polmonari, respiratori, monitor, decine di migliaia di tute e mascherine, medicinali a base di erbe. «Grazie all’aiuto della nostra consorella cinese — ha detto il presidente della Croce Rossa italiana, Francesco Rocca — in 24-36 ore si sono raddoppiati i mezzi a disposizione delle regioni italiane». Gli scienziati hanno lodato le misure drastiche del governo Conte e lasceranno ai colleghi italiani l’ultimo piano di controllo del coronavirus stilato con il contributo dei 40 mila medici mobilitati a Wuhan. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, senza mascherina ma osservando con scrupolo il metro di distanza, ha ringraziato la delegazione: «L’Italia non è sola, i 40 ventilatori polmonari ricevuti salveranno la vita a molti nostri concittadini. E presto arriveranno aiuti anche da altri Paesi: se sei solidale, ricevi solidarietà». Poi il ministro si è fermato alla Croce Rossa a donare il sangue, invitando a farlo tutti gli italiani in un momento così delicato: «Se proprio volete uscire di casa, fatelo per una giusta causa».

Quali sono i farmaci  che stanno offrendo i migliori risultati nei malati più gravi. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Finora la marcia di Sars-CoV-2 ha trovato pochi ostacoli, ma stiamo affinando le armi con la speranza di tenergli testa. Sia dal punto di vista della prevenzione (con le misure restrittive decise dal Governo), sia per quanto riguarda la cura dei contagiati che rischiano la vita. Facciamo il punto sui farmaci che si stanno man mano dimostrando efficaci nei malati di Covid-19, con l’aiuto di Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco.

Quali sono le opzioni terapeutiche utilizzabili oggi?

«Sia in Cina che in Italia, ma anche in altri Paesi, i pazienti vengono trattati per breve tempo con la combinazione lopinavir/ritonavir, antivirali inibitori della proteasi (enzima che spezza le lunghe molecole di proteine) utilizzati a lungo nella terapia dell’Aids, nonostante la difficoltà di somministrazione e gli effetti collaterali piuttosto pesanti. Al piano terapeutico può essere aggiunta la clorochina, un farmaco anti malaria. Un’altra possibilità che si sta rivelando interessante è rappresentata da remdesivir, farmaco non ancora in commercio (quindi somministrabile solo in via compassionevole) testato in passato, senza grande successo, nei pazienti con Ebola. La molecola è in grado di bloccare la replicazione del virus, dando un segnale di «fine catena». Tutti gli antivirali fin qui descritti vengono usati al momento in via sperimentale. In tempi brevi partiranno degli studi volti a dimostrare la loro reale efficacia contro Covid-19: questo permetterà di arrivare a protocolli terapeutici condivisi».

In diversi ospedali italiani (per esempio Milano, Napoli, Bergamo) i medici si affidano a tocilizumab, proteina che blocca gli effetti dell’interleuchina-6 nei pazienti con artrite reumatoide: i risultati sono buoni?

«L’interleuchina-6 (proteina prodotta dal sistema immunitario) è parte della cosiddetta «tempesta citochinica» che si verifica nei casi più gravi dell’infezione. Nella storia naturale della malattia si susseguono, dopo l’incubazione, una fase di invasione virale, la reazione immunitaria e una terza fase di distruzione polmonare. La risposta alterata dell’organismo è una componente molto importante di Covid-19. Tocilizumab è, almeno teoricamente, in grado di bloccarne l’eccesso, aiutando così il paziente a uscire dalla fase più critica. Non essendo un antivirale, non ha effetto contro il microrganismo».

Il plasma delle persone guarite può essere un’opportunità valida, dato che fornisce gli anticorpi contro il virus?

«Si tratta di una strada tentata per contrastare Ebola in Africa, che non si è rivelata particolarmente efficace».

E le terapie a base di cellule staminali?

«Rappresentano una possibilità interessante, ma che risulta inapplicabile oggi per il numero elevato di malati».

Maria Teresa Bradascio per "repubblica.it" il 10 marzo 2020. A oggi non esistono né un vaccino né terapie specifiche per combattere il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2. Per la cura dei pazienti infetti finora sono stati utilizzati, in via sperimentale, diversi farmaci antivirali, ma pochi giorni fa la National Health Commission cinese ha inserito nelle linee guida per il trattamento dei casi gravi anche un farmaco antinfiammatorio. Si tratta di tocilizumab, approvato nel 2010 negli Stati Uniti per l’artrite reumatoide. Per il momento, in Cina sono stati 21 i pazienti trattati con tocilizumab che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento e in Italia due giorni fa, grazie a una collaborazione tra l’Azienda ospedaliera dei Colli e Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, il farmaco è stato utilizzato su due pazienti affetti da polmonite severa. Ma come mai un antinfiammatorio potrebbe funzionare nei casi gravi di infezione da nuovo coronavirus?

Se la risposta infiammatoria è eccessiva.

“In questi casi - spiega Giorgio Palù, virologo Professore emerito dell’Università di Padova, Presidente uscente della Società Europea di Virologia - il virus arriva negli alveoli dei polmoni, li infetta e li rende incapaci di svolgere la loro funzione. Alcuni pazienti presentano insufficienza respiratoria per lo sviluppo della polmonite interstiziale e, a questo punto, l’organismo, per difendersi, attiva una risposta infiammatoria. Ma la reazione del sistema immunitario è eccessiva e questo crea un danno: viene rilasciato in maniera rapida un numero massiccio di quelle molecole chiamate citochine implicate nel processo di infiammazione. Tecnicamente - precisa Palù - si parla di sindrome da rilascio di citochine, cytokine release syndrome, o tempesta di citochine, cytokine storms, che può causare grave insufficienza di organi e morte”.

Come agisce il farmaco antinfiammatorio. A cosa servirebbe, dunque, il farmaco antinfiammatorio?

“Si tratta - sottolinea Simone Lanini, Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, Unità Operativa SeRESMI - di una terapia non diretta contro il virus in sé, ma contro una delle reazioni che l’organismo mette in atto come meccanismo di difesa nei confronti del virus, appunto la risposta infiammatoria. In altre parole, il farmaco inibisce i livelli elevati di una particolare proteina, l’interleuchina 6 (IL-6), che svolge un ruolo fondamentale nel processo di modulazione del sistema immunitario. In ogni caso, per ora - ci tiene a precisare Lanini - non ci sono evidenze dirette che questo farmaco funzioni. La speranza dei ricercatori è che, bloccando l’interleuchina 6, si riesca a fermare la tempesta di citochine”.

Questo farmaco è, infatti, utilizzato anche nel trattamento della sindrome da rilascio di citochine che può insorgere nei pazienti oncologici in seguito alla somministrazione di una terapia CAR-T. Per questo, la National Health Commission cinese ha dichiarato che può essere usato per trattare i pazienti con coronavirus che presentano gravi danni ai polmoni e alti livelli di IL-6.

Al via lo studio clinico su oltre 180 pazienti. Roche, la società che produce il farmaco, che nel mese di febbraio ha donato tocilizumab per un valore di circa 2 milioni di dollari, ha affermato che al momento non sono stati pubblicati studi clinici relativi all’utilizzo del farmaco contro le infezioni causate dalla malattia CoViD-19 (Corona Virus Disease 19). Per questo in Cina hanno deciso di far partire un trial clinico e, come si legge nella bozza pubblicata nel Chinese Clinical Trial Registry, per questo studio multicentrico randomizzato, i ricercatori della University of science and technology of China (Anhui Provincial Hospital), hanno incluso 188 pazienti tra 18 e 85 anni, con alti livelli di Interleuchina 6 e danni al livello polmonare: 94 riceveranno il farmaco e gli altri 94 del gruppo di controllo riceveranno altre terapie.

L’utilizzo off-label dei farmaci. Ma allo stato attuale come vengono curati i pazienti che presentano complicanze gravi? È fondamentale che tutti abbiano accesso a quelle terapie di supporto delle funzioni vitali: in alcuni casi è, infatti, necessaria la terapia intensiva o l’ossigenoterapia non invasiva. “Per quanto riguarda i farmaci, di fronte a un virus nuovo - spiega Palù - non avendo farmaci specifici a disposizione, si provano farmaci che sono già utilizzati per altre malattie, quindi che hanno il vantaggio di essere sicuri sull’uomo. In questo caso si parla di un utilizzo off-label: non esistono studi clinici sulla loro efficacia nei confronti del nuovo virus e quindi vengono utilizzati per uso compassionevole”. Ovviamente ci sono diversi studi in vitro che cercano di individuare molecole in grado di interagire con il nuovo virus, ma per l’utilizzo in ambito clinico sono necessari studi su animali e studi sull’uomo: un processo dunque che richiede sicuramente del tempo.

I farmaci utilizzati finora. Per questo, per trattare il nuovo coronavirus finora sono stati utilizzati, principalmente, farmaci antivirali. “In particolare - afferma Lanini - l’Organizzazione mondiale della Sanità ha suggerito una terapia antivirale sperimentale, che è stata utilizzata anche allo Spallanzani per i primi pazienti positivi al virus, che è basata su farmaci antiproteasici quali il lopinavir/ritonavir, il darunavir e il nelfinavir, antivirali comunemente utilizzati per l’infezione da HIV e il remdesivir, un analogo dell’adenosina già utilizzato per la Malattia da Virus Ebola”. Un altro farmaco sperimentato è la ribavirina, antivirale che interferisce con la sintesi degli acidi nucleici (Dna e Rna), usato per contrastare l’herpes, il virus respiratorio sinciziale e in passato, in associazione con l’interferone, l’epatite C. È stato, poi, sperimentato il farmaco antimalarico clorochina che non solo ha un effetto antinfiammatorio, ma è anche in grado di bloccare gli organelli che permettono al virus di replicarsi. E, in Cina e in Russia si è utilizzato anche l’umifenovir che blocca l’ingresso dei virus nella cellula in maniera aspecifica. “Questo farmaco però - precisa Palù - non è stato approvato né dalla Food and Drug Administration né dalla European Medicines Agency”. Recentemente in Cina, è stato approvato il farmaco antivirale Favilavir. Ovviamente le sperimentazioni continuano anche con altri farmaci con la speranza di individuare la molecola più efficiente in grado di risultare attiva contro l’infezione da nuovo Coronavirus.

Coronavirus, un farmaco antiartrite utile in casi gravi. Un medicinale nato per l'artrite reumatoide riduce l'infiammazione provocata dal virus. L'Aifa valuta se organizzare uno studio in più centri italiani. Michele Bocci il 12 marzo 2020 su la Repubblica. C’è un farmaco che sembra capace di ridurre la reazione infiammatoria provocata dalla polmonite da coronavirus. Mancano degli studi clinici, ci si basa su singoli casi cinesi e adesso anche qualche caso italiano, però la notizia dà una piccola speranza, almeno per i casi gravi. Tanto più che l’Aifa, agenzia italiana del farmaco, ha appena deciso di occuparsi del tocilizumab, un anticorpo monoclonale, cioè un medicinale biologico, nato per una malattia autoimmune, l’artrite reumatoide. L’Agenzia nel giro di qualche giorno indicherà se e come usarlo off-label, cioè per un problema al momento non inserito nelle sue indicazioni. Il farmaco, prodotto dalla Roche, è stato utilizzato in Cina. Non ci sono studi decisivi sui risultati ottenuti ma è stato riferito da alcuni medici di quel Paese che ha funzionato su una ventina di pazienti. Ora che l’epidemia è scoppiata anche in Italia, alcuni centri hanno deciso di provare la stessa strada per malati in condizioni gravi. Le strutture sono Milano, Bergamo e Fano, ha rivelato Paolo Ascierto, oncologo del Pascale di Napoli che a sua volta ha in trattamento 6 pazienti. Su 2 ci sono già buoni risultati mentre gli altri hanno iniziato da troppo poco la terapia per conoscerne l’esito. Ascierto dice che “in 24 ore la terapia ha evidenziato ottimi risultati e domani (oggi, ndr) sarà estubato uno dei due malati perché le sue condizioni sono migliorate”. Il medico chiede di avviare subito un protocollo nazionale sul prodotto contro l’artrite. “Ci siamo scambiati informazioni con colleghi cinesi — spiega Ascierto — Questo farmaco è un anti interluchina 6, cioè contrasta una citochina coinvolta nel processo infiammatorio cronico che avviene nel polmone anche nel caso della polmonite da coronavirus”. Il medicinale dunque non agisce contro il Covid-19 su sui sintomi più gravi. Il modo giusto di procedere lo indicherà adesso l’Aifa, che appunto dovrebbe esprimersi in questi giorni. Probabilmente si proverà ad organizzare uno studio di più centri italiani, per evitare che gli ospedali si muovano in ordine sparso e per avere un controllo scientifico sui risultati. In questo modo, tra l’altro, il tocilizumab potrebbe essere rimborsato dal sistema sanitario nazionale alle Regioni anche se viene utilizzato al di fuori delle sue indicazioni.

Graziella Melina per “il Messaggero” il 12 marzo 2020. Se la Tac alla quale sarà sottoposto oggi un paziente affetto da coronavirus dimostrerà che la polmonite sta andando via, vorrà dire che la strada che i medici stanno seguendo all'ospedale Cotugno di Napoli per curare i pazienti gravi è forse davvero quella giusta. Paolo Ascierto, presidente della Fondazione Melanoma e Direttore dell'Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell'Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli fino a ieri sera ha voluto tenere il massimo riserbo sulle condizioni dei pazienti, finora sei, sottoposti ad una terapia sperimentale, che sta dando risultati incoraggianti. Seppure trincerato dietro a un cauto ottimismo, alla fine però si è lasciato andare: «Speriamo che funzioni, è chiaro che non posso che essere contento per i pazienti». E ne avrebbe tutte le ragioni visto che l'intuizione di somministrare ai contagiati e in gravi condizioni un farmaco utilizzato in genere per l'artrite reumatoide è stata tutta sua. «Sono un oncologo, mi occupo di immunoterapia - premette -. Il farmaco che ho pensato che potesse essere utile è il tocilizumab, che viene usato per l'artrite reumatoide. Infatti, noi che facciamo immunoterapia lo utilizziamo nelle tossicità da alcune immunoterapie importanti, come per esempio le Car-T che hanno effetti collaterali, tra cui la sindrome da rilascio delle citochine, che sono molecole proteiche. Quando induciamo un'attivazione forte del sistema immunitario, se ne producono tante». Tra queste, l'interleuchina 6, una citochina in grado di stimolare l'infiammazione acuta, che è quella poi più importante nel dare effetti collaterali. «Questa sindrome da rilascio da citochine, che dà ipotensione e una serie di altri effetti, causa anche un distress respiratorio, che porta ad una insufficienza appunto respiratoria molto simile a quella che si scatena dall'infezione del coronavirus». Succede insomma che nel nostro polmone, che è pieno di macrofagi, si scateni una sorta di battaglia. «Quando il virus entra nei polmoni, le cellule del sistema immunitario reagiscono per cercare di uccidere il virus, ma producono talmente tante citochine che a un certo punto queste fanno più male che bene, e l'interleuchina 6 anche qui diventa importante». L'intuizione a questo punto è stata provvidenziale. E anche il confronto con altri scienziati cinesi con cui Ascierto ha contatti. «Loro ci hanno detto che non solo la nostra è un'ottima idea, ma che anche loro avevano trattato 21 pazienti con lo stesso farmaco, e tutti quanti hanno recuperato». Risultato: due pazienti selezionati al Cotugno tra i più critici, uno intubato e uno da reparto, con più di 60 anni, in meno di 24 ore hanno avuto un miglioramento importante dei parametri respiratori. Il tocilizumab può dunque essere impiegato nella polmonite da Covid-19 solo off label, cioè al di fuori delle indicazioni per cui è registrato. L'azienda farmaceutica Roche lo fornirà gratis. Ora anche altri ospedali, tra i quali il San Raffaele di Milano, il Sacco, quello di Brescia e di Fano stanno provando a testare il tocilizumab. E anche qui i risultati fanno ben sperare. «Mi hanno detto che a Fano un paziente ha avuto miglioramenti - racconta Ascierto -. Bisogna dire che questo farmaco non agisce contro il virus, ma contro la complicanza del virus. Pertanto per il virus i vaccini ovviamente restano importanti». I risultati positivi di tocilizumab devono essere ovviamente validati, per questo serve uno studio multicentrico a livello nazionale. «La nostra struttura insieme all'Azienda Ospedaliera dei Colli è stata la prima, in Italia, a utilizzare questa terapia nei pazienti con coronavirus. Ma serve subito un protocollo nazionale per estendere l'impiego di tocilizumab nei pazienti contagiati da coronavirus e che si trovano in condizioni molto critiche. E molto importante che il suo utilizzo venga esteso quanto prima, così potremo salvare più vite».

Coronavirus: si usa anche un farmaco antinfiammatorio. Maria Teresa Bradascio il 9 marzo 2020 su La Repubblica. La National Health Commission cinese ha inserito nelle linee guida per il trattamento dei casi gravi di infezione il farmaco biologico tocilizumab usato per l’artrite reumatoide. In Italia utilizzato per la prima volta a Napoli su due pazienti A oggi non esistono né un vaccino né terapie specifiche per combattere il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2. Per la cura dei pazienti infetti finora sono stati utilizzati, in via sperimentale, diversi farmaci antivirali, ma pochi giorni fa la National Health Commission cinese ha inserito nelle linee guida per il trattamento dei casi gravi anche un farmaco antinfiammatorio. Si tratta di tocilizumab, approvato nel 2010 negli Stati Uniti per l’artrite reumatoide. Per il momento, in Cina sono stati 21 i pazienti trattati con tocilizumab che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento e in Italia due giorni fa, grazie a una collaborazione tra l’Azienda ospedaliera dei Colli e Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, il farmaco è stato utilizzato su due pazienti affetti da polmonite severa. Ma come mai un antinfiammatorio potrebbe funzionare nei casi gravi di infezione da nuovo coronavirus?

Se la risposta infiammatoria è eccessiva. “In questi casi - spiega Giorgio Palù, virologo Professore emerito dell’Università di Padova, Presidente uscente della Società Europea di Virologia - il virus arriva negli alveoli dei polmoni, li infetta e li rende incapaci di svolgere la loro funzione. Alcuni pazienti presentano insufficienza respiratoria per lo sviluppo della polmonite interstiziale e, a questo punto, l’organismo, per difendersi, attiva una risposta infiammatoria. Ma la reazione del sistema immunitario è eccessiva e questo crea un danno: viene rilasciato in maniera rapida un numero massiccio di quelle molecole chiamate citochine implicate nel processo di infiammazione. Tecnicamente - precisa Palù - si parla di sindrome da rilascio di citochine, cytokine release syndrome, o tempesta di citochine, cytokine storms, che può causare grave insufficienza di organi e morte”.

Come agisce il farmaco antinfiammatorio. A cosa servirebbe, dunque, il farmaco antinfiammatorio? “Si tratta - sottolinea Simone Lanini, Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, Unità Operativa SeRESMI - di una terapia non diretta contro il virus in sé, ma contro una delle reazioni che l’organismo mette in atto come meccanismo di difesa nei confronti del virus, appunto la risposta infiammatoria. In altre parole, il farmaco inibisce i livelli elevati di una particolare proteina, l’interleuchina 6 (IL-6), che svolge un ruolo fondamentale nel processo di modulazione del sistema immunitario. In ogni caso, per ora - ci tiene a precisare Lanini - non ci sono evidenze dirette che questo farmaco funzioni. La speranza dei ricercatori è che, bloccando l’interleuchina 6, si riesca a fermare la tempesta di citochine”. Questo farmaco è, infatti, utilizzato anche nel trattamento della sindrome da rilascio di citochine che può insorgere nei pazienti oncologici in seguito alla somministrazione di una terapia CAR-T. Per questo, la National Health Commission cinese ha dichiarato che può essere usato per trattare i pazienti con coronavirus che presentano gravi danni ai polmoni e alti livelli di IL-6.

Al via lo studio clinico su oltre 180 pazienti. Roche, la società che produce il farmaco, che nel mese di febbraio ha donato tocilizumab per un valore di circa 2 milioni di dollari, ha affermato che al momento non sono stati pubblicati studi clinici relativi all’utilizzo del farmaco contro le infezioni causate dalla malattia CoViD-19 (Corona Virus Disease 19). Per questo in Cina hanno deciso di far partire un trial clinico e, come si legge nella bozza pubblicata nel Chinese Clinical Trial Registry, per questo studio multicentrico randomizzato, i ricercatori della University of science and technology of China (Anhui Provincial Hospital), hanno incluso 188 pazienti tra 18 e 85 anni, con alti livelli di Interleuchina 6 e danni al livello polmonare: 94 riceveranno il farmaco e gli altri 94 del gruppo di controllo riceveranno altre terapie.

L’utilizzo off-label dei farmaci. Ma allo stato attuale come vengono curati i pazienti che presentano complicanze gravi? È fondamentale che tutti abbiano accesso a quelle terapie di supporto delle funzioni vitali: in alcuni casi è, infatti, necessaria la terapia intensiva o l’ossigenoterapia non invasiva. “Per quanto riguarda i farmaci, di fronte a un virus nuovo - spiega Palù - non avendo farmaci specifici a disposizione, si provano farmaci che sono già utilizzati per altre malattie, quindi che hanno il vantaggio di essere sicuri sull’uomo. In questo caso si parla di un utilizzo off-label: non esistono studi clinici sulla loro efficacia nei confronti del nuovo virus e quindi vengono utilizzati per uso compassionevole”. Ovviamente ci sono diversi studi in vitro che cercano di individuare molecole in grado di interagire con il nuovo virus, ma per l’utilizzo in ambito clinico sono necessari studi su animali e studi sull’uomo: un processo dunque che richiede sicuramente del tempo.

I farmaci utilizzati finora. Per questo, per trattare il nuovo coronavirus finora sono stati utilizzati, principalmente, farmaci antivirali. “In particolare - afferma Lanini - l’Organizzazione mondiale della Sanità ha suggerito una terapia antivirale sperimentale, che è stata utilizzata anche allo Spallanzani per i primi pazienti positivi al virus, che è basata su farmaci antiproteasici quali il lopinavir/ritonavir, il darunavir e il nelfinavir, antivirali comunemente utilizzati per l’infezione da HIV e il remdesivir, un analogo dell’adenosina già utilizzato per la Malattia da Virus Ebola”. Un altro farmaco sperimentato è la ribavirina, antivirale che interferisce con la sintesi degli acidi nucleici (Dna e Rna), usato per contrastare l’herpes, il virus respiratorio sinciziale e in passato, in associazione con l’interferone, l’epatite C. È stato, poi, sperimentato il farmaco antimalarico clorochina che non solo ha un effetto antinfiammatorio, ma è anche in grado di bloccare gli organelli che permettono al virus di replicarsi. E, in Cina e in Russia si è utilizzato anche l’umifenovir che blocca l’ingresso dei virus nella cellula in maniera aspecifica. “Questo farmaco però - precisa Palù - non è stato approvato né dalla Food and Drug Administration né dalla European Medicines Agency”. Recentemente in Cina, è stato approvato il farmaco antivirale Favilavir. Ovviamente le sperimentazioni continuano anche con altri farmaci con la speranza di individuare la molecola più efficiente in grado di risultare attiva contro l’infezione da nuovo Coronavirus. 

Covid-19, il farmaco sperimentato al Pascale funziona: "Subito protocollo nazionale". La richiesta è di Paolo Ascierto, oncologo dell'Istituto Pascale di Napoli. Redazione di Napoli Today l'11 marzo 2020. La richiesta è di un immediato protocollo nazionale per estendere l'impiego di Tocilizumab - un farmaco anti-artrite - nei pazienti contagiati dal Coronavirus che si trovano in condizioni critiche. A chiederlo è Paolo Ascierto, oncologo dell'Istituto Pascale di Napoli. Ascierto spiega che funziona contro la polmonite da Covid-19, e che nei primi due pazienti trattati in Italia (appunto a Napoli), in 24 ore sono subito apparsi evidenti i miglioramenti. In totale i pazienti trattati con Tocilizumab sono al momento sei. Si tratta di un trattamento "off-label", ovvero attraverso un farmaco usato al di fuori dalle indicazioni per cui è registrato. Ma la terapia sta già diffondendosi e sta venendo applicata a Bergamo, Milano e Fano. "Il team medico dell'ospedale Pascale di Napoli ha osservato effetti positivi sui pazienti affetti da Coronavirus grazie all'uso di un farmaco antiartrite, il Tocilizumab. Faccio mio l'appello dell'oncologo Ascierto e del suo staff, affinchè si preveda un protocollo nazionale che estenda la sperimentazione e l'impiego di questo farmaco in maniera diffusa. Così da poterne testare l'effettiva validità su larga scala". Con queste parole la senatrice Laura Garavini, presidente Commissione Difesa e vicepresidente vicaria Gruppo Italia Viva - Psi, si è unita all'appello del medico partenopeo. "Là dove l'efficacia del medicinale venisse confermata - prosegue la senatrice - potrebbe diventare un alleato prezioso per velocizzare i tempi di guarigione. Anche perchè il medicinale è già in uso e non necessiterebbe di tempi per testarne la sicurezza. Sollevando il nostro sistema sanitario dallo sforzo al quale è attualmente sottoposto a causa del numero crescente dei contagi. Uniti vinciamo questa battaglia contro il virus". "La scoperta del team medico del Pascale - conclude - conferma l'eccellenza della nostra sanità pubblica". 

Ecco perché il farmaco funziona sul Covid-19. Lo pneumolgo D’Arpa spiega la proteina incriminata. Valeria Coi il 13 Marzo 2020 su corrieresalentino.it. Tra pochi giorni la Puglia potrà contare sul farmaco che sembra riuscire a combattere il Coronavisrus. La Regione ha infatti raccolto l’offerta dell’amministratore delegato della società Roche per ricevere gratuitamente il “Tocilizumab” che sarà somministrato nei pazienti affetti da Covid-19 e che è stato efficace su altri pazienti (in Cina e in Italia) sottoposti al trattamento. Ma chi potrà usufruirne, perché alcuni pazienti potranno essere sottoposti alla terapia e altri no e, soprattutto, che nesso c’è tra l’artrite reumatoide (patologia per la quale il farmaco viene usato) e il Covid-19? Ce lo spiega il dott Pierpaolo D’Arpa, pneumologo presso la Asl di Lecce, distretto di Campi Salentina, già allievo del professor Walter Ricciardi, membro dell’esecutivo dell’Oms e consulente del ministero della Salute.

Dottore, che legame c’è tra l’artrite reumatoide e la ARDS (sindrome da distress respiratorio acuto) provocata dall’aggravarsi della malattia trasmessa dal virus del Covid-19?

“Cercherò di essere meno tecnico possibile per provare a spiegarmi. Quando un paziente è affetto da artrite reumatoide o da artrite reumatoide idiopatica giovanile, sviluppa un elevato livello nel sangue di una particolare proteina, l’interleuchina 6, che è normalmente presente nel nostro organismo ma i cui livelli aumentano in caso di artrite reumatoide. Dagli esami a cui vengono sottoposti i pazienti affetti da Covid-19, si è notato che anche in questo caso l’interleuchina 6 è presente a livelli più alti”.

Che problemi dà un livello troppo alto di questa proteina nel nostro corpo?

“L’interleuchina-6 è una proteina prodotta dalle cellule del nostro sistema immunitario. I suoi livelli nel nostro sangue aumentano a causa di patologie come quelle autoimmuni dell’artrite reumatoide, oppure a causa del diabete o ancora durante importanti processi infiammatori. Questa proteina partecipa alla difesa contro l’infezione, tuttavia, il suo regolamento difettoso provoca disordini infiammatori cronici. Tocilizumab, il farmaco che presto verrà usato in Puglia, ha come capacità quella di inibire il ricevitore interleukin-6 e quindi dovrebbe essere un buon assistente terapeutico per superare il distress respiratorio del paziente”.

Come si è deciso di provarlo su un paziente?

“Quando un paziente è molto grave, noi abbiamo il dovere di attuare ogni tentativo per salvarlo. Salta quello che è il protocollo in quel momento, perché la vita del paziente ha la priorità su tutto. E’ in questo modo che è stato fatto questo tentativo: considerata la connessione tra le due  patologie di elevati livelli di questa proteina, si è fatto il tentativo di utilizzare un farmaco che poteva dare delle risposte in un momento disperato. Ed è successo che il paziente ha cominciato a dare risposte positive fino a migliorare”.

Questo farmaco sarà somministrato a tutti quelli che, dopo aver sviluppato i sintomi, sono risultati positivi al tampone?

“No. Ci tengo a precisare che questo che verrà applicato appena il farmaco sarà disponibile, è un protocollo sperimentale, un off the label (fuori etichetta). Siamo in terra incognita, per questo motivo il Tocilizumab non sarà somministrato ai pazienti positivi con sintomi lievi, ma solo a quelli gravi, poiché il protocollo etico ci impedisce di trattare anche gli altri pazienti, per ora. Al momento la Roche ha messo a disposizione il farmaco per uso compassionale, cioè bypassando l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), perché per ora è stato approvato solo per l’artrite reumatoide ed è in attesa di essere approvato per l’asma grave. La prospettiva che ci auguriamo è quella di poter estendere il trattamento anche su altri pazienti. Se il farmaco funziona, il protocollo si estende. E questa potrebbe essere la svolta”.

Perché qualcuno di noi sviluppa la sindrome da distress respiratorio acuto come complicanza del Covid-19 e altri no?

“Io le risponderei con una domanda: Perché alcuni pazienti sviluppano l’artrite reumatoide e altri no? Il fatto è che esiste in ognuno di noi una predisposizione del sistema immunitario a reagire in maniera più o meno adeguata ad uno stimolo infiammatorio esterno”.

Quanto ci dobbiamo preoccupare?

“Abbastanza, perché questa è una patologia seria, ma non è solo questo il problema. L’elevata contagiosità dei soggetti asintomatici, questo è il problema più grande. La Sanità oggi si deve occupare di due sfide: quella legata alla contagiosità degli asintomatici e quella legata al trattamento di un virus completamente nuovo. Perché, come i miei colleghi hanno già spiegato, i coronavirus sono i virus dell’influenza che hanno delle caratteristiche molto simili tra loro e per questo la popolazione è spesso immune o se si ammala sappiamo come procedere con le cure. Questo virus invece noi non lo conosciamo, ha trovato nella popolazione globale un terreno vergine, non c’è nessuno immune a questa malattia, esiste solo una risposta diversa, a volte più lieve o addirittura asintomatica”.

Come quella dei giovani?

“Probabilmente. Abbiamo notato che giovani si ammalano molto meno, una spiegazione potrebbe essere quella che un organismo giovane ha una migliore risposta immunitaria, ma nemmeno questo è scontato, perché anche in quel caso dipende dal soggetto. Certo è che i giovani hanno una specie di missione oggi, proprio perché la pericolosità del virus sta anche nella sua capacità di trasmissione da pazienti asintomatici. E poiché sono i giovani spesso ad essere asintomatici, l’appello è sempre lo stesso: restate a casa. Io rispondo spesso ai messaggi degli amici di mia figlia adolescente che mi chiedono, disperati, se davvero devono restare chiusi in casa. Naturalmente rispondo di sì. Questa guerra si può vincere solo così, comprendendo che oggi ognuno di noi vale tutti”.

Quando la Puglia avrà il suo picco?

“Il primo obiettivo è quello di non avere un picco violento come in Lombardia, perché con un evento del genere e un numero di malati che si moltiplica in quel modo, la Puglia non ce la farebbe, ha meno posti nei reparti di malattie infettive, meno posti in rianimazione, meno ventilatori polmonari e meno personale, a parte poi quello che potrebbe ammalarsi. Dobbiamo fare in modo che il picco sia più lungo possibile ma molto meno alto possibile. Abbiamo modo di credere che le misure stringenti che oggi, sulla scorta di ciò che è successo in Lombardia, noi stiamo adottando, compresi gli interventi di igiene pubblica, ci aiuteranno proprio in questo senso, e cioè a spalmare il picco nel tempo. In questo modo ne usciremo, spero fra un paio di mesi”.

E quando invece pensa che questa pandemia rientrerà?

“In questo momento nessuno di noi può dare un termine temporale, sfugge alla previsione, viviamo il quotidiano. Ci vorranno diversi mesi e ognuno di noi deve farsi carico del fatto che oggi conta più di uno. Stiamo chiedendo ai nostri ragazzi di diventare grandi più in fretta, è vero. Ma nei momenti difficili succede anche questo”.   

Coronavirus, il farmaco sperimentale napoletano dà buoni risultati: “In Cina ha funzionato in due giorni”. Redazione de Il Riformista il 9 Marzo 2020. Il giorno dopo l’annuncio da parte dell’Azienda Ospedaliera dei Colli e Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli dell’utilizzo con risultati positivi del tocilizumab, un farmaco off label anti interluchina 6 che viene solitamente utilizzato nella cura dell’artrite reumatoide, su due pazienti affetti da polmonite severa Covid 19 e dei risultati positivi emersi dal trattamento, Paolo Ascierto in una intervista rilasciata all’agenzia Agi è tornato sull’argomento. Il direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Pascale di Napoli ha spiegato che il “farmaco è stato somministrato due giorni fa”. “Nel paziente in condizioni più gravi, e per questo intubato, è stato riscontrato il miglioramento maggiore. Tanto che – aggiunge il medico – stamattina si pensa addirittura di stubarlo. L’altro paziente è comunque migliorato, anche se non in modo così evidente come il primo”. Il farmaco in questione e’ il Tocilizumab, usato anche nel trattamento della sindrome da rilascio citochimica dopo trattamento con le cellule CAR-T. “E’ un anticorpo monoclonale – spiega Ascierto – che ha come obiettivo l’interleuchina-6, una citochina prodotta dal sistema immunitario e che caratterizza molte situazioni di infiammazione cronica. Non e’ quindi un antivirale”. Non agisce direttamente contro il virus, ma solo su una complicanza dell’infezione. “Nell’ambito di una situazione di stress respiratorio sappiamo che l’interleuchina-6 e’ la citochina maggiormente implicata“, spiega Ascierto. Da qui l’idea di utilizzare il Tocilizumab. “Abbiamo sentito i medici cinesi – racconta il medico – che ci hanno detto di averlo utilizzato con successo su 21 pazienti e ci hanno consigliato addirittura di utilizzarlo prima che i pazienti finiscano in terapia intensiva. Nei loro casi il farmaco ha funzionato dopo sole 24-48 ore“. Sulla scorta di questi elementi Ascierto, in collaborazione con l’Unita’ di Oncologia dell’Azienda dei Colli di Vincenzo Montesarchio, ha deciso di utilizzarlo per la prima volta su due pazienti con Covid-19 ricoverati al Cotugno di Napoli. La somministrazione e’ avvenuta lo scorso sabato e i miglioramenti sono stati subito evidenti. “Ora stiamo selezionando altri due pazienti e questa volta lo faremo specificatamente guardando a chi ha i livelli maggiori di interleuchina-6“, riferisce Ascierto. “Se anche in questi due casi avremo segnali positivi sarà necessario attivare una task force, coinvolgendo anche l’Aifa, per valutare la possibilità di usare Tocilizumab come farmaco contro le complicanze da Covid-19, cercando in questo modo di liberare un po’ i reparti di terapia intensiva“, conclude.

Dopo la Cina anche in Italia il test con un farmaco per i casi gravi: ecco i risultati. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 da Corriere.it. «Forse lo estubiamo perché le sue condizioni sono molto migliorate». Una frase al telefono che arriva dalla terapia intensiva dell’ospedale Cotugno di Napoli e un sospiro di sollievo. Paolo Ascierto direttore SC Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative INT Pascal e Vincenzo Montesarchio direttore Oncologia dell’Azienda dei Colli, parlano con il loro collega Fiorentino Flagranza. La salute del paziente affetto da covid 19, arrivato in condizioni critiche, intubato e trattato con la nuova terapia farmacologica somministrando il Tocilizumab, è in ripresa. «Si tratta di un farmaco – spiega Ascierto - che viene solitamente utilizzato nella cura dell’artrite reumatoide oltre ad essere un farmaco di elezione nel trattamento della sindrome da rilascio citochimica dopo trattamento con le cellule CAR-T. Abbiamo pensato di utilizzare il farmaco che normalmente usiamo per il trattamento degli effetti collaterali del CAR-T poiché la polmonite severa, il distress respiratorio, in seguito all’infezione del virus, è dovuto soprattutto ad un meccanismo molto simile. Da qui nasce l’idea: abbiamo contattato i nostri colleghi cinesi i quali ci hanno detto che avevano trattato 21 pazienti con questo farmaco che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento, che avviene in un’unica soluzione e agisce senza interferire con il protocollo terapeutico a base di farmaci antivirali utilizzati». Quindi è stata subito convocata una task force con i colleghi del Cotugno e si è deciso di sperimentare la terapia. «È importante chiarire che questo farmaco non cura il coronavirus - dice Montesarchio - ma serve a migliorare o risolvere la polmonite che il virus stesso crea. La polmonite e causata da alcune sostanze tra cui l’interleuchina 6, il cui dosaggio si eleva moltissimo a livello polmonare. Questo è causa della polmonite cosiddetta intersiziale che provoca il coronavirus. Questo è il sintomo più grave con cui il paziente può andare in rianimazione. Siamo costretti poi ad intubare il paziente perché non c’è uno scambio di ossigeno a livello polmonare, a livello degli alveoli. Per cui se riusciamo a migliorare questo, abbiamo sicuramente migliorato alcuni degli aspetti dell’infezione da coronavirus. La nostra speranza è quella di mandare meno pazienti possibili in rianimazione e di intubarne il meno possibile. Per i pazienti già intubati di migliorare la ripresa funzionale del polmone e di riuscire così a liberare posti nelle le terapie intensive».

Cura del Coronavirus, da Napoli cresce la speranza: “Farmaco sperimentale dà buoni risultati”. Redazione de Il Riformista l'8 Marzo 2020. Grazie ad una collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli e Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, due pazienti affetti da polmonite severa Covid 19 sono stati trattati con tocilizumab, un farmaco off label anti interluchina 6 che viene solitamente utilizzato nella cura dell’artrite reumatoide ed è farmaco di elezione nel trattamento della sindrome da rilascio citochimica dopo trattamento con le cellule CAR-T. La somministrazione, avvenuta nella giornata di sabato ed avviata per la prima volta in Italia, è stata possibile grazie a una stretta collaborazione tra il direttore della Uoc di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio; il direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto “Pascale” di Napoli, Paolo Ascierto insieme al virologo Franco Buonaguro e alcuni medici cinesi, tra cui Wei Haiming Ming del First Affiliated Hospital of University of Science and Technology of China e il team composto da tutto il personale del Cotugno e che ha visto in prima linea, tra gli altri, Rodolfo Punzi, direttore del dipartimento di Malattie infettive e urgenze infettivologiche; Roberto Parrella, direttore della Uoc Malattie infettive ad indirizzo respiratorio; Fiorentino Fragranza, direttore della Uoc Anestesia rianimazione e terapia intensiva; Vincenzo Sangiovanni, direttore della Uoc Infezioni sistemiche e dell’immunodepresso; Nicola Maturo, responsabile del Pronto Soccorso infettivologico del Cotugno e Luigi Atripaldi, direttore del laboratorio di Microbiologie e virologia.  “Già a distanza di 24 ore dall’infusione, sono stati evidenziati incoraggianti miglioramenti soprattutto in uno dei due pazienti, che presentava un quadro clinico più severo”, spiegano Montesarchio e Ascierto. “Nell’esperienza cinese – aggiungono – sono stati 21 i pazienti trattati che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento, che si effettua con un’unica somministrazione e che agisce senza interferire con il protocollo terapeutico a base di farmaci antivirali utilizzati”. Sulla scorta di questi primi elementi si sta valutando la possibilità di trattare altri pazienti in condizioni critiche. “In un momento come questo è di fondamentale importanza unire le forze e le esperienze dei nostri migliori professionisti per potenziare al massimo il sistema sanitario regionale e per dotarci di tutti gli strumenti necessari per fornire ai pazienti affetti da Covid 19 tutte le cure necessarie. Ringraziamo tutto il personale delle strutture ospedaliere coinvolte che, con rapidità e grande preparazione, hanno attivato tutte le procedure necessarie per garantire ai pazienti ogni strada percorribile nel percorso terapeutico”, dichiarano Maurizio di Mauro, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli e Attilio Bianchi, direttore generale dell’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale.

Da leggo.it il 9 marzo 2020. Coronavirus, una speranza di una possibile cura arriva da farmaco anti-artrite: pazienti gravi ricoverati in ospedale a Napoli sono migliorati in 24 ore. Grazie ad una collaborazione tra l'Azienda Ospedaliera dei Colli e Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, due pazienti affetti da polmonite severa Covid 19 e ricoverati all'ospedale Cotugno di Napoli, sono stati trattati con Tocilizumab, un farmaco che viene solitamente utilizzato nella cura dell' artrite reumatoide ed è farmaco di elezione nel trattamento della sindrome da rilascio citochimica dopo trattamento con le cellule CAR-T. La somministrazione, avvenuta nella giornata di sabato ed avviata per la prima volta in Italia, è stata possibile grazie a una stretta collaborazione tra il direttore della Uoc di Oncologia dell'Azienda Ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio; il direttore dell'Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell'Istituto «Pascale» di Napoli, Paolo Ascierto insieme al virologo Franco Buonaguro e alcuni medici cinesi, tra cui Wei Haiming Ming del First Affiliated Hospital of University of Science and Technology of China e il team composto da tutto il personale del Cotugno e che ha visto in prima linea, tra gli altri, Rodolfo Punzi, direttore del dipartimento di Malattie infettive e urgenze infettivologiche; Roberto Parrella, direttore della Uoc Malattie infettive ad indirizzo respiratorio; Fiorentino Fragranza, direttore della Uoc Anestesia rianimazione e terapia intensiva; Vincenzo Sangiovanni, direttore della Uoc Infezioni sistemiche e dell'immunodepresso; Nicola Maturo, responsabile del Pronto Soccorso infettivologico del Cotugno e Luigi Atripaldi, direttore del laboratorio di Microbiologie e virologia. «Già a distanza di 24 ore dall'infusione, sono stati evidenziati incoraggianti miglioramenti soprattutto in uno dei due pazienti, che presentava un quadro clinico più severo» spiegano Montesarchio e Ascierto. «Nell'esperienza cinese - aggiungono - sono stati 21 i pazienti trattati che hanno mostrato un miglioramento importante già nelle prime 24-48 ore dal trattamento, che si effettua con un'unica somministrazione e che agisce senza interferire con il protocollo terapeutico a base di farmaci antivirali utilizzati». Il farmaco è in fase di sperimentazione clinica in 14 ospedali di Wuhan.

Coronavirus, funziona la cura con il farmaco utilizzato a Napoli: “Aifa può avviare sperimentazioni”. Redazione de Il Riformista il 13 Marzo 2020. “In queste ore l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha riunito il comitato tecnico scientifico, per analizzare le evidenze, e sta deliberando la possibilità di avviare delle sperimentazioni” del farmaco, normalmente usato per l’artrite reumatoide, utilizzato a Napoli con effetti positivi nel contrastare gli effetti del coronavirus. Lo spiega il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in conferenza stampa con il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. “Questo farmaco ora è registrato per un altra patologia – ha detto Brusaferro – il meccanismo d’azione però potrebbe risultare efficace per delle manifestazioni cliniche che ha il coronavirus: dal punto di vista scientifico, occorre avere delle valutazioni definite, con un campione di soggetti definito, e credo che l’Aifa stia lavorando a questo”. Insomma, si tratta di “una promessa, un’opportunità che va studiata, per avere tutti quei parametri per poi dire che il meccanismo di azione è effettivamente efficace per tutti i pazienti affetti dal coronavirus”, ha concluso Brusaferro.

I RISULTATI – La metà dei pazienti curati con il farmaco Tolicizumab sta migliorando. E’ quanto annuncia il direttore dell’Unità di immunologia del Pascale, il dottore Paolo Ascierto, che conferma gli ulteriori progressi nell’uso all’ospedale Cotugno di Napoli del Tolicizumab, l’anticorpo monoclonale utilizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide sulla polmonite indotta dal coronavirus. “Da sabato abbiamo trattato 6 pazienti tutti intubati. Di questi, 3 hanno avuto un miglioramento importante. Il primo paziente ha evidenziato segni di miglioramenti alla Tac di controllo effettuata ieri sera”. Quest’ultimo nelle prossime ore, se le condizioni resteranno stabili, potrebbe essere stubato. Il presidente e amministratore delegato di Roche Farma, Maurizio de Cicco, ha chiesto che l’Aifa – Agenzia italiana del farmaco – sia presente in questa nuova fase della sperimentazione. Ribadendo, però, quali sono gli utilizzi del prodotto della Roche. «Dai risultati che abbiamo ottenuto e che ci vengono segnalati dai clinici che l’hanno utilizzato, il farmaco sembra funzionare – ha detto de Cicco a Radio 105 – migliorare la capacità respiratoria. Non è un vaccino, non è un antivirale, questo è un farmaco per altre indicazioni che però aiuta i pazienti che vengono intubati a migliorare la respirazione”. Lo stesso Ascierto nei giorni scorsi ha spiegato che si tratta di “un anticorpo monoclonale che ha come obiettivo l’interleuchina-6, una citochina prodotta dal sistema immunitario e che caratterizza molte situazioni di infiammazione cronica. Non è quindi un antivirale”. Non agisce direttamente contro il virus, ma solo su una complicanza dell’infezione. “Nell’ambito di una situazione di stress respiratorio sappiamo che l’interleuchina-6 è la citochina maggiormente implicata”, spiega Ascierto. “Abbiamo sentito i medici cinesi – racconta il medico – che ci hanno detto di averlo utilizzato con successo su 21 pazienti e ci hanno consigliato addirittura di utilizzarlo prima che i pazienti finiscano in terapia intensiva. Nei loro casi il farmaco ha funzionato dopo sole 24-48 ore“. Sulla scorta di questi elementi Ascierto, in collaborazione con l’Unità di Oncologia dell’Azienda dei Colli di Vincenzo Montesarchio, ha deciso di utilizzarlo per la prima volta su due pazienti con Covid-19 ricoverati al Cotugno di Napoli. 

Farmaco sperimentale funziona nei casi più gravi: “In 24 ore primi miglioramenti”. Emilia Missione de Il Riformista il 11 Marzo 2020. Il primo paziente trattato con il tocilizumab, il farmaco anti reumatoide impiegato in via sperimentale all’ospedale Cotugno per curare il deficit respiratorio provocato dal Coronovirus, potrebbe essere estubato a breve. E il farmaco è già stato sperimentato su due nuovi pazienti. Un risultato importante frutto della collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli e l’Istituto Nazionale Tumori della Fondazione Pascale che sabato scorso hanno dato vita ad una task force intorno all’idea di utilizzare il farmaco, inibitore dell’interleuchina-6, per curare i pazienti affetti da Coronavirus. Nel gruppo di ricerca, insieme al direttore del reparto di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio, e al direttore dell’unità di Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative del Pascale Paolo Ascierto, ha lavorato anche il virologo Franco Buonaguro dell’Istituto nazionale tumori del Pascale.

Professore, il farmaco sta funzionando?

«I segnali sono positivi, stiamo registrando buoni risultati e i pazienti trattati al momento con il tocilizumab sono quattro, tutti over 50. Sabato lo abbiamo somministrato ai primi due pazienti in condizioni critiche: uno era già intubato, il secondo stava per essere trasferito in terapia intensiva. Già dopo 24 ore abbiamo registrato i primi riscontri sul paziente più grave ma abbiamo atteso per estubarlo per essere certi che le sue condizioni si mantenessero stabili. L’altro paziente, invece, è migliorato al punto da non avere più necessita di essere intubato. Tuttavia, è bene chiarirlo, il tocilizumab non cura l’infezione da Coronavirus ma serve a contrastare la fase più grave della crisi respiratoria, quella che, finora, abbiamo arginato con l’ossigeno e l’intubazione».

È un’alternativa alla terapia intensiva?

«In parte. Limitando la produzione di interluechina-6 miglioriamo la ventilazione respiratoria, riducendo il ricorso alla terapia intensiva o limitandola a pochi giorni. In Lombardia, ad esempio, i pazienti in media sono rimasti intubati per 15 giorni. I primi due pazienti allo Spallanzani per più di quattro settimane. Questo protocollo potrebbe alleggerire il carico dei reparti di terapia intensiva che non sono attrezzati, come è normale che sia, per rispondere a una situazione straordinaria come quella che stiamo vivendo. Il farmaco potrebbe essere la soluzione soprattutto in quei casi in cui l’alta affluenza nei reparti di rianimazione porta a non intubare, ad esempio, persone che hanno più di 60 anni».

Può essere utilizzata su tutti i pazienti?

«Il farmaco è un inibitore dell’interleuchina-6 che serve a ridurre la cosiddetta tempesta citochinica quella che provoca le complicazioni respiratorie. Questo significa che il tocilizumab è efficace solo quando c’è un eccesso di interleuchina-6, ovvero nei casi più gravi, che sono proprio quelli che abbiamo trattato. In questo modo limitiamo la vasodilatazione, la fuoriuscita di liquido che determina il collasso dell’apparato respiratorio».

Ci sono dei tempi tecnici per stabilire l’esito di questo nuovo approccio?

«La sperimentazione è partita e ora c’è bisogno di estenderla per rendere i risultati significativi. Anche allo Spallanzani di Roma stanno mettendo in campo questa terapia. Dall’altro lato, sono partite le procedure per il riconoscimento del protocollo da parte dell’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco. Finora abbiamo ricorso all’uso compassionevole, ovvero abbiamo sperimentato un farmaco in pazienti in pericolo di vita per i quali non esistono valide alternative terapeutiche».

Se il trattamento con tocilizumab dovesse estendersi, ci sarebbe sufficiente disponibilità?

«È un farmaco molto costoso e che può essere somministrato solo in ospedale ma non esistono problemi legati al suo reperimento. Stava per essere introdotto sul mercato per il trattamento con le cellule CAR-T».

Che tempi dobbiamo immaginare per uscire da questa fase acuta della malattia?

«Se guardiamo all’evoluzione che c’è stata in Cina, la fase più intensa è durata due mesi. Quindi, possiamo presumere che entro fine aprile il contagio sarà nella sua fase calante».

Lo sarà a prescindere dalle misure che metteremo in campo per contenere il contagio?

«Sì, ma con un discrimine importante: il numero di morti. Se riusciamo a contenere la diffusione del virus, a diluirlo nel tempo, allora saremo in grado di superare la fase acuta limitando le vittime».

All’inizio della diffusione del Coronavirus in Italia, si è molto dibattuto sul fatto che questa fosse, o meno, una “normale influenza”. Oggi che idea possiamo farci?

«A me piace ragionare sui numeri. Se sarà stata, o meno, una normale influenza stagionale questo potremmo dirlo solo alla fine dell’anno. Se avremo avuto meno di 6mila morti, allora potremmo dire che avuto lo stesso impatto di un’influenza stagionale. Altrimenti no».

Secondo lei le misure messe in campo dal Governo e dalla Regione sono adeguate all’emergenza sanitaria?

«Sono state tardive per una popolazione indisciplinata e immatura come quella italiana. Sarebbe bastato limitare al minimo i contatti all’esterno, evitare gli spostamenti dalla zona rossa. Ma davanti alle fughe, alle persone che scappano dalla quarantena per andare a sciare il governo non aveva alternative. Forse avrebbe dovuto rispondere da subito con forza all’irresponsabilità di questo Paese».

 “Il Tocilizumab ha effetti sorprendenti. Due pazienti sono migliorati in 24 ore”. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 13 marzo 2020. Intervista a Vincenzo Montesarchio che sta sperimentando con successo il famaco anti artrite per combattere il coronavirus. «Cerchiamo di agire più velocemente del virus per stargli dietro. Così non sarà lui a rincorrere noi». L’esclamazione di speranza arriva da Napoli per bocca del direttore della Uoc di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio, impegnato in una vera e propria corsa contro il tempo: la sperimentazione del Tocilizumab per curare le polmoniti indotte da Covid-19. Si tratta di un farmaco off label, utilizzato normalmente per la cura dell’artrite reumatoide, e ora in commercio gratuito. Attualmente sono 10 i pazienti trattati al Cotugno di Napoli, e il rapido miglioramento riscontrato sui primi due fa ben sperare nell’avviamento di un protocollo nazionale.

Dottor Montesarchio, come nasce l’idea di somministrare il Tocilizumab per il trattamento del Covid-19?

«Lo studio nasce da una stretta collaborazione con il direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma dell’Istituto Pascale, Paolo Ascierto, un team di medici cinesi e il personale dell’Ospedale Cotugno. Lo Tocilizumab è un farmaco anti artrite impiegato per molte patologie sviluppate dai pazienti oncologici sottoposti a terapia, tra le quali l’innovativa Car – t che comporta complicazioni polmonari come effetto collaterale. Dopo aver intuito che si trattasse della stessa polmonite da Covid-19, l’efficacia del farmaco è stata sperimentata su una ventina di pazienti in Cina con effetti sorprendenti nel giro 24-48 ore».

Qual è il tipo di paziente su cui avviare la sperimentazione?

«I primi due pazienti si trovavano in rianimazione con indici respiratori molto gravi, su di loro abbiamo riscontrato miglioramenti già dalle prime 24 ore e speriamo di stubarli al più presto. Oggi invece abbiamo somministrato il farmaco ai tre pazienti non intubati, nella tentativo di agire prima che le difficoltà respiratorie si aggravino».

L’età del paziente è una discriminante nell’uso del farmaco?

«No, in Campania abbiamo trattato tutti pazienti tra i 50 e i 67 anni. Ma in tutta Italia la fascia d’età si estende dai 33 agli 80».

Quali sono i prossimi passi per adottare la terapia su larga scala?

«Siamo in contatto con molti centri ospedalieri in tutta Italia che hanno avviato la sperimentazione. In queste ore abbiamo inoltre buttato giù la bozza di un protocollo nazionale che è stato già approvato dall’Aifa. Speriamo di fare il salto al più presto».

Gi esperti ricorrono in questi giorni a metafore belliche per raccontare la crisi sanitaria e la battaglia contro il virus. Qual è la vostra esperienza sul campo?

«I colleghi dell’ospedale Cotugno di Napoli  sono dei veri soldati in trincea. Al momento il centro è convertito interamente alla cura del Covid-19: 14 dei pazienti sono in sala intensiva. Ieri abbiamo avuto il primo decesso di un impiegato napoletano di 67 anni che aveva un’importante patologia pregressa. La nostra non è una battaglia, ma una guerra, nella quale arrivare prima è fondamentale».

·         Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Plasma iperimmune, noi accusati di distruggere il metodo scientifico? Pensino a fare le banche di raccolta. Le Iene News il 18 novembre 2020. L'immunologa Antonella Viola attacca il nostro lavoro sul plasma iperimmune definendolo un "servizio pseudo-giornalistico". Avremmo “distrutto il metodo scientifico” perché abbiamo fatto il nostro lavoro mostrando quello che succede in ospedale e dando voce ai medici? Nella puntata di domani vedrete i nuovi approfondimenti di Alessandro Politi. Avremmo distrutto il metodo scientifico perché abbiamo fatto il nostro lavoro mostrando quello che succede in ospedale e dando voce ai medici? È molto singolare l'attacco che ci riserva l'immunologa Antonella Viola, che su Facebook dedica un lungo post contro il nostro servizio sul plasma iperimmune, di cui nella puntata di domani vedrete i nuovi approfondimenti di Alessandro Politi. Il post della professoressa Viola parte definendo il nostro lavoro un "servizio pseudo-giornalistico" che "mostra ospedali che stanno usando [il plasma iperimmune] e chiede ai medici se tra i pazienti che l’hanno ricevuta ci sono stati morti". Vero: Alessandro Politi nel suo ultimo servizio ha dato voce ai medici che usano il plasma iperimmune, chiedendo i risultati sui pazienti in cura. Questo sarebbe "pseudo-giornalismo"? Raccontare fatti e dati? Secondo la Viola, così facendo saremmo stati in grado di "distruggere il metodo scientifico in una manciata di minuti". Addirittura! Mostrare quello che succede all'ospedale di Padova, in prima linea nella lotta contro il coronavirus, significa "distruggere il metodo scientifico"! Interpretazione bizzarra, non c'è che dire. La professoressa Viola, inoltre, chiede: "cosa sappiamo sulla base degli studi esistenti? Che non c’è evidenza scientifica che il plasma iperimmune sia di beneficio per i pazienti". L'immunologa certamente saprà che attualmente non esiste una cura certificata e standardizzata per il Covid. E saprà anche che è uscito uno studio lanciato dall’OMS su 12000 pazienti in 500 ospedali di 30 nazioni che dimostra che tutti gli antivirali che abbiamo usato in grande quantità negli ospedali da inizio pandemia, hanno effetto scarso o nullo sul Covid. Come di sicuro saprà anche che la cura al plasma è stata autorizzata dalla Food and Drug administration, l'ente governativo statunitense, il 24 agosto, dopo due studi: oggi sono arrivati a infondere quasi 90mila pazienti in più di 2700 ospedali. E i direttori sanitari degli ospedali di Mantova e Padova hanno spiegato a Alessandro Politi che non c'è stato neppure un morto fra i pazienti curati col plasma iperimmune. Ma l'immunologa va avanti con le accuse: ritiene infatti il nostro servizio "molto pericoloso" perché "genera aspettative e dubbi nella popolazione" che "vuole essere curata col plasma iperimmune e non capisce quindi perché molti ospedali non lo utilizzino. E da qui rabbia o panico". Semmai è esattamente il contrario: Alessandro Politi ha dato voce ai medici che stanno lanciando l'allarme sull'esaurimento delle sacche di plasma iperimmune, e quindi hanno rivolto l'appello ai cittadini di donare e alle istituzioni di raccoglierlo. Forse la professoressa Viola non sa che sono tantissimi gli ex malati Covid che stanno provando a donare ma senza successo, e che si stanno rivolgendo a noi per chiedere come fare. Come ribadiremo anche domani nel nostro nuovo servizio, a noi non resta che rivolgerci alle istituzioni per mettere in piedi quelle banche del plasma che erano state annunciate ma che in diversi casi non sono state realizzate. La bordata finale, quindi, la riteniamo offensiva nei confronti dei tanti medici a cui abbiamo dato voce e che semplicemente si sono limitati a dare i numeri sotto i loro occhi della cura del plasma iperimmune e a chiedere ai cittadini di andare a donare. Secondo la Viola, infatti, "Chi cerca scorciatoie, chi non rispetta i tempi e i metodi della ricerca scientifica, danneggia la salute pubblica, ci mette tutti in pericolo". Qui ci chiediamo, visto che non esiste una cura standardizzata e certificata, la cosa migliore sarebbe quindi aspettare il risultato degli studi aspettando che le persone muoiano o come si è fatto dall’inizio pandemia provare con tutto quello che sembra funzioni? E poi chi danneggia la salute pubblica, cara professoressa? Noi che diamo voce ai medici in prima linea, oppure chi non ha fatto il suo dovere rendendo possibile la donazione e la raccolta del plasma iperimmune?

Plasma iperimmune contro il coronavirus: funziona? Le Iene News il 19 novembre 2020. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. Alessandro Politi e Marco Fubini accendono di nuovo i riflettori sul tema. “Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci del plasma iperimmune contro il coronavirus. A oggi, non esiste ancora una cura certificata e standardizzata per combattere il coronavirus. Per aiutare i malati di Covid viene usato un mix di farmaci che la scienza ha reputato essere il migliore possibile dopo le sperimentazioni fatte in questi mesi. E tra questi, nell’azienda ospedaliera di Padova, da dove vi siamo raccontando da un mese la prima linea della battaglia, c’è anche il plasma iperimmune, che sostanzialmente fornisce al paziente che lo riceve gli anticorpi per combattere il virus. “Io non ho notizia di pazienti deceduti trattati con plasma iperimmune”, ha detto alla Iena il direttore generale Luciano Flor. “I medici di questo ospedale mi dicono che i pazienti trattati col plasma vanno bene”. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. “Attualmente la terapia di prima linea più efficace non solo secondo Mantova, Pavia e Padova, ma secondo tantissimi altri centri è il cortisone, l’eparina e il plasma iperimmune come agente antivirale”, dice il professor Massimo Franchini, direttore di immunoematologia e medicina trasfusionale dell’ospedale di Mantova. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. “Abbiamo dei problemi per quanto riguarda i donatori. Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”, ci ha detto il prof. Roberto Vettor, direttore del dipartimento di Medicina a Padova. Ma in molte parti d’Italia non avrebbero nemmeno iniziato la raccolta di sacche. E nel caso si voglia donare il plasma? In questi gironi ci sono arrivate moltissime mail da parte di persone che vorrebbero donare e non sanno come fare. E anche la cantante Nina Zilli, come potete vedere nel servizio qui sopra, ha raccontato cosa le avrebbero risposto quando si è informata per donare il plasma. Ma perché quando sentiamo parlare in tv dei rimedi contro il coronavirus, nessuno parla del plasma iperimmune? Durante la trasmissione “Otto e Mezzo” su La7, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini, alla domanda di Lilli Gruber su quale sia oggi la cura più efficace per combattere il coronavirus, ha risposto: “Lo standard di cura attuale è basato su tre farmaci importanti come l’ossigeno, il cortisone e l’eparina. In aggiunta, ma non ha ricevuto conferme come aspettavamo, c’è il Remdesivir che andrebbe pertanto ristudiato”. Ma, mentre ristudiamo il Remdesivir, perché il plasma non viene nemmeno citato?

Plasma iperimmune contro il Covid, i medici lo chiedono ma sta finendo: perché nessuno ne parla? Le Iene News il 19 novembre 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini hanno intervistato alcuni medici che raccontano come che le sacche di plasma iperimmune impiegato per combattere il coronavirus stiano finendo. Ma perché i media e gli esperti non ne parlano? Il servizio stasera a Le Iene. “Adesso che è venuto fuori che il plasma sembra essere l’unica terapia antivirale con una certa efficacia, gli ospedali iniziano a chiedere il plasma, ma il plasma non c’è adesso”, ci spiega il professor Massimo Franchini. E stasera, con il servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini, accenderemo nuovamente i riflettori sull'argomento, per cercare di spronare le istituzioni a mettere in piedi quelle banche del plasma che erano state promesse, ma in molti casi non sono state realizzate. E' di ieri il duro attacco che l’immunologa Antonella Viola ci ha riservato su Facebook. Ha definito il nostro servizio “pseudo-giornalistico”. Non solo, ma secondo la professoressa avremmo distrutto “il metodo scientifico in una manciata di minuti”. E perché mai? Perché abbiamo fatto il nostro lavoro mostrando quello che succede in ospedale con dati e fatti e dando voce ai medici? Come abbiamo più volte ripetuto, non esiste una cura certificata e standardizzata per combattere il coronavirus, ma uno dei metodi impiegati in alcuni ospedali per aiutare i pazienti colpiti dal Covid è la somministrazione di plasma iperimmune, che sostanzialmente fornisce al paziente che lo riceve gli anticorpi per combattere il virus. Se i medici lo chiedono, se i pazienti sembrano trarne benefici, se le scorte stanno finendo, perché gli esperti e i media continuano a non parlarne? Dopo il nostro ultimo servizio sul tema, è uscita su Repubblica la notizia che al Policlinico di Palermo si sono fatti avanti più di 100 pazienti guariti dal Covid per donare il plasma. Ma anche in questo caso alcuni medici continuano a ripetere di “non farsi illusioni: è una cura sperimentale”. Ma questo è ovvio: tutte le cure per il Covid per ora sono sperimentali perché una cura certificata non esiste. Ma intanto è dal 24 di agosto che la “Food and Drug Administration”, dopo aver analizzato i dati di oltre 70 mila pazienti infusi, ha autorizzato il plasma iperimmune per trattare i pazienti colpiti dal Covid. Intanto, anche l'ospedale di Pisa sta sperimentando il trattamento con plasma iperimmune su 320 pazienti. "I primi risultati li avremo a fine mese ma ora non sarebbe serio fare previsioni, perché non ci sono ancora sufficienti evidenze scientifiche per dire se questa cura è efficace o se non lo sia", ha detto il primario del reparto di malattie infettive, Francesco Menichetti. Ma la cosa strana è che quando sentiamo parlare in tv dei rimedi contro il coronavirus nessuno parla di plasma. Durante la trasmissione “Otto e Mezzo” su La7, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini, alla domanda di Lilli Gruber su quale sia oggi la cura più efficace per combattere il coronavirus, ha risposto: “Lo standard di cura attuale è basato su tre farmaci importanti come l’ossigeno, il cortisone e l’eparina. In aggiunta, ma non ha ricevuto conferme come aspettavamo, c’è il Remdesivir che andrebbe pertanto ristudiato”. Ma mentre ristudiamo il Remdesivir, perché il plasma non viene nemmeno citato? È strano, soprattutto dal momento che, dopo lo studio dell’Organizzazione mondiale della sanità “Solidarity Therapeutics Trial”, il plasma pare essere rimasto l’unico antivirale che, pur non essendo certificato come cura, sembra stia dando risultati nella lotta al coronavirus. Stasera a Le Iene vi racconteremo nuovi elementi sul plasma iperimmune.

Plasma iperimmune contro il Covid, i medici lo chiedono ma sta finendo: perché nessuno ne parla? Le Iene News il 19 novembre 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini hanno intervistato alcuni medici che raccontano come che le sacche di plasma iperimmune impiegato per combattere il coronavirus stiano finendo. Ma perché i media e gli esperti non ne parlano? Il servizio stasera a Le Iene. “Adesso che è venuto fuori che il plasma sembra essere l’unica terapia antivirale con una certa efficacia, gli ospedali iniziano a chiedere il plasma, ma il plasma non c’è adesso”, ci spiega il professor Massimo Franchini. E stasera, con il servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini, accenderemo nuovamente i riflettori sull'argomento, per cercare di spronare le istituzioni a mettere in piedi quelle banche del plasma che erano state promesse, ma in molti casi non sono state realizzate. E' di ieri il duro attacco che l’immunologa Antonella Viola ci ha riservato su Facebook. Ha definito il nostro servizio “pseudo-giornalistico”. Non solo, ma secondo la professoressa avremmo distrutto “il metodo scientifico in una manciata di minuti”. E perché mai? Perché abbiamo fatto il nostro lavoro mostrando quello che succede in ospedale con dati e fatti e dando voce ai medici? Come abbiamo più volte ripetuto, non esiste una cura certificata e standardizzata per combattere il coronavirus, ma uno dei metodi impiegati in alcuni ospedali per aiutare i pazienti colpiti dal Covid è la somministrazione di plasma iperimmune, che sostanzialmente fornisce al paziente che lo riceve gli anticorpi per combattere il virus. Se i medici lo chiedono, se i pazienti sembrano trarne benefici, se le scorte stanno finendo, perché gli esperti e i media continuano a non parlarne? Dopo il nostro ultimo servizio sul tema, è uscita su Repubblica la notizia che al Policlinico di Palermo si sono fatti avanti più di 100 pazienti guariti dal Covid per donare il plasma. Ma anche in questo caso alcuni medici continuano a ripetere di “non farsi illusioni: è una cura sperimentale”. Ma questo è ovvio: tutte le cure per il Covid per ora sono sperimentali perché una cura certificata non esiste. Ma intanto è dal 24 di agosto che la “Food and Drug Administration”, dopo aver analizzato i dati di oltre 70 mila pazienti infusi, ha autorizzato il plasma iperimmune per trattare i pazienti colpiti dal Covid. Intanto, anche l'ospedale di Pisa sta sperimentando il trattamento con plasma iperimmune su 320 pazienti. "I primi risultati li avremo a fine mese ma ora non sarebbe serio fare previsioni, perché non ci sono ancora sufficienti evidenze scientifiche per dire se questa cura è efficace o se non lo sia", ha detto il primario del reparto di malattie infettive, Francesco Menichetti. Ma la cosa strana è che quando sentiamo parlare in tv dei rimedi contro il coronavirus nessuno parla di plasma. Durante la trasmissione “Otto e Mezzo” su La7, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini, alla domanda di Lilli Gruber su quale sia oggi la cura più efficace per combattere il coronavirus, ha risposto: “Lo standard di cura attuale è basato su tre farmaci importanti come l’ossigeno, il cortisone e l’eparina. In aggiunta, ma non ha ricevuto conferme come aspettavamo, c’è il Remdesivir che andrebbe pertanto ristudiato”. Ma mentre ristudiamo il Remdesivir, perché il plasma non viene nemmeno citato? È strano, soprattutto dal momento che, dopo lo studio dell’Organizzazione mondiale della sanità “Solidarity Therapeutics Trial”, il plasma pare essere rimasto l’unico antivirale che, pur non essendo certificato come cura, sembra stia dando risultati nella lotta al coronavirus. Stasera a Le Iene vi racconteremo nuovi elementi sul plasma iperimmune.

Coronavirus e plasma iperimmune: su quante sacche possiamo ancora contare veramente? Le Iene News l'11 novembre 2020. Le sacche di plasma iperimmune impiegato per combattere il coronavirus stanno finendo. E quelle che abbiamo hanno poi i valori giusti per essere impiegate efficacemente contro il Covid? Non perdetevi il servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini giovedì 12 novembre a Le Iene dalle 21.10 su Italia1. Le sacche di plasma iperimmune usate per combattere il coronavirus stanno finendo. E questo è un problema. È un problema perché, dopo lo studio ad interim di metà ottobre dell’Organizzazione mondiale della sanità “Solidarity Therapeutics Trial”, il plasma sembra essere rimasto l’unico antivirale che, pur non essendo certificato come cura, sta dando risultati nella lotta al coronavirus, come vi abbiamo raccontato in numerosi servizi di Alessandro Politi e Marco Fubini. Lo studio dell’Oms, infatti, ha concluso che il Remdesivir, uno dei pochissimi farmaci che si pensava potessero aiutare i pazienti colpiti dal virus, sembra avere un effetto minimo o inesistente sulla mortalità e sul decorso ospedaliero dei pazienti. E non solo il Remdesivir, anche l’Idrossiclorochina e alcune combinazioni di farmaci che sono stati valutati dallo studio “sembrano avere un piccolo o inesistente effetto sulla mortalità a 28 giorni o sul decorso ospedaliero del Covid-19 tra i pazienti ricoverati”. E così sembra che per ora non resti che puntare sul plasma. Come vi racconteremo nel servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini domani sera a Le Iene, il plasma è stato utilizzato per trattare da maggio a oggi 200 persone nell’Ospedale di Padova, da dove stiamo documentato la lotta a questa seconda ondata, e 150 persone nel Veneto. In entrambi i casi, in questo periodo, nei pazienti trattati con il plasma non ci sono stati morti per coronavirus. Ma come siamo messi in Italia in quanto a scorte? Il Centro Nazionale Sangue dice di avere ancora circa 2.500 sacche, ma non sappiamo se queste sacche hanno i valori giusti per essere usate efficacemente contro il Covid. Secondo molte ricerche, infatti, il valore di anticorpi per definire il plasma iperimmune, e quindi per essere di supporto nel combattere il coronavirus, deve essere superiore a 160. Oggi molti clinici stanno chiedendo sacche di plasma iperimmune, ma le scorte stanno finendo e alcune regioni non stanno nemmeno facendo raccolta. E per quanto riguarda le sacche che già abbiamo, siamo sicuri che abbiano i valori giusti? 

Plasma iperimmune per combattere il Covid: quante sacche rimangono in Italia? Le Iene News il 12 novembre 2020. Le scorte di sacche di plasma iperimmune impiegate per trattare i pazienti colpiti dal Covid sembra che stiano per terminare, come ci dice chi lo ha raccolto in questi mesi. Su quante sacche possiamo ancora contare veramente mentre sempre più clinici vogliono usare il plasma per i pazienti? Alessandro Politi e Marco Fubini ne parlano con medici e esperti. “L’Oms ha appena pubblicato i dati di un importantissimo studio randomizzato” ci dice il professor Massimo Franchini, direttore immunoematologia e medicina trasfusionale di Mantova. Per capire l’effettiva efficacia dei farmaci contro il Covid, lo studio ha messo a confronto farmaci e placebo: a una parte dei pazienti hanno dato farmaci e a altri soltanto acqua. “Lo studio ha coinvolto oltre 12mila pazienti con il Covid trattati in 500 ospedali e ha valutato tutti i farmaci antivirali utilizzati finora e ha concluso che questi farmaci hanno scarso o nullo effetto sul Covid”, spiega il prof. Franchini. “Questo ha spiazzato tutti i medici per cui ha riportato alla ribalta il plasma convalescente”. Con Alessandro Politi e Marco Fubini vi abbiamo più volte raccontato di pazienti colpiti dal coronavirus e trattati con il plasma iperimmune. E abbiamo visto con i nostri occhi persone stare meglio. Il problema è che, a detta di chi lo ha raccolto per mesi, sembra che le sacche di plasma stiano finendo. Mentre oggi, dopo un periodo di scetticismo, sono sempre di più i medici che vogliono usare il plasma per i pazienti colpiti dal Covid. “Adesso che è venuto fuori che il plasma sembra essere l’unica terapia antivirale con una certa efficacia, allora gli ospedali iniziano a chiedere il plasma, ma il plasma non c’è adesso”, dice il prof. Franchini alla Iena. Ma quante sacche rimangono? L’abbiamo chiesto al Centro nazionale sangue, che sul sito riporta le sacche ancora disponibili: quasi 2.500. Ma hanno tutte titolo neutralizzante? Ovvero: queste sacche hanno i valori giusti per essere usate efficacemente contro il Covid? “Vedendo la situazione attuale, temo che quei dati di quelle sacche siano le sacche disponibili, le sub unità totali raccolte, ma non con il titolo neutralizzante”, sostiene il prof. Franchini. “Quelle con titolo neutralizzante sono una minima parte. È importantissimo sapere quanti anticorpi neutralizzanti ci sono. È fondamentale altrimenti rischiamo di dare ‘acqua’ ai pazienti”. La Iena prova a chiederlo direttamente al Centro nazionale sangue perché i pazienti hanno bisogno di plasma titolato e a detta di chi l’ha raccolto per mesi è quasi finito. 

Plasma iperimmune, odissea per donarlo: "In Veneto i medici non sanno dove farlo". Le Iene News il 04 novembre 2020. Malindi Donvito, influencer ed ex concorrente di Bake Off Italia, lancia un appello al governatore del Veneto. Ha passato una vera odissea telefonica a Bassano del Grappa tra centralini, ospedali e attese per sapere dove e come donare il plasma dopo aver avuto il Covid. “Ho perso due ore al telefono per poter donare il mio plasma dopo il Covid, i medici veneti non sapevano darmi indicazioni”. A dirlo nel video qui sopra è Malindi Donvito da Bassano del Grappa, nel cuore del “modello Veneto”. Per gli appassionati di dolci il suo nome non è nuovo: insegnante di pasticceria, influencer con quasi 40mila follower su Instagram, ha partecipato all’edizione 2017 di Bake Off Italia. A metà ottobre Malindi è risultata positiva al coronavirus. “Per me non è stata come un’influenza normale, la febbre non ha mai superato i 38°, ma ci sono stati dolori muscolari, tosse e mal di testa. Solo verso la fine di questa brutta esperienza ho perso il gusto e l’olfatto”, spiega a Iene.it. Dopo tre settimane di isolamento finalmente è arrivato il secondo tampone negativo. “Quando sono stata chiamata dal reparto prevenzione Covid ho subito chiesto come avrei potuto fare per donare il mio plasma”, spiega Malindi in un video postato su Instagram. Lo pubblica proprio dopo aver visto il secondo servizio di Alessandro Politi con tutte le esperienze dei malati Covid ricoverati nell’ospedale di Padova (qui il video). “La centralinista mi ha detto che non sapeva neanche di che cosa stessi parlando. Ha chiesto ai dottori e neanche loro hanno saputo rispondermi”. A questo punto le avrebbero consigliato di chiamare l’ospedale di Bassano del Grappa per essere messa in contatto con il centro trasfusionale. “Così faccio, ma in quel momento non mi rispondevano. Ho fatto un ping pong per circa un’ora tra i due numeri”, continua Malindi. “A un certo punto mi sono girati i maroni perché sono così…”. Si è messa allora in contatto con il presidente dell’Avis con un contatto personale. “Lui è rimasto sotto choc, pensava che il Centro di prevenzione Covid proponesse ai guariti questa possibilità di donare”, dice l’influencer. Nel giro di qualche ora ha avuto il suo appuntamento e martedì farà la prima visita per vedere se è idonea alla donazione. Ma quanti avrebbero lasciato perdere con la prima attesa al centralino o semplicemente dopo quella risposta dei medici? “Ho perso due ore perché io ho chiamato per capire come fare. C’è poco da parlare del plasma e invitare alla donazione se poi non c’è il modo di farla fare”, dice Malindi. E a questo punto si rivolge proprio al governatore che ha lanciato il “modello Veneto” durante la pandemia: “Zaia, che ti sei vantato di avere la banca sul plasma iperimmune più grande d’Italia: è possibile perdere due ore per avere un appuntamento e ci sono riuscita solo chiamando il presidente dell’Avis?”.  L’influencer non perde il sorriso e chiude il suo video con una battuta: “Ciamè Zaia e disighe che a Malindi ga avuo sto problema, ok?”. Ok, speriamo che così il messaggio arrivi al governatore!

Biagio Chiariello per "fanpage.it" il 17 ottobre 2020. Gli studenti della Brigham Young University-Idaho hanno contratto volontariamente contratto il Covid-19 per poter vendere il proprio plasma. L’accusa arriva dalla stessa università – in una dichiarazione ufficiale – che ha fatto sapere di aver aperto un’indagine sull'accaduto e che ha intenzione di sospendere gli iscritti coinvolti. "La BYU-Idaho è profondamente turbata dai racconti di individui che hanno intenzionalmente esposto se stessi o loro congiunti alla COVID-19  con la speranza di contrarre la malattia e di essere pagati per il plasma che contiene anticorpi COVID-19″, scrive l'ateneo in una dichiarazione. "L'università condanna questo comportamento e sta cercando attivamente prove di questa condotta nel nostro corpo studentesco". Al momento sono 109 gli studenti della BYU-Idaho positivi al Coronavirus. I media americani spiegano che la Grifolf Biomat Usa Rexburg, azienda che si occupa anche di plasma iperimmune, sul proprio sito web incoraggia chi ha contratto il Covid-19 a effettuare donazioni, ricordando che chi si presenterà per donare il proprio plasma – che contiene gli anticorpi del coronavirus Sars-Cov-2 – riceverà 100 dollari. Altre società ne hanno offerti 50 per una donazione mensile promettendo di aumentare gli importi. Un altro centro specializzato, il BioLife Plasma Services di Ammon, paga i donatori di plasma convalescente 200 dollari per seduta. Ad agosto la Food and Drug Administration ha autorizzato l'uso di plasma convalescente come terapia di emergenza per i malati di Coronavirus. I potenziali donatori devono essere guariti dal Covid 19 e quindi privi di sintomi da almeno 14 giorni. La BYU-Idaho ha fatto sapere che gli studenti che si trovano in una situazione economica complicata possono richiedere sostegno all’ateneo stesso: "Non è mai necessario ricorrere a comportamenti che mettono in pericolo la salute o la sicurezza per sbarcare il lunario", ha detto la scuola.

Coronavirus, che fine ha fatto la cura al plasma? L'appello del mondo scientifico: "Semplificare le procedure". Ar. Mo su Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. Che ne è della terapia col plasma iperimmune, quella che usa il sangue dei pazienti guariti dal Covid per curare i malati? Presentata a volte come la terapia risolutiva, osteggiata da Big Pharma per i suoi costi contenuti, il mese scorso uno studio indiano condotto su 464 pazienti ne aveva apparentemente dimostrato l'inefficacia; ma solo apparentemente: per quello studio in effetti era stato utilizzato semplice plasma di pazienti guariti, e non il plasma ricco di anticorpi neutralizzanti richiesto dalla cura. Nel frattempo il plasma viene utilizzato in via «compassionevole» in alcuni ospedali italiani (come il Carlo Poma di Mantova, dove Massimo Franchini, direttore del servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale, assicura che le guarigioni, su 150 pazienti trattati, superano il 90%) e stranieri: Cesare Perotti, direttore del servizio immuno-trasfusionale del Policlinico di Pavia, ha spiegato alla Verità come già 85.206 malati americani abbiano finora ricevuto la trasfusione. «L'Italia scopre la terapia, ma poi sono gli altri che la applicano sul larga scala», ha denunciato il dottore. Per l'applicazione su larga scala anche da noi è in corso una sperimentazione che coinvolge (sulla carta) 76 ospedali. Ma le procedure vanno a rilento. Francesco Menichetti, direttore dell'unità malattie infettive all'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, che ha il compito di coordinare la sperimentazione, intervistato la scorsa settimana da Italia Oggi, si è detto sconsolato: «Al protocollo hanno aderito 76 centri ma finora ne sono stati attivati solo 15 e di questi soltanto 8 hanno arruolato pazienti: sette in Toscana e il Niguarda a Milano (nel frattempo qualcosa si è mosso, martedì anche il Carlo Poma di Mantova ga arruolato il suo primo paziente, ndr)». I pazienti coinvolti sono meno di 40 mentre «per portare in fondo la sperimentazione serve raggiungere la quota di 476 pazienti, e 250 per stilare una prima analisi preliminare». Menichetti chiama in causa le «procedure che stanno determinando ritardi burocratici e amministrativi indegni, perché per firmare un contratto con Aifa e Iss ogni singola azienda ospedaliera deve seguire una procedura diversa». Quindi ha lanciato un sos al ministro Speranza: «Se fa un decreto che semplifica le regole, in fondo ne fanno dieci al giorno, si potrebbe rimettere in moto la macchina e sollecitare ai centri di riprendere l'arruolamento».

Plasma Iperimmune contro il Covid-19. Perché in Italia non interessa? Le Iene News l'8 ottobre 2020. Alessandro Politi torna a parlare dell’impiego del plasma di persone guarite dal Covid come possibile terapia per chi è colpito dal virus. Ma in Italia quasi nessuno sembra interessarsi al plasma iperimmune. Perché? A maggio scorso, con Alessandro Politi, siamo stati nei primi centri che hanno sperimentato il plasma iperimmune come cura contro il coronavirus. Il plasma è la parte liquida del sangue, che donato da persone guarite dal Covid-19 è ricco di anticorpi contro il virus. Abbiamo conosciuto pazienti che con la luce negli occhi ci hanno raccontato la loro guarigione e come le sacche di plasma gli abbiano salvato la vita. “Dopo la prima sacca di plasma sono risultata negativa”, ci ha raccontato una di loro. “La tosse ha iniziato a calare e la febbre è passata”. Lo stesso Alessandro Politi, dopo essere guarito dal Covid, ha donato il suo plasma. Sono passati cinque mesi dal nostro ultimo servizio, ma le banche del plasma sembrano essere ancora indietro. I centri trasfusionali contattati dalla Iena hanno detto di non aver ancora iniziato a raccogliere plasma iperimmune. Le cose vanno diversamente nella Regione Veneto. Il presidente Luca Zaia si è infatti fin da subito interessato all'impiego del plasma contro il coronavirus: “Abbiamo iniziato a maggio una banca del plasma. 1.248 pazienti guariti sono risultati idonei a donare il plasma. Per quanto riguarda le autorizzazioni non ci sono particolari problemi”. E allora perché in Italia nessuno sembra interessarsi veramente al plasma iperimmune? Alessandro Politi cerca una risposta sentendo il parere di numerosi esperti.

 (LaPresse l'11 maggio 2020) - Secondo la sperimentazione condotta dal Policlinico San Matteo di Pavia con l'Asst di Mantova su 46 pazienti, la mortalità dei malati curati con il plasma iperimmune è scesa dal 15% al 6%. E' quanto illustrato oggi da Regione Lombardia.

Da adnkronos.com l'11 maggio 2020. La cura del Covid19 con il plasma dei guariti "è qualcosa di importante perché accende veramente una grandissima speranza per la cura di questo virus". Lo ha detto il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, parlando della terapia con il plasma. "Voglio formalmente e pubblicamente ringraziare le persone che hanno partecipato e hanno dato il loro contributo per questa proposta, perché hanno aperto una strada che adesso è seguita anche in altre parti del mondo. Il protocollo predisposto da Pavia è richiesto e seguito da altre realtà nel mondo", ha aggiunto il governatore. "Sono molto orgoglioso di questa conferenza stampa dove si darà atto della sperimentazione portata avanti dal San Matteo e dall'ospedale di Mantova per la cura con il plasma. Questa mattina - ha detto Fontana - ho avuto un colloquio telefonico con il ministro Speranza, mi ha confermato che il Governo ha dimostrato particolare interesse per proseguire su questa iniziativa e che a sua volta ha indicato come i due punti di riferimento sperimentatori l'Università di Pavia e quella di Pisa, con ulteriori secondari ma non meno importanti sperimentatori Mantova, Brescia e Bergamo". Per la sperimentazione della cura, conclude il presidente della Regione, "il merito va riconosciuto in modo unico a Pavia e a Mantova, che sono stati primi ospedali a iniziare la sperimentazione e l'hanno portata a compimento".

Coronavirus e plasma iperimmune: il mondo ne parla, in Italia fioccano le polemiche. Le Iene News il 13 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci della possibile terapia con il plasma iperimunne, affrontando le critiche che vengono mosse da molti esperti in Italia. Mentre nel resto del mondo il protocollo su cui si lavora a Pavia, Mantova e ora anche Padova viene studiato con interesse. E intanto il governatore del Veneto Zaia si porta avanti. Alcide ha 81 anni, e ha rischiato di morire per il coronavirus. Oggi, dopo esser stato trattato con il plasma iperimmune, sta meglio: “Ero un mezzo cadavere”, dice ad Alessandro Politi. Ma dopo il plasma “ho sentito questa spinta interna, il corpo ce la fa. Quando si comincia a mangiare e aver voglia di vivere è una cosa meravigliosa”. Alessandro Politi e Marco Fubini ci hanno portato a conoscere la possibile terapia con il plasma iperimmune per combattere il coronavirus, che gli ospedali di Mantova, Pavia e adesso anche Padova stanno testando con risultati finora incoraggianti. E la notizia della sperimentazione ha fatto il giro del mondo. Negli Stati Uniti la terapia viene adesso testata in 116 università. In Italia però molti esperti sono scettici, sostenendo che “i plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”. E’ davvero così? “Tutti i servizi trasfusionali sono attrezzati per la raccolta del plasma, non è difficile da preparare”, ci dice la dottoressa Giustina De Silvestro, dell’azienda ospedaliera di Padova. “Una sacca di plasma costa intorno agli 80 euro”, aggiunge il professore di pneumologia a Padova Andrea Vianello. “Con tre somministrazioni siamo intorno ai 300 euro complessivi. I farmaci antivirali possono arrivare a costare anche 4, 5 o 6 volte di più”. “Al momento non c’è nessuna evidenza, né per i farmaci né per il plasma”, specifica Giustina De Silvestro. “Le consideriamo tutte terapie che possono contribuire all’evoluzione benigna delle malattie”. Ma il plasma iperimmune è sicuro? “Una delle caratteristiche è la sicurezza”, ci spiega Andrea Vianello. “Non è noto per causare importanti effetti collaterali. Lo possono ricevere tutti, salvo che non ci siano controindicazioni specificatamente legate al soggetto”. C’è anche un’altra critica mossa da molti esperti, tra cui il professor Burioni: “Questi plasmi si basano sulla disponibilità di persone guarite che abbiano questi anticorpi, che non sono tantissime”. I guariti in Italia oggi sono oltre 100mila, i malati ospedalizzati poco più di 13mila di cui mille in terapia intensiva. A conti fatti, ci sono quasi dieci potenziali donatori per ogni paziente in ospedale. Non tutti comunque hanno un plasma con alti livelli di anticorpi, solo un 60/80% ha un plasma utile: un numero comunque elevato. Negli Stati Uniti da poche settimane è partita una sperimentazione con il plasma, che coinvolge 7mila malati trattati in 2.178 ospedali.  “Sono tutti pazienti trattati in forme severe o gravi, che hanno bisogno di ossigeno o intubati“, ci dice il professor Alessandro Santin dell’università di Yale. E il dipartimento della Salute “ha contattato la Croce rossa americana chiedendo la raccolta e la distribuzione del plasma iperimmune e renderlo disponibile a tutti gli ospedali americani”. E sentendo le parole del professor Santin verrebbe da pensare che il problema della disponibilità del plasma dipende dalla raccolta, non dal numero dei donatori. E gli Stati Uniti, dove essenzialmente  non c’è un sistema sanitario pubblico, hanno deciso di investire soldi pubblici in questa ricerca. “Quello che abbiamo visto fino a oggi  è estremamente confortante”, ci dice ancora Santin. “Ma è solo quando riusciremo a confrontare tutti i pazienti con quelli che hanno ricevuto solo le terapie di supporto” che si riuscirà a capire “quanto il plasma aggiunge in termine di efficacia terapeutica”. Intanto, dopo la messa in onda del primo servizio sul plasma iperimmune, qualcuno fa una segnalazione ai Nas che intervengono per verificare come viene fatta la sperimentazione. Il professor Giuseppe De Donno viene attacca da molti esperti, e nel frattempo lui stesso oscura le sue pagine. Dopo qualche giorno riappare e dice: “Non sono disponibile in questo momento a risse televisive, a zuffe mediatiche con questo o quello collega, atteso che essendo noi tutti medici lavoriamo per una causa unica: la lotta al coronavirus”. E ci tiene a ricordare che il protocollo di ricerca “è stato preso come esempio da molti Stati europei e americani”. Mentre ci si azzuffa sull’efficacia e convenienza della terapia con il plasma iperimmune, c’è chi porta avanti: il governatore del Veneto Luca Zaia. “Se verrà confermato che il plasma funziona, tutti si gireranno verso le emoteche e diranno: il sangue dov’è? Noi quindi ci portiamo avanti”. Il Veneto ha infatti deciso di creare la più grande banca del sangue per raccogliere il plasma dei guariti dal coronavirus. Potete ascoltare le parole del governatore Zaia nel servizio qui sopra. “Dico a tutti i colleghi: accumulate sacche di sangue. Anche se dimostrassero che il plasma non funziona, si può utilizzare per altro”. E pochi giorni fa, su Nature, è uscito questo articolo: “Plasma di convalescenti, trattamento di prima scelta per il coronavirus”. Da tutta Italia ci hanno scritto persone guarite che vorrebbero donare, ma nelle loro regioni non ci sono ancora i centri per la raccolta del plasma iperimmune: cosa stiamo aspettando?

Plasma-terapia: così il salentino De Donno ha curato a Mantova 80 pazienti. Trnews.it il 4 Maggio 2020. Impiegando il plasma dei soggetti affetti da Covid ormai guariti, ha trattato più di 80 dei suoi pazienti con gravi problemi respiratori, evitando loro la morte. Giuseppe De donno, medico originario di Maglie, è alla guida del Reparto di Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Questa terapia sperimentale, sulla quale parte del mondo scientifico invita ad andarci cauti, è stata messa in pratica proprio da lui, partendo dalla scoperta dei direttori di Immunologia e Medicina Trasfusionale di Pavia e Mantova: i primi ad accorgersi che il sangue dei guariti avrebbe potuto aiutare il resto degli ammalati alle prese, ancora, con il coronavirus. Risultato: i pazienti con più sintomi, in poche ore, si sono ritrovati senza febbre, tosse e difficoltà respiratorie. La sperimentazione è stata già avviata al Policlinico di Bari. Oltre al plauso del sindaco di Maglie, il primario salentino nelle scorse ore è stato contattato anche dall’ONU: “Da parte della comunità scientifica internazionale -ha detto De Donno – è stato manifestato grande interesse a conoscere i risultati del nostro studio”. Non solo. Una seconda chiamata è arrivata direttamente da un consigliere del Sottosegretario alla Salute, che ha spiegato come anche negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia e ferve l’attesa per i risultati della sperimentazione condotta, appunto, a Mantova e Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari. In Italia, invece, le cose non filano proprio così lisce. Nei giorni scorsi, ad esempio, il primario salentino è stato contattato telefonicamente dai Nas, venuti a conoscenza della terapia al plasma applicata, eccezionalmente, su una donna incinta che, viceversa, avrebbe rischiato la sua vita e quella del bambino. Sebbene quotidianamente alle prese con diffidenza e lungaggini burocratiche, il primario salentino rassicura: “Non ci lasceremo sfiduciare”.

Covid, primario salentino a Mantova: “Il plasma dei guariti funziona”. Giuseppe De Donno, 53enne pneumologo di Morigino di Maglie: “A Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”. Il Gallo il 4 Maggio 2020.  La terapia basata sul plasma iperimmune prelevato dai pazienti con Covid-19 si sta rivelando efficace. Lo ha spiegato primario del Reparto Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma, Giuseppe De Donno, che, per inciso è salentino, originario di Morigino di Maglie. Tra Mantova e Pavia sono stati trattati quasi 80 pazienti con gravi problemi respiratori, nessuno dei quali è deceduto. “La mortalità del nostro protocollo finora è zero”, ha sottolineato il 53enne pneumologo magliese, “a Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.

“La richiesta di autorizzazione al comitato etico ci fa perdere tempo prezioso”. Sono stati arruolati dei volontari donatori di plasma tra persone già guarite dal coronavirus (per accertare la guarigione, gli esperti li hanno sottoposti a due tamponi sequenziali): “I donatori guariti”, ha spiegato in un’intervista radiofonica il dott. De Donno, “donano 600ml di sangue. Tratteniamo quindi il liquido che ha come caratteristica fondamentale la concentrazione di anticorpi, tra cui quelli contro il coronavirus”, ha aggiunto De Donno. Prima di procedere, però, gli esperti devono chiedere ogni volta l’autorizzazione al Comitato etico. “Si tratta di un impedimento enorme, perché ci fa perdere tempo prezioso per salvare le persone”, ha commentato il luminare salentino, “il plasma può essere congelato e durare fino a sei mesi in stoccaggio: questo ci ha portato a creare una banca del plasma a Mantova. Riusciamo anche ad aiutare altri ospedali che ci stanno chiedendo aiuto”. Per illustrare meglio quanto possa essere efficace il trattamento col plasma, De Donno ha raccontato di Francesco, un ragazzo di 28 anni ricoverato in terapia intensiva: “Le sue condizioni si sono aggravate lo scorso venerdì. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Comitato Etico, l’abbiamo trattato col plasma iperimmune. Dopo 24 ore era già sfebbrato e stava bene. Da poco lo abbiamo svezzato dal ventilatore. È un ragazzo arrivato qui senza altre patologie: doveva essere intubato e invece tra due giorni potremo restituirlo ai suoi genitori”. Francesco non è l’unico: circa un centinaio di pazienti con coronavirus sono guariti grazie alla cura col plasma iperimmune. “Finora non abbiamo avuto decessi tra le persone trattate. E i segni clinici tendono a sparire dalle 2 alle 48 ore dopo il trattamento”, ha concluso De Donno. “abbiamo sottoposto i risultati ottenuti alla comunità scientifica e siamo in attesa di pubblicazione. Senza alimentare false speranze”, ammette infine, “se la malattia ha lavorato a lungo fino a compromettere la funzionalità degli organi, il plasma non è sufficiente a salvare il paziente”.

Congratulazioni da Maglie. Intanto dal Salento, in particolare da Maglie arrivano le congratulazioni del sindaco Ernesto Toma: “Non ho le competenze per giudicare il lavoro che in questo periodo stanno compiendo medici e scienziati”, ha postato il primo cittadino, “voglio però congratularmi da cittadino magliese con il dott. Giuseppe De Donno, originario di Morigino di Maglie, dirigente del reparto di pneumologia di Mantova, in Lombardia epicentro dell’epidemia, che da quasi un mese ha azzerato i morti per Covid. A Mantova hanno utilizzato e testato il plasma iperimmune ricavato dal sangue dei guariti senza tante passerelle e questo potrebbe essere utile anche in altre parti d’Italia. Spero”, ha concluso, “di poter salutare a Morigino, anche quest’estate, insieme ai suoi parenti, il dottor De Donno”.

Plasmaterapia, De Donno contro Burioni: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Riccardo Castrichini il 04/05/2020 su Notizie.it. De Donno contro Burioni sulla Plasmaterapia sminuita in malo modo dal famoso virologo dei talk show. Il primario di Pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, ha sperimentato con successo la Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid gravemente malati. Questa scoperta che potrebbe salvare la vita a molte persone è stata però banalizzata dal virologo Roberto Burioni come “nulla di nuovo”. L’esternazione del virologo più famoso dei talk show ha fatto molto innervosire De Donno che a Radio Cusano Tv Italia, si è così espresso: “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca. Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”. Il riferimento a Burioni è presto fatto. La Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid consiste nell’infusione di plasma iper immune (o super immune) nell’organismo di pazienti gravemente malati. Per De Donno si tratterebbe di una vera arma magica, che consentirebbe di salvare molte persone. É lo stesso primario a sottolineare tra l’altro la sua volontà di non arrogarsi alcun merito circa l’invenzione di nulla. La sua struttura, insieme al Policlinico di Pavia, avrebbe solo perfezionato un’idea che già esisteva e generato un protocollo ambiziosissimo.

Come funzione la Plasmaterapia. Per rendere possibile questa tecnica, sono stati fondamentali i donatori di sangue dei guariti Covid che devono avere caratteristiche fondamentali e il cui plasma deve essere certificato come contenente di anticorpi iper immuni. Ognuno dei guariti, ha spiegato De Donno, dona poco più di mezzo litro di sangue ma, per usarlo, d’ora in poi, pare stiano sorgendo degli impedimenti: “Adesso ogni volta dobbiamo chiedere l’autorizzazione al Comitato etico e questo ci fa perdere tempo prezioso”, spiega il primario di Pneumologia del Carlo Poma. Certo, il plasma può essere congelato, motivo per cui a Mantova hanno creato una banca del plasma per conservarlo ed eventualmente aiutare gli altri ospedali che ne fanno richiesta. De Donno ha detto che “creando banche plasma in giro per l’Italia riusciremmo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.

Coronavirus, il plasma iperimmune e lo scontro tra Burioni e il primario di Mantova. Le Iene News il 02 maggio 2020. All’ospedale di Mantova si lavora a una possibile terapia per il coronavirus usando il plasma dei pazienti già guariti dal COVID-19. In un video sul suo sito il professor Burioni parla dei pro e dei contro di questa cura, ma il primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova lo ha attaccato su Facebook: ecco qual è l’oggetto della contesa. Il plasma dei guariti dal coronavirus può curare i malati di COVID-19? E’ la teoria su cui stanno lavorando al Carlo Poma di Mantova e al policlinico San Matteo di Pavia. I due ospedali lombardi hanno concluso da pochi giorni la sperimentazione e “i risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice il responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma. Intorno a questa possibile cura per il coronavirus si è scatenata una lotta sui social tra Roberto Burioni e il primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, il dottor Giuseppe De Donno. Ma andiamo con ordine: cos’è la terapia in discussione? Secondo molti ricercatori una possibile cura per i pazienti affetti da una forma severa di COVID-19 sarebbe il trattamento con “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Non esiste ancora certezza assoluta che questa cura possa essere efficace, ma gli ospedali di Pavia e Mantova hanno appena concluso una sperimentazione che avrebbe portato a esiti molto soddisfacenti: "I risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice Massimo Franchini, responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma di Mantova. “Ora con i colleghi di Pavia stiamo riesaminando tutti i casi, valutando la risposta clinica e strumentale, per trarre delle conclusioni generali su questa che è una terapia specifica contro COVID-19". Una possibile terapia di cui si sta parlando molto in rete, e che ha dato adito anche una bufala secondo cui si rischierebbe di contrarre altre malattie: “Il plasma prodotto in questo modo è sicuro e la possibilità che trasmetta malattie infettive è pari a zero”, specifica Franchini. Che poi aggiunge: "Si tratta di una terapia di emergenza, ma noi non abbiamo realizzato un protocollo d'emergenza: si tratta di un lavoro rigoroso che segue le indicazioni del Centro nazionale sangue. Il risultato è una terapia specifica e mirata, all'insegna della massima sicurezza". In attesa di un vaccino sembra che i risultati ottenuti finora siano molto importanti. Perché allora s’è scatenata una polemica con Roberto Burioni? Il noto virologo il 29 aprile ha pubblicato un video sul suo blog MedicalFacts, in cui ha commentato la terapia col plasma. Tra le varie cose che ha detto Burioni afferma che “è qualcosa di serio e già utilizzato”. Insomma, il professore conferma che non stiamo parlando di una qualche strana terapia. Però poi aggiunge che “non è nulla di nuovo”, perché in passato anche altre malattie sono state trattate in modo simile. Inoltre, racconta Burioni, già in Cina si è sperimentata questa terapia. “Una prospettiva interessante, ma d’emergenza. Non può essere utilizzata ad ampio spettro”, dice. Ricordando poi tutte le necessarie precauzioni e protocolli da rispettare. E poi aggiunge: “(Questa cura) diventa interessantissima nel momento in cui riusciremo a stabilire con certezza che utilizzare i sieri dei guariti fa bene, perché avremo aperta una porta eccezionale per una terapia modernissima: un siero artificiale” prodotto in laboratorio. Parole insomma tutto sommato positive verso gli studi e le sperimentazioni sulle cure con il plasma, che però a qualcuno non sono andate giù. Parliamo del dottor Giuseppe De Donno, primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova. Il medico infatti ha attaccato frontalmente Burioni su Facebook: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, scrive in un post. “Forse il prof non sa cosa è il test di neutralizzazione. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di AVIS glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Ora, ci andrà lui a parlare di plasma iperimmune. Ed io e Franchini alzeremo le spalle, perché.... importante è salvare vite! Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano”. E poi una postilla, che sembra suonare come un’accusa: “PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”, conclude. Non sappiamo a cosa De Donno intendesse alludere: quello che sappiamo per certo è che se il plasma iperimmune sarà confermato come terapia valida, ci sarebbe una nuova e formidabile arma nella lotta contro il coronavirus.

Coronavirus, Melania Rizzoli: la trasfusione del plasma degli infetti fa sparire il Covid-19 in 48 ore. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 01 maggio 2020. Al culmine dell' epidemia da Coronavirus, tra la disperazione dei medici di trovarsi di fronte ad una nuova malattia orfana di farmaci mirati a combatterla, in alcuni reparti di Terapia Intensiva della Lombardia è stata usata, tra le tante che venivano tentate, una particolare terapia sperimentale d' emergenza sui pazienti più a rischio e in quelli più gravi con prognosi infausta, scaturita da una intuizione umana che ha dato risultati, visti nei singoli casi, davvero sorprendenti. Si tratta della trasfusione del plasma dei soggetti guariti infusa direttamente nelle vene dei malati agonizzanti di Covid-19, i quali incredibilmente hanno visto migliorare il loro stato clinico entro 12/48 ore dal trattamento, una modalità sperimentata per la prima volta all' ospedale Carlo Poma di Mantova e al Policlinico San Matteo di Pavia, il cui principio scientifico è stato quello di usare la parte liquida del sangue proveniente da donatori, ovvero da persone guarite dal Covid e tornate sane, le quali, per sconfiggere la malattia, avevano sviluppato i famosi "anticorpi neutralizzanti" contro il virus, che sono stati in tal modo trasferiti direttamente nell' organismo del malato. Si è trattato in pratica di una trasfusione di plasma iper-immune, ricco di anticorpi specifici e naturali contro il Coronavirus, che è stato trasferito in pazienti critici in affanno respiratorio, ricoverati in terapia intensiva e sub-intensiva, un tentativo terapeutico che ha funzionato fin dal primo trattamento e che ha visto diversi malati migliorare in breve tempo e non avere più bisogno della Rianimazione. A Mantova questo approccio è stato sperimentato già su 25 pazienti, ed è stato un lavoro impegnativo a partire dalla selezione dei donatori, i quali dovevano essere guariti da almeno due settimane, avere almeno due tamponi negativi, non dovevano essere affetti da altre comorbilità e soprattutto dovevano essere idonei a donare il loro plasma, ovvero avere prodotto un livello di anticorpi sufficiente per la donazione e per ottenere l' effetto terapeutico auspicato. Il sangue dei donatori è stato centrifugato e separato dalla sua parte corpuscolare, cioè dai globuli bianchi, dai globuli rossi e dalle piastrine, in modo da non avere problemi di compatibilità di gruppi sanguigni, ed è stata utilizzata solo la parte sierosa, ovvero il plasma, quella che custodisce gli anticorpi specifici contro il virus con il loro sicuro effetto terapeutico. Naturalmente i donatori sono stati sottoposti, secondo le indicazioni del Centro Nazionale Sangue, a tutta una serie di analisi per registrare l' assenza di malattie infettive trasmissibili virali o batteriche e confermare la sicurezza del loro plasma, al punto che la selezione è stata rigidissima, e sui primi 100 donatori solo 30 sono risultati idonei alla donazione. Per determinare se la trasfusione di plasma da persona convalescente può essere utilizzata nel trattamento di pazienti critici con polmonite virale è quindi imperativo determinare la quantità di anticorpi specifici e neutralizzanti presenti che lo renda iper immune e idoneo ad attaccare e disattivare il virus ancora attivo dei riceventi, così da spegnere la sua carica virale, interrompere la sua azione distruttiva e condurre il malato a guarigione. Negli ospedali di Pavia e di Mantova, dall' inizio di questa sperimentazione, non si sono registrati morti di Covid, e la stessa sperimentazione è in atto dal 15 aprile all' ospedale Maggiore di Novara, in aggiunta a tutte le altre terapie farmacologiche, con questo "farmaco" prodigioso prodotto dall' organismo umano, ovvero immunoglobuline specifiche e naturali, prodotte dal sistema immunitario, che sono risultate efficaci sia dal punto di vista biochimico che immunologico, un protocollo che è stato testato anche su una giovane donna incinta, portatrice di una gravidanza a rischio incompatibile con la Terapia Intensiva, che ha visto regredire la sua malattia infettiva in poche ore. Tra cautela ed ottimismo in Lombardia si è conclusa da pochi giorni la prima sperimentazione sul plasma dei guariti per trattare i pazienti con Covid-19, e riesaminando tutti i casi andati a buon fine, valutando la loro risposta clinica e strumentale sarà forse possibile inserire questa terapia tra le specifiche contro l' infezione virale da Coronavirus, e tale sperimentazione è la prima sul plasma dei guariti ad essersi conclusa, anche se sono diversi i trial in corso a livello internazionale sulla potenzialità di tale trattamento (usato anche contro il virus Ebola). In una situazione di emergenza è stato realizzato un protocollo emergenziale su un modello terapeutico già testato dai medici cinesi di Wuhan, una sieroprofilassi non nuova nel mondo scientifico, usata in passato quando, in assenza di terapie specifiche, si doveva rafforzare lo status di malati immuni compromessi, i più esposti a complicanze di ogni genere e organo. Tale tentativo terapeutico è però definito "immuno-modulante", ovvero profondamente diverso da un vaccino, il quale determina una "immunizzazione attiva" in chi lo riceve, mentre in questo caso gli anticorpi sono già stati prodotti da un altro individuo e vengono trasfusi in un malato che non ne ha in quantità sufficiente a superare la malattia. In questo caso si parla di "immunizzazione passiva" che aiuta a mantenere e rafforzare le difese naturali. I candidati a tale tipo di trattamento sono i pazienti affetti da Coronavirus che presentano insufficienza respiratoria severa o in rapida progressione, quelli che non si trovano ancora in Terapia Intensiva ma che sono a rischio di peggioramento e che hanno bisogno della ventilazione assistita, poiché questo risulta il momento più adeguato per la somministrazione della terapia plasmatica, la quale offre la possibilità di bloccare il peggioramento dei sintomi, mentre se un paziente è ricoverato in terapia intensiva da oltre 10 giorni questo trattamento risulta perdere di efficacia per le condizioni cliniche ormai troppo compromesse. Il protocollo di somministrazione prevede infusioni di volumi da 200 a 600 ml di plasma iper immune una volta al giorno, per tre giorni consecutivi, e i primi dati dovrebbero essere riscontrabili sin dalla prima somministrazione. Naturalmente è presto per trarre conclusioni generali prima di una analisi ad ampio spettro, perché per confermare la validità di tale terapia sperimentale è necessario trattare un numero elevato di pazienti, registrarne i risultati e certificarne le guarigioni, e soprattutto selezionare un numero elevatissimo di donatori guariti o convalescenti, che vengono invitati appunto a donare il loro plasma, per affilare la punta di una freccia terapeutica che tutti i medici si augurano possa centrare il bersaglio, quel perfido virus che li ha beffati e che, incurante del loro impegno, ha provocato in sole sei settimane migliaia di morti.

Coronavirus, la cura c’è ma non se ne parla. Da Pavia e Mantova la svolta. Ospedali di Pavia e Mantova che non hanno morti da un mese. Curano con la sieroterapia, le trasfusioni di plasma dei guariti. Sintomi eliminati in 2 - 48 ore. Antonio Amorosi Sabato, 25 aprile 2020, su Affari Italiani. Quanto sta accadendo tra Pavia e Mantova ne è la prova: abbiamo medici eccezionali in un sistema globale discutibile, in tanti casi marcio. E’ stato normale mandarli a morire senza protezioni, come per la Cina ritardare di 2 settimane la comunicazione della sequenza del genoma o per l’OMS ripetere il 14 gennaio, a contagio diffuso, quanto affermava l’autorità cinese: “non ci sono trasmissioni da uomo a uomo”. Il 21 febbraio ancora dicevano che gli asintomatici non erano fonte di contagio. Quando i morti sono tanti è sempre tardi per chiedersi se si poteva fare altro e se qualcuno ne risponderà mai. Nel nostro Paese ad un sistema sanitario che funziona a macchia di leopardo si contrappongono medici in prima linea che per salvarci ci stanno lasciando “le penne”. Per fortuna lo abbiamo nel dna: quando a noi italiani dici di fare qualcosa, non la facciamo. Cerchiamo prima di capire perché ci è stato dato quel comando. Come sarà successo al parassitologo molecolare Andrea Cristanti che facendo tamponi di massa a Vò Euganeo ha compreso che gli asintomatici sono fonte di contagio e andavano isolati. L’autonomia di pensiero e una buona dose di coraggio e responsabilità, unita a molta competenza in un mare di mediocrità, porta oggi alcuni centri medici a raccontare la loro terapia di successo contro il Covid 19: la sieroterapia. Si, perché in alcuni ospedali non si verificano più decessi per Covid da un mese e il Coronavirus sparisce dopo un trattamento che va dalle 2 alle 48 ore, eliminando ogni traccia di sintomo. Wow, direte, e come mai non lo dicono in tv e non se ne sente parlare? “Non abbiamo un decesso da un mese. I dati sono splendidi. La terapia funziona ma nessuno lo sa”, racconta entusiasta ma con una vena di sarcasmo Giuseppe De Donno, direttore di Pneumologia e Terapia intensiva respiratoria del Carlo Poma di Mantova. In questo strano cortocircuito tra scienza, politica ed informazione accade infatti altro. “Tutti i giorni in tv ”, dice De Donno, “ascoltiamo chi negava che il Coronavirus potesse arrivare in Italia o parlava di influenza o che colpiva solo gli anziani. Gli unici che ci capiscono qualcosa lavorano ventre a terra dal primo giorno dell’epidemia e non hanno il tempo di vivere in televisione. Hanno inventato questa terapia fantastica ma purtroppo lo spazio avuto fino ad ora sui media è esiguo”.

De Donno: “Sono entusiasta di vedere le persone guarite così velocemente. E’ l’unico trattamento razionale, sia biochimico che immunologico del Coronavirus che c’è in questo momento. Non esisterà farmaco più efficace del plasma. E’ come il proiettile magico, si usano immunoglobuline specifiche contro il Coronvirus. Va utilizzato in fase precoce. Se invece si aspetta che il paziente sia moribondo... allora si fa un errore e ci vuole solo il prete, ecco! Ma è lo stesso discorso dell’aspirina nella prevenzione dell’infarto. Se la usi in una persona che è già cardiopatica, non conta nulla”. I limiti della terapia? Ce li spiega De Donno ridendo: “Costa poco, è fattibile e pure democratica. Abbiamo 7 o 8 donatori tutti i giorni”. Sono circa 80 i pazienti del Carlo Poma di Mantova curati con successo, tra loro anche una donna incinta di nome Pamela, uscita dal Covid in poche ore. Tra i medici del Carlo Poma guariti c’è chi dona il sangue, come il dottor Mauro Pagani, direttore della Plasmaferesi: “Ora sto bene e voglio aiutare chi ha bisogno”.

Funziona così. “Chi dona deve essere sano, guarito dal Covid e ad avere degli anticorpi neutralizzanti”, racconta il direttore di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale Massimo  Franchini. “Si prelevano 600 ml di plasma, da cui si ricavano 2 dosi da 300 ml ciascuna. Il protocollo prevede 3 somministrazioni. Dopo la prima somministrazione c’è un monitoraggio clinico di laboratorio e nel caso di mancata risposta c’è la seconda somministrazione e così di seguito. A distanza di 48 ore l’una dall’altra. La compatibilità per il plasma viene fatta sul gruppo sanguigno”. Franchini ci spiega che il plasma ha un notevole livello di sicurezza virale ed è un prodotto assolutamente sicuro e rigoroso e va nei dettagli: “Se il vaccino, che non abbiamo, ti farebbe produrre gli anticorpi, questa che è un immunoterapia passiva trasferisce gli anticorpi dal guarito al malato. Il paziente non produce nulla e non crea nulla. Ma funziona per salvarlo”. Quando gli chiediamo perché non si diffonde questa strada ci spiega che effettivamente in Lombardia si sta adottando. Tra Mantova e il San Matteo di Pavia è partita la sperimentazione su un nucleo di 45 persone, tutte curate con successo. Chi di sicuro non ha tempo per le passerelle tv è il Direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del policlinico San Matteo di Pavia, Cesare Perotti, che ha sviluppato il protocollo e lo studio sul sangue e si chiama “plasma iperimmune”.

Ma è un intervento empirico?

Perotti: “Qui di empirico non c’è niente ma si fa in situazioni di grandi epidemia. C’è una validazione della terapia con il plasma iperimmune che non ha eguali nel mondo. Sono conosciuto per non essere uno che ‘le spara’ e le posso dire che in questo momento è il plasma più sicuro al mondo, perché la legislazione italiana ha delle regole stringenti che non ci sono in Europa e in nessun altro Paese al mondo, neanche negli Stati Uniti. Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma abbiamo degli esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi al policlinico di Pavia. Neanche gli americani sono in grado di farlo in questo momento. Non ha eguali al mondo. Noi sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Uno strumento importante questo da utilizzare nel caso, usciti dalla quarantena, si ripresentasse uno scenario di contagio. Perotti: “Stiamo accumulando plasma per un’eventuale seconda ondata di contagi. E’ una terapia per chi sta male oggi. Ben venga il vaccino ma in attesa il protocollo funziona eccome! Lo studio è stato depositato. Tutto quello che le hanno detto, che si esce in 48 ore, è vero”. Certo non ci sono ancora migliaia di persone testate ma la sieroterapia è una cura moderna utilizzata dal 1880. 

 (ANSA il 2 aprile 2020) - Alcuni malati hanno già ricevuto il plasma di pazienti guariti dal Coronavirus che quindi hanno sviluppato gli anticorpi: è così entrata nel vivo al Policlinico di Pavia la sperimentazione della plasmaterapia, Il protocollo è stato predisposto dal servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale del San Matteo, in collaborazione con altre strutture come l'Ats di Mantova. I primi due a donare sono stati i medici di Pieve Porto Morone (Pavia), marito e moglie, primi casi di contagio da Covid-19 in provincia di Pavia.

“La plasmaterapia funziona. Pronto alla galera pur di salvare un paziente”. Il Dubbio il 5 maggio 2020. Il professor Giuseppe De Donno dell’ospedale di Mantova: “Abbiamo trattato 48 pazienti e non abbiamo avuto decessi”. “Se dovessi scegliere tra salvare una vita ed andare in carcere non ho dubbio in merito. Anche se non dovessi avere l’autorizzazione del comitato etico per me la vita e’ sacra. Sono un cattolico praticante e la vita è l’obiettivo della mia professione”. Lo ha detto il primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, a Tv2000 in collegamento con il programma "Il mio medico" in merito alla plasmaterapia da lui inventata per salvare la vita di altri pazienti gravi affetti da coronavirus. “Tra pochi giorni- ha annunciato De Donno a Tv2000- pubblicheremo la nostra produzione scientifica sulla plasmaterapia. Nei 48 pazienti arruolati nel nostro studio non abbiamo avuto alcun decesso anzi sono tutti guariti e ora sono a casa. Chiedo ai nostri legislatori che una volta pubblicato il lavoro ci diano la possibilità di usare il plasma iperimmune come si usano altri farmaci perchè abbiamo in mano un’arma che è l’unica in questo momento che agisce contro il coronavirus”.

“La plasmaterapia - ha proseguito -  è un atto democratico che viene dai pazienti e torna ai pazienti. I pazienti guariti da coronavirus donano il loro plasma ricco di anticorpi che serve per guarire altre persone. Ogni donatore riesce a far guarire due pazienti riceventi”. “L’intuizione della plasmaterapia- ha rivelato De Donno a Tv2000- nasce quando io e il mio infettivolgo il prof. Casari ci siamo trovati una notte a gestire il pronto soccorso con i colleghi che erano disperati perchè erano arrivati 110 pazienti. Anche la nostra direttrice sanitaria, anche lei sull’orlo della disperazione, ci aveva chiamati per chiederci se qualcuno dei nostri medici poteva andare ad aiutare i medici del pronto soccorso. Ci siamo andati noi come gli ultimi degli specializzandi con grande umiltà. Quella notte abbiamo capito che dovevamo inventarci un’arma che ci aiutasse a salvare i pazienti”.

La polemica con Roberto Burioni. Nei giorni scorsi il professore De Donno aveva polemizzato con Roberto Burioni che aveva minimizzato la plasmaterapia. : “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria – dichiara De Donno – anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca”. Burioni  aveva commentato la terapia di recente ed il suo approccio allo studio di De Donno non è stato in realtà negativo. Ha parlato di un “qualcosa di serio e già utilizzato”. Certo, dal suo punto di vista resta una soluzione “d’emergenza e che non può essere utilizzata ad ampio spettro” ma De Donno non l’ha comunque presa bene: “Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”.

La terapia del plasma nel mondo. De Donno contattato da Onu e Usa. Affari Italiani Lunedì, 4 maggio 2020. E' il caso lanciato da Affari degli ospedali di Mantova e Pavia. Come far mangiare la frutta ai bambini? I successi dell’ospedale Carlo Poma con la terapia del plasma iperimmune per i malati di covid approdano oltre Atlantico e arrivano alle Nazioni Unite e tra i più stretti collaboratori del Governo Usa. Il caso è quello emerso alla ribalta della cronaca dopo questo articolo di Affaritaliani.it di sabato scorso.  Tutto accade ieri a metà pomeriggio quando il primario della Struttura di Pneumologia del Poma Giuseppe De Donno riceve una telefonata da un alto rappresentante dell’Onu, come si legge su mantovauno.it. “Voleva complimentarsi con il nostro ospedale – spiega De Donno – per la sperimentazione del plasma iperimmune su cui c’è molta attenzione da parte della comunità scientifica internazionale. Mi ha detto che sono molto interessati a conoscere i risultati del nostro studio”. Passa solo mezz’ora e a De Donno arriva una seconda telefonata: questa volta è un consigliere del sottosegretario alla salute. Anche lui si complimenta con il medico mantovano, gli spiega come pure negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia del plasma iperimmune e, come era accaduto per l’alto funzionario Onu, anche lui gli dice che c’è molta attesa per i risultati della sperimentazione conclusa dall’ospedale mantovano insieme a quello di Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari: è al via una sperimentazione su infermieri e medici a cui sarà infuso preventivamente il plasma iperimmune, per aiutare le loro difese nel caso in cui venissero infettati. L’infusione dovrebbe  avere un’efficacia di qualche settimana ma ovviamente, trattandosi di plasma. potrebbe essere ripetuta. E intanto proprio domani De Donno sarà protagonista di una iniziativa a stelle e strisce. Interverrà infatti a un evento promosso da NYCanta (Il Festival della Musica Italiana di New York) e l’Associazione Culturale Italiani di New York, in collaborazione con la Nazionale Italiana Cantanti. Si tratta di un pomeriggio, che prenderà il via alle 15,30, tra parole e musica con tanti big della musica italiana tra cui Fausto Leali, Al Bano, Enrico Ruggeri, Riccardo Fogli, Stefano Fresi, Paolo Vallesi, Massimo di Cataldo. L’intento è quello di promuovere una raccolta fondi a sostegno della creazione di un centro di ricerca etico sul plasma all’ospedale Carlo Poma di Mantova. Un centro, indipendente dalle case farmaceutiche, che in futuro potrebbe poi occuparsi di altre ricerche.

Il professor De Donno: “Quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto. In Italia non mi cerca nessuno”. De Donno, il prof della plasmaterapia: “Mi ha chiamato l’Onu, ho pianto”. (Selvaggia Lucarelli – tpi.it 5 maggio 2020) – Il direttore della Pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, che sta sperimentando, sembra con risultati incoraggianti, la terapia sui pazienti Covid col plasma dei pazienti guariti, oggi ha rilasciato un’intervista a Radio Bruno in cui è tornato sulle polemiche dei giorni scorsi. In particolare, ha commentato le parole di Roberto Burioni che ospite di Che tempo che fa aveva affermato: “La plasmaterapia è una tecnica già in uso, si vedrà nelle prossime settimane se funziona. Ha dei limiti, perché serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche. Questi plasmi non sono la soluzione ideale, sono costosissimi e difficilissimi da preparare, si basano sulla disponibilità di persone guarite che non sono tantissime, è un approccio di emergenza, se si dimostra che anticorpi funzionano possiamo riprodurli artificialmente in laboratorio”. De Donno, stamattina in radio si è sfogato con una certa amarezza: “La plasmaterapia è l’unica terapia specifica per il Coronavirus, si destina il plasma solo a pazienti che non abbiano storie di insufficienza respiratoria per più di 10 giorni. Oggi noi a Mantova abbiamo il maggior numero di pazienti nell’ambito di questo protocollo e nella nostra sperimentazione non abbiamo avuto alcun decesso tra 48 pazienti con polmoniti”. E poi: “Leggo corbellerie immani sulla plasmaterapia, oggi ho letto di chissà quali indagini che vanno fatte e di una terapia costosa, noi non abbiamo avuto reazioni avverse e gli indici di infiammazione si sono ridotti, per cui oggi quei 48 pazienti sono tutti a casa con le loro famiglie. Riguardo i costi, tenendo conto di tutti gli elementi, dalla sacca al personale alla macchina e ai reagenti, ogni sacca da 600 ml costa 164 euro. Per un paziente la usiamo da 300 ml, vuol dire che ne costa 82 a terapia, più o meno quanto gli integratori per la palestra. Se sono tanti per salvare una vita non ho capito nulla della medicina”. Il professor De Donno ha poi commentato l’interesse internazionale su questa sperimentazione: “Mi stanno chiamando tutti, ieri il console del Messico, l’Onu, il consigliere del ministro della Salute americana, abbiamo avuto proposte di lavoro nei centri di ricerca stranieri. Ogni volta che mi chiama un istituto straniero e non mi chiama mai il nostro Istituto superiore di sanità o non sento il nostro ministro della Salute sono grandi dolori per un ricercatore come me, che fa il medico ospedaliero e che si è speso, che è stato in prima fila nell’emergenza Covid lavorando di notte in pronto soccorso”. De Donno non nasconde l’amarezza: “Quando mi ha telefonato l’alto funzionario dell’Onu ho pianto dalla commozione, finita la telefonata, però, ho provato un grande senso di amarezza perché questa sperimentazione è una chance che stiamo dando al nostro paese e lo dico a prescindere dal risultato finale, perché magari questa sperimentazione dirà che mi sto sbagliando e nel caso lo ammetterò, ma non credo. Però abbiamo in mano una sperimentazione terapeutica che può cambiare la sorte di questa epidemia e dei pazienti, l’amarezza resta”. Infine, commenta le dichiarazioni di Roberto Burioni sui costi alti e le difficoltà di reperimento del plasma: “Questa per me è la cosa più grave e mi ha fatto più male perché mettere in dubbio la rete trasfusionale italiana, il fatto che il plasma possa essere insicuro e trasmettere malattie mette una grossa ombra rispetto al nostro sistema trasfusionale che è uno dei più sicuri del mondo. È inaccettabile che il presidente di Avis nazionale non sia intervenuto su questo ma sia intervenuto mettendo in dubbio la nostra sperimentazione che è stata fatta con grande serietà e con criteri di arruolamento specifici e stringenti pubblicati per dirimere ogni dubbio”.

Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Pavia, Mantova, Lodi, Novara, Padova. In arrivo anche Pisa e un laboratorio in Puglia. La plasmaterapia sta scatenando entusiasmi e polemiche. Ma a vincere è la prudenza, la necessità di avere dati scientifici inconfutabili. «L' uso del plasma da convalescenti come terapia per Covid-19 è oggetto di studio in diversi Paesi del mondo, Italia compresa. Il trattamento non è consolidato perché non sono ancora disponibili evidenze robuste sulla sua efficacia e sicurezza» sintetizza il ministero della Salute. «Perché il governo non chiede nulla e l' Istituto superiore di sanità se ne disinteressa?» chiede polemico il leader della Lega Matteo Salvini in diretta su Facebook. Per chiarirsi le idee bisogna fare un passo indietro. Al Policlinico San Matteo di Pavia e all' Ospedale di Mantova il plasma immune è stato infuso in 52 pazienti con esiti definiti «confortanti». Si attende un bilancio di questa prima fase di sperimentazione. Un progetto internazionale che in Lombardia si avvale anche della collaborazione di Avis per il reclutamento dei donatori. Negli Stati Uniti sul plasma dei guariti scommettono in molti, a partire dalla Food and Drug Administration , l'ente di regolamentazione dei farmaci, che ha messo un annuncio in grande evidenza sul proprio sito: «Donate Covid-19 plasma».

Come funziona la tecnica? Il plasma (parte liquida del sangue) prelevato da persone guarite viene purificato e poi somministrato a pazienti con Covid. L' obiettivo è trasferire gli anticorpi specifici a chi ha l' infezione in atto per sostenerne la risposta immunitaria. Prima di questo passaggio sono necessari dei test di laboratorio per quantificare i livelli di anticorpi in grado di combattere efficacemente il coronavirus. Non solo: le procedure sono volte a garantire la massima sicurezza per il ricevente. Gli anticorpi sono proteine prodotte dai linfociti B: quelli cosiddetti «neutralizzanti» hanno il potere di legarsi all' agente patogeno, rendendolo inoffensivo. Ma esistono anche altri tipi di anticorpi, che possono essere inutili o addirittura dannosi per l' organismo. «Quella del plasma è una risorsa terapeutica nota da oltre 50 anni - ha spiegato Pierluigi Viale, direttore dell' Unità di Malattie infettive al Policlinico Sant' Orsola di Bologna -, ma sarebbe necessario mettere in atto uno studio prospettico randomizzato e soprattutto verificarne l' efficacia in fase più precoce di malattia e in assenza di co-trattamenti». Non solo. Isolare anticorpi dai guariti non è semplice né economico, al contrario di quel che si potrebbe pensare. «La terapia al plasma è interessante e importante, un approccio molto sofisticato. Bisogna saperlo fare e avere grandi tecnologie - ha precisato Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza -. Consente di traferire gli anticorpi naturali da un soggetto a un altro: è una cosa difficile, costosa e complessa. Se questi anticorpi naturali funzionano, la sfida è produrli artificialmente e in larga scala, altrimenti si potrebbero proteggere e curare solo poche persone».

Simone Pierini per leggo.it il 7 maggio 2020. Mentre tutti cercavano Giuseppe De Donno, primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, ormai paladino del web per la terapia del plasma iperimmune, è passata in secondo piano la precisazione della struttura ospedaliera dove opera: proprio l’ASST di Mantova. Su Leggo.it proviamo a fare chiarezza. «Anche in questa azienda l’effetto letale del virus si è manifestato, avviato uno studio specifico per valutare questa casistica». Una nota apparsa sul sito ufficiale dell’ospedale il 5 maggio che ha sentito la necessità di puntualizzare e calmare le acque di un fenomeno che ha scatenato la “guerra” tra complottisti, virologi e politici (tra cui Matteo Salvini che ha usato tutti i suoi profili puntando il dito contro il governo colpevole secondo lui di voler nascondere la terapia), aprendo un dibattito che aveva assunto toni troppo aspri. Tra l'altro, sempre il 5 maggio, anche il ministero della Salute aveva pubblicato sul sito internet le informazioni sulla terapia al plasma. La prima considerazione è indicativa: la sperimentazione non è partita dal Poma di Mantova e, di conseguenza, non si tratta di una scoperta del dottor De Donno attorno al quale ieri si è creato un giallo. Improvvisamente salito alla ribalta per il suo scontro a distanza con Roberto Burioni, le sue lamentele per non essere ascoltato, da un giorno all’altro i suoi profili social sono “scomparsi”. Si è immediatamente gridato al complotto: «Lo hanno oscurato», hanno gridato in molti su Facebook e Twitter. A quanto pare sembra che sia andata diversamente e che lo pneoumologo si sia chiuso in una sorta di “silenzio stampa”. «L’ASST di Mantova - si legge nella nota apparsa sul sito - ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione». A lanciare la sperimentazione è in effetto stato il laboratorio di virologia molecolare del Policlinico San Matteo di Pavia diretto da Fausto Baldanti che, durante Che tempo che fa, ha parlato di «risultati incoraggianti» specificando però come si trattasse di «un trial che è in fase di completamento», ma «che questa non sia la soluzione del problema» che «arriverà con il vaccino, con farmaci specifici oppure con la sintesi di questi stessi anticorpi in maniera ingegnerizzata, cose che richiedono tempo». Tornando alla precisazione dell’ASST di Mantova, si legge: «Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati». Poi viene fatta chiarezza sulla richiesta di informazioni dei Nas, letta dal mondo del web come un tentativo di frenare la sperimentazione al punto che lo stesso De Nonno aveva dichiarato: «non mi farò scoraggiare». «Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni - ha scritto il Poma di Mantova - si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione». Infine il passaggio chiave, sulla necessità di non mettere in contrapposizione l’utilizzo del plasma iperimmune con la ricerca di un vaccino, e un chiarimento sui decessi: «La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica».

Pamela, incinta, curata con il plasma. E arrivano i Nas in ospedale. Lo pneumologo De Donno: non mi intimidite. Redazione de Il Secolo d'Italia domenica 3 maggio 2020. Coronavirus, una donna incinta, Pamela, sta bene dopo la cura col plasma iperimmune all’ospedale di Mantova. Ma alle porte dell’ospedale hanno bussato i Nas:  chiedono informazioni sulla cura. La terapia sperimentale è “somministrata fuori protocollo in ambito compassionevole”, precisa il direttore generale dell’Asst di Mantova, Raffaello Stradoni, sulla "Gazzetta di Mantova", che riporta la notizia della richiesta del Nas. La terapia con il plasma iperimmune, utilizzato in pazienti con Covid-19 in condizioni critiche, è diventata molto popolare sui social, suscitando diverse polemiche fra gli addetti ai lavori sulla sua efficacia. “Il plasma iperimmune ci ha permesso di migliorare ancora di più i nostri risultati. È democratico. Del popolo. Per il popolo. Nessun intermediario. Nessun interesse. Solo tanto studio e dedizione. Soprattutto è sicuro. Nessun evento avverso. Nessun effetto collaterale”, rivendica su Facebook Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia del Poma, dove è stata condotta la sperimentazione. Uno studio alla ricerca di una cura per Covid-19 è portato avanti congiuntamente al Policlinico San Matteo di Pavia da marzo. Sul caso della donna incinta trattata con il plasma iperimmune è “tutto in regola” per De Donno, che scrive: “Ho letto su qualche quotidiano che la mia oramai figlioccia, non avrebbe avuto i requisiti per ricevere il plasma. Beh, nei criteri di esclusione non è prevista la gravidanza – sottolinea – quindi amici, tutto ok. Lo dico perché un protocollo va rispettato, ma certo, quando fosse possibile salvare vite, concorderei con la deroga per uso compassionevole”. Lo pneumologo sta utilizzando il plasma su un altro giovane paziente, sottoposto alla seconda infusione. “Il nostro giovane amico, come vi avevo anticipato, sta sorprendentemente bene. Così anche Pamela”, la donna incinta. “Se qualcuno crede di scoraggiarmi – scriveva De Donno sempre su Facebook qualche giorno fa, riferendosi appunto al giovane paziente – non ci riuscirà. Oggi, dopo l’infusione di plasma iperimmune, ormai amico mio, stai molto meglio. La febbre quasi scomparsa. Migliorata l’ossigenazione. Meno ore di ventilazione meccanica. Tutto come da protocollo. Non sempre riusciamo a salvare tutti. Ma il più delle volte sì. E se qualcuno volesse solo provare ad intimidirmi, dovrà risponderne alla sua coscienza. La mia è limpidissima”.

Plasma iperimmune, Giuseppe De Donno costretto al silenzio dai vertici dell’ospedale. Ecco cos’è successo. Manuel Montero il 7 Maggio 2020 su frontedelblog.it. Lo pneumolgo Giuseppe De Donno, che ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus a Mantova, ha sospeso i suoi profili social per andare il silenzio stampa. L’Asst: “Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni”. Ma non tutto è chiaro…Cominciano ad essere più chiari i contorni del giallo sulla sparizione del profilo e della pagina Facebook del dottor Giuseppe De Donno, lo pneumologo che per l’ospedale di Mantova ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus. Il medico li avrebbe sospesi il giorno dopo la puntata di Porta a Porta in cui era ospite per mettersi in silenzio stampa. Racconta La Voce di Mantova: «A dare l’innesco è stata l’interruzione dell’intervento del dottor Giuseppe De Donno, titolare della pneumologia del “Poma”, cui Bruno Vespa ha tolto la parola durante la puntata di “Porta a porta” di martedì, durante la pausa pubblicitaria, senza più restituirgliela nel corso della puntata». Ecco cos’è accaduto:

A quanto spiegava il medico prima del black out, la sperimentazione del plasma iperimmune a Mantova – condotta unitamente al San Matteo di Pavia – aveva coinvolto 48 pazienti: e nessuno dei 48 pazienti era morto. Tanto che identici programmi sono iniziati altrove, nel mondo, ma nella stessa Lombardia, da Lodi a Crema, come abbiamo avuto modo di raccontarvi. Tra i guariti (con miglioramenti che cominciavano quasi subito, dalle 2 alle 48 ore dall’infusione) c’era anche Pamela Vincenzi, 28enne incinta di sei mesi: unico caso al mondo. Ma un caso che aveva pure indotto i Nas a chiedere chiarimenti all’Asst, non essendo prevista l’infusione in una donna gravida. E c’è anche il caso di un uomo dato per spacciato e salvato a Mantova da De Donno dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma cos’è successo poi? Il quotidiano mantovano riporta una nota che l’Unità di crisi avrebbe trasmesso alla direzione dell’ospedale di Mantova: «La struttura comunicazione è l’unico canale comunicativo ufficiale dell’Asst. Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni per le quali i risultati non siano ancora stati pubblicati senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione attraverso coinvolgimento della dottoressa Elena Miglioli come da regolamento vigente». Ma il bollettino n. 52 del team dell’Unità di crisi avverte anche che «l’articolo relativo alla sperimentazione con il plasma convalescente è stato sottoposto al “New England Journal”, siamo in attesa della risposta per la definitiva validazione dei dati che dovrebbero giungere entro la prossima settimana». Il New England è forse la più importante pubblicazione medico scientifica del mondo: evidentemente, per aver deciso di sottoporle la sperimentazione, ci sono stati a Mantova significativi risultati. E forse si è deciso di usare la linea della prudenza. De Donno paventava presunte pressioni sul suo lavoro e sui social si erano diffuse voci, dicono, complottiste. Eppure stiamo parlando di una tecnica collaudatissima che ha cento anni, non di pozioni miracolose, non di bizzarre terapie: semplicemente l’articolazione del protocollo di De Donno starebbe dando risultati eccelsi. De Donno sostiene che abbia funzionato anche dove ha fallito l’ormai noto farmaco contro l’artrite reumatoide tocilizumab. Ma sul sito dell’Asst di Mantova appare ora un messaggio che prova a far chiarezza, ma che si conclude in maniera sibillina: L’ASST di Mantova ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione. Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati. Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni, si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione. La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica. 

Che cosa significa che anche a Mantova ci sono stati dei morti? Nessuno l’aveva messo in discussione, tantomeno De Donno. Lo pneumologo aveva detto che dei 48 pazienti sottoposti a plasma iperimmune nessuno è morto; non aveva detto che tutti i pazienti di Mantova erano stati sottoposti a plasma iperimmune. Aveva anzi chiarito come il plasma potesse essere infuso solo a determinate condizioni. A cosa serve dunque la nota finale? Perché uno potrebbe intendere che ci siano state vittime anche tra quelle sottoposte a plasma. E dunque che ciò che ha detto il medico non corrispondesse alla realtà. E questo non va bene: per la sua immagine e per quello dell’ospedale. Fatelo parlare, lasciate che sia lui a chiarire eventuali equivoci e che la gente sia informata direttamente dalla fonte di chi sta a contatto coi pazienti 18 ore al giorno. Il silenzio stampa, di fronte a decine di migliaia di morti, non è una bella soluzione. Soprattutto in Lombardia, dove le bare furono portate via con l’esercito due settimane dopo aver sentito i virologi dire in tv che questa era solo una «forte influenza» e che in Italia, per carità, non c’era «alcun pericolo». Persone che, ancora, senza vergogna, discettano di ridicole certezze.

Dal plasma iperimmune al giallo su Facebook: scomparso il profilo di De Donno. Le Iene News il 7 maggio 2020. È il simbolo della possibile terapia che potrebbe curare il coronavirus con il plasma iperimmune. Proprio martedì sera a Le Iene Giuseppe De Donno, primario dell’ospedale di Mantova, ha spiegato come funziona questa possibile terapia. Dopo qualche ora dalla messa in onda del servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini i profili Facebook del professore risultano irraggiungibili come se qualcuno li avesse disattivati. Chiusi i profili Facebook di Giuseppe De Donno? Il primario di pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova è diventato il simbolo per una possibile cura del coronavirus. Anziché ricorrere al vaccino atteso non prima di un anno, il professore ha avviato la sperimentazione del “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Nel servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini che vi riproponiamo qui sopra abbiamo cercato di capire come funziona questa possibile terapia. Proprio dopo la messa in onda su Italia 1 del nostro servizio, De Donno è scomparso dai social. I suoi profili sono irraggiungibili, come se fossero stati chiusi. Cos’è successo? Proviamo a ricostruire questa lunga settimana per tentare di dare una risposta. Proprio Facebook per lui si è trasformato in un campo di battaglia già da sabato scorso. Su iene.it vi abbiamo parlato dello scontro tra De Donno e Roberto Burioni (qui l’articolo). “È qualcosa di serio e già utilizzato”, ha detto il virologo riferendosi alla sperimentazione in corso di De Donno. Parole che a quest’ultimo non sono andate giù: “Il signor scienziato si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, ha replicato il medico. E poco dopo ha rimarcato: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Passano le ore, De Donno rimane al centro della polemica. “Salvo vite con il plasma iperimmune e da Roma mi mandano i carabinieri”, titola La Verità di martedì riferendosi a una sua dichiarazione. Un titolo che dopo qualche ora viene ridimensionato dallo stesso professore che parla di una “chiamata informativa” da parte dei carabinieri. È possibile che i Nas abbiano voluto verificare che tutti i protocolli siano stati osservati. Come ad esempio se il numero totale delle persone arruolate fosse quello previsto dal protocollo. “Con queste trasfusioni sono in via di guarigione 48 pazienti e ad altri 10 è stato chiesto di fare altrettanto”, dichiara De Donno nella giornata di martedì. Nella puntata di martedì a Le Iene vi abbiamo mostrato questo studio, e il primario ci ha spiegato “che è l’unica terapia mirata in questo momento”. Dopo poche ore la sua scomparsa dai social. I suoi due profili Facebook risultano ancora irraggiungibili. È stato fatto dal social network o forse è una decisione presa dallo stesso De Donno? Qualcuno parla di “silenzio stampa” e quindi di un gesto volontario. E se così fosse, perché è stato fatto?

I poteri forti "censurano" il profilo del dottor De Donno, la bufala cavalcata da Salvini. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Quando si tratta di cavalcare bufale e tesi complottiste, in Italia la Lega e Matteo Salvini sono sempre in prima fila. Non contenti di aver contribuito a diffondere, con tanto di interrogazione parlamentare, il video del Tg Leonardo del 2015 sul Coronavirus, un filmato scientificamente corretto ma strumentalizzato per far passare il messaggio che il Covid-19 fosse stato realizzato in un laboratorio cinese, ora è il turno del dottore Giuseppe De Donno. Il medico pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova è diventato in queste settimane un volto noto al pubblico televisivo per la sua terapia sperimentale col plasma per curare i pazienti affetti da Coronavirus. Ma il medico è anche al centro di diverse teorie complottiste, in parte rilanciate dallo stesso De Donno, tra cui la finta irruzione dei Nas nell’ospedale (in realtà una semplice telefonata per il caso di una donna incinta curata con la terapia) o il complotto di governo, poteri forti e Bill Gates contro la sua terapia per facilitare l’ascesa del vaccino finanziato dal miliardario americano. L’ultima bomba sul medico riguarda il presunto oscuramento della sua pagina personale di Facebook, diventata oggetto di teorie complottiste sui social e cavalcata da Lega e Salvini. La realtà? È stato lo stesso medico a decidere di disattivare il suo account, altro che poteri forti. A rivelarlo è stato un suo “portavoce”, come viene definito da alcuni utenti il profilo di Leonardo M. che nel gruppo Facebook “Io sto con il dott. De Donno” scrive chiaramente che “la pagina l’ha chiusa lui stesso, mi ha detto solo che per ora non può dire niente”. Di silenzio stampa autoimposto parla invece su Twitter l’utente Bonnie379, che aveva provato ad intervistare De Donno: “Sono finalmente riuscita a contattare il Dott De Donno. È in silenzio stampa, quindi annulla l’intervista di domani sera”, riferendo poi di “fonti sicure” che rivelano come il dottore “è molto provato, ha cancellato lui stesso la pagina e per ora non può rilasciare dichiarazioni”.

QUANDO LA POLITICA (PIDDINA) COMANDA LA SCIENZA: IL CASO DE DONNO E LA SPERIMENTAZIONE DI PISA CHE… NON COMPARE. Guido da Landriano il 16 maggio 2020 su scenarieconomici.it. Nei giorni scorsi è partita una polemica fortissima quando l’Istituto Superiore di Sanità e AIFA hanno preso come capofila della sperimentazione sulla sieroterapia anti Covid-19 non il Prof. De Donno di Mantova, il  primo a sperimentarla scientificamente in Italia, ma lo studio “Tsunami” dell’università di Pisa, in toscana. De Donno si è giustamente arrabbiato e non lo ha mandato a dire. “Perché Pisa? Non lo so, sono sconcertato da questa decisione, nonostante il fatto che stamattina leggendo la stampa il presidente Rossi abbia minacciato di querelarmi, la politica che vuole ammutolire la scienza. Secondo me qualsiasi città lombarda andava bene. E non venitemi a dire che la Toscana si è organizzata meglio della Lombardia, perché qui parliamo di scienza. Era Pavia che doveva diventare principal investigator” ha detto di fronte alla Commissione parlamentare. La sperimentazione di De Donno coinvolge due grandi ospedali, il Policlinico Universitario San Matteo di Pavia ed il San Pomo di Mantova, non due ospedaletti di provincia. Inoltre è stata applicata nella regione più colpita  ed in due aree che, fra le prime, hanno patito i colpi per il COVID-19 in Europa. Se c’è qualcuno che ha esperienza, lavora in questi due ospedali. Invece, , come per miracolo lo studio premiato è stato a Pisa, in Toscana, regione non particolarmente colpita. Però non è finita. Esiste un sito governativo americano Clinicaltrials.gov, che raccoglie tutti i trial clinici rilevanti a livello mondiale, anche per permettere a chi ne ha bisogno, di scegliere una terapia sperimentale. Il sito riporta la terapia di De Donno: Oltre a Pavia vengono riportati i trial sieroterapici svolti a Bergamo, al Giovanni XXIII, dove si sperimenta un nuovo tipo di separazione del siero tramite tecniche normalmente utilizzate per la dialisi, molto più rapide ed efficienti, uno in partenza in Calabria ed uno in partenza a Roma, al policlinico Gemelli e Spallanzani. Non riporta  nessuna sperimentazione sieroterapica a Pisa. O almeno, se c’è è molto ben nascosta perchè io, dopo un paio d’ore di ricerca, non l’ho trovata. Quindi De Donno, ed altri, fanno una ricerca riconosciuta a livello internazionale e vengono ignorati, Pisa fa una ricerca misteriosa e viene premiata dall’ISS. Anzi il Super Iper Piddino Rossi, presidente della Regione Toscana, spinge la propria impudenza al punto di minacciare una denuncia penale verso il medico lombardo! Ormai siamo al livello di Unione Sovietica del periodo peggiore,  quella di Stalin e Beria, dove lo Stato Comunista decideva quale era la terapia giusta da applicare. Ringraziamo il governo Conte anche per questo incredibile risultato.

"Pd in conflitto d'interessi sul plasma". Lo pneumologo: "Quello industriale Kedrion non è gratis e non è sicuro". Felice Manti e Edoardo Montolli, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Come rivelato dal Giornale il plasma dei donatori italiani guariti da Covid-19 finirà ad un'azienda privata per essere lavorato con standard industriali. Ad occuparsene sarà il colosso toscano Kedrion, di proprietà della famiglia Marcucci: Paolo è l'amministratore delegato, il fratello Andrea è capogruppo Pd al Senato. Sulla vicenda oggi il deputato della Lega Andrea Dara presenterà un'interrogazione parlamentare al ministro della Salute Roberto Speranza, esponente di Leu. Ne abbiamo parlato con lo pneumologo di Mantova, Giuseppe De Donno, il pioniere della tecnica che ha ottenuto una guarigione del 100%, senza effetti collaterali né recrudescenze. Eppure è stato fatto fuori dalla sperimentazione, anche se si dice che entrerà nel comitato scientifico: «Il protocollo Tsunami scelto da Aifa e Istituto superiore di Sanità con capofila Pisa è il nostro Protocollo. Ma quella sperimentazione è vecchia perché doveva iniziare una Fase 2 con item differenti di studio: giovani, anziani, pazienti oncologici...». Secondo l'ad Kedrion Paolo Marcucci, intervenuto a sorpresa al Senato, il plasma iperimmune lavorato oggi in maniera «artigianale» dai singoli centri è «costoso» e «adatto solo alla fase sperimentale».

Cosa risponde?

«È in conflitto di interessi».

Marcucci sostiene anche che il plasma iperimmune industriale possa essere congelato anche per 4 anni. Il vostro?

«Se neutralizzato può durare fino a sei mesi. Se non neutralizzato, molto di più. Il vantaggio però del plasma convalescente è che costa molto meno, segue la antigenemia del virus, pertanto gli anticorpi sono più specifici. Il plasma inoltre contiene sostanze antinfiammatorie che sicuramente in futuro dimostreranno avere un peso notevole nel miglioramento clinico».

Il plasma industriale è meno pericoloso del vostro?

«Altra corbelleria. Si vuole spianare la strada ai prodotti di sintesi, verso i quali peraltro io non sono contrario. Ma ciò non vuole dire demonizzare il plasma convalescente. Gli industriali cercano profitto. Noi no. Il problema è quando il profitto collude con la scienza o con la politica. Vuol dire che il sistema ha delle pecche. Mostruose».

Quando alcuni scienziati in tv parlavano di pericolosità del plasma Avis non ha detto nulla e lei si è detto «sorpreso...»

«A dir la verità da uomo meridionale mi sono imbestialito ma al presidente nazionale Gian Pietro Briola, persona di grande serietà, ho spiegato che di fronte ai donatori dobbiamo essere uniti».

Marcucci ha sostenuto al Senato di aver fornito gratuitamente i kit di inattivazione virale alla sperimentazione del San Matteo (e quindi anche alla vostra). Se questi kit fossero a pagamento, la lavorazione del plasma che raccogliete sarebbe molto più costosa?

«No. Ma Marcucci manco ha nominato Mantova in Senato. Era distratto».

La produzione delle gammaglobuline iperimmuni industriali che Kedrion produrrà con l'israeliana Kamada sono utili?

«Se vi sarà una seconda ondata ed avremo istituito banche del plasma e magari sarà stato sintetizzato il vaccino, credo siano inutili e costose. Staremo a vedere».

Quando saranno pubblicati i risultati della sua sperimentazione su Andrology?

«Presto. Abbiamo visto che bassi livelli di testosterone correlano con la gravità di malattia. Questo dato, se confermato, potrà aprire nuovi ed importanti scenari anche nell'ambito della terapia. Sul plasma abbiamo sottomesso i dati a Jama. Siamo tutti ansiosi di sapere se verrà accettato. Ma di sicuro, in ogni modo, ha cambiato il destino del trattamento del Covid-19».

Secondo lei c'è plasma iperimmune per curare tutti?

«Secondo voi Luca Zaia è uno sprovveduto? Secondo me no».

Felice Manti ed Edoardo Montolli per “il Giornale” il 22 maggio 2020. L'affaire plasma si fa più interessante. Nei giorni scorsi il Giornale ha denunciato lo scandalo del plasma iperimmune industriale che sarà prodotto dalla Kedrion, azienda di famiglia del capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci grazie a una sperimentazione partita da Aifa e Istituto superiore di Sanità con l' ok del governo. Un conflitto d' interessi mostruoso per un business che si annuncia miliardario se arrivasse la conferma che il plasma guarisce dal Covid-19. La sperimentazione è stata portata avanti per primo dal San Matteo di Pavia (su 48 pazienti) e dal dottor Giuseppe De Donno a Mantova. Eppure lo pneumologo è stato fatto fuori dal trial, assegnato all' ospedale di Pisa (che di pazienti ne ha curati due), a cui hanno già aderito diverse Regioni. Non il Lazio di Nicola Zingaretti, che si è chiamato fuori. Ieri il deputato della Lega Andrea Dara ha presentato un' interrogazione al ministro della Salute Roberto Speranza. «Quando ho letto la risposta - dice Dara al Giornale - ho dubitato della capacità di comprensione di chi ha ricevuto l' interrogazione». Di Marcucci e della Kedrion non si parla. «Non una parola sugli evidenti conflitti di interessi. È costume del governo - sottolinea il leghista - agire nel buio ma non ci fermeremo». Nella risposta ci sono diverse cose che non tornano. Si dà atto che «originariamente» come capofila era prevista solo Pisa, senza dire che il San Matteo di Pavia è stato aggiunto dopo. Il ministero non spiega perché l' Iss, nella sua scelta, non ha tenuto conto della sperimentazione di Mantova e Pavia e dice che De Donno è nel comitato scientifico. Peccato che nel comunicato pubblicato sul sito dell' Aifa il nome di De Donno non ci sia. Inoltre si sostiene che lo studio Tsunami è «l' unico randomizzato in grado di valutare la sicurezza e l' efficacia della terapia». Ma se questa sicurezza ed efficacia non sono ancora certe (tanto che l' Iss non ha tenuto minimamente il conto l' esperienza di Mantova) per quale ragione si è dato il via libera alla produzione di plasma industriale imperimmune alla Kedrion? Per quale ragione le prime consegne sono previste ad ottobre? Anche l' Avis, chiamata in causa da De Donno nell' intervista al Giornale di ieri, ci tiene a precisare di non aver mai parlato di pericolosità del plasma, la cui terapia in Italia ha elevatissimi standard di qualità e sicurezza. Resta un dubbio. Nella sua audizione al Senato, l' ad Kedrion Paolo Marcucci ha detto che il plasma iperimmune industriale, se congelato, può durare fino a 4 anni. Ma se il virus mutasse? Il plasma industriale congelato sarebbe utile? Lo abbiamo chiesto a De Donno: «In realtà una risposta precisa non c' è. È ovvio però che se il virus muta, fra quattro anni il plasma sarà vecchio. Un po' come il vaccino dell' influenza che deve cambiare ogni anno».

LA PRECISAZIONE DI KEDRION. Dagospia il 26 maggio 2020. Gentile Direttore, Le scrivo in nome e per conto della Kedrion s.p.a., in persona del Presidente ed Amministratore delegato Dott. Paolo Marcucci, al fine di tutelare gli interessi della Società nei confronti del Vostro giornale on line, poiché, a seguito di attività di monitoraggio sul web, è emersa la pubblicazione, nella data di ieri, di un articolo intitolato “Sangue amaro esposto della Lega sulla vicenda del Business del plasma affidato all’Azienda do Famiglia del Capogruppo PD al Senato Andrea Marcucci...” (doc.1) tuttora presente sul web, nel quale vengono affermate circostanze non corrispondenti a verità. Le chiedo la cortesia di intervenire immediatamente, provvedendo alle opportune modifiche su quanto espongo alle Sue valutazioni e responsabilità. La Società è ovviamente consapevole che, in questo periodo, si stia dibattendo presso la pubblica opinione a proposito dell’utilizzo terapeutico del plasma umano in funzione anti-Covid e non ha ritenuto di intervenire, fino ad adesso, perché ha osservato, da subito, che il tema ha assunto i toni di una contesa politica, alla quale è e deve rimanere del tutto estranea. Tuttavia, proprio per la importanza e l’attualità del tema, a questo punto, la mia assistita non può esimersi dal precisare alcuni fatti, che, per ragioni varie, sono stati rappresentati, in diverse sedi, compresa la Sua, in maniera difforme dal vero, per cui si ritiene utile che la platea dei Suoi lettori e dei cittadini italiani sia messa in grado di conoscere puntualmente gli accadimenti affinché sia offerta un'informazione completa ed ineccepibile.

1) La prima cosa che è doverosa chiarire é che non c’è mai stata nessuna contrapposizione tra la Ke- drion e il Dott. De Donno, come si lascia intendere sulla stampa, anzi:

a) Nel periodo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, Kedrion ha ricevuto da parte dei centri tra- sfusionali degli Ospedali di Padova, Mantova e Pisa la richiesta di fornitura di macchinari e kit per l’inattivazione virale del plasma da convalescente Covid-19 da utilizzare a cura di questi Ospedali per uso trasfusionale e per trattare a titolo sperimentale i pazienti con Covid-19; era stato il Centro Nazionale Sangue a richiedere che il plasma utilizzato in queste sperimentazioni fosse preventiva- mente sottoposto ad un processo di inattivazione virale prima della sua somministrazione.

b) Kedrion, pertanto, ha fornito all’Ospedale Carlo Poma di Mantova (il cui primario di Pneumolo- gia è il Prof. Giuseppe De Donno) il macchinario per l’inattivazione virale (nome commerciale IN- TERCEPT®) e 500 kit utili alla preparazione di unità di plasma da convalescente che consentono di trattare circa 500 pazienti. Ad oggi nell’ambito della sperimentazione, il cui promotore è l’Ospedale San Matteo di Pavia e a cui ha aderito anche il Carlo Poma di Mantova, sono stati trattati circa 50 pazienti. La circostanza non è seriamente discutibile, come risulta dalla stampa della cittadina (cfr.: La Voce di Mantova del 4.4.20 (doc. 2a) e la Gazzetta di Mantova del 14.5.20 (doc.2b) e di oggi 24.4.20 (doc.2c), dalla quale risultano i ringraziamenti dell’Ospedale cittadino nei confronti di Kedrion, “che ha donato al Carlo Poma apparecchiatura e Kit per portare aventi il protocollo sul plasma”.

c) Per completezza, altri Centri lombardi hanno avanzato la richiesta di fornitura di questi strumenti (Bergamo, Niguarda – MI, Lecco) e a tutti è stata garantita la fornitura gratuita inclusi 100 kit . Anche in Veneto (Ospedali di Verona e di Vicenza) sono state fornite ulteriori strumentazioni, con la stessa modalità.

2) In più punti, l’ articolo di oggi afferma che “il plasma iper-immune industriale sarà prodotto dalla Kedrion" e si domanda, estrapolando frasi attribuite a terzi, “per quale ragione si è dato il via libera alla produzione di plasma industriale iper-immune alla Kedrion?”...”Per quale ragione le prime consegne sono previste ad ottobre?”. Ebbene non è così: Kedrion non ha ricevuto dalle Autorità pubbliche italiane alcuna autorizzazione o commessa per inattivare in maniera industriale il plasma iper-immune. Ad oggi Kedrion ha solo donato agli Ospedali che lo hanno richiesto i kit di inattivazione virale e offerto in comodato d'uso la macchina necessaria per questa inattivazione. Nessuna consegna di plasma iper-immune italiano è prevista per ottobre o per il futuro. I fatti veri, sul dibattito emerso sulla stampa in questi giorni, sono i seguenti:

A) Si è già concluso il protocollo sperimentale sviluppato dal Servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo di Pavia (Principal Investigator) in collaborazione con altre strutture quali quelle di Lodi e Mantova. I risultati sono stati proposti per la pubblicazione sulla rivista JAMA. La sperimentazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova è attualmente in corso. Si noti che “le sperimentazioni fino a qui citate non sono studi controllati randomizzati”.

B) Erano circolate voci secondo le quali il Ministero della Salute non si sarebbe fatto carico della sperimentazione e, in data 7 maggio, Istituto Superiore di Sanità e AIFA, insieme, hanno annunciato di essere impegnati nello sviluppo di uno studio nazionale comparativo (randomizzato) e controllato per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti da Covid-19 con metodica unica e standardizzata.

C) L’Ospedale San Matteo di Pavia, insieme all'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, è ad oggi il Principal Investigator dello studio (chiamato TSUNAMI), che coinvolge al momento 56 centri distribuiti in 12 Regioni. L’Ospedale di Pisa si tira dietro le Regioni del consorzio PLANET della plasma-derivazione (Campania, Marche, Umbria ed altre ancora fino ad arrivare ad una decina circa) per cui possiamo solo presupporre che l’assegnazione che impegna, e soprattutto coinvolge, più Regioni, indipendentemente dal colore politico, sia dettata da fini della maggior sensibilizzazione possibile per un’operazione che promette di randomizzare una procedura in grado di salvare così tante vite umane da una morte orribile. Deve, quindi, essere chiaro che Kedrion non ha nulla a che fare con queste sperimentazioni né con altri studi in corso. Ha solo fornito strumentazione e i kit per l’inattivazione virale in comodato d’uso a titolo gratuito.

D) Si intende, inoltre, precisare, come è stato confermato pubblicamente da varie autorevoli voci scientifiche, la terapia al plasma è complementare, non è in alternativa, ad altre terapie utilizzate o in via di sviluppo contro il Covid-19.

E) Il Sistema Sanitario Italiano si è mosso tra i primi nel mondo nella ricerca sull’utilizzo del pla- sma come terapia Anti-Covid-19 e l’Italia è stata presa come riferimento da tantissimi Paesi.Tutta l’industria della plasma-derivazione a livello mondiale sta lavorando in progetti di ricerca su un concentrato di immunoglobulina partendo dal plasma dei guariti come potenziale trattamento per ipazienti con Coronavirus.

Il Sistema Sanitario Nazionale potrà scegliere di utilizzare Kedrion, se lo riterrà vantaggioso, sia per un servizio di inattivazione a livello industriale del plasma da convalescente allo scopo di ottenere delle scorte da utilizzare, in caso di ripresa della pandemia, sia per un servizio di conto lavorazione del plasma da convalescente per produrre un’immunoglobulina destinata al Sistema Italia. Tale attività consisterà nella trasformazione di una materia prima di proprietà pubblica e di restituzione di un prodotto finito, che presumibilmente potrebbe avere costi più bassi rispetto ai prodotti del mercato o di piccolo laboratorio. Questo servizio, è bene chiarirlo, viene offerto da Kedrion, che è un player internazionale, a tutti indistintamente, così per il plasma italiano come pure per il plasma proveniente da altri Paesi del mondo intero.

Caro Direttore, personalmente mai avrei immaginato che sarebbe stata trascinata in polemiche artificiose l’unica Azienda italiana di emoderivati che, oltretutto, con encomiabile senso del dovere, ha messo gratuitamente a disposizione tutto quanto occorresse agli Ospedali che ne facevano richiesta, per la salvezza di vite umane nella propria Nazione e che non lascerà niente di intentato per le guarigioni del maggior numero possibile di malati nel mondo: scoraggiare il perseguimento di questi obiettivi è per me incomprensibile e sicuramente riprovevole. La invito, pertanto, a provvedere molto cortesemente alla rimodulazione dell’articolo precisando che quelle che appaiono affermazioni di verità altro non sono che espressioni di una parte politica, che esercita legittimamente i suoi diritti in Parlamento, ma che risultano del tutto infondate allo stato dell’arte, senza che sia necessario aggiungere altro, per ora, da parte mia, se non ringraziare per avere immediata conferma che sia stata resa Giustizia alla mia assistita, a chiusura definitiva della vicenda, ben disponibili a darLe tutta la documentazione che desiderasse, oltre a quella già offerta, per la Sua opportuna completa conoscenza su un tema così delicato...

Il plasma contro il coronavirus sta diventando un business? Le Iene News il 26 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci del plasma iperimmune, utilizzato nelle sperimentazioni per curare il coronavirus. La K.edrion B.iopharma ha presentato in Senato un progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma: questa possibile cura sta diventando un business? E se fosse vero: cosa ne penserebbe chi dona gratuitamente? In queste settimane con Alessandro Politi e Marco Fubini vi abbiamo parlato del plasma iperimmune utilizzato nelle sperimentazioni per curare il coronavirus. Oggi c’è una grande novità che ha stupito tutti: durante un’audizione in Senato in cui è intervenuto anche il dottor Giuseppe De Donno è stato presentato a sorpresa, cioè senza essere stato ufficialmente invitato, il presidente di K.edrion B.iopharma, Paolo M.arcucci che ha illustrato un mega progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma iperimmune contro il COVID-19. Ma andiamo con ordine: la cura con il plasma iperimmune, sperimentata per la prima volta in Occidente negli ospedali di Pavia e Mantova, ha dato ottimi risultati. E sono partite sperimentazioni in tutto il mondo. Il ministero della Salute, insieme ad Aifa e all’Iss, ha fatto partire una sperimentazione nazionale. Il cosiddetto progetto “Tsunami”. Come capofila di questo studio, insieme all’ospedale di Pavia, viene scelta l’università di Pisa che ha all’attivo solo due casi di pazienti trattati con il plasma. Mantova invece è stata inizialmente estromessa: avevamo chiesto al ministro Speranza il perché, ma non abbiamo avuto risposta. Dopo le polemiche a seguito del nostro servizio, Mantova è entrata nella sperimentazione nazionale. E di questo il nostro Alessandro Politi ha parlato con il dottor Giuseppe De Donno, come potete vedere nel servizio qui sopra. Torniamo però all’audizione in Senato di cui vi abbiamo parlato all’inizio. È il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, a introdurre il presidente di K.edrion. K.edrion è una multinazionale farmaceutica che ha sedi in tutto il mondo, ma quella centrale si trova in Toscana, e ha collaborato spesso con l’università di Pisa finanziando progetti, fondazioni, bandi e concorsi. La K.edrion tra l’altro sponsorizza conferenze web sul plasma in cui, insieme al suo responsabile della ricerca Alessandro Gringeri, ci sono il professor Francesco Menichetti, che dall’università di Pisa guiderà la nuova sperimentazione nazionale, ma anche i direttori dei centri regionali sangue della Lombardia e dell’Abruzzo e anche quello nazionale. “Chiederò al dottor Paolo M.arcucci che ha un’azienda fortemente impegnata in questo studio clinico, magari vi darà qualche aggiornamento su come siamo messi”, ha detto Scaccabarozzi. Prima di ascoltarlo, è importante sapere che il business del plasma nel mondo vale miliardi di euro e che K.edrion Biopharma è della famiglia M.arcucci. Paolo è il presidente, la sorella Marialina è stata vicepresidente della Regione Toscana per diversi anni e il fratello Andrea è nel consiglio di amministrazione dell’azienda e capogruppo del Partito democratico al Senato. Per prima cosa Paolo M.arcucci spiega il suo programma a lungo termine: “Il piano di contrasto si identifica in tre elementi. Il primo: l’industria ha risposto all’appello lanciato dagli ospedali fornendo gratuitamente la strumentazione e i kit necessari per l’inattivazione virale”. La K.edrion senza bando di gara, sia perché ha agito in situazione di emergenza vista la pandemia, sia perché non c’è stato scambio di denaro, ha regalato agli ospedali i kit per trattare il plasma iperimmune. Il progetto però non si ferma qui: “K.edrion intende mettere a disposizione il proprio stabilimento di Napoli Sant’Antimo per inattivare il plasma delle regioni e restituirlo come plasma industriale”. E inoltre aggiunge: “Nel paese ci sono quantitativi sufficienti per garantire la produzione di lotti industriali, così si eviterebbe di eseguire l’inattivazione virale nei singoli centri che è costosa”. Chi lavora questo plasma tutti i giorni però ci ha detto che il costo è bassissimo, come potete sentire nel servizio qui sopra. Il progetto di K.edrion comunque va oltre: “Il terzo elemento è un passaggio a una fase industriale più avanzata, che è l’utilizzo delle gammaglobuline iperimmuni. K.edrion ha siglato una partnership con Kamada, che è una eccellenza israeliana delle biotecnologie. L’idea è quella di renderle disponibili in termini farmaceutici”. Dal plasma si arriverebbe a un vero e proprio farmaco, che non servirebbe solo a curare i malati ma anche “per rafforzare le difese immunitarie di coloro che sono in prima linea. Penso ai medici, agli infermieri”. Quindi proteggere anche le persone a rischio. Parliamo di un progetto enorme, che potrebbe fruttare milioni di euro e che partirebbe proprio dal plasma dei nostri donatori che per legge in Italia possono donare solo a titolo gratuito. Se i donatori sapessero di questo progetto, cosa direbbero? Alessandro Politi è andato a parlare con alcuni di loro: “Ti viene da dire ‘allora sai, ciao’”, ci dice una di loro. “Io sono un donatore gratuito, voglio che sia dato gratuitamente a quella persona che devo salvare”, aggiunge un altro. La Iena interpella anche il professor Santin dell’università di Yale: il plasma standardizzato farmaceutico quanto costerà di più di quello delle donazioni? “Stiamo parlando sicuramente di migliaia di dollari, contro i meno di 100 dollari che in questo momento costa una sacca di plasma. Sapendo però bene che questo si trasforma poi in un farmaco. Guarda che i farmaci vengono ricaricati dieci, cento, mille volte sul costo reale. E le case farmaceutiche producono un prodotto per guadagnarci”. Ma voi che state trattando migliaia di pazienti con questo metodo, lo fate lavorare dalle case farmaceutiche? “No”. Ci sono dei vantaggi a farlo lavorare da una casa farmaceutica? “Prima di tutto hai un prodotto superconcentrato, essendo piccole quantità le congeli e le puoi mandare in tutto il mondo”. E ha anche degli svantaggi? “Gli svantaggi sono che il plasma sappiamo che funziona perché è carico di anticorpi neutralizzanti, però ci sono alcune delle proteine presenti nel plasma che hanno funzioni antivirali e questa componente nella raffinazione viene persa. Ecco quindi che questi nuovi anticorpi concentrati hanno bisogno di studi per poter dimostrare che funzionano come il plasma”.  La lavorazione industriale quindi sembra lunga, e potrebbe anche non andare a buon fine. Quindi ci sorge una domanda: K.edrion da chi ha avuto mandato di fare il progetto che ha presentato? Lo chiediamo al direttore generale di Aifa, sotto cui è partita la sperimentazione nazionale Tsunami”: “Io non ne so niente, non ero all’audizione e non è compito mio. È di competenza del Centro nazionale sangue. In questa sperimentazione K.edrion non ha nessun ruolo”. Qui ci tornano in mente le parole del presidente di Farmindustria, che in Senato presenta il presidente di K.edrion in questo modo: “Ha un’azienda fortemente impegnata in questo studio clinico, uno studio nazionale… Per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti dal COVID-19”. Quindi K.edrion c’entra o no in questo studio? Ha vinto oppure no un appalto per lavorare il plasma iperimmune e farlo diventare un prodotto farmaceutico? E ci viene in mente un altro passaggio apparentemente poco chiaro: “Queste tre fasi sono tutte in corso… sono tutte in forse e le stiamo… perseguendo”, ha detto M.arcucci. Ma sono in corso, in forse o le stanno perseguendo? La Iena parla con Raffaello Stradoni, direttore generale dall’Asst di Mantova. Voi avete un accordo con K.edrion per la lavorazione del plasma iperimmune? “No, per il plasma iperimmune ancora non c’è. Adesso viene preso da singolo donatore a singolo ricevente e viene sempre lavorato internamente”. In Senato il presidente M.arcucci dice: “Per dare seguito a questa progettualità stiamo lavorando con la regione Lombardia, Veneto, Toscana, Campania, con l’auspicio che il progetto possa svilupparsi su scala nazionale”. Perché allora M.arcucci dice che è una cosa già in atto? “Non ne ho la più pallida idea”, risponde Stradoni. Alessandro Politi allora va a parlare anche con Carlo Nicotra, direttore generale del policlinico San Matteo di Pavia: a voi è arrivato un accordo che vi invita a mandare il plasma a K.edrion? “Assolutamente no, anche perché in Lombardia questo tipo di gestione del plasma è centralizzato”. Quindi non c’è nessun tipo di previsione di mandare a industrializzare il plasma? “Assolutamente no”. E anche dall’università di Padova ci confermano che non c’è alcun accordo con K.edrion per la fornitura di plasma iperimmune. Allora la Iena telefona al direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, da cui passa l’approvazione di tutte le sperimentazioni nazionali, per chiedere il ruolo della K.edrion. “Non ne so niente di questo”. Ma è previsto che poi il plasma venga lavorato da loro? “Che io sappia no, anzi. Se vuole sapere, starei molto lontano da questi affari che sono sempre difficili da valutare”. Cosa vuol dire? “Se qualcuno pensa di farne un fatto di tipo economico, è un’altra cosa ma preferisco occuparmi di aspetti scientifici. Questo è plasma di convalescenti, conservato nei centri trasfusionali e rinfuso, basta”. Perché dice che starebbe lontano da questi affari? “Perché in questa vicenda del sangue non ho mai capito quale sia la catena e vorrei dire che i cittadini donano il sangue e lo Stato si ricompra il sangue più volte. Ma questa è una cosa che va lontana sul costo del sangue”. Quello che è certo è che se si deciderà di industrializzare la produzione del plasma iperimmune, una cosa è chiara: “La decisione, questa sì politica, è lo diamo in mano pubblica o privata?”, ci dice Stradoni. “Facciamo una gara o chiamiamo un’università e facciamo fare a lei? Lo affidiamo tramite un controllo o ai militari come in America?”. Se l’accordo l’avessero fatto in questo modo sarebbe stato giusto, il problema è che nell’audizione in Senato è uscita questa persona che sembra che dica ‘lo faccio io’. I rappresentati democraticamente eletti prendano queste decisioni attraverso tutto il gioco democratico”, aggiunge Stradoni. Ministro Speranza, noi siamo sempre qui. Anche se a noi non vuole rispondere, può almeno controllare che il plasma non diventi un business fatto sulla nostra pelle?

Le Iene: la cura al plasma sta diventando un business con al centro la famiglia del Pd Marcucci. Il Secolo d'Italia sabato 30 Maggio 2020. Il plasma iperimmune contro il coronavirus sta diventando un business? Le Iene puntano i riflettori  sull’ultima novità che riguarda la cura contro il Covid: la Kedrion Biopharma ha presentato in Senato un progetto farmaceutico legato all’utilizzo del plasma. La K.edrion B.iopharma, con sede in Toscana e con un fatturato annuo di circa 800 milioni, è di proprietà della famiglia M.arcucci. L’amministratore delegato è Paolo M.arcucci, fratello maggiore del senatore e capogruppo Pd Andrea, che a sua volta è consigliere di amministrazione di K.edrion con funzione di supervisione sugli Stati Uniti. A ciò si aggiunge il fatto che l’Aifa e l’Iss hanno scelto Pisa (in Toscana) come capofila della sperimentazione della cura al plasma estromettendo Mantova e il dottor Giuseppe De Donno. Quindi da prodotto a basso costo il plasma iperimmune potrebbe diventare prodotto farmaceutico. Proprio ciò che paventava Giuseppe De Donno, il pioniere della cura al plasma contro il Covid. Quest’ultimo, che ha riaperto il profilo Fb, ha annunciato ai suoi followers che gli è stato assegnato il premio dedicato a San Giuseppe Moscati. “Era un dottore napoletano che curava la gente “gratuitamente” e veniva chiamato “dottore santo”. Ora, io santo non lo sono, e, vi confesso, non credo di meritare un premio dedicato a una così alta figura. Questo premio lo accetto a nome di tutti i pazienti che non abbiamo salvato, a nome di Massimo Franchini e di tutti i nostri colleghi, ma, soprattutto, a nome di tutti i meravigliosi donatori. Ricordatelo. La vostra donazione salva e chi salva una vita salva il mondo intero!”.

Richiesta di rettifica e deindicizzazione.

All’attenzione del Direttore responsabile. Oggetto: Marcucci + Kedrion s.p.a. /Antonio Giangrande. Rimozione di contenuti diffamatori. RIW n. 329.

Gentile Direttore, Facendo seguito a pregressi interventi positivamente definiti, l’ultimo dei quali come da Sua email del 4 maggio 2019 (doc. 1), il Senatore Andrea Marcucci, dott. Paolo Marcucci in proprio ed in qualità di Presidente di Kedrion s.p.a., hanno conferito ancora una volta mandato al mio Studio al fine di tutelare i loro interessi nei confronti di un Suo libro intitolato : “IL Coglionavirus quarta parte. La cura” disponibili ed acquistabili sia in formato e-book che cartaceo e pubblicati sul sito web books.google.it, nel quale da pag 622 e ss. (doc.2) viene ripreso e richiamato un servizio prodotto dalla trasmissione televisiva “Le Iene” andato in onda su Italia 1 il 26.05.2020, intitolato:“Il Plasma contro il Coronavirus sta diventando un business?”

Debbo preliminarmente ricordarLe che tale servizio, diffuso sui siti web iene.mediaset.it e mediasetplay.mediaset.it, fonte originaria della pubblicazione dell’articolo, a seguito di nostra denuncia penale presso la Procura della Repubblica di Lucca contro Regista e Conduttori della trasmissione, è stato rimosso mediante oscuramento della pagina web disposto con sequestro preventivo dal G.I.P. dott. Nerucci del Tribunale di Lucca , con provvedimento del 29.01.2021 (RG 3051/2020). Non solo, successivamente, contro il Direttore del programma “Le Iene” ed i due inviati del servizio sopra indicato, il PM dott. Corucci del medesimo Tribunale ha emesso decreto di citazione diretta a giudizio del 12.05.2021 (RG 3051/2020) contestando il reato di diffamazione aggravata, con data della prima udienza dibattimentale fissata al prossimo 13.05.2022 così condividendo la bontà delle argomentazioni rappresentate dai querelanti. Per le vie brevi, nel merito, il servizio de “Le Iene” è gravemente lesivo dell’onorabilità dell’Azienda e dei suoi dipendenti, infatti, ha trattato con disarmante superficialità e ignoranza tecnica la normale catena di trasformazione del sangue (di cui il plasma è la parte liquida) in farmaci salvavita, e il suo ordinario funzionamento nel mondo, che prevede l’intervento di procedimenti industriali svolti da aziende private o pubbliche. Imputare ad una Azienda di emoderivati che faccia industria con il sangue ha lasciato francamente interdetti. Inoltre Kedrion, una significativa realtà d’impresa tutta italiana, 5° gruppo al Mondo nel settore dei plasma-derivati, non casualmente, non ha avuto la possibilità di argomentare le proprie ragioni in un contraddittorio con Le Iene, pur richiesto prima della trasmissione stessa. I responsabili della trasmissione, come detto, imputati per diffamazione davanti al Tribunale penale di Lucca hanno inflitto un gravissimo danno a Kedrion, la più importante azienda italiana di emoderivati ed all’intero sistema sangue italiano, che rappresenta un’eccellenza nel mondo e di cui le Associazioni di donatori sono parte indispensabile, insieme alle Istituzioni pubbliche di gestione e regolazione.

Orbene, Le ricordo che la Giurisprudenza si è già occupata del tema sulla riproduzione e riproposizione di contenuti diffamatori già pubblicati altrove per affermare che: “Non costituisce una modalità esecutiva di un unico reato di diffamazione già consumato con la prima pubblicazione, bensì integra una condotta autonoma sul piano oggettivo ed eventualmente anche su quello soggettivo, rispetto a quella precedente” (Cassazione sez. I n. 317/1976; Cass. Sez. V n. 5781/2013): esattamente la fattispecie in oggetto. Il fatto non è più attuale e non esiste più il pubblico interesse affinché la notizia permanga sulla rete internet, con espressioni fuorvianti che non rappresentano la veridicità dei fatti esposti nel servizio, a maggior ragione a seguito dell'intervento censorio contestato dalla Magistratura penale del Tribunale di Lucca, sopra richiamata.

La invito, pertanto, a provvedere cortesemente all’ immediata rimozione dei richiami al servizio de Le Iene, contenente riferimenti a Kedrion spa ed al Dott. Paolo Marcucci, del tutto impropri, peraltro, già eliminati, come detto, dalla fonte di origine, con la avvenuta de-indicizzazione da Google e dai più comuni motori di ricerca del web, evitando così di incorrere nella contestazione di un'autonoma fattispecie di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p., senza che sia necessario aggiungere altro, per ora, da parte mia, se non ringraziare per avere sollecita conferma che è stata resa Giustizia ai miei assistiti, a chiusura definitiva della vicenda, senz’altro a pretendere né in sede penale né civile. Con i migliori saluti Avv. Carlo Cacciapuoti

Genova 30 giugno 2021

Quarantena, autopsie e plasma iperimmune: tre domande al ministro della Salute. Le Iene News il 20 maggio 2020. Quarantena, autopsie sulle vittime del coronavirus e plasma iperimmune: Alessandro Politi ci racconta alcune cose che non siamo riusciti a capire nelle decisioni del ministero della Salute in questa crisi. Dopo aver parlato con il professor Giuseppe De Donno della sperimentazione del plasma iperimmune, abbiamo fatto alcune domande al ministro della Salute Roberto Speranza. Perché non avete ancora aggiornato i protocolli per le quarantene? Perché avete sconsigliato di fare le autopsie ai casi conclamati di Covid-19? Perché l’ospedale di Mantova è stato estromesso dalla sperimentazione nazionale del plasma iperimmune? Sono le tre domande che rivolgiamo al ministro della Salute, Roberto Speranza, ora che tutta Italia è entrata nella Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Partendo dal primo quesito, Alessandro Politi ci ha raccontato di essere stato positivo per ben 49 giorni e purtroppo non è un caso isolato, nonostante i numeri regionali continuano a consigliare “una quarantena di 14 giorni dalla fine dei sintomi”. Durante l’emergenza sanitaria il ministro ha firmato un decreto in cui scrive che “per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19”. C’è chi ha preferito non seguire queste indicazioni come il professore Paolo Dei Tos, dirigente di anatomia patologica all’Università di Padova: “Una scelta che non aveva senso, noi oggi sappiamo che il virus rimane all’interno dei liquidi biologici per alcuni giorni. Abbiamo compreso che non si tratta semplicemente di una banale polmonite. Probabilmente il ministero ha consigliato di non fare le autopsie per un eccesso di zelo nel non esporre gli operatori a un rischio giudicato da loro non sufficientemente utile”. Il ministero della Salute ha dato il via libera a una sperimentazione sul plasma iperimmune che ha messo a capo l’ospedale di Pisa, nonostante a Mantova ci lavoravano con successo già da due mesi. “Un protocollo preso da esempio da molti stati europei”, dice Giuseppe De Donno, direttore di terapia intensiva al Carlo Poma di Mantova. “Alla fine Speranza con me non si è fatto vivo, nonostante la prima certificazione dello studio sia di Mantova e Pavia”, dice a Le Iene. “Non ci sono motivi scientifici per questo nuovo studio a Pavia, le motivazioni vanno cercate in altro ambito. C’era la volontà di chiudere il plasma in cantina”. Ma nessuno sembra si sia scagliato allo stesso modo contro le sperimentazioni con i farmaci. “In questo paese si usano due pesi e due misure”, sostiene De Donno. Pochi giorni fa l’Emilia-Romagna ha bocciato la plasma-terapia. “Gli esperti in tv creano un effetto negativo sull’opinione pubblica e sarebbe il caso che si assumessero le loro responsabilità, i pazienti guariti così non verranno mai a donare e quelli attualmente malati non potranno ricevere il plasma dai convalescenti”, dice De Donno. “È una cosa gravissima. Abbiamo avuto scienziati che dicevano che per ammalarsi di coronavirus bisognava andare a Wuhan…”. Ora è importante creare le banche del plasma dei guariti che sono in numero maggiore rispetto agli ammalati, ma non sappiamo fino a quando il loro plasma rimane iperimmune. “Dobbiamo essere prontissimi qualora dovesse arrivare una seconda fase, se continuiamo così la Lombardia e il Veneto saranno pronti”. Intanto che il governatore Zaia è partito con la raccolta del plasma due settimane fa, rimangono senza risposta le nostre 3 domande che abbiamo fatto al ministro Speranza. 

Coronavirus, Salvini: “Perché nessuno parla della terapia al plasma?” Marco Alborghetti il 05/05/2020 su Notizie.it. Il leader della Lega Salvini chiede spiegazioni riguardo al presunto silenzio dei media sulla terapia al plasma utilizzata contro il coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini su Twitter ha parlato della terapia al plasma utilizzata per curare i malati di coronavirus negli Stati Uniti e all’ospedale di Mantova, chiedendo spiegazioni sul silenzio che aleggia intorno alla notizia, nonostante la sua efficacia. Un implicito attacco alle aziende farmaceutiche? Matteo Salvini tuona di volerci vedere chiaro sulla questione della terapia al plasma che negli Usa e all’ospedale di Mantova avrebbe trovato consistenza in termini clinici per la cura del coronavirus, esprimendo con toni polemici la propria opinione a riguardo e attirando non poche polemiche. “Dateci una mano facendo sapere agli italiani quello che molte televisioni nascondono, il fatto che funziona una cura il virus ed è gratis o quasi”. Una terapia che come ricorda lo stesso leader della Lega “è dovuta all’ingegno dei medici, dei ricercatori e dei donatori di plasma”.

Attacco alle aziende farmaceutiche. Il silenzio che si è creato attorno alla notizia ha destato qualche sospetto nell’ex ministro degli Interni: “Perché non sperimentarla a livello nazionale? Perché il silenzio del ministero della Salute, perché il silenzio dell’istituto superiore della sanità?”. “I cittadini – sottolinea con tono sarcastico – a questo punto potrebbero avere il dubbio che siccome il plasma è gratis, siccome non c’è dietro un business di qualche industria farmaceutica, siccome non ci sono appalti e guadagni milionari, allora è meglio occuparsi di altro“.

Cura al plasma, De Donno saluta: mi faccio da parte, per il bene della scienza. Lo hanno costretto? Redazione venerdì 8 maggio su Il Secolo d'Italia. Cura al plasma, il dottore-sponsor Giuseppe De Donno si autocensura. Dopo la sparizione dai social è arrivato il videomessaggio di cinque minuti nel quale il direttore di Pneumologia al Poma di Mantova, il principale paladino della cura al plasma iperimmune per battere il Covid, annuncia che farà un passo indietro. Che non cerca visibilità, che ringrazia le istituzioni e anche i Nas che hanno voluto indagare sui suoi metodi. Dice che non vuole zuffe tra colleghi e che non vuole utilizzare i morti per fare pubblicità. Ringrazia chi lo ha sostenuto e invita i gruppi social in suo sostegno a lanciare solo messaggi di pace e amore.

De Donno si fa da parte, un’imposizione dall’alto?

“Sembra un prigioniero dell’Isis”, ha commentato Selvaggia Lucarelli, facendo intendere che lei propende per l’ipotesi secondo cui a De Donno è stato intimato il silenzio. Troppi interessi in gioco, troppo pericolosa la divaricazione che si era creata tra lo schieramento in favore di De Donno e i suoi detrattori per i quali senza vaccino il virus non è imbattibile. I virologi da talk show lo hanno attaccato, i media lo hanno trascurato fino a quando la pressione dal basso dei social è stata talmente evidente da non poter più ignorare il caso De Donno. Ora lui stesso si fa da parte, ristabilendo equilibri e gerarchie tra poteri e lobby sanitarie che la sua cura “per il popolo” aveva destabilizzato. Ecco cosa ha detto nel suo videomessaggio: “La pressione mediatica è stata tale da non permettermi di operare serenamente. Per questo motivo ho reputato prudente chiuderei miei account social”.

Ha detto poi di voler lanciare un “messaggio di calma e rasserenazione”. “Se ho parlato l’ho fatto per fare informazione ma non come mezzo per azzuffarsi, i miei interventi sui mass media sono stati solo animati da spirito divulgativo su un protocollo che ottiene risultati lusinghieri e incoraggianti”. Un protocollo – ha specificato – che tanti Stati ci invidiano e che ora viene seguito da più centri in Italia.

Lavoriamo tutti per la lotta al virus. “Vi ringrazio per la vicinanza- ha detto poi ai suoi sostenitori – ma non sono disponibile a zuffe mediatiche atteso che tutti noi medici lavoriamo per una causa unica che è la lotta al virus. Non utilizzo i morti per fare pubblicità. Manterrò un profilo basso in attesa che arrivino i risultati sulla sperimentazioni che riguardano l’Italia e il mondo”.

Massimo Finzi per Dagospia l'8 maggio 2020. Un po' di chiarezza a proposito della terapia con plasma iperimmune nella lotta al Covid19. E’ una cura innovativa? No, è stata impiegata per la prima volta su basi scientifiche nella seconda metà del 1800 dal Prof. Paul Ehrlich, uno scienziato ebreo tedesco premio Nobel. In pratica una cura che prevede la somministrazione per via iniettiva di siero prelevato da persone o animali resi immuni da una determinata malattia. Esistono varie forme di sieroterapia: antitossica, antibatterica ecc. Una pratica che in oltre 140 anni ha permesso di affrontare malattie come difterite, tetano, botulino o di neutralizzare il veleno di serpenti, scorpioni ecc. Nel caso del covid19 si tratta di usare il plasma dei soggetti guariti dalla malattia contenente gli anticorpi specifici contro il coronavirus Sars2. Allora tutto risolto? Ci sono alcune criticità.

1) Il prelievo presuppone che ci siano i donatori cioè che ci siano persone che abbiano contratto e superato la malattia.

2) Per una singola infusione sono necessari almeno 2 donatori.

3) La donazione è gratuita ma gli accertamenti di laboratorio, la separazione delle varie frazioni del sangue (plasmaferesi) necessitano di personale altamente specializzato e di apparecchiature costose.

4) I candidati alla donazione non sono numerosi per vari motivi: a) la malattia è molto debilitante. b) la maggior parte dei malati sono molto anziani. c) Non possono donare il sangue i diabetici, gli ipertesi, coloro che assumono cronicamente farmaci ecc.

5) Malgrado gli esami più accurati, l’infusione di emoderivati non è esente dal rischio di trasmissione di malattie infettive specie epatite B/C ( finestra immunologica).

Ovviamente vale sempre la regola: a mali estremi estremi rimedi. Molto promettenti al riguardo sono gli studi condotti in Israele per produrre sinteticamente (clonazione) l’anticorpo specifico verso il covid19 in attesa del vaccino. Quale la differenza tra l’azione dell’anticorpo e quella del vaccino? Sinteticamente: l’anticorpo contrasta la malattia, il vaccino la previene: il primo cura il malato il secondo impedisce al sano di diventare malato.

Il plasma può fermare il Covid-19? La risposta degli esperti. Francesco Boezi su Inside Over l'8 maggio 2020. Il professor Pietro Chiurazzi è un genetista. Si occupa di Dna. E il Dna, in qualche modo, ha a che fare con questa storia del plasma dei guariti dal Covid-19. Vedremo bene perché. Chiurazzi è un professore associato della Università Cattolica, Facoltà Medicina e Chirurgia. All’interno del Policlinico Gemelli, è un dirigente medico dell’Unità operativa complessa di genetica medica. “C’è molta confusione in giro”, esordisce.

Una “confusione” che può però essere “giustificata” per via dello stato di emergenza, che certo non facilita una descrizione chiara del quadro. Chiurazzi ha anche comparato le sequenze del Dna del Sars-Cov2, contribuendo a dimostrare, con buone probabilità, la compatibilità del virus con un’evoluzione naturale. Il Covid-19 nulla dunque avrebbe a che fare con manipolazioni umane da laboratorio. In questo articolo, abbiamo già parlato di quello studio.

L’argomento del giorno, dal punto di vista medico-scientifico, è il plasma dei guariti…

«Un punto mi risulta chiaro: a rigor di logica, questo trattamento ha una sua utilità. In molti casi, specie in situazioni di emergenza, l’uso del plasma dei guariti può essere determinante. Sul lungo periodo, invece, il plasma non è certamente la soluzione migliore. La nostra speranza è che, avendo adesso una maggiore conoscenza della patologia e dell’infezione, non sia più necessario arrivare a rianimare un paziente. Bisogna fare testing a pioggia (tamponi per l’Rna virale ai sintomatici e ricerca degli anticorpi agli asintomatici ed ai guariti), più test possibili e più presto possibile, in modo tale da iniziare a fare prima ciò che deve essere fatto, a seconda del quadro clinico».

Più test possibili, ma il sistema immunitario sembra rispondere in modo diverso da paziente a paziente..

«Se ci sono delle difficoltà respiratorie, possono essere utilizzate coperture cortisoniche importanti. Infatti, apparentemente, una iper-reattività del sistema immunitario innato di alcuni pazienti rappresenta una concausa importante dei problemi respiratori. In alcuni casi, non è tanto il virus che uccide cellule e polmoni, ma è l’eccessiva reazione immunitaria a colpire. La risposta immunitaria, in alcuni soggetti, è esagerata. Questa iper-reattività potrebbe dipendere anche da fattori genetici: il Dna, in alcune circostanze, ordina di rispondere in quel modo. Quindi alcuni pazienti guariscono proprio grazie al sistema immunitario, mentre altri, invece, avendo una reazione esagerata, fanno sì che i polmoni si riempiano di liquido per la troppa infiammazione. Inoltre è importante prevenire una tromboembolia polmonare (e non solo) iniziando tempestivamente, ma sempre sotto controllo medico, una terapia anticoagulante con eparina».

E quindi il plasma dei pazienti guariti? 

«Serve, ma è una scelta di emergenza. Bisogna avere un donatore compatibile con lo stesso gruppo sanguigno e poi le donne non possono donare. Infatti, donne in età fertile o che abbiano avuto delle gravidanze, sviluppano degli anticorpi anti-Hla che possono essere molto pericolosi per il ricevente.  Infine esiste un rischio di reazione allergica (fino a shock anafilattico) per alcuni soggetti che reagiscono a proteine del plasma che differiscono naturalmente tra individuo e individuo o di cui, per motivi genetici, possono essere privi. E questo potrebbe avvenire nel corso di una seconda somministrazione».

Quindi ci sono dei rischi..

«Dei rischi ci sono. Quelli infettivi però sono bassissimi. In Italia c’è un alto grado di controllo sulle donazioni. Ad esempio il rischio di contrarre l’epatite B con l’uso di emoderivati è inferiore ad uno su un milione. Non possiamo escludere mai del tutto ogni rischio, ma in certi casi il gioco può valere la candela».

E i costi della trasfusione del plasma dei guariti? 

«Di per sé i costi non sono enormi».

Ma il plasma è comunque sottoposto a molti attacchi…c’è un pregiudizio ideologico?

«Il costo – come detto – non è eccessivo, ma la preparazione e l’organizzazione dovrebbero essere molto accurate. Noi al Gemelli potremmo in teoria somministrare il plasma dei guariti. Però attenzione: non tutti gli anticorpi di coloro che sono guariti dal Covid-19 sono neutralizzanti, cioè in grado di bloccare la progressione della infezione. Significa che non tutto il plasma di tutti i guariti risulta davvero utile contro il virus. Per valutare il titolo degli anticorpi dei soggetti guariti servirebbe un laboratorio di microbiologia con livelli di sicurezza molto elevati perché bisogna poter maneggiare il virus. E perché è necessario dimostrare su colture cellulari che quegli anticorpi di quello specifico donatore sono capaci di bloccare l’infezione. Però, dagli studi su altri coronavirus, sappiamo che un certo quantitativo degli anticorpi sviluppati è comunque neutralizzante e praticamente tutti i pazienti finora analizzati producono anticorpi a partire da 20 giorni dopo l’inizio dei sintomi».

E quindi? 

«Si può supporre che, al di sopra di un certo titolo anticorpale contro questo nuovo coronavirus, il plasma di un soggetto guarito sia neutralizzante. E’ possibile che in Lombardia, per via della assoluta emergenza, qualche verifica sia stata saltata, senza preoccuparsi insomma se c’erano titoli sufficienti di anticorpi effettivamente “neutralizzanti”. L’alternativa, del resto, era quella di non fare nulla, mentre gli studi dei colleghi cinesi hanno confermato una certa efficacia delle trasfusioni di plasma. Ora attendiamo la pubblicazione dei dati relativi ai trattamenti eseguiti dai colleghi del Nord del Belpaese».

Sembra nascere un derby tra sostenitori del vaccino e sostenitori del plasma…

«Penso che questo sia un contrasto sbagliato e controproducente. Possono servire entrambi gli strumenti in contesti epidemiologici diversi. Sulla linea del fonte, con la medicina di guerra, tutto può essere utile. Il plasma del donatore guarito può essere d’aiuto. Il vaccino, quando l’infezione è avanzata, non serve a niente. Tutti ci auguriamo che il vaccino arrivi ed è possibile che divenga presto realtà con i tanti laboratori impegnati nel suo sviluppo. Alcuni temono che il virus muti troppo rapidamente per ottenere un vaccino valido per tutti i “ceppi” circolanti, ma alcune proteine, come la Spike (le antenne del virus che ne consentono l’ingresso tramite il recettore ACE2) sembrerebbero essere più “costantei”, per cui la speranza di un vaccino è fondata. Certo dovrebbe essere disponibile a costi accessibili e ovviamente proposto su base volontaria ai soggetti più “fragili” ed agli operatori sanitari che sono professionalmente più esposti»

Coronavirus, il plasma umano? Poco "remunerabile", ecco perché nessuno dà retta al dottor De Donno. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Tiene banco la questione del plasma iperimmune con anticorpi policlonali, quella che ad oggi sarebbe la cura più efficace contro il coronavirus. Tiene banco anche per la denuncia del dottor Giuseppe De Donno, direttore di Pneumologia e Terapia intensiva respiratoria del Carlo Poma: "Non abbiamo un decesso da un mese. I dati sono splendidi. La terapia funziona ma nessuno lo sa". De Donno, in buona sostanza, spiega che governi stranieri si sono rivolti a lui per la cura mentre, in Italia, nessuno gliene ha chiesto conto. Da qui, una teoria un pelo complottista: dato che è una cura su cui è quasi impossibile monetizzare, ovvero fare soldi, non interessa a nessuno. Ragione per la quale De Donno sarebbe sparito. Il punto è che la sieroterapia col plasma iperimmune ha il limite che nessuno può commercializzarla o brevettarla, almeno in Italia. Non è un farmaco perché trattasi di plasma donato dai pazienti ed è una cura antica che si usa da 100 anni.

"Governo e Iss disinteressati, forse perché è gratis". Virus, il dubbio di Salvini sulla cura al plasma: giocano sulla nostra pelle?

Lo spiega Affaritaliani.it, che ricorda come "è stata utilizzata ogni volta che non c'erano altre terapie utili o un vaccino, come contro le epidemie di Spagnola, l'Ebola, la Sars, la Mers. È sicura e controllata come può esserla una trasfusione moderna. Ma non sembra vada bene". Anche il governatore Luca Zaia aveva lanciato un appello a favore della sperimentazione. Ma sempre Affaritaliani.it ha interpellato i direttori del San Matteo e del Carlo Poma, che hanno spiegato che "il plasma iperimmune si basa sull’azione di anticorpi policlonali neutralizzanti per il Sars-Cov-2, prelevati da pazienti già guariti dal Covid. Gli anticorpi policlonali trasfusi nei malati, debellano il virus in tempi rapidi, dalle 2 alle 48 ore, bloccando il danno sugli organi. Le somministrazioni controllate possono avvenire a distanza di 48 ore l’una dall’altra, nel caso un'unica infusione non vada a segno".

"Facile e veloce, così i guariti possono salvare tante vite". Anche la 'iena' Politi dona il sangue per la cura al plasma.

Il sangue umano ancora non si può riprodurre artificialmente nella sua complessità. La sieroterapia funziona con il plasma, una parte del sangue. E l'efficacia della terapia realizzata con plasma artificiale, da realizzare in laboratorio e dunque commercializzabile, è ancora tutta da valutare. "In questo momento il plasma iperimmune che ci viene donato è il più sicuro al mondo", spiega ad Affaritaliani Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del policlinico San Matteo. E ancora, spiega che "la legislazione italiana ha delle regole stringenti che non ci sono in Europa e in nessun altro Paese al mondo, neanche negli Stati Uniti. Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma abbiamo degli esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi al policlinico di Pavia. Neanche gli americani sono in grado di farlo in questo momento. Non ha eguali al mondo. Noi sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Resta un evidenza, però: la sieroterapia da Mantova e Pavia si sta diffondendo in tutto il mondo. Ma è un metodo vecchio, come detto poco remunerabile, si basa sulla solidarietà di chi è guarito. E se non c'è un complotto dietro al suo mancato utilizzo, per certo ci sono delle ragioni che ci devono spingere a fare qualche riflessione.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 10 maggio 2020. È una brutta storia quella del dottor De Donno. Una storia che parte in un modo e diventa altro, una storia luminosa di una sperimentazione col plasma che sembra suggerire risultati incoraggianti e che poi si trasforma in tifo, strumentalizzazioni, complottismo da bar. Con un epilogo – il video di oggi in cui De Donno legge un comunicato con l’aria rigida e innaturale del rapito dall’Isis – che non lascia presagire niente di buono. Partiamo dall’inizio. Giuseppe De Donno è primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova. In questa struttura e al Policlinico di Pavia, si sperimenta la plasmaterapia per guarire i pazienti Covid che non hanno più di 10 giorni di problemi respiratori pregressi. Oggi la tecnica comincia ad essere sperimentata in diversi ospedali d’Italia tra cui lo Spallanzani, ma in effetti gli ospedali di Pavia e Mantova in Italia sono stati i primi. Nel mondo, invece, la sperimentazione avviene già in numerosi paesi tra cui gli Stati Uniti. La sperimentazione, a Mantova, ha dato buoni risultati: dei 48 pazienti trattati con il plasma, non c’è stato alcun decesso e tutti i pazienti sembrano sulla strada della guarigione. La plasmaterapia, va ricordato, non è un’invenzione di De Donno ma è una tecnica antica che venne utilizzata già nei primi del Novecento per curare la difterite. La complicata storia di De Donno inizia quando il primario fino a quel momento sconosciuto nella costellazione degli esperti sul campo, racconta con enfasi il successo della sperimentazione. De Donno non ha modalità di comunicazione tecniche, non ha il phisique du role del trombone della medicina, non ha fatto il tour dei salotti buoni della tv e lavora in un ospedale di provincia. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare l’idolo del popolo. Quando inizia a parlare del successo della plasmaterapia sui pazienti trattati, il suo nome e la sua faccia iniziano a circolare. De Donno si concede per interviste, scrive post carichi di entusiasmo sui suoi social, comincia ad essere citato su giornali nazionali e la sua sperimentazione diventa un tema appassionante, sebbene ancora poco mainstream. Il cambio di rotta avviene quando il virologo influencer Roberto Burioni interviene sul tema. È fine aprile e Burioni pubblica un video in cui sottolinea l’importanza della plasmaterapia, aggiungendo che però non è niente di nuovo, che ha le sue criticità relative alla sicurezza del sangue dei donatori e che si potrebbe produrre del plasma artificiale. De Donno ha una reazione molto accesa e in un post su Facebook scrive: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il Coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di Avis. Glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano. Condividete questo post, amici. Forse arriviamo al prof. E gli potrò chiedere un autografo! PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”. Il post, forse scritto con una foga eccessiva ma genuina e di certo senza calcoli sull’effetto che avrebbe potuto generare, conteneva in sé tutti gli elementi per diventare una miccia micidiale. Finalmente un medico delle “retrovie” mediatiche che si oppone alla prosopopea del potente Burioni. Quello che va ospite da Fabio Fazio, a Che tempo che fa. Quello che da vera star, in questa fase ha un contratto d’esclusiva con il programma di Fazio ed è rappresentato da un’agenzia bolognese, Elastica, assieme ad altri personaggi di diversi ambiti, da quello televisivo a quello letterario. Quello che è amico di Renzi e a lui Renzi aveva chiesto di candidarsi. Ed è così che De Donno diventa l’idolo delle masse. Di quelli che detestano la sinistra da salotto, di quelli che combattono i poteri forti coi meme e i gruppi Facebook, di quelli che “dobbiamo sconfiggere la lobby dei farmaci” e quindi di anti-vaccinisti e di una ciurma variegata di personaggi strambi. Oltre che di persone ragionevoli e dalla parte della sperimentazione seria, di persone che amano la discrezione del medico che lavora in corsia e meno le sicurezze di quello che pontifica in tv pur non occupandosi di terapie e pazienti. Insomma, di tutto un po’. Quel “Non siamo mammalucchi!” diventa un tormentone sul web, molti cittadini di Mantova lo ripetono tipo mantra in alcuni video. La situazione precipita dopo l’ultima puntata di Che tempo che fa, in cui si affronta il tema “plasmaterapia”. Roberto Burioni, ve detto, non critica affatto né la tecnica di cui ben conosce l’antica efficacia né la sperimentazione. Tra l’altro in collegamento c’è anche il virologo dell’ospedale di Pavia in cui avviene la stessa sperimentazione, Fausto Baldanti, che Burioni definisce “mio caro amico”, quindi non smonta affatto il suo lavoro. Ribadisce però che la plasmaterapia è molto costosa, che serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche e che probabilmente la strada è quella di produrre plasma artificiale. E questa è la svolta dell’intera vicenda. La storia che sembra bella diventa un circo triste di partigianeria e recriminazioni, di politica e potere. Il giorno dopo De Donno si lamenta ai microfoni di Radio Bruno: “Burioni ha detto parole inaccettabili. La plasmaterapia non è costosa e il sangue è sicuro. In Italia non mi chiama nessuno, quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto”. E poi, altrove, De Donno racconta che i Nas si sono messi a controllare il suo operato, che lui cerca di fare il bene della medicina e gli mettono il bastone tra le ruote. Gli elementi perché la politica se ne approfitti e cavalchi la tifoseria ci sono tutti. E così Salvini si attacca al carrozzone De Donno senza che De Donno gliel’abbia chiesto e scrive che la plasmaterapia funziona ma siccome le lobby farmaceutiche non ci possono speculare sopra, il Ministero della Salute si disinteressa. In pratica Salvini è meglio di Nature: lui decide che la cura funziona. Nascono gruppi Facebook con 40mila fan di De Donno , per esempio “Io sto con il dottor De Donno”. Anche il vecchio gruppo “Gli amici di Gesù” viene ribattezzato “#iostocondedonno”, come a dire che De Donno è il nuovo Messia. Chi osa esprimere anche un velato scetticismo sulla plasmaterapia come svolta definitiva per la cura del Covid viene bersagliato da una valanga di critiche e insulti su Twitter, come accaduto all’immunologa Antonella Viola che ieri, a Piazza Pulita, ha solo detto: “La terapia non sostituisce il vaccino, perché il plasma dei guariti può essere una cura ma non una prevenzione”. Che è una semplice verità, non un giudizio. Ma ormai De Donno è stato eletto, suo malgrado, icona della medicina pura e dura contro i poteri forti e il complottiamo è inarrestabile. Porta a Porta lo invita ma taglia una parte dell’intervista e “chissà cosa aveva detto di scomodo il dottor De Donno”. Spariscono, infine, tutti i profili social di De Donno e questa diventa la conferma definitiva che il coraggioso, piccolo medico di provincia (che poi è un fior di primario in un fior di ospedale) è caduto sotto la scure del Burionesimo. Salvini e i siti della Lega alimentano il sospetto con post insinuanti, circolano voci che De Donno sia stato invitato dalla Direzione sanitaria a stare zitto, sui siti che lo sostengono si respira aria di preoccupazione come se fosse legato e imbavagliato in una cantina sotto la terapia intensiva. Qual è la verità? Indagando sull’accaduto e ascoltando la voce di chi conosce lui e anche alcuni di quelli che non lo amano, l’impressione è che per vedere il fondo del lago si debba stare in quel punto a metà tra la riva e il centro del lago. Da una parte c’è un medico entusiasta, un appassionato che in questo momento si sente un soldato al fronte, per cui il camice è una divisa. Dall’altra, forse, c’è un mondo di rigidi professori disabituati ai post rissosi di un medico fuori da certi circoli di amici e grandi luminari.  Nessuno oserebbe dire a Burioni di non dileggiare la Gismondo o di non fare il bullo sui social, di sicuro qualcuno – probabilmente la Direzione sanitaria, ma non mi stupirei se le lamentele fossero partite da più lontano – ha invitato De Donno e i responsabili della sperimentazione a tacere, a mantenere un atteggiamento sobrio. È però anche vero che De Donno non è stato ostacolato nel suo lavoro, che sebbene Burioni ma anche la Capua o Pierluigi Viale, direttore delle malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna, abbiano sottolineato alcune criticità nel metodo, nessuno ha mai detto che la sperimentazione non s’ha da fare. E se è vero che Burioni ha rilasciato affermazioni poco veritiere come quelle secondo le quali la plasmaterapia sarebbe una terapia costosa (De Donno ha obiettato che le sacche da 300 ml costano 82 euro), il “pasionario” della plasmaterapia ha avuto modo di controbattere in più sedi e con la foga desiderata. “La democrazia non è un optional”, è la frase fissata sul profilo di Whatsapp di De Donno. E qui sorge il sospetto che la verità sia nel mezzo: intorno a De Donno c’è un po’ di puzza sotto al naso e De Donno soffre (un po’) della sindrome del perseguitato. Con queste premesse non poteva che diventare un caso di quelli da arruffare i popoli e da smuovere la politica degli avvoltoi. “Si è ridotto tutto a un misero scontro politico. Se voti Pd dileggi De Donno, se voti Salvini De Donno è infallibile, se voti 5 stelle confondi la sperimentazione col vaccino, se ragioni nel merito vedi un’opportunità su cui andare a fondo. Nel mezzo sarebbe il miglior regalo vedere il virus sparire all’improvviso, dissolversi nel nulla e portare via con sé qualche leader politico che vorremmo dimenticare e i più fanatici dei loro fan”, afferma la giornalista Clarissa Martinelli, che De Donno l’ha intervistato nel momento di maggior esposizione. Il tutto si conclude con un epilogo mesto. Oggi, dopo la sparizione dai social, De Donno è apparso in un video di 5 minuti in cui sembra l’ombra di se stesso. L’aria del guerriero del popolo ha lasciato spazio a rigidità e mancanza di naturalezza del rapito dall’Isis. De Donno legge un comunicato scritto da chissà chi, impappinandosi, e con aria poco serena chiede a tutti di rasserenarsi. Dice con un filo di voce: “Il mio era solo spirito divulgativo in cerca di un sereno confronto tra colleghi, non voglio zuffe mediatiche. Non ci sono gare tra colleghi. Manterrò un profilo molto basso, i risultati non sono solo personali ma di tutta la comunità. Ringrazio Mattarella, il Papa, i vescovi, il mio vescovo che mi ha cambiato la vita, Don Cristian, Don Sandro, i Nas”. Insomma, fa pace con quelli che fino a ieri erano i colleghi sboroni, ringrazia le istituzioni e i Nas e tutti quelli che aveva attaccato impavido, e poi già che c’è ringrazia tutta la Chiesa, dalla parrocchia allo stato pontificio. Il che è un peccato, perché il primario eroe un po’ “suo malgrado” un po’ “sua intenzione” sarebbe potuto diventare un riferimento interessante se si fosse opposto con coraggio a strumentalizzazioni da una parte e a snobismi altezzosi dall’altra. E invece è finita così. “Ha esagerato e l’ha capito”, dirà qualcuno”. “Gli hanno messo il bavaglio”, dirà qualcun altro. Certo è che si è passati da De Donno a Padre Maronno, in soli due giorni. E non è la fine che avremmo voluto.

Da adnkronos.com il 16 giugno 2020. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo - l'antinfiammatorio steroideo desametasone - potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E' quanto emerge da uno studio dell'Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametasone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco, ricorda la “Bbc”, fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall'inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell'Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare una vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, "questo è finora l'unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti". Il trattamento "dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita", evidenzia Martin Landray, ricercatore dell'Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.

L’antinfiammatorio da 6 euro che guarisce dal Covid. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Un farmaco economico e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametazone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco – ricorda la ‘Bbc’ – fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall’inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell’Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare 1 vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, “questo è finora l’unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti”. Il trattamento “dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita”, evidenzia Martin Landray, ricercatore dell’Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.

 La cura anti-Covid da 6 euro? Il ministero sapeva, ma non rispose all'appello. Lo studio sul farmaco steroideo desametasone fa sperare. Ma già ad aprile una lettera inviata a Speranza chiedeva di favorire le cure col cortisone. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. La prudenza dice di aspettare che lo studio annunciato a Londra, ma non ancora pubblicato, venga reso fruibile da tutti per poterne valutare numeri e validità scientifica. Tuttavia, la notizia sul farmaco-anti-Covid da 6 euro permette di sfogliare indietro alcune pagine del grande libro del virus in Italia per andare a spolverare dettagli importanti sulla lotta nazionale alla pandemia. Visto che qualcuno aveva già suggerito al ministero della Salute di puntare su questa terapia, senza però ottenere risposta.

Come forse saprete ieri l’Università di Oxford ha annunciato di aver realizzato una ricerca su 2mila pazienti gravemente malati dopo l’infezione da coronavirus e trattati con il desametasone, un antinfiammatorio steroideo cugino del cortisone e del cortisolo. Stando ai dati, pare che il farmaco abbia ridotto fino a un terzo il rischio di morte dei pazienti. Il tutto grazie ad una spesa di circa 6 euro a confezione. Una grossa speranza, molto economica.

"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. Ora, la “scoperta” londinese non è proprio un “eureka” di quelli da premio Nobel. Nel senso che molti avevano già intuito che il cortisone potesse essere estremamente utile. Nella forma più grave e spesso letale del Covid-19, infatti, un ruolo fondamentale lo gioca il processo infiammatorio e la sua esasperazione, la cosiddetta tempesta di citochine. In pratica il virus arriva, sedimenta qualche giorno, poi scatena nell’organismo una reazione infiammatoria tale da provocare polmoniti drammatiche e, a volte, la morte. Come aveva rivelato ilGiornale.it, qualcuno si era accorto della bontà del cortisone almeno due mesi fa. Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, e Piero Sestili, professore ordinario di Farmacologia a Urbino, insieme ad altri 50 colleghi firmatari avevano addirittura inviato una lettera a Roberto Speranza per invitarlo a cambiare strategia nella lotta al virus. Invece di puntare alle terapie intensive, scrivevano, meglio affidarsi al “caro vecchio” cortisone. La cosa incredibile è che il loro "protocollo" prevedeva proprio l'uso del desametasone, ovvero il farmaco studiato a Londra. La lettera, spedita il 24 aprile, venne consegnata anche a due parlamentari di maggioranza e al viceministro Pierpaolo Sileri. Ma il ministero non rispose mai all’appello.

Quel farmaco da soli 6 euro che salva le vite da Covid-19. Va detto che anche l’Oms sul tema si è sempre mostrata scettica e nelle prime fasi il cortisone era addirittura sconsigliato. Il timore si annidava, e si annida, nell’effetto immunosoppressivo del farmaco: se il virus è attivo, somministrare un medicinale che riduce le difese immunitarie potrebbe apparire un controsenso. "Si tratta di un problema secondario, perché la terapia in questo caso va seguita solo per pochi giorni e non c'è quasi tempo per produrre una consistente immunosoppressione - ci spiegavano Sestili e Ricciardi - Il beneficio nel bloccare la risposta infiammatoria anomala, invece, arriva praticamente subito. E il gioco vale la candela". Il problema è che ad oggi i vertici della sanità nazionale non hanno ancora dato indicazioni precise in merito: “Per ora il cortisone non è vietato, ma nemmeno caldeggiato - diceva Sestili - Direi che è solo tollerato. Eppure molti medici lo stanno utilizzando con effetti positivi". Un esempio su tutti. Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, oggi lo dice chiaramente: “Ci eravamo accorti dell'importanza del cortisone e del remdesevir nelle fasi precoci della malattia. Ci avevamo visto lungo". Dopo le notizie arrivate da Londra, i firmatari del protocollo inviato a Speranza naturalmente festeggiano. : “Che soddisfazione! - ci scrive Ricciardi - È quello che dico a tutti da febbraio”. Solo che qualcuno non sembra aver ascoltato.

Coronavirus, Oms esulta: “Desametasone è svolta scientifica”. Notizie.it il 18/06/2020. L’Oms esulta per la nuova scoperta in merito al farmaco a base di steroidi, il desametasone, contro il Coronavirus: rappresenta a tutti gli effetti una svolta scientifica. Difatti, un farmaco steroideo ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio Desametasone – disponibile in farmacia al costo di soli 6 euro -, potrebbe essere un’efficace arma per salvare la vita a pazienti gravi affetti da Coronavirus. La scoperta è stata realizzata dall’Università di Oxford e convincerebbe anche l’Oms. Con questo farmaco si potrebbe ridurre il grado di mortalità del 35% in quei pazienti che hanno avuto bisogno di ventilazione. L’Organizzazione mondiale della Sanità, infatti, ha parlato di ‘svolta scientifica’ in merito al Desametasone, un farmaco a base di steroidi sviluppato da ricercatori britannici per la lotta al Coronavirus. “È il primo trattamento comprovato che riduce la mortalità nei pazienti affetti da Coronavirus con ossigeno o assistenza respiratoria”. Lo ha affermato il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Nella nota diffusa dall’Oms in merito alla scoperta degli effetti benefici del farmaco a base di steroidi contro il Coronavirus si evidenza anche come questa sia: “Una buona notizia e mi congratulo con il governo britannico, l’Università di Oxford e i numerosi ospedali e pazienti nel Regno Unito che hanno contribuito a questa svolta scientifica salvavita”, ribadisce Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità. 

"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. L'appello di 50 medici e farmacisti per usare il cortisone nelle prime fasi della malattia da coronavirus. La dottoressa: "Nessun mio paziente è morto". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 09/06/2020 su Il Giornale. "Ho settemila pazienti affetti da miastenia grave sparsi in tutta Italia ed alcuni si sono ammalati di Covid-19. Molti di loro erano già in terapia con cortisone e ho ritenuto utile trattarli precocemente anche con un incremento della terapia cortisonica. Quasi tutti hanno così sviluppato solo una forma modestissima di malattia, uno soltanto è stato ricoverato e nessuno è morto". Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, la sua lotta contro il virus l'ha combattuta soprattutto con un "caro vecchio farmaco", guardato con un po' di diffidenza, ma che "sul campo" sembra aver avuto effetti positivi: "Il cortisone - racconta al Giornale.it - non costa niente, lo conosciamo benissimo ed è da sempre uno storico grande salvatore in numerose condizioni cliniche. Lo è stato probabilmente anche in questa situazione". L’approccio della dottoressa Ricciardi, così come altri in Italia, si basa anche sull'assunto che il coronavirus vada affrontato "subito". Prima cioè che si presentino le complicanze, prima di costringere il paziente al ricovero, prima di dover ricorrere, in ospedale, ad altri presidi terapeutici più complessi come il siero iperimmune. "Il primo effetto del Covid-19 - spiega - è un'iper infiammazione che poi a cascata può produrre tutti i problemi che conosciamo, come soprattutto la fibrosi polmonare, l'insufficienza respiratoria, la trombosi vasale fino alla coagulazione intravasale disseminata (CID)". Il cortisone, che è un potentissimo antinfiammatorio, se somministrato in tempo e a dosi adeguate medio-alte, permetterebbe quindi di "bloccare la malattia a monte", frenando la tanto temuta evoluzione dell'infiammazione. "Ho chiaramente sempre associato alla terapia cortisonica semplicemente una terapia antibiotica di copertura e un trattamento anticoagulante con Enoxaparina, per evitare le eventuali complicanze tromboemboliche possibili in questa condizione", spiega Ricciardi. E i risultati si sono visti. "Uno di miei pazienti aveva già subito un'operazione al torace per un tumore ed era molto grave anche per l’importante insufficienza respiratoria in atto. Quando l'hanno ricoverato, mi hanno subito detto che molto difficilmente si sarebbe potuto salvare. Ho potuto però collaborare con i colleghi locali suggerendo loro di somministrargli, per alcuni giorni, una dose piuttosto elevata di cortisone. Il paziente è subito migliorato ed ora è a casa, dove ha ripreso tranquillamente il suo lavoro".

Coronavirus, Il cardiologo Giampaolo Palma aveva capito tutto: "La polmonite non c'entra". Quello che hanno sempre nascosto. Renato Farina Libero Quotidiano il 05 giugno 2020. Preambolo. Qui non si danno ricette miracolose. Non si candida nessuno al Nobel. Si racconta la storia semplice in questi tempi complicati di Coronavirus. Semplice, e perciò molto istruttiva. Il protagonista, dottor Giampaolo Palma, è un medico che ha intuito e tracciato da pioniere una strada semplice e oggi universalmente accreditata per sfuggire alla presa mortale del Covid-19. C'è un problema. Ha agito senza chiedere il permesso alle lobby di scienziati in coda nei comitati governativi, né garantendosi appoggi mediatici. Mi ero segnato il suo nome il 3 maggio scorso. In un articolo sul Fatto, la professoressa Maria Rita Gismondo, direttore di microbiologia clinica e virologia del Sacco di Milano, scriveva: «Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale, oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro». Ed ecco la citazione di un medico ignoto al grande pubblico, mai visto in tivù: «Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici». Passano le settimane e accade quanto sappiamo. I reparti di terapia intensiva si svuotano. Applicando l'"ipotesi Palma", avversato dai luminari a cui si era fulminata la lampadina, ci sarebbero stati meno morti? Di certo, dopo sono stati molto meno. Mi aspettavo di trovarlo tra i 53 neo-cavalieri indicati dal Quirinale come eroi. Niente. Forse nella dimenticanza avrà pesato un articolo di Le Monde, dove Palma è dileggiato come il solito italiano ciarlatano, che incanta (a milioni) gli ignoranti del Web, ma per gli spiriti parigini è un abusivo da non invitare al ballo in mascherina. Be', il caso si è fatto interessante. Gli telefono. la notte Giampaolo Palma, mi spiega, è cardiologo per stirpe antica (lo era il padre), titolare e direttore di un centro clinico a Salerno accreditato, un'eccellenza campana nel ramo cuore e circolazione. È da 23 anni che esamina, ausculta, diagnostica, prescrive terapie e accompagna nelle difficoltà e negli spaventi quotidiani chi ha problemi cardiaci, vascolari, eccetera. È consapevole di essere diventato famoso, e nello stesso tempo sa di essere stato confinato nei quartieri del web oscurati da lorsignori. Non che sia particolarmente felice di questi strascichi di popolarità planetaria. Non ha strumenti per controllare l'uso del suo nome e del suo volto sul web. Le sue tesi sono state esaltate ma anche deformate. Qui precisa: «Non sono nemico del vaccino. Ma quando mai: magari lo si trovasse. Non ho mai teorizzato l'inutilità dei respiratori. Guai se non ci fossero stati». «Tutto nasce», racconta, «in una certa notte del mese di aprile, dopo ore passate a leggere e rileggere appunti e a non poter prendere sonno». Che gli accadde? Ebbe un'intuizione diagnostica. Uno dei primi Nobel per la medicina, Alexis Carrel, spiegò il fenomeno con parole che sono il sigillo di una scienza empirica qual è la medicina, ma forse anche succo di sapienza esistenziale: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Palma aveva molto osservato. Ed ecco la scoperta elementare. Il Covid-19 non è una polmonite interstiziale doppia. Questo virus non provoca la polmonite, ma coaguli dappertutto. Bisogna fare in modo che appena insorgono i sintomi, ci si curi a casa con anticoagulanti, antinfiammatori eccetera. Può essere che altri clinici abbiano coltivata questa tesi, ma prevedendo alterchi con virologi gelosi del territorio, si siano astenuti dalle controversie onde evitare frecce avvelenate. Nel dottor Palma prevalse la necessità interiore di comunicare. Non aveva il diritto di tacere. Andò al computer, e scrisse sulla sua pagina di Facebook un post. Ha avuto da quel momento milioni di accessi, rimbalzando con la sua faccia nei cinque continenti. Cosa vide quella notte davanti a sé?, gli chiedo alle due di notte, prima non poteva, mentre sta limando l'articolo scientifico che sarà pubblicato a giorni su una rivista di rango internazionale. Risponde: «Quello che vedevamo a fine marzo, nel culmine della tempesta virale, era l'assalto letale di una polmonite dalla carica virale fortissima: tra le prime difficoltà respiratorie in un'ora e mezza i pazienti erano trasferiti in terapia intensiva. Mai esistite polmoniti così. Mi chiedevo: e se fosse altro? Un pomeriggio di inizio aprile, mi sono collegato in conferenza con cardiologi e pneumologi intensivisti del Sacco di Milano e del Giovanni XXIII di Bergamo. Rimasi incantato dai referti anatomo-patologici delle prime autopsie: i tessuti polmonari ma anche quelli cardiaci; e poi il cervello, i reni, l'intestino tenue erano infarciti di coaguli. Ad essere attaccate erano le cellule endoteliali e i pericliti, che rivestono i vasi sanguigni del miocardio e del cervello oltre che quelli polmonari». la morale Da qui il lampo. «Non potevo dormire. Di notte scrissi la mia intuizione su Facebook. Proteggiamo l'apparato vascolare, proposi». Dopo di che? «Nel mondo si diffuse in un battibaleno tra i medici. Tra i soloni smorfie di disappunto. Finché Lancet confermò la giustezza della mia tesi, l'Aifa approvò gli anticoagulanti, la Società europea di cardiologia ha riconosciuto la mia terapia». Il Policlinico di Zurigo dopo aver accettato la tesi di Palma sulla ipercoagulazione ha potuto ridurre di molto gli accessi alla terapia intensiva. «Mi accusano di non aver dato forma rigorosa alla mia ipotesi. Non importa che essa funzioni. Ora, se mi lascia cortesemente lavorare, finisco l'articolo». Prima però gli chiedo l'elenco dei Paesi da cui gli hanno chiesto collaborazione e lo hanno ringraziato. «Vado a senso. In ordine di apparizione. Giappone, Perù, Argentina, Brasile, Belgio, Francia, Senegal». E ancora: che morale trarre? «Credo si debba anche da parte del governo prendere più in considerazione i clinici, che curano i pazienti tutti i giorni, che certi parrucconi sempre in tivù». Il virus è morto? «Non sarei così ottimista».

Lo scontro sui trattamenti covid. “Il plasma non costa nulla, ma Big Pharma ha interesse nel vaccino”. L’accusa di Tarro. Bruno Buonanno su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Non è amato dai colleghi. Anzi. Ma con la lucidità di sempre e l’esperienza maturata in 81 anni dedicati alla virologia, Giulio Tarro va avanti per la sua strada. “Abbiamo fatto la storia. E questo mi basta, perché tutto il resto sono chiacchiere e pettegolezzi provocati probabilmente da invidia nei miei confronti”. Era il 16 aprile quando Giulio Tarro – allievo del professore Sabin e virologo emerito del Cotugno – parlò della sieroterapia utilizzata anche a Wuhan con successo. “Sono stati pubblicati da tempo i dati scientifici delle terapie con plasma iperimmune utilizzate in Cina che confermano – spiegò lo scienziato – l’efficacia della terapia dei convalescenti. La vecchia tecnica della plasmaferesi può mettere fuori gioco il Coronavirus. L’abbiamo usata tanti anni fa intervenendo sulle gammaglobuline del tetano, è una cura antica che non richiede alcun intervento delle aziende farmaceutiche”. Un attimo di pausa. Poi, riprendendo la conversazione telefonica, il professore Tarro chiarì: “Non sono esperimenti, questa è una terapia. Voglio dire che non si guadagna”. Nel Cotugno, ma anche in altre strutture sanitarie italiane, continua a dare risultati positivi quella che in Italia viene individuata come “cura Ascierto”, sperimentazione autorizzata dall’Aifa e realizzata somministrando ai pazienti il tocilizumab, farmaco per il trattamento dell’artrite reumatoide. Aspettando che sulla plasmaferesi si pronunci il comitato etico dell’Azienda dei Colli, anche il Cotugno ritiene utile il ricorso alla sieroterapia che intanto alimenta polemiche fra addetti ai lavori. Dagli Stati Uniti Ilaria Capua e da Milano Roberto Burioni commentano con scetticismo i risultati ottenuti in quattro strutture sanitarie del Nord. Negli ospedali di Pavia, Padova, Bolzano e Mantova i decessi dei pazienti contagiati dal Coronavirus sono stati rallentati e bloccati con la sieroterapia, cioè con trasfusioni di sangue iperimmune donato da altri pazienti contagiati e guariti dal Covid-19. Ma perché l’azienda dei Colli si avvicina alla sieroterapia con un “ni”? Non è una sperimentazione ma una cura antica per la quale l’azienda ha dato un’ampia ma inutile delega al comitato etico che si dovrà pronunciare. Nel frattempo quattro ospedali del Nord hanno bloccato i decessi somministrando ai pazienti contagiati dal Coronavirus il plasma iperimmune. Roberto Burioni – dopo aver toppato ogni previsione sull’arrivo del Covid in Italia – si dimostra molto critico sulla sieroterapia. La considera costosa e “suggerisce” di usare siero artificiale (lavorato quindi da un’azienda farmaceutica) al posto del sangue iperimmune di pazienti contagiati e guariti. Ilaria Capua concorda con Burioni. Quella che quest’ultimo considera una “sperimentazione” col plasma viene smentita da un medico italiano che vive in Africa. “È una cura che i colleghi hanno appreso a Padova decine di anni fa nella clinica pneumologica – spiega Mauro Rango – Non tutti i guariti hanno nel proprio plasma la quantità di anticorpi necessaria a curare un malato: esiste per questo un protocollo di selezione del plasma che viene utilizzato molto bene anche in Italia”. La sieroterapia, dunque, è già utilizzata in diverse strutture del Nord e ora è caldeggiata per la Campania anche da Flora Beneduce, medico e componente della commissione regionale sanità, secondo la quale quella cura deve accompagnarsi con antinfiammatori, anticoagulanti e azitromicina per sei giorni. Si tratta di medicinali già esistenti da usare contro il Coronavirus che nel corpo umano presenta due aspetti: il primo simile alla polmonite interstiziale da microplasma, il secondo simile a una vasculite la cui natura è ancora da definire. Dopo la lunga quarantena, si spera che il ritorno a un’antica terapia sia oggettivamente efficace contro il Covid.

Da adnkronos.com il 20 maggio 2020. Nuovo capitolo della querelle Tarro-Burioni. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l'avvocato Carlo Taormina di presentare querela nei confronti del professor Roberto Burioni e di due giornalisti per "l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale". Nel dettaglio, "il professor Burioni - si legge in una nota del legale - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire", mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". Quanto a un altro giornalista - dettaglia l'avvocato Taormina - "si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". "Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito", riferisce Taormina. Tarro, "docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite - annuncia ancora l'avvocato Taormina - diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse".

Da corrieredellosport.it il 21 maggio 2020. A Radio Marte è intervenuto il professor Giulio Tarro, virologo. "Nuovi contagi nelle regione del Nord? Io vorrei questi dati raffrontati al numero di tamponi che vengono fatti. Psicologicamente abbiamo fatto l'abitudine al virus. Inizialmente c'è stato un problema molto serio e non è dipeso da noi centro-meridionali ma dalla gestione sanitaria del Nord. Non avevano capito di cosa si trattasse. I buoni medici sanno cosa devono fare in pronto soccorso. Andava capito che il problema era legato ai coaguli del sangue invece di trattare il COVID-19 come una polmonite".

Tarro sul ritorno negli stadi e la querelle con Burioni. Tarro ha auspicato anche un ritorno immediato allo stadio e ai palazzetti dello sport: "Rispettando la distanza, si potrebbe fare già da domani". Poi sulla polemica con il collega Roberto Burioni spiega: "Se mi bastano le scuse? No. Non bastano. Siamo buone persone, sì, ma a tutto c'è un limite. Uno può porgere l'altra guancia ma non pure la terza perché una terza non ce l'abbiamo".

Tarro ottimista: "Il Coronavirus soffre il caldo". Si va incontro alla bella stagione e alla domanda se il virus sparirà con l'estate, Tarro risponde: "Dipende dalle famiglie virali. La famiglia Coronavirus soffre il caldo, la salsedine, persino la montagna. Non solo non ce lo troveremo tra i piedi ma abbiamo una popolazione così immunizzata che non sarà più un ospite utile per il virus. Mascherine? Vanno messe dal paziente e dagli operatori sanitari. Ma per il resto è anti-igienico e può portare anche a problemi respiratori. Crisi economica? Ho paura che moriremo di fame. In Svezia non se lo sono posti il problema, fanno una vita normale, non hanno nessun problema di mortalità, probabilmente è frutto di un'altra mentalità".

Il virologo Tarro querela Burioni per «opera di denigrazione continua». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Corriere.it. La querelle tra Giulio Tarro e Roberto Burioni iniziata sui social finisce in tribunale. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l’avvocato Carlo Taormina, di presentare una querela nei confronti del professor Burioni e di due giornalisti per «l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale». Nel dettaglio, «il professor Burioni — si legge in una nota del legale Taormina — è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire», mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di «mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali». «Quanto a un altro giornalista — dettaglia l’avvocato Taormina — si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici». La discussione (accesa) tra i due esperti di virologia è iniziata su Twitter un mese fa. Il tutto è partito il 17 aprile da un tweet di Gianfranco Rotondi che riportava il pensiero Tarro, l’ex primario di virologia del Cotugno di Napoli, sul Coronavirus che diceva che come tutti i corona influenzali questo virus ci avrebbe abbandonato nel giro di un mese. Il tutto sottolineando come il medico napoletano sia stato candidato al Premio Nobel. La risposta di Burioni non si è fatta attendere: «Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia». La replica di Tarro a Burioni su Twitter è stata quasi immediata: «Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca», animando così un botta e risposta tra i due non proprio lusinghiero. Da questo «carteggio» social ora si passa all’azione legale, come dice l’avvocato Taormina nella nota. «Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito». Tarro, «docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite — annuncia ancora l’avvocato Taormina — diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse».

Roberto Burioni querelato dal professor Giulio Tarro. L'avvocato Taormina: "Denigrazione per ragioni recondite". Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Il virologo-star Roberto Burioni trascinato in tribunale dal collega Giulio Tarro. Quella che sembrava una "normale" polemica social tra i due esperti, sull'onda dell'emergenza coronavirus, si trasforma dunque in caso giudiziario clamoroso anche grazie all'intervento del combattivo Carlo Taormina, principe del Foro e avvocato difensore del professor Tarro. Una querela per Burioni e due per altrettanti giornalisti, con l'accusa di aver messo in atto un'opera di "denigrazione continuamente perpetrata a danno del prestigio scientifico professionale e personale" di Tarro. "Il professor Burioni - spiega Taormina in una nota - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire". Ci sarebbe poi tutto un corollario a danno dei due giornalisti querelati, accusati di aver divulgato notizie false sul curriculum universitario di Tarro e di aver scritto che fosse stato coinvolto in un "mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". "Un altro giornalista - conclude Taormina - si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". Una storiaccia, insomma. E dire che tutto era nato da un'affermazione di Tarro, ex primario di  virologia del Cotugno di Napoli, secondo cui (non era il solo a sostenerlo, per la verità) il coronavirus si sarebbe "estinto" nel giro di un mese. Siccome Gianfranco Rotondi l'aveva rilanciato definendo Tarro "già candidato al Premio Nobel", era intervenuto con la baionetta proprio Burioni: "Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia". Si rideva, ora molto meno.

De Donno, pioniere della plasmaterapia: «Sono infuriato, siamo in mano  a scienziati prezzolati». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale Oggi, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso».

A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a Oggi, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».

 “SE TUTTO RESTA IN MANO A SCIENZIATI PREZZOLATI NON SI VA DA NESSUNA PARTE”. Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale OGGI, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso». A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta».   Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a OGGI, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».

Dopo il Tocilizumab via libera al Cotugno alle terapie col plasma. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. “A seguito della riunione del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli e dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, presieduto dal professore Liberato Berrino, è stato dato il via libera alla sperimentazione, presso l’Ospedale Cotugno, per il trattamento delle polmoniti da Covid 19 con il plasma iperimmune”. A darne notizia Maurizio di Mauro, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli (Monaldi – Cotugno – CTO) di Napoli. “Grazie a questo importante atto approvato oggi dal Comitato etico, che ringrazio per la solerzia e la celerità con la quale ha operato – aggiunge di Mauro – siamo pronti a partire anche noi con questo nuovo trattamento sperimentale”. La sperimentazione, guidata da Roberto Parrella, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie infettive ad indirizzo respiratorio dell’ospedale Cotugno, si avvarrà anche della collaborazione del centro trasfusionale dell’Ospedale Monaldi, diretto da Bruno Zuccarelli. La prima fase coinvolgerà tutte le Unità operative complesse del dipartimento di Malattie infettive del Cotugno, guidato da Rodolfo Punzi, e consisterà nel reclutamento dei donatori, ossia di soggetti guariti che presentino un’elevata carica anticorpale disposti a donare il plasma che, una volta trattato, sarà poi utilizzato per il trattamento dei pazienti. “Era per noi estremamente importante intraprendere anche questa strada per offrire agli ammalati colpiti da questo virus tutti i piani terapeutici possibili e per avere un’altra arma importante, che già altrove sembra dare risultati molto confortanti, in questa battaglia che stiamo combattendo quotidianamente ormai da diversi mesi”, conclude di Mauro.

MONICA SERRA per la Stampa il 23 luglio 2020. Sono stati i «legami politici» con la Lega a favorire Diasorin nell'accordo col San Matteo di Pavia per la sperimentazione dei test sierologici. Ma anche a garantire alla società piemontese affidamenti milionari da parte della Regione Lombardia. E a spingere alcuni politici leghisti in consiglio regionale a porre in essere «atteggiamenti a dir poco ostruzionistici» nei confronti di chi, travolto dall'emergenza, provava a dotarsi di differenti strumenti di mappatura e monitoraggio. Esempi sono i sindaci di Robbio e Cisliano. È questa l'ipotesi accusatoria della procura di Pavia che ieri mattina ha ordinato perquisizioni e sequestri al San Matteo, uno degli istituti di cura e ricerca a carattere scientifico più importanti d'Italia, e negli uffici della Diasorin. Non solo quelli di Saluggia, a Vercelli, ma anche quelli di Gerenzano, nel Varesotto, che hanno sede proprio nell'Insubrias Biopark, un importante parco scientifico biotech, che dà il domicilio anche alla fondazione Istituto Insubrico e alla società Servire srl. A capo di entrambe, che ieri sono state perquisite dalla Gdf e che da anni secondo gli investigatori fanno affari con Diasorin, c'è Andrea Gambini. Già commissario della Lega Varesina e presidente del Besta di Milano, Gambini non è indagato e per gli investigatori non è neanche l'unico «legame politico» tra Diasorin e la Lega. Ma i suoi rapporti con la società che ha ottenuto «in esclusiva» l'accordo con il San Matteo per la sperimentazione dei test che avrebbero permesso di mappare i positivi al Covid in Lombardia. Il fascicolo è stato aperto dal procuratore aggiunto Mario Venditti e dal pm Paolo Mazza per peculato e turbata libertà nella scelta del contraente su denuncia di una società concorrente, la Technogenetics, con cui è in corso anche una battaglia legale davanti al Consiglio di Stato. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il San Matteo avrebbe prima favorito la Diasorin trasmettendogli il proprio know how in materia di coronavirus e test sierologici. Poi l'avrebbe scelta per stipulare l'accordo per la sperimentazione dei test. Oltre al presidente del San Matteo, Alessandro Venturi, tra gli otto indagati compaiono nomi eccellenti, come quello del professore Fausto Baldanti, che per i magistrati ha contribuito a «viziare la scelta operata dal policlinico San Matteo di procedere a un accordo diretto con Diasorin, tra i tanti operanti sul mercato» per via del suo «evidente conflitto d'interessi». Baldanti, infatti, «ricopriva contemporaneamente il ruolo di responsabile scientifico del progetto di collaborazione Fondazione San Matteo e Diasorin e la carica di membro del Gruppo di lavoro del Consiglio superiore di sanità presso il Ministero della salute competente per la valutazione del test, nonché di membro del tavolo tecnico-scientifico con il compito di fornire indicazioni al fine di sviluppare un approccio diagnostico omogeneo su base regionale per la diagnostica e testing in vitro per la ricerca del Covid 19». Diasorin ribadisce «la correttezza del proprio operato» e ricorda che «la decisione del Tar per la Lombardia di annullare tale accordo, sulla base dei medesimi rilievi attualmente posti a fondamento dell'ipotesi investigativa della procura di Pavia, è stata sospesa dal Consiglio di Stato». Intanto un faro è stato acceso anche dalla procura di Milano che sta valutando, tra le altre cose, l'incidenza dei comunicati sull'andamento del titolo Diasorin in Borsa.

"Ho 400 vaccini umani ma non possono donare il plasma per colpa della Regione Lombardia". Lo dice il sindaco di Robbio, primo comune lombardo a eseguire i test non autorizzati dall'amministrazione. Manuela D'Alessandro si Agi il 5 maggio 2020. Mentre la regione Lombardia apre ai test sierologici nei laboratori privati, Roberto Francese,  sindaco di Robbio, piccolo comune in provincia di Pavia e primo nella regione a effettuare questo tipo di esami ai suoi residenti, fa sapere di avere “400 vaccini umani” pronti a salvare vite attraverso la donazione del loro plasma ma che non possono farlo a causa della burocrazia. Le sue parole sono sassi. “Vogliono uccidere 400 persone perché il protocollo prevede che vadano bene solo i test fatti dalla Diasorin, unica accreditata dalla Regione. Dai nostri test non validati ma con marchio CE, alcuni già autorizzati dall'Emilia Romagna - spiega all’AGI il primo cittadino -  risultano 400 cittadini  con valori altissimi di anticorpi IgG, cioé quelli che indicano un’infezione che si è verificata molto tempo prima. Hanno tutti espresso la volontà di donare il loro plasma al Policlinico San Matteo di Pavia, dove questa cura sta ottenendo eccellenti risultati, ma non possono. Ho scritto all’assessore Gallera chiedendogli perché non approfittiamo di questa opportunità di salvare delle vite. Se poi gli anticorpi diminuiranno di chi sarà la colpa dei morti?. Possiamo salvare delle vite insieme ma bisogna partire subito per rispettare i protocolli”. Francese aggiunge di avere “chiamato personalmente” la Diasorin, la società che produce i test accreditati dalla Regione “ma dicono che non me li vendono, sebbene mi sia offerto di pagarli di tasca mia per avere la conferma dei nostri test. La ragione non la conosco. Vogliono uccidere vite umane per un principio”. “Ora - considera Francese - la Regione dice che farà eseguire i test ai privati, mi fa piacere. Sono stati persi due mesi per fare esattamente quello che noi abbiamo fatto due mesi fa, spero che almeno chieda scusa”.

Nei giorni scorsi, Ats, l’azienda territoriale sanitaria, ha scritto ai sindaci lombardi ribelli, che hanno eseguito di loro iniziativa i test, ribadendo che i loro esami “non risultano al momento validati dalle autorità competenti in materia” e “non sono coerenti con le indicazioni regionali”. Tuttavia, si legge nel documento, “a scopo precauzionale si raccomanda ai sindaci, ai medici competenti e alle aziende  che vengano a conoscenza di un esito positivo a uno di tali test  di porre in isolamento fiduciario la persona e i relativi contatti". 

Tarro: “Il vaccino c’è già, è il plasma dei guariti”. Gioia Locati il 5 maggio su Il Giornale. “Non ci troviamo di fronte a una terapia sperimentale da dover studiare o da concedere in "via compassionevole". È una pratica conosciuta da secoli, utilizzata anche da Pasteur nell’Ottocento: si sono sempre prelevate le gammaglobuline dai guariti per curare i malati”. Così Giulio Tarro, professore e virologo, allievo di Sabin (ha ricevuto nel 2018 il premio americano di miglior virologo dell’anno) noto per aver isolato il vibrione del colera negli anni Settanta oltre che approfondito e curato la polmonite sinciziale nei neonati, interviene sulle infusioni salva vita praticate con successo in alcuni ospedali, a Mantova, Pavia, Lodi e Cremona. Il plasma dei convalescenti è stato usato in passato per trattare i malati di Sars, Mers ed Ebola. Nei mesi scorsi in Cina sui malati di Covid 19 e, recentemente, a Mantova, ha favorito la guarigione in una donna incinta di 28 anni.

Niente di nuovo, dunque?

“Assolutamente. Pratica antica, rodata ed efficace, meno complessa di una trasfusione perché non occorre cercare il gruppo sanguigno affine. Si inietta solo la parte liquida che contiene gli anticorpi e non i globuli rossi”.

Lei ha detto che il virus sparirà con il caldo. 

“Ne sono ancora convinto. I virus respiratori e influenzali d’estate si stemperano. A certe latitudini, penso all’Africa, si sono presentati solo piccoli focolai. Verosimilmente potrebbe accadere o che sparisca come la Sars o che ricompaia come la Mers ma in maniera localizzata o, cosa più probabile, che diventi un virus stagionale”.

Se l’aria aperta, il vento e il sole non favoriscono i contagi perché dobbiamo girare con le mascherine?

“Le mascherine andrebbero indossate quando si hanno incontri ravvicinati o ci si ritrova in un luogo frequentato. Non quando si cammina (o si corre) da soli”.

Qualcuno afferma che il virus Sars-Cov-2 non sia stato isolato (come da procedura protocollata) ma solo sequenziato in alcune parti.

“Mi risulta che in Australia lo abbiano coltivato su colture cellulari e poi, come da protocollo, fotografato al microscopio elettronico”.

Come mai di altri coronavirus e di virus a RNA non si riesce a trovare il vaccino? Non si è trovato per la Sars, né per la Mers. E neppure per l’Aids e l’epatite C.

“Come scrisse Sabin nel 1993, editoriale su Nature del 17 marzo, il virus HIV dell’Aids si nasconde all’interno delle cellule e, sfuggendo agli anticorpi, non si trova. Quello dell’epatite C ha diversi ceppi…”

Anche l’influenza ha tanti ceppi.

“Esatto. Solo l’influenza A ha diversi sottotipi, la Spagnola, l’N1H1, l’Aviaria, la Hong Kong, sono tutte di tipo A…Poi ci sono le influenze B e quelle di tipo C. È importante ricordare che quando la popolazione raggiunge una quota di immunità naturale questi virus smettono di circolare. L’Asiatica del 1957 colpì i giovani e non gli anziani, i quali erano già protetti dallo stesso virus che imperversò nel 1890”.

Tornando a Sars e Mers, come mai di questi coronavirus non si è trovato un vaccino in 18 anni e ora si dice che per il Sars-Cov-2 ce ne siano almeno un paio quasi pronti oltre a diverse decine allo studio?

“Un vaccino non si fabbrica in pochi mesi. Vi sono delle tappe necessarie da percorrere altrimenti si rischia di spendere energie e denaro per un prodotto inutile. Recita il proverbio che la gattina frettolosa fa i gattini ciechi. Sono fondamentali le prove di sicurezza e quelle di efficacia, su campioni ampi e rappresentativi. E poi, come ho detto, abbiamo già un vaccino che è anche curativo, le infusioni di plasma da convalescenti. Si incentivino le donazioni e si promuova questa pratica in tutti gli ospedali”.

Luc Montagnier ha dichiarato che nel virus Sars-Cov-2 vi è una sequenza del virus dell’Aids. Secondo il premio Nobel siamo di fronte a un esperimento di laboratorio ma ci dice anche che con il tempo la presenza del tratto artificiale è destinato a scomparire…

“Parecchi ricercatori hanno cercato questa sequenza senza trovarla. Montagnier ha specificato di averla individuata attraverso un’ipotesi matematica; si tratta di uno studio a tavolino non di una ricerca in laboratorio”.

Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Trump? Il presidente è convinto che il virus sia uscito dal laboratorio cinese di Whuan. Il problema degli esperimenti sui virus pandemici e di una possibile fuga è reale, e segnalato da tempo con preoccupazione da parte del mondo scientifico. Cliccate qui.

“D’altro canto vi sono numerosi studi che attestano la provenienza del Sars-Cov 2  dal pipistrello. Al momento per noi questo è un non problema. Dobbiamo affrontare le conseguenze del virus e gestirle. E, ripeto, perché ancora l’Italia lo ignora: vi è una terapia soddisfacente e a portata di mano, il sangue dei guariti”.

È stato detto che il Covid 19 si può manifestare anche nei bambini con la sindrome di Kawasaki.

“Non si sa ancora nulla di questa malattia, rara, che si presenta come una forma autoimmune ed era presente anche prima del Covid 19. Spero che si faccia chiarezza”.

Cosa pensa della malattia Covid 19? In alcune persone si è manifestata con sorprendente virulenza.

“Sì. Ormai sappiamo che le persone anziane e chi è affetto da co-morbilità rischia di avere gravi complicazioni a livello polmonare e circolatorio. I medici che purtroppo hanno perso la vita a contatto con i malati erano sprovvisti di protezioni, alcuni di loro avevano patologie pregresse. La mortalità da Covid 19 è assai bassa e la diffusione del virus nella popolazione è ben più ampia di quella che appare dai tamponi eseguiti”.

Le messe sono ancora vietate. Se la decisione di proibirle non è stata presa da Conte, arriva dal comitato scientifico?

“Non esiste alcuno studio sulla pericolosità delle celebrazioni rispetto ai ritrovi concessi sui posti di lavoro o sui mezzi pubblici. È stato un provvedimento stupido, creato dal nulla e senza alcuna motivazione. Perché nelle Chiese non dovrebbe essere rispettato il metro di distanza?

Cosa pensa della raccomandazione di sanificare gli ambienti con diversi disinfettanti? Nel periodo gennaio-marzo i centri anti veleni hanno ricevuto più di 45.000 chiamate a seguito delle esposizioni a sostanze disinfettanti. Un aumento del 20% rispetto alla media.

“Le sanificazioni vanno studiate e circostanziate. Il virus è trasmesso per via aerea, ci si contagia attraverso contatti ravvicinati a differenza dei virus influenzali che si trasmettono anche con una distanza di diversi metri. Non è necessario impiegare sostanze tossiche, per sanificare un ambiente si possono utilizzare i raggi ultravioletti, già usati nei laboratori”.

28enne incinta guarita col plasma iperimmune: primo caso al mondo. Primo caso al mondo. La giovane è stata sottoposta a infusione di sangue contenente plasma prelevato da pazienti guariti. Valentina Dardari, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Una ragazza 28enne in dolce attesa è riuscita a vincere il coronavirus dopo essere stata sottoposta a un trattamento di infusione di sangue contenente plasma iperimmune prelevato da pazienti guariti. La plasmaterapia sembra quindi funzionare. Almeno così è stato per Pamela, 28enne di Mantova, incinta di 24 settimane. Pamela ha anche un’altra bambina a casa che l'aspetta e che finalmente, dopo 13 giorni di ricovero, la potrà riabbracciare.

Ecco come la giovane mamma ha battuto il coronavirus. La giovane era stata ricoverata lo scorso 9 aprile all’ospedale di Mantova dove aveva iniziato a seguire il percorso Covid per donne in stato interessante. Il giorno seguente però le sue condizioni fisiche erano peggiorate così tanto da dover essere trasferita nel reparto di Pneumologia. Adesso Pamela è tornata a casa, perché, dopo essere stata curata con due sacche di plasma iperimmune, è finalmente guarita. Anche il secondo tampone a cui è stata sottoposta ha dato esito negativo. La giovane mamma ha quindi sconfitto il coronavirus. Secondo quanto riferito dall’Asst di Mantova, si tratterebbe di un caso unico per il momento: al mondo non vi sarebbero infatti altri casi di donne incinte, colpite da Covid-19, che siano guarite con l'infusione dell'emocomponente. Come riportato da Tgcom24, la 28enne tra le lacrime ha così commentato la sua guarigione: “Il plasma mi ha fatto rinascere. Ero molto abbattuta, ma ho trovato professionisti straordinari. La bimba che nascerà si chiamerà Beatrice Vittoria. Perché abbiamo vinto questa battaglia”. Il direttore della Pneumologia dell’ospedale di Mantova, Giuseppe De Donno, ha spiegato che subito dopo l’inizio del trattamento il quadro clinico di Pamela è migliorato.

Un importante risultato. Come aveva detto in conferenza stampa alla Protezione civile Luca Richeldi, direttore di Pneumologia al Policlinico Gemelli di Roma e membro del Comitato tecnico scientifico, "La plasmaterapia è una pratica medica in atto da fine Ottocento, che abbia validità ed efficacia lo sappiamo, non sappiamo ancora per questa malattia. Speriamo che la sperimentazione dei colleghi di Mantova dia buoni risultati, non abbiamo risposte perché è passato troppo poco tempo. A breve avremo un risultato, ma è una delle vie aperte”. Nella struttura ospedaliera mantovana affermano che il risultato ottenuto sia molto incoraggiante. Intanto, nell'ambito del protocollo siglato con il Policlinico San Matteo di Pavia, sono 24 i malati che sono stati trattati con 50 sacche di emocomponente. Ancora non ci sono evidenze univoche. Con plasmaterapia si intende l’estrazione del plasma iperimmune dal sangue di donatori guariti, questo viene poi analizzato per stabilire la reale presenza di anticorpi al Coronavirus. Successivamente si passa all’infusione nell'organismo dei soggetti gravemente malati. Moltissimi i pazienti guariti che hanno deciso di donare il proprio sangue alla ricerca.

De Donno: “Il plasma è un farmaco più potente del vaccino”. Laura Pellegrini il 22/04/2020 su Notizie.it. Secondo il professor De Donno, il plasma è "in questo momento è l'unico farmaco specifico contro il coronavirus". Il Direttore terapia intensiva respiratoria Ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, ritiene che il plasma sia il farmaco più efficace contro il coronavirus. Non è un caso, infatti, se una ragazza 28enne incinta è guarita grazie alla plasmoterapia e nemmeno è un caso il fatto che a Pavia siano in corso le sperimentazioni. Curare i pazienti Covid-19 con il plasma dei pazienti guariti, secondo il professore, potrebbe essere ancora più efficace del vaccino. Secondo il professor De Donno, intervistato da Radio Radio, “il plasma convalescente, ovvero il plasma che otteniamo da una donazione da parte di guariti, in questo momento è l’unico farmaco specifico contro il coronavirus, non ce ne sono altri”. Ma come funziona effettivamente la plasmoterapia? Il meccanismo – ha chiarito il professore – “agisce utilizzando le sostanze che ci sono nel plasma dei guariti e gli anticorpi diretti contro il coronavirus. In pratica è come se inoculassimo nei pazienti malati un vaccino che ha fatto il suo effetto dopo 20 giorni, quindi qualcosa di molto più potente di un vaccino”. Sul fatto di poter produrre il plasma in laboratorio, invece, il professore mostra qualche perplessità: “Il coronavirus è un virus che muta molto facilmente, sintetizzando un plasma in laboratorio si rischia di sintetizzare un farmaco che poi alla fine non è efficace“. Inoltre, ha poi aggiunto De Donno, “il vantaggio di utilizzare donatori è che abbiamo la possibilità di modularne la produzione. I nostri appelli stanno anche portando i loro frutti, solo oggi ho ricevuto 300 mail di volontà a donare il plasma da parte di guariti di coronavirus”.

Perché i morti sono ancora tanti? Il contagio, stando agli ultimi bollettini della protezione civile, è in diminuzione, mentre il numero dei decessi rimane alto. Come spiegare questo fenomeno? Si possono fare tre considerazioni: “Quello che si sta vedendo – ha descritto De Donno – è che i medici di famiglia iniziano a trattare i pazienti a domicilio e di conseguenza si blocca la patologia nelle prime fasi”. Un secondo punto riguarda invece il fatto che ” si è imparato a trattare le forme intermedie”, che non vanno più in rianimazione, “ma si fermano nell’intermedio respiratorio e questo ha permesso alle rianimazioni di svuotarsi”. Infine, la mortalità “è la dimostrazione che i pazienti rimangono a casa di più e molte volte muoiono a casa o nelle strutture secondarie”.

Monica Serra per “la Stampa” il 2 aprile 2020. Quando i volontari dell'Avis li hanno convocati per la donazione del sangue, erano certi che avrebbero riscontrato un alto numero di positivi al Covid19. Dagli esiti dei test e dei tamponi è arrivata la conferma: su 60 cittadini di Castiglione D' Adda, uno dei comuni dell' ex zona rossa lodigiana, 40 sono risultati positivi senza saperlo. Tutti asintomatici, sfuggiti alle statistiche ufficiali: sono entrati in contatto con la malattia, non l' hanno sviluppata, ma hanno prodotto gli anticorpi, come fossero stati vaccinati. Un dato significativo, venuto fuori da uno screening avviato da Avis in collaborazione con le università di Pavia e di Lodi che, questa settimana, inizieranno a sperimentare una nuova terapia: «La somministrazione del plasma ricco di anticorpi per curare i malati», spiega Gianpietro Briola, presidente di Avis e primario del pronto soccorso dell' ospedale di Manerbio, nel Bresciano. «L' obiettivo sarà quello di ricavare farmaci plasmaderivati da somministrare ai pazienti più fragili con malattie croniche. Oppure come terapia per i malati Covid». L' Avis e le università che stanno lavorando alla sperimentazione non hanno scelto a caso l' ospedale di Codogno e i donatori di Castiglione D' Adda, con i suoi 80 decessi su 4600 abitanti: «Sapevamo già che nella zona focolaio avremmo trovato un' alta incidenza di positivi asintomatici, con gli anticorpi», spiega il presidente Briola, che non esclude che la sperimentazione sarà allargata anche ad altre zone come Bergamo e Brescia. Ma il dato che viene fuori dalla ricerca è comunque interessante: il 70 per cento dei donatori sono risultati positivi al Covid. «Un numero che in realtà non sconvolge affatto», commenta il presidente dell' Ordine dei medici di Lodi, Massimo Vaiani. «È vero che non si può estendere questa percentuale a tutta Italia. Ma, di sicuro, il numero sommerso degli asintomatici nei Comuni della Bassa, come in altre aree maggiormente colpite, è anche superiore». Per questo molti medici del Lodigiano hanno chiesto di effettuare tamponi a tappeto in tutta l' area. «Forse adesso è anche tardi per farlo. Sarebbe stato necessario nelle prime settimane come è stato fatto in Veneto, a Vo' Euganeo - prosegue Vaiani -. Ma la nostra preoccupazione è ora rivolta a chi uscirà di casa e tornerà al lavoro anche in città lontane dalla zona rossa, come Milano». Perché ovviamente dopo la quarantena il doppio tampone, che deve risultare negativo, viene effettuato solo a chi ha presentato i sintomi più violenti della malattia. Non a tutti gli altri. «Per questo stiamo chiedendo di potenziare l' utilizzo del tampone o comunque di scegliere un metodo di monitoraggio allargato per mappare le persone asintomatiche che, senza saperlo, rischiano di continuare a portare in giro il virus». Per provare a codificare la giusta forma di monitoraggio, proprio oggi si terrà un incontro dell' Ordine dei medici con l' Asst Lodi e con l' Ats.

Lo studio italiano. Coronavirus, nel sistema immunitario dei bambini la chiave per sconfiggerlo. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Se i bambini si ammalano meno e reagiscono meglio degli adulti all’infezione da coronavirus, la chiave è nel loro sistema immunitario. E proprio da qui si potrebbe partire per trovare una cura al virus. È la tesi alla base della ricerca italiana pubblicata sulla rivista The Lancet Children & Adolescent Health e condotta dalle università Sapienza di Roma e Federico II di Napoli, con ospedale Bambino Gesù e Istituto Spallanzani. Tra gli autori  il pediatra Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, e del direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito. Lo studio parte da un’osservazione: “I bambini sono più vulnerabili ad altre infezioni, quindi sorge la domanda: perché i bambini sono meno sensibili al COVID-19 rispetto agli adulti? Studiare il sistema immunitario dei bambini potrebbe essere la chiave per comprendere il grado di sensibilità al SARS-CoV-2. In attesa che si trovi un vaccino, si legge nell’articolo, gli anticorpi dei bambini potrebbero diventare fondamentali per gestire la malattia. Il sistema immunitario dei più piccoli risponde con la produzione precoce di una miscela di anticorpi (anticorpi policlonali) prodotte dai linfociti B e di immunoglobuline M (IgM). Una reazione che non è avviene negli adulti colpiti in forma grave della malattia. Poiché i linfociti B hanno producono sostanze infiammatorie come la citochina IL-10, è possibile che la risposta immunitaria dei bambini eserciti la doppia funzione di proteggere l’organismo e nello stesso tempo di ridurre i danni nei tessuti, come quello dei polmoni. Per i ricercatori questi dati solo un primo passo e sono in corso ulteriori ricerche sulle specificità degli anticorpi di bambini e adulti. L’evoluzione, rilevano, ha dato un vantaggio ai bambini nella capacità di combattere agenti patogeni sia noti sia sconosciuti; un vantaggio che si perde progressivamente con l’invecchiamento o con la malnutrizione, o ancora con l’indebolimento del sistema immunitario e l’indebolimento dell’organismo causato da malattie.

Coronavirus, dagli anticorpi dei lama un aiuto contro Covid-19. I risultati di uno studio dell'Università di Gand (Belgio) su The Cell. Cinque anni fa i primi test su Winter, che oggi ha 4 anni. In laboratorio i suoi anticorpi si sono mostrati efficaci prima contro Sars-CoV1 e Mers-CoV, ora con Sars-CoV2. "Sembra riuscire a inibire il coronavirus nelle colture cellulari". Giacomo Talignani su su La Repubblica il 7 maggio 2020. Un potenziale alleato nella lotta al coronavirus potrebbe trovarsi nel più insospettabile degli animali: un lama. In particolare, un giovane esemplare di quattro anni. Da mesi gli scienziati di tutto il mondo stanno cercando un vaccino e una cura efficace per il Covid 19 e recentemente, su Science, è apparso per esempio uno studio che racconta come un candidato vaccino (PiCoVacc) ricavato da virus inattivati purificati sia stato testato con successo su animali come macachi, topi e perfino primati non umani. Diverse specie di animali, nella corsa alla ricerca di una soluzione per fronteggiare il virus, sono oggi al centro di esperimenti e test di laboratorio in attesa di esplorare studi clinici sull'uomo. In certi casi però la "cura" potrebbe arrivare direttamente dagli animali. La speranza di un team internazionale di ricercatori guidato da scienziati dell'Università del Texas, insieme ad alcuni collegi dell'Università di Gand in Belgio, risiede ora in un giovane lama chiamato "Winter", inverno. In uno studio appena pubblicato sulla rivista Cell i ricercatori spiegano infatti di aver trovato nel sangue del lama alcuni anticorpi che sarebbero in grado di evitare le infezioni da Covid-19. "E' uno dei primi anticorpi in grado di neutralizzare Sars-CoV2" ha spiegato in una nota Jason McLellan dell'Università del Texas ad Austin. Per arrivare a studiare gli anticorpi dei lama gli scienziati sono partiti da alcuni studi, effettuati circa quattro anni fa, sul piccolo Winter che allora aveva appena nove mesi. Color cioccolato, dal muso simpatico, il giovane Winter da anni vive in Belgio in un allevamento dove lavorano gli esperti dell'ateneo di Gand. Quasi un lustro fa gli scienziati prelevarono alcuni anticorpi da Winter che dimostrarono di essere in grado di neutralizzare i virus Sars-CoV1 e Mers-CoV per circa sei settimane. E sempre gli anticorpi del lama, ora, hanno dimostrato di poter respingere anche Sars-CoV2. Come ricorda il New York Times, non è la prima volta che i lama vengono usati nella ricerca di anticorpi utili a combattere virus e malattie: era già successo per esempio in esperimenti condotti nella lotta all'HIV. Per Daniell Wrapp, fra i primi firmatari della ricerca, la chiave del successo degli anticorpi dei lama potrebbe essere legata alla dimensione ridotta e la capacità di questi collegarsi facilmente a diverse parti del virus. L'anticorpo più piccolo del lama può infatti accedere a piccole cavità e rientranze nella proteina spike (quella che permette al nuovo coronavirus di attaccare e infettare le cellule umane) e sembra essere in grado neutralizzarla. "Può prevenire l'attaccamento e l'ingresso, neutralizzando efficacemente il virus", ha spiegato Wrapp. E' presto per poter dire se gli anticorpi di Winter e dei lama possano essere usati per tentare di fermare il virus fra gli esseri umani. Essendo anticorpi dovrebbero essere somministrati con anticipo per riuscire a scongiurare il contagio dato che "stai dando direttamente a qualcuno gli anticorpi protettivi e quindi, solo dopo il trattamento, le persone dovrebbero essere protette. Gli anticorpi potrebbero anche essere usati per trattare qualcuno che è già malato per ridurre la gravità della malattia" sostiene McLellan. Per ora, questo anticorpo - una caratteristica genetica che i lama condividono con altri camelidi, - è stato testato in laboratorio e ha dimostrato con successo di poter inibire efficacemente il coronavirus nelle colture cellulari. Secondo Xavier Saelens, virologo molecolare delll'università belga, gli anticorpi di lama possono legarsi o fondersi con altri anticorpi, compresi quelli umani, e rimanere stabili. Lo stesso Saelens però non nega che "c'è ancora molto lavoro da fare per cercare di portarlo a studi clinici. Se dovesse funzionare, Winter si meriterà di sicuro una statua".

Il Metodo Alessandria. Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Quando è passata dall' altra parte, da medico a malato, Paola Varese non si è persa d' animo. Con i suoi colleghi della Asl di Alessandria, la provincia più colpita del Piemonte, ha varato un progetto chiaro fin dal nome, «Covi a casa». Come prendere in cura a domicilio le persone con sintomi da coronavirus grazie a un protocollo che si basa soprattutto sulla somministrazione di idrossiclorochina, ovvero il Plaquenil, un farmaco prescritto soprattutto per combattere l' artrite reumatoide. Lei, primario di oncologia a Ovada, aveva scoperto di essere positiva al virus lo scorso 5 marzo. «Avevo un quadro respiratorio importante, stavo male. Ma ho deciso di non ricoverarmi e di iniziare subito la terapia su me stessa». Le cose sono andate meglio, con l' attenuazione della febbre. «Covi a casa» è partito il 18 marzo, e finora può contare 156 pazienti in assistenza domiciliare, dei quali solo tre hanno poi avuto bisogno del ricovero. «Con la sua funzione antinfiammatoria e antivirale, il Plaquenil può bloccare il virus agli inizi, aiutandoci a tenere la gente lontano dagli ospedali». Ci credono in tanti, alle virtù terapeutiche del Plaquenil, che lo scorso 17 marzo ha ricevuto il via libera dell' Aifa, l' Agenzia italiana del farmaco, per l' utilizzo in modalità off label , con condizioni diverse da quelle per cui è stato autorizzato. Qualcuno si era già portato avanti. La primogenitura se la contendono il direttore del reparto di ematologia dell' ospedale di Piacenza Luigi Cavanna, che dalla fine di febbraio a oggi ha curato così 218 pazienti, con la riduzione del 30 per cento dei ricoveri nei giorni di picco dell' epidemia, e il suo collega Pietro Garavelli, che dopo essere diventato nel 1998 il più giovane primario italiano con i suoi 38 anni di allora, non si è mai più mosso dall' infettivologia dell' Ospedale maggiore di Novara. «Non inventiamo nulla» sostiene Garavelli. «Quando abbiamo avuto i primi casi di positività, tutte persone che erano state a contatto con Codogno, una mia collaboratrice che aveva lavorato con i ricercatori italiani che tra il 2002 e il 2003 avevano usato l' idrossiclorochina contro la Sars, ha avuto l' idea. E ha funzionato. Prima in ospedale, poi fuori». Garavelli è diventato un portabandiera del Plaquenil. «Un farmaco prezioso, perché impedisce la replicazione del virus e il suo attacco alle vie respiratorie, infatti è usato anche come anti-malarico, e poi risponde bene all' infiammazione che ne deriva». Il Piemonte orientale è la capitale non dichiarata di questo trattamento, con sconfinamenti anche nella provincia di Varese. A oggi, sono cinque le Asl e quattro gli ospedali che hanno adottato protocolli basati sul Plaquenil, dalle Marche alla Puglia, per un totale di quasi duemila pazienti, un dato che pone l' Italia appena dietro la Francia, capofila del Plaquenil per via dell' auto nominato inventore della cura, Didier Raoult che afferma di aver finora curato nel suo ospedale 3.200 persone positive al Covid-19. Proprio la visita del presidente francese Emmanuel Macron al professore di Marsiglia, avvenuta lo scorso 9 aprile, ha dato una accelerazione alle sperimentazioni in corso ovunque per verificare l' efficacia del Plaquenil. Al momento se ne contano 86, una cifra enorme. I primi tre a essere stati pubblicati all' inizio di maggio sul Journal of American Medical Association , sono stati seguiti da un gruppo di medici di Lione, San Paolo e Boston, pongono seri dubbi sull' efficacia del Plaquenil contro il coronavirus, almeno quando è in fase conclamata, e sottolineano il rischio di «aritmie ventricolari ed eventi cardiovascolari» nelle persone ospedalizzate o in terapia intensiva. I trials fin qui pubblicati non hanno trovato differenze tra i pazienti curati con il placebo e quelli trattati esclusivamente con idrossiclorochina. «Non è stato possibile riscontrare un differenziale terapeutico apprezzabile» conclude ad esempio la sperimentazione americana. Gli studi pubblicati non consentono di valutare l' efficacia del Plaquenil all' inizio della positività. Bassa numerosità dei test, dimensioni del campione di pazienti non adeguato per una casistica ufficiale. A farla breve, la comunità scientifica internazionale non è ancora in grado di dire se la febbre e i sintomi peggiori passano grazie al contributo esclusivo dell' idrossiclorochina, o con l' aiuto di madre natura. L' unica cosa certa è la nocività per i pazienti con patologie cardiache. I medici italiani sostenitori del suo utilizzo hanno in qualche modo preso atto delle controindicazioni, spostando all' indietro tempi e modi di somministrazione. E anche l' orizzonte. Non è più una terapia vera e propria, ma una profilassi, una procedura medica di prevenzione. Garavelli riconosce che il fattore tempo è prezioso. «Prima si inizia la cura, meglio è. Gli effetti collaterali ci sono, certo, ma il farmaco va dato sotto stretto controllo medico». All' Istituto Scientifico Romagnolo per la cura e lo studio dei tumori di Meldola è stato avviato il primo studio europeo (coordinato dagli infettivologi Giovanni Martinelli e Pierluigi Viale) su 2.500 pazienti non colpiti dal virus, ma in contatto passato o presente con persone positive al Covid-19. «L' obiettivo è capire se l' idrossiclorochina può essere una copertura per evitare l' insorgere della patologia oppure per ridurne subito gli effetti» dice Mattia Altini, direttore sanitario dell' Irst. Una ipotesi di partenza diversa da quella degli studi eseguiti finora a livello mondiale. «Infatti le nostre dosi sono quelle classiche da profilassi prima di una vacanza in Kenya». Anche Paola Varese fissa i paletti del suo Covi a casa. «I risultati si hanno nei primi tre giorni dall' inizio del virus o dei suoi sintomi. Se usata tardi, l' idrossiclorochina non può essere efficace». La dottoressa di Ovada è ancora convalescente dopo due mesi di malattia. Mercoledì scorso ha avuto finalmente il primo tampone negativo. Ma il secondo si fa attendere. In provincia di Alessandria hanno finito i reagenti.

Il Metodo Piacenza. Coronavirus, il metodo che evita la strage: "Nessun paziente è morto". Piacenza inondata di contagi. I primi morti. Poi l'idea del dottor Luigi Cavanna: la cura casa per casa. "Così i pazienti guariscono". Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. "Ricordo un tardo pomeriggio al pronto soccorso. Parlavo con i miei colleghi. Avevamo le maschere, i caschi, il sibilo dell'ossigeno che arrivava all'orecchio. Sembrava di vedere una cortina di fumo. Faceva paura". Piacenza, febbraio 2020. Se chiudiamo gli occhi e torniamo a quei giorni, i ricordi possono farsi confusi. È tutto così frenetico: i primi contagi, l'allarme coronavirus, la chiusura, le riaperture, gli ospedali pieni, le bare. La morte. Nel marasma della provincia emiliana al confine con la Lombardia, la più colpita in Italia in proporzione agli abitanti, gli operatori sanitari combattono una battaglia ad armi impari. I reparti vengono trasformati in zone Covid, le sale operatorie in terapie intensive. I nosocomi nelle aree periferiche devono essere riconvertiti. I ricoveri si contano a centinaia. Mentre le vittime cadono una dietro l'altra, un medico piacentino ha un’illuminazione: perché continuiamo ad ammassare i pazienti in ospedale, perché li facciamo arrivare in pronto soccorso quando ormai gli manca l’aria, invece di aggredire prima la malattia? Luigi Cavanna, primario di Oncologia, oggi è conosciuto come il padre del "metodo Piacenza". Voce pacata, eloquio ordinato. Riesce a rendere chiaro anche quello che a molti appare oscuro. "All’inizio si pensava fosse una infezione virale, forse più brutta dell’influenza, ma nulla di così rilevante. Poi ci siamo resi conto che invece è una malattia drammaticamente seria". In poche parole il suo rivoluzionario approccio al coronavirus può essere riassunto così: "Il paziente deve essere trattato tempestivamente e questo vuol dire che va curato a casa". Semplice, eppure piuttosto complesso. Soprattutto se devi inventarlo quando, nei primi istanti dell’epidemia, la scienza medica si sta dirigendo in massa nella direzione opposta. "Se torniamo indietro nel tempo, ricorderete che tutte le televisioni, nazionali o locali, facevano questa raccomandazione agli italiani: state a casa e non andate al Pronto soccorso. Il problema è che diverse persone hanno seguito il consiglio assumendo solo tachipirina e alla fine non riuscivano più a respirare, chiamavano il 118 e arrivavano di corsa in ospedale". A quel punto i medici si trovavano di fronte ad un malato ormai quasi irrecuperabile. "Il virus - spiega Cavanna - all'inizio si moltiplica, poi innesca una risposta immunitaria dell'organismo che determina una infiammazione che distrugge gli alveoli dei polmoni". In poco tempo gli organi si lacerano per sempre. "Quando il danno è fatto, è difficilmente recuperabile. È per questo che poi tante persone non ce l’hanno fatta". Di necrologi le pagine dei quotidiani piacentine sono piene. Soprattutto nelle prime due settimane. "Lavoro in oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte - racconta Cavanna - Ma in quei giorni ho avuto l'impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi. Avevamo la percezione di non farcela". È in quello stato di impotenza che sboccia l'idea di cambiare approccio. "Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni, ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire. Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpiscono in pochi minuti o in pochi secondi: ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni". C’è quindi spazio per agire prima che il quadro clinico si aggravi. Il ragionamento è logico: se il paziente in ospedale viene sottoposto a un trattamento basato su un antivirale e sull'idrossiclorochina (un antimalarico), tutti farmaci che si assumono per via orale, cosa ci impedisce di iniziare la cura all'insorgere di primi sintomi? "Ci siamo detti: cerchiamo di andare nelle case, non solo per la semplice visita ai malati, ma con tutto l’occorrente per curare la malattia tempestivamente". Così il 1° marzo Cavanna e un infermiere iniziano il loro tour a domicilio. Sono spedizioni diverse da quelle realizzate da altre Unità speciali (Usca) in Italia. Non vanno solo a visitare il paziente a casa o a fare il tampone, sono lì per curarlo come se fossero in ospedale. Con loro portano i Dpi, un termometro, i palmari per realizzare l’ecografia sul posto, un saturimetro, il tampone e un kit di farmaci già pronti all'uso. Compresa l’idrossiclorochina, già usata contro Sars e malaria. "Se l'ecografia toracica è dubbia e mostra polmoniti interstiziali - racconta l'oncologo - dopo aver chiesto il consenso del paziente, consegniamo i farmaci e gli diciamo: 'Lei inizi la terapia, anche in attesa del risultato del tampone'. Alle persone che presentano polmoniti severe lasciamo anche l'ossigeno. Poi ogni giorno i pazienti ci comunicano i dati della propria saturazione, in modo da poterli monitorare dall'ospedale". I primi esperimenti Cavanna li porta avanti (quasi) da solo. Poi dal 15 marzo l'Ausl piacentina si organizza e mette in pieni alcune Usca dedicate allo scopo. "La prima fu una paziente oncologica, una signora che vive da sola", ricorda Cavanna. "Era entrata al pronto soccorso con la febbre, la tac aveva evidenziato una polmonite interstiziale, ma lei aveva atteso lì per dieci ore. Poi aveva firmato la cartella, chiamato un taxi e si era fatta portare indietro. Il giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: 'Io sono a qui, da sola, sto male. O mi venite a visitare a casa o io muoio'. Lei cosa avrebbe fatto?". Domanda retorica. "Il dramma di questa infezione è che ha abituato gli italiani a morire da soli. Veder arrivare due sanitari a portare dei farmaci, che lasciano un numero di telefono da chiamare, un saturimetro e ti spiegano cosa fare, per loro era già una mezza salvezza. A me questo ha messo in crisi, perché i malati in un Paese evoluto non dovrebbero mai avere la percezione di sentirsi abbandonati". In Italia, purtroppo, è andata così. La cura "precoce" e "a domicilio" si rivela da subito molto efficace. "Le persone non peggiorano, guariscono prima e soprattutto non muoiono". Presto i risultati degli studi sul "metodo Piacenza" saranno pubblicati su una rivista per dare informazioni alla comunità scientifica. Ma le analisi che a fine aprile Cavanna anticipa al Giornale.it sono straordinarie: "Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale. Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni". Si tratta di dati "veri", "rilevanti" e "rincuoranti", su cui occorrerà fare delle riflessioni. "Per tanto tempo si è discusso di aumentare i posti in terapia intensiva, una strategia criticabile - dice Cavanna - Ma quando un malato va in rianimazione lo dobbiamo vedere come il fallimento della cura. Dovrebbe essere l'ultima spiaggia: la malattia virale va aggredita precocemente". Solo così si può sconfiggere il Sars-Cov-2, "ridurre gli accessi al pronto soccorso" e "bloccare la storia naturale" del morbo. Evitando un fiume di vittime.

·         Gli anticorpi monoclonali.

Latina, produzione anticorpi monoclonali: dosi non in Italia. Notizie.it. il 21/12/2020. A Latina si produrranno circa due milioni di dosi dell'anticorpo monoclonali Bamlanivimab di Lilly, ma le dosi non arriveranno in Italia. A Latina si produrranno circa due milioni di dosi dell’anticorpo monoclonali Bamblanivimab di Lilly contro il Coronavirus. A gestire le fasi principali di questa produzione sarà la Bsp Pharmaceuticals di Latina, che da dicembre produce oltre 100 mila dosi al mese dedicate ai Paesi dove il farmaco è stato autorizzato. L’autorizzazione per il momento è arrivata per gli Stati Uniti, il Canada, Israele e l’Ungheria, ma non in Italia, dove l’Aifa non si è ancora espressa a riguardo. La produzione vede coinvolti anche altri 6 stabilimenti nel mondo. Gli anticorpi monoclonali, da sempre destinati all’oncologia, sono stati studiati anche per la cura del Covid. “Abbiamo fatto in pochi mesi ciò che di solito richiede anni rimanendo impegnati a rispettare i nostri rigorosi standard per la sicurezza dei pazienti e la qualità dei prodotti. E abbiamo autofinanziato i costi di ricerca, sviluppo e produzione per i nostri potenziali trattamenti per Covid-19 senza chiedere fondi ai governi. Crediamo, infatti, che questo sia il nostro ruolo come azienda biofarmaceutica: investire nella ricerca e creare nuovi farmaci per momenti di forte crisi come questa pandemia, così come per altre malattie croniche o potenzialmente letali” ha spiegato Huzur Devletsah, presidente e amministratore delegato di Lilly Italy Hub. “Il nostro obiettivo è garantire che le terapie con gli anticorpi Lilly siano disponibili per i pazienti che ne hanno bisogno, indipendentemente dal luogo in cui vivono” ha continuato l’esperto, aggiungendo che Lilly ha già prodotto globalmente più di un milione di dosi nel 2020 e prevede di incrementare la disponibilità del farmaco a partire dal primo trimestre del 2021. “Per garantire un rapido accesso a questo trattamento ai pazienti di tutto il mondo Lilly ha investito nella produzione a rischio dell’anticorpo su larga scala, ancor prima che i dati dimostrassero il suo potenziale per diventare un’opzione terapeutica significativa per Covid-19. Speriamo che le nostre terapie anticorpali rappresentino parte della soluzione a una pandemia che ha già portato via tantissime vite umane, troppe” ha aggiunto Devletsah. “Quando quest’estate, Lilly ci ha chiesto di produrre lo step di formulazione e frazionamento asettico di bamlanivimab, per un momento abbiamo avuto paura di non riuscire per i quantitativi, per le tempistiche sfidanti e per dover convincere alcuni dei nostri Clienti a darci respiro per il 2021. Confesso, però, che l’onore di essere stati scelti da un cliente così rispettato nel mondo farmaceutico, per qualità e dedizione alle persone, ed essere parte del suo network tecnologico nella produzione di un farmaco così importante in procedura di emergenza, ci ha dato una carica emotiva notevole, perché significa che Bsp è considerata un partner valido ed importante, all’altezza di questo compito. Abbiamo in pochi giorni assunto circa 80 persone iniziando training ed investito diversi milioni di euro in tecnologia e risorse, che ritenevamo importanti per garantire la qualità e sicurezza di questo super-anticorpo…e ora ci siamo!” ha spiegato Aldo Braca, presidente di Bsp Pharmaceuticals.

Coronavirus, il farmaco targato Latina che funziona e non usiamo. Latina - Il monoclonale “Cov555”, sviluppato dalla società statunitense Eli Lilly e prodotto dalla nostra Bsp Pharmaceuticals Spa, ha guarito Trump. Alessandro Marangon il 18/12/2020 su Latina Oggi. Un farmaco "targato" Latina che funziona ma che noi, in Italia, non usiamo. Si tratta del monoclonale "bamlanivimab", o "Cov555", sviluppato dalla multinazionale statunitense Eli Lilly e prodotto nello stabilimento pontino dell'Appia Bsp Pharmaceuticals dell'imprenditore Aldo Braca. Lunedì, salvo imprevisti, è attesa una delegazione della Eli Lilly a Latina per incontrare il ministro della Salute Roberto Speranza e per lanciare il farmaco. Farmaco che qui da noi è ancora in fase di sperimentazione, e quindi non in commercio, ma che negli Usa ha già guarito l'ex presidente Donald Trump. Una terapia a base di anticorpi monoclonali che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. «Abbiamo "pallottole" specifiche contro il Covid-19, potremmo salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle», è l'ennesimo sfogo del virologo del San Raffaele di Milano Massimo Clementi, il quale ha spiegato che i colleghi degli Stati Uniti, da alcune settimane, somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. «Dopo due, tre giorni - ha sottolineato Clementi - guariscono senza effetti collaterali apparenti». E questo al costo di circa mille euro per un trattamento completo contro gli 850 di un ricovero giornaliero. Un paradosso, dunque, che la nostra Bsp, oltre seicento dipendenti, un fatturato da centinaia di milioni di euro e definita da più parti una sorta di miracolo che lavora tra Stati Uniti e Giappone (l'80% dell'export con i primi e il 20% con il secondo), non veda il proprio prodotto utilizzato per guarire gli italiani che, per ora, aspettano il via libera alla sperimentazione.

Maddalena Guiotto per “La Verità” il 19 dicembre 2020. A una possibile cura innovativa già disponibile da mesi contro il Covid-19, l'Italia preferisce attendere un vaccino. Circa 10.000 italiani avrebbero potuto accedere (gratuitamente) a una terapia simile a quella impiegata per curare il presidente americano Donald Trump, ma inspiegabilmente una simile risorsa è rimasta inutilizzata. È l'incredibile paradosso in cui si trova il nostro Paese, dove viene prodotta una terapia specifica per la proteina spike del coronavirus Sars-Cov-2 costituita da anticorpi monoclonali, cioè sviluppati a partire dagli anticorpi di chi è guarito dal Covid-19. Si tratta, come riporta il Fatto Quotidiano, del bamlanivimab o Cov555, sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly e fabbricato negli stabilimenti di Latina, da cui poi la medicina esce per tornare negli Usa. Lì, infatti, il farmaco è stato autorizzato il 9 novembre dall'Agenzia del farmaco americana (Fda) per l'uso in emergenza nei pazienti positivi a Sars-Cov-2, con malattia da lieve a moderata, ma ad alto rischio di peggioramento. I risultati, provenienti dallo studio clinico di fase II pubblicati sul New England journal of medicine, mostrano infatti che l'anticorpo in questione è utile nel ridurre la carica virale e le probabilità di ricovero dal 72 al 90%. Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950.000 dosi. Anche Canada e Germania si sono fatti avanti e, in questi giorni, anche l'Ungheria. All'Italia, fin da ottobre era stata data la possibilità di partecipare allo studio di fase III (ora in corso) con la fornitura gratuita di 10.000 dosi del farmaco, quindi 10.000 pazienti che sarebbero potuti guarire. La proposta da parte dell'azienda americana sarebbe arrivata lo scorso 29 ottobre sul tavolo dell'Agenzia del farmaco italiana (Aifa). Contrariamente da quello che ci si aspetterebbe in una situazione del genere, in piena seconda ondata, con migliaia di casi ogni giorno, l'Aifa non ha risposto. Certo, non c'è l'autorizzazione dell'agenzia europea (Ema), però la Germania si è accaparrata delle dosi. Forse i teutonici si sono ricordati di una direttiva europea del 2001, incredibilmente sfuggita alle agenzie italiane, che consente ai singoli Paesi dell'Ue di acquistare singolarmente farmaci in fase di sperimentazione. Il Fatto però avanza anche un'altra possibile spiegazione osservando che da marzo il governo ha investito 380 milioni per lo sviluppo di monoclonali italiani da parte della fondazione Toscana life sciences (Tls), ente non profit di Siena, in collaborazione con l'Istituto Spallanzani. La sperimentazione clinica però potrebbe partire solo in primavera 2021. Chiaramente, un farmaco made in Italy garantirebbe autosufficienza e facilità nell'approvvigionamento. Ma a pochi chilometri di distanza, a Sesto Fiorentino, Lilly osserva che oltre ai benefici in termini di salute, il loro farmaco avrebbe anche ricadute economiche per il nostro Paese, visto che nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina Bsp pharmaceutical. L'Aifa e la struttura del supercommissario, Domenico Arcuri, affermano che attendono l'autorizzazione dell'Ema, ma questa prudenza pare incomprensibile anche allo stesso consulente del ministro della Salute, Walter Ricciardi, che osserva come «con tanti morti e ospedalizzati valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale». Anche il virologo Guido Silvestri, dall'altra parte dell'Oceano si domanda «cosa stia bloccando l'introduzione degli anticorpi di Lilly e/o Regeneron, che qui negli States usiamo con risultati molto incoraggianti». La stessa Antonella Viola, immunologa dell'università di Padova, si dice sorpresa di questo ritardo e si domanda: «Cosa aspettiamo?». Forse di pagare quello che si potrebbe avere gratuitamente. Come è noto, da quando l'Fda autorizza il farmaco, l'azienda non può più proporre il farmaco gratuitamente a chi partecipa allo studio clinico, ma deve venderlo. Sembra incredibile, ma la trattativa è andata in scena il 16 novembre alla presenza del supercommissario Arcuri, del direttore generale dell'Aifa, Nicola Magrini, e del ministro della Salute, Roberto Speranza. Si sarebbe parlato di prezzo (il farmaco costa circa 1.000 euro, un giorno di ricovero circa 850 euro) e di dosi, ma pare che tutto si sia fermato. È caduta nel vuoto anche la provocazione del sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ai giornali ha dichiarato di aver parlato coi vertici di Lilly e che «se c' è l'ok della Commissione Ue, la distribuzione del farmaco a base di anticorpi monoclonali potrebbe cominciare dopo Natale non solo in Francia, Spagna e Regno Unito ma anche in Italia». Non manca molto al Natale, ma su una potenziale cura per il Covid regna uno spettrale silenzio.

Coronavirus, Giorgio Palù: "Non solo vaccino. La cura negli anticorpi monoclonali, perché se ne producono così pochi?"  Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 11 novembre 2020. «Non ci libereremo del virus, ma non soccomberemo. Il virus, potendosi replicare solo all'interno delle nostre cellule, se uccide l'ospite muore anche lui. Il Covid è mutato, in Italia gira un ceppo simile a quello spagnolo, ma la mutazione della proteina "s" lo differenzia dal prototipo uscito da Wuhan. L'ha reso più contagioso ma non più virulento, sembra l'evoluzione di un virus destinato a permanere nella specie umana e che conviverà con l'ospite come successo per molti altri. L'orologio biologico del genoma dice che il Covid-19 gira da settembre. Si è adattato all'uomo. Questo virus non è Sars, non è Mers, non è vaiolo, che hanno avuto un tasso di mortalità superiore anche al 30%. Il Covid ha una letalità media dello 0,4%». Giorgio Palù è un'autorità nel campo dei virus. Professore emerito dell'Università di Padova, ex presidente della Società italiana ed europea di Virologia, ha insegnato nei dipartimenti di Neuroscienze e Tecnologia della Temple University di Philadelphia. A curriculum più di 700 pubblicazioni scientifiche e 15mila citazioni. È tra i consulenti di punta del governatore del Veneto Luca Zaia.

Professore, sta dicendo che il Covid-19 farà parte delle nostre vite?

«Ci adatteremo a lui o viceversa. Lo insegna la storia delle pandemie. Tutti i Coronavirus sono zoonotici: virus del raffreddore comparsi cento, mille anni fa o dal pipistrello o dal topolino. Si sono trasferiti dall'ospite intermedio all'uomo e ritornano ogni anno. L'H1N1, circola ancora: è ritornata nel '77. L'H3N2 pure: nel '68 ha causato un milione di morti. Sono virus stagionali, non sono più pandemici ma si presentano ancora. L'influenza, in Italia, ogni anno colpisce circa 10 milioni di persone e fa 10mila morti: ce lo siamo dimenticati?».

Qualcuno la accuserà di negazionismo.

«Se è per questo qualcuno lo ha già fatto, ma cosa vuole che le dica? Io non nego nulla: mi baso sui dati, sulla scienza, sulla storia. Il virus non va sottovalutato, è evidente, ma sono negazionista se affermo che gli studi di sieroprevalenza hanno dimostrato che nella Bergamasca si è sviluppata una certa immunità? Che lì il 45% della popolazione ha sviluppato gli anticorpi? Che nel Centro-Sud oggi l'epidemia è più diffusa perché a marzo circolava molto meno rispetto al Nord?».

È fiducioso sull'arrivo di questo benedetto vaccino?

«Certo, ma guardi: si parla tanto del vaccino, ma c'è già la cura a base di anticorpi monoclonali. Il Regeneron è una combinazione di tre monoclonali che ha curato Trump in 48 ore. Berlusconi è guarito col Remdesivir, l'eparina e il cortisone. Il problema dei monoclonali, al momento, è che non vengono prodotti in grande quantità, ma hanno dimostrato che questo virus dà l'immunità. Non è l'Hiv, sottolineiamo anche questo. Dobbiamo riprenderci il mondo: il Covid-19 è più virulento di una normale influenza, certo. Ha una letalità maggiore, ma non è minimamente paragonabile a quella provocata da altri virus. Poi voglio aggiungere un altro elemento, che spiace citare, addolora, ma è oggettivo, e io mi limito a questo».

Prego.

«L'età media dei decessi è di 81 anni, esattamente la vita media di un maschio adulto italiano. E chi muore, purtroppo, ha 2-3 comorbosità. Ripeto: non ce ne libereremo perché il virus diventerà molto probabilmente endogeno alla specie umana, avrà origine interna».

Potrà esserci una terza ondata?

«Chi lo afferma lo fa senza alcuna base. Questa è la prima pandemia generata da un Coronavirus. La Sars e la Mers sono arrivate dal pipistrello passando per il dromedario e dalla civetta delle palme e si sono affievolite rapidamente perché avevano una mortalità elevatissima, dal 10 al 36%. Nel nostro caso invece dovremmo limitarci a dire che sappiamo di non sapere, come affermava Socrate. Tutte le pandemie da virus respiratori che davano forme acute sono passate in un paio d'anni: il vaiolo, la Spagnola nel 18, l'Asiatica nel 57, nel '68 l'influenza Hong Kong, nel 2009 l'H1N1 variante suina. Comunque, dal punto di vista semantico, anche parlare di seconda ondata è scorretto, perché gli unici ad azzerare la prima sono stati i cinesi. Nel resto del mondo si può parlare di seconda fase. Per sintomi, modalità di trasmissione, morbosità e letalità questo virus assomiglia molto di più all'influenza, che ha una mitigazione estiva e una riacutizzazione autunno-invernale. Ha caratteristiche stagionali».

Dunque l'impennata dei contagi non la preoccupa?

«Non dico assolutamente questo, anche perché ultimamente la curva è cresciuta esponenzialmente. Da qualche giorno però sembra che stia leggermente deflettendo, c'è una stabilizzazione sia nei nuovi contagi che nelle terapie intensive. Non dei ricoveri però, e mi permetta di dire che la gente finisce in ospedale anche per il terrorismo che viene diffuso da certi media e pseudo esperti».

E da cosa può dipendere questa stabilizzazione?

«Dall'uso della mascherina, che è fondamentale. In troppi non la mettevano: diciamocelo. Quando mi trovavo in certe vie stracolme di gente senza il minimo di protezione mi nascondevo. Scappavo»

Alessandro Giorgiutti per “Libero quotidiano” il 30 ottobre 2020. Sarà somministrata già a dicembre in Italia, in via sperimentale, la cura contro il Covid a base di anticorpi monoclonali. Quegli stessi anticorpi che hanno guarito il presidente americano Donald Trump e che la virologa Ilaria Capua, in una intervista al Corriere della Sera, ha paragonato a «un guanto da baseball» e a «un missile terra aria». Non è l' unica a parlar bene della terapia. Il primario del Sacco Massimo Galli, in un recente intervento ai microfoni di Radio Radio, ha detto di «confidare» molto in questa cura, pur attendendo le «evidenze scientifiche» sulla sua efficacia: «Potrebbe essere un grande, importantissimo elemento di supporto (nell' azione contro la malattia, ndr.), forse decisivo». E il presidente dell' Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, nella sua audizione di mercoledì scorso alla Commissione Igiene e Sanità del Senato, si è detto convinto che «la disponibilità di anticorpi monoclonali sarà uno strumento molto importante e potente». «Quando saranno disponibili», ha aggiunto, «la possibilità di trattare pazienti con determinati livelli di gravità consentirà di avere delle prognosi molto più favorevoli». Tra i pochissimi gruppi al mondo impegnati nella ricerca su questi anticorpi già usati efficacemente contro l' Ebola c' è anche il Monoclonal Antibody Discovery Lab, team di ricerca della Fondazione Toscana Life Sciences, coordinato dallo scienziato Rino Rappuoli, "padre" dagli anni Novanta di molti vaccini innovativi, professore all' Imperial College di Londra e direttore scientifico della GlaxoSmithKline Vaccines. «Stiamo già producendo gli anticorpi monoclonali per le prove cliniche e per la somministrazione ai pazienti. Vorremmo iniziare lo studio sull' uomo nella prima di metà dicembre, per arrivare in primavera all' utilizzo di questi anticorpi», ha detto ieri all' Adnkronos. «In questo momento stiamo disegnando le prove cliniche e i protocolli in collaborazione con lo Spallanzani di Roma». Il suo gruppo di ricerca lavora da mesi sul sangue di pazienti convalescenti o guariti dal coronavirus, isolando anticorpi. Alla fine è stata selezionata una rosa ristretta dei tre anticorpi più promettenti, e uno di questi si è dimostrato il più potente. Dopo l' arruolamento dei pazienti «in un mese-un mese e mezzo contiamo di avere i risultati in base ai quali poter chiedere l' autorizzazione al commercio», ha spiegato Rappuoli. Gli anticorpi monoclonali possono essere usati anche in via preventiva. «Da una parte sono una terapia che permette di guarire dal virus, dall' altra possono essere dati per prevenire l' infezione. Se si somministrano a una persona sana, questa è protetta per sei mesi». Rappuoli è molto ottimista: questo inverno «sarà duro, ma ormai conosciamo meglio questo virus. E dalla primavera dell' anno prossimo arriveranno rimedi efficaci (riferimento anche al vaccino, ndr.) in modo che il prossimo inverno probabilmente questo virus non ci sarà più».

Anticorpi sintetici contro il coronavirus, una strada che funziona. Pubblicato mercoledì, 10 giugno 2020 da La Repubblica.it. Gli anticorpi monoclonali sintetici neutralizzano il virus Sars-CoV-2 in colture di cellule di mammifero. "Sono in corso contatti per produrre le dosi per i test clinici, che potranno avvenire fra alcuni mesi", ha detto all'Ansa Giuseppe Novelli, dell'Università di Tor Vergata e fra gli autori della ricerca, online sul sito bioRxiv, guidata dall'università canadese di Toronto con la grande “banca” degli anticorpi monoclonali “Trac” (Toronto Recombinant Antibody Centre) e alla quale l'Italia partecipa anche con l'Università di Torino e con gli istituti Spallanzani e Neuromed. Ma facciamo un passo indietro. Contro il coronavirus si stanno sperimentando sia gli anticorpi naturali, quelli che si trovano nel plasma dei pazienti guariti da Covid-19, che - appunto - i sintetici. Che si possono produrre in laboratorio, in tempi abbastanza rapidi e con risultati soddisfacenti. Sono al lavoro una decina di gruppi nel mondo, due sono italiani. Uno quello guidato da Giuseppe Novelli e Pier Paolo Pandolfi di Boston e l'altro è quello della fondazione Toscana Life Sciences, che seguono strade diverse.

L’Italia non perda l’occasione del farmaco contro il nuovo coronavirus. Lo scienziato Novelli: «L’anticorpo monoclonale è il modo migliore per curare». Fabrizia Flavia Sernia l'8 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. L’Italia ha tutte le carte in regola, ma potrebbe perdere la grande occasione di arrivare presto ad un farmaco contro il Covid-19 basato sugli anticorpi monoclonali, ora che è chiaro, come ha segnalato Science il 5 maggio, che “La corsa agli anticorpi che bloccano il nuovo coronavirus è in atto”. L’immunologa Erica Ollman Saphire dell’Istituto di Immunologia di La Jolla, in California, ha riferito che nel mondo sono almeno 50 i gruppi di ricerca e i laboratori impegnati a individuare gli anticorpi monoclonali bloccanti per il Sars-Cov-2, da lei coordinati. L’Italia, seppur non menzionata espressamente da Science, è parte importante di uno dei sette gruppi di ricerca accademici, grazie ad un progetto fra guidato dall’Università di Toronto e di Boston (con il professor Pier Paolo Pandolfi) in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”. I ricercatori canadesi hanno “isolato, dopo un lungo lavoro di screening, due anticorpi monoclonali che potrebbero dare molte speranze per un farmaco contro il Covid-19. Sarebbe interessante, e certamente vantaggioso, per il nostro Paese, partecipare a questo studio multi-centrico con Canada e India, perché possiede le competenze necessarie. È una opportunità che non dobbiamo perdere”. Così Giuseppe Novelli, genetista dell’Ateneo, Direttore della UOC di Genetica Medica del Policlinico di Tor Vergata, con oltre 600 pubblicazioni scientifiche all’attivo. «Siamo partiti un mese fa per cercare un valido interlocutore, istituzionale e non, perché il progetto possa essere finanziato. Se tutto andrà in porto, l’Italia, fra i vantaggi, sarà tra i primi Paesi a poter disporre del farmaco» – spiega lo scienziato originario di Rossano, in provincia di Cosenza. Molti studiosi, riferisce Science, ritengono che prima che arrivi il vaccino, gli anticorpi dimostreranno la loro capacità di curare i malati, in quanto molecole ingegnerizzate, create ad hoc per impedire al virus di entrare nella cellula. Anche il professor Novelli, insieme all’amico oncologo Professor Pier Paolo Pandolfi, crede convintamente sulla loro efficacia per bloccare il Sars-Cov-2.

Professore, in che cosa consiste la ricerca?

«Con il Professor Pandolfi, illustre oncologo, da anni, oltre che sul cancro, conduciamo studi per capire la suscettibilità genetica di alcune malattie. Anche nelle malattie infettive, come questa, c’è una base genetica. Stiamo studiando il Sars-Cov-2 attraverso l’elaborazione di una serie di dati. Pier Paolo Pandolfi, in particolare, e i colleghi dell’Università di Toronto, hanno fatto lo screening di una libreria di anticorpi monoclonali».

Ovvero?

«Oggi, per fare gli anticorpi monoclonali c’è bisogno di librerie biologiche – o biobanche – molto ricche di queste diverse proteine, che sono le nostre immunoglobuline. Ne esistono tante, modificate tipicamente dagli scienziati, che vengono messe in queste librerie e vanno poi selezionate. Più grande è la libreria, maggiore è la probabilità di trovare un anticorpo, che noi chiamiamo “bloccante”, cioè che inibisce completamente la molecola bersaglio, quella per cui è stato costruito».

Come nasce un anticorpo monoclonale?

«Nasce in laboratorio. La molecola viene disegnata prima su una base del computer, che rappresenta quali sono le regioni target di bersaglio e si chiamano tecnicamente epitopi. Attraverso tecniche di ingegneria genetica si creano le molecole proteiche, ovvero le stesse molecole che le nostre cellule producono quando avvertono la presenza di un virus e che vengono liberate con il plasma, soltanto che, in questo caso, le produciamo in laboratorio. Sono proteine omogenee che vengono ingegnerizzate per essere utilizzate in campo clinico e diagnostico e sono molto precise».

Quale risultato avete raggiunto con Toronto?

«Gli scienziati canadesi hanno individuato una decina di anticorpi monoclonali. Fra questi dieci, ce ne sono due molto promettenti che, dai primi studi fatti in America sulla loro capacità bloccante, si sono rivelati estremamente attivi. Questo vuol dire che riconoscono il target in maniera specifica, ovvero una parte particolare della proteina S del virus, la cosiddetta spike, che è la chiave di ingresso per entrare nelle cellule».

Gli anticorpi monoclonali saranno dunque i farmaci adatti a bloccare il Sars-Cov-2?

«Senza dubbio. La ricerca moderna si sta indirizzando a farmaci specifici, che intervengono sulla “chiave di accesso” del virus e non danneggiano altre cellule. L’anticorpo monoclonale non si attacca alla porta di ingresso dell’organismo, si attacca solo alla chiave, modificandola in modo permanente, così da renderla non riconoscibile dall’organismo. È il modo migliore per curare, perché, diversamente dai vaccini che sono utilissimi ma vengono usati sulle persone sane, è un farmaco e serve per guarire le persone malate. La rivoluzione che gli anticorpi monoclonali hanno generato sui tumori o nelle malattie croniche come l’artrite reumatoide o le malattie autoimmuni, come la psoriasi, è straordinaria, perché funzionano. Fino a qualche anno fa erano costosissimi, e difficili anche da riprodurre. Oggi abbiamo tecnologie che consentono di produrli, in grande quantità e a costi ridotti».

Perché non se ne parla, come per il vaccino?

«Sono due cose diverse, ma non in contrasto. Il vaccino è per la prevenzione di future pandemie ed epidemie. Questo invece è un farmaco per i malati, altamente sensibile e molto preciso contro il virus».

Quale ruolo chiedete per l’Italia, per il nuovo farmaco?

«Da subito abbiamo chiesto ai colleghi americani che anche l’Italia partecipasse alla sperimentazione clinica, inizialmente prevista solo per il Canada e l’India, considerato che i rispettivi governi hanno sostenuto l’impegno economico per isolare gli anticorpi. All’Italia chiediamo di sostenere la sperimentazione accademica, che ora, nella fase 1 e 2, va condotta su piccoli gruppi di malati, in un paio di centri clinici italiani»

Da tp24.it il 28 marzo 2020. A Bellinzona i laboratori di Humabs avrebbero identificato alcuni anticorpi monoclonali in grado di neutralizzare il SARS-CoV-2. A comunicarlo è la stessa Humabs Biomed, filiale dell’americana Vir Biotechnology. “"Siamo orgogliosi della rapidità con cui abbiamo raggiunto promettenti risultati ed entusiasti di poter sviluppare in clinica due nostri anticorpi in tempi molto brevi", ha affermato Filippo Riva, Direttore Generale di Humabs e lo riporta TicinoNews. “Il contenimento di questa malattia sarà possibile solo attraverso una combinazione tra prevenzione e cura. Nei nostri laboratori a Bellinzona, abbiamo iniziato sin da gennaio, prima che l’epidemia si diffondesse in Europa, a lavorare per identificare anticorpi per la cura di COVID-19. Abbiamo rapidamente identificato un anticorpo prodotto dalle cellule B di un paziente guarito da SARS nel 2003 in grado di cross-reagire con SARS-CoV2”. L’anticorpo ora è stato trasferito a due aziende per la produzione, in Cina e negli Stati Uniti. I test clinici di fase 1 e fase 2 potrebbero iniziare già entro 3-5 mesi, spiega l’azienda. “La capacità di questo anticorpo di neutralizzare il virus SARS-CoV-2 è stata confermata in due laboratori indipendenti”, ha spiegato Davide Corti, SVP e Direttore della ricerca sugli Anticorpi, “l'anticorpo si lega a un epitopo su SARS-CoV-2 che è condiviso con SARS-CoV (noto anche come SARS). Proprio l’abilità di legare un epitopo cosi conservato rende questo anticorpo di estremo interesse, dal momento che potrebbe essere più difficile per il virus mutare in questa regione”. L’anticorpo identificato è stato modificato in laboratorio per migliorare le sue qualità, in particolare la sua “durata di protezione” e per conferirgli delle “caratteristiche vaccinali”. L’azienda sta valutando quattro scenari di utilizzo: quello preventivo, quello preventivo di eventuali aggravamenti, quello di trattamento dei casi gravi e infine lo sviluppo di vaccini.

Coronavirus, team israeliano scopre un secondo anticorpo monoclonale. Jacopo Bongini il 6 maggio 2020 su Notizie.it. Un'equipe di ricercatori israeliani ha di recente scoperto un nuovo anticorpo monoclonale che consente di neutralizzare il coronavirus Sars-CoV-2. A pochi giorni dal primo, scoperto dai ricercatori dell’Università di Utrecht, gli scienziati dell’Israel Institute of Biological Research hanno scoperto un secondo anticorpo monoclonale che va a neutralizzare il coronavirus Sars-CoV-2 responsabile del Covid-19. La scoperta di questa immunoglobulina rappresenta un enorme passo avanti nella lotta alla pandemia che ha già provocato migliaia di morti in tutto il mondo, dato che in questo modo potrebbe essere fornita un’alternativa alla plasmaterapia somministrata in questi giorni su numerosi malati di coronavirus. Secondo il professor Shmuel Shapiro, che ha guidato il team di ricerca israeliano, l’anticorpo monoclonale appena scoperto sarebbe il primo al mondo a soddisfare i tre criteri fondamentali di cura: non presenta infatti proteine dannose che possono generare problemi durante l’infusione; è in grado di neutralizzare il coronavirus Sars-CoV-2 e colpisce il ceppo più aggressivo, o perlomeno quello più aggressivo finora conosciuto. Gli anticorpi monoclonali sono immunoglobuline sviluppate in laboratorio grazie all’ingegneria genetica, i quali agiscono allo stesso modo degli anticorpi umani presenti naturalmente nel nostro organismo. La differenza sostanziale fra i due tuttavia è che gli anticorpi monoclonali sono privi di eventuali proteine dannose per il malato, che potrebbero essere presenti nel corpo del donatore e che potrebbero dunque generare complicazioni durante la fase di infusione della terapia al plasma.

Il commento dei ricercatori israeliani. Nonostante l’importanza della scoperta il team di ricerca israeliano non si è lasciato andare a facili entusiasmi, affermando che la strada per giungere a una cura definitiva è al momento ancora lunga: “Questa è una pietra miliare, ma ci attendono test complicati e il processo per ottenere l’approvazione normativa. Secondo una valutazione degli scienziati dell’istituto, si tratta di una svolta tecnologica che può ridurre il processo, ma andrà avanti per diversi mesi”. Attualmente il nuovo anticorpo monoclonale è stato infatti testato con successo soltanto in provetta e non sono ancora state effettuate sperimentazioni su animali o sull’uomo.

·         Le Para-Cure.

La vitamina D aiuta a combattere il coronavirus? Cosa dicono gli studi. Le iene News l'1 novembre 2020. Varie ricerche e studiosi indicano un possibile ruolo della vitamina D nel coadiuvare la lotta al coronavirus: dalla Spagna al Regno Unito fino all’Italia, sono molte le pubblicazioni che sostengono questa tesi. Ecco a che punto sono gli studi, e anche i dubbi a riguardo. “Aggiungete vitamina D al cibo per aiutare nella lotta al coronavirus”: l’appello di vari scienziati inglesi al governo di Londra, riportato sul prestigioso quotidiano The Guardian, ha riaperto la discussione sul possibile ruolo della vitamina D nell’aiutare a combattere la pandemia che sta scuotendo il mondo. Un gruppo di scienziati guidati dal professor Gareth Davies ha indicato come circa la metà della popolazione inglese abbia una carenza di vitamina D, e secondo loro questo basso livello potrebbe comportare un maggior rischio di contrarre il coronavirus. Non solo: se ci si ammala, e si ha poca vitamina D, la possibilità di avere sintomi gravi sarebbe più alta. E per questo il gruppo di scienziati ha lanciato un appello al governo per intervenire, facendo aggiungere dosi di vitamina D ai cibi più consumati come il latte o il pane. Una teoria, quella del legame tra bassi livelli di vitamina D e un rischio più alto di contrarre il covid, che anche altri studiosi stanno approfondendo: uno studio condotto in Spagna da un gruppo di scienziati guidati dal professor José Hernàndez, e pubblicato nei giorni scorsi sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, mostra come l’82,2% dei pazienti ricoverati in un ospedale spagnolo abbiano un livello molto basso di vitamina D. “Se il ruolo protettivo della vitamina D fosse confermato un approccio preventivo potrebbe essere curare la carenza di questa vitamina, specialmente negli individui più suscettibili come gli anziani, i pazienti con altre malattie quali il diabete e il personale sanitario specie nei presidi di lunga degenza”,  ha detto il professor Hernández. Un ulteriore studio condotto dall’Università di Chicago e pubblicato sul Journal of American Medical Association Network Open è arrivato a conclusioni simili: le persone con bassi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60 per cento di probabilità in più di risultare positive al coronavirus. "La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario”, ha spiegato il professor Meltzer. "Saranno necessari test clinici per dimostrare questi risultati, ma secondo i nostri dati la vitamina D, pur non rappresentando una garanzia come protezione dal coronavirus, sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave". Insomma, sono molti i lavori scientifici che prefigurano un ruolo importante della vitamina D nella lotta contro il coronavirus, e anche in Italia nei mesi scorsi si è approfondita questa possibilità: Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto superiore di sanità hanno sostenuto che adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione da coronavirus potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I – uno dei più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo – e rafforzare l'immunità antivirale innata. Adesso nel Regno Unito è in corso una vasta sperimentazione clinica, che coinvolge oltre 5mila persone, per verificare se queste ipotesi siano effettivamente fondate: altri studi pubblicati in questi mesi, come riporta il Guardian, sostengono che la vitamina D potrebbe avere pochissimo o nessun ruolo nell’aiutare a combattere il coronavirus. Sebbene non ci siano ancora certezze a riguardo, i molti lavori e studiosi che si stanno esprimendo a riguardo fanno pensare che la vitamina D possa essere un valido alleato in attesa di una cura o un vaccino per il coronavirus.

C'è un'altra arma nella guerra al Covid: la cannabis. Dal Canada a Israele si testano prodotti a base di marijuana da inserire nelle terapie contro il virus. Siamo andati a vedere quali sono e come funzionano. Alessandro De Pascale il 28 settembre 2020 su L'Espresso. In attesa che il vaccino arrivi e sia disponibile per tutta l’umanità, anche la cannabis può venire utile nella battaglia contro il Covid-19 . «Come potenziale terapia di supporto, s’intende», precisa Aurélia De Pauw, ricercatrice e vicepresidente programmi clinici della canadese Tetra Bio-Pharma. «Qui a Ottawa, ad esempio, abbiamo accelerato lo sviluppo del Ppp003, un nostro farmaco cannabinoide sintetico che può prevenire o ridurre la cosiddetta tempesta di citochine, una reazione immunitaria potenzialmente fatale osservata nel coronavirus. In caso di trattamento precoce, potrebbe inoltre evitare l’aggravarsi del Sars-Cov2 verso l’ultimo stadio della disfunzione polmonare». Riguardo ai progressi della sperimentazione del Ppp003, «stiamo completando i test non clinici di affidabilità, necessari a dimostrare la sicurezza di un farmaco prima di iniziare gli studi sull’uomo. Mentre a fine anno vorremmo avviare la Fase 2», dice De Pauw. Tempi troppo lunghi? «A mio parere siamo lontani dal vedere la fine del Sars-Cov-2», risponde la ricercatrice, come dire che il problema (purtroppo) durerà abbastanza per rendere utili anche i cannabinoidi di Tetra Bio-Pharma. «Inoltre, anche se le pubblicazioni scientifiche prodotte sono paragonabili a 10 anni di ricerca sull’Hiv o 100 sulla tubercolosi, tuttora non è disponibile alcun trattamento ad eccezione del Remdesivir per alcuni gruppi di pazienti», puntualizza De Pauw.

Alessandro Gonzato per “Libero Quotidiano” il 30 ottobre 2020. Si chiama Endovirstop, è uno spray composto da una serie di molecole naturali, costa 3 euro, e - stando ai risultati della sperimentazione - ne bastano 4-5 spruzzate in gola al giorno per prevenire il Covid e curarne le forme iniziali. È stato sviluppato da una start-up italiana del Gruppo Magi, la Ebtna Lab (tre sedi: Brescia, Bolzano, Rovereto), e appena premiato al Congresso europeo di Biotecnologie di Praga come «miglior prodotto anti-Covid». L' Aifa, l' agenzia italiana del farmaco, invece l' ha bocciato due volte. Ciononostante, a breve - i produttori sperano entro fine ottobre - lo spray dovrebbe essere in vendita. «Proprio oggi», dice a Libero il genetista Matteo Bertelli, presidente del Gruppo Magi, «mi ha chiamato la Farmacia Vaticana, una delle migliori al mondo. Vogliono acquistarlo». Lo userà anche il Papa? Chissà. Un momento, però: per finire in farmacia un farmaco deve aver ricevuto l' autorizzazione dall' Aifa, e l' Endovirstop non l' ha ricevuta. Dunque? È stato un cavillo a sbloccare la situazione. «Il prodotto», spiega Bertelli (che è anche consigliere nazionale di Confcooperative Sanità), «è naturale, non è sintetico, quindi rientra nella categoria degli integratori. Dopo che l' Aifa, con motivazioni opinabili, ci ha detto "no" per la seconda volta, ci siamo rivolti al Comitato etico, che ha competenza sugli integratori, e abbiamo ricevuto il nulla osta. Abbiamo realizzato il prodotto pensando soprattutto ai Paesi più poveri e ai milioni di italiani che vivono all' estero, specialmente in Sud America: davvero c' è qualcuno che pensa che quei sistemi sanitari possano permettersi un piano terapeutico, per i casi più gravi, da 20-30 mila euro a paziente?» «Lo spray», ha evidenziato il presidente del Gruppo Magi, «ha un costo irrisorio. Siamo in contatto con le associazioni di italiani che abitano in Brasile e in Argentina: a loro non pensa mai nessuno». Lo spray anti-Covid costa così poco perché le molecole naturali e a brevetto scaduto costano poco. «Basti pensare al gruppo di studio giapponese che recentemente ha puntato sulla quercetina, un' altra molecola naturale che ha un effetto inibitorio nei confronti del virus», ha sottolineato Bertelli. «Non posso rivelare nello specifico le molecole del nostro prodotto, perché sono brevettate, ma rientrano nella categoria dei polifenoli e in quella delle ciclodestrine. Siamo arrivati allo spray quasi per caso. Mi sono sempre occupato di malattie genetiche rare. Stavamo analizzando il processo di endocitosi del colesterolo e ci siamo accorti che era lo stesso utilizzato dal Covid per entrare nell' organismo. Non potevamo non provarci. Nel frattempo un gruppo di ricerca tedesco aveva pubblicato uno studio che ha dimostrato che nelle fasi iniziali, per potersi riprodurre, il Covid deve passare per forza nella faringe, e da lì si moltiplica esponenzialmente andando a colonizzare gli altri tessuti. L' intuizione dello spray è nata così». La sperimentazione, coordinata dal professor Giampietro Farronato dell' Università Statale di Milano, nella prima fase ha riguardato 70 volontari tra operatori sociosanitari e familiari di contagiati. Nessuno dei volontari sottoposto al trattamento ha contratto il Corona e chi era risultato da poco positivo al primo tampone è guarito nell' arco di pochi giorni: quando la malattia è nello stadio avanzato, va ribadito, lo spray non ha alcun effetto. Lo studio della prima fase è già stato pubblicato. La seconda parte della sperimentazione ha coinvolto 500 persone e ha riguardato anche Albania e Cipro, sempre sotto la guida della Statale. Bertelli ci illustra come dev' essere usato il prodotto perché sia efficace: «Prima dell' applicazione è necessario lavarsi bene i denti e sciacquarsi a fondo la bocca. È fondamentale. Solo allora si può spruzzare l' Endovirstop sulla faringe, dove rimane per qualche ora, a meno che non si mangi o beva qualcosa: in quel caso, dopo aver pulito la bocca, bisogna applicarlo nuovamente. Questo perché ha un effetto locale: non è come assumere una pastiglia». Costi ridotti e trattamento immediato. Sono questi i fattori principali su cui punta la start-up italiana. «Parliamoci chiaro», dice il genetista bresciano, «il vaccino oggi non c' è, chissà quando verrà sviluppato, messo in commercio, e a che prezzo. Tutti tifiamo per il vaccino, ma nel frattempo cosa facciamo, rimaniamo fermi? Serve realismo. Ho parlato col responsabile della sanità di una Regione, non voglio dire quale: mi ha detto che sono disperati, che i farmaci e le ospedalizzazioni sono carissimi».

Uno strano ostracismo. Le terapie considerate alternative, invece, costano poco: è questo il motivo per cui, non solo in Italia, vengono osteggiate? «È una domanda più che legittima», conclude Bertelli, «ma la risposta dovrebbe darla chi boccia questi progetti. La domanda, però, lo ripeto, ci sta, e io stesso mi sono trovato in difficoltà a capire perché ad esempio la terapia al plasma non sia stata accettata, diciamo così, nonostante sia una delle più efficaci contro questa pandemia».

Alessandro D’Amato per today.it il 30 ottobre 2020. Ma è vero che c'è uno spray anti-Covid-19 che si chiama Endovirstop, costa 3 euro e "previene le infezioni virali respiratorie"? A parlarne oggi è il quotidiano Libero, il quale ci fa sapere che è stato sviluppato da una start up italiana del gruppo Magi, la Ebtna Lab, ed è stato "appena premiato al congresso europeo di biotecnologie di Praga" come "miglior prodotto anti-Covid", qualunque cosa ciò voglia dire.

Endovirstop: ma è vero che c'è uno spray anti-Covid-19 che costa 3 euro? Naturalmente della vicenda non si è occupato solo Libero. Tempi ha pubblicato proprio ieri un'intervista a Matteo Bertelli, genetista bresciano a capo della start up, e ha titolato l'intervista con un fantastico "Così abbiamo scoperto il farmaco naturale contro il coronavirus". E tra le risposte alle domande brilla proprio quella che riguarda l'Aifa: "Abbiamo presentato la domanda all’Aifa che ce l’ha bocciata due volte. La risposta alla seconda bocciatura è stata a mio avviso a dir poco opinabile…". Con Libero invece Bertelli è stato ancora più deciso: "Abbiamo realizzato il prodotto pensando soprattutto ai Paesi più poveri e ai milioni di italiani che vivono all’estero, specialmente in Sud America: davvero c’è qualcuno che pensa che quei sistemi sanitari possano permettersi un piano terapeutico, per i casi più gravi, da 20-30 mila euro a paziente?". Today.it ha invece chiesto un'opinione al professor Gabriele Costantino, che è direttore del Dipartimento di Food and Drugs presso l'Università di Parma e anche docente ordinario di chimica farmaceutica presso lo stesso ateneo. E lui ci ha fatto sapere che si tratta di un prodotto a base di ciclodestrina che si configura come integratore alimentare: "Dal poco che è possibile desumere dalle informazioni disponibili, il ‘razionale’ del prodotto pubblicizzato è basato sulle capacità – ben note da decenni - delle ciclodestrine di perturbare ‘lipidic rafts’ nella membrana cellulare e quindi, secondo i proponenti, indebolire le interazioni ospite-virone basate su recettori di membrana. Il meccanismo, quindi, è altamente aspecifico, generico e, se iper-dosato, addirittura nocivo. Al di la di questo, però, va segnalato che il prodotto è un integratore alimentare, che necessita solo di comunicazione di immissione in commercio e che non è soggetto ad alcuna approvazione dal Ministero della Salute, dell’Aifa e dei Comitati Etici". Non si capisce quindi perché l'azienda lamenti un non meglio precisato ostracismo da parte di Aifa se il prodotto, non essendo un farmaco, non ha bisogno di autorizzazioni. Ma c'è di più: "L’unica cosa rilevante è che il principio attivo (la ciclodestrina) sia presente nella tabelle e venga usata nel dosaggio e nella formulazione prevista. Quindi, il prodotto non ha alcuna azione ‘farmaceutica’, né può averla pena sanzioni pecunarie e addirittura penali, nel caso improvvidamente pubblicizzate o asserite, in etichetta o attraverso comunicazioni commerciali". Anche il riferimento che gli autori sembrano fare a studi approvati da Comitati Etici sembra essere poco chiaro, spiega Costantino: "Per quanto riguarda gli integratori alimentari questi possono essere ex-legis oggetto di soli studi osservazionali (tipo l’effetto delle merendine nel pomeriggio sull’orario di sonno nel bambino), non interventistici e rigorosamente senza braccio di controllo, cadendo, altrimenti nella definizione e nella regolazione del farmaco. In attesa di ulteriori informazioni, e pubblicazioni, osserviamo ancora una volta un battage mediatico che appare essere decisamente sproporzionato rispetto allo scopo di un integratore alimentare, che per definizione non può curare malattie ma solo contribuire alla preservazione di uno stato di benessere".

Impennata nelle vendite ma i dubbi sono tanti. Echinaforce, in Svizzera è assalto al preparato di erbe contro il Coronavirus: “Efficacia sull’uomo non dimostrata”. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2020. In Svizzera le farmacie sono state letteralmente prese d’assalto per assicurarsi l’Echinaforce, un preparato a base di erbe prodotto dall’azienda Alfred Vogel, che avrebbe un effetto curativo sul coronavirus. Ad attestarlo, stando a quanto indicato in un recente articolo pubblicato sulla popolare rivista elvetica Blick, è uno studio del laboratorio di Spiez (Berna) che sottolinea i risultati “sensazionali” avuti nella ricerca. Un rimedio naturale che aumenterebbe le difese immunitarie per contrastare più efficacemente la diffusione del covid-19. L’efficacia di Echinaforce è stata rilevata in vitro su cellule umane provenienti dalle vie respiratorie superiori: i dati mostrano che il prodotto è in grado di inattivare i virus Sars-CoV-2. Resta comunque da vedere – scrive Ticinonews – come l’effetto possa riprodursi a livello fisiologico. L’impatto antivirale si è manifestato quando il principio attivo è entrato in contatto diretto con l’agente patogeno: non appena i virus sono stati avvicinati con Echinaforce non si sono più ripresi. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista inglese Virology Journal. Le confezioni di Echinaforce, che consiste in 40 pillole (al costo di 17 euro), hanno avuto una impennata nelle vendite nelle ultime settimane. Tanti i dubbi sull’effettiva efficacia del preparato di erbe. Stando a quanto riferito dal farmacista Giovan Maria Zanini ai media ticinesi “noon si possono trarre certe conclusioni dopo aver fatto soltanto esami in laboratorio. Mancano completamente gli studi sull’uomo. Siamo lontanissimi dal poter affermare che l’Echinaforce sia efficace contro il Coronavirus. Alla stessa stregua, potremmo concludere che anche la grappa ticinese funziona contro il Coronavirus”.

AVVIATA INDAGINE – Swissmedic, l’Istituto svizzero per gli agenti terapeutici, nei giorni scorsi ha deciso di aprire un’indagine per esaminare se il prodotto è stato oggetto di pubblicità vietata al pubblico. Un portavoce dell’Istituto ha confermato ai media che “la pubblicità per i farmaci al pubblico può essere fatta solo nel contesto di domande approvate dall’agenzia di regolamentazione”.

PUBBLICITA’ ANTI-COVID NON CONSENTITA – I test effettuati infatti non possono essere paragonati a quelli su organismi umani. “La pubblicazione dei risultati dello studio ha portato a un’interpretazione in parte errata”, si legge in una nota di Swissmedic. “Le analisi in laboratorio sono state condotte con colture cellulari (in vitro) e finora non ci sono studi che dimostrino l’efficacia contro il nuovo coronavirus anche nell’uomo (vale a dire in vivo). Le condizioni predominanti nelle colture cellulari non possono essere paragonate con quelle di un organismo (umano). I dati di uno studio in vitro non costituiscono alcuna prova dell’efficacia di un principio attivo nell’uomo (in vivo). Accade spesso che le sostanze o i principi attivi mostrino un effetto nelle colture cellulari (in vitro) ma risultino inefficaci nelle sperimentazioni sull’uomo”.

LA CONCLUSIONE – “Per mancanza di studi sull’esatto effetto degli estratti di echinacea sull’uomo e quindi per motivi di sicurezza dei pazienti – si legge ancora nella nota dell’Istituto – la promozione dell’uso di Echinaforce contro i virus corona non è consentita. Tale promozione è considerata ingannevole per i consumatori, poiché li porta a credere nell’efficacia sull’uomo, suscitando potenzialmente un falso sentimento di sicurezza”.

Le proprietà antinfiammatorie della cannabis contro il Coronavirus? Antonino Paviglianiti il 20 maggio 2020 su Notizie.it. In Israele, per combattere il Coronavirus, si starebbe pensando a delle terapie a base di cannabinoidi. Combattere il Coronavirus con terapie a base di cannabis. È l’ultima idea degli scienziati che arriva direttamente dall’Israele. I cannabinoidi non psicoattivi, infatti, potrebbero essere utili a trattare benefici per i pazienti affetti da Covid-19. Ne sono convinti diversi medici e ricercatori a livello internazionale, che si focalizzano sulle proprietà antinfiammatorie della cannabis e del CBD in particolare, cannabionide non psicoattivo dalle numerose virtù terapeutiche, oggetto di numerose ricerche scientifiche. Ed è per questo che in Israele è attualmente in corso una sperimentazione presso l’Ichilov Hospital. Gli studiosi vogliono capire se la molecola sia in grado di alleviare i sintomi della patologia e possa rallentare il processo infiammatorio che aggrava lo status degli affetti da Coronavirus.

Coronavirus e terapie a base di cannabis. Il dottor Barak Cohen, a capo di questa ricerca sugli effetti benefici di terapie a base di cannabis per contrastare il Coronavirus, ha sottolineato: “Si tratta di un approccio innovativo per trattare alcuni dei sintomi, utilizzando un componente della pianta di cannabis considerata sicura”. Ma non è l’unico caso di terapia a base di cannabis per il Covid-19 pensata in Israele. L’azienda biotecnologica Stereo Biotechs ha annunciato l’inizio di una sperimentazione clinica a base di steroidi e CBD. Per l’azienda, infatti, questo trattamento: “Con CBD può migliorare il trattamento attuale dei pazienti che si trovano in condizioni di pericolo di vita. Speriamo che questo studio porti a un beneficio più rapido per il numero crescente di pazienti con Covid-19 in Israele e nel mondo”. La Medical Cannabis Network, invece, riferisce che i ricercatori dell’Israel Institute of Technology stanno lavorando su due studi che esplorano l’uso di una formulazione a base di terpeni derivati dalla cannabis nel trattamento del Coronavirus. Il primo studio si concentrerà su ciò che comporterà sul sistema immunitario, mentre il secondo studio indagherà l’enzima ACE2 e come il trattamento con i terpeni potrebbe prevenire l’ingresso dell’infezione nelle cellule umane. Anche in Italia si sta lavorando a terapie a base di cannabis per curare i malati da Coronavirus anche in virtù di quanto sostenuto dal medico Carlo Privitera.

Il parere dei medici. Il medico italiano, infatti, fin da febbraio sostiene che: “La cannabis, così come è già stato dimostrato nel trattamento di polmoniti dovute ad altri agenti virali che danno quadri patologici simili, ha dimostrato di poter migliorare i risultati clinici migliorando la risposta infiammatoria. Da medico penso che quantomeno la prova si debba fare, uno degli articoli da citare è uscito su Cell a gennaio 2020 e spiega che i meccanismi biologici e molecolari che si verificano nella sepsi, sono dovuti, oltre che alla presenza dell’agente patogeno, anche e soprattutto dalla reazione infiammatoria che è causa di stress progressivo di organi e apparati”.

La forza "feroce" del Covid: "Rompe i muri dei polmoni". Abbiamo intervistato il dott. Franco Carnesalli, pneumologo all'Istituto Auxologico di Milano, che ci ha rivelato come il virus attacchi i polmoni, a volte in forma leggera, molte altre con broncopolmoniti. Spesso si scopre soltanto con una radiografia o Tac. E c'è un farmaco che potrebbe prevenirlo...Alessandro Ferro, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale. Il Covid "visita" anche chi lo combatte in prima linea: in un'intervista esclusiva al Giornale.it abbiamo sentito il dott. Franco Carnesalli, Clinical Manager e Consulente Pneumologo presso l’Istituto Auxologico di Milano. Anche lui è stato colpito dal virus, fortunatamente in forma non grave. Ci ha raccontato in che modo colpisce i polmoni, dalle forme più leggere a quelle più gravi e spesso in maniera subdola, di come radiografie e Tac possono "scoprirlo" e qual è l'unico farmaco che potrebbe, addirittura, prevenirlo.

Quali sono i danni che il virus fa all’apparato polmonare?

"Parlando di polmoni, particolarmente sensibile è la mucosa dei bronchi, dove spesso Covid si attacca provocando una reazione infiammatoria comune anche ad altri virus respiratori ma in questo caso molto più cospicua. L'entità della reazione infiammatoria può dar luogo a forme leggere di bronchite o broncopolminiti senza particolari complicanze respiratorie, oppure può portare a broncopolmoniti interstiziali, che colpiscono i "muri" dell'albero respiratorio".

A tal proposito, il virus Sars-Cov-2 provoca spesso queste polmoniti interstiziali. Cosa sono?

"Immaginiamo di avere un albergo: l'ingresso è la trachea, i corridoi principali sono costituiti dai bronchi, i corridoi secondari sono i bronchi di primo e secondo livello. In fondo, abbiamo tanti piccoli corridoi che finiscono in mini 'appartamenti' con delle 'stanzette': la broncopolmonite, normalmente, colpisce queste stanzette, nel caso di quella interstiziale vengono colpite soprattutto le pareti, come se la tappezzeria si spogliasse ed il virus si infiltrasse fino a rompere questa parete. L'infiammazione, se molto forte, può portare anche ad un interessamento del circolo polmonare e dei piccoli vasi con le embolie polmonari, responsabili anche di alcuni decessi soprattutto in un fase iniziale in cui non si conosceva bene questo aspetto".

Quindi, Covid provoca anche le embolie polmonari?

"Le citochine sono delle proteine pro-infiammatorie che, quando sono prodotte in grossa quantità, oltre ad arrossamento e gonfiore sulla pelle, possono portare all'alterazione della coagulazione intravascolare. Si sono formano aggregati piastrinici che formano gli emboli, i quali si incastrano nei vasi periferici".

Quali sono i sintomi?

"Dipendono dal livello di aggressione e gravità del virus: alcuni sono simil influenzali come febbre, mal di testa, dolori articolari o tosse secca e si risolvono in pochi giorni. Man mano che si va verso un aspetto un po' più grave può comparire la broncopolmonite, con febbre elevata, mancanza di respiro, cefalea e dolori diffusi e tosse ma senza catarro. Ci sono dei pazienti che, in questi mesi, hanno avuto piccole influenze o raffreddori: a posteriori, si può immaginare che abbiano avuto il Covid. Se è vero che provoca broncopolmoniti, ha dato tutta una serie di manifestazioni simil influenzali, con le quali è stata confusa, che hanno colpito anche le alte vie respiratorie, come può essere il naso rispetto ai bronchi, che fanno parte delle basse vie respiratorie".

C’è una categoria di persone che colpisce maggiormente?

"Direi di no, il virus può colpire tutti: i bambini lo portano ma non lo diffondono, dai giovani in su tutti possono essere colpiti. Quello che conta è come lo si prende, sono morti anche 30enni, quindi non è soltanto un fattore d'età. Alcune fasce più a rischio possono essere costituite da portatori di handicap, epilettici, chi ha avuto la poliomelite. Sono un po' più fragili e potrebbero avere dei danni importanti così come per chi è anziano, non si intende soltanto chi è avanti con gli anni ma anche il 60enne fumatore da tanti anni. Ma anche chi mangia male, chi ha un lavoro pesante perché hanno un fisico indebolito da altri fattori".

Sappiamo essere l’organo preferito dal virus, qual è la percentuale di casi riscontrati?

"Ho preso Covid anche io, l'ho sperimentato sulla mia pelle, per fortuna in una forma non grave. Per quello che ho potuto constatare anche con i miei colleghi, nel 90% dei casi i sintomi erano essenzialmente respiratori, da quelli più leggeri simil influenzali, via vai fino ai bronchiali per arrivare a broncopolmoniti e polmoniti".

C’è una terapia specifica per curare i polmoni?

"In tanti pazienti con le forme più leggere come febbre, cefalee, dolori articolari e tosse si curano con tachipirina e paracetamolo. Sono tanti, però, anche i pazienti che hanno la broncopolmonite: prima di tutto, è fondamentale individuarla magari con una radiografia o una tac. Nei casi più gravi, si può usare l'idrossiclorochina, un importante antifiammatorio reumatico che sembra aver anche effetti antivirali. Bisogna stare attenti, però, perché potrebbe avere implicazioni sul cuore e va monitorato con una certa attenzione. Nelle forme di broncopolmoniti più gravi, ai limiti del ricovero, ci sono terapie antibiotiche un po' più impegnative".

Ultimamente si parla dei casi Covid-like: pazienti negativi al tampone ma una tac rivela polmoniti intrerstiziali, cosa può dirci in merito?

"Uno studio pubblicato dai medici dell'Istituto Galeazzi di Milano mostra come, su 160 pazienti arrivati al pronto soccorso con sintomi come tosse e febbre, su 100 di loro c'era la presenza di broncopolmonite. Ciò significa che in molti casi non è stata diagnosticata, molti non lo sanno. In tanti soggetti studiati a posteriori, ormai guariti, con la Tac è stata evidenziata una broncopolmonite, nascosta dai quei sintomi leggeri. Anche se non c'è certezza che fossi Covid, si trattava sicuramente di broncopolminiti non diagnosticate. È sempre utile fare una Tac per vedere se è avvenuta o meno una completa guarigione".

Il danno polmonare che si vede con la Tac, è reversibile o permanente?

"È anche legato alle condizioni di partenza di un paziente, se è sano o deteriorato. E poi, dall'entità dell'infezione: se è leggera, normalmente sparisce; nei casi di rianimazione o di intubazione, quindi gravi broncopolmoniti, è difficile che sparisca tutto. Quei famosi danni alle pareti rimangono, radiologicamente si vedono esiti più o meno marcati. Molti pazienti devono fare una riabilitazione respiratoria per riparare l'apparato respiratorio che è stato danneggiato. E vanno seguiti nel tempo".

C’è un modo per prevenire le polmoniti?

"All'inizio non si sapeva nulla. Adesso si è detto che, nelle primissime fasi o addirittura come prevenzione, l'idrossiclorochina potrebbe essere utile, tenendo sempre ben presente gli effetti cardiologici. Non si può dare a tutta la popolazione ma bisogna identificare pazienti un po' a rischio dove si sospetta l'infezione, ed evitare i sintomi e l'infiammazione descritta prima. In ogni caso, il primo rimedio resta il distanziamento, non avere contatti con il virus. Prima cosa, non essere infettati. E poi, mica il farmaco si può prendere liberamente in farmacia, è il medico che lo decide o meno. Non è la tachipirina..." 

Da adnkronos.com il 25 maggio 2020. "Al via una revisione dei dati del braccio di pazienti trattati con idrossiclorochina e clorochina nello studio “Solidarity” dopo i risultati di uno studio pubblicato su Lancet venerdì", che ha rilevato "un più alto tasso di mortalità fra i pazienti" trattati con questi medicinali. Ad annunciarlo è stato il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, in conferenza stampa a Ginevra, spiegando che il gruppo esecutivo dell'Oms si è incontrato sabato scorso e ha deciso di "interrompere momentaneamente" la sperimentazione nel gruppo "in trattamento con idrossiclorochina e clorochina nello studio Solidarity". Gli altri gruppi del trial "che sta valutando 4 farmaci, andranno avanti". E "dall'Oms arriverà un aggiornamento quanto prima sulla situazione. Questa preoccupazione - ha aggiunto - riguarda l'uso dell'idrossiclorochina e della clorochina contro Covid-19. Desidero ribadire che questi farmaci sono generalmente considerati sicuri per l'uso in pazienti con malattie autoimmuni o malaria", ha detto il dg dell'Oms.

Coronavirus, può uccidere anche la cura. Idrossiclorochina e farmaci sperimentali, tutti i devastanti effetti collaterali. Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Il coronavirus uccide, ma anche gli effetti collaterali delle cure "improvvisate" possono farlo. A cominciare dalla tanto chiacchierata idrossiclorochina. Un servizio di DiMartedì parte dal caso di due medici cinesi usciti vivi dall'epidema, ma con la pelle nera, per illustrare tutte le conseguenze delle terapie sperimentali utilizzate nel mondo per curare il contagio. "Quello è un caso di iperpigmentazione - spiega Roberto Di Santo, professore di Farmacologia all'università La Sapienza di Roma -, ma vari medicinali possono comportare problemi ai reni o aritmie cardiache". Attenzione, come sempre, alle risposte faidate, peraltro disponibili in farmacia. Il presidente americano Donald Trump prende una pillola di idrossiclorochina al giorno e chiede provocatoriamente: "Che cosa c'è da perdere?". "Anche la vita", lo avverte il professore. 

Covid, l'idrossiclorochina funziona. 7 scienziati inchiodano l'Oms. Lo studio. Su Affaritaliani lo studio in integrale di sette scienziati internazionali: ecco la prova che l''idrossiclorochina funziona. Monica Camozzi Mercoledì, 30 settembre 2020 su Affaritaliani. Possiamo dirlo senza tanti giri di parole. L’idrossiclorochina, se usata nella prima fase della malattia, funziona. E pare sia sicura, oltre che efficace. Le affermazioni, dati alla mano, arrivano da un gruppo di scienziati internazionale, capitanati dal dottor Didier Raoult, che con evidenze cliniche pubblicate su the International Medical Journal il 29 settembre, smonta punto per punto i due assunti sulla base dei quali OMS ha ritirato il suddetto farmaco adducendone la pericolosità e la non efficacia. E smonta soprattutto quanto affermato dallo studio Recovery dell’Università di Oxford (la stessa che sta lavorando sul vaccino?), finanziato anche dalla Fondazione Bill e Melinda Gates. L’idrossiclorochina funziona in combinazione con altri farmaci e se somministrata in prima fase. E non è pericolosa, nemmeno a dosi doppie rispetto ai parametri normali, come dimostra il documento che pubblichiamo integralmente. A inchiodare questo farmaco poco costoso, impiegato dal 1945 per trattare la malaria e le sindromi autoimmuni (deriva dalla clorochina, che è la versione sintetica del chinino) era stato lo studio Recovery, condotto a marzo del 2020 dalla Università di Oxford (la stessa che sta lavorando sul vaccino) e finanziato anche dalla fondazione Bill e Melinda Gates, che decretava l’assenza di effetti benefici sui pazienti ospedalizzati a causa del Covid 19. Nello stesso periodo, un articolo apparso su The Lancet affermava che i pazienti trattati con idrossiclorochina presentavano tassi di mortalità del 35% superiori a causa di gravi aritmie cardiache. La pubblicazione fu ritirata dopo 13 giorni dalla sua uscita, perché contestata da 120 scienziati di varie nazionalità. Il 2 giugno 2020 altri 80 medici italiani presero posizione. Nel documento che riportiamo, viene esplicitato sulla base di evidenze cliniche il successo dell’idrossiclorochina in prima fase, grazie ai suoi meccanismi antivirali e immunomodulanti, mentre chi la ha invalidata la ha utilizzata in fasi tardive, dove l’imponente stato infiammatorio rende necessari ben altri interventi! Quindi lo studio di risposta a Recovery dimostra che a non essere efficace non è l’idrossiclorochina, ma la tempistica con cui è stata valutata e testata. In realtà, mentre OMS la bandiva, a livello mondiale tanti medici portavano avanti congiuntamente il suo utilizzo con evidenze cliniche sperimentate sul campo, che riassumiamo qui: somministrazione di idrossiclorochina nelle prime 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, abbinata a un antibiotico, in particolare l’azitromicina; all’aggravarsi eventuale dei sintomi, cortisone ed eparina a basso peso molecolare; a tale mix di farmaci si è aggiunto, nei territori e negli ospedali, l’utilizzo di plasma iperimmune. Risultato: la guarigione dei pazienti. Il gruppo del professor Didier Raoult ha usato 600 mg al giorno per un massimo di 10 giorni in 1061 pazienti con COVID-19 riportando 8 decessi e un tasso di mortalità dello 0,75%. Invece, lo studio Recovery la ha usata in modo massiccio, in dose NON terapeutica (2.400 mg nelle prime 24 ore di trattamento), con grande rischio di effetti collaterali come cardiopatie e retinopatie: ma nonostante ciò, a dosaggio più che doppio, non ci sono stati scostamenti dalla mortalità riscontrata durante i controlli. In sintesi: il documento dimostra che l’idrossiclorochina funziona e non è pericolosa. E resta forte perplessità sulla posizione presa da OMS. “La totale assenza di un approccio medico-clinico per la patologia COVID-19, dello Studio Recovery, deve necessariamente far riconsiderare all’OMS le decisioni prese in conseguenza a tale studio per non farsi carico della responsabilità di un aumento di decessi nel mondo. La decisione di sottrarre nuovamente un farmaco, stavolta dimostratosi sicuro e di accertata efficacia nella fase iniziale di malattia, contribuisce ad aumentare le morti di persone che avrebbero potuto essere altrimenti curate e guarite e a prolungare la pandemia” chiosa lo studio, che pubblichiamo integralmente qui di seguito.

STUDIO RECOVERY E IDROSSICLOROCHINA

AUTHORS

Dilip Pawar MBBS, MD, PhD, DSM, MBA, FCP (USA) Clinico Farmacologo, Scienziato di ricerca sul cancro e Covid Expert Mumbai, India

Didier Raoult, MD Direttore dell'IHU Méditerranée-Infection Boulevard Jean Moulin Marsiglia, Francia

Nise Yamaguchi MD, PhD Clinico Oncologo e Immunologo Institute of Advances in Medicine Università di San Paolo, Brasile

Juan C. Bertoglio, MD Ass. Prof. Di Medicina e Immunologia Universidad Austral del Cile

Alberto Palamidese, MD. Professore Aggiunto di Pneumologia Ospedale Universitario di Padova Medical Association Directory Board Università di Padova, Italia

Vincenzo Soresi M.D. Director em. of Pneumology Ospedale Niguarda di Milano Professore em. di Anatomopatologia, Oncologia Clinica e Pneumologia Università di Milano, Italia

Juan L. Hancke, DVM, PhD Professore di Farmacologia e Tossicologia Università Austral del Cile

Mauro Rango Medical Writer Università di Padova, Italia

Graziella Cordeddu Medical Writer Università di Cagliari, Italia

Daniela Gammella Medical Writer Università di Parma, Italia

INTRODUZIONE. Perché parlare ancora di idrossiclorochina per la cura del COVID-19 quando lo studio Recovery condotto a Marzo 2020 dalla prestigiosa Università di Oxford e finanziato anche dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, ha decretato il 4 Giugno 2020 che questo farmaco “non ha mostrato alcun effetto benefico sui pazienti ospedalizzati a causa del COVID-19?” Perché continuare a parlarne dal momento che, in seguito a questo risultato incontestato, l’OMS ha deciso di ritirare il suddetto farmaco per curare la patologia COVID-19? [A] La risposta è: perché in scienza e coscienza noi crediamo che lo studio Recovery sia ampiamente contestabile, nel metodo e nei conseguenti risultati riguardanti l’idrossiclorochina.

PREMESSA. Durante le ricerche di cure per il COVID-19, gli studi comprendenti l’idrossiclorochina furono interrotti dall’OMS già il 25 Maggio 2020 dopo la pubblicazione di un articolo su The Lancet , in cui si affermava che i pazienti che avevano ricevuto idrossiclorochina presentavano tassi di mortalità del 35% per gravi aritmie cardiache. Questa pubblicazione veniva ritirata dopo tredici giorni dalla sua uscita perché contestata da 120 scienziati di varie nazionalità, sia per la raccolta dei dati che per la metodica e il 2 Giugno 2020 anche ottanta medici italiani inviavano una lettera, alla rivista The Lancet e all’OMS, contestandola nel suo contenuto scientifico. Il Dott Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’OMS, consentiva quindi il 3 Giugno 2020 la ripresa degli arruolamenti dei pazienti in sperimentazioni con l’idrossiclorochina nello studio Solidarity. Recovery è diventato poi lo studio principale su cui l’OMS ha basato la sua decisione finale per confermare a tutte le agenzie del farmaco la sospensione dell’uso dell’idrossiclorochina per il COVID-19. 

LO STUDIO RECOVERY. Lo studio ebbe inizio il 13 Marzo 2020 nel Regno Unito. Da 175 ospedali furono arruolati circa 11.500 pazienti che manifestavano sintomi respiratori più o meno gravi e molto spesso presentavano un quadro di polmonite interstiziale di vario grado. In sostanza tutti i pazienti si trovavano nella cosiddetta seconda o terza fase della malattia, fasi che avremo modo di descrivere meglio nel prosieguo di questa lettera. Lo studio fu diviso in diversi bracci e venne assegnato ai pazienti di ogni braccio un trattamento che consisteva essenzialmente nella somministrazione di UN SOLO farmaco.

UNA APPARENTE DIGRESSIONE. Usciamo per un momento dalla discussione dello studio per chiarire un aspetto fondamentale senza il quale la comprensione della sua critica potrebbe risultare non facilmente accessibile. Per fare questo occorre parlare del COVID-19 suddiviso nelle sue tre fasi di evoluzione patogenetica. La prima fase è quella in cui prevale la replicazione virale (il virus entra nel nostro organismo e si replica all’interno delle cellule). Può non dar luogo a sintomi oppure darne di simili a quelli delle classiche sindromi influenzali, malessere, artralgie diffuse, febbre, tosse secca. La sua prognosi è ottima, il decorso è benigno e si manifesta in circa l’85% dei contagiati. La seconda fase è quella della polmonite interstiziale, che colpisce molto spesso e in modo esteso entrambi i polmoni, in cui si ha una prima risposta infiammatoria e sintomi respiratori anche molto importanti. La prognosi in questa fase è variabile, spesso si rende necessario il ricovero ospedaliero. La terza fase, che può presentarsi in un numero ridotto di pazienti, è caratterizzata da un quadro clinico ingravescente causato da una iper risposta infiammatoria (la tempesta citochinica) che determina, tra l’altro, un quadro di Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID). In questo caso la prognosi è severa. Va detto che da parte dell’OMS non è mai stata data alcuna direttiva in merito ad un protocollo specifico da applicare in caso di COVID-19. Ciò nonostante, a livello nazionale, diverse associazioni mediche individuarono una combinazione di principi attivi da utilizzare per affrontare la patologia. Anche se tali indicazioni differivano da Paese a Paese (ma anche all’interno di uno stesso Paese spesso erano diversificate tra ospedale e ospedale, regione e regione) mantenevano, tuttavia un approccio simile che prevedeva l’abbinamento, in fase iniziale di malattia, di farmaci che congiuntamente esplicassero una azione immunomodulante e antivirale. A partire dalle prime settimane di Marzo 2020, per affrontare ciascuna delle tre fasi di malattia, ogni terapia assegnata domiciliarmente o presso le strutture ospedaliere, faceva riferimento ad una combinazione di farmaci che si presentava simile, quando non addirittura coincidente, in più parti del mondo. Solitamente nelle prime settantadue ore dall’insorgenza dei sintomi i pazienti venivano trattati a domicilio abbinando l’idrossiclorochina ad un antibiotico, specificatamente l’azitromicina. Mentre all’aggravarsi dei sintomi e durante l’ospedalizzazione, si aggiungeva, ai farmaci utilizzati in fase precoce, l’utilizzo di cortisone e di eparina a basso peso molecolare (EBPM). A tale mix di farmaci si aggiunse poi, a macchia di leopardo, nei territori e negli ospedali, l’utilizzo di plasma iperimmune di persone guarite. Si è assistito ad un fenomeno, forse unico nella storia della medicina cioè ad una convergenza della pratica medica a livello mondiale, basata sulle evidenze cliniche sperimentate sul campo. Insomma, pur in assenza di una direttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità le diverse esperienze nazionali dell’intero pianeta convergevano verso il medesimo approccio: un mix di farmaci che, sinergicamente, rispondessero alla replicazione virale, all’eccessiva risposta immunitaria aspecifica, alla coagulazione intravascolare, ciascun farmaco con un suo proprio ruolo specifico. 3 Questo utilizzo clinico nei vari territori internazionali aveva a suo fondamento plurimi studi prodotti nell’ultimo decennio che attestavano l’efficacia antivirale del principio attivo contenuto nell’idrossiclorochina, nei confronti del virus Sars, di cui il SARS-CoV-2 è parente stretto. Su questi studi si è basata quindi la strategia terapeutica utilizzata per esempio l’IHU Méditerranée Infection a Marsiglia in Francia e in tutte quelle realtà che a tale esperienza si sono ispirate. Inoltre era conoscenza dei clinici specialisti in patologie respiratorie, il sinergico funzionamento tra i suddetti principi attivi e quelli di specifici antibiotici con attività immunomodulante e con anticoagulanti, tutti insieme fondamentali per la cura di sintomi simili a quelli provocati dal SARS-CoV-2, che pur essendo di altra natura eziologica (come il Mycoplasma pneumoniae), provocano al polmone danni paragonabili a quelli prodotti dal COVID-19.

CONTESTAZIONE A RECOVERY. Dopo questa apparente digressione torniamo allo studio Recovery. La nostra contestazione, premettendo le ragioni finora esposte, si basa quindi sui punti fondamentali che caratterizzano lo studio: -fase avanzata di malattia -monoterapia -posologia eccessiva Risulta quantomeno sorprendente che la Oxford University abbia fatto tali scelte per validare il funzionamento dell'idrossiclorochina nei pazienti trattati e studiarne la mortalità. In fase avanzata di malattia Come appare evidente dalle diverse esperienze cliniche sperimentate su territorio mondiale, nella stragrande maggioranza dei casi in cui i tassi di mortalità sono stati contenuti all’interno di una percentuale del 3%, si riscontra il diffuso impiego di idrossiclorochina e azitromicina in fase di malattia precoce (e di plasma iperimmune in fase avanzata ovvero di corticosteroidi, EBPM). Tale utilizzo precoce, trova la sua ragion d’essere nei meccanismi di azione antivirali e immunomodulanti dell’idrossiclorochina a cui si è più sopra accennato. Abbinando tali meccanismi alla prima fase di malattia, si permette al farmaco di esplicare le suddette proprietà esattamente nel momento in cui 4 queste sono richieste, ovvero nel momento in cui si assiste alla replicazione virale all’interno dell’organismo ospitante e si verifica la reazione direttamente conseguente del sistema immunitario. L’idrossiclorochina contrasta in modo fisiologico la risposta infiammatoria modulandola e non sopprimendola e impedisce l’insorgere della tempesta citochinica. L’idrossiclorochina ha dimostrato in vitro o in modelli animali di possedere un effetto antivirale attraverso l’aumento del pH endosomiale - che è determinante per la fusione virus-cellula- bloccando, in questo modo, l’ingresso del virus all’interno della cellula. Un altro meccanismo d’azione dell’idrossiclorochina per combattere/contrastare i virus è quella di attivare le vie innate di segnalazione immunitaria dell'IFNβ, AP-1 e NF-κB, nonché l’aumento dell’espressione di geni antivirali e citochine come l'interferone beta (IFNβ). Inoltre l’idrossiclorochina esplica un effetto antinfiammatorio dovuto ad inibizione di sovraregolazione di mRNA di citochine proinfiammatorie, IL-6, IL-1β TNF-α e può bloccare l'attivazione delle cellule T interrompendo la segnalazione di calcio dipendente dal recettore delle cellule T. Il fatto che la somministrazione sia avvenuta molto tardivamente durante il decorso della malattia non depone a sfavore dell’idrossiclorochina, bensì depone a sfavore della scelta terapeutica. In tali fasi avanzate infatti, vi è un’imponente infiammazione e per prevenire il quadro di coagulazione intravascolare disseminata tipico del COVID-19, ben altri interventi sarebbero stati richiesti per una corretta pratica medica. Monoterapia Nonostante le notevoli proprietà appena descritte dell’idrossiclorochina come antivirale e antinfiammatorio, le numerose esperienze cliniche hanno comprovato che la sua efficacia viene aumentata potenzialmente se utilizzata in abbinamento con un altro principio attivo che agisca in sinergia. Nel caso specifico del trattamento per il COVID-19 il farmaco che ha contribuito maggiormente a creare l’effetto combinato più favorevole, alla guarigione della malattia insieme all’idrossiclorochina, è stato l’azitromicina. L’azitromicina è un macrolide che, oltre alla sua azione antibatterica, ha dimostrato di avere un’azione di immunomodulazione la quale differisce dall'immunosoppressione o dall'antinfiammazione in quanto è un ripristino non lineare della risposta infiammatoria che agisce modificando o regolando una o più funzioni del sistema immunitario. Usiamo il termine "immunomodulazione" per descrivere la downregulation di un'iperimmunità o iperinfiammazione senza compromettere la normale risposta immunitaria o infiammatoria per difendersi dall'infezione. I farmaci idrossiclorochina e azitromicina sono entrambi immunomodulatori che in modo sinergico prevengono gli effetti deleteri causati dalla massiccia infiammazione indotta da COVID-19 quindi sono due farmaci diversi ma con attività simili che lavorano in sinergia. Inoltre l’azitromicina è nota per fermare la produzione di citochine, un torrente di mediatori infiammatori che innescano l'infiammazione polmonare potenzialmente letale nei pazienti COVID-19. Il regime di monoterapia, come non viene praticato anche per altre patologie, non trova a maggior ragione, giustificazione alcuna per venir attuato in caso di infezione da SARS-CoV-2 la quale si è dimostrata essere, come precedentemente spiegato, una patologia sì complessa ma che può essere affrontata in ogni sua fase con strumenti adeguati alla sua gravità. Non certo in monoterapia. Posologia eccessiva Altro aspetto, tutto da chiarire, riguarda l’alto dosaggio di idrossiclorochina somministrato che non trova giustificazione né nella pratica clinica fino a quel momento conosciuta, né in letteratura: infatti le dosi sono risultate più che doppie rispetto a quelle utilizzate abitualmente per le patologie di riferimento (malaria, lupus erythematosus, artrite reumatoide). Ogni farmaco è sicuro se usato a dosaggi stabiliti e diventa potenzialmente letale per dosi superiori. Lo Studio Recovery ha utilizzato un dosaggio di 2400 mg di idrossiclorochina nelle prime 24 ore di trattamento. Alla dose iniziale sono state poi aggiunte somministrazioni di 400 mg ogni 12 ore per altri 9 giorni, per un totale complessivo di 9,6 gr di farmaco in 10 giorni. 6 Giusto per fare un confronto, il gruppo del prof Didier Raoult in Francia ha usato 600 mg al giorno per un massimo di dieci giorni in 1061 pazienti con COVID-19, riportando 8 decessi ed un tasso di mortalità dello 0,75%. Va detto che nello stesso periodo, le esperienze territoriali italiane hanno visto un impiego di idrossiclorochina al dosaggio giornaliero di 400 mg. Il regime di iperdosaggio di idrossiclorochina e la modalità di somministrazione in monoterapia non ha alcuna giustificazione medica nel trattamento del COVID-19. Si può quindi affermare, oltre ogni ragionevole dubbio che, nello Studio Recovery nel Regno Unito, l’idrossiclorochina è stata utilizzata in dose non terapeutica, a maggior rischio di effetti collaterali quali cardiopatie e retinopatie, non comprensibile in relazione ai canoni della pratica medica per tale patologia. Nonostante il dosaggio estremamente elevato e ingiustificato di idrossiclorochina non ci sono state sostanziali scostamenti dalla mortalità riscontrata nel braccio di controllo. Quanto sopra dimostrato è in antitesi con le motivazioni che in precedenza venivano dichiarate dall’OMS per la prima sospensione dell’idrossiclorochina dopo la pubblicazione su The Lancet del documento che è stato poi ritirato e cioè che si trattava di farmaco non sicuro e potenzialmente letale. In realtà l’idrossiclorochina è un composto antivirale con un track record di sessantacinque anni per la sicurezza e l’efficacia, sviluppato a partire dalla clorochina che a sua volta è la versione sintetica del chinino. La clorochina e l’idrossiclorochina sono farmaci poco costosi e disponibili a livello globale che sono stati utilizzati in tutto il mondo dal 1945 per trattare la malaria, sindromi autoimmuni e varie altre condizioni. Lo stesso studio ha infatti dimostrato la totale sicurezza del farmaco, visto che in dosaggio più che doppio a quello comunemente utilizzato non ha provocato un tasso di mortalità superiore a quello dei controlli. In questa prospettiva appare di dubbia validità la scelta di attribuire oppure negare ad un farmaco una possibile capacità curativa sulla base di un uso improprio, in assenza di una sinergia farmacologica necessaria. 7 Risulta ovvio pertanto che non abbia potuto impedire la morte di molti pazienti. Solo se utilizzato secondo i corretti parametri evita i decessi e anche l’aggravarsi della patologia e le sue complicazioni. Un appunto sul desametasone Viceversa diventa degno di nota, per le ragioni che verranno chiarite nel prosieguo, riportare, in breve, il report relativo ad un altro farmaco utilizzato nello Studio Recovery: il desametasone. Secondo i ricercatori del Recovery Trial dell’Università di Oxford viene descritto come l’unico farmaco che ha finora dimostrato di ridurre la mortalità e di farlo in modo significativo. I dati però non sembrano avallare l’aggettivo “significativo” utilizzato. I pazienti curati senza desametasone a 28 giorni avevano mortalità del 41% quando necessitavano di ventilazione meccanica, del 25% quando necessitavano di solo ossigeno e del 13% tra chi non necessitava di interventi respiratori di alcun genere. Il desametasone è risultato fondamentale per salvare 1 paziente su 8 con ventilazione meccanica e 1 paziente su 25 con ossigeno. Mentre non sono stati rilevati benefici nei pazienti con quadro clinico migliore che non richiedevano ossigeno. Non si comprende quindi a conclusione della sperimentazione sul desametasone, l’enfasi posta da parte del Professor Peter Horby e del Professor Martin Landray sui suoi effetti, come se si trattasse di una scoperta sensazionale. L’errore commesso nello studio condotto dall’Università di Oxford e che riguarda tutto lo studio Recovery, è la monoterapia vale a dire testare un solo farmaco o tipo di trattamento. Soprattutto per quanto riguarda il desametasone, Recovery non è riuscito a mettere sufficientemente in evidenza la reale importanza dei corticosteroidi come salvavita nella seconda e terza fase della malattia così come quando vengono usati in combinazione con altri farmaci. Come abbiamo detto i corticosteroidi sono sempre stati farmaci elettivi nelle polmoniti interstiziali e hanno dimostrato di essere molto utili per affrontare l’epidemia di COVID-19, dovrebbero essere introdotti, insieme al plasma 8 iperimmune e anticoagulanti, nel momento in cui la tempesta citochinica sta per verificarsi, durante la seconda fase di malattia e si sono dimostrati utili anche nella terza fase di malattia. L’utilizzo così come previsto in Recovery per il trattamento di COVID-19, in regime di monoterapia, ha svalutato la reale portata e importanza del desametasone. Ci teniamo a sottolineare che il cortisone viene usato, da circa 50 anni, in tutto il mondo in caso di polmoniti interstiziali, inoltre, non è una scoperta di Recovery nemmeno il suo utilizzo relativo al COVID-19 in quanto, analoghi del desametasone sono stati utilizzati, unitamente ad altri farmaci, in quasi tutte le strutture ospedaliere del mondo, a partire da Marzo 2020. Tali cure improntate alla pratica di un protocollo di farmaci hanno apportato agli ammalati di COVID-19 benefici di gran lunga maggiori rispetto a quelli riportati nello studio Recovery. Va detto, infine, che rimane ancora tutta da verificare l’efficacia dell’utilizzo del desametasone in prima fase di malattia.

CONCLUSIONI. Va detto con estrema chiarezza che molte realtà ospedaliere europee hanno avuto tassi di mortalità meno elevati, durante la fase epidemica, di quelli dello Studio Recovery. Basterebbe questa affermazione per far comprendere che le tesi di base dello Studio sono errate. Come abbiamo chiarito nell’esposizione della nostra contestazione, lo Studio Recovery non dimostra l’inefficacia dell’idrossiclorochina o l’efficacia del desametasone. Ciò che lo studio dimostra è soltanto l’inefficacia dell’utilizzo dell’idrossiclorochina in una fase non congruente di malattia e in monoterapia per combattere il COVID-19 e, nel contempo, dimostra la non adeguata efficacia del desametasone se non inserito nel contesto di un protocollo che lo associ ad altri farmaci, quindi dimostra che anche un ipotetico “salvavita” non lo è efficacemente se usato da solo. L’unica vera dimostrazione utile per la comunità medica e scientifica a cui conduce lo Studio Recovery appare essere la conferma delle evidenze basate 9 sulla pratica clinica, sviluppatesi durante l’epidemia, che hanno condotto i medici impegnati in prima linea, ad utilizzare una combinazione di farmaci che si è ben presto diffusa all’intero pianeta e che ha visto, nelle situazioni in cui è stata contenuta la mortalità entro bassissime percentuali, la costante della presenza di idrossiclorochina, azitromicina, cortisone, anticoagulante e, in taluni casi, plasma iperimmune. Lascia ancora una volta perplessi il fatto che l’OMS si basi, come fece con lo Studio pubblicato sul The Lancet e poi ritirato, su studi che danno piena evidenza di trattare una patologia come si trattasse di una patologia a loro completamente sconosciuta sulle sue manifestazioni ed evoluzioni cliniche. La totale assenza di un approccio medico-clinico per la patologia COVID-19, dello Studio Recovery, deve necessariamente far riconsiderare all’OMS le decisioni prese in conseguenza a tale studio per non farsi carico della responsabilità di un aumento di decessi nel mondo. La decisione di sottrarre nuovamente un farmaco, stavolta dimostratosi sicuro e di accertata efficacia nella fase iniziale di malattia, contribuisce ad aumentare le morti di persone che avrebbero potuto essere altrimenti curate e guarite e a prolungare la pandemia. Questo, seppur inaccettabile in qualsiasi circostanza, si rileva come danno intollerabile anche e soprattutto nei paesi più poveri nei quali l’idrossiclorochina rappresentava il farmaco principale nel trattamento della fase precoce della malattia. Nota [A]: come risultato di questa decisione, tutte le agenzie farmaceutiche regionali e nazionali hanno dato l’ordine, nei loro territori, di limitarne l’uso ai soli studi clinici. L’OMS ha dichiarato che la propria decisione è stata presa sulla base dei risultati di Recovery, su quelli di Solidarity e su una Cochrane review su altre prove su l'idrossiclorochina. 

Da agi.it il 19 maggio 2020.  "La prendo anche io da un paio di settimane. Prendo una pillola al giorno" come trattamento preventivo, ha annunciato a sorpresa il tycoon, assicurando di essere negativo al Covid-19 e di essersi consultato con il medico della Casa Bianca. L'efficacia del farmaco, approvato negli Usa per la malaria, l'artrite reumatoide e il lupus ma non per il Covid, è stata messa in dubbio da numerosi esperti che anzi segnalano gravi effetti collaterali, soprattutto a livello cardiaco. Anche Anthony Fauci, l'ormai famoso immunologo italo americano membro della task force Usa contro il Covid-19, ha frenato sul suo impiego mentre la 'talpa' del ministero della Sanità Usa, che era capo dell'agenzia per i vaccini, Rick Bright, ha denunciato di essere stato licenziato perché si rifiutava di promuovere l'idrossiclorichina come terapia anti Covid. "Sareste sorpresi dal numero di persone che la prendono", ha detto Trump ai cronisti, definendo Bright un ipocrita. "I lavoratori in prima linea la prendono in molti...", ha insistito il presidente, che tempo fa aveva suggerito di valutare la possibilità di ingerire disinfettanti contro il coronavirus. Negli Stati Uniti la pandemia ha ucciso oltre 90.000 persone i contagi sono 1,5 milioni. La stessa Food and Drug Administration (Fda), nell'ultimo bollettino di aprile, ha messo in guardia rispetto all'assunzione di idrossiclorochina al di fuori da una struttura ospedaliera per i rischi che comporta. "Io la prendo da circa una settimana e mezzo e sono ancora qui", ha rimarcato Trump. L'annuncio ha lasciato di stucco anche Neil Cavuto, noto anchor di Fox News, l'emittente preferita del tycoon che ha esortato gli ascoltatori a non seguire l'esempio del capo della Casa Bianca. "Se sei in una fascia di popolazione a rischio e la prendi come trattamento preventivo... ti ucciderà. Non posso sottolinearlo abbastanza - ha detto - ti ucciderà". "Dopo i numerosi colloqui che abbiamo avuto sulle prove a favore e contro l'utilizzo dell'idrossiclorochina, abbiamo concluso che i potenziali benefici del trattamento superano i relativi rischi". Lo ha dichiarato il medico di Trump, Sean P. Conley, confermando in una nota che il presidente sta assumendo l'antimalarico. Il presidente "e' in buona salute - ha aggiunto - e senza sintomi. Viene regolarmente sottoposto e test e fino ad ora sono tutti risultati negativi".

 Trump: «Ogni giorno prendo una pastiglia  di idrossiclorochina». Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. L’ultima uscita-provocazione di Trump sull’idrossiclorochina. Il presidente torna a promuovere il farmaco anti malaria in funzione anti Covid e lo fa proprio nella giornata di lunedì 18 in cui era appena arrivata la prima buona notizia concreta sul fronte dei vaccini. Moderna ha annunciato infatti che la prima fase ha dato risultati positivi e quindi, almeno per ora, tiene la tabella di marcia per arrivare al vaccino entro la fine dell’anno. Ma l’attenzione del presidente Usa è tutta sul controverso farmaco anti-malarico, l’idrossiclorochina. «La prendo anche io da un paio di settimane. Prendo una pillola al giorno» come trattamento preventivo, ha annunciato in conferenza stampa, assicurando di essere negativo al Covid-19 e di essersi consultato con il medico della Casa Bianca. L’efficacia del farmaco, approvato negli Usa per la malaria, l’artrite reumatoide e il lupus ma non per il Covid, è stata messa in dubbio da numerosi esperti che anzi segnalano gravi effetti collaterali, soprattutto a livello cardiaco. Anche Anthony Fauci, l’ormai famoso immunologo italo americano membro della task force Usa contro il Covid-19, ha frenato sul suo impiego. «Sareste sorpresi dal numero di persone che la prendono», ha detto Trump ai cronisti. «I lavoratori in prima linea la prendono in molti...», ha insistito il presidente, che tempo fa aveva suggerito di valutare la possibilità di ingerire disinfettanti contro il coronavirus. La stessa Food and Drug Administration (Fda), nell’ultimo bollettino di aprile, ha messo in guardia rispetto all’assunzione di idrossiclorochina al di fuori da una struttura ospedaliera per i rischi che comporta. «Io la prendo da circa una settimana e mezzo e sono ancora qui», ha rimarcato Trump. L’annuncio ha lasciato di stucco anche Neil Cavuto, noto anchorman di Fox News, l’emittente preferita del tycoon, che ha esortato gli ascoltatori a non seguire l’esempio del capo della Casa Bianca. «Se sei in una fascia di popolazione a rischio e la prendi come trattamento preventivo... ti ucciderà. Non posso sottolinearlo abbastanza - ha detto - ti ucciderà». Nel corso della stessa conferenza stampa, poi, Trump ha minacciato di sospendere per sempre il finanziamento americano all’Oms e di uscire dall’organizzazione sequesta non si impegnerà a «miglioramenti significativi» entro 30 giorni. Se questo non avviene, ha detto il presidente, «trasformerò la sospensione temporanea del finanziamento all’Oms in una misura permanente e riconsidererò la nostra partecipazione all’Organizzazione». Come Trump ha più volte sottolineato nelle scorse settimane, l’organizzazione ha sbagliato «ripetutamente» difendendo Pechino dalle accuse di scarsa trasparenza all’inizio della diffusione. «Gli errori reiterati da parte sua e della sua organizzazione - scrive Trump in una lettera al capo dell’Oms Tedros Adhenom Ghebreyesus - sono stati estremamente gravosi per il mondo»: secondo il presidente, «molte vite avrebbero potuto essere salvate» se il direttore «avesse seguito l’esempio» di uno dei suoi predecessori alla guida dell’Oms, la norvegese Harlem Brundtland, che nel 2003 riuscì a bloccare la diffusione della Sars, come sottolinea Trump. «Il solo modo perché l’Oms vada avanti è dimostrare la sua indipendenza dalla Cina».

Da adnkronos.com il 21 maggio 2020. Nancy Pelosi sconsiglia a Donald Trump di assumere l'Idrossiclorochina, il farmaco anti-malarico la cui funzione anti Covid-19 non è scientificamente accertata. "Preferirei che non prendesse qualcosa che non è stato approvato dagli scienziati", ha detto la speaker democratica della Camera dei Rappresentanti alla Cnn. "Specialmente nella sua fascia di età e nella sua categoria di peso: patologicamente obeso", ha aggiunto Pelosi, in riferimento alle raccomandazioni dei medici riguardo alle controindicazioni del farmaco. Il presidente Usa ha rivelato ieri di assumere una pillola di idrossicolorochina al giorno da due settimane, come trattamento preventivo anti coronavirus. L'idrossicolorochina è il farmaco che, fin dall'inizio dell'emergenza negli Usa, il presidente ha tentato di promuovere, senza però avere il conforto degli scienziati.

Maurizio Crippa per Il Foglio il 21 magio 2020. Conoscendola è probabile che se, per riconoscerle il ruolo di Speaker, le avessero detto “the opera insn’t over until the fat lady sings”, che è solo un modo di dire, si sarebbe offesa. Invece Nancy Pelosi, donna di garbo e sciabola, intendeva proprio “fat”. E perculando The Donald per la sua idea di curarsi con l’idrossiclorochina ha detto: “Preferirei che non la prendesse, specialmente nella sua fascia d’età e, come dire, di peso… è patologicamente obeso”. Pelosi è una liberal très chic, sfoggia mascherine ton sur ton che una mia amica invidia moltissimo, e nessuno ha gridato al body shame. Fosse stato un uomo, ci sarebbe l’adunata mondiale delle indignate. Ma un suggerimento con un filo di perfidia, elargito a un signore che suggeriva come prendere le donne, e non esattamente per la mascherina, si può perdonare. The opera insn’t over until the fat lady sings.

Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 20 maggio 2020. Ma da dove nasce l' originale (e, per certi versi, curiosa) idea che antimalarici, come la clorochina e la sua cugina idrossiclorochina, farmaci usati anche per combattere malattie autoimmuni, come l' artrite reumatoide o il lupus eritematoso sistemico, possano essere utili nel prevenire l' infezione da coronavirus? La Covid è una malattia virale, respiratoria, che niente avrebbe in comune con la malaria, provocata da un parassita trasmesso dalle zanzare, o con malattie autoimmuni dove l' organismo viene aggredito dal suo stesso sistema immunitario con danni alle articolazioni, alla pelle e ad altri organi. Lo vediamo fra poco, ma intanto Donald Trump ha adottato il farmaco come prevenzione, tanto che (dice) se ne prende una pastiglia al giorno, e il ricercatore marsigliese Didier Raoult, peraltro molto stimato dalla comunità scientifica e anche dal presidente francese Emmanuel Macron, ne è diventato il profeta. Cerchiamo allora di mettere un po' di ordine in questa vicenda con l' aiuto di Giovanni Di Perri, professore di Malattie infettive all' Università di Torino, e con un occhio alla letteratura scientifica che, su questa terapia, ha molte perplessità, soprattutto perché non è priva di effetti collaterali. Intanto una precisazione: ma clorochina e idrossiclorochina (quest' ultima, tanto per intenderci, ha il nome commerciale di Plaquenil) sono due molecole paragonabili come effetti? E quali effetti hanno?  «Sostanzialmente sono due molecole simili - commenta Di Perri -. E hanno una particolarità: si concentrano tantissimo nelle cellule dell' organismo e hanno un' azione antivirus. Proprio per questo erano state studiate anche per contrastare l' Hiv, il virus dell' Aids». Forti di queste osservazioni, i ricercatori le hanno sperimentate anche nella Sars, la sindrome respiratoria da coronavirus che si era diffusa nel 2002-2003 dalla Cina in altri Paesi, provocando almeno 8 mila contagi. E le stanno riproponendo anche per arginare il Sars-CoV-2. Tutto questo non deve stupire: di fronte alla nuova emergenza del coronavirus, contro il quale, al momento, non si hanno terapie specifiche e tanto meno un vaccino, si sta provando di tutto. Ecco quindi le proposte, via via messe in atto, di sfruttare antivirali (quelli già usati contro il virus dell' Aids) o farmaci che contrastano l' eccessiva risposta infiammatoria dell' organismo contro il coronavirus (la cosiddetta tempesta citochinica) o anticoagulanti (perché questo virus provoca trombi nei vasi sanguigni) o il plasma immune dei soggetti guariti (una terapia che si è sempre praticata). E anche la clorochina. Sta adesso agli studi dimostrare quelle più efficaci L' Aifa, l' Agenzia italiana per il farmaco, ha autorizzato l' uso dell' idrossiclorochina off label, cioè al di fuori delle indicazioni per cui è registrata ed è in commercio. Ma quanto viene usata in Italia? «Sì - conferma Di Perri - si sta usando in diversi centri. Nella cura soprattutto, non nella prevenzione». Anche perché la letteratura scientifica segnala importanti effetti collaterali. Lo testimoniano alcuni studi pubblicati sul Journal of American Medical Association . «Il farmaco può provocare aritmie, anche gravi, soprattutto in persone predisposte», conclude Di Perri. La morale è che al momento si sta procedendo a tentoni e ci si aspetta, dalla ricerca sul campo, di vedere come va. Giorno per giorno.

Idrossiclorochina, come funziona il farmaco assunto da Trump contro il coronavirus. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di assumerne una pasticca al giorno, dietro consiglio del suo medico, per prevenire il coronavirus. Si tratta dell’idrossiclorochina, farmaco anti malarico, usato per trattare malattie autoimmuni come lupus e artrite reumatoide, la cui sperimentazione sui pazienti affetti da Covid è stata autorizzata dall’Aifa. L’interesse per questo farmaco è cresciuto dopo che, soprattutto in Francia, nella clinica Méditerranée Infection University Hospital Institute di Marsiglia diretta dal virologo Didier Raoult, si è visto che, se combinata con l’azitromicina aiuta a ridurre l’infezione nel corpo. Una sperimentazione che ha dato esito positivo nel 75% dei casi testati. Dopo le dichiarazioni del presidente americano, si teme ora che in tanti proveranno ad emulare le azioni del tycoon, assumendo un farmaco che può però avere serie controindicazioni, fibrillazione ventricolare e scompenso cardiaco, soprattutto in soggetti più deboli. “Non è stato ancora provato che l’idrossiclorochina sia efficace contro il coronavirus “, ha detto il dottor Mike Ryan dell’Oms nel consueto briefing sul Covid-19. E ha avvisato: “Ci sono invece diversi studi che mettono in guardia sugli effetti collaterali”.

Idrossiclorochina, il farmaco che piace ai populisti. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Pietro De Re su La Repubblica.it Trump lo prende tutti i giorni. Bolsonaro lo loda come la risposta per prevenire l'infezione da Covid-19. Ma sugli effetti di questa presunta panacea gli scienziati hanno dubbi. A sentire il presidente Donald Trump, un rimedio per prevenire il Covid-19 esiste ed è l'idrossiclorochina, tanto che lui l'assume una volta al giorno. Lo stesso fa il suo omologo brasiliano, Jair Bolsonaro, un altro capo di Stato sempre restio a indossare la mascherina e sempre più propenso alla riapertura di tutte le attività economiche, sebbene nel suo Paese i morti e i contagi siano in continuo aumento. È vero, né l'ungherese Orban né il turco Erdogan si sono ancora espressi sulle virtù farmacologiche della clorochina, ma tutto lascia pensare che quella che in origine è una molecola antimalarica piaccia molto ai presidenti populisti.Coronavirus, la clorochina contro l'epidemia: cosa sappiamo in riproduzione.... Condividi   Perché? Anzitutto perché se fosse davvero efficace, il che è messo in dubbio da buona parte del mondo scientifico, ciò li solleverebbe da ogni responsabilità sugli effetti della pandemia in corso. E poi perché nell'idrossiclorochina avrebbero trovato una panacea già disponibile e a buon mercato. Infine, perché significherebbe non dover aspettare mesi per la scoperta del vaccino né tantomeno essere costretti investire fortune nella sua ricerca. "L'uomo forte ha bisogno di risposte chiare e vorrebbe disporre subito dell'arma letale contro il Covid-19", dice il filosofo francese Marek Halter. "Con l'antimalarico sperano di aver trovato il modo di risolvere al più presto la crisi sanitaria, senza troppe attese, dibattiti o discussioni politiche. Vorrebbero una soluzione semplice, poco costosa e immediata. Il che è ovviamente un'illusione". C'è poi un'altra spiegazione del fascino che esercita l'idrossiclorochina sui leader populisti. E questa è di tipo economico. "Sono certo che Big Pharma è già pronto a produrre l'antimalarico in grande quantità. Distribuirlo su scala mondiale significherebbe ottenere guadagni da primato. Che negli Stati Uniti, Trump abbia amici tra i grandi produttori di farmaci è già stato scritto dalla stampa americana. Ma le posso assicurare che anche a Bruxelles in queste settimane ci sono pesanti azioni di lobbying per favorire tale o tale farmaco", ci confessa un funzionario dell'Unione europea. C'è infine un terzo motivo, senz'altro più semplicistico, ma non per questo trascurabile: i pochi contagi e le poche morti di coronavirus registrati al momento in Africa, continente in cui la clorochina è un farmaco molto diffuso. Dice ancora Halter: "Tanto è bastato a un leader come Bolsonaro a fargli perdere la testa per l'idrossiclorochina. Se funziona in Africa, s'è detto, funzionerà anche in Brasile. Temo però che dovrà ricredersi in fretta e riconsiderare al più presto la sua strategia antivirale". Intanto, la granitica fede nel farmaco miracoloso del presidente brasiliano ha provocato le dimissioni del ministro della Salute, Nelson Teich, ventotto giorni dopo quelle di Luiz Henrique Manetta, giustificate entrambe dalla dissennata politica anti-coronavirus voluta dal capo dello Stato. Fatto sta che la settimana scorsa, Bolsonaro ha ordinato che l'idrossiclorochina sia somministrata negli ospedali ai primi sintomi dell'infezione.

Da la Repubblica il 21 maggio 2020. Il presidente Trump non è il solo, a prendere clorochina per tenere lontano il coronavirus. «Anche noi medici e infermieri al San Raffaele la stiamo sperimentando, per capire se una pastiglia al giorno previene il contagio e i sintomi gravi» racconta Lorenzo Dagna, primario di immunologia dell' ospedale milanese.

Che cosa vedete?

«Lo studio vero e proprio, autorizzato dall' Agenzia italiana del farmaco, è partito da poco. Ma molti da noi in corsia, incluso il sottoscritto, la usano da tempo».

Gli ultimi risultati però non sono così lusinghieri.

«Per molti farmaci contro questo coronavirus, la scelta del tempo è molto importante. La clorochina da sola non serve a malattia avanzata, quando ormai i sintomi sono gravi. Gli ultimi studi l' hanno dimostrato con chiarezza. MA è possibile che abbia un ruolo nella prevenzione del contagio o nelle fasi precoci della malattia. In Italia possono prescriverla i medici di famiglia anche ai positivi che si curano a casa. Al mondo ci sono 58 trial con il farmaco somministrato a migliaia di persone sane per prevenire Covid-19».

Ma non c' è il rischio di effetti collaterali?

«La clorochina può provocare disturbi del ritmo cardiaco alle persone con la cosiddetta sindrome del Qt lungo, che può essere diagnosticata con un elettrocardiogramma».

Ma c' è stato molto allarme per questo rischio.

«La clorochina è un farmaco sicuro e potenzialmente efficace, ma questo non vuol dire che possa essere data a tappeto. Problemi anche piccoli diventerebbero seri, se dall' oggi al domani l' assunzione si estendesse a milioni di persone. Negli Usa c' è stato per esempio un aumento di intossicazioni perché alcuni, non trovando le pasticche in farmacia, hanno pensato di ricorrere ai preparati per l' acqua degli acquari, che contengono clorochina. Si tratta pur sempre di un farmaco e il battage che si stava creando sulle sue possibili virtù rischiava di diventare pericoloso».

L'idrossiclorochina non convince l'Aifa, aumentano i rischi. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su La Repubblica.it. Sulla sua efficacia se ne sa poco mentre "sui possibili danni e assenza di sicurezza in alcuni limitati sottogruppi di pazienti ne siamo abbastanza sicuri". L'idrossiclorochina non convince l'Aifa. Ne ha parlato il direttore generale dell'Agenzia italiana del farmaco, Nicola Magrini, durante la presentazione di un rapporto sulle cure in campo anti-Covid alla conferenza stampa settimanale dell'Iss. E sull'antimalarico, come anche sul suo stretto parente, la clorochina, arriva uno studio pubblicato su Lancet e condotto da ricercatori della Sorbona di Parigi, secondo il quale i farmaci antimalarici che si stanno sperimentando contro l'infezione da Covid-19 (e che il presidente americano Trump sta assumendo come profilassi), sembrano essere collegati ad un maggior rischio di morte tra i pazienti ricoverati in ospedale per il Covid e problemi al cuore, mentre non sembrano produrre benefici sui pazienti, sia presi da soli che insieme ad un antibiotico. "L'uso - ha riferito Magrini - può essere considerato nei pazienti a diversa gravità, si dovrebbe usare preferenzialmente in mono terapia e non in associazione, cosa che spesso non è stata fatta". In particolare, riferisce l'Aifa, "lo stato attuale delle conoscenze sconsiglia l'utilizzo dell' idrossiclorochina, in associazione con lopinavir/ritonavir o con azitromicina, al di fuori di studi clinici". E aggiunge: "Poiché l'uso terapeutico dell'idrossiclorochina è ormai entrato nella pratica clinica sulla base di evidenze incomplete, è auspicabile la partecipazione a studi randomizzati che ne valutino l'efficacia". I dati dello studio pubblicato su Lancet si riferiscono a 671 ospedali nel mondo su 15.000 persone trattate con gli antimalarici e con uno dei due antibiotici che a volte sono stati abbinati. La terapia in qualsiasi combinazione dei 4 farmaci è risultata associata a maggior rischio di morte rispetto a quello osservato in 81.000 pazienti a cui questi farmaci non sono stati somministrati. Il maggior rischio è stato osservato nel gruppo trattato con idrossiclorochina e un antibiotico, dove l'8% dei pazienti ha sviluppato aritmia cardiaca, rispetto allo 0,3% del gruppo di controllo.

"L'idrossiclorochina - spiega ancora il dg di Aifa, Magrini - è un farmaco mondiale usato da tutti, più cautamente in Italia che altrove". Anche l'ozono, ha detto, "ha avuto alcuni dati positivi, ed è stato fatto uno studio per capirne l'efficacia", mentre per il Tociluzumab, il farmaco contro l'artrite, la sintesi pubblicata sul sito Aifa mostra "dati iniziali incoraggianti con una potenziale riduzione della mortalità del 5%". Novità anche sul fronte della terapia con il plasma iperimmune da pazienti convalescenti post-Covid. L'Istituto Spallanzani di Roma, d'intesa con l'Uo di Ematologia dell'ospedale San Camillo e il Dipartimento di Oncoematologia e Terapia cellulare e genica dell'ospedale Bambino Gesù ha annunciato la sperimentazione in atto.

L'Oms e l'Aifa sospendono gli esperimenti sull'uso dell'idrossiclorochina e della clorochina per il Covid 19. Pubblicato martedì, 26 maggio 2020 da La Repubblica.it. Come atteso da ieri, quando l'Oms ha preso posizione sospendendo gli studi sulla idrossiclorochina, si è mossa anche l'Aifa. L'agenzia del farmaco ha deciso deciso di "sospendere l'utilizzo del farmaco per il trattamento dell'infezione da "Sars-CoV-2", al di fuori di studi clinici, sia in ambito ospedaliero che domiciliare. Tale utilizzo viene conseguentemente escluso dalla rimborsabilità. Aifa, nei primi giorni dell'epidemia, aveva deciso di rendere possibile utilizzare off-label, cioè al di fuori delle sue indicazioni come farmaco contro l'artrite reumatoide e la malaria, l'idrossiclorochina. La decisione permetteva ai medici di prescriverlo e come conseguenza lo rendeva a carico dello Stato. Mai si era autorizzato il suo utilizzo preventivo, e anzi si era messo in guardia dai rischi, anche se alcuni medici hanno detto di usarlo pure in quel modo. "L’eventuale prosecuzione di trattamenti già avviati è affidata alla valutazione del medico curante", dicono adesso dall'agenzia. L'Aifa fa riferimento allo studio uscito sul Lancet, alla base anche della decisione dell'Oms. "Al momento attuale tuttavia, nuove evidenze cliniche relative all’utilizzo di idrossiclorochina nei soggetti con infezione da SARS-CoV-2 (seppur derivanti da studi osservazionali o da trial clinici di qualità metodologica non elevata) indicano un aumento di rischio per reazioni avverse a fronte di benefici scarsi o assenti". Velocemente si aggiornerà la scheda Aifa sull'uso della idrossiclorochina, mentre l'agenzia sottolinea che non ci sono però modifiche della valutazione del rapporto tra rischi e benefici per le indicazione autorizzate: "artrite reumatoide in fase attiva e cronica e lupus eritematoso discoide e disseminat). I pazienti con patologie reumatiche in trattamento con idrossiclorochina possono pertanto proseguire la terapia secondo le indicazioni del medico curante". Allo stesso modo vanno avanti gli studi clinici autorizzati nel nostro Paese sull'idrossiclorochina

Lo studio pubblicato da Lancet sull'uso dell'idrossiclorochina messo in discussione da 120 ricercatori. Articolo di “The Guardian” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 29 maggio 2020. Più di 120 ricercatori e medici di tutto il mondo – riporta The Guardian -  hanno scritto una lettera aperta al direttore di Lancet, sollevando serie preoccupazioni su un ampio e ampiamente pubblicizzato studio globale che ha spinto l'Organizzazione Mondiale della Sanità a fermare diversi studi clinici sul Covid-19. Giovedì scorso il Guardian Australia ha rivelato che i dati australiani dello studio, pubblicati la settimana scorsa, non si conciliavano con i dati del dipartimento sanitario. Lo studio ha rilevato che i pazienti affetti da Covid-19 che hanno ricevuto il farmaco antimalarico idrossiclorochina sono morti in percentuale più elevata e hanno sofferto di più complicazioni cardiache rispetto ad altri pazienti affetti dal virus. Il grande studio osservazionale ha analizzato i dati di quasi 15.000 pazienti con Covid-19 che hanno ricevuto il farmaco da solo o in combinazione con antibiotici, confrontando questi dati con 81.000 pazienti che non hanno ricevuto il farmaco. Domande sulla modellazione statistica del documento sono state sollevate anche dalla Columbia University negli Stati Uniti, spingendo Surgisphere, la società che gestisce il database dei pazienti utilizzati per formare lo studio, a rilasciare una dichiarazione pubblica a difesa dell'integrità dello stesso. Ma ora sono state sollevate ulteriori domande sulla banca dati Surgisphere e sulla metodologia di studio. I firmatari della lettera aperta, indirizzata a Lancet e agli autori dello studio, includono scettici sul valore dell'uso dell'idrossiclorochina per il trattamento di Covid-19. La lettera elenca 10 principali preoccupazioni circa l'analisi statistica e l'integrità dei dati dello studio. "Gli autori non hanno aderito alle pratiche standard della comunità di machine learning e di statistica", afferma la lettera. "Non hanno rilasciato il loro codice o i loro dati". "Non c'è stata una revisione etica", continua la lettera. "Non c'è stata alcuna menzione dei Paesi o degli ospedali che hanno contribuito alla fonte dei dati e nessun riconoscimento ai loro contributi". È stata negata una richiesta agli autori di informazioni sui centri che hanno contribuito. I dati provenienti dall'Australia non sono compatibili con i rapporti del governo. Surgisphere ha dichiarato che si è trattato di un errore di classificazione di un ospedale in Asia. Ciò indica la necessità di un ulteriore controllo degli errori in tutto il database". La lettera afferma anche che i dati provenienti dall'Africa nello studio indicano che quasi il 25% di tutti i casi di Covid-19 e il 40% di tutti i decessi nel continente si sono verificati negli ospedali associati a Surgisphere che avevano una sofisticata registrazione elettronica dei dati dei pazienti, e il monitoraggio dei pazienti. "Sia il numero dei casi e dei decessi, sia la raccolta dettagliata dei dati sembrano improbabili", dice la lettera. La lettera esprime anche preoccupazione per le variazioni insolitamente piccole delle variabili di base, degli interventi e dei risultati tra i continenti, nonostante le differenze demografiche significative. Al momento non ci sono forti e ripetute prove che qualsiasi farmaco sia efficace per il trattamento o la prevenzione di Covid-19. Ciò include l'idrossiclorochina, che è stata a lungo usata per la malaria e le malattie autoimmuni, ma il suo profilo di sicurezza e di danno per il trattamento di queste malattie è assodato. Non è ben compreso per il Covid-19. I governi di tutto il mondo hanno messo in guardia contro l'uso dell'idrossiclorochina per il trattamento o la prevenzione del virus, evidenziando gli effetti collaterali potenzialmente tossici del farmaco e il potenziale insorgere di anomalie cardiache. I ricercatori non chiedono l'interruzione degli studi clinici alla luce dello studio Lancet. C'è un consenso sul fatto che sono necessari studi più probanti per esplorare trattamenti che includano antibiotici, antivirali e antimalarici. "C'è un accordo uniforme sul fatto che sono necessari RCT ben condotti [prove di controllo randomizzate] ", hanno detto i firmatari della lettera a Lancet. Guardian Australia ha contattato Lancet, Surgisphere e gli autori dello studio per una risposta alle preoccupazioni delineate nella lettera. Il fondatore di Surgisphere, il dottor Sapan Desai, anch'egli autore su Lancet, ha dichiarato prima della pubblicazione della lettera di aver apprezzato "l'entusiasmo e la vivace discussione riguardo al nostro importante studio di registro osservazionale multinazionale pubblicato sulla rivista medica Lancet". "Apprezziamo le risposte estremamente lusinghiere che abbiamo ricevuto e le richieste di partnership basate sui dati, nonché i chiarimenti", ha detto. "Le analisi sono state eseguite con cura e le interpretazioni fornite sono state intenzionalmente misurate. Abbiamo studiato un gruppo molto specifico di pazienti ospedalizzati con Covid-19 e abbiamo affermato chiaramente che i risultati delle nostre analisi non devono essere sovra-interpretati a quelli che devono ancora sviluppare tale malattia o a quelli che non sono stati ospedalizzati. Abbiamo anche chiaramente delineato i limiti di uno studio osservazionale che non può controllare completamente gli aspetti di confusione non osservabili e abbiamo concluso che l'uso off label dei farmaci al di fuori del contesto di uno studio clinico non dovrebbe essere raccomandato".

Virus, il mistero sulla clorochina. Gli scienziati sbugiardano l'Oms. Oltre 120 scienziati criticano lo studio pubblicato su Lancet che ha spinto l'Oms a bloccare l'uso dell'idrossiclorochina contro il Covid-19. Tutti i dubbi. Giuseppe De Lorenzo Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. Che ci fosse qualcosa di strano si era capito dalla rapidità con cui l'Organizzazione mondiale della sanità si è scagliata contro l’uso della clorochina e dell’idrossiclorochina nella lotta contro il Covid-19. È bastata una ricerca pubblicata su Lancet per sospenderne l’uso nei trial clinici e spingere le autorità nazionali, da quella francese all’Aifa italiana, a seguire a ruota la decisione di Ginevra. Eppure non tutti sono propensi a demonizzare i farmaci anti-malarici. Nei giorni scorsi, ilGiornale.it vi aveva raccontato la perplessità di Luigi Cavanna, primario di oncologia e padre del “Metodo Piacenza”, sulla decisione dell’Oms. “Anche tanti medici l'hanno assunta - aveva detto - Non farà testo, ma vuol dire che credevano in questo farmaco. E poi ci sono centinaia se non migliaia pazienti che l’hanno presa". Nessuna complicanza particolare, un medicinale conosciuto “da decenni” e già utilizzato sia contro il lupus che l’artrite reumatoide, poco costoso (sarà un caso?) e a quanto pare in grado di spegnere l’infiammazione prodotta dal coronavirus. Insomma, un prodotto “molto più sicuro di quanto non si voglia far credere”. Presto Cavanna pubblicherà una ricerca per raccontare gli effetti dell’idrossiclorochina sui suoi pazienti e su quelli di altri ospedali italiani, anche per cercare di convincere l’Aifa a rivedere le proprie posizioni. Ma intanto ci si concentra sul perché, e su come, sia nata l’avversione dell’Oms contro il farmaco anti-malarico. Come detto il punto zero di questa vicenda è una ricerca pubblicata su Lancet che avrebbe rivelato “un aumento di rischio per reazioni avverse” su chi assume clorochina “a fronte di benefici scarsi o assenti” . "La prima osservazione è questa - aveva spiegato Cavanna - Lancet è certamente una rivista prestigiosa ed affidabile, tuttavia quello pubblicato è uno studio di registro. Ha cioè analizzato i dati di 671 ospedali di 6 continenti e valutato gli effetti del farmaco sui malati, però ha molti limiti dal punto di vista procedurale. In genere i governi e gli enti preposti si basano su studi randomizzati di fase 3 e da lì traggono conclusioni per mettere in commercio o meno un farmaco. E quello di Lancet non è uno studio randomizzato di fase 3”. Anche l’Aifa, nel comunicato in cui spiegava i motivi per cui si è adeguata alle scelte dell'OMS, ammetteva di trovarsi di fronte a “studi osservazionali o trial clinici di qualità metodologica non elevata”. Ma adesso ci sono anche 120 ricercatori e medici di tutto il mondo a criticare la ricerca in questione, dando spinta a chi invece vorrebbe continuare ad utilizzare il medicinale. Lo studio finito su Lancet ha osservato 15mila pazienti con Covid-19 che hanno assunto il farmaco, confrontandoli con oltre 81mila malati che invece non l’hanno ricevuto. Le conclusioni dicono che con la clorochina si muore di più e si rischiano complicazioni cardiache. Tuttavia già giovedì scorso il Guardian Australia aveva sottolineato che i dati pubblicati nella ricerca non combaciavano con quelli in possesso al dipartimento sanitario. Poi dalla Columbia University erano arrivate critiche alla modellizzazione statistica. E infine i 120 studiosi firmatari della lettera aperta a Lancet ora sollevano “preoccupazioni sia metodologiche che di integrità dei dati”. ”Gli autori non hanno aderito alle pratiche standard della comunità di machine learning e di statistica", si legge nella lettera. Le critiche sono queste: "Non hanno rilasciato il loro codice o i loro dati”; "Non c'è stata una revisione etica”; "Non c'è stata alcuna menzione dei Paesi o degli ospedali che hanno contribuito alla fonte dei dati e nessun riconoscimento ai loro contributi”. E poi non mancano dubbi sui dati dall’Africa, sulle dosi medie di idrossiclorochina somministrata (di 100mg superiori a quelle raccomandata dalla Fda, sebbene il 66% dei dati provengano da ospedali nordamericani), sui “rapporti non plausibili tra clorochina e idrossiclorochina in alcuni continenti” e su quegli intervalli di confidenza al 95% che appaiono “incompatibili con i dati”. Insomma: troppe incognite per uno studio che ha influenzato così tanto i media e le scelte di politica sanitaria mondiale, preoccupando - tra l’altro - anche i pazienti che partecipano agli studi randomizzati controllati. Non si può allora che tornare a quel dubbio sollevato da Cavanna, e cioè che sulla idrossiclorochina si stia giocando una partita più politica che medica. Non solo la decisione di Trump di assumerlo a scopo preventivo e le relative proteste degli anti-trumpiani. Ma anche il fatto che si tratta di un farmaco già conosciuto, e poco costoso. “In un sistema in cui tutto è basato sul costo - diceva l'oncologo - magari si spinge su farmaci che hanno un prezzo diverso...”.

Giuseppe Del Bello per repubblica.it il 5 giugno 2020. Idrossiclorochina "vietata": 140 medici insorgono e attaccano l'Aifa. Sì, poi no, adesso non si sa. Regna incertezza e serpeggiano le ipotesi più disparate (anche maligne per eventuali interessi commerciali) sul farmaco che, da decenni in uso per la profilassi della malaria e nel trattamento di patologie reumatologiche, si sarebbe dimostrato efficace a contrastare gli effetti del coronavirus. "Ma decidere se un protocollo terapeutico può essere prescritto o meno non è come sfogliare una margherita per sapere se lui o lei ti ama", premette Serafino Fazio, ex professore di Medicina interna alla Federico II di Napoli che, insieme ad altri colleghi, ha sottoscritto, mettendo con le spalle al muro l'Agenzia del Farmaco, la richiesta di "annullamento della nota del 26 maggio". La nota che sospese "l'autorizzazione  all'utilizzo dell'idrossiclorochina  per  il  trattamento  del Covid-19 al di fuori degli studi clinici".

L'istanza di revoca. Molto più di un appello. L'istanza dei camici bianchi (quasi tutti impegnati come medici di medicina generale nell'emergenza Sars-Cov2, soprattutto nel nord del Paese), redatta dagli avvocati Erich Grimaldi e Valentina Piraino e indirizzata al ministero della Salute oltre che all'Aifa, parte dalla confusione scaturita dalle possibili conseguenze negative dell'idrossiclorochina. E mira alla revoca della nota, per consentirne la prescrizione precoce sotto controllo medico.

La storia. Clinici e farmacologi sapevano che l'idrossiclorochina, come tanti altri della sua classe, va somministrato con cautela ai soggetti il cui elettrocardiogramma rivela il cosiddetto "tratto Qt" più lungo del normale. Un'anomalia (spesso genetica) che, se non monitorata durante il trattamento, può sfociare in un'aritmia cardiaca. Agli inizi della pandemia, tra i tanti farmaci già utilizzati per altre patologie, si iniziò a somministrare anche il Plaquenil (nome commerciale dell'idrossiclorochina). Il risultato si dimostrò spesso positivo: se assunto nei primi giorni dall'insorgenza dei sintomi, riusciva a bloccare la progressione della malattia e, soprattutto, a evitare la conseguenza peggiore, cioè l'approdo in Terapia intensiva.

I contrasti. La comunità scientifica subito si spaccò: da una parte i sostenitori della validità terapeutica ottenuta sui pazienti trattati, dall'altra gli scettici che esprimevano seri dubbi su casi ritenuti "aneddotici". Torto e ragione per entrambe le fazioni, di fatto l'idrossiclorochina sarà autorizzata dall'Aifa il 17 marzo, permettendo anche l'avvio della sperimentazione clinica e consentendo la somministrazione territoriale e ospedaliera. Poi, il putiferio. L'Oms, il 25 maggio, blocca di punto in bianco le sperimentazioni avviate sulla scorta di un articolo (autore Mandeep Mehra) che, pubblicato sulla prestigiosa rivista britannica The Lancet, sottolinea la pericolosità del farmaco, soprattutto dal punto di vista cardiologico. L'Aifa si allinea, si rifà alla rivista e, a sua volta, ne limita la somministrazione ai soli  studi già in corso, ma ne vieta la prescrivibilità: il medico che decidesse di somministrarlo se ne assumerebbe in proprio  la responsabilità.

Il dietrofront. Un alt dunque generale a cui però seguono vari dietrofront. In primis quello di Lancet che ritratta con un audit alcune discrepanze colte nel lavoro pubblicato in precedenza. Una marcia indietro, persino degli stessi autori dello studio che hanno chiesto nelle ultime ore di ritirarlo. Li segue a ruota l'Oms che riammette le sperimentazioni intraprese, mentre non recede dal suo veto l'Aifa. Un'intransigenza che fa esplodere la rabbia dei medici. Così scrivono nell'istanza: "Atteso il rilevante impatto che tale sospensione ha e potrebbe avere nella gestione dell'epidemia da Covid-19, alla luce dell'assenza di valide alternative terapeutiche, contestiamo la decisione adottata superficialmente e in contrasto con le preliminari evidenze scientifiche, tra cui i rilevanti dati  provenienti  dal  territorio  (Novara, Piacenza,  Alessandria, Milano e  Treviso)".

L'uso precoce è utile. Osserva Pietro Luigi Garavelli, direttore di Malattie infettive dell'ospedale universitario Maggiore della Carità di Novara: "Il Plaquenil si è rivelato efficace nel curare i pazienti nelle fasi inziali della malattia. Mi riferisco ai soggetti che da poco tempo presentano febbre accompagnata da tonsillite e/o tosse secca e/o dispnea e, talvolta, da diarrea. Non altrettanto efficace si è dimostrato nelle fasi più avanzate dell'infezione, quindi in pazienti ricoverati. Insomma, il Plaquenil è valido se somministrato all'inizio e non successivamente. Tra l'altro, sotto controllo del medico è un farmaco maneggevole che ci ha consentito di trattare i pazienti a domicilio, evitandone il ricovero e il tracollo del sistema sanitario. È questa la base del protocollo "Covid a casa" definito nell'alessandrino. Con la sospensione dell'Aifa è stata tolta un'alternativa. C'è il Remdesivir (circa 1000 euro a fiala, ndr), che inibisce alcuni meccanismi di replicazione del virus, ma è limitato all'uso ospedaliero, a pochi centri selezionati e non disponibile in grande quantità. Il meccanismo del Plaquenil? Da un lato rende l'ambiente cellulare ostile alla replicazione virale, dall'altro esercita un'azione immunomodulante, ben sapendo che gli effetti dell'infezione da Covid-19 in fase avanzata sono dovuti alla disregolazione del sistema immunitario". 

L'ipotesi. Secondo l'avvocato Grimaldi, la situazione potrebbe evolvere con un ricorso al Tar. "Alla luce della richiesta di revoca della sospensione all'utilizzo dell'idrossiclorochina e della contestuale istanza di accesso agli atti - dice - la decisione definitiva, in assenza di risposta dell'Aifa, potrebbe passare alla competenza del Tribunale amministrativo. Lo renderebbe possibile, in tempi brevi, proprio il passo indietro compiuto dall'Oms".

Idrossiclorochina, 140 medici contro Aifa. E Lancet ritira lo studio. Pubblicato giovedì, 04 giugno 2020 da Giuseppe De Bello su La Repubblica.it Tre degli autori del paper sul farmaco utilizzato anche per Covid-19 decidono di rivedere la loro posizione. Ma in Italia un gruppo di medici fa un'istanza legale all'Agenzia del farmaco per chiedere di poterlo utilizzare di nuovo per trattare la fase precoce della malattia. Idrossiclorochina “vietata”: 140 medici insorgono e attaccano l’Aifa. Sì, poi no, adesso non si sa. Regna incertezza e serpeggiano le ipotesi più disparate (anche maligne per eventuali interessi commerciali) sul farmaco che, da decenni in uso per la profilassi della malaria e nel trattamento di patologie reumatologiche, si sarebbe dimostrato efficace a contrastare gli effetti del coronavirus.  «Ma decidere se un protocollo terapeutico può essere prescritto o meno non è come sfogliare una margherita per sapere se lui o lei ti ama», premette Serafino Fazio, ex professore di Medicina interna alla Federico II di Napoli che, insieme ad altri colleghi, ha sottoscritto, mettendo con le spalle al muro l’Agenzia del Farmaco, la richiesta di “annullamento della nota del 26 maggio”. La nota che sospese “l’autorizzazione  all’utilizzo dell’idrossiclorochina  per  il  trattamento  del Covid-19 al di fuori degli studi clinici”.  L’istanza di revoca Molto più di un appello. L’istanza dei camici bianchi (quasi tutti impegnati come medici di medicina generale nell’emergenza Sars-Cov2, soprattutto nel nord del Paese), redatta dagli avvocati Erich Grimaldi e Valentina Piraino e indirizzata al ministero della Salute oltre che all’Aifa, parte dalla confusione scaturita dalle possibili conseguenze negative dell’idrossiclorochina. E mira alla revoca della nota, per consentirne la prescrizione precoce sotto controllo medico. 

La storia. Clinici e farmacologi sapevano che l’idrossiclorochina, come tanti altri della sua classe, va somministrato con cautela ai soggetti il cui elettrocardiogramma rivela il cosiddetto “tratto Qt” più lungo del normale. Un’anomalia (spesso genetica) che, se non monitorata durante il trattamento, può sfociare in un’aritmia cardiaca. Agli inizi della pandemia, tra i tanti farmaci già utilizzati per altre patologie, si iniziò a somministrare anche il Plaquenil (nome commerciale dell’idrossiclorochina). Il risultato si dimostrò spesso positivo: se assunto nei primi giorni dall’insorgenza dei sintomi, riusciva a bloccare la progressione della malattia e, soprattutto, a evitare la conseguenza peggiore, cioè l’approdo in Terapia intensiva. 

I contrasti. La comunità scientifica subito si spaccò: da una parte i sostenitori della validità terapeutica ottenuta sui pazienti trattati, dall’altra gli scettici che esprimevano seri dubbi su casi ritenuti “aneddotici”. Torto e ragione per entrambe le fazioni, di fatto l’idrossiclorochina sarà autorizzata dall’Aifa il 17 marzo, permettendo anche l’avvio della sperimentazione clinica e consentendo la somministrazione territoriale e ospedaliera.

Poi, il putiferio. L’Oms, il 25 maggio, blocca di punto in bianco le sperimentazioni avviate sulla scorta di un articolo (autore Mandeep Mehra) che, pubblicato sulla prestigiosa rivista britannica The Lancet, sottolinea la pericolosità del farmaco, soprattutto dal punto di vista cardiologico. L’Aifa si allinea, si rifà alla rivista e, a sua volta, ne limita la somministrazione ai soli  studi già in corso, ma ne vieta la prescrivibilità: il medico che decidesse di somministrarlo se ne assumerebbe in proprio  la responsabilità. Il dietrofront Un alt dunque generale a cui però seguono vari dietrofront. In primis quello di Lancet che ritratta con un audit alcune discrepanze colte nel lavoro pubblicato in precedenza. Una marcia indietro, persino degli stessi autori dello studio che hanno chiesto nelle ultime ore di ritirarlo. Li segue a ruota l’Oms che riammette le sperimentazioni intraprese, mentre non recede dal suo veto l’Aifa. Un’intransigenza che fa esplodere la rabbia dei medici. Così scrivono nell’istanza: “Atteso il rilevante impatto che tale sospensione ha e potrebbe avere nella gestione dell’epidemia da Covid-19, alla luce dell’assenza di valide alternative terapeutiche, contestiamo la decisione adottata superficialmente e in contrasto con le preliminari evidenze scientifiche, tra cui i rilevanti dati  provenienti  dal  territorio  (Novara, Piacenza,  Alessandria, Milano e  Treviso)”. 

L'uso precoce è utile. Osserva Pietro Luigi Garavelli, direttore di Malattie infettive dell’ospedale universitario Maggiore della Carità di Novara: “Il Plaquenil si è rivelato efficace nel curare i pazienti nelle fasi inziali della malattia. Mi riferisco ai soggetti che da poco tempo presentano febbre accompagnata da tonsillite e/o tosse secca e/o dispnea e, talvolta, da diarrea. Non altrettanto efficace si è dimostrato nelle fasi più avanzate dell’infezione, quindi in pazienti ricoverati. Insomma, il Plaquenil è valido se somministrato all’inizio e non successivamente. Tra l’altro, sotto controllo del medico è un farmaco maneggevole che ci ha consentito di trattare i pazienti a domicilio, evitandone il ricovero e il tracollo del sistema sanitario. È questa la base del protocollo “Covid a casa” definito nell’alessandrino. Con la sospensione dell’Aifa è stata tolta un’alternativa. C’è il Remdesivir (circa 1000 euro a fiala, ndr), che inibisce alcuni meccanismi di replicazione del virus, ma è limitato all’uso ospedaliero, a pochi centri selezionati e non disponibile in grande quantità. Il meccanismo del Plaquenil? Da un lato rende l’ambiente cellulare ostile alla replicazione virale, dall’altro esercita un’azione immunomodulante, ben sapendo che gli effetti dell’infezione da Covid-19 in fase avanzata sono dovuti alla disregolazione del sistema immunitario”.  

L’ipotesi. Secondo l’avvocato Grimaldi, la situazione potrebbe evolvere con un ricorso al Tar. “Alla luce della richiesta di revoca della sospensione all’utilizzo dell’idrossiclorochina e della contestuale istanza di accesso agli atti – dice - la decisione definitiva, in assenza di risposta dell’Aifa, potrebbe passare alla competenza del Tribunale amministrativo. Lo renderebbe possibile, in tempi brevi, proprio il passo indietro compiuto dall’Oms”.

Covid, duro colpo per l'Oms: cade lo studio anti clorochina. La rivista The Lancet prende le distanze dall'articolo che aveva portato l'Oms a interrompere gli studi clinici con l'idrossiclorochina contro il Covid-19. L'annuncio del direttore generale: riprenderà la sperimentazione. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. Ora cambia tutto. La ricerca pubblicata da Lancet sui possibili effetti collaterali della clorochina, lo studio che ha spinto l'Oms e l'Aifa a bloccarne l'uso, potrebbe avere "gravi questioni scientifiche" che ne fanno traballare il contenuto. La rivista medica, infatti, ha preso le distanze dall'articolo disponendo l'apertura di una revisione interna dai suoi stessi autori. E così, a poche settimane dall'annuncio sulla sospensione dei trial clinici, l'Oms fa marcia indietro e riprende la sperimentazione dell'idrossiclorochina per la cura del Covid-19.

Facciamo un passo indietro. La clorochina è un farmaco anti-malarico utilizzato già da tempo anche contro il lupus o l'artrite reumatoide. Quando è esplosa l'epidemia da coronavirus, in Italia - ma non solo - alcuni medici l'hanno applicata nella cura al Covid-19. A Piacenza, come raccontato dal Giornale.it, il dottor Luigi Cavanna l'ha somministrata ai pazienti che andava a visitare a domicilio. E i risultati, dice lui, sono più che confortanti: "Nessuno dei miei pazienti è morto". Una settimana fa però arriva una notizia che spiazza i tanti sostenitori del farmaco. Lancet pubblica uno studio secondo cui l'utilizzo della clorochina non solo non avrebbe benefici, ma potrebbe anche essere pericoloso a causa degli effetti a livello cardiaco. Insomma: aumenta il rischio di morte. L'Oms legge lo studio, lo fa suo e decide di sospendere il farmaco. Poi a cascata tutti gli enti regolatori fanno altrettanto. L'Aifa italiana si adegua e in una nota spiega che "nuove evidenze cliniche relative all’utilizzo di idrossiclorochina nei soggetti con infezione da SARS-CoV-2 (seppur derivanti da studi osservazionali o da trial clinici di qualità metodologica non elevata) indicano un aumento di rischio per reazioni avverse a fronte di benefici scarsi o assenti". Poco dopo, però, 120 scienziati e medici contestano la ricerca, indicando in una lettera al direttore di Lancet i diversi punti non chiari (leggi qui). Le critiche sono diverse, soprattutto a livello metodologico e di integrità dei dati: "Non hanno rilasciato il loro codice o i loro dati”; "Non c'è stata una revisione etica”; "Non c'è stata alcuna menzione dei Paesi o degli ospedali che hanno contribuito alla fonte dei dati e nessun riconoscimento ai loro contributi”; e via dicendo. Dunque il colpo di scena. Ieri la rivista medica ha lanciato una "expression of concern", cioè un avvertimento, sullo studio in questione. "Sono stati sollevati importanti quesiti scientifici riguardo ai dati riportati nell’articolo - si legge nel comunicato - Anche se è stato commissionato dagli autori non affiliati a Surgisphere un controllo indipendente sulla provenienza e la validità di questi dati (controllo che è in corso e i cui risultati sono attesi a breve) abbiamo voluto esprimere la nostra preoccupazione per avvisare i lettori che sono stati portati alla nostra attenzione seri interrogativi scientifici”. Non tutti però la ritengono una retromarcia sufficiente. "Non è abbastanza, abbiamo bisogno di una vera valutazione indipendente", scrive su Twitter il ricercatore James Watson, uno dei promotori della lettera aperta, come riporta l'Agi. Duro anche il commento del professor Stephen Evans, della London School of Hygiene and Tropical Medicine: "Vi sono dubbi sull’integrità dello studio Lancet. A posteriori, sembra che i responsabili politici abbiano fatto troppo affidamento su questo documento". Così alla fine il direttore generale dell'Oms è stato "costretto" al passo indietro: "Come sapete il gruppo esecutivo aveva sospeso il trial" ma "sulla base dei dati disponibili sulla mortalità, i membri del comitato hanno ritenuto che non vi siano motivi per modificare il protocollo di prova", ha spiegato. "Il comitato per la sicurezza e il monitoraggio dei dati continuerà a monitorare da vicino la sicurezza di tutti i trattamenti terapeutici".  

Davide Casati e Paola De Carolis per corriere.it il 4 giugno 2020. L’Oms e i governi di alcuni Paesi (tra cui la Francia) hanno cambiato la loro strategia sull’utilizzo dell’idrossiclorochina (un antimalarico scoperto negli anni Venti) sulla base di «vasti» studi pubblicati nei giorni scorsi da due autorevoli riviste scientifiche: The Lancet e il New England Journal of Medicine. In quegli studi, basati sui dati di «1500 pazienti in 1200 ospedali in tutto il mondo», si affermava che l’idrossiclorichina fosse associata con una mortalità più alta, tra i malati di Covid, e un aumento dei problemi cardiaci. Il quotidiano britannico Guardian ha però pubblicato oggi un’inchiesta che mette profondamente in dubbio l’origine di quegli studi: e cioè i dati raccolti da una piccola azienda con base a Chicago, Surgisphere, tra i (pochissimi) dipendenti della quale figurano una modella porno e un autore di fantascienza. In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta, entrambe le riviste scientifiche hanno pubblicato delle note che mettono in allerta i lettori, e che potrebbero portare al ritiro della pubblicazione. Oggi il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha annunciato di voler riprendere gli studi sul farmaco, dopo aver giorni fa bloccato il «braccio» del mega-trial «Solidarity» dedicato agli studi sull’idrossiclorochina. Sull’efficacia dell’idrossiclorochina - un inibitore dell’eme-polimerasi - contro il coronavirus, non ci sono dati conclusivi, e sono in corso studi (anche in Italia), sia sulla sua attività antivirale, sia come anti infiammatorio nelle fasi avanzate di Covid. Un nuovo studio svolto su 821 pazienti, pubblicato nella serata italiana e del quale parla il New York Times qui, dimostrerebbe come il farmaco non abbia in realtà alcuna funzione antivirale, cioè di prevenzione del virus. L’idrossiclorochina è diventata celebre per il grande pubblico grazie al presidente statunitense Donald Trump (che ne ha suggerito l’utilizzo ad ampio raggio e ha sostenuto di assumerla quotidianamente proprio in funzione antivirale, quella messa in discussione dallo studio pubblicato dal New York Times) e al medico francese Didier Raoult, tanto da diventare una sorta di farmaco-feticcio per i movimenti sovranisti. Secondo quanto scritto dal Guardian, la Surgisphere (il cui amministratore delegato Sapan Desai, citato in precedenza tre cause per negligenza, era co-autore degli studi pubblicati dalle riviste scientifiche, e la cui pagina Wikipedia è scomparsa dopo l’avvio dell’inchiesta da parte del Guardian) non è riuscita a spiegare né le clamorose discrepanze sui dati individuate dal Guardian Australia, né la metodologia utilizzata per il suo studio, che affermava di aver raccolto legittimamente dati da oltre mille ospedali in tutto il mondo. L’inchiesta del Guardian ha trovato che gran parte dei dipendenti della Surgisphere (sei, stando al profilo LinkedIn dell’azienda fino alla scorsa settimana: nei giorni scorsi, il numero è sceso a tre) hanno limitate competenze scientifiche: il loro «science editor» risulterebbe essere un autore di fantascienza, e una delle esperte di marketing è una modella porno e una hostess per eventi. Il link «come contattarci» sul sito della Surgisphere portava, fino allo scorso lunedì, alla pagina di un sito di criptomonete: e questo, scrive il Guardian, pone domande su come tanti ospedali in tutto il mondo siano riusciti a entrare in contatto rapidamente con l’azienda. L’errore che, per primo, ha fatto sospettare al Guardian che qualcosa, negli studi, non quadrasse, era relativo al numero di morti in Australia. Negli studi Surgisphere si riferiva a dati di «5 ospedali, su 600 pazienti, 73 dei quali deceduti». Ma fino al 21 aprile, data finale dello studio, i morti in Australia erano solo 67, secondo il report della Johns Hopkins University. Il Guardian ha a quel punto contattato cinque ospedali di Melbourne e due di Sydney, nessuno dei quali aveva mai sentito parlare di Surgisphere. Secondo Surgisphere, il suo database ha accesso ai dati di 96 mila pazienti in 1200 ospedali in tutto il mondo. Secondo esperti citati dal Guardian, ci sono moltissimi dubbi su quel database: anche perché, a fornire i dati alla Surgisphere, sarebbero stati gli ospedali, dopo aver anonimizzato i dati — una procedura non immediata, sulla quale gli istituti nazionali di statistica lavorano a lungo, e che gli ospedali stessi avrebbero, secondo Surgisphere, realizzato in momenti estremamente concitati (le ultime settimane) e in tempi estremamente rapidi. Nessuna informazione sul database è mai stata resa pubblica, finora: nemmeno i nomi degli ospedali coinvolti. «Con ogni probabilità», ha detto al Guardian Peter Ellis, capo dei data analyst dell’azienda di consulenza Nous Group, «quel database è una truffa».

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 4 giugno 2020. Idrossiclorochina sì, no, forse. Il farmaco antimalarico, usato come terapia contro l'artrite reumatoide, diventato rimedio miracolo ma discusso contro il Covid, resta al centro delle polemiche sanitarie globali. Dopo nove giorni di sospensione causa possibili rischi per il cuore, l'Oms ha deciso ieri sera di riabilitarlo e ha annunciato la ripresa dei test clinici. Meno di 24 ore prima è toccato a The Lancet fare un parziale - mea culpa: la rivista medica ha pubblicato sul suo sito una rara Avvertenza («Expression of concern») relativa all'articolo del 22 maggio che denunciava mortalità più alta e rischi collaterali gravi di aritmie cardiache sui pazienti trattati con idrossiclorochina. Era seguita la messa al bando del farmaco da parte dell'Oms (sospensione immediata del reclutamento di pazienti per gli studi clinici) e il divieto anche in Francia e in Italia. «Serie questioni scientifiche sono state sollevate sui dati su cui si basa l'articolo» scrive Lancet, annunciando uno studio indipendente di verifica dei dati i cui risultati «sono attesi a breve». In causa, una piccola società americana basata nell'Illinois, Surgisphere, che ha raccolto i dati clinici di 96 mila pazienti ricoverati per Covid in 671 ospedali nel mondo che hanno portato alla conclusione dell'inefficacia della molecola. Sono stati numerosi in questi giorni i medici, scienziati, epidemiologi ad aver espresso dubbi sulla serietà di Surgisphere, fondata e diretta dal chirurgo Sapan Desai, coinvolto in diverse inchieste per «cattiva pratica della medicina». Un'inchiesta del Guardian ieri solleva ulteriori interrogativi sulla serietà del lavoro di Surgishpere. La piccola struttura (la settimana scorsa riportava sei dipendenti, ieri ridotti a tre) avrebbe già prodotto una serie di studi «senza mai spiegare l'origine dei suoi dati né la metodologia utilizzata» che, secondo il giornale britannico, hanno ispirando la politica di «diversi paesi in America Latina». Stesse pecche sono state riscontrate nello studio sull'idrossiclorochina, in particolare gli osservatori dubitano che una struttura in cui figurano pochissimi dipendenti (tra i quali secondo il Guardian anche uno scrittore di fantascienza e una modella di siti hard) possa aver contattato centinaia di ospedali e aver ricevuto le autorizzazioni necessarie per recuperare i dati di migliaia di cartelle cliniche, senza nemmeno ottenere il consenso dei malati. Un duro colpo alla credibilità di The Lancet, e nuovi dubbi sulla gestione della crisi da parte dell'Oms, accusata di aver bandito con eccessivo entusiasmo l'idrossiclorochina soprattutto perché Donald Trump, che ha appena tagliato i fondi all'Organizzazione, ha personalmente pubblicizzato l'uso dell'antimalarico. Ieri il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha annunciato che «non c'è nessun motivo di modificare i protocolli dei test clinici» con l'idrossiclorochina, che quindi possono riprendere. La gestione dell'Oms è sotto accusa anche per il ritardo dell'allerta all'inizio della crisi, in gennaio. Ritardi che l'agenzia Associated Press ha attribuito - in base a documenti segreti pubblicati due giorni fa - alle gravi reticenze delle autorità cinesi e all'impossibilità dei funzionari dell'Oms di ottenere informazioni. Ieri la Cina ha respinto qualsiasi accusa. «Non so da dove vengano questi documenti interni, ma le storie riportate sono del tutto inconsistenti rispetto ai fatti» ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian, commentando l'inchiesta dell'AP. «La risposta della Cina al coronavirus ha aggiunto Zhao - è stata comunicata al mondo, con chiari dati e fatti che possono sfidare il tempo e la storia».

Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2020. Quali sintomi si sono trovati davanti i medici dell'ospedale militare Walter Reed National di Washington e quali terapie stanno aiutando il presidente Usa a rimettersi? Basandosi su quella che sembra la ricostruzione cronologica più veritiera e sulle dichiarazioni dello staff medico, Trump è arrivato in ospedale venerdì. Giovedì, dopo l'esito positivo del tampone, i sintomi erano stati una leggera tosse, congestione nasale e affaticamento. Il primo momento difficile sarebbe subentrato venerdì mattina, con febbre alta e saturazione dell'ossigeno scesa al di sotto del 94 per cento. Il presidente avrebbe avuto bisogno di ossigeno supplementare per circa un'ora, finché in serata si è deciso il ricovero. In ospedale la prima notte Trump ha ricevuto una dose di 8 grammi di un cocktail sperimentale di anticorpi e la prima dose di Remdesivir. Gli sono stati somministrati anche zinco, vitamina D, famotidina, melatonina e aspirina. Il Remdesivir è uno dei tre farmaci al mondo che si sono dimostrati scientificamente utili contro il Covid-19 (insieme a desametasone ed enoxaparina): è un antivirale nato contro Ebola, indicato in pazienti adulti con polmonite che richieda ossigenoterapia supplementare ed è in grado di impedire al virus di penetrare nelle cellule e di replicarsi. Il cocktail sperimentale di anticorpi Regeneron (REGN-COV2), prodotto di biotecnologie, è anch' esso uno dei candidati più promettenti: agisce attaccando il virus mentre è in circolo ed è indicato in una fase precoce della malattia. Sabato il livello di ossigeno nel sangue del presidente sarebbe sceso per la seconda volta sotto i valori di guardia. A questo punto, nella giornata forse peggiore per Trump, il presidente avrebbe ricevuto la seconda dose di Remdesivir e lo steroide desametasone. Proprio l'uso dell'ultimo farmaco ha destato qualche preoccupazione: il desametasone viene somministrato solo nelle situazioni più critiche perché il meccanismo di questo derivato del cortisone aiuta a bloccare la risposta abnorme del sistema immunitario nei confronti del SARS-COV-2, risposta che può arrivare a danneggiare i tessuti. Se somministrato in fase precoce, però, può interferire con un sistema immunitario ancora reattivo e impegnato a contrastare le prime fasi dell'attacco virale. Dalla serata di sabato le condizioni di Trump sono migliorate: niente febbre né supporto respiratorio e domenica il «blitz» in macchina all'esterno dell'ospedale per salutare i sostenitori. Lunedì il presidente si è svegliato presto e ha inondato Twitter di slogan elettorali con ritrovato vigore: in serata le dimissioni. 

Peter D'Angelo per “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2020. L'idrossiclorochina è il farmaco più discusso da inizio pandemia. In Italia è vietato da una delibera Aifa di maggio. Ma, a leggere l'ultima pubblicazione di uno dei più autorevoli ricercatori della Yale University Harvey Risch, si arriva a ben altra conclusione. Il Dr. Risch è uno degli autori di una meta-analisi scientifica che ha tenuto conto degli studi "randomizzati" sull'efficacia dell'idrossiclorochina. La "meta-analisi" ha un valore superiore rispetto a una singola ricerca perché riunisce più pubblicazioni scientifiche su un certo argomento e ne fa una "sintesi" ponderata. Ecco, combinando i dati di una serie di studi "randomizzati", i ricercatori hanno scoperto che l'uso "precoce" del farmaco da parte di persone non ospedalizzate ha prodotto una riduzione statisticamente significativa del 24% del rischio di infezione, ricovero o morte. Joseph Ladapo (School of Medicine della California, Los Angeles) è il coautore del rapporto che ha mostrato che ci sono «rischi ridotti con l'uso precoce di idrossiclorochina, questa è una prova estremamente importante». Il presidente Trump è stato curato con "anticorpi monoclonali, trattamento in fase sperimentale. Questi anticorpi non entreranno in produzione prima di 4-6 mesi, e difficilmente saranno servibili su larga scala. Al trattamento è stato aggiunto l'antivirale remdesivir e il desametasone, che si somministrano dopo la ospedalizzazione, in fase avanzata della malattia. Chi dovesse risultare positivo al Covid non potrà contare sul trattamento riservato al presidente Usa. Escludendo la pressoché totalità della popolazione dall'accesso immediato agli anticorpi monoclonali, è necessario puntare su strategie solide e fare i conti con farmaci precoci, come l'idrossiclorochina, che possono potenzialmente impedire il ricovero.  Il presidente della commissione tecnico scientifica di Aifa, la Dr.ssa Patrizia Popoli, intervistata da SanitaInformazione.it sull'efficacia dell'idrossiclorochina aveva replicato che «per poter rispondere in maniera adeguata alla domanda se questo farmaco è efficace nel trattamento di questa malattia servono studi clinici controllati (nei quali cioè gli effetti del farmaco vengano confrontati con quelli di un trattamento di controllo) e randomizzati (nei quali cioè l'allocazione dei pazienti nei due gruppi, farmaco sperimentale o controllo, avvenga in maniera casuale). Nel caso dell'idrossiclorochina nessuno dei pochi studi randomizzati fin qui condotti ha mostrato un beneficio del farmaco, mentre in alcuni casi è emersa addirittura un'evidenza di maggiore rischio». Ora la pubblicazione di questa meta-analisi può rappresentare un punto di svolta dal momento che si è tenuto conto di 5 studi clinici "randomizzati", con 5.577 pazienti coinvolti. Il Dr. Risch è chiaro: «Abbiamo scoperto che l'uso ambulatoriale dell'idrossiclorochina per la profilassi o il trattamento precoce di Cocid-19 ha ridotto significativamente il composto di infezione. La nostra meta-analisi ha rilevato un beneficio dal trattamento precoce. Il trattamento è più efficace se il decorso della malattia è appena agli inizi». Inoltre, una seconda meta-analisi è stata pubblicata su MedRxiv sempre su studi "randomizzati", questa volta sull'effetto "preventivo-profilattico" dell'idrossiclorochina. Il capo autore è Miguel A. Hernan della Harvard School of Public Health e arriva alla conclusione che «non si può escludere una moderata riduzione del rischio di Covid-19», insomma l'idrossiclorochina aiuterebbe nella profilassi anche perché potrebbe rendere asintomatica l'infezione acquisita. Questa conclusione ricalca quella di uno dei ricercatori più autorevoli dell'Istituto Superiore di Sanità, Andrea Savarino, che in tempi non sospetti aveva teorizzato attraverso un modello matematico che il farmaco, assunto in profilassi o precocemente, potesse attenuare l'infezione contratta.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Remdesivir, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non migliora le probabilità di sopravvivenza al Coronavirus. Non è la prima volta che il farmaco è sotto attacco. Già in aprile 2020 uno studio cinese pubblicato, si disserore, sul sito della Oms, aveva affondato il farmaco. Che invece risultava molto efficace anche nell’impiego in Italia. Ben noto è che sotto ci sono interessi miliardari e tutta la materia va presa con le molle. Questa volta a dare un giudizio negativo sul remdesivir è un ampio studio del World Health Organization (WHO) sul farmaco e altre tre terapie. Pronta la reazione dello NIH, National Institutes of Health, ente pubblico americano. Tra i pazienti che affermano di essere guariti grazie al Remdesivir c’è il presidente Usa Donald Trump. In Italia Berlusconi. Secondo uno studio patrocinato dal National Institutes of Health (NIH), i pazienti ospedalizzati con COVID-19 e curati con remdesivir avevano circa il 43% in meno di probabilità di morire per infezione rispetto a chi aveva assunto un placebo. La guarigione ha richiesto circa cinque giorni in più per i pazienti che non hanno ricevuto il trattamento antivirale, realizzato da Gilead. I test di Gilead hanno restituito dati altrettanto positivi.

LO STUDIO DELL’OMS. Torniamo allo studio della Oms. Secondo il Financial Times, in tutto il mondo più di 11.200 pazienti COVID-19 ospedalizzati hanno ricevuto cure con Remdesivir – un antivirale – lopinavir, idrossiclorochina, interferone o placebo per il vasto studio SOLIDARITY dell’OMS. Nessuno dei farmaci “ha avuto un impatto sostanziale” sui rischi di mortalità, ha rilevato il cupo rapporto. È un duro colpo alla speranza che il mondo stia migliorando nel curare i pazienti COVID-19. I risultati di SOLIDARITY sono una notizia particolarmente triste per gli Stati Uniti, dove il remdesivir è uno dei due soli trattamenti ad aver ottenuto l’autorizzazione di emergenza della Food and Drug Administration (FDA).

LA RICERCA DEL GOVERNO USA. La ricerca del governo degli Stati Uniti indica che il farmaco ha migliorato le probabilità di sopravvivere. E ha ridotto i tempi di guarigione. Il governo federale ha già accumulato una scorta del farmaco e a giugno le autorità di regolamentazione hanno revocato l’approvazione di emergenza per l’idrossiclorochina, un altro farmaco ritenuto inefficace dallo studio dell’OMS per il trattamento del coronavirus. I risultati dello studio SOLIDARITY non sono ancora pubblici o disponibili in peer review, ma il Financial Times ha ottenuto una copia dello studio. Ha scoperto che “questi schemi terapeutici con remdesivir, idrossiclorochina, lopinavir e interferone sembravano avere scarso effetto sulla mortalità negli ospedali”. Lo scopo di SOLIDARITY era testare gli effetti dei farmaci sulle probabilità di sopravvivenza dei pazienti con COVID-19, ma i ricercatori hanno anche fatto osservazioni sui tempi di recupero e di ricovero dei partecipanti. I quattro farmaci hanno fatto ben poco per abbreviare i tempi di guarigione o delle degenze ospedaliere, e i pazienti che hanno ricevuto i trattamenti non avevano meno necessità di ventilazione meccanica che li facesse respirare e mantenere in vita.

I PRIMI RISULTATI DEI TEST ERANO MOLTO PROMETTENTI. In effetti, i primi risultati dei test NIH erano molto promettenti. Al punto che Anthony Fauci, il massimo esperto in malattie infettive degli Stati Uniti, alla fine di aprile – il primo picco di casi positivi negli USA –  interruppe la sperimentazione alla fine di aprile così che anche i partecipanti del gruppo placebo potessero ricevere la cura. Il 1 ° maggio, la FDA ha rilasciato l’autorizzazione di emergenza (EUA) per l’utilizzo del remdesivir. Con la revoca dell’EUA dell’idrossiclorochina e il diffuso scetticismo sull’efficacia del plasma convalescente – comprese le domande del direttore del National Institutes of Health, Francis Collins – Remdesivir è stato senza dubbio il miglior trattamento negli Stati Uniti. (Fonti: Nih e Cnn)

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 23 ottobre 2020. Remdesivir approvato negli Usa per curare il Covid. La notizia dell’approvazione è arrivata dal produttore del farmaco, Gilead Sciences, che lo ha pubblicizzato come il primo trattamento per il coronavirus a ottenere il pieno via libera dell’agenzia.

Remdesivir ora si chiamerà Veklury. “Veklury”, il nome commerciale del remdesivir, è stato al centro dell’attenzione quando il presidente Trump, tre settimane fa risultato positivo, ha ricevuto un ciclo di cinque dosi. Il farmaco viene somministrato per via endovena per cinque giorni ed è stato inizialmente sviluppato da Gilead per combattere l’ebola. Tuttavia un recente studio clinico in fase preliminare condotto dall’Organizzazione mondiale della sanità ha rilevato che remdesivir non ha avuto alcun effetto sostanziale sulla sopravvivenza dei pazienti COVID-19. La FDA ritiene che il farmaco abbia comunque ridotto i tempi di guarigione in media di 5 giorni.

50 Paesi del mondo hanno approvato l’uso del farmaco. Secondo quanto riportato dal New York Post e affermato da Gilead, circa 50 paesi in tutto il mondo hanno approvato l’uso di remdesivir. Trump si è ripreso dopo tre giorni al Walter Reed Naitonal Military Medical Center. Oltre a remdesivir, ha ricevuto come cura un cocktail di anticorpi monoclonali sperimentali, e desametasone. (Fonte: New York Post)

Da leggo.it l'11 dicembre 2020. La III Sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio scorso di AIFA che vietava la prescrizione off label (ossia per un uso non previsto dal bugiardino) dell' idrossiclorochina per la lotta al Covid. «La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa AIFA a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nell'ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale». Gli appellanti, nella loro qualità di medici che avevano sino a quel momento prescritto l'idrossiclorochina ai pazienti, hanno proposto ricorso contro la nota di AIFA sostenendo in sintesi che l' idrossiclorochina, sulla base di studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate, sarebbe efficace nella lotta contro il virus, censurando il difetto di istruttoria che inficerebbe le determinazioni di AIFA, e hanno lamentato la lesione della loro autonomia decisionale, tutelata dalla Costituzione e dalla legge, nel prescrivere tale farmaco sotto la propria responsabilità, ai pazienti non ospedalizzati che acconsentano alla sua somministrazione per la cura domiciliare del SARS-CoV-2. Nella prima fase della pandemia AIFA, così come del resto altre Agenzie nazionali europee ed extraeuropee, ha inizialmente consentito all'utilizzo off label - e, cioè, al di fuori del normale utilizzo terapeutico già autorizzato - dell'idrossiclorochina e ha reso prescrivibili a carico del Servizio Sanitario Nazionale alcuni farmaci, tra i quali la clorochina e, appunto, l'idrossiclorochina. Ma successivamente AIFA ha disposto la sospensione dell'autorizzazione all'utilizzo off label dell' idrossiclorochina per il trattamento del Sars-Cov-2, se non nell'ambito di studi clinici controllati, e la sua esclusione dalla rimborsabilità a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla base di questa determinazione AIFA ha posto alcune evidenze sperimentali che avrebbero rivelato un profilo di efficacia assai incerto del farmaco nel contrasto al virus e un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi. «La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia - si legge nell'ordinanza del Consiglio di Stato - deve essere rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico» «in scienza e coscienza» e con l'ovvio consenso informato del singolo paziente. Rimane fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L'ordinanza - è la n.7097/2020 ed è stata pubblicata oggi - precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di AIFA di escludere la prescrizione off label dell' idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità

Covid, via libera all'idrossiclorochina: "Irragionevole vietarne l'uso". Colpo di scena in Italia: il Consiglio di Stato accoglie il ricorso dei medici di base. "Dati clinici non univoci". Ma non può essere rimborsato. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Colpo di scena. Esultano i medici che da tempo sostengono l'uso dell'idrossiclorochina contro la malattia Covid-19. Il Consiglio di Stato, infatti, ha accolto il ricorso di alcuni medici contro la decisione dell'Aifa di vietarne la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino. Il medicinale finito al centro della polemica politica per "colpa" di Trump, Bolsonaro e (soprattutto) dei loro detrattori rientra in campo dalla finestra dopo essere stato messo alla porta senza tanti complimenti. Una decisione, quella dell'Aifa, che aveva diviso (e che ancora divide) la comunità scientifica tra chi ritiene l'Hcq pericolosa e chi la considera una valida arma contro il coronavirus. L'ordinanza del Consiglio di Stato, la numero 7097/2020, è stata pubblicata questa mattina ed è destinata a far discutere. Per i giudici amministrativi l'idrossiclorochina può essere usata come terapia per Covid-19, previa prescrizione di un medico e comunque, come previsto dall'Aifa, senza la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. La III Sezione ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio del 2020 con cui l'Aifa aveva impedito ai medici di prescrivere l'Hcq al di fuori degli studi clinici autorizzati dall'Ente. "La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nella corposa ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti". E ancora: "La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico in scienza e coscienza". Ovviamente ci deve essere il consenso informato del paziente e il medico deve monitorare il progresso clinico: ma non può essere vietato. La battaglia su questo farmaco è ormai di vecchia data. Come raccontato nel Libro nero del coronavirus, tra i primi ad utilizzarla fu Luigi Cavanna, primario di oncologia e padre del "Metodo Piacenza", decantato anche dai media stranieri. L’Hcq contro il Covid ha dimostrato di funzionare - ci raccontò - Anche tanti medici l'hanno assunta. Non farà testo, ma vuol dire che ci credevano. E poi ci sono centinaia se non migliaia di pazienti che l'hanno presa e sono guariti”. Per un certo periodo l'Aifa ha dato il via libera all'uso dell'Hcq a discrezione dei medici, autorizzando pure il rimborso da parte del Ssn. In fondo si tratta di un farmaco già usato contro diverse malattie. E costa pochissimo. Oggi però la molecola antimalarica è osteggiata e motivo di scontro sia medico che politico. Dopo uno studio pubblicato su Lancet sui rischi cardiaci e l'aumento di mortalità (poi ritirato con non poco inbarazzo), lo scorso maggio sia l'Oms che le agenzie del farmaco mondiali ne hanno sospeso l'utilizzo. Diversi medici ritengono che sul tema non ci sia un sereno dibattito scientifico, probabilmente anche per colpa delle prese di posizione di leader mondiali: diventato il farmaco "sovranista", è stato fatto quasi di tutto per dichiararlo inutile. "Purtroppo gli editori di riviste importanti sono molto riluttanti a pubblicare qualcosa di positivo sull’idrossiclorochina (chiamo questa riluttanza effetto Trump-Bolsonaro), mentre pubblicano immediatamente anche paper deboli quando non funzionano”, disse Antonio Cassone, già direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss e membro dell’American Academy of Microbiology. Certo sull'efficacia dell'idrossiclorochina i dubbi permangono. Alcuni studi randomizzati realizzati, tra cui il "Solidarity" dell'Oms, non hanno trovato effetti benefici, sottolineando pure "un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi". Per L'Aifa alla base della decisione di bloccare l'Hcq ci sono "evidenze sperimentali, emergenti dagli studi clinici randomizzati e controllati", ma diversi medici ritengono che ancora non si sia arrivati all'ultimo capitolo. “Questi trial - disse Cassone - hanno usato dosi alte di Hcq nell’idea che queste dosi fossero quelle giuste per una diretta attività antivirale”. I favorevoli all'Hcq ritengono infatti che puntando sulla capacità anti-infiammatoria e anti-trombotica del farmaco sia sufficiente usare una dose inferiore, incapace di provocare controindicazioni. A quelle dosi uno studio dell'European Journal of Internal Medicine riteneva che l'Hcq potesse ridurre il rischio morte per Covid del 30%. Chi ha ragione? Il Consiglio di stato, va detto, non dà una risposta a questa domanda. I giudici si sono solo espressi sul ricorso presentato da un folto gruppo di medici di base che "nella prima fase della pandiemia" hanno "esercitato la loro attività somministrando" ai pazienti l'Idrossiclorochina. "Da decenni - si legge nell'ordinanza - l’Hcq viene usata non solo per curare la malaria, ormai debellata in Italia, ma contro l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso in virtù della sua efficace azione di riduzione dei livelli di anticorpi fosfolipidi, tanto da essere somministrato in Italia a circa 60.000 pazienti affetti da tali malattie autoimmuni". I ricorrenti ritengono che le decisioni dell'Aifa siano superate da "studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate" e che sia stata lesa la loro autonomia decisionale "nel prescrivere tale farmaco, in scienza e coscienza sotto la propria responsabilità" ai pazienti che acconsentono a farsi curare così. Le toghe danno loro ragione: via libera dunque all'uso dell'idrossiclorochina.

Una decisione che scatena polemiche. Idrossiclorochina, il Consiglio di Stato "sospende" l’Aifa e da l’ok al farmaco contro il Coronavirus. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Una decisione destinata a scatenare sicure polemiche. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera all’uso dell’idrossiclorochina per la cura del Covid-19, solo su prescrizione e non rimborsabile. La terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio 2020 di Aifa che vietava la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino, dell’idrossiclorochina per la lotta al Covid 19. Si legge nell’ ordinanza che “la perdurante incertezza circa l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell’ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati, non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti”. “La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica – è scritto nell’ordinanza – sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico“, “in scienza e coscienza” e con l’ovvio consenso informato del singolo paziente. Fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L’ordinanza precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di Aifa di escludere la prescrizione off label dell’idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità.

LE DIVISIONI SUL FARMACO – Lo sblocco dell’idrossiclorochina sancito oggi dal Consiglio di Stato riapre il dibattito sul farmaco e sui metodi scientifici per contrastare il virus. L’idrossiclorochina, va ricordato, è un farmaco genericamente utilizzato nel trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso discoide e disseminato. Tra i primi sponsor del suo utilizzo contro il Covid-19 c’era stato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un entusiasmo che non aveva trovato grande sponda nella comunità scientifica, con più studi che avevano in realtà evidenziato i suoi effetti minimi, se non nulli o dannosi, contro il Coronavirus. Recentemente anche l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha pubblicato uno studio in cui “boccia” l’utilizzo del farmaco contro il virus, mentre a luglio l’Aifa ne aveva sospeso l’autorizzazione “per il trattamento dell’infezione da Sars-CoV-2, al di fuori degli studi clinici, sia in ambito ospedaliero che in ambito domiciliare”. La decisione odierna del Consiglio di Stato ha provocato la reazione contrariata di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che su Twitter ha attaccato la decisione dei giudici: “Idrossiclorochina: le evidenze confermano che il profilo rischio-beneficio nella Covid-19 è sfavorevole, le linee guida e le autorità sanitarie raccomandano contro il suo utilizzo, il Consiglio di Stato sovverte la scienza”. Di tutt’altro parere uno sponsor "nostrano" del farmaco, il segretario della Lega Matteo Salvini, secondi cui il sì del Consiglio di stato “è una notizia che molti medici stavano attendendo. Tra gli altri, ricordiamo il dott. Luigi Cavanna che a Piacenza somministrando precocemente questo farmaco ha trattato con successo molti pazienti affetti da Covid, casa per casa, riducendo gli accessi all’ospedale e guadagnandosi anche fama internazionale per il suo impegno medico e umano”.

Così l’idrossiclorochina finisce al Consiglio di Stato. Gioia Locati il 7 dicembre 2020 su Il Giornale. Cos’è l’idrossiclorochina? Fa bene o fa male? Come si affronta oggi il Covid? Ci si può curare a casa? Proviamo a rispondere con l’aiuto di un medico, l’oncologo e professore Luigi Cavanna, che ha seguito centinaia di malati di Covid, trattandoli con questo farmaco al loro domicilio. Da maggio però non si può più prescrivere né somministrare idrossiclorochina (vedremo perché). Il 10 dicembre il Consiglio di Stato si esprimerà sull’esposto presentato da alcuni medici che chiedono il via libera al farmaco e di poter prescrivere in scienza e coscienza. 

L’ antefatto. L’idrossiclorochina si usa da oltre 50 anni per curare la malaria e alcune malattie autoimmuni. Per le sue proprietà immunomudulanti, anti trombotiche e anti virali è stata impiegata anche per contrastare alcune importanti infezioni, dall’HIV all’Ebola, dalla Sars alla Mers. Costa poco. Durante la prima ondata del Sars-Cov-2, l’idrossiclorochina era presente nelle linee guida dei Paesi occidentali colpiti dall’infezione (approvata, dunque, anche da Aifa ed Ema) per trattare i malati, sia in ospedale che a domicilio. A maggio però esce uno studio su Lancet – rivelatosi poi fallace – che richiama le attenzioni delle agenzie regolatorie. Si afferma che l’idrossiclorochina era stata causa di un aumentato numero di decessi, a riprova si millanta l’analisi di 96mila cartelle di pazienti in 970 ospedali nel mondo. Ma, a una prima seria verifica, le basi di quel lavoro, crollano. Nessuno aveva esaminato quelle cartelle e la società che eleborò i dati falsi finì indagata. Cliccate qui. Tuttavia l’idrossiclorochina è rimasta inaccessibile ai malati di Covid. Sospesa la somministrazione nei Paesi occidentali già a poche ore dalla pubblicazione dello studio fallace. A giustificazione, oggi, Aifa cita la posizione dell’OMS che “per prudenza ne ha sospeso i trial”. Sarebbe pericolosa per il cuore e potrebbe aumentare i decessi. La situazione oggi. In mezzo mondo, i medici che, nei mesi di marzo aprile hanno trattato i malati con quel farmaco, hanno raccolto e pubblicato i loro dati. Secondo chi l’ha prescritta, “soprattutto nei primi giorni di malattia”, l’idrossiclorochina ha contribuito a contenere i decessi. Sono stati fatti numerosi confronti sia con con gruppi di pazienti ricoverati sia con chi si è curato a domicilio. Qui uno studio osservazionale belga su 8.075 partecipanti. Si sono poi studiati i decorsi dei pazienti che non hanno usato quel farmaco e si è giunti alle conclusioni che sintetizza Luigi Cavanna, oncologo, primario all’ospedale di Piacenza e ricercatore: “La mia esperienza con l’impiego di quel farmaco è più che buona, ho seguito personalmente a casa oltre 300 malati, dei quali il 30 per cento con forme severe e un altro 30 per cento con forme moderate. Di questi nessuno è morto e i ricoverati sono stati meno del 5 per cento”. E poi. “Mi sono sentito ringraziare con queste parole, ‘dottore, stavo così male che pensavo di non farcela, dopo 3 giorni di terapia la mia vita è cambiata”. Lo staff del professor Cavanna ha raccolto i dati in due pubblicazioni sui malati di tumore che hanno avuto il Covid e un terzo lavoro verrà spedito nei prossimi giorni per essere pubblicato. Intanto, altre ricerche sono state pubblicate, dapprima una metanalisi, ossia una summa di 26 studi che riferiscono dell’impiego di idrossiclorochina su 44.521 malati di Covid e che mostrerebbero una riduzione di mortalità con il farmaco a basse dosi. Cliccate qui. Poi un altro lavoro tutto italiano che riunisce le esperienze di 33 ospedali della Penisola in uno studio osservazionale multicentrico che trovate qui. Sono stati seguiti i decorsi di 3.451 pazienti non selezionati, ricoverati dal 19 febbraio al 23 maggio. Ed è emersa una mortalità ridotta del 33% in chi ha usato quel farmaco. In luglio, 13 Regioni italiane hanno chiesto di poter usare l’idrossiclorochina off label nei trattamenti domiciliari, cliccate qui. Ma Aifa è rimasta ferma sulla sua posizione. Nel frattempo ci sono stati ricorsi al Tar e si attende il verdetto del Consiglio di Stato del 10 dicembre.

Per l’Ema è un farmaco che “se preso in dosi elevate induce al suicidio”. Il 30 novembre Ema pubblica una nota. Si dice che “a seguito di una revisione dei dati sono emersi 6 casi di disturbi psichiatrici in pazienti Covid a cui erano state somministrate dosi di idrossiclorochina superiori a quelle autorizzate”.

Professor Cavanna ha osservato anche lei la tendenza al suicidio? “Qualsiasi farmaco preso a dosi da cavallo fa male…che dico farmaco, anche la pastasciutta…Penso che ci si debba avvicinare ai dati con umiltà e senza pregiudizi. Invito a guardare a ogni terapia in termini di costi e benefici, tenendo presente gli effetti collaterali e la situazione di ciascuno. A Piacenza ci sono stati oltre 900 morti nella prima ondata, in quel periodo, dei pazienti che noi seguimmo a domicilio trattati con idrossiclorochina – all’incirca 300 – i ricoveri sono stati inferiori al 5% e nessuno è morto”.

Per quanti giorni va somministrata l’idrossiclorochina? 

“Per una settimana, non di più. Si ottenevano miglioramenti dopo due-tre giorni. Abbiamo osservato che è importante dare il farmaco ai primi sintomi, ed è sufficiente un basso dosaggio”.

Cosa pensa del fermo divieto delle agenzie regolatorie?

“Che per onestà sia necessario spiegare ai pazienti che hanno ricevuto l’idrossiclorochina nei primi mesi e sono guariti che cosa è successo; se hanno rischiato, che cosa hanno rischiato, e come hanno fatto a rimettersi in piedi. Una spiegazione è dovuta. Prima il farmaco era ammesso e lo è stato per tre mesi, ora è vietato. Perché Aifa non va vedere come stanno queste persone?”.

Aifa sostiene che non esistono studi randomizzati sui pazienti Covid.

“Abbiamo molti dati, non solo noi di Piacenza, ma da tutta Italia, penso alla provincia di Alessandria, a Novara, a Milano, e a Bologna. Sono stati pubblicati gli studi osservazionali (vedi sopra), una metanalisi che mostra la riduzione di mortalità su 40mila malati. Questi report vanno messi sul tavolo. Si tratta di  uomini e donne, non di esperimenti in vitro. Sono un sostenitore dello studio randomizzato (si dividono i pazienti in due gruppi omogenei, a uno si somministra la miglior cura esistente più il farmaco da testare, all’altro la miglior cura più il placebo) ma lo studio è sempre un mezzo, non un fine. I malati bisogna guardarli in faccia e, in mancanza di studi randomizzati utilizzare farmaci di provata efficacia ‘sul campo’, di facile somministrazione, di costo contenuto e con pochi effetti collaterali.

Cosa farebbero all’Aifa se qualcuno di loro o dei loro familiari si ammalasse di Covid e si ritrovassero con una febbre alta che non passa dopo tre giorni, tosse e fiato pesante? Si accontenterebbero dell’antipiretico e del saturimetro (sono le indicazioni per curarsi a casa) aspettando forse di peggiorare per essere ricoverati d’urgenza? È come se misurassimo la pressione alta senza dare alcun farmaco ma consigliando di tenere a casa l’apparecchio per la pressione…”

Il Covid si può curare a casa?

“Assolutamente sì, la cura precoce, fatta cioè nei primi giorni di febbre alta, tosse e affanno, consente ai pazienti di evitare il ricovero in ospedale e di guarire. La mia esperienza coincide con quella di centinaia di medici in Italia e migliaia nel mondo che hanno curato a casa i pazienti”.

Cosa prendere ai primi sintomi?

“Chi non ha sintomi o ne ha pochi non deve fare nulla, isolarsi con le precauzioni per non infettare gli altri. Chi ha sintomi può assumere un antinfiammatorio. Se sopraggiunge tosse o se la febbre non passa in 24-30 ore bisogna rivolgersi al medico di famiglia che può attivare le Usca, Unità mediche territoriali che, a domicilio, possono visitare, fare un’ecografia ai polmoni, fare un tampone e valutare il livello dell’ossigeno” (nel Piacentino funziona così).

Insomma, è importante agire subito?

“Sì. Durante la pandemia abbiamo visto arrivare in ospedale persone con alle spalle 10 e più giorni di febbre, tosse, dispnea, non va bene”.

Ma oltre all’antinfiammatorio? Antibiotico o cortisone?

“Decide il medico. Se c’è il sospetto che l’infiammazione abbia intaccato i polmoni l’antibiotico va consigliato. Il cortisone va dato non subito ma nei giorni successivi per evitare il picco infiammatorio. L’eparina se il paziente è allettato o fatica a muoversi. Fondamentale è misurare la saturazione di ossigeno”.

Come mai un oncologo cura i malati di Covid a domicilio?

“L’oncologo ha come background culturale la presa in carico del malato, lo segue nel suo percorso di cura e nei successivi controlli fino alla guarigione o alle cure palliative. Ricordo un paziente che ci disse che avrebbe dovuto interrompere la terapia perché il figlio non lo poteva più accompagnare in ospedale poiché avrebbe rischiato di perdere il lavoro. Era 20 anni fa. Decidemmo di istituire una rete territoriale che funziona ancora oggi: nelle zone senza ospedale ci sono i nostri presidi, portiamo le cure oncologiche vicino al domicilio del paziente e siamo stati i primi in Italia a eseguire le terapie nella Casa della Salute, in una vallata del Piacentino priva di ospedali”.

Con l’inizio del Covid vi siete comportati così?

“Un nostro paziente, malato di tumore, ci avvisò di avere tosse e febbre. Siamo andati a domicilio. È cominciata così…Poi sono stati trattati tanti altri malati, anche, e soprattutto, non oncologici”.

Guariti con idrossiclorochina?

“Esattamente”.

Oggi in ospedale a Piacenza avete tanti malati Covid?

“Molti meno che a marzo, grazie anche alla nostra rete di assistenza domiciliare”.

Ora cosa farete?

“Cercheremo di convincere Aifa a cambiare le linee guida con la forza degli argomenti ma anche con la determinazione che ci trasmettono i malati”.

Ci sono speranze?

“C’è un assoluto bisogno di cure precoci. Ci sono tanti dati, c’è un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Armando Siri che ha a cuore la nostra causa e c’è il Consiglio di Stato”.

Siri: “I farmaci anti-covid fanno paura a chi fa business sulla salute dei cittadini”. Rec News, direttore Zaira Bartucca 1 Dicembre 2020. Il senatore: “Ci si inventa di tutto per non utilizzarli. In atto propaganda strumentale, i medici hanno già salvato un sacco di vite” Idrossiclorochina a 6 euro funziona e fa paura a chi specula e fa business sulla salute dei cittadini. Così, pur di evitare che si utilizzi sui pazienti, ci si inventa qualunque cosa per screditarla. Pongo in premessa che personalmente non ho alcuna passione per l’Idrossiclorochina e che, per me, qualunque farmaco che si riveli utile per la cura a casa dei pazienti dovrebbe avere attenzione e la giusta considerazione da parte delle Autorità Sanitarie, soprattutto se sono i medici a chiederlo”. Mi limito a rilevare il dato, ovvero: il Dottor Cavanna, medico Primario all’Ospedale di Piacenza e con lui la Dottoressa Paola Varese Primario ASL di Alessandria, il Dottor Luigi Garavelli Primario Malattie Infettive Ospedale di Novara e centinaia di altri medici del Territorio hanno salvato centinaia di pazienti curandoli a casa con questa medicina, eppure hanno contro quasi tutta la comunità scientifica e i cosiddetti organi di “controllo” statali che si rifiutano di leggere gli studi nazionali e internazionali sull’efficacia del farmaco (che io ho letto) e insistono con una propaganda strumentale e vergognosa per delegittimarne l’utilizzo. L’ultima trovata propagandistica è quella dell’EMA, l’Agenzia Europea per i medicinali (sostanzialmente la sorella europea dell’AIFA nazionale), che guarda caso, proprio mentre 13 Regioni Italiane chiedono la ripresa dei protocolli sperimentali per le cure domiciliari con Idrossiclorochina, fa uscire una notizia in cui afferma che il farmaco è pericoloso per la salute mentale. Dunque, se quello che EMA afferma fosse vero ne conseguirebbe che tutti i reumatologi del mondo dovrebbero immediatamente sospendere la somministrazione di Idrossiclorochina che da più di 50 anni prescrivono ai loro pazienti visto che l’EMA dice che altrimenti si suicideranno. I medici non hanno mai avuto evidenza di questo grave effetto collaterale? Beh, non importa, vuol dire che non saranno stati attenti. Ora (proprio perché si è scoperto che l’idrossiclorochina è efficace per curare il COVID-19) guarda caso emerge che 6 persone che prendevano il farmaco si sono suicidate (non sappiamo niente di loro, ovvero ad esempio se avessero già problemi psichiatrici). Sappiamo però che hanno abusato del farmaco prendendo dosi superiori a quelle consigliate. E questa vi pare una notizia? Sei persone dal quadro clinico sconosciuto abusano di un farmaco, si suicidano e la colpa è del farmaco? Un farmaco che prendono ogni giorno milioni di persone a cui non è mai successo nulla di tutto questo? Certo che bisogna proprio essere dei mascalzoni, oppure davvero in malafede, per fare una propaganda così smaccatamente strumentale contro una medicina solo perché si è dimostrata, se assunta a basse dosi e all’insorgenza dei sintomi, uno strumento efficace per curare a casa il COVID-19 e costa solo 6 euro. Come si fa ad accettare che Enti istituzionali, che nella coscienza collettiva godono di autorevolezza scientifica, si approfittino della buona fede dei cittadini per diffondere storie artefatte come quella sulla pericolosità psichiatrica di un farmaco che viene utilizzato da 50 anni per la cura di artrite reumatoide e altre importanti malattie del sistema immunitario? Tra l’altro, non si vuole evidenziare che il Trattamento per il COVID-19 è molto breve (massimo una settimana e a dosi molto più basse di quelle già oggi consentite). Possibile che nessun organo di controllo etico della comunità scientifica sollevi il caso? Dov’è finita la serietà di una categoria che fa un giuramento solenne “di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento”? Lo ripeto ancora: il Ministero della Salute e AIFA concedano la possibilità a tutti questi medici che lo chiedono, di poter riprendere la sperimentazione, con tutti i dovuti controlli e verifiche. Perché non si può negare una cura ritenuta efficace dai medici sul campo solo sulla base di storie rivelatesi false come il famoso studio di The Lancet, o suggestioni ai limiti del ridicolo come questa di EMA. Curare a casa il COVID-19 significa scongiurare l’affollamento degli Ospedali e dunque la necessità di DPCM che stanno, questi sì, incidendo negativamente sulla socialità e sulla salute mentale degli individui producendo danni incalcolabili al lavoro e all’economia”.

I medici: «Useremo la clorochina». Parte la raccolta firme per l'Aifa. Elisabetta Burba su Panorama.it il 16 Ottobre 2020. Panorama lancia una petizione per chiedere all'Agenzia del farmaco di ripristinare l'uso dell'idrossiclorochina, l'unico farmaco anti-Covid disponibile sul territorio. Altrimenti, con un atto di disobbedienza civile, un gruppo di medici la prescriverà comunque. Per non abbandonare i pazienti e tener fede al giuramento di Ippocrate. Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come l'Italia si sta preparando ad affrontare la seconda ondata di Covid 19. L'inchiesta è pubblicata in tre puntate a partire dal 13 ottobre.

Prima puntata: La Cenerentola della lotta contro la pandemia.

Seconda puntata: La medicina territoriale priva di strumenti diagnostici e terapeutici.

Terza puntata: La disobbedienza civile dei medici di famiglia.

«Prescriveremo l'idrossiclorochina nonostante il divieto dell'Aifa. L'abbiamo già somministrata a marzo senza autorizzazione. A maggior ragione lo faremo adesso, visti i buoni risultati ottenuti da noi e da tanti altri colleghi, comprovati da vari studi scientifici». Quando il dottor Andrea Mangiagalli riferisce i propositi kamikaze del gruppo Medici in prima linea, fa venire i brividi lungo la schiena. È mai possibile che dei medici debbano finire nei guai perché, nella peggiore emergenza sanitaria dai tempi della spagnola, prescrivono un farmaco che ha funzionato bene per decenni e che non si può usare a causa di uno studio ritirato 13 giorni dopo la pubblicazione?

È possibile, perché il gruppo di medici di famiglia nato nel Milanese lo scorso febbraio non agisce per interessi economici, motivazioni politiche o prese di posizioni ideologiche. E non potrebbe farlo, visto che attorno all'idrossiclorochina non possono girare né quattrini sonanti, né incarichi prestigiosi, né consulenze dorate. A un costo di 6,08 euro per 30 compresse nella versione originale e 5,12 euro per quella generica, il principio attivo nato come antimalarico ha due gravi difetti: costa poco e non ha sponsor.

I Medici in prima linea stanno quindi per fare un atto di disobbedienza civile solo per rispettare quel giuramento di Ippocrate che impone loro di «non abbandonare mai la cura del malato». Come aveva osservato a marzo uno dei promotori dell'iniziativa, il dottor Antonio Gobbi, ora in pensione, «se si lavora sempre pensando ai rischi di denunce non si fa più niente. Il medico può essere valutato per imperizia, imprudenza e negligenza. Abbiamo preferito rischiare l'imprudenza».

I suoi colleghi rischiano l'imprudenza anche oggi. Molto più di ieri. Se a marzo i medici del Milanese hanno iniziato a prescrivere idrossiclorochina senza autorizzazione dell'Aifa, ora la prescriveranno dopo che l'autorizzazione è stata prima emessa e poi ritirata. Un atto di coraggio, che rischia tuttavia di avere un valore poco più che simbolico. Dei 43.927 medici di medicina generale italiani, in quanti li seguiranno prescrivendo idrossiclorochina contro il parere dell'Agenzia italiana del farmaco? Nella migliore delle ipotesi, l'1% dei loro colleghi, qualcosa come 440 dottori. Un numero non sufficiente a risolvere il problema della seconda ondata da Coronavirus.

Ecco perché panorama.it ha deciso di sposare la loro battaglia. Nel momento in cui l'epidemia è tornata in fase acuta, con i primari che non dormono la notte perché non hanno posti letto e la Campania che ha già chiuso le scuole, l'impossibilità di prescrivere idrossiclorochina impedisce cure territoriali tempestive, già sperimentate in Italia e in tanti Paesi del mondo. Perché, come sostiene Antonio Cassone, già Direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, «l'idrossiclorochina a dosi basse-moderate è assolutamente sicura».

17/10/2020 I medici: «Useremo la clorochina». Questo giornale ha organizzato una petizione online attraverso la piattaforma Change.org per chiedere all'Aifa di ripristinare l'utilizzo di idrossiclorochina per i pazienti a domicilio nelle primissime fasi della malattia, se necessario anche con procedura d'urgenza. E prima che sia partita la raccolta rme, al nostro appello hanno già aderito 112 medici (in fondo all'articolo, i nomi e il numero di iscrizione all'Ordine).

Ma spieghiamo le ragioni della nostra scelta. Per farlo, occorre tornare a marzo 2020. Nella Lombardia devastata dalla più alta letalità da Covid-19 al mondo, la medicina territoriale era allo sbando. Gli ospedali erano sull'orlo del collasso e gran parte dei malati giacevano a casa, abbandonati a loro stessi. Le indicazioni ufficiali ai medici di famiglia suggerivano di somministrare solo tachipirina, in attesa di eventuali aggravamenti. Altamente sconsigliato «il fai da te» sul territorio, come sosteneva il professor Galli del Sacco di Milano.

A quel punto sono scesi in campo i Medici in prima linea, dal nome di una chat su WhatsApp, ideata il 27 febbraio. Dopo essersi confrontati con i colleghi ospedalieri, aver studiato le terapie somministrate in Cina e consultato studi scientifici, a metà marzo, hanno messo a punto un protocollo d'intervento condiviso. I medici di base di Milano e provincia si sono presi un'enorme responsabilità. Al centro del loro schema c'era l'idrossiclorochina, un farmaco in quel momento usato per malaria e malattie reumatologiche. Tanto che nella fase iniziale non era mutuabile: per prescriverlo off-label, cioè al di fuori delle indicazioni registrate, i medici dovevano ricorrere alle ricette bianche.

«Ci siamo lanciati senza paracadute» ricorda Andrea Mangiagalli, medico di base a Pioltello ed estensore del protocollo con i colleghi Antonio Gobbi e Giovanni Moretti. «Non avremmo potuto prescrivere l'idrossiclorochina ai nostri pazienti, tanto che l'Aifa aveva emanato una direttiva sconsigliandone l'utilizzo e così aveva fatto pure un sindacato medico. Però non ci siamo arresi, perché far morire la gente senza tentare nulla era contro il nostro codice deontologico».

Il risultato è stato strabiliante: nessun paziente trattato nella fase precoce della malattia ha avuto bisogno di ricovero ospedaliero. E nessuno è deceduto. Un successo poco dopo sdoganato anche a livello ufficiale: il 31 marzo l'Agenzia del farmaco ha consentito l'utilizzo della clorochina per i casi sospetti di Covid.

La storia che sembrava a lieto ne ha conosciuto una battuta d'arresto il 22 maggio, quando la rivista britannica The Lancet ha pubblicato uno studio choc. Firmato dal professore di Harvard Mandeep Mehra, sosteneva che per chi aveva ricevuto idrossiclorochina il rischio di morte era aumentato del 34% e del 137% quello di avere una aritmia grave. Apriti cielo: l'Organizzazione mondiale della sanità ha subito interrotto la sperimentazione sulla molecola. Il giorno dopo, l'Agenzia del farmaco italiana ne ha sospeso l'autorizzazione per il Covid. E lo stesso hanno fatto Francia e Belgio. Seguiti poi anche dalla potentissima Food and Drug Administration statunitense.

Una débâcle... Il 5 giugno, però, il colpo di scena: dopo aver ricevuto una lettera da 120 ricercatori di tutto il mondo che metteva in discussione lo studio, The Lancet lo ha ritirato. Il danno però era fatto: l'idrossiclorochina era ormai uscita di scena. Anche perché, nel frattempo, era stata sponsorizzata a gran voce dal presidente Donald Trump e dal suo dirimpettaio brasiliano Jair Bolsonaro, che l'avevano resa antipatica ai loro detrattori, facendola percepire come farmaco «sovranista».

E se in altri Paesi come Cina e India hanno continuato a usarla (le linee guida di Pechino hanno ribadito l'utilità del farmaco in prima battuta), in Italia è diventata la reietta del mondo scientifico. Intanto, la questione è nita nelle aule di tribunale. Il 26 luglio l'avvocato napoletano Erich Grimaldi ha depositato al Tar del Lazio un ricorso con relativa istanza cautelare per conto di una cinquantina di medici di famiglia di tutta Italia. Il ricorso chiedeva che venisse ripristinata la possibilità per i medici dei territori di prescrivere «liberamente» l'idrossiclorochina contro il Covid «senza assumersi responsabilità prescrittiva».

Niente da fare: il Tar ha risposto no, «in considerazione dei numerosi studi randomizzati pubblicati nella primavera del 2020 e richiamati nel provvedimento impugnato circa l'inefficacia – ovvero la scarsa efficacia – dell'impiego dell'idrossiclorochina». Ma a che studi fa riferimento il Tribunale amministrativo regionale? Per capirlo, bisogna consultare un aggiornamento comparso sul sito dell'Aifa il 22 luglio. «In merito agli studi randomizzati» si legge, «gli aggiornamenti più rilevanti riguardano la comunicazione dei dati relativi al braccio di trattamento con idrossiclorochina nello studio britannico Recovery e la pubblicazione del primo trial randomizzato relativo all'utilizzo di HCQ (idrossiclorochina, ndr) nelle fasi precoci dell'infezione».

Randomizzati: è la parola chiave, usata anche dal Tar per respingere la prima istanza cautelare. «Uno studio randomizzato è quello in cui l'assegnazione di un paziente con determinate caratteristiche a una terapia è puramente casuale» spiega il professor Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive dell'ospedale Niguarda di Milano. «È il modo migliore per capire se una terapia funziona e quanto funziona».

Gli studi randomizzati citati da Aifa per dire no all'idrossiclorochina sono tre. Il primo, Recovery, realizzato nel Regno Unito, è serio e autorevole. «Si tratta del più grosso studio randomizzato disponibile su pazienti ospedalizzati» spiega il professor Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive dell'ospedale Niguarda di Milano. «E dimostra che l'uso di idrossiclorochina non ha né efficacia né tossicità superiore allo standard of care senza il farmaco antimalarico». E qual era lo standard of care dello studio? Risponde Mangiagalli: «Tutti i farmaci usati normalmente per le polmoniti, cortisone incluso».

Lo studio, insomma, dice che l'idrossiclorochina non è più ecace ma non è neanche più tossica delle terapie comunemente usate in ospedale. Ma visto che i trattamenti ospedalieri come il cortisone non possono essere usati sui pazienti a domicilio, perché non consentire l'uso dell'idrossiclorochina, che comunque non è risultata più tossica?

Il secondo studio a cui fa riferimento Aifa, realizzato negli Stati Uniti e in Canada su 423 pazienti, non è invece da prendere in considerazione. Per due motivi. «Anzitutto non è molto affidabile perché 423 pazienti sono troppo pochi per una valutazione definitiva» spiega il professor Puoti. Il secondo motivo lo ammette la stessa Aifa: «Lo studio presenta alcune limitazioni: la diagnosi certa era stata possibile solo nel 58% dei partecipanti, le valutazioni sono state fatte online o telefonicamente e l'esito primario è stato modificato nel corso dello studio». Aifa cita un altro studio che non è neanche il caso di prendere in considerazione perché, osserva il professor Puoti, «la diagnosi confermata di Covid riguardava meno del 3% dei pazienti».

Sui tre studi citati da Aifa, insomma, di serio ce ne è solo uno. «E comunque» osserva Mangiagalli, «anche il migliore, Recovery, anzitutto riguarda pazienti ospedalieri (non a domicilio come i nostri) e poi ha usato il doppio dei dosaggi di idrossiclorochina rispetto a quelli che prescrivevamo noi in Italia. Non c'è da stupirsi se si sono poi verificati effetti collaterali cardiovascolari».

In realtà ci sono anche molti studi a favore dell'idrossiclorochina. «Attualmente, sono stati pubblicati 102 studi sull'idrossiclorochina/clorochina (62 sono peer review). Di questi il 75% sono positivi, mentre il 25% sono negativi» si legge su Sanità Informazione. L'ultimo è stato pubblicato il 21 settembre proprio da The Lancet su dati statunitensi. Dopo il passo falso di maggio, la rivista britannica ora sostiene che l'idrossiclorochina riduce la mortalità da Covid e non riscontra aumenti di tossicità cardiaca. Il penultimo studio, olandese, è invece stato pubblicato il 20 settembre sull'International Journal of Infectious Diseases, e dice che per i ricoverati in ospedale trattati con idrossiclorochina, il rischio di trasferimento in terapia intensiva diminuisce del 53%.

Ma ci sono anche due interessanti ricerche italiane. Dalla prima, pubblicata sullo European Journal of Internal Medicine, si evidenzia una riduzione della mortalità del 30% in gruppo di pazienti Covid trattato con idrossiclorochina. Dalla seconda, pubblicata dalla Società italiana di farmacologia, risulta che, in quasi due milioni di pazienti che da 20 anni a questa parte assumono idrossiclorochina per artrite reaumatoide, l'associazione per sette giorni all'antibiotico azitromicina non ha incrementato il rischio di effetti avversi.

Questi studi, però, non sono randomizzati. Chiediamo cosa ne pensa Luigi Cavanna, l'oncologo dell'ospedale di Piacenza pioniere della prescrizione di idrossiclorochina a domicilio. Il 9 marzo era stato il primo in Italia a iniziare ad andare a casa dei pazienti Covid per somministrare loro il farmaco antimalarico, seguito subito dopo dai Medici in prima linea del Milanese e poi, a ruota, da colleghi di tutta Italia, fra cui anche quelli del modello Alessandria.

«Ah, ma qui dobbiamo fare una citazione dotta per i colleghi ortodossi della medicina, per le grandi menti» esordisce ironico l'oncologo. «Io cito l'introduzione al testo di medicina interna più diffuso al mondo, dalla Cina al Canada: l'Harrison. Ecco cosa dice: "La pratica medica combina scienza e arte". Quindi gli studi randomizzati devono essere il mezzo per curare bene la gente, non il ne. Lo studio randomizzato è una risposta ordinaria di fronte a una situazione ordinaria. Ma il Covid non è una situazione ordinaria. La medicina di tutti i giorni, la real world medicine è fondamentale. La pratica medica che dà risultati è essenziale in situazioni straordinarie, altrimenti rischiamo davvero che, quando avremo uno studio randomizzato, molta gente non ci sarà più. A parte che sul territorio studi randomizzati non ce ne sono o quasi, in parallelo allo studio randomizzato ci deve essere la real world evidence, l'evidenza del mondo reale».

A dare man forte a Cavanna, interviene Mangiagalli: «Se vogliamo dirla tutta, non esistono studi randomizzati sul territorio nemmeno per il vaccino antinfluenzale. Cosa dovrebbe fare allora Aifa: sospenderne l'utilizzo?». Cavanna non riesce a trattenersi: «A me viene un sospetto... Perché impedire una terapia di sette giorni di un farmaco che alcune persone, come i malati di artrite reumatoide, assumono da una vita? C'è qualcosa che non torna, qualcosa di inquietante... Com'è inquietante quello che dice il professor Antonio Cassone: "Purtroppo gli editori di riviste importanti sono molto riluttanti a pubblicare qualcosa di positivo sulla clorochina e idrossiclorochina". Ma in che mondo siamo? Io mi vergogno di essere medico».

In conclusione, il Tar sostiene anche che «non emergono proli di irreparabilità del pregiudizio», visto che non coglie «proli di danno grave e irreparabile nella sfera giuridica dei ricorrenti scaturenti dall'impiego di un trattamento piuttosto che di un altro». Detto in parole povere, secondo i giudici i medici che hanno presentato ricorso non hanno subito un danno dal divieto di utilizzo di idrossiclorochina, visto che avrebbero potuto usare altre terapie.

Forse il Tar, che la prossima settimana verrà investito di un'ulteriore istanza cautelare (nella speranza da parte dei ricorrenti di non dover affrontare il giudizio di merito o arrivare al Consiglio di Stato), non sa che altre terapie di fatto non esistono. «A disposizione della medicina territoriale non ce ne sono» conferma Cavanna. «Noi dobbiamo fare in modo di poter dare idrossiclorochina per sette giorni a dosi non da cavallo, come hanno fatto gli studi americani poi risultati negativi. Guarda caso, delle decine di migliaia di casi trattati per sette giorni in Italia, da medici ospedalieri e di base, in nessun caso si sono verificati episodi negativi».

Lei è dunque favorevole alla raccolta firme promossa da Panorama? «Sì» risponde il dottor Cavanna. «Io sono favorevole a usare tutti i mezzi leciti che possano permettere a un malato di Covid di assumere idrossiclorochina. Perché questa mi sembra una situazione kafkiana, da crisi della scienza. Ammesso che dietro non ci sia un'altra volontà, ma non voglio pensarlo».

I medici che hanno già risposto all'appello

1. Andrea Mangiagalli 27803

2. Monica Sutti , 30823.

3. Molaschi Marco 23929

4. Milena Galimberti 26870

5. Antonio Gobbi 17918

6. Perego Angela Loretta 22841

7 Giovanna Caminiti 23913

8. Andrea Bozzola 29949

9. Luca Vezzoni 41089

10. Melissa Guzzetta 35437

11. Luca Manganiello 44327

12. Giorgio Fondrini 23400

13. Pamela Pacini 41382

14. Massimo Sorghi 23785

15. Marco de Santis 31119

16. Laura Frosali 33030

17. Patrizia Biasi 39563

18. Monica fastidio 30782

19. Maccabruni Giuseppe Pavia 21936

20. Pamela De Toni Monza B 02758

21. Cozzi Donatella 23421

22. Mara Fasani n. 40312

23. Romano Giuseppe 14905

24. Moretti Giovanni 15627

25. Cristiana Belloli 18718

26. Flavio Sinchetto 21289

27. Patrizia Rodriguez 6227

28. Francesca Di Marco 36822

29. Marco Mazzoni 23399

30. Maria Pia Caraceni 21986

31. Elena Giuseppina Villa 30819

32. Anna Maria Vittoria Mauro 31787

33. Cristoforo Cassisa 29253

34. Guido Rizzato

35. Marcella Muratori Mezzera 36373

36. Renato Mattina 36279

37. Alessandro Ramponi

38. Gabriele gianlupi 3729 pr

39. Mercogliano Maurizio18448

40. STEFANO BIDOGLIO 21384

41. Valeria Maria Cuccurullo 22670

42. Dario Lisciandrano 28784

43. Lorenzo Ferrante 20285

44. Paola Presutto 40185 Milano

45. Patrizia Calvi Milano:20811

46. Chiara Penati 1761 Lecco

47. Tiziana arvieri 21656

48. Stefano Serboni 32869

49. Margherita Assirati 34778

50. Paola Verza 25111

51. Fernando Salomoni 29576

52. Alessandra Rigoni 29029

53. Alessandro Ramponi 26724

54. Rizzato Guido 07888 BG

55. Lorenzo Ferrante 20285

56. Becchi Luisa Pr 4334

57. Privitera Daniela Ct 6980

58. Dr.ssa Agata Marabotto, Catania 6944

59. Dott. Rampulla Bruno, Catania 15414

60. Dammino Maria Grazia 5784 Ct

61. Dott. Roberto Polisca, PU 872

62. Rosa Battaglia, Rg 1643.

63. Privitera Adriana n 006981

64. Zanon Giuseppe TV:6357

65. Marina Trupo Mi 24380

66. Mariano Ziglio n. 22307 Milano

67. Andrea Giusepoe Giorgio Stramezzi Milano. 43656

68. Fabio Caliendo n. 32393 Roma

69. Giuseppe Maggio 7376 Pavia

70. Tiziano Setti, Reggio Emilia, 2313.

71. Anna Dabbicco iCatania 6040

72. Maria Antonietta Balzola Mi 25596

73. Maurizio Tarantelli 3981Firenze

74. Giovanni Pascucci Mc. 767

75. Nunzia Rega Antonella NA 17287

76. Sandro Rinaldi BZ 1972

77. Libertario Donato Raaelle FI 10580

78. Ivano Olivo VE 02027

79. Galvani Veniero R.E 20.01.44

80. Sandro LaRosa PA 6954

81. Mochele Arco EN 1377

82. Paolo Caglio LC 510

83. Volker Erich Göpel VC 6727

84. Francesca Vaira PA 10435

85. Sandro Salvatore de Rosa PD 8058

86. Franca Menozzi RE

87. Maurizio Tarantelli 3981 Firenze

88. Chiara Zannoni 1631 Rimini

89. Marco Fabbretti AN 2447

90. Felice Bilone VR 02595

91. Bruno Pietro RM M51299

92. Russo Salvatore PA 10133

93. Ennio De Bartolomei RM 28532

94. Cortese Paolo NA

95. Antonio Laudani RM 44349

96. Sergio Leoni RE 1247

97. Rosaria Ruberto PA 07069

98. Pier Luigi Sozzi BR 118

99. Dennis Arslanagic RM 4091

100. Fabio Milani BO 16519

101. Sonia Ciampa Rimini 1764

102. Vincenzo Raimondo PA 9803

103. Maurizio Barillà BG 007831

104. Maurizio Restaldo TO 25171

105. Roberto Cucina PG 05009

106. Alessandra Morsello TN 3775

107. Lucio Sannino RM 19853

108. Rosi Cipolla CR 2155

109. Liliana Maric NA 28707

110. Alberto Palamidese PD 2837

111. Maria Teresa Turrini AR n°1760

112. Maria Teresa Turrini AR °1760

QUANDO IL PROFESSOR LE FOCHE CONSIGLIAVA LA CLOROCHINA. ANSA del 25 marzo 2020. "Le persone infettate da coronavirus vanno curate a domicilio, anche se hanno pochi sintomi. Il rischio di aspettare che il virus faccia il suo corso è che il paziente arrivi in ospedale quando è già troppo tardi e che nel frattempo si orienti su cure fai-da-te che possono creare danno ulteriore". Così all'ANSA Francesco Le Foche, responsabile del Day Hospital di immunoinfettivologia al Policlinico Umberto I di Roma. "Ora tutte le forze sono concentrate sull'ospedale - precisa - e c'è una sorta di abbandono delle persone con sintomi lievi, alcuni dei quali vivono soli, sono anziani e restano in isolamento a domicilio tra mille difficoltà, paure, incertezze. A questi pazienti spesso oggi non vengono fatti i tamponi finché non hanno sintomi importanti, ovvero quando ormai il danno polmonare è difficile da curare. Nel frattempo sono lasciati a casa, in attesa di vedere l'evoluzione della malattia. In queste condizioni, sentendosi poco seguiti, possono andare a cercare cure omeopatiche, terapie alternative o farmaci e integratori trovati sul web". Al Policlinico Umberto I, prosegue Le Foche, "per pazienti meno gravi usiamo lo stesso antimalarico messo in campo in Francia, l'idrossiclorochina, che riduce la carica virale, è molto efficace come immonumodulante e si può somministrare con 7 giorni di trattamento a casa". Si potrebbe obiettare che trattare chi ha lievi sintomi abbia costi alti in termini organizzativi ma, conclude, "è sempre inferiore rispetto al dover poi trattare una parte di loro in terapia intensiva".

Il «giallo» del farmaco anti-Covid donato pure a Puglia e Basilicata. Si tratta di 500mila pillole di Resochin (clorochina) prodotte a Karachi. Non è chiaro in quali ospedali di Puglia e Basilicata siano state consegnate le compresse. Marina Ingrosso il 24 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un giallo da 500mila pillole incombe sull’Italia. In piena ecatombe sanitaria e con l’ipotesi, ventilata dalla Cina, che la clorochina, un antimalarico, avrebbe potuto prevenire e forse curare gli effetti del Coronavirus, il nostro Paese e gli Stati Uniti hanno accettato grosse donazioni del farmaco dalla Repubblica islamica del Pakistan. È stato così che sono arrivate nello Stivale (sono state distribuite anche in Puglia e Basilicata), cinquecentomila e cento compresse di Resochin (clorochina). Ora quel prodotto - non analizzato dall’Agenzia italiana del farmaco-Aifa e fabbricato da Bayer a Karachi, in uno stabilimento non ispezionato dalle Autorità europee o da quelle americane - è oggi nel mirino dei grandi media internazionali che ne paventano addirittura la possibile tossicità. Il dono delle forze armate pakistane Tutto ha inizio il 14 aprile scorso, quando l’Aifa riscontra la donazione da parte delle Forze armate pakistane di «Resochin 250mg compresse rivestite con film» per «1.667 confezioni da 300 compresse». Il lotto donato è il n. KH06967, ha scadenza dicembre 2023. Le autorizzazioni sanitarie? Quelle pakistane: «lotto prodotto controllato e rilasciato da Officina Bayer Pakistan (Private) Limited C-21 s.i.t.e. Karachi». Il bugiardino? Soltanto in inglese e in urdu, la lingua indoiranica che si scrive da destra a sinistra e usata in quel pezzo di mondo. Tanto che l’Aifa chiede ufficialmente a Bayer di provvedere anche a una traduzione in italiano. Due giorni dopo, il 16 aprile, Reuters, a firma Katherin Eban, pubblica un’inchiesta esclusiva che fa il giro del mondo: non soltanto l’ente governativo Usa preposto ai controlli, la Food and Drug Administration, a causa della fretta indotta dalla crisi sanitaria non avrebbe controllato a dovere né ispezionato le fabbriche, ma fonti qualificate affermano che «ci sarebbero motivi per essere preoccupati circa la qualità del Resochin e del suo produttore in India e Pakistan». E, ancora, «le autorità pakistane (la Drugs regulatory Authority; ndr), che ispezionarono l’impianto del Rescohin di Bayer a Karachi nel 2015, rilevarono “gravi carenze” nei processi produttivi. E anche se la Fda non ha mai ispezionato l’impianto di Indore, in India, che fornisce ingredienti per il Resochin, l’Agenzia Usa ha ispezionato altri impianti indiani condotti dallo stesso fornitore indiano e ha verificato serie mancanze, incluse falsificazioni dei registri, durante un’ispezione che ha abbracciato gli anni dal 2014 al 2019». Dopo Reuters altri Media internazionali si sono occupati di questa faccenda ed è emerso pure che, come riporta Al Arabya, l’ex direttore dell’Autorità Usa per la ricerca avanzata e lo sviluppo biomedicale, Rick Bright, in qualità di whistleblower, e altri ufficiali, a maggio hanno inoltrato le loro preoccupazioni per «la qualità e potenziale tossicità» di queste scorte estere di antimalarici idrossiclorochina e clorochina direttamente all’Office of special Counsel che è l’Agenzia governativa investigativa e giudiziaria federale che, in America, lotta contro la corruzione a livello istituzionale e politico e per proteggere i dipendenti governativi e chi di loro segnala illeciti. Le tracce in Italia si «confondono» Per capire «dove», in quali ospedali, sono state spedite queste compresse, se sono già state assunte da qualcuno e, nel caso, quali effetti hanno avuto, abbiamo bussato alle porte delle task force Covid di Puglia e di Basilicata. Infatti, documenti ufficiali in nostro possesso dimostrano che 37 confezioni, per 11.100 compresse, sono state destinate alla Puglia e che 5 confezioni (1.500 pillole) sono finite in Basilicata. Pur avendo fatto marcatura a uomo con telefonate, sms e messaggi whatsApp, allo stato attuale, nessuno degli interpellati in Puglia ha risposto alle, forse lecite, domande. Solo il capo della Protezione civile regionale, Antonio Lerario, ha spiegato che «solitamente della distribuzione delle donazioni ce ne occupiamo noi». Ma non ha poi fornito ragguagli circa i destinatari delle compresse pakistane, né circa la data in cui avrebbero preso in carico i farmaci. E il dottor Vincenzo Barile (task force lucana) ha detto che, a una prima verifica, questi farmaci non sono arrivati e che gli ospedali di Potenza e Matera non li avrebbero ricevuti. Può darsi. Bayer Italia racconta un’altra storia. Spiega che all’Italia loro hanno donato un milione di queste compresse, la metà prodotte in Italia, a Garbagnate, e l’altra metà importate dal Pakistan. E si sono fatti carico loro stessi, a proprie spese, di distribuire i farmaci in tutte le regioni. Dove? Forse, a giorni, la risposta precisa che, chiariscono, dipende da Bayer Germania. Circa l’impianto pakistano Bayer Italia dice di non saperne molto anche se non stupisce che non sia stato ispezionato da Ue e Usa poiché la clorochina prodotta lì è un farmaco che qui non ha mercato e, quindi, non arriva. E, infatti, anche a Garbagnate era sospesa la produzione da molto tempo. D’altro canto, Aifa chiarisce che loro non fanno il controllo dei farmaci: «Non li controlliamo fisicamente, assolutamente no. L’approvazione arriva su carta, l’accertamento è tutto cartaceo». E la procedura ha una sua ratio giacché «le Autorità regolatorie lavorano naturalmente assieme». Quindi, è evidente, se un Paese dell’Unione europea e, a volte, anche la Fda, fa controlli e dice che va tutto bene, le altre Autorità, avendo i medesimi standard, accettano per buone le dichiarazioni. Solo che questo può valere per Unione europea e Stati Uniti ma gli standard di Islamabad, purtroppo, non sono considerati assimilabili. Chissà se Aifa, alla luce delle informazioni che qui abbiamo ricapitolato, non accenda un «faro» su questo dono pakistano che avrebbe, teoricamente, dovuto salvare gli italiani dal Coronavirus. Intanto, ricercatori della Sorbona su Lancet hanno pubblicato uno studio secondo cui gli antimalarici idrossiclorochina e clorochina sperimentati contro l’infezione da Covid-19 (e che il presidente americano Donald Trump dice di assumere come profilassi), sembrano essere collegati ad un maggior rischio di morte tra i pazienti ricoverati in ospedale per il virus e a gravi problemi al cuore. Dubbi fatti propri ieri, pubblicamente, anche da Nicola Magrini, direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco.

La denuncia dell’Iss: «Contro il Covid circolano sul web troppe cure “fai da te”». Il Dubbio il 29 Marzo 2020. L’Istituto superiore di sanità è costretto a intervenire per chiarire alcuni concetti elementari in merito alle cure contro il coronavirus: troppe persone ricorrono alle cure “fai da te”. «Non esiste nessun farmaco che abbia come indicazione terapeutica la prevenzione o il trattamento di Covid-19». Patrizia Popoli, direttrice del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell’Istituto superiore di sanità, è costretta a intervenire per chiarire alcuni concetti elementari in merito alle cure contro il coronavirus. L’intervento è necessario a causa delle molteplici segnalazioni di cure “fai da te” te casalinghe,  spesso frutto di informazioni reperite sul web, che hanno generato una vera e propria caccia al farmaco. «In considerazione della situazione di emergenza, alcuni farmaci già noti ed utilizzati per il trattamento di altre malattie possono essere usati in pazienti con Covid-19, ma tale trattamento (che si basa su conoscenze ancora incomplete ed è giustificabile solo a fronte della mancanza di alternative) può avvenire solo su prescrizione medica», specifica Popoli. «Solo il medico può decidere quando usare questi farmaci e può controllarne la sicurezza nel singolo paziente». L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sta «semplificando ed accelerando le procedure di sperimentazione clinica, e ad oggi sono stati autorizzati già diversi studi che hanno l’obiettivo di verificare l’efficacia e la sicurezza di diverse molecole», ricorda la direttrice Patrizia Popoli. «In nessun caso, tuttavia, è giustificabile il ricorso a terapie “fai da te”. Tutti i farmaci hanno degli effetti collaterali piò o meno gravi, e l’automedicazione comporta rischi ancora più gravi quando si usano farmaci non autorizzati. In caso di acquisti online, poi, tali rischi sono moltiplicati perché i farmaci potrebbero essere contraffatti». Il Covid si combatte con la scienza, non con le chiacchiere da bar. O da web.

Da ilmessaggero.it il 2 aprile 2020. Allarme in Francia sui trattamenti con antimalarici a base di clorochina o idrossiclorochina, associate o meno all'antibiotico azitromicina, nei pazienti con Covid-19, che avrebbero provocato disturbi del ritmo del cuore e arresti cardiaci in alcuni ospedali francesi, causando in alcuni casi la morte dei pazienti. L'agenzia. La denuncia arriva da un farmacista di un ospedale universitario, nonché corrispondente del Centro di farmacovigilanza nella sua regione, che ha lanciato l'allarme insieme a medici infettivologi e suoi colleghi farmacisti, precisando di aver inviato la casistica all'attenzione dell'Agenzia nazionale per la sicurezza dei medicinali (Ansm). Ieri anche l'Agenzia sanitaria regionale della Nouvelle-Aquitaine - riferisce "in esclusiva" 'Le Point' - ha reso noto che «sono stati segnalati casi di tossicità cardiaca nella regione a seguito dell'autosomministrazione di Plaquenil (idrossiclorochina) da parte di pazienti che avvertivano sintomi di Covid-19». I test. Attenzione ai test fai da te sul coronavirus. L'Agenzia europea per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) ricorda che «mentre la maggior parte dei test rapidi per il coronavirus marcati CE sono conformi», le autorità nazionali hanno rilevato irregolarità in alcuni di questi «venduti come presunti test fai da te. Numerosi Stati membri hanno messo in guardia dall'uso di test 'fai da tè rapidi o addirittura li hanno vietati». L'Ecdc in un documento sui test rapidi disponibili in Europa, spiega che serve una «convalida clinica in un numero ampio di popolazione». Da oltre un mese la clorochina e l'idrossiclorochina sono al centro dell'attenzione in tutto il mondo, soprattutto in Francia dove l'infettivologo di Marsiglia Didier Raoult sostiene che grazie a questi 'vecchi' antimalarici (sono sul commercio da una sessantina d'anni) si possa sconfiggere il coronavirus, mentre lo stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, li ha definiti "un dono dal cielo".

Da ilgiornale.it il 2 aprile 2020. (…) Dello stesso avviso anche un gruppo internazionale di ricercatori a cui fanno capo i biologi dell'Infection Biology Unit German Primate Center del Leibniz Institute for Primate Research. Collaborando con i colleghi dell'università di Berlino, dell'università di Gottinga, dell'Università Sechenov di Mosca, gli studiosi hanno studiato il meccanismo tramite il quale il Coronavirus riesce a penetrare all'interno delle cellule umane, cercando un modo per arrestare il processo. “I nostri risultati mostrano che SARS-CoV-2 ha bisogno della proteasi TMPRSS2, che è presente nel corpo umano, per entrare nelle cellule", ha spiegato Stefan Pöhlmann, capo dell'unità di biologia, come riportato sul sito del “German Primate Center”. "Abbiamo testato SARS-CoV-2 isolato da un paziente e abbiamo scoperto che il Camostat mesilato blocca l'ingresso del virus nelle cellule polmonari", ha aggiunto Markus Hoffmann, autore della ricerca. Il Camostat mesilato è un farmaco che possiede le stesse capacità antivirali del Nafamostat mesilato anche se, come rivelato dallo studio condotto dagli scienziati giapponesi, il secondo risulterebbe già efficace a un decimo della concentrazione del primo. In passato, inoltre, i ricercatori Jun-ichiro Inoue e Mizuki Yamamoto avevano già mostrato come il Nafamostat fosse risultato valido contro la Mers. Negli studi di laboratorio, è stato dimostrato come il farmaco riesca ad impedire il collegamento fra la proteina Spike (S), presente sullo strato lipidico che avvolge il Coronavirus, ed il recettore ACE2 presente sulle cellule umane. Se non avviene la fusione, il virus non potrà infettare la cellula e quindi replicarsi.

ENZO BOLDI per giornalettismo.com l'1 aprile 2020. Il complottismo è la tomba della razionalità. Sta di fatto che la televisione ospita, sempre più spesso, personaggi che strizzano l’occhio a quello che sul web viene definito il “non cielo dicono”. L’ultimo caso è quello di Alessandro Meluzzi, noto psichiatra criminologo e più volte ospite delle trasmissioni Mediaset – fissa la sua presenza, per esempio, a Quarto Grado -, che a Stasera Italia ha lanciato una vera accusa al governo e all’Aifa sul mancato utilizzo dell’idrossiclorochina per curare il Coronavirus. «Ricordatevi che c’è un farmaco, che costa sei euro a scatola, che è un salvavita formidabile. E questo è ormai accreditato, questo l’ho saputo dagli amici russi di criminologia due mesi fa, i francesi lo stanno utilizzando. Qui lo si utilizza poco, inseguendo altre vie, perché costa troppo poco. Perché è un farmaco fuori mercato. Ed è l’idrossiclorochina, lo sapete tutti. È un farmaco comprovatamente efficace che costa niente. Questa sarà una delle poche ragioni per cui non sarà propagandato. Ma io mi assumo la responsabilità di dirlo a 60 milioni di persone». Parole di un medico, come sottolinea Barbara Palombelli. Dell’idrossiclorochina ne abbiamo parlato nella giornata di lunedì. Si tratta di quella che, con nome commerciale, è meglio nota come Plaquenil. Come spiegato da Roberto Burioni, è un farmaco antimalarico utilizzato nel passato – da circa 70 anni – e testato nel 2005 anche sulla Sars. In Francia le sperimentazioni sono andate in una direzione molto positiva ed è stato deciso di adottarlo nei trattamenti contro il Coronavirus. In Italia sono stati effettuati test in laboratorio – quello reso pubblico fa riferimento al San Raffaele di Milano -, mostrando come la reazione cellulare si sia avuta non nel trattamento del Covid-19, ma solamente con un percorso pre e post infezione. Se Meluzzi sostiene che dell’idrossiclorochina non si parli in Italia perché «costa troppo poco» – alludendo a speculazioni sul mercato farmaceutico – allora dovrebbe rileggere la Gazzetta Ufficiale del 17 marzo scorso. Nel documento, infatti, si parla anche dell’idrossiclorochina come medicinale autorizzato per il trattamento dell’infezione da Coronavirus (e a spese del Servizio Sanitario Nazionale). Non c’era bisogno di chiedere agli amici russi.

Stefania Piras per il Messaggero l'1 aprile 2020. Coronavirus «Non assumete Plaquenil senza prescrizione!», tuona allarmato il virologo Roberto Burioni. Ma la sensazione è che i buoi siano usciti dal recinto ormai da un pezzo. Anche a Roma il Plaquenil, il farmaco anti malarico a base di idrossiclorochina usato per curare l'artrite reumatoide e il Lupus eritematoso, e che ha dato buoni risultati nelle terapie somministrate ai pazienti affetti da Covid-19, è diventato introvabile. Federfarma conferma: «Ormai sono quindici giorni che dobbiamo fare richieste di ordine urgenti». La rete ospedaliera e le zone rosse sono privilegiate nella fornitura di questa speciale molecola, vendibile solo su prescrizione medica e quindi con la ricetta, e il risultato è che chi segue le terapie per curarsi l'artrite non lo sta trovando. Anche i farmacisti confermano la grande difficoltà nell'approviggionamento: «Non si trova nemmeno nella distribuzione intermedia, nei depositi». I depositi sono infatti l'anello della catena del farmaco tra le aziende produttrici e la farmacia. E anche qui, il Plaquenil non c'è. Sanofi, l'azienda farmaceutica, sta rispondendo a tutti i farmacisti che il prodotto c'è , ed è disponibile. Bisogna solo aspettare 48, 72 ore di tempo dal momento dell'ordine. Il sospetto, allarmante, è che ci sia stato un accaparramento disordinato. Il farmaco è stato ordinato da chi ne aveva titolo, come aziende ospedaliere e farmacie, ma anche da utenti privati per l'automedicazione. Sarebbe molto grave perché non si possono e non si devono assumere farmaci senza il controllo preventivo di un medico. Ecco perché anche il virogolo Burioni, tra i primi a studiare l'interazione del farmaco con il coronavirus, ha cercato di fermare la corsa a procurarsi la medicina da soli. «Come ho detto chiaramente, i dati di laboratorio sull'efficacia del Plaquenil sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. In mancanza di studi clinici è sbagliato assumere questo farmaco, anche perché poi non è disponibile per chi ne ha davvero bisogno». Lo sottolinea su twitter il virologo Roberto Burioni, che aveva illustrato nei giorni scorsi i risultati ottenuti dai test di laboratorio al San Raffaele di Milano sull'antimalarico Plaquenil.

Farmaci «miracolosi» da Russia e Giappone per Covid-19: bufale in Rete. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Non esistono farmaci né vaccino contro Covid-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus. Ma in Rete gli annunci di presunti prodotti «miracolosi» non mancano. Di due in particolare si sta parlando sui social (e non solo). Pochi giorni fa il senatore del Movimento 5 stelle Elio Lannutti ha scritto su Twitter che Abidol, «un farmaco utilizzato contro i più comuni virus dell’influenza», funzionerebbe «impedendo al virus di attraversare la membrana delle cellule e di penetrare al loro interno per replicarsi». «Abidol 20 mg – ha aggiunto Lannutti – si acquista in Russia nelle farmacie». La notizia però è falsa, pur circolando da giorni sui social e su WhatsApp. Abidol non è in vendita in Russia, probabilmente il riferimento è ad Arbidol, disponibile invece nel Paese e al centro di varie fake news (dove spesso viene chiamato «Abidol»). Sono due farmaci diversi. Come ha spiegato la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), l’Arbidol «è un farmaco il cui principio attivo è l’umifenovir, con azione antivirale, e il suo scopo è proprio quello di mitigare o abbreviare i sintomi delle malattie da virus, in particolare di quelli che causano l’influenza». Ma non è chiaro quanto sia efficace questo medicinale, tanto che in Italia e negli Stati Uniti, sottolinea Fnomceo, l’Arbidol non è in vendita, mentre in Russia sì. «In queste settimane il suo uso è stato proposto anche per Covid-19, la malattia causata da Sars-Cov-2», ma non c’è alcuna evidenza scientifica che supporti la sua efficacia contro il coronavirus. In Cina sono stati avviate sperimentazioni sull’Arbidol, ma al momento nessuna di queste è arrivata a qualsivoglia conclusione. «Non ci sono quindi particolari motivi per ritenere che questo farmaco sia preferibile ad altri già utilizzati o che abbia effetti particolarmente favorevoli, e non si può ritenere questo farmaco “la cura” per la malattia causata da Sars-Cov-2 — conclude Fnomceo —. Si deve aggiungere che gli studi in proposito sono pochi e in genere su riviste scientifiche di basso impatto». Sui social network circola anche il video di due italiani che, all’aeroporto internazionale Sheremetevo di Mosca, riescono ad acquistare in farmacia, senza alcuna difficoltà, l’Arbidol. Mostrando una delle confezioni appena acquistate, uno dei due chiede: «Come mai da noi sono morte così tante persone? È per questo farmaco che noi non abbiamo?». Su diversi canali radiofonici russi Arbidol è stato pubblicizzato come farmaco specifico contro Covid-19. Come riferisce l’agenzia russa Sputnik, tuttavia, l’Autorità antitrust del Paese ha vietato gli spot, definendoli «pubblicità ingannevole». «In Italia e negli Stati Uniti il farmaco non è in vendita e ne esistono altri simili, uno dei quali (oseltamivir) usato in occasione delle ultime pandemie influenzali con risultati dubbi — spiega ancora Fnomceo —. Non si tratta certamente di prodotti segreti o sconosciuti, il farmaco fa parte di una categoria precisa, studiata e alla quale appartengono numerosi prodotti in vendita in Europa e in Italia. La discussione verte sulla sua efficacia che, pur studiata, non è così chiara». La stessa Accademia russa di scienze mediche ha affermato che «non ci sono sufficienti prove scientifiche che sostengano l’efficacia del farmaco e gli studi che abbiamo a disposizione sono molto discutibili. In uno per esempio, il farmaco confrontato con un placebo ha ridotto solo di un giorno i sintomi dell’influenza nei soggetti testati e in un altro i risultati sono stati simili ad altri farmaci antivirali noti». Sulla presunta efficacia di umifenovir è intervenuta anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa): si tratta di un antivirale commercializzato in Russia per la prevenzione e il trattamento delle infezioni da virus dell’influenza A e B, ma non è autorizzato in Europa né negli Stati Uniti. Sebbene in Cina umifenovir sia stato utilizzato in alcuni pazienti in associazione ad altri trattamenti farmacologici, «i dati a disposizione sono scarsi, di non elevata qualità scientifica e ottenuti su un numero molto esiguo di pazienti». Al momento attuale, quindi, «non sono disponibili evidenze scientifiche sufficienti a supportare l’efficacia di umifenovir nel trattamento della malattia Covid-19, o nella prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2, né tantomeno il suo utilizzo in sostituzione di altri trattamenti che in Italia sono stati messi a disposizione per i pazienti affetti da Covid-19». La seconda «storia» arriva invece dal Giappone, dove l’ultima presunta promessa per contrastare il coronavirus si chiama Avigan (favipiravir), un farmaco che sarebbe già usato in Cina nel trattamento di pazienti contagiati. Ne parla un imprenditore romano in viaggio in Giappone, in un video diventato virale. La sua effettiva validità, però, divide gli esperti. «Non esistono evidenze scientifiche in merito» ha chiarito il virologo Roberto Burioni. «Il farmaco russo, il preparato giapponese, la vitamina C, la pericolosità dell’ibuprofen, i proclami sugli Ace inibitori che i somari scrivono Eca — ha aggiunto Burioni — hanno una cosa in comune: sono tutte scemenze. Le novità vi arriveranno dalle autorità sanitarie, non dai social o da YouTube». Le autorità cinesi alcuni giorni fa sostenevano che il farmaco nipponico, sviluppato dalla Fujifilm Toyama Chemical, si è dimostrato efficace nel trattamento di pazienti contagiati dal coronavirus. Il prodotto, ha riportato il Guardian, sarebbe stato utilizzato con successo nel trattamento di 340 pazienti tra Wuhan e Shenzhen. I pazienti a cui è stato somministrato il farmaco sarebbero risultati negativi, in media, a 4 giorni dalla positività. L’emittente tv Nhk ha riferito che i pazienti non trattati, invece, avrebbero impiegato 11 giorni per arrivare allo stesso risultato. Nessun commento dalla Fujifilm Toyama Chemical. Secondo Zhang Xinmin, direttore del Centro nazionale cinese per lo sviluppo della biotecnologia, il farmaco «ha un livello elevato di sicurezza ed è chiaramente efficace nel trattamento» di Covid-19. Toyama Chemical ha sviluppato il farmaco nel 2014 e il Giappone lo starebbe utilizzando per il trattamento dei pazienti contagiati da Sars-CoV-2 da febbraio.

Proteste a Marsiglia dopo che Francia vieta l’idrossiclorochina. Redazione Notizie.it il 27/05/2020. Marsiglia, 27 mag. (askanews) – I residenti protestano fuori dall’Ihu Mediterranée Infection hospital a Marsiglia dopo che la Francia ha vietato le cure con l’idrossiclorochina per i malati di Covid-19. L’istituto guidato dal professore Didier Raoult ha tuttavia annunciato che continuerà i trattamenti sui pazienti più adatti. Dalla scalinata dell’ingresso, che all’inizio della pandemia era piena di persone che venivano qui per farsi testare, esce Martine Broglio. In mano ha i risultati del suo test: negativa al virus. “É una vergogna, questo perché i laboratori si intascano qualche soldo in più. Questo è un laboratorio di guerra e noi siamo coloro che ne portiamo le conseguenze”, dice la pensionata, 70 anni. “Mi fido del dottor Raoult. Ha curato diversi miei amici che hanno avuto il coronavirus e ha funzionato molto bene. Ora sono guariti”. “É troppo a buon mercato per essere messo in commercio. Ho fiducia nel dottor Raoul”, aggiungono la coppia André e Virginie. “Ovviamente gli studi non sono arrivati molto lontano e questo è quello che spaventa gli altri scienziati, perché non ci sono test su molte persone – spiega Yann Ruimy, studente di farmacologia – ma non appena avremo qualcosa che mostra anche dei risultati minimi, dobbiamo utilizzarlo, come se non avessimo nient’altro”.

Coronavirus, la clorochina e la terapia (discussa) del professor Raoult. Le Iene News il 22 aprile 2020. “Bisogna fare tamponi a tutti come in Corea del Sud, la quarantena non è lo strumento migliore”, va ripetendo un professore francese che sperimenta una terapia a base di clorochina e azitromicina: la comunità scientifica però per adesso è scettica. Il nostro Alessandro Di Sarno è andato a Marsiglia per vedere come funziona il suo metodo. “Il coronavirus cinese è l’infezione più facile del mondo da trattare”. A fare questa affermazione apparentemente incredibile è Didier Raoult, medico e professore francese. Raoult è un infettivologo e direttore di un ospedale di Marsiglia, dove propone una cura che a suo dire sarebbe basata sui risultati ottenuti dai ricercatori cinesi: clorochina - un farmaco antimalarico - a cui lui aggiunge l’azitromicina - un antibiotico a largo spettro per i disturbi respiratori. I risultati? A suo dire ottimi. Il nostro Alessandro Di Sarno è allora andato proprio a Marsiglia per capire come funzioni il centro che lui dirige e farsi un’idea di persona. Il professore sostiene che “è tempo di effettuare tamponi a tappeto, nei virus bisogna curare le persone piuttosto che lasciarle a casa e non sapere chi è malato o no. Dire "restate tutti a casa" non è l’atteggiamento giusto”. Una posizione molto forte, e nettamente in controtendenza rispetto alle indicazioni delle principali organizzazioni sanitarie del pianeta. A usare la strategia dei tamponi a tappeto è stata per prima la Corea del Sud, come potete vedere nel servizio di Alessandro Di Sarno qui sopra. Questa strategia ha permesso di contenere il contagio da coronavirus, e a questo modello il professor Raoult si ispirerebbe. All’ospedale la Iena si mette in fila per fare il tampone: allo sportello si scopre che, senza richiesta del proprio medico, si pagano 84 euro per fare il test. Dopo aver eseguito il test, in dieci ore il risultato arriva via internet. Se fosse positivo, sarebbe subito ricoverato in ospedale per ricevere la cura proposta dal professor Raoult: clorochina e azitromicina. “Le persone che le hanno prese hanno avuto una reazione spettacolare, erano praticamente tutti guariti in 6 giorni”, sostiene. La comunità scientifica però ha espresso dubbi sull’efficacia di questo trattamento: il numero dei pazienti trattati con la cura del professor Raoult, 24, è troppo piccolo per darne un giudizio ponderato. Le sperimentazioni cliniche comunque stanno continuando, questa volta su campioni di pazienti più numerosi. Ma come funzionerebbe questa cura? Lo spiega il nostro Alessandro Di Sarno, nel servizio che potete vedere qui sopra. “Dovremo fare come Corea del Sud”, chiude il professore: “Moltiplicare i tamponi, curare i malati, isolare solo i positivi”. Sarà davvero un sistema efficace?

La cura del prof magrebino che disobbedisce a Macron. Il Dubbio il 23 marzo 2020. Il professor Didier Raoult somministra un cocktail farmacologico da lui concepito a Marsiglia. “Non sono un outsider, sono solo avanti rispetto agli altri”. Parole di Didier Raoult, il direttore dell’ospedale universitario di Marsiglia che ha deciso di disobbedire alle linee guida del governo francese. Per contrastare il coronavirus il professore francese nato a Dakar e con trent’anni di esperienza nel campo delle malattie infettive ha aperto ai test su larga scala: Parigi finora ha concesso il tampone solo in limitati casi sospetti di coronavirus. E così  ogni mattina all’alba  davanti all’ospedale La Timone, centinaia di persone si sono messe in fila, rispettando le distanze di sicurezza per accedere all’edificio ultramoderno dell’IHU specializzato in malattie infettive.  Sono settimane che il professore sostiene la necessita dei tamponi su larga scala, ma soprattutto, nonostante l’assenza di prove scientifiche, ha continuato ad insistere sull’efficacia del cocktail farmacologico da lui concepito: un mix tra l’antimalarico idroclorochina e un antibiotico, l’azitromicina. Un rimedio che, da ieri sera, ha deciso di somministrare ai pazienti affetti da coronavirus ricoverati nell’ospedale da lui diretto. “Non farlo sarebbe amorale”, si legge nel comunicato diffuso ieri sera. Oggi, nel consueto punto stampa di fine giornata, il ministro della Salute, Olivier Véran, ha annunciato l’adozione di un decreto nelle prossime ore per “regolamentare” l’uso dell’idroclorochina che potrà essere somministrata solo in ambiente ospedaliero, in seguito al via libera collegiale dei medici e solo per i casi severi di coronavirus. Condizioni, quelle impartite stasera da Parigi, che rispondono alle direttive espresse poco prima dall’Alto Consiglio francese di Salute pubblica. In tv e sui social, nelle ultime ore, si erano moltiplicate le testimonianze positive di chi crede nel rimedio di Raoult, incluso quella del sindaco di Nizza, Christian Estrosi, risultato positivo nei giorni scorsi al Covid-19, o della deputata Valérie Boyer, entrambi iscritti al partito dei Républicains che ha invocato ieri una commissione d’inchiesta sulla gestione dell’epidemia da parte di Macron. L’antimalarico ha ricevuto nei giorni scorsi l’endorsement del presidente Usa Donald Trump mentre il gruppo FakeMed, che riunisce esperti in lotta contro le false informazioni in campo sanitario, ha lanciato l’allarme sui pesanti effetti collaterali del farmaco, che in determinati soggetti può presentare gravi rischi cardiaci. Finora, la cura marsigliese è stata sperimentata su un numero limitato di pazienti, appena 24, alcuni dei quali asintomatici, altri con sintomi alle alte vie respiratorie e altri ancora con problemi alle basse vie respiratorie, come polmoniti o bronchiti. In tutti, assicura Raoult insieme agli altri autori della ricerca, è stata osservata “una significativa riduzione della carica virale” e questo, aggiungono, indica come l’idroclorochina associata all’azitromicina è “molto più efficiente ai fini dell’eliminazione del virus”. I risultati ottenuti finora sono promettenti e, sebbene occorrano ulteriori test (incluso europei) prima di stabilire la validità della combinazione dei due farmaci, secondo Raoult e la sua squadra potrebbero aprire la possibilità di contrastare la malattia del coronavirus in attesa che arrivino farmaci mirati e, soprattutto, il vaccino

Da "lastampa.it" il 31 marzo 2020. Parziale apertura della Francia sulla ricetta del professor Didier Raoult a base di idroclorochina. Dopo aver annunciato una stretta per limitarne l'uso unicamente ai casi più gravi di coronavirus, il ministro della Salute, Olivier Véran, allenta la presa. Accogliendo in parte l'appello del numero uno dell'ospedale universitario La Timone di Marsiglia, che da settimane tenta di convincere le autorità di Parigi sull'efficacia del suo cocktail farmacologico, un mix tra l'antimalarico, oggetto di mille discussioni e polemiche, e un antibiotico molto in voga per i problemi respiratori, l'azitromicina. Nel decreto aggiornato al 25 marzo e pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale, Parigi evoca inoltre la possibilità di somministrare le due molecole anche ai pazienti rientrati a casa dopo il necessario ricovero in ospedale. Anche se resta categoricamente escluso che la clorochina possa essere assunta autonomamente a casa, visti anche gli effetti indesiderati gravissimi se non addirittura mortali. "In deroga all'articolo L.5121-8 del codice di salute pubblica - si legge nel testo di legge disponibile sul sito LegiFrance - l'idroclorochina e l'associazione loinavir/ritonavir possono essere prescritti, somministrati e amministrati sotto la responsabilità di un medico ai pazienti contagiati da Covid-19, nelle strutture sanitarie in cui sono ricoverati, come anche, per il proseguimento del trattamento se le loro condizioni lo consentono e dietro autorizzazione" del medico che ha prescritto "inizialmente" la cura, "a domicilio". Soddisfazione per l'apertura di credito di Parigi è stata espressa da Raoult. "Grazie al ministro Olivier Véran per avermi dato ascolto", scrive in un tweet il prof dai lunghi capelli bianchi attualmente oggetto di intimidazioni telefoniche, tanto che la giustizia francese ha annunciato oggi l'apertura di un'inchiesta per individuare i responsabili. In attesa di un possibile vaccino contro il Covid-19, per cui potrebbe essere necessario un anno se non di più, ricercatori e scienziati di numerosi Paesi, Italia inclusa, sono al lavoro per trovare una soluzione tra molecole già esistenti o cocktail farmacologici. L'idroclorochina ha il vantaggio, rispetto ad altri farmaci, di essere già fruibile in quantità e a prezzi abordabili ma suscita la forte perplessità di larga parte del mondo scientifico e l'Oms deplora il numero insufficiente di collaudi, poco più di una ventina in Francia, per confermarne la validità del rimedio. "Nessuno studio dimostra l'efficacia" del farmaco sulle persone affette da Coronavirus, spiega Christophe D'Enfert, direttore scientifico dell'Institut Pasteur di Parigi, aggiungendo che questo non significa che l'antimalarico "non abbia interesse nel trattamento del Covid". "Per saperlo - gli fa eco il collega virologo Marc Lecuit - dobbiamo valutarlo scientificamente seguendo la metodologia dei test clinici". Intanto, in attesa dei risultati, la Francia continua a dividersi tra gli ortodossi del rigore scientifico e chi invoca una rapida generalizzazione della ricetta in nome dell'emergenza sanitaria. Didier Raoult, meglio noto proprio come il medico della clorochina. Microbiologo e infettivologo di lungo corso, si dice certo che la clorochina, "medicinale tra i piu' noti al mondo" che cura la malaria, puo' sconfiggere anche il nuovo coronavirus. Personaggio controverso dal look eccentrico - barba, capelli lunghi arruffati bianchi tendenti al giallo, incrocio tra un hippy e un druido uscito da un fumetto di Asterix - ego smisurato e senza peli sulla lingua, Raoult viene considerato da alcuni un genio, da altri un ciarlatano per i suoi metodi poco rigorosi e quindi non scientifici. Raoult è nato 68 anni fa a Dakar, in Senegal, dove il padre era medico militare e la madre infermiera. Cresciuto a Marsiglia, ha lasciato presto gli studi salvo presentarsi da candidato esterno alla maturità classica per poi passare agli studi di medicina. E' già noto per le sue scoperte sulle Rickettsia, batteri che causano tra l'altro il tifo, oltre ad aver decriptato il genoma del batterio responsabile della malattia di Whipple, che provoca infezioni articolari. A fine gennaio, alle prime notizie dell'epidemia in Cina, Raoult ne ha minimizzato la gravità e ha contestato tanta agitazione per il coronavirus, secondo lui solo l'ultimo di una lunga serie, invitando la gente alla calma. A Marsiglia, dove dirige 800 colleghi del prestigioso Istituto ospedaliero universitario Mediterraneo Infezione, uno dei centri di avanguardia nella ricerca e nel trattamento delle malattie infettive, ha testato con successo 24 pazienti affetti da Covid-19. E a fine febbraio su YouTube ha pubblicato un video dai toni trionfali intitolato «Coronavirus: fine della partita!», assicurando che il mondo intero ha già a portata di mano la cura per l'epidemia: la terapia a base di clorochina. In un primo momento persino il ministero della Salute francese ha bollato la sua terapia come "fake news" e molti dei suoi colleghi non la pensano come lui. «La medicina non si fa con una sola pubblicazione su Le Parisien, Le Monde o Le Figaro. La medicina non si fa con un solo test su 24 pazienti», ha commentato il noto medico chirurgo Michel Cymes. Se tanti ne criticano le imprudenze e le ultime uscite, alcune davvero infelici, rimane il fatto che Raoult ha alle spalle una carriera notevole e importanti pubblicazioni scientifiche. Del resto non a caso il presidente Emmanuel Macron lo ha invitato nel Consiglio scientifico che aiuta il governo a prendere decisioni nella gestione dell'epidemia. 

Mauro Zanon per “ilfoglio.it” il 31 marzo 2020. Il 23 marzo, in attesa di farsi depistare, c’era una fila di centinaia di persone davanti all’Ihu, l’Istituto ospedaliero universitario Méditerranée Infection di Marsiglia, ossia il quartier generale di Didier Raoult, il virologo francese di 68 anni elogiato dal presidente americano Donald Trump che da ormai una settimana fa parlare di sé ventiquattro ore su ventiquattro, dopo aver dichiarato con gran clamore che la clorochina può debellare il coronavirus, che i risultati delle sue cure (tre quarti dei pazienti trattati con il Plaquenil, uno dei nomi commerciali della clorochina, utilizzata in genere contro la malaria, non avevano più il Covid-19 dopo sei giorni) dimostrano che lui sa “come guarire la malattia”. “Nel mio mondo, sono una star mondiale, non sono affatto controcorrente”, ha detto Raoult in un’intervista al quotidiano La Provence con toni che sfiorano la megalomania, prima di aggiungere: “Mi occupo di scienza, non faccio politica (…) Me ne frego di ciò che pensano gli altri. Non sono un outsider, sono il più in anticipo di tutti”. Nato a Dakar, in Senegal, nel 1952, si è trasferito a Marsiglia all’età di 11 anni, e ha frequentato il lycée littéraire, prima di iscriversi alla facoltà di Medicina. Si è fatto conoscere identificando “Mimivirus”, un virus a Dna agente eziologico di alcune forme di polmonite, e si è fatto un nome come specialista mondiale delle “Rickettsie”, batteri intracellulari all’origine del tifo. Con la sua squadra marsigliese ha identificato una decina di nuovi batteri patogeni, due dei quali portano il suo nome: Raoultella planticola e Rickettsia raoultii. Lo chiamano, non a caso, il “pescatore di microbi” questo virologo dell’Ihu con l’accento del sud, guardato di sbieco dalla crème del mondo medico-scientifico parigino per la sua estetica a metà tra il druido Panoramix e un metallaro, ma i cui lavori nel campo delle malattie infettive e tropicali sono tra i più apprezzati al mondo. Quelli che criticano i suoi lavori, li liquida, con orgoglio marsigliese, come “petits marquis parisiens”, mentre il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, lo ha scelto tra gli undici membri del consiglio scientifico Covid-19 e Olivier Véran, ministro della Salute, assicura di sentirlo al telefono quasi ogni giorno. “Parliamo assieme più volte a settimana e ho dato tutti gli impulsi necessari affinché il suo studio possa essere sperimentato altrove in maniera indipendente, su grande scala, per confermare o infirmare i suoi resultati”, ha spiegato sabato il ministro Véran. Per il ricercatore iconoclasta marsigliese non è stato facile far sentire la propria voce in seno al governo, abbattere il muro di diffidenza che era stato eretto due anni fa, come riportato dal quotidiano Les Echos. Quando è stato inaugurato l’Ihu Méditerranée Infection, nel marzo 2018, Yves Lévy, allora patron dell’Inserm (l’Istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina) nonché marito dell’ex ministra della Salute e attuale candidata dalla République en marche a Parigi Agnès Buzyn, gli negò il label che avrebbe indiscutibilmente sancito il prestigio del centro scientifico-sanitario. Da quel momento, è stata una lotta per Raoult, ma ora, il suo trattamento a base di clorochina, bollato fino a due settimane fa come una “falsa soluzione”, verrà testato nella vasta sperimentazione clinica denominata Discovery, che includerà 3.200 pazienti provenienti da almeno sette paesi, 800 dei quali dalla Francia. Discovery, iniziata ieri in alcuni centri ospedalieri universitari (Chu) di Parigi, Lione, Lilla e Nantes, sarà coordinata dall’Inserm, e darà i suoi risultati entro sei settimane. Come spiegato da Enrico Bucci e Gennaro Ciliberto sul Foglio, tuttavia, se è vero che la clorochina è una molecola promettente, è vero anche che i test del professor Raoult hanno riguardato, per ora, un numero molto ristretto di pazienti, 24, e che non si sa nulla dello stato clinico dei pazienti sottoposti al trattamento. Bisogna insomma aspettare dati più solidi e risultati più vasti e rigorosi per capire se veramente Raoult è stato ascoltato troppo tardi dalla comunità medico-scientifica parigina. “Ha proposto uno studio pilota su 24 pazienti a Marsiglia. Il metodo di questo studio non consente di giungere a risultati convincenti. La sperimentazione che verrà condotta in diversi centri sanitari, tra cui Nizza, permetterà, invece, di osservare se ci sarà un beneficio clinico sui soggetti selezionati”, ha dichiarato a Nice Matin il professor Thierry Piche, invitando alla “prudenza”.

Coronavirus, genio o ciarlatano? Chi è Raoult, il medico della clorochina. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Da vecchio farmaco anti-malarico a cura miracolosa contro il Covid-19? In tempi normali non ci dovrebbe essere neanche spazio per la domanda. Si farebbero test clinici secondo gli standard accettati dalla comunità scientifica di tutto il mondo e, a seconda dei risultati, la nuova indicazione terapeutica verrebbe ammessa oppure no. Ma anche in Francia ormai i morti da coronavirus raddoppiano ogni giorno, in Alsazia si allestiscono ospedali da campo, il governo - che invita a stare a casa e al contempo invitava ad andare a votare - è accusato di impreparazione e tentennamenti, e quindi ci si attacca a nuovi eroi e nuove speranze: la clorochina e il suo profeta, il professor Didier Raoult. Nato 68 anni fa a Dakar, in Senegal, dove il padre era medico militare e la madre infermiera, Raoult è cresciuto a Marsiglia ed è lì che dirige l’istituto ospedaliero-universitario Mediterrannée Infection, uno dei centri di avanguardia nella ricerca e nel trattamento delle malattie infettive. In queste ore centinaia di persone stanno facendo la fila davanti all’istituto nella speranza di farsi testare e, nel caso, curare, da questo scienziato con i capelli lunghi che a fine febbraio ha pubblicato su YouTube un video dal titolo definitivo: «Coronavirus: fine della partita!». Secondo lui, la terapia a base di clorochina funziona e il mondo intero ha a portata di mano la cura per l’epidemia. Tutto molto semplice. Le imprudenze e lo stile di Raoult ne farebbero un perfetto ciarlatano, ma la questione è un po’ più complessa. Nel suo campo Raoult è un’autorità riconosciuta, i colleghi criticano le ultime uscite ma è un ricercatore che ha al suo attivo una carriera notevole e molte e importanti pubblicazioni scientifiche. Se il presidente Emmanuel Macron lo ha invitato nel Consiglio scientifico che lo aiuta a prendere decisioni nella gestione dell’epidemia, è perché Raoult non è un personaggio che si è inventato adesso. Resta il fatto che il professore di Marsiglia fa parte del sistema ma gioca anche a fare l’eccentrico, l’anti-establishment, il genio che sa prendere decisioni quando «i soliti burocrati» perdono tempo. Scettico sul riscaldamento climatico, alle prime notizie dell’epidemia in Cina faceva - come molti - lo sbruffone e non capiva tutta quell’agitazione per il corona, l’ultimo virus di una lunga serie. Campionario delle sue dichiarazioni al Parisien, questa domenica: «Il governo ha finalmente autorizzato un test clinico della clorochina? Me ne infischio, non ne ho bisogno. Vedo che la clorochina funziona, e la dò ai miei pazienti. Fine della discussione». «Alla fine tutti useranno questo trattamento, è solo una questione di tempo prima che chi mi critica si mangerà il cappello e dirà che la cura esiste ed è questa». «Anche Donald Trump ha twittato sui miei risultati, solo in Francia ancora non sanno bene chi sono io. Non è che siccome non abito a Parigi non posso occuparmi di scienza». E qui si tocca un tasto che, per quanto possa apparire bizzarro in una situazione come questa, ha il suo peso: la rivalità tra Parigi e Marsiglia, la lotta eterna tra il cuore dello Stato e la provincia, l’arroganza del potere centrale e il vittimismo di chi sarà sempre pronto a incolpare l’establishment. Raoult adora andare controcorrente, persino i capelli lunghi e gli anelli sono un modo rivendicato «per mandarli tutti al diavolo», e tra quei «tutti» c’è il suo nemico Yves Lévy, direttore dell’Inserm (Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica) di Parigi e marito di Agnès Buzyn, fino a febbraio ministra della Sanità. Il coronavirus rischia di far saltare i meccanismi di controllo, Raoult dice che «se sto precipitando e ho un paracadute non mi metto a fare test sul paracadute, lo apro», suscitando l’indignazione degli infettivologi parigini. La premio Nobel per la medicina Françoise Barré-Sinoussi dice che «per adesso non è ragionevole proporre la clorochina a un gran numero di pazienti», ma nei giorni del Covid-19 anche Eric Cantona, indimenticato campione di calcio nato a Marsiglia, si sente in diritto di difendere il conterraneo Raoult: «Ha preso la maturità letteraria, poi è partito due anni in marina, suo padre era medico e adesso Raoult è uno dei più grandi ricercatori del mondo. Ha trovato il rimedio al virus. E’ un fenomeno». Ed ecco l’attacco all’élite, al sistema, che in Francia equivale a Parigi. «Ma ci sono i Parigini con le loro giacche e cravatte tutti ben pettinati, mentre lui sembra uscito da Woodstock e lo trattano da ciarlatano. Raoult è il mio idolo». Mentre la cura al coronavirus rischia di diventare una rissa da stadio, non resta che affidarsi ancora una volta al metodo scientifico e condurre test clinici per essere sicuri che la clorochina non faccia più male che bene e non illuda inutilmente milioni di pazienti in tutto il mondo. (e questo non impedisce di sperare che il professore marsigliese abbia ragione).

Il miraggio del farmaco miracoloso. La Francia testerà l’antimalarico. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Quando in Francia «il rischio» di epidemia sembrava un’ipotesi vaga e comunque «totalmente sotto controllo» — tre settimane fa, sembra passato un secolo —, il direttore generale degli ospedali di Parigi ha avuto parole definitive sulla clorochina: «Ogni volta che arriva un nuovo virus c’è sempre qualcuno pronto a dire che funzionerà — ha detto Martin Hirsch —. Ma la clorochina non ha mai guarito nessuno», a parte il solito uso contro malaria e artrite reumatoide. Eppure quella molecola ora torna in primo piano e viene guardata con un nuovo interesse, dalla Francia al resto d’Europa allo stato di New York.Dall’inizio di marzo a oggi non sono arrivate nuove evidenze scientifiche che provino l’efficacia della clorochina contro il Covid-19, e in Italia l’Aifa (agenzia del farmaco) ha chiarito che l’uso sperimentale del farmaco è consentito solo in casi ristretti e in ambito ospedaliero, eppure si è scatenata una caccia alla clorochina che sta provocando penuria nelle farmacie e disagi ai pazienti che la usano da anni per altre malattie. Da che cosa dipende questo improvviso interesse per un farmaco messo a punto in Germania negli anni Trenta? Da un lato c’è il momento difficile delle autorità sanitarie e politiche di molti Paesi, che dopo avere a lungo minimizzato i rischi si trovano adesso impreparate di fronte all’epidemia. Dall’altro ecco i proclami poco cauti del professor Didier Raoult, infettivologo di Marsiglia che qualche giorno fa annunciava su YouTube di aver «vinto la partita» contro il Covid-19 grazie alla clorochina e che ha poi spiegato di avere ottenuto grandi risultati (il 75% di guarigioni) su 24 suoi pazienti. Un numero esiguo in base agli standard normalmente richiesti dalla comunità scientifica.

«La Regione Lombardia ha chiarito che l’uso della clorochina come prevenzione della malattia da Covid-19 non è raccomandato — dice Sergio Harari, pneumologo all’Ospedale San Giuseppe di Milano —. Questo farmaco viene utilizzato in associazione con antivirali, ma uno studio uscito l’altro giorno sul New England Journal of Medicine ha evidenziato risultati disarmanti. Dire che la clorochina e l’idrossiclorochina (Plaquenil), che sono più o meno la stessa cosa, possano essere armi efficaci contro il Covid-19 per il momento ha conferme scientifiche pari a zero». Ma altre armi certamente efficaci per il momento non esistono, e anche quelle più banali per evitare e gestire il contagio — come le mascherine e i tamponi per fare il test — in Francia non si trovano. Così anche il rigoroso ministro della Sanità Olivier Véran, all’inizio molto prudente, accetta di allargare i test ad altri ospedali dopo Marsiglia e promette risultati «in senso positivo o negativo» entro 15 giorni. A Nizza il sindaco Christian Estrosi ha annunciato ieri che negli ospedali della sua città si userà la clorochina, convinto dalla moglie che in due giorni è migliorata. Negli Stati Uniti il presidente Donald Trump ha manifestato entusiasmo per l’associazione della clorochina con un antibiotico, subito corretto da molti medici, per esempio cardiologi che sottolineano il rischio di aritmie mortali. Eppure il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, ha comprato oltre 800 mila dosi per una sperimentazione che comincerà domani. Il professor Raoult, che ama disprezzare i politici di Parigi anche se è uno degli 11 consulenti di Macron, non ha paura di bruciare le tappe: «Me ne infischio dei test clinici. Io uso già la clorochina e presto lo faranno tutti». Speriamo che tanta sicurezza si appoggi su basi solide (per adesso note solo a lui).

Coronavirus, un romano  da Tokyo: qui l’antinfluenzale per i casi lievi. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Ci ha fatto caso 5 giorni fa. «Prima Tokyo sembrava Roma oggi, ma da martedì la gente è ritornata in strada». Secondo Cristiano Aresu, 41 anni, farmacista romano che per lavoro va spesso nel paese del Sol Levante, il motivo di questo cambiamento è in un farmaco, l’Avigan, di cui ha parlato in un video su Facebook. Secondo quanto riferito da Aresu, questo farmaco, un anti influenzale, avrebbe la capacità di bloccare il progredire della malattia, se somministrato per tempo. Tra gli utenti che hanno visto quel video c’è anche il governatore della Regione Veneto, Luca Zaia. «Sta girando un video di un farmaco giapponese, l’Avigan». Zaia, che sostiene che la sperimentazione abbia ricevuto l’ok dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), spiega che il farmaco «verrà sperimentato anche in Veneto, spero che da domani si possa partire». Ma sull’Avigan, o Favipiravir, prodotto dalla Fujifilm Toyama Chemical, c’è da settimane molta prudenza. La stessa Aifa ha spiegato che discuterà solo domani l’eventuale sperimentazione, e sull’Avigan ha detto che «sono unicamente noti dati preliminari», attualmente «non sottoposti a revisione di esperti», di «un piccolo studio non randomizzato, condotto in pazienti con Covid-19 non grave con non più di 7 giorni di insorgenza», e che le evidenze scientifiche sull’efficacia del farmaco sono «scarse»: «mancano», in particolare, «dati sulla reale efficacia nell’uso clinico e sulla evoluzione della malattia». Aifa, che chiede «a maggior ragione in un momento di emergenza come quello attuale» di dare «informazioni puntuali e aggiornate sulle evidenze scientifiche» ed esorta a «non dare credito a notizie false e a pericolose illazioni», si riserva anche «il diritto di adire a vie legali ove opportuno». Molto scettico è anche è il virologo Roberto Burioni. «Non esistono evidenze scientifiche in merito», ha chiarito all’AdnKronos Salute, dopo aver sottolineato in un tweet di non fidarsi di annunci che arrivano dall’estero. «Il farmaco russo, il preparato giapponese, la vitamina C, la pericolosità dell’ibuprofen, i proclami sugli Ace inibitori che i somari scrivono Eca - scriveva l’esperto - hanno una cosa in comune: sono tutte scemenze. Le novità vi arriveranno dalle autorità sanitarie, non dai social o da YouTube». Qui un articolo con tutti i farmaci dei quali, al momento, è attiva una sperimentazione; qui un approfondimento sulle troppe bufale che girano in Rete, con farmaci «miracolosi» in arrivo da Giappone o Russia. Va ribadito che non esistono, al momento, terapie farmacologiche certe contro il coronavirus, né un vaccino.

Coronavirus, la speranza dell'antivirale Avigan e il video su Facebook. I dubbi dell'Aifa e la sperimentazione in Veneto.  Dopo la diffusione virale di un video su Facebook, arriva dal presidente della regione Veneto l’annuncio dell’avvio anche in Italia della sperimentazione sull’Avigan. Ma l'Aifa precisa: "Ci sono scarse evidenze scientifiche sull’efficacia. Domani ci riuniamo per valutare". Irma D'Aria il 22 Marzo 2020 su La Repubblica. Un sabato pomeriggio come tanti: con passeggini, famiglie e tantissime persone in giro. Accade in Giappone come se il Coronavirus non li riguardasse. Come mai? In rete sta girando il video di un farmacista romano, Cristiano Aresu, che sul suo profilo Facebook racconta come in Giappone stiano salvando vite grazie all’uso di un farmaco antinfluenzale, l’Avigan che avrebbe la capacità di bloccare il progredire della malattia, se somministrato per tempo. È davvero così? Che non si tratta del tutto di una bufala lo dimostra il fatto che il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha annunciato che domani partirà la sperimentazione anche in Italia. Subito dopo si è pronunciata anche l'Aifa, chiarendo che si riunirà domani la Commissione tecnico-scientifica per valutare.

Il caso Giappone e il racconto su Facebook. In Giappone si stima che ad oggi ci siano molte meno vittime e anche persone contagiate. Cristiano Aresu, 41 anni, che per lavoro va spesso nel paese del Sol Levante, ha postato video su Facebook di ciò che accade a Tokyo, impazzando sui social. “L’Avigan è un antinfluenzale fino a poco tempo fa venduto in farmacia: qui hanno scoperto che somministrato ai primi sintomi di coronavirus, accertati con il tampone, blocca il progredire della malattia nel 91% dei casi”, racconta Aresu nel video dando per scontate e reali le potenzialità del farmaco che sono invece tutte da dimostrare. La gente spaventata e in cerca di una soluzione sta condividendo il video a ritmi vorticosi.

Cosa sappiamo su Avigan. Il medicinale di cui si parla nel video di Facebook si chiama Favipiravir ma tra i non addetti è meglio noto con il nome di Avigan. Si tratta di un farmaco antivirale sviluppato nel 2014 dal gruppo giapponese Fujifilm Toyama Chemical (una consociata di Fujifilm) e che in questi giorni, a quanto pare, si sta rivelando una manna dal cielo per curare i pazienti affetti da Covid-19. Secondo Zhang Xinmin, direttore del Centro nazionale cinese per lo sviluppo della biotecnologia (un’ala del ministero delle Scienze cinese), il farmaco in questione sembra avere “un livello elevato di sicurezza ed è chiaramente efficace nel trattamento”. Secondo l’esperto, chi lo ha utilizzato avrebbe “negativizzato il virus in quattro giorni”.

Le precisazioni dell’Aifa. Favipiravir (nome commerciale Avigan) è un antivirale autorizzato in Giappone dal marzo 2014 per il trattamento di forme di influenza causate da virus influenzali nuovi o riemergenti e il suo utilizzo è limitato ai casi in cui gli altri antivirali sono inefficaci. "Il medicinale - chiarisce l'Aifa in una nota - non è autorizzato né in Europa, né negli Usa. Ad oggi, non esistono studi clinici pubblicati relativi all’efficacia e alla sicurezza del farmaco nel trattamento della malattia da Covid-19. Sono unicamente noti dati preliminari, disponibili attualmente solo come versione pre-proof (cioè non ancora sottoposti a revisione di esperti), di un piccolo studio non randomizzato, condotto in pazienti con Covid-19 non grave con non più di 7 giorni di insorgenza, in cui il medicinale favipiravir è stato confrontato all’antivirale lopinavir/ritonavir (anch’esso non autorizzato per il trattamento della malattia Covid-19), in aggiunta, in entrambi i casi, a interferone alfa-1b per via aerosol. Sebbene i dati disponibili sembrino suggerire una potenziale attività di favipiravir, in particolare per quanto riguarda la velocità di scomparsa del virus dal sangue e su alcuni aspetti radiologici, mancano dati sulla reale efficacia nell’uso clinico e sulla evoluzione della malattia. Gli stessi autori riportano come limitazioni dello studio che la relazione tra titolo virale e prognosi clinica non è stata ben chiarita e che, non trattandosi di uno studio clinico controllato, ci potrebbero essere inevitabili distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti".

Lo studio condotto in Cina. Dalle varie informazioni che circolano, si apprende che già in passato, in sperimentazioni condotte su animali, il Favipiravir aveva dimostrato efficacia contro i virus influenzali, il virus del Nilo occidentale, il virus della febbre gialla, il virus afta epizootica e altri flaviviru, arenavirus, bunyavirus e alphavirus. È stata dimostrata l’efficacia anche contro gli enterovirus e il virus della febbre della Rift Valley. Ora per il Favipiravir si attenderebbe l’approvazione del governo giapponese per l’uso su vasta scala sui pazienti contagiati da Covid-19, poiché inizialmente era destinato a trattare le complicanze relative all’influenza. A quanto si apprende, la Cina sta ora conducendo dei trial medici con 340 pazienti coinvolti e i risultati sarebbero “incoraggianti”. Le condizioni polmonari dei pazienti affetti da Coronavirus, infatti, sarebbero migliorate nel 91% dei casi dopo aver assunto Avigan. Stando alle ultime informazioni diffuse, inoltre, pare che ora il farmaco verrà prodotto in Cina con licenza giapponese.

L’annuncio della sperimentazione in Italia. Proprio in queste ore, arriva – sempre attraverso una diretta Facebook – l’annuncio di una sperimentazione su Avigan anche in Italia. A farlo è Luca Zaia, governatore del Veneto: “Sta girando un video di un farmaco giapponese, l'Avigan. Noi siamo all’avanguardia nella sperimentazione dei farmaci. Vi informo che l'Aifa ha dato l'ok anche per questo farmaco che verrà sperimentato anche in Veneto, spero che da domani si possa partire", ha detto su Facebook. Anche l'Aifa è intervenuta: "La Commissione Tecnico-Scientifica di AIFA rivaluta quotidianamente tutte le evidenze che si rendono disponibili al fine di poter intraprendere ogni azione (inclusa l’autorizzazione rapida alla conduzione di studi clinici) per poter assicurare tempestivamente le migliori opzioni terapeutiche per il COVID-19 sulla base di solidi dati scientifici. In particolare, nella seduta di domani, lunedì 23 marzo, la Commissione si esprimerà in modo più approfondito rispetto alle evidenze disponibili per il medicinale favipiravir".

Coronavirus, Locatelli: "Farmaco Avigan? Bene sperimentazione, ma su efficacia mancano prove certe". Repubblica Tv il 22 marzo 2020. Così il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, in merito all'efficacia del farmaco Avigan nel trattamento dei soggetti affetti da Covid-19. "Un conto sono le opzioni da testare e validare, e ben vengano le sperimentazioni, altro è definire alcune opzioni terapeutiche come la soluzione di un problema così importante come Covid-19. Prima di arrivare a dire di aver trovato soluzioni definitive servono prove inconfutabili" ha detto nel corso del suo intervento alla conferenza stampa alla Protezione civile. "Nel caso di questo farmaco specifico a oggi non abbiamo evidenze precise e inconfutabili - ha aggiunto -. Per questo raccomando cautela e prudenza per non ingenerare speranze che potrebbero restare deluse e frustrate".

Coronavirus, Aifa: "Scarse evidenze efficacia farmaco giapponese". Da adnkronos.com il 22 marzo 2020. "Ad oggi non esistono studi clinici pubblicati relativi all'efficacia e alla sicurezza del farmaco" Favipiravir (nome commerciale Avigan) "nel trattamento della malattia da Covid-19". Lo precisa l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), in merito alle informazioni circolate sull'utilizzo del prodotto contro l'infezione da nuovo coronavirus. "Favipiravir - spiega l'Aifa - è un antivirale autorizzato in Giappone dal marzo 2014 per il trattamento di forme di influenza, causate da virus influenzali nuovi o riemergenti, e il suo utilizzo è limitato ai casi in cui gli altri antivirali sono inefficaci. Il medicinale non è autorizzato né in Europa, né negli Usa". Relativamente all'impiego anti-Covid, "sono unicamente noti dati preliminari, disponibili attualmente solo come versione pre-proof (cioè non ancora sottoposti a revisione di esperti), di un piccolo studio non randomizzato, condotto in pazienti con Covid-19 non grave con non più di 7 giorni di insorgenza, in cui il medicinale Favipiravir è stato confrontato all'antivirale Lopinavir/Ritonavir (anch'esso non autorizzato per il trattamento della malattia Covid-19), in aggiunta, in entrambi i casi, a interferone alfa-1b per via aersol". "Sebbene i dati disponibili sembrino suggerire una potenziale attività di Favipiravir, in particolare per quanto riguarda la velocità di scomparsa del virus dal sangue e su alcuni aspetti radiologici - evidenzia l'ente regolatorio nazionale - mancano dati sulla reale efficacia nell'uso clinico e sulla evoluzione della malattia. Gli stessi autori riportano come limitazioni dello studio che la relazione tra titolo virale e prognosi clinica non è stata ben chiarita e che, non trattandosi di uno studio clinico controllato, ci potrebbero essere inevitabili distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti". L'Agenzia italiana del farmaco Aifa ribadisce di essere "costantemente impegnata a tutelare la salute pubblica, a maggior ragione in un momento di emergenza come quello attuale" di allarme coronavirus, "dando informazioni puntuali e aggiornate sulle evidenze scientifiche. E nell'esortare a non dare credito a notizie false e a pericolose illazioni, si riserva il diritto di adire a vie legali ove opportuno". E' il monito dell'ente regolatorio nazionale, che fa chiarezza sulle informazioni circolate in merito alla presunta efficacia anti-Covid dell'antivirale giapponese Favipiravir. Le evidenza scientifiche sono al momento "scarse".

Simone Pierini per ilmessaggero.it il 23 marzo 2020. Un durissimo scontro quello avvenuto questa sera a Non è l'Arena di Massimo Giletti tra il virologo Fabrizio Pregliasco e Vittorio Sgarbi. Nel corso della trasmissione è stato mostrato un video di un paio di settimane fa quando il critico d'arte insultò con frasi irripetibili diversi virologi, da Burioni allo stesso Pregliasco, invitando le persone a uscire, ad andare a Codogno, minimizzando i pericoli del coronavirus. Nonostante i fatti abbiamo ampiamente smentito Sgarbi, il critico si è difeso attaccando nuovamente usando come tema il farmaco Avigan, ormai sulla bocca di molti dopo il video pubblicato ieri sera dal Giappone che ne lodava gli effetti miracolosi contro il Covid-19, accusando i medici italiani di averlo nascosto per scopi oscuri. Dopo numerosi attacchi da parte di Sgarbi, che sosteneva come i virologi lo abbiano sottovalutato accusandoli di «incapacità», il virologo Pregliasco ha reagito prima cercando di rispondere con tematiche scientifiche («Lo conosciamo da tempo e stiamo valutando gli effetti di cui non abbiamo ancora garanzie»), completamente ignorate dal suo antagonista, salvo poi alzare i toni accusandolo di essere «irresponsabile». Dopo momenti di forte tensioni, il passo indietro di Vittorio Sgarbi che ha chiesto scusa al virologo.

Avigan, Vittorio Feltri con Sgarbi: "Ha ragione, provatelo subito. Cosa state aspettando?" Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Si parla dell'Avigan in mezzo mondo. Si tratta di un farmaco distribuito in Asia e che starebbe aiutando, e parecchio, il Giappone nella battaglia contro il coronavirus. Un medicinale che sarebbe utile nelle prima fasi della malattia e che il Veneto sarebbe pronto ad utilizzare, così ha detto Luca Zaia. Eppure su più fronti, inspiegabilmente, si tentenna: cosa c'è da aspettare? Quali valide ragioni, mentre le persone muoiono a centinaia ogni giorno? La pensa così Vittorio Sgarbi, che ha detto la sua a Non è l'Arena di Massimo Giletti. Parole commentate in tempo reale da Vittorio Feltri su Twitter: "Sgarbi ha ragione. C'è un farmaco giapponese che combatte il virus? Sarà una bufala ma provatela, per Dio, prima di dire che non serve a nulla", conclude il direttore di Libero. Già, perché non si fa di tutto per iniziare la sperimentazione a tempo record?

Coronavirus scontro sull’Avigan, Pregliasco a Sgarbi: “Irresponsabile”. Asia Angaroni il 23/03/2020 su Notizie.it. Sul Coronavirus e sulla possibilità di somministrare l'Avigan, è nato un dibattito tra Sgarbi e Pregliasco, che lo ha definito "un irresponsabile". Dopo il farmaco anti artrite, che a Napoli è stato somministrato con successo in 9 pazienti su 11, dal Giappone è arrivato il video di un farmacista italiano che consiglia l’uso dell’Avigan. Nel filmato si vedono frammenti di vita quotidiana, un normale sabato pomeriggio trascorso in famiglia e tra amici in uno dei quartieri più famosi del Paese. Burioni parla di “scemenze” e l’Agenzia italiana del farmaco ha precisato: “Il medicinale non è autorizzato né in Europa, né negli Usa. Non ci sono prove di efficacia”. Ma il governatore Luca Zaia non perde tempo e annuncia: “Verrà sperimentato anche in Veneto”. L’Agenzia europea per i medicinali (Ema) sta testando 20 nuovi farmaci e 35 vaccini per la lotta al Covid-19. Il direttore esecutivo Guido Rasi ha fatto sapere: “Puntiamo alle cure nell’immediato e si prosegue nel contempo senza sosta al lavoro sul vaccino”. Intanto, sull’emergenza Coronavirus e sull’ipotetica efficacia dell’Avigan, l’opinione pubblica italiana è divisa: a “Non è l’Arena”, programma di Giletti in onda su La7, è nato uno scontro tra Sgarbi e Pregliasco. Il Coronavirus è diventato oggetto di una lite furiosa tra Sgarbi e il virologo Pregliasco. Nelle scorse settimane il famoso critico d’arte aveva criticato i virologi, minimizzando sull’emergenza. Ospite di Giletti, Sgarbi si è difeso ed è tornato ad attaccare gli esperti. Dopo Burioni, è il turno del collega Pregliasco. Durante la puntata è nato un dibattito sull’Avigan, farmaco che pare abbia aiutato il Giappone nella lotta contro il virus artefice della pandemia. Il video pubblicato sui social da un farmacista italiano è subito diventato virale, animando l’opinione pubblica tra presunti complottismi (che avrebbero impedito finora l’uso del farmaco in questione) ed effetti miracolosi. Per Sgarbi il medicinale sarebbe stato sottovalutato e gli esperti, in realtà, sarebbero degli “incapaci”. Pregliasco, dall’alto della sua esperienza, ha reagito stizzito alle accuse rivolte dal critico d’arte. Subito ha fornito delle precise motivazioni scientifiche, affermando: “Lo conosciamo da tempo e stiamo valutando gli effetti di cui non abbiamo ancora garanzie“. Tuttavia, completamente ignorato da Sgarbi, anche il virologo ha replicato, reputandolo un “irresponsabile”. Sono stati momenti di tensione per Giletti e i suoi ospiti, ma poi Vittorio Sgarbi ha fatto dietrofront, chiedendo scusa a Pregliasco.

Coronavirus: Avigan, il farmaco dal Giappone. Zaia: "Spero in sperimentazione da domani". Le Iene News il 22 marzo 2020. È diventato virale il video di un farmacista italiano, Cristiano Aresu. Da Tokyo parla dell’Avigan, un farmaco che curerebbe il coronavirus. Perché in Italia non è mai arrivato? Pochi minuti fa il governatore della regione Veneto Luca Zaia ha annunciato la sperimentazione. Avigan: un farmaco miracoloso contro la pandemia da coronavirus oppure l'ennesima fake news? La domanda resta aperta dopo che è diventato virale il video di Cristiano Aresu, un farmacista romano che dal Giappone sostiene che l'Avigan sia in grado di curare “fino al 90% dei casi” di coronavirus, come potete vedere qui sopra. Il Giappone ha conosciuto questa epidemia molto prima rispetto all’Italia. Qui i contagiati sono stati poco più che un migliaio con appena 35 morti. Numeri ben lontani dal dramma italiano, che oggi conta 53.578 casi totali, 6.557 in più di ieri e 793 decessi nelle ultime 24 ore per un totale di 4.825 morti. Nel suo video Aresu ci mostra come in Giappone sia tutto tornato a una apparente normalità. Lui è arrivato a Tokyo a febbraio, il mese nero per questa emergenza, quando tutto si è fermato. Nel filmato si vedono persone passeggiare senza mascherina, mezzi pubblici funzionanti e negozi aperti.  “Perché in Italia vi fanno vedere un Giappone che se ne frega e pensa solo alle Olimpiadi? Può sembrare il solito discorso complottista, ma vi stanno nascondendo la verità”, sostiene il farmacista italiano. Per lui il merito di questo ritorno alla normalità si chiama Avigan. “Il farmaco che in Giappone esiste dal 2012, lo utilizzavano per curare l’influenza. Si tratta di un antinfluenzale che serve a curare diversi ceppi del coronavirus”, spiega il farmacista. Secondo il Financial Times, che ha approfondito la questione dell'Avigan quattro giorni fa, "i test clinici in Cina suggeriscono che sia un trattamento efficace contro il coronavirus". Inoltre, secondo il quotidiano britannico, l'Avigan può essere prodotto e distribuito soltanto su richiesta del governo giapponese per l'utilizzo contro un nuovo virus influenzale. Il governo a oggi detiene uno stock di medicine per circa due milioni di persone", ma all'occorrenza l'azienda produttrice ha predisposto "preparazioni di emergenza così da incrementare la produzione se richiesto". Perché allora nessuno l'avrebbe preso in considerazione per curare chi è affetto da COVID-19? Il farmacista punta il dito contro l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. “Sta palleggiando con questa situazione perché ha fiutato l’affare economico che ci sarebbe, qualora qualcuno dovesse prendere in mano la distribuzione dell’Avigan”. Accuse pesanti, soprattutto in un periodo come questo, quando si tratta di salvare vite umane. E l'Aifa si dice "pronta alle vie legali contro chi diffonde false informazioni sul Covid-19", come ha annunciato nel pomeriggio. Intanto l'Agenzia risponde che a oggi non ci sono prove di efficacia del farmaco. Nella sua nota stampa, infatti, si legge: "Il medicinale non è autorizzato né in Europa, né negli Usa. A oggi, non esistono studi clinici pubblicati relativi all’efficacia e alla sicurezza del farmaco nel trattamento della malattia da COVID-19”. Per ora sarebbero noti soltanto i dati preliminari, senza la revisione di esperti. Ma la validità del farmaco verrà valutata: “Nella seduta di lunedì 23 marzo, la Commissione si esprimerà in modo più approfondito rispetto alle evidenze disponibili per questo medicinale". Anche il farmacologo Silvio Garattini, presidente dell'Istituto Mario Negri, ha precisato che la sperimentazione non è ancora stata fatta perché "pare che l'Avigan sia attivo solo se dato nei primi momenti della malattia". Tuttavia la maggioranza delle persone infette non ha sintomatologia e non essendoci dei soggetti di controllo nello studio "è difficile stabilire se ha funzionato il farmaco o se i pazienti avrebbero avuto in ogni caso una sintomatologia minore. Mancano dati certi", spiega Garattini. Ma è di pochi minuti fa la dichiarazione del presidente della regione Veneto Luca Zaia, che dice che "l'Aifa ha dato l'ok alla sperimentazione". Ma questa conferma dall'Agenzia del farmaco non è ancora arrivata. E aggiunge: l'Avigan "verrà sperimentato anche in Veneto, spero che da domani si possa partire". 

Alisa Toaff per AdnKronos il 23 marzo 2020. ''Noi oggi siamo di fronte alla prima epidemia social della storia, dove la gente usa tutti gli strumenti possibili sul web per informarsi. Uno dei compiti di chi fa il mio mestiere è capire e decodificare se dietro un video o una notizia c'è una fake news. Quando ho visto che Repubblica ha pubblicato il video del farmacista laziale che parlava con entusiasmo dell'Avigan, un farmaco antivirale che a suo parere avrebbe potuto dare esiti positivi su pazienti affetti da Coronavirus, essendo subissato da persone che mi chiedevano se fosse attendibile, ho contattato alcuni medici giapponesi per avere una serie di chiarimenti''. E' quanto risponde Massimo Giletti all'Adnkronos sulle critiche in merito alla scelta di trasmettere a Non è l'Arena, che ieri è stato visto da oltre quasi due milioni di telespettatori con uno share del 7,1%. il video girato da un farmacista laziale che parla di un farmaco Giapponese che, a suo avviso, avrebbe esiti positivi su pazienti affetti da Coronavirus. Video che ormai circola in rete da giorni. ''Accertatomi quindi che il farmaco veniva effettivamente usato in Giappone -racconta il giornalista- anche se ancora solo a livello sperimentale, ho sottoposto il video al professor Pregliasco per avere una sua valutazione. Fare chiarezza è un problema?''. ''Proprio perché viviamo in un momento critico -sottolinea- bisogna dare risposte certe soprattutto da tutto ciò che proviene dal mondo web e social che entra nelle nostre case senza nessun tipo di filtro. Se non si procede in questo modo si rischia di far passare per vera una fake news, lasciando veicolare panico o false speranze''. In merito alla lite tra Preglisco e Sgarbi Giletti tiene a sottolineare: ''La dialettica di Sgarbi a volte va oltre, tracima e rischia di bruciare sul rogo del narcisismo il contenuto stesso di quello che dice. Per esempio commette un grave errore quando si permette di dire a Pregliasco "non curate i malati". Pur quindi stigmatizzando il suo comportamento virulento di ieri sera ritengo che Vittorio abbia messo in luce un'evidente spaccatura che c'è stata all'inizio della Pandemia tra gli scienziati''. ''Spaccatura che d'altra parte è emersa anche ieri nel documento firmato da alcuni medici contro la dott.ssa Gismondo -precisa Giletti- D'altronde lo stesso Sgarbi, resosi conto di essere andato oltre, si è scusato, fatto per lui quasi storico. Per quanto mi riguarda non poteva fare altro, proprio alla luce delle parole da lui usate. E' poi chiaro che il suo errore era frutto di un difetto di comunicazione da parte di alcuni virologi che avevano considerato il Coronavirus qualcosa in più di un'influenza''. ''Oggi purtroppo sappiamo che non è così -prosegue- Inganno in cui sono caduti in molti, anche tanti politici di rilievo del nostro Paese. Questa incertezza iniziale ha mandato in confusione molte persone sui modi di comportarsi. Dopodiché sono libero di dire che purtroppo i piani pandemici c'erano e in pochi li hanno seguiti. Poi se qualcuno vuole ergersi come il domenicano Bernardo Gui della Santa Inquisizione libero di farlo ma sapendo che tragica fine ha fatto''.

Roberto Burioni: Oggi in Italia la prima sperimentazione clinica decisa sulla base di un video di YouTube postato da uno sconosciuto. La vita ha più fantasia di me. 5:45 PM - Mar 23, 2020

Coronavirus, Roberto Burioni contrario alla sperimentazione di Avigan: "Farmaco giapponese postato da uno sconosciuto su Youtube". Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. L’Agenzia italiana del farmaco ha dato il via libera alla sperimentazione di Avigan, il farmaco giapponese tanto chiacchierato nelle ultime ore e richiesto anche dalle Regioni, pronte a tutto pur di trovare qualcosa che le possa aiutare nella battaglia contro il coronavirus. Il ministro Roberto Speranza ha confermato che il comitato tecnico-scientifico sta sviluppando “un programma di sperimentazione e ricerca per valutare l’impatto del farmaco nelle fasi iniziali della malattia”. Roberto Burioni non è però apparso entusiasta della notizia, e per una ragione ben precisa: non c’è ancora una dimostrazione scientifica dell’effettiva utilità del farmaco contro il Covid-19. “Oggi in Italia la prima sperimentazione clinica decisa sulla base di un video di YouTube postato da uno sconosciuto. La vita ha più fantasia di me”, è il commento del noto virologo marchigiano. 

Alberto Giorgi  per il Giornale il 25 marzo 2020. Anche Roberto Burioni è (molto) scettico nei confronti dell'Avigan, il farmaco "miracoloso" giapponese che darebbe buoni risultati contro il coronvirus, specialmente nella fase iniziali dell’infezione. La medicina è finita alla ribalta in seguito al video di un imprenditore romano in vacanza in Giappone, che decanta gli effetti benefici dell'Avigan. Nei giorni scorsi l'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, ha dato il via libera alla sperimentazione dello stesso per valutare i suoi effetti contro la malattia. Non tutti, però, anzi, sono favorevoli a questa decisione. Tra questi anche il noto virologo che sostiene la "non esistenza di alcuna prova scientifica di efficacia clinica contro il Covid-19". Burioni dice no all'Avigan e lo fa condividendo in toto, e pubblicando sul sito Medical Facts, la tanto chiara quanto netta presa di posizione di Enrico Bucci, professore di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia. Il professore si schiera contro la soluzione nipponica parlando di follia in relazione alla scelta di scegliere i farmaci da sperimentare contro il coronavirus basandosi sulle informazioni prese da YouTube. Bucci, sposato in toto da Burioni, dice: "Italia le lezioni non si apprendono mai. Le sperimentazioni cliniche imposte a furor di popolo hanno raggiunto nuove vette di follia: un video su YouTube, condiviso da un imprenditore romano in vacanza, ha messo in moto un meccanismo che ha visto il governatore del Veneto Luca Zaia fare pressione e quindi Aifa approvare una sperimentazione con un farmaco antivirale normalmente usato per l'influenza". E aggiunge: "È mai possibile passare in meno di una settimana da un video su YouTube ad una sperimentazione autorizzata da un'agenzia nazionale che dovrebbe valutare approfonditamente quali farmaci immettere nelle varie sperimentazioni contro un virus pericoloso?". E ancora: "Le sperimentazioni si devono iniziare dopo una analisi rigorosa dei dati scientifici, non seguendo la spinta della pubblica opinione. Di Bella e Stamina sono vergogne che non devono mai più ripetersi". Il titolare della prestigiosa cattedra dell'ateneo della città americana in Pennsylvania sottolinea la non sussistenza di alcuna prova di efficacia clinica dell'Avigan, sostenendo che è in atto un "un suggestivo quadro di benefici derivati dall'uso del farmaco in condizioni caotiche, che potrebbe benissimo essere dovuto al caso e al bis degli sperimentatori Mancano dati sulla reale efficacia nell'uso clinico e sull'evoluzione della malattia. Ci potrebbero essere inevitabili distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti". Bucci, inoltre, dichiara che l'Aifa non è stata capace di reggere la "pressione dell'opinione pubblica, del ministero della Salute e della Regione Veneto, dando nonostante tutto il via libera alla sperimentazione".

Coronavirus, Speranza: Aifa procede su sperimentazione Avigan. (LaPresse il 23 marzo 2020) "Il direttore generale di Aifa, Nicola Magrini, mi ha comunicato che la riunione del Comitato Tecnico–Scientifico di questa mattina, dopo una prima analisi sui dati disponibili relativi ad Avigan, sta sviluppando un programma di sperimentazione e ricerca per valutare l’impatto del farmaco nelle fasi iniziali della malattia. Nei prossimi giorni i protocolli saranno resi operativi, come già avvenuto per le altre sperimentazioni in corso". Lo dichiara il ministro della Salute, Roberto Speranza, dopo l’incontro con il direttore generale di Aifa.

Giuliana Ferraino per il "Corriere della Sera” il 3 aprile 2020. Avigan, farmaco anti virale e anti influenzale giapponese, è diventato popolare in Italia per un video girato da un italiano in viaggio a Tokyo e postato sui social network con una pretesa grande così: sarebbe la medicina segreta per arginare l' epidemia di Covid-19 in Giappone. Dopo il clamore, l' Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha annunciato l' avvio di uno studio clinico. Per capire come stanno le cose, abbiamo chiesto informazioni su Avigan direttamente al produttore Fujifilm, il gruppo di fotografia fondato nel 1934 che, per sopravvivere alla rivoluzione digitale, si è reinventato un futuro (anche) nella salute. «Avigan è stato approvato nel 2014 in Giappone per curare l' influenza, ma non ancora per trattare il Covid-19. È un farmaco che non può essere venduto al pubblico, perciò non è distribuito nelle farmacie, ma è controllato dal governo, che deve autorizzarne l' uso», spiega Junji Okada, general manager della divisione farmaceutica di Fujifilm.

Perché si guarda ad Avigan contro il Sars-CoV2?

«Alcune società stanno sviluppando un vaccino, ma ci vogliono almeno 12-18 mesi. Avigan non era mai stato impiegato fino a poco tempo fa. Ma quando è scoppiato il Covid-19, il governo di Tokyo ha deciso di utilizzarlo, in modo limitato e sotto il suo controllo. Solo il ministero della Sanità può decidere a quali ospedali distribuire Avigan per la sperimentazione. Attualmente sono in corso due ricerche cliniche in Giappone su Avigan. Ma sono 6 i farmaci oggetto di studio come trattamenti anti Covid-19».

I risultati su Avigan?

«Non sono ancora stati resi noti. Fujifilm non è coinvolta negli studi. Ma il governo ha accolto la nostra richiesta di avviare una sperimentazione clinica di fase III per valutare sicurezza e efficacia di Avigan in Giappone per i pazienti colpiti dal Covid-19».

La vostra sperimentazione è appena partita. Quanto ci vorrà per l' eventuale via libera per il Sars-CoV2?

«Il protocollo prevede uno studio su 100 pazienti: 65 trattati con Avigan, 35 con un placebo. Ipotizzando un trattamento di 14 giorni, potremmo inviare i dati al governo nel giro di un mese, o poco più. La speranza è che l' emergenza acceleri i tempi e che il farmaco possa essere usato per il Covid-19 entro fine anno».

Avigan serve a curare o a prevenire l' infezione?

«Può essere usato solo sui pazienti già ammalati di Covid-19: con febbre sopra i 37,5 gradi da almeno 4 giorni, tosse, mal di testa e che hanno già sviluppato la polmonite».

Come funziona Avigan?

«Un virus per riprodursi ha bisogno delle cellule di un altro organismo. Avigan ha un meccanismo unico che inibisce l' enzima che permette la riproduzione del virus nella cellula infetta e ne blocca la crescita. Secondo uno studio pilota realizzato in Cina, dove hanno trattato i pazienti per 14 giorni, il farmaco riduce la tosse, la febbre e i sintomi della polmonite. Fujifilm non è coinvolta, non è stato usato il nostro farmaco, ma un generico (favipiravir). Però Avigan ora è più conosciuto anche in Giappone».

Che effetti collaterali ha?

«Non sono state osservate reazioni avverse gravi. Le principali reazioni avverse includono l' aumento del livello di acido urico nel sangue».

L' Aifa ha annunciato una sperimentazione e Lombardia, Veneto e Piemonte si sono già candidate.

«L' Aifa ci ha contattato e ci ha chiesto campioni clinici di Avigan, perché il nostro farmaco non è stato approvato in Europa o negli Usa».

Via libera dell’Aifa alla sperimentazione sull’Avigan: si studia l’impatto del farmaco. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Le aspettative, bene o mal riposte che siano, in questi ultimi giorni si chiamano Avigan. Ovvero il farmaco giapponese di cui tutti parlano dopo il video di un imprenditore romano diventato virale sui social. Un argomento di cui ha discusso lunedì il Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). «Il direttore generale di Aifa, Nicola Magrini, mi ha comunicato che, dopo una prima analisi sui dati disponibili relativi ad Avigan, il Comitato sta sviluppando un programma di sperimentazione e ricerca per valutare l’impatto del farmaco nelle fasi iniziali della malattia. Nei prossimi giorni i protocolli saranno resi operativi, come già avvenuto per le altre sperimentazioni in corso» ha affermato in un comunicato il ministro della Salute Roberto Speranza. Grande entusiasmo era stato espresso poche ore prima da Luca Zaia e Attilio Fontana, al governo delle due regioni più colpite. «Il Veneto è pronto a sperimentare il medicinale, ma rispettiamo le leggi e quindi siamo in attesa dell’autorizzazione dell’Aifa. Se c’è anche solo la minima possibilità, io sono convinto che si debba procedere» aveva detto il presidente del Veneto. Gli aveva fatto eco il collega lombardo: «Chiederò al ministro della Salute di accelerare il più possibile questa sperimentazione in modo da avere una risposta rapida per capire se il farmaco possa o meno essere utilizzato». Insomma l’aspettativa è alta, ma era stata la stessa Aifa domenica a smorzare l’entusiasmo, sottolineando che ad oggi non esistono studi clinici relativi all’efficacia e alla sicurezza di favipiravir (il principio attivo di Avigan) nel trattamento di Covid-19. «È un antivirale autorizzato in Giappone da marzo 2014 per il trattamento di forme di influenza causate da virus nuovi o riemergenti e il suo utilizzo è limitato ai casi in cui gli altri antivirali sono inefficaci — ha spiegato l’ente —. Il medicinale non è autorizzato in Europa, né negli Usa». Relativamente all’impiego in Covid-19, «sono unicamente noti dati preliminari di un piccolo studio condotto in pazienti con Covid-19 non grave, in cui favipiravir è stato confrontato alla combinazione antivirale lopinavir/ritonavir. Sebbene i dati disponibili sembrino suggerire una potenziale attività di favipiravir, in particolare per quanto riguarda la velocità di scomparsa del virus dal sangue e su alcuni aspetti radiologici, mancano informazioni sulla reale efficacia nell’uso clinico e sulla evoluzione della malattia». Si dovrà ora capire come regolarsi con l’azienda produttrice del farmaco, la giapponese Toyama Chemical, controllata di Fujifilm. «In questa fase l’azienda non è in grado di divulgare alcun piano per l’uso di Avigan in altri Paesi. Per valutare la sua efficacia e sicurezza nei confronti di Covid-19, Fujifilm prevede di avviare uno studio clinico in Giappone — ha detto Mario Lavizzari, corporate senior director Fujifilm Italia —. Avigan deve essere somministrato a coloro che sono stati infettati da una nuova influenza o dal riemergere delle infezioni del virus dell’influenza, quando un altro farmaco antinfluenzale non funziona. Ora è somministrato a pazienti di Covid-19 in Giappone ai fini di uno studio di osservazione. Sappiamo anche che favipiravir (farmaco generico) è stato somministrato a pazienti Covid-19 in Cina. Fujifilm non ha svolto alcun ruolo nelle ricerche di cui sopra e non è quindi in grado di commentare questi risultati. Al momento non esistono prove scientifiche cliniche pubbliche che dimostrino l’efficacia e la sicurezza di Avigan contro Covid-19 nei pazienti». Infine il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri ha messo in guardia dalla diffusione di notizie che arrivano da fonti non qualificate. Il riferimento è al filmato dell’imprenditore romano relativo alla presunta efficacia di Avigan contro Covid-19. Quello che gira, sottolinea Sileri, «è un video molto discutibile. Ammettendo pure che ci sia un farmaco salva-vita, se tu inizi un video dicendo che in Italia stanno tenendo nascosta una cosa per qualche motivo, facendo dietrologia, questo non va bene. Se pensi che vi sia un farmaco che possa essere utile, lo segnali agli Enti. Quando si dice che ha il 91% delle guarigioni bisogna vedere dove è scritto, perché in letteratura scientifica questo dato non l’ho trovato. Farmaci antivirali probabilmente più efficaci di questo sono già testati». 

Al via il test sul farmaco giapponese. La corsa alle terapie e l’allerta dell’Oms. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 da Corriere.it. «Riconosciamo che c’è un disperato bisogno di terapie efficaci, che attualmente non esistono». È una sintesi perfetta quella del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel briefing quotidiano sull’epidemia da Sars-CoV-2. Nel giorno in cui l’Agenzia italiana del farmaco ha aperto alla possibilità di una sperimentazione su Avigan, il medicinale giapponese su cui si è concentrata l’attenzione del mondo, il capo dell’Oms ha detto che «l’uso di trattamenti non testati potrebbe suscitare false speranze, fare più danni che benefici e causare una carenza di medicine essenziali per curare altre malattie». Le aspettative, bene o mal riposte che siano, in questi ultimi giorni si sono concentrate su Avigan. Ne ha discusso il Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), dando il via libera a «un programma di sperimentazione e ricerca per valutare l’impatto del medicinale nelle fasi iniziali della malattia», come spiegato dal ministro della Salute Roberto Speranza. Le risposte «non arriveranno prima di 3-4 settimane», ha chiarito il presidente Aifa, Nicola Magrini». In ogni caso la palla è stata presa al volo dal governatore lombardo Attilio Fontana: «La sperimentazione inizierà immediatamente». Sulla stessa linea il presidente veneto Luca Zaia: «Siamo pronti». La stessa Agenzia del farmaco ha però frenato gli entusiasmi, sottolineando che ad oggi non esistono dati relativi all’efficacia e alla sicurezza di favipiravir (principio attivo di Avigan) nel trattamento di Covid-19. Si dovrà capire anche come regolarsi con l’azienda produttrice, la giapponese Toyama Chemical, controllata da Fujifilm. «In questa fase l’azienda non è in grado di divulgare piani per l’uso di Avigan in altri Paesi» ha detto Mario Lavizzari, corporate senior director Fujifilm Italia. Un altro fronte interessante è quello rappresentato dal farmaco antivirale remdesivir, in sperimentazione in 12 Centri italiani su pazienti con Covid-19: il medicinale (non ancora in commercio, quindi somministrabile solo in via compassionevole), sviluppato originariamente come anti Ebola, è stato messo a disposizione gratuitamente dalla casa farmaceutica Gilead. In corso anche lo studio — approvato dall’Agenzia italiana del farmaco — «Tocivid-19» su efficacia e sicurezza di tocilizumab (offerto gratuitamente da Roche), che coinvolge 330 pazienti. Si tratta di un farmaco biologico che blocca gli effetti dell’interleuchina-6, una proteina prodotta dal sistema immunitario, tra i protagonisti della cosiddetta «tempesta citochinica» che si verifica nei casi più gravi dell’infezione. Altri due farmaci da tenere d’occhio sono siltuximab, che ha un meccanismo d’azione simile a tocilizumab ed è in sperimentazione a Catania e Brescia, e la clorochina, un medicinale anti malarico che si è dimostrato efficace in diversi pazienti, anche in associazione con lopinavir/ritonavir, usati contro l’Hiv. «Sui farmaci antivirali, come Avigan, abbiamo pochi dati, mentre le molecole che agiscono sui sintomi, tocilizumab e siltuximab, stanno dando buoni risultati — afferma Filippo Drago, docente di Farmacologia e direttore dell’Unità di Farmacologia clinica al Policlinico di Catania —. Nei pazienti con forme gravi di Covid-19 ridurre la compromissione funzionale del polmone è un obiettivo prioritario e spesso decisivo».

Coronavirus, l'Agenzia del farmaco boccia il Tocilizumab, l'antireumatoide non porta benefici. Il Quotidiano del Sud il 17 giugno 2020. Si è concluso anticipatamente e con esito negativo il percorso di studio sull’efficacia del Tocilizumab, farmaco antireumatoide, nella cura del coronavirus Covid-19, quanto meno nei pazienti in una fase intermedia del decorso della malattia. Lo studio era stato effettuato con l’arruolamento di 126 pazienti (un terzo della casistica prevista) per valutare l’efficacia del medicinale somministrato in fase precoce, nei confronti della terapia standard in pazienti affetti da polmonite da Covid-19 di recente insorgenza che richiedevano assistenza ospedaliera, ma senza procedure di ventilazione meccanica invasiva o semi-invasiva. Lo studio è stato promosso dall’Azienda Unità Sanitaria Locale-IRCCS di Reggio Emilia (Principal Investigators i professori Carlo Salvarani e Massimo Costantini) ed è stato condotto con la collaborazione di 24 centri. Si tratta del primo studio randomizzato concluso a livello internazionale su tocilizumab, interamente realizzato in Italia. «Lo studio – spiega l’Aifa in una nota – non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per quanto riguarda la sopravvivenza. In questa popolazione di pazienti in una fase meno avanzata di malattia lo studio può considerarsi importante e conclusivo, mentre in pazienti di maggiore gravità si attendono i risultati di altri studi tuttora in corso». Dei 126 pazienti randomizzati, tre sono stati esclusi dalle analisi perché hanno ritirato il consenso, nei restanti 123 pazienti è stata evidenziata una percentuale simile di aggravamenti nelle prime due settimane nei pazienti randomizzati a ricevere tocilizumab e nei pazienti randomizzati a ricevere la terapia standard (28.3% vs. 27.0%). Nessuna differenza significativa è stata osservata nel numero totale di accessi alla Terapia Intensiva (10.0% verso il 7.9%) e nella mortalità a 30 giorni (3.3% vs. 3.2%). In sostanza, quindi, che si usasse il Tocilizumab o meno il decorso della malattia non ha manifestato scostamenti degni di nota. In conclusione, per l’Agenzia del Farmaco «l’uso del Tocilizumab deve essere limitato esclusivamente nell’ambito di studi clinici randomizzati».

Tocilizumab promosso dall’agenzia del farmaco spagnolo, la "rivincita" di Ascierto dopo il caso Aifa. Redazione su Il Riformista il 21 Giugno 2020. La Boe, acronimo di Official State Gazette, l’agenzia del farmaco spagnola, riconosce come farmaco essenziale per il trattamento del coronavirus il Tocilizumab, farmaco utilizzato in processi anti-infiammatori come l’artrite reumatoide e per la prima volta sperimentato per fermare la tempesta citochinica da Covid 19 dall’oncologo del Pascale Paolo Ascierto. A confermarlo è il quotidiano spagnolo Publico. A convincere la Boe a promuovere il Tocilizumab gli effetti significativi che il farmaco avrebbe avuto sui pazienti più gravi collegati a ventilatori meccanici o che hanno bisogno di ossigeno. Nei giorni scorsi si era creata una polemica tra l’oncologo e l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che aveva spiegato in una nota come il farmaco “non porta alcun beneficio ai pazienti affetti da Covid-19. Uno studio randomizzato su 126 pazienti coordinato da Reggio Emilia, concluso anticipatamente, aveva evidenziato come il farmaco “non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per la sopravvivenza”. “Tocilizumab – scrive l’Aifa – si deve considerare come un farmaco sperimentale”. Per Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, la nota dell’Aifa va presa però con le molle. “Sarei cauto nell’affermare che questo farmaco non funziona, a causa di una serie di limitazioni che riguardano lo studio in questione, che è giunto a conclusioni già note, su pazienti non gravi. Nei pazienti con forma più severa, il tocilizumab funziona e noi lo stiamo dimostrando”, ha spiegato Ascierto all’Adnkronos.

Pasticcio Aifa, caos sullo studio sul Tocilizumab. Ascierto: “Su pazienti gravi funziona”. Redazione su Il Riformista il 18 Giugno 2020. L’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha spiegato in una nota che il farmaco per l’artrite reumatoide Tocilizumab non porta alcun beneficio ai pazienti affetti da Covid-19. Uno studio randomizzato su 126 pazienti coordinato da Reggio Emilia, concluso anticipatamente, ha evidenziato come “non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per la sopravvivenza”. “Tocilizumab – scrive l’Aifa – si deve considerare come un farmaco sperimentale”. Per Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, la nota dell’Aifa va presa però con le molle. “Sarei cauto nell’affermare che questo farmaco non funziona, a causa di una serie di limitazioni che riguardano lo studio in questione, che è giunto a conclusioni già note, su pazienti non gravi. Nei pazienti con forma più severa, il tocilizumab funziona e noi lo stiamo dimostrando”, ha spiegato Ascierto all’Adnkronos. Nella nota diffusa dall’Aifa si legge infatti che “lo studio non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per quanto riguarda la sopravvivenza. In questa popolazione di pazienti in una fase meno avanzata di malattia lo studio può considerarsi importante e conclusivo, mentre in pazienti di maggiore gravità si attendono i risultati di altri studi tuttora in corso. Dei 126 pazienti randomizzati, tre sono stati esclusi dalle analisi perché hanno ritirato il consenso. L’analisi dei 123 pazienti rimanenti ha evidenziato una percentuale simile di aggravamenti nelle prime due settimane nei pazienti randomizzati a ricevere tocilizumab e nei pazienti randomizzati a ricevere la terapia standard (28.3% vs. 27.0%). Nessuna differenza significativa è stata osservata nel numero totale di accessi alla Terapia Intensiva (10.0% verso il 7.9%) e nella mortalità a 30 giorni (3.3% vs. 3.2%)”. L’oncologo per primo ha utilizzato per primo il ‘Toci’ nel trattamento della polmonite interstiziale da Covid-19 e rivendica i risultati ottenuti a Napoli: “I dati che vengono fuori dallo studio emiliano – evidenzia il medico all’Adnkronos – non fanno altro che confermare risultati già noti. E c’è una serie di punti da notare: innanzitutto parliamo di due studi, il nostro ‘Tocivid-19’ e quest’ultimo, che arruolano due categorie di pazienti diversi. Nel trial emiliano i pazienti vengono trattati in una fase precoce e in una situazione più lieve, rispetto allo studio Tocivid-19. Ancora, nello studio emiliano per definire la risposta infiammatoria il paziente doveva corrispondere a una sola di queste tre situazioni: una misurazione della febbre al di sopra di 38° C negli ultimi 2 giorni, l’incremento della Pcr di almeno due volte il valore basale, oppure una Pcr sierica maggiore o uguale a 10 mg/dl. In pratica il paziente poteva anche solo avere avuto la febbre. Infine, i risultati riguardano 123 pazienti (anzi, la metà sono quelli effettivamente trattati essendo uno studio randomizzato): una coorte di sicuro piccola rispetto al Tocivid-19, che viene condotto su 330 pazienti, ma con una coorte osservazionale di oltre 2.500 pazienti”. Ascierto ricorda quindi come nello studio napoletano “a un mese è stato ottenuto un tasso di letalità del 22,4%, quindi un risultato superiore del 10% rispetto a quanto prospettato. A 30 giorni l’impatto del tocilizumab c’è, e un altro piccolo studio retrospettivo dell’università del Michigan su pazienti gravi dimostra esattamente quello che abbiamo visto noi. Detto questo, il dato negativo su pazienti lievi già era stato evidenziato da uno studio di Sanofi Regeneron reso noto il 27 aprile: era stato affermato che il sarilumab, un analogo del tocilizumab, non funziona nelle fasi precoci, ma funziona in pazienti più seri. Tra l’altro la mortalità osservata in questo studio a 30 giorni è stata del 3% circa, indicando che si tratta di una popolazione selezionata a prognosi più favorevole”.

Parla il professore Pierluigi Lopalco. “Il Tocilizumab è efficace contro il Covid-19”, ennesima approvazione per la Cura Ascierto.  Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. “I risultati” di uno studio “sono confortanti e confermano quanto osservato precedentemente: il Tocilizumab presenta una certa efficacia nel prevenire il ricorso alla ventilazione meccanica e riduce la probabilità di morte se combinato con il trattamento standard”. E’ quanto scrive sui social il professore Pierluigi Lopalco, epidemiologo a capo della task force pugliese per l’emergenza Coronavirus, riprendendo una ricerca pubblicata su Lancet Reumathology sull’efficacia del farmaco anti-artrite prodotto da La Roche e sperimentato contro il Covid-19 per la prima volta a Napoli su intuizioni del professor Paolo Ascierto,  direttore del Dipartimento Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto dei tumori partenopeo. “L’effetto positivo del Tocilizumab – spiega Lopalco – era stato ipotizzato da osservazioni cliniche preliminari in Cina, quindi confermato da osservazioni aneddotiche anche in importanti centri clinici italiani. Solo ora, dopo tre mesi di osservazioni e studi, viene pubblicato un bello studio su Lancet Reumathology a firma di cari amici e colleghi fra Bologna, Modena e Reggio Emilia. Ma quello che è più importante ai fini di questa riflessione sono le conclusioni degli autori che, dopo mesi di lavoro e dopo aver spaccato il capello ai dati raccolti da 1.351 cartelle cliniche, concludono: “Sebbene questi risultati siano incoraggianti, dovranno essere confermati da studi randomizzati come quelli attualmente in corso”.

Parla Paolo Ascierto: «La mia cura è efficace e vi spiego il perché». La terapia di Tocilizumab, un farmaco anti-artrite, è discussa ma ha già curato 330 pazienti. Federico Cenci il 26 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. A Solopaca, località del Sannio di cui è originario, gli hanno dedicato un gusto di gelato. Il prof. Paolo Ascierto, del resto, è un compaesano di cui andare fieri. Oncologo che dirige l’unità di Melanoma, Immunoterapia oncologica e Terapie innovative del Pascale di Napoli, a lui si deve l’intuizione dell’efficacia della terapia di Tocilizumab, un farmaco anti-artrite, per curare il Covid-19. Terapia su cui però l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) si è espressa affermando che «non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati» (Diverso il parere della BOE, l’agenzia del farmaco spagnola, che pochi giorni fa ha riconosciuto la “cura Ascierto” come essenziale per il trattamento del coronavirus.

Professore, per lei si tratta di un riscatto dopo il parere dell’AIFA?

«Non parlerei di riscatto, il mio non è un voler dimostrare per forza che la terapia con il Tocilizumab è efficace. Se avessi avuto la percezione, dai dati scientifici, che il farmaco non funzionava, sarei stato il primo a renderlo pubblico. La BOE ha semplicemente riconosciuto che alla base della polmonite da coronavirus vi è una intensa liberazione di citochine, osservando come, i pazienti più gravi collegati a ventilatori meccanici o che necessitano di ossigeno, traggono dei notevoli benefici dalla somministrazione del farmaco».

Che idea si è fatto delle conclusioni cui è giunta l’Aifa?

«L’AIFA ha semplicemente confermato ciò che già si sapeva, ovvero che il farmaco non dà alcun beneficio nei pazienti che si trovano in una fase meno avanzata, precisando inoltre che per i pazienti che si trovano in una condizione clinica più grave, bisogna attendere i risultati di studi in corso, prima di giungere a conclusioni. Lo studio emiliano ha coinvolto un gruppo di pazienti nei confronti del quale già si sapeva che il farmaco probabilmente non avrebbe dato alcun risultato, in particolare sono stati selezionati pazienti con sintomi lievi in cui per definire la risposta infiammatoria il paziente doveva rispettare almeno uno dei tre criteri: una misurazione della febbre al di sopra di 38° C negli ultimi 2 giorni, l’incremento della Pcr di almeno due volte il valore basale, oppure una Pcr sierica maggiore o uguale a 10 mg/dl. I risultati riguardano circa 60 pazienti, una coorte più piccola rispetto al Tocivid-19, che invece è stato condotto su 330 pazienti, con una coorte osservazionale di oltre 2.500 pazienti. Inoltre il dato negativo su pazienti lievi già era stato evidenziato da uno studio di Sanofi Regeneron reso noto il 27 aprile in cui era stato affermato che il Sarilumab, un analogo del Tocilizumab, non funziona nelle fasi precoci, ma in pazienti più gravi. Tra l’altro la mortalità osservata in questo studio a 30 giorni è stata del 3% circa, indicando che si tratta di una popolazione selezionata a prognosi già più favorevole».

Quanti pazienti avete curato finora con il Tocilizumab?

«Circa 330. Con questo studio abbiamo dimostrato che nei pazienti gravi che rispettavano alcuni criteri, il tasso di letalità a 30 giorni è stato ridotto di più del 10%. Inoltre, nello studio osservazionale dell’AIFA, sono stati trattati più di 2mila pazienti. I dati che verranno dall’analisi di quest’ultima coorte, contribuiranno a chiarire ulteriormente il ruolo del tocilizumab nella cura del distress respiratorio da Covid-19».

Ci sarà o no una seconda ondata in autunno?

«Sappiamo ancora troppo poco di questo virus per poter avanzare ipotesi di certezza. La probabilità di una seconda ondata c’è, in autunno come ora. Poi, se non dovesse accadere, saremmo tutti più contenti. In poche parole, come affermava Manzoni «meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore», e purtroppo all’inizio di questa pandemia abbiamo più che riposato nell’errore. Detto questo, al momento i numeri ci rincuorano, ma proprio per questo è molto importante non abbassare la guardia»

Coronavirus, italiano trova in Russia il miracoloso Arbidol? Ma è una bufala. Le Iene News il 17 marzo 2020. Paolo Gellano è un umbro che in Russia ha comprato l'Arbidol, che fermerebbe il coronavirus. “Perché a Mosca non c’è un decesso e qui stiamo morendo?”, dice un video che è diventato subito virale sul web. In tantissimi ce lo avete segnalato, chiedendoci se il farmaco funziona davvero. Così abbiamo sentito Gellano, in un’intervista un po’ surreale. Scoprendo anche che questo medicinale “miracoloso” in Russia è considerato “inutile anche per il raffreddore” e doveva essere ritirato già nel 2007. E che si tratta di una bufala. “Ci troviamo all’aeroporto di Mosca, ora andiamo in farmacia a comprare il famoso Abidol, il farmaco contro il coronavirus che qui è in commercio da 46 anni. Mi sapete dire come mai in Italia sono morte così tante persone perché non abbiamo il farmaco e i russi ce l’hanno?”. A parlare, in questo video che è diventato purtroppo virale su Internet, è un uomo che si chiama Paolo Gellano che va a comprare il farmaco “miracoloso”, quello che secondo lui starebbe proteggendo la Russia dalla pandemia di coronavirus. Prima pubblica il video su Facebook, poi viene rilanciato da una pagina chiamata “Oxford Street Marcianise" e in pochi minuti ha registra oltre 33mila condivisioni: “Condividete tutti e subito, questo è un video che ci è stato mandato da un residente in Russia (Mosca). Condividete prima che Facebook lo banna. Questa è una vera guerra politica”. Sotto il video parte una pioggia di commenti, fra chi condivide la situazione bellica che staremmo vivendo a chi, invece, ridicolizza la “scoperta miracolosa” di Paolo Gellano. E sono tanti anche gli utenti di origini russe a intervenire: “Mamma mia... Arbidol, che in Russia tutti conoscono come medicinale assolutamente inutile, che non cura neanche un raffreddore. Credo che i suoi produttori finalmente siano felici... Prima lo compravano solo le nonnette ingenue, adesso anche gli stranieri”. Insomma si tratta di una delle tante bufale che purtroppo stanno girando sul web, e che purtroppo sul coronavirus proliferano come funghi. Ma di cosa stiamo parlando esattamente? L’Arbidol (il nome corretto è questo) o Umifenovir, è un comune antinfluenzale sviluppato in Russia, che dovrebbe curare tra l’altro le infezioni virali respiratorie acute. Un farmaco di cui però, nel 2007, lo stesso “Comitato Formulario dell'Accademia Russa di Scienze Mediche”, consigliava il ritiro dai prontuari, in quanto “obsoleto e con efficacia non dimostrata”. Un farmaco sul quale, raccontano alcune voci, si sarebbero allungate anche ombre di corruzione, col presunto tentativo di favorirne la diffusione per aiutare la casa produttrice, che sarebbe legata da interessi ad alcuni ministri del governo. Ma Paolo Gellano porta avanti lo stesso, senza alcuna base scientifica, la sua tesi, sulla base della quale crede di poter spiegare i dati bassi del contagio in Russia: 93 ammalati, di cui appena 8 ricoverati e nessun morto. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci spiegare perché si trovi lì: “Per lavoro monto cucine. Arrivavo da New York e tornando a Roma ho fatto scalo a Mosca. All’aeroporto ho visto tutta questa gente che comprava il medicinale: sono entrato e ne ho prese due scatole. Serviva la ricetta medica, ma ho allungato dei soldi alla farmacista e me le ha date. Lei mi ha confermato che il farmaco combatte il coronavirus, poi io non so se sia vero o no. Ma mi chiedo come mai in Russia non c’è un malato... Io sono ignorante, non sono un dottore, ma l’ho comprato per vedere se tante volte funziona. Quando sono tornato a casa però i miei familiari mi hanno dato del matto, ho anche litigato con mia moglie”. E su quel suo video, divenuto purtroppo virale, aggiunge: “Io non volevo condividere il video per diventare famoso, sono un ragazzo semplice e mi sto anche spaventando. Ho ricevuto chiamate di gente che mi vuole denunciare, che dice di voler venire a casa mia... Non li conosco neanche. Ma io penso di non aver fatto niente di male". L’Organizzazione mondiale della sanità sulle possibili cure contro il coronavirus è chiara: a oggi “non ci sono terapie efficaci conosciute contro il 2019-nCoV”. L'unica speranza è il vaccino, che però non sarà pronto prima di 12-18 mesi.

Il complottone del farmaco Arbidol (o Abidol) contro il coronavirus non venduto in Italia. Fate attenzione! David Puente e Juanne Pili su Open.online il 17 marzo 2020. La brutta notizia è che Arbidol non vi serve. Quella buona è che in Europa sono in commercio solo farmaci sicuri. Circola un video dove un italiano in Russia acquista un farmaco chiamato Arbidol (o Abidol) che, secondo quanto afferma, sarebbe efficace contro il nuovo coronavirus. Il farmaco è di fatto acquistabile in Russia e Cina, ma bisogna fare attenzione soprattutto al «fai da te». Ecco cosa riporta l’utente sul suo profilo Facebook: In Russia se hai il coronavirus ti dicono di prendere queste pastiglie che non ti succede niente è un super medicinale mi dite perché muore la gente in Italia se c’è questa pastiglia? Del farmaco se ne parla in Italia da febbraio a seguito di uno studio svolto in Cina sul virus, ma si trattava di una sperimentazione in vitro e non su esseri umani. Per questo motivo l’OMS aveva invitato cautela. Nel video viene mostrata la confezione di Arbidol venduta nella farmacia russa dove è visibile il disegno di un coronavirus. Non significa che sia utile contro il virus del Covid-19 e non viene commercializzato come tale tramite quella confezione, ma si ritiene che sia utile contro la SARS che, ricordiamo, è uno dei tanti coronavirus.

Umifenovir è un antinfluenzale venduto in Russia con il nome commerciale Arbidol. Non è affatto nuovo tanto che lo troviamo nei documenti dell’OMS del 2011. Il farmaco arriva in Russia in maniera piuttosto controversa. Nel 2011 l’allora ministra della sanità Tatyana Golicova venne accusata di fare pressioni per l’introduzione del farmaco. La società Pharmstandard è la casa farmaceutica che produce il farmaco in Russia. Curiosamente Golicova aveva rapporti amichevoli col fondatore dell’azienda Viktor Kharitonin. Il sito della società dedica una pagina al farmaco nel 2009, dove si sostiene che sarebbe efficace contro l’influenza suina. Oggi Arbidol spopola su eBay, nonostante l’efficacia del farmaco sia ancora in discussione in Europa e Stati Uniti, mentre in Russia e Cina al momento viene considerato utile contro il raffreddore, secondo NewStatesman. Come ricordava su Repubblica il virologo Giorgio Palù infatti, sia la European Medicines Agency che la Food and Drug Administration, non hanno approvato il farmaco. Risulta curioso che nel 2007 venne dichiarato «farmaco obsoleto con efficacia non dimostrata» dal Comitato dell’Accademia Russa delle Scienze mediche (come fa notare Butac). Un medicinale deve infatti dimostrare di essere sicuro, inoltre per quanto possa risultare efficace – magari combinato con altri – in determinate situazioni cliniche, è fondamentale che possa risultare tale in un numero significativo di casi.

Ciò che l’autore nel video non racconta, o semplicemente ignora, è che lo studio in vitro fatto in Cina non si basa solo sull’Arbidol o Umifenovir. Oltre a quello veniva usato il Duranavir, come spiega il sito dell’Istituto Superiore di Sanità: Umifenovir e Darunavir: il primo è un antinfluenzale, mentre il secondo è un farmaco anti Hiv già in uso da diversi anni. Entrambi avrebbero mostrato un’attività contro il virus in vitro.

Conclusioni. La Covid-19 è una malattia infiammatoria con trigger infettivo. Oggi la Ricerca si sta concentrando sui farmaci per le malattie autoimmuni. Arbidol è un farmaco antivirale. Gli antivirali, nelle infezioni virali acute, hanno sempre dimostrato scarsa efficacia. Ragione per cui nemmeno quelli contro l’Hiv sembrano dimostrare risultati significativi: così come Olsemtamivir per l’influenza, Remdesivir per ebola, o Aciclovir per gli herpes. Occorrono invece farmaci che spengono l’infiammazione evitando danni sistemici. Gli antivirali vanno bene per ridurre la replicazione virale, ma quando i sintomi sono già gravi, si suppone che la replicazione virale abbia già raggiunto il suo “picco di produzione”. Per Covid-19, il danno ai polmoni e al cuore sono dovuti all’infiammazione, non a un effetto diretto del virus. Così acquistare su eBay Arbidol non risolverà il problema, del resto non è neanche in vendita come tale.

Acquistare il farmaco in una farmacia russa e prenderne alcune dosi al giorno secondo le condizioni consigliate, non risulta affatto una buona idea.

Abidol: il video del tizio che dice che la Russia ha la cura per il Coronavirus. Nextquotidiano.it il 17 Marzo 2020. Il 5 febbraio scorso l’Università di Zhenjiang aveva annunciato una possibile cura per il Coronavirus SARS-COV-2 e per COVID-19 con i farmaci Abidol e Darunavir. L’Oms, l’organizzazione mondiale della Sanità, aveva immediatamente frenato: “Non ci sono terapie efficaci conosciute contro questo 2019-nCoV”, aveva detto all’epoca un portavoce dell’Oms al Financial Times (e nel frattempo le cose sono cambiate grazie anche alla sperimentazione dei farmaci anti-artrite). «Si sta tentando anche — aggiungeva il 6 febbraio il direttore del dipartimento di Malattie Infettive al Fatebenefratelli Sacco di Milano Giuliano Rizzardini su Repubblica — con Arbidol, un antinfluenzale approvato in Russia e in Cina, e con altri farmaci contro l’Hiv». Ieri però ha cominciato a circolare su Facebook il video di un tizio che con mascherina e occhiali da sole che sostiene che in Russia, ovvero all’aeroporto di Mosca, sia possibile comprare l’Abidol che è “la cura contro il Coronavirus” e il motivo secondo cui in Russia non ci sono casi di Coronavirus (il che è falso): “Voi mi potete dire in Italia come mai sono morte tante persone per questo farmaco che noi non abbiamo e loro ce l’hanno?”, dice il tizio nel video, prima di concludere: “Un bacione da Mosca”. Purtroppo, a differenza di quello che sostiene il tizio del video, non c’è certezza che il farmaco Abidol funzioni contro il Coronavirus. Proprio ieri Reuters ha riportato un comunicato di Johnson & Johnson che spiega che non ci sono prove che il suo farmaco per l’HIV, Prezista (l’altro nome del Darunavir, il farmaco citato nella ricerca insieme all’Abidol), abbia avuto alcun effetto contro il coronavirus, in risposta alle notizie secondo cui il farmaco potrebbe inibire il virus. La società ha dichiarato di essere consapevole del fatto che i trattamenti per l’HIV sono considerati opzioni per il trattamento di pazienti con diagnosi di COVID-19, ma l’uso dei trattamenti per l’HIV si basava su dati clinici inediti utilizzati su pazienti infetti da sindrome respiratoria acuta grave, un virus simile. Non ci sono studi pubblicati che valutano Prezista come trattamento per il coronavirus, ha detto J&J, aggiungendo che sta controllando i farmaci anti-virali incluso il darunavir per determinare l’effetto in vitro contro il virus. Ovviamente è inutile sottolineare che la casa farmaceutica avrebbe tutto l’interesse ad affermare il contrario, visto che ci guadagnerebbe. Non c’è quindi alcun segreto nascosto dietro la Russia che cura il Coronavirus ed è normale che il farmaco sia in vendita ovunque. C’erano, a febbraio, i risultati di una ricerca che sono ancora da confermare ma purtroppo nessuna cura miracolosa è davanti ai nostri occhi ma i Poteri Forti non ce lo dicono.

Abidol Arbidol – le cure che tengono nascoste. Michelangelo Coltelli su Butac.it il 17/03/2020. Il 16 marzo sulla pagina di tal Paolo Gellano viene pubblicato un video che sta diventando via via più virale. Nel video ci sono lui e un’altra persona che dall’aeroporto di Mosca mostrano come sia semplice comperare dell’Abidol (in realtà in inglese lo definiscono Arbidol), un farmaco di libera vendita utilizzato contro i comuni virus dell’influenza stagionale di tipo A e B.

Il video è questo: Il signor Gellano si identifica con un biglietto aereo che riporta la data del 15 marzo. Nel video viene proprio detto “il farmaco per il coronavirus” “contro tutti i coronavirus”. Il signor  Gellano fa accuse pesanti, dando a intendere che la colpa dei morti in Italia sia perché noi non abbiamo l’Abidol. E ci saluta con “un bacione” da Mosca.

Lo spirito critico. Vorrei che tutti aveste quel filo di spirito critico che dovrebbe rendere inutile questo mio articolo. Se davvero un’azienda farmaceutica avesse un prodotto funzionante che combatte il coronavirus che causa la covid-19 la cosa non sarebbe su tutti i giornali? La stessa azienda avrebbe tutto l’interesse a pubblicizzare il farmaco su tutti i mercati mondiali. Noi non ce l’abbiamo, ma l’Abidol è appunto di libera vendita in Russia.

Perché dovrebbero nasconderlo? Difatti è dai primi di febbraio che il nome Abidol è stato pubblicato su alcune testate, anche italiane, con sempre la stessa fonte: un medico cinese che parlava di due farmaci che venivano usati con successo in Cina. Il problema è che nello stesso articolo di Repubblica del 5 febbraio abbiamo un altro medico, sempre cinese, fare il nome di altri due farmaci. Infine c’è una citazione di Silvio Garattini che ritengo opportuno riportare: I ricercatori cinesi stanno esaminando una serie di molecole esistenti, dagli antiretrovirali all’anti-malaria, e questa è la via logica da seguire per avere delle terapie in tempi brevi. Il fatto è che la sperimentazione sull’uomo non è proprio semplice, a meno di non farla su grandi numeri: per la maggior parte, infatti, i pazienti affetti dal nuovo coronavirus guarirebbero comunque. Dunque è complesso valutare la reale efficacia di potenziali terapie i studi su piccoli numeri di pazienti. E’ molto importante, invece, la base di conoscenze che arrivano dalla sperimentazione animale, e certo in alcuni Paesi questo tipo di sperimentazione è più snella e permette di mettere in piedi ricerche in tempo brevi. Basta avere un po’ di pazienza e cercare per trovare la lunga lista di tutto quanto è risultato in qualche maniera promettente, o che esistono motivi per ritenere possa esserlo. All’interno della lista troviamo anche citato Abidol, in quattro casi, ma senza che ad oggi nessuno studio abbia dimostrato la sua efficacia nelle terapie.

Basterebbe cercare. Cercando l’Abidol, si risale a svariate notizie che ne mettono in dubbio l’efficacia anche nei casi delle comuni influenze che citavo a inizio articolo. Il problema è che non bisogna cercare Abidol, ma Arbidol o Umifenovir, o ancor meglio in russo Арбидол. Solo così si trovano informazioni aggiuntive su questo farmaco. Una su tutte, il Comitato dell’Accademia Russa delle Scienze mediche nel 2007 presentò un formale comunicato stampa dove l’Arbidol veniva definito: farmaco obsoleto con efficacia non dimostrata. Esiste tanta stampa in merito, addirittura i media russi si sono lamentati del tentativo di lobbismo fatto da quello che era all’epoca il Ministro della Salute russo: si voleva favorire l’Arbidol a discapito di altri farmaci di comprovata efficacia. Il Ministero della salute e dello sviluppo sociale della Federazione Russa sotto Tatyana Golikova,  è stato scosso uno dopo l’altro, da scandali di alto profilo che odoravano di grande corruzione. Rubano metà del budget per l’acquisto di tomografi per le regioni. Il ministero sta cominciando a fare pressioni frenetiche sul farmaco anti-influenzale Arbidol, che, secondo la maggior parte degli esperti, non aiuta affatto contro l’influenza, ma è prodotto da Pharmstandard, guidato da Viktor Kharitonin, un amico e un partner del Ministro Golikova.

Quindi abbiamo un farmaco che:

non è stato dimostrato funzionare con certezza sulla normale influenza,

non è stato approvato in nessun altra parte del mondo se non nello stesso Paese che lo produce,

è stato al centro di inchieste giornalistiche con pesanti accuse di lobbismo nei confronti del Ministro della Salute Golikova.

Nel frattempo il 6 marzo 2020 anche in UK arrivano le notizie su Arbidol come potenziale farmaco per prevenire e curare la CoVid-19, le vendite online nei siti dove il farmaco viene spacciato come sicura cura sono così tante che anche le testate giornalistiche britanniche ne parlano. Vi riporto le conclusioni di NewStatesMan: I centri di trattamento delle tossicodipendenze hanno riportato enormi aumenti nei pazienti che presentano dipendenze da farmaci da prescrizione, come antidolorifici da oppioidi, che sono ampiamente venduti online in questo modo. Se l’epidemia di coronavirus metterà a dura prova i nostri servizi sanitari in un modo tale per cui le persone non possano accedere ai trattamenti per altre condizioni, potremmo vedere anche un’epidemia di automedicazione.

Concludendo. Davvero riteniamo sensato condividere il video del signor Gellano? Che prove avrebbe che quel farmaco sia davvero la cura (o prevenzione) per il Covid-19? Può essere che il video sia stato fatto in totale buona fede. Ma sicuramente non sulla base di specifiche conoscenze e studi scientifici.

Da nextquotidiano.it il 22 marzo 2020. Rinaldo Frignani sul Corriere della Sera oggi parla di Avigan (Fapiviravir) e della storia del video del laureato in farmacia Cristiano Aresu che ieri abbiamo commentato. La testimonianza arriva dalla capitale giapponese — dove fino a oggi ci sono stati solo 102 contagiati (in Giappone, dove l’epidemia è arrivata prima che in Italia, sono in totale 1.007 con 35 morti) — da un farmacista romano, Cristiano Aresu, 41 anni, che per lavoro va spesso nel paese del Sol Levante. Lui stesso ha postato video su Facebook di ciò che accade a Tokyo, solo ieri 2mila visualizzazioni. «L’Avigan è un antiinfluenzale fino a poco tempo fa venduto in farmacia: qui hanno scoperto che somministrato ai primi sintomi di coronavirus, accertati con il tampone, blocca il progredire della malattia nel 91% dei casi. Poco può fare invece in quelli più gravi e avanzati, quando il Covid-19 ha già danneggiato i polmoni— racconta Aresu per telefono—. Hanno annunciato questa novità ai tg e poi è iniziata la distribuzione negli ospedali, previo appuntamento e tampone positivo. Qui non ci sono file al pronto soccorso e il risultato viene dato immediatamente. Così è anche un modo per monitorare la situazione di chi ha sintomi lievi. È un protocollo che ormai tutti seguono, il farmaco è composto da un blister con tre pasticche, all’inizio veniva effettuato un test di ritorno per verificare la negatività dopo l’assunzione, ma siccome funziona nemmeno lo fanno più». Rispetto a tutto questo entusiasmo ci pare necessario segnalare quanto abbiamo già scritto nel primo articolo: sì, è vero che secondo Zhang Xinmin, direttore del Centro nazionale cinese per lo sviluppo della biotecnologia, parte del ministero delle Scienze cinese, il farmaco “ha un livello elevato di sicurezza ed è chiaramente efficace nel trattamento” dell’infezione causata dal nuovo Coronavirus. Sì, è vero che secondo il racconto di Zhang Xinmin chi ha preso il medicinale ha negativizzato il virus in quattro giorni mentre il gruppo di controllo ce ne ha messi undici. Lo studio ha anche scoperto che le radiografie hanno confermato miglioramenti nelle condizioni polmonari in circa il 91 percento dei pazienti a cui è stato somministrato il medicinale, mentre quelli che non l’hanno preso hanno una percentuale del 62%. Ora il farmaco verrà prodotto in serie in Cina con la licenza giapponese. Mentre no, non è vero che ci sia un complotto dietro tutto ciò. In primo luogo perché allo studio cinese ne seguiranno due organizzati dal Giappone e dall’azienda produttrice del farmaco, la Fujifilm  Toyama Chemical: solo al termine di quegli studi sarà possibile dire se il farmaco funziona o no. In più, l’AIFA odia talmente tanto che nel suo sito viene ricordato che è stato utilizzato per Ebola. L’AIFA ha in realtà promesso, come l’EMA, un ok veloce a tutti i farmaci che sembrano promettenti come il Favipiravir una volta che ci saranno studi critici in grado di dimostrarlo. Quello della Cina è un test importante che se fosse replicato in Giappone porterebbe sicuramente Avigan/Favipiravir a venire usato in tutto il mondo. Senza alcun complotto, anche stavolta. Va anche ricordato che l’articolo del Guardian che riportava le parole degli scienziati cinesi avvertiva anche di qualcos’altro, ovvero che i medici lo stanno usando per chi ha sintomi lievi o moderati, ma una fonte del ministero della Salute ha spiegato che il farmaco non sembra essere così efficace nelle persone con sintomi più gravi. Le stesse limitazioni sono state identificate negli studi condotti su pazienti affetti da Coronavirus utilizzando una combinazione di lopinavir e ritonavir, di cui abbiamo già parlato. Il governo giapponese ha fornito il favipiravir alla Guinea per contrastare l’epidemia di Ebola, quindi nessuno vuole farne incetta o tenerselo per sé. Infine, il Guardian scrive anche che il farmaco avrebbe bisogno dell’approvazione del governo per l’uso su vasta scala su pazienti che hanno COVID-19, visto che inizialmente era destinato a trattare l’influenza. Questo sembra proprio smentire la tesi che sia stato usato sul larga scala in Giappone per combattere il Coronavirus. Si attende un’approvazione per maggio se i risultati delle ricerche scientifiche saranno positivi.

Avigan, dal Giappone arriva il farmaco contro il Coronavirus: tutti i dubbi sulla sperimentazione. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020.  Si chiama Avigan, ma è anche conosciuto come Favipiravir, il farmaco anti-influenzale che Cina e Giappone starebbero sperimentando per la lotta al coronavirus. Secondo quanto dichiarato da Zhang Xinmin, direttore del Centro nazionale cinese per lo sviluppo della biotecnologia, un ramo del ministero cinese della scienza e della tecnologia, il farmaco sembra avere “un livello elevato di sicurezza ed è chiaramente efficace nel trattamento”. Queste le sue parole pronunciate lo scorso 17 marzo. Secondo molti studi in rete il farmaco avrebbe “negativizzato il virus in quattro giorni” e le condizioni polmonari dei pazienti affetti da Coronavirus sarebbero migliorate nel 91% dei casi dopo averlo assunto rispetto al 62% di quelli trattati senza farmaco. Occorre però precisare che in Giappone i contagi dovrebbero aumentare verso la fine di marzo. Il farmaco Avigan è prodotto da Toyama Chemical. Anche il The Guardian si è occupato della vicenda. In un articolo di qualche giorno fa ha citato media giapponesi che sostengono l’efficacia del farmaco nei pazienti affetti da coronavirus. Avrebbe prodotto risultati positivi negli studi clinici effettuati nei laboratori di Wuhan e Shenzhen. Test che hanno coinvolto 340 pazienti. Secondo l’emittente pubblica NHK, i pazienti sottoposti alla sperimentazione sono guariti dopo circa quattro giorni rispetto a una media circa 11 giorni da coloro che vengono curati (e guariscono) senza l’uso di Avigan. L’azienda che ha prodotto il farmaco (Fujifilm Toyama Chemical) interpellata dalla stampa ha però preferito non commentare le parole del funzionario del Governo cinese. Dopo le affermazioni di Zhang, le azioni della società sono decollate in borsa. UTILIZZATO SU CHI HA SINTOMI LIEVI – La sperimentazione del farmaco in Giappone sta avvenendo su pazienti positivi al coronavirus ma con sintomi “lievi o moderati”. Una fonte del ministero della Salute nipponico ha fatto sapere che il farmaco non è efficace nelle persone che manifestano sintomi più gravi: “Abbiamo dato Avigan circa 80 persone, ma non sembra funzionare così bene quando il virus si è già moltiplicato”, ha dichiarato al Mainichi Shimbun. Lo stesso farmaco sarebbe stato utilizzato anche per contrastare l’epidemia di Ebola in Guinea.

EFFETTI COLLATERALI – Sulla vicenda del farmaco Avigan è intervenuto anche Pio D’Emilia, inviato di SkyTg24 in Asia:

So che molti si aspettano una mia “opinione” sul video postato a proposito del farmaco Avigan… abbiate pazienza, sto cercando di documentarmi per rispondere in modo serio e dettagliato. Ma sappiate che comunque il farmaco esiste da molti anni, era stato ritirato dal commercio per i suoi pesanti effetti collaterali (danni alle puerpere, malformazioni al feto) e che in effetti è attualmente in sperimentazione in un paio di ospedali in Giappone.

I DUBBI – Sembra anche che il governo ne abbia requisito le scorte (circa 2 milioni di dosi). Tutto qui…da qui a dire che “è risultato efficace per il 90% dei casi”… ce ne passa. Anche perché in Giappone non è in vendita, non è prescrivibile e soprattutto non è certo il motivo per cui il Giappone e i giapponesi Sembrano essere immuni dal virus. In ogni caso, ritengo assolutamente irresponsabile e scorretto alimentare false o inesatte aspettative sulla gente, soprattutto in un momento come questo, quando sofferenza, dolore, incertezza, paura rendono tutti più sensibili e soggetti a credere a qualsiasi cosa. Sui farmaci, e sulla loro efficacia, bisogna affidarsi a fonti serie, scientifiche e soprattutto ai medici. Non al primo turista che gira con un gufo tatuato sul collo. Il riferimento è al video di un ragazzo italiano che in questi giorni è diventato virale sui social.

Coronavirus, l’esperta: “L’Avigan ha gravissimi effetti collaterali”. Laura Pellegrini il 25 marzo 2020 su Notizie.it. L'Avigan, utilizzato contro il coronavirus, potrebbe avere gravissimi effetti collaterali sui pazienti: il parere dell'esperta. Il video del farmacista romano Cristiano Aresu sull’Avigan ha fatto il giro del web. “In Giappone – sostiene – abbiamo sconfitto il coronavirus e salvato milioni di vite umane grazie all’Avigan, un farmaco antinfluenzale capace di bloccare la malattia se somministrato in tempo”. Molte sono state però le perplessità di medici, farmacisti, virologi e esperti a tale riguardo. Pare infatti che Avigan contro il coronavirus abbia una serie di gravissimi effetti collaterali. La sua sperimentazioni in Italia rappresenta un fattore di rischio. In Giappone avrebbe bloccato il progredire della malattia, qualora utilizzato all’emergere dei primi sintomi, nel 91% dei casi. Eppure – scrive Melania Rizzoli su Libero – sono molti gli effetti collaterali che l’Avigan, utilizzato contro il coronavirus, potrebbe avere sui pazienti. Noto anche come Favipiravil, Avigan è un farmaco antivirale, prodotto nel 2014 dalla Toyama Kagaku Kogyo. La sua somministrazione, però, in Giappone è riservata “solo in presenza di ceppi virali nuovi o riemergenti per i quali non esistono altri farmaci efficaci”. Una sorta di farmaco alternativo quindi, proprio perché nasconde un fattore eratogeno, ovvero in grado di provocare malformazioni nei feti e favorire la comparsa di tumori maligni nelle persone. Stando all’indagine sulla sperimentazione condotta in Giappone, pare che ai pazienti ai quali sia stato somministrato tale farmaco, le condizioni siano migliorate il 4 giorni. L’altro gruppo, al quale invece non è stato somministrato, ha impiegato 11 giorni per migliorare. Non è noto, però, il criterio sulla base del quale siano stati reclutati i pazienti, né il loro quadro clinico prima della sperimentazione dell’Avigan.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 24 marzo 2020. «In Giappone abbiamo sconfitto il Coronavirus e salvato milioni di vite umane grazie all'Avigan, un farmaco antinfluenzale capace di bloccare la malattia se somministrato in tempo». Il video del farmacista romano Cristiano Aresu, postato su Facebook e che ha fatto il giro delle reti in tutto il mondo, racconta di un medicinale venduto nelle farmacie nipponiche, capace di bloccare il progredire dell' infezione virale nel 91% dei casi se somministrato ai primi sintomi della malattia, in quanto in grado di far scomparire la presenza del virus in soli quattro giorni. Il Favipiravil - noto anche come Avigan, Favilavir o T-705 - è un farmaco antivirale, prodotto nel 2014 dalla Toyama Kagaku Kogyo, che possiede un' attività diretta contro molti virus a Rna, e che in passato ha dimostrato efficacia contro virus influenzali, virus della febbre gialla, afta epizootica, Zica, rabbia ed enterovirus. In realtà in Giappone, essendo stato dimostrato che tale farmaco è potenzialmente teratogeno, ovvero in grado di provocare malformazioni nei feti e favorire la comparsa di tumori maligni nelle persone, la sua somministrazione è prevista "solo in presenza di ceppi virali nuovi o riemergenti per i quali non esistono altri farmaci efficaci", essendo considerato un medicinale di riserva. Nel 2014, sempre in Giappone, l' Avigan è stato infatti approvato per la cura delle sole pandemie influenzali, anche se questa molecola non ha dimostrato efficacia nelle cellule primarie delle vie respiratorie umane, mettendo in dubbio la sua azione terapeutica nel trattamento della stessa influenza virale. Durante l' epidemia di Wuhan i cinesi hanno usato questo medicinale come trattamento sperimentale, ed alcuni di loro hanno condotto un piccolo studio di controllo non randomizzato su 80 pazienti affetti da Covid19 non grave, senza polmonite conclamata, ai quali è stato somministrato l' Avigan, evidenziando che 35 di loro hanno accorciato a 4 giorni il decorso della malattia rispetto agli 11 giorni del gruppo di controllo, e il principio attivo viene prodotto in Cina(Favilavir). Non è noto se in questo studio vi siano state distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti, sintomatici ma non in condizioni polmonari gravi, né è stata chiarita la relazione tra titolo virale e prognosi clinica, essendo stati resi disponibili solo dati preliminari, in versione pre-proof, ovvero non sottoposti a revisione di esperti nazionali o internazionali. L' Aifa italiana ha avviato la sperimentazione dell' Avigan il 22 marzo scorso, sottolineando che le evidenze scientifiche a favore di questo farmaco sono basate principalmente su un singolo studio preliminare e che le potenzialità di questo farmaco sono scientificamente ancora tutte da dimostrare, la sua molecola non è stata approvata dalle principali autorità per i farmaci al mondo come la statunitense Fda e l' europea Ema, per cui la sua vendita non è autorizzata negli Stati Uniti e in Europa. Nel famoso video succitato, si dice che l' Avigan «ha fatto rinascere il Giappone» facendolo «tornare a respirare», senza alcun dato sulla reale efficacia nell' uso clinico e sulla evoluzione della malattia da Coronavirus, per cui il richiamo alla prudenza dell' Aifa è d' obbligo, perché un conto è parlare di possibili opzioni da testare, un altro è definire le stesse, prima di una validazione scientifica ufficiale, come la soluzione al problema Covid, soprattutto in un periodo di tensione emotiva al limite del panico. L' Aifa si è resa disponibile all' autorizzazione rapida per la conduzione di sperimentazioni del farmaco sui malati italiani, chiesta ufficialmente e con forza ieri dai governatori Attilio Fontana e Luca Zaia al ministro della salute Speranza, sottolineando che ad oggi non esistono studi clinici ufficiali. Scoraggiare ogni tentativo locale di risultati miracolosi di antivirali spuntati dal nulla, è certamente compito delle nostre istituzioni. Ma bisogna anche evidenziare che tutto questo clamore attorno ad un farmaco fotografa perfettamente l' emozione fortissima che attraversa il nostro Paese, che sta vivendo l' esperienza più tragica e dolorosa di questo secolo. E che ha bisogno di speranza, di un segno di fiducia, di ricominciare a vedere una luce, per essere in grado di rialzarsi e di tornare a vivere la vita.

Vittorio Feltri per liberquotidiano.it il 24 marzo 2020. Scusa, Melania Rizzoli, tu sei medico e conosci la materia, per cui ti ospitiamo volentieri e facciamo tesoro delle tue sagge parole. Io invece non sono neanche infermiere e neppure portantino, tuttavia consentimi una obiezione al tuo dotto discorso. In Giappone, che non è il Burundi, è stato usato un farmaco che consente alla popolazione di tirare un sospiro di sollievo, nel senso che almeno in parte funziona contro il Coronavirus. Forse è una bufala. Tuttavia prima di scartarlo come tale, visto che qui si crepa come mosche, io lo sperimenterei, sicuro che peggio di ora le cose non potrebbero andare. Che ci vuole a darlo a un centinaio di nostri infettati e attendere i risultati? Il problema temo che sia il solito: in Italia i medicinali sono amministrati da una dittatura che punta al profitto e non alla guarigione dei pazienti. Spero di sbagliare. Io comunque sono pronto ad assumere questo intruglio onde verificare che sia efficace o no. Intanto apprendiamo che la specialità giapponese da oggi sarà utilizzata quale terapia anche in Lombardia. Ottima idea. Grazie al governatore Attilio Fontana.

Il farmaco giapponese e il vaccino della Pfizer. Articoli del “New York Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 6 maggio 2020. In un articolo del NYT si parla dell’Avigan, il farmaco anti covid 19 della Fujifilm  fortemente caldeggiato dal governo giapponese. Il premier Abe ha spinto il farmaco coltivato in patria nelle conferenze stampa e negli incontri con i leader mondiali, compresa una telefonata con Trump e durante un G 7. Ha stanziato quasi 130 milioni di dollari per triplicare la scorta esistente del farmaco. E si è offerto di fornirlo gratuitamente a dozzine di altri Paesi. Il primo ministro, tuttavia, ha sorvolato su un fatto cruciale: non ci sono ancora prove concrete che l’Avigan sia effettivamente efficace contro Covid-19. Mentre il farmaco ha mostrato un potenziale per il trattamento di alcune malattie mortali come l'Ebola negli studi sugli animali, ci sono risultati limitati che funzioni per qualsiasi malattia negli esseri umani. Ciò che Avigan, il cui nome generico è favipiravir, ha una storia normativa particolare e un potenziale effetto collaterale pericoloso: lo stesso Abe ha detto in una conferenza stampa che l'effetto collaterale è "lo stesso della talidomide", che ha causato deformità in migliaia di bambini negli anni '50 e '60. L’attivismo del primo ministro ha contribuito a far entrare Avigan in oltre 1.000 strutture mediche in Giappone, e il ministero degli Esteri del Paese dice che quasi 80 Paesi hanno richiesto il farmaco. Alla televisione giapponese, i medici definiscono la pillola una possibile salvezza globale, e le celebrità che l'hanno presa hanno offerto testimonianze positive. Ma queste prove sono del tutto aneddotiche, ha detto Masaya Yamato, capo delle malattie infettive al Rinku General Medical Center di Osaka, che ha fatto parte di un panel governativo del 2016 che ha considerato il farmaco come l'ultima linea di difesa contro nuovi tipi di influenza. “Non sto dicendo che questo farmaco non funzioni". Sto dicendo che non ci sono ancora prove che funzioni", ha detto il dottor Yamato. Una portavoce di Fujifilm, Kana Matsumoto, ha detto che l'azienda sta conducendo test clinici in Giappone e negli Stati Uniti "per ottenere prove sostanziali dell'efficacia del farmaco" contro il Covid-19. Avigan è potenzialmente prezioso perché funziona in modo diverso dalla maggior parte degli altri antivirali, interferendo con la riproduzione dei virus, invece di impedirne l'ingresso nelle cellule. Negli studi sugli animali, il farmaco è apparso in grado di frenare la propagazione di alcuni virus come l'Ebola, soprattutto se somministrato precocemente. Finora, 1.100 strutture mediche giapponesi hanno dato l’Avigan a quasi 2.200 pazienti di Covid-19, con più di mille in lista d'attesa per il farmaco, secondo i dati del governo. Molte di queste strutture non applicano controlli scientifici rigorosi, come il doppio cieco e l'uso di placebo. Essi sostengono che i potenziali benefici superano i rischi, soprattutto negli anziani, per i quali è improbabile che il problema dei difetti congeniti sia un problema. Fujifilm e altri stanno ora conducendo prove adeguate del farmaco per Covid-19. Ma Abe si è affrettato ad anticipare questo processo chiedendo che l'uso di Avigan venga ulteriormente ampliato, esortando gli ospedali a darlo a chiunque lo voglia, e dicendo ai pazienti di chiederlo per nome. Lunedì, ha detto che il processo di approvazione probabilmente non dipenderà dai tradizionali studi clinici condotti dallo sviluppatore, ma assumerà molto probabilmente una "forma diversa" dopo che gli esperti avranno espresso un giudizio sull'efficacia del farmaco. Non è chiaro il motivo per cui egli sia un sostenitore così forte. Alcuni media giapponesi hanno notato il suo stretto legame con l'amministratore delegato di Fujifilm, Shigetaka Komori. I due uomini hanno spesso giocato a golf e mangiato insieme, l'ultima volta il 17 gennaio. A metà febbraio, Fujifilm è stata l'unica società invitata a partecipare a un incontro della task force governativa sulla cooperazione internazionale contro il virus. I suoi rappresentanti hanno esposto una presentazione PowerPoint di 27 pagine in cui si osservava che il governo cinese si stava preparando ad approvare il farmaco per l'uso in caso di emergenza. Il brevetto cinese su Avigan è scaduto l'anno scorso, e se il Giappone si attardasse, potrebbe perdere un mercato potenzialmente enorme per il farmaco. In una conferenza stampa del 29 febbraio, Abe ha detto che il Giappone stava testando tre trattamenti contro il virus, citando solo il nome di Avigan. La settimana successiva, il segretario capo del gabinetto, Yoshihide Suga, ha detto ai giornalisti che il rapporto di Abe con l'amministratore delegato di Fujifilm non aveva "assolutamente nessun collegamento" con le opinioni del primo ministro sulla pillola. I funzionari del governo pensano che "è un farmaco prodotto in Giappone, quindi usiamolo se possiamo", ha detto il dottor Yamato, l'esperto di malattie infettive. La portavoce di Fujifilm ha detto che "non c'è mai stato alcun trattamento favorevole" da parte di Abe o della sua amministrazione. Il farmaco ha ottenuto un ulteriore sostegno a marzo, quando due gruppi di ricerca cinesi hanno pubblicato online dei documenti che suggerivano che aveva accelerato la guarigione di pazienti con casi di Covid-19 da lievi a moderati. I funzionari cinesi, che sono stati pungolati dalle critiche per aver inizialmente coperto l'epidemia, hanno iniziato a promuovere i risultati come esempio della risposta di successo del Paese al virus. Ma gli scienziati hanno presto iniziato a raccogliere i documenti, sostenendo che mancavano i controlli scientifici di base. Entrambi i documenti, che non erano stati sottoposti a peer review, sono stati rivisti e le loro conclusioni sono diventate meno sicure. Ciononostante, la Cina ha rapidamente approvato l'uso di Avigan contro Covid-19. Era la prima volta che un paese al di fuori del Giappone ne approvava l'uso contro qualsiasi malattia. Il Giappone stesso aveva dato il via libera condizionale al farmaco solo nel 2014.Nella loro valutazione, i regolatori hanno scritto che Avigan "non ha mostrato efficacia" contro l'influenza stagionale e non ha potuto essere approvato per l'uso contro di essa. Al contrario, ne avrebbero consentito l'uso contro ceppi di influenza nuovi o riemergenti, ma solo in situazioni di "crisi", quando gli antivirali esistenti si sono dimostrati inefficaci. La signora Matsumoto, portavoce di Fujifilm, ha detto che il processo di approvazione è stato "robusto e rigoroso".In un rapporto pubblicato venerdì, Medwatcher Japan, un gruppo no-profit che controlla l'industria farmaceutica, ha descritto il processo di approvazione come "estremamente anomalo"."E' incredibile che sia stato immagazzinato come farmaco antinfluenzale", ha detto Masumi Minaguchi, segretario generale del gruppo. "Ed è ancora più incredibile che in queste circostanze, anche senza alcuna base scientifica, si dica alla gente di usarlo". In un altro articolo del NYT si riporta la notizia che Pfizer e l'azienda farmaceutica tedesca BioNTech hanno annunciato che il loro potenziale vaccino contro il coronavirus ha iniziato la sperimentazione umana negli Stati Uniti lunedì. Se i test avranno successo, il vaccino potrebbe essere pronto per l'uso d'emergenza già a settembre. Le due aziende stanno sviluppando insieme un candidato vaccino basato su materiale genetico conosciuto come RNA messaggero, che porta le istruzioni per le cellule per produrre proteine. Iniettando un RNA messaggero appositamente progettato nel corpo, il vaccino potrebbe potenzialmente dire alle cellule come fare il picco proteico del coronavirus senza far ammalare una persona. Poiché il virus usa tipicamente questa proteina come chiave per sbloccare e assumere le cellule polmonari, il vaccino potrebbe addestrare un sistema immunitario sano a produrre anticorpi per combattere un'infezione. La tecnologia ha anche il vantaggio di essere più veloce da produrre, e tende ad essere più stabile rispetto ai vaccini tradizionali, che utilizzano ceppi virali indeboliti. Pfizer, che ha sede a New York, e BioNTech hanno iniettato il mese scorso in Germania il loro candidato vaccino, chiamato BNT162, ai primi volontari umani. L'iniezione sperimentale è stata somministrata a soli 12 adulti sani, anche se alla fine la sperimentazione si estenderà a 200 partecipanti. Negli Stati Uniti, le aziende farmaceutiche prevedono di testare il vaccino su 360 volontari sani per la prima fase dello studio, aggiungendo fino a 8.000 volontari entro la fine della seconda fase. Lo studio sarà condotto presso la Grossman School of Medicine della New York University, la University of Maryland School of Medicine, l'University of Rochester Medical Center e il Cincinnati Children's Hospital Medical Center. Testare più candidati in parallelo è un modo in cui le aziende sperano di comprimere il tempo necessario per raccogliere prove sufficienti per richiedere l'approvazione per l'uso d'emergenza da parte della Food and Drug Administration. Una volta ricevuta l'approvazione, Pfizer e BioNTech potrebbero distribuire le  prime milioni di dosi. Non appena le aziende farmaceutiche possono dimostrare che un vaccino è efficace e non ha prodotto danni gravi, possono richiedere questo tipo di approvazione, che permette ai medici di somministrare il vaccino ai più bisognosi. Ma potrebbero essere ancora necessari risultati di studio più dettagliati per convincere i regolatori federali ad approvare un candidato per il pubblico più ampio. "Dobbiamo pensare in modo diverso, dobbiamo pensare più velocemente", ha detto il Dr. Mikael Dolsten, direttore scientifico di Pfizer. "Se saremo colpiti da una seconda ondata di infezioni da coronavirus in ottobre, in concomitanza con l'influenza, le cose andranno molto peggio di quanto abbiamo già sperimentato".

·         L’epidemia e la tecnologia.

Dai robot alla maschera-scafandro: il genio italiano contro il coronavirus. Le Iene News il 26 maggio 2020. Matteo Viviani ci guida in un entusiasmante viaggio all’interno del futuro già presente: prototipi e aggeggi straordinari inventati in Italia, che possono aiutare a prevenire il contagio e a curare meglio il Covid. Ma non solo. Guardate che meraviglia. Matteo Viviani ci fa fare un viaggio attraverso piccole e grandi invenzioni pratiche che potrebbero essere un grande aiuto in tempi di Covid-19, soprattutto nel caso di una seconda ondata. Come quella di due architetti italiani, Carlo Ratti e Italo Rota, che hanno costruito un’unità di terapia intensiva dentro un container. Un modulo testato presso l’ospedale da campo Ogr di Torino, come ci spiega il suo direttore clinico: abbiamo ricoverato sinora un centinaio di persone, continuiamo a dimettere e a ricoverare”. All’interno di questa équipe fanno parte anche alcuni dei 32 medici cubani volati oltreoceano per aiutare l’Italia. Il prototipo ideato dai due architetti, in pochi metri quadrati, è una vera e propria terapia intensiva per due pazienti. E sembra talmente efficiente che potrebbe adattarsi a qualunque struttura con un po' di spazio e moltiplicare rapidamente l’offerta di posti di terapia intensiva. “Un modulo del genere”, spiega il direttore clinico, “può avere un costo attorno ai 75mila euro”. Una valida alternativa per maggiore efficienza e rapidità, come anche un modulo che è un’unità mobile di prelievo tamponi, un container ideato da due uomini che da 40 anni si occupano di progettare sistemi per proteggere la vita dei nostri militari. Insomma, tamponi efficaci, rapidi (una media di due minuti a paziente) e soprattutto somministrati ovunque, data la natura stessa dei container, che possono essere trasportati da un luogo all’altro. Con un modulo che costa poche decine di migliaia di euro. Altri sistemi a basso costo sono stati progettati dai cosiddetti makers che utilizzano la stampa 3D. Come Stefano ed Ettore, che hanno costruito un ventilatore polmonare in grado di essere replicato in qualsiasi parte del mondo, a bassissimo costo e con materiali reperibili online. “Non è un prodotto medicale, chiariamolo, ma è l’ultima spiaggia e l’alternativa al morire d’asfissia”, ci spiega uno dei suoi due ideatori. Incontriamo anche Massimo, un altro maker, che dal suo capannone in Emilia è nata Gaia, un prototipo di casa ecosostenibile stampata interamente con materiali come terra cruda e paglia di riso. Con l’arrivo della pandemia, la sua azienda di 40 dipendenti, si è reinventata e ha prodotto una serie di dispositivi di protezione che hanno condiviso con la comunità dei makers: “5mila persone da tutto il mondo hanno scaricato i nostri progetti, poi abbiamo iniziato a fare le visiere, che abbiamo donato a medici e ospedali”. Fino ad arrivare al loro progetto più sicuro, un piccolo spazio di sicurezza, una sorta di casco con power bank per cellulari, che permette a chiunque di proteggersi dal virus in situazioni di pericolo, come si fosse dentro uno scafandro. “Se ne sono interessati molto i dentisti”, spiega. Inventori allerta anche in tema di sanificazione dei carrelli della spesa, che secondo alcune ricerche sarebbero più sporchi delle toilette pubbliche. E così Claudio ha ideato una macchina che decontamina completamente il carrello, prima di usarlo. “L’igienizzazione abbatte il 99,8% dei batteri attivi sulla sua superficie”, spiega e da quando è stato posizionato in un centro commerciale fa una media di 1.000 passaggi di igienizzazione al giorno. Un grande successo, al quale si sono interessati da tutte le parti del mondo! Come per il sanitary gate, un tunnel sanificante ideato da Giulio: “Sono gli stessi tunnel che da 30 anni facciamo per i campi da calcio ma riadattati per igienizzare completamente la persona che lo attraversa”. Vi raccontiamo anche dei termoscanner ideati da David, che certificano l’entrata dei clienti di un locale e poi ne igienizzano le mani, senza che queste entrino in contatto con alcuna superficie a rischio contagio. “Abbiamo pensato anche alla pulizia dei piedi nel nostro apparecchio”, che così come lo vedi costa 3.500 euro. Anche Leopoldo e Simone, che si sono inventati un piccolo dispositivo che misura le distanze tra le persone. Stanno ricevendo una grande mole di ordini, soprattutto dall’estero: “Abbiamo avuto una richiesta per decine di migliaia di pezzi”. Anche Ivo, Alex e Guido, tre giovani startupper, si sono ingegnati e hanno progettato tecnologie che monitorano come si muovono le persone in ambienti fisici. “Le abbiamo adattate per rilevare assembramenti di persone e monitorare il corretto uso delle mascherine. Il nostro sensore cattura l’immagine, la processa e poi la cancella subito, per tutelare la privacy”. Alla fine ci occupiamo di altre due piccole perle. La prima è un piccolo robot postino, che porta a casa le merci ordinate, in totale assenza di rischio contagio. C’è infine un dispositivo che simula il contatto tattile con oggetti lontani e dunque anche con altre persone, in un momentcovid o storico in cui anche gli abbracci sono negati. Insomma, il futuro, al servizio della salute e della sicurezza, è già qui.

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2020. A tutti è capitato e capita ogni giorno. Prima di entrare al ristorante, di accedere ai binari dell'Alta velocità o di varcare l'ingresso del supermercato. Senza il via libera del termoscanner - con il quale gli addetti dell'esercizio commerciale, o del servizio, cui vogliamo accedere misurano la nostra temperatura corporea - non si passa. Del resto la febbre, ci è stato raccontato, è il principale sintomo dell'infezione da Covid-19. Da qui la "pistola" puntata quotidianamente sulle nostre tempie. Peccato che si tratti di uno strumento - e l'esito è tutt' altro che sorprendente - «inaffidabile, impreciso e inefficace». Così, almeno, l'hanno definito due esperti statunitensi - William Wright della John Hopkins university e Philip Mackowiak dell'università del Maryland - in uno studio di 11 pagine, pubblicato su Oxford Academic, intitolato semplicemente. «Perché lo screening della temperatura ai fini del Covid-19 con il termometro a infrarossi senza contatto non funziona». «Le letture ottenute con il termometro a infrarossi senza contatto sono influenzate da numerose variabili umane, ambientali e delle apparecchiature, che possono influenzare la loro accuratezza», mettono nero su bianco Wright e Mackowiak. Al netto del fatto che l'alterazione della temperatura - soprattutto d'estate, magari dopo essere stati esposti al sole una mezz' oretta - di per sé non certifica il contagio da Covid-19, numeri alla mano gli esperti dimostrano come i termoscanner finora abbiano fatto ben poco in termini di prevenzione. Il rapporto cita i dati del Centro per il controllo e la diffusione delle malattie (Cdc) americano, che insieme al dipartimento della Salute ha monitorato quanto accaduto negli aeroporti. Ebbene, a partire dal 21 aprile 2020 sono stati sottoposti a screening circa 268mila passeggeri. E solo 14 di loro sono poi risultati positivi al virus. «L'unico modo per misurare in modo affidabile la temperatura interna, richiede il cateterismo dell'arteria polmonare, che non è né sicuro né pratico come test di screening», scrive Wright. Lo studio ricorda come vi sia una diversità tra quella che è considerata febbre a livello di "impostazione sanitaria" - 37,8° - e la temperatura che secondo le linee guida certifica l'alterazione - tale da far scattare l'allarme - in un ambiente esterno non sanitario, come ad esempio un aeroporto: 38°. Temperatura da rilevare con i termoscanner, appunto. «Sfortunatamente», rilevano gli esperti, «i programmi di screening della temperatura destinati a identificare le persone sono, nella migliore delle ipotesi, marginalmente efficaci, perché quasi la metà delle persone infette non ha mai sviluppato la febbre». Figurarsi cosa può accadere con strumenti soggetti ad essere influenzati - perché senza contatto corporeo - «da numerose variabili umane e ambientali», comprese «l'età, il sesso del soggetto e i farmaci» assunti (in particolare i farmaci antipiretici). Ad esempio: le donne hanno temperature corporee leggermente più alte rispetto agli uomini, così come gli afroamericani rispetto ai caucasici. Poi c'è la differenza dell'ora in cui avviene il rilevamento: tradizionalmente, le temperature mattutine sono più basse rispetto a quelle serali. E non è tutto: il termoscanner risente della capacità umana di emettere calore ed è influenzato pure dal trucco o dalla quantità di sudore emesso dalla persona sottoposta al controllo. Per non parlare della distanza rispetto al sensore e dell'umidità dell'ambiente.

Covid-19: l’arma tecnologica per arginare il virus e gestire il dopo crisi. Come funziona. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli.

1) Individuati i casi di nuovi contagiati, rintracciare i contatti dei 15 giorni precedenti e testarli per interrompere la catena di contagio.

2) Sapere chi si sposta dal luogo di residenza, e dove va rispetto alle concentrazioni di contagiati è l’essenziale fotografia di partenza quando si stabiliscono blocchi alla mobilità.

3) Installare una app che individua «chi» e «dove». Per esempio se risiedi a Milano quartiere Lorenteggio, puoi vedere che al quartiere Sempione ci sono molti casi dichiarati.

4) Mantenere una fotografia «autodichiarata» della localizzazione dei sintomatici non testati aggiornata in tempo reale.

5) Assicurarsi che i contagiati in quarantena non si muovano (si possono metter sotto tracciamento e far partire un allarme se il telefono si muove).

6) Istruire le aziende che hanno lavoratori essenziali a consegnare un coupon elettronico che li autorizza a uscire (origine-destinazione dichiarati dall’azienda) e può esser verificato dalle autorità di polizia mostrando il telefono (senza autocertificazioni).

7) Distribuire il flusso nei trasporti pubblici e supermercati su diverse fasce orarie attraverso sms con ora dedicata, indicando a gruppi di residenti predefiniti le ore a loro dedicate, in modo da evitare affollamenti. Dare priorità agli anziani, mantenendo nelle ore dedicate a loro una minore densità. Funzionalità che saranno importanti anche dopo la fase acuta, quando si dovranno riprendere gradualmente le attività e partiranno anche nuove onde di contagio che andranno rapidissimamente fermate. In Corea del Sud alcune di queste applicazioni sono in funzione. I numeri di Seul ci dicono che imponendo una quarantena collettiva sin da subito, e l’utilizzo dei dati degli operatori mobili, le autorità sono riuscite ad arrestare la curva epidemica in poco meno di un mese.In un documento, già sul tavolo del governo e dell’Istituto Superiore di Sanità, un gruppo di economisti e scienziati dei dati, tra cui Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi ed Alfonso Fuggetta del Politecnico di Milano, ha proposto di replicare il modello Corea. Il team di specialisti di SoftMining, una spin-off dell’Università di Salerno, ha sviluppato un’app denominata «SM_Covid19» in grado di valutare il rischio di trasmissione del virus attraverso il monitoraggio di chiunque sia positivo. Gli ospedali potrebbero così leggere i dati di rischio e aggiornare lo stato di una persona (negativo o positivo al test). Se risulta positiva al test, il rischio di ogni altra persona con la quale questa sia venuta in contatto viene aggiornato automaticamente. Al lavoro c’è una squadra Covid-19 composta da personale sanitario e tecnico che adotta un algoritmo procedurale per l’individuazione di casi sospetti. Vengono sottoposti a screening coloro che sono domiciliati o hanno soggiornato a lungo nelle zone rosse, i familiari dei casi sospetti o confermati e chi ha avuto rapporti stretti con pazienti ricoverati provenienti dalle zone rosse o dalla Cina. Il team alle dipendenze della Protezione civile, in base alle condizioni cliniche, stabilisce la necessità di ricovero ospedaliero o di test per Sars-CoV-2 e isolamento in caso di positività. Non è considerata la platea degli asintomatici, che possono continuare ad andare al lavoro (per esempio tutte le categorie che stanno garantendo i servizi essenziali), o i sintomatici lievi, ai quali viene solo consigliato di stare a casa. Potrebbero essere decine di migliaia e infettare a loro insaputa. Molti laboratori privati di diagnostica sono già attrezzati per coprirne migliaia alla settimana, ma le indicazioni del ministero della Salute predispongono il tampone solo per i casi sintomatici che necessitano di ricovero e devono essere eseguiti solo dai laboratori accreditati, pochi per regione. Da ieri potranno identificarne di aggiuntivi. Il nuovo test diagnostico dell’italiana Diasorin, che ridurrà il processo di analisi ad un’ora (oggi la media è di sei), è pronto per andare in commercio, ma verrà consegnato solo ai laboratori ospedalieri. Quindi serve un maggior numero di test, una capillare tracciatura dei contatti e gestione in sicurezza dei flussi. Ci vuole la volontà politica per mettere a terra un progetto d’urto, andando in deroga al diritto della privacy per particolari categorie di dati (la Ue lo ha già concesso), e velocità di decisione. Basterebbe un decreto del governo e un commissario che assuma la responsabilità di una gestione anonima dei dati e della loro distruzione quando l’incubo sarà finito.

Supercomputer (più Homo Sapiens) contro Coronavirus, la sfida è in atto. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Massimo Sideri. Supercalcolo contro Coronavirus. In queste ore di emergenza mondiale si sta combattendo anche questa battaglia lontano dagli ospedali, dai cordoni sanitari, dalle ansie delle persone e dal sacrificio di dottori, infermieri e volontari. L’intelligenza artificiale sta macinando grandi ammassi globulari di dati per accelerare la sintesi e la cristallizzazione delle proteine pericolose all’interno del Covid-19. Sta cercando tra 500 miliardi di molecole stipate nella propria memoria, con impazienza e un’avidità di informazioni che nessun gruppo umano potrebbe avere, per vedere quale potrebbe creare una reazione interessante sul Coronavirus. La capacità di elaborazione è pari a 3 milioni di molecole al secondo, un lavoro di scrematura che, per inciso, in assenza di supercomputer, richiederebbe sì l’esperienza dei virologi, ma anche il cosiddetto uso caritatevole, cioè la sperimentazione di alcune di queste molecole in pazienti in fin di vita. Che i supercomputer del Cineca che usano la piattaforma in parte made in Italy Exscalate (citata da Nature come la più avanzata al mondo in questo campo) risolvano o meno le equazioni del Covid-19, il futuro è segnato: macchine super «intelligenti» che aiutano l’umanità nel progresso scientifico e industriale. Non robot che ci battono a scacchi o ci rubano il posto di lavoro. Può sembrare fantascienza, ma è già scienza. Un misto di capacità di calcolo, big data e open science. Come quella dimostrata da un’email arrivata a Milano dall’Università del Texas: «Sono contento di condividere con lei le mie ricerche». Su cosa? Per capirlo bisogna fare un passo indietro: un virus è in sostanza un ammasso di proteine. Alcune fanno solo da involucro, altre, in questo caso 4 o 5, sono quelle pericolose. Dopo aver completato la mappatura del genoma del Coronavirus quello che si sta facendo nei laboratori di tutto il mondo è creare i cristalli in 3D di queste 4-5 proteine. La prima è stata portata a compimento in Cina. Pochi giorni fa, il 19 febbraio, il professore dell’Università del Texas, Jason McLellan, ha postato su Linkedin l’articolo di Science in cui parlava del successo del suo team su un nuovo cristallo. Letta questa informazione su Linkedin, il responsabile della Drug Discovery Platform di Dompé e della piattaforma Exscalate, Andrea Beccari, ha scritto a McLellan. Ed è così che si è visto rispondere con l’email dal Texas che gli dava accesso a informazioni che sul mercato potrebbero anche avere un valore. È la rivoluzione della scienza aperta avviata tanti anni fa da scienziati come Ilaria Capua e che oggi rischiamo di dare per scontata. Quelle stesse informazioni sono state digerite ora dal supercomputer Cineca e tra pochi giorni, grazie all’upgrade Marconi 100, potranno lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7 senza sentire la fatica umana, per dare il proprio contributo in termini di capacità di calcolo e simulare le interazioni tra proteine del virus e molecole dei farmaci, in commercio o comunque già in fase di test. La stessa piattaforma da 12 petaflops usata nel caso del virus Ziga lavorò per 84 ore con un milione di operazioni in parallelo. In altri termini quando avremo oltre 3.600 supercomputer Exascale (un miliardo di miliardi di operazioni al secondo ciascuno) potremo ottenere la risposta su una molecola in un solo secondo. Anche questa per ora è un’ambizione fuori scala: i computer Exascale sono in fase di costruzione. C’è grande attesa per El Capitan del Livermore National Laboratory in California che ha richiesto un investimento di 600 milioni di dollari e che a regime sarà il più potente computer al mondo costruito con finalità scientifiche (è chiaro che in queste classifiche che si possono trovare su top500.org non rientrano tutti gli apparati militari top secret che gli Stati non vogliono certo pubblicizzare). Leonardo, gestito sempre dal Cineca e costruito con 240 milioni grazie a un finanziamento europeo, avrà una potenza di 270 petaflops, dunque impiegherebbe 3-4 ore (al posto delle 84 ore effettive del progetto già concluso) a trovare le molecole potenzialmente capaci di inibire 5 delle 7 proteine virali di Zika, virus ancora senza cura. I test sui pazienti rimangono per ora lo standard. Per esempio, per il primo paziente positivo al Coronavirus individuato a Pavia, l’infettivologo Raffaele Bruno sta usando un cocktail di farmaci che contengono anche un vecchio farmaco contro l’Hiv. Una volta individuato il genoma del virus si procede con l’esperienza. Ma la grande rivoluzione informatica in corso (per gli appassionati un passaggio dalla vecchia Cpu alle Gpu, cioè a microprocessori nati per la grafica) permette simulazioni virtuali con la possibilità di analizzare gli effetti dell’incontro di una data molecola con una data proteina. È la stessa tecnologia che El Capitan userà per simulare la prima reazione atomica virtuale senza la necessità di far esplodere realmente, in un test, una bomba atomica. O, ancora, quella che viene usata per progettare i motori degli aerei in Cina senza costruire il prototipo. Ora il consorzio pubblico-privato dell’Exscalate che, tra gli altri, comprende oltre a Dompé, il Politecnico di Milano, il Cineca, il Katholieke Universiteit Leuven, il Fraunhofer e lo Spallanzani, ha avviato la procedura per sottoporre il piano al vaglio della Commissione europea. Per inciso, a dimostrare che la società aperta è pronta a cogliere la sfida della sostenibilità, l’Eni — che ha appena portato la propria capacità di supercalcolo complessiva a un picco di 70 milioni di miliardi di operazioni con virgola mobile al secondo (70 petaflops) — ha messo a disposizione una parte di essa. Se questa disponibilità non fosse stata accettata per questioni non tecniche sarebbe un errore. Non c’è spazio per antagonismi o protagonismi. Per l’Europa è un’altra chiamata da non lasciare senza risposta per non dare riprova di una vecchia battuta, probabilmente apocrifa, che si fa risalire a Henry Kissinger: «È nata l’Unione europea? E quale numero di telefono devo fare?». Il virus oggi sembra piatto. Come poteva apparire il mondo dopo l’arrivo di Internet. Ma è proprio non lasciandosi andare a facili considerazioni sul nostro rapporto con la tecnologia e il progresso che il mondo potrà tornare ad essere tondo.

·         Coronavirus e le mascherine.

Da "liberoquotidiano.it" il 16 dicembre 2020. Dove ci sono casi sospetti, Striscia la notizia indaga e cerca risposte. Dopo le tantissime segnalazioni arrivate in redazione, Moreno Morello torna a occuparsi delle mascherine chirurgiche prodotte da Fca. Distribuite nelle scuole italiane con il logo della presidenza del Consiglio dei ministri, secondo le analisi di Striscia la notizia risultano avere una capacità di filtrazione ben inferiore al 95% previsto dalla legge. Un grosso caso, molto spinoso per Giuseppe Conte e compagni. Le rassicurazioni sulla qualità dei prodotti distribuiti di Fca del Commissario straordinario per l'emergenza Covid-19 e dell’Istituto Superiore di Sanità non bastano a risolvere quello che potrebbe trasformarsi in uno scandalo e che ha portato alle proteste di tantissimi genitori con figli nelle scuole. Ora arrivano le testimonianze di diversi imprenditori italiani, finanziati per produrre mascherine con fondi statali, che, paradossalmente, oggi vengono a sapere che le mascherine di Fca, scelte dal governo, non rispetterebbero gli standard previsti dalla normativa di riferimento.  E di aver prodotto dispositivi medici che ora giacciono invenduti nei magazzini dato che buona parte della domanda è già soddisfatta dalla produzione di FCA. 

Prato, ecco le aziende delle mascherine "made in Italy": fabbriche vuote e porte sbarrate. Siamo andati nella città toscana, capitale italiana della produzione di dispositivi di protezione con ben 20 ditte che hanno avuto l'ok dell'Istituto superiore di sanità. Ma la realtà è ben diversa: tra operazioni della Guardia di Finanza contro schiavismo e contraffazione e sedi desolate. Vittorio Malagutti e Francesca Sironi su L'Espresso il 23 ottobre 2020. Il business della mascherina è diventato un'occasione d'oro per imprenditori senza scrupoli. Che possono approfittare del sistema delle autorizzazioni in deroga a e su un sistema di controlli con ampi varchi a disposizione di chi tenta di aggirare le regole e massimizzare i profitti. Lo dimostra una recente indagine del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Prato. In pieno lockdown, era il 2 maggio scorso, gli investigatori si sono accorti di un insolito movimento attorno al capannone di un’azienda a proprietà cinese, la stessa già sottoposta a controlli e a un’inchiesta giudiziaria nei mesi precedenti. Si decide quindi di riattivare le telecamere nascoste, quelle piazzate nell’hangar durante la prima indagine. Grande è la sorpresa quando gli schermi rimandano le immagini di decine di operai impegnati a lavorare intorno ai tavoli per produrre mascherine.

Gustavo Bialetti per “la Verità” il 4 ottobre 2020. La vita è tutta una coincidenza, verrebbe da dire. Prendete l'apertura del quotidiano la Repubblica di ieri. Titolo a caratteri cubitali: «Mascherine in tutt' Italia». All'interno articoli e commenti pensosi sulla necessità improrogabile di ricoprire il volto con i famosi dpi (dispositivi di protezione individuale) per arginare la galoppata del coronavirus nel nostro paese. Giusto per gradire, qualche esempio. A pagina 6 trovate: «Virus, gli esperti ora vedono nero. Avanza l'obbligo della mascherina». A fianco, a pagina 7, altra apertura che dice: «Le chirurgiche meglio della stoffa: protetti al 90 per cento».Altra coincidenza: aprite pure La Stampa e leggete un corsivo che raccomanda: «L'abitudine che ci salva la vita». L'abitudine, ca vans dire, di calarsi la mascherina sul volto. Direte voi: caspita, che messaggio sanitario potente che arriva dalle pagine dei quotidiani editi dalla società Gedi della famiglia Elkann. E qui veniamo alla terza coincidenza: sapete chi è che dovrà produrre ben 27 milioni di mascherine usa e getta al giorno per conto del commissario straordinario Domenico Arcuri? Esatto, proprio la famiglia Elkann. Il ramo cadetto della dinastia Agnelli, infatti, ha deciso nelle scorse settimane di riconvertire due stabilimenti auto - Pratola Serra ad Avellino e Mirafiori a Torino - per la lavorazione dei dispositivi di protezione individuale. In totale 44 linee produttive che, a pieno regime, dovrebbero impiegare ben seicento dipendenti di quella che un tempo era stata la Fiat. Insomma, per chi non l'avesse ancora capito, le mascherine sono importanti. Bisogna indossarle. Soprattutto se a realizzarle sono i padroni delle ferriere.

Da "ilmessaggero.it" il 13 Ottobre 2020. Covid e mascherina, quale quella giusta? Le mascherine di stoffa funzionano per ridurre la probabilità di contaminazione e trasmissione di virus? Sì, ma solo se vengono lavate ogni giorno in lavatrice. Lo rileva una ricerca della Unsw Sydney, pubblicata su BMJ Open. Secondo lo studio le mascherine di stoffa devono essere lavate quotidianamente ad alte temperature per essere protettive contro le infezioni. «Sia le mascherine in tessuto sia quelle chirurgiche - evidenzia Raina MacIntyre, che ha condotto lo studio - devono essere considerate contaminate dopo l'uso. A differenza delle mascherine chirurgiche, che vengono smaltite dopo l'utilizzo, quelle in tessuto vengono riutilizzate. Anche se si può essere tentati di farlo o di lavarle in modo sommario, la ricerca suggerisce che questo aumenta il rischio di contaminazione». I ricercatori hanno analizzato i dati non pubblicati di uno studio del 2015. «Date le potenziali implicazioni per gli operatori sanitari e in generale per chi utilizza mascherine di stoffa durante la pandemia - aggiunge MacIntyre - abbiamo approfondito dati relativi al 2011 sul fatto che gli operatori sanitari le lavassero quotidianamente e come. E' emerso che se venivano lavate nella lavanderia dell'ospedale, erano efficaci quanto una maschera chirurgica». E' importante notare che, dato che lo studio è stato condotto più di cinque anni fa, i ricercatori non hanno testato il SARS-CoV-2, ma hanno incluso agenti patogeni respiratori comuni come influenza, rinovirus e coronavirus stagionali. «Anche se è improbabile che chi indossa una mascherina di stoffa venga a contatto con la stessa quantità di agenti patogeni di un operatore sanitario in un reparto ad alto rischio - prosegue la ricercatrice - consigliamo comunque di lavare quotidianamente le mascherine». Secondo l'analisi, il lavaggio a mano delle mascherine non ha fornito una protezione adeguata. Gli operatori sanitari che lavavano da soli le maschere a mano avevano il doppio del rischio di infezione rispetto a quelli che usavano la lavanderia dell'ospedale. 

Mascherine chirurgiche e lavabili: come distinguere quelle che proteggono meglio. DATAROOM di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 28/10/2020. Nessuno può proteggerci da noi stessi. Lo abbiamo detto, scritto, ripetuto fino alla nausea: il virus esce dal naso e dalla bocca, e tante persone sono infette senza saperlo, per questo bisogna indossare sempre la mascherina e in modo corretto. E basta, per favore, tenerla sotto al mento o lasciare il naso scoperto. Ciò premesso vediamo come riconoscere le mascherine che proteggono meglio, più semplici da portare, e che impattano meno sull’ambiente.

La certificazione dell’Istituto superiore di Sanità. Per tutta la durata dell’emergenza Covid, che il premier Giuseppe Conte ha prolungato fino al 31 gennaio 2021, l’Istituto superiore di Sanità validerà la sicurezza di mascherine chirurgiche prodotte in Italia. Lo fa verificando i test che valutano l’efficacia della filtrazione batterica e permettono di stabilire la conformità con le norme. È quanto previsto lo scorso 17 marzo dal decreto CuraItalia: vista la difficoltà di trovare le quantità necessarie, le disposizioni straordinarie prevedono che in via eccezionale le mascherine possano essere messe in commercio anche senza il marchio CE, ma dopo il via libera delle autorità sanitarie. Il provvedimento riguarda la produzione di mascherine chirurgiche, le cosiddette altruistiche, che trattengono quello che esce dalla bocca e dal naso, e quindi ognuno protegge se stesso proteggendo gli altri.

I 5 requisiti di funzionalità e sicurezza. Per essere certificate dall’Iss le chirurgiche made in Italy devono rispettare 5 requisiti (definiti dalla norma UNI EN 14683): resistenza a schizzi liquidi, traspirabilità, efficienza di filtrazione batterica, pulizia da microbi e biocompatibilità (non devono provocare reazioni allergiche). Da marzo a luglio Invitalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo, di proprietà del Ministero dell’Economia, sostiene la loro produzione con 50 milioni di euro destinati alle aziende che si riconvertono (la misura è sospesa il 15 luglio per esaurimento della dotazione finanziaria). Il costo del processo di certificazione è in media di 25 mila euro per una durata di 3 mesi. Le aziende autorizzate 608.

I tre tipi di mascherine chirurgiche. Ebbene, le mascherine chirurgiche in commercio su autorizzazione dell’Iss possono essere di tre tipi: monouso, lavabili e lavabili con filtro. In tutti e tre i casi quelle buone da quelle farlocche sono riconoscibili per la presenza del marchio CE, oppure per la validazione dell’Istituto superiore di Sanità, entrambi accompagnati dalla scritta a norma «EN 14683» sulla confezione. La loro capacità filtrante verso l’esterno, ovvero il grado di protezione che offrono verso chi ci circonda, varia dal 95% (tipo I) al 98 % (tipo II). Devono essere certificate come dispositivi medici.

Primo tipo: le mascherine chirurgiche usa e getta, come già raccontato in un precedente Dataroom, sono formate da due o tre strati di tessuto non tessuto (Tnt) costituito da fibre di poliestere o polipropilene. Tipicamente, lo strato esposto all’esterno è costituito da un materiale di tipo spun bond (un tessuto non tessuto usato nel settore automobilistico e industriale) con eventuale trattamento idrofobo, che ha la funzione di conferire resistenza meccanica alla mascherina e proprietà idrofoba. Lo strato intermedio è costituito da Tnt prodotto con tecnologia melt blown e costituito da microfibre di diametro 1-3 micron; questo strato svolge la funzione filtrante. Un eventuale terzo strato, tipicamente in spun bond, è a contatto con il volto e protegge la cute dallo strato filtrante.

Tipo due: lavabili. Si tratta di mascherine certificate dall’Iss sulle base dei 5 requisiti previsti per legge. Sono realizzate con strati di tessuto trattati, di solito cotone OEKO-TEX Standard 100. Sono da lavare ogni 8 ore fino ad un numero massimo prestabilito di volte (di solito 20), tempo entro cui non perdono i requisiti di resistenza a schizzi liquidi, traspirabilità, efficienza di filtrazione batterica e pulizia da microbi. Il lavaggio deve essere preferibilmente a mano oppure a 30° con centrifuga a 600 giri (non può essere asciugata con l’asciugatrice, non utilizzare ammorbidenti e detersivi citotossici). Attenzione: non c’entrano nulla con le mascherine fashion o autocostruite definite di comunità, che sono considerate in linea con quanto richiesto con la legge ma che non danno garanzia del livello di protezione.

Tipo tre: lavabili con filtro: stesse caratteristiche di quelle sopra, presentano in più un apposito taschino per inserire un nuovo filtro ai carboni attivi. Le aziende in Italia autorizzate dall’Iss a produrre mascherine lavabili (con o senza filtro) sono una quarantina e hanno preso incentivi pubblici per oltre 2,2 milioni di euro su 3,5 milioni di investimenti autorizzati (34 per lavabili, 10 per lavabili con filtro sostituibile).

L’impatto ambientale. Quelle lavabili certificate di fatto non sono permesse. Certo costano di più, mediamente attorno ai 5 euro, ma considerando che con 15/20 mascherine di questo tipo uno studente può coprire un intero anno scolastico, vuol dire 25 centesimi al giorno, contro i 20 delle monouso (cifra verosimilmente pagata dalla Protezione civile) e i 50 centesimi di prezzo calmierato per il pubblico. Ma le tonnellate di rifiuti giornalieri da smaltire sarebbero 2,2 e non 44. In alcune scuole inoltre non sono arrivate le mascherine, ma l’indicazione generale è di portarsi da casa la chirurgica usa e getta, evidentemente perché altrimenti sarebbe troppo complicato verificare il tipo di mascherina portata da ciascun alunno e i suoi requisiti di sicurezza. Le proteste delle associazioni in difesa dell’ambiente finora sono rimaste inascoltate. Motivo? Non c’è nessuna fiducia nel fatto che vengano poi lavate quotidianamente, compromettendo di conseguenza la sicurezza. Siccome la vita continua anche fuori dalla scuola, nessuno impedisce a genitori, adulti e ragazzi di fare una scelta di responsabilità che vada oltre la punta del naso, acquistando (quando si trovano) quelle lavabili certificate: a conti fatti il costo non è superiore, inoltre sono dispositivi medici, esenti da iva e detraibili dalla dichiarazione dei redditi. Con una inderogabile prescrizione: lavarle quotidianamente.

Riccardo Galli per "blitzquotidiano.it" il 25 ottobre 2020. Acquisti raddoppiati di questo tipo di mascherine, anche se le FFP2 restano le mascherine usate da una minoranza della popolazione. La minoranza che può. Mascherine FFP2 non hanno prezzo calmierato, costano infatti a seconda e a scelta di chi le vende dai 2,5 ai 4 euro l’una. Eppur si vendono. Perché? Perché proteggono dal respiro altrui. Certo, è un costo. Più o meno 1,5 euro al giorno per ogni componente della famiglia (una FFP2 la usi almeno un paio di giorni, ma non più di tre). Cinquanta euro al mese a testa, famiglia di tre persone 150 euro al mese. Non tutti, anzi relativamente pochi se lo possono permettere. Ed è appunto un si protegga chi può, economicamente può. Ma non è un lusso inutile, è una spesa che non tutti possono reggere. Tutt’altro che inutile però, anzi. Inutile lo sarebbe stata la spesa e la mascherina FFP2 se la mascherina chirurgica non fosse stata intrisa nella indisciplina del suo uso. Si protegga chi può, economicamente può, è una conseguenza urticante ma motivata e giustificata. Chirurgica (50 cent l’una) basta e avanza per la normale vita quotidiana, chirurgica vale come protezione reciproca solo e soltanto se è appunto reciproca. Cioè se tutti ce l’hanno, la usano e la usano a modo. Chirurgica scherma le mie emissioni di eventuale virus, protegge il prossimo da me stesso. Chirurgica può proteggere me dagli altri solo e soltanto se gli altri tutti la mettono. E se la mettono giusta, cioè non vecchia di una settimana, non sotto il naso, non azzerata nella sua capacità di filtrare da ore al gomito o alla gola. Ma se quasi tutti ce l’hanno la mascherina chirurgica, somma è l’indisciplina con cui moltissimi, troppi, la usano. Di come il prossimo usa la mascherina non ci si può palesemente fidare. La mascherina chirurgica e reciprocità, mutualità, affidamento. Ci si può fidare della sua capacità di schermare solo se ce l’hanno tutti e tutti la usano secondo regola. Così non è e quindi chi può si protegge con la FFP2 che scherma non solo il proprio fiato ma anche l’altrui. Si protegga e si protegge chi economicamente può. FFP2, un lusso inutile se la mascherina chirurgica non fosse quotidianamente impastata di indisciplina nell’uso da gran parte di coloro che la usano. Invece FFP2 poggi scelta oculata di chi osserva, ragiona, sa e soprattutto può.

Le mascherine chirurgiche e le Fp2 meglio della stoffa :”Protezione al 90%”. Il Corriere del Giorno il 3 Ottobre 2020. Le mascherine di tessuto lavabili sono un po’ meno efficaci, ma comunque consigliate. Chi le indossa è protetto dal 60-80% delle goccioline nell’aria (a seconda del tessuto, il cotone leggero è il meno indicato, il migliore la seta , il cotone pesante è un buon compromesso). Le mascherine sanitarie abbattono il rischio di contagio riducono sia le goccioline emesse da chi le indossa che quelle inalate dall’aria esterna, ma vanno affiancate dalle distanze di protezione da adottare (da un minimo di 1 metro ai più sicuri 2 metri) ed un frequente lavaggio e disinfettazione delle mani. La severità dell’infezione dipende dalla quantità di virus inalato. Anche quando la mascherina non impedisce totalmente il contagio, riduce la carica virale e mitiga la malattia. Le mascherine devono coprire tutto il naso, con il ferretto in alto adattato al setto (anche per evitare che gli occhiali si appannino) e devono arrivare sotto al mento. Coprire il naso è essenziale, perché qui il virus riesce a infettare le cellule in modo molto pericoloso . L’elastico di quelle chirurgiche non deve essere lento e deve ridurre lo spazio fra guancia e mascherina. Da lì potrebbe entrare aria infetta quando inspiriamo. Se serve, l’elastico può essere incrociato prima di essere agganciato alle orecchie. La mascherina è particolarmente indicata e necessaria negli ambienti chiusi ove si trovano altre persone, e dove si resta per più di un quarto d’ora. E’ quindi è sempre prudente indossarle, anche quando si mantiene la distanza. Oltre alle goccioline emesse con il respiro, che non superano la distanza di 1,5-2 metri dalla bocca, si ritiene infatti che il coronavirus si trasmetta anche tramite aerosol, restando sospeso in aria fino a tre ore e facendosi trasportare oltre i 2 metri di distanza. Il virus Covid-19 passando dagli spazi tra le mascherine e guance, sotto forma di aerosol potrebbe essere inalato con l’inspirazione. Si tratterebbe di quantità limitate, ma ancora non sappiamo la dose minima di virus necessaria al contagio. Si dovrebbe far ricorso alle mascherine dette filtranti facciali (come le Fp2 senza valvola), che aderiscono alla pelle e bloccano particelle molto fini, per difendersi dagli aerosol. Non sono consentite quelle con la valvola (Fp3 e Fp2) che permettono al virus espirato di uscire e in alcuni luoghi . Mentre le mascherine chirurgiche offrono una protezione del 90% circa, le Fp2 almeno del 95%. All’aperto il contagio è molto più difficile, perché il virus si disperde subito nell’aria. Ma è anche impossibile difendersi da persone che si avvicinano nostro malgrado o che starnutiscono e tossiscono. Le mascherine in buona parte riducono le goccioline emesse da chi le indossa. Chi respira con una mascherina chirurgica emette solo 1/5 delle goccioline rispetto a chi non ha protezioni, secondo un esperimento dell’università della California appena pubblicato sulla rivista specializzata Scientific Reports. Le particelle emesse da chi parla si riducono di 15 volte e da chi tossisce di 2 volte. Le mascherine di tessuto lavabili sono un po’ meno efficaci, ma comunque consigliate. Chi le indossa è protetto dal 60-80% delle goccioline nell’aria (a seconda del tessuto, il cotone leggero è il meno indicato, il migliore la seta , il cotone pesante è un buon compromesso). “Il governo sta lavorando sulla proroga dello stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021. Occorrerà, però, tenere alta l’attenzione anche su ciò che consegue a questa decisione – dichiara Claudio Galbiati Presidente della sezione Safety di Assosistema Confindustria,  – come il prorogarsi della possibilità dell’immissione nel mercato italiano di materiale e dispositivi di protezione individuale privi della marcatura CE. Questi prodotti, se non specificatamente approvati, rischiano di non fornire la protezione e funzionalità di un prodotto regolarmente certificato, inoltre si danneggiano i produttori italiani ed europei che attualmente, avendo aumentato fino anche di tre volte la propria produzione, si trovano a concorrere con materiale extra europeo presentato con prezzi improponibili per un prodotto con marcatura CE”. “Ricordiamo che, come rilevato dal centro studi di Assosistema Confindustria, nel periodo febbraio-maggio 2020 sono stati importati DPI per le vie respiratorie (comprese le mascherine chirurgiche) per un importo pari a euro 1.100.000.000, di cui il 90% di provenienza cinese – continua Galbiati – Nel solo mese di aprile l’incremento percentuale sullo stesso periodo del 2019 è stato del + 3129% (a maggio l’incremento è stato del +2.540%). Se questa misura emergenziale poteva aver un senso nei primi mesi dell’anno, nel pieno della pandemia, alcuni interrogativi scaturiscono invece ora, in assenza di una programmazione o di un semplice piano di approvvigionamento strutturato in materia di Dpi, tale da poter corrispondere ai fabbisogni nazionali per i prossimi mesi, vista la necessità assoluta di dispositivi di protezione”. “Confidiamo, quindi, che il Governo accolga le diverse interrogazioni parlamentari – conclude Galbiati – che, in questi mesi, hanno richiesto a livello nazionale ed europeo il fermo di tutto il materiale non marcato CE, che non garantisce i margini di sicurezza necessari per la protezione e la sicurezza di chi indossa i DPI. Anche considerando che altri paesi Europei si sono già mossi, in tal senso, prima di noi”.

Antonio Castro per “Libero Quotidiano” il 24 settembre 2020. Il 90% delle mascherine, dei camici, dei guanti e pure degli schermi protettivi arrivano ancora dalla Cina. Con buona pace di tutti i bei discorsi dei mesi scorsi su autosufficienza, necessità di una produzione nazionale e filiera industriale da riconvertire. Per la serie: "passata la festa gabbato lo santo", non solo gli staliniani con i mesi estivi hanno mollato un po' l'attenzione al Coronavirus, ma anche le imprese del settore non sembrano marciare alla velocità che servirebbe per rispondere alle esigenze di un mercato che non ha certo esaurito la richiesta di dispositivi di protezione. I dati parlano chiaro: nei momenti di picco di richiesta (da febbraio a maggio, in particolare), sono stati importati dispositivi di protezione (Dpi), per un valore complessivo di circa 1.100.000.000 euro. Ad 2020 è stato riscontrato l'aumento percentuale più alto rispetto al pari periodo del 2019 (+3129%). E il 90% degli articoli acquistati provenivano proprio dalla Cina, secondo quanto assicura il centro studi di Assosistema-Confindustria che ha elaborato i dati Istat, per calcolare l'impatto economico dell'emergenza Covid-19 nel campo dei dispositivi di protezione. Assosistema è l'associazione che riunisce in Confindustria le imprese di produzione, distribuzione, manutenzione dei dispositivi di protezione individuali e collettivi e di servizi di sanificazione e sterilizzazione dei dispositivi tessili e medici utilizzati in ambito sanitario e turistico-alberghiero. Secondo Assosistema per quanto riguarda invece i dpi per le mani (guanti protettivi e ad uso medicale) nei mesi di febbraio-marzo-aprile 2020 si è registrato un trend di acquisti dall'estero assimilabile a quelli del pari periodo 2019 con un impennata nella curva nel mese di maggio 2020. Si è registrato quindi un aumento rispetto al 2019 del + 39% raggiungendo 120 milioni di euro. Per quanto concerne invece gli indumenti di protezione (camici sanitari e professionali) si è registrato per Assosistema un aumento del valore complessivo delle merci importate esponenziale da febbraio a maggio 2020. Il mese di maggio 2020 è quello nel quale si è riscontrato l'aumento percentuale più alto rispetto al pari periodo del 2019 (+412%), con un valore pari a 200 milioni di euro. Con il ritorno di fiamma dei contagi (Francia, Gran Bretagna e Spagna sembrano avanti di qualche settimana rispetto all'Italia), torna quanto mai di attualità la certezza di avere un sistema industriale nazionale per realizzare i dispositivi di protezione individuali necessari. Tanto più che spesso quelli che arrivano dall'estero non passano i controlli di qualità. E quindi non possono vantare la certificazione Ue. Non a caso l'associazione confindustriale sta tornando alla carica, in Parlamento ma anche con il governo, per un puntuale «pianificazione dei fabbisogni a medio raggio»che consenta al nostro Paese un approvvigionamento di dispositivi certificati correttamente Ce. Tra marzo e aprile molte imprese chiesero di poter riconvertire le più disparate produzioni (dai pannolini ai produttori di calze) per realizzare una vera e propria "filiera nazionale".

L'impossibile. Ma ai primi bandi pubblici saltò fuori che il prezzo stabilito dal commissario per l'emergenza (Domenico Arcuri), non bastava neppure a giustificare i costi di produzione all'ingrosso. E oggi a qualche mese di distanza gli industriali stanno facendo pressione perché venga messa in piedi una filiera del tessile riutilizzabile per ridurre l'impatto ambientale degli smaltimenti. Insomma, per l'associazione che riunisce in Confindustria le imprese di produzione, distribuzione, manutenzione dei dispositivi di protezione individuali, il nostro Paese come altri Stati europei « non dovrebbe più consentire l'accesso di materiale non marcato Ce, che non garantiscono i margini di sicurezza per la protezione dei cittadini». riproduzione riservata.

Fiorenza Sarzanini per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2020. Milioni di mascherine immesse sul mercato senza la certificazione oppure pagate a prezzi da capogiro. Intere partite reperite nel momento peggiore della pandemia da coronavirus con finte fideiussioni e vendute agli enti pubblici a costi esagerati, anche dieci, cento volte più del valore reale. Con un esborso di soldi da parte dello Stato per centinaia di milioni di euro. Passata la fase dell'emergenza più grave, la Procura di Roma si concentra sulle forniture dei dispositivi ritenuti indispensabili per proteggere il personale sanitario e i cittadini. Sono quattro i fascicoli aperti dal gruppo di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, una decina gli indagati per frode in commercio. Primo passo di un'indagine che mira pure a verificare se all'interno delle amministrazioni (Regione, aziende sanitarie, Protezione civile) ci siano funzionari infedeli che abbiano agevolato aziende in cambio di soldi. Dunque se dietro il grande affare che ha segnato i primi mesi dell'epidemia ci siano episodi di corruzione. Mazzette versate a chi doveva stilare la lista dei fornitori per riuscire a essere inseriti. Un lavoro capillare svolto dai pubblici ministeri anche grazie all'impegno dell'Agenzia delle Dogane guidata da Marcello Minenna che ha bloccato numerosi carichi, segnalando tutte le irregolarità compiute e consentendo di ricostruire il percorso dalla produzione all'estero sino all'arrivo alla frontiera e - quando è accaduto - alla consegna. I numeri dei sequestri effettuati forniscono il quadro di quanto accaduto in questi mesi dimostrando che la speculazione era ben più ampia, visto che oltre al blocco di 4 milioni e 800 mila mascherine nei magazzini sono rimasti 65 mila e 800 dispositivi per la terapia intensiva, oltre 26 milioni di guanti monouso, 216 mila tute, più di 47 mila occhiali e persino 86 mila confezioni di alcool. Prodotti non conformi alle norme, la maggior parte con una certificazione fasulla. Sin dalla fine di febbraio scorso era apparso chiaro quanto il reperimento di mascherine potesse trasformarsi in una svolta economica per le aziende, ma pure per gli intermediari. L'Italia, infatti, non produceva questo tipo di dispositivi di protezione e per ovviare alle carenze negli ospedali, nelle Rsa, nelle strutture private e anche per consentire ai cittadini di uscire di casa, è scattata la corsa all'accaparramento. Così, mentre alcune società chiedevano al ministero della Salute il via libera per riconvertire la propria attività, altri si concentravano sui contatti con ditte estere, soprattutto cinesi. E si affidavano a mediatori per riuscire ad aggiudicarsi le forniture. Alcuni sono stati indagati per aver preteso milioni di euro per favorire il contatto che in realtà si è rivelato inesistente. Altri si sono adoperati per far elargire fideiussioni oppure polizze a garanzia agli enti pubblici - è il caso delle mascherine vendute alla Regione Lazio - che si sono poi rivelate false. Il caso più eclatante agli inizi di aprile ha portato all'arresto di un imprenditore che si era aggiudicato una gara Consip da 253 milioni di euro per 24 milioni di mascherine che dovevano essere consegnate entro tre giorni e invece non esistevano. In alcuni casi si è scoperto invece che le mascherine ordinate non erano conformi agli standard. Milioni di pezzi sono stati buttati perché una volta arrivati in dogana si è accertato che non avevano alcuna certificazione. Ed è scattata l'indagine penale perché la fornitura era stata pagata nel timore di non riuscire ad ottenerla. Alcuni imprenditori - quando esisteva uno standard minimo di requisiti - hanno preferito optare per la declassificazione da «filtranti» a «generiche». Sono le mascherine di stoffa che non possono essere utilizzate dalle strutture sanitarie e sono state riciclate. Altri, infine, sono stati indagati perché hanno consegnato prodotti differenti da quelli acquistati, nonostante ne avessero garantito la funzionalità.

Mario Giordano a Fuori dal coro, lo scandalo mascherine travolge Toscana e Pd: "Prodotte in un'azienda cinese, c'erano topi". Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. Lo scandalo mascherine a Fuori dal coro. Introducendo la puntata, Mario Giordano punta subito i riflettori su due casi sconcertanti. Il primo: "20 milioni di euro, vostri soldi, in mascherine già comprate dall'Italia sono ancora fermi negli aeroporti di Canton e Shanghai". La gara è del 29 aprile, poi una serie di ricorsi. Insomma, "un pasticcio" firmato dal commissario Domenico Arcuri. Sconvolgenti anche le immagini provenienti da Prato, in un'azienda cinese che ha prodotto mascherine ordinate dalla Regione Toscana del governatore Enrico Rossi: costo, 9 milioni di euro. Piccolo particolare: nei locali dove si fabbricavano i dispositivi di sicurezza destinati ai toscani giravano indisturbati dei topi, in condizioni sanitarie devastanti. Un bel paradosso italiano.

Le mascherine non certificate che inguaiano la Regione rossa. Si aggiunge un tassello allo scandalo sulle mascherine gratuite della Regione Toscana, manca la certificazione e i medici fanno un esposto alla procura. Costanza Tosi, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. Più passano i giorni e più la tanto sbandierata efficienza della Regione rossa in tempo di Covid sembra crollare come un castello di carta. “In Toscana mascherine gratis in farmacia e nelle edicole: ogni tessera sanitaria un pacco da 10”. Affermavano fieri i vertici dell’amministrazione regionale quasi un mese fa. A distanza di tempo però, sembrano svelarsi gli scheletri nell’armadio e sul generoso regalo ai cittadini si poggia un alone di mistero. Non è tutto oro quel che luccica, come si suol dire. La Regione Toscana avrebbe distribuito ai cittadini (e non solo) dispositivi di protezione non certificati. Si aggiunge un ulteriore tassello allo scandalo dei tredici imprenditori cinesi arrestati dalla Guardia di Finanza di Prato. Ai produttori, qualche giorno fa, erano state sequestrate centinaia di migliaia di mascherine chirurgiche destinate sia alla Protezione Civile che alla centrale acquisti per la sanità per conto della Regione Toscana (Estar). Secondo l’inchiesta, alcune aziende, scelte a chiamata diretta dalla Regione, essendo incapaci di rispettare gli accordi presi in termini produzione e consegna di mascherine, avrebbero subappaltato il lavoro a ditte cinesi. Ma c’è di più, perché le mascherine in questione, prodotte dagli sfruttatori ora indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento della manodopera, sarebbero state consegnate senza che vi fosse l’obbligatoria certificazione di legge richiesta. “Abbiamo deciso di dotare tutti di una mascherina chirurgica, questa mascherina è un’invenzione toscana”, aveva dichiarato il governatore Enrico Rossi in conferenza stampa agli inizi di marzo, mostrando con orgoglio il dispositivo in “tessuto non tessuto” bianco e poco aderente ai lati che, ancora oggi, viene distribuito gratuitamente all’interno delle farmacie. Ma chi aveva autorizzato con l’obbligatoria certificazione la distribuzione di quel prodotto? Qui, iniziano le contraddizioni. “A noi, anzi, a me personalmente era venuta l’idea che il 'tessuto non tessuto' può trattenere l’aerosol, l’Università ci ha certificato che è così: lo trattiene tanto quanto le mascherine che adesso sono introvabili”, aveva proseguito Rossi durante l’incontro. Facendo riferimento, più di una volta, ad un test effettuato dall’Università che niente ha a che vedere con gli esami necessari per certificare l’innovativa mascherina anti Covid. Di fatto per "bollare" come idonee le mascherine vi è bisogno di un ente che certifichi la loro efficacia. E questo ente non è l’Università. A verificare il fatto, dopo una serie di denunce, è stato Paolo Marcheschi, capogruppo Fratelli d’Italia in Consiglio Regionale (Toscana). “Ho richiesto accesso agli atti e non mi è ancora arrivato niente - ci ha spiegato Marcheschi - Rossi, quindi la presidenza o la Piovi, quindi la direttrice dell’Estar, hanno selezionato cinque aziende toscane per fare le mascherine. Che, a detta loro, erano in grado di consegnare mascherine idonee nei tempi di rispetto del contratto. Questi contratti io li ho chiesti, non sono mai arrivati, quindi non si sa quale sia stato il rispetto delle clausole contenute si sa solo che queste aziende erano inadatte a produrre quel numero di mascherine”. Senza nessuna gara d’appalto, su che base sono state scelte le aziende per produrre le mascherine contro il Covid19? Chi le ha certificate? Il capogruppo di Fratelli D’Italia ha chiesto spiegazioni all’Università di Firenze che ha chiarito di non aver mai verificato quei dispositivi come invece sosteneva la giunta targata Pd. “Deve essere chiaro - si legge nelle carte di risposta dell'Unifi- che la presente relazione non ha valore certificato in quanto non è stato utilizzato il metodo riportato dalla normativa italiana in materia”. Senza nessuna certezza e sopratutto sembrerebbe senza l’ok dell’Istituto Superiore di Sanità, la Regione Toscana ha dato il via alla produzione spendendo ben 41,5 milioni di euro. Ma a chi sono arrivate quelle mascherine? Per qualcuno c’è il rischio che siano state consegnate anche ai medici degli ospedali che lottavano in prima linea. "A una mia domanda che ho fatto alla direttrice dell’Estar - ci spiega Marcheschi - mi è stato risposto che le mascherine 'toscana1', quindi quelle della prima mandata annunciate da Rossi "sono state sostituite rapidamente per poi essere totalmente destinate alla popolazione a partire dal 20 di aprile"”. Se le mascherine sono state ritirate e sostituite probabilmente, in prima battuta, i nostri medici sono andati negli ospedali toscani a combattere il Covid con mascherine non certificate. Un affermazione quella dell'Estar che risulterebbe, per assurdo, perfettamente in linea con quanto detto proprio dal presidente Rossi, che nella stessa conferenza stampa in cui annunciava l’invenzione specificava che era rivolta “al personale negli ospedali”. Poi, ancora, “le distribuiremo in tutte le strutture (…) è una misura che possiamo estendere a tutti gli operatori sanitari e non solo”. Erano mascherine senza certificazioni di legge richieste con le quali medici e infermieri hanno dovuto affrontare le prime battaglie con il Covid? Dispositivi inadeguati per cui la regione ha speso decine di milioni di euro. Il 31 di marzo i medici fanno un esposto alla procura per tentata strage nei confronti di Rossi.

Giusy Caretto per startmag.it l'11 giugno 2020. Anche le mascherine finiscono in tribunale. La Jas, multinazionale attiva in Italia che lavora in cordata con Alitalia, porta il bando di gara lanciato dal commissario straordinario Domenico Arcuri il 29 aprile per il trasporto di mascherine e altro materiale sanitario dalla Cina all’Italia dinanzi ai giudici del Tar del Lazio. Per Jas il bando è illegittimo e, soprattutto, mascherine e ventilatori si trovano ancora in Cina. Andiamo per gradi.

L’ANTEFATTO. Partiamo dagli esordi della vicenda. In piena emergenza pandemia la Protezione Civile ha acquistato un grande lotto di mascherine, reagenti per tamponi, respiratori e ventilatori polmonari. La merce viene depositata nei magazzini aeroportuali di Jas, presso gli aeroporti di Canton e Shanghai, in attesa della definizione di chi si occuperà del trasporto in Italia. La stessa Jas, tra gli altri, più volte si è occupata del trasporto in Italia dei dispositivi medici.

ARCURI INDICE UNA GARA PER IL TRASPORTO DELLE MASCHERINE. Il commissario Domenico Arcuri, subentrato nella gestione alla Protezione civile, il 29 aprile invia una “lettera di invito” a 29 società per farle partecipare a una gara da svolgersi con “estrema urgenza” per l’affidamento, in due lotti, del servizio di trasporto nazionale ed internazionale, nonché di distribuzione nel territorio nazionale, di materiali sanitari per il contrasto e il contenimento dell’emergenza epidemiologica Covid-19. Il valore complessivo di aggiudicazione è di 20 milioni di euro.

VINCE NEOS. Alla gara partecipano cinque aziende: Kerry logistics, Ups, Savino, Jas-Alitalia e Neos. A presentare l’offerta più bassa e quindi a vincere la gara è Neos, una società del gruppo Alpitour costituita nel 2001 per il trasporto aereo “da e verso” le località operate dal gruppo Alpitour con villaggi turistici. Jas, che ha in deposito la merce, arriva seconda. La Neos, secondo quanto scrive Il Corriere della Sera, “offre lo 0,11 (vale a dire 11 centesimi di euro da moltiplicare per i metri cubi trasportati e le miglia percorse). La Jas non scende oltre lo 0,25. In termini monetari significa che ogni viaggio della Neos costerebbe circa 130 mila euro, mentre con la Jas si spenderebbero sulle 250 mila euro”.

JAS: GARA ILLEGITTIMA. Per Jas, che ha fatto ricorso, assistita dallo studio legale Ughi e Nunziante, condizioni e prezzi promessi da Neos non sono conformi alla gara. Neos, sostiene Jas, ha “presentato un’offerta solo apparentemente inferiore a quella degli altri concorrenti, poiché basata su un criterio difforme con la normativa di gara (e quindi illegittimo) e tale da renderla comunque incomparabile con le altre offerte, essendo fondata su una struttura dei costi e dei guadagni attesi totalmente diversa (e ben più vantaggiosa per Neos) rispetto all’offerta praticata dagli altri concorrenti, nel rispetto della normativa di gara”. “Inoltre, sebbene la normativa di gara richiedesse che l’offerta fosse omnicomprensiva dei servizi di trasporto aereo e di quelli “complementari”, da tutto il mondo e verso Milano Malpensa e Roma Fiumicino, Neos è risultata in grado di coprire soltanto quattro tratte, peraltro tutte da aeroporti della Cina, e soltanto verso Milano Malpensa (non Roma Fiumicino). Sotto questo aspetto Neos era quindi carente dei requisiti per partecipare alla gara. Tutto ciò ha comportato una grave distorsione del confronto concorrenziale”, sostiene Jas.

DISPOSITIVI ANCORA IN CINA. Il modo di procedere del commissario non sembra tenere in considerazione non solo l’urgenza del trasporto ma anche i costi derivanti dal fermo della merce. I dispositivi, infatti, a distanza di mesi sono ancora in Cina nei depositi di Jas e stanno generando dei costi di sola giacenza che – secondo quanto ha appreso Start Magazine – potrebbero superare il milione di dollari, se la questione non verrà risolta in tempi brevi. “In base alla predetta tariffa agevolata, alla data odierna, l’importo maturato — e non pagato — in relazione alla giacenza dei Materiali è pari, per il magazzino di Shangai, a USD 338.994,95 (USD 0,04 per 872,93 mc) e, per il magazzino di Canton, a USD 334.541,20 (USD 0,04 per 894,81 mc), per un totale di USD 673.536,15”, si legge nella lettera inviata dallo studio legale Ughi e Nunziante alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. “Inoltre, a causa dell’occupazione dei Magazzini, JAS si trova nell’impossibilità di svolgere le sue normali attività a favore di soggetti terzi, con conseguente ulteriore pregiudizio economico”.

Ti conosco, mascherina! Report Rai PUNTATA DEL 08/06/2020. Manuele Bonaccorsi, collaborazione di Giusy Arena. Per affrontare la fase due servono le mascherine. Il commissario straordinario Domenico Arcuri ha annunciato entro la fine di settembre ne produrremo tante da essere totalmente indipendenti dall’estero. A suon di incentivi alla riconversione abbiamo attrezzato tante aziende italiane a produrle, persino a produrre i macchinari per realizzarle. Ma abbiamo pensato alle basi della produzione? Alla materia prima? 

“TI CONOSCO MASCHERINA” di Manuele Bonaccorsi collaborazione di Giusy Arena immagini di Giovanni De Faveri e Cristiano Forti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non ci rimane che mettersi le mascherine. Il commissario Arcuri aveva fatto una promessa solenne qualche settimana fa: “Le produrremo in Italia, 35 milioni al giorno”. Questo per non dipendere dall’ estero. Anche a un prezzo fisso verranno fabbricate, vendute a 50 centesimi l’una. Lo Stato per questo ha dato anche incentivi. Solo che il commissario ha fatto le pentole, ma il diavolo si è dimenticato di fare i coperchi. Il nostro Manuele Bonaccorsi.

MANUELE BONACCORSI Lei ha le mascherine a 50 centesimi?

ANTONIO ANNETTA - FARMACISTA Ve le prendo subito. Eccole, sono queste.

MANUELE BONACCORSI Posso vederlo il pacco?

ANTONIO ANNETTA - FARMACISTA Come no?

MANUELE BONACCORSI Made in China. Lei ha mascherine italiane di quelle chirurgiche?

ANTONIO ANNETTA - FARMACISTA Attualmente no.

MANUELE BONACCORSI Ma lei le ha mai viste?

ANTONIO ANNETTA - FARMACISTA Io non le ho mai viste, fino ad adesso.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Eppure, le imprese italiane pronte a produrle ci sono. Questa fabbrica di divani, a Vibo Valentia, è stata tra le prime a partecipare a un bando pubblico varato col decreto Cura Italia: 50 milioni di euro per favorire la riconversione delle aziende nella produzione di mascherine. Ha ricevuto un finanziamento di 150mila euro su 240mila di investimento.

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE Le mascherine le facciamo qua. I tre strati che compongono la mascherina vengono uniti attraverso una pressa.

MANUELE BONACCORSI Questi sono i tre veli della mascherina?

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE Questi sono i tre veli. Questo è un 30 grammi sponbound, che va praticamente lato mondo, quindi all’esterno. Questo è il metlblown che va nel lato centrale, che è la parte importante della mascherina per la filtrabilità.

MANUELE BONACCORSI E voi la fate andare a pieno regime questa macchina?

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE Attualmente no perché abbiamo problemi anche nel reperimento delle materie prime.

MANUELE BONACCORSI Qual è la materia prima che vi manca?

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE È questa qua, il meltblown.

MANUELE BONACCORSI Cioè la parte tecnologicamente importante…

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE Quella essenziale per poter essere certificata, perché senza di questa non sarebbe una mascherina chirurgica.

MANUELE BONACCORSI Il virus per intenderci lo ferma questo materiale qui.

ALESSANDRO PAGANO - IMPRENDITORE Sì. In Italia è quasi impossibile reperirlo, c’è chi prova a importarlo dalla Cina ma con dei costi esorbitanti: si parla di 110 dollari al kg circa, quando il costo originale è di 4/6 euro al chilo.

GIUSEPPE SALA – POLITECNICO DI MILANO Noi abbiamo provato 1800 materiali, veramente di tutti i tipi… purtroppo l’unica soluzione efficiente è quella che implica e richiede la presenza di uno strado di meltblown.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il prezioso meltblown in Italia oggi lo produce solo questa piccola azienda a conduzione familiare, vicino Padova. Con l’emergenza hanno messo in funzione un loro prototipo.

GRAZIANO RAMINA - PRESIDENTE CDA RAMINA SRL Praticamente si parte da un polimero in polipropilene.

MANUELE BONACCORSI Sembra sale!

GRAZIANO RAMINA - PRESIDENTE CDA RAMINA SRL Sembra sale, sì.

MANUELE BONACCORSI E invece è?

GRAZIANO RAMINA - PRESIDENTE CDA RAMINA SRL È plastica. Se sali puoi vedere la formazione del meltblown.

MANUELE BONACCORSI Posso?

GRAZIANO RAMINA - PRESIDENTE CDA RAMINA SRL Vai… vai…

MANUELE BONACCORSI È un tessuto alla fine!

GRAZIANO RAMINA - PRESIDENTE CDA RAMINA SRL È un prodotto molto leggero, che ha poca resistenza, se guardiamo, però ha la particolarità di avere queste fibre molto fini…

BRUNO DANASCO - INGEGNERE RAMINA SRL Riesce a bloccare un battere di grandezza 1 micron, vuol dire che ha una capacità filtrante del 99%, questo tessuto.

ELENA RAMINA - RESP. COMMERCIALI RAMINA SRL Noi essendo costruttori di macchinari siamo riusciti a vendere il nostro impianto ad altre aziende: abbiamo venduto in Italia e anche in altri paesi come in Francia.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il nostro prezioso macchinario made in Italy finisce in Francia. Arcuri, invece, ha acquistato 50 macchinari per produrre le mascherine, non il meltblown, che saranno messi in produzione negli stabilimenti Fiat e Luxottica. Obiettivo di produzione: 35 milioni al giorno. Ma manca la materia prima…

GRAZIANO RAMINA – PRESIDENTE CDA RAMINA SRL Non riusciamo a coprire neanche, penso, il 5%, a oggi, di tutte le richieste che abbiamo. Produciamo 100kg l’ora con questa macchina qui.

ELENA RAMINA - RESP. COMMERCIALI RAMINA SRL Servono per fare circa 70 milioni di mascherine.

MANUELE BONACCORSI Al mese?

ELENA RAMINA - RESP. COMMERCIALI RAMINA SRL Al mese, sì.

MANUELE BONACCORSI A noi ne servono 35 milioni al giorno, siamo abbastanza lontani.

ELENA RAMINA - RESP. COMMERCIALI RAMINA SRL Bravo, capisci...

MANUELE BONACCORSI Voi riuscirete a fornire materiale sufficiente per produrre 35 milioni di mascherine al giorno?

ELENA RAMINA - RESP. COMMERCIALI RAMINA SRL No, questo qua no, è impossibile.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In attesa che vada a pieno regime la produzione dello Stato Arcuri ha annunciato l’acquisto 660 milioni di mascherine prodotte da 5 aziende italiane a 0,38 centesimi l’una, senza gara.

DOMENICO ARCURI – COMMISSARIO STRAORDINARIO EMERGENZA COVID19 CONFERENZA STAMPA 7 APRILE 2020 Mi sembra giusto dirvi che la Parmon, un'azienda italiana nelle prossime due settimane arriverà' a 600 mila mascherine al giorno.

ANTONIO FRONTERRÈ - AD PARMON SPA Non ci siamo arrivati a questo numero ancora.

MANUELE BONACCORSI Perché?

ANTONIO FRONTERRÈ - AD PARMON SPA Perché non è così semplice, purtroppo, in questo momento c’è mancanza di materia prima, difficoltà di approvvigionamenti…

MANUELE BONACCORSI L’obiettivo per cui fate questa filiera italiana è essere indipendenti e sicuri dentro questa grave crisi.

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA Eh, ha ragione.

MANUELE BONACCORSI Perché invece di stampare mascherine non vi siete messi a produrre meltblown?

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA I tempi di realizzazione di un impianto di meltblown sono più lunghi…

MANUELE BONACCORSI Ramina ci dice che sta per vendere un macchinario in Francia, fa una certa impressione.

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA Beh, fa una certa impressione… gli altri li sta producendo invece per imprese italiane, che uno possa finire in Francia ci sta… non vedo lo scandalo da questo punto di vista.

MANUELE BONACCORSI Però non siamo indipendenti in produzione ed esportiamo in Francia!

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA Entro la fine dell’anno avremmo una capacità produttiva di meltblown installata in Italia sufficiente non solo per le esigenze della struttura del commissario, quindi quelle pubbliche, ma anche gli altri produttori italiani.

MANUELE BONACCORSI Voi dite che entro agosto riuscite a produrre 35 milioni di mascherine al giorno ma non avete materia prima.

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA Ma i 35 milioni non sono ad agosto, avremo una rampa progressiva.

MANUELE BONACCORSI Fine agosto. Arcuri, ipse dixit, ve lo giuro! Possiamo quindi dire che per produrre 35 milioni al giorno non la abbiamo materia prima sufficiente in Italia.

ERNESTO SOMMA - RESPONSABILE INCENTIVI E INNOVAZIONE - INVITALIA Potremmo aver bisogno di una quota minoritaria di materia prima non prodotta in Italia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le azioni del commissario Arcuri sono lodevoli: ma poi deve fare i conti con il sistema Lo Stato dà incentivi alle aziende per produrre mascherine e dice anche “però attenzione, dovete produrre a un prezzo fisso, a 50 centesimi”. Ma molte di queste aziende pensano di rinunciare perché non ce la fanno, non ci stanno dentro nei prezzi! Perché manca la materia prima, il meltblown, che è una materia plastica altamente filtrante. Ecco, dipendiamo dall’estero. È anche aumentato il prezzo, perché tutti la chiedono e sul mercato non si trova: in poco tempo è passata da 4 euro al chilo a 100! Ora, anche lo Stato ha fatto il suo e sta investendo nel fabbricare mascherine. Lo sta facendo negli stabilimenti FCA e Luxottica. Solo che anche lì, manca sempre la materia prima, il meltblown. Lo produce solo un’azienda italiana, solo una, che produce anche i macchinari per lavorarlo. Ma li vende in Francia. Ecco, insomma, lo Stato se avesse voluto veramente avere un’intuizione e la visione, avrebbe dovuto investire lui stesso sulla materia prima, fabbricarla e lavorarla, poi cederla alle aziende a prezzi agevolati. Solo così probabilmente avremmo garantito i 35 milioni di mascherine ogni giorno. Ma è anche possibile che in un futuro prossimo non avremmo bisogno delle mascherine. Perché è spuntato un genio, l’ingegnere Palazzetti. È stato l’inventore del sistema frenante ABS, ora ha avuto un’altra geniale intuizione, per frenare il virus. Potrebbe servire nei ristoranti, bar, uffici. E in questa vicenda Report ha avuto un ruolo, è stato in link tra eccellenze. Vi promettiamo che è l’inizio di una storia che continueremo a seguire. In anteprima in esclusiva, quello che ha inventato l’ingegnere Palazzetti.

COMUNICATO Striscia La Notizia il 29 maggio 2020. Dramma sfiorato oggi pomeriggio a Ceccano, in provincia di Frosinone, dove Moreno Morello e quattro operatori di Striscia la notizia sono stati violentemente aggrediti con pugni, lanci di sassi, bastoni e attrezzi da giardino durante le riprese di un nuovo servizio su “Sandokan”, l’uomo già noto ai telespettatori del Tg satirico per aver truffato il personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure (Savona), vendendo mascherine che non sono mai state spedite (servizio del 15 aprile), e per aver minacciato l’inviato con una scimitarra (servizio del 28 aprile). L’inviato di Striscia, dopo aver ricevuto altre segnalazioni da cittadini raggirati, oggi pomeriggio è tornato da lui per concludere l’inchiesta, ma “Sandokan”, questa volta supportato da due parenti, ha accolto la troupe del Tg satirico con pugni, lanci di sassi, bastoni e attrezzi da giardino. «Sono stati momenti di panico. Un mio operatore è finito a terra dopo un pugno e gli aggressori hanno urlato “Ti uccido!”», ha dichiarato Moreno Morello. Solo l’arrivo di cinque pattuglie dei Carabinieri ha posto fine alla violenta aggressione che si è conclusa con l'arresto dei tre uomini.

Fabbrica abusiva di mascherine: 4000 pezzi per bambini con loghi falsi. Pubblicato lunedì, 01 giugno 2020 da La Repubblica.it. Una fabbrica abusiva, destinata alla produzione e al confezionamento di mascherine, camici e tute antivirali, e oltre 4mila dispositivi di protezione individuale non sicuri e con loghi contraffatti sono stati sequestrati dal comando provinciale della guardia di finanza di Napoli nel corso di due distinti interventi, tra le province di Caserta e di Napoli. La prima delle due operazioni prende le mosse da un'attività d'iniziativa condotta dal Gruppo di Frattamaggiore che ha scoperto a Succivo (Caserta) una vera e propria fabbrica di mascherine sconosciuta al fisco e 38.000 fra mascherine, camici e tute antivirali, pronte per essere messe in commercio. Sono stati sequestrati l'opificio, i materiali, le attrezzature (macchinari per la cucitura, tagliatura e stiratura) e 10.000 false etichette ''made in Italy'' che stavano per essere apposte sui dispositivi in corso di lavorazione. E' stato denunciato all'autorità giudiziaria un 53enne di origini pakistane per contraffazione, ricettazione e frode in commercio, oltre che per violazioni in materia ambientale e di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Sanzionati, inoltre, cinque connazionali che lavoravano nell'azienda, per il mancato rispetto delle misure di sicurezza anti-contagio. Le stesse Fiamme Gialle, inoltre, nel corso di una seconda operazione, hanno sequestrato, in un negozio di abbigliamento del quartiere Ponticelli di Napoli, 1700 capi di abbigliamento contraffatti e 4.000 mascherine per bambini non sicure, raffiguranti famosi personaggi di serie televisive, personaggi dei videogiochi e cartoni animati. I dispositivi di ''protezione'', in particolare, erano privi della certificazione obbligatoria di conformità sanitaria e delle informazioni dovute al consumatore, come l'indicazione della provenienza, i materiali utilizzati e le istruzioni per l'uso, non garantendo, quindi, alcuna sicurezza contro il rischio contagio e risultando persino potenzialmente dannosi. E' stato denunciato un 34enne di origine cinese residente al Centro Direzionale di Napoli per contraffazione e frode in commercio.

Cecilia Cirinei per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 maggio 2020. Mascherina mon amour. Questo accessorio protettivo, obbligatorio contro il Covid- 19, è diventato in questi tre mesi indispensabile alla nostra vita sociale, e ora, anche alla fine del lockdown, continuerà a " stare con noi" chissà per quanto tempo ancora, a pranzo, all' aperitivo, a cena e persino in spiaggia, magari uguale alla stoffa del costume da bagno. Nella Capitale è scattata la " caccia" a trovare quella più glamour e originale, adatta ad una cena romantica, da Camponeschi come da Zuma, senza sentirsi sul set del medical drama " Grey' s Anatomy", ovviamente con un outfit intonato: abito nero, tacchi e mascherina di pizzo o con stampata Marilyn Monroe, disegnata dall' artista romano Dicò. « L'idea è venuta a mio padre Vito - racconta Daniel Addadi proprietario dei multi- brand Gente - che è molto amico di Dicò, aveva l' atelier vicino a noi, in via del Babuino. Le proponiamo, in due modelli: una con Joker e l' altra con Marilyn Monroe. E poi non sono solo le donne a comprare Marilyn e gli uomini a prendere Joker...». Le mascherine di Gente sono conformi alle direttive Cee. Anche nello storico Wolford di via Mario de' Fiori, che si trova da più di 20 anni nella strada, i tre modelli proposti vanno letteralmente " a ruba". « Abbiamo finito quelle in pizzo nero e quelle con il logo - dice Sabina Chiurato - piacciono a tutti, anche ai bimbi. Ne abbiamo anche nere e poi le nostre sono di un tessuto in leggerissima seta e assicurano una tenuta perfetta ». Sul panorama romano sono finite in un attimo quelle di Fendi, anti-inquinamento ( fatte prima della pandemia), sold out in pochi giorni ( « ancora ce le chiedono » , dicono a Palazzo Fendi a Largo Goldoni) ed è introvabile quella indossata da Billie Eilish ai Grammy Awards, realizzata da Gucci in tulle nero e doppie G di cristallo. Da cercare sul web quelle dell' artista Etai Drori, che ha utilizzato la tela di Vuitton ( piacciono a Chiara Ferragnez) e quelle del brand americano Alice & Olivia che le ha proposte uguali alle stoffe dei vestiti della collezione estiva 2020. Fra i giovani vanno di moda quelle di Lemlò in via della Farnesina, in jeans lavabile o con faccette sorridenti. Ricercatissime quelle floreali o di paillettes della boutique Blu Hoop di Palma Proietti in via dei Colli Portuensi. Invece l' artista austriaca, che lavora da anni a Roma, Brigita Huemer, ha chiamato 20 artisti, da Andrea Pinchi a Natino Chirico, per realizzare la collezione #staywithart. Colorate, dal giallo al blu, quelle dell' imprenditore romano Christiano Bachino, distribuite nelle edicole, e vendute al ritmo di 3/ 4000 al giorno. E poi non possono mancare quelle abbinate ai costumi da bagno ideate dalla romana Tiziana Scaramuzzo: «I nostri sono dei " trikini", firmati Elexia Beachwear, con slip, reggiseno e mascherina tutto nella stessa fantasia. Ho cominciato per gioco ma sono piaciuti a tutte le mie amiche » . E non è che l'inizio.

Da "Ansa" il 12 maggio 2020. I primi due modelli li ha fatti per gioco, in casa, scherzando con le due figlie ma appena la foto è stata messa sui social è diventata virale. E' di Tiziana Scaramuzzo, romana di nascita, ma da 45 anni residente a Falconara Marittima, l'idea del trikini da spiaggia all'epoca della mascherina obbligatoria e del distanziamento sociale: ai classici due pezzi del costume è abbinata la mascherina della stessa fantasia del bikini. "Non pensavo potesse avere tutta questa risonanza - si schermisce Scaramuzzo - e invece ha colpito. Ho un negozio artigianale, Elexia Beachwear, i costumi li faccio io e vendo soprattutto in questo periodo: Ho fatto due prototipi, avevo già i costumi da bagno e ho abbinato loro la mascherina dello stesso colore e della stessa stampa". Con il successo sui social sono arrivate le prime richieste. Scaramuzzo ha convertito la sua attività nella produzione di mascherine in cotone e munite di tasca dove infilare la mascherina chirurgica. "Se mi copiano l'idea? Pazienza, io non vedo l'ora solo di riaprire il negozio, poi potrò fare il trikini a tutte"

Luciano Capone per ilfoglio.it il 10 maggio 2020. Nella sua prima uscita pubblica, a fine marzo, Domenico Arcuri – l’uomo chiamato da Giuseppe Conte a risolvere la crisi di approvvigionamento di materiale sanitario – si era presentato con un linguaggio bellico: tutto un parlare di guerra, alleati e munizioni. Quasi stesse preparando un’invasione militare, invece di procurarsi mascherine e ventilatori sul mercato mondiale. Più recentemente, proprio in un’ottica da economia di guerra, il Commissario straordinario ha annunciato un tetto (0,50 euro) al prezzo per le mascherine chirurgiche in una ormai celebre conferenza in cui se l’è presa con “i liberisti che emettono sentenze da un divano con un cocktail in mano”. “Ogni papà con un euro potrà comprare due mascherine ai suoi figli”, era lo slogan. La strategia militare di Arcuri che aveva come obiettivo “gli speculatori”, come prevedibile, ha però colpito indiscriminatamente la popolazione civile. Dopo la sua ordinanza, le mascherine sono praticamente sparite dalla circolazione. L’imposizione di un prezzo politico, come accade dai tempi di Diocleziano, ha reso introvabile un bene che era scarso. Gli esercenti hanno smesso di vendere per non andare in perdita. Esaurita rapidamente la merce residua, hanno smesso di ordinarla aspettando i rifornimenti statali. Le imprese italiane, che avevano avviato una conversione, hanno smesso di produrre. I broker internazionali hanno dirottato le mascherine verso mercati più convenienti. Arcuri ha cercato di rattoppare la situazione rincorrendo le aziende proponendo contratti per far ripartire la produzione. Ma ormai la frittata era fatta. L’intervento su un mercato delicato che si stava assestando autonomamente, facendo allineare l’offerta con la domanda, ha inceppato il meccanismo. Pertanto il governo sta pensando di correre ai ripari: nella bozza del “decreto Rilancio”, il tetto al prezzo delle mascherine chirurgiche fissato da Arcuri è stato triplicato: 1,50 euro. Ora è chiaro a tutti che il commissario che aveva il compito di trovare le mascherine, le ha rese più scarse. Forse Arcuri dovrebbe uscire dalla trincea e posare la baionetta, per sedersi comodamente sul divano e sorseggiare un Negroni. In una drammatica crisi come questa, bere un cocktail è sicuramente preferibile all’imposizione di prezzi a caso.

Da repubblica.it l'11 maggio 2020. L'allarme arriva da Federfarma: si stanno esaurendo le scorte di alcuni dispositivi di protezione essenziali, quali mascherine, guanti e alcol. "Nella quasi totalità delle farmacie dove sono state consegnate a prezzo calmierato, per esempio a Roma, le mascherine chirurgiche sono già finite - dice Marco Cossolo, presidente di Federfarma -. Non sono state ancora consegnate in altre grandi città come Milano e Torino e c'è ancora stallo sulla carenza di mascherine. I farmacisti sono disponibili alla vendita, ma le ingenti quantità promesse, affinché queste ultime fossero nella disponibilità delle farmacie, purtroppo non sono arrivate. Su questo siamo punto e a capo". "Le uniche che stiamo distribuendo sono quei tre milioni provenienti dalla Protezione Civile ed entro domani saranno già finite a fronte di un fabbisogno di 10 milioni al giorno. Siamo subissati di richieste e purtroppo ci sono diversi milioni di mascherine bloccate e sequestrate durante i controlli, spesso per intoppi burocratici: bisognerebbe eliminare questo corto circuito", ha aggiunto  Antonello Mirone, presidente di Federfarma servizi, l'Associazione nazionale dei distributori di farmaci e dpi. "Oltre alle mascherine, c'è una fortissima carenza di guanti e di alcol usato per disinfettare. Sono praticamente introvabili nelle farmacie italiane", ha poi aggiunto Federfarma nel dar voce a un problema "riscontrato da Nord a Sud della penisola". "Il prezzo dei guanti, in lattice o nitrile, si è triplicato o quadruplicato negli ultimi mesi a seguito dell'emergenza Covid-19". Questo, prosegue, "deriva dall'altissimo costo di acquisto pagato dalla farmacia ai fornitori, a sua volta determinato dal fatto che le materie prime sono aumentate, la richiesta si è moltiplicata per mille e le giacenze di magazzino sono ormai finite". Intanto la Croce Rossa fa sapere che partiranno da lunedì prossimo le chiamate da parte di volontari e operatori Cri per selezionare il campione di 150mila cittadini per i test della indagine sierologica su Covid-19. Ancora qualche giorno, dunque, per la messa a punto della macchina organizzativa. In totale verranno effettuate circa 190mila chiamate per arrivare a garantire il campione fissato di 150mila. Saranno impegnati 550 tra volontari ed operatori su base regionale e ci sarà una struttura nazionale di supporto.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 12 maggio 2020. È caos mascherine. Il presidio simbolo del contrasto al Coronavirus è introvabile a prezzo calmierato. Sulle responsabilità è scontro aperto tra il commissario Domenico Arcuri, che doveva garantire l'approvvigionamento nazionale, e chi lo doveva vendere, le farmacie. Prima l'autocertificazione che aveva spinto, su richiesta del governo, centinaia di aziende italiane a realizzarle, poi il prezzo calmierato di 50 centesimi più Iva che, come unico risultato, aveva reso le mascherine irreperibili nelle farmacie e disincentivato la produzione nostrana. Poi il dietrofront con una bozza del Dl rilancio che riportava il prezzo delle chirurgiche a 1 euro e 50 centesimi e adesso una nuova ipotesi, sempre nello stesso decreto legge: semplificare la normativa sulle mascherine al fine di velocizzare l'iter per la certificazione dei prodotti da poter usare anche in ambito lavorativo.

LE ACCUSE. Insomma ogni giorno viene presentato un nuovo piano. Nel frattempo però le chirurgiche sono introvabili. E a dirlo è Federfarma, associazione di categoria che raggruppa più del 90% delle farmacie d'Italia: «Oltre alle mascherine, c'è una fortissima carenza di guanti e di alcol per disinfettare», spiega Roberto Tobia, segretario nazionale di Federfarma. «Il prezzo dei guanti, in lattice o nitrile, si è triplicato o quadruplicato negli ultimi mesi dopo l'emergenza Coronavirus». Questo, prosegue, «deriva dall'altissimo costo di acquisto pagato ai fornitori, per il fatto che le materie prime sono aumentate, la richiesta si è moltiplicata per mille e le giacenze di magazzino sono finite». «Da quanto segnalano i responsabili Federfarma regionali, questi presidi mancano ai grossisti e di conseguenza alle farmacie. Qualcosa ogni tanto arriva, - conclude Tobia - ma è lontanissimo dal soddisfare il fabbisogno della popolazione».

LA REPLICA. Le affermazioni di Tobia hanno generato la risposta piccata del commissario straordinario Domenico Arcuri. L'uomo investito dal premier Giuseppe Conte di risolvere il caso mascherine. Proprio Arcuri, il 27 aprile, aveva sancito un accordo con Federfarma per vendere le chirurgiche a prezzi ultra popolari. Strette di mano e grandi promesse che non hanno portato alcun risultato pratico. Adesso tra il commissario straordinario e Federfarma volano gli stracci: «Le farmacie non le hanno perché le loro due società di distribuzione hanno dichiarato il falso non avendo nei magazzini i 12 milioni che sostenevano di avere». «L'unica colpa del commissario - prosegue Arcuri - è quella di non aver voluto sanare mascherine prive di autorizzazioni che gli attori della distribuzione avrebbero voluto mettere in commercio con la copertura della struttura commissariale». Infine: «Non è vero che i farmacisti ci avrebbero rimesso o ci starebbero rimettendo perché ai distributori è stato garantito un rimborso per le chirurgiche acquistate prima della definizione del prezzo a 0,50 centesimi, più Iva. Federfarma prova a scaricare sul Commissario, o peggio sul prezzo, le loro responsabilità». Di sicuro c'è che, con la fase 2, l'uso di questi presidi è divenuto obbligatorio quando si viaggia sui mezzi pubblici o si è comunque in luoghi chiusi. Intanto, però, si potranno utilizzare anche quelle confezionate artigianalmente, come indicato anche dal Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Atlanta: l'importante è che siano multifiltro e multistrato. Le più sofisticate mascherine Ffp2 e Ffp3, o anche quelle chirurgiche, sono invece destinate ad usi diversi e devono essere impiegate principalmente dal personale sanitario. Lo ha spiegato nei giorni scorsi il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro «sono qualificati come dispositivi di protezione individuale e sono costruiti per essere in grado di prevenire anche la trasmissione del virus per via aerea». Non sono dunque raccomandate per i comuni cittadini o le normali attività. La popolazione, chiarisce Brusaferro, «può invece usare le cosiddette mascherine di comunità, che non sono quelle chirurgiche, che non hanno degli standard specifici e servono fondamentalmente a ridurre l'emissione di droplets, ovvero delle goccioline attraverso starnuti o tosse. Mettendole proteggiamo gli altri».

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 13 maggio 2020. Il buon sangue calabrese ci mette un attimo a bollirgli in corpo, come sa bene chi ci ha sempre lavorato a fianco e come hanno imparato a vedere anche gli italiani. Domenico Arcuri, il manager di cui Giuseppe Conte si fidava a tal punto da imporre la sua riconferma a Invitalia, e da volerlo poi alla testa della prima task force creata per l' emergenza Covid, si sente abbandonato in un oceano di polemiche quotidiane, mentre sulle forniture di mascherine ha ingaggiato una battaglia con i fornitori. «Capisco - confidava ieri ad alcuni collaboratori dopo infinite riunioni e uno sfogo in conferenza stampa - che il governo in queste ore ha da fare con il decreto e nessuno ha tempo per altro, perché stanno litigando, ma qui il problema è che io sono stato lasciato da solo». Arcuri si aspettava ben altra reazione. Denunciare il fatto che due società di distribuzione hanno mentito, perché non avevano i 12 milioni di mascherine che sostenevano di avere, accusare la rete della distribuzione delle farmacie: credeva che tutto questo portasse a qualcosa, a una presa di posizione del governo, magari a un accertamento della Finanza. E invece: nulla. Solo un gran silenzio intorno a lui, mentre da un mese lo accusano di non essere in grado di gestire l' emergenza. Unica eccezione, dice, il ministro della Salute Roberto Speranza: «È stato il solo ad avermi aiutato, ma a sua volta avrebbe bisogno di più sostegno». Il commissario sostiene di avere la coscienza a posto, e fa leva sugli oltre duecento milioni di dispositivi distribuiti, e su altri 55 milioni che sono a disposizione nei magazzini delle Regioni. Ma nonostante ciò, Arcuri teme la beffa e si è convinto che le mascherine usciranno fuori quando avrà assicurato un canale di distribuzione dello Stato. Ieri ha annunciato un accordo possibile con i tabaccai che, con 50 mila negozi in oltre il 90 per cento dei comuni italiani, possono vantare una rete di distribuzione capillare. Come ha spiegato in conferenza stampa allargando la risposta alla fornitura di alcol e guanti, «i negozi hanno i loro fornitori e se i fornitori dei negozi non hanno l' alcol faccio fatica a sentirmi colpevole». Il confronto con le categorie è ruvido. Arcuri ha precisato che non ce l' ha con i farmacisti, che non possono essere loro la causa della scarsità delle mascherine. Ma sull' accusa scagliata contro gli speculatori in agguato non retrocede e chiaramente chiama in causa Federfarma e i distributori di prodotti medici. «Non è il commissario a dover rifornire le farmacie, né si è mai impegnato a farlo». Stesso discorso sulla grande distribuzione. «Non sono io a dover rifornire gli associati Confcommercio, Conad, Federdistruzioni e Coop. Il commissario si è impegnato ad integrare, ove possibile, le forniture che queste categorie si riescono a procurare attraverso le loro reti di approvvigionamento». Detto questo: «Se le mascherine ci sono nei supermercati e non nelle farmacie vuol dire che c' è un difetto nella rete di approvvigionamento delle seconde». Una precisazione stizzita che chiarisce perfettamente chi sia il bersaglio. Nessuno gli toglie dalla testa il sospetto che i distributori stiano brandendo un' arma di ricatto, per ritoccare un prezzo che considerano troppo basso. «Tanto sanno che è più facile prendersela con il governo. Ma io ho fissato quel tetto, 50 centesimi più Iva, e da quel prezzo non mi muovo - confida -. Non mi importa cosa pensino le categorie. Mi interessa soltanto che arrivi il messaggio che sul prezzo nessuno può speculare». Anche perché, prima del coronavirus lo stesso prodotto, la mascherina chirurgica, costava 10-11 centesimi. Quello che Arcuri dice ai collaboratori o ai ministri, tracima a volte durante l' incontro settimanale con i giornalisti. Come quando, stufo delle accuse di statalismo per aver calmierato i prezzi, sbottò contro i «liberisti che parlano dal salotto di casa, sorseggiando il loro cocktail». Il commissario spesso parla senza filtri. Per esempio, in conferenza l' ha detta così: «Qualche volta faccio degli errori per i quali mi aspetto critiche, che sono benvenute, ma solo dai cittadini». In privato ammette, non troppo diversamente: «Mi esprimo in modo spiccio e brusco e so che a molti questo suona strano. Ma sul principio non cedo. Se lo possono scordare».

Giuseppe Marino per “il Giornale” il 13 maggio 2020. Il commissario straordinario cita De Gregori, ma canta sempre il ritornello di Vasco Rossi: «Colpa di Alfredo». Dopo le polemiche per i ritardi in tutte le forniture di sua competenza, convoca l' ennesima conferenza stampa per dire che è colpa di qualcun altro. Ne ha per tutti e stona: «Critiche ben accette, ma solo dai cittadini». E dopo aver accusato le Regioni, le task force, i cittadini, il Garante della privacy, passa alle farmacie («chi oggi afferma di non avere mascherine e di aver bisogno delle forniture del Commissario, fino a qualche settimana le aveva e le faceva pagare ben di più ai cittadini»), per poi fare dietrofront e accusare di mentire i distributori di farmaci: «C' è un difetto di una rete di approvvigionamento. Perché i distributori delle farmacie non riescono a farlo? Evidentemente non hanno una quantità di mascherine uguale a quella dichiarata». Infine annuncia che presto chiuderà un accordo per distribuirle nei tabaccai. Dalle farmacie si leva un' ondata di indignazione, riassunta dal presidente di Federfarma Roma Vittorio Contarini: «Chiedo alle istituzioni di prendere le distanze dalle accuse del commissario Arcuri. Infangare la categoria che insieme a medici e infermieri ha sostenuto l' Italia nel momento più grave della crisi, è vergognoso e da irriconoscenti. Sono state multate per speculazione lo 0,19% delle farmacie». Anche dalla politica arrivano strali. Il renziano Davide Faraone ingiunge ad Arcuri: «Giù le mani dalle farmacie». L' azzurra Fiammetta Modena chiede le dimissioni del commissario: «Dittatorello da film di serie B». Ma il vero problema è che i pretesti non reggono a una semplice disamina, mentre ci si avvia alla Fase 2 disarmati.

Il prezzo. Arcuri conferma il prezzo fisso calmierato a 0,50 centesimi più Iva e sostiene che «non influenza la distribuzione» negando un principio noto fin dall' editto di Diocleziano. Per il commissario, il ristoro offerto alle aziende che avevano sborsato prezzi più alti di 50 centesimi avrebbe eliminato il problema. In realtà crea un meccanismo perverso: il commissario ha fissato il prezzo ma poi propone a singole aziende l' acquisto delle mascherine a prezzi superiori, dopo che il deputato di Iv Mauro Del Barba aveva dato voce all' indignazione delle imprese indotte a investire e poi messe fuori mercato.

Gli accumulatori. «Le Regioni hanno 55 milioni di mascherine nei loro magazzini», ha detto Arcuri, cifre che significano poco o nulla, se non si spiega quanto ci è voluto a fornirle e che consumi dovrebbero coprire. Secondo uno studio del Politecnico di Torino ne servirebbero 35 milioni al giorno. Il commissario se la cava dicendo che ormai ci sono anche quelle lavabili e le fai-da-te.

La distribuzione. «Dall' 1 maggio la grande distribuzione ha venduto ai cittadini 19 milioni di mascherine a 0,50 euro più Iva», dice Arcuri sottintendendo che quindi è possibile. Ma in realtà, considerando la potenza di fuoco della grande distribuzione, siamo sempre a numeri molto contenuti. E alcune catene hanno deciso di garantire il prezzo calmierato come mossa di marketing, avendo ovviamente i mezzi per farlo.

La burocrazia. Arcuri si vanta di aver fermato la speculazione. In realtà i casi non sono mancati. E intanto il sistema messo in piedi dal commissario, improntato alla diffidenza, ha creato imbuti nella distribuzione, dai sequestri nelle dogane che hanno scoraggiato l' import alle certificazioni rilasciate a rilento. L' Inail, ad esempio, doveva rilasciare le certificazioni per le mascherine di livello superiore in tre giorni, ma ora l' attesa dura settimane, lamentano le aziende.

Arcuri scarica le colpe sulle Regioni: "Hanno milioni di mascherine". Il commissario all'emergenza sul nodo mascherine: "Non posso non mandarle agli ospedali per darle alle farmacie". E sulle Regioni: "Nei loro magazzini 55 milioni". Poi smorza i toni: "Non è polemica". Francesca Bernasconi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. "Non è il commissario a dover rifornire le farmacie nè i loro distributori, il commissario non si è mai impegnato a farlo". Così Domenico Arcuri, il commissario straordinario all'emergenza coronavirus, si difende dalle accuse sulla mancanza di mascherine nelle farmacie. E ribadisce, nel corso della conferenza stampa di questa mattina, che non è compito suo "rifornire gli associati della Confcommercio, della Conad, della Coop e della Federdistribuzione", perché "il commissario rifornisce regolarmente regioni, sanità, servizi pubblici essenziali. E dal 4 Maggio anche i trasporti pubblici locali e le RSA, pubbliche e private". Arcuri afferma di essersi impegnato a "integrare ove possibile le forniture", nel caso in cui la produzione non sia sufficiente, ma "se le mascherine ci sono nei supermercati e non nelle farmacie vuol dire che c'è un difetto nella rete di approvvigionamento delle seconde". E questa volta, dopo aver puntato il dito contro le società di distribuzione delle farmacie, che "hanno dichiarato il falso non avendo nei magazzini i 12 milioni di mascherine che sostenevano di avere", si scaglia contro le Regioni. Il commissario, infatti, riferisce che nelle ultime settimane sono state distribuite 36,2 milioni di mascherine alle Regioni, mentre dall'inizio dell'emergenza sono 208,8 milioni i dispositivi di protezione individuali forniti: "Le Regioni nei loro magazzini ne hanno 55 milioni. Le abbiamo date agli ospedali, al personale sanitario e parasanitario, alle forze dell'ordine, al settore della pubblica amministrazione centrale e locale". Ma, aggiunge, "non posso non mandare mascherine agli ospedali per darle alle farmacie". Poi Arcuri ha smorzato i toni, precisando: "La mia dichiarazione sui 55 milioni di mascherine a disposizione delle Regioni è la testimonianza del lavoro congiunto che viene fatto nell'interesse dei cittadini. Non c'è alcuna polemica, anzi le mascherine che sono state distribuite dal commissario e quelle di cui le regioni si approvvigionano sono superiori al fabbisogno delle stesse". "Io sono ossessionato da questo problema delle mancate forniture delle mascherine nelle farmacie perché alla fine di tutto la potenziale vittima è solo il cittadino- ha precisato Arcuri- Ma non mi sento responsabile di ciò, è che per fronteggiare l'emergenza, la trasparenza e la responsabilità sono due prerequisiti che in questo caso non ci sono stati. Potrei dire ai cittadini di andarsele a comprare nei supermercati. Malgrado tutto da ieri devo collaborare affinchè anche il canale della distribuzione delle farmacia si riempia". Lo stesso discorso vale anche per alcool e guanti: "I negozi hanno i loro fornitori e se non hanno guanti faccio fatica a sentirmi colpevole", specificando che "noi riforniamo ospedali, servizi pubblici essenziali, forze dell'ordine, trasporti pubblici locali, Rsa, non riforniamo i negozi, non potremo mai farlo". Tirata d'orecchie alle Regioni anche sul tema dei test sierologici: "abbiamo selezionato il test che gli scienziati hanno giudicato il più affidabile per l'indagine campionaria nazionale. Confidiamo che le Regioni si adeguino a questo modello, alla fine dovremmo tendere ad una visione comune e lavoriamo perché ciò accada". Infine, per quanto riguarda l'app Immuni, Domenico Arcuri chiarisce: "Il team del ministro Pisano con il team del ministero della Salute e Sogei stanno lavorando alacremente, confido che i tempi che hanno dato possano essere rispettati, io li sto supportando e sostenendo per quanto posso".

Il gran ballo delle mascherine: tutti contro tutti e prezzo libero. Nino Cirillo il 6 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Al Gran Ballo delle Mascherine non sono previsti né dame né cavalieri. Questa è una danza folle appena partita, che porta a ogni mossa a un passo dal burrone. Mettono le vertigini le centinaia di milioni di euro in ballo – esatto, in ballo – e le infinite possibilità, alcune della quali già abbondantemente sperimentate, di aggirare la norma. Abbiamo già visto tanto, ma non abbiamo visto tutto: la Protezione civile, per dare un’idea, ha stipulato nei giorni più duri, contratti per 350 milioni accettando fornitori respinti invece da Consip (Concessionaria servizi informativi pubblici, la centrale d’acquisto della pubblica amministrazione). Accettando anche di pagare mascherine alla Agmin Italy su un conto alle Cayman. Un’azienda giapponese, la Tokyo Medical Consulting, sempre in quei giorni, ha strappato un contratto da 260mila mascherine a 1,67 euro l’una per un totale di 435 mila euro, ovviamente già liquidati. E le inchieste a grappoli, a cominciare da quella della procura di Siracusa che tocca Irene Pivetti (20 milioni e rotti già liquidati), e per continuare con sequestri e perquisizioni da Falconara a Giugliano, da Como a Torino, fino a Roma e Milano. Per non dire degli spiccioli: a Roma, nel cuore della Balduina, il signor giornalaio ieri mattina esponeva gagliardamente mascherine chirurgiche a 2,20 l’una. E c’è da credere che non sia proprio un pescecane, avrà fatto i suoi calcoli. E sempre a Roma. al quartiere Trieste segnalano farmacisti ingegnosi, che spiegano e rispiegano ai loro clienti una teoria piuttosto curiosa. Non sarebbero tenuti a nessun prezzo politico perché le mascherine da mezzo euro sono contrassegnate da un codice impossibile, EN149:2001+A1:2009. E loro non ne hanno, quindi prezzo libero. Capito a che punto siamo? Poi c’è Arcuri, Sua Fornitura Domenico Arcuri, commissario straordinario per il Covid,, che da giorni e giorni batte sullo stesso tasto: mezzo euro a mascherina chirurgica (sempre che sia tolta presto l’Iva, altrimenti 0,61), da vendere in 20mila supermercati, 30mila farmacie e 50mila tabaccai (anche se con loro l’intesa è ancora da perfezionare). E altre mirabilie: dal 4 maggio, cioè da lunedì scorso «potremmo» distribuire 12 milioni di mascherine al giorno, tre volte l’attuale fornitura, dal mese di giugno 18 milioni, dal mese di luglio 25 milioni, quando le scuole cominceranno a settembre 30 milioni «11 volte il numero di quelle che distribuivamo all’inizio dell’emergenza». Tutto risolto, quindi? Purtroppo no. Nonostante qualche obiettivo passo avanti, perché Arcuri ha comunque firmato accordi con Confcommercio, Federdistribuzione e Conad. E ha ricevuto l’appoggio per nulla scontato di Federfarma, che attraverso il presidente Marco Cossolo lancia messaggi rassicuranti: «Ho sempre sostenuto che la Sanità non si può lasciare al libero mercato, ma deve essere un mercato governato.Mi pare che si sia andati in questa direzione». Fra le righe potreste anche leggervi che i farmacisti aspettano trepidanti, sotto qualsiasi forma, un «ristoro», un risarcimento cioè, per tutte quelle forniture di mascherine che si erano procurati a prezzi ben più alti di quelli a un certo punto fissati da Arcuri. C’è da credere che non rimarranno delusi. E comunque queste sono le fanfare, perché a togliere la corteccia… Ci sono stime che ritengono il fabbisogno del paese addirittura oscillante fra 40 e 100 milioni di pezzi al giorno. Figuratevi dunque a che punto siamo. Una situazione di gran confusione perché, ad esempio, l’ufficio del commissario Arcuri riceve 8 milioni di mascherine dalla Cina ogni settimana (a che titolo? con quale accordo?) mentre altri 4 milioni gli arrivano dal nostro «sistema moda» ( e anche questo, che canale è?). Gliene arriveranno poi altri cinque milioni, di mascherine chirurgiche, a regime, dalle imprese che hanno iniziato la produzione grazie agli incentivi di Cura Italia, altro poco considerato rivolo di finanziamenti. Le stesse imprese, per dirla tutta, che gliene hanno assicurate 30 milioni dalla produzione «in house». Districarsi in questo labirinto è praticamente impossibile. L’unica altra notizia è che tre milioni di FFP2 e FFP3, le mascherine più costose, arriveranno da queste stesse imprese. Con una sostanziale differenza: che a dispetto degli incentivi ricevuti potranno venderle a prezzo libero. Niente male, no? Ma non è finita. Da un’indagine dell’Ircaf (Istituto di ricerca consumo, ambiente e formazione) del 26 aprile scorso , mica un anno fa, si scopre che in Italia solo 67 farmacie su cento hanno in vendita mascherine monouso. Si va dal 100 per cento di Bolzano al 42 per cento di Bari, con Roma nella media nazionale. Più di tre farmacie su dieci, insomma, sembrano restìe a seguire la dottrina Arcuri. Poi il prezzo. Secondo lo stesso studio Ircaf nelle 263 farmacie contattate il medio rilevato è stato di 1,59 euro a mascherina, passando dai 2,22 di Torino allo 0,59 di Trieste. Questo per dire da dove si veniva dove si sta andando e per mettere sull’avviso chi non riuscirà proprio a trovarle queste benedette mascherine, «dispositivi medici formati da tre strati di tessuto con un sistema filtrante quasi totale». Poi ci sono le «altre», le FFP2 e FFP3, un acronimo che sta per « filtering face piece», cioè maschera filtrante, «dispositivi pensati per l’uso industriale per proteggere da polvere e fumi». Ebbene, per questi due tipi di mascherina la domanda è crescente, con le FFP2 che costano in media 7,58 euro, dai 5,55 di Napoli ai 9,82 di Bari, e le FFP3 che si attestano sui 10,56 euro di media. La domanda sarà anche ingenua, ma la facciamo ugualmente: perché non si è pensato di calmierare anche le più costose? Ci sarebbe anche da dire della Medtronic.Okay, non si tratta esattamente di mascherine monouso, ma piuttosto di ventilatori polmonari. La storia l’ha scoperta Report per la Rai e noi, come tale, ne riferiamo, se non altro perché rende bene l’aria che tira. Nei giorni peggiori dell’emergenza la Medtronic, società americana con «sede produttiva» a Modena, prova a esportare all’estero i suoi tubi per ventilatori polmonari, ma viene bloccata alla dogana del porto di Genova. Sono ore drammatiche, le apparecchiature vengono immediatamente consegnate all’ospedale San Martino. Il commissario straordinario Arcuri dà il suo via libera alla decisione. È il 27 marzo. Peccato che solo dopo tre giorni ci ripensi, quando il carico ormai è stato già distribuito. Così il primo aprile prende carta e penna e scrive alla Farnesina e a Palazzo Chigi. Chiede «pro futuro» che le merci della Metronic non siano più sottoposte a rischio di requisizione, nel nome di «superiori interessi nazional». Ce li spiegherà un giorno questi «superiori interessi nazionali»?

Fase 2 e inchiesta sulle mascherine:  Quarta Repubblica condotta da Nicola Porro su Rete 4 il 4 maggio 2020.

Spazio anche a un’inchiesta sulle requisizioni di DPI: mascherine bloccate e requisite  dall’Agenzia delle Dogane, nel momento più critico lasciando sguarnite le RSA.

Patrizia Floder Reitter per ''La Verità'' il 9 maggio 2020. Annarosa Racca, presidente Federfarma Lombardia è «profondamente arrabbiata» perché le mascherine monouso promesse dal commissario straordinario, Domenico Arcuri, non stanno arrivando. Nel frattempo, la bozza del decreto legge Rilancio indica un costo massimo di vendita di 1,50 euro ciascuna, ignorando il prezzo politico dei 61 centesimi, contrattato del manager prestato all' emergenza e che scontenta tutti.

Da quanto tempo state aspettando le mascherine?

«Da settimane. Da quella domenica sera in cui Arcuri le annunciò per il mattino seguente. Sono furiosa, io e tutti i farmacisti italiani. Non sappiamo che cosa rispondere alle richieste dei clienti, siamo tempestati di ordini, non riusciamo a soddisfare nessuno».

Nella fase due l' uso dei dispositivi di protezione individuale è essenziale, ci continuano a ripetere.

«Però intanto abbiamo dovuto svendere a 50 centesimi quelli che avevamo acquistato a prezzi diversi, pagandoli quattro, cinque volte di più. È stato detto che verremo rimborsati, per il momento il danno economico rimane. Oggi possiamo garantire solo le Ffp2 e Ffp3 ma delle mascherine chirurgiche calmierate non se ne vede una, non sono ancora in commercio. Proprio adesso che sono indispensabili per uscire di casa senza provocare una seconda, preoccupante ondata di contagi».

Il protocollo è stato siglato una settimana fa, dopo l' accordo con Federfarma nazionale. I dispositivi devono essere prodotti.

«A parte il fatto che il protocollo io non l' avrei firmato nemmeno sotto tortura, perché prima avrei chiesto se le mascherine ci sono, quelle monouso con codice Uni en 14683 che sono le uniche indicate nell' ordinanza. D' accordissimo sul venderle a bassissimo prezzo, ma in quel momento c' erano solo quelle che arrivavano dalla Cina. Nel documento si parla di aziende italiane, individuate dalla Protezione civile, che devono avere l' autorizzazione alla produzione e alla vendita dall' Istituto superiore della sanità. Dai grossisti, poi, queste mascherine arriveranno a noi. Servono tempi tecnici che non sono stati indicati. Troppa imprecisione, per questo io ripeto al commissario Arcuri: quando ce le mandate? Ne abbiamo bisogno assoluto. Ma di quelle giuste, perché poi ci fanno controlli continui».

Federfarma doveva esigere più chiarezza?

«Bisogna farsi sentire di più. Servono certezze. Ogni giorno rischiamo di ammalarci».

Quando prevede che arriveranno le mascherine?

«Me lo sto continuando a chiedere. Quanto tempo ci vuole per produrre una mascherina? Dappertutto si legge di aziende che le stanno fabbricando, dove finiscono? Non è come sperimentare un vaccino».

Dopo il patto siglato da Arcuri con l' associazione dei distributori, le mascherine chirurgiche di Stato in realtà dovrebbero costare al pubblico 61 centesimi, cioè 50 centesimi più Iva.

«Iva che è rimasta al 22%, un' imposta di lusso. I farmaci l' hanno al 10%, moltissime medicazioni al 4%. Non si capisce perché il governo non l' abbia ancora tolta dai Dpi».

Ai clienti che cosa spiega?

«Non è simpatico dover dire che le mascherine italiane previste dalla Protezione civile ancora non ci sono e che il prezzo non è 50 centesimi, come hanno sentito in tv, perché il governo ci ha lasciato sopra l' Iva».

Qual è il vostro margine di guadagno?

«Dieci centesimi».

Ha detto di essere arrabbiata anche perché i farmacisti sono rimasti fin da subito in prima linea, sempre aperti e con poche mascherine a disposizione.

«Il nostro contributo è stato determinante nella lotta contro il coronavirus, non abbiamo mai fatto mancare i farmaci e abbiamo aiutato le persone a difendersi da questo maledetto Covid-19 recuperando gel disinfettanti e mascherine, sulle quali ha regnato per mesi la confusione totale. Servono, non servono: noi che cosa dovevamo rispondere a chi ce le chiedeva? Abbiamo avuto 14 colleghi morti per l' infezione, tanti si sono ammalati».

La Regione Lombardia è stata anche la prima a permettere il numero di ricetta elettronico, senza dover andare dal medico.

«Un accordo voluto dalla Federfarma che presiedo, proprio per evitare il rilascio del promemoria cartaceo che implicava spostamenti pericolosi per i pazienti, consentendo di ritirare i farmaci solo con il codice Nre. Abbiamo cercato di aiutare il più possibile i cittadini e adesso dobbiamo dire loro che il governo ancora non provvede con le mascherine che ha reso obbligatorie?»

Ieri il presidente dell' Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, ha detto che per contenere la diffusione del contagio tra la popolazione vanno bene anche le mascherine fai da te, «multistrato e uno può confezionarle in proprio». Ma che messaggi si stanno dando ai cittadini italiani?

«Non si può tornare indietro, tutti gli scienziati affermano che ci vogliono protezioni valide, giuste, raccomandate per vincere l' epidemia. Sa che cosa temo che voglia significare questa dichiarazione? Che le mascherine promesse dalla Protezione civile non arriveranno e che dovremo aspettare ancora chissà quanto tempo prima di averle».

Senza Iva e a 50 centesimi? Ecco la verità sulle mascherine. Con l'annuncio della fase 2 il governo aveva fatto una promessa ai cittadini, "tutti potranno acquistare mascherine a 0,50 centesimi". Eppure le mascherine chirurgiche sembrano impossibili da trovare. Costanza Tosi, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. “Abbiamo già sollecitato il commissario Arcuri a calmierare i prezzi sulle mascherine, non ci saranno speculazioni su questo fronte. Ci sarà un prezzo equo e un piccolo margine guadagno. Il prezzo sarà attorno allo 0,50 per le mascherine chirurgiche”, aveva dichiarato il premier Giuseppe Conte nell’ultimo Dpcm contenente le misure della Fase 2 per una prima riapertura del Paese. “Parole, parole, parole”, diceva Mina e questa volta sembra proprio calzare a pennello. A pochi giorni dagli annunci fatti in conferenza stampa, le promesse del governo sui dispositivi di protezione individuale sembrano “solo parole”. E quelle, si sa, se le porta via il vento. Sembra di essere tornati all’inizio dell’epidemia, quando ancora non si era annunciato il lockdown e l’allarme del Covid19, che in Cina aveva già preso piede, iniziava a spaventare gli italiani. Per giorni, in gran parte delle città della penisola le mascherine sono andate sold out in una manciata di giorni, seguite a ruota dai gel igienizzanti. Oggi, il film sembra ripetersi ma, questa volta, dopo ben due mesi di prove generali. Le mascherine facciali sono introvabili. E non si tratta delle FFP2, FFP3 pronte a proteggere chi le indossa e allo stesso tempo chi vi è intorno, ma delle cosiddette “mascherine altruiste”, azzurre e usa e getta, che dal 4 maggio dovevano essere garantite a tutta la popolazione a un prezzo irrisorio. “Io avevo fatto un grosso carico il mese scorso, ma con la Fase 2 la richiesta di mascherine chirurgiche è tornata a crescere e a breve esauriranno ho scritto alle aziende che dovrebbero fornire i dispositivi, ma nessuna di loro riesce a mandarmele”, ci svela Giuseppe Longo, farmacista romano che in pochi giorni ha contattato ben 4 aziende che incaricate alla produzione. E tutte hanno risposto picche. “Sfortunatamente in questo momento, e per tutto il mese di maggio, non riusciamo a soddisfare nuovi ordini”, ha spiegato Mediberg, società lombarda che progetta e produce dispositivi medici. La motivazione è nobile, “stiamo impegnando la nostra piena capacità produttiva per far fronte all’accordo di fornitura siglato con la Protezione Civile Nazionale”. Ed è proprio qui che sta il problema. “La distribuzione intermedia avrebbe dovuto distribuire quelle della Protezione Civile ma, a causa dei ritardi degli enti certificatori, non può ancora immetterle nel circuito”, spiega Roberto Tobia, presidente di Federfarma Palermo e segretario nazionale di Federfarma. Secondo l’accordo siglato dalla Protezione Civile aziende selezionate dovrebbero produrre le mascherine chirurgiche da fornire proprio alla Protezione Civile che andrebbe a distribuirle i dispositivi “a un punto vendita ogni 1200 abitanti”, secondo quanto dichiarato dal commissario straordinario Domenico Arcuri in conferenza stampa. Un obiettivo che per essere raggiunto, badate bene, comprenderebbe la distribuzione delle mascherine dallo Stato non solo alle farmacie, che nel Lazio sono una ogni 3658 abitanti e nel piccolo Molise ne troviamo una ogni 1.858 (e ancora non le hanno), ma anche ad altri esercizi commerciali, come ad esempio i tabaccai. Chi fa da sé fa per tre, dice un detto. Ed è quello che da mesi cercano di fare i farmacisti che per far fronte a questa emergenza hanno tentato di contattare altre aziende che producono gli stessi dispositivi, certificati e ad un prezzo che possa coprire le spese con un costo alla vendita di 0,50 centesimi più Iva. “Impossibile”, ammette Emilio Cabella, che per la sua farmacia, rimasta senza scorte, da giorni va alla ricerca di mascherine. “Le aziende dalle quali prima si potevano trovare le mascherine chirurgiche hanno ancora listini troppo alti e mi dicono che non riescono a venderle al prezzo fissato dal governo perché non rientrano nei costi”, spiega il dott. Cabella. Si torna sempre al punto di partenza. La soluzione del problema oggi, sembra essa stessa il problema e i farmacisti, uomini in trincea che da due mesi a questa parte si trovano ad affrontare l’emergenza sanitaria in prima linea, stando ai fatti, potrebbero essere caduti dalla padella nella brace e il danno si riverserebbe sui cittadini.

Nei mesi scorsi le mascherine venivano vendute con le semplici regole del libero mercato e si potevano trovare a 1 euro l’una così come a prezzi più alti o leggermente inferiori. Tanto, troppo per famiglie che hanno perso il lavoro, non riescono a pagare le utenze e fanno fatica a fare la spesa. Una spesa insostenibile considerando che le mascherine chirurgiche possono essere utilizzate solo per qualche ora e poi devono essere sostituite. Per un oggetto che è ormai diventato un bene di prima necessità fissare un costo massimo era forse l’unica cosa da fare. Se non fosse che i fatti smontano le splendide iniziative del buon senso, ancora una volta. Le mascherine a questo prezzo sembrano essere diventate introvabili. Per chi è riuscito a trovarne una mandata “da un grossista e amico che voleva smaltire il carico senza guadagnarci un euro” non sono comunque finiti gli scogli da superare. Al bancone della farmacia, ogni giorno Giuseppe Longo si fa portavoce di ciò di cui gli italiani non sono stati messi al corrente. Con 0,50 centesimi non si acquista niente e la cifra di mezzo euro, si può dire, resta un numero da slogan. A quel pezzo va infatti aggiunta l’Iva e il costo finale è di 0,61 centesimi. Costo che, nessun esponente di governo ha mai citato e che, per la maggior parte delle persone, si traduce in un’aggiunta del farmacista per lucrare sui dpi. “Le persone pensano che sia io ad alzare il prezzo perché il messaggio è stato fuorviante”. Tanto più che di Iva si era parlato in sede di annuncio. L’aliquota del 22% era diventata soggetto di una promessa del governo, “il nostro impegno è quello di eliminare completamente l’Iva” sul prezzo delle mascherine, aveva annunciato il presidente del Consiglio, ma il futuro è sempre pieno di speranza e la fiducia nelle promesse dello Stato si affievolisce ogni giorno di più. Ciò che è certo, per il momento, è che le mascherine più economiche si acquistano a 0,61 centesimi Iva compresa, e di queste, non c’è traccia.

Carlo Terzano per startmag.it il 6 maggio 2020. “Da lunedì, se una mamma si recherà in farmacia con 1 euro, potrà ritirare due mascherine, una per sé e una per il suo bambino”. Lo diceva, non senza una buona dose di retorica, il commissario straordinario all’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri, domenica sera ospite della trasmissione televisiva della Rai Che tempo che fa (prima mezz’ora circa, per chi volesse ascoltarlo). Parole che sembrano rimaste confinate negli studi televisivi di Fabio Fazio perché, basta uscire in via Mecenate e fare un giro per Milano, che di mascherine a 50 centesimi nemmeno l’ombra. In realtà, anche se ci fossero per davvero, le mascherine a 50 centesimi annunciate da Arcuri non sarebbero comunque proposte a quel prezzo. Quando l’amministratore delegato di Invitalia annuncia che con un euro una madre potrà comprare due mascherine, sta infiorettando la realtà. E da un commissario la gente esige concretezza, non solo annunci. Era stato infatti più aderente alla verità lo scorso 2 maggio, quando in conferenza stampa disse: “Da lunedì una mascherina chirurgica costerà 0,50 centesimi…” e poi aveva aggiunto “più l’Iva, finché l’Iva ci sarà”. E questo perché sulle mascherine bisogna ancora calcolare l’Iva, che porta il prezzo di vendita al di sopra dei 60 centesimi. Ovviamente non spetta ad Arcuri eliminare l’imposta e la misura sarà con ogni probabilità contenuta nel decreto aprile, ormai decreto maggio, che rischiamo di vedere per giugno. Ma fino ad allora una mamma con un euro potrà al più comprare una mascherina e ricevere 39 centesimi di resto. Questo, comunque, il piano di distribuzione annunciato in pompa magna da Arcuri: “Abbiamo sottoscritto importanti accordi con: Federfarma, Assofarm, l’ADF che con le farmacie e le parafarmacie italiane hanno 26.000 punti vendita sul nostro territorio e hanno ripreso a mettere in vendita le mascherine chirurgiche entro il prezzo massimo fissato dall’ordinanza; Confcommercio, che raggruppa tra gli altri le catene della grande distribuzione Sigma, Sisal, Crai, Coal e Conad che ha nel suo insieme altri 13.000 punti vendita sul nostro territorio; Federdistribuzione, che raggruppa Esselunga, Carrefour, VeGè, Leroy Merlin e altre catene di distribuzione, che ha fino a 7.000 punti di vendita sul territorio; infine Coop, che ha 1100 punti vendita sul territorio nazionale. Contiamo nei prossimi giorni di sottoscrivere un uguale accordo l’Associazione nazionale dei tabaccai che ha altri 50.000 punti vendita sul nostro territorio”. Non solo prezzi calmierati, perché sempre Arcuri aveva annunciato: “Tra 10 giorni inizierà la produzione delle mascherine con le macchine che abbiamo contribuito a realizzare: a metà giugno le nostre macchine produrranno 4 milioni di mascherine al giorno; a metà luglio 25 milioni e da fine agosto in poi 35 milioni di mascherine al giorno. Devo ringraziare molto le aziende italiane che ci hanno aiutato e che ci stanno aiutando con una solidarietà e una generosità straordinaria: a partire dalla IMA di Alberto Vacchi e Fameccanica del gruppo Angelini. Inoltre altre due grandi aziende italiane hanno messo a disposizione il loro know-how, le loro risorse e le loro intelligenze per ospitare molte di queste macchine che stiamo producendo: Luxottica e FCA”. Il piano di Arcuri, ancora prima di partire, ammesso abbia davvero spiccato il volo, aveva subito incontrato le resistenze delle associazioni di categoria. Era stata lapidaria Confcommercio: “Con le attuali dinamiche di mercato il prezzo massimo di 50 centesimi è una cifra che non sta né in cielo né in terra”. La vicepresidente Donatella Prampolini aveva chiesto che si arrivasse almeno a 60 centesimi: “Altrimenti l’effetto immediato sarà che smetteremo di importarle. Intanto molte aziende hanno bloccato vendite e ordini”. “Non credo che a oggi la produzione sia in grado di soddisfare la richiesta anche per la popolazione in generale, visto il numero di cui giornalmente avremo bisogno” nella Fase 2. Claudio Galbiati, numero uno di Confindustria Assosistema Safety, aveva così commentato – ai microfoni del Giornale Radio Rai – la disponibilità di mascherine prodotte in Italia in vista della cruciale Fase 2. “Molte aziende si stanno attivando per fornire la filiera produttiva più che le farmacie, quindi il grande pubblico. Mi aspetto che le aziende abbiano a disposizione dispositivi di protezione per far lavorare i propri lavoratori”, sulle farmacie “la certezza non l’abbiamo”. Una smentita a poche ore della dichiarazione di Arcuri del 25 aprile scorso, che invece aveva detto: “Siamo pronti a distribuire tutte le mascherine che serviranno per gestire la Fase 2”, sottolineando inoltre che al momento erano state distribuite 138 milioni di mascherine e che le Regioni hanno 47 milioni di mascherine nei magazzini. Per sanare i mal di pancia di produttori e distributori, alle farmacie che hanno acquistato mascherine e dispositivi di protezione ad un prezzo superiore ai 50 centesimi verrà garantito un «ristoro e assicurate forniture aggiuntive tali da riportare la spesa sostenuta, per ogni singola mascherina, al di sotto del prezzo massimo deciso dal governo». È quanto prevede un accordo firmato dal Commissario straordinario Domenico Arcuri con l’Ordine dei farmacisti, Federfarma e Assofarm. Oggi, a Repubblica, il presidente di Federfarma Marco Cossolo rivela: «È da almeno quindici giorni che gli importatori non le consegnano più». «Quelle con marchio CE – spiega al quotidiano romano – non si trovano e non mi interessa sapere la ragione. Quelle importate con autocertificazione non possono essere vendute, nonostante abbiamo magazzini pieni, perché l’Istituto superiore di sanità che deve autorizzarle non riesce ad evadere le pratiche. E infine le mascherine che Arcuri si è impegnato a rendere disponibili non sono ancora arrivate». Una indagine condotta da Cittadinanzattiva per La Stampa rileva che a “Milano tre farmacie su quattro sono sprovviste di chirurgiche. Stessa cosa a Genova (dove però sono in arrivo quelle gratuite acquistate dalla Regione), mentre a Torino la quota scende al 50%, ma un 25% le vende a tre volte tanto il prezzo prefissato”. “A Roma – si legge -, il giochino lo fa più del 28% mentre il 57% delle rivendite ne è sprovvisto. Percentuale che a Napoli sale al 62% con un quarto delle farmacie interpellate che le vende a 2 o 3 euro l’una”. E mentre in tutta Italia continuano i sequestri di quelle illegali, siamo arrivati al paradosso che sempre più Regioni ne dispongono l’obbligatorietà (la Fase 2 è infatti nata all’insegna del “mascherine per tutti“, sebbene non si sa ancora se servano davvero per proteggersi dal Coronavirus) ma le mascherine di Arcuri ancora non si vedono. Lascia perplessi se non sorpresi il fatto che, uno Stato moderno come il nostro che, seppur tra mille acciacchi e polemiche, è riuscito a fare fronte alla peggiore emergenza sanitaria dei tempi moderni che gli è esplosa in grembo, moltiplicando in tempo record le terapie intensive e facendo miracoli sul fronte organizzativo, non sia ancora riuscito a dotarsi di semplici dispositivi di stoffa. Ma anche questa è una delle tante contraddizioni tutte italiane, in cui Arcuri è inciampato.

Michele Arnese: Invitalia (100% Mef, ossia lo Stato), da 13 anni capitanata dall'ad Arcuri, ha creato 7.287 imprese e finanziato 163 grandi investimenti (fonte: sito Invitalia). Possibile che in un paio di mesi non riesca a sfornare mascherine basilari per gli italiani?

Matteo Civillini e Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Cinque milioni di mascherine già interamente pagate dalla Protezione Civile sono bloccate in Cina dalle autorità locali perché non in regola. Mentre il fornitore è finito sulla lista nera del governo di Pechino per aver venduto prodotti di scarsa qualità. Il tutto arricchito da una triangolazione tra un' azienda che si occupa di tutt' altro e chiede di essere pagata in un conto di soggetto terzo. È passato un mese ormai da quando la Protezione Civile ha versato dodici milioni e mezzo di euro alla Tus Data Asset, azienda di stato cinese. Prive di marcatura CE, per utilizzare queste mascherine Kn95 è necessario il nulla osta del Comitato Tecnico Scientifico. Ma prima vanno portate in Italia e al momento non si può. Tus Data Asset si occupa in realtà di big data, tecnologia blockchain e intelligenza artificiale ed è controllata indirettamente dal governo di Pechino. Secondo il quotidiano South China Morning Post, la Tus Data Asset avrebbe cambiato lo scopo sociale per includere l' esportazione di strumenti medicali il 23 marzo. Una settimana dopo aver siglato, il 15 marzo, il contratto con la Protezione Civile: 5 milioni di Ffp2 (poi diventate KN95) a 2,50 euro l' una, iva e trasporto esclusi. Acconto pari al 50% dell' importo e il saldo prima che la merce lasci la Cina. Ma il pagamento, da contratto, non viene fatto alla Tus Data Asset ma alla Aipo International, un rivenditore di cuffie bluetooth e videoproiettori con sede a Shenzhen, a 2.000 km di distanza da Pechino. La qualità delle mascherine ricevute però lascia dei dubbi e il trasporto in Italia viene bloccato. Il 13 aprile poi il Ministero del Commercio cinese vieta ufficialmente alla Tus e alla Aipo International di esportare Dpi perché i prodotti «di bassa qualità», potrebbero sporcare «l' immagine del Paese». A ieri, le mascherine sono ancora in Cina. «Se la merce non sarà riconosciuta valida chiederemo il rimborso - dicono dalla Protezione Civile -. Ma speriamo tutto vada bene».

Scandalo mascherine, la resa del governo: autorizzate quelle fatte in casa. Leo Malaspina venerdì 8 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Il disastro delle mascherine “di governo” sta diventando giorno dopo giorno sempre più scandaloso. Quelle a prezzi “controllati”, nonostante i proclami del capo della task force Domenico Arcuri, non si trovano. E lo scandalo si protrae. Una situazione insostenibile,  nella Fase 2, con tanta gente priva di dispositivi di sicurezza individuale o costretta a comprarle a prezzi vergognosi. Sarà per questo che il principale consulente del governo, il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, all’ennesima domanda sulle mascherine si è arreso: “Vanno bene anche quelle fatte a casa…”. Incredibile ma vero, dopo mesi di bracci di ferro su autorizzazioni e dichiarazioni di conformità. “A livello di popolazione generale quello che viene raccomandato a livello internazionale è che le mascherine devono essere multistrato e uno può anche confezionarle in proprio, fermo restando che invece i modelli piu sofisticati Ffp2 e Ffp3 sono per uso diverso”. Le parole sono del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, nel punto stampa all’Iss sull’andamento dell’epidemia. Ma quale mascherina utilizzare sul luogo di lavoro adesso che con la fase 2 sono state riaperte diverse attività? “Nei luoghi di lavoro c’è un medico competente e c’è un responsabile per la sicurezza”. Si tratta di “un obbligo di legge e da questo punto di vista l’Italia è fra i Paesi più avanzati. Il medico competente valuta il rischio specifico del lavoratore” in base al settore in cui opera e alla mansione che svolge, “e in base a questo rischio indicherà il Dispositivo di protezione individuale (Dpi) più adatto”. Brusaferro ha ricordato che “sono le tipologie più sofisticate di Dpi. Hanno una costruzione che previene anche livelli di trasmissione a complessità più elevata”, pertanto soprattutto “vengono raccomandate in campo sanitario, mentre in altri contesti sono raccomandate soltanto in presenza di rischi molto specifici” che sarà appunto il medico competente a valutare. Le Ffp2 e Ffp3 “di solito non sono raccomandate per i comuni cittadini o per le normali attività”, ha proseguito il numero uno dell’Iss.

Le protezioni multistrato. “Le mascherine che possiamo usare come popolazione generale”, anche “secondo le raccomandazioni internazionali”, ha precisato Brusaferro, “sono quelle” cosiddette “di comunità, che servono a evitare una dispersione delle goccioline contenute nel nostro espirato e a proteggere gli altri”. In concreto sono “mascherine multistrato, che una persona può anche confezionare in proprio – ha sottolineato il presidente Iss – Devono aderire attorno alla bocca e alle narici, facendo in modo che la nostra espirazione rimanga all’interno”. Come sempre, ha concluso Brusaferro, occorre agire in un’ottica di “appropriatezza che dipende dalla dimensione del rischio”. Per usare una metafora: “Inutile vestirsi da palombaro” se non si deve fare un’immersione. Ma se invece arrivassero le mascherine a norma, alla portata economica di tutti? Non sarebbe meglio capire dove sono andate a finire, piuttosto che lasciare che gli italiani si esercitino al piccolo chimico?

Paolo Berizzi per repubblica.it l'8 maggio 2020. Mascherine anti-coronavirus con il volto di Benito Mussolini e il motto "Camminare, costruire e, se necessario, combattere e vincere!". Le produce e le ha messe in commercio un'azienda di San Giorgio in Salici, in provincia di Verona. L'articolo per "nostalgici" - lanciato sul mercato in piena epidemia Covid 19 - si inserisce nel filone delle mascherine a tema ideologico care all'estrema destra. Nei giorni scorsi Repubblica ha raccontato dell'iniziativa sovranista di CasaPound Italia intitolata "mascherine tricolore", con l'invito agli "italiani liberi" a scendere in piazza ogni sabato per "difendere il proprio futuro e il proprio lavoro". Adesso, da Verona, arriva la trovata commerciale delle mascherine del duce. Le protezioni - grigie con elastico nero - riportano uno degli slogan di Mussolini, qui evidentemente declinato in versione "ripartenza" e, diciamo, fase 2. Le foto delle mascherine fasciste stanno rimbalzando sui social e a Verona stanno sollevando polemiche e proteste. La città e la provincia scaligera non sono nuove a fatti legati all'estrema destra: il 25 aprile - ultimo episodio in ordine di tempo - su un pennone dello stadio Bentegodi (di proprietà del Comune) è stata issata una bandiera della Rsi. La polizia è intervenuta per rimuoverla. Da anni Verona, complici gli ultrà neonazisti dell'Hellas e le tante formazioni neofasciste attive sul territorio, fa da teatro a iniziative e provocazioni di stampo nostalgico, e anche razzista.

Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Ripete sempre in privato Domenico Arcuri, uno dei funzionari pubblici in prima linea nella lotta alla pandemia: «In questa emergenza stiamo scoprendo che gli italiani sono forse migliori dell' Italia». Ha ragione da vendere. Si temeva il 4 maggio come un devastante tana-libera-tutti: e invece il senso di responsabilità dei cittadini, pure stremati da due mesi di segregazione forzata, ha prevalso pressoché dappertutto. Lo stesso senso di responsabilità sarebbe ora lecito attendersi da chi amministra, vale a dire chi rappresenta e dovrebbe mandare avanti l' Italia: le persone e gli apparati cui gli italiani hanno affidato la gestione di uno dei passaggi più drammatici della storia repubblicana, e che dovrebbero garantire una ripartenza sicura e ordinata. Per tutti. Questo giornale ha già dato conto degli ostacoli che perfino in questo frangente si materializzano grazie a certe ottusità purtroppo insuperabili della burocrazia. Tanto inflessibile e maniacale nel regolamentare ogni aspetto della vita sociale ed economica appigliandosi a commi, circolari e cavilli, quanto incapace di garantire le più elementari certezze per i cittadini. Ciò che sta accadendo mentre il Paese in ginocchio cerca di ripartire è lo specchio di tale contraddizione. Clamoroso il caso documentato oggi in queste pagine, dove si ricostruisce l'intera filiera delle mascherine arrivando alla conclusione che pagarle 50 centesimi resta ancora più che altro una meravigliosa speranza. Eppure su quei 50 centesimi ci ha messo la faccia il commissario per l' emergenza coronavirus Domenico Arcuri, nientemeno. Le cause? Innumerevoli: chi denuncia carenze produttive, chi ha i magazzini pieni di mascherine pagate il doppio e non può venderle alla metà, chi fa semplicemente il furbo. Il succo è che siamo obbligati per decreto a indossare sempre la mascherina, ma lo Stato che giustamente ci obbliga a portarle non è in grado di garantire il prezzo promesso dal medesimo stato. Almeno per ora: poi si vedrà. Vero è che in determinate circostanze pure la speculazione si mette in moto. E sempre su queste pagine si racconta anche come i prezzi di certi generi alimentari siano andati alle stelle mentre la povertà dilaga. È la legge della domanda e dell' offerta, precisano gli autori dei rincari. La conosciamo. Ma sappiamo pure che lo Stato può e deve intervenire per limitare i danni che in situazioni di emergenza colpiscono sempre gli strati più fragili della popolazione. Così succede per le imprese. Soprattutto le più piccole, che però sono una parte essenziale dell' architrave economica del Paese. E sono nei guai seri con la cassa integrazione che non arriva. Per quelle sotto i 5 dipendenti ci sarebbe la cosiddetta cassa in deroga, ma anche lì c' è un inghippo burocratico, cioè l' autorizzazione deve darla la Regione ma a pagare è l' Inps. Con una procedura rimasta pre-coronavirus che prevede ben 5 (cinque) passaggi: dalla Regione all' Inps centrale, dall' Inps centrale all' Inps territoriale, dall' Inps territoriale all' azienda, dall' azienda nuovamente all' Inps e finalmente dall' Inps i soldi al lavoratore. Ragion per cui hanno preso i soldi finora 68 mila persone su circa 700 mila domande. Il dieci per cento. E si possono perfino leccare i baffi rispetto alle imprese poco più grandi, quelle che hanno oltre 5 dipendenti e se la devono vedere soltanto con l' Inps, dove c' è per loro uno strumento apposito: il fondo per l' integrazione salariale. Il fatto è che fino all' epidemia arrivavano pochissime domande e la struttura per liquidarle era in proporzione. Ora però quel fondo è stato sommerso di richieste, con il risultato che i soldi escono con il contagocce. Basta dire che su 1,4 milioni di lavoratori hanno avuto l' assegno finora appena in 17 mila: poco più dell' uno per cento. Così non si riparte di sicuro. Al massimo, si gira a vuoto nel parcheggio.

Paolo Russo per “la Stampa” il 7 maggio 2020. Sono volate parole grosse tra il commissario Arcuri, distributori farmaceutici e farmacisti perché alla fine spuntassero dal cilindro 10 milioni di mascherine, che a breve dovrebbero porre fine alla caccia al tesoro di questi giorni.

Perché, guarda caso, le "chirurgiche" sono diventate improvvisamente introvabili dopo l' ordinanza che il 26 aprile scorso ne imponeva la vendita al prezzo di 50 centesimi più iva. «Mi avevate garantito di avere in magazzino 12 milioni di mascherine chirurgiche da distribuire subito e ora mi venite a dire che non sono a norma e volete la sanatoria. Piuttosto disdico l' accordo e le faccio distribuire dai tabaccai», minaccia Arcuri puntando l' indice contro i due unici distributori di farmaci e affini che si spartiscono la torta in Italia. E la tirata d' orecchie è arrivata anche ai farmacisti, perché il commissario non ha gradito affatto le notizie sulle "chirurgiche" vendute sottobanco a 3, 4 euro l' una come documentato dall' inchiesta de La Stampa. «Invierò i carabinieri a sanzionare chiunque speculi», ha messo in chiaro, riferendosi anche ai guanti monouso, introvabili, se non a prezzi più che raddoppiati da 5 a oltre 10 euro per un pacco da cento pezzi. «Ma non per colpa dei farmacisti che negli ultimi giorni sono stati costretti ad acquistarli a 8 euro più Iva», mette in chiaro Marco Cossolo, presidente di Federfarma, l' associazione che li rappresenta. Fatto sta che con i prezzi sarà pericoloso continuare a giocare, perché le sanzioni vanno da 516 a oltre 25 mila euro. E per i casi più gravi si passa al penale, con il rischio di reclusione da sei mesi a tre anni. Minacce a parte per risolvere il problema di approvvigionamento delle mascherine c' è però voluto un concitato giro di telefonate prima che Arcuri rintracciasse un fornitore italiano, disponibile da oggi a rifornire di distributori con 10 milioni di dispositivi a 38 centesimi l' uno, che poi saranno acquistati a 40 centesimi dai farmacisti per essere rivenduti a 50. Un prezzo "calmierato", ma nemmeno troppo, se si pensa che prima dell' emergenza Covid le chirurgiche erano vendute dai produttori a 0,05 centesimi l' una per essere poi commercializzate a 20 centesimi. Questo prima che i produttori orientali, Cina in testa, decuplicassero i prezzi e intermediari senza scrupoli li moltiplicassero ancora per 40. Una catena speculativa alla quale si è pensato di porre fine con il prezzo imposto di 50 centesimi, con tanto di ristoro per i farmacisti che dovessero vendere sottocosto la merce acquistata precedentemente a prezzi più alti di quelli scontati imposti da Arcuri. Un rimborso che non ha però convinto tutti i farmacisti, viste le non rare vendite sottobanco a prezzi otto, sedici volte superiori a quelli fissati dall' ordinanza. Dalla struttura del commissario assicurano che a breve torneranno comunque nelle farmacie e al prezzo imposto. Mentre nel frattempo Federdistribuzione comunica che a 61 centesimi (50 più Iva), le chirurgiche si possono acquistare in un migliaio di supermercati come Carrefour, Esselunga e Pam. Nel frattempo si chiarisce il mistero delle tute protettive "non a norma", consegnate dalla protezione civile e bloccate in Piemonte e Campania, in assenza di certificazione. In realtà si tratta di materiali ricevuti in donazione dalla Serbia, che, come accade in questi casi, vengono comunque inviati dalla struttura commissariale alle regioni, con l'avvertenza di verificarne l'idoneità, prima di gettarle al macero. O utilizzarle, come avviene quando si rivelano a norma in nove casi su dieci.

Mascherine a 61 centesimi, i distributori accettano le condizioni di Arcuri. Siglato un nuovo accordo tra il Commissario straordinario all'emergenza, Federfarma Servizi e Adf: ai distributori vanno 2 centesimi a pezzo, ai farmacisti 10 centesimi. Marco Mensurati e Fabio Tonacci il 7 maggio 2020 su La Repubblica. Si va avanti. I distributori farmaceutici stamani hanno accettato le condizioni del Commissario straordinario all'emergenza Domenico Arcuri, siglando un nuovo accordo per la consegna alle farmacie delle "mascherine di Stato", quelle cioè a prezzo calmierato a 0,61 centesimi (50 centesimi più Iva). I distributori le dovranno andare a prendere nei magazzini del fornitore indicato da Arcuri e trasportare nei depositi di tutta Italia. Presumibilmente le introvabili chirurgiche dovrebbero tornare sugli scaffali nelle prossime 48 ore, anche se sui tempi non c'è certezza. Un'inchiesta di Repubblica aveva documentato due giorni fa difficoltà di reperimento dei dispositivi, indicati dal governo come obbligatori per la Fase 2 e "in vendita a prezzo calmierato già da lunedì 4 maggio". In realtà, le scorte sono andate esaurite in poche ore, così i farmacisti hanno cominciato a segnalare la carenza. La ragione del pasticcio sta nel fatto che i distributori - Associazione distributori farmaceutici (i privati) e Federfarma Servizi (le coop) - avevano garantito ad Arcuri una disponibilità di circa 12 milioni di pezzi, pronti alla consegna. In realtà, invece, si è scoperto che solo un quarto di quel materiale era buono, il resto non aveva la certificazione per la commercializzazione. "Avete mentito allo Stato Italiano", ha tuonato Arcuri in una drammatica riunione tenutasi ieri a mezzogiorno. D'altra parte, i distributori hanno ammesso il disguido, ma hanno fatto notare al Commissario di non aver potuto consegnare le altre mascherine previste dall'accordo, quelle in giacenza nei magazzini della Protezione Civile, semplicemente perché non gli sono state date. Un pasticcio, insomma. Che ha lasciato scoperte le farmacie italiane. Federfarma Servizi, dopo la sfuriata di Arcuri, si è subito detta disponibile ad accettare le nuove condizioni del Commissario, mentre Adf ha preso tempo. Adf ha sciolto la riserva stamattina, e l'accordo è stato siglato. Prevede che i distributori incassino 2 centesimi a mascherina consegnata, mentre per i farmacisti il guadagno è di 10 centesimi ogni pezzo venduto. Si andrà avanti così almeno fino a metà maggio, quando le cinque aziende italiane scelte da Arcuri cominceranno a produrre mascherine con nuovi macchinari.

Dalla penuria di mascherine ai futuri rischi del post-virus. Succede che le nostre dogane vietino di fare entrare le mascherine dall’estero se non al termine di estenuanti e letali tempi burocratici. Giuseppe De Tomaso il 29 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Roba da non crederci. Il sistema sanitario italiano non è da buttare, anzi, visto che il modello americano è sùbito precipitato nel panico di fronte all’avanzata del coronavirus. Eppure la sanità made in Italy è andata in tilt non per chissà quali errori, o per chissà quali sofisticate mega-apparecchiature negate, ma per la penuria di mascherine. Un problema che in un Paese normale si sarebbe risolto in pochi giorni e che invece in un Paese anarchico e ingovernabile come l’Italia è all’origine dei numeri record di morti tra pazienti e medici. E né si vede all’orizzonte un raggio di luce in merito, visto che, come dimostra il caso Puglia, le mascherine ormai sono più introvabili delle ciliegie in inverno. Un Paese normale, in uno stato d’eccezione come quello in corso, farebbe il diavolo a quattro per rendere possibile l’utilizzo di 90 milioni di mascherine al mese, tante ne servirebbero secondo i calcoli del commissario alla Protezione Civile, Angelo Borrelli. Invece, che succede? Succede che le nostre dogane vietino di fare entrare le mascherine dall’estero se non al termine di estenuanti e letali tempi burocratici, e che chi corre ai ripari confezionando mascherine senza timbro e senza bollino lo stia facendo a suo rischio e pericolo (giudiziario). Maledetti timbri, tuonerebbe Ennio Flaiano (1910-1972). Insomma. Neppure la pandemia riesce a sconfiggere il male chiaro (altro che male oscuro), ossia la mentalità burocratica di cui soffre l’intera società italiana, non solo la classe politica. Tanto che chi si scandalizza per gli eccessi delle torture procedurali, viene anche adesso, con il Paese alle corde, guardato con sospetto, quasi fosse un incallito sovversivo da mettere in quarantena come uno appena contagiato dal morbo cinese. Ma la divietocrazia dilaga più del virus, anche laddove sarebbe auspicabile una strategia opposta. Tutti concordano sul fatto che siano indispensabili nuovi moderni ospedali. Invece, cosa fa il decreto del governo? Stoppa la costruzione, già in corso, dei nuovi centri di cura, anziché spingere per la realizzazione di altri più tecnologici siti sanitari. C’è una logica in questa decisione che, ad esempio, blocca il cantiere per il nuovo ospedale tra Monopoli e Fasano? C’è una logica, tanto per cambiare zona, nell’autorizzare, in questi giorni, la produzione nell’ex Ilva, ma non per fini commerciali? E perché non per fini commerciali? Perché darsi la zappa sui piedi? Tanto valeva, allora, chiudere con la forza tutto il siderurgico. Fini commerciali da contenere? Ma già il barone di Montesquieu (1689-1755) dimostrava che «l’effetto naturale del commercio è quello di portare alla pace», oltre che quello di assicurare vera libertà perché il commercio sottrae le persone, i consumatori, al monopolio, alla volontà unilaterale della proprietà terriera. Invece, noi che facciamo? Demonizziamo, ostacoliamo i «fini commerciali», ossia la circolazione delle merci e del denaro (ovviamente «sterco del demonio»). Ma lo sanno, questi signori smaniosi di ostacolare il commercio, che, di divieto in divieto, nelle filiere produttive e commerciali, a breve anche la farina potrebbe risultare più introvabile di una mascherina chirurgica? Lo sanno che solo il commercio rappresenta l’antidoto più efficace contro il pericolo di una carestia, storicamente legato alle epidemie? E non è finita. A questa pericolosa sottovalutazione delle conseguenze provocate da decisioni controverse si aggiunge la confusione generata dalla moltiplicazione, dalla proliferazione incontrollata delle fonti normative. Ogni realtà territoriale vede se stessa addirittura come un’ininterrotta, un’inesauribile sorgente del diritto. Un’autoconvinzione che porta molti Comuni a sovvertire le disposizioni nazionali, per giunta ottenendo spesso la benedizione da parte dei tribunali amministrativi. Nel segno dell’emergenza ogni signorotto o sovranotto locale si ritiene in diritto di fare ciò che vuole, anche quando, come è avvenuto con le ordinanze di chiusura delle edicole nei giorni festivi, i decreti governativi stabiliscono l’inefficacia di provvedimenti territoriali di diverso tenore. Questo impazzimento generale è, nello stesso tempo, causa ed effetto del coacervo normativo in atto. Sicché all’ossessivo positivismo giuridico, che spinge centro e periferia a rincorrersi sul terreno della normazione su ogni nuovo problema insorto, corrisponde una pervasiva anarchia giuridica, che rischia di bruciare anche l’ultimo brandello di certezza del diritto. Un atteggiamento che si riscontra pure in Europa, dove minacciamo di poter fare da soli, in barba a regole e accordi vari. Anche in questo caso è la logica, che pure dovrebbe ispirare la fabbrica del diritto, a brillare per la propria assenza. Sappiamo benissimo che la situazione è drammaticamente eccezionale e che, come ha ricordato Mario Draghi, bisognerà ottenere strategie economiche differenti rispetto al passato. Ma qualunque strumento di soccorso, di solidarietà, verrà utilizzato, esso dovrà per forza prevedere una pur minima condizionalità (altrimenti sarebbe il caos, l’irresponsabilità totale), pena l’addio a ogni sogno di bilancio comunitario autonomo. Fino a pochi giorni addietro l’Italia esaltava la funzione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), non vedendo l’ora di potersi giovare della di lui (decantata) potenza di fuoco. Oggi il Mes viene descritto manco fosse l’inferno in terra. Ma senza il Mes, senza il Fondo salva-Stati, all’Italia verrebbe precluso anche l’intervento della Bce nel ruolo di acquirente dei titoli di Stato. A meno che, a furia di mitragliate contro Bruxelles, il partito trasversale (non solo Salvini) ostile all’Europa non voglia spianare la strada per la fuoriuscita italiana dall’Unione e dall’euro. Ma uscire dall’Europa significa entrare dritti dritti in Sudamerica, significa avviarsi di gran carriera verso scenari da brivido, tipo Argentina e Venezuela. Significa creare le premesse per soluzioni autocratiche, fascistoidi, sicuramente in contrasto con le tradizioni democratiche dell’Occidente. Significa dover fare i conti con il ritorno dell’inflazione, che è la tassa più odiosa, soprattutto per i ceti popolari. Vogliamo tutto questo? Il virus ha già provocato disastri a non finire. Cerchiamo almeno di scongiurare i disastri post-virus che già si stagliano all’orizzonte.

"L'Italia produrrà milioni di mascherine". Ma nessuno ha il via libera a venderle. Il commissario Arcuri ne promette 25 milioni al giorno. Ma il settore è una giungla: solo 21 aziende hanno già ottenuto la certificazione dell'Iss. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Arriverà. Sarà. Troveremo. Faremo. La gestione italiana dell’emergenza coronavirus è declinata al futuro. Le imprese avranno il sostegno dello Stato. I prestiti arriveranno presto. Il Recovery Fund sarà la rivoluzione in Ue. Partirà la fase 2. Vedremo. Il problema è che agli annunci non s'è ancora visto seguire un gran che. Ecco perché a una settimana dall'inizio della ripartenza gli annunci di Domenico Arcuri sulle mascherine lasciano un po' interdetti. Lo scetticismo è giustificato. "Arriveremo presto a produrne almeno 25 milioni al giorno”, ha detto pochi giorni fa senza spiegare se quel "presto" si riferisce al futuro prossimo o (molto) lontano. L’idea del commissario straordinario è quella di arrivare all’autarchia. È già stato siglato un accordo "con due grandi imprese italiane che stanno producendo 51 macchine utensili" per realizzare "da 400mila a 800mila mascherine al giorno". Come si arriverà a 25 milioni al giorno è ancora un mistero. Ma è probabile che per fare "da sola" l'Italia avrà bisogno dei privati. Al momento "106 le imprese" hanno "ricevuto l'approvazione al loro programma di investimento" e "le prime 5 hanno sottoscritto" un contratto per rifornire la Protezione Civile di Dpi. C'è poi una pletora di imprese che si sono rimboccate le maniche per riuscire a confezionare mascherine chirurgiche e aiutare il sistema Italia. Il problema è che delle quasi 400 aziende che hanno presentato la domanda per ottenere dall'Iss l'autorizzazione a realizzarle, solo in 23 hanno già ottenuto il via libera alla commercializzazione. Tutti gli altri sono impantanati in procedure e carte burocratiche. Dopo lo scoppio dell'emergenza, il governo è intervenuto due volte sul tema mascherine. La prima con il decreto del 2 marzo, dove ha dato la possibilità di utilizzare anche prodotti privi del marchio CE "previa valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità". Il 17 marzo, invece, ha specificato come "produrre, importare e immettere in commercio" Dpi "in deroga alle vigenti disposizioni". La "deroga" non significa liberi tutti, è solo un modo per dire: tu intanto lavori, poi ti daremo l'autorizzazione a vendere. Le opzioni sono due. Chi vuole realizzare mascherine chirurgiche deve inviare un'auto-certificazione all'Iss in cui attesta le "caratteristiche tecniche" del prodotto e il "rispetto di tutti i requisiti di sicurezza". Poi deve spedire le prove di quanto dichiarato e attendere che l'Iss apponga il semaforo verde. Le aziende che intendono produrre o importare Dpi devono fare lo stesso percorso, solo rivolgendosi all’INAIL. Fino ad oggi, a sentire le imprese, l'Iss "ha lavorato bene" impartendo consigli su come superare gli ostacoli. Per ottenere il via libera, infatti, il prodotto deve essere conforme alle norme (EN e ISO) che si certifica con test su efficienza di filtrazione, traspirabilità, pulizia microbica e resistenza agli schizzi. È questo il vero collo di bottiglia. "I laboratori che fanno queste prove sono pochi”, racconta un imprenditore del settore medico. E costano parecchio: a Bologna il prezzo è fissato a 1.990 euro più iva. Il rischio è che se sbagli puoi essere costretto a ripeterlo più volte. "Alla fine fai presto a spendere 10-15mila euro", sospira l'imprenditore. T.F. Arredo Tessile si è rivolta al Politecnico di Milano. Dopo il primo test, spiega il titolare, "ci hanno fatto delle obiezioni e consigliato come procedere per far sì che andassero a buon fine. Mi sono procurato i materiali e li ho rimandati a testare a Milano". Ora è in attesa che l'iter tecnico arrivi alla fine, poi invierà tutto all'Iss nella speranza di ottenere il bollino verde. Reperire il materiale giusto non è facile, visto che se ne trova in grosse quantità solo nei Paesi esportatori (Cina e Turchia). Molte aziende hanno realizzato prototipi con materiali che devono ancora essere validati, e così i tempi si allungano. "Al telefono l'Iss mi ha detto che ci sono state più di 2mila richieste", afferma Michele Vencato, Sales Manager di Isan Ai Miral Tex, "anche da chi si è proprio improvvisato produttore di mascherine". Esiste infatti una terza via, quella più semplice. Ovvero la creazione di maschere “non medicali” da vendere ai cittadini per andare a fare la spesa. Vengono realizzate con i più disparati tessuti, ma spesso non sono state sottoposte ad alcuna "prova" sulla filtrazione. Lo prevede l’articolo 16 del decreto firmato da Conte. "Hanno la stessa funzione di un foulard", dice qualcuno. Anche se è sempre valido il motto: piuttosto che niente, meglio piuttosto. Decine di aziende, soprattutto tessili, hanno provato con spirito di dedizione a riconvertirsi. Qualcuno di loro ha anche avviato l’iter per ottenere il via libera dell'Iss, ma poi ha deciso di rinunciare. "È improponibile - racconta Fabio Campagna, imprenditore emiliano - conosco aziende che dopo un mese e mezzo ancora non riescono a produrre. Prima avevamo pensato di buttarci sulle mascherine chirurgiche, ma ci saremmo infilati in un tunnel senza uscirne vivi. Quindi le faremo in deroga con un tessuto 100% cotone, idrorepellente e antibatterico”. Mauro Caverni, titolare della 3EMME di Lastra a Signa, si trova più o meno nella stessa situazione. Normalmente realizza abbigliamento tecnico sportivo. In questi mesi si sta adeguando. Le sue mascherine sono state "testate dell'Università degli studi di Firenze e classificate con un efficienza di filtrazione superiore al 95,5% su particelle maggiori di 0.3µm". Non sono però né dispositivi medico chirurgici, né DPI. Dunque non ha ancora il timbro dell'Iss: "Non è semplice - racconta - Nessuno ci ha detto come fare e i requisiti sono talmente tanti che neppure so come fare a recuperarli". Intanto vende le sue mascherine ad uso civile, secondo quanto permesso dalla legge. In fondo il test dell'Università fiorentina è buono. “Il nostro desiderio è solo quello di dare una mano per quanto possibile e cercare allo stesso tempo di non far morire l’azienda”. Che altrimenti sarebbe rimasta ferma. A tutta questa giungla si aggiunge l'ordinanza firmata dal commissario Arcuri che impone il prezzo della mascherine chirurgiche (quelle certificate) a 50 centesimi di euro al pezzo. Per produttori e farmacisti è troppo poco. Non ci stanno dentro coi costi. Almeno sembra che l’Iva “sarà” azzerata. Per ora col verbo al futuro.

Allarme mascherine: l'80% non protegge dal virus. Le mascherine promosse dal Governo per la fase non passano i test di conformità: "Sono inefficienti", spiega un esperto in filtrazioni. Rosa Scognamiglio, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Il "piano mascherine" messo a punto dal Governo in previsione della fase 2 fa acqua da tutte le parti. Ben 8 dispositivi di protezione individuale su 10 non proteggono dal virus: "sono da buttare", scrive oggi Patrizia Floder Reitter su La Verità. Che le mascherine promosse dal commissario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri avessero un costo insostenibile - 50 centesimi cada una - lo si sapeva già, ma che fossero addirittura inefficaci nessuno lo avrebbe mai giurato. Eppure, le dichiarazioni rilasciate a La Repubblica da Paolo Tronville, docente di ingegneria industriale che con altri 17 esperti è al lavoro nella task force istituita per certificare la conformità tecnica dei presidi di protezione individuale, lasciano pochi dubbi al riguardo: "sono inaffidabili", afferma senza mezzi termini. Il professore, esperto di filtrazioni, si occupa proprio di valutare mascherine e camici assieme a scienziati dei materiali, esperti di microbiologia, di ingegneria chimica e di medicina del lavoro delle università di Torino, del Piemonte Orientale e di Bologna. Un laboratorio apposito, all' interno del Policlinico, effettua analisi su mascherine chirurgiche e dispositivi filtranti Ffp2 e Ffp3. "E in queste settimane è stato boom di richieste - spiega La Repubblica - Soprattutto da parte delle aziende del territorio che si sono organizzate per mantenere viva la produzione, convertendola in mascherine, ma che, prima di metterle sul mercato, hanno chiesto di eseguire questi test". In previsione del lungo 'periodo di convivenza col virus' è stato messo da conto un incremento massiccio della disponibilità di presidi sanitari individuali che, stanno alle misure contenute nel Dpcm 26 aprile, saranno obbligatori per contenere la diffusione del Covid-19 tra la popolazione. "Ne serviranno 12 milioni", ha annunciato qualche giorno fa il commissario Arcuri nel corso della conferenza stampa dalla sede centrale della Protezione Civile. Per soddisfare l'enorme richiesta, sono stati istituiti diversi bandi regionali 'agevolati' così da consentire alla aziende di convertire i propri impianti in favore della produzione crescente di mascherine. Ma prima di poter essere messe in vendita con apposita certificazione, i dispositivi dovranno superare i test di conformità normativa. E, al momento, quelli fabbricati a regola d'arte si conterebbero in punta di dita. I test eseguiti dal Politecnico di Torino sono a dir poco disastrosi. "Molto presto quelle stesse inaffidabili mascherine potrebbero arrivarci gratuitamente proprio attraverso il servizio sanitario. A meno che non si trovi un modo per introdurre un nuovo metodo di prova che ci aiuti a distinguere una banale rete da pesca da un dispositivo di sicurezza efficiente", spiega il professor Tronville. Che il prezzo di vendita imposto dal Governo fosse incompatibile con il costo dei materiali utili alla produzione di presidi chirurgici ad hoc era prevedibile, meno che i cittadini rischiassero di ritrovarsi con uno straccio per la polvere sul volto. "Abbiamo avviato un dialogo con l' Uni, l' ente di normazione italiano, per elaborare un metodo di prova riconosciuto, utile a concedere un marchio di qualità ai prodotti che raggiungono buoni livelli di efficienza. - continua Tronville - Potrebbe essere utile anche alle aziende che vogliono indicazioni per realizzare prodotti di qualità". L'80% delle mascherine controllate dal suo team sono inutilizzabili e inutili. Una doccia fredda per gli imprenditori italiani che hanno riconvertito gli impianti per produrre questi dispositivi senza direttive precise. La politica "finora animata dall' urgenza di rispondere al bisogno di mascherine dei cittadini, ha dato carta bianca alle aziende sulle caratteristiche, aprendo di fatto anche a prodotti privi dei requisiti minimi per avviare il percorso di certificazione - continua il professore - Anche in Piemonte arriveranno a maggio, attraverso il servizio sanitario, mascherine selezionate attraverso una procedura d' evidenza pubblica che però non richiedeva caratteristiche tecniche filtranti. Non saranno, insomma, neppure equivalenti a quelle più semplici, ma certificate e cioè quelle chirurgiche". Insomma, pare proprio che le tanto decantate mascherine da 50 centesimi servano a poco o nulla.

Da lastampa.it il 27 aprile 2020. Tra i vari provvedimenti della cosiddetta «Fase 2» dell’emergenza coronavirus c’è il prezzo calmierato delle mascherine chirurgiche anti-contagio che dovranno essere indossate durante gli spostamenti: «0,50 euro l’una, senza Iva» ha detto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa di ieri. Immediata la reazione dei farmacisti: contestano il fatto che – così facendo – il costo al quale loro acquistano le mascherine sarebbe superiore a quello di vendita. In questo modo «lavoreremo in perdita quasi del 50 per cento». Così a Napoli le farmacie hanno sospeso la vendita «per autotutela della categoria a fronte della confusione informativa istituzionale sui prezzi». Il presidente di Federfarma Napoli, Michele Di Iorio, questa mattina ha diffuso una circolare ai colleghi: «Abbiamo assistito, a mio avviso, a un corto circuito informativo grave – dice -. Il premier davanti a 60 milioni di italiani ha detto che le mascherine si venderanno a 50 centesimi senza Iva, contemporaneamente il commissario Arcuri ha scritto che si devono vendere a 50 centesimi più Iva, ovvero 61 centesimi». I farmacisti napoletani attendono ora «indicazioni nazionali chiare».  Di Iorio la scorsa settimana aveva già lanciato un'iniziativa per calmierare il prezzo dei dispositivi, attraverso un acquisto centralizzato, per arrivare a vendere in tutte le farmacie della città le mascherine FFP2 a 4,90 euro e le mascherine chirurgiche a 1 euro, «un progetto che avrebbe creato un circolo virtuoso, inducendo le aziende ad abbassare i prezzi alla fonte».

Da giornaledibrescia.it l'1 maggio 2020. Grida alla speculazione la lettrice che ci segnala quanto accaduto in una farmacia della città. Due mascherine riutilizzabili in poliestere per bambini pagate complessivamente 25,80 euro. «Due pezzi di cotone con un elastico. È uno schifo che si arrivi a guadagnare così, tra l'altro per dispositivi per un bambino che nemmeno sono obbligatori, ma che da madre per una questione morale voglio far indossare a mio figlio quando esce in giardino» si sfoga la donna. «Le ho restituite perché mi sono sentita presa in giro» ha aggiunto la donna. In altre farmacie del città una mascherina - racconta un'altra lettrice - è arrivata a costare anche 17 euro l'una. Tutto questo a pochi giorni dalla conferenza stampa del premier Giuseppe Conte che ha imposto un prezzo calmierato (non più di 0,50 euro) per ogni mascherina chirurgica in vendita.

Mascherine, Arcuri: "Contratti con 5 aziende per venderle a 0,38 euro". Tgcom24 il 27 aprile 2020. Le mascherine chirurgiche saranno vendute nelle prossime settimane a un prezzo medio di 38 centesimi. Si tratta di 660 milioni di pezzi, che saranno prodotti "da cinque aziende italiane", ha spiegato il commissario per l'Emergenza Domenico Arcuri. "Fab, Marobe, Mediberg, Parmon e Veneta distribuzione hanno già siglato i contratti", ha aggiunto Arcuri, ringraziando "queste eccellenze italiane per la disponibilità e la responsabilità dimostrate". 

Prezzo mascherine, Arcuri: “660 milioni di mascherine chirurgiche italiane acquistate ad un prezzo di 0,38 €”. Invitalia.it il 27/04/2020. Sono FAB, Marobe, Mediberg, Parmon e Veneta Distribuzione le prime aziende italiane con cui il commissario Domenico Arcuri ha sottoscritto contratti per 660 milioni di mascherine chirurgiche ad un prezzo medio di 0,38 €. “Desidero davvero ringraziare queste eccellenze italiane - ha detto Arcuri – che, in questo periodo di emergenza, hanno mostrato una straordinaria disponibilità, ma anche un forte senso di responsabilità nel definire il prezzo di vendita delle loro mascherine. Nessuno di questi produttori vende ad un prezzo superiore ai 50 centesimi”. “Si tratta di un primo importante passo - ha poi aggiunto il commissario Arcuri - “stiamo contattando le altre 108 aziende italiane, incentivate grazie a “CuraItalia”, l’agevolazione messa in campo dal Governo per accelerare la produzione nazionale di mascherine. A tutte loro sta giungendo la rassicurazione dagli uffici del Commissario, che acquisteranno le loro mascherine via via che saranno collocate sul mercato”. “Con l’ordinanza firmata ieri - aggiunge infine Arcuri - abbiamo fissato un prezzo giusto per la vendita delle mascherine ai cittadini. Nessuno dovrà rimetterci, a partire dalle imprese produttrici, dalle farmacie e dalle parafarmacie. Stiamo sconfiggendo i vergognosi episodi registrati negli ultimi mesi. Sulla salute non si specula”.

Il grande bluff delle mascherine di Stato: ecco chi ci guadagna. Oltre 250 milioni a cinque piccole aziende private. Per coprire solo una parte minima del fabbisogno nazionale. Ma non c'è trasparenza sul prezzo pagato dal governo. E neppure sui criteri di scelta dei fornitori, tra cui un produttore di pannolini e uno stampatore. Vittorio Malagutti il 07 maggio 2020 su L'Espresso. Le mascherine? No problem, costeranno cinquanta centesimi e l’Italia farà da sé. Parola di Domenico Arcuri. Tra conferenze stampa e comparsate in tv, il commissario di governo per l’emergenza Covid da giorni dispensa il verbo della fase due, quella della ripartenza. Una ripartenza a prova di speculatori, garantisce il manager, perché il prezzo politico imposto per decreto ridurrà drasticamente il costo delle protezioni anti virus. C’è di più. Nella conferenza stampa di martedì 28 aprile, Arcuri ha annunciato che lo Stato è pronto a finanziare la produzione italiana di mascherine. Quante? Tanto per cominciare 660 milioni, ha spiegato il commissario, che ha rivendicato con orgoglio lo «straordinario» lavoro svolto dalla sua struttura «in soli 40 giorni».

La commessa è stata ripartita tra cinque aziende, ciascuna delle quali ha siglato un contratto con la presidenza del Consiglio. I nomi si conoscono. Eccoli: Fab, Marobe, Mediberg, Parmon e Veneta distribuzione. Nulla si sa, invece, del contenuto di quei contratti. Arcuri sostiene, per esempio, che lo Stato pagherà 38 centesimi le mascherine chirurgiche che poi saranno messe in vendita al dettaglio per 50 centesimi ciascuna. Vale la pena segnalare, però, che Marobe, una delle cinque società fornitrici, dichiara che incasserà dal committente pubblico 46,5 centesimi al pezzo, una somma sensibilmente superiore a quella indicata dal commissario. Interpellata in proposito da L’Espresso, Mediberg ha invece risposto che i suoi dispositivi saranno venduti al governo a un prezzo «sensibilmente inferiore» ai 38 centesimi da Arcuri. A questo punto viene da chiedersi come verranno spartiti i profitti dell’operazione. Infatti, come detto, le mascherine saranno messe in commercio a 50 centesimi ciascuna. Sono invece destinati a variare, e di molto, i margini di guadagno, visto che in base al contratto con il commissario, ogni produttore venderà le sue mascherine a un prezzo diverso. A chi andranno questi profitti? Alle aziende? Ai distributori, cioè supermercati e farmacie? E quale sarà il ruolo dello Stato? Le nostre richieste di chiarimenti rivolte allo staff di Arcuri sono cadute nel vuoto. Restano quindi riservate una serie di informazioni che invece sarebbero molto utili per valutare, per esempio, con quali criteri il governo abbia scelto proprio quel gruppo di cinque aziende. E come si giustifichino differenze così ampie nei prezzi delle commesse. Il business delle mascherine muove risorse pubbliche importanti. A un prezzo medio di 38 centesimi, i 660 milioni di pezzi di questa prima fornitura costeranno all’erario oltre 250 milioni di euro. Ed è solo l’inizio. Sembra verosimile, infatti, che nei prossimi mesi altri fornitori si aggiungeranno ai cinque fin qui indicati. Senza contare che da «metà giugno», dice il commissario, dovrebbe partire la produzione affidata alle macchine di Fameccanica, controllata dal gruppo farmaceutico Angelini, a cui si aggiungono altrettanti impianti per il confezionamento con il marchio Ima, società quotata in Borsa che fa capo alla famiglia emiliana Vacchi. Intanto, però, il governo ha scelto di non svelare i dettagli della prima commessa alle cinque aziende «eccellenze italiane», come le ha definite Arcuri. E strada facendo emergono altri fatti degni di nota. Si scopre per esempio che Riccardo Maria Monti, manager coinvolto in prima persona nella definizione della fornitura assegnata a Marobe, siede sulla poltrona di vicepresidente della Fondazione Italia-Cina. Un ente, quest’ultimo, che ha tra i suoi scopi statutari anche quello di proporsi come «riferimento per le imprese cinesi che hanno investito o sono interessate all’Italia», si legge nel sito istituzionale. Se si considera che uno degli obiettivi dell’operazione gestita da Arcuri è proprio quello di dare un taglio alla dipendenza italiana da Pechino nel settore delle mascherine, riesce difficile non notare il doppio ruolo di Monti. Il quale peraltro, può sfoggiare un curriculum di tutto rispetto. Dapprima in qualità consulente strategico di grandi aziende, poi come dirigente pubblico a partire dal 2012, quando Corrado Passera, all’epoca ministro dello Sviluppo economico, lo chiamò al vertice dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero. Monti, che conosce bene Arcuri, è in seguito approdato al gruppo Ferrovie dello Stato come presidente della controllata Italferr fino a quando a dicembre del 2018 ha traslocato sulla poltrona di consigliere delegato di Triboo, società quotata in Borsa che vende servizi digitali: pubblicità, marketing, commercio, tutto in Rete. In aprile, nel pieno della pandemia, l’azienda guidata da Monti ha importato dalla Cina una partita di 500 mila mascherine poi rivendute ad aziende associate alla Piccola industria di Confindustria. Il prezzo, non esattamente di favore, era stato fissato a 83 centesimi più Iva al pezzo. La stessa Triboo si è poi associata con Marobe, che è una piccola azienda tessile, per aggiudicarsi la commessa del governo. L’inedita coppia si è impegnata a fornire entro novembre 174 milioni di pezzi per un importo complessivo, a carico dello Stato, di 81,1 milioni di euro. Una somma rilevante se si pensa che Marobe nel 2018, anno a cui si riferisce l’ultimo bilancio pubblicato, non ha superato i 12,5 milioni di ricavi, mentre Triboo nel 2019 è arrivata a 77 milioni. Prima d’ora nessuna delle due aziende ha mai avuto nulla a che fare con la fabbricazione di mascherine. E neppure Parmon, produttore siciliano di pannolini e assorbenti femminili. Stesso discorso per Veneta distribuzione, che fa parte del gruppo Grafica Veneta controllato dallo stampatore Fabio Franceschi. Per Mediberg, sede non lontano da Bergamo, e la bresciana Fab della famiglia Grazioli, i dispositivi di protezione per il volto rappresentano invece, ormai da molti anni, una parte del tutto marginale dell’attività. Il governo si è trovato con le spalle al muro. Deve ricorrere al Made in Italy nel tentativo di coprire almeno una parte del colossale fabbisogno nazionale. Difficile fare stime precise in proposito, ma a settembre, quando anche le scuole dovrebbero riaprire, l’Italia potrebbe arrivare a consumare oltre 500 milioni di mascherine al mese. Nei giorni scorsi Arcuri ha garantito che per quell’epoca lo Stato sarà in grado distribuire fino a 30 milioni di pezzi al giorno, buona parte dei quali dovranno essere importati, con tutti le incognite del caso. In questi mesi, infatti, i dispositivi di protezione sono diventati qualcosa di simile a un asset strategico, protetto da blocchi doganali e divieti all’export. C’è il rischio concreto di restare esposti ai venti della speculazione. Oppure di dipendere in tutto e per tutto dalla Cina, che è di gran lunga il maggior produttore mondiale. Ecco perché il governo si è mosso per incentivare la nascita di una filiera italiana. Si parte da zero, o quasi, visto che prima dell’epidemia la produzione nostrana, schiacciata dalla concorrenza a prezzi stracciati dell’Asia, era stata quasi completamente abbandonata. Non per niente, delle cinque imprese selezionate dal governo solo Fab e Mediberg, come detto, possono vantare una qualche esperienza specifica nel settore dei dispositivi di protezione. La prima produce abbigliamento antinfortunistico destinato a fabbriche, officine, cantieri. Mentre Mediberg, che fa capo a Rossano Breno, già presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo, rifornisce soprattutto cliniche e ospedali. Il contratto siglato il 21 aprile scorso con il governo impegna Mediberg a vendere al committente pubblico 648 mila mascherine a settimana fino alla fine di giugno. Circa 7 milioni di pezzi in tutto, quindi. Una piccola frazione rispetto ai 660 milioni annunciati da Arcuri. Il grosso della commessa pubblica toccherà alle altre aziende che per cavalcare l’onda del nuovo business si sono affrettate a riconvertire almeno in parte le loro produzioni, a volte con qualche incidente di percorso. Ecco, allora, le mascherine targate Grafica Veneta, fatte di carta opportunamente trattata e plastificata. «Schermi filtranti», le ha definite Fabio Franceschi, il patron del gruppo travolto da dubbi e sospetti dopo che un video diventato virale in Rete metteva in dubbio l’efficacia dei suoi prodotti. Il decreto legge di metà marzo sull’emergenza sanitaria consente infatti la fabbricazione e la vendita al pubblico di mascherine prive di valutazione da parte dell’Istituto superiore di sanità e dell’Inail, che invece è prescritta per quelle chirurgiche vere e proprie, le uniche utilizzabili in ambiente ospedaliero o assistenziale, secondo quanto prescritto dal ministero della Salute. Le altre, comprese quelle di Grafica Veneta, possono essere messe in commercio, si legge nel sito del ministero, «sotto la responsabilità del produttore». Nei giorni scorsi, in risposta alle critiche, un comunicato dell’azienda padovana ha precisato che gli schermi filtranti di Grafica Veneta erano stati comunque sottoposti ai test di «primari laboratori di analisi» che ne avevano certificato, tra l’altro, «la capacità di barriera microbica». Franceschi, del resto, si era mosso per tempo. Già a fine marzo aveva adattato una maxi rotativa del suo stabilimento alla nuova specialità della casa. «Siamo pronti a produrre fino a 100 milioni di mascherine al mese», ha garantito l’imprenditore. I primi quattro milioni avevano ben visibile il logo della regione Veneto. Era un gradito dono di Franceschi al presidente Luca Zaia, che tramite la Protezione Civile ha poi provveduto a distribuire ai cittadini le mascherine dell’amico stampatore. Risale al 21 aprile, invece, il contratto con il commissario di governo. Non è chiaro quanti siano gli schermi filtranti che Grafica Veneta si è impegnata a fornire e neppure il costo a carico delle casse pubbliche. Interrogato in proposito da L’Espresso, Franceschi non ha riposto alle domande inviate via mail. Con la Parmon di Belpasso, in provincia di Catania, si cambia decisamente materiale. La logica è la stessa, però. Anche i macchinari dell’azienda siciliana sono stati in parte riconvertiti alla nuova produzione: dai pannolini alle mascherine. In fondo la materia prima è praticamente la stessa: tessuto non tessuto, ovviamente con caratteristiche diverse in base al prodotto finale. La famiglia Fronterrè, azionista unica della società etnea, non si è fatta sfuggire l’occasione e fin dalle prime settimane ha cercato di aprirsi un varco in un mercato per loro del tutto nuovo. Dopo un primo stop da parte dell’Istituto superiore di sanità, i dispositivi col marchio di Parmon hanno infine ottenuto la certificazione CE per la vendita come mascherine chirurgiche. A metà aprile il governo ha quindi dato via libera alla fornitura dell’azienda siciliana in base a un contratto con scadenza ottobre 2020. Un contributo pubblico di 720mila euro sotto forma di finanziamento agevolato sarà destinato a finanziare in parte (il 75 per cento) l’investimento necessario a riconvertire le linee produttive. L’obiettivo dichiarato è quello di riuscire a produrre entro metà maggio almeno 200 mila mascherine al giorno. A quel ritmo, la fornitura complessiva destinata allo Stato dovrebbe raggiungere almeno i 30 milioni di pezzi entro i cinque mesi previsti dalla commessa. Ben più ambiziosi sono i piani di Marobe. La prima fase della riconversione risale a marzo, nelle prime settimane dell’epidemia, quando l’azienda tessile con base a Vanzaghello, alle porte di Milano, ha cominciato a produrre camici ospedalieri. Adesso tocca ai dispositivi di protezione. «Puntiamo a un milione di mascherine al giorno entro metà luglio», dichiara Christian Cagnola, esponente della seconda generazione della famiglia azionista. Ci vorrà tempo, però. Al momento Marobe è in grado di garantire non più di 250 mila pezzi al giorno, ma sono in pieno svolgimento i lavori per installare nuovi macchinari in un capannone non lontano dalla fabbrica. L’azienda potrà dare lavoro almeno a 250 persone, dice Cagnola. Un bel salto, visto che i dipendenti di Marobe fino all’anno scorso non arrivavano a 30. I soldi di Stato finanzieranno il boom. Finché durano. Perché non è detto che alla scadenza, da novembre in poi, il contratto con la presidenza del Consiglio venga rinnovato. E allora anche le mascherine Made in Italy dovranno confrontarsi con il mercato.

Prodotte da un'azienda di Ottaviano. Il governatore annuncia: “Mascherine gratuite made in Piemonte” ma sono fatte a Napoli. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Il Piemonte fa da sé, o forse no. La Regione, infatti, ha annunciato la distribuzione di cinque milioni di mascherine gratuite “made in Piemonte” tra tutti i residenti. Ma secondo quanto riportato da Fanpage non tutte sarebbero state prodotte sul territorio, negando quanto fin qui portato avanti orgogliosamente dal presidente Alberto Cirio. “Nulla di male, anzi, se è tutto in regola mi sembra un passo avanti per chi fino a qualche anno fa cantava beceri cori contro i napoletani. Però rimane da capire se la Hismos srl di Ottaviano sia tra i fornitori della Regione o una delle tre aziende piemontesi in realtà abbiano comprato da altri le mascherine”, si chiede il capogruppo di Liberi Uguali e Verdi in Regione Marco Grimaldi. La Regione non smentisce e annuncia che attiverà una serie di verifiche: “Abbiamo affidato l’appalto ad aziende piemontesi che ci garantissero una produzione rapida. Le consegne stanno avvenendo e la distribuzione prosegue senza sosta. Rispetto al confezionamento fuori dal Piemonte non ci sono evidenze dal materiale pubblicato on line, è pur sottolineando che il bando non richiedeva, vista l’urgenza, tale specifica, ci attiveremo per trasparenza a verificare quanto prima tali affermazioni”.

Produzione delle mascherine, un affare appaltato al Nord ai danni del Sud. Claudio Marincola il 29 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le mascherine? C’è il rischio che diventeranno come la polenta o il Lambrusco. Specialità del Nord. Di origine controllata, made in Lombardia. Dei 50 milioni 195mila euro previsti dal decreto Cura Italia per riconvertire le aziende e spingerle a produrre dispositivi di protezione, ben 9 milioni 856.515 sono andati infatti a imprese lombarde. Prima del Codiv-19 producevano altro. Alla Basilicata, per dire, ne sono andati solo 960.700 mila, alla Sardegna 567mila, alla Calabria 1 milione 431mila, al Lazio 1.224.455mila. Insomma, la parte del leone, come al solito, l’ha fatta la nostra locomotiva. Finita in panne, come sappiamo, ma pronta a ripartire di slancio.

LA LEZIONE NON È SERVITA. Il grafico è disponibile sul sito di Invitalia.it: il 20% del budget complessivo è andato alla Lombardia. Alimenta il sospetto che l’esperienza drammatica che stiamo vivendo non abbia cambiato niente. La lezione del coronavirus, insomma, non è servita. Tutto, anche la produzione di dispositivi di protezione, continuerà a concentrarsi entro lo stesso perimetro industriale, sovrapponibile, guarda caso, alla diffusione del contagio. E agli altri? Le briciole. Le domande presentate e accolte dall’Ufficio del super commissario all’emergenza Domenico Arcuri sono state in totale 107. Con l’unica eccezione della Campania, che se n’è vista accogliere 13, il“ ”visto si finanzi” è andato a Lombardia, 17; Toscana, 14; Emilia-Romagna, 11; Marche e Puglia, 8; Abruzzo e Umbria, 5; Sicilia, 3; Basilicata, Sardegna e Piemonte, 2, Liguria, 1. Settanta domande hanno riguardato la riconversione, 37 l’ampliamento dei locali. Di mascherine ne servono diverse decine di milioni al giorno. Un business non da poco. E la truffa è sempre in agguato. Si va da aziende improbabili, pronte a sfruttare il momento, alle mascherine con il marchio Ce, che, però, non vuol dire certificate in Europa ma China export. Produrle al Nord vorrà dire intasare un’area già congestionata. Senza dire che al Mezzogiorno un po’ di posti di lavoro in più, diciamolo, non avrebbero fatto male. Sono scesi in campo i colossi: Armani e il gruppo Prada-Montone, inizialmente a scopo benefico. A ruota gli altri: Fippi Spa di Rho; Malex di Correggio; Nuova Sapi di Casalgrande; Md Massaflex di Massa Carra, che fino a ieri produceva materassi. E si è mosso anche il mondo della Legacoop, con 12 cooperative dedicate, In Veneto, tra le prime a riconvertirsi alla produzione di mascherine la veronese Quid.

MASCHERINE DI STATO. A CHI? Ancora da definire resta la questione delle macchine che serviranno per la produzione. Lo Stato ne ha acquistate 51. Le prime 17 verranno consegnate in comodato d’uso a 4 aziende di cui ancora non è noto il nome. Quando il Paese diventerà autosufficiente – sempre troppo tardi, purtroppo – il Mezzogiorno continuerà probabilmente a dipendere in gran parte dal Nord. E non viceversa. Occasione persa o solito strapotere? Ci sarebbe anche da dire che le aziende riconvertite sull’onda dell’emergenza lasceranno ai concorrenti consistenti quote di mercato. Più dispositivi facciali per difendersi dal virus malefico vuol dire meno capi di abbigliamento o meno altro che si produceva prima. Non era meglio, una volta tanto, puntare sul Sud, isole comprese?

LA PROPOSTA DEI DOCENTI SARDI. Da questa considerazione è partita forse la proposta del giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino e coordinatore di Lettera 150, un gruppo di docenti che si sta battendo per rallentare la corsa alla riapertura e uscire in sicurezza dal lockdown. La drammatica carenza di tamponi e reagenti e la chiusura dei mercati internazionali a seguito dei divieti di esportazione rendono sempre più urgente la necessità di pensare a una “produzione statale” di presidi strategici, come appunto le mascherine. E cosa propongono il professore e i suoi colleghi? «Di localizzare la produzione in aree naturalmente protette come Sardegna e Sicilia», anche perché così si potrebbero «rivitalizzare aree economicamente depresse oltre a garantire l’autosufficienza del Paese». Già. È cosi difficile?

Il grande business delle mascherine: lo Stato si affida a vignaioli e produttori di medaglie. Tra le aziende che si sono aggiudicate le gare Consip per i dispositivi di protezione ci sono multinazionali e grandi aziende italiane. Ma anche imprenditori senza esperienza nel settore. Che dichiarano di essere pronti a importare i prodotti destinati alla Protezione Civile. E qualche volta barano. Vittorio Malagutti il 17 aprile 2020 su L'Espresso. Lunghi elenchi di nomi. E il dettaglio dei contratti, accompagnati da offerte milionarie. Nelle carte della Consip si legge la corsa contro il tempo per rispondere a un’emergenza senza precedenti nella storia della Repubblica. Con gli ospedali del Nord ormai allo stremo, l’azienda di Stato si è trovata in prima linea con una missione di fondamentale importanza: rifornire gli arsenali della sanità pubblica con le armi indispensabili per combattere la guerra contro il virus. E cioè mascherine, tute protettive, cuffie, apparecchiature medicali, ventilatori per la terapia intensiva destinati alla Protezione Civile. Affari per centinaia di milioni di euro da gestire in pochi giorni, con il rischio di aprire le porte a bande di speculatori e truffatori. Di tempo, in effetti, non ce n’è. Bisogna fare presto, perché il contagio corre veloce, molto più veloce della burocrazia. E allora i controlli spesso avvengono a posteriori, dopo che la gara per le forniture è stata completata, con il risultato di rallentare ulteriormente la macchina dei rifornimenti che già fatica a reggere un carico di lavoro eccezionale. Alle porte della Consip ha bussato anche uno stuolo di impresentabili. E qualcuno, come il romano Antonello Ieffi, è anche riuscito a passare indenne attraverso il filtro delle prime verifiche. Una storia esemplare, quella di Ieffi, affarista con la fama del playboy, una trottola in perenne movimento tra debiti e conti in rosso. Carte alla mano, la sua offerta appariva piuttosto sgangherata già a prima vista. Formulata attraverso una società agricola, la Biocrea, che si è ben presto rivelata per quello che era: una scatola vuota. E così Ieffi, che pure era riuscito ad aggiudicarsi una fornitura di mascherine da 15 milioni di euro, il 9 aprile, dopo la denuncia dei vertici Consip, è finito agli arresti con l’accusa di turbativa d’asta. Biocrea è stata infine esclusa dalla lista dei vincitori, mentre le verifiche proseguono su altri imprenditori. La lista delle aziende e la suddivisione dei lotti viene di continuo aggiornata. E ora che le consegne entrano nel vivo, L’Espresso ha anche raccolto le proteste di imprenditori che dopo aver vinto la gara per la fornitura non possono completare l’ordine perché manca il timbro finale di Consip. Intanto, il 7 aprile, è arrivato il cartellino rosso per la Indaco service, una cooperativa di Taranto gestita da un manager, Salvatore Micelli, indagato nel 2018 per una truffa ai danni dello Stato. Tra i contratti revocati c’è anche quello con la Agmin Italy, società veronese da tempo in affari con la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri italiano. Agmin, che fa capo ai Cucchiella, una famiglia di costruttori romani, figura ancora tra gli assegnatari altre forniture Consip per mascherine e altri dispositivi di protezione. Dai documenti pubblicati in questi giorni emergono nuovi nomi e circostanze a dir poco sorprendenti. Tra i vincitori delle gare bandite dalla società pubblica, controllata dal ministero dell’Economia, troviamo giganti con sedi in tutto il mondo e bilanci da miliardi di euro. È il caso di multinazionali come Siemens, Philips, la tedesca Draeger, la svedese Getinge, la britannica Smith & Nephew. E nel plotone delle 90 aziende che si sono aggiudicate uno o più lotti di forniture compaiono ovviamente anche numerose aziende italiane. Alcune possono vantare decenni di esperienza e tecnologie d’avanguardia, oltre a rapporti consolidati con la sanità pubblica. La lista però comprende anche minuscole srl con poche migliaia di euro di capitale, ditte senza passato, nate da poche settimane, e altre ancora che, secondo quanto risulta dagli atti ufficiali, svolgono attività che non hanno nulla a che fare con la sanità e neppure con la produzione dei cosiddetti dispositivi individuali di protezione. La carta da giocare, per molti imprenditori, è quella dei rapporti commerciali con l’Estremo Oriente. Da settimane tutto il mondo è costretto a rifornirsi in Cina, che è diventata il terreno di scontro tra Stati Uniti e Paesi europei, questi ultimi rigorosamente in ordine sparso, ognuno alla disperata ricerca di strumenti di difesa contro il virus. Il governo italiano, per esempio, ha già firmato un contratto con l’azienda cinese Byd, per un valore, secondo indiscrezioni, di almeno 200 milioni di euro. Come sempre accade quando la domanda è altissima e l’offerta limitata, a dettare le regole del gioco è il venditore. I prezzi aumentano e sul mercato proliferano intermediari più o meno affidabili che garantiscono di essere in grado di aprire le porte giuste. Proprio sfruttando questi canali sono moltissimi gli imprenditori italiani che in queste settimane si sono improvvisati commercianti di mascherine. Alcuni dispongono di basi commerciali nel Paese asiatico, perché da tempo importano prodotti made in China. Nel caso di Ludovico Tessari, il viaggio verso l’Italia fa tappa a Londra, dove due anni fa il giovane imprenditore di origine veneta si è lanciato nel business delle biciclette elettriche prodotte in Cina. A marzo Tessari ha inserito nell’oggetto sociale della sua azienda inglese, la Unicorn Electrics, anche il commercio di materiale sanitario e ora punta a sfruttare i suoi contatti aPechino per importare mascherine Ffp2 e occhiali protettivi, le due categorie per cui si è aggiudicato le forniture Consip. «Contiamo di farcela per la fine di aprile», assicura Tessari. La Winner Italia di Alessando Di Vincenzo ha invece vinto ben sette gare tra il 12 e il 17 marzo. Winner, una piccola società romana, non ha mai trattato mascherine e simili. Su Linkedin si presenta come una delle «aziende leader in Italia nella produzione e commercializzazione di prodotti personalizzati per la comunicazione e la premiazione». E in base all’ultimo bilancio approvato, quello del 2018, la fonte principale di ricavi, pari in totale a 9,7 milioni, è la vendita di «articoli promozionali». Insomma, medaglie e gadget, queste le specialità della ditta con sede a Guidonia, una ventina di chilometri da Roma. Tutta merce che viene acquistata in Cina. Adesso, sfruttando gli stessi canali commerciali, Di Vincenzo vuole importare in Italia anche dispositivi di protezione contro il virus. Da Consip è arrivato il via libera, ma l’imprenditore romano è già stato costretto a fare un passo indietro. “Aggiudicazione annullata”, si legge nelle carte di gara. «Ci siamo resi conto che non potevamo rispettare i tempi di consegna e quindi abbiamo rinunciato a quei lotti», spiega l’imprenditore. Ne restano altri due, «ma qui pensiamo di farcela», dice Di Vincenzo. Medaglie e affini è anche la specialità della Johnson srl. Con 150 mila euro di capitale sociale e poco più di 2 milioni di ricavi nel 2018 (ultimo bilancio disponibile), l’azienda con sede in provincia di Brescia, si è aggiudicata una gara per le mascherine Ffp3, quelle più sofisticate. Per quella stessa fornitura ha ricevuto il via libera della Consip anche una società romana appena nata, la Holding Aleda group, costituita il 12 febbraio scorso, solo una settimana prima che in Italia scoppiasse l’emergenza Coronavirus. La società, una srl, ha sede a Olevano Romano, a pochi chilometri da Roma e può contare su soli 7.500 euro di capitale diviso in parti uguali tra due sorelle, Alessia e Daniela Consoli. Quando, a metà marzo, la Consip ha pubblicato i primi bandi, la neonata holding si è presentata ai nastri di partenza vincendo ben nove gare. La procedura si è chiusa a fine marzo. Nel frattempo però, il 23 marzo, Alessia Consoli aveva già fatto un salto dal notaio per cambiare l’oggetto sociale. Nel verbale d’assemblea si legge testualmente che «stante l’attuale situazione mondiale dovuta a pandemia i mercati internazionali offrono la possibilità di importare ed esportare materiali e attrezzature sanitarie». Detto, fatto: la Holding Aleda, nata per gestire partecipazioni finanziarie e immobili, ora punta su business più promettenti: prodotti medicali in genere, dispositivi di protezione, materiale chirurgico, come si legge nelle carte aziendali. Al primo colpo, la neonata società ha fatto subito centro e si è inserita alla grande nel giro milionario degli appalti legati all’emergenza Covid19. «Nessuna speculazione - dice Alessia Consoli - ci siamo mossi con l’unico intento di dare una mano al nostro Paese». I Consoli possiedono un’affermata azienda vinicola, che tempo fa ha aperto una sede in Cina. E ora, nei loro piani, quei contatti commerciali sono in grado di assicurare tutte le forniture previste dai contratti Consip. «Noi siano pronti», dice Alessia Consoli, che si è impegnata a consegnare mascherine, guanti, camici, tute, occhiali e soluzioni disinfettanti. Resta da vedere quando i carichi arriveranno in Italia. E davvero non si capisce se l’ostacolo maggiore sia la burocrazia cinese o quella italiana.

Dove sono finite le mascherine acquistate per strutture sanitarie e pubblica amministrazione? Dietro le quinte della finanza. Matteo Cuvillini e Gianluca Paolucci il 27/04/2020 su La Stampa.

Dove sono finite le mascherine acquistate per strutture sanitarie e pubblica amministrazione? Delle 60 milioni previste ne sono arrivate solo 3 milioni: un pasticcio tra gare Consip annullate e pastoie burocratiche. Sessanta milioni di mascherine per strutture sanitarie e pubbliche amministrazioni, acquistate tramite le gare Consip con procedura d’urgenza chiuse a marzo. Consegnate finora: tre milioni. Sono i due numeri che spiegano perché, a due mesi dallo scoppio della pandemia, le mascherine sono ancora un problema. Il problema, sintetizza un ex manager pubblico passato al settore privato, è semplice: «Se segui il codice appalti aspetti sei mesi per avere le forniture, se applichi la procedura d’urgenza fai i conti col rischio Italia». Ovvero la pletora di affaristi senza scrupoli per i quali la pandemia è solo un’occasione in più per fare affari sperando nell’allentamento dei controlli. L’ultima gara, aggiudicata il 27 marzo scorso in via provvisoria, aveva un valore di 132 milioni di euro. Dopo le verifiche sono rimasti solo 36 milioni di euro. Mascherine consegnate finora: zero. Esito analogo per la gara per caschi, carrelli e umidificatori: 49 milioni il valore, dopo le verifiche sono diventati poco più di 8 milioni di euro. La prima gara, chiusa il 16 marzo scorso, per dispositivi di protezione individuale (Dpi) è andata appena un po’ meglio: su 250 milioni di euro assegnati provvisoriamente dopo le verifiche sono rimaste forniture per 94 milioni. In mezzo, una serie di aggiudicazioni revocate o annullate, tra le quali la Biocrea dell’imprenditore Alessandro Ieffi - arrestato proprio in seguito alle verifiche sulla gara Consip e su denuncia dell’Ente appaltante - è solo il caso più clamoroso. La procedura d’urgenza, in estrema sintesi, prevede prima le assegnazioni provvisorie e solo successivamente le verifiche sui vincitori. Pensata per snellire le procedure e avere i materiali in tempi rapidi, finora non sembra aver dato i risultati sperati. Oltre al caso Ieffi, la procura di Roma sta indagando anche su Salvatore Micelli della tarantina Coop Indaco, della quale un'inchiesta deLa Stampae IrpiMedia ne ha parlato nei giorni scorsi (mettete link per favore). Nello stesso articolo veniva raccontato anche il caso di Marco Melega, imprenditore cremonese con una serie di pendenze con la giustizia, vincitore con la Italian properties di alcuni lotti per le mascherine poi annullata in seguito ai controlli. La Agmin di Verona aveva partecipato con successo a tutte e tre le gare. Tutte le assegnazioni sono state annullate. È controllata dai Cucchiella, costruttori romani già clienti dello studio Mossack Fonseca al centro del caso Panama Papers. Una controllata della Agmin, la Agmin Italy spa, è stato esclusa nel 2018 dalle gare europee per tre anni. Nel 2014 Agmin Italy aveva vinto un bando Ue da 900 mila euro per la fornitura di prodotti in Bielorussia. Tuttavia, secondo la Commissione Europea, non avrebbe consegnato la merce richiesta e non avrebbe sostituito la garanzia finanziaria necessaria dopo che quella precedentemente emessa era risultato non valida. L’azienda veronese ha fatto ricorso alla Corte europea, che ad oggi non si è ancora pronunciata. Se questi sono i casi limite, va detto che revoche e annullamenti possono avere varie ragioni: mancanza delle certificazioni, indisponibilità effettiva del materiale entro i tempi previsti per la consegna, accordi non rispettati dal produttore - generalmente imprese extraeuropee -. Nella terza gara revocate anche la Memento srl, L’Officiel, la Innomed e la Johnson srl. Quest’ultima vende targhe e medaglie, come la Winner Italy srl, vincitrice poi revocata di un lotto nella prima gara. Nessun problema invece per Holding Aleda Group, che si è aggiudicata tutti i lotti dell'ultima gara. Fa capo a due sorelle che producono e commercializzano vino. Nata in febbraio, il 23 marzo scorso la società ha ampliato lo scopo sociale per ricomprendere appunto la fornitura di materiale sanitario e Dpi. Appena in tempo per consegnare l’offerta per la gara Consip chiusa il giorno successivo. Interpellata da La Stampa e IrpiMedia nelle settimane scorse, Alessia Consoli (socia al 50%) non ha fornito risposte. Qualche giorno fa, alFatto Quotidiano, ha spiegato che avendo in Cina il mercato principale avevano contatti tali da poter garantire le forniture, di essere pronte ad onorare il contratto anche se ancora non avevano ancora ricevuto da Consip l’ordine dei acquisto. C’è anche una buona notizia: le mascherine delle gare fatte finora potrebbero anche non servire. Tra le importazioni dirette attivate tramite il ministero degli Esteri e la produzione nazionale coordinata dalla protezione civile, si spiega, è possibile, forse, superare almeno l’emergenza.

Covid-19, due vincitori della gara per le mascherine sono sotto inchiesta. Da una parte la coop dell’accoglienza finita nel mirino della Prefettura, dall’altra l’imprenditore sotto inchiesta per frode. Matteo Civillini su irpimedia.irpi.eu il 2 aprile 2020. Procedure straordinarie, deroghe e commissari. Lo stato di emergenza sta caratterizzando l’aggiudicazione degli appalti della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. E come spesso accade nella gestione emergenziale tra le maglie più larghe dei controlli passano società con conti più o meno aperti con la giustizia o che poco hanno a che fare col mercato di riferimento. È il caso della gara indetta per la fornitura dei dispositivi di protezione sanitaria, in particolare mascherine, e aggiudicata lo scorso 27 marzo. Base d’asta 123 milioni di euro per nove lotti e aggiudicata per poco meno di 64, con un ribasso dunque che sfiora il 50%.

Le procedure straordinarie. Tra gli aggiudicatari delle gare indette da Consip per far fronte all’emergenza Covid-19 ci sono anche una cooperativa di Taranto a cui la Prefettura ha revocato la gestione di un centro d’accoglienza e una società immobiliare guidata da un imprenditore indagato per frode. I bandi della centrale degli appalti italiana sono assegnati con una procedura straordinaria dopo che il decreto Cura Italia del 17 marzo ha previsto la deroga al Codice Appalti: per accorciare i tempi delle aggiudicazioni, i controlli sulle aziende che partecipano si fanno ex post, cioè ad appalto aggiudicato. In pratica, spiega un funzionario Consip a IrpiMedia, «prima avviene la scelta delle aziende e poi si effettuano i controlli sulla loro integrità e gli eventuali ordini di materiale». E come spesso accade durante le gestioni commissariali e in regime d’emergenza, come è stato per il terremoto de L’Aquila, per il G8 a La Maddalena, o più recentemente con Expo2015, il curriculum degli aggiudicatari pone qualche interrogativo. La Procedura negoziata d’urgenza per mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale per l’emergenza sanitaria “Covid-19”, è stata indetta da Consip lo scorso 19 marzo. La base d’asta della gara, suddivisa in 9 lotti era fissata a 123 milioni di euro. La procedura è stata aggiudicata per 63,8 milioni di euro col criterio del minor prezzo.

La coop dell’accoglienza finita nel mirino della Prefettura di Taranto. Il primo caso riguarda la tarantina Indaco Service Cooperativa Sociale che ad oggi risulta tra i vincitori di due lotti per la fornitura di oltre 16,5 milioni di mascherine chirurgiche e 5,4 milioni di FFP3. La società è abilitata dal Ministero delle finanze alle gare d’appalto per i servizi socio-assistenziali come la fornitura di mascherine e per questo motivo si è presentata come capofila di un consorzio insieme ad altre due società. Se l’aggiudicazione sarà confermata, Indaco Service si spartirà con le altre società vincitrici una torta da oltre 34 milioni di euro. A Taranto Indaco Service è nota tra le altre cose per aver perso nel giugno 2017 la concessione per il centro d’accoglienza straordinaria Indaco-S. Maria del Galeso a causa di «gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitarie», si legge nel decreto di revoca firmato dalla Prefettura. Nel centro, poco prima del provvedimento, era scoppiata una rivolta: «Per la disperazione i richiedenti asilo si sono barricati dentro al centro insieme al personale, costringendo la polizia ad intervenire – ricorda Enzo Pilò dell’Associazione Babele, gruppo che tutela i diritti dei richiedenti asilo -. C’erano inadempienze di ogni genere, questa cooperativa non ha mai svolto alcun servizio». L’amministratore della cooperativa Salvatore Micelli sostiene però che la causa del disservizio fosse il sovraffollamento del centro in seguito all’invio dei migranti stabilito dalla stessa Prefettura. A seguito dell’estromissione dal nuovo bando per il centro d’accoglienza è partita una guerra di ricorsi tra Indaco Service e amministrazione pubblica che doveva chiudersi a marzo con il giudizio del Consiglio di Stato, che invece ha rinviato la seduta. Micelli, molto attivo nella politica tarantina, nel dicembre 2018 è stato accusato di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. La vicenda risale al 2012, quando la Regione Puglia doveva gestire la partita dei fondi europei a sostegno dell’occupazione femminile. Micelli e soci avrebbero costituito una decina di imprese fittizie per mettersi in tasca i sussidi senza svolgere alcuna attività lavorativa concreta. Micelli è stato accusato anche di aver presentato false fideiussioni a garanzia dei finanziamenti statali, falsificando le firme dei procuratori di agenzie di assicurazione. Per farsi liquidare i fondi il gruppo avrebbe poi inviato agli enti regionali finte lettere di assunzione e buste paga in realtà mai versate. L’imprenditore è ora fuori dal carcere perché, dice la Cassazione, gli elementi indiziari non sono sufficienti a definire il suo ruolo nella presunta truffa. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per maggio. È accusato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata. Sentito da IrpiMedia, Salvatore Micelli sostiene di essere vittima di un attacco da parte del mondo politico e giudiziario tarantino allo scopo di gettare fango su di lui. «Il sottoscritto – spiega – non ha preso neanche un euro illecitamente. Io non conosco neanche chi sono la maggior parte delle persone coinvolte nell’indagine. Avevo solo svolto attività di consulenza per alcune di queste imprese». Anzi, sostiene di essere stato il primo a denunciare un sistema di corruzione in città.

L’imprenditore sotto indagine per truffa. Insieme a Indaco Service, tra gli aggiudicatari del lotto per la fornitura di mascherine chirurgiche c’è anche la Italian Properties Srl: una holding bresciana che dichiara di avere partecipazioni per oltre 20 milioni di euro in società industriali, commerciali, agricole e immobiliari. Il suo proprietario Marco Melega, 47 anni, è stato arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato diversi siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite erano riservate ai titolari di partita Iva e prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce. Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. Quando le lamentele e le denunce montavano le società venivano liquidate, i siti internet chiusi per poi ripartire nuovamente sotto altre spoglie. Le somme di denaro venivano poi trasferite ad altre società, simulando il pagamento di operazioni fittizie, e infine monetizzate sotto forma di stipendi. Definito come dominus e principale beneficiario della frode, Marco Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. L’11 marzo ha lanciato Barter For Good, una piattaforma online dove le aziende possono donare «merci difettose, beni invenduti e cespiti in disuso» da distribuire tra gli enti no-profit impegnati nella lotta al Covid-19. Il sito dichiara di aver raccolto al 26 marzo oltre 1,298 milioni di euro. Marco Melega spiega a IrpiMedia che Italian Properties realizzerà la fornitura di dispositivi medici tramite la propria piattaforma online di scambi multilaterali tra imprese. «Abbiamo centinaia di contatti che ci stanno favorendo nelle interlocuzioni con i vari fornitori italiani ed esteri». In merito alle vicende personali, Melega dice di esserne «stato profondamente turbato». «Sto affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti», aggiunge. Consip contattata da IrpiMedia spiega che le società risultano effettivamente aggiudicatarie dei lotti, ma che si procederà agli ordini solo dopo le verifiche. «In caso di esito positivo dei controlli, per ogni lotto – aggiunge Consip – sarà stipulato un accordo quadro con tutti i fornitori aggiudicatari. Gli ordini di fornitura verranno emessi a partire dal fornitore primo classificato, fino all’esaurimento della disponibilità dei prodotti di quest’ultimo, proseguendo poi con un meccanismo “a cascata” verso quelli successivi in graduatoria». Così lo schema dell’emergenza, ancora una volta, rischia di premiare i più furbi.

Come è andata a finire. Dopo l’inchiesta che avete appena finito di leggere l’8 aprile Consip ha risolto il contratto con la Indaco Service emettendo gli ordini di fornitura agli altri aggiudicatari dello stesso lotto.

Appalto Consip mascherine: 60 milioni attese, poco più di 3 milioni quelle consegnate. La non verifica sulle aziende, pensata per ridurre i tempi, ha in realtà allungato le procedure e consegnato le commesse anche a società inesistenti o ritenute irregolari. Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini su irpimedia.irpi.eu il 27 Aprile 2020. Ci si aspettava 60 milioni di mascherine grazie alle gare Consip. Ma ad oggi alle strutture sanitarie e alle pubbliche amministrazioni ne sono arrivate poco più di 3 milioni. Prima l’assegnazione dei contratti, poi la verifica delle aziende. Questa è la filosofia che sta caratterizzando buona parte dell’approvvigionamento pubblico di materiali per far fronte all’emergenza Covid-19. Procedure straordinarie, in deroga al Codice degli Appalti, che, in teoria, dovrebbero accorciare i tempi nelle corsa globale ai dispositivi di protezione individuale. Ma in realtà qualcosa sembra non funzionare. I vincitori delle gare saltano, spesso in seguito a inchieste giornalistiche, e le forniture arrivano col contagocce. Alcune tra le gare più ricche le ha battute proprio Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. La prima, pubblicata agli inizi di marzo, dovrebbe garantire a ospedali e pubblica amministrazione 35 milioni di mascherine e oltre 145 milioni di articoli vari tra cui guanti, camici, occhiali protettivi. Finora ne sono stati consegnati poco meno di 20 milioni in totale (di cui 3,2 milioni di mascherine). L’ultima gara, aggiudicata il 27 marzo scorso in via provvisoria, base d’asta di 132 milioni di euro, avrebbe dovuto portare altre 25 milioni di mascherine. Dispositivi di protezione individuale consegnati finora: zero. Il motivo è semplice: tra le maglie larghe degli appalti si infilano soggetti per cui la pandemia è solo un’occasione in più per fare business. Per questo all’avvio dei controlli dopo l’assegnazione delle gare scatta la revoca e l’annullamento di numerose aggiudicazioni, allungando così i tempi di consegna dei materiali.

Il caso Pivetti e la stretta sull'export dalla Cina. Per Davide Del Monte, direttore di Transparency International Italia, si tratta della riprova che molte gare sono state sì velocissime, ma disastrose. «Lo abbiamo detto fin da subito che scartare del tutto trasparenza e controlli per gli acquisti Covid banditi in urgenza non fosse una buona idea,» dice Del Monte a IrpiMedia. «Paradossalmente, fare le cose in velocità ha rallentato, e spesso reso vano, tutto il processo. Speriamo sia di lezione per le fasi successive, dove già aleggia la volontà di allargare ancor di più le maglie dei controlli, con grande piacere di mafie e truffatori.» Il caso più clamoroso è quello della Biocrea dell’imprenditore Antonello Ieffi – arrestato proprio in seguito alle verifiche sulla gara Consip e su denuncia dell’Ente appaltante. Turbativa d’asta e inadempimento di contratti per pubbliche forniture sono le accuse mosse dalla Procura di Roma nei suoi confronti. Un altro contratto ad essere annullato è stato quello con Indaco Service, cooperativa sociale di Taranto con un burrascoso trascorso giudiziario, come già raccontato da IrpiMedia. Nel 2017 aveva perso la concessione per il centro di accoglienza straordinario Indaco-S.Maria del Galeso a causa di gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitario. Il manager di Indaco Service, Salvatore Micelli, è stato inoltre arrestato nel dicembre 2018 con l’accusa di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. Micelli sostiene la sua innocenza, dicendo di «non aver preso neanche un euro illecitamente». Una settimana fa vengono revocate le aggiudicazioni a un’altra azienda del terzo settore. Si tratta di Agmin di Verona, che si occupa di forniture beni e servizi nell’ambito della Cooperazione Internazionale. Dal 1983 realizza progetti finanziati da Onu, Unione europea e Banca mondiale. È controllata dai costruttori romani Cucchiella, già clienti dello studio Mossack Fonseca al centro del caso Panama Papers. Inizialmente la Agmin si era aggiudicata 6 lotti per la fornitura di mascherine e tute protettive. Una sua controllata, la Agmin Italy spa, era stata esclusa nel 2018 dalle gare europee per tre anni. Al centro del contenzioso un bando Ue da 900 mila euro per la fornitura di strumenti in grado di misurare l’efficienza energetica in Bielorussia. Stando a quanto affermato dalla Commissione Europea, la Agmin Italy non avrebbe consegnato la merce richiesta e non avrebbe sostituito la garanzia finanziaria necessaria dopo che quella precedentemente emessa era risultata non valida. L’azienda veronese ha presentato una causa alla Corte europea. La decisione sarebbe stata lesiva dei propri diritti – sostiene Agmin Italy – in quanto a causare la mancata fornitura sarebbe stato il rifiuto della Commissione Europea di accettare la sostituzione di Agmin con un altro produttore. Ad oggi la Corte non si è ancora espressa. La prima e l’ultima gara Consip (al 27 aprile 2020) per i Dpi con il materiale consegnato rispetto alla richiesta. L’ultimo aggiudicatario ad aver visto sfumare il contratto con Consip è la Italian Properties. Holding bresciana guidata da Marco Melega, 47enne cremonese, arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato siti per l’acquisto all’ingrosso di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. Dice di essere «stato profondamente turbato» dall’arresto e di «star affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti». In seguito all’annullamento dei contratti sono pochi i vincitori del maxi-appalto Consip che rimangono ancora in corsa. Tra di essi spicca la Holding Aleda Group, aggiudicataria di tutti i lotti dell’ultima gara Consip. Fa capo a due sorelle che producono e commercializzano vino nei Colli Romani. Nata a febbraio, il 23 marzo scorso l’azienda ha ampliato lo scopo sociale per comprendere appunto la fornitura di materiale sanitario e Dpi. Appena in tempo per consegnare l’offerta per la gara Consip chiusa il giorno successivo. Interpellata da IrpiMedia nelle settimane scorse, Alessia Consoli (socia al 50%) non ha fornito risposte. Qualche giorno fa, al Fatto Quotidiano, ha spiegato che avendo in Cina il mercato principale avevano contatti tali da poter garantire le forniture, di essere pronte ad onorare il contratto anche se ancora non avevano ricevuto da Consip l’ordine di acquisto.

Gare per le mascherine: ecco la nuova inchiesta. Valeria Pacelli e Nello Trocchia su Il Fatto Quotidiano il 25/04/2020. Consip. Sotto la lente dei pm di Roma la coop Indaco: via l'assegnazione per 4,5 milioni. Tra i vincitori vecchie conoscenze e ditte "riconvertite". Non c'è solo l'indagine su Antonello Ieffi, l'imprenditore accusato di inadempimento di contratti di pubbliche forniture e turbativa d' asta di una gara Consip per la fornitura di 24 milioni di mascherine e arrestato il 9 aprile. La Procura di Roma sta svolgendo accertamenti anche su un' ulteriore società che ha partecipato a un altro appalto indetto della stazione appaltante. Si tratta della cooperativa Indaco di Salvatore Micelli, che si è aggiudicata un lotto da 4 milioni e mezzo di euro per la fornitura di 7 milioni di mascherine. Affidamento sospeso dalla Consip, che ha effettuato i controlli - come sta facendo su tutte le aziende che partecipano alle gare - e che poi ha inviato una segnalazione in Procura. Della Indaco nei giorni scorsi si era occupata Piazzapulita (La7), svelando che Micelli è sotto inchiesta per truffa aggravata ai danni dello stato dalla Procura di Taranto con una condanna definitiva per calunnia. La cooperativa aveva partecipato alla gara indetta il 19 marzo per la "fornitura di mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione destinati all' emergenza Covid-19". Il primo arresto durante l' epidemia Coronavirus Diverso il caso Biocrea di cui, dal 2010 al febbraio 2020, è stato amministratore unico Antonello Ieffi. I suoi legali hanno fatto ricorso al Tribunale del Riesame per chiedere la scarcerazione. La Biocrea si era aggiudicata il lotto 6 di una gara Consip per la fornitura di oltre 24 milioni di mascherine (importo complessivo di 15,8 milioni di euro). La prima tranche di 3 milioni di mascherine doveva essere consegnata entro tre giorni dall' ordinativo. Mai arrivate. La Biocrea viene sospesa: la Consip, come spiegato nei giorni scorsi dai legali di Ieffi, "non recede dal contratto per un inadempimento ma perché in sede di partecipazione al bando il legale rappresentante della società aveva dichiarato che non aveva debito nei confronti dello Stato. Dalle verifiche effettuate è emerso che c' erano delle cartelle esattoriali per 150 mila". L' esclusione quindi riguarda una vecchia cartella esattoriale. L' imprenditore con l' obbligo di dimora revocato da poco Biocrea e Indaco non sono le uniche società sospese da Consip. C' è un' altra azienda che però non è oggetto di indagini e che ha partecipato alla gara indetta il 19 marzo, quella alla quale ha partecipato la Indaco. Consip ha revocato la società Italian Properties di Marco Melega: l' esclusione riguarda un debito di 600 euro con l' Inps. Fino al 10 marzo, a pochi giorni dalla gara Consip, Melega era sottoposto all' obbligo di dimora (misura revocata) in una inchiesta per truffa della Procura di Cremona che lo aveva portato in carcere nel luglio 2019 per truffa e riciclaggio. "I truffati - spiega Cesare Maragoni, comandante provinciale della Guardia di finanza di Cremona - sono diverse migliaia che compravano prodotti, a prezzi strabilianti, che poi non ricevevano. Melega ha precedenti, due condanne per omesso versamento dei contributi assistenziali e previdenziali". Accuse che Melega respinge. Gli esportatori di vini: "Pronti a fornire tutto" Alla fine, della gara del 19 marzo per la fornitura di mascherine, chi è rimasto? A vincere molti lotti è la società Holding Aleda Group. Si tratta di una società costituita a febbraio, inizio attività il 16 marzo. La famiglia ha una storica azienda di vini a due civici dalla sede di Aleda. "Aleda si occupa di importazioni. Abbiamo partecipato alla gara - spiega la proprietaria Alessia Consoli - perché facendo da anni export di vini ci siamo resi conti dell' esigenza enorme di mascherine, abbiamo esperienze e conoscenze in Cina dove abbiamo il nostro mercato principale". Ma avete fornito una mascherina? "No, ma siamo pronti, al momento non abbiamo ancora ricevuto da Consip l'ordine di acquisto". Altri lotti sono stati aggiudicati da Winner Italia, società che si occupa di abbigliamento da lavoro e prodotti per premiazioni: le forniture di questa azienda sono già regolarmente iniziate. A fine marzo un supermercato romano ha ricevuto la visita dei carabinieri dei Nas che hanno sequestrato 33 mila dispositivi che per come "vengono presentati risultano irregolari". A fornirle era stata proprio Winner che però non risulta coinvolta in alcuna indagine. "Siamo totalmente estranei. I prodotti che noi distribuiamo - assicura l' Ad Alessandro Di Vincenzo - sono tutti regolari".

Giù la maschera. Report Rai PUNTATA DEL 27/04/2020 di Giulio Valesini. Gli ospedali italiani hanno bisogno di milioni di mascherine per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Ma da chi, e soprattutto che cosa stiamo comprando? A fine marzo Consip ha fatto un bando da quasi 60 milioni di euro, ma Report ha scoperto che i certificati di garanzia presentati per ottenere il via libera, in diversi casi, erano falsi o non validi. Ad aggiudicarsi la gara sono state aziende che c’entrano ben poco col settore medico. Il mercato è impazzito, dalla Cina arriva di tutto e su internet girano offerte improbabili e certificazioni fasulle: il rischio di acquistare cianfrusaglie è sempre più alto.

“GIÙ LA MASCHERA” di Giulio Valesini e Lorenzo Vendemiale immagini Alfredo Farina e Paolo Palermo montaggio Giorgio Vallati e Riccardo Zoffoli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, da qualche tempo si è aperta la caccia alle mascherine. Ecco, avevamo denunciato noi di Report che non si trovano perché non si è messo in pratica il piano pandemico, quello che avrebbe dovuto prevedere la scorta. E quando le trovi, se le trovi, le paghi molto più del loro valore. E poi, se le trovi, sono così efficaci? È successo che il 19 marzo scorso la Consip ha indetto una gara per 25 milioni di mascherine. Si trattava per lo più di quelle chirurgiche, le FFP2 e P3, quelle con valvola, ed erano destinate al personale, infermieri e medici. Insomma bisognava essere certi. È possibile che la più grande stazione appaltante pubblica non faccia dei controlli? Insomma a noi ci sembrava un po’ strano, poi alla fine è emerso è come chiedere all’oste come è il tuo vino? I nostri Giulio Valesini e Lorenzo Vendemiale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra i fornitori che si sono aggiudicati la gara c’è Aleda Group, una holding costituita di fresco, a metà febbraio. La sede è a Olevano Romano, un paesino a pochi chilometri da Roma.

GIULIO VALESINI Cercavo Aleda Group…

SIGNORA Questa è vinicola Consoli.

GIULIO VALESINI E Aleda Group qual è?

SIGNORA Voi chi siete?

GIULIO VALESINI Report, Rai Tre. Non la conosce?

SIGNORA No.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I soci della Aleda Group sono le sorelle Consoli, famiglia nota da sempre per un’altra attività imprenditoriale: la produzione e la vendita dell’ottimo vino della zona.

MARESCIALLO CARABINIERI Buongiorno.

GIULIO VALESINI Buongiorno.

SIGNORA AL CANCELLO Salve maresciallo.

MARESCIALLO CARABINIERI Avete risolto?

GIULIO VALESINI Io ho citofonato.

MARESCIALLO CARABINIERI In azienda non deve andare.

GIULIO VALESINI Qui al 94 risulta un’azienda che è fornitrice per la Pubblica Amministrazione.

MARESCIALLO CARABINIERI Quello che risulta, risulta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Finalmente appare anche l’amministratrice di Aleda Group, la fortunata azienda che si è aggiudicata ben 9 lotti dell’ultimo bando Consip.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Le FFP3 con valvola sono 50 mila, le FFP3 senza valvola sono 80 mila, le FFP2 con valvola sono 50 mila. Le mascherine chirurgiche ne abbiamo proposte 14-15 milioni.

GIULIO VALESINI Ma se io vi chiedessi un prototipo di queste mascherine?

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP No, io non ce l’ho le mascherine.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per alcune di queste mascherine la ditta di Olevano vorrebbe rifornirsi dalla Cina, dalla Shenzhen Signfaith. E per partecipare alla gara Consip ha presentato un certificato dalla società bsi.

GIULIO VALESINI Noi abbiamo contattato l’ente certificatore che risulta essere stato depositato presso l’azienda che voi stessi avete dichiarato essere fornitori delle FFP2 e FFP3.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Ovvero?

GIULIO VALESINI La bsi.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Sì.

GIULIO VALESINI Giusto, le risulta?

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Ma voi come le avete queste informazioni?

GIULIO VALESINI Abbiamo studiato.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Eh bravi. E quindi?

GIULIO VALESINI La bsi dice: noi abbiamo rilasciato la marcature CE ad un’altra azienda.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Esatto. Infatti.

GIULIO VALESINI Non a quella che ha venduto a voi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dunque la bsi, non ha mai certificato le mascherine di Shenzhen Signfaith, l’azienda da cui si rifornirà Aleda. Ha invece certificato un’altra compagnia cinese, la Handan Hengyang, di cui Shenzen sostiene di essere distributore. Abbiamo contattato anche Handan, che però non conferma né smentisce: ci spiega che tante aziende utilizzano i loro certificati per mascherine fasulle, e prova perfino a venderci i suoi prodotti.

GIULIO VALESINI Voi vi siete buttati nel business…

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Io non mi sono buttata…

GIULIO VALESINI A me sembra di capire che le mascherine già non ci sono più. Già le hanno vendute le vostre. Che già ti stai informando su altre società…

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Ma io vorrei sapere ma a voi chi ve la da queste informazioni!

GIULIO VALESINI E vabbe dai…

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Voi avete qualcuno… io penso su questa cosa che le trattative in Consip debbano essere… no, io ce le ho! Le stesse mascherine ci solo. È solo che si sono allungati i tempi di produzione.

GIULIO VALESINI Avete intrapreso il business delle mascherine per spirito patriottico.

ALESSIA CONSOLI - AMMINISTRATRICE ALEDA GROUP Esattamente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra le certificazioni presentate dai vincitori della gara Consip, abbiamo trovato anomalie a partire dai marchi CE, come quello della Celab usato per un lotto di mascherine FFP2. Celab non può certificare prodotti destinati a medici e infermieri. Ma, la cosa inquietante è che chi ha messo il marchio lo ha fatto all’insaputa della Celab stessa.

GIULIO VALESINI Questo qua… C’è il suo nome, vede? Celab sotto la colonna marcatura CE. Vede?

MASSIMILIANO BERTOLDI - AMMINISTRATORE CELAB Questo numero corrisponde ad un’attività di natura certificativa sempre di carattere volontario. Ma non sono certificazioni che possono essere utilizzate per cose doganali o fini legali.

GIULIO VALESINI Che ci fa il nome di Celab tra gli enti notificati di una marcatura CE di dispositivi di protezione individuale?

MASSIMILIANO BERTOLDI - AMMINISTRATORE CELAB Questa è una bellissima domanda. Quello che penso è che sia nato un furioso copia e incolla.

GIULIO VALESINI Quindi lei mi sta dicendo che la certificazione CE a supporto di un lotto in questa gara pubblica è falso?

MASSIMILIANO BERTOLDI - AMMINISTRATORE CELAB È impossibile che un nostro documento possa essere usato nell’ambito di una gara pubblica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’importatore in questione è Innomed srl, un’azienda di Napoli specializzata nel settore, che però con noi scarica la responsabilità su qualcun altro, come in un perfetto gioco delle parti.

AMEDEO ESPOSITO– PROPRIETARIO INNOMED La Celab si era dichiarata ente notificatore per quel tipo di dispositivi, per quella tipologia di prodotto, ma non lo è.

LORENZO VENDEMIALE Mi perdoni, ma nell’ambiente lo sanno tutti che Celab non è ente notificato per fare marcatura per i dispositivi di protezioni individuale.

AMEDEO ESPOSITO – PROPRIETARIO INNOMED Io … non voglio nascondermi, non lo sapevo.

GIULIO VALESINI Come è andata la gara?

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP La gara è andata bene.

GIULIO VALESINI Sicuri? Io ho notato che tra le marcature Ce che sono state sottoposte su lotti che sono passati, ce n’è uno marcato dalla Celab. Lotto della Innomed. Ora la Celab è un ente che non può proprio per legge, certificare dispositivi di protezione individuale. Come mai non ve ne siete accorti?

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Allora, innanzitutto lei sta dicendo che non ce ne siamo accorti, ma in realtà noi i controlli non li abbiamo mica finiti.

GIULIO VALESINI Vabbè, finora non ve ne eravate accorti.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Non c’è un errore da parte di Consip, noi i controlli li stiamo ancora facendo.

GIULIO VALESINI Prima fate le aggiudicazioni e poi controllate?

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Si fa prima l’aggiudicazione, si fa il contratto, si parte immediatamente con l’esecuzione contrattuale e in fase di esecuzione contrattuale si fanno i controlli. Ovviamente il pagamento anche di un euro è subordinato all’esito positivo dei controlli.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sarà pure andata bene la gara come dice Consip, fatto è che dentro ci è finito di tutto. A cominciare da Salvatore Micelli, della Indaco Service, una cooperativa di Taranto che si occupava di accoglienza ai migranti. Si era aggiudicato con le mascherine una commessa pubblica da ben 4 milioni di euro. Micelli ha una condanna per calunnia alle spalle ed è indagato per truffa aggravata ai danni dello Stato. Nel 2015 era sul palco della Leopolda di Matteo Renzi per parlare dei problemi della sua Taranto.

SALVATORE MICELLI – COOPERATIVA INDACO SERVICE Io non piango, perché ovviamente mi viene soltanto da ridere pensando che questa possa essere l’Italia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per Micelli la revoca del contratto è scattata dopo pochi giorni dall’assegnazione. Ha problemi con la giustizia anche un altro vincitore della gara Consip per le mascherine, Marco Melega, imprenditore di Cremona, un passato nel settore discografico e l’anno scorso agli arresti domiciliari con l’accusa di truffe online, un’indagine ancora aperta.

GIULIO VALESINI Ma lei come le aveva trovate queste mascherine, quali canali aveva attivato?

MARCO MELEGA – ITALIAN PROPERTIES Ho sviluppato comunque un ufficio acquisti che è in grado di sopperire alle esigenze di migliaia di aziende e onestamente il fatto che nell’ambito di un’emergenza si decida di passare attraverso un bando di gara pubblico e in un mese non arrivi un ordine di fornitura, mi sembra assolutamente una cosa fuori di testa. Ieri abbiamo ricevuto la notifica dell’annullamento dell’aggiudicazione.

GIULIO VALESINI Come mai?

MARCO MELEGA – ITALIAN PROPERTIES Per un vizio di forma. Una cosa diciamo ridicola. GIULIO VALESINI Lei è accusato di truffa, di aver truffato parecchi consumatori che acquistavano dei prodotti e che poi non ricevevano nulla in cambio.

MARCO MELEGA – ITALIAN PROPERTIES Io sono assolutamente certo di poter dimostrare le mie ragioni negli ambiti competenti…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra i nomi degli aggiudicatari c’è anche Agmin srl, una società di Verona, riconducibile al costruttore romano Francesco Cucchiella. A lui fa riferimento anche Agmin Italia, che da anni lavora con L’ONU e la Cooperazione dello Sviluppo del ministero degli Esteri. Le mascherine di questa fornitura, però, hanno un problema: sono certificate da una società cinese non autorizzata per il mercato europeo.

FRANCESCO CUCCHIELLA – SOCIO INTEC SPA Non seguo io direttamente queste cose, non sono parte attiva nella società.

GIULIO VALESINI Però la società è sua…

FRANCESCO CUCCHIELLA – SOCIO INTEC SPA Mi occupo di altre cose, di un altro settore.

GIULIO VALESINI Però la società è la sua…

FRANCESCO CUCCHIELLA – SOCIO INTEC SPA Mi scusi, sto lavorando e sono in riunione, la saluto, buonasera.

GIULIO VALESINI Ma con chi posso parlare, dottore?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In effetti, il costruttore Francesco Cucchiella ha tanti interessi, anche nei paradisi fiscali. Come emerge dai registri dei Panama Papers, Cucchiella ha delle quote nella Honolulu Investments, una società inglese che porta fino all’isola di Man. Ed è anche il beneficiario di un trust aperto sull’isola.

VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE In emergenza la Consip ha detto facciamo partecipare chiunque. Si sono affacciati una marea di gente con certificati finti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Infatti il mercato delle mascherine è ormai fuori controllo. i prezzi sono triplicati. La Cina è praticamente l’unico produttore al mondo a cui rivolgersi e lì le aziende ormai fanno a gara per riconvertire la propria produzione: dall’inizio del 2020 sono state registrate quasi 40mila nuove aziende per fabbricare mascherine.

VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Questa è un’offerta che mi è arrivata oggi da un fornitore che offre una mascherina N95 - FFP3, che ovviamente è fasulla, perché la N95 è una FFP2.

GIULIO VALESINI Da dove vi arrivano queste offerte?

VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Arrivano tutte dalla Cina. Il problema più grosso è se questi prodotti un domani dovessero essere utilizzati dal nostro personale sanitario, sarebbero delle vere e proprie armi. Perché io che devo andare a combattere il Covid19 devo essere certo che la P2 o la P3 che indosso è una P3.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo provato a chiamarli anche noi questi produttori cinesi, per capire cosa ci offrono.

LORENZO VENDEMIALE Ho bisogno di FFP2 e FFP3, ma mi servono molti pezzi, circa 300mila.

DONGGUAN ZHIJIE AUTOMATION EQUIPMENT CO. LTD. 300mila li produciamo in un giorno.

LORENZO VENDEMIALE Quando pensate di potercele spedire in Italia?

DONGGUAN ZHIJIE AUTOMATION EQUIPMENT CO. LTD. Ora è molto lento, molto lento. Di solito ci vuole da 7 a 10 giorni, ma adesso è molto costoso. LORENZO VENDEMIALE La cosa più importante è: avete la marcatura CE?

DONGGUAN ZHIJIE AUTOMATION EQUIPMENT CO. LTD. Sì, certo.

LORENZO VENDEMIALE E da dove avete preso la marcatura?

DONGGUAN ZHIJIE AUTOMATION EQUIPMENT CO. LTD. Ci sono anche delle agenzie in Cina.

LORENZO VENDEMIALE Ma queste compagnie non sono accreditate in Europa.

DONGGUAN ZHIJIE AUTOMATION EQUIPMENT CO. LTD. Ma questo certificato può essere accettato in Europa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Solo che poi, per vendere in Europa e garantire la qualità dei prodotti indossati da medici e operatori delle forze dell’ordine, bisogna avere il bollino di qualità. E qualcuno disposto a venderti un pezzo di carta si trova sempre. Se n’è accorto Accredia, l’ente italiano di accreditamento. Tanto che è stato costretto a emanare una circolare per chiedere alle sue affiliate di smettere di rilasciare le cosiddette “certificazioni volontarie”, documenti che non valgono come le marcature CE.

FILIPPO TRIFILETTI – DIRETTORE GENERALE ACCREDIA C’è un problema serio. Anche la Commissione Europea, ha scritto al ministero dello Sviluppo Economico facendo anche dei nomi.

LORENZO VENDEMIALE Nomi di aziende.

FILIPPO TRIFILETTI – DIRETTORE GENERALE ACCREDIA Sì.

LORENZO VENDEMIALE E le avete in qualche maniera messe nel mirino queste aziende?

FILIPPO TRIFILETTI – DIRETTORE GENERALE ACCREDIA Ce le abbiamo.

LORENZOVENDEMIALE E che state facendo?

FILIPPO TRIFILETTI – DIRETTORE GENERALE ACCREDIA Quello che stiamo facendo va messo in relazione con il fatto che in questo momento c’è un blocco delle attività.

LORENZO VENDEMIALE Quindi adesso non state facendo niente?

FILIPPO TRIFILETTI – DIRETTORE GENERALE ACCREDIA Ove ci fosse un’attestazione tra virgolette irregolare emessa dopo il 7 aprile sarebbe una palese violazione di una direttiva che abbiamo dato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una di queste segnalazioni riguarda i certificati dell’azienda Ente Macchine. Nella mega gara Consip ci sono i loro documenti che però non sono delle vere marcature CE.

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE Abbiamo rilasciato un documento che si chiama documentation review che non è un certificato CE.

LORENZO VENDEMIALE Ah, quindi questo non è un certificato CE.

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE No.

LORENZO VENDEMIALE Il secondo certificato vostro ci risulta invece per un’azienda cinese di nome Hangzhou.

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE Esatto.

LORENZO VENDEMIALE E questo è un Certificato CE?

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE No, non è un certificato CE.

LORENZO VENDEMIALE Nemmeno questo?

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE No.

LORENZO VENDEMIALE Ma voi l’avete detto ai cinesi che queste non erano marcature CE?

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE Assolutamente sì, i cinesi sono perfettamente a conoscenza dell’utilizzo di questa documentazione.

LORENZO VENDEMIALE Ma quanti ne avete rilasciati di questi certificati, tra virgolette, “volontari”, che non sono marcature CE?

LUCA BEDONNI – ENTE CERTIFICAZIONE MACCHINE Svariati.

GIULIO VALESINI Guardi noi abbiamo soltanto una preoccupazione: che stiamo comprando dei prodotti che proteggano veramente i nostri operatori sanitari e che non stiamo comprando cianfrusaglie.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Nessuna delle mascherine dichiarate come oggetti che non avevano la funzionalità di mascherina chirurgica fanno parte di forniture Consip.

GIULIO VALESINI Lei in maniera elegante ha detto “qualcun altro ha preso la fregatura, non noi”.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Io rispondo ovviamente di quello che fa Consip.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In seguito alle nostre segnalazioni, Consip ha escluso cinque società su undici dalla gara e a oggi non è stata ancora chiesta una sola mascherina, non è stata fornita una sola mascherina. Per fortuna nelle gare precedenti, Consip aveva consegnato 20 milioni di mascherine e 2 mila 400 ventilatori polmonari. Abbiamo capito che il piatto è ricco, il giro d’affari intorno alle mascherine è veramente ghiotto. Sono tanti a partecipare, ma gira e rigira… insomma…

I soliti ignoti. Report Rai PUNTATA DEL 27/04/2020 di Manuele Bonaccorsi, collaborazione di Giusy Arena. Chi sono i grandi importatori di mascherine in Italia? E che prodotti offrono ai cittadini? L’emergenza Covid e il drammatico bisogno di dispositivi sanitari hanno offerto praterie per chi, con buone relazioni e qualche trucco, sta lavorando sul business del momento. Anche grazie a regole incerte e controlli superficiali. Report svela i nomi, e qualche neo, dei principali player di questo mercato. E cosa succede, invece, per l’esportazione di materiale sanitario? Teoricamente i materiali utili all’emergenza non potrebbero lasciare il paese. Ma è davvero così?

- Pubblichiamo le note ricevute in redazione da European Network Tlc e Inail

Spett.le Redazione Report Rispetto agli interrogativi posti nella vostra mail, probabilmente fondati su informazioni solo parziali, riteniamo preferibile fornirvi una risposta scritta anche nel rispetto dei vincoli di riservatezza che la nostra Società ha assunto contrattualmente .

1 . La nostra azienda si occupa di editoria periodica da oltre 8 anni e come tale ha da sempre intrattenuto rapporti commerciali con innumerevoli aziende cinesi per l’importazione di prodotti di varia natura (dall’abbigliamento, all’elettronica, alla cosmetica) da allegare alle pubblicazioni che stampiamo e celofaniamo.

2 . Relativamente al contratto con Protezione Civile del Lazio, il contratto ha avuto completa soddisfacente esecuzione compatibilmente con i tempi di sdoganamento che si sono rivelati più lunghi del previsto in ragione non della mancanza del marchio CE, ma della grande mole di lavoro che ha improvvisamente investito la struttura doganale di roma. 3.Per quanto riguarda il marchio CE i produttori cinesi - gli unici nell’emergenza a poter garantire grandi quantitativi di materiali - utilizzano gli standard produttivi previsti dalle direttive comunitarie per dispositivi medici e dispositivi di protezione individuale, rilasciando agli importatori una certificazione di compliance rispetto agli standard europei oltre ad inviare con la merce i test report svolti sui prodotti. Di ciò era evidentemente consapevole il nostro governo quando con il decreto del 17.3.2020 (stessa data del contratto a cui fate riferimento) ha concesso la possibilità di autorizzazione in deroga da parte dell’INAIL e dell’ISS. 4 . Quanto al ruolo ricoperto dal dott. Vittorio Farina, vi posso confermare il suo apporto consulenziale alla mia società, vista la sua ventennale esperienza maturata proprio nell’import- export con la Cina come peraltro ben noto ai principali editori italiani. Per qualsiasi altro chiarimento, nei limiti di riservatezza sopra accennati, saremo ben lieti di potervi fornire ulteriori delucidazioni. Buon lavoro Andelko Aleksic EUROPEAN NETWORK TLC S.r.l

INAIL Con riferimento all’intervista in giornata odierna di Manuele Bonaccorsi al dott. Fabrizio Benedetti, per una migliore rappresentazione delle informazioni richieste in merito alla istanza di European Network che ha portato alla validazione in deroga della semimaschera filtrante, categoria KN95 self-priming filter anti-particle respirator (without valve), marca EBEKang, n.9501, si specifica che è stato emesso parere positivo a seguito di valutazione dei valori riportati nei test report emessi da un laboratorio accreditato dal CNAS (ente di accreditamento della Repubblica Popolare Cinese), attraverso i quali è stato possibile accertare la rispondenza del DPI proposto ai requisiti della norma europea UNI EN UNI EN 149:2001+A1:2009. Ciò è stato fatto in perfetta aderenza ai criteri di valutazione che l’INAIL si è dato e che sono stati approvati dal Comitato Tecnico che l’Istituto ha costituito a seguito del mandato di cui al comma 3 dell’art. 15 del DL 17 marzo 2020, n. 18. Tale mandato include la valutazione di prodotti fabbricati in Italia o importati dall’estero. Deve rilevarsi che per quanto riguarda i DPI delle vie respiratorie pervengono quasi esclusivamente richieste di prodotti di importazione cinese. È noto che il processo di validazione avviene su base documentale, così come anche quello che svolge per le mascherine chirurgiche l’Istituto Superiore di Sanità. Su ogni richiesta i valutatori dell’INAIL pongono la massima attenzione. Non vengono presi in considerazione certificati rilasciati in ambito volontario o di non riconoscibile validità. L’attenzione è massima e siamo rigorosi nel consentire l’immissione sul mercato solo di dispositivi sicuri per chi opera nelle attività sanitarie e lavorative in emergenza COVID.

I SOLITI IGNOTI di Manuele Bonaccorsi e Giusy Arena immagini di Cristiano Forti e Paolo Palermo.

ERNICO GUARNA – UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Questo qua è un magazzino doganale e lì c’è un altro magazzino doganale. Sono molto grandi, solo che in questo momento ci sono solo mascherine dentro praticamente. Queste mascherine qua in questo momento vengono caricate sul volo militare che sta qua fuori. Queste qua sono le mascherine della Protezione Civile.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Hanno il marchio CE sulla confezione e non ce l’hanno riportato sul prodotto. Questa è una cosa un po’ strana perché da regolamento il marchio deve essere apposto sul prodotto e al momento la documentazione non è conforme: non può entrare in commercio così.

ERNICO GUARNA – UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Queste sono mascherine sempre destinate a Protezione Civile…. In questo caso invece, rispetto alle altre, il marchio CE è stampigliato sulla mascherina, però non ha la forma che dovrebbe avere: tra le due lettere c’è molto spazio.

MANUELE BONACCORSI Sono diversi i marchi?

ERNICO GUARNA – UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Sì, sono diverse anche la mascherine.

MANUELE BONACCORSI Questa è una tipica tecnica di contraffazione?

ERNICO GUARNA – UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Sì di solito il marchio CE lì dove non è… la Cina molte volte ci ha risposto che quello non è il marchio CE ma è China Export.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il marchio Europeo dovrebbe essere la garanzia di sicurezza. E alla Dogana spetta controllare che la merce rispetti le regole. Per iniziare cercano la partita iva dell’importatore, che ha venduto 5 milioni di mascherine, certificate come professionali e per gli ospedali, alla Protezione civile del Lazio, prezzo 3,50 l’una. Ma dall’oggetto sociale si intuisce che il commercio delle mascherine non è proprio il suo forte.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Dammi un po’ questa partita Iva…

ERNICO GUARNA – UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO 968

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Ok, ricerca. Ecco, perfetto: edizione riviste e periodici.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO È la società European Network srl, di Andelko Aleksic, cittadino croato, fino a ieri impegnato nella stampa di periodici come Eva tremila, Vip, Sirio e Astrella. Proprio mentre siamo là arriva la telefonata preoccupata della Regione Lazio. Vogliono capire se si tratta di “una sola”.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Comandante, dimmi…. Scusa, avrebbero mandato poco fa i certificati a noi? Adesso? Adesso andiamo a verificare...Mi hanno dato questo certificato qui, che altrettanto non è un certificato di marcatura CE.

MANUELE BONACCORSI Questo la Protezione Civile lo sa o no? Forse no.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Questo la Protezione Civile forse non lo sa. Io immagino che la Protezione Civile abbia acquistato mascherine con marchio CE.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi, a latere dell’intervista, ai doganalisti sfugge il nome di chi sta davvero trattando sulla partita di mascherine destinate alla Protezione Civile del Lazio.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO L'importatore mi aveva contattato dicendo che bisognava sdoganare di notte. Questo qui dice “stiamo facendo”, quindi come se l’azienda fosse sua. Però non so onestamente questo chi sia.

MANUELE BONACCORSI Farina… di nome?

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Vittorio.

MANUELE BONACCORSI Vittorio Farina.

DAVIDE MIGGIANO – DIRETTORE UFFICIO DOGANE ROMA 2 FIUMICINO Ma non so chi sia!

MANUELE BONACCORSI European Network, voi la conoscevate?

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO No, assolutamente no.

MANUELE BONACCORSI Voi, con chi l’avete trattata? Chi era l’intermediario, se lo ricorda? Avete parlato con un certo Vittorio Farina?

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO Guardi, questo Vittorio Farina ha chiamato quanto si trattava di gestire la logistica delle consegne.

MANUELE BONACCORSI Ma lei ha capito chi è questo Vittorio Farina? Noi stiamo provando a capirlo…

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO No, non abbiamo la più pallida idea.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Vittorio Farina, 64 anni, conosciuto come il re delle tipografie, è noto alle cronache con il crack di Ilte che stampava Pagine Gialle, per cui è sotto processo per bancarotta fraudolenta. In questo splendido palazzo a due passi da piazza di Spagna c’è il suo ufficio. Lo stesso in cui gestiva i suoi affari Luigi Bisignani, l’uomo dei Ferruzzi nella tangente Enimont. Farina e Bisignani d’altronde sono stati più volte soci d’affari. E Farina risulta anche tra i finanziatori della fondazione Open di Matteo Renzi, con 250mila euro.

MANUELE BONACCORSI Vittorio Farina, di European Network?

VITTORIO FARINA – IMPRENDITORE Sì. MANUELE BONACCORSI Lei è lo stesso Vittorio Farina, noto come il re delle tipografie?

VITTORIO FARINA – IMPRENDITORE Pronto… MANUELE BONACCORSI Mi sente?

VITTORIO FARINA – IMPRENDITORE No. Sento male.

MANUELE BONACCORSI Pronto?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Le mascherine di European Network vengono poi analizzate dall’Inail, che dà il via libera al loro uso. Ma non si tratta di una verifica molto approfondita…

FABRIZIO BENEDETTI – COORD. CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL A noi mandano una autocertificazione, poi dobbiamo verificare su base documentale se c’è rispondenza tra il prodotto e i requisiti previsti dalle norme.

MANUELE BONACCORSI Nessuno le verifica queste mascherine quindi tecnicamente? Se resistono?

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Da un punto di vista pratico le mascherine sono testate dal laboratorio che emana i test report che ci vengono mandati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E di quali laboratori si tratta? Sono laboratori non accreditati, risulta dai documenti, come ci spiega il dirigente dell’Inail a latere dell’intervista.

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Non è accreditato specificatamente per i Dpi; peraltro i laboratori cinesi nessuno è…

MANUELE BONACCORSI Perché questo è un laboratorio cinese?

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Sì, sì sì. Dopodiché non ci sono nemmeno i laboratori in Italia per fare le prove. Ringraziamo Dio che ci sono i laboratori cinesi! Noi ci siamo fidati.

MANUELE BONACCORSI Ma voi fate la telefonata…

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI, INAIL A chi?

MANUELE BONACCORSI In Cina. FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL (Ride) E faccio una telefonata in Cina?!

MANUELE BONACCORSI Che ne so, per chiedere a voi risulta…

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL A volte scriviamo, scriviamo, mandiamo le cose. Qualcuno risponde, qualcuno non risponde. Poi se hanno proprio falsificato alla meglio, noi vediamo sempre una scansione, eh. Per cui, come dire se lei mi dice “è sicuro al 100 per cento?”, 99 per cento.

MANUELE BONACCORSI Però, qual è il problema: se io do questa mascherina qui e il certificato che voi avevate analizzato era fasullo e quello lì ci va in corsia Covid…

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Cominciamo col dire che qualcuno ha autorizzato quelle per andare in corsia Covid.

MANUELE BONACCORSI Si vabbè…

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Scusi mo’ io qua ce ne ho una mia, eh? Questa la uso. È chiaramente tarocca - io lo so, non è che non lo so, eh - ma è meglio di quella.

MANUELE BONACCORSI La posso vedere questa tarocca?

FABRIZIO BENEDETTI – COORDINATORE CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL L’ho usata se non gliela regalavo pure, è tarocchissima! Non c’ha nessun rischio, io l’ho comprata così. Mi serve perché non ne ho un’altra e la uso.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Se le mascherine professionali vengono controllate così, quelle che acquistiamo nel negozio sotto casa chi le controlla?

NEGOZIANTE Che le serviva a lei?

GIUSY ARENA Mascherine …. Ma sono certificate?

NEGOZIANTE C’è scritto fuori signora, se lei guarda sulla vetrina c’è la certificazione delle mascherine. Viene da Tor Vergata, c’è tanto di timbro lì, eh!

GIUSY ARENA Il prezzo è piuttosto alto.

NEGOZIANTE Così le paghiamo. Come le paghiamo, le dobbiamo vendere, signora.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La fonte è autorevole, il costo elevato: 4,50 euro. Ma il fatto che l’abbia certificata il laboratorio di un’università come Tor Vergata ci dovrebbe rassicurare. Poi però ci viene un dubbio…

GIUSY ARENA Non c’è scritto nulla.

VALERIA CONTE – DIR. DIPARTIMENTO SCIENZE - UNIVERSITÀ TOR VERGATA Noi non abbiamo mai certificato niente, noi non siamo un ente certificatore! Sono state fatte delle prove scientifiche preliminari.

MANUELE BONACCORSI Quindi comunque non potrebbe ottenere una certificazione?

VALERIA CONTE – DIR. DIPARTIMENTO SCIENZE - UNIVERSITÀ TOR VERGATA Questa misura non ha niente a che vedere con quelle che sono le misure UNI per certificare. Abbiamo mandato quella documentazione in maniera riservata a una azienda che si chiama Punto int.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Punto int è una società di Cristiano Baghino e di suo padre, piccoli imprenditori romani che in questo pezzo sul Corriere annunciano di cucirle tutte da soli.

MANUELE BONACCORSI Salve è permesso? Cercavo il signor Baghino. GIORGIO BAGHINO Sì, sono io.

MANUELE BONACCORSI Le produce lei queste mascherine?

GIORGIO BAGHINO Sì, sì. Queste il dipartimento ce le ha testate in amicizia.

MANUELE BONACCORSI In amicizia… senta, ma l’ha data lei questa documentazione al negoziante evidentemente? Sennò come poteva averla?

GIORGIO BAGHINO Eh, da qualcuno è uscita, perché questa non…

MANUELE BONACCORSI Immagino l’abbia data lei se no chi gliel'ha data? GIORGIO BAGHINO Sì, ma questa è una cosa interna…

MANUELE BONACCORSI Poi a 4,50 secondo me è dovuto all’uso di questa certificazione qui.

GIORGIO BAGHINO No, sono dei ladri!

CRISTIANO BAGHINO – PUNTO INT SRL Non è una chirurgica, lo dico mille volte, è una cosa di bellezza! La mia mascherina è carina perché è colorata. Se la gente è disonesta io cosa ci posso fare?

MANUELE BONACCORSI Senta, sulla sua onestà non c’è alcun dubbio, però lei risulta socio di Raimondo Landi, sulla cui onestà invece qualche dubbio c’è.

CRISTIANO BAGHINO – PUNTO INT SRL Chi è Raimondo Landi, oh?!

MANUELE BONACCORSI Finax, una società di cui lei fa parte, no? La Finax…

CRISTIANO BAGHINO – PUNTO INT SRL Oooh, la vecchia società Finax!

MANUELE BONACCORSI Lei non lo conosce?

CRISTIANO BAGHINO – PUNTO INT SRL No, personalmente no.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L'amministratore unico della Finax è Raimondo Landi, noto alle cronache per la bancarotta di Eutelia, la quinta compagnia telefonica italiana: fatto per cui è già stato condannato in via definitiva con patteggiamento. Altro socio di Baghino e Landi in Finax è Fabrizio Macchia, che con la sua Apogeo, una srl con 53mila euro di capitale sociale, ha gestito l’acquisto di milioni di mascherine per conto della Protezione civile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quando segui la traccia dei soldi, poi sempre là arrivi, all’alta finanza. Allo stampatore finito sotto processo, amico del faccendiere evergreen Luigi Bisignani. E poi sotto l’emergenza si scappa anche l’equivoco: il piccolo imprenditore che cuce lui le mascherine. Dice per carità sono solamente per fini estetici, per bellezza, ma poi vengono vendute con certificazioni finte. Insomma, sotto l’emergenza abbiamo capito che si allentano anche i controlli. Anche chi dovrebbe controllare, lo fa? A vista o su carta, che poi non è neppure l’originale, ma è una scannerizzata dal cinese. Insomma… anche quello deve controllare come l’ispettore dell’Inail ammette in maniera disarmante “anch’io vado in giro con la mascherina taroccata, farlocca”. Insomma, però quella abbiamo, usiamola. Limiterà i danni. E poi incrociamo le dita.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 28 aprile 2020. Per adesso sono solo numeri. Dai 50 centesimi per una mascherina chirurgica da vendere in farmacia ai milioni di dispositivi che dovrebbero arrivare tra qualche settimana in Italia. Nel frattempo c'è il caos, tra i farmacisti che non vogliono vendere per mezzo euro, quello che hanno pagato dai fornitori ad un prezzo più alto, e i diversi produttori italiani che non riescono a stare dentro quei costi. E adesso appare chiaro che dietro il progetto del prezzo calmierato annunciato ieri dal Commissario straordinario Domenico Arcuri, dopo l'anticipazione di domenica del premier Giuseppe Conte, si nascondono non poche insidie.  Prima tra tutte la capacità di riuscire, effettivamente, ad approvvigionare gli italiani alle condizione annunciate. Se infatti il piano non dovesse andare in porto partirebbe una speculazione, perché la caccia alle chirurgiche renderebbe ancora più volatile il prezzo di un prodotto già esposto alle turbolenze del mercato internazionale. Inoltre, in assenza di un flusso costante del presidio, e pur di non uscire scoperti, molti cittadini sarebbero costretti a virare sulle più costose ffp2 (6-10 euro a pezzo). Esiste poi il pericolo, come rivela un investigatore, che si riversino sull'Italia mascherine simil chirurgiche: insomma imitazioni, dall'aspetto che combacia con le originali, ma in realtà assemblate con tessuti che non hanno la reale capacità filtrante che dovrebbero avere per garantire la sicurezza di chi le indossa. Di certo il prezzo annunciato ieri ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti italiani che ogni giorno combattono la battaglia per cercare di trovarne qualcuna. La domanda, però, che in molti si fanno è quanto sia realizzabile il progetto presentato da Arcuri. Demagogico era la parola che ieri correva sulla bocca di molti per definire il piano. Per la Confcommercio, infatti, la cifra «non sta né in cielo né in terra».  La vicepresidente Donatella Prampolini è andata all'attacco sul costo di 50 centesimi, rilevando che le aziende hanno in carico le mascherine a un prezzo maggiore, chiede di portarlo almeno a 60 centesimi: «Altrimenti l'effetto immediato sarà che smetteremo di importarle» e «intanto molte aziende hanno bloccato vendite e ordini». Anche per la Cna Federmoda le mascherine a «50 centesimi affondano la nostra industria» e per il Governatore del Veneto Zaia «tutta la produzione rischia di sparire». Arcuri, però, ha assicurato che sarà garantito un «ristoro e forniture aggiuntive tali da riportare la spesa sostenuta, per ogni singola mascherina, al di sotto del prezzo massimo deciso dall'esecutivo». Inoltre in arrivo nelle prossime settimane sul mercato italiano - ha annunciato sempre Arcuri - ci sarebbero 660 milioni di chirurgiche ad un prezzo medio di 38 centesimi al pezzo. A produrle saranno cinque aziende italiane - la Fab, la Marobe, la Mediberg, la Parmon e la Veneta Distribuzione che hanno già siglato i contratti con il Commissario straordinario. Intanto, però, molte medie e piccole imprese italiane che si erano convertite alla realizzazione di mascherine rischiano la serrata. «Il prezzo minimo a cui riesco a venderle è 97 centesimi a pezzo», spiega Edoardo Pietri, titolare dell'azienda il Ghiro. «Ho già bloccato la fabbricazione, dentro quei costi non riusciamo a realizzarle». Pietri è deluso: «avevamo stabilito un prezzo etico e adesso ci dicono che siamo dei ladri, ma produrle a meno è impossibile, ne va della qualità». Inoltre, per molte società che lavorano con l'estero, con i tariffari indicati dal governo è difficile importare le chirurgiche: «Solo il trasposto aereo dall'Asia all'Italia incide per almeno 15 centesimi a pezzo» spiega un fornitore. Insomma la fase 2 è alle porte, il Paese è sempre più affamato di mascherine, e oltre a fissare il prezzo finale, Arcuri dovrà vigilare attentamente per evitare che anche l'acquisto di questi presidi di trasformi in un business per la criminalità.

Da leggo.it il 28 aprile 2020. Il commissario Domenico Arcuri in conferenza stampa alla Protezione Civile ha aggiornato sulla situazione della pandemia di coronavirus, parlando della fase 2, delle mascherine, della app e dei pericoli di una seconda ondata dopo la fine del lockdown. «Mancano 6 giorni al 4 maggio, conoscete le decisioni del governo, inizia un graduale alleggerimento delle misure di contenimento che tutti abbiamo dovuto sopportare», ha detto Arcuri. «Resto un convinto assertore di prudenza e cautela, penso sia necessario aver cura di noi stessi e dei nostri cari e che i fatti valgono più dei nostri desideri. Non si può attendere che il rischio sia pari a zero per uscire dal lockdown, avete ragione, ma non ci si può illudere di uscirne sottovalutando i rischi che corriamo», ha aggiunto. «Da lunedì potremmo distribuire 12 milioni di mascherine al giorno, tre volte l'attuale fornitura. Dal mese di giugno arriveremo a 18 milioni, dal mese di luglio 25 milioni e quando inizieranno le scuole a settembre potremmo distribuire 30 milioni di mascherine al giorno, undici volte quel che distribuivamo all'inizio dell'emergenza». «Avrei tanta voglia di parlare dalla trincea in cui da 40 giorni mi trovo con il dottor Borrelli e i nostri collaboratori, di parlare dei liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktail in mano. Ma non lo farò, il mio dovere è lavorare», ha detto Arcuri polemizzando con chi «dice che il prezzo delle mascherine lo fa il mercato, sorseggiando i loro centrifugati». «Lo Stato deve acquistare tutte le mascherine che trova. Ho fissato il prezzo massimo nell'interesse dei cittadini, non ho fissato il prezzo massimo di acquisto. Lo Stato deve incentivare la produzione italiana, come con il 'Cura Italià: abbiamo rassicurato i produttori che compreremo tutto quello che produrranno. In 105 ci hanno ringraziato, solo uno ha avuto qualche dubbio». «Lo Stato deve produrre tutte le mascherine che può e incentivare la produzione, l'idea che fissare un prezzo massimo abbatta la capacità dell'impresa italiana di produrne è superficiale o assai poco informata - aggiunge -. È economia di guerra? No, è senso civico. È per sempre? No, finché il mercato non sarà libero. È un danno per i vergognosi speculatori, lo rivendico. Non ci saranno più le mascherine nelle farmacie e nei supermercati? Certo, nessuna che costi più di 0,50 euro». «Il Premier Conte ha dato una molteplicità di informazioni ai cittadini come il momento richiedeva, non ha fatto cenno alla app di contact tracing, ma non significa che il lavoro non proceda: stasera abbiamo una riunione di coordinamento. La app si avvarrà di tecnologia bluetooth e non c'è nessuna controindicazione. A maggio con le prime funzionalità, cioè il contact tracing, sarà in funzione, in tempi ravvicinati saranno attive anche le funzionalità più vicine al diario clinico», cioè la connessione con il Sistema sanitario nazionale. «A maggio quando? A maggio, può essere anche il primo maggio...», ha precisato sorridendo Arcuri dopo la conferenza stampa ai giornalisti che chiedevano dettagli sui tempi di attivazione della app. Quanto al funzionamento dell'applicazione, «allo stato attuale l'alert (l'avviso che hai avuto un contatto con un positivo, ndr) arriva al cittadino - ha spiegato il commissario - ed è quest'ultimo protagonista del percorso sanitario», insomma non è la Asl ad avvisarti, ma il contrario. «Ovviamente se non c'è tempestività tra la segnalazione e il tampone non abbiamo raggiunto l'obiettivo di contact tracing - ha detto ancora Arcuri in conferenza stampa -, dunque è necessario essere sottoposti ai tamponi. Anche se sai che se sei negativo potresti poi diventare positivo in seguito. Gli scienziati ci dicono che il tempo minimo certo per essere a rischio contagio è di 15 minuti, la distanza di rischio tra un metro e due metri, ma meglio ragionare sui due metri». Non è stato ancora deciso se i dati raccolti dalla App per il contact tracing saranno conservati sui device dei cittadini o su un server pubblico, ha spiegato Arcuri sottolineando che ovviamente la scelta verrà fatta prima che 'Immuni' venga attivata. «Al momento dello sviluppo si potrà decidere se lasciarli sul telefonino e/o su un server pubblico e italiano - ha detto - In ogni caso non cambia nulla sulla piena e assoluta garanzia della privacy» in quanto i «dati sono criptati». «Negli ultimi due giorni abbiamo definito il campione per il test seriologico con Istat e Inail, fino a individuare 150 mila cittadini divisi per categorie che a titolo gratuito vi si sottoporranno. Distribuiremo i test alle singole regioni, che hanno già i loro laboratori accreditati, comunicheremo insieme dove sono e nel più breve tempo possibile faremo i test. Poi verificheremo per una seconda ondata di test e valuteremo se calmierare anche il prezzo dei test, per ora non è necessario». A ieri sono stati distribuiti alle Regioni 2,5 milioni di tamponi e ne sono stati effettuati oltre 1,7 milioni, ha detto il commissario per l'emergenza Domenico Arcuri sottolieando dunque che le Regioni «hanno ancora a disposizione 800mila tamponi». «Continueremo con una massiccia distribuzione - ha aggiunto - per essere certi che ce ne sia sempre una quantità sufficiente». L'Italia «è il primo paese al mondo per tamponi fatti in relazione al numero di abitanti», ha aggiunto sottolineando che «sono ancora pochi e ne dovranno esser fatti di più, ma facciamo pace con noi stessi e mettiamo i cittadini nelle condizioni di avere tutte le informazioni e le risposte che meritano». Secondo i dati del Commissario, in Italia sono stati fatti ieri 2.960 tamponi ogni centomila abitanti, in Germania 2.474, «il 20% in meno», in Gran Bretagna 1.061, un terzo dell'Italia, e in Francia 560, un sesto del nostro paese. I dati che arrivano dalla Germania dimostrano come sia alto il rischio di tornare ad un lockdown totale se mi alleggeriscono troppo in fretta le misure di contenimento prese, ha detto ancora Arcuri commentando la notizia che l' R con zero, l'indice di contagiosità del virus, è tornato a salire in Germania da 0,7 a 1,1 . «Il governo sta valutando se definire di nuovo delle zone rosse per evitare l'estensione di nuovi focolai di infezione, che riprendono a manifestarsi - ha aggiunto - Ecco perché uscire dal lockdown non è facile ed ecco perché essere costretti a tornare al lockdown non sarebbe difficile».

Da ansa.it il 29 aprile 2020. Il Gruppo Crai al quale fanno capo le insegne Crai, Pellicano, Caddy's, IperSoap, Pilato, Proshop, Risparmio Casa, Saponi e Profumi, Shuki e Smoll, ha annunciato che "si vede costretto a ritirare dalla vendita, dai negozi del Gruppo, le mascherine chirurgiche" a causa del prezzo imposto massimo di 50 centesimi. "Siamo nell'impossibilità -si afferma- di vendere le mascherine ad un prezzo inferiore al loro costo di acquisto. Confidiamo che il governo voglia risolvere al più presto tale situazione in modo da consentirci di riprendere la vendita delle mascherine in questione".

Puglia, beffa mascherine a 50 cent. «Non si trovano». I farmacisti: non ce le danno. Al momento non sono disponibili neppure presso i produttori. La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Maggio 2020. «Eliminare l’Iva, perché le mascherine non costano davvero 50 centesimi ma 61 e procedere all’effettiva messa in disponibilità delle mascherine, che al momento non sono disponibili neppure presso i produttori». Sono alcune delle proposte del vicepresidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani e presidente dell’ordine dei farmacisti di Bari e BAT, Luigi D’Ambrosio Lettieri. «I farmacisti sono anche disponibili alla distribuzione gratuita delle mascherine», evidenzia purché «le fornisca il governo». Per Lettieri «i farmacisti sono stati mandati a combattere una guerra al fronte, senza armi, e hanno dovuto procurarsi da soli le mascherine, e in questo contesto sono fioccate le multe" e i «verbali per i problemi sulle conformità». «I farmacisti - aggiunge - pretendono rispetto e riconoscimento dell’attività che stanno svolgendo al servizio della comunità, in una situazione di emergenza nella quale hanno dato più che sufficiente prova di zelo, competenza e coraggio». E conclude: "Sono sdegnati da questo pessimo modo di gestire la vicenda e le mascherine non vorrebbero darle. Se la patria chiama, i farmacisti rispondono come hanno già fatto, ma metteteci nella condizione di fare le cose per bene». «A nessuno si può chiedere di comprare una cosa a un prezzo superiore di quello che poi dev'essere il prezzo di cessione, penso sia una cosa normale: per questo» prima di fare altri ordini «aspettiamo che venga prodotta la “mascherina Italià che dovremmo pagare 40 centesimi». Così il presidente di Federmarma Puglia, Vito Novielli, spiega l’attuale assenza di mascherine chirurgiche nelle farmacie, quelle per cui è stato imposto un prezzo massimo di 50 centesimi. Anche se i farmacisti precisano che si tratta di 61 centesimi, considerando anche l’Iva. «Le mascherine che noi avevamo - evidenzia Novielli - le abbiamo comprate a un prezzo superiore, ciononostante non abbiamo esitato a cederle a 61 centesimi, così come prevede l'ordinanza del commissario Arcuri. Terminate quelle scorte in farmacia, non le abbiamo più ricomprate. Io e tanti colleghi abbiamo adottato questo criterio: cediamo quello che abbiamo, saremo o no rimborsati, ma nel riacquisto aspettiamo sia messa in commercio questa 'mascherina Italia”, prodotta da aziende italiane autorizzate a farlo, che noi dovremmo acquistare a 40 centesimi più questa benedetta Iva». «Noi - conclude - abbiamo chiesto di eliminarla, ma ancora oggi ferma al 22%, la stessa Iva dei gioielli».

MASCHERINE INTROVABILI - Le mascherine chirurgiche, quelle per cui è stato imposto un prezzo massimo di 50 centesimi, «sono diventate introvabili». Lo confermano alcuni farmacisti pugliesi evidenziando che anche per loro «è impossibile pagarle a quel prezzo, mentre la gente pretende di pagarle quanto ha sentito dire da Conte nel discorso in tv, e ci accusa di voler speculare». «In realtà - sottolinea il titolare di due farmacie, in provincia di Bari e di Foggia - dalle mascherine non è stata tolta l’Iva al 22%, quindi il prezzo al quale è possibile venderle è a 61 centesimi. Ma gli unici che ci consentono un minimo di guadagno sono i grossisti, che le vendono a noi a 40 centesimi, ma ormai hanno esaurito le scorte». «Ieri - aggiunge il farmacista - ne ho avute solo 50 e le ho vendute in cinque minuti. Oggi me ne arrivano altre 30 e sono già tutte prenotate». I farmacisti denunciano anche «molta confusione sulle pratiche di rimborso per ottenere dal governo la differenza di prezzo delle mascherine che, ad esempio, erano già in magazzino prima che fosse fissato il prezzo di 50 centesimi, o di quelle che sono «costretti a pagare anche tre euro e a rivendere a molto meno». «Quelle che avevamo - sottolineano - le abbiamo pagate 1,50 centesimi e le abbiamo vendute a 61 centesimi, tra le proteste dei clienti. Ora dobbiamo sperare che il governo, chissà quando, ci rimborsi». La dottoressa Valeria Berrino, titolare della Farmacia San Nicola, nel centro di Bari, spiega che «la pratica per il rimborso è complicatissima». E aggiunge di aver trovato con difficoltà una confezione di mascherine chirurgiche a 50 centesimi e di averle vendute tutte «al prezzo di costo». «Però - precisa - non lo farò più, infatti sto puntando su quelle lavabili e certificate con il marchio Ce: le prendo da un’azienda dell’Abruzzo a 3,60 euro più Iva e le vendo a circa 8 euro: per me - conclude - questo è il futuro, anche perché quelle chirurgiche andrebbero buttate dopo quattro ore».

FEDERFARMA PUGLIA: «STOP ORDINI, PREZZI ALTI» - «A nessuno si può chiedere di comprare una cosa a un prezzo superiore di quello che poi dev'essere il prezzo di cessione, penso sia una cosa normale: per questo» prima di fare altri ordini «aspettiamo che venga prodotta la “mascherina Itali” che dovremmo pagare 40 centesimi». Così il presidente di Federmarma Puglia, Vito Novielli, spiega l’attuale assenza di mascherine chirurgiche nelle farmacie, quelle per cui è stato imposto un prezzo massimo di 50 centesimi. Anche se i farmacisti precisano che si tratta di 61 centesimi, considerando anche l’Iva. «Le mascherine che noi avevamo - evidenzia Novielli - le abbiamo comprate a un prezzo superiore, ciononostante non abbiamo esitato a cederle a 61 centesimi, così come prevede l'ordinanza del commissario Arcuri. Terminate quelle scorte in farmacia, non le abbiamo più ricomprate. Io e tanti colleghi abbiamo adottato questo criterio: cediamo quello che abbiamo, saremo o no rimborsati, ma nel riacquisto aspettiamo sia messa in commercio questa “mascherina Italia”, prodotta da aziende italiane autorizzate a farlo, che noi dovremmo acquistare a 40 centesimi più questa benedetta Iva». «Noi - conclude - abbiamo chiesto di eliminarla, ma ancora oggi ferma al 22%, la stessa Iva dei gioielli». 

Mascherine, caos sul prezzo. "Insostenibili i 50 centesimi". Rimborso per i farmacisti, ma produttori e grossisti si ribellano al diktat governativo: "Così ci rimettiamo". Marta Bravi, Martedì 28/04/2020 su Il Giornale.  L'ordinanza del commissario straordinario per l'emergenza Covid-19 Domenico Arcuri, e ancora prima l'annuncio del premier Giuseppe Conte domenica sera, che fissa a cinquanta centesimi il prezzo di vendita al pubblico delle mascherine, ha scatenato un putiferio. Soprattutto perché l'imposizione del prezzo è stata decisa senza consultare le categorie e le stesse fabbriche che hanno convertito la produzione, in accordo con lo stesso commissario. Consulenti, titolari di fabbriche, importatori, farmacisti: tutti concordi sul fatto che 50 centesimi non sia un prezzo sostenibile. «Il costo medio per la sola produzione di mascherine chirurgiche certificate, cioè considerate dispositivi sanitari, si aggira sui 40 centesimi. È quindi impensabile vendere al consumatore mascherine a 50 centesimi, un prezzo che non tiene conto del passaggio dal grossista e dal rivenditore», spiega Rosalba Calabrese, titolare di un'azienda di Quarrata nel Pistoiese che ha adattato la produzione di macchine da cucire per confezionare le mascherine. «Un prezzo equo di vendita finale potrebbe essere un euro, non meno di 90 centesimi. Questa mattina - racconta - ci sono stati cancellati gli ordini per le nostre macchine e le aziende convertite minacciano di bruciare la produzione, piuttosto che vendere i loro prodotti a quel prezzo». Così la vicepresidente di Confcommercio, Donatella Prampolini ha sottolineato che «con le attuali dinamiche di mercato il prezzo massimo di 50 centesimi è una cifra che non sta né in cielo né in terra». Le aziende hanno in carico le mascherine a un prezzo maggiore e chiede di rivederla portandola almeno a 60 centesimi. «Altrimenti - spiega - effetto immediato sarà che smetteremo di importarle. Intanto molte aziende hanno bloccato vendite e ordini». Il mercato dei dispositivi di protezione corre su due binari: interno grazie alla conversione della produzione delle nostre fabbriche ed estero, con l'importazione. La produzione interna è insufficiente. Secondo Matteo Oriani, consulente per le relazioni istituzionali ed esperto di normative, ci sono diversi problemi nel decreto. «Innanzitutto chi ha comprato le mascherine le ha acquistate a un prezzo più alto. A Pasqua su un ordine dalla Cina di 250mila pezzi una singola mascherina costava 40 centesimi, 32 per acquisti superiori a un milione di pezzi». E la Cina, come è noto, chiede il 50 per cento del pagamento all'ordine e il resto a sdoganamento avvenuto, quindi molti importatori hanno dovuto anticipare la cassa. «All'ordine va aggiunto il costo del trasporto aereo, passato da 4 dollari al chilo a 16 dollari. Non solo - continua - l'Italia continua a imporre dazi al 6,7 per cento, nonostante l'Europa abbia dato l'autorizzazione alla cancellazione». Facendo due conti: 50 centesimi sono un prezzo imposto su una merce che fino a due giorni fa è costata di più. E se i farmacisti, grazie all'accordo siglato nel pomeriggio tra il commissario Arcuri, l'Ordine, Federfarma e Assofarm, «avranno un ristoro e assicurate forniture aggiuntive tali da riportare la spesa sostenuta, per ogni singola mascherina, al di sotto del prezzo massimo deciso dal Governo» così non sarà per gli importatori e i grossisti, o appunto le aziende che le producono, per forza di cose, a un costo maggiore. Tanto per dare l'idea il costo dei macchinari è passato da 70mila euro a 130mila euro, che con le tasse lievita fino a 150mila euro. Raddoppiati anche i costi dei tessuti. «Con il business plan modificati il rischio è che saltino le aziende e gli importatori - conclude Oriani - e che in Italia non si trovino più dispositivi». «Un governo serio non può scherzare sulla pelle degli imprenditori italiani che in un momento di emergenza hanno fatto una scelta importante per il bene della Nazione», commenta Alessandro de Chirico, consigliere milanese di Forza Italia. Fatto l'accordo rimane il nodo dell'Iva: «È imprescindibile abbassare l'Iva che oggi è al 22 per cento, come un bene di lusso», attacca Andrea Mandelli, presidente della Federazione dell'Ordine dei farmacisti.

Chi ha donato più mascherine all'Italia. Guidi Fontanelli l'8/4/2020 su Panorama. Dopo essere stata l'epicentro della pandemia del nuovo Coronavirus, la Cina sta cercando di scrollarsi di dosso l'immagine dell'untore regalando tonnellate di mascherine e attrezzature mediche ai Paesi più colpiti. Tra i quali c'è naturalmente l'Italia. Un'operazione di pubbliche relazioni che sta funzionando, tanto da far apparire l'Europa molto meno generosa rispetto alla Repubblica popolare. Ma le cose stanno davvero così? Abbiamo chiesto alla Protezione civile l'elenco dei materiali ricevuti gratuitamente da altri Paesi. Al 6 aprile le donazioni arrivate da Paesi esteri attraverso contatti con il Dipartimento della Protezione civile comprendevano diversi prodotti: mascherine, gel disinfettante, tute, guanti, occhiali protettivi, ventilatori polmonari, medicinali. Prendiamo le mascherine: al primo posto ci sono in effetti ben 2,3 milioni di mascherine arrivate dalla Cina, seguite dal milione regalato dalla Francia, dalle 500 mila donate da Egitto e altrettante da Taiwan. Apparentemente la Cina batte tutti. Ma vanno fatti due distinguo. Il primo: di queste 2,3 milioni di mascherine, solo 100 mila sono arrivate direttamente dalla Cina alla Protezione civile italiana mentre 2,2 milioni sono state donate all'Unione europea, che poi le ha girate all'Italia. La consegna di questa enorme ammontare di mascherine è frutto infatti di un accordo tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il premier cinese Li Keqiang. A seguito della donazione diretta dalla Cina all'Ue, il Centro di coordinamento della risposta alle emergenze le ha distribuiite in Italia. "Pechino non ha dimenticato che a gennaio, nel pieno dello scoppio del virus in Cina, l'Unione europea ha dato il suo contributo. Abbiamo rapidamente donato più di 50 tonnellate di attrezzatura protettiva" ha sottolineato il premier cinese. Il secondo distinguo riguarda chi può permettersi di donare materiale in questo momento: mentre oggi per un Paese europeo è difficile privarsi di mascherine nel pieno dell'emergenza, per la Cina invece è più facile. Come ricorda il New York Times la Cina produceva la metà delle mascherine del mondo prima che il coronavirus emergesse sul suo territorio, e da allora ha ampliato la produzione di quasi 12 volte. Quindi alla fine, pur senza sminuire il sostegno della Cina (che ci ha regalato anche 500 mila guanti e altri beni), un grande ringraziamento andrebbe riservato alla Francia, che si è privata di un milione di mascherine durante la crisi per darle agli italiani. Oltre alle mascherine (vedi elenco) i Paesi che hanno donato materiali alla Protezione civile sono l'Austria (3.360 litri gel disinfettante), Emirati arabi (15.000 tute, 15.000 camici, 500.000 guanti, 30.000 copri scarpa, 6.000 Sanitizers), Egitto (6 tonnellate di ipoclorito di sodio, 1,5 tonnellate di gel disinfettante, 2,4 tonnellate di perossido di idrogeno, 300 tute protettive), Federazione Russa (45 ventilatori polmonari), Francia (2.400 tute, 20.000 sopra-vestito), Germania (4 ventilatori), Giappone (50 pompe infusionali e 1.000 infusori), Pakistan (500.000 pastiglie di clorochina), Polonia (2.000 litri disinfettante), Repubblica Ceca (10.000 tute), Repubblica popolare cinese (500.000 guanti, 1.000 Covid test kit, 50.000 tute), Svizzera (10.000 tute), Taiwan (4.000 occhiali protettivi, 212 caschi protettivi, 450 visiere, 390 tubi endotracheali, 1.020 aspiratori), Turchia (1.000 tute protettive, 500 litri di liquido antibatterico), Ucraina (250 litri di disinfettante), Usa (medicinali). Inoltre hanno fornito team medici Albania, Cina, Cuba, Germania e Polonia. Le donazioni non sono arrivate solo alla Protezione civile: i dati non comprendono infatti i materiali regalati direttamente alle Regioni, al Ministero della Difesa e al Ministero degli Esteri. A quest'ultimo abbiamo inviato una richiesta di informazioni il 30 marzo, ma fino all'8 aprile non abbiamo avuto risposta.

Mascherine donate alla Protezione civile (dati aggiornati al 6 aprile 2020)

Egitto 500.000

Taiwan, in gran parte attraverso il Meccanismo europeo di protezione civile 500.000

Turchia 150.500

Repubblica Ceca 110.000

Svizzera 50.000

Emirati Arabi Uniti 20.000

Dagospia il 17 aprile 2020. Lettera inviata a Giampiero Mughini: Stim.mo dott. Mughini, all’inizio di questo calvario, personalmente ho ritenuto importante l’impiego della mascherina, anche per uso preventivo, finalizzato alla minor diffusione del contagio. Notando l’inspiegata difficoltà di reperimento di tale dispositivo da parte delle autorità competenti, ho cercato di mettermi al servizio del Paese, e pur non rientrando, la mascherina chirurgica, tra le abituali referenze aziendali, ho individuato e una fonte certa di approvvigionamento in Cina, mediante l’intervento di un nostro consociato cinese. Dall’inizio di marzo è a disposizione un lotto iniziale di 1.500.000 di pezzi certificati e, la possibilità di una fornitura costante e continuativa di mascherine FFP2. Ho proposto la fornitura a tutti gli Enti preposti, inclusa la Regione Lombardia, la più colpita e, tra l’altro, sede della nostra Azienda. Il prezzo formulato per l’offerta, rispetta ampliamente i parametri proposti dal mercato, essendo, tra l’altro suggerito, dalla stesso Ente. Nonostante siano trascorsi 40 giorni, l’emergenza tutt’ora in corso, e si lamenti ancore la carenza di dispositivi di protezione individuale sul territorio, non ho ancora ricevuto alcun riscontro. Pare che, tutti siano impegnati nel tutto, ognuno abbia agito per il bene della Nazione, ma l’Italia è, in questo momento, uno tra i Paesi più colpiti e certamente quello che riporta il più alto tasso di letalità, il 13,1%, contro  il 7,7% del resto d’Europa. Non credo inoltre che altri Stati possano tristemente contare un numero così alto  di medici e infermieri “caduti sul lavoro”.

Le mascherine saranno l’oro del 2020. Andrea Massardo il 24 aprile 2020 su Inside Over. È un chiarissimo allarme quello lanciato dal Wto (World Trade Organization) e riguardante il commercio internazionale delle mascherine ed in linea generale dei presidi medici atti a combattere la diffusione del coronavirus. Stando al rapporto dell’organizzazione internazionale, sarebbero al momento almeno 80 i Paesi che hanno limitato se non addirittura bloccato la loro esportazione, limitando il commercio dei prodotti autoctoni soltanto all’interno dei confini nazionali. Questa situazione – chiaro segnale non solo della crisi sanitaria ma anche della bolla speculativa creatasi attorno ai prodotti sanitari – evidenzia quello che sarà il destino delle mascherine in questo 2020: essere preziose – quasi – quanto l’oro.

I prezzi sono saliti alle stelle. Sino a qualche mese fa, il costo medio di una mascherina chirurgica all’ingrosso si aggirava tra i 10 ed i 15 centesimi al pezzo; al giorno d’oggi è possibile reperirle – in quantità spesso contingentate – ad un prezzo al pubblico che può raggiungere anche i 3 euro. Le cause di questo incremento vertiginoso sono da ricercarsi in due principali fattori: la scarsa produzione rispetto alla domanda – con a filiera che ancora non è riuscita a trovare il proprio equilibrio – e la paura che psicologicamente porta ad accettare un prezzo di acquisto più elevato. Mentre però nel primo caso si assiste a quello che – purtroppo o per fortuna – è una classica caratteristica del mercato e conosciuta sin dalla bolla speculativa dei tulipani dell’Olanda del 1636, nella seconda situazione si assiste a quella che è più nota come manipolazione dei bisogni della popolazione. Dopo anni di totale liberismo economico a livello internazionale, con le conseguenze della pandemia quasi tutto il mondo si è scoperto avvezzo al protezionismo quando si tratta di salvaguardare i propri interessi. Mentre però ciò è sempre stato tollerabile per i colossi mondiali nei commerci internazionali, il fenomeno si è riproposto anche tra coloro che – sino a qualche mese – avevano professato i liberi confini ed il libero commercio interno, come nel caso dell’Unione europea.

Mentre l’Asia resiste, l’Europa va in crisi. Dopo aver per anni professato la delocalizzazione del lavoro per aumentare gli introiti aziendali e poter introdurre prodotti a basso costo sui mercati dell’Occidente, adesso l’Europa – ed in modo minore anche gli Usa – si scoprono vittime della loro stessa strategia economica. Con i confini bloccati e con le misure protezionistiche messe in campo sui prodotti sanitari e farmaceutici, i Paesi europei hanno difficoltà ad accedere a forniture di mascherine, guanti e igienizzanti prodotti dal mercato asiatico. Mentre però le merci in Occidente non arrivano, in Asia il loro reperimento è molto più semplice, grazie ad una accresciuta offerta causata dalla domanda estera che non può più essere soddisfatta. Ed in questo scenario, dunque, ci siamo improvvisamente riscoperti più poveri di coloro che sino a qualche mese fa consideravamo sfruttati e sottopagati. Al tempo stesso, gli impianti produttivi della filiera del tessile europea – o quello che ne è rimasto – non sono stati in grado di adattarsi alla domanda interna: da un lato a causa della difficoltà nel reperire le materie prime e dall’altra a causa delle poche aziende rimaste operative a causa della concorrenza extracomunitaria.  Ed è stato così che, in ultima battuta, le mascherine si sono riscoperte il business speculativo del 2020: oro colato per chi già possedeva delle grandi scorte e salasso per chi ne ha bisogno per la vita di tutti i giorni.

La bolla ancora non è passata. Dopo le ultime dichiarazione degli istituti di sanità che hanno più volte ribadito la necessità di continuare ad indossare indumenti atti a non trasmettere l’infezione ancora per molti mesi, il trend non è destinato dunque a scendere nel breve periodo. E sebbene col passare delle settimane il mercato riuscirà a tendere ad un punto di equilibrio, difficilmente i prezzi torneranno ad essere quelli in vigore sino allo scorso anno. Il vero problema diventa però a questo punto quello della distribuzione alla popolazione. Anche ammesso infatti che tutti coloro che ne hanno la possibilità le acquistino ed ai ceti più poveri vengano offerte, in mancanza delle forniture base è impossibile pensare che la popolazione rispetti le direttivi dell’Organizzazione mondiale della sanità (nonché dei regolamenti statali dei vari Paesi). Questa possibilità, dunque, potrebbe riflettersi anche sulle capacità di gestione della pandemia e sulla tenuta dello stesso sistema sanitario Occidentale che si è in queste settimane dimostrato quanto mai fragile. E in ultima battuta, potrebbe rivelarsi come il più grande segnale di fallimento di una politica economica portata avanti per quasi mezzo secolo e che tutto d’un tratto ha dimostrato le proprie debolezze.

I padroni delle mascherine. Franco Fracassi il 22 Aprile 2020. Inchiesta tratta dal sito Indygraf. L’inchiesta web Tv “Sarò Franco” realizzata da un giornalista indipendente che parla senza censure e che spiega e racconta tutto quello che le televisioni nazionali, pubbliche e commerciali, i quotidiani nazionali, regionali, provinciali non vi raccontano. Perché le maschere sanitarie scarseggiano in Italia e anche nel resto d’Europa? Chi gestisce la produzione delle mascherine in questo momento ha più potere dei produttori di petrolio. Come chi realizza il tecnologico materiale di cui sono fatte le maschere sanitarie: il tessuto soffiato a fusione. (Attraverso questo link potrete vedere la video-inchiesta). I Paesi chiave sono Cina, Stati Uniti, India e Taiwan. Ma ancora di più ci sono delle società chiave: la triade della finanza BlackRock, Vanguard e State Street. Mentre Cina e Stati Uniti controllano la distribuzione delle mascherine nel mondo per acquisire maggior potere geopolitico, i tre colossi finanziari hanno tutto da guadagnare a rallentarne la distribuzione. Meno mascherine, maggiore difficoltà sanitarie, maggior durata del lockdown, maggiori danni economici, maggiori possibilità di acquistare al prezzo di saldo pezzi importanti dei sistemi industriali dei Paesi. Cento milioni di maschere sanitarie al giorno. Un giro d’affari di miliardi di euro. Soprattutto, un potere quasi illimitato su popolazioni, governi e organizzazioni internazionali. Qui si tratta del nostro futuro. Dimenticate le 40.000 mascherine ordinate dalla Regione Emilia-Romagna e mai arrivate, o le 700.000 ferme in Egitto, o i due milioni fermi in Turchia. Nel mondo del Covid-19 chi possiede le maschere sanitarie e i respiratori ha in mano il potere. Per il presente e per il futuro. Shi Xinghui è il direttore di una delle tante aziende cinesi che producono maschere FFP2 e FFP3. Shi ha detto: “Una macchinetta per maschere è una vera stampante per contanti. Chi produce maschere come se stampasse denaro. L’unica valuta corrente in questo momento nel mondo“. Le maschere sanitarie non arrivano in Italia perché non ci sono. Le fabbriche producono la quantità di maschere sufficienti per coprire il fabbisogno mondiale. Le maschere non arrivano in Italia (o ne arrivano di meno del necessario) perché qualcuno altrove ha deciso così. Quella delle maschere sanitarie è diventata la nuova guerra per il predominio. Da una parte la Cina. Dall’altra gli Stati Uniti. Sopra a entrambi due società, forse più potenti di entrambi. O comunque in concorrenza con i due colossi. Due società che sono una proprietaria dell’altra, nei cui consigli di amministrazione siedono per lo più le stesse persone. Due società che, insieme a una terza, posseggono più denaro di quanto possa gestirne Trump o Xi Jinping, (i presidenti di Stati Uniti e Cina – n.d.r. CdG) Ma andiamo per ordine. Per arginare l’epidemia, per evitare che gli operatori sanitari si ammalino di Covid-19, per impedire che gli ospedali si trasformino in lazzaretti, servono due modelli di maschere sanitarie: FFP2 e FFP3. Si tratta di maschere in grado di filtrare il 95% delle micro particelle, oltre che proteggere il viso. Per produrle servono catene di montaggio altamente tecnologiche e, soprattutto, serve un materiale chiamato “tessuto soffiato a fusione“: una maglia estremamente fine di fibre di polimero sintetico che forma lo strato critico di filtrazione interna di una maschera, permettendo a chi lo indossa di respirare riducendo l’afflusso di possibili particelle infettive. Fibre il cui filamento ha un diametro inferiore a un micron: un milionesimo di millimetro. Oltre alle maschere sanitarie anche 40 componenti per automobili, aerei e treni sono realizzati con il tessuto soffiato a fusione. Le fibre intrecciate non solo migliorano il comfort generale, ma forniscono anche un isolamento avanzato. Nel 2019 il giro d’affari complessivo dell’industria del tessuto soffiato a fusione è stato di 8 miliardi di euro. I principali produttori di tessuto soffiato a fusione sono Cina, India e Stati Uniti. Senza tessuto soffiato a fusione niente maschere sanitarie e niente protezione dal coronavirus. I principali produttori di maschere sanitarie sono la Cina, Taiwan e gli Stati Uniti. Senza le maschere sanitarie niente protezione dal coronavirus. È stata soprannominata la “diplomazia della maschera“. La Cina vuole riabilitare la sua immagine, vuole aiutare i Paesi amici e punire i Paesi che le sono stati più ostili. La Cina vuole crearsi nuovi mercati. Vuole scansare gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti vogliono salvare se stessi, vogliono impedire che la Cina riabiliti la sua immagine, vogliono impedire che la Cina si crei nuovi mercati, vogliono impedire che la Cina li metta da parte. Poi ci sono i fondi d’investimento Vanguard e BlackRock e, seppur in parte minore, il loro terzo gemello State Street. La mega società che domina il mondo dell’economia e della finanza. Ecco un estratto del pensiero del fondatore e amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink: “La democrazia, così come l’abbiamo intesa finora, si è dimostrata un disastro. La democrazia non è in grado di gestire il mondo. Ci ha portato alla distruzione del pianeta, ha portato guerre, ha portato incapacità decisionale e incapacità di visione da parte dei governi. Ha portato al sovrappopolamento del Pianeta. Ha portato alla creazione di una enorme massa di poveri ignoranti, che non fanno altro che perpetuare questo sistema democratico e distruggere tutto. Il mondo, l’economia, la politica, dovrebbe essere gestito da chi è capace, da chi è visionario, da chi sa. Se un Paese non è in grado di gestire la propria economia arriviamo noi. Ci pensiamo noi a creare ricchezza, a creare futuro“. Vanguard, BlackRock, State Street fanno shopping ovunque possono, ovunque si crei occasione. Accadde in Italia e nel resto dell’Europa dopo la crisi del 2008. La sola BlackRock acquistò in Italia aziende in saldo per 70 miliardi di euro. Quale occasione migliore del Covid-19 per mettere in ginocchio i Paesi e, poi, appropriarsi delle loro aziende a prezzi stracciati? Il Covid-19 ha portato la morte, ma ha anche portato il blocco economico di tanti Paesi. Più durerà la crisi Covid e più l’Italia, la Spagna, la Francia, il Regno Unito, la Germania, la Svezia e ancora e ancora saranno in ginocchio. E con loro le imprese. Anche le più ricche e virtuose. Non ne siete convinti? Non avete ancora afferrato quale potere ha in questo momento la triade della finanza? I maggiori produttori mondiali di tessuto soffiato a fusione sono: La Atex, Cina. Principali azionisti: BlackRock, Vanguard, State Street. La Exxon Corporation, Stati Uniti. Principali azionisti: Vanguard, BlackRock, State Street. La Shanghai Yuanqin Purification Technology, Cina. Principali azionisti: il governo cinese. La Du Pont De Nemours and Company, Stati Uniti. Principali azionisti: Vanguard, BlackRock. La Harkrishan Medicals, India. Imprenditori indiani con partner cinesi. La Dow Chemical Company, Stati Uniti. Principali azionisti: BlackRock, Vanguard. La Kimberly-Clark Corporation, Stati Uniti. Principali azionisti: Vanguard, BlackRock. La Fiberweb, India. Principali azionisti: imprenditori indiani con partner cinesi. La Berry Plastics, Stati Uniti. Principali azionisti: Vanguard, BlackRock. Mentre il principale produttore di maschere sanitarie è un’azienda cinese: la Byd. Acronimo di «Build Your Dreams» («costruisci i tuoi sogni»). La Byd è il settimo costruttore automobilistico cinese, oltre che di cellulari di fascia alta. In soli tre mesi è diventato il più grande produttore al mondo di mascherine protettive contro il Coronavirus. La Byd è arrivata a produrre fino a 25 milioni di maschere al giorno. Grazie agli elevati standard per stampi, apparecchiature automatizzate, processi di produzione e altro ancora. «L’equipaggiamento di cui già disponiamo offre precisione e qualità molto superiori a quelle comunemente richieste per produrre maschere», si vantano quelli della Byd. La sede della Byd è a Shenzen, in Cina. Eppure i principali azionisti sono, nell’ordine: il finanziere miliardario Warren Buffet, Vanguard e BlackRock. Insomma, è una società statunitense. Anzi, in mano a Wall Street, alla triade della finanza. Gli altri grandi produttori di maschere sanitarie sono:

La statunitense Honeywell. Principali azionisti: Vanguard e BlackRock.

La statunitense 3M. Principali azionisti: Vanguard e BlackRock.

La taiwanese Makrite. Di proprietà del governo taiwanese.

La britannica Benehal. Principali azionisti: Del Vecchio, Bolloré e BlackRock.

La cinese Shanghai Dasheng Health Products Manufacture Company. Di proprietà del Governo cinese.

La taiwanese Aero Pro Company. Principali azionisti: State Street, Vanguard e BlackRock.

La cinese Shanghai Gangkai Purifying Products Company. Di proprietà del Governo cinese. Più chiaro adesso?

Il segretario generale della filiale dei dispositivi medici della China Pharmaceutical Materials Association ha ammesso, secondo quanto scritto dall’agenzia di stampa ufficiale cinese “Xinhua”: “Le forniture mediche chiave come le maschere sono gestite e assegnate in modo uniforme dal governo. Non sono gestite dal mercato“. Un alto funzionario della Casa Bianca ha rivelato sotto forma anonima al “Washington Post”: «Altro che libero mercato. Sarà il Presidente a decidere a chi e quante mascherine vendere». E Vanguard e BlackRock? Per loro, meno Paesi riceveranno le maschere che richiedono e meglio sarà, per loro.

Intanto, i nostri sanitari continuano ad ammalarsi. E ammalandosi rendono ancora più precario lo stato di efficienza del nostro sistema sanitario.

Intanto, i prezzi delle maschere FP2 ed FP3 che riescono a raggiungere l’Italia sono triplicati, rendendo ancora più costoso il già costoso piano di salvataggio economico del nostro Paese. Insomma, dove non arriverà il coronavirus arriveranno le maschere…

Coronavirus, mascherine e burocrazia: la guerra di Goito. Le Iene News il 22 aprile 2020. Fabio Agnello incontra gli organizzatori di una rete di volontari che producono da casa mascherine lavabili e le distribuiscono gratuitamente a chi ne ha bisogno. Una reteostacolata dal sindaco di Goito, il Comune dell’organizzatore dell’iniziativa, che chiede adempimenti burocratici forse troppo stringenti vista l’emergenza. Fabio Agnello va a Goito, in provincia di Mantova, per raccontarci una storia di ordinaria burocrazia ai tempi del coronavirus. Incontriamo Fabrizio, titolare di un negozio di abbigliamento, che dopo aver dovuto chiudere ha pensato di riconvertire la produzione fabbricando mascherine che oggi in Lombardia sono tassativamente obbligatorie. “Sono andato sul web a cercare le specifiche tecniche richieste da Regione Lombardia per fabbricare le mascherine e ci siamo messi a fare i modelli. Sono mascherine lavabili, che ognuno può sterilizzare, non destinate ai medici ma alla gente comune che può usarle ad esempio per fare la spesa”. Fabrizio mette un annuncio sul web e trova altri sessanta volontari disposti a fare la stessa cosa. “È stata una cosa veramente toccante vedere coinvolti anche vecchietti di oltre 90 anni nella produzione delle mascherine”. Vengono realizzate oltre 20mila mascherine da destinare gratuitamente a chiunque ne avesse fatta richiesta e fornite anche ai comuni del territorio e alla Caritas. “Sono arrivate richieste da tutta Italia, anche da quasi 20 sindaci”. Tutti contenti insomma, tranne lo stesso Comune di Goito, che avrebbe iniziato a fare una lunga serie di richieste burocratiche, per poter continuare la produzione. “Ci chiedevano addirittura la conformità delle macchine e ci hanno mandato i vigili per verificare se avessimo la Scia, la dichiarazione di inizio attività”. Il risultato è il blocco della produzione e la minaccia di sanzioni amministrative. “In realtà la produzione non avveniva nei nostri locali perché io mi sono limitato a coordinare i volontari che lavoravano da casa propria”, spiega Fabrizio. “Ora dovrò pagare un avvocato e difendermi da accuse per me infondate ma lo rifarei mille altre volte”. Fabio Agnello va a chiedere spiegazioni al sindaco di Goito, che replica: "Non abbiamo detto di non produrre ma solo che occorreva presentare la Scia. Anche per le cose lodevoli, servono delle regole. È una cosa che richiede un’ora o due di adempimenti”. Non la pensa così Fabrizio, che spiega: "Avrei dovuto erigere un muro per distinguere i locali del mio negozio da quelli dell’area produttiva e fare un impianto elettrico apposta. Ma ribadisco che noi da qui coordinavamo il lavoro da casa dei volontari!”. Ma il sindaco non vuole sentire ragioni: "Per me la Scia è importante e se c’è la possibilità di farla la si fa e basta, non è un grosso problema”. Il giorno dopo averlo incontrato il sindaco ci manda un’email, in cui sottolinea che le mascherine erano state pubblicizzate come dispositivi al pari delle mascherine FFP2 e FFP3. Fabrizio ha tolto quella denominazione. Adeso, signor sindaco, gli consente di poterle regalare a chi ne ha bisogno?

Coronavirus, lo strano caso delle mascherine - pannolino in Lombardia. Le Iene News il 22 aprile 2020. Per far fronte alla carenza di mascherine la Lombardia ne ha commissionate 18 milioni a una fabbrica di Rho e ne ha distribuite 10 milioni negli ospedali e nelle rsa. Ma c’è chi dice che non vadano bene: Alice Martinelli ci racconta le critiche a queste mascherine-pannolino e la posizione della Regione. “Io inizio a parlare ed esce fuori il naso: quindi non vanno bene”. Questa è solo una delle molte critiche che sono state rivolte a una fornitura di mascherine arrivata negli ospedali e nelle rsa, le residenze sanitarie assistite, della Lombardia dopo un stock ordinato dalla regione per far fronte alla cronica carenza di dispostivi di protezione. Cosa è successo? La nostra Alice Martinelli cerca di far ordine in questa storia. Come tutti sappiamo le mascherine sono diventate introvabili, la regione Lombardia decide così di muoversi e ne commissiona a una azienda di Rho 18 milioni, di cui 10 già distribuiti tra ospedali e rsa. Ma c’è un problema: queste mascherine, che assomigliano a pannolini, sembra che non le voglia nessuno! Per scoprire il motivo la Iena decide di provarla in prima persona: la mascherina continua a scivolare sotto il naso e anche con un accorgimento fai-da-te fanno un caldo insopportabile! Tanto che la Regione stessa ha proposto una modifica. Com’è possibile? “Essendo inutilizzabili abbiamo dovuto cestinarle“, ci dice Andrea, infermiere in una rsa e membro del sindacato Adl Cobas. “Per esempio non ha le morsette per stringerla intorno al naso e dovremmo toccarla continuamente con guanti potenzialmente infetti”. Ora però dicono che ce ne sia un secondo modello, più stabile e con le orecchie scoperte: “Me lo stai dicendo tu, noi non abbiamo più visto nulla”. E c’è un altro problema: “Non sappiamo che tipo di protezione dà”. Problemi che ci denuncia anche Davide, soccorritore del 118 dello stesso sindacato: “Noi dovremmo tenerla su 8, 10 o 12 ore: è troppo opprimente, è come avere un pannolino. La maggior parte degli ospedali comincia addirittura a rifiutarle”. A questo punto andiamo a parlare con l’assessore che più di tutti si è speso per queste mascherine: Raffaele Cattaneo. “Questa è una mascherina chirurgica”, ci spiega. “Quello che dovrebbe interessare chi indossa una mascherina è che sia veramente protettiva. L’alternativa sarebbe stata non avere sufficienti dispositivi di protezione per chi lavora. Ne sono state distribuite circa 10 milioni”. Ma ci sono tanti che non le indossano: “Cosa dovevamo fare? Credo ci siano anche tantissimi medici che queste mascherine le indossano e non ritengono di proseguire con una polemica eccessiva. Non è il prodotto più bello ma è quello che permette di proteggersi”.

Da repubblica.it il 26 maggio 2020. Il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri è da alcuni giorni sotto tutela a seguito di pressioni per tentativi di corruzione e minacce ricevute rispetto alla sua attività politica in particolare riguardo alla destinazione dei fondi pubblici per l'emergenza coronavirus. L'esponente M5S, secondo quanto si apprende, viene accompagnato da un agente della pubblica sicurezza. La procura di Roma ha aperto un'inchiesta, al momento contro ignoti. Ci sarebbe anche un alto dirigente nel campo sanitario, che ha assunto anche ruoli dirigenziali tra Roma e Calabria, tra le persone coinvolte nell'inchiesta della Procura di Roma in merito alle minacce ai danni di Sileri. Il viceministro sarebbe già stato ascoltato dai magistrati. Tra le intimidazioni denunciate anche quella contenuta in un biglietto lasciato sul parabrezza della sua auto. "Più si sale in vetta, più tira il vento. Il nostro dovere è dare il massimo", il criptico commento di Sileri che ha subito ricevuto la solidarietà di moltissimi esponenti politici. "Massima solidarietà e vicinanza al nostro Pierpaolo Sileri. C'è a chi non piace avere al Ministero persone serie che lavorano con la schiena dritta... È successo tante volte nel Movimento 5 stelle e succederà ancora, perché noi non ci pieghiamo. Forza Pierpaolo, siamo tutti con te", ha scritto in un post il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni. "Massima vicinanza al viceministro Sileri per le minacce ricevute. Pierpaolo oltre a essere un grande professionista è anche una persona corretta, genuina, con la schiena dritta. Avanti così, siamo tutti con te, hai il nostro sostegno. Non ci facciamo intimidire da nessuno", il messaggio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Inaccettabili le minacce al vice ministro della salute sileri, a cui va tutta la mia solidarietà e il mio sostegno. Questo governo non si fa intimidire da nessuno. Forza, Pierpaolo!", scrive su Twitter Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro.

Coronavirus: mascherine “irregolari” dalla moglie del viceministro? Le Iene News il 22 aprile 2020. Emergenza coronavirus, Filippo Roma raccoglie una segnalazione: “Mascherine disinfettabili vendute agli ospedali come sterilizzabili, mentre secondo la loro scheda tecnica sono soltanto disinfettabili, dall’azienda in cui lavora la moglie del viceministro alla Salute”. L’emergenza coronavirus, con oltre 23.600 morti in Italia, è ormai dilagata nel nostro Paese. Un’emergenza che in parte è possibile arginare e ridurre con l’uso corretto dei dispositivi di protezione come le mascherine. Peccato però che siano andate letteralmente a ruba, tra prezzi on line schizzati alle stelle e difficoltà di reperimento per lo stesso personale medico impegnato in prima linea. Ci sono però anche altri tipi di mascherine, di cui si parla meno, ma altrettanto importanti. Sono le cosiddette mascherine per la ventilazione, cioè quelle che aiutano a respirare quei pazienti che non riescono a farlo autonomamente, prima del ricovero in terapia intensiva. Parliamo di mascherine riutilizzabili, che quindi è importante sterilizzare bene prima di riusarle nuovamente con un altro paziente. Filippo Roma e Marco Occhipinti si occupano proprio di queste mascherine, dopo che in redazione è arrivata una segnalazione che parla di “mascherine, fondamentali per la salute dei pazienti, vendute irregolarmente negli ospedali, mascherine non sterilizzabili secondo la scheda tecnica del loro produttore, che invece vengono vendute come se lo fossero”. Il segnalatore anonimo prosegue nel suo racconto: “Tante aziende, giocando sulla mancanza di tempo e incompetenza da parte dell’ospedale dal punto di vista tecnico, forniscono prodotti non conformi a quello che l’ospedale vuole con grave rischio per la salute dei pazienti. E quindi cosa fanno? Dichiarano che i prodotti sono sterilizzabili e che quindi rispettano la richiesta dell’ospedale, ma in realtà secondo la scheda tecnica del produttore sono soltanto disinfettabili. Una situazione pericolosa, perché se entra in contatto con un paziente immuno-compromesso e questo si prende un’infezione ci muore… è pericoloso sì”. Chiediamo allora chi venda questi prodotti agli ospedali: “Si tratta di varie aziende del settore. Tra l’altro abbiamo scoperto che in una di queste società ci lavora come rappresentante la moglie dell’attuale viceministro alla Salute, per cui ci potrebbe essere anche un bel conflitto di interessi”. Parliamo del medico-chirurgo Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, attivissimo in tv e che tra l’altro è stato lui stesso contagiato dal Covid-19. Lo avevamo incontrato proprio qualche giorno prima che lui si ammalasse, per chiedergli quanto a suo avviso fosse importante la sterilizzabilità di un dispositivo come le mascherine contro il coronavirus. “Le mascherine devono arrivare già sterili. La sterilizzazione è una cosa, la disinfezione è quella che viene utilizzata ad esempio per pulire non so un carrello… La disinfezione è una cosa, la sterilizzazione è un’altra, viene fatta in autoclave, deve uscire dall’autoclave con zero batteri e zero virus”. Ma stando alla segnalazione che abbiamo ricevuto, ci sarebbe un’azienda che rivende queste mascherine, che in realtà sono solo disinfettabili ed è un’azienda nella quale lavorerebbe la moglie del viceministro Sileri, Giada Nourry. La cosa strana è che il Policlinico Umberto I ha deciso di acquistare una fornitura di quelle mascherine da quella azienda proprio dieci giorni dopo la nomina del vice Ministro della Salute, Pierpaolo Sileri. Su questo argomento il viceministro risponde così: “Mia moglie non fa la rappresentante, è una tecnica, è un’amministrativa, una segretaria”. Quando gli diciamo che, dai documenti presentati per il bando di fornitura, ci risulta che la moglie abbia seguito come agente di zona la fornitura di un lotto presso l’ospedale Umberto I di mascherine, risponde: “Sinceramente io che vi devo dire che ne so, chiedetelo alla ditta che fornisce il materiale. Mia moglie purtroppo diciamo è proprio l’ultima l’ultima l’ultima della catena di quella ditta, proprio, cioè potere decisionale zero”. Per il viceministro, la tempistica coincidente tra la fornitura all’ospedale e la sua nomina è “un caso”. “Se pensate a una cosa del genere pensate troppo male! Dammi la lista delle ditte che fornisce mascherine che dovrebbero essere sterilizzabili e invece sono solo disinfettabili e io mi attivo e chiederò chiarimenti, a partire da questa azienda”. Le Iene avevano intanto incontrato proprio la persona che si era occupata dell’acquisto di quelle mascherine per l’Umberto I. Filippo Roma aveva sentito Angelo Furfaro, il presidente della Commissione di gara che nell’aprile del 2019 ha assegnato a quella ditta la fornitura di un lotto di mascherine per la ventilazione. “No, no no non mi ricordo… Ma secondo lei io mi posso ricordare di una cosa che è avvenuta tempo fa e dove per di più io non sono ecco un tecnico… Ne ho fatte tante di gare… il suo è sciacallaggio”. E poi si altera e si rifugia nella caserma dei carabinieri, minacciando di denunciarci. “Si viene in ufficio a fare richieste di questo tipo”, spiega alterato, ma quando poi gli chiediamo quando sia possibile venire, non sa darci una risposta. Poco dopo, per telefono, il viceministro ci fa sapere di avere girato ai Nas le liste delle ditte che hanno fornito quel tipo di mascherine, chiedendo di avviare una verifica. È passato circa un mese da quella segnalazione del vice-ministro, ma non abbiamo ancora nessuna evidenza concreta. Rispetto alla posizione della moglie del viceministro, invece, il mistero si infittisce, perché né lei né PierPaolo Sileri hanno voluto concedere a Le Iene un incontro chiarificatore. Per telefono, la donna si era giustificata così: “Il mio lavoro è un lavoro da impiegata di ufficio però siccome nelle gare devi indicare il nominativo di un referente, hanno messo me. Io secondo te andavo all’Umberto I con il caldo, con il pancione di otto mesi? A far la promozione dei prodotti?”. Filippo Roma chiede poi al marito: “Ma quindi lei ha incontrato i proprietari della ditta dove sta sua moglie al matrimonio?”. Sileri risponde: “Io i proprietari dell’azienda li ho visti ti sto a di’ una volta al matrimonio, al mio matrimonio… c’erano 200 persone, certo che li ho conosciuti, quindi fammi capi, vuoi sapere quanta altra gente ho incontrato nella mia vita? Ma di che stai a parla’? Sul contratto di lavoro di mia moglie, che è anche cogliona, c’erano 1.300 euro di stipendio al mese...”. Insomma per Sileri la moglie non è un’agente di zona di quell’azienda, ma solo una segretaria a 1.300 euro al mese. Una circostanza però che sarebbe stata smentita da due agenti rappresentanti che operano su Roma. Uno di questi ci racconta: “Io vendo materiale per sale operatorie, rianimazione negli ospedali e conosco Giada Nourry, che fa il mio stesso lavoro per un’altra azienda. Fa promozione come me, io la incontro in giro per gli ospedali, ad aspettare i medici fuori dai reparti. Su alcuni prodotti è una mia concorrente...”. Una tesi che sarebbe confermata anche da un secondo rappresentante: “È una venditrice anche lei, noi ci conosciamo tutti nell’ambiente”. Quando richiamiamo il ministro, per chiedere di incontrarli alla luce di queste rivelazioni, arriva il colpo di scena: “Mia moglie ha chiesto alla ditta di farle vedere cosa intendevano per agente di zona in merito a quella gara e la ditta ha risposto che non avevano tempo di darle i documenti e mia moglie ha messo tutto in mano all’avvocato. Dopo di che le hanno chiesto di mettersi in aspettativa non pagata, una cosa assurda, e allora mia moglie ha fatto un esposto. Ora c’è un’indagine in corso”. Quindi, ha spiegato il ministro, sarebbe stata l’azienda a mettere sul contratto una dicitura sbagliata. E per provare a fare chiarezza una volta per tutte, chiamiamo la farmacia del Policlinico Gemelli, per chiedere il nome della rappresentante di quell’azienda. Al telefono ci rispondono proprio col nome della moglie del vice-ministro e per evitare ogni equivoco spieghiamo di fare riferimento alla rappresentante ufficiale, all’agente. E la risposta è questa: “Sì sì, lei fa proprio l’agente, gira per gli ospedali ed è quella che poi fisicamente viene in Policlinico”. Lo chiediamo anche proprio all’Umberto I: “La rappresentante si chiama Giada – è la risposta inequivocabile – ed è una venditrice, un’informatrice, per le maschere laringee parlavo con lei, che era l’agente di zona”.

Caso Sileri-mascherine: chi è il “cazzaro”? Le Iene News il 19 maggio 2020. Filippo Roma e Marco Occhipinti tornano a occuparsi del presunto conflitto di interessi del viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, la cui moglie promuoverebbe la vendita di presidi medico-sanitari, tra cui le mascherine per la ventilazione, negli ospedali pubblici romani. Una circostanza, a quanto pare, confermata dallo stesso datore di lavoro della donna. Filippo Roma e Marco Occhipinti tornano sulla vicenda del presunto conflitto di interessi che riguarderebbe il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri. La moglie è indicata nelle carte ufficiali come “l’agente di zona” di una ditta che ha vinto una gara per la fornitura di mascherine al Policlinico Umberto I di Roma. Sileri, dopo che è andato in onda il servizio, ci ha accusato pubblicamente di aver raccontato il falso, chiedendo attraverso i suoi legali una rettifica. Nel servizio ci chiedevamo se può esistere un possibile conflitto di interessi quando la moglie del viceministro alla Salute lavora per una ditta che vende prodotti agli ospedali pubblici. E tanto più se quell’appalto per la fornitura delle mascherine al Policlinico Umberto I ha avuto una conferma definitiva dieci giorni dopo la nomina del viceministro. All’epoca del primo servizio il viceministro, sull’impiego della moglie per l’azienda che aveva fornito le mascherine, aveva detto: “Non fa la rappresentante, è una tecnica, è un’amministrativa. Purtroppo diciamo è proprio l’ultima, l’ultima, l’ultima della catena di quella ditta, proprio, cioè potere decisionale zero”. Gli avevamo mostrato le carte di quella fornitura pubblica all’Umberto I, che indicavano con chiarezza come fosse stata seguita dall’agente di zona, Giada Nurry, sua moglie. “Mi state a di' una cosa di cui io conosco zero”, aveva replicato il viceministro, che aggiungeva di ignorare quanto scritto sulle carte ufficiali di quell’appalto pubblico. E il giorno dopo il nostro incontro aveva precisato: “Sono 12 anni che fa la segretaria dentro quel… 12 anni, ma mia moglie è anche cogliona perché sul contratto di lavoro c’erano 1.300 euro di stipendio al mese.” Filippo Roma aveva allora intervistato, in forma anonima, due agenti rappresentanti che operano su Roma e i due, sulla moglie del viceministro, ci avevano detto ben altro: “Lei fa lo stesso lavoro che faccio io, diciamo che fa promozione come me. Cioè vende i propri prodotti”, aveva detto il primo, “è una venditrice anche lei, fa lo stesso nostro lavoro”, aveva sostenuto l’altro commerciale. Anche le farmacie di due importanti ospedali romani la conoscono in tutt’altra veste da quella raccontata dal viceministro. Una di queste, per telefono, ci ha detto: “Giada Nurry? Sì sì, lei fa proprio l’agente nel senso che gira per gli ospedali e quindi è quella che fisicamente poi viene in Policlinico”. Nonostante le carte ufficiali dell’appalto e le 4 testimonianze raccolte, il viceministro ha dichiarato alla stampa che quello che noi abbiamo raccontato sarebbe falso, sostenendo che quella di Filippo Roma sarebbe una ricostruzione “fantasiosa”. E riferendosi proprio al nostro inviato ha aggiunto: “Per giorni ha pedinato una madre con un figlio di sette mesi senza alcuna pietà nonostante avesse già ricevuto tutti i documenti e le spiegazioni del caso”. Ma le cose, e ve lo abbiamo mostrato, non sono andate proprio così. Ci siamo incontrati con Sileri la sera di lunedì 2 marzo, due mesi e mezzo fa, e quella sera, al contrario di quanto riferito alle agenzie, non ci ha dato né tutte le spiegazioni né tutti i documenti del caso. Anzi ci ha inviato il giorno dopo ad andare a trovare sua moglie in ditta, per parlare direttamente con lei. Il giorno dopo ci abbiamo provato, ma lei quando ci ha visto è andata via raggiungendo il marito al ministero della Salute. In quell’occasione il viceministro al telefono ha cambiato idea: “No mia moglie non mette la faccia davanti alla telecamera perché è giusto che sia così”. Era il 3 marzo, il giorno dopo il nostro unico incontro avvenuto in quei giorni. Dopo qualche giorno il nostro programma ha chiuso per un mese e mezzo, il viceministro ha avuto il coronavirus e l’Italia è andata tutta in lockdown. Quando poi ci siamo risentiti circa un mese dopo, Sileri ci ha promesso più di una volta un incontro per farci vedere i documenti che avrebbero confermato la sua versione dei fatti, ma il viceministro al dunque si è sempre sottratto a un appuntamento chiarificatore. Lo avevamo richiamato in aprile. “Visto appunto che noi stiamo per tornare in onda", aveva spiegato Filippo Roma, "facciamo un’intervista in cui cerchiamo di giungere non dico a una conclusione ma dipende da quello che tu nel frattempo hai saputo rispetto alla vicenda che abbiamo trattato?”. “Eh ma io adesso... c’è un’inchiesta in corso... quindi io finché non finiscono l’indagine…”, si era giustificato Pierpaolo Sileri per dire no all’ipotesi di un nuovo incontro con noi. Incassata la sua indisponibilità all’intervista, non l’abbiamo più né sentito né visto. Ci chiediamo allora dove sarebbero tutti i documenti che ci avrebbe dato e quali pedinamenti avremmo fatto “senza pietà” per giorni a una madre con figlio di sette mesi? Ma torniamo alla richiesta di rettifica del servizio, giunta dai legali di Sileri. Avevamo intervistato, di spalle, una persona che raccontava di possibili problemi di sicurezza in caso di mascherine per la ventilazione vendute come sterilizzabili, anche se per la scheda tecnica del produttore sono solo disinfettabili. Quando lo avevamo incontrato, il viceministro non aveva le idee chiarissime su questa vicenda, tanto che ci aveva detto di aver segnalato il tutto ai Nas, i nuclei specializzati dei carabinieri, al fine di far avviare un’indagine. Oggi però Sileri sembra non avere più dubbi e ha affermato: “Le mascherine sono sicure perché ci sono sentenze del Tar che riconoscono l’equivalenza delle diverse tecniche di disinfezione”. Forse però il viceministro non sa che ci sono altre sentenze del Tar, che invece sostengono esattamente l’opposto e che anche alcuni ospedali hanno annullato le gare d’appalto, per quelle mascherine, in tutta Italia. Sempre nella richiesta di rettifica, i legali del viceministro sostengono che non ci sarebbe alcun conflitto di interessi, in quanto è vero che la conferma definitiva dell’appalto dell’Umberto Primo è arrivata 10 giorni dopo che Sileri è diventato viceministro ma la prima aggiudicazione della gara sarebbe arrivata 5 mesi prima. Se è vero che all’epoca Pierpaolo Sileri non era ancora viceministro della Salute, era però già presidente della commissione sanità del Senato, quindi non proprio un cittadino qualunque...Una questione resta comunque centrale: al di là di quell’appalto dell’Umberto I, oggi Pierpaolo Sileri è senza ombra di dubbio viceministro e sua moglie propone prodotti da comprare agli ospedali pubblici italiani. E che non sia proprio una cosa opportuna non lo diciamo solo noi ma addirittura Aldo Segante, amministratore della ditta per cui la donna lavora. “È quello che io ho detto alla signora Nurry quando lei è tornata in ufficio", spiega l’uomo, "per evitare il conflitto d’interessi rispetto al quale io non posso fare nulla, perché io questa azienda ce l’ho da 35 anni. Le ho detto guarda se vuoi ti metti in aspettativa e aspettiamo fino a quando questo ruolo verrà a finire e tu potrai tornare al lavoro...”. Insomma per il viceministro non c’è nessun conflitto d’interessi, ma per il datore di lavoro di sua moglie qualche problema sembra esserci. C’è infine l’ultimo punto della richiesta di rettifica: Giada Nurry non sarebbe un’agente di zona e neanche una rappresentante. Sarà allora una segretaria come più volte sostenuto dal vice ministro? Sileri sembra aver cambiato idea ancora una volta, in quanto adesso sostiene che la moglie fa la “propagandista promoter” dei prodotti in vendita. Insomma finalmente, per la prima volta, Sileri ammette che la moglie avrebbe a che fare con le vendite e quindi la sua, più che una smentita, ci sembra un conferma di quanto avevamo già raccontato. Il viceministro però una cosa ci tiene a precisare: “Non percepisce retribuzione aggiuntiva per gli affari conclusi”. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Lo chiediamo ancora ad Aldo Segante, amministratore delegato di Alse Medica, il suo datore di lavoro. Che non ha dubbi: "È sempre stata solo ed esclusivamente una venditrice, un’impiegata assunta con il ruolo di addetta alle vendite”. Filippo Roma chiede: ”Ma lei percepisce esclusivamente uno stipendio fisso o guadagna anche delle provvigioni sulle vendite che fa?”. E Segante risponde così: “Negli anni passati ha ricevuto sempre premi, quasi sempre. Premi per il raggiungimento di vendite, vendite per gli obiettivi che gli venivano dati, assegnati in azienda”. Su questo punto, insomma, le versioni tra datore di lavoro della moglie e viceministro sembrano inconciliabili. Il primo sostiene che la moglie possa guadagnare di più in base alle vendite, mentre l’altro lo  esclude categoricamente. Segante, sul lavoro della signora Nurry, prosegue: ”È sufficiente che voi andiate da qualsiasi interlocutore degli ospedali romani, tutti i policlinici, cliniche private… Quando va lì, va e fa la promozione dei nostri prodotti, porta un depliant, parla del prodotto, li promuove, fa vedere le caratteristiche tecniche, o ai caposala, agli infermieri, come si utilizzano, quali sono le caratteristiche, i vantaggi, i benefici, questo si fa”. “Ma è vero che Giada Nurry guadagna solo 1.300 euro al mese?”  “Assolutamente no”. Segante dice a Filippo Roma che già da un po’ di anni: "è l’unico conflitto d’interessi che abbiamo avuto... Quando io ho saputo che la signora aveva conosciuto il dottor Sileri io ho agito allora e chiesi.., perché si sono conosciuti a Tor Vergata e quando lei mi ha detto che c’era questa storia ho detto tu da domani a Tor Vergata non metti più piede e questo l’ho fatto perché il conflitto d’interessi c’era e questa è l’unica cosa che ho fatto ma l’ho fatta 3 anni fa e da allora lei non ha messo più piede a Tor Vergata. Poi dopo le cose si sono evolute ma che cosa potevo fare, mi dica lei come si fa a togliere un conflitto d’interessi in un’azienda che ha un dipendente che lo assumi come dipendente addetto alle vendite e poi sposa una persona che poi diventa viceministro alla Salute, io che posso fare?” Secondo il datore di lavoro un conflitto d’interessi già c’era da anni quando Sileri era semplicemente un medico al policlinico di Tor Vergata e i due iniziarono a frequentarsi, tanto che vietò alla sua dipendente di andare in quell’ospedale a vendere prodotti. Poi però Sileri è diventato prima presidente della commissione sanità del Senato e poi viceministro e quindi Segante riconosce che il problema sarebbe anche cresciuto nel tempo. Come risponderà Sileri a queste dichiarazioni di Segante? “La fonte autorevole è il suo datore di lavoro questo qua?”, ci chiede Sileri. E poi ci mostra un documento siglato Alse sostenendo: “È quello che fa mia moglie”. Filippo Roma insiste: ”Ma ci spiega perché lei ci ha detto è una semplice segretaria?”. “Fermo fermo fermo, io ti ho detto che mia moglie fa un lavoro di segreteria come impiegata di terzo livello ma che c’entra con le vendite?”. “Il signor Segante ci ha detto che sua moglie al raggiungimento di determinati livelli di vendita riceve dei premi di produzione, ma questo ce l’ha sempre negato...” Sileri ci mostra una certificazione reddituale: "Questa è la certificazione unica di mia moglie del 2017, mia moglie prende i premi? Vediamo se mia moglie prende i premi, vieni vieni allora reddito di mia moglie, somme erogate per premi risultati, quanti ne vedi?”. A dirlo non siamo noi ma il datore di lavoro della moglie. “Io ti ho dato il cud del 16 ma la cazzata chi la dice, la dite voi a questo punto o Aldo Segante? Hai detto 2 stupidaggini, perché hai detto che mia moglie prende i premi...”, continua il viceministro. Gli ribadiamo di non averlo detto noi, ma lo stesso datore di lavoro di sua moglie. Al quale abbiamo chiesto: “Tu ad esempio con Giada Nurry di anno in anno fissi un obiettivo commerciale raggiunto il quale scatta il premio?”. La risposta di Segante era stata questa: “Certo certo sì, scatta il premio se lo raggiungi, se non lo raggiungi non lo prendi”. Obiettivi, ci viene spiegato fissati con una lettera allegata al contratto, nella quale si individuano quelli attesi per l’anno. Rispetto a quelli raggiunti l’anno precedente. A Segante chiediamo ancora la questione del Cud, mostratoci dal viceministro: "Ma perché nei Cud non sono riportati almeno in questi tre anni i premi di produzione?”. “Potrebbe non aver raggiunto gli obiettivi, ma tieni conto che, allora nel 19 lei è stata sempre in maternità quindi non ha raggiunto gli obiettivi, d’accordo? Nel 18 lo stesso, si è sposata e abbiamo pure avuto problemi perché lei faceva il minimo sindacale...” Lo abbiamo chiesto anche ad un consulente del lavoro, che ci ha spiegato che i premi di produzione individuale nel Cud non vanno comunque riportati. “Nel Cud non è possibile individuare un premio di produzione individuale”, dice Giovanni Carratello, consulente del lavoro. Quando, comunque, avevamo affrontato con Sileri la questione dei Cud, lui ci aveva detto così: ”Vuoi i cud fino a 10 anni? Vediamoci, i cud allora dal 2008 in poi che ne so... io ti troverò i cud dal 2008 in poi... allora la prossima volta te li mando”. Secondo voi il vice-ministro, tutti i cud dal 2008 della moglie, ce li avrà mandati? Quello che ci ha mandato sono solo i cud degli gli ultimi due anni e comunque, come abbiamo già chiarito, i premi di produzione individuale non vanno riportati lì, ma nelle buste paga. Buste che gli abbiamo chiesto naturalmente, ma che non sono mai arrivate. Segante, qualche giorno dopo, ci ha raccontato di essere spaventato: ”Nei giorni che sono accadute queste cose abbiamo avuto anche l’ispettorato del lavoro che è venuto a controllare se facevamo bene se facevamo male. Siamo stati martellati da tutte le parti. Agli organi competenti che sono venuti ho dato le copie delle buste paga, hanno fatto tutti i controlli, sono arrivati recentemente vigili urbani, è venuta l’ispettorato del lavoro, sono venuti tutti. L’ispettorato è venuto il 2 di aprile e di nuovo il 17 di aprile, ma perché? Ho paura, Filippo, io in questo momento ho paura... stanno succedendo troppe cose. In 35 anni di attività non erano mai venuti… I miei avvocati mi dicono Aldo sono troppe cose strane che stanno accadendo... Io sono veramente preoccupato perché 35 anni di onorato lavoro... in 2 mesi mi sta crollando il mondo le certezze. Io non ho mai fatto nulla di male cioè adesso che si neghi la realtà cioè l’azienda l’ha sempre vista solo ed esclusivamente come una venditrice. Ho paura di stare a lottare contro il governo, sono terrorizzato, va bene? Se tu ti ricordi quando lui l’avete intervistato la sera del 3 marzo ha detto delle cose, alla Zanzara ha detto l’esatto contrario, 48 ore dopo ha detto che la moglie è l’ultima ruota del carro. Ora un uomo che è capace di dire tutto e il contrario di tutto questo mi fa paura, tra l’altro una persona che ha pure ruoli importanti e determinanti io sono terrorizzato". Il datore di lavoro della moglie di Sileri, Aldo Segante, insomma è molto preoccupato, ma nonostante ciò conferma tutto quanto ci aveva detto nei colloqui precedenti avuti con noi. Come l’avrà presa Sileri? “ I premi di produzione non ce stanno, ma t’ho fatto vede’ porco cazzo, non ce stanno, ma quante volte te lo devo di’... Se Segante ha detto una cosa che è diversa da quella che è scritta sul contratto lì aggiungeremo un’altra denuncia pure per Segante... a fili’ la verità è che tu sei un cazzaro, fidate di me ci vediamo in tribunale... ci vediamo in tribunale, fidati di me”. Gli insulti e le minacce di querela del viceministro M5S Pier Paolo Sileri, ci ricordano le sagge parole del suo leader quando ancora il Movimento 5 Stelle non occupava posti di potere. “Di solito si querela la verità, mai la menzogna, di solito chi querela sono i politici, rappresentanti delle cosiddette istituzioni, quando non hanno altre argomentazioni per finire sui giornali di regime e fare la figura dell’innocente”. Firmato Beppe Grillo.

Il grande business delle mascherine: lo Stato si affida a vignaioli e produttori di medaglie. Tra le aziende che si sono aggiudicate le gare Consip per i dispositivi di protezione ci sono multinazionali e grandi aziende italiane. Ma anche imprenditori senza esperienza nel settore. Che dichiarano di essere pronti a importare i prodotti destinati alla Protezione Civile. E qualche volta barano. Vittorio Malagutti il 17 aprile 2020 su L'Espresso. Lunghi elenchi di nomi. E il dettaglio dei contratti, accompagnati da offerte milionarie. Nelle carte della Consip si legge la corsa contro il tempo per rispondere a un’emergenza senza precedenti nella storia della Repubblica. Con gli ospedali del Nord ormai allo stremo, l’azienda di Stato si è trovata in prima linea con una missione di fondamentale importanza: rifornire gli arsenali della sanità pubblica con le armi indispensabili per combattere la guerra contro il virus. E cioè mascherine, tute protettive, cuffie, apparecchiature medicali, ventilatori per la terapia intensiva destinati alla Protezione Civile. Affari per centinaia di milioni di euro da gestire in pochi giorni, con il rischio di aprire le porte a bande di speculatori e truffatori. Di tempo, in effetti, non ce n’è. Bisogna fare presto, perché il contagio corre veloce, molto più veloce della burocrazia. E allora i controlli spesso avvengono a posteriori, dopo che la gara per le forniture è stata completata, con il risultato di rallentare ulteriormente la macchina dei rifornimenti che già fatica a reggere un carico di lavoro eccezionale. Alle porte della Consip ha bussato anche uno stuolo di impresentabili. E qualcuno, come il romano Antonello Ieffi, è anche riuscito a passare indenne attraverso il filtro delle prime verifiche. Una storia esemplare, quella di Ieffi, affarista con la fama del playboy, una trottola in perenne movimento tra debiti e conti in rosso. Carte alla mano, la sua offerta appariva piuttosto sgangherata già a prima vista. Formulata attraverso una società agricola, la Biocrea, che si è ben presto rivelata per quello che era: una scatola vuota. E così Ieffi, che pure era riuscito ad aggiudicarsi una fornitura di mascherine da 15 milioni di euro, il 9 aprile, dopo la denuncia dei vertici Consip, è finito agli arresti con l’accusa di turbativa d’asta. Biocrea è stata infine esclusa dalla lista dei vincitori, mentre le verifiche proseguono su altri imprenditori. La lista delle aziende e la suddivisione dei lotti viene di continuo aggiornata. E ora che le consegne entrano nel vivo, L’Espresso ha anche raccolto le proteste di imprenditori che dopo aver vinto la gara per la fornitura non possono completare l’ordine perché manca il timbro finale di Consip. Intanto, il 7 aprile, è arrivato il cartellino rosso per la Indaco service, una cooperativa di Taranto gestita da un manager, Salvatore Micelli, indagato nel 2018 per una truffa ai danni dello Stato. Tra i contratti revocati c’è anche quello con la Agmin Italy, società veronese da tempo in affari con la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri italiano. Agmin, che fa capo ai Cucchiella, una famiglia di costruttori rom.

La Protezione civile e gli appalti contro il virus: la lobby dei politici nel caos delle mascherine. Fabrizio Gatti il 10/4/2020 su L'Espresso. Da questa settimana il dipartimento della Protezione civile non farà più acquisti per difendere gli italiani dal coronavirus. E forse è una buona notizia. Buona sì perché la lobby politica dei grandi eventi di Roma, fatta di piccole srl e amicizie che danno curriculum, ha la sua parte anche in questa tragedia epocale. E se dovessimo valutare i risultati, parla da sola la mancanza di coordinamento e di protezioni per ospedali e cittadini nel primo mese e mezzo di gestione. Il deus-ex-machina invitato agli appalti si chiama Fabrizio Macchia, 58 anni, amico fraterno e socio in affari del gentiluomo del papa Francesco Carducci, per anni capogruppo laziale dell’Udc, prima ancora assessore ai Grandi eventi del sindaco Francesco Rutelli, consigliere dell’Agenzia per il Giubileo 2000 e poi stampella della maggioranza che sosteneva la presidente regionale Renata Polverini. Insieme, Macchia e Carducci, attraverso la società “I Borghi srl”, hanno in gestione dal Vaticano il grande Auditorium della Conciliazione, al centro delle dimissioni nel settembre 2012 di tutta la giunta Polverini per un finanziamento regionale di un milione e 300 mila euro. Macchia però entra nella società e nel consiglio di amministrazione di Carducci un anno e mezzo dopo, prendendo praticamente il posto del segretario nazionale dell’Unione di centro, Lorenzo Cesa, che verrà eletto al Parlamento europeo. La gestione dell’emergenza affidata dal capo dipartimento Angelo Borrelli alle piccole società a responsabilità limitata non risparmia nessuno, perché il caos si trascinerà a lungo nel costo e nella qualità delle mascherine che dovremo tutti indossare per far ripartire l’economia. Secondo le regole matematiche di diffusione del virus Sars-Cov-2, ogni mascherina in meno sono due-tre potenziali malati in più: con tutte le conseguenze immaginabili sul rischio di nuovi focolai e sul blocco dell’Italia. Perfino nei Comuni regna la confusione. I sindaci ricevono ogni giorno inviti a comprare protezioni da distribuire ai cittadini attraverso farmacie e tabaccai. Un esempio sono Confindustria Moda, Cna-Federmoda e Sportello amianto nazionale: promuovono la vendita di confezioni da 5 o 10 mascherine chirurgiche prodotte in Italia al prezzo all’ingrosso di 1,20 euro al pezzo più Iva. Non è certo un’offerta di favore. Il 14 gennaio una scatola di tremila mascherine sanitarie autorizzate dal ministero della Salute costava ancora 64 euro: due centesimi l’una. La proposta di vendita ai Comuni tra l’altro parla di protezioni non certificate: in particolare «mascherine filtranti indicate nell’articolo 16, secondo comma del decreto legge 18 del 17 marzo 2020», cioè quelle «prive del marchio CE e prodotte in deroga alle vigenti norme sull’immissione in commercio». Nemmeno Confindustria Moda e i suoi partner però sono in grado di garantire la qualità dei prodotti che pubblicizzano: i rappresentanti delle associazioni di categoria sono «completamente estranei al rapporto contrattuale in questione», avvertono nella lettera ai sindaci, «con tutte le conseguenze del caso in termini di adempimento e connessa responsabilità, con particolare riferimento a conformità del prodotto, tempi di consegna, pagamenti». Una circolare firmata dal direttore generale del ministero della Salute, la 3570 del 18 marzo, legittima infatti la produzione e vendita di mascherine definite filtranti che «non si configurano né come dispositivi medici né come dispositivi di protezione individuale». Ma se non sono Dm o Dpi, come possono proteggere dal virus? Un incredibile via libera alla distribuzione di pericolose protezioni in tessuto non adatto. E un danno economico sicuro per gli imprenditori italiani che in questi giorni, per riconvertire la produzione, hanno invece investito in qualità, certificazione e garanzie di legge. Il commissario straordinario Domenico Arcuri avrà molto da fare per riportare tutte le forniture sotto la sua sorveglianza. Soltanto in questi giorni ha potuto definire la struttura di controllo: vigilerà anche sull’Ufficio VI Amministrazione-bilancio della Protezione civile che finora ha gestito in proprio gli acquisti e la distribuzione. All’inizio dell’emergenza il capo dipartimento aveva delegato un suo funzionario di fiducia, Pietro Colicchio, assunto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio quando il padre, magistrato della Corte dei conti fino al 2011, controllava la legittimità degli atti della Presidenza del Consiglio. Non era solo Colicchio: faceva parte dell’ultimo gruppo di centocinquanta precari di lusso arruolati a tempo indeterminato senza concorso nel dipartimento dall’allora capo Guido Bertolaso. Non deve stupire. Il 23 marzo in un’intervista a Repubblica, Angelo Borrelli si è definito così: «In quei tempi io sono stato il ministro delle Finanze di Bertolaso, il mio insegnante, e ho gestito miliardi. Non sono mai andato in galera, credo di meritare la fiducia dei cittadini». In tempi di epidemia, l’attuale capo dipartimento non è mai stato formalmente nominato commissario straordinario dal premier Giuseppe Conte (anche se documenti del ministero della Salute lo definiscono così). Ma Borrelli se ne è legalmente attribuito i poteri con l’ordinanza di Protezione civile numero 630 da lui stesso firmata il 3 febbraio, tre giorni dopo la delibera di Conte sullo stato di emergenza in vista di possibili focolai anche in Italia. Subito all’articolo 1 della sua ordinanza, Borrelli scrive: «Per fronteggiare l’emergenza... il capo dipartimento della Protezione civile assicura il coordinamento degli interventi necessari, avvalendosi del medesimo dipartimento... nonché di soggetti attuatori individuati anche tra gli enti pubblici economici e non economici e soggetti privati». Bertolaso progettava una Protezione civile spa. Oggi vediamo in azione la Protezione civile srl. Uno di questi soggetti privati infatti è proprio Fabrizio Macchia con la sua Apogeo srl, la stessa società con cui condivide gli incassi dell’attività teatrale dell’amico Carducci. Il 3 marzo la Cina vuole aiutare l'Italia con spedizioni a prezzi di favore. Ma gli uffici di Borrelli incaricano come garanzia per il pagamento una srl privata specializzata in oggettistica come tapiri di plastica, statuine di Batman, ombrelli e cavatappi. E da Pechino si ritirano. Ecco i documenti. Il 31 marzo L’Espresso scopre che proprio la decisione di Colicchio e del suo capoufficio di far pagare un grosso fornitore dalla società di Macchia ha fatto perdere a inizio epidemia la fornitura di milioni di mascherine chirurgiche certificate: cinque milioni già pronte in India e altri venti milioni in arrivo dalla Cina che la Protezione civile stava ricevendo grazie alla discreta mediazione del ministero della Sanità di Pechino. Il produttore cinese aveva notato su Internet che la ditta improvvisamente incaricata del pagamento di milioni di euro aveva un capitale sociale di appena 52mila euro, nessuna reputazione sanitaria e una specializzazione nell’importazione di tapiri in plastica, statuine di Batman, cavatappi e altri gadget. Da documenti e email letti da L’Espresso, Pietro Colicchio e Apogeo dal 3 al 7 marzo non sono in grado di organizzare la spedizione dai magazzini in India. Poi Nuova Delhi blocca le esportazioni di materiale sanitario. Il canale con il produttore cinese e il suo rappresentante rimane comunque aperto fino al 20 marzo. Quel giorno però Simone Campagnola, socio di Fabrizio Macchia in Apogeo, via email cancella l’ordine e mette in copia Colicchio: «Stiamo già comprando a prezzi molto più competitivi», scrive Campagnola al rappresentante del produttore cinese in India, «e non abbiamo bisogno di nessun supporto. La Protezione civile è informata». Curiosa decisione perché la fattura proforma indica per cinque milioni di mascherine certificate a tre veli un prezzo di 34 centesimi l’una: basta paragonarlo oggi al costo unitario di 1,20 euro più Iva offerto da Confindustria ai sindaci per protezioni non garantite. Alle nostre domande,  Angelo Borrelli risponde  che Apogeo srl è stata segnalata con altre imprese proprio da Confindustria e che si tratta di uno dei 37 operatori economici che a fine marzo aveva ricevuto dal dipartimento «commesse pari al 9 per cento degli ordinativi totali». Sempre secondo Borrelli, la Protezione civile ha comunque previsto per Apogeo srl compensi fissi di intermediazione. Da quanto risulta a L’Espresso, almeno due grossi fornitori stranieri sono stati indirizzati alla ditta privata anche quando chiedevano di trattare direttamente con lo Stato. Un recente esposto presentato ai carabinieri della Legione Lazio rivela inoltre che la società di gadget si serve di subfornitori italiani e da loro poi recupera le spese sostenute per conto della Presidenza del Consiglio. Un giro confuso di passaparola che allunga tempi e costi. E che lascia senza risposta la domanda più importante: perché Borrelli, che dalla dichiarazione dello stato di emergenza il 31 gennaio aveva a disposizione ministeri, dipartimenti statali e forze armate, ha schierato per difenderci un esercito di srl?

Angelo Borrelli: «La Protezione civile non è in mano alle lobby». L’India promise cinque milioni di mascherine, mai arrivate. Nessun compenso per gli intermediari italiani. L'Espresso il 13 aprile 2020. Caro Direttore, se Fabrizio Gatti mi avesse rivolto la domanda che chiude il suo  articolo , prima di pubblicarlo sul sito internet dell’Espresso, gli avrei risposto con piacere. Ma evidentemente quello che gli sta a cuore è continuare a dire che il Dipartimento della Protezione Civile avrebbe fatto perdere cinque milioni di mascherine dall’India. Vista la ripetuta attenzione del vostro giornale su questa vicenda, dopo aver già risposto su alcuni aspetti, è necessario fare chiarezza specialmente sul fatto che nessuno ha mai ostacolato l’arrivo di materiali sanitari destinati alla lotta contro il Coronavirus. Il primo contatto da parte del Dipartimento della Protezione civile con la società Anotop avviene grazie a una segnalazione del sig. Vincenzo Scancamarra. Dalle prime interlocuzioni emerge che l’azienda indiana sarebbe stata in grado di fornire 5 milioni di mascherine in una settimana, un quantitativo simile e in tempi così contenuti, era di sicuro interesse ma anche alquanto anomalo. Così, cautelativamente, in data 4 marzo, si è preferito chiedere alla società Apogeo, che aveva già dato prova di solidità finanziaria e di affidabilità, di farsi carico dell’intermediazione dell’operazione. A riprova della sua concretezza, la società aveva già importato, senza pagamento di alcun anticipo, circa 800.000 mascherine ffp2. Nel corso delle successive interazioni, la società indiana Anotop ha comunicato alla società Apogeo che non sarebbe riuscita a garantire i quantitativi ipotizzati nei tempi previsti. Ciononostante, si è attesa una nuova proposta, proprio per non escludere nessuna strada che potesse consentire di aumentare la disponibilità dei dispositivi di protezione. La nuova proposta prevedeva la consegna di 200.000 mascherine alla fine della settimana e 500.000 mascherine la settimana successiva, numeri molto lontani dai 5 milioni promessi. Il 20 marzo - dopo circa due settimane dal primo contatto - avendo riscontrato che ancora non si era arrivati ad una fornitura, sono stati interrotti i rapporti con Anotop che nella stessa giornata ha comunicato l’impossibilità di procedere alla fornitura dall’India a causa della chiusura delle esportazioni da parte delle dogane. È bene sottolineare che per l’attività di intermediazione condotta da Apogeo, vista la mancata consegna della fornitura, non è stato versato alcun compenso. Preme inoltre evidenziare che procedere ad approvvigionamenti di beni e servizi attraverso l'intermediazione di agenti non solo è assolutamente legittimo, ma persino consigliato in situazioni di estrema urgenza e imprevedibilità, come quella che stiamo vivendo; è la stessa Commissione Europea, infatti, ad indicarla tra le opzioni previste dal quadro normativo comunitario per "acquistare il più rapidamente possibile beni e servizi direttamente collegati alla crisi della Covid-19". Sarebbe interessante, piuttosto, sapere da Fabrizio Gatti quale ministero, dipartimento statale o forza armata è in grado di produrre mascherine, tute, camici o ventilatori per la terapia intensiva. Se, come lui propone, avessimo cercato tra questi enti i produttori dei dispositivi di protezione individuale saremmo stati a dir poco degli sprovveduti e avremmo perso tanto tempo inutilmente. Riguardo alle allusioni sottese nel suo articolo in relazione alle ulteriori attività professionali di Fabrizio Macchia o come preferisce chiamarlo ingiustificatamente Gatti  “deus ex machina”, ci tengo a precisare con forza che mai abbiamo agito per soddisfare richieste di gruppi di interesse o lobby politiche. Il Dipartimento che dirigo può vantare di non aver mai perso un minuto in queste attività, rivolgendosi esclusivamente a chi poteva essere in grado di garantire la fornitura dei materiali, stando sempre attenti a truffatori e speculatori, rispettando tutte le norme e tutelando attentamente soldi pubblici. Abbiamo lavorato senza sosta per individuare e reperire, nel rispetto delle procedure consentite dalle norme, la quantità maggiore di dispositivi e materiali sanitari per fronteggiare l’emergenza Coronavirus, in un contesto caratterizzato da una carenza generalizzata di prodotti che coinvolge il mercato italiano ed estero. Si tratta di un’attività che abbiamo svolto e continuiamo a svolgere in un’ottica di massima collaborazione per supportare il Commissario Arcuri, il cui scopo non è certamente quello di vigilare sulle attività della Protezione civile - come viene scritto nell’articolo - ma di assicurare la più elevata risposta sanitaria all'emergenza. Quanto al mio ruolo, attraverso due note del Ministro della Salute e del Presidente del Consiglio dei Ministri sono stato indicato per assicurare il coordinamento degli interventi di protezione civile per l’emergenza Coronavirus. Questa scelta è stata recepita attraverso un’ordinanza di protezione civile che, come previsto anche nella delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio scorso, rappresenta lo strumento normativo attraverso cui vengono attuati gli interventi di protezione civile in caso di dichiarazione dello stato di emergenza che viene stabilito dal Governo. Nella speranza di aver chiarito la vicenda relativa alla fantomatica partita di 5 milioni di mascherine provenienti dall’India, mi permetta di definirla cosi in considerazione delle reiterate modifiche di offerta a noi pervenute, confermandole la consueta disponibilità mia e del mio Dipartimento di rispondere dettagliatamente alle vostre domande, saremmo lieti di essere contattati prima della pubblicazione di un vostro articolo e non essere costretti a rispondere nuovamente a seguito di vostre pubblicazioni.

La nostra risposta. La nostra inchiesta sull'insufficiente approvvigionamento di mascherine protettive è tra l'altro confermata dal grafico pubblicato dal sito della Presidenza del Consiglio sul trend giornaliero dei materiali distribuiti (qui sotto). Nonostante l'emergenza sia stata dichiarata il 31 gennaio con precisi compiti affidati al Dipartimento della Protezione civile per "porre in essere tutte le iniziative di carattere straordinario sia sul territorio nazionale che internazionale" e l'epidemia sia stata confermata in provincia di Lodi il 21 febbraio, fino al 10 marzo la distribuzione di protezioni è minima e aumenta significativamente soltanto dopo il 18 marzo, periodo che coincide con la nomina da parte del premier del commissario straordinario Domenico Arcuri. (Fabrizio Gatti) 

Striscia smaschera la truffa delle mascherine: Moreno Morello aggredito con la scimitarra. A Striscia la notizia si torna a parlare di truffa nella vendita delle mascherine: Moreno Morello ha raggiunto una delle persone indagate, che l'ha accolto armato di scimitarra. Francesca Galici, Martedì 28/04/2020 su Il Giornale. Continua l'inchiesta di Striscia la notizia sulla truffa delle mascherine in un ospedale ligure con Morello Morello. Il candido inviato del telegiornale satirico di Canale5 - ancora una volta - si è fatto portavoce di un'ingiustizia, in un momento di forte difficoltà come la pandemia da coronavirus. Il giornalista ha individuato il presunto responsabile ma l'accoglienza ricevuta non è stata cordiale e la troupe di Striscia la notizia ha rischiato di subire un'aggressione con un'arma da taglio. I fatti risalgono a diverse settimane fa, quando un'infermiera si è impegnata per trovare le mascherine protettive per sé e per i suoi colleghi. Disperata dall'impossibilità di rintracciare i dispositivi di sicurezza, la donna aveva lasciato un messaggio sui social. Qui inizia la truffa, perché l'infermiera è stata adescata da un sedicente rivenditore che, anche in seguito a contatti telefonici, ha ingannato l'operatrice sanitaria. Diversi bonifici, per un totale di circa 1000 euro, sono stati estorti alla donna con l'inganno di ricevere in tempi brevi la fornitura di mascherine. A distanza di giorni, non ricevendo la merce, la donna ha sporto denuncia. La banda individuata dai carabinieri era composta da cinque persone tra i 30 e i 45 anni residenti nel Lazio. Sono tutti stati denunciati per truffa aggravata in concorso e per loro è stata anche richiesta la misura della custodia cautelare e nel frattempo gli inquirenti stanno indagando su altre possibili truffe simili. L'infermiera dell'ospedale Santa Corona di Pietra Ligure si era mossa in totale buona fede in un momento di fortissima emergenza coronavirus e anche questa condizione di paura dettata dalla pandemia è considerata un'aggravante per il compimento della truffa. Nelle scorse settimane, Moreno Morello e Striscia la notizia si erano già occupati di questa questione. Nella puntata in onda questa sera a partire dalle 20.45 torneranno a trattare l'argomento, con un epilogo inaspettato. Dopo il servizio andato in onda lo scorso 15 aprile, tantissime segnalazioni da parte dei cittadini hanno permesso a Moreno Morello si risalire all'indirizzo di una delle persone coinvolte nella truffa. Con grande coraggio, Moreno Morello ha raggiunto l'abitazione di questa persona che dopo ripetute minacce all'inviato di Striscia la notizia, è passato ai fatti. Ha improvvisamente sguainato e brandito una scimitarra, scatenando il panico. Solo il tempestivo intervento delle forze dell'ordine, chiamate da chi ha assistito alla scena, ha impedito che la situazione degenerasse in modo irreversibile. Non è la prima volta che Moreno Morello subisce un'aggressione durante lo svolgimento del suo lavoro.

Giacomo Amadori e Alessandro Rico per “la Verità” il 9 settembre 2020. Piange miseria la Nexus made Srl, la ditta di Ostia cui il commissario straordinario, Domenico Arcuri, era pronto a versare 45 milioni di euro per 180.000 banchi. Nel suo bilancio, la società dichiara che nel 2020 subirà, causa Covid, «una sensibile contrazione del fatturato». Ciò l' ha costretta a «contenere il più possibile tutti i costi» e a fare «ricorso agli ammortizzatori sociali per i dipendenti», oltre ai «finanziamenti agevolati» previsti dal decreto Liquidità. D' altronde, l' azienda si occupa di organizzazione eventi. E così, a marzo, ha messo in cassa integrazione quello che, nel bilancio 2019, risultava essere il suo unico dipendente, nonché suo proprietario e socio principale (aveva corrisposto 3.900 dei 4.000 euro del capitale registrati nell' ultima visura): Fabio Aubry, nato a Roma nel 1964 e, fino al 2019, rappresentante legale della Nexus sistemi Srl di Pomezia, ora in liquidazione. L'uomo è stato anche deferito all' autorità giudiziaria, nel 2013, per insolvenza fraudolenta. Abbiamo provato a contattarlo telefonicamente e via sms per un chiarimento, ma Aubry non ha risposto. Suo fratello Franco (pure lui irreperibile), amministratore unico della Nexus made Srl (quella che doveva consegnare i banchi), è dipendente presso un' altra ditta, la Sater4show di Casal Lumbroso. Sì, il Franco Aubry, che su Facebook dichiara di lavorare alla Sater come elettricista, è lo stesso Franco Aubry, nato a Marino nel 1973, amministratore di Nexus. Ce lo confermano due soci della Sater, Cristian e Luigi Santini. Quest' ultimo, che riferisce di essere «amico di Fabio Aubry da trent' anni», appare esterrefatto quando gli raccontiamo dell' appalto per 180.000 banchi e del contratto risolto dopo la nostra inchiesta: «Me coj», commenta in romanesco. «Quarantacinque mijoni? Fabio se sarà sbajato, avrà letto 4,5».Non c' è che dire: sul tavolo della struttura commissariale di Arcuri era finita un' azienda dalle credenziali impeccabili. E pensare che il contratto per la fornitura di arredi scolastici, la Nexus l' aveva ottenuto: «Ah, hanno pure vinto il bando?», chiosa ironico Luigi Santini. Già: un' impresa che certifica di navigare in cattive acque per via del coronavirus, il cui socio principale e unico dipendente, denunciato nel 2013 per insolvenza fraudolenta, è entrato in cassa integrazione a marzo, avrebbe dovuto realizzare a tempo di record ben 180.000 banchi di scuola. Quelli che, a metà agosto, in diretta a In Onda su La 7, Arcuri assicurava sarebbero stati consegnati entro ieri. Tra la Nexus e la Sater4show, che ha lavorato già con la Pa, persino ai G7 di Ischia e Taormina, nel 2017, esiste dunque un trait d' unione: Franco Aubry. Un centauro, per metà elettricista e per metà amministratore unico dell' impresa di Ostia. Il nome delle due ditte figura sulla cassetta delle lettere di un edificio di Ostia, in via Consalvo 2, sede legale della Nexus. Una palazzina gialla, accanto a un piccolo teatro. All' interno, però, siamo riusciti a scorgere solo un parcheggio e un' auto bianca in sosta. Il proprietario della vettura diceva di aver affittato il posto macchina, ma di non risiedere nello stabile. Alla fine, svelato l' arcano: dietro via Consalvo, in via Armuzzi 6, in un edificio liberty giallo e rosso, con qualche segno del tempo sui fregi del portone, c' è lo studio Proteo. È un commercialista: la segretaria dalla chioma fulva ci spiega che lì si appoggiano sia la Sater sia la Nexus, ma che non è autorizzata a dare i recapiti dei rappresentanti legali. All' atto della fondazione della Nexus, nel dicembre 2015, si erano riuniti Franco Aubry e Roberta Aubry, romana, classe 1995, figlia di Fabio. Avevano costituito la Nexus made Srl con un capitale di 2.000 euro. Roberta ne aveva versati 1.900. Ma sebbene le fosse stato attribuito il 95% della quota di partecipazione al capitale sociale, al telefono ieri è caduta dalle nuvole. Come se, di quella stipula di cinque anni fa, non avesse mai saputo nulla. Franco, invece, si era limitato a 100 euro. D' altronde, l' elettricista della Sater non vive esattamente in una reggia: è proprietario di un immobile di quattro vani, in via Solferino, a Frascati. Un edificio centrale, ma modesto, con le mura esterne visibilmente scrostate. Ma se lui guadagna meno di 2.000 euro lordi al mese, anche il fratello «capitalista», Fabio, non porta a casa cifre molto superiori. Costui risultava residente, con la madre defunta, in un caseggiato popolare di Ostia, a due passi dal viadotto Attico Tabacchi. Ma nell' abitazione abbiamo trovato due giovani, in tenuta da spiaggia, che ci hanno riferito di essere «appoggiati» lì: «Adesso Fabio sta all' Infernetto o a Casal Palocco». Un indizio per metterci sulle sue tracce ce l' ha fornito Santini: «L' ultima volta che ho lavorato con lui è stato qualche anno fa a un' Expo. Che io sappia, hanno una falegnameria in un capannone». Un tassello importante, per capire come la Nexus abbia potuto lasciarsi ingolosire dal bando per i banchi, considerato che nel suo oggetto sociale si parla di «diffusione, promozione, organizzazione e gestione di manifestazioni, eventi, fiere, congressi, spettacoli, mostre», o di «installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione [] di impianti [] di distribuzione e di utilizzazione dell' energia elettrica». Mica di opere di falegnameria. Eppure, per vincere la gara di Arcuri, bisognava dimostrare «forniture di prodotti analoghi effettuate negli ultimi tre anni». Il famoso capannone è situato in via delle Pesche, a Pomezia, ed è indicato sulla visura come «sede secondaria» della Nexus made Srl. Quando siamo arrivati in zona, in piena campagna, al tramonto, era già troppo tardi: dentro la struttura, solo una macchina con targa rumena e un telefono che squillava a vuoto. Raffaele Romeo, tuta da lavoro e sigaro in mano, è lì vicino. È titolare della Metallurgica europea Srl. «Di chi è l' azienda qui a fianco? Di Fabio Aubry. Sono qui, credo, dal 2006. Fanno falegnameria, arredamenti per interni e anche palchi per eventi, roba grossa. All' epoca lavoravano tanto con i palchi per eventi, noleggiavano attrezzature. Hanno fatto allestimenti pure per gli internazionali di tennis. Hanno lavorato anche per il governo uzbeko». Gli spieghiamo che hanno appena perso un appalto da 45 milioni. «Non hanno la forza finanziaria per un impegno del genere. Sono usciti con le ossa rotte dai lavori con l' Uzbekistan. Io gli avevo detto di non mandare fuori il lavoro se prima non lo pagavano. Fabio mi ha risposto: "No, questi sono tranquilli, hanno promesso di pagarmi"». Ma che lavoro era? «Tre-quattro anni fa c' è stata una cosa mondiale di cui hanno parlato pure in televisione, loro hanno fatto questo grande palco, erano tanti soldi. Ma alla fine non li hanno pagati. E noi comuni mortali, se non ci pagano all' estero, non è che possiamo mandare un avvocato lì a difenderci». La falegnameria di Aubry avrebbe lavorato anche per il colosso della nostra industria nautica, la Fincantieri. «Per loro facevano gli allestimenti delle navi da crociera. In quel periodo gli ho fatto io tutte le strutture in metallo, i teatrini per i ragazzini []. Fabio non lo vedo da un po', anche perché mi doveva dare dei soldi per un muletto, 4-5.000 euro, e si è dimenticato. Quando glieli ho chiesti, lui è caduto dalle nuvole: "Ah, perché, non avevo finito di pagartelo? Allora parlo con un commercialista". Questo un paio di mesi fa».Hanno mai fatto politica? «Che mi risulti no. Non ho mai capito in che area siano posizionati. Agganci politici diretti non credo che ne abbiano []. L' unico collegamento che mi viene in mente è che in questo periodo ha qui a lavorare personale di Ora acciaio, ecco perché i banchi. Credo che sia una ditta che sta sulla Pontina. Fa arredamenti di un certo livello. Hanno una commessa di scrivanie per gli emirati arabi, roba da 10-15.000 euro l' una». Arcuri stava facendo un affare: scegliere l' azienda dell' uomo con il debito da 5.000 euro per il muletto, che doveva fabbricargli 180.000 banchi per 45 milioni.

 “Non siamo noi la Ecotech del Mascherina gate del Lazio”. Le iene News il 15 maggio 2020. Raccogliamo il video appello dell’amministratore della EcoTech Engineering e Servizi Ambientali S.r.l., che non ha nulla a che fare con la ECOTECH delle “mascherine fantasma” vendute alla Regione Lazio e mai arrivate. Ma che per l’omonimia sta perdendo contratti e lavoro. “Noi siamo la EcoTech Engineering e Servizi Ambientali S.r.l. e non abbiamo nulla a che fare con la ECOTECH S.R.L. di cui parla l’inchiesta di Antonino Monteleone sulla fornitura di mascherine anti Covid alla Regione Lazio. L’omonimia ci sta creando un sacco di problemi. La volete sapere l’ultima? Proprio ieri un dipendente di quella ECOTECH di cui parla il vostro servizio, che si è voluto dimettere, ha mandato la propria lettera di dimissioni alla nostra casella di posta certificata, confondendosi anche lui….”. A contattarci è Enzo Rinalducci, amministratore di un’azienda che in questi giorni sta ricevendo decine e decine di richieste di spiegazione dai suoi clienti, perché confusa con l’omonima ECOTECH di cui vi abbiamo parlato più volte nella vicenda del “mascherina gate”, ovvero delle mascherine che la Regione Lazione ha acquistato dall’“altra” che si chiama ECOTECH e che non sono mai arrivate nonostante un acconto di 11 milioni di euro. Rinalducci ha mandato a Iene.it il video appello che vedete sopra: “Abbiamo avuto anche delle disdette di contratti, da parte di persone che non hanno avuto il coraggio di chiamarci e capire se eravamo noi o no quelli coinvolti nella vicenda delle mascherine ”. Perché sta accadendo tutto questo? Lo spiega ancora Rinalducci: “Siamo i primi a comparire con questo nome nei motori di ricerca e abbiamo una sede distaccata per ogni regione. È abbastanza facile quindi che alcuni clienti attuali, e soprattutto i futuri, possano associarci alla vicenda che sta avendo grande eco nell’opinione pubblica italiana. Tutto questo ci sta causando danni inestimabili, a livello di reputazione digitale e anche di fatturato. Quindi voglio ribadirlo ancora una volta: noi siamo la EcoTech Engineering e Servizi Ambientali S.r.l. e abbiamo sede a Perugia. Non c’entriamo assolutamente nulla con quell’altra azienda, che si chiama ECOTECH S.r.l.”. Una storia di omonimia che ricorda un po' quello che è  successo e che vi abbiamo raccontato con una ditta di trasporti a conduzione familiare, che si era trovata a dover rispondere di una presunta truffa operata da una ditta omonima, ancora una volta nell’ambito delle mascherine.

Covid, c'è un "mascherina gate" nel Lazio. Le Iene News il 29 aprile 2020. La Regione guidata dal governatore Zingaretti tenta di comprare da EcoTech, azienda che vende lampadine a Led, mascherine per 35 milioni di euro. Le mascherine non arrivano, ma le casse dell’Ente sborsano 11 milioni di euro di anticipo. E quelle mascherine, si scopre poi, sarebbero anche state pagate quasi il doppio del prezzo di mercato. Antonino Monteleone indaga sul caso. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci parlano delle mascherine anti Covid acquistate dalla Regione Lazio. Parliamo del cosiddetto “mascherina-gate” dell’amministrazione Zingaretti, ovvero l’acquisto di 7 milioni e mezzo di mascherine, pagate con un anticipo di ben 11 milioni di euro e mai arrivate. Mascherine comprate, a quanto risulterebbe, a un prezzo ben superiore a quanto era possibile trovare sul mercato e per le quali Regione Lazio ha anche versato appunto un anticipo di 11 milioni di euro. La prima ad accorgersi che qualcosa forse non andava in quella fornitura, è la consigliera regionale di opposizione Chiara Colosimo. La raggiungiamo con una chiamata su Skype:”Trovo ovviamente grandi cifre per le mascherine. Ad un certo punto trovo una revoca, e mi cade l’occhio lì, perché noi eravamo in quel periodo assaltati dalle richieste del personale sanitario per ricevere queste mascherine e quindi mi domando come mai queste mascherine non servono più”. La Regione avrebbe dunque revocato quella fornitura, per la quale però aveva già anticipato ai venditori, la Ecotech, 11 milioni di euro. La consigliera Colosimo il 7 aprile fa un’interrogazione in aula e grida alla truffa e pochi giorni dopo, l’11 aprile, colpo di scena: la Regione Lazio rinnova i contratti appena revocati, negando vi sia una truffa. La Colosimo si mostra davvero stupita: “Loro hanno scritto che la società era inaffidabile e non rispondeva alle mail via pec, che addirittura gli avevano comunicato un volo aereo mai arrivato, cioè cose di una gravità inaudita. Come dal giorno alla notte questa società sia diventata affidabile non si è capito. Questa Ecotech è una società che vende lampadine al Led e che ha un capitale sociale minimo di 10mila euro, che riceve però una commessa di oltre 35 milioni di euro”. Antonino Montelone sente per telefono Sergio Mondin, responsabile di Ecotech, che dopo aver detto: "Non ho bisogno che venga lei a fare la morale a me… con me caro mio le parole le deve pesare, sta facendo la Iena molto bene ma con questo sta facendo molto male...” si rifiuta di fatto di dare una spiegazione alle domande di Monteleone sulla quella fornitura. Sostiene la consigliera regionale di FDI Roberta Angelilli: "Molte di queste società si occupavano di tutto tranne che di forniture sanitarie: c’è chi si occupava di edilizia, vendita di lampadine, addirittura c’è una società che si occupa di benessere sessuale, ma non si occupavano di forniture sanitarie”. Ci siamo chiesti poi se la Regione si sia impegnata ad acquistare milioni di mascherine ai prezzi di mercato. Una possibile risposta la fornisce la stessa Angelilli: "Assolutamente no, la Ecotech acquista da un’altra società un quantitativo di mascherine. Rivende poi queste mascherine alla Regione Lazio ad un prezzo che varia dai €3,60 ai €3,90. Cosa c’è di strano? Pare che la società Exor avesse depositato in Regione Lazio, un preventivo in cui proponeva le stesse mascherine al prezzo di €2,53”. Parliamo di un esborso di denaro pubblico aggiuntivo di circa 7 milioni di euro”, conclude la consigliera. Antonino Monteleone chiede spiegazioni alla persona responsabile di queste scelte, il capo della Protezione Civile della Regione Lazio Carmelo Tulumello, accompagnato dall’addetto stampa della Regione Lazio Emanuele Lanfranchi. Spiega Tulumello: “Noi le aziende le abbiamo chiamate direttamente, cercandole di notte anche su Internet perché tutte quelle che noi chiamavamo non avevano il prodotto. Io compro quello che mi si chiede di comprare e al miglior prezzo in cui lo trovo”. Gli spieghiamo che esistono mascherine 3M in commercio a prezzi molto più bassi di quelli a cui sono state acquistate, circa due euro in meno a pezzo e che sono state offerte anche alla Regione con un preventivo. Ce l’hai un documento che lo prova?, chiede l’ufficio stampa. Ed eccolo allora, il preventivo ricevuto dalla Regione Lazio il 19 marzo del 2020, per l’acquisto di mascherine di marca 3M ffp3 e ffp2 offerte a 2,53 euro l’una. Un prezzo ben diverso dai 3 euro e 60 e 3 euro e 90 per gli stessi modelli di mascherine sempre 3M offerti e comprati dalla regione dalla Ecotech. Il documento ce l’ha fornito l’avvocato che rappresenta la società che aveva offerto, sempre alla Regione, le stesse mascherine 3M ma ad un prezzo di molto inferiore. Spiega Giuseppe Cavallaro, legale di Este Italia, agente Exor: "Le 3M erano previste proprio in quel preventivo, il dottor Antonelli è stato chiamato dal mio assistito il 19 marzo. Il dottor Antonelli è un funzionario della Protezione Civile dell’area legale che ha confermato la ricezione del preventivo e che il preventivo era stato processato”. Quindi quel preventivo, a quanto parrebbe di capire dalle sue parole, sarebbe stato scartato per motivi discrezionali. E l’avvocato chiede: “È giusto che la ecotech guadagni il doppio del prezzo di mercato? C’è un’inchiesta della procura no?”. Dopo questa intervista, la Regione Lazio ha revocato per la seconda volta i contratti da 35 milioni di Euro con la Ecotech, per la fornitura di mascherine, chiedendo anche la restituzione di quanto anticipato. I legali di Ecotech, dal canto loro, insistono nel promettere che faranno di tutto per adempiere ai contratti. Arriveranno mai le mascherine promesse? E in caso negativo, la Regione Lazio riavrà mai gli 11 milioni di euro di acconto dati alla ditta di lampadine fino a oggi inadempiente?

Regione Lazio e mascherina gate: spunta un altro preventivo “fantasma” e chi ha segnalato la ditta sotto accusa. Le Iene News il 6 maggio 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul “mascherina gate” della regione Lazio, scoprendo una nuova offerta per la fornitura di mascherine, economicamente più vantaggiosa della vincente, ma ignorata dalla Protezione Civile. È vero che la ditta inadempiente è stata segnalata dal Gabinetto di Zingaretti? Ecco come Regione Lazio, attraverso il capo della Protezione Civile regionale Carmelo Tulumello, ha risposto alle nostre 10 domande a Nicola Zingaretti. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torniamo a parlare del “mascherina gate” della Regione Lazio, di cui vi abbiamo già raccontato nel corso della precedente puntata. A fine articolo, troverete le 10 domande che, sulla vicenda, abbiamo posto a Nicola Zingaretti il Presidente della Regione Lazio, che ci ha fatto rispondere dal capo della Protezione Civile regionale Carmelo Tulumello. Ma andiamo per ordine. Vi avevamo mostrato come la Regione Lazio si fosse impegnata ad acquistare 35 milioni di euro in mascherine anti-Covid, con un incarico diretto, dando anche, inusualmente, un anticipo di 11 milioni alla ditta che doveva fornirle, la Ecotech, un’azienda che in realtà non ha mai gestito affari di questo tipo, perché impegnata nella vendita di lampadine a Led (e che tra l’altro non aveva poi consegnato gran parte di quelle mascherine). Abbiamo scoperto un’altra cosa molto strana. Ce la racconta la consigliera d’opposizione Angelilli: “È comparso un nuovo preventivo che è stato mandato il 19 marzo alla Protezione Civile del Lazio, un preventivo di un imprenditore noto, credibile, tra l’altro anche ideatore di una startup innovativa, ad un prezzo minore delle offerte di cui abbiamo parlato fino a questo momento. Ma non è stato proprio preso in considerazione, non si capisce perché”. Ce ne parla Filippo Moroni, l’imprenditore italiano già noto alle cronache per i suoi progetti innovativi come la stampante in 3D per smartphone. "Lavoro in Cina da 4 anni e ho una fabbrica a Shenzhen, un contratto con il governo cinese: ci occupiamo di nuovi progetti industriali, per cui anche materiale medicale. Sono andato umilmente attraverso il centralino alla Regione e poi sono andato fino alla Protezione Civile, in particolare all’ufficio di Tulumello, nella persona di Roberta Foggia. Ho parlato per circa una settimana, ma è stato un dialogo surreale, quasi assurdo: ho dovuto anche registrare ad un certo punto queste telefonate perché mi sembrava veramente di parlare con un’entità metafisica...”. Il suo preventivo, racconta ancora Moroni, non si capirebbe perché non farebbe parte dei 22 preventivi che la regione Lazio ha preso in considerazione. “Io non ho mai ricevuto una risposta, se sono stato preso in considerazione non credo nemmeno perché ho scoperto che gli appalti per oltre 30 milioni di euro sono stati assegnati a ben altre società con ben altri prezzi, e sono sicuro che i nostri prezzi erano assolutamente corretti perché viviamo in Cina, siamo a pochi minuti dai produttori”. Insomma l’imprenditore Filippo Moroni sostiene di aver offerto, il 19 marzo, mascherine FFP2 a 1 euro e 89 al pezzo e a questo punto proprio non si capirebbe perché la Regione Lazio ne abbia preferiti altri 3, molto più costosi. Scopriamo così come le abbia poi acquistate a 3 euro e 50 a mascherina da una ditta, a 3 euro 60 quelle della famosa Ecotech e a 3 euro e 90 da un’altra ditta ancora. Moroni prosegue: ”Che un preventivo si perda ci posso anche stare, che sette-otto preventivi si perdano assolutamente no, casualmente tra l’altro i preventivi più economici e i più corretti di tutti. Anche perché io chiamavo quasi tutti i giorni la dottoressa Roberta Foggia che ad un certo punto mi ha addirittura minacciato di querelarmi per stalking, per la quantità di telefonate che la riguardavano.” Moroni racconta ad Antonino Monteleone di avere iniziato a chiamare e a mandare il suo primo preventivo alla Protezione Civile  il 15 marzo. Qualche giorno dopo, il 20, lo stesso Moroni fa un appello pubblico: “Vi scongiuro, superate la burocrazia che sta bloccando tutto. Ogni ora che passa sono decine di morti in più”. Un appello che, a suo dire, la Protezione civile non avrebbe proprio preso benissimo… Ascoltiamo una telefonata intercorsa tra Moroni e Roberta Foggia, funzionaria della Protezione civile: "Io questa mail la prendo e la porto a denunciarla ok? Ricominciamo da capo, nel caso i suoi tempi di consegna sono congrui alle nostre esigenze la chiamiamo ok?”. Moroni, in base agli accordi contrattuali, proponeva una consegna in 7 giorni, ma nessuno, sostiene, l’avrebbe più richiamato. Eppure, in quegli stessi giorni, il vicepresidente della regione Lazio Daniele Leodori, in Consiglio Regionale, diceva: “Fino al 20 marzo noi abbiamo ovunque cercato aziende che potessero darci un lume di speranza nel reperimento di dispositivi di emergenza”. Ma come? La Regione cercava disperatamente mascherine e Moroni, in quegli stessi giorni, cercava disperatamente di vendergliele. Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato. Una vicenda, questa del “mascherina gate”, che si starebbe estendendo anche a un’altra giunta regionale, sempre guidata dal Partito democratico, quella dell’Emilia-Romagna. Il governatore emiliano Stefano Bonaccini infatti avrebbe versato un anticipo di 2 milioni e 600 mila euro sempre alla Ecotech, l’azienda che ha vinto l’appalto nel Lazio, azienda che però poi, come sostenuto dalla stessa giunta regionale, avrebbe fornito all’Emilia-Romagna solo tute protettive. Filippo Roma va dal Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, a chiedere spiegazioni della vicenda delle mascherine. “Speriamo che non siamo stati truffati, se siamo stati truffati chiederemo giustizia e spero che Le Iene si schierino con gli eventuali truffati e non con gli eventuali truffatori solo perché sono del PD. Io spero che Le Iene non diventino i portavoce di salvini leghisti", dice. Filippo Roma ci tiene a precisare: "Guardi però è da settimane che vi segnaliamo come va sta cosa e fate orecchie da mercante e infatti…". “No no no, questo lo dice lei perché deve fare audience, io spero che Le Iene si schierino al fianco degli eventuali truffati...”. Nessuna spiegazione insomma. Al presidente Zingaretti avremmo voluto chiedere alcune cose, sui preventivi più convenienti spariti nel nulla e sulle polizze assicurative che sembrano farlocche. Avremmo anche voluto sapere con quali criteri sono state scelte le aziende a cui dare anticipi milionari del 50 per cento. Come è successo per la ditta Worldwide Luxury Corner di Patrizia Colbertaldo, che nella vita oltre ad essere una “holistic life coach”, nel 2008 era candidata nella lista a sostegno di Paolo Orneli, candidato dal Pd a Presidente di Municipio ad Ostia. Quello stesso Orneli che oggi riveste il ruolo di assessore allo sviluppo economico della Giunta Zingaretti. Parliamo, in questo caso, di 2 milioni di anticipo e anche qui di problemi e ritardi con la consegna delle mascherine.Tutto molto particolare, insomma: candidata nel Lazio non eletta, la ditta a casa propria, due milioni e mezzo di euro d’anticipo. Ma la Regione Lazio, ci chiediamo, come li sceglie i fornitori? Ma la domanda che più ci preme è un’altra: qualcuno ha presentato alla Regione Lazio la Ecotech, l’azienda che ha vinto la fornitura di mascherine per 35 milioni di euro pur non essendo minimamente del settore? La consigliera di FDI Angelilli prosegue: ”Il vice presidente della giunta regionale Daniele Leodori ha mostrato una serie di preventivi tra cui un preventivo che era di un tal Ivan Gilardi. Questo preventivo sarebbe stato più oneroso quindi peggiore di quello della Ecotech. Questo Ivan Gilardi abbiamo saputo che avrebbe messo in contatto la Ecotech con la Regione Lazio e soprattutto avrebbe partecipato a delle riunioni con l’ufficio di gabinetto di Zingaretti". Ma chi è davvero questo Ivan Gilardi? La Regione Lazio ne parla come un imprenditore che avrebbe fatto un’offerta poi scartata, in quanto non competitiva, mentre l’opposizione lo indica come il possibile contatto della Ecotech con la Regione. Filippo Roma va a conoscerlo. E l’uomo risponde così: "Io mi sono avvicinato come intermediario per alcune società, nazionali ed internazionali avendo dei rapporti esteri e mi sono mosso come vede lei. Io mi sono mosso sia singolarmente che poi, rendendomi conto che non era nelle mie possibilità l’accesso in determinati settori perché comunque non avevo una struttura in grado di fornire...”. Insomma Gilardi conferma di avere fatto una proposta alla Regione, ammettendo di non avere a disposizione né le strutture né le possibilità di accedere a certi settori. Ma allora, ci chiediamo, a che titolo avrebbe partecipato alle riunioni con Ecotech e con il gabinetto di Zingaretti in Regione? “Ho partecipato in una riunione come consulente commerciale della Ecotech... Dopo ci siamo risentiti perché io avevo mandato le varie proposte anche per conto, no per conto, anche a Ecotech… loro mi hanno chiamato dicendomi: guardi, ma anche lei ha mandato una proposta? Dico, sì… Allora dice: "guardi mi sembra una persona valida siamo in carenza di personale se mi vuole dare una mano… a curare la parte commerciale"...”. Gilardi aggiunge anche di aver chiamato un assessore di cui non si ricorda il nome. Ma è forse il papà Bruno quello che conosceva qualcuno in Regione? Il padre di Ivan Gilardi sembra confermare la circostanza: ”Io avevo conosciuto ma 30 anni fa, Andrea Cocco e la famiglia di Andrea Cocco, vice capo di gabinetto di Zingaretti sì, ma era stato mio allievo da ragazzino a 17-18 anni in una palestra di karate”. Bruno Gilardi dunque, papà di Ivan, sarebbe stato il maestro di karate di Andrea Cocco, il vice capo di gabinetto di Nicola Zingaretti. E visto che si conoscevano, non è che forse papà Bruno avrà chiamato il suo ex allievo per parlare di mascherine? Sembra quindi che Bruno Gilardi, dopo aver telefonato ad Andrea Cocco, vice capo di gabinetto di Nicola Zingaretti per avere informazioni sulle mascherine, abbia ricevuto il giorno dopo una chiamata dallo stesso Daniele Leodori, vicepresidente della Regione Lazio. E che Leodori abbia riferito che le mascherine erano sia per la sicurezza alimentare che per la sicurezza dei lavoratori. Sul ruolo ricoperto da Ivan Gilardi però, ci sarebbe un’altra versione, quella data da Giorgio Quadri, l’avvocato della società Ecotech, quella che vincerà l’affidamento per 35 milioni, spiega: ”Ivan Gilardi è un giovanotto che è venuto su con noi al primo colloquio con Tulumello e è venuto anche a un primo incontro in Regione Lazio con con Tulumello e Cocco… è venuto la prima volta da Tulumello perché penso che lui sia stato il primo contatto tra Tulumello o diciamo Protezione civile o chi per lui, e Ecotech”. L’avvocato di Ecotech dunque in questa telefonata racconta che sarebbe stato Ivan Gilardi il contatto tra la società che ha preso l’appalto per le mascherine e la Regione Lazio, una versione che contrasta con il racconto dello stesso giovane. Gilardi sostiene che sarebbe finito agli incontri con il gabinetto di Zingaretti, quasi per caso, perché portato lì in qualità di consulente un po’ improvvisato della Ecotech. Insomma, per come si stanno mettendo le cose, da quando è partita l’indagine della Procura, Ivan Gilardi adesso sembra molto preoccupato…Noi nel mentre abbiamo provato a mandare 10 domande al presidente Nicola Zingaretti, in quanto è lui che ha la delega alla Protezione Civile nel Lazio. L’ufficio stampa però ci ha fatto capire che, siccome riguardano l’operato del capo della protezione civile dott. Tulumello, è a lui che sono state girate. Le risposte di Tulumello, che potete leggere integralmente qui sotto, non hanno dissipato tutti gli interrogativi che abbiamo sollevato fin qui. In particolare sul perché alcuni preventivi vantaggiosi non siano stati considerati e siano spariti nel nulla. Una domanda a cui Tulumello si limita a rispondere che non ne era a conoscenza. Insomma, ci rimane un grande dubbio: ma perché mai la Regione Lazio avrebbe dovrebbe dare un affidamento diretto di 35 milioni di euro, con 11 milioni di anticipo, per reperire mascherine a un venditore di lampadine che si fa accompagnare agli incontri in Regione da un giovane, che per sua stessa ammissione, non ha nessuna esperienza nel campo? A voi sembra poi così strano che le mascherine alla fine non siano più arrivate? Eccoci alle 10 domande de Le Iene a Nicola Zingaretti a cui la Regione Lazio ha voluto che rispondesse il dott. Tulumello, capo della protezione civile nazionale.

1) Perché non avete fatto un avviso pubblico sui giornali per cercare ditte che vendevano mascherine e tutti i dispositivi medici utili all’emergenza nel mese di gennaio e febbraio?

L’Agenzia di Protezione civile è stata individuata quale struttura di supporto per l’acquisto dei DPI in data 5 marzo 2020 con decreto del Presidente della Regione Lazio del 5 marzo 2020. Da quel momento in poi, nel pieno rispetto di tutte norme, deroghe e procedure previste dalle norme emergenziali abbiamo cercato di acquistare tutto ciò che trovavamo. Eravamo in guerra. Se avessimo scelto la strada degli avvisi pubblici oggi non avremmo 13 mln di mascherine nel magazzino a disposizione dei nostri medici e infermieri. Non a caso le norme introdotte hanno chiaramente previsto la deroga ad ogni forma di avviso pubblico.

2) Perché avete dichiarato di non aver ricevuto per  mascherine 3 M preventivi inferiori a quello che avete poi scelto, se come abbiamo mostrato, ne avete ricevuto almeno uno della ditta Exor il 19 febbraio?

Non ho mai avuto diretta conoscenza e disponibilità del preventivo che citate, prima di aver appreso della sua esistenza dagli organi di informazione. Per altro, la vantaggiosità di quel preventivo sarebbe stata tutta da verificare visto che, come indicato chiaramente dal documento anche in vostro possesso, non comprende diverse spese aggiuntive – e non quantificate – che avrebbero ovviamente aumentato il prezzo delle mascherine che citate. Infine, la società proponente è la stessa alla quale si è rivolta la Ecotech e che non è stata in grado di realizzare la fornitura. 

3) Come fa il dott. Tulumello a dichiarare di non sapere di questo altro preventivo di mascherine 3 M, se oltre alla mail ricevuta il 19 marzo dalla Protezione Civile, il dott. Antonelli, suo capo segreteria, aveva parlato con i proponenti nella persona del dott. Rattà?

Come già spiegato, non ho avuto conoscenza e disponibilità diretta del preventivo. 

4) A parte il preventivo della Exor, sulle mascherine FFP2 il preventivo Ecotech da voi scelto è comunque superiore di 1 euro ad altre due offerte, aggiudicate dalla Regione Lazio e regolarmente consegnate, delle società cinesi Wisdom Glory Holdings e Goldbeam Company. Chi ha presentato la Ecotech alla Regione Lazio, che tipo di verifiche sono state fatta sulla sua affidabilità, visto che non si era mai occupata di mascherine?

Non sono preventivi comparabili poiché non si tratta del medesimo prodotto! Al netto del preventivo da voi citato della ditta EXOR (per il quale, si ribadisce, restano ignoti i supplementi di prezzo da aggiungere), il preventivo della ditta Eco.tech era il più vantaggioso tra quelli ricevuti per mascherine di marca 3M! La Eco.tech si è presentata via email, attraverso un proprio agente, come hanno fatto decine di aziende. Il contesto emergenziale drammatico e senza precedenti ci ha portato a raccogliere tutte le disponibilità che riuscivamo ad individuare e se problemi di questo tipo sono sorti esclusivamente con un fornitore, riuscendo comunque a soddisfare le esigenze delle strutture ospedaliere, evidentemente non siamo stati degli sprovveduti. 

5) In audizione in Consiglio Regionale Lazio la Regione ha sostenuto che il Consiglio regionale dell’Abruzzo avrebbe acquistato le mascherine chirurgiche ad un prezzo unitario di 5 euro. È possibile che in Abruzzo le abbiano pagate 0,76 centesimi ciascuna, oltre ad acquisirne 250.000 gratis attraverso una donazione?

Il consiglio regionale dell’Abruzzo, come tutte le regioni, ha effettuato diversi acquisti. Tra questi ci sono gli stock di mascherine chirurgiche a 5 euro al pezzo, il tutto verificabile chiaramente dal codice indicato nel materiale a vostra disposizione da tempo (digitare su google cig Z1C2C7D0B9 Abruzzo).

6) La Ecotech viene definita particolarmente competitiva perché si sarebbe “accontentata” del 50% di acconto sul totale della fornitura. In Abruzzo il 50% viene versato dalla regione in un deposito bancario vincolato ed erogato all’arrivo della fornitura. In Veneto la stessa Eco tech ha firmato un contratto con la regione senza ricevere l’acconto del 50%. Perché nel Lazio questo trattamento di favore?

Nessun trattamento di favore. La ditta ha richiesto questa modalità di pagamento la cui possibilità è stata introdotta dall’Ordinanza del Capo Dipartimento n. 639/2020 e ribadita dal D.L. 9/2020, prevedendo anche la possibilità di pagare anticipatamente tutta la fornitura, proprio per consentire di rispondere ad una dinamica di mercato fatta in questo modo. 

7) Chi è Ivan Gilardi e che rapporti ha e avuto con la Presidenza Zingaretti?

In un momento di emergenza chiunque avesse avuto contatti con fornitori o produttori di dispositivi è stato invitato a metterli in contatto con la protezione civile Regionale, quindi non escludo possibili conoscenze. Ma poi, è stato esclusivo compito della protezione civile regionale fare le valutazioni. Aggiungo, visto il momento di grande emergenza, che fino al 20 marzo la protezione civile regionale ha approvato tutti i preventivi pervenuti.

8) Nelle premesse di entrambe determinazioni si insiste nell’affermare che dal 15 aprile la Ecotech avrebbe presentato alla Regione una documentazione relativa all’avvenuta stipula di una polizza assicurativa a copertura degli acconti ricevuti dalla Regione a garanzia di 10 milioni di euro con la ITC International Brokers. Confermate che all’epoca della determina tale polizza assicurativa fosse davvero in essere?

Si conferma il contenuto di quanto espressamente indicato nelle determinazioni di risoluzione e, segnatamente:

·      con email in data 15.04.2020, la ECO.TECH. SRL dava evidenza dell’avvenuto pagamento del premio della polizza assicurativa nei confronti della soc. ITC – INTERNATIONAL BROKERS srls, garantendo un importo pari a € 10.000.000,00; 

·      in data 16.04.2020, la ECO.TECH. SRL inoltrava email con la quale la soc. ITC – INTERNATIONAL BROKERS srls confermava la circostanza della ricezione del pagamento del premio e la conseguente operatività della copertura assicurativa della polizza;

9) In entrambe le determinazioni si fa riferimento a ulteriori coperture fideiussorie acquisite dalla Seguros DHI Atlas di Londra a garanzia di 14 milioni di euro, sempre sugli acconti versati alla Ecotech, precisando che la Regione, consultando il sito internet FCA e il sito della Companies House Uk, avrebbe accertato l’idoneità della Seguros a sottoscrivere polizze fideiussorie. Confermate ancora queste dichiarazioni?

Si conferma quanto riportato nelle determinazioni di risoluzione e, segnatamente: - dal sito internet della FCA – Financial Conduct Authority la SEGUROS DHI- ATLAS risulta effettivamente iscritta al n. 776865 a far data dal 09.05.2017 ai fini antiriciclaggio; 

- dal sito internet si è potuto verificare che: La SEGUROS DHI-ATLAS risulta effettivamente iscritta al n° 07966108 a far data dal 27 febbraio 2012 per attività ausiliarie di intermediazione finanziaria; 

alla data del 19.09.2019 il capitale risulta pari a 31.789.000 GBP, interamente versato; 

10) Ritenete opportuno aggiudicare senza gara per affidamento diretto una commessa per milioni di mascherine ad una ditta che non ha esperienza nella vendita di dispositivi di protezione individuale, dando un anticipo del 50 per cento, quando il titolare della ditta è una ex candidata in una lista a sostegno di un Presidente di Municipio del Pd, Paolo Orneli, che oggi riveste la carica di assessore allo Sviluppo Economico della Regione Lazio?

Come già ampiamente chiarito, l’assessore Orneli non conosce la titolare dell’azienda a cui fate riferimento. Per quanto mi riguarda, non si tratta di ritenere opportuno o meno un fatto ma di rispettare la normativa, cosa che la Regione Lazio ha sempre fatto.

Mascherina gate nel Lazio, ora indaga anche l'Autorità anticorruzione. Le Iene News l'8 maggio 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci hanno raccontato in due servizi dei molti dubbi su un contratto per la fornitura alla Regione Lazio di mascherine, acquistate a un prezzo più alto di altre proposte arrivate, ma poi sparite nel nulla. Dopo il nuovo servizio di martedì scorso, sulla vicenda interviene anche l’Anac, che chiede a Regione Lazio una dettagliatissima relazione sui rapporti con Ecotech. E oggi dal Corriere e dalla Stampa scopriamo che Bankitalia già il 29 aprile aveva risposto alla Regione che le garanzie rilasciate dal fornitore Ecotech per la restituzione dell’anticipo di 11 milioni già versato sono senza valore. Mentre il capo della protezione civile regionale, Carmelo Tulumello, indicato dalla Regione per rispondere a 10 nostre domande, qualche giorno fa ci ha detto l’esatto contrario. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, martedì scorso a Le Iene nel servizio che vedete qui sopra, siamo tornati a parlare dopo un primo servizio del cosiddetto "mascherina gate" della Regione Lazio, la fornitura per oltre 35 milioni di euro di mascherine, mai arrivate e acquistate a un prezzo più alto di altre offerte da una ditta che vende lampadine a cui è stato anche dato un anticipo di 11 milioni di euro. Dopo il nostro servizio di martedì 5 maggio, adesso sulla vicenda vuole vederci chiaro anche l’Anac, l’Autorità nazionale anti corruzione, che invia a Regione Lazio dopo “le recenti cronache di stampa” la richiesta, protocollata ieri 7 maggio, di una relazione dettagliata che affronti in particolare alcuni punti. Anac chiede innanzitutto di conoscere le modalità dell’espletamento dell’affidamento della fornitura di mascherine e i criteri di valutazione con i quali ha stabilito il valore a base d’asta di ciascuna loro tipologia. L’autorità chiede anche di conoscere tutte le forniture affidate a Ecotech, le modalità di pagamento concordate, i quantitativi di mascherine arrivati e quelli già pagati nonché cosa intenda fare per risolvere le criticità evidenziate (e in particolare per il reperimento delle mascherine necessarie al fabbisogno della popolazione regionale). Anac insomma accende i fari in modo importante sulla vicenda dopo il nostro ultimo servizio. Inoltre oggi apprendiamo da due autorevoli quotidiani come il Corriere della Sera e la Stampa, che già Il 29 aprile scorso l’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni presso la Banca d’Italia, era intervenuta in modo netto sulla vicenda delle fidejussioni legate al contratto di fornitura. L’Ivass aveva infatti chiarito che la Seguros DHI Atlas, con cui Regione Lazio aveva sottoscritto una polizza fidejussoria a garanzia degli 11 milioni di euro anticipati per la fornitura, non è autorizzata a queste operazioni né in Italia né in Gran Bretagna, dove pure risulta registrato come intermediario finanziario. Insomma, sembra difficile che Regione Lazio possa contare su quella polizza per rivedere gli 11 milioni di euro già versati come anticipo. Noi de Le Iene abbiamo rivolto dieci precise domande alla Regione governata dal segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti. Ci ha risposto Carmelo Tulumello, capo della protezione civile del Lazio, indicatoci dalla regione come responsabile di quell’affidamento diretto. Nonostante la presa di posizione della Banca d’Italia di più di 10 giorni prima, il capo della protezione civile del Lazio, Carmelo Tulumello, ci ha confermato recentemente che per lui le polizze sono valide. Sul tema gli avevamo fatto, in particolare, due domande.  L’ottava domanda è questa: “Nelle premesse di entrambe le determinazioni si insiste nell’affermare che dal 15 aprile la Ecotech avrebbe presentato alla Regione una documentazione relativa all’avvenuta stipula di una polizza assicurativa a copertura degli acconti ricevuti dalla Regione a garanzia di 10 milioni di euro con la ITC International Brokers. Confermate che all’epoca della determina tale polizza assicurativa fosse davvero in essere?”. Il capo della Protezione civile del Lazio aveva risposto così: “Si conferma il contenuto di quanto espressamente indicato nelle determinazioni di risoluzione e, segnatamente:

- con email in data 15.04.2020, la ECO.TECH. SRL dava evidenza dell’avvenuto pagamento del premio della polizza assicurativa nei confronti della soc. ITC – INTERNATIONAL BROKERS srls, garantendo un importo pari a € 10.000.000,00; 

- in data 16.04.2020, la ECO.TECH. SRL inoltrava email con la quale la soc. ITC – INTERNATIONAL BROKERS srls confermava la circostanza della ricezione del pagamento del premio e la conseguente operatività della copertura assicurativa della polizza”. 

Ma sinceramente nelle carte ufficiali della operatività della copertura assicurativa della polizza già in data 16 aprile non siamo riusciti a trovare traccia. È proprio sulla validità della fideiussione acquisita dalla Seguros DHI-Atlas di Londra, di cui ha parlato il 29 aprile Ivass, abbiamo chiesto nella domanda successiva a Tulumello se la Regione, consultando il sito internet FCA e il sito della Companies House Uk, confermava di avere accertato l’idoneità della Seguros a sottoscrivere polizze fideiussorie. E lui, dando una versione smentita da Ivass di Bankitalia, ci aveva risposto così: “Si conferma quanto riportato nelle determinazioni di risoluzione e, segnatamente:

- dal sito internet della FCA – Financial Conduct Authority la SEGUROS DHI- ATLAS risulta effettivamente iscritta al n. 776865 a far data dal 09.05.2017 ai fini antiriciclaggio;

- dal sito internet si è potuto verificare che: La SEGUROS DHI-ATLAS risulta effettivamente iscritta al n° 07966108 a far data dal 27 febbraio 2012 per attività ausiliarie di intermediazione finanziaria;

alla data del 19.09.2019 il capitale risulta pari a 31.789.000 GBP, interamente versato”.

Versione sostenuta anche dal Vicepresidente della Regione Lazio Daniele Leodori, durante l’audizione in Consiglio Regionale del 20 aprile. Peccato che la Banca d’Italia qualche giorno dopo abbia scritto alla Regione Lazio esattamente il contrario. Da allora ad oggi, nessuno alla Regione se ne è accorto? Spetterà agli inquirenti fare luce in tutto questo pasticcio.

Mascherina gate nel Lazio: il candidato di Zingaretti e gli altri preventivi. Le Iene News il 13 maggio 2020. Sul caso delle mascherine acquistate dalla Regione Lazio e mai arrivate a destinazione intervengono Bankitalia e Anticorruzione. E intanto Antonino Monteleone e Marco Occhipinti scovano un altro imprenditore che aveva offerto un preventivo molto più vantaggioso di altri poi approvati. C’è poi il “caso Tulumello”, ex candidato di Zingaretti trombato alle elezioni poi nominato a capo della Protezione Civile. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a occuparsi del mascherina gate del Lazio, la vicenda della fornitura di mascherine anti-Covid alla Regione Lazio, che sta creando più di un imbarazzo a Protezione Civile regionale e giunta Zingaretti. Parliamo di un affidamento diretto di mascherine, poi mai realmente arrivate a destinazione e offerte a un prezzo quasi doppio del loro valore di mercato, per il quale Regione Lazio ha anticipato più di 11 milioni di euro, che chissà se rivedrà, dopo che ha annullato la commessa, nonostante tutte le rassicurazioni del caso. Cominciamo col farvi conoscere un altro imprenditore, che vende mascherine in tutta Italia, e che, come già gli altri che avete potuto sentire nei precedenti servizi, anche lui racconta di non essere stato scelto dalla Protezione Civile laziale nonostante i suoi preventivi fossero a prezzi inferiori. Invece sull’affidamento di 35.000.000 euro alla ditta che vende lampadine, con più di 11 milioni di euro e in particolare sulla vicenda delle fideiussioni a copertura di questo generoso anticipo (come già vi abbiamo raccontato qui: link articolo sito), il capo della Protezione civile del Lazio Carmelo Tulumello è stato smentito dalla Banca d’Italia. Quando gli avevamo chiesto perché si fosse fidato di un’azienda, la Ecotech, che vendeva lampadine e che aveva garantito l’acconto di 11 milioni di euro ricevuto dalla Regione con una fideiussione non valida, Tulumello aveva risposto: “Non valida, per quale motivo? Io ho le polizze firmate”. Una validità smentita dall’Ivass il 29 aprile prima del nostre domande. L’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni presso la Banca d’Italia aveva spiegato che la società erogatrice di una delle due polizze, la Seguros DHI Atlas, non è autorizzata a queste operazioni né in Italia né in Gran Bretagna, dove pure risulta registrata come intermediario finanziario. Ci sono molti altri elementi importanti che sembrano non tornare in questa storia, a partire dal numero di preventivi selezionati dalla Protezione civile laziale per la ricerca delle mascherine. Tulumello ci aveva detto: “Noi le aziende le abbiamo chiamate direttamente, cercandole di notte anche su Internet, perché tutte quelle che noi chiamavamo non avevano prodotto, abbiamo ricevuto 22 preventivi, li abbiamo affidati tutti perché cercavamo materiale”. Eppure, dopo che Le Iene avevano scovato, nelle settimane scorse, due preventivi che offrivano mascherine alla regione a circa metà del prezzo di quelle poi acquistate, ora troviamo un altro imprenditore, che, ancora una volta, non si capisce perché sarebbe stato ignorato. Si chiama Ettore Minore ed è amministratore della Intertrade Italia: “Il giorno dopo parlo con Tulumello e mi dice: mi faccia un’offerta sulle chirurgiche. Eccola qua 0,70, finito tutto! Ho capito subito che non sarei mai andato avanti perché perché nel momento che mi dice che entro 48 ore queste due milioni di mascherine devono essere a Roma, le cose sono due: o non hai competenza sull’importazione di questi prodotti, oppure mi fai capire che non ho possibilità, perché il tempo che arriva il pagamento, già passano tre giorni. Il tempo che viene stoccata la merce, per caricarla su un cargo, passano altri due tre giorni. Il tempo che arriva l’aereo a Fiumicino sono una giornata e mezza, cioè in 48 ore tecnicamente non è possibile. Io avevo messo 7 giorni e quando mi ha detto 48 ore ho capito che non si andava avanti. Ho visto che questa cosa delle 48 ore non è stata chiesta a nessun altro”. L’ex consigliera regionale Roberta Angelilli, di Carmelo Tulumello ci dice: “Lui non aveva una esperienza a livello di emergenza, di Protezione civile ad alto livello, non era mai stato in una sala operativa, poi c’è un fatto un po’ singolare, cioè che lui partecipa alle primarie del centrosinistra per candidarsi a Fara Sabina, perde le elezioni a giugno e a ottobre diventa capo della Protezione civile del Lazio? Diciamo che come minimo è un po’ inopportuno… c’era una competizione abbastanza serrata con altrettanti candidati che avevano delle comprovate esperienze nel settore dell’emergenza della Protezione civile...” Candidati come l’ingegner Francesco Mele, oggi in pensione, ma che all’epoca del concorso si era già occupato di Protezione civile per 20 anni. E che racconta: “L’amministrazione ha ritenuto di fare più una scelta di tipo fiduciario nel senso dell’affidabilità politica più che dell’affidabilità tecnica. Di questa situazione sono rimasto piuttosto amareggiato perché alla fine le scelte sono sempre fortemente condizionate dalla politica”. E proprio sulla nomina di Tulumello, la Angelilli avanza più di un dubbio: “Uno dei requisiti fondamentali che venivano richiesti era una comprovata esperienza amministrativa nella gestione di procedure di acquisto di beni e servizi in situazioni di emergenza. Questo requisito scompare completamente nella scheda di valutazione, che i funzionari hanno sottoposto alla giunta che ha effettuato la nomina di Tulumello. Tulumello è stato selezionato con criteri che non sono quelli contenuti nel bando”. Insomma il bando che indica i criteri per nominare il nuovo capo della protezione civile individuava dei requisiti ben precisi, ma la giunta regionale guidata da Zingaretti che poi lo nomina lo fa seguendo una griglia di criteri diversi da quelli che prevedeva il bando. Un pasticcio denunciato anche da Roberta Bernardeschi, del sindacato dei dirigenti regionali Fedirez: “Siccome i bandi in genere vengono preparati presumibilmente, rispetto a chi deve poi vincerlo, noi abbiamo scritto guardate che avete sbagliato. Non ci hanno risposto. La cosa gravissima è che qui ci sta qualcuno che si può infettare perché non ci stavano le mascherine  e nonostante tutto sono stati spesi i soldi che sono della collettività, e allora chi l’ha scelto in questo modo dovrebbe risponderne personalmente in solido”. Una settimana fa avevamo provato a parlare di tutto questo “casino” con Nicola Zingaretti, ma il presidente della regione Lazio non aveva voluto chiarire più di tanto la vicenda. E avrebbe dovuto farlo, perché ci hanno raccontato che la Ecotech, la società di lampadine a cui è stato affidato l’incarico di procurare 35 milioni di euro in  mascherine, sarebbe stata aiutata da alcuni intermediari che conoscevano direttamente il vice capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Andrea Cocco. Oggi sul “mascherina gate” indagano Procura, Corte dei Conti e Autorità anticorruzione. Qualche giorno fa, dopo settimane in cui aveva bollato la storia degli 11 milioni anticipati e a rischio semplicemente come fake news, Zingaretti, nel corso di una conferenza stampa, ammette: “Assicuro che stiamo facendo di tutto anche attraverso l’invio di tutta la documentazione alla procura della Repubblica per appurare cosa è accaduto e se qualcuno si è approfittato di una situazione di necessità rispetto a questo approvvigionamento”. E il servizio si chiude con una domanda: “Presidente Zingaretti, se qualcuno come dice lei si è approfittato di una situazione di necessità, dopo tutto quello che abbiamo visto, forse c’è anche qualcuno che gliel’ha consentito con una certa facilità?”.

Ancora un flop del Lazio di Zingaretti: nuove barelle solo per magri e non alti. Ennesimo pasticcio: acquistate cinque lettighe troppo piccole. Ma il governatore si occupa dei gay: 80mila euro anti omofobia. Antonella Aldrighetti, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Un «caso Lazio» dopo l'altro e la poltrona di Nicola Zingaretti rischia di vacillare seriamente. Dopo l'acquisto delle mascherine pagate in parte in anticipo ma mai recapitate e sulle quali sta indagando la magistratura, le spese delle aziende regionali continuano a creare un certo disappunto. Soprattutto tra gli stessi camici bianchi. Non ultimo l'acquisto di ben 5 barelle di biocontenimento da parte del Covid center del Policlinico Umberto I della Capitale da utilizzare per i percorsi diagnostici tra i diversi reparti ospedalieri. I dispositivi però sono strutturati in modo da ospitare al proprio interno soltanto pazienti magri e di altezza moderata (1 metro e 70 per un massimo di 70 kg): una persona di 80 chili avrebbe dei seri problemi perché si sentirebbe in contenzione e accuserebbe ulteriori difficoltà a respirare. Oltre al fatto che, anche dinanzi a un paziente in forma, servirebbero almeno quattro operatori sanitari per infilare dentro la barella il malato, sempre e solo con l'aiuto e il supporto dell'ulteriore barella spinale. L'acquisto delle lettighe biocontenitive è stato garantito dall'attuale manager del nosocomio Vincenzo Panella già un mese fa e pagato, in conto Covid-19, 125 mila euro. Ossia 25 mila per ciascuna. Stupisce però che il direttore generale e il proprio staff non abbiano verificato le dimensioni dei dispositivi di contenimento anche perché l'alto dirigente è un veterano della sanità avendo guidato per anni il dipartimento Salute e politiche sociali della Regione Lazio. Eppure stando a sentire diversi infermieri e medici che circolano nell'area dell'Hub Covid l'acquisto sarebbe stato a dir poco improvvido contando che le barelle dovrebbero essere utilizzate per il trasporto interno ai reparti ossia per controlli ulteriori dei ricoverati: tac, ecografie e rx. Già, ma le criticità gestionali non arrivano mai da sole. E infatti proprio in data 5 maggio il manager ha dato il via libera all'acquisto di mascherine chirurgiche a 90 centesimi più iva ciascuna. In barba al decreto Arcuri che avrebbe imposto la cifra calmierata a 50 cent. Se ne acquisteranno 10mila dalla ditta cinese Jin Feng srl dove il codice Ateco la individua come abbigliamento all'ingrosso e accessori. Sul documento di acquisto compaiono anche altrettante mascherine di tipo fpp2 a un costo unitario di 4,50 euro e ulteriori tute di protezione a 9,90. Tutti prezzi apparentante maggiorati rispetto allo standard che comunque verranno stornati dal budget Covid di 3 milioni di euro entrato nelle casse dell'Umberto I. Ma non è finita qui. In Regione dietro al paravento del Covid si stanno organizzando anche quelle che per Nicola Zingaretti potrebbero essere definite ulteriori priorità. Una per tutte la gestione della Gay Help Line telefonica tramite numero verde che metterebbe al riparo il territorio dall'omofobia: 80mila euro erogati all'Associazione Gay Center per la mantenere attivo l'800.713.713 per consulenza psicologica, medica, legale e di mediazione sociale.

Le "mascherine fantasma" di Zingaretti ora restano bloccate nei depositi. Dopo cinque mesi 600mila mascherine fornite dalla Ecotech Srl hanno ricevuto la certificazione dell'Inail ma restano bloccate in deposito perché la Regione Lazio non le vuole più. Così rischiano di andare al macero 1,8 milioni di euro. Alessandra Benignetti, Martedì 25/08/2020 su Il Giornale. La vicenda delle "mascherine fantasma" che da mesi fa arrossire la giunta Zingaretti e tiene impegnati i magistrati della Procura romana e della Corte dei Conti si arricchisce di un nuovo capitolo. Il caso è scoppiato in piena emergenza Covid. A scoperchiare il vaso di Pandora era stata Chiara Colosimo, consigliere di Fratelli d’Italia, che in un’interrogazione aveva denunciato come mancassero all’appello sette milioni di mascherine ordinate dalla Regione Lazio alla Ecotech, Srl di Frascati. Una commessa da 35 milioni di euro per cui l’ente guidato dal leader del Pd, Nicola Zingaretti, aveva anticipato 14,5 milioni. È finita che di mascherine ne sono state consegnate soltanto 800mila e che l’acconto è stato restituito solo in parte. Per questo la Regione ha rescisso i contratti e chiesto un decreto ingiuntivo. Nel frattempo altre 600mila mascherine Ffp2 del valore di quasi 2 milioni di euro restano bloccate in tre depositi a Fiumicino e Malpensa. Si tratta dei dispositivi arrivati a destinazione a fine aprile, qualche giorno prima che la Protezione Civile regionale risolvesse il contratto per inadempienza. Come viene spiegato sulle pagine del Tempo il carico non è mai stato consegnato a causa dei tempi tecnici per ottenere la certificazione di qualità dell’Inail, arrivata dopo oltre un mese e mezzo, quando la commessa era stata già revocata. Per questo la Regione, riferiscono i legali della ditta, Giorgio Quadri e Cesare Gai ai giornalisti de La Verità, non ha mai svincolato la merce. Il rischio, chiariscono gli stessi avvocati, è che ora le mascherine possano essere classificate come abbandonate e perdere valore, aggiungendo un ostacolo ulteriore nel recupero degli importi da parte della Regione, che del carico di Dpi arrivato in ritardo ora non vuole saperne più nulla. L’obiettivo della giunta è uno soltanto: la restituzione delle somme anticipate. Finora la società di Sergio Mondin, oltre ad aver perfezionato la prima fornitura da 1,16 milioni di euro, ha versato 1,7 milioni di euro nelle casse dell’ente. Il grosso dell’anticipo, però, dovrà arrivare dalle due società fornitrici della Ecotech, la svizzera Exor e la Giosar Ltd, con sede a Londra, che non avrebbero rispettato gli accordi, pur avendo incassato i fondi regionali. "La vicenda mascherine continua a regalare sgradite sorprese, con i soldi della Regione la Ecotech ha acquistato seicentomila mascherine, non della 3M, che vorrebbe rifilare dopo cinque mesi alla stessa Regione", attacca Chiara Colosimo, raggiunta al telefono dal Giornale.it. "Senza dimenticare – aggiunge - che ad oggi la Ecotech ha consegnato solo ottocentomila mascherine che neanche servivano al personale medico". "Insomma – tuona l'esponente di Fratelli d’Italia - una toppa peggiore del buco, che sa di presa in giro e che purtroppo rende chiaro che la giunta Zingaretti ha dato l'opportunità a questi imprenditori improvvisati di fare il loro comodo con tredici milioni di soldi pubblici, mentre cittadini e imprese serie sono nella disperazione più totale e non sanno come arrivare a fine mese".

Riesplode il “mascherina gate” nel Lazio: la Regione ha sborsato altri 2,8 milioni per dispositivi mai ricevuti. Le Iene News il 28 agosto 2020. La Regione ha revocato l’ordine di 850mila camici e 1 milione di tute protettive alla Internazionale Biolife: la consegna era in ritardo di oltre 4 mesi, e i camici già inviati sono stati sequestrati dalla Guardia di finanza. Il Lazio però ha già sborsato 2,8 milioni di euro di anticipo, di cui ora chiede la restituzione insieme a 1,4 milioni di penale. Una storia che è solo l’ultima tappa del mascherina gate che noi de Le Iene vi abbiamo raccontato con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Sul caso Biolife comunque la Regione ci ha fatto sapere che non ci sarebbe alcun 'buco', poiché l'ente "ha sospeso il pagamento, in favore di Biolife, delle spettanze dovute a fronte di un’altra fornitura regolarmente consegnata". Un altro “mascherina gate” è pronto a esplodere nel Lazio: la Regione ha infatti determinato la revoca di un ordine da 1 milione di camici e 1 milione di tute protettive alla società Internazionale Biolife. Il motivo? A leggere la determinazione che abbiamo potuto visionare in esclusiva, sembra chiaro: di tutti i materiali ordinati, solo 150mila camici sarebbero stati effettivamente consegnati, e peraltro poi sequestrati dalla Guardia di finanza. Il resto non è arrivato, con oltre 4 mesi di ritardo sulle date pattuite. Così la Regione ha detto basta e revocato l’ordine. Ma c’è un problema: il Lazio ha già anticipato 2,8 milioni di euro alla società, che adesso chiede indietro, insieme a 1,4 milioni di penale. Andiamo con ordine: il 30 marzo la Regione Lazio affida alla Internazionale Biolife, società con sede a Taranto, l’ordine di 1 milione di camici e 1 milione di tute protettive da fornire ai medici e al personale sanitario in prima linea nella lotta al coronavirus. La società, secondo quanto si legge nella delibera, “si impegna a consegnare la fornitura entro l’8 aprile, presso l’aeroporto di Fiumicino”. Il giorno successivo, il 31 marzo, la Regione paga alla società un acconto di 2,8 milioni di euro pari al 20% del costo totale della fornitura. È a questo punto che iniziano i problemi. A leggere l’atto di revoca dell’ordine, la Regione Lazio denuncia continui rinvii e ritardi da parte della Internazionale Biolife. La prima consegna viene registrata il 3 giugno, quasi due mesi dopo la data pattuita, e all’11 giugno sono arrivati solo poco meno di 150mila camici su un totale di un milione. Delle tute, nemmeno l’ombra. E si arriva così al 26 agosto, l’altro ieri, quando la Guardia di finanza notifica alla protezione civile regionale il sequestro di quei 150mila camici. Un sequestro “emesso dalla procura della repubblica presso il Tribunale di Taranto nell’ambito di un procedimento penale che vede indagati i responsabili della società Internazionale Biolife”. La Regione a questo punto decide per la revoca dell’ordine, e lo fa usando parole molto dure contro la società: “La condotta contrattuale della Internazionale Biolife è chiaramente caratterizzata da inaffidabilità ed inattendibilità dei tempi di esecuzione”, scrive la Regione. E ancora: “In un contesto emergenziale caratterizzato da un pericolo grave per la salute pubblica, ha omesso di curare con la dovuta diligenza ed il necessario tempismo l’adempimento della propria obbligazione”. Insomma, parole di grande sfiducia verso una società che però è stata scelta proprio dalla Regione. Regione che, in conclusione della revoca, chiede adesso alla Internazionale Biolife di restituire i 2,8 milioni di euro che ha ricevuto come acconto e di pagare le “penali previste dal contratto, nella misura di 10mila euro per ciascuno dei 140 giorni entro i quali avrebbe dovuto realizzarsi l’adempimento, per complessivi 1,4 milioni di euro”. Insomma, in questo momento nelle casse del Lazio ci sarebbe un nuovo buco di 2,8 milioni di euro sborsati per avere tute e camici che non si sono mai visti. Una storia che prosegue il ‘mascherina gate’ che noi de Le Iene vi abbiamo raccontato con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: la Regione aveva tentato di comprare da EcoTech, azienda che vende lampadine a Led, mascherine per 35 milioni di euro. Le mascherine non arrivano, ma le casse dell’Ente sborsano 11 milioni di euro di anticipo. E quelle mascherine, si scopre poi, sarebbero anche state pagate quasi il doppio del prezzo di mercato. Clicca qui per leggere la ricostruzione della vicenda. A segnalarci il caso della Internazionale Biolife è Roberta Angelilli di Fratelli d’Italia: “Purtroppo avevamo ragione, la Ecotech non era un caso isolato: grazie al lavoro della Guardia di Finanza e della Procura di Taranto, sono stati confermati tutti i nostri dubbi anche sulle forniture della Internazionale Biolife. Purtroppo non è finita, perché ci sono altre forniture in sospeso per le quali la Regione non ha ancora firmato le revoche. Sorprendente che il Direttore della protezione civile sia ancora al suo posto”. La Regione Lazio, tramite il portavoce Emanuele Lanfranchi, tiene a sottolineare "che per quanto riguarda la fornitura c.d. 'Biolife' non ci sarebbe alcun buco in quanto la Regione ha sospeso il pagamento, in favore di Biolife, delle spettanze dovute a fronte di un’altra fornitura regolarmente consegnata, compensando così le inadempienze della fornitura in oggetto".

Lo strano caso delle mascherine scomparse nella Regione Lazio. Abbiamo cercato di fare chiarezza sulla vicenda delle mascherine ordinate e mai consegnate alla Regione Lazio, intervistando i consiglieri Regionali Daniele Giannini e Laura Corrotti. Roberta Damiata, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. Con l’arrivo della Fase2, aumenta in tutta Italia la richiesta di mascherine, e se, sono introvabili quelle a 0,50 centesimi prezzo fissato dal governo, allo stesso modo ancora non si ha notizia di quelle ordinate dalla Regione Lazio, alla Eco.Tech srl, per 36 milioni di euro, che non sono mai arrivate. Il 25 aprile viene recesso il contratto da parte della Regione Lazio, per la “totale inaffidabilità” da parte della società, ma le cose che non tornano in tutta questa vicenda sono molte. Per fare chiarezza, abbiamo intervistato il Consigliere Regionale Daniele Giannini, che già aveva portato alla luce il problema di alcuni hotel romani tramutati in ricoveri covid, e Laura Corrotti Consigliere Regionale e vice presidente protezione civile del Lazio.

Quale è l’attuale situazione delle mascherine nella regione Lazio?

“L’assessore alla Sanità Alessio D’Amato, il 4 maggio, nel corso della quotidiana video-conferenza, ha comunicato che sono in distribuzione presso le strutture sanitarie della Regione 160.600 mascherine chirurgiche, 46.900 maschere FFP2, 2.080 tute idrorepellenti, 50.000 guanti. Numeri che evidentemente non sono sufficienti per soddisfare il fabbisogno se, a oltre novanta giorni dalla dichiarazione dell’emergenza sanitaria, personale ospedaliero e familiari dei pazienti ricoverati ci segnalano la carenza dei dispositivi protettivi”.

Della fornitura, diciamo non andata a buon fine, cosa è arrivato alla regione Lazio?

“Per limitarci al caso della Eco.Tech., dei 9,5 milioni di pezzi ordinati ne sarebbero arrivati appena 2 milioni che, peraltro, non sono della 3M, così come erano stato stabilito nei contratti”.

Parlando della Eco.Tech. che lei ha appena citato, gira un video in rete, dove all’indirizzo di una delle tre sedi c’è in realtà un prato. Ovviamente non si conosce la veridicità del video, e potrebbe essere un fake, ma si conoscono queste società? Come hanno agito, e perché di fatto ancora la commessa molti milioni di euro non è arrivata o è arrivata solo in parte?

“Al di là dell’attendibilità dei video che circolano sui social, sulla cui autenticità non ho peraltro motivo di dubitare, al centro delle indagini della Corte dei Conti e della Procura della Repubblica di Roma è finita la Eco.Tech. Si tratta di una società che commerciava lampade a led, con un capitale sociale di appena 10mila euro, a cui l’Agenzia Regionale di Protezione Civile, ha affidato una fornitura di 9,5 milioni di mascherine per un importo di quasi 36 milioni di euro. Dei dispositivi protettivi ordinati, per i quali la Regione ha anticipato alla Eco.Tech ben 14 milioni di euro svaniti nel nulla, ne mancano 7,5 milioni. Il comportamento dell’azienda emerge a chiare lettere dagli atti della Regione che, il 29 marzo e il 2 aprile scorsi, procede alla risoluzione dei contratti data la ‘totale inaffidabilità’ di Eco.Tech vista ‘L’assoluta incertezza circa i tempi di realizzazione della fornitura’. Dopo qualche giorno, tuttavia, l’Agenzia regionale si dimostra più inaffidabile di Eco.Tech, tanto che, con una novazione dei termini contrattuali, torna ad assegnarle l’affidamento salvo revocarlo, in modo definitivo, il 25 aprile. Sarebbe stato sufficiente rivolgersi alla 3M, marchio delle mascherine che la Eco.Tech avrebbe dovuto fornire alla Regione, per scoprire che la società con sede a Frascati non figurava nell’elenco dei distributori della multinazionale”.

Chi ha scelto queste società? Facevano parte della lista dei fornitori della Regione Lazio?

“Dalle indiscrezioni che emergono dalle inchieste in corso, sembra che a reclutare la Eco.Tech sul mercato siano stati uomini di strettissima fiducia di Zingaretti che, vista la piega che sta prendendo la vicenda, si sono mossi con eccessiva disinvoltura. Per rispondere alla seconda domanda non fanno parte dei fornitori della Regione Lazio. La strada più immediata sarebbe stata quella di rivolgersi alle aziende che già operano con gli enti del Servizio Sanitario Regionale e invece ci si è affidati a società che non avevano alcuna esperienza nel settore. Ritengo che la procura debba far luce sui troppi contorni oscuri di questa vicenda”.

E’ vero che queste società non erano abilitate a vendere le mascherine e hanno riconvertito l’azienda dopo aver avuto la commessa?

“Da quanto è emerso finora, sono società operanti nel settore delle lampade al led o del benessere sessuale, a cui è stato affidata la fornitura di dispositivi protettivi che non avevano maturato alcuna esperienza nel settore dei prodotti medicali e che hanno provveduto a una provvidenziale quanto sospetta riconversione aziendale”.

Le mascherine acquistate, erano coperte da assicurazione?

“Considerata l’emergenza sanitaria, la Regione, in deroga alle disposizioni vigenti, è ricorsa agli affidamenti diretti, senza cautelarsi con polizze fidejussorie, malgrado gli importi delle forniture richieste fossero ingenti. Una procedura legittima che però non è stata seguita da altre regioni. In ogni caso l’Agenzie di Protezione Civile, dopo aver proceduto alla risoluzione del contratto con Eco.Tech, torna sui suoi passi e, dopo qualche giorno, conferma l’affidamento. Tra le motivazioni del ripensamento vi è la garanzia di una polizza fidejussoria grazie alla quale la società di Frascati sarebbe disponibile alla restituzione del cospicuo acconto pari a 14 milioni di euro. Siamo al 10 aprile. Dopo dieci giorni, il Vice Presidente Leodori, nel corso di un’audizione congiunta delle commissioni ‘bilancio’ e ‘grandi rischi’, sostiene che la società che ha emesso la polizza è la ‘Itc broker Srls’, società inattiva, con appena 1.000 euro di capitale che fa capo a un inconsapevole 88enne. Dopo qualche ora tuttavia, l’uomo ombra di Zingaretti è stato smentito. La Itc si limiterà a un ruolo di intermediazione, poiché alla garanzia provvederà la “Suguros Dhi-Athlas”, compagnia off-shore di Londra, che fa capo ad Andrea Battaglia Monterisi, a processo a Benevento per una vicenda che coinvolge un clan camorristico. Le polizze inoltre, si sono rilevate non idonee poiché, come confermato dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni”, la Seguros Dhi-Atlas Ltdf : ‘Non risulta abilitata all’esercizio dell’attività assicurativa in Italia né in regime di stabilimento né in regime di libera prestazione".

Parliamo poi del prezzo delle mascherine, che sembra abbastanza importante, per singola mascherina, non si potevano trovare di più economiche, parliamo di forniture importanti?

"Il caso mascherine alla Regione Lazio ha ancora molti lati oscuri e con il passar dei giorni emergono sempre più particolari che evidenziano l’inadeguata gestione dell’emergenza Coronavirus. Come Lega abbiamo chiesto al presidente Zingaretti di venire a riferire sulla vicenda in Aula e chiarire sui numerosi aspetti ancora poco chiari. Tra questi, spiegare se la Protezione Civile regionale fosse, come sembra, in possesso di vari preventivi per acquistare FFP2 e FFP3 ad un prezzo minore di quanto poi le ha realmente comprate, potendo così risparmiare un totale di 7 milioni di euro senza dover dare, come invece poi è accaduto, un anticipo alla EcoTech di 11 milioni di euro senza però ricevere in cambio nessuna mascherina e, ad oggi, neanche l’anticipo dato".

La regione vi ha dato delle risposte?

“Il Consiglio regionale, dopo due mesi di stop, tornerà a riunirsi giovedì prossimo per una mera modifica al Regolamento dei lavori. Immaginare che Zingaretti sullo scandalo mascherine declini ogni responsabilità politiche è inaccettabile. Il presidente della Regione, infatti, non è soltanto il titolare delle deleghe sulla protezione civile, ma è anche colui che ha proposto la nomina di Carmelo Tulumello a capo dell’Agenzia di protezione civile. Dopo i ventitrè giorni di quarantena sarebbe opportuno che Zingaretti torni in aula per riferire i dettagli di una vicenda dai contorni molto torbidi”.

 (askanews il 23 aprile 2020) - Inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Questa l'ipotesi di reato per cui la Procura di Roma ha aperto un fascicolo d'inchiesta in relazione alla gara d'appalto da 35 milioni di euro commissionata dalla Regione Lazio alla Eco.TecH per le mascherine. Secondo quanto si è appreso gli investigatori della Guardia di Finanza, su delega del procuratore aggiunto Paolo Ielo, hanno acquisito in Regione la documentazione relativa alla commessa per cui sarebbero già stati anticipati oltre 11 milioni di euro. In particolare - si aggiunge - gli accertamenti dovranno fare luce sulla società con sede a Frascati a cui la Regione, che è parte offesa nel procedimento, si era rivolta per i dispositivi. La commessa di 9,5 milioni di mascherine Ffp2, Ffp3 e chirurgiche è al vaglio anche dei magistrati contabili. Nei giorni scorsi - si ricorda - il procuratore regionale della Corte dei Conti ha anche lui avviato un fascicolo per i profili di propria competenza.

Giacomo Amadori Camilla Conti per “la Verità” il 23 aprile 2020. Il capo ufficio stampa di Nicola Zingaretti, Emanuele Lanfranchi, non ci ha risposto al telefono. Il capo della Protezione civile laziale, Carmelo Tulumello, ci ha chiesto di poterci richiamare ed è sparito pure lui. L' imbarazzo della maggioranza è palpabile dopo l' esplosione del Polizzagate. Forse perché il garante scelto da Zingaretti e dalla sua giunta per salvarsi dalla débâcle delle mascherine ha un curriculum che poco si addice a quello di un salvatore. Stiamo parlando di Andrea Battaglia Monterisi, 55 anni, natali barlettani, ma romano d' adozione, anche se oggi si dice viva a Londra. A Benevento è coinvolto in un processo di camorra alle battute finali: il 12 giugno sono previste le arringhe delle difese e dopo pochi giorni la sentenza. A giugno, quindi, rischia di essere condannato l' uomo che, in piena zona Cesarini, ha firmato la fideiussione che dovrebbe coprire l' acconto da 15.295.000 euro che la Regione ha dato a una piccola ditta, la Eco Tech, con un fatturato quindici volte inferiore all' anticipo. Quello che coinvolge Monterisi è un processo pesante. Lui compare in testa all' elenco dei 17 imputati che, pandemia permettendo, saranno giudicati in uno dei più importanti processi di camorra della provincia di Benevento degli ultimi anni. Stralcio di una inchiesta - condotta nel 2014 dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli - che ha già registrato una serie di condanne in sede di rito abbreviato. Tra cui quella del boss di San Martino Valle Caudina, Domenico Pagnozzi detto Mimì 'o Professore. Battaglia Monterisi è accusato di aver reimpiegato nella Puntofin Spa i «proventi economici dell' attività delittuosa del clan Pagnozzi» con l' aggravante - si legge nel decreto di rinvio a giudizio - di «avere commesso il fatto nell' esercizio di un' attività professionale consistita nell' attività di garanzia espletata mediante il rilascio di polizze fideiussorie» al fine di «agevolare il clan camorristico Pagnozzi». Una cosca che, seppur poco nota alle cronache, detta legge da 50 anni nei territori incontaminati dove s' incrociano le province di Avellino, Benevento e Caserta. A tal punto potente e spregiudicata da aver messo radici, grazie alle solide alleanze del «Professore» con il padrino della mala romana Michele Senese (napoletano d' origine), nella Città Eterna. Dove per sradicarla è stato necessario l' intervento di 4 pm antimafia di Piazzale Clodio che, proprio nelle scorse settimane, si sono visti riconoscere dalla Cassazione la validità dell' impianto accusatorio dell' indagine «Camorra capitale», con una raffica di condanne confermate per oltre due secoli a carico di capi e gregari dell' organizzazione criminale campana. Nel processo in cui è imputato Battaglia Monterisi, i reati contestati vanno dall' associazione mafiosa all' estorsione, al riciclaggio, al falso, all' intestazione fittizia di beni, alla turbativa di gara per i lavori di ristrutturazione di una scuola elementare di un piccolo comune della provincia di Benevento. Processo campano a parte, Monterisi è sicuramente un soggetto conosciuto al nostro sistema giudiziario. Da almeno tre lustri subisce denunce e processi: in Toscana, in Molise, in Umbria e a Roma. I reati contestati sono stati quasi sempre gli stessi: esercizio abusivo dell' attività finanziaria (quasi sempre rilascio di polizze e fideiussioni), falso in bilancio, ostacolo all' esercizio delle funzioni di vigilanza, formazione fittizia di capitale per far figurare un consistente patrimonio tale da far apparire solvibili le società che avevano emesso le garanzie. La Procura di Roma nel 2011 ha chiesto il suo arresto, quello della compagna Alessandra Monti e di alcuni coindagati. Contestualmente è stata richiesto anche il sequestro preventivo di beni come la sua Harley Davidson, la casa in via Courmayeur a Roma, gli immobili di una delle sue società. Il suo avvocato, però, Pasquale Misciagna precisa che il suo assistito non ha mai riportato alcuna condanna definitiva e non è mai stato sottoposto ad alcuna misura cautelare. A prescindere dai precedenti giudiziari di Battaglia Monterisi, sembra che la garanzia prestata dalla sua società alla Eco Tech e a beneficio della Regione sia davvero poco più che carta straccia. «La Seguros Dhi-Atlas Ltd è una società con sede nel Regno Unito che non risulta abilitata all' esercizio dell' attività assicurativa in Italia né in regime di stabilimento, né in regime di libera prestazione di servizi». Così ha risposto alla Verità, l' Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass), confermando quanto emerge anche dal Financial service register tenuto dall' autorità inglese Fca dove la Seguros è iscritta, ma non come compagnia assicurativa. Nel registro Uk non risulta nemmeno un' abilitazione della compagnia ad esercitare attività assicurativa in Italia. La società negli ultimi otto anni è stata pressoché inattiva, fino alla stipula del contratto con Eco Tech. Tanto che le due fideiussioni da 10 e 4 milioni di euro portano l' ordine cronologico 0001 e 0002. Nel file di registrazione alla Fca della Seguros come «contact name», ovvero contatto di riferimento, c' è un storico collaboratore di Battaglia Monterisi, un certo Giuseppe Francesco Olivadoti. Allo stesso indirizzo di Londra della Seguros, e con lo stesso numero telefonico, ha sede anche la Birdie yas insurance Ltd presieduta sempre da Monterisi. Anche Birdie yas ha attivato lo stesso tipo di registrazione della Seguros alla Fca il 20 febbraio 2017 e come Seguros non ha «permissions», ovvero i requisiti per offrire servizi finanziari. Possibile che nessuno dei funzionari della Regione abbia fatto queste ricerche prima di affidare alla Seguros di Monterisi le garanzie fideiussorie? L' atto di copertura dell' incauto anticipo, come viene anche riportato sullo stesso documento di Seguros, è stato stipulato ai sensi dell' articolo 35, comma 18, del decreto legislativo numero 50 del 2016. Chi può rilasciare la garanzia? «Imprese bancarie o assicurative autorizzate alla copertura dei rischi ai quali si riferisce l' assicurazione e che rispondano ai requisiti di solvibilità previsti dalle leggi che ne disciplinano la rispettiva attività». Sempre secondo la norma del 2016 «la garanzia può essere, altresì, rilasciata dagli intermediari finanziali iscritti nell' albo degli intermediari finanziari di cui all' articolo 106 del decreto legislativo primo settembre 1993, n. 385». Ma la Seguros non sembra avere neanche il secondo requisito e il suo nome non si trova in nessun albo. Una fonte legale altamente qualificata ci fa notare altre anomalie nei documenti firmati dalla Eco Tech, da Seguros Dhi Atlas e, in qualità di beneficiario, dall' agenzia regionale della Protezione civile della Regione Lazio. La Eco Tech dovendo lavorare con la pubblica amministrazione da cui riceveva un appalto importante ha dovuto trovare una fideiussione che la garantisse. Si è quindi rivolta a un broker, un intermediario assicurativo che per conto del cliente, in questo caso la Eco Tech, ha dovuto individuare la migliore copertura assicurativa per le sue esigenze. Peccato che la scelta sia caduta sulla Itc international broker che risulta sì iscritta nel registro degli intermediari assicurativi, ma che in questo momento si trova in liquidazione volontaria e ha come titolare un arzillo ottantottenne che fa da prestanome per il figlio (il quale firma con il nome del padre). Ma l' esperto legale da noi consultato ha riscontrato anche un' altra anomalia: nei due «atti di fideiussione per l' anticipazione» datati 20 aprile lo spazio relativo alla dicitura «il premio convenuto alla firma è stato pagato il» è stato lasciato in bianco e non è nemmeno indicato il codice di riferimento per la transazione bancaria. Il premio è il compenso che il cliente paga all' assicurazione affinché lo garantisca. Se non paghi il premio non è valida la polizza. Ecco perché quello era un dettaglio fondamentale da indicare nell' attoPs. La Regione ha annunciato per oggi la partenza delle mascherine da Shanghai per oggi. Nessuno, però, al momento, ci ha confermato il lieto evento.

Maria Elena Vincenzi per repubblica.it il 9 aprile 2020. “Una puntata d’azzardo, giocata sulla salute pubblica e su quella individuale di chi attendeva, e attende, le mascherine”. Con queste parole il gip di Roma ha definito Antonello Ieffi, arrestato stamattina dal Gico del nucleo di polizia economico finanziaria di Roma, con l’accusa di di turbativa d’asta e inadempimento di contratti di pubbliche forniture. A dare il via alle indagini, una denuncia di Consip con riferimento a una serie di anomalie riscontrate nell’ambito della procedura di una gara, del valore complessivo di oltre 253 milioni di euro, bandita d’urgenza per garantire l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale e apparecchiature elettromedicali. In particolare, il lotto n. 6, dell’importo di circa 15,8 milioni di euro, relativo alla fornitura di oltre 24 milioni di mascherine chirurgiche, veniva aggiudicato alla Biocrea Società Agricola a Responsabilità Limitata che, con la sottoscrizione dell’accordo quadro, si impegnava, tra l’altro, alla consegna dei primi 3 milioni di mascherine entro 3 giorni dall’ordine. Sin dai primi contatti con la stazione appaltante pubblica, finalizzati all’avvio della fornitura, però, Ieffi, che interloquiva per conto dell’impresa sebbene non risultasse nella compagine societaria, lamentava l’esistenza di problematiche organizzative relative al volo di trasferimento della merce, che sarebbe stata già disponibile in un punto di stoccaggio in Cina. Eppure le mascherine non arrivavano, nonostante fosse già passata la data prevista dal contratto per la prima consegna. Così, in collaborazione con l’agenzia delle Dogane, veniva perquisito il magazzino dove le mascherine sarebbero state bloccate, all’aeroporto cinese di Guangzhou Baiyun: ovviamente non ce n’era traccia. Non bastasse questo, Biocrea aveva anche una serie di vecchie violazioni tributarie (per 150 milioni di euro) non dichiarate in sede di procedura dalla società che, di converso, aveva invece falsamente attestato l’insussistenza di qualsiasi causa di esclusione . Tale situazione comportava l’esclusione di Biocrea dalla procedura e l’annullamento in autotutela da parte di Consip dell’aggiudicazione. Ieffi, essendo gravato da precedenti sia giudiziari (seppure non ancora definitivi) che di polizia, che avrebbero potuto inficiare la partecipazione alla gara, ha cercato di dissimulare la riconducibilità a sé della Biocrea, nominando come amministratore, in concomitanza con la pubblicazione del bando, un prestanome, cui ha poi “ceduto” l’intero capitale sociale al prezzo di € 100.000, da corrispondere però tra due anni. Inoltre, le risultanze acquisite hanno dimostrato come la Biocrea, che ha un oggetto sociale del tutto estraneo al settore merceologico relativo alla gara (“coltivazione di fondi, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”), fosse una “scatola vuota” destrutturata, caratterizzata da un vero e proprio stato di inoperatività, sintomatica della originaria e assoluta inidoneità della stessa, per totale assenza di dipendenti, strutture, mezzi e capitali, a far fronte alle obbligazioni nascenti da un contratto come quello originariamente aggiudicato. Nonostante la palese incapacità operativa e finanziaria della Biocrea, Ieffi ha partecipato all’appalto, accettando il rischio di non essere in grado di adempiere alla fornitura di milioni di mascherine nei tempi brevissimi dettati dallo stato emergenziale in atto, chiaramente indicati nel bando di gara. E sebbene il tentativo non sia andato a buon fine, l’indagato si è immediatamente riorganizzato per provare ad aggiudicarsi un altro appalto pubblico, questa volta relativo alla fornitura di guanti, occhiali protettivi, tute di protezione, camici e soluzioni igienizzanti, per un valore complessivo di oltre € 73 milioni di euro, utilizzando altro soggetto giuridico, la Dental Express H24 Srl che, però, era come Biocrea, senza patrimonio ma in più aveva un membro del cda con precedenti. Anche in questo caso, all’esito dei controlli, Consip rilevava l’incompatibilità con i requisiti di partecipazione richiesti ed escludeva l’operatore economico dalla procedura. Le investigazioni hanno consentito di accertare che Ieffi, nonostante tale provvedimento, si stesse adoperando per far figurare l’uscita dalla compagine sociale della persona con precedenti in una data antecedente all’indizione della gara, sì da poter ricorrere alla giustizia amministrativa e rientrare in corsa per l’aggiudicazione dell’appalto. Sfruttando la possibilità di depositare presso la Camera di Commercio l’atto di passaggio delle quote entro 30 giorni dalla sottoscrizione, si stava organizzando per predisporre, ora per allora, una retrocessione della partecipazione, sostenendo che sarebbe avvenuta «senza passaggio di denaro, altrimenti avremmo l’obbligo di far vedere anche il transito di denaro», per tornare formalmente in bonis. E intanto a Roma la corte dei Conti indaga sulle mascherine ordinate dalla Regione Lazio e ancora non consegnate. La procura di viale Mazzini ha aperto un fascicolo sulla transazione tra la Pisana e EcoTech, società italo-cinese che ha ricevuto un anticipo da 11 milioni di euro per portare a Roma 9,5 milioni di dispositivi di protezione. Dalla Regione, che si è tutelata con una polizza assicurativa per evitare eventuali danni, spiegano che l’azienda ha già presentato i documenti che comprovano la disponibilità di 20 milioni di mascherine. Una partita che dovrebbe arrivare a giorni ma su cui ora vigilano anche i pm contabili.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 10 aprile 2020. Al telefono confessava i progetti per sfruttare l' emergenza coronavirus e accaparrarsi gli appalti: «So' numeri esageratamente grandi... quindi... ho detto, perché non ci proviamo?». In quel caso si trattava di camici, guanti e tute: «Le quantità, un po' maggiorate, per il prezzo ribassato viene 31 milioni 5 e 85... e noi abbiamo, in teoria, aggiudicato 50 milioni... Speriamo che ci riammettono alla gara...durerà poco ma durerà... per il momento». Ma l' affare arrivato a un passo dalla realizzazione - bloccato solo perché la concessionaria statale Consip ha sentito odore di truffa dopo l'assegnazione e sporto denuncia alla Procura di Roma, che grazie agli investigatori della Guardia di Finanza ha svelato l' imbroglio con un' indagine-lampo - riguardava le mascherine: 15 milioni e 800.000 euro per portarne in Italia 24 milioni, i primi tre entro una settimana; ma dei dispositivi di protezione non c' era nemmeno l' ombra. Per questa «puntata d' azzardo giocata sulla salute pubblica e su quella individuale di chi attendeva, e attende, le mascherine» è finito in carcere Antonello Ieffi, quarantaduenne imprenditore rampante, «spregiudicato e temerario» secondo il giudice che l' ha fatto arrestare, un passato di frequentazioni da cronache rosa e nere tra Manuela Arcuri, Fabrizio Corona e giri di usura e estorsioni, le mani in pasta in una decina di società «operanti nei settori più diversi». Con una di queste, la Biocrea società agricola, destinata a «coltivazione di fondi e allevamento di animali», aveva vinto la gara Consip indetta il 9 marzo per l' approvvigionamento milionario delle mascherine. Una settimana dopo, alla vigilia della prima consegna concordata, la concessionaria sollecita informazioni e Ieffi (che avendo alcuni procedimenti penali a carico s' era premurato di cedere fittiziamente le quote a una presunta complice, ora indagata come lui per turbativa d' asta e inadempimento di contratto pubblico) assicura che è tutto pronto all' aeroporto cinese di Guangzhou Baiyun; un volo per Milano-Malpensa è già programmato per l' indomani. Nel frattempo scrive al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, all' indirizzo e-mail della Camera dei deputati, chiedendo aiuto per imprecisati problemi legati all' importazione del materiale sanitario. Lettera rimasta senza risposta che l' imprenditore replica - inutilmente - alla Protezione civile e ad altre istituzioni. Ieffi cerca di prendere altro tempo accampando la scusa di conti correnti bloccati in Qatar mentre l' Agenzia delle Dogane, allertata dagli inquirenti, controlla l' effettiva esistenza del carico destinato all' Italia nello scalo cinese. Scoprendo che dei tre milioni di mascherine non c' è traccia. A quel punto l' indagine coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e dal Nucleo di polizia economico finanziaria delle Fiamme gialle della capitale smaschera l' intera manovra. Per partecipare alla gara Ieffi non solo aveva trasferito virtualmente le quote, ma anche taciuto 155.000 euro di violazioni tributarie contestate alla Biocrea che, se emerse, l' avrebbero automaticamente escluso. E non ha mai fatto cenno alla «assoluta, attuale e preesistente incapacità operativa e finanziaria» a procurarsi il materiale di cui l' Italia aveva assoluto e urgente bisogno per fronteggiare la pandemia da Covid 19. Un «silenzio menzognero», accusa il gip Valerio Savio, che diventa «mezzo fraudolento» per aggiudicarsi un appalto (che non poteva essere onorato) giocando sulla salute degli italiani. Scoperto grazie ai controlli immediati attuati da Consip, Procura e Guardia di Finanza, che sono valsi l' arresto in prigione per l' indagato anche in tempi in cui la magistratura è chiamata a valutare con molta ponderazione gli ingressi in carcere, proprio a causa del coronavirus; un anticorpo che può rivelarsi efficace di fronte ai paventati affari delle organizzazioni criminali sull' emergenza sanitaria ed economica.

Andrea Ossino per iltempo.it il 10 aprile 2020. “Riteneva che sinonimo di successo fosse essere ricchi per essere presentabile di fronte a personaggi della Roma bene. Così per ostentare ricchezza c’è stato un momento in cui aveva stipulato sei contratti di leasing di auto di lusso”. Lusso, moda, donne avvenenti, alcuni guai con l’erario e un dissidio con criminali di un certo rango. L’imprenditore arrestato ieri nell’ambito dell’inchiesta sulla fornitura mai avvenuta di mascherine, non è nuovo alle cronache.

Gli studi e le collaborazioni con i ministri: così si racconta l’indagato. Il Ministro Roberto Speranza e gli ex ministri Antonio Martino e Antonio Marzano: l’ufficio stampa di una società riconducibile all’indagato ne sottolinea gli importanti incarichi. L’ufficio stampa della E-Building spa, azienda in cui detiene numerose azioni, lo descrive così: “Figlio di genitori Inseganti, si trasferisce a Roma nel 1997 lasciando come molti a soli 19 anni la famiglia dopo aver ottenuto il diploma presso il Liceo Scientifico Gioacchino Pellecchia di Cassino, e si laurea in Scienze Politiche presso la Luiss Guido Carli nel luglio del 2001 a soli 23 anni con 110 e lode, tra i primi del suo corso, corso da cui sono poi usciti compagni di corso e si studi noti tra cui spiccano i nomi di Roberto Speranza e Tommaso Labate, fondando in quell’anno la sua prima Società nel giugno 2001 la E-Building S.r.l. poi S.p.A. dal 2011. Per le sue doti di sintesi e di intuizione delle vicende socio economiche di quegli anni da neo laureato gli viene offerto un incarico di 2 anni (dal 2002 al 2004) come collaboratore alla cattedra di Economia Politica in Luiss (Cattedra del Professore Antonio Martino, Ministro della Difesa in quegli anni) e presso la cattedra di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche di La Sapienza (Cattedra del Professore Antonio Marzano, Ministro delle Attività Produttive in quegli anni), incarico che porta a termine fino a scadenza nel 2004. Nel 2002 risulta anche vincitore di un Dottorato in Information Technology presso la Facoltà di Economia della Luiss Guido Carli, poi rinunciato per seguire le attività accademiche nonché per accettare l’incarico da funzionario presso l’IPI (Istituto per la Promozione Industriale), agenzia governativa facente parte del Ministero delle Attività produttive, offertogli direttamente dall’allora Ministro Antonio Marzano, incarico da cui si dimette volontariamente nel giugno 2002 per seguire le proprie ambizioni imprenditoriali”.

Il rapporto con l’Arcuri il sequestro ordito dall’ex di De Rossi. In realtà Antonello Ieffi, imprenditore nato a Cassino nel 1978, è comparso per la prima volta sui rotocalchi quando ha iniziato a frequentare Manuela Arcuri. Nel 2012 i giornali di gossip, sospettando un flirt tra i due, li hanno insieme in Vacanza a Malindi da Briatore. E ancora a Dubai. E poi c’è l’amicizia con Fabrizio Corona.  Nel 2013 Ieffi si è reso protagonista, suo mal grado, di un’altra avventura. Il 17 luglio fu picchiato e torturato in un attico al Torrino, quartiere a Sud di Roma. Per quella faccenda furono arrestate alcune persone tra cui Tamara Pisnoli, ex moglie della bandiera giallorossa Daniele De Rossi. Il processo è ancora in corso. «Quel pomeriggio avevo appuntamento in un bar dell’Eur con alcune persone – ha raccontato ai carabinieri – Quando arrivai mi si avvicinarono due persone e mi invitarono a salire sulla macchina con loro”. Sarebbe stato portato nell’attico al Torrino: “Una volta lì cominciarono a picchiarmi, a farmi del male. Erano in tre. Uno di loro mi tagliò con un coltello il cuoio capelluto. Pretendevano altri 86mila euro per un prestito che sei mesi prima avevo chiesto di 100mila euro. Ne avevo già restituiti 343mila, ma ne volevano ancora e subito. Mi hanno minacciato di morte”. “Se non paghi in cinque giorni ti spariamo alla testa”, “Sai quanto ci metto a fà ammazzà una persona? Basta che metto diecimila euro in mano a un albanese, non ci mette niente”, avrebbero detto gli aggressori secondo quanto racconta da Ieffi. L’uomo chiama in ballo anche la Pisnoli, proprietaria della casa in cui Ieffi è stato trattenuto: «Nel corso di quel sequestro mi vennero chiesti anche altri soldi, la restituzione, con interessi, di 80mila euro, diventati 150mila della Pisnoli. Mi era stata presentata mesi prima da un mio amico che era il suo compagno M.M. Mi disse che voleva entrare nella partita del fotovoltaico e le proposi in investimento. O meglio, una licenza per la produzione di energia con impianti fotovoltaici». Negli atti Ieffi viene descritto dal gip in questi termini: “La vittima riteneva che sinonimo di successo fosse essere ricchi per essere presentabile di fronte a personaggi della Roma bene. Così per ostentare ricchezza c’è stato un momento in cui aveva stipulato sei contratti di leasing di auto di lusso”.

L’agguato alla Magliana. C’è anche un’altra persona che è stata indagata in quel procedimento: Andrea Gioacchini, accusato di aver prestato denaro a strozzo a Ieffi. Gioacchini è stato ucciso nel gennaio 2019. Un agguato alla Magliana: uno sparo in testa, uno alla mandibola e uno alla spalla non gli hanno lasciato scampo. Sul fatto indaga l’Antimafia.

Coronavirus, tutti i retroscena sulle gare Consip per le mascherine. Il Corriere del Giorno il 19 Aprile 2020. Le indagini dei magistrati e della Guardia di Finanza di questi giorni, gli arresti, gli indagati, generano il forte sospetto che dietro la parola “emergenza” si nasconde più qualche falla nei controlli e che, soprattutto, potrebbe consentire alla criminalità organizzata di infiltrarsi. Subito dopo le gare “urgenti” bandite dalla Consip, la centrale degli acquisti della Pubblica Amministrazione per la fornitura di materiale destinato all’emergenza sanitaria a seguito del Covid-19, sono iniziate a circolare le prime criticità sulle gare d’appalto e sopratutto sulla legalità del loro procedimento legale. La notizia degli arresti effettuati conferma le voci circolanti, in particolare quelle in relazione ad un lotto del primo bando indetto relativo all’ “acquisto e la fornitura di dispositivi di protezione individuale e di apparecchiature sanitarie” del valore complessivo di 258 milioni di euro. A scoprire le illegalità è stata la Guardia di Finanza effettuando una brillante ed efficace indagine lampo che ha portato all’arresto di un imprenditore, tale Antonello Ieffi per “turbativa d’asta” ed “inadempimento di contratti di pubbliche forniture“. Il lotto su cui è stata accertata la turbativa d’asta per la precisione era quello relativo alla società Biocrea che si era aggiudicato la fornitura di 24 milioni di mascherine chirurgiche per un importo complessivo di 15,8 milioni. Consip, in una nota, per farsi perdonare, ha reso noto che “le attività investigative condotte dal GICO del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma sono state avviate in seguito alla tempestiva denuncia effettuata da Consip stessa alla Procura della Repubblica di Roma“. Dimenticando però di spiegare come non avevano fatto loro stessi anche altri necessari controlli. La Biocrea, società riconducibile all’arrestato Antonello Ieffi, 41enne, per false dichiarazioni inerenti le proprie posizioni tributarie, è stata esclusa il 19 marzo dalla procedura d’urgenza consentendo alla Consip di annullarne in autotutela l’aggiudicazione, venendo accusato dalla Procura di Roma dei reati di turbativa d’asta e inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Le attività investigative delle Fiamme Gialle hanno avuto origine dalla verifica di una moltitudine di anomalie a partire dal grosso ritardo delle consegne, inizialmente giustificato dall’arrestato, a dei presunti problemi organizzativi connessi al volo di trasferimento della merce in Italia, che contrastava con il principale impegno contrattuale di consegnare i primi 3 milioni di mascherine entro 3 giorni dall’ordine. La conseguente ispezione effettuata della Guardia di Finanza con la collaborazione dell’Agenzia delle Dogane, veniva effettuata presso l’aeroporto cinese di Guangzhou Baiyun un’ispezione, che accertava l’inesistenza del carico dichiarato.  I successivi approfondimenti facevano emergere a carico di Antonello Ieffi anche pregresse posizioni debitorie per violazioni tributarie, per oltre 150 mila euro nei confronti dell’Erario, non dichiarate in sede di procedura dalla società che, di converso, aveva invece falsamente attestato l’insussistenza di qualsiasi causa di esclusione. In particolare, è stato ricostruito come Ieffi essendo gravato da precedenti sia giudiziari (seppure non ancora definitivi) che di polizia, che avrebbero potuto inficiare la partecipazione alla gara, abbia cercato di dissimulare la riconducibilità a sé della Biocrea pur rimanendone l’esclusivo “dominus” nominando come amministratore, in concomitanza con la pubblicazione del bando, un mero “prestanome” pulito da precedenti, a cui ha poi “ceduto” l’intero capitale sociale al prezzo di € 100.000, da corrispondere però tra due anni. Inoltre, le risultanze acquisite hanno dimostrato come la Biocrea che, come già detto prima, ha un oggetto sociale del tutto estraneo al settore merceologico relativo alla gara (“coltivazione di fondi, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”), fosse di fatto una “scatola vuota” destrutturata, caratterizzata da un vero e proprio stato di inoperatività, sintomatica della originaria e assoluta inidoneità della stessa, per totale assenza di dipendenti, strutture, mezzi e capitali, a far fronte alle obbligazioni nascenti da un contratto come quello originariamente aggiudicato. Sebbene il tentativo non sia andato a buon fine, Ieffi si era immediatamente riorganizzato per provare ad aggiudicarsi un altro appalto pubblico, questa volta relativo alla fornitura di guanti, occhiali protettivi, tute di protezione, camici e soluzioni igienizzanti, per un valore complessivo di oltre € 73 milioni di euro, utilizzando altro soggetto giuridico, essendo la Biocrea ormai “bruciata”. La nuova società , la Dental Express H24 presentava, però, una inesistente capacità economica pressoché sovrapponibile a quella della Biocrea e peraltro un socio e membro del consiglio di amministrazione risultava gravato da precedenti penali. Trait d’union delle operazioni di Ieffi è la E-Building. Una holding che – stando a quanto affermato dall’imprenditore – racchiuderebbe interessi milionari che spaziano dallo sviluppo di tecnologie per l’energia rinnovabile alla compravendita di crediti deteriorati. La sede è al numero 8 di via Montenapoleone, cuore della moda milanese. Indirizzo di prestigio che però combacia con quello di un servizio di “affitto ufficio virtuali”. Anche a Londra, dove compare in diverse società dai primi anni 2000, Ieffi si sarebbe affidato a un noto “formations agent”, ovvero chi apre aziende per conto terzi. Si tratta di Formations House, a cui negli anni si sono rivolti, tra gli altri, gli eredi della famiglia Riina, colletti bianchi al servizio di uomini della camorra e imprenditori iraniani sotto sanzione, come rivelato in passato da IrpiMedia e La Stampa. In questo caso, contrariamente a quanto avvenuto nel caso della Cooperativa Indaco di Taranto all’esito dei controlli, la Consip ha rilevato l’incompatibilità con i requisiti di partecipazione richiesti ed escluso l’operatore economico dalla procedura. Le investigazioni hanno consentito di accertare come Ieffi, nonostante tale provvedimento, si stesse adoperando per far figurare l’uscita dalla compagine sociale della persona gravata da precedenti in una data antecedente all’indizione della gara, sì da poter ricorrere alla giustizia amministrativa e rientrare in corsa per l’aggiudicazione dell’appalto. Il faccendiere Antonello Ieffi sfruttando la possibilità di depositare presso la Camera di Commercio l’atto di passaggio delle quote entro 30 giorni dalla sottoscrizione, si stava organizzando per predisporre, ora per allora, una retrocessione della partecipazione, sostenendo che sarebbe avvenuta “senza passaggio di denaro, altrimenti avremmo l’obbligo di far vedere anche il transito di denaro”. L’attenzione sulle gare Consip ma anche su quelle di alcune Regioni “allegre” sta portando alla luce pressochè quotidianamente che non tutti i procedimenti sembrano essere limpidi ed emergono dubbi sulle modalità di aggiudicazione delle gare. C’è ad esempio un altro bando, per un importo di aggiudicazione complessivo di oltre 63 milioni di euro, che fa emergere che nella gestione di questi bandi e nei controlli di legittimità ci sia stato qualcosa di poco chiaro e legale. Lo scorso 7 aprile è “saltato” il contratto di fornitura per le mascherine aggiudicato alla cooperativa “Indaco Service” di Taranto, portando il valore complessivo della gara agli attuali 58 milioni. La cooperativa tarantina coinvolta in altre vicende giudiziarie, una delle quali relativa alla gestione illegale di centro di accoglienza migranti in Puglia (a Taranto ed in provincia di Brindisi) , è gestita da due fratelli Barbara e Salvatore Micelli, quest’ultimo pregiudicato e finito in carcere per una vicenda relativa ad una truffa perpetrata sui fondi comunitari per l’occupazione femminile distribuiti dalla Regione Puglia. E stata l’inchiesta sulle mascherine del programma Piazza Pulita de “La7” che ha portato alla luce che tra le aziende vincitrici c’era anche quella gestita da Salvatore Micelli, arrestato nel 2018 per un’altra vicenda giudiziaria dalla Guardia di Finanza di Taranto per erogazioni pubbliche ricevute per imprese inesistenti e ora sotto inchiesta per associazione a delinquere e truffa aggravata ai danni dello Stato, e sotto processo per stalking al nostro direttore Antonello de Gennaro che da anni scopre e rivela giornalisticamente le malefatte del Micelli. E’ stato infatti grazie ad una nostra inchiesta giornalistica che il Nas dei Carabinieri da Roma dispose dei dovuti controlli e perquisizioni che hanno consentito poi alla Prefettura di Taranto di revocare il contratto milionario assegnato alla Cooperativa Indaco (grazie ad un ricorso vinto dinnanzi al TAR Puglia, per il quale l’ Avvocatura di Stato pensò bene…di non ricorrere al Consiglio di Stato !) che intascava oltre 250mila euro al mese! La Consip dopo l’esplosione “mediatica” della vicenda della Cooperativa Indaco, che ha portato anche da un’interrogazione parlamentare presentata dall’ on. Donzelli (Fratelli d’ Italia) ha revocato l’assegnazione alla cooperativa di Taranto in questione di una fornitura di mascherine chirurgiche e FFP3, giustificando di aver annullato l’aggiudicazione dei due lotti (1 e 3) da oltre 28 milioni di euro in seguito ai controlli effettuati (a posteriori) sui soci della Indaco, fra i quali figura come vicepresidente il pregiudicato Salvatore Micelli e come presidente sua sorella Barbara che è peraltro disabile per cause psichiatriche e quindi per Legge non avrebbe mai dovuto e potuto assumere ruoli di rappresentanza legale. Incredibilmente nello stesso bando Consip, vi è anche la presenza imbarazzante di un’altra società neo-costituita che è risultata vincitrice in tutti e 9 i lotti di gara (in un lotto addirittura unica vincitrice), iscrittasi nel registro delle imprese delle camere di commercio italiane, soltanto il 24 febbraio scorso dichiarando la data di inizio attività 16 marzo 2020, con un capitale sociale di appena 30 mila euro, 2 soci, nessun dipendente , dichiarando come attività prevalente la “compravendita di beni immobili effettuata su beni propri”. Un’attività questa che non risulta minimamente connessa al settore di competenza scopo del bando. Risulta incredibile ed a dir poco sospetto che una società nasca solamente tre giorni prima dell’avvio di un bando di gara milionario così importante e guarda caso risulti vincitrice di tutti e 9 i lotti, sopratutto partendo dal presupposto che ognuno dei lotti prevedeva la fornitura di materiale completamente diverso (mascherine chirurgiche, mascherine FFP2 ed FFP3, guanti in vinile, guanti in nitrile, occhiali protettivi, tute di protezione, camici, soluzione idroalcolica). Materiali difficilmente reperibili in questo periodo, a fronte di una domanda internazionale che cresce esponenzialmente di giorno in giorno , che avrebbero necessità di una produzione continua per ottemperare agli stringenti tempi di consegna , ed in caso di acquisto da terzi se il materiale fosse “solo” importato e poi fornito, dovrebbe avere una consolidata esperienza maturata nel settore ed una consolidata rete di rapporti con i produttori cinesi. Una rete di rapporti che una società avviata soltanto il 16 marzo non avrebbe mai potuto avere e neanche acquisire in così poco tempo. Abbiamo fatto più di qualche ricerca approfondita online per reperire qualche informazione in più, ma la società in questione è l’unica tra quelle nel bando, a non avere un sito web ufficiale o qualche informazione più approfondita. Una mancanza di trasparenza che avrebbe dovuto allertare i funzionari Consip nell’accertare la pienezza dei requisiti dei soggetti partecipanti alle gare. Ipotizzando per assurdo che dietro le quinte della società neo-costituita si possa essere una società più grande – e che quindi possa risultare assolutamente in grado di reperire così tanti materiali in così poco tempo – sarebbe stato naturale e logico chiedersi come sia stato possibile che la Consip abbia aggiudicato un bando di un’importo così imponente ad una società così giovane e che peraltro non opera nel settore specifico in questione  Chi garantiva la Consip che una società così piccola nata da qualche settimana, con un capitale sociale così basso ( e quindi mezzi finanziari limitati), potesse essere in grado di fornire tutto questo materiale in tempi così stretti ? Alla domanda dei giornalisti sulle modalità di aggiudicazione delle gare, Consip si era giustificata in maniera a dir poco ridicola ed imbarazzante sostenendo che “chi ha partecipato alla gara ha dichiarato che aveva le competenze tecniche per svolgere il compito, è un’autocertificazione, di cui eventualmente risponde. Noi, vista l’urgenza, controlliamo solo i documenti sta a loro consegnare a tempo debito”. Tra gli aggiudicatari della gara per far fronte all’emergenza Covid-19 figura invece anche la società bresciana Italian Properties Srl. Il suo proprietario Marco Melega, 47enne cremonese, è stato arrestato nel luglio 2019 per una presunta truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. Secondo le accuse della Procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce. Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. La centrale di acquisti della pubblica amministrazione italiana, già al centro di altre vicende giudiziarie (che hanno portato agli arresti domiciliari il padre di Matteo Renzi) dovrebbe compiere accertamenti e valutazioni di merito più approfonditi sulle aziende a cui aggiudica le gare e non solo limitarsi sul requisito dell’offerta economicamente più vantaggiosa ! Le indagini dei magistrati e della Guardia di Finanza di questi giorni, gli arresti, gli indagati, generano il forte sospetto che dietro la parola “emergenza” si nasconde più qualche falla nei controlli e che, soprattutto, potrebbe consentire alla criminalità organizzata di infiltrarsi. Ovviamente, dovranno essere la Magistratura e Guardia di Finanza a fare tutte le verifiche del caso ed accertare eventuali omissioni o abusi in atti d’ufficio nello svolgimento delle gare Consip. Noi ci limitiamo a fare i giornalisti ed informare i lettori

Francesco Pacifico per “il Messaggero” l'8 aprile 2020. C'è una terza tranche delle mascherine a rischio consegna, che la Regione ha già pagato per metà, ma che potrebbe non ricevere mai. Come raccontato dal Messaggero, la Protezione civile del Lazio - nella frenesia di trovare i dispositivi di protezione individuale durante l'emergenza Covid-19 - il 16 marzo scorso aveva ordinato a una ditta romana 5 milioni di pezzi tra FFP2, di FFP3 e dispositivi a tre strati, con due contratti in affidamento diretto per oltre 22 milioni di euro. In più aveva già versato come caparra la metà di questa cifra. Mascherine che dovevano essere recapitate il 30 marzo e che invece non sono state neppure importate dalla Cina. Con il risultato che l'ente si appresta nelle prossime ore a mettere in moto l'avvocatura regionale per presentare regolari denunce penali e civili, se non si vedrà restituito l'anticipo. Ma adesso, a spaventare le autorità regionali, è il terzo ordine fatto alla stessa ditta romana, il cui termine di consegna scadeva lunedì sei aprile. Il 20 marzo scorso, infatti, la Protezione Civile fa un ulteriore ordine alla stessa azienda romana di quasi 14 milioni di euro per ulteriori 3 milioni di mascherine FFP2 e FFP3, che come detto andavano recapitate entro lunedì e delle quali si sono perse le tracce. Il contratto concede al fornitore una proroga nella consegna di cinque giorni (pagando per ognuno di essi una penale di 10mila euro). Dopodiché scatta la rescissione del contratto, la richiesta di vedersi accreditato l'anticipo e un primo riconoscimento di danni. Passata questa data, si arriva alle vie legali. Per avere lumi su questa fornitura, la Protezione civile del Lazio hanno contattato la ditta, che vede tra i soci anche un soggetto cinese e che fino all'inizio della crisi coronavirus, vendeva lampade a Led. L'azienda avrebbe garantito sulla consegna e avrebbe dato rassicurazioni anche sul versamento degli anticipi, ma in Regione Lazio sono molto scettici. Fatto sta che la questione è diventato un caso politico. Chiara Colosimo, consigliera regionale di Fratelli d'Italia, ha presentato lunedì un'interrogazione alla giunta e parla di presunta truffa ai danni dell`agenzia regionale della Protezione civile». Per poi aggiungere che «nello stabile indicato dall'azienda, in zona Trieste, non ci sono suoi uffici, ma abbiamo trovato soltanto un gruppo di professionisti che non sa nulla né di mascherine né di lampade a Led». Dalla Regione replicano: «Non ci troviamo di fronte ad alcuna truffa». Secondo gli uffici di via Cristoforo Colombo, infatti, la Protezione civile, prima di fare l'ordine, ha «effettuato tutte le verifiche del caso. L'azienda, che non è sparita, al momento non è stata in grado di adempiere a due delle tre forniture richieste e per questo è stata avanzata l'immediata richiesta formale di restituzione dell'anticipo».

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per la Verità il 19 aprile 2020. La Regione Lazio non ha replicato a quanto affermato dalla multinazionale 3M a proposito della fornitura di mascherine da parte della società svizzera Exor e della Eco tech di Roma (ditta da un milione di fatturato). Il problema era un affidamento diretto da oltre 35 milioni di euro per mascherine e altri dispositivi. La Regione, l' 8 aprile scorso, aveva detto che la Exor era un «distributore ufficiale» della 3M. La seconda l' ha smentita: «3M Italia tiene a precisare che né Eco tech né Exor risultano essere presenti nell' anagrafica clienti o distributori». Una bomba. Eppure nessuno in Regione ha replicato. Ha continuato a girare solo un documento senza firma in cui la Regione spiegava perché avesse scelto per un affidamento diretto da 35 milioni una società controllata da due psicologhe e un misterioso cinese residente nel suo Paese natio, che sino a quel momento si era occupato di materiale elettrico. Nel documento, intitolato «Cosa, come, perché» (sottotitolo «Gli acquisti effettuati presso la società Eco tech srl»), si leggono i motivi che hanno portato a scegliere l' azienda laziale: «Il prezzo proposto (3,90 euro per le mascherine Ffp3 e 3,40 per le Ffp2, ndr) è il più basso tra i preventivi ricevuti per la stessa tipologia di prodotto» e «tra le condizioni di pagamento proposte dai preventivi indicati la Eco tech, con la Servimed, è l' unica che non ha richiesto l' integrale pagamento anticipato ma acconto del 50%». Sarà, ma quando abbiamo provato a chiedere al portavoce del governatore Nicola Zingaretti, Emanuele Lanfranchi, che cosa rispondessero alla 3M, il commento è stato: no comment. In compenso, a proposito dei presunti buchi nelle forniture, ha tenuto a precisare che «il magazzino non ha carenze, ci sono sei milioni di dispositivi di protezione». Gli stessi numeri che si trovavano nel documento senza firma del 14 aprile. Ma se la Regione rivendica di aver risparmiato grazie alla Eco tech, la 3M ha voluto precisare di non aver «modificato i prezzi dei propri prodotti a seguito dell' epidemia, ed è impegnata attivamente nella lotta contro le speculazioni sui prezzi». In questi giorni si è fantasticato sull' affidamento da oltre 4 milioni di euro dato alla Worldwide luxury corner srl dell' imprenditrice fiorentina Patrizia Colbertaldo. Infatti la ditta non ha mai prodotto un bilancio e risulta inattiva. La donna è stata candidata nel 2008 nella Lista civica per Rutelli che sosteneva come presidente del Municipio di Ostia Paolo Orneli, attuale assessore regionale del Lazio al Commercio. La signora, contatta dalla Verità, ha negato ogni legame con Orneli e ci ha spiegato di essersi candidata su consiglio di un altro assessore dell' epoca, Patrizia Cenni. «Io Orneli neppure lo conosco». Ci ha confermato di essere una naturopata e di avere difficoltà come imprenditrice. La Colbertaldo ha ammesso di essersi lanciata nel business dei Dpi sfruttando la sua conoscenza delle lingue e il fiuto commerciale. I fornitori cinesi a cui si è rivolta li avrebbe individuati lavorando giorno e notte davanti al computer, confrontando prezzi e caratteristiche dei dispositivi: «In fondo, facendo la naturopata, un po' di medicina la mastico». A questo punto, preventivi in mano, avrebbe iniziato a tempestare di mail tutte le regioni con le sue offerte, oltre che la Protezione civile. Le avrebbero risposto in molti, compreso Angelo Borrelli, ma nessuno era disponibile a dare anticipi: «Tutti pagamenti a 20 giorni dalla consegna» ci racconta. Solo il Lazio ha accettato le sue condizioni. Sono iniziati giorni di trattative serrate. Qui inizia la parte più interessante del racconto. Dopo essere stata inserita nell' albo dei fornitori della Regione, viene subissata di telefonate da strutture sanitarie e associazioni. Poi improvvisamente il telefono diventa muto. «Non mi chiamava più nessuno. Quindi, visto che sono una tipa sveglia e che il bonifico con l' anticipo non arrivava, ho richiamato la Protezione civile.

Li ho sentiti traccheggiare, per cui ho detto "Io sto venendo in protezione civile, a firmare".

Lui: "Ok"». Prende e vola a Roma, dove firma. Probabilmente in extremis. La sua offerta viene protocollata il 13 marzo.

Il 15 quella della Eco tec. Ma la giunta il 15 firma la determina della Eco tec e solo il 18 quello della Worldwide. «Anche se le mie mascherine Ffp2 costavano solo 3,06 euro». Dal racconto della Colbertaldo l' approvvigionamento dei dispositivi di protezione e di quelli medici deve assomigliare al Mercante in fiera, dove da un momento all' altro puoi essere soppiantato da un concorrente, che non necessariamente fa il prezzo migliore. La signora aveva anche un altro affare in piedi: 300 respiratori con compressore e monitor inclusi da 11.894 euro l' uno. Improvvisamente le arriva dalla Regione una mail di revoca dell' ordine con indicato un numero sbagliato di respiratori (200). Il 19 marzo la Regione firma una determina per 300 respiratori con un' azienda di Arezzo, la Seco spa, al prezzo di 4.259.922,80, Iva compresa (14.199,7 cadauno, 11.639,13 senza l' Iva). La Colbertaldo è arrabbiata: «Può davvero pensare che io abbia amici politici e soprattutto di sinistra?».

Ma tra le stranezze negli affidamenti fatti dalla Regione Lazio non finiscono qui: basti pensare al capitolo delle società estere, in alcuni casi offshore, i cui dettagli societari non compaiono nelle banche dati delle Camere di commercio italiane. Si riesce ad avere un quadro grazie alle fonti aperte. Alla Wisdom glory holdings ltd la Regione Lazio ha chiesto 2 milioni di mascherine Ffp2 al prezzo di 4,6 milioni di euro. La società ha una pagina Facebook sulla quale si pubblicizza come azienda di design e arredamento, nonostante la penuria di like: solo 28. C' è un ricco catalogo di prodotti per interni lungo 64 pagine. Risulta domiciliata a Hong Kong e ha uffici a Taiwan, ma la holding è registrata alle isole Cayman, paradiso fiscale. La ditta è presente, come anticipato dal Fattoquotidiano.it, nel database degli Offshore Leaks creato nel 2013 dall' International consortium of investigative journalists, quello dei Panama Papers. Lì si apprende che fa capo a un certo Shui Lin Chu, che compare anche in un' altra Ltd. Sempre offshore. C' è poi la Goldbean ltd, fondata nel 1991 con sede a Hong Kong, che deve consegnare al Lazio 2 milioni di Ffp2 e 2 milioni di mascherine triplo strato Cov 20. L' importo della commessa è di quasi 6 milioni di euro. Acconto del 50% versato e spedizione garantita entro il 7 aprile. Ufficialmente la linea di business è legata alla fornitura di servizi. Degna di nota anche la European network tlc srl, sede a Milano. L' accordo con la Regione Lazio riguarda 5 milioni di mascherine Ffp2 a di 3,5 euro più Iva l' una, per oltre 21 milioni. Acconto del 50% e consegna entro dieci giorni dall' ordine (firmato il 17 marzo). Lo stesso fornitore ha ricevuto un' altra commessa per 430.000 camici a 10 euro l' uno più Iva. Importo complessivo di altri 5 milioni di euro (ordine del 25 marzo). Pare sia l' unico caso in cui la Regione ha chiesto una polizza fideiussoria a garanzia. La società fa capo ad Andelko Aleksic detto Angelo, 40 anni, editore croato a capo di una società con 10.000 euro di capitale sociale e tre dipendenti. Il suo gruppo possiede riviste di gossip come Eva 3000 e Vip magazine. Altra società che non sembra avere a che fare con i dispositivi di protezione è la Idp srl, Industra divani e poltrone. Sede principale a Cogliate (Monza e Brianza) e un solo socio: Sergio Facotti. Ha dieci unità operative sparse per il Nord Italia. La Regione Lazio ha affidato al produttore di sofà una fornitura di 5.000 Ffp3 3M al prezzo unitario di 4,45 euro Iva esclusa. L' ordine risale al 2 aprile, con consegna prevista per il 4. Al momento anche questo risulta non pervenuto.

Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 6 maggio 2020. Da quando La Verità ha scoperto che è stato il trait d' union tra la Eco Tech e la Regione Lazio per la storia delle mascherine mai consegnate, viene inseguito dai giornalisti. «Ho avuto tantissime telefonate». Ma l' uomo dello snodo, che ha detto a tutti che ha cercato di lavorare in maniera corretta e trasparente, «però», afferma: «Mi sono ritrovato in una bomba non volendo». Una bomba. Ivan Gilardi, ex karateka trentenne, era in contatto diretto con Andrea Cocco, vicecapo di gabinetto di Nicola Zingaretti, già capo della sua segreteria politica. «Loro hanno saputo che avevo delle aziende con cui collaboravo», spiega alla Verità, «da lì è nato poi in maniera naturale il tutto. Ho girato una email che avevo mandato alla Protezione civile, come rappresentante dei prodotti delle aziende che avevo sotto mano. Poi ho girato tutti i contatti e mi hanno detto che la situazione poteva essere verificata, che i prodotti interessavano. Questo è stato il mio ruolo». Il karateka sta praticamente confermando una parte della storia che ha anticipato ieri La Verità. E che si trova nelle 20 pagine di memoriale che l' avvocato Cesare Gai ha depositato in Procura a Roma, dove risultano indagati per inadempimento in pubbliche forniture Sergio Mondin e la moglie Anna Perna, gli amministratori della Eco Tech. Gilardi, insomma, avrebbe riferito ai Mondin che la Regione aveva necessità di mascherine. Il suo nome compare anche nell' elenco dei preventivi proposti. E il 12 marzo avrebbe offerto Ffp3 ed Ffp2 al prezzo di 3,90 euro cada una. Una proposta che il ragazzo avrebbe fatto tramite il suo indirizzo email. E che ora conferma. «Però», spiega, «io stavo promuovendo quegli articoli, poi mi hanno inserito anche all' interno di una lista». Come se fosse un' azienda a sé stante. «Non ho mai lavorato nella pubblica amministrazione in vita mia», afferma, «ero un ragazzo che faceva karate 35 anni fa in palestra da mio padre (il maestro, ndr). Io non l' avevo mai visto Cocco. Poi mi contatta perché gli danno il mio numero. Gli serviva quel materiale. Necessità, come in tutta italia». Le Iene ieri sera sono riuscite a beccare il padre di Gilardi, Bruno, maestro di karate di Cocco: «Avevo conosciuto 30 anni fa Andrea Cocco, era stato mio allievo da ragazzino a 17 o 18 anni, in palestra». E a questo punto Le Iene si chiedono se sia stato papà Bruno a mettere in contatto suo figlio con Cocco per la fornitura delle mascherine. Ivan, però, continua a negare le conoscenze pregresse: «Cocco mi chiama e dice: "Tu stai lavorando al materiale delle mascherine. Guarda che serve anche alla Regione Lazio, non ci conosciamo, però perché non mandi un' offerta alla Protezione civile?". Io ho mandato un' offerta. Questo è stato». Poi Gilardi spiega come, da profano, si è ritrovato in quel mondo: «Da inizio febbraio ho contattato aziende per quello che era diventato un lavoro nuovo per me». Niente amici degli amici, insomma. E lui era il gancio con Eco Tech. Come conferma il legale dell' impresa dei Mondin, l' avvocato Giorgio Quadri: «È venuto la prima volta da Tulumello (Carmelo Tulumello, capo della Protezione civile laziale, ndr) perché lui penso sia stato un primo contatto tra Tulumello o diciamo la Protezione civile o chi per lui, ed Eco Tech». Gilardi, invece, ribalta la storia. Era la Regione a caccia. «A Cocco», ripete, «è stato dato il mio numero. Lui ha chiamato me». All' inizio Gilardi avrebbe quindi cercato di entrare nell' affare da solo. D' altra parte, a quel punto, stando al suo racconto, aveva il contatto giusto che gli era caduto dal cielo. «Io all' inizio mi sono presentato come Ivan Gilardi per cercare di lavorare», racconta, «mi hanno detto che le mascherine ci possono interessare e che serviva un' offerta». Ma lui non era pronto. E dice: «Mi hanno detto questi articoli possono essere validi, ci serve però qualcosa che non sia una semplice mail scritta da Ivan». A quel punto dalla Regione devono aver finalmente capito che il karateka non aveva l' ombra di una mascherina e gli hanno chiesto il contatto dell' azienda. La Eco Tech. Anche lei senza mascherine. Mentre sulla scrivania dei burocrati della Protezione civile c' era già anche un altro preventivo. L' aveva inviato Filippo Moroni, un imprenditore che lavora in Cina da anni e che ha una fabbrica a Shenzhen. Non solo: Moroni ha un contratto con il governo cinese e si occupa proprio di materiale medicale. Ha riempito di mascherine Usa e Brasile. E ora si sfoga: «Ho inviato oltre 120 mail tra Protezione civile nazionale e Regione Lazio e non ho mai ricevuto una risposta, poi ho scoperto che gli appalti per oltre 30 milioni di euro sono stati assegnati a ben altre società con ben altri prezzi». Moroni, infatti, sostiene di aver offerto il 19 marzo mascherine Ffp2 a 1 euro e 89 al pezzo. Ma sembrano aver preferito altri tre preventivi molto più costosi. E mentre dalla Regione Lazio puntavano su Gilardi cercandolo con insistenza, Moroni si affannava inutilmente con una funzionaria: «Chiamavo quasi tutti i giorni la dottoressa Roberta Foggia (funzionaria della Protezione civile, ndr), che a un certo punto mi ha addirittura minacciato di querelarmi per stalking per la quantità di telefonate che la riguardavano». Un cortocircuito che, per tornare alla bomba, sembra proprio aver fatto da innesco.

Maxisequestro di mascherine in Lombardia. Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2020. Oltre 240.000 mascherine vendute indebitamente come dispositivi medici o dispositivi di protezione individuale (DPI). Nel corso dei servizi di controllo sull’osservanza delle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica e della corretta applicazione della normativa in materia di prezzi, i Finanzieri del Comando Provinciale di Milano hanno sequestrato oltre 240.000 mascherine. Le Fiamme Gialle del 1° Nucleo Operativo Metropolitano di Milano, che monitorano costantemente le reti distributive dei prodotti connessi all’emergenza Coronavirus, a seguito di approfondimenti investigativi hanno individuato e sequestrato presso 12 farmacie milanesi, facenti parte di una medesima Società cooperativa, oltre 30.000 mascherine vendute come dispositivi medici (mascherine chirurgiche) o dispositivi di protezione individuale, in assenza delle previste certificazioni. In particolare, tali beni risultavano messi in commercio con una impropria marcatura “CE” o privi della predetta marcatura nonché di altra documentazione idonea a certificare correttamente il prodotto come dispositivo medico (DM) o dispositivo di protezione individuale (DPI) e, comunque, senza che fossero stati formalmente interessati l’Istituto Superiore di Sanità ovvero l’INAIL, per avvalersi della deroga prevista dal recente Decreto Legge 18/2020. A seguito del primo sequestro, i finanzieri sono risaliti alla catena di distribuzione delle mascherine, individuandone il fornitore in una società di Milano, operante nel settore della grande distribuzione farmaceutica, che le aveva importate dalla Cina e messe in vendita senza aver prima provveduto ai suddetti adempimenti finalizzati a garantire la sicurezza e l’adeguatezza dei dispositivi. Nel magazzino della società, sito nella Provincia di Milano, sono state individuate e sequestrate quasi 210.000 ulteriori mascherine, di cui circa 75.000 commercializzate come chirurgiche e oltre 134.000 come dispositivi di protezione individuale. Per tali attività illegali, il responsabile della cooperativa di farmacie nonché il rappresentante legale della società fornitrice ed importatrice, sono stati segnalati alla Procura della Repubblica di Milano.

Giovanni Ciolina per ''La Stampa'' il 9 settembre 2020. Ha incassato 23 milioni di euro per la vendita di 10 milioni di mascherine Ffp2 (destinate ad ospedali ed operatori) alla Protezione Civile, ma quei dispositivi «non rispondevano alle caratteristiche minime pattuite». Così Irene Pivetti, ex presidente della Camera, ora amministratore unico della Only Italia Logistics Srl che quei dispositivi ha importato dalla Cina ad inizio marzo, è nei guai per frode in pubblica fornitura. Il sostituto procuratore della Repubblica di Busto Arsizio, Ciro Vittorio Caramone non ha avuto dubbi sulla strada da intraprendere una volta ricevuta la consulenza tecnica richiesta alla società di certificazione milanese Italcert. Ha disposto il sequestro preventivo di un conto corrente alla banca Sella Patrimoni, aperto in una filiale romana. Gli uomini della Guardia di finanza di Savona hanno sequestrato un milione e duecentomila euro, importo identico a quello ritrovato in aprile dagli stessi finanzieri inviati dalla procura di Savona.

Da ilmessaggero.it il 26 aprile 2020. Una società amministrata da Irene Pivetti è coinvolta in un'indagine per frode relativa al commercio di mascherine per proteggersi dal coronavirus. È la violazione dell'articolo 515 del codice penale per frode nell'esercizio del commercio l'ipotesi di reato su cui indaga la Procura di Savona nell'ambito delle migliaia e migliaia di mascherine Ffp2 in arrivo dalla Cina e sequestrate dalla guardia di finanza al terminal 2 dell'aeroporto di Malpensa, dove sono ora custodite. L'indagine, anticipata da Repubblica, era partita dal sequestro dei dispositivi in una farmacia a Savona con il marchio CE contraffatto. Andando a ritroso nella catena della distribuzione si è risaliti alla società che li distribuisce in Italia, che da quanto emerso nelle ultime ore è la Only logistics Italia srl, di cui è amministratrice unica l'ex presidente della Camera, nel 1994, Irene Pivetti. La Procura di Savona guidata dal procuratore Ubaldo Pelosi sta continuando ad indagare e ad andare a ritroso nella filiera per risalire al produttore e ai primi distributori.

Irene Pivetti. Sequestro mascherine importate dalla Cina, Chef Rubio “mortacci tua”. Mauro Mantegazza su Il Sussidiario il 26.04.2020. Irene Pivetti: sequestrate mascherine per 30 milioni di euro alla società dell’ex presidente della Camera. Il commento di Chef Rubio. La notizia del sequestro di migliaia di mascherine ffp2 importate dalla Cina ma prive di marchio di conformità CE con il coinvolgimento di Irene Pivetti ha fatto rapidamente il giro dei social, scatenando non poche reazioni. Nonostante la difesa dell’ex presidente della Camera, che ha spiegato che proprio per quelle mascherine – sulle quali è ora in corso l’indagine della Procura di Savona per frode in commercio – aveva stipulato con la sua società (la Only logistics Italia) un regolare contratto con la Protezione civile, non sono mancate le dure critiche sui social da parte di gente nota e non solo. Chef Rubio è tra coloro che ha commentato la notizia condividendo le sue parole rese al Corriere della Sera, semplicemente con un coloratissimo “Mortaccitua” su Twitter. Non sono mancati poi i commenti da parte di chi ha ribadito la sua provenienza politica: “Mascherine cinesi importate da Irene #Pivetti, sequestro milionario. Una leghista è per sempre, anche anni dopo l’espulsione dal partito”, scrive un utente su Twitter. Ed ancora, “Mascherine cinesi importate da Irene Pivetti, sequestro milionario. #IrenePivetti la Lega, una garanzia”, “I leghisti quando fanno le cazz*te … non hanno mai colpe! La colpa sempre di altri! Spero solo che i soldi siamo stati i suoi! Poteva donare in euro invece di comprare le mascherine! Avrà comprato quelle che costavano meno”. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

“HO RISPETTATO TUTTO MA…” Continuano le indagini da parte della Procura di Savona per far luce sul produttore ed sui primi distributori di migliaia di mascherine Ffp2 in arrivo dalla Cina e sequestrate dalla guardia di finanza, attualmente bloccate al terminal 2 dell’aeroporto Malpensa. La società che distribuirebbe in Italia le mascherine con marchio CE contraffatto sarebbe proprio la Only logistic, di cui Irene Pivetti è amministratrice unica. “Io ho rispettato tutto, e quell’operazione era pure in leggera perdita per me”, ha dichiarato l’ex presidente della Camera intervistata sulla vicenda dal Corriere della Sera. Al fine di limitare rischi di truffe, la struttura commissariale del governo per l’emergenza, guidata da Domenico Arcuri aveva previsto norme molto rigide ed oggi le forniture di mascherine vengono pagate alla consegna. Il contratto della società della Pivetti, di contro, prevedeva il 60% di pagamento anticipato e il 40% alla consegna. In merito la stessa ha spiegato: “Il contratto con la mia società era stato firmato con la Protezione civile: le regole erano quelle, poi sono cambiate”. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

SEQUESTRO DI MIGLIAIA DI MASCHERINE, COSA È SUCCESSO. Sequestro di mascherine non a norma per un valore di 30 milioni di euro: la Guardia di Finanza è intervenuta e di mezzo ci è finita Irene Pivetti, la ex presidente della Camera dei Deputati che denuncia un cambiamento di regole in corso d’opera e di essere stata colpita a causa della sua celebrità. Irene Pivetti aveva firmato un regolare contratto con la Protezione Civile e si era dedicata all’importazione di mascherine dalla Cina, quando il Coronavirus ha incominciato a imperversare più in Italia che nel Paese asiatico. Alcuni farmacisti però le vendevano con una maggiorazione del prezzo pari al +250% ed è di conseguenza intervenuta la Guardia di Finanza, che contesta la mancanza della certificazione richiesta. Dentro scatoloni marroni ammucchiati in un hangar del Terminal 2 dell’aeroporto di Malpensa ci sono dunque centinaia di migliaia di mascherine di tipo FFp2 che l’Italia ha comprato ma che non può toccare. Vengono dalla Cina, sono prive di certificazione e sono sotto sequestro per ordine della procura di Savona. Le ha importate la Only Logistics Italia srl, la società di cui è amministratrice unica l’ex presidente della Camera Irene Pivetti. Tutto inizia ai primi di aprile, quando nel Savonese vengono denunciati i proprietari senza scrupoli di alcune farmacie, che vendevano mascherine di protezione a prezzi esorbitanti.

MASCHERINE SEQUESTRATE: IRENE PIVETTI SPIEGA. La procura affida le indagini alla Guardia di Finanza, che inizia a risalire la filiera di questa fornitura. Si arriva così all’hangar di Malpensa, dove sono custodite appunto migliaia di mascherine Fpp2. Il carico viene sequestrato su disposizione della procura di Savona, che contesta l’assenza del marchio di certificazione. Le mascherine sono state importate dalla Cina appunto dalla Only logistics Italia srl di Irene Pivetti, che dopo l’avventura politica (più giovane presidente della Camera di sempre) ha iniziato a fare l’imprenditrice stabilendo una solida di rete di relazioni con l’estremo oriente. Nei giorni più tragici del Coronavirus, con le mascherine di protezione quasi introvabili, la Protezione civile firma con la società di Pivetti un contratto per la fornitura di 15 milioni di mascherine, al prezzo complessivo di 30 milioni di euro. Una buona parte di queste sono però ora ferme, sequestrate a Malpensa. Irene Pivetti ha spiegato al Corriere della Sera: “La mia società ha iniziato a importare questa partita sulla base della legislazione prevista dal decreto legge del 2 marzo, che poi è stata recepita in senso assai restrittivo nel Cura Italia. Noi abbiamo rispettato quanto previsto dal contratto con la Protezione civile, soltanto che poi le regole sono cambiate in corsa, affidando all’Inail la competenza di certificare i dispositivi di protezione”.

CASO MASCHERINE: LA DELUSIONE DI PIVETTI. L’amarezza di Irene Pivetti va anche oltre la vicenda delle mascherine: “Si pensa che una persona che venti anni fa ha fatto politica non possa fare l’imprenditrice: sono stata colpita per il mio cognome. Ma nel mio lavoro ho profuso anni di impegno e sacrifici. Sono 10 anni che lavoro con la Cina: abbiamo grandi uffici e ampi spazi commerciali, un business poi strozzato dal Coronavirus. Grazie a queste relazioni ho pensato che avrei potuto dare una mano al mio Paese: che deficiente sono stata, ma lo rifarei”. La struttura commissariale del governo per l’emergenza prevede ora norme rigide per limitare i rischi di truffe: le forniture di mascherine vengono pagate alla consegna. Il contratto della società di Pivetti prevedeva invece il 60% di pagamento anticipato e il 40% alla consegna: “Il contratto con la mia società era stato firmato con la Protezione civile: le regole erano quelle, poi sono cambiate. Io ho rispettato tutto, e quell’operazione era pure in leggera perdita per me”, spiega l’ex presidente. L’intesa stipulata tra la Only logistics Italia srl e la Protezione civile prevedeva anche che la società di Pivetti potesse vendere autonomamente a privati quelle mascherine, acquistate dalle farmacie che, applicando rincari esorbitanti, hanno fatto scattare il sequestro.

Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci per rep.repubblica.it il 27 aprile 2020. "A margine del contratto con la Protezione civile c'era un accordo riservato per il quale la dottoressa Irene Pivetti poteva rivendere privatamente una parte delle mascherine che importava". A svelare il retroscena del contratto da 30milioni di euro con cui la Protezione Civile il 18 marzo ha incaricato la Only Logistics srl, di cui l'ex presidente della Camera è amministratrice unica, di importare mascherine di tipo Ffp2 in Italia è Fulvio Daniele, al tempo braccio destro di Pivetti e addetto commerciale della suddetta società. L'uomo, cioè, che tutto conosce di quella costosa commessa rivelatasi un flop, visto che le mascherine sono rimaste negli scatoloni: sono tuttora prive di certificazione valida, dunque non distribuibili. La storia è stata riportata nei giorni scorsi da Repubblica dopo che la guardia di finanza di Savona aveva trovato e sequestrato, presso una grossa farmacia del centro città, un migliaio di pezzi appartenenti allo stock importato dalla Pivetti. Mascherine di fabbricazione cinese ma - era la curiosa caratteristica di quel materiale - con una certificazione di conformità polacca risultata falsa, e che ha indotto il pm Giovanni Ferro ad aprire un'inchiesta. Altra stranezza: contrariamente a quanto dichiarato pubblicamente sino ad oggi sia dal commissario Domenico Arcuri, per la transazione milionaria proposta da Pivetti lo Stato aveva accettato senza troppi problemi di pagare in anticipo il 60 per cento dell'importo. Proprio in quei giorni le cronache erano piene di imprenditori che si presentavano ad Arcuri e Borrelli, con proposte del tutti simili (alcune anche con maggiori garanzie) a quella di Pivetti. E che però venivano respinti perché  bisognava "fare la gara Consip". Daniele, come detto, di quella storia sa tutto. E ha accettato di raccontarla a Repubblica.

Quanti carichi ha gestito per la dottoressa?

"Diciamo otto, nove al massimo".

Poi?

"Poi ci sono state delle problematiche e mi sono fermato. Avevo coinvolto anche dei cari amici con cui non ho fatto una bella figura..."

In che senso?

"La dottoressa Pivetti si sta dando molto da fare per importare i Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) dalla Cina. Materiale che, a mio parere, è anche valido. Però il problema è che non riesce a ottenere risposte dall'Inail... i certificati, voglio dire".

Senza quelli non si possono usare in Italia...

"Eh no. Funziona così: l'importatore le sdogana, fa richiesta all'Inail, che dovrebbe rispondere in tre giorni - una settimana al massimo. Poi distribuisce. Lei è da più di un mese che aspetta delle risposte. So che ne ha fatte tante di richieste. Ma niente. Io non so dove sia il problema, se è burocratico, se ha immesso la domanda in modo errato, o se le mascherine non sono buone".

C'è anche questa possibilità...

"Non lo so... So che ci sono delle società, alcune le ho portate io, che ora si trovano in difficoltà... A un certo punto so che lei ha fatto un'autocertificazione. Lei diceva che con autocertificazione polacca era tutto ok. Io non mi intendo di queste cose. Però so che in molti hanno le stesse difficoltà...Non solo la Pivetti".

Un'affidabile fonte confidenziale sostiene che lei abbia cercato, insieme all'imprenditore della grande distribuzione Rosario Ungaro (già oggetto di verifiche da parte della procura di Taranto nell'inchiesta su Salvatore Micelli, il pregiudicato vincitore della gara Consip) di acquisire in Cina dei certificati "Ce" appartenenti ad altre mascherine per appiccicarli a quelle della dottoressa Pivetti.

"Non conosco Salvatore Micelli, anche se so chi è perché l'ho visto in tv. Conosco Ungaro, ma non ho cercato proprio un bel niente".

In quei giorni, tutti i dispositivi di protezione individuale che entravano in Italia e che non avevano una destinazione pubblica venivano sequestrati in dogana. Come mai quelle della Pivetti non venivano sequestrate?

"Perché la dottoressa le importava grazie al contratto che aveva con la Protezione civile".

E allora che ci facevano le mascherine importate dalla Pivetti per la Protezione civile in libera vendita, a prezzi ultra-maggiorati, presso una farmacia di Savona?

"A margine del contratto c'era un accordo con la Protezione Civile e la dottoressa Pivetti, in base al quale una parte delle mascherine che riuscivamo a importare sarebbero restate a lei, e le avrebbe potute vendere come meglio credeva a farmacie private o a istituti ospedalieri".

In percentuale, su dieci, quante mascherine restavano per la vendita sui canali privati?

"Non gliela so quantificare. Piccola, credo".

Pagavate l'Iva su quella piccola parte?

"Non glielo so dire".

Come funzionava esattamente?

"La dottoressa Pivetti faceva la fattura al cliente e il cliente andava in dogana a Milano, ritirava la merce e saldava".

Come fa a non sapere se veniva pagata l'Iva?

"Il mio ruolo era quello di mettere in contatto le farmacie con la Pivetti".

La Only Logistics, che aveva 50.000 euro di fatturato, si è ritrovata all'improvviso a muovere 30 milioni di euro. Quanto ci ha guadagnato?

"Non so".

Da quanto tempo lavorava con la Pivetti?

"Io sono arrivato all'inizio, da metà febbraio, quando il canale della dottoressa era principalmente con Russia e Ucraina. Aveva organizzato due spedizioni, ma in entrambe le circostanze è finito che dopo aver pagato gliele hanno rubate".

Come?

"Non saprei, è arrivato qualcuno più grosso o con più soldi, fatto sta che le mascherine sono sparite. A quel punto la dottoressa si è trovata in drammatico ritardo con le consegne che aveva già venduto, così abbiamo deviato sulla Cina".

Nell'ambiente lei è noto per essere un ex finanziere e per questo è accreditato di avere molti contatti, soprattutto con le dogane italiane.

"Non sono mai stato finanziere. Sono solo iscritto all'Associazione nazionale finanzieri d'Italia. Mio zio da parte paterna era finanziere così io mi sono associato come simpatizzante".

Un equivoco, dunque.

"Sì".

La facilità con cui il materiale della Pivetti passava le dogane è dovuta a qualcos'altro?

"C'era un contratto con la Protezione Civile, tutto qui".

Claudio Bozza e Mario Gerevini per corriere.it il 29 aprile 2020. Altra tegola per Irene Pivetti: ieri, dopo il maxi sequestro alla Malpensa, la Finanza di Siracusa ha sequestrato in varie città novemila mascherine importate dalla Cina da una società che fa capo alla ex presidente della Camera. Anche stavolta il reato ipotizzato è frode nell’esercizio del commercio. Pivetti, amministratore unico della «Only Italia logistics», è ora indagata: le Fiamme gialle le contestano che i dispositivi appartengano a una partita di merce per la quale il direttore centrale dell’Inail (competente a ricevere comunicazioni di produttori e importatori) ha vietato alla società importatrice l’immissione in commercio. Pivetti, che nel ‘94 con la casacca leghista fu a 31 anni la più giovane della storia della Repubblica a guidare Montecitorio, abbandonata la carriera politica e televisiva si è tuffata nel mondo dell’imprenditoria, puntando molto sul commercio tra Italia e Cina. In Oriente, anche grazie alla sua alta referenza istituzionale, è riuscita a stabilire numerose relazioni. E così, nel momento più drammatico della pandemia, a fronte della grave carenza di mascherine, Pivetti ha chiuso un contratto con la Protezione civile per importare dalla Cina 15 milioni di mascherine (Ffp2 il requisito richiesto) per un totale di 30 milioni di euro, che lo Stato, secondo la precedente normativa, avrebbe pagato per il 60% in anticipo e il 40% alla consegna.

I prezzi record. Il contratto prevedeva che una piccola percentuale di questa partita di mascherine potesse essere commercializzata dalla società di Pivetti in canali privati. Tra questi anche alcune farmacie del Savonese, che però rivendevano le mascherine con ricarichi fino al 250%. Da questi casi è scattata una denuncia e la Finanza ha risalito la filiera fino alla Malpensa, dove si trovavano le mascherine per le quali è stata contestata la mancanza della certificazione richiesta. Ma come ha fatto una piccola società come la Only Logistics, appena 70 mila euro come ultimo fatturato, ad aggiudicarsi una fornitura da 30 milioni di euro? Parte delle risposte si possono trovare ricostruendo la galassia dell’ex leghista. La «Irene Pivetti Corporation» è un gruppo fatto di fondazioni, cooperative, onlus e società internazionali. Promette e «vende» consulenza e relazioni. Ma di affari veri se ne vedono pochi: nebbia, molta, e un insidioso fallimento in corso. Si chiama Only Italia la rete di business proiettata verso la Cina: «Rete nazionale di distribuzione e promozione sul grande mercato cinese». Però il sito Only-Italia.it, registrato da una società di Parma che fa capo a una onlus gestita dalla Pivetti, è inaccessibile. E pur essendoci continui richiami al nostro Paese, la sede delle due principali società, diciamo le holding, è fuori dai confini nazionali. Una, la Only Italia Club, sta a San Marino. L’altra, Only Italia Tech Trade, in Polonia. Eppure non c’è traccia tangibile di proiezioni internazionali del business. San Marino non è certo Pechino. La piccola repubblica, però, garantisce una certa efficienza burocratica, un sistema bancario «protetto», riservatezza, rapporti e trattati economici con la Cina. Dati economici consolidati non sono disponibili e il fatturato della Logistics che, come dice il nome, fa consulenza nella distribuzione di merci è come quello di un parrucchiere: 72mila euro. I ricavi sono i grandi assenti di questo arcipelago societario. Il «Gruppo Europeo di interesse economico per lo sviluppo dell’Eurasia e del Mediterraneo» non ha finora lasciato tracce nel «promuovere grandi opere infrastrutturali». Il «Centro clinico sino-italiano in Italia» che la «Fondazione per lo sviluppo Italia-Cina» presieduta dalla Pivetti aveva lanciato insieme a 8 cinesi per creare una rete di poliambulatori, non ha mai dato segni di vita.

Gli intrecci. Nel frattempo è fallita la «Società di servizi per la Cina», controllata dalla Polonia. Una volta si chiamava «Only Italia» e basta. Ma quando le cose hanno cominciato ad andar male hanno cambiato il nome. Poi il crac per 118.494,47 euro. Dentro la società fallita erano entrati alcuni azionisti di Parma riconducibili in gran parte alla LTBF-Learn to be free, onlus che ha l’obiettivo di «creare opportunità di lavoro per persone in difficoltà dal punto di vista economico». Presidente: Irene Pivetti. «L’ipotesi di reato è inconsistente — dice l’avvocato Mirko Palumbo —: le caratteristiche delle mascherine rispettano alla lettera il contratto con la Protezione civile e confido che saranno tutte dissequestrate».

Irene Pivetti, Società di autotrasporti di Parma la denuncia per truffa. Le Iene News il 29 maggio 2020. Dopo i due servizi di Luigi Pelazza arrivano nuovi guai per l’ex presidente della Camera. La Società di autotrasporti Metella Logistics di Parma l'accusa di truffa per presunte fatture non pagate e consulenze false per un caso di cui ci siamo occupati e anche per diffamazione a mezzo stampa per quanto ha dichiarato durante il primo dei nostri due servizi. Recentemente abbiamo parlato in due servizi dell’ex presidente della Camera Irene Pivetti, dopo che era finita indagata per aver importato con la sua società Only Italia 15 milioni di mascherine che non sarebbero certificate dalla Cina (una vicenda per cui l’ex onorevole si definisce "parte lesa"). Ora arrivano nuovi possibili guai con la Società autotrasporti Metella Logistics di Parma che l’ha appena denunciata, come riporta l’Ansa, per truffa per presunte “fatture non pagate e consulenze false”. La denuncia le arriva tramite lo studio Pagliani-Tarquin come legale legale rappresentante della Only Italia Tech and Trade Sp.Zoo con sede in Polonia. Si chiede di indagare, sempre secondo quanto riporta l'Ansa, per reati che vanno dalla truffa aggravata all'insolvenza fraudolenta e viene ipotizzata anche la diffamazione a mezzo stampa, "realizzata durante la puntata del 5 maggio nella trasmissione tv 'Le Iene'" nel servizio che potete vedere qui sopra, verso l'amministratore unico della Metella Logistics, l’azienda di Andrea di cui parliamo nel servizio. La Metella Logistics, parla di presunti "evidenti falsificazioni e raggiri condotti dalla signora Pivetti" nel rapporto commerciale tra Only Italia Tech e Metella Logistics, "regolato da un apposito contratto" che avrebbe portato l'azienda Metella "a subire un rilevante danno economico". Il danno sarebbe "consistito nel mancato pagamento di fatture per 20.700 euro” e nel “ricevere dalla stessa Only Italia Tech una fattura per 50mila euro relativa a prestazioni di consulenza inesistenti", in quanto, "come dichiarato dalla stessa Pivetti a Le Iene emessa per prestazioni non dovute al solo scopo di 'rappresaglia'".

IL PRIMO SERVIZIO. In questo primo servizio di Luigi Pelazza del 5 maggio su Irene Pivetti abbiamo parlato appunto con Andrea della Metella Logistics. La sua azienda, come ci racconta si occupa da 50 anni di trasporti in tutto il mondo: “La Pivetti aveva acquisito una licenza per un treno dall’Italia per la Cina che non aveva nessuno, da Milano attraverso la Polonia e la Bielorussia”. Sembrava conveniente rispetto ai 50 giorni che servono per trasportare container via nave. Siamo nel settembre 2018. Andrea racconta di aver incontrato Irene Pivetti a Milano: firmano un contratto, gli viene suggerito di avvalersi di un operatore ferroviario austriaco. Vengono spediti 40 container con 400mila euro di piastrelle. L’affare però non sarebbe andato a buon fine per mancanza di acquirenti. Andrea, dopo più solleciti, le fattura circa 20mila euro. Gli arriva una “contro fattura” da 50mila. La Only Italia di Irene Pivetti ha sedi anche in Polonia e a San Marino, società che visitate dall’inviato sembrano essere, a oggi, senza personale. Andrea telefona ora di nuovo, davanti al nostro Luigi Pelazza, a Irene Pivetti. Concordano un appuntamento a Milano: Andrea chiede il pagamento delle spese sostenute. “Ciascuno si tiene le sue perdite” gli replica l’imprenditrice e il contratto tra le parti, effettivamente, è molto ambiguo. Intanto altri affari in Cina, puntando sul Made in Italy per Irene Pivetti invece andrebbero bene. Arriva la proposta: “Se lei resta interessato al treno, io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo perché adesso han chiusi i voli. Io ho già scritto: ‘Caro distretto di Qingbaijiang, visto che i voli non vengono, ti mando treni di mascherine e di materiale sanitario…’ Se lei ha piacere di tornare in gioco, io sono contenta”. Questo incontro avviene il 28 febbraio 2020, quando l’infezione stava per partire per tutti. Pivetti dice: “Sì, sì, stiamo correndo come matti perché questa emergenza del virus ci ha fatto cambiare mestiere in un certo senso. Ci siamo dovuti buttare tutti su questa faccenda qui che per carità, devo dire, è anche molto interessante dal punto di vista economico”. “Per le cose che servono per l’emergenza?”, chiede Andrea. “Sì, esattamente. Non è male visto che tutto il resto dell’attività è ovviamente sospeso fino a nuovo ordine”, gli risponde Irene Pivetti. Queste frasi sembrano stridere con quello che dice in tv: “Noi stiamo facendo in forma volontaria, con le persone attorno alla nostra azienda, un supporto alla Protezione civile esattamente per acquisire mascherine sui mercati internazionali”. Insomma: si tratta di un business, seppur legittimo, o di volontariato? “Questa parte medica è stata un po’ una scoperta” dice Irene Pivetti ad Andrea. “Penso di mantenerlo come un settore permanente così da poter rifornire l’Europa… Credo che sarà ‘un mondo’ perché quello che mi aspetto dopo questo virus è che ci sia una crescita proprio in questi settori…”. “…Deve essere anche un bel business insomma…”, interviene Andrea. “Esattamente, sì”, risponde Pivetti. Nessuna condanna, è il lavoro di un imprenditore. “La Protezione civile italiana ci ha chiesto delle cose… vediamo un po’”, prosegue l’imprenditrice con Andrea, “se le prendono io sono molto contenta…”. “Io aggiungo… non so… 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine”. Moltiplicandolo per le 15 milioni di mascherine richieste a Irene Pivetti dalla Protezione civile verrebbe un guadagno di 2 milioni e 250 mila euro. Una cifra difficile da accompagnare alla parola “volontariato”. E Andrea? “Trovo estremamente scorretto aver mischiato una vicenda di business che nulla c’entra con l’emergenza del coronavirus”, ci dice Irene Pivetti, che dà la propria versione di quanto accaduto con il treno delle piastrelle. E lo scandalo mascherine? “Abbiamo ricevuto un prodotto sulla carta molto buono. Dentro alcuni di questi cartoni c’erano delle confezioni non conformi. Quando mi hanno contestato dicendo che questo marchio non è regolare. Dico, ma queste non sono mica mie… erano le mie… Qualcuno là le ha scambiate. Io infatti ho contestato la partita”. Le indagini chiariranno se ha ragione o meno. A noi rimane una domanda: ci ha guadagnato oppure no? “Sulla Protezione civile io non guadagno, copro i costi”. E quando ha detto ad Andrea? “Io aggiungo non so 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine” o “io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo”.

IL SECONDO SERVIZIO. Nel secondo servizio del 19 maggio siamo tornati a parlare degli affari tra Italia e Cina dell’ex onorevole. In questo nuovo servizio, Luigi Pelazza incontra altri imprenditori che avrebbero avuto a che fare con Irene Pivetti. "Ogni 15 giorni andava in Cina dove aveva agganci con politici locali che le davano l'opportunità di fare tante cose in tutti i settori", racconta un imprenditore. La Pivetti, stando alle testimonianze raccolte, avrebbe avuto un gruppo di clienti cinesi desiderosi di comprare il made in Italy. Dopo la messa in onda del primo servizio, abbiamo scoperto una cosa molto particolare. Dalla sede faraonica a Milano, dove l’ex onorevole aveva incontrato Andrea, uno degli imprenditori con cui avevamo parlato, la società sarebbe stata sfrattata. L’edificio su cui erano cadute le mire della Pivetti dal 2017, come racconta un agente immobiliare, doveva diventare “uno showroom di esposizione, dove incontrare imprenditori cinesi, uno spazio importante per un canone di circa 40mila euro. Al mese”. L’agente racconta di essere stato estromesso dall’affare, che gli avrebbe fruttato una provvigione di 48mila euro. E spiega: “Contattano direttamente la proprietà e poi ci dicono che della nostra presenza non ritengono di doverci nulla. Per legge avrebbe dovuto corrispondere le provvigioni. Era amichevole, mai ci saremmo aspettati un comportamento del genere”. Ma neanche lo stesso proprietario dell’immobile si dice contento: ”Abbiamo dovuto darle sfatto e siamo riusciti a mandarla via”. Il proprietario infatti, visto l’importo elevato dell’affitto, avrebbe chiesto una fidejussione, ovvero una garanzia economica esterna, per un importo di circa 480mila euro. La Pivetti, sostiene l’avvocato del proprietario, vista la fretta di entrare avrebbe intanto bonificato un deposito cauzionale corrispondente a tre mesi d’affitto, 120mila euro. Il giorno della consegna dell’immobile il proprietario dello spazio porta le chiavi ma l’ex onorevole avrebbe dimenticato di fare il bonifico e a quell’ora, viste le disposizioni della banca di San Marino, sarebbe stato impossibile inviare una richiesta formale. I clienti, che di fronte si trovano l’ex presidente della Camera, si fidano, tanto si tratta solo di attendere il giorno dopo. Ma invece, giorno dopo giorno, raccontano, sarebbero continuate ad arrivare solo giustificazioni. “È stata morosa dall'1 luglio 2018 all'1 febbraio 2020, per una cifra di circa 200mila euro”, sostiene l’avvocato della proprietà immobiliare. Ma quando arriva la richiesta di sfratto, la Pivetti avrebbe risposto di voler mettere a disposizione il suo know how, il suo piano industriale, per compensazione della morosità maturata. Due mesi fa l’immobile viene riconsegnato e al suo interno vengono trovati beni di proprietà di altri imprenditori. Bernardo avrebbe avuto in magazzino uno stock di abiti, da vendere in Cina, per un controvalore di 2 milioni di euro. “La merce andrebbe spostata in Cina", gli sarebbe stato detto dall’ex onorevole. "E qui mi viene proposta una garanzia cinese in base alla quale mi sarebbe stata pagata dopo essere stata venduta. La merce dovevo spostarla a spese mie, con dei container, in treno. Ho detto non se ne parla proprio”, racconta ancora l’uomo. L’ex onorevole, sostiene ancora Bernardo, si sarebbe poi interessata alle sue scarpe, volendo fare una linea dedicata con la sua firma. Bernardo ci mostra la scatola già pronta e griffata. Da li inizia una richiesta di campioni, che Bernardo affida a un giovane designer, che compra i materiali a sue spese. Qualcosa però sembra non tornargli, perché il numero di modelli richiesti, una trentina, gli sembra francamente elevato. Spiega il designer, Lorenzo: ”Mi sembrava una cosa assurda, poi dopo mi chiedevano delle ciabatte dipinte a mano...”. Lorenzo è comunque pronto a mandare i primi campioni di scarpe griffate “Irene Pivetti” ma prima di spedirle chiede di rientrare di una parte dei suoi costi, circa 10mila euro. “Li si tirano indietro tutti, dicendo che loro non pagavano la collezione”. Intanto la collezione di scarpe di Bernardo è pronta e si va all’evento per celebrare, ma lì, racconta ancora l’uomo, nessuno sembra intenzionato a parlare di soldi. Bernardo racconta non solo di aver rimesso i soldi per le scatole e gli spostamenti, ma anche quelli per una collaboratrice della stessa Pivetti, che a suo dire non sarebbe stata da lei mai pagata. ”Oltre 15mila euro”. Anche Gianluca, ex elettricista della mega sede della Only Italia, ha una storia da raccontare: “L’ex onorevole ci ha contattato il venerdì sera per fare un bar, pronto per sabato pomeriggio. Ho mandato un mio aiuto chiedendogli di farsi fare prima un preventivo, lui non ha mai preso una lira. Parliamo di 1.300 euro.“ Un’altra persona, un titolare di un call center a cui la Pivetti avrebbe subaffittato alcuni spazi di quella sua immensa sede, racconta di un giorno in cui una delegazione cinese, in sala riunioni, parlava al buio alla luce di candele. “Visto che devo garantire un servizio ai miei clienti il giorno dopo mi son fatto dare le bollette non pagate e ho pagato. E questo anche per il gas: circa 30mila euro”, racconta a Luigi Pelazza. Chiediamo per telefono un nuovo incontro all’ex onorevole e lei, dopo una risata, spiega di non avere nessuna intenzione di parlarci. “Non ho voglia di comparire nel vostro programma mai più, non ritengo siate stati corretti la volta scorsa. Non ho intenzione di rilasciare altre interviste”. Riusciamo poi a intercettarla di persona, per strada, ma continua a negare le circostanze che ci sono state raccontate da tutti questi imprenditori e lavoratori. I proprietari dell’ex sede della sua azienda, intanto, come ci riferiscono, hanno deciso di intraprendere iniziative querelatorie contro di lei, ipotizzando la truffa e l’insolvenza fraudolenta.

Indagata Irene Pivetti per l'affaire delle mascherine cinesi. L'accusa della procura di Siracusa è frode in commercio: ha portato in Italia dispositivi di protezione "con certificato falso" e non sicure. Violato anche un provvedimento dell'Inail. Un'inchiesta di Repubblica aveva svelato le anomalie della sua azienda, la Only Logistics. Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci il 28 aprile 2020 su La Repubblica. L’ex presidente della Camera Irene Pivetti è indagata a Siracusa per le mascherine importate dalla Cina. L'indagine ha al centro la Only Logistics, la società di cui è amministratrice unica e rappresentante legale, oggetto nei giorni scorsi di un'inchiesta di Repubblica. La principale accusa a carico di Pivetti è frode in commercio, perché ha importato mascherine modello Ffp2 "dotate di una falsa certificazione di conformità da parte della Icr Polska Co.Ltd", e le ha poi vendute a distributori su tutto il territorio nazionale nonostante l'Inail, con un provvedimento del direttore centrale del 16 aprile, le avesse imposto il divieto di metterle sul mercato. Le mascherine, in altre parole, non sono buone: sono pericolose per chi le indossa. Tant'è che Pivetti è indagata anche per l'illecito amministrativo per aver smerciato "dispositivi di protezione di terza categoria - si legge nel decreto di perquisizione disposto dal pm Salvatore Grillo - non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza". Proprio oggi la guardia di finanza di Siracusa ha sequestrato 9.000 di quelle mascherine, finite nei negozi in diverse regioni. Con Pivetti, è indagato in concorso Salvatore Stuto di STT Group, che ha comprato i Dpi cinesi dalla Only Logistics e li ha rivenduti ad alcune farmacie, tra cui la San Lorenzo di Bologna (da cui è partita l'inchiesta, ndr), "pur essendo consapevole del mancato rispetto degli standard previsti dal Regolamento Ue 2016/425". L'ex presidente della Camera, raggiunta dall'Adnkronos, commenta: "Io indagata? Abbiamo tutte le carte a posto. Cannoneggiano la mia azienda che è seria, è un'indecenza. Evidentemente qualcuno si era stancato di fare torte e si è inventato questa storia". Siracusa non è l'unica procura che si è mossa. C'è anche quella di Savona che sta lavorando sulle mascherine importate dalla Only Logistics e, nei giorni scorsi, ha disposto il sequestro di 170.000 pezzi, alcuni dei quali ancora stoccati in un deposito nel Terminal 2 di Malpensa. Le indagini, però, puntano a Roma: gli inquirenti, infatti, vogliono capire se sono le stesse acquistate dalla Protezione Civile a metà marzo, con due contratti firmati con la Only Logistics: 15 milioni di mascherine cinesi per 30 milioni di euro. Come documentato da Repubblica, hanno passato la dogana ma sono rimaste negli scatoloni perché prive di certificato valido e ad oggi non risultano autorizzate dal Comitato Tecnico-Scientifico. Non è chiaro se lo Stato le abbia già pagate: il contratto prevede l'esborso del 60 per cento dell'importo alla firma e del restante 40 per cento al momento dell'arrivo in Italia. Un ex-collaboratore di Pivetti, Fulvio Daniele, già addetto commerciale della Only Logistics, ha rivelato che "a margine del contratto con la Protezione Civile c'era un accordo riservato per il quale la dottoressa Pivetti poteva rivendere privatamente una parte delle mascherine che importava".

Mascherine “false”, Pivetti indagata a Savona: la Finanza acquisisce i documenti della Protezione Civile. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Una cagnara sollevata, un can can che imploderà su sé stesso. Così Irene Pivetti, ex presidente della Camera dei Deputati, ha definito l’inchiesta nella quale è coinvolta con la sua Only Italia Logistics per la presunta vendita di mascherine non a norma. Le accuse sono di frode in commercio, falso documentale, violazione ai dazi doganali. Di ieri la notizia che Pivetti è indagata dalla Procura di Siracusa. Di oggi l’apertura di un altro fascicolo presso la Procura di Savona. Una notizia arrivata mentre la Guardia di Finanza effettuava una serie di controlli presso il Dipartimento della Protezione Civile sulla vicenda. Le fiamme gialle hanno eseguito una serie di acquisizioni documentali. Lo ha reso noto lo stesso Dipartimento, estraneo all’indagine, evidenziando come sia stata “messa a disposizione della Gdf tutta la documentazione in nostro possesso relativa ai contratti di fornitura stipulata con la società“. A confermare il fascicolo aperto a Savona il sostituto procuratore Giovanni Battista Ferro. Un’indagine cominciata con il sequestro di un lotto di mascherine destinate alla città ligure. E che le indagini, andando a ritroso, hanno scoperto risalire alla Only Italia Logistic srl, della quale Pivetti è amministratore delegato. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Ubaldo Pelosi e dal sostituto Giovanni Battista Ferro. L’ipotesi è che la società abbia proceduto a importare dalla Cina delle mascherine che riporterebbero una falsa certificazione di conformità. “Se dovesse essere ‘invalido o falso’ il certificato emesso dalla società polacca che attesta la conformità delle mascherine è chiaro e evidente che io e la società saremmo parte lesa nell’inchiesta“, ha commentato all’Ansa, raggiunta telefonicamente, l’ex presidente della Camera. La certificazione rimandava infatti all’organismo Icr Polska. A Savona il sequestro riguarderebbe circa 160mila mascherine, a Siracusa circa 9mila. “Non si può mettere in mezzo una istituzione così importante per l’Italia per una vicenda che presto sarà chiarita grazie all’intervento della magistratura”, ha continuato Pivetti, in merito all’acquisizione di documenti da parte della Guardia di Finanza. Pivetti ha anche spiegato di aver appreso del blocco dei conti della società dai giornali, di non aver ricevuto alcuna notifica. E di sentirsi tranquilla per aver agito nel pieno rispetto della legge, perciò “ben vengano le indagini” per stabilire la verità dei fatti. Nel frattempo, ha aggiunto, che venderà le altre mascherine in altri Paesi “visto le richieste che ho e che in Italia non le fanno arrivare”.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 30 aprile 2020. Non ci sono solamente certificazioni apparentemente false e mascherine irregolari immesse sul mercato. Ora c'è un nuovo fronte nell'inchiesta a carico dell'ex presidente della Camera, Irene Pivetti, e della sua Only Logistics Italia, la società di cui è legale rappresentante: la procura di Roma ha deciso di fare accertamenti sul contratto milionario stipulato dall'azienda con la Protezione civile e ieri i finanzieri del Nucleo di polizia valutaria hanno acquisito la documentazione presso la sede dell'Ente: la Only avrebbe dovuto importare dalla Cina 15 milioni di mascherine Ffp2 per 30 milioni di euro, che lo Stato, secondo la precedente normativa, avrebbe pagato per il 60% in anticipo e il 40% alla consegna. Il contratto prevedeva anche che una percentuale della partita potesse essere commercializzata dalla società in canali privati. Così una parte delle mascherine è stata venduta in alcune farmacie del Savonese che, però, le hanno messe in commercio con ricarichi fino al 250%. Da qui è partita la prima indagine, della procura di Savona, e la Finanza ha sequestrato un carico di dispositivi a Malpensa, accertando la mancanza di certificazione. La Pivetti è accusata di frode in commercio e immissione sul mercato di prodotti non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza anche dalla procura di Siracusa, che due giorni fa ha disposto una perquisizione nelle sedi e nei magazzini della Only e del distributore, la Stt Group Srl di Salvatore Statuto, pure lui indagato. La merce messa in vendita, secondo gli investigatori, apparteneva a una partita per la quale il direttore centrale dell'Inail aveva espressamente vietato l'immissione in commercio. Ma non è tutto. Le mascherine erano accompagnate da una certificazione di conformità emessa da «un organismo notificato polacco, la Icr Polska - è scritto negli atti - ma da una ricerca effettuata il codice relativo al certificato è risultato disconosciuto, perché invalidato o falso». Intanto i conti della società sarebbero stati bloccati dai pm di Savona. Ad insospettire chi indaga è anche il contratto stipulato con la Protezione civile: la Finanza dovrà verificare se fosse regolare o meno, sia per quanto riguarda la parte economica, sia per la clausola che prevedeva la possibilità di vendere mascherine privatamente. I militari hanno acquisito pure una copia dei documenti sui rapporti finanziari, anche se la fornitura è poi stata bloccata. Il contratto risale al 17 marzo e i dati sono riportati nell'elenco delle forniture messe online dalla stessa Protezione civile. Il Dipartimento ha dichiarato di avere messo «a disposizione tutta la documentazione sui contratti di fornitura», sottolineando di essere «estraneo all'indagine» e di «restare a disposizione dei magistrati». Mentre qualche giorno fa aveva smentito l'esistenza di un accordo riservato con la Only. La Pivetti invece ha dichiarato che la vicenda si chiarirà presto e ha respinto le accuse: «Non si può mettere in mezzo una istituzione così importante per l'Italia per una vicenda che presto sarà chiarita. Ben vengano le indagini - ha proseguito l'ex presidente della Camera - serviranno a stabilire la verità, mettendo fine alla cagnara sollevata, a un can-can che imploderà su se stesso». L'ex politica ha anche ribadito di «essere una persona seria, alla guida di un'azienda seria», che ha milioni di mascherine ferme in Cina che venderà «in altri Paesi, visto le richieste che ho e che in Italia non me le fanno vendere. Ci sono problemi di burocrazia mal raccontata che fanno del male al Paese». E sul punto ha fatto l'esempio della certificazione Inail che, sostiene, «serve soltanto per i dispositivi di sicurezza in ambiti di lavoro, ma questo non vuol dire che le mascherine che non ne sono in possesso non sono buone». A suo dire, i prodotti importati dalla Only erano «assolutamente buoni». Mentre per quanto riguarda il certificato di conformità emesso dalla polacca Icr Polska, che la Procura di Siracusa ritiene sia taroccato, la Pivetti, ha precisato: «Se fosse così che io e la società saremmo parte lesa».

Matteo Civillini e Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 30 aprile 2020. Contratti per oltre 350 milioni di euro fatti dalla Protezione civile per comprare mascherine, tute, guanti e altri dispositivi di protezione. Oltre 97 milioni di euro già pagati, più di un quarto dei quali sono finiti alla società di Irene Pivetti. Con qualche opacità e una certezza: la promessa di mascherine chirurgiche a 50 centesimi l' una nei negozi fatta dal governo appare difficile da mantenere. Va detto che si tratta di contratti stipulati in fretta, con la pressione della più grave emergenza sanitaria degli ultimi settant' anni. Solo che i soldi pubblici rischiano di finire un po' ovunque. Anche in paradisi fiscali, che poco c' entrano con produzione e vendita di dispositivi anti-Covid.

Il record del Giappone. La Stampa e IrpiMedia hanno potuto visionare i contratti stipulati finora per l' emergenza coronavirus dall' organismo che sta gestendo la crisi. Si tratta di 91 contratti per l' approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale (Dpi), per un totale di 356,5 milioni di euro. Al 10 aprile scorso, risultano pagati oltre 97 milioni di euro. Tra questi, forniture di mascherine per una cifra compatibile con un prezzo finale di 0,50 euro ce ne sono davvero poche. La Pluritex srl ad esempio ne ha vendute 100 mila, con un contratto del 3 marzo. La Protezione Civile le ha pagate 70 centesimi ciascuna. Alla Imagro spa invece le stesse mascherine chirurgiche sono state pagate 10 centesimi in meno ciascuna. Il prezzo record lo strappa però la giapponese Tokyo Medical Consulting, che si fa pagare 1,67 euro l' una 260 mila mascherine chirurgiche, per un totale di 435 mila euro già liquidati. Si tratta in questo caso di un contratto stipulato tramite il ministero degli Esteri e l' Ambasciata d' Italia.

I soldi alla Pivetti. Certo, erano i giorni più cupi dell' emergenza, quando mezzo mondo cercava mascherine e sul mercato era davvero complicato trovarne. Certamente compatibili con il tetto di 0,50 euro in negozio sono i quasi 4 milioni di pezzi comprati dalla Mediberg, azienda italiana specializzata proprio nella produzione di dispositivi medici, che ha fissato un prezzo di 0,24 euro nei giorni caldi dell' emergenza (due contratti del 5 e 8 marzo). Difficile rientrare nel limite invece con gli 0,44 euro pagati alla Only Italia Logistics di Irene Pivetti. Il contratto, firmato dalla stessa ex parlamentare - adesso indagata dalla procura di Siracusa -, prevedeva la fornitura di mascherine Ffp2 e chirurgiche, per un valore complessivo 25,2 milioni di euro. L' accordo è del 17 marzo scorso ed è uno dei pochi interamente pagati dalla Protezione Civile secondo i documenti consultati da La Stampa e Irpimedia. Da solo, vale più di un quarto dei pagamenti effettuati finora. La Protezione Civile ha accettato anche alcuni fornitori respinti invece da Consip. Oltre alla Winner Italia, azienda produttrice di medaglie e trofei, c' è la Agmin Italy. Azienda veronese controllata dai costruttori romani Cucchiella, aveva vinto una serie di lotti nelle gare Consip per mascherine e altri dispositivi per essere poi esclusa dopo le verifiche. Agmin che peraltro è stata, nel 2018, esclusa per 3 anni dalle gare della Commissione Ue per irregolarità in una fornitura in Bielorussia. La particolarità del contratto con la Protezione Civile (mascherine e tute isolanti) è però un' altra. La società di Verona indica come estremi di pagamento un conto presso la British Arab Commercial Bank di Londra. Intestato allo Scipion Active Trading Fund delle Isole Cayman, paese sulla lista nera dei paradisi fiscali. Anche se l' indicazione di un soggetto terzo per il pagamento in un appalto pubblico non è ammesso dalla normativa vigente. Per le commesse della Agmin non risultano pagamenti effettuati alla data del 10 aprile scorso. (…)

Coronavirus, per l'inchiesta mascherine perquisiti gli uffici della ditta di Pivetti. La Guardia di Finanza ha raccolto fatture e documentazioni negli uffici della Only Italia Logistic. Anche la Corte dei Conti apre un fascicolo. La Repubblica il 30 aprile 2020. Si allarga l'inchiesta sulle mascherine cinesi importate dall'ex presidente della Camera Irene Pivetti. Tre procure (Roma, Savona e Siracusa) stanno indagando sulle modalità con cui Pivetti ha trasferito in Italia milioni di dispositivi di protezione individuale, privi di certificato valido di conformità. Gli inquirenti sostengono che abbia falsificato il certificato, affidandosi a una società polacca. E ora si muove anche la Corte dei Conti. I magistrati contabili, infatti, hanno avviato un procedimento sulla Only Logistics Italia, la società di cui Pivetti è amministratrice unica e responsabile legale, per verificare "eventuali profili di propria competenza". La società di Pivetti, che a metà marzo ha firmato con la Protezione Civile due contratti per la fornitura di 15 milioni di mascherine al costo di 30 milioni di euro, è stata oggetto nei giorni scorsi di una lunga inchiesta di Repubblica. Pivetti è formalmente iscritta nel registro degli indagati sia a Savona che a Siracusa. Ed è proprio su ordine dei magistrati savonesi che oggi sono stati perquisiti gli uffici della Only Italia Logistic. Nel mirino delle Fiamme Gialle fatture e documentazione relativa alle operazioni di importazione e commercializzazione delle mascherine, già sequestrate. All'ex presidente della Camera sono state notificate informazioni di garanzia per ricettazione, frode nell'esercizio del commercio, vendita di cose con impronte contraffatte e violazioni alla legge doganale. "Si tratta di ipotesi di reato - spiega il Procuratore di Savaona Ubaldo Pelosi - su cui sono necessari doverosi approfondimenti investigativi, con le previste garanzie di legge, mediante l'esame e la verifica della documentazione acquisita. La finalità dei provvedimenti mira a ricostruire la provenienza della merce, la completezza della documentazione, la sua destinazione sul mercato ed ogni fatto di interesse investigativo". Mercoledì i finanzieri, questa volta per conto della procura di Roma, avevano bussato alle porte della sede romana della Protezione Civile per acquisire i contratti firmati dalla Only. 

Da huffingtonpost.it il 5 maggio 2020. La Guardia di Finanza di Savona ha sequestrato oggi in Lombardia altre 250mila mascherine riconducibili alla Only Italia Logistic, la società di cui è rappresentante legale Irene Pivetti. Le mascherine sequestrate erano nei magazzini di alcuni ospedali lombardi. La procura di Savona indaga sulla ex presidente della Camera e sulla società di cui è amministratrice unica per ricettazione, frode nell’esercizio del commercio, vendita di cose con impronte contraffatte e violazioni alla legge doganale. Pivetti è accusata non solo di aver importato mascherine contraffatte ma anche di averlo fatto in regime di esenzione Iva grazie a un maxiordine della Protezione Civile. Nei giorni scorsi il procuratore Ubaldo Pelosi aveva disposto il blocco dei conti della società e una perquisizione negli uffici dell’azienda. Tutto è nato dal sequestro di una fornitura a una farmacia di Savona. Da lì l’indagine ha portato alla Only Italia, importatrice dei Dpi. Attualmente la società è nel mirino, oltre che della Procura di Savona, anche di quelle di Roma e Siracusa. I magistrati capitolini starebbero monitorando in particolare la prevista fornitura alla Protezione civile, poi bloccata, di 10 milioni di mascherine del tipo Ffp2 per 23 milioni di euro. Mentre la Regione Toscana ha aperto un contenzioso amministrativo nei confronti della società di Pivetti: l’ente strumentale per gli acquisti in sanità della Toscana ha acquistato 150mila mascherine tipo Ffp2 per 547.500 euro che però non sono stati messi a disposizione della popolazione perché prive di certificazione.

Irene Pivetti e lo scandalo mascherine: business o volontariato? Le Iene News il 6 maggio 2020. L’ex presidente della Camera è indagata per 15 milioni di mascherine che non avrebbero certificazione importate dalla Cina. A prescindere dall’esito delle indagini noi vi proponiamo con Luigi Pelazza il suo colloquio con uomo che ha lavorato con lei. Che lascia almeno una domanda aperta. Irene Pivetti, ex presidente della Camera e presentatrice tv, è indagata da qualche giorno perché avrebbe importato dalla Cina tramite la sua società Only Italia 15 milioni di mascherine che non sarebbero non certificate. Lei, anche parlando con noi, respinge ogni accusa: “Il fornitore mi aveva detto che c’è un certificato, se non c’è sono parte lesa”. Luigi Pelazza ci racconta di qualcun altro che si sente parte lesa in una complessa storia che la riguarda. È Andrea, la sua azienda si occupa da 50 anni di trasporti in tutto il mondo: “La Pivetti aveva acquisito una licenza per un treno dall’Italia per la Cina che non aveva nessuno, da Milano attraverso la Polonia e la Bielorussia”. Sembrava conveniente rispetto ai 50 giorni che servono per trasportare container via nave. Siamo nel settembre 2018. Andrea racconta di aver incontrato Irene Pivetti a Milano: firmano un contratto, gli viene suggerito di avvalersi di un operatore ferroviario austriaco. Vengono spediti 40 container con 400mila euro di piastrelle. L’affare però non sarebbe andato a buon fine per mancanza di acquirenti. Andrea, dopo più solleciti, le fattura circa 20mila euro. Gli arriva una “contro fattura” da 50mila. La Only Italia ha sedi anche in Polonia e a San Marino, società che visitate dall’inviato sembrano essere, ad oggi, senza personale. Andrea telefona oggi di nuovo, davanti al nostro Luigi Pelazza, a Irene Pivetti. Concordano un appuntamento a Milano: Andrea chiede il pagamento delle spese sostenute. “Ciascuno si tiene le sue perdite” gli replica l’imprenditrice e il contratto tra le parti, effettivamente, è molto ambiguo. Intanto altri affari in Cina, puntando sul Made in Italy per Irene Pivetti invece andrebbero bene. Arriva la proposta: “Se lei resta interessato al treno, io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo perché adesso che han chiusi i voli. Io ho già scritto: ‘Caro distretto di Qingbaijiang, visto che i voli non vengono, ti mando treni di mascherine e di materiale sanitario…’ Se lei ha piacere di tornare in gioco, io sono contenta”. Questo incontro avviene il 28 febbraio 2020, quando l’infezione stava per partire per tutti. Pivetti dice: “Sì, sì, stiamo correndo come matti perché questa emergenza del virus ci ha fatto cambiare mestiere in un certo senso. Ci siamo dovuti buttare tutti su questa faccenda qui che per carità, devo dire, è anche molto interessante dal punto di vista economico”. “Per le cose che servono per l’emergenza?”, chiede Andrea. “Sì, esattamente. Non è male visto che tutto il resto dell’attività è ovviamente sospeso fino a nuovo ordine”, gli risponde Irene Pivetti. Queste frasi sembrano stridere con quello che dice in tv: “Noi stiamo facendo in forma volontaria, con le persone attorno alla nostra azienda, un supporto alla Protezione civile esattamente per acquisire mascherine sui mercati internazionali”. Insomma: si tratta di un business, seppur legittimo, o di volontariato? “Questa parte medica è stata un po’ una scoperta” dice Irene Pivetti ad Andrea. “Penso di mantenerlo come un settore permanente così da poter rifornire l’Europa… Credo che sarà ‘un mondo’ perché quello che mi aspetto dopo questo virus è che ci sia una crescita proprio in questi settori…”. “…Deve essere anche un bel business insomma…”, interviene Andrea. “Esattamente, sì”, risponde Pivetti. Nessuna condanna, ripetiamo, è il lavoro di un imprenditore. “La Protezione civile italiana ci ha chiesto delle cose… vediamo un po’”, prosegue l’imprenditrice con Andrea, “se le prendono io sono molto contenta…”. “Io aggiungo… non so… 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine”. Moltiplicandolo per le 15 milioni di mascherine richieste a Irene Pivetti dalla Protezione civile verrebbe un guadagno di 2 milioni e 250 mila euro. Una cifra difficile da accompagnare alla parola “volontariato”. Come finirà con le fatture di Andrea? “Trovo estremamente scorretto aver mischiato una vicenda di business che nulla c’entra con l’emergenza del coronavirus”, ci dice Irene Pivetti, che dà la propria versione di quanto accaduto con il treno delle piastrelle. E lo scandalo mascherine? “Abbiamo ricevuto un prodotto sulla carta molto buono. Dentro alcuni di questi cartoni c’erano delle confezioni non conformi. Quando mi hanno contestato dicendo che questo marchio non è regolare. Dico, ma queste non sono mica mie… erano le mie… Qualcuno là le ha scambiate. Io infatti ho contestato la partita”. Le indagini chiariranno se ha ragione o meno. A noi rimane una domanda: ci ha guadagnato oppure no? “Sulla Protezione civile io non guadagno, copro i costi”. E quando ha detto ad Andrea? “Io aggiungo non so 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine” o “io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo”.

Alberto Dandolo per Dagospia il 25 maggio 2020. Premessa: sulla questione Pivetti, Mora, mascherine la Giustizia farà il suo corso e accerterà eventuali reati e responsabilità. Quella che vi vogliamo raccontare è la storia di una donna che ad uno sguardo superficiale si direbbe avere avuto 2 distinte vite. Quella di vergine leghista che giovanissima diventa la terza carica dello Stato attorcigliata ai suoi foulard austeri e algidi e quella della affarista in odor di truffe che dal cilicio si è concessa a travestitismi senza limitismi (indimenticabile un servizio in cui appariva travestita da Cat Woman). In realtà è la storia di una frattura ma non di uno sdoppiamento. E' la storia di un lutto mai superato. Di una perdita di riferimenti emotivi. Di una incapacità di controllo di fronte alla perdita di un amore. Di un progetto e di una promessa sacra. E' la storia di Irene Pivetti. La storia di un rocambolesco vortice di scellerate scelte dettate dall'incapacità di prevedere e vivere la fine di un amore. Quello con Alberto Brambilla. Giovane uomo che le fece scoprire l'amore e appese al chiodo i suoi foulard. Donandole nuova linfa. È in quel preciso momento, quello dell'addio, che Irene diventa una tabula rasa. Che incontra forse la persona sbagliata: Lele Mora. Iniziò un rapporto in cui Irene divenne plastilina nelle mani del suo nuovo pigmalione. Si fece immortalare per una congrua cifra foraggiata da sponsor vari e avariati con Costantino Vitagliano in Costa Smeralda. Avvinghiata a quello che sarebbe per lei diventato un baratro. Poi su un settimanale con travestita da cat woman. Ma questa è storia. Lele con Irene ha sempre voluto fare affari. Lei credibile, colta, istituzionale, donna pia. Specchietto inconsapevole per consapevoli allodole. 2 i fronti:

1) Lei in Cina, intessendo rapporti a livelli altissimi col regime.

2) lui con la chiesa ortodossa russa e (grazie anche a lei) col Vaticano.

I due condividevano lo stesso ufficio. Quartiere Villa San Giovanni. Viale Monza. Milano. Periferia operaia. Si favoleggia che lei  facesse produrre in Cina una serie di oggetti, strumenti, immagini, icone e utensili sacri che Lele vendeva a caro prezzo al pope ortodosso a Milano. Insieme ad oggetti di altra e più piacevole natura. Altro canale di vendita erano le Chiese di paese. E i prelati compiacenti. Insieme hanno forse pensato alle mascherine che non mascaravano. Forse...

Ida Di Grazia per "leggo.it" l'1 giugno 2020. Live non è la D'Urso, Irene Pivetti risponde a Lele Mora: «Era lui a frequentare brutti giri». Lele Mora nella scorsa puntata di Live non è la D’Urso ha dichiarato che l’ufficio di Irene Pivetti era frequentato dagli uomini della Banda della Magliana. Durante la puntata di domenica 31 maggio l'ex presidente della Camera ha preso le distanze raccontando la sua verità. «Nell'ufficio della signora Pivetti - aveva raccontato domenica scorsa Lele Mora - circolavano persone che mi facevano paura, facevano parte di un'organizzazione criminale romana, facevano parte della banda della Magliana». Nella puntata di domenica 31 maggio ospite in studio a Live non è la D'Urso Irene Pivetti, che ha parlato sia del caos mascherine che delle accuse lanciate da Lele Mora. La D'Urso fa rivedere la clip con le accuse, Irene Pivetti risponde così: «Io sono rimasta abbastanza di stucco, ovviamente non ha senso. Io sono stata felice di ospitare Lele per vari mesi perché ne aveva bisogno. Voglio ancora considerarlo un amico». La Pivetti poi sottolinea: «Gli chiesi io di andare via perché a me avevano detto che Lele frequentava della brutta gente, si era creata una tensione in ufficio tra lo staff di Lele e persone che lavoravano con me e gli chiesi di andare via. Barbara non lo so perché ha detto questo, so che c’era della tensione con una persona che ha citato, ho dovuto querelarlo, per forza! Perché l’abbia detto proprio non lo so. Dopo la puntata scorsa non gli ho più mandato un messaggio, rimango molto interdetta, l’ho attribuita ad un’enfasi televisiva».

Live-Non è la D'Urso, rissa tra Irene Pivetti e Gianluigi Nuzzi sulle mascherine: "Ho speso 1,6 milioni..." Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'1 giugno 2020. Irene Pivetti rompe il silenzio al Live-Non è la D'Urso, la trasmissione della domenica sera su Canale 5 di Barbara D'Urso. Una grande esclusiva. L’ex presidente della Camera è indagata per le mascherine che avrebbe importato dalla Cina. Cinque Procura adesso indagano e anche la Corte dei conti vuole vederci chiaro. Secondo l’accusa sarebbero senza certificati, ma l’ex Presidente della Camera è pronta a difendersi dimostrando di essere innocente. “Sono ottime mascherine come tutte quelle importante dalla Cina. Quando le ho vendute al distributore non c’era la norma dell’Inail”, tuona la Pivetti. “Il primo mese è stato di guerra per reperire le mascherine. Nel primo mese ho speso 1,6 milione di euro di anticipo per comprare dei carichi di mascherine”, continua l’ex presidente della Camera. “Sforzi e fatiche: alla fine siamo riusciti a portare le mascherina in Italia”. Nuzzi attacca la Pivetti. “Ho portato in Italia 13 milioni di mascherine. Non si permetta a dire che non hanno certificati”, urla la Pivetti. “Per ciascuna mascherina abbiamo un dossier di mascherine”.  Lo scontro Nuzzi- Pivetti continua sulle mascherine importante dalla Cina che sarebbero state utilizzate negli anche in alcuni ospedali italiani. “Le sue mascherine hanno il marchio CE che vuol dire Cina Export e non Comunità Europea", dice Gianluigi Nuzzi che contesta le affermazioni di Irene Pivetti. 

Live-Non è la D'Urso, banda della Magliana? Irene Pivetti querela Lele Mora: "Sono sconvolta". Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'1 giugno 2020. Tra Lele Mora e Irene Pivetti volano gli stracci. Rewind. Le dichiarazioni di Mora contro la Pivetti sono una doccia gelata. “Nel suo ufficio c’era la banda della Magliana”, aveva raccontato l’ex agente della star. Un’accusa choc, però, tutta da dimostrare. L’ex presidente della Camera, a Live-Non è la D'Urso di Barbara D'Urso su Canale 5, smonta puntualmente la versione dell’ex agente e rimanda al mittente le accuse. “Ho detto a Lele di andare via dal mio ufficio perché mi avevano detto che frequentava brutte persone”, racconta al Live la Pivetti. “Ho querelato Lele Mora. Io e Lele eravamo amici, sono sconvolta. Non ho avuto nemmeno il coraggio di mandargli un messaggio”. Adesso, dopo la denuncia per diffamazione della Pivetti, tutto potrebbe spostarsi in tribunale. “Mai mi sarei immaginata che lui pensasse che avevo la criminalità organizzata dentro l'ufficio”, conclude la Pivetti.

Da liberoquotidiano.it il 25 maggio 2020. A Live-Non è la D'Urso, Lele Mora torna a cannoneggiare contro Irene Pivetti per la vicenda delle mascherine importata che la ha travolta. Parole pesantissime, quelle dell'ex agente dei vip, tanto che Barbara D'Urso si è sentita in dovere di prendere le distanze.  "Nell'ufficio della signora Pivetti circolavano persone che mi facevano paura, facevano parte di un'organizzazione criminale romana, facevano parte della banda della Magliana. Il signore che mi ha minacciato si chiama Giuseppe e la Pivetti sa chi è, io queste persone le ho viste e sono andato via perché sono stato minacciato", ha sganciato la bomba Lele Mora, rispondendo a Gianluigi Nuzzi che gli chiedeva chiarimenti circa quanto detto la settimana prima. La D'Urso, come detto, ha preso le distanze. Immediatamente, è arrivata anche la replica della Pivetti: "Sono rimasta allibita e molto male ascoltando quello che ha detto Mora, perché Lele l'ho sempre considerato un amico, lo dovrò querelare per diffamazione. Sono stata io a chiedergli di andare via. Le cose non sono andate come dice lui", ha concluso. Insomma, si vedranno in tribunale.

Le intercettazioni di Irene Pivetti e Lele Mora. Mario Neri il 7 Maggio 2020 su nextquotidiano.it. Nelle more dell’indagine per frode in commercio nei confronti di Irene Pivetti  per aver importato dalla Cina dispositivi di protezione con “certificato falso”, il Fatto Quotidiano oggi pubblica alcune intercettazioni che riguardano l’ex presidente della Camera e Lele Mora: il 9 ottobre 2018, a pandemia ancora lontana, i due sono al telefono. “Presidente!”, esordisce Mora. “Carissimo, come stai?”, risponde Pivetti, che aggiunge: “Ti devo dire una cosa delicata, te la posso dire anche al telefono, perché io c’ho la faccia come il didietro, quindi non ho problema”. Un assegno circolare di circa 80 mila euro dato per “l’opera pia” della Pivetti mai incassato. Ecco il punto: incassarlo e dividerselo. Dice Pivetti: “Usare i soldi (…) per fare qualcosa di produttivo io e te”. Il progetto è definito, come andrà a finire resta un punto interrogativo. L’intercettazione, spiega Davide Milosa, è agli atti di un processo milanese che vede Mora come parte lesa e vittima di una tentata estorsione orchestrata dall’imprenditore Michele Cilla, manager della movida e, seppur mai condannato per fatti di mafia, storicamente vicino al clan Fidanzati di Cosa Nostra. “Dimmi amore  riprende Mora –tra me e te non dovrebbero mai esserci problemi”. L’ex protetta di Umberto Bossi spiega: “Tu hai visto, abbiamo ripreso bene quella situazione dell’associazione. Adesso però voglio farti un discorso proprio becero tra me e te. Noi abbiamo un importo importante in un assegno. Posso farti un discorso molto piatto. Noi possiamo ritirare l’as segno”. Pivetti prosegue e Mora annuisce: “Lele, tu hai delle spese, io ho delle spese. Insomma, riconoscerci qualche liquidità che magari ci serve”. Il denaro serve per l’associazione. Pivetti illustra il piano: “Questi sono denari che sono stati dati da questa gente per uno scopo, che noi raggiungiamo indipendentemente dal loro contributo. Consideriamolo una specie di compenso, di liquidità per l’opera pia”. MORA NON SOLLEVA obiezioni : “Amore, noi facciamo tutto quello che tu mi dici(…). Anche perché sono più di 80mila euro quelli lì, hai capito?”. Pivetti conferma: “Tra me e te qualcosa di intelligente da fare ce l’abbiamo, secondo me”. Dopodiché i due discutono come dividere il denaro. Mora non ha dubbi: “Pr endi ti quelli che ti servono. A me quando dai un 15mila euro, sono perfetto”. Pivetti vuole fare a metà: “Ma che 15, minimo la metà. Però è giusto, così li usiamo per fare delle cose”. Quali, è a oggi la domanda che resta senza risposta. Mario Neri.

Mario Neri è uno pseudonimo. La foto di Cattivik che usa come immagine del profilo lo rappresenta pienamente.

La mascherina dell'ex presidente. Report Rai PUNTATA DEL 04/05/2020 di Manuele Bonaccorsi. È Pasqua. Al magazzino dell’ospedale San Martino di Genova, che rifornisce di materiale sanitario tutta la Liguria, il lavoro non si ferma. Una camionetta militare ha appena consegnato i nuovi rifornimenti: mascherine, guanti, camici, pezzi di ricambio per i respiratori. Merce proveniente dalle Dogane. Così, grazie alle loro requisizioni gli ospedali liguri per qualche giorno possono tirare avanti. Mentre intorno la speculazione sui prodotti d’importazione e persino su quelli made in Italy, in piena emergenza, si fa sempre più disinvolta. 

LA MASCHERINA DELL’EX PRESIDENTE di Manuele Bonaccorsi e Giusy Arena immagini di Chiara D'Ambros e Matteo Delbò dalla Protezione civile e dall'Istituto superiore di Sanità: Giulia Presutti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora qual è il business che ruota intorno alle mascherine? Funziona così: io Stato che sono alla ricerca disperata di mascherine, incarico un imprenditore e gli do il 60% d’anticipo. Questo, col 60% di anticipo, senza aggiungere un euro, va in Cina e compra le mascherine a prezzi stracciati. Ne compra molte di più di quanto io Stato ho commissionato, le riporta in Italia e le rivende senza pagare l’iva, perché le importa a nome, per conto della Protezione Civile. L’imprenditore in questione è, appartiene a una società che è controllata a sua volta da una che ha la sede a San Marino e fa riferimento all’ex Presidente della Camera, Irene Pivetti. Quello che colpisce è che l’ex Presidente, la società di riferimento, avrebbe venduto queste mascherine - secondo le accuse di tre procure - con un certificato falso, nonostante il divieto dell’Inail. Ecco. Non sappiamo dove queste mascherine adesso siano finite: se addosso a dei medici, a degli infermieri, a delle forze dell’ordine. Valle a recuperare. Il nostro Manuele Bonaccorsi.

MANUELE BONACCORSI Erano regolari le parti consegnate a Protezione Civile?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Non hanno la marcatura CE ma hanno l’approvazione come FFP2

MANUELE BONACCORSI E quindi loro hanno una validazione da parte del comitato tecnico scientifico voglio immaginare

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Voglio immaginare pure io perché io gliele ho date, loro le han prese.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Protezione civile, ha acquistato dalla società di Irene Pivetti, ben 15 milioni di mascherine per 25 milioni di euro. L’intestatario del contratto è la Only Italia Logistic ma la traccia dei soldi porta nella piccola Repubblica di San Marino, nota per la sua discrezione fiscale.

GIANGAETANO BELLAVIA - COMMERCIALISTA È una società costituita nel 2017 che nell’ultimo bilancio disponibile ha fatturato 74mila euro. Punto. È posseduta da una società di San marino e da un’altra della Polonia, che hanno il 95% del capitale, quindi i soci sono assolutamente anonimi. L’unica diciamo caratteristica diversa che dà una evidenza è che l’amministratore unico è l’ex presidente della Camera Irene Pivetti. Lo stato ha dato 15 milioni di euro a Irene Pivetti, questo è pacifico. Se io e lei andiamo a creare una società con un capitale ridicolo che non ha mai fatto niente, ci presentiamo e diciamo dammi 15 milioni che ti manderò della roba, secondo lei ce li danno?

MANUELE BONACCORSI Lei ha subito il sequestro del conto corrente della società?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Sì.

MANUELE BONACCORSI Pare che dentro ci fosse circa un milione e mezzo di euro.

MANUELE BONACCORSI Però lei ha gestito recentemente contratti per svariate decine di milioni di euro.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Esattamente.

MANUELE BONACCORSI Siccome la sua società ha una sede a San Marino ci viene dubbio che i soldi li abbia messi lì.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Io vi invito vivissimamente ad andarli a vedere.

MANUELE BONACCORSI I soldi? c’è un forziere?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL No, dico vi invito vivissimamente ad andare a verificare.

MANUELE BONACCORSI Non possiamo, San Marino è un altro stato!

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Io anche lì non ho alcuna difficoltà ad esibire tutti i documenti, 90% delle mie operazioni cinesi ho usato la mia società sanmarinese. Tra le altre cose perché San Marino ha rapporto privilegiato e agevolato con la Cina.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma oltre al contratto pubblico, ha raccontato su Repubblica Fulvio Daniele, ex collaboratore di Irene Pivetti, ce ne sarebbe uno occulto. La protezione Civile avrebbe autorizzato la Only a importare mascherine destinate al libero mercato, presentando le sue lettere di acquisto. In questo modo si sarebbe garantita uno sblocco doganale della merce rapido e specialmente esentasse. Daniele ha poi fatto marcia indietro e Borrelli ha rigettato l’accusa. Ma la procura di Savona indaga anche per la violazione delle leggi doganali.

MANUELE BONACCORSI Queste merci sono entrate come merci per Protezione Civile anche se destinate a vendita privata?

TIZIANA ROBUSTELLI- CAPO SERVIZIO INTELLIGENCE DOGANE MALPENSA Assolutamente. Sì, erano destinate a Protezione Civile e poi invece sono state ritrovate in farmacia.

MANUELE BONACCORSI Quindi lei mi conferma che non hanno pagato delle tasse che avrebbero dovuto pagare?

TIZIANA ROBUSTELLI- CAPO SERVIZIO INTELLIGENCE DOGANE MALPENSA Hanno risparmiato i dazi iva e hanno introdotto prodotti non certificati.

MANUELE BONACCORSI Conferma o smentisce?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Assolutamente smentisco, ma a parte il fatto che non avrei avuto bisogno di nessun accordo riservato, perché la Protezione Civile non è che mi ha chiesto l’esclusiva

MANUELE BONACCORSI Presidente gliela spiego io una ratio di questa cosa. Il regolamento introdotto dalle Dogane dopo l’emergenza Covid prevede che qualora le mascherine importate, vadano verso enti pubblici non si pagano dazi doganali e IVA. Lei presenta alle dogane lettera della Protezione Civile e non paga dazi doganali anche sulle mascherine da rivendere privatamente.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Questo mi dispiacerebbe moltissimo perché questo oltre alla mia persona coinvolgerebbe la persona di qualche d’un altro.

MANUELE BONACCORSI Beh, la Protezione Civile direttamente.

IRENE PIVETTI E questo sarebbe veramente ingiusto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Le mascherine della Pivetti sono finite ovunque in Italia. È In questa farmacia nel centro di Savona ha avuto origine l’inchiesta. L’ex presidente della Camera avrebbe distribuito milioni di mascherine ffp2, dispositivi di protezione individuale teoricamente, ma prive di un valido marchio CE.

MANUELE BONACCORSI Qui c’è il marchio CE?

FEDERICO SAETTONE- FARMACISTA Qui c’è un marchio CE.

MANUELE BONACCORSI Le è rimasta almeno una di queste mascherine?

FEDERICO SAETTONE- FARMACISTA Questa qua che ho in mano.

MANUELE BONACCORSI E qui c’è il marchio CE c’è?

FEDERICO SAETTONE- FARMACISTA Sulla mascherina non c’è. Dentro la scatola c’erano 5 bustine da 10. Sopra al sacchettino c’era un cartellino con una scrittura cinese e poi c’era un CE che loro intendono “china export”. Ci era poi anche stato dato questo certificato polacco.

MANUELE BONACCORSI E questo certificato si è rivelato poi non veritiero.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Che i certificati non tornassero se ne è accorto un collega del Secolo XIX: è bastato che facesse un controllo incrociato tra enti che rilasciano certificazioni per scoprire che quello polacco era taroccato.

GIOVANNI CIOLINA – GIORNALISTA SECOLO XIX Beh con quel certificato io vado direttamente a cercarlo su Accredia che è l’ente che dovrebbe accreditare…eccoli qua, esempi di documenti che non sono certificati di conformità di DPI. Caso 6, viene fuori il certificato della ICR.

MANUELE BONACCORSI Identico a quello di Only.

GIOVANNI CIOLINA – GIORNALISTA SECOLO XIX Esattamente.

MANUELE BONACCORSI Proprio lo stesso.

GIOVANNI CIOLINA – GIORNALISTA SECOLO XIX Si, si, si.

MANUELE BONACCORSI Cioè Accredia sapeva già da prima dell’indagine della magistratura che quello era un certificato falso perché evidentemente girava.

GIOVANNI CIOLINA – GIORNALISTA SECOLO XIX Erano certificati a rischio.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il documento consegnato alla farmacie è questo certificato della ICR Polska, certificatore di Varsavia.

GIOVANNI CIOLINA – GIORNALISTA SECOLO XIX Vado sul sito ICR Polska, mi è bastato inserire quel numero di certificato ed mi è venuta fuori la schermata invalid o fake.

MANUELE BONACCORSI Avevano un certificato falso a quanto pare lo sapeva?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL No non è così. Noi abbiamo importato almeno 30 tipi diversi di mascherine alcune di queste KN95 avevano anche la certificazione europea, perfettamente regolare. In qualche caso risultano falsi, cosa che l’importatore scopre necessariamente solo dopo.

MANUELE BONACCORSI Ma diciamo non era difficile rendersi conto che questo certificato non era vero, bastava andare sul sito

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Quando noi abbiamo verificato il sito c’era e abbiamo la schermata, il certificato c’era scritto withdrawn, cioè ritirato.

MANUELE BONACCORSI Non le avete bloccate a quel punto?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL C’era scritto ritirato, non c’era scritto ancora fake e la mascherina l’abbiamo comunque già venduta.

MANUELE BONACCORSI Se lei manda un pacco dentro cui c’è il pacco con il marchio CE.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL I pacchi arrivano in dogana, li apre solo la dogana e io li do in cartone. Lasci perdere, cioè lasci no, dica quello che vuole ma voglio dire guardi cosa c’è sui documenti.

MANUELE BONACCORSI Però la scatola era questa.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Si lo so.

MANUELE BONACCORSI Dove è il marchio CE, c’era.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Io queste le ho vendute prima che ci fosse la norma, ah, no scusi, queste le ho vendute dopo, queste le ho vendute subito dopo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Quando si muove la procura di Savona Irene Pivetti ha già distribuito milioni di mascherine in tutto il Paese. Sono arrivate anche a Lentini, provincia di Siracusa, qui i finanzieri le ritrovano in decine di farmacie, e cominciano i sequestri. A venderle sul territorio è un protesista dentale della zona, Salvatore Stuto. Raccomandato da un noto primario.

FARMACISTA – LENTINI (SR) L’ho conosciuto solo una volta quando sono andato a ritirarle. Giovane, si…bel vestito, tutto, fuori strada…cose…aveva il suv…A noi hanno presentato tutto compresa la certificazione. Lui lo doveva controllare questo passaggio non noi, tra l’altro raccomandati da un primario, da questo Stuto Salvatore STT Group. Chi ci doveva portare? Chi lo conosce?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Salvatore Stuto, 39 anni, da questo paese all’interno della Sicilia ha venduto in mezza Italia migliaia di mascherine di Irene Pivetti. La sua società, la STT Group, gestisce un ambulatorio odontoiatrico ma dal 22 aprile 2020 comunica alle camere di commercio di occuparsi anche di vendita all’ingrosso di articoli medicali.

DONNA È chiuso non o vede?

LUISA SANTANGELO E scusi ma questi qui non lavorano, non è aperto?

DONNA Non lavorano.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo gli inquirenti Stuto le mascherine le spediva direttamente dai depositi doganali ai farmacisti, molto spesso senza neppure prenderle in mano.

LUISA SANTANGELO Le volevo chiedere a proposito delle questione delle mascherine con la signora Pivetti.

SALVATORE STUTO AL TELEFONO Signora guardi deve chiamare l’avvocato cortesemente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E i finanzieri siciliani hanno scoperto un’altra pecca: Le mascherine di Irene Pivetti non avevano neppure una validazione dell’Inail, a cui l’importatore deve obbligatoriamente rivolgersi quando sono prive di marchio CE. Pivetti aveva presentato la domanda il 3 aprile ma il 16 ottiene un diniego, con il conseguente divieto di immissione in commercio.

MANUELE BONACCORSI Come mai lei ha fatto la richiesta all’Inail mi perdoni.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Il 3.

MANUELE BONACCORSI Solo il 3? La doveva fare prima la richiesta.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Guardi io avevo tre giorni per farla.

MANUELE BONACCORSI Prima di commercializzarle.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL No la legge dice entro 3 giorni si fa la richiesta all’Inail. Io le avevo appena scaricate.

MANUELE BONACCORSI No, entro 3 giorni risponde.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL No, no.

MANUELE BONACCORSI Lei doveva aspettare un pochettino a venderle.

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Qui divergono ovviamente le interpretazioni, io le dico che queste mascherine erano vendibilissime anche senza il bollino dell’Inail, ovviamente l’Inail doveva arrivare prima del cliente finale però a quel punto guardiamole tutte le cose. Perché se l’Inail deve rispondere entro 3 giorni risponda entro tre giorni, e non mi può rispondere io questo documento non l’ho guardato perché è scritto in cinese. Perché siccome vengono tutte dalla Cina mi sembra un po’ difficile che non ci sia un interprete di cinese. Allora io ho provato a fare un gioco, l’Inail non mi risponde per molti giorni, mi risponde il 18 di aprile, combinazione 2 giorni prima era uscito sul Secolo XIX il primo articolo che parla di questa storia, due giorni dopo l’Inail mi scarica una decina su una trentina che gli avevamo mandato, una decina di rifiuti. Allora che cosa faccio? Alcune di queste mascherine ho pensato di farle ricertificare, di far ripresentare la domanda da altra società, com’è che Inail l’ha approvata? Questo si apre un bel capitolo.

MANUELE BONACCORSI Lei ha le prove di quello che sta dicendo?

IRENE PIVETTI – AMMINISTRATORE UNICO ONLY ITALIA SRL Sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex Presidente della Camera si difende dicendo “le mie mascherine sono buone; se hanno avuto un divieto è per incompetenza dell’Inail” o “per impreparazione dell’Inail”. Questo perché dice, “io le stesse mascherine le ho fatte, le ho ripresentate attraverso un’altra società e hanno ottenuto il benestare”. Insomma, abbiamo capito che qui sulle mascherine c’è una grande confusione. Comunque il nostro Manuele Bonaccorsi ha beccato un altro caso: si tratta questa volta, di mascherine chirurgiche. Da non confondere con quelle dello stesso colore a tre veli, perché le chirurgiche sono tali e sono da considerarsi a tutti gli effetti dei dispositivi medici e dunque andrebbero certificate. Poi, la legge dice anche che in caso di emergenza puoi distribuire qualsiasi tipo di mascherine, ma non puoi definirle chirurgiche. Per capire qualcosa di più, abbiamo provato a comprarle anche noi, ma gli interlocutori che abbiamo scelto non sono proprio tra i più affidabili.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Uno dei principali importatori italiani si chiama Galileo SpA. Da marzo a metà aprile ha acquistato dalla Cina 44 tonnellate di mascherine. Ha sede in questo grande capannone nella periferia nord di Roma. La Galileo ha un contenzioso tributario aperto per un milione di euro e nel 2018 si scopre che ha importato una partita di thermos contenenti amianto. Ma ora vende mascherine alla Protezione Civile.

UOMO GALILEO Noi vendiamo alla Protezione Civile e a tutte le grandi strutture, per cui dall’inizio abbiamo queste mascherine e forniamo loro.

LORENZO VENDEMIALE Perché io sono andato molto in difficoltà, perché il mio fornitore mi ha detto che lui non riesce più a fare arrivare nulla; voi come fate? Perché diciamo, siete, cioè…

UOMO GALILEO Perché noi abbiamo gli accordi con la Protezione Civile, siamo noi che le importiamo per loro.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Galileo ci rivela che può rivenderne una parte privatamente, senza subire blocchi in dogana, in cambio della fornitura a Protezione Civile. A loro non vende direttamente, ma attraverso la Winner, una piccola azienda specializzata in gadget. E hanno piazzato 5,3 milioni di mascherine dal valore di oltre 3 milioni e 370 mila euro. Il problema è che nel contratto firmato con la Protezione Civile si parla di mascherine chirurgiche, cioè di dispositivi medici, ma queste non lo sono.

FABRIZIO BENEDETTI – COORD. CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL È simile nella forma e nella foggia, ma non lo è. Non lo è perché il fabbricante lo ha scritto esplicitamente: prodotto non adatto all’uso professionale o ospedaliero.

MANUELE BONACCORSI C’è una differenza nella sicurezza tra le mascherine chirurgiche vere e proprie e queste mascherine, appunto, non certificate?

FABRIZIO BENEDETTI – COORD. CONSULENZA TECNICA ACCERTAMENTO RISCHI - INAIL Diciamo che le mascherine chirurgiche sono state sottoposte a delle prove che attestano certi requisiti di protezione.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma a distribuire queste mascherine è proprio la Protezione Civile. Questo è il deposito di Roma.

MANUELE BONACCORSI Queste sono della Galileo.

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO Non sono marchiate CE, no?

MANUELE BONACCORSI E queste ve le manda la Protezione Civile Nazionale.

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO Sì.

MANUELE BONACCORSI E che ci fate con queste mascherine?

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO Queste noi le utilizziamo per chi opera nei servizi essenziali, l’Atac, il Cotral...

 MANUELE BONACCORSI Io non sono sicurissimo che questa cosa si possa fare.

CARMELO TULUMELLO – DIR. PROTEZIONE CIVILE REGIONE LAZIO Però ci viene, come dire, ci viene detto dal Dipartimento Nazionale…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il problema è che ai lavoratori dei servizi pubblici essenziali, non si può per legge dare una mascherina filtrante 3 veli come questa.

NATALE DI COLA - SEGRETARIO FP CGIL ROMA Il minimo è la mascherina chirurgica certificata; è il minimo deciso dalle norme e su cui non si può derogare.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cosa rischia chi indossa questa mascherina?

LINO PREZIOSO – INGEGNERE CHIMICO Io adesso la indosso per far vedere come va questa mascherina, questa mascherina non stringe al naso ma c’è un passaggio di aria, perché il mio espirato fuoriesce anche da qui, quindi già dal punto di vista strutturale questa mascherina non è conforme.

MANUELE BONACCORSI Sono davvero chirurgiche, quelle che avete venduto a Protezione Civile?

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Assolutamente, sono dispositivi medici e quindi, di conseguenza, dispositivi di protezione individuale.

MANUELE BONACCORSI Sono mascherine chirurgiche, da utilizzare come dispositivi medici e dispositivi di protezione individuale e sanitaria o no?

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Non può essere bianco o nero.

MANUELE BONACCORSI È grigio.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Messo alle strette con documenti alla mano, alla fine il manager della Winner ammette che non sono mascherine chirurgiche. E dice anche di aver anche avvisato la Protezione Civile.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Abbiamo dichiarato che non è un dispositivo medico, in quanto non CE. Perché, per me…

MANUELE BONACCORSI Ma la Protezione Civile lo sapeva, che questo prodotto non era un dispositivo medico?

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL È evidente.

GIULIA PRESUTTI La Winner vi ha venduto delle mascherine che sono non CE, ma sono anche mascherine filtranti, non dispositivi medici.

ANGELO BORRELLI - CAPO DIPARTIMENTO PROTEZIONE CIVILE A me questo non risulta. Noi quelle che abbiamo preso dalla Winner sono mascherine a tre veli che hanno ovviamente anche la certificazione, come le ho detto, dell’Istituto Superiore della Sanità. Abbiamo fatto le nostre verifiche.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Abbiamo verificato anche noi e l’Istituto Superiore di Sanità non ha rilasciato nessuna certificazione alle mascherine della Winner.

SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ La società ha presentato un’istanza all’Istituto, per le famose deroghe, articolo 15, mascherine di tipo 1. Successivamente, mentre era in corso l’iter, ha presentato un’ulteriore documentazione per cui ha dato dimostrazione di avere il marchio CE.

GIULIA PRESUTTI Quindi voi non le avete validate?

SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ No. Dove c’è il marchio CE non è più compito nostro.

GIULIA PRESUTTI Noi abbiamo visto le mascherine di Winner e non avevano il marchio CE. Quindi le chiedo: forse a voi hanno dato la documentazione relativa ad altre mascherine?

SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Eh, mi fa delle domande cui non so rispondere. Io posso dire che noi abbiamo ricevuto la documentazione in cui hanno il marchio CE.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Noi abbiamo inviato all’Istituto Superiore di Sanità tutta la documentazione necessaria dal 20 marzo fino a ieri in cui si è chiusa la validazione.

MANUELE BONACCORSI Si è chiusa come?

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Con esito positivo.

MANUELE BONACCORSI Senta: l’Istituto Superiore di Sanità ci ha detto che non le ha mai validate.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Non ha mai validato?

MANUELE BONACCORSI Sì. MANUELE BONACCORSI Gli avete mandato un altro prodotto, un prodotto già marcato CE.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL No, non abbiamo mandato un altro prodotto, rispetto a quello fornito. Ho tutta la documentazione, addirittura questa documentazione l’abbiamo ricostruita con la Guardia di Finanza ieri. Abbiamo avuto dei controlli.

MANUELE BONACCORSI Cioè non è venuta in funzione di polizia giudiziaria?

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL Sono venuti per fare indagini.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Divincenzo ci dice quindi che a suo carico c’è un’indagine della procura di Roma. Avrebbe fornito a Protezione Civile un prodotto per un altro. Se ne sono accorti, ad esempio, i carabinieri della capitale che hanno sequestrato in questo supermercato una partita di mascherine, ben 30mila. Anche in questo caso le mascherine non erano né approvate né certificate, ma erano presentate come chirurgiche.

TITOLARE SUPERMERCATO Una filiera che passa tramite un gruppo d’acquisto, il gruppo d’acquisto le compra da Winner e a noi ce le ha girate il gruppo d’acquisto. Quindi non abbiamo un contatto diretto con Winner.

MANUELE BONACCORSI Che rifornisce quindi i vari supermercati.

TITOLARE SUPERMERCATO Che rifornisce i vari supermercati. MANUELE BONACCORSI E il gruppo d’acquisto qual è?

TITOLARE SUPERMERCATO È Gros. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il gruppo Gros rifornisce 146 supermercati a Roma e nel Lazio. Li abbiamo contattati e ci dicono di aver sospeso la distribuzione e che si rivarranno sul venditore.

MANUELE BONACCORSI L’esercente del supermercato aveva un documento in cui lei dichiarava che la mascherina presenta una efficacia di filtrazione superiore al 95% e risponde pienamente alle caratteristiche tecniche e a tutti i requisiti di sicurezza di cui alle vigenti normative comunitarie.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL È una autocertificazione.

MANUELE BONACCORSI I carabinieri hanno ritenuto questa autocertificazione non veritiera.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL No… non…

MANUELE BONACCORSI Lei poi ha dichiarato che riguardava un altro prodotto. Cioè ha mandato un’autocertificazione sbagliata.

ALESSANDRO DIVINCENZO – AMMINISTRATORE DELEGATO WINNER ITALIA SRL No, non è che ho dichiarato che era un altro prodotto, essendo un’autocertificazione…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Non solo: il 27 marzo le mascherine vendute da Galileo-Winner vengono bloccate anche alla dogana di Pomezia. I doganalisti notano qualcosa che non quadra: Galileo dichiara che le mascherine non sono dispositivi di protezione certificati. Invece Winner scrive che sono dirette alla Protezione Civile, che dovrebbe acquistare solo dispositivi validati. La partita viene bloccata inizialmente, ma poi arriva una lettera del commissario Arcuri, che sblocca tutto e fa entrare la merce in commercio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Borrelli ha detto che dopo la nostra intervista ha chiesto informazioni alla ditta. Non sappiamo bene che cosa si sono detti. Comunque noi le sue mascherine le abbiamo fatte analizzare da un laboratorio che fa i test per rilasciare le certificazioni e abbiamo scoperto che hanno, sì un buon filtraggio, ma che sono progettate male: lasciano passare troppa aria. Questo è un monito, che quando sei sotto emergenza rischi di accaparrare la qualunque. Adesso invece passiamo a un altro caso e vediamo come in emergenza sono state gestite delle partite di ricambi di respiratori vitali, fondamentali in un momento dell’emergenza del nostro paese. La dogana aveva sequestrato alcune partite di ricambi di respiratori prodotti da una ditta in Italia, che erano destinati all’estero. Le dogane avevano esercitato un atto della Protezione Civile che imponeva di sequestrare dispositivi medici se necessari al bene del Paese. Ma poi dai piani alti arriva l’ordine di dissequestrare tutto. Perché? Il nostro Manuele Bonaccorsi e la nostra Giulia Presutti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO È Pasqua. Ma al magazzino dell’ospedale San Martino di Genova, che ha il compito di rifornire di materiale sanitario tutta la Liguria, il lavoro non si ferma. Una camionetta militare ha appena consegnato i nuovi rifornimenti.

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Meno male che sono arrivate le P3, comunque, 4mila P3.

MANUELE BONACCORSI Bastano?

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Per 5 giorni, sull’intero territorio ligure, sono sufficienti. Questi, in nitrile, il 60% della produzione una sola nazione, la Malesia. Se entra in crisi la Malesia o decidono di esportarselo verso gli Stati Uniti, finito il nitrile. Bisogna cominciare a nazionalizzare qualche azienda sui dispositivi, perché anche se sono a basso costo, nei momenti di crisi poi dipendi dagli altri.

MANUELE BONACCORSI Ci sono state requisizioni, materiale che vi è arrivato per requisizioni fatte dalle dogane?

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Sì, la dogana di Genova 2 ci ha consentito di resistere con tre sequestri.

GIUSEPPE ROSSINI – OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Erano 65mila camici che sono stati già distribuiti su tutto il territorio ligure.

MANUELE BONACCORSI Erano diretti dove?

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Erano diretti in Nuova Zelanda, è un materiale che noi abbiamo veramente difficoltà ad approvvigionare, è arrivata come la manna dal cielo questo sequestro che ci ha adesso messo nelle condizioni di resistere. È avvenuto anche verso la fine di marzo il sequestro di un ingente carico anch’esso destinato all’estero, tubi di raccordo tra i respiratori e i pazienti.

GIUSEPPE ROSSINI – OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Poi c’erano dei tubi tracheali, poi ci sono questi kit per la aspirazione, poi c’erano delle maschere di ventilazione.

MANUELE BONACCORSI Posso vedere?

GIUSEPPE ROSSINI – OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Si.

MANUELE BONACCORSI Questo è tutto materiale Covidien?

GIUSEPPE ROSSINI – OSPEDALE SAN MARTINO - GENOVA Se non vado errato, dovrebbe essere parte della Medtronic, che è una grande industria, una grande multinazionale. Made in Italy.

MANUELE BONACCORSI Ah, quindi questo è fatto in Italia!

MANUELE BONACCORSI FUORI Medtronic è una multinazionale statunitense leader delle tecnologie medicali. Ha un impianto anche a Mirandola, vicino Modena. Si è aggiudicata il bando Consip, per la fornitura di 20 respiratori sui circa 2200 assegnati e 125mila tubi endotracheali, pezzi di ricambio fondamentali per i respiratori. Ma prima di consegnarli agli ospedali italiani, nei giorni dell’emergenza più dura una parte di quei pezzi di ricambio Medtronic prova a farli partire per l’estero. Una prima partita destinata al Sudafrica, viene sequestrata il 17 marzo a Bologna, dove la procura apre una inchiesta, a carico di Philip John Albert, il legale rappresentante per violazione degli ordini di Protezione Civile.

RITA NICOLINI – DIRETTORE PROTEZIONE CIVILE EMILIA - ROMAGNA Il materiale è andato al magazzino della sanità, che è quello che c’è a Reggio Emilia, e da lì è andato all’Ospedale Maggiore di Bologna.

DAVIDE FONDA Chi ha prodotto questo materiale?

RITA NICOLINI – DIRETTORE PROTEZIONE CIVILE EMILIA - ROMAGNA Medtronic. Sì, sì…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi, il 27 marzo, avviene la requisizione a Genova. A quel punto succede qualcosa. Il 30 marzo il commissario straordinario Domenico Arcuri chiede di revocare la requisizione e di consegnare la merce all’esportatore. Ma è troppo tardi. La preziosa fornitura era già stata consegnata agli ospedali liguri. Allora Arcuri il primo aprile scrive alle dogane e per conoscenza al segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa, a Ettore Francesco Sequi, capo di Gabinetto della Farnesina, e al consigliere Alberto Stancanelli, capo di Gabinetto del ministero dei Trasporti. Per “indifferibili e superiori interessi nazionali” si richiede di “non procedere ad alcuna requisizione pro futuro” della merce di Medtronic.

GIULIA PRESUTTI Lei, come Commissario Straordinario per l’Emergenza, ha inviato una lettera chiedendo di “non procedere ad alcuna requisizione pro futuro per indifferibili e superiori interessi nazionali”. Ci spiega quali interessi sono superiori alla vita dei cittadini della nazione che lei in questo momento rappresenta?

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 I pezzi di ricambio dei ventilatori sono dei beni di assoluta rilevanza perché i ventilatori in Italia funzionino. Ecco, io ho il dovere prima di verificare che questi pezzi di ricambio sul nostro territorio esistano ed esistano in una quantità sufficiente per far funzionare i ventilatori. Vorrà dire che mi sarò sincerato che dal primo aprile queste quantità siano, nelle disponibilità del territorio italiano, sufficienti per garantire il funzionamento di questi importanti apparati.

GIULIA PRESUTTI Mi scusi, lei chiede di non sequestrare pro futuro.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Io intanto vorrei chiederle come fa lei ad avere una lettera che io ho scritto alle dogane non essendo credo pubblica, a meno che io non pubblico delle cose…

GIULIA PRESUTTI Come giornalista non rivelo la fonte e questa è una questione di estremo interesse pubblico, quindi non penso che stiamo parlando dei nostri affari. Lei chiedeva di non sequestrare pro futuro, come se lei sapesse già in quel momento che l’Italia non avrebbe mai avuto bisogno di questo materiale.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Se io mi dovessi accorgere che questo materiale è scarso domani, domani faccio un’ordinanza e sequestro di nuovo i beni. Evidentemente questo momento non è ancora accaduto perché questi pezzi di ricambio sono disponibili a sufficienza sul territorio nazionale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In realtà i responsabili degli ospedali liguri la pensano diversamente dal commissario Arcuri.

MANUELE BONACCORSI Voi avevate i macchinari, naturalmente, vi mancavano proprio questi tubi.

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Se si pensa che abbiamo avuto bisogno di incrementare i posti di terapia intensiva in Liguria da 100 a 250 era essenziale.

MANUELE BONACCORSI Li avevate ordinati e non vi arrivavano?

SALVATORE GIUFFRIDA – DIR. AMMINISTRATIVO OSPEDALE SAN MARTINO GENOVA Arrivava tutto, ovviamente, col contagocce.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO SPOSTATA QUI La lettera di Arcuri però, sortisce il suo effetto. E nel giorno di Pasqua, dal porto di Genova Pra, parte un carico di tubi per respiratori, destinazione Brasile.

GIULIA PRESUTTI Lei questa lettera l’ha scritta alle Dogane, ma ha messo in copia Palazzo Chigi e la Farnesina. Quindi io le chiedo: chi le ha chiesto di intervenire? Ci sono state pressioni da parte dell’ambasciata americana perché lei sbloccasse il materiale di Medtronic?

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Io le ho già risposto, mi pare che lei possa ritenersi soddisfatta, altre domande?

GIULIA PRESUTTI Il primo aprile lei sapeva che avevamo talmente tante…

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Di che parte d’Italia sei?

GIULIA PRESUTTI Di Roma.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Tifi per la Roma o per la Lazio?

GIULIA PRESUTTI La domanda è, lei… DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Pensi che Totti è più forte di Correa o Correa è più forte…

GIULIA PRESUTTI Lei il primo aprile sapeva già che noi avevamo così tanti respiratori per la terapia intensiva che Medtronic non ce ne doveva fornire nessuno?

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 O forse avevamo pezzi di ricambio sufficienti per non bloccare le produzioni verso l’estero.

GIULIA PRESUTTI Però lei non mi può dire forse, mi dica che avevamo sicuramente abbastanza respiratori, abbastanza pezzi di ricambio.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA COVID-19 Quando ho detto forse?

GIULIA PRESUTTI Adesso! Ha detto… DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA È perché tu tifi per la Lazio e io per la Roma.

GIULIA PRESUTTI No io tifo per la Roma.

DOMENICO ARCURI - COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L’EMERGENZA E io per la Lazio.

GIULIA PRESUTTI A posto, non andremo mai d’accordo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma poi alla fine il derby non c’è perché sappiamo che il commissario Domenico Arcuri è un tifoso anche lui della Roma e anche abbastanza sfegatato. Rimane la questione aperta: perché ha deciso e ha scritto su quel documento di cui siamo venuti in possesso, che c’era una questione di indifferibile e superiore interesse nazionale tale da dissequestrare, da chiedere il dissequestro di quei pezzi di ricambio dei respiratori? Insomma, Arcuri dice io ho fatto le mie verifiche, non c’era l’emergenza, era però il primo aprile, abbiamo visto la data, e secondo i medici a cui abbiamo chiesto, di cui abbiamo raccolto la testimonianza, l’emergenza c’era. La Medtronic invece ci scrive che addirittura che secondo lei si sarebbe sbagliata la dogana perché quelli sarebbero stato prodotti non sottoposti a delle restrizioni, quindi si sarebbe sbagliata anche la procura di Bologna. Poi ci scrive che tutti i prodotti che doveva consegnare allo Stato perché si era aggiudicata la gara Consip, sono stati consegnati in tempo. Sulla domanda invece, se l’ambasciatore americano avesse fatto pressioni presso il nostro governo e sul commissario Arcuri non risponde, ha preferito non rispondere. E dunque la domanda rimane in sospeso, chi è che decide in questi casi e quale sarebbe stato l’indifferibile superiore interesse nazionale a causa del quale dovevano essere dissequestrati i respiratori?

DOCUMENTO DI RISPOSTE DI MEDTRONIC PER LA REDAZIONE REPORT DI RAI3 Sabato 25 Aprile 2020

DOMANDA REPORT Per quale motivo la vostra società ha provato a esportare questa merce, prodotta in Italia, proprio nel momento in cui l’emergenza Covid era più alta, e nonostante il divieto delle autorità italiane?

RISPOSTA MEDTRONIC In data 17 Marzo 2020 a Bologna e successivamente, in data 20 Marzo 2020 a Genova, sono state avviate da Medtronic le corrette pratiche doganali per l’export di alcuni quantitativi di prodotti Mallinkrodt Dar che non sono oggetto di restrizione perché trattasi di dispositivi monouso quali cateteri, cannule, filtri, circuiti, sacche per la respirazione, sistemi per la aspirazione, dispositivi monouso ed in generale accessori in uso nelle anestesie, rianimazioni e nelle terapie intensive. L’Azienda, una volta portata a conoscenza dei due provvedimenti di requisizione presso Bologna Interporto e Genova, benché fosse sicura della correttezza e liceità del proprio operato, non provvedeva ad ulteriori esportazioni fino al momento in cui, in data 3 Aprile, ha appreso di una nota da parte della Protezione Civile indirizzata all’Agenzia Delle Dogane e dei Monopoli che chiariva in via definitiva il novero dei prodotti soggetti all’applicazione del divieto. I dispositivi oggetto delle requisizioni di cui sopra non sono ventilatori polmonari, oggetto di restrizione all’export, ma prodotti monouso realizzati dal sito del Gruppo Medtronic - Mallinkrodt Dar Srl – presso Mirandola (MO). Medtronic non produce ventilatori in Italia ma li importa in Italia. Medtronic si è attivata prontamente prestando piena collaborazione con le Autorità competenti. E’ in corso un confronto positivo con l’Autorità Giudiziaria e confidiamo nella archiviazione del procedimento per insussistenza del fatto. Per le classi di prodotti afferenti alla produzione di Medtronic a Mirandola – non sussistono infine rischi di ritardi, mancanze, o inadempimento rispetto a ordinativi, richieste o contratti con le Amministrazioni o con gli Enti ospedalieri pubblici e privati situati presso il territorio Italiano. Peraltro, la produzione del sito di Mirandola è stata ulteriormente incrementata e potenziata con ritmi H24 per far fronte a qualunque tipo di richiesta anche di volumi significativi. Il sito di Mirandola è l’unico centro di produzione mondiale di Medtronic per questa classe di prodotti che sono salvavita e di natura essenziale; con l’importante ruolo di far fronte al fabbisogno sanitario, all’emergenza e alla cura dei pazienti di tutti i Paesi in cui i prodotti vengono esportati.

DOMANDA REPORT L’esportazione sarebbe stata avviata, secondo quanto noi ricostruito, nonostante la vostra azienda fosse aggiudicataria della fornitura di materiale simile in un appalto Consip. Al momento dei due sequestri, a quanto ci risulta da fonti ufficiali, quella merce non era stata ancora consegnata agli operatori italiani. Ne ricaviamo che, nel culmine dell’emergenza, la vostra azienda avrebbe preferito esportare materiale prezioso invece che fornirlo agli ospedali italiani messi in grave crisi dall’emergenza Covid. Vi chiediamo se questa affermazione corrisponde al vero, e conseguentemente vi chiediamo un commento al riguardo.

RISPOSTA MEDTRONIC Questa affermazione non corrisponde al vero e non è corretta. La Gara CONSIP ha riguardato l’approvvigionamento di ventilatori polmonari e di tubi endotracheali. La Gara CONSIP non è quindi inerente ai prodotti che Medtronic fabbrica a Mirandola ed oggetto dei provvedimenti di requisizione. Medtronic, infatti, produce i Ventilatori presso il proprio sito di Galway in Irlanda ed ora, dalle ultime settimane, anche negli Stati Uniti. I tubi endotracheali sono prodotti da Medtronic presso il sito di Athlone, in Irlanda. Medtronic non produce ventilatori in Italia ma li importa in Italia. Per le classi di prodotti afferenti alla produzione di Medtronic a Mirandola – non sussistono inoltre rischi di ritardi, mancanze, o inadempimento rispetto a ordinativi, richieste o contratti con le Amministrazioni o con gli Enti ospedalieri pubblici e privati situati presso il territorio Italiano. Peraltro, la produzione del sito di Mirandola è stata ulteriormente incrementata e potenziata con ritmi H24 per far fronte a qualunque tipo di richiesta anche di volumi significativi. Il sito di Mirandola è l’unico centro di produzione mondiale per questa classe di prodotti che sono salvavita e di natura essenziale; con l’importante ruolo di far fronte al fabbisogno sanitario, all’emergenza e alla cura dei pazienti di tutti i Paesi in cui i prodotti vengono esportati.

DOMANDA REPORT In riferimento agli appalti Consip inoltre, MedTronic che pure è uno dei principali produttori al mondo di respiratori polmonari e ha una sede in Italia, si è dichiarata capace di fornire appena 25 respiratori sui 2246 assegnati. Qual è la vostra produzione mensile di respiratori?

RISPOSTA MEDTRONIC Le sedi italiane del Gruppo Medtronic non producono ventilatori polmonari che vengono quindi importati nel nostro Paese. Il bando di gara Consip prevedeva un accordo quadro con richiesta di 1.800 ventilatori complessivi, oltre che ad un quantitativo di tubi edotracheali, rivolto a tutte le aziende produttrici in grado di consegnare i ventilatori entro precisi termini di tempo. Medtronic ha aderito dichiarando fin da subito la disponibilità di 25 ventilatori e un quantitativo di tubi endotracheali. Medtronic ha formulato l’offerta in modo tale da assicurare la fornitura dei dispositivi, nei tempi previsti dalla gara, tenendo in considerazione anche di altri ordini derivanti da aziende ospedaliere di tutto il territorio nazionale, consapevole dell’emergenza che affligge il sistema sanitario italiano e dei tempi da rispettare per l’espletamento degli ordini ricevuti prima della gara. Nell’ultimo periodo Medtronic si è adoperata per fornire in Italia circa 100 ventilatori a centri ospedalieri di tutto il territorio nazionale. Medtronic ha definito l’accordo con CONSIP il 9 marzo, quando la produzione su scala mondiale, nello stabilimento di Galway, in Irlanda, ammontava a 110 ventilatori a settimana. Il 20 Marzo, a fronte della sempre maggiore richiesta, Medtronic ha annunciato di aver raddoppiato la propria capacità produttiva di ventilatori polmonari ad alte prestazioni. Ad oggi Medtronic produce 400 ventilatori polmonari a settimana, ma per soddisfare le crescenti richieste, sta intensificando la produzione per arrivare entro fine maggio a oltre 700 ventilatori a settimana e raggiungere a fine giugno una produzione di oltre 1000 ventilatori a settimana. Per garantire tutto questo Medtronic ha attivato piani di produzione 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Nelle ultime settimane Medtronic ha reso disponibili, in modalità “open source”, le specifiche di progettazione del proprio ventilare polmonare modello Puritan Bennett ™ 560 (PB 560), per consentire la produzione, in tempi rapidi e su larga scala, di un’apparecchiatura fondamentale nella lotta di medici e pazienti all’infezione da COVID-19. I manuali e i documenti relativi ai requisiti di progettazione, di produzione e gli schemi sono da ora disponibili su Medtronic.com/openventilator che ha ricevuto più di 100.000 registrazioni, Ad ora sono stati compiuti progressi da tre grandi produttori: Baylis Medical Co. Inc. con sede in Canada, Foxconn Technology Group con sede a Taiwan (tramite il loro impianto di produzione nel Wisconsin) e VinGroup Joint Stock Co. del Vietnam.

DOMANDA REPORT Infine, Vi chiediamo se dopo le requisizioni la vostra azienda ha fatto pressioni sulle autorità italiane per avere più facilità nel superare i blocchi doganali. In particolare Vi chiediamo se la vostra azienda ha chiesto l'intermediazione di autorità diplomatiche americane; se nei mesi di marzo e aprile è stata da voi spedita all’estero altra merce oltre a quella a noi nota. Ci risulta di una spedizione del 10 aprile diretta in Brasile sempre da Genova Prà: di che tipo di materiale si trattava?

RISPOSTA MEDTRONIC Medtronic interagisce con correttezza e trasparenza, in maniera formale ed istituzionale, con le Autorità competenti. In data 17 Marzo 2020 a Bologna e successivamente, in data 20 Marzo 2020 a Genova, sono state avviate da Medtronic le corrette pratiche doganali per l’export di alcuni quantitativi di prodotti Mallinkrodt Dar che non sono oggetto di restrizione perché trattasi di dispositivi monouso quali cateteri, cannule, filtri, circuiti, sacche per la respirazione, sistemi per la aspirazione, dispositivi monouso ed in generale accessori in uso nelle anestesie, rianimazioni e nelle terapie intensive. L’Azienda, una volta portata a conoscenza dei due provvedimenti di requisizione presso Bologna Interporto e Genova, benchè fosse sicura della correttezza e liceità del proprio operato, non provvedeva ad ulteriori esportazioni fino al momento in cui ha appreso, in data 3 Aprile, di una nota da parte della Protezione Civile indirizzata all’Agenzia Delle Dogane e dei Monopoli che chiariva in via definitiva il novero dei prodotti soggetti all’applicazione del divieto. La menzionata spedizione del 10 aprile, avente per oggetto dispositivi prodotti presso il sito di Mirandola destinati al Brasile, è avvenuta solo successivamente ed infatti non è stata oggetto ad alcun provvedimento di requisizione. Il sito di Mirandola è l’unico centro di produzione mondiale di Medtronic per questa classe di prodotti che sono salvavita e di natura essenziale; con l’importante ruolo di far fronte al fabbisogno sanitario, all’emergenza e alla cura dei pazienti di tutti i Paesi in cui i prodotti vengono esportati. Medtronic è in contatto con le Istituzioni e le Autorità Sanitarie di tutto il Mondo. Lavoriamo in sinergia con le Istituzioni - tra cui l'Unione Europea, il G20 e l'OMS – per definire in modo etico ed equo il supporto della nostra Azienda alla gestione della pandemia. Il gruppo Medtronic si contraddistingue per integrità, rispetto assoluto di ogni normativa e di ogni provvedimento delle Autorità competenti.

Spett.le: Redazione di Report Via Teulada 66 00195 Roma E p.c.: Dipartimento della Protezione Civile Oggetto: Accordo fornitura Winner Italia / Dipartimento Protezione Civile del 4 e 9 marzo 2020 La nostra azienda, quale seguito degli incontri intercorsi con i vostri inviati, ritiene opportuno precisare quanto segue: - in data 4 e 9 marzo sono stati definiti accordi per la fornitura di mascherine tre veli tipo chirurgico/surgery, di importazione extra europea, ai sensi del D.L. 2 marzo 2020 art.34, testo al cui interno non era prevista la distinzione tra mascherina tipo chirurgico quale dispositivo medico e mascherina chirurgica quale dispositivo generico filtrante; - in data 11 marzo, a mezzo istanza presentata brevi manu presso la sede operativa del Dipartimento della Protezione Civile, Winner Italia ha presentato e consegnato i campioni ed i test report delle mascherine ai fini delle opportune valutazioni da effettuarsi sulla sicurezza del prodotto; - in data 16 marzo Winner Italia precisava, a mezzo mail, che il prodotto che sarebbe stato fornito al Dipartimento della Protezione Civile non era classificabile, in base alla normativa vigente, come un dispositivo medico, né tanto meno che presentava marcatura CE; - successivamente all’emanazione del D.L. 17 marzo 2020, il prodotto è stato, nei fatti, importato e sdoganato come dispositivo meramente “filtrante”, non idoneo per uso sanitario (come peraltro indicato sulle confezioni); - al fine di poterlo utilizzare, altresì, anche come dispositivo medico, è stata avanzata in data 26 marzo 2020 richiesta di validazione ai sensi del D.L. 17 marzo all’Istituto Superiore di Sanità, il quale, in data 27 aprile 2020, rispondeva che il dispositivo risulterebbe esser già munito di certificazione CE e quindi non assoggettabile alla procedura di cui al succitato D.L. 17 marzo 2020; Per quanto tutto sopra riportato, auspichiamo di aver chiarito tutti i dubbi. Cordiali saluti.

“Only Italia” e Irene Pivetti: spuntano altri creditori? Le Iene News il 19 maggio 2020. Luigi Pelazza torna a parlarci del business cinese dell’ex presidente della Camera, intervistando altri imprenditori che aspetterebbero di essere pagati per beni e servizi commissionati da Irene Pivetti. Qualche giorno fa Luigi Pelazza ci ha raccontato di alcune vicende che coinvolgerebbero Irene Pivetti, ex presidente della Camera e presentatrice tv. La sua società Only Italia avrebbe importato dalla Cina 15 milioni di mascherine che, secondo le primi ipotesi degli inquirenti, sarebbero non certificate. Lei, anche parlando con noi, aveva respinto ogni accusa: “Il fornitore mi aveva detto che c’è un certificato, se non c’è. sono parte lesa”. Torniamo sugli affari tra Italia e Cina dell’ex onorevole, in questo nuovo servizio di Luigi Pelazza. La Iena incontra altri imprenditori, che avrebbero avuto a che fare con Irene Pivetti. "Ogni 15 giorni andava in Cina dove aveva agganci con politici locali che le davano l'opportunità di fare tante cose in tutti i settori", racconta un imprenditore. La Pivetti, stando alle testimonianze raccolte, avrebbe avuto un gruppo di clienti cinesi desiderosi di comprare il made in Italy. E così era successo che altri imprenditori italiani avevano fornito la merce per un business edilizio: 400mila euro di piastrelle, spese di trasporto della merce fino al treno (20mila euro) e anche il treno stesso (altri 20mila euro). Ma di quel convoglio partito da Milano con 40 container di merce, riferiscono a Luigi Pelazza, si sarebbero subito perse le tracce. Irene Pivetti, raccontano quegli stessi imprenditori, non si sarebbe fatta trovare, prima di spiegare che c'erano problemi con i clienti, che questi erano spariti. E così, stando all'ex onorevole, ora questi imprenditori italiani non possono neanche pretendere il pagamento delle fatture per la merce anticipata, in quanto nel contratto sarebbero indicati come “partner”. Ma in quello stesso contratto però era chiaramente indicato che il “Leader partner”, ovvero la Pivetti, si impegnava a rimborsare il partner da ogni costo, spesa e responsabilità. La Pivetti, in risposta alle fatture con richiesta di pagamento inviate dagli imprenditori partner, avrebbe mandato a sua volta altre fatture, in quella che lei stessa definisce "una rappresaglia". "Sono fatture che non hanno alcun valore esattamente come non ce l'hanno le loro", ha spiegato a Luigi Pelazza. “Filibustieri”, li definisce. A stupire gli imprenditori era stato anche il fatto che la società con cui la Pivetti gestisce questi business, di italiano, avrebbe davvero poco, appena il 2% di quote. Dopo la messa in onda di questo primo servizio, abbiamo scoperto una cosa molto particolare. Da quella sede faraonica a Milano, dove l’ex onorevole aveva incontrato Andrea, uno degli imprenditori con cui avevamo parlato, la società sarebbe stata sfrattata. L’edificio su cui erano cadute le mire della Pivetti dal 2017, come racconta un agente immobiliare, doveva diventare “uno showroom di esposizione, dove incontrare imprenditori cinesi, uno spazio importante per un canone di circa 40mila euro. Al mese”. L’agente racconta di essere stato estromesso dall’affare, che gli avrebbe fruttato una provvigione di 48mila euro. E spiega: “Contattano direttamente la proprietà e poi ci dicono che della nostra presenza non ritengono di doverci nulla. Per legge avrebbe dovuto corrispondere le provvigioni. Era amichevole, mai ci saremmo aspettati un comportamento del genere”. Ma neanche lo stesso proprietario dell’immobile si può dire contento: ”Abbiamo dovuto darle sfatto e siamo riusciti a mandarla via”. Il proprietario infatti, visto l’importo elevato dell’affitto, avrebbe chiesto una fidejussione, ovvero una garanzia economica esterna, per un importo di circa 480mila euro. La Pivetti, sostiene l’avvocato del proprietario, vista la fretta di entrare avrebbe intanto bonificato un deposito cauzionale corrispondente a tre mesi d’affitto, 120mila euro. Il giorno della consegna dell’immobile il proprietario dello spazio porta le chiavi ma l’ex onorevole avrebbe dimenticato di fare il bonifico e a quell’ora, viste le disposizioni della banca di San Marino, sarebbe stato impossibile inviare una richiesta formale. I clienti, che di fronte si trovano l’ex presidente della Camera, si fidano, tanto si tratta solo di attendere il giorno dopo. Ma invece, giorno dopo giorno, raccontano, sarebbero continuate ad arrivare solo giustificazioni. “È stata morosa dal 1° luglio 2018 al 1 febbraio 2020, per una cifra di circa 200mila euro”, sostiene l’avvocato della proprietà immobiliare. Ma quando arriva la richiesta di sfratto, la Pivetti avrebbe risposto di voler mettere a disposizione il suo know how, il suo piano industriale, per compensazione della morosità maturata. Due mesi fa l’immobile viene riconsegnato e al suo interno vengono trovati beni di proprietà di altri imprenditori. Come Bernardo, che aveva in magazzino uno stock di abiti, da vendere in Cina, per un controvalore di 2 milioni di euro. “La merce andrebbe spostata in Cina", gli sarebbe stato detto dall’ex onorevole, "e qui mi viene proposta una garanzia cinese in base alla quale mi sarebbe stata pagata dopo essere stata venduta. La merce dovevo spostarla a spese mie, con dei container, in treno. Ho detto non se ne parla proprio”, racconta ancora l’uomo. L’ex onorevole, spiega ancora Bernardo, si sarebbe poi interessata alle sua scarpe, volendo fare una linea dedicata, con la sua firma. Bernardo ci mostra la scatola già pronta e griffata. Da li inizia una richiesta di campioni, che Bernardo affida a un giovane designer, che compra i materiali a sue spese. Qualcosa però sembra non tornargli, perché il numero di modelli richiesti, una trentina, gli sembra francamente elevato. Spiega il designer, Lorenzo: ”Mi sembrava una cosa assurda, poi dopo mi chiedevano delle ciabatte dipinte a mano...”. Lorenzo è comunque pronto a mandare i primi campioni di scarpe griffate “Irene Pivetti” ma prima di spedirle chiede di rientrare di una parte dei suoi costi, circa 10mila euro. “Li si tirano indietro tutti, dicendo che loro non pagavano la collezione”. Intanto la collezione di scarpe di Bernardo è pronta e si va all’evento per celebrare, ma lì, racconta ancora l’uomo, nessuno sembra intenzionato a parlare di soldi. Bernardo racconta non solo di aver rimesso i soldi per le scatole e gli spostamenti , ma anche quelli per una collaboratrice della stessa Pivetti, che a suo dire non sarebbe stata da lei mai pagata. ”Oltre 15mila euro”. Anche Gianluca, ex elettricista della mega sede della Only Italia, ha una storia da raccontare: “L’ex onorevole ci ha contattato il venerdì sera per fare un bar, pronto per sabato pomeriggio. Ho mandato un mio aiuto chiedendogli di farsi fare prima un preventivo, lui non ha mai preso una lira. Parliamo di 1.300 euro.“ Un’altra persona, un titolare di un call center a cui la Pivetti avrebbe subaffittato alcuni spazi di quella sua immensa sede, racconta di un giorno in cui una delegazione cinese, in sala riunioni, parlava al buio alla luce di candele. “Visto che devo garantire un servizio ai miei clienti il giorno dopo mi son fatto dare le bollette non pagate e ho pagato. E questo anche per il gas: circa 30mila euro”, racconta a Luigi Pelazza. Chiediamo per telefono un nuovo incontro all’ex onorevole e lei, dopo una risata, spiega di non avere nessuna intenzione di parlarci. “Non ho voglia di comparire nel vostro programma mai più, non ritengo siate stati corretti la volta scorsa. Non ho intenzione di rilasciare altre interviste”. Riusciamo poi a intercettarla di persona, per strada, ma continua a negare le circostanze che ci sono state raccontate da tutti questi imprenditori e lavoratori. I proprietari dell’ex sede della sua azienda, intanto, come ci riferiscono, hanno deciso di intraprendere iniziative querelatorie contro di lei, ipotizzando la truffa e l’insolvenza fraudolenta.

(ANSA il 9 giugno 2020) - E' indagata per riciclaggio Irene Pivetti, assieme ad altre cinque persone, nell'inchiesta milanese che oggi ha portato la Guardia di Finanza a perquisire la sua abitazione a Milano e alcune sue società. L'indagine vede al centro operazioni di import-export con la Cina da parte di società riconducibili all'ex presidente della Camera. La Gdf di Milano sta effettuando perquisizioni nell'abitazione di Irene Pivetti e nelle sedi di alcune società a lei riconducibili nell'ambito di un'inchiesta per riciclaggio. L'indagine, condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf milanese, è in corso da tempo e non è legata alle vicende giudiziarie che hanno coinvolto l'ex presidente della Camera sull'importazione di mascherine. L'inchiesta per riciclaggio su Pivetti e alcune sue società è coordinata dal pm Giovanni Tarzia e non riguarda l'emergenza Covid. Il fascicolo è aperto da tempo in Procura a Milano e oggi sono state effettuate perquisizioni e acquisizioni di documenti. Nei giorni scorsi, invece, la Procura di Roma ha inviato ai colleghi di Milano per competenza territoriale l'indagine avviata nelle scorse settimane sulla società 'Only Logistics Italia', amministrata dall'ex presidente della Camera ed ex esponente leghista. Il procedimento, in cui si procede per il reato di frode nelle pubbliche forniture, riguarda una partita di dispositivi di protezione individuale commissionata nell'ambito dell'emergenza coronavirus. I magistrati di piazzale Clodio, il 29 aprile scorso, avevano effettuato una serie di acquisizioni documentali nella sede della Protezione Civile e in particolare sui contratti di fornitura stipulati con la società. Sulla società della Pivetti per il caso mascherine sono state avviate indagini anche a Savona e Siracusa, mentre a Roma ha aperto un procedimento anche della Corte dei Conti.

Import-export con la Cina: Irene Pivetti indagata per riciclaggio. Le Iene News il 09 giugno 2020. Con Luigi Pelazza vi avevamo raccontato i numerosi affari con la Cina gestiti dalle società dell’ex presidente della Camera Irene Pivetti e le contestazioni che le muovevano diversi fornitori, su fatture e canoni di affitto non pagati. Ora a Milano è in corso un’indagine con l’accusa di riciclaggio, che ha portato la Finanza a perquisire casa e uffici dell’ex onorevole. Riciclaggio: è l’accusa mossa all’ex presidente della Camera, Irene Pivetti e ad altre cinque persone. L'inchiesta di Milano,  guidata dal pm Giovanni Tarzia, riguarda operazioni di import-export con la Cina fatte da alcune società riconducibili alla Pivetti, come vi avevamo raccontato in due servizi di Luigi Pelazza (il primo lo potete rivedere qui sopra). La Guardia di Finanza ha appena eseguito, all’interno di questa indagine, la perquisizione della sua casa milanese e degli uffici di alcune sue società. Qualche giorno fa invece era stata la procura di Roma a mandare a Milano le carte dell’indagine sulla sua società Only Logistics Italia, aperta con l’ipotesi di frode nelle pubbliche forniture, per una partita di presunte mascherine irregolari legata all’emergenza Covid-19, come vi avevamo detto anche con Luigi Pelazza. In questo articolo, qualche giorno fa,  vi avevamo raccontato che, dopo i due servizi di Luigi Pelazza, erano intanto arrivati altri guai per l’ex presidente della Camera, con la società di autotrasporti Metella Logistics di Parma che l’aveva accusata di truffa per presunte fatture non pagate e consulenze false e di diffamazione a mezzo stampa per quanto lei aveva dichiarato durante il primo dei nostri due servizi. La denuncia era arrivata tramite lo studio Pagliani-Tarquin come legale legale rappresentante della Only Italia Tech and Trade Sp.Zoo con sede in Polonia. Una denuncia che chiede di indagare, sempre secondo quanto riporta l'Ansa, per reati che vanno dalla truffa aggravata all'insolvenza fraudolenta e viene ipotizzata anche la diffamazione a mezzo stampa, "realizzata durante la puntata del 5 maggio nella trasmissione tv 'Le Iene'" nel servizio che potete vedere qui sopra, verso l'amministratore unico della Metella Logistics, l’azienda di Andrea di cui parliamo nel servizio. La Metella Logistics, parla di presunti "evidenti falsificazioni e raggiri condotti dalla signora Pivetti" nel rapporto commerciale tra Only Italia Tech e Metella Logistics, "regolato da un apposito contratto" che avrebbe portato l'azienda Metella "a subire un rilevante danno economico". Il danno sarebbe "consistito nel mancato pagamento di fatture per 20.700 euro” e nel “ricevere dalla stessa Only Italia Tech una fattura per 50mila euro relativa a prestazioni di consulenza inesistenti", in quanto, "come dichiarato dalla stessa Pivetti a Le Iene emessa per prestazioni non dovute al solo scopo di 'rappresaglia'".

IL PRIMO SERVIZIO. In questo primo servizio di Luigi Pelazza del 5 maggio su Irene Pivetti abbiamo parlato appunto con Andrea della Metella Logistics. La sua azienda, come ci racconta si occupa da 50 anni di trasporti in tutto il mondo: “La Pivetti aveva acquisito una licenza per un treno dall’Italia per la Cina che non aveva nessuno, da Milano attraverso la Polonia e la Bielorussia”. Sembrava conveniente rispetto ai 50 giorni che servono per trasportare container via nave. Siamo nel settembre 2018. Andrea racconta di aver incontrato Irene Pivetti a Milano: firmano un contratto, gli viene suggerito di avvalersi di un operatore ferroviario austriaco. Vengono spediti 40 container con 400mila euro di piastrelle. L’affare però non sarebbe andato a buon fine per mancanza di acquirenti. Andrea, dopo più solleciti, le fattura circa 20mila euro. Gli arriva una “contro fattura” da 50mila. La Only Italia di Irene Pivetti ha sedi anche in Polonia e a San Marino, società che visitate dall’inviato sembrano essere, a oggi, senza personale. Andrea telefona ora di nuovo, davanti al nostro Luigi Pelazza, a Irene Pivetti. Concordano un appuntamento a Milano: Andrea chiede il pagamento delle spese sostenute. “Ciascuno si tiene le sue perdite” gli replica l’imprenditrice e il contratto tra le parti, effettivamente, è molto ambiguo. Intanto altri affari in Cina, puntando sul Made in Italy per Irene Pivetti invece andrebbero bene. Arriva la proposta: “Se lei resta interessato al treno, io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo perché adesso han chiusi i voli. Io ho già scritto: ‘Caro distretto di Qingbaijiang, visto che i voli non vengono, ti mando treni di mascherine e di materiale sanitario…’ Se lei ha piacere di tornare in gioco, io sono contenta”. Questo incontro avviene il 28 febbraio 2020, quando l’infezione stava per partire per tutti. Pivetti dice: “Sì, sì, stiamo correndo come matti perché questa emergenza del virus ci ha fatto cambiare mestiere in un certo senso. Ci siamo dovuti buttare tutti su questa faccenda qui che per carità, devo dire, è anche molto interessante dal punto di vista economico”. “Per le cose che servono per l’emergenza?”, chiede Andrea. “Sì, esattamente. Non è male visto che tutto il resto dell’attività è ovviamente sospeso fino a nuovo ordine”, gli risponde Irene Pivetti. Queste frasi sembrano stridere con quello che dice in tv: “Noi stiamo facendo in forma volontaria, con le persone attorno alla nostra azienda, un supporto alla Protezione civile esattamente per acquisire mascherine sui mercati internazionali”. Insomma: si tratta di un business, seppur legittimo, o di volontariato? “Questa parte medica è stata un po’ una scoperta” dice Irene Pivetti ad Andrea. “Penso di mantenerlo come un settore permanente così da poter rifornire l’Europa… Credo che sarà ‘un mondo’ perché quello che mi aspetto dopo questo virus è che ci sia una crescita proprio in questi settori…”. “…Deve essere anche un bel business insomma…”, interviene Andrea. “Esattamente, sì”, risponde Pivetti. Nessuna condanna, è il lavoro di un imprenditore. “La Protezione civile italiana ci ha chiesto delle cose… vediamo un po’”, prosegue l’imprenditrice con Andrea, “se le prendono io sono molto contenta…”. “Io aggiungo… non so… 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine”. Moltiplicandolo per le 15 milioni di mascherine richieste a Irene Pivetti dalla Protezione civile verrebbe un guadagno di 2 milioni e 250 mila euro. Una cifra difficile da accompagnare alla parola “volontariato”. E Andrea? “Trovo estremamente scorretto aver mischiato una vicenda di business che nulla c’entra con l’emergenza del coronavirus”, ci dice Irene Pivetti, che dà la propria versione di quanto accaduto con il treno delle piastrelle. E lo scandalo mascherine? “Abbiamo ricevuto un prodotto sulla carta molto buono. Dentro alcuni di questi cartoni c’erano delle confezioni non conformi. Quando mi hanno contestato dicendo che questo marchio non è regolare. Dico, ma queste non sono mica mie… erano le mie… Qualcuno là le ha scambiate. Io infatti ho contestato la partita”. Le indagini chiariranno se ha ragione o meno. A noi rimane una domanda: ci ha guadagnato oppure no? “Sulla Protezione civile io non guadagno, copro i costi”. E quando ha detto ad Andrea? “Io aggiungo non so 15 centesimi per prodotto, giusto per avere un margine” o “io adesso le dico con un certo cinismo che volevo sfruttare il coronavirus anche per questo”.

IL SECONDO SERVIZIO. Nel secondo servizio del 19 maggio siamo tornati a parlare degli affari tra Italia e Cina dell’ex onorevole.  In questo nuovo servizio, Luigi Pelazza incontra altri imprenditori che avrebbero avuto a che fare con Irene Pivetti. "Ogni 15 giorni andava in Cina dove aveva agganci con politici locali che le davano l'opportunità di fare tante cose in tutti i settori", racconta un imprenditore. La Pivetti, stando alle testimonianze raccolte, avrebbe avuto un gruppo di clienti cinesi desiderosi di comprare il made in Italy. Dopo la messa in onda del primo servizio, abbiamo scoperto una cosa molto particolare. Dalla sede faraonica a Milano, dove l’ex onorevole aveva incontrato Andrea, uno degli imprenditori con cui avevamo parlato, la società sarebbe stata sfrattata. L’edificio su cui erano cadute le mire della Pivetti dal 2017, come racconta un agente immobiliare, doveva diventare “uno showroom di esposizione, dove incontrare imprenditori cinesi, uno spazio importante per un canone di circa 40mila euro. Al mese”. L’agente racconta di essere stato estromesso dall’affare, che gli avrebbe fruttato una provvigione di 48mila euro. E spiega: “Contattano direttamente la proprietà e poi ci dicono che della nostra presenza non ritengono di doverci nulla. Per legge avrebbe dovuto corrispondere le provvigioni. Era amichevole, mai ci saremmo aspettati un comportamento del genere”. Ma neanche lo stesso proprietario dell’immobile si dice contento: ”Abbiamo dovuto darle sfatto e siamo riusciti a mandarla via”. Il proprietario infatti, visto l’importo elevato dell’affitto, avrebbe chiesto una fidejussione, ovvero una garanzia economica esterna, per un importo di circa 480mila euro. La Pivetti, sostiene l’avvocato del proprietario, vista la fretta di entrare avrebbe intanto bonificato un deposito cauzionale corrispondente a tre mesi d’affitto, 120mila euro. Il giorno della consegna dell’immobile il proprietario dello spazio porta le chiavi ma l’ex onorevole avrebbe dimenticato di fare il bonifico e a quell’ora, viste le disposizioni della banca di San Marino, sarebbe stato impossibile inviare una richiesta formale. I clienti, che di fronte si trovano l’ex presidente della Camera, si fidano, tanto si tratta solo di attendere il giorno dopo. Ma invece, giorno dopo giorno, raccontano, sarebbero continuate ad arrivare solo giustificazioni. “È stata morosa dall'1 luglio 2018 all'1 febbraio 2020, per una cifra di circa 200mila euro”, sostiene l’avvocato della proprietà immobiliare. Ma quando arriva la richiesta di sfratto, la Pivetti avrebbe risposto di voler mettere a disposizione il suo know how, il suo piano industriale, per compensazione della morosità maturata. Due mesi fa l’immobile viene riconsegnato e al suo interno vengono trovati beni di proprietà di altri imprenditori. Bernardo avrebbe avuto in magazzino uno stock di abiti, da vendere in Cina, per un controvalore di 2 milioni di euro. “La merce andrebbe spostata in Cina", gli sarebbe stato detto dall’ex onorevole. "E qui mi viene proposta una garanzia cinese in base alla quale mi sarebbe stata pagata dopo essere stata venduta. La merce dovevo spostarla a spese mie, con dei container, in treno. Ho detto non se ne parla proprio”, racconta ancora l’uomo. L’ex onorevole, sostiene ancora Bernardo, si sarebbe poi interessata alle sue scarpe, volendo fare una linea dedicata con la sua firma. Bernardo ci mostra la scatola già pronta e griffata. Da li inizia una richiesta di campioni, che Bernardo affida a un giovane designer, che compra i materiali a sue spese. Qualcosa però sembra non tornargli, perché il numero di modelli richiesti, una trentina, gli sembra francamente elevato. Spiega il designer, Lorenzo: ”Mi sembrava una cosa assurda, poi dopo mi chiedevano delle ciabatte dipinte a mano...”. Lorenzo è comunque pronto a mandare i primi campioni di scarpe griffate “Irene Pivetti” ma prima di spedirle chiede di rientrare di una parte dei suoi costi, circa 10mila euro. “Li si tirano indietro tutti, dicendo che loro non pagavano la collezione”. Intanto la collezione di scarpe di Bernardo è pronta e si va all’evento per celebrare, ma lì, racconta ancora l’uomo, nessuno sembra intenzionato a parlare di soldi. Bernardo racconta non solo di aver rimesso i soldi per le scatole e gli spostamenti, ma anche quelli per una collaboratrice della stessa Pivetti, che a suo dire non sarebbe stata da lei mai pagata. ”Oltre 15mila euro”. Anche Gianluca, ex elettricista della mega sede della Only Italia, ha una storia da raccontare: “L’ex onorevole ci ha contattato il venerdì sera per fare un bar, pronto per sabato pomeriggio. Ho mandato un mio aiuto chiedendogli di farsi fare prima un preventivo, lui non ha mai preso una lira. Parliamo di 1.300 euro.“ Un’altra persona, un titolare di un call center a cui la Pivetti avrebbe subaffittato alcuni spazi di quella sua immensa sede, racconta di un giorno in cui una delegazione cinese, in sala riunioni, parlava al buio alla luce di candele. “Visto che devo garantire un servizio ai miei clienti il giorno dopo mi son fatto dare le bollette non pagate e ho pagato. E questo anche per il gas: circa 30mila euro”, racconta a Luigi Pelazza. Chiediamo per telefono un nuovo incontro all’ex onorevole e lei, dopo una risata, spiega di non avere nessuna intenzione di parlarci. “Non ho voglia di comparire nel vostro programma mai più, non ritengo siate stati corretti la volta scorsa. Non ho intenzione di rilasciare altre interviste”. Riusciamo poi a intercettarla di persona, per strada, ma continua a negare le circostanze che ci sono state raccontate da tutti questi imprenditori e lavoratori. I proprietari dell’ex sede della sua azienda, intanto, come ci riferiscono, hanno deciso di intraprendere iniziative querelatorie contro di lei, ipotizzando la truffa e l’insolvenza fraudolenta.

Coronavirus, la procura di Milano indaga sulle mascherine pannolino. Le Iene News il  3 maggio 2020. Le ipotesi di reato sono truffa e frode, ma la regione Lombardia si difende: “Sono state autorizzate dall’Iss”. Noi de Le Iene vi abbiamo parlato di questo caso nel servizio di Alice Martinelli. La procura di Milano indaga sulle mascherine pannolino ordinate dalla Lombardia. L’obiettivo dei pm è verificare i costi, l’idoneità e l'aggiudicazione della fornitura di quelle mascherine, prodotte da un’azienda di pannolini di Rho su commissione della regione. Le ipotesi di reato sono truffa e frode. L’indagine parte da un esposto presentato  dai Cobas, che tra le altre cose contestano l’inidoneità e la pericolosità di quelle mascherine, denunciata da operatori sanitari ma perfino da interi ospedali. Un problema che vi abbiamo raccontato anche noi de Le Iene, nel servizio di Alice Martinelli che potete vedere qui sopra. La Iena è andata a parlare con alcuni degli operatori sanitari che stanno combattendo contro il coronavirus e la loro posizione è chiara: sono impossibili da usare. Come mostra Alice Martinelli, le mascherine pannolino sono scomode, scivolano sotto il naso e fanno un caldo tremendo. “Essendo inutilizzabili abbiamo dovuto cestinarle“, ci dice Andrea, infermiere in una rsa e membro del sindacato Adl Cobas. “Per esempio non ha le morsette per stringerla intorno al naso e dovremmo toccarla continuamente con guanti potenzialmente infetti”. Ora però dicono che ce ne sia un secondo modello, più stabile e con le orecchie scoperte: “Me lo stai dicendo tu, noi non abbiamo più visto nulla”. E c’è un altro problema: “Non sappiamo che tipo di protezione danno”. Problemi che ci denuncia anche Davide, soccorritore del 118 dello stesso sindacato: “Noi dovremmo tenerla su 8, 10 o 12 ore: è troppo opprimente, è come avere un pannolino sulla faccia. La maggior parte degli ospedali comincia addirittura a rifiutarle”. La Iena a quel punto è andata a parlare anche con l’assessore all'Ambiente lombardo Raffaele Cattaneo. “Questa è una mascherina chirurgica”, ci spiega. “Quello che dovrebbe interessare chi indossa una mascherina è che sia veramente protettiva. L’alternativa sarebbe stata non avere sufficienti dispositivi di protezione per chi lavora”. Dopo la notizia dell’apertura dell’indagine, la regione Lombardia in una nota ha fatto sapere che quelle “mascherine sono state, per diverso tempo, le uniche autorizzate dall'Istituto superiore della sanità e sono state regolarmente acquistate dalla nostra 'Centrale acquisti' solo dopo l'autorizzazione dell'Iss e in carenza di altre mascherine disponibili”.

 (ANSA il 2 maggio 2020) - Mascherine, prodotti igienizzanti e termometri ottici non conformi alla normativa, circa 520 mila pezzi, sono stati sequestrati da Finanzieri del Comando Provinciale di Roma. Otto persone sono state denunciate alla Procura della Repubblica di Roma per i reati di frode in commercio, ricettazione e vendita di prodotti contraffatti. Oltre 420 mila confezioni di prodotti igienizzanti nella cui etichetta erano riportate proprietà disinfettanti - sebbene mancasse la prescritta autorizzazione del Ministero della Salute - sono state sequestrate dalle Fiamme Gialle del 3° Nucleo Operativo Metropolitano nel corso delle ispezioni eseguite in rivendite della Capitale e in un opificio situato in provincia. Inoltre, più di 100 mila - tra mascherine protettive e termometri ottici con rilevamento a distanza non conformi alla normativa comunitaria e nazionale - sono state sequestrati in vari esercizi commerciali nel quartiere Prenestino. I dispositivi di protezione individuale, in particolare, avevano indebitamente il marchio CE, mentre, in altri casi, erano posti in commercio senza la prescritta autodichiarazione inviata all'Istituto Superiore di Sanità e all'Inail per l'attestazione delle caratteristiche tecniche e il rispetto dei requisiti di sicurezza, deroga consentita in via eccezionale dal Governo proprio per fronteggiare l'emergenza sanitaria in atto. Nel magazzino di una società riconducibile a un cittadino cinese i militari hanno anche trovato oltre 354.000 calzature con modelli e marchi contraffatti di note case di alta moda nazionali e straniere.

(ANSA il 2 maggio 2020) - Oltre 24.000 mascherine sulle quali era impresso il falso marchio "CE" e 5.000 confezioni di farmaci provenienti dalla Cina, spacciati come anti-coronavirus e privi di qualsiasi autorizzazione al commercio, sono state sequestrate nel quartiere di Ponticelli a Napoli dagli uomini del Comando provinciale della Guardia di Finanza. Una persona è stata denunciata. L'operazione dei Baschi Verdi è cominciata con un controllo su strada ed è proseguita con una perquisizione nell'abitazione di un 39enne di origine cinese; infatti, i finanzieri si erano insospettiti per le dichiarazioni contradditorie rese dall'uomo nel corso di uno dei controlli sugli spostamenti. I presidi medici, come detto, sono stati sequestrati e il responsabile è stato denunciato per commercializzazione abusiva di medicinali, vendita di prodotti con segni mendaci e ricettazione, oltre ad essere stato sanzionato e segnalato al prefetto che per lo spostamento senza valida giustificazione. Nel complesso, i finanzieri del Comando Provinciale di Napoli, impegnati a vigilare sull'osservanza delle misure previste per contenere la diffusione del Covid-2019, hanno sequestrato dall'inizio dell'emergenza oltre 730.000 tra mascherine e altri dispositivi di protezione sanzionando 41 responsabili, di cui 27 denunciati.

La Guardia di Finanza sequestra in tutt’ Italia mascherine e medicine illegali. Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2020. Le incessanti attività svolte dalle Fiamme Gialle costituiscono, ancora una volta, concreta testimonianza della quotidiana azione realizzata dalla Guardia di Finanza, unico organo di polizia giudiziaria ed economico-finanziaria a tutela dei consumatori e degli operatori onesti, nel perseguimento dell’obiettivo di contrasto ai comportamenti illegali e fraudolenti che sfruttano l’attuale emergenza sanitaria per conseguire indebiti profitti. Proseguono senza interruzione i controlli delle Fiamme Gialle in tutt’ Italia nell’ambito del piano predisposto per contrastare i comportamenti fraudolenti che sfruttano la pandemia da “Covid-19” per trarne profitto. L’attività rientra nel più ampio dispositivo messo in atto dal Comando Generale della Guardia di Finanza per la tutela della salute dei consumatori e la salvaguardia degli operatori economici rispettosi delle regole. I Finanzieri del 3° Nucleo Operativo Metropolitano del Comando Provinciale di Roma nel corso delle ispezioni eseguite presso rivendite della capitale e in un opificio situato in provincia hanno sequestrato oltre 420 mila confezioni di prodotti igienizzanti nella cui etichetta erano riportate proprietà disinfettanti – sebbene mancasse la prescritta autorizzazione del Ministero della Salute. Rinvenute e sequestrate in vari esercizi commerciali disseminati nel quartiere Prenestino, più di 100 mila – tra mascherine protettive e termometri ottici con rilevamento a distanza non conformi alla normativa comunitaria e nazionale. I dispositivi di protezione individuale, in particolare, recavano indebitamente il marchio CE, mentre, in altri casi, erano posti in commercio in difetto della prescritta autodichiarazione inviata all’Istituto Superiore di Sanità e all’I.N.A.I.L. per l’attestazione delle caratteristiche tecniche e il rispetto dei requisiti di sicurezza, deroga consentita in via eccezionale dal Governo proprio per fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto. Nel magazzino di una società riconducibile a un cittadino cinese i militari hanno anche rinvenuto oltre 354.000 calzature riproducenti i modelli e i marchi contraffatti di note case di alta moda nazionali e straniere. Otto persone sono state denunciate alla Procura della Repubblica di Roma per i reati di frode in commercio, ricettazione e vendita di prodotti contraffatti. Le Fiamme Gialle del Comando Provinciale di Modena, nell’ambito di due distinte operazioni volte al contrasto delle condotte fraudolente e delle pratiche commerciali sleali connesse all’emergenza epidemiologica COVID-19, hanno individuato mascherine di tipo “FFP2” e “CHIRURGICHE TRISTRATO” carenti dei prescritti requisiti di sicurezza, commercializzate in provincia e sull’intero territorio nazionale. La prima operazione, portata a termine dai finanzieri del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Modena, ha consentito di individuare e sequestrare, presso un’azienda con sede a Sassuolo, 132.800 mascherine non conformi ai prescritti requisiti di sicurezza in quanto sprovviste della marcatura CE ovvero delle certificazioni dell’Istituto Superiore di Sanità o dell’INAIL. La merce sequestrata, proveniente da un fornitore cinese, era infatti accompagnata unicamente da un “Certificate of Compliance”, documento non sufficiente ad attestarne la sicurezza. Nel secondo caso, invece, i finanzieri della Compagnia di Modena hanno riscontrato presso un’altra azienda con sede a Modena, invece, che i presidi sanitari, sempre di provenienza cinese, recavano la marcatura “CE” derivante dalla presentazione di un “certificato di conformità” rilasciato da una società non autorizzata a garantirne la genuinità, avente un nome molto simile a quello di un noto organismo certificatore, conosciuto a livello internazionale. Nella circostanza, le Fiamme Gialle, rilevando la frode nell’esercizio del commercio, hanno immediatamente sottoposto a sequestro 10.470 esemplari delle mascherine detenute presso il magazzino di una società modenese e presso una farmacia nonché, su delega della Procura della Repubblica di Modena , hanno provveduto al sequestro di ulteriori 13.884 pezzi presso gli acquirenti della merce, dislocati nelle provincie di Milano, Como, Trento, Reggio Emilia e Perugia. Gli ingenti sequestri operati hanno consentito di bloccare la diffusione di mascherine, asseritamente filtranti (mod. FFP2) e chirurgiche tristrato, aventi un valore commerciale stimato di oltre € 800.000, prive dei prescritti requisiti di sicurezza, che avrebbero esposto al rischio la salute degli ignari acquirenti. I titolari delle aziende coinvolte nelle due operazioni, responsabili dell’illecita commercializzazione dei presidi sanitari, sono stati deferiti alla locale Procura della Repubblica, a piede libero, per le ipotesi di reato di frode in commercio e nelle pubbliche forniture. Il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Napoli ha sequestrato nel quartiere Ponticelli oltre 24.000 mascherine sulle quali era impresso il falso marchio “CE” e 5.000 confezioni di farmaci provenienti dalla Cina, “spacciati” come anti-coronavirus e privi di qualsiasi autorizzazione al commercio. L’operazione dei Baschi Verdi ha avuto origine da un controllo su strada ed è proseguita con una perquisizione presso l’abitazione di un 39enne di origine cinese; infatti, i Baschi Verdi si erano insospettiti per le dichiarazioni contradditorie rese dal soggetto nel corso di uno dei controlli sugli spostamenti. I presidi medici sono stati sequestrati e il responsabile è stato denunciato all’Autorità Giudiziaria per commercializzazione abusiva di medicinali, vendita di prodotti con segni mendaci e ricettazione, oltre ad essere stato sanzionato e segnalato al Prefetto che per lo spostamento senza valida giustificazione. Nessun farmaco può essere commercializzato in Italia in assenza dell’autorizzazione dell’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, che esegue su ciascuno di essi delle valutazioni chimico – farmaceutiche, tossicologiche e biologiche, al fine di testarne l’efficacia e la non pericolosità. Nel complesso, i finanzieri del Comando Provinciale di Napoli, impegnati a vigilare sull’osservanza delle misure previste per contenere la diffusione del Covid-2019, hanno sequestrato dall’inizio dell’emergenza oltre 730.000 tra mascherine ed altri dispositivi di protezione sanzionando 41 responsabili, di cui 27 denunciati all’Autorità Giudiziaria. Le incessanti attività svolte dalle Fiamme Gialle costituiscono, ancora una volta, concreta testimonianza della quotidiana azione realizzata dalla Guardia di Finanza, unico organo di polizia giudiziaria ed economico-finanziaria a tutela dei consumatori e degli operatori onesti, nel perseguimento dell’obiettivo di contrasto ai comportamenti illegali e fraudolenti che sfruttano l’attuale emergenza sanitaria per conseguire indebiti profitti.

La Guardia di Finanza di Brindisi blocca una truffa sulle mascherine e sequestra oltre 700mila euro. Il Corriere del Giorno l'8 Aprile 2020. I prodotti pubblicizzati, attraverso il web sfruttando l’onda lunga dell’attuale continua imponente richiesta di dispositivi di protezione individuale, ,venivano falsamente proposti come “disponibili” e già pronti per la spedizione, previo pagamento anticipato del corrispettivo a mezzo bonifico bancario. Le perquisizioni locali ed acquisizioni telematiche, hanno permesso di acclarare alle Fiamme Gialle l’assoluta indisponibilità dei prodotti reclamizzati. I finanzieri della Compagnia di Francavilla Fontana (Brindisi) , nell’ambito dei servizi di polizia economico-finanziaria, predisposti dal Comando Provinciale di Brindisi guidato dal Colonnello Nicola Bia, per contrastare le condotte dei soliti  immancabili “furbetti” che cercando di approfittare dell’attuale situazione emergenziale dovuta  all’ emergenza Coronavirus ,  che  attuano pratiche anti-concorrenziali attraverso manovre speculative sui prezzi ovvero vende prodotti sanitari non conformi alle norme vigenti, hanno scoperto un piano truffaldino, nella fornitura di “mascherine FFP3”, perpetrato in danno di oltre 100 tra farmacie, parafarmacie, associazioni di volontariato operanti sull’intero territorio nazionale, in particolar modo nel bresciano. I prodotti pubblicizzati, attraverso il web sfruttando l’onda lunga dell’attuale continua imponente richiesta di dispositivi di protezione individuale, , venivano falsamente proposti come “disponibili” e già pronti per la spedizione, previo pagamento anticipato del corrispettivo a mezzo bonifico bancario. Dopo aver riscontrato le preliminari informazioni acquisite sul territorio e, all’esito della ricezione di una denuncia inoltrata da uno dei soggetti truffati, i responsabili delle condotte illecite ovvero il titolare di una ditta di Francavilla Fontana (BR) che opera nel commercio all’ingrosso di imballaggi unitamente a suo padre, sono stati segnalati all’ Autorità Giudiziaria  per il reato di truffa. Successivamente, la Procura della Repubblica di Brindisi ha disposto l’esecuzione di perquisizioni locali ed acquisizioni telematiche, che hanno permesso di acclarare l’assoluta indisponibilità dei prodotti reclamizzati, a fronte di ordini raccolti per circa 100.000 unità, con prezzi che oscillavano tra i 5,80 euro e 7,50 euro per ogni singola mascherina. Sono state, altresì, sottoposte a sequestro le somme relative a tutti i bonifici seguiti dalle vittime della truffa per un totale di oltre 700.000 euro.

Le indagini sono tuttora in corso considerando che potrebbero esserci altri soggetti economici tuttora in attesa della spedizione dei dispositivi ordinati e già pagati. La presente attività costituisce un’ulteriore testimonianza della costante attenzione rivolta dalla Guardia di Finanza di Brindisi, in un momento di particolare emergenza sanitaria ed economica dell’intero Paese, alla salvaguardia della salute dei cittadini ed alla tutela degli imprenditori onesti.

Per le mascherine l'Emilia-Romagna punta all'autarchia. Una nuova filiera ideata dall'assessorato alla Salute della Regione, la seconda più colpita dal Covid-19. Che mette insieme pubblico e aziende private, il distretto della moda di Carpi e il Tecnopolo Biomedicale di Mirandola. «Entro il 20 aprile contiamo di coprire metà del fabbisogno del personale sanitario». Emanuele Coen il 07 aprile 2020 su L'Espresso. Nel grande caos delle mascherine c'è un punto fermo, anzi due. Primo: ne servono tante, tantissime, decine di milioni al giorno, centinaia di milioni alla settimana, per soddisfare il fabbisogno del personale sanitario e dei cittadini. Già nella "fase uno", in cui ci troviamo, e a maggior ragione nella "fase due", quando arriverà. Secondo: l'Italia non è in grado da sola di produrre la quantità necessaria, neanche lontanamente. E infatti nelle farmacie sono introvabili o quasi, oppure vendute a prezzi stellari. E dunque siamo costretti a procurarcele altrove, soprattutto in Cina. Il commissario straordinario per l'emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, ha affermato che per le prossime settimane l'Italia potrà contare su 650 milioni di mascherine e nei prossimi giorni arriveranno 17 voli cargo con dispositivi di protezione individuale. Quanto alle aziende italiane hanno deciso di riconvertirsi alla produzione di mascherine grazie al decreto "Cura Italia" del 17 marzo , Arcuri ha sottolineato: «A ieri sera avevamo ricevuto 479 domande, 32 più di sabato; sono stati approvati i primi 36 investimenti per un totale di 16,3 milioni, ancora sabato scorso erano 30». Finora solo quaranta aziende hanno ottenuto l'autorizzazione dell'Istituto Superiore di Sanità. In questo grande caos la Regione Emilia-Romagna, seconda per numero di contagi dopo la Lombardia, fin dallo scoppio dell'emergenza ha costruito una filiera locale che punta a diventare autosufficiente, in cui ha coinvolto in maniera diretta otto aziende (alcune delle quali del distretto moda di Carpi), il Tecnopolo Biomedicale di Mirandola, l'Università di Bologna, alcuni laboratori, enti certificatori e Art-ER, la società consortile della Regione per lo sviluppo dell’innovazione e della conoscenza. Una sorta di "modello emiliano", forse replicabile altrove, di collaborazione tra sanità pubblica e imprese private per produrre mascherine chirurgiche, visiere, occhiali, camici, calzari, cuffie e altri dispositivi di protezione individuale destinati al personale delle aziende sanitarie e ospedaliere, ai medici di famiglia, alle strutture e alle residenze per disabili, anziani e malati psichiatrici. Un comparto che necessita di 350mila mascherine al giorno. «Entro il 20 aprile puntiamo a coprire la metà del nostro fabbisogno», dice Valentina Solfrini, responsabile dell'Area farmaci e dispositivi medici dell'assessorato alla Salute della Regione Emilia-Romagna. Medico specialista in Igiene, la dottoressa è in prima linea nella gestione della filiera. «Il progetto è nato dall’intuizione dell’assessore regionale alla Sanità, Raffaele Donini, e della dottoressa Kyriakoula Petropulacos, direttore generale cura della persona, salute e welfare. Erano arrivate mail, segnalazioni di sindaci e associazioni industriali, loro hanno pensato di offrire un supporto diretto e concreto alle imprese che intendevano riconvertirsi alla produzione di mascherine», aggiunge Solfrini, che si reca insieme a infermieri esperti negli stabilimenti, segue le aziende mentre mettono a punto materiali, prototipi e modificano i macchinari finora destinati ad altre produzioni, dispensa consigli durante il procedimento che conduce alla certificazione. Una delle otto aziende è la Nuova Sapi di San Donnino di Casalgrande (Reggio Emilia), da oltre quarant'anni nel campo della pulizia industriale, del food e del medicale. Grazie alla sinergia con gli attori pubblici e privati (tra cui Unindustria Reggio Emilia e Confindustria Emilia-Romagna), l'azienda si è riconvertita e ha messo a punto quasi un mese fa il primo esemplare di mascherina chirurgica composta da tre strati di tessuto non tessuto: quello esterno idrorepellente, quello più interno antibatterico, il terzo delicato e anallergico per evitare abrasioni sul volto di chi lo indossa. Per il confezionamento Nuova Sapi si affida ad altre imprese della zona. «Hanno già ottenuto le certificazioni e aspettano entro Pasqua il via libera dell'Istituto Superiore di Sanità. Fanno 100mila mascherine al giorno, ma l'obiettivo è aumentare gradualmente la produzione fino a 150mila», aggiunge Solfrini. Le aziende locali hanno ricevuto anche un vademecum per produrre secondo le prescrizioni del decreto "Cura Italia": in sostanza, chi intende avvalersi della deroga alle norme dovrà inviare all’Istituto Superiore di Sanità un’autocertificazione in cui dichiara le caratteristiche tecniche delle mascherine e che queste rispettano i requisiti di sicurezza della normativa vigente, così da poter avviare la produzione. Entro tre giorni le imprese devono trasmettere all’Iss ogni elemento utile per la validazione, l'Istituto si pronuncia entro i due giorni successivi: in caso di parere negativo il produttore deve cessare la produzione. «C'è un equivoco: molte aziende pensano che basti l'autocertificazione per cominciare a produrre, in realtà bisogna fare i test. Ovviamente si tratta di una procedura molto controllata: le mascherine dovranno essere testate e risultare conforme allo standard EN 14683, e allo standard ISO 10993 e dovranno essere prodotte da un’azienda che ha un sistema produttivo di qualità certificato», sottolinea Solfrini. In Emilia-Romagna, spiega, i laboratori in grado di testare e dichiarare la conformità di mascherine chirurgiche agli standard sono l’Università di Bologna e il Tecnopolo di Mirandola, «che hanno definito una procedura interna per rispondere in modo tempestivo alle richieste delle imprese compatibilmente con i tempi tecnici dei test". Perché non basta essere pronti a produrre, ma occorre rispettare gli standard di qualità. Ai blocchi di partenza c'è anche Staff Jersey, azienda del distretto moda di Carpi (780 imprese in provincia di Modena) che produce tessuti per lo sport e il lavoro. Potrebbe produrre a breve mascherine e camici idrorepellenti e lavabili, dopo aver modificato ad hoc tre macchinari. Il tipo di cotone individuato, un cotone puro al 100 per cento sterilizzabile, arriva dalla sua attività di ricerca e sviluppo, e sono pronte anche le aziende che confezionano abiti e maglieria, che operano nella catena della subfornitura o che producono propri marchi. Un progetto di filiera, una trentina di imprese finora, di cui tira le fila Carpi Fashion System. «Siamo stati molto rigorosi, fin da subito ho detto: "Ci sto, ma partirò appena ottenuta la certificazione"», dice dice Federico Poletti, uno dei tre soci fondatori di Staff Jersey: «Dopo il buon esito dei test, entro questa settimana contiamo di ricevere il via libera dell'Istituto Superiore di Sanità, per cominciare subito dopo Pasqua: all'inizio 50mila mascherine al giorno, poi aumenteremo e estenderemo ad altri prodotti utili a proteggere le persone in prima linea», aggiunge Poletti. Tra le altre cose, il personale sanitario ha bisogno di occhiali protettivi e visiere. Fanno parte della filiera anche Nannini Italian Quality (Reggio Emilia), produttore di maschere protettive da moto, e Raleri (Bologna), esperta nello sviluppo di materiali ottici innovativi ad alto contenuto tecnologico. «Intorno al 10 marzo abbiamo ricevuto una richiesta di fornitura di occhiali protettivi da parte del comando reggiano dei Vigili del Fuoco, dove scarseggiavano i materiali di protezione individuale», dice Alberto Gallinari, direttore commerciale e amministratore di Nannini, che collabora insieme a Raleri, alla Sanità regionale, Unindustria Reggio Emilia, Confindustria Emilia-Romagna e Tecnopolo di Mirandola: «Abbiamo riprogettato un prodotto già esistente: un occhiale da sport, adeguandolo alle nuove esigenze». Da qui nasce la collaborazione con Raleri, azienda del bolognese esperta nella produzione di occhiali protettivi per differenti ambiti di utilizzo, anche sportivi e visiere proteggi volto. Insieme hanno realizzato una visiera protettiva, progettata e sviluppata da Raleri, e un modello di occhiali protettivi derivati dal progetto Modular, già esistente in Nannini. «La Sanità regionale ci ha supportato e consigliato, devo dire al di sopra di ogni aspettativa. Dal canto nostro abbiamo reingegnerizzato alcuni progetti, investito su nuovi stampi e avviato la collaborazione con Raleri. Ogni giorno produciamo 1.500 visiere, puntiamo a 2.500 entro due settimane, oltre a 750 paia di occhiali di un tipo e 3.500 di un altro. Il primo obiettivo è offrire copertura al fabbisogno della Regione, poi faremo una donazione ai Vigili del Fuoco e all'ospedale di Reggio Emilia», aggiunge il direttore commerciale di Nannini. Mentre la filiera emilano-romagnola si rafforza, dalla Cina continua ad arrivare materiale sanitario acquistato dalla Regione Emilia-Romagna per far fronte all'emergenza Covid-19. Solo negli ultimi giorni tre aerei con centinaia di metri cubi di materiale destinato alla Protezione civile e alle aziende sanitarie. «Nel breve periodo ne abbiamo bisogno, e dobbiamo considerare che tutta la popolazione potrebbe doverle indossare. È possibile che si diventi indipendenti ma ci vorrà un po' di tempo, bisogna consolidare le nuove filiere e lavorare a renderle competitive», conclude Solfrini: «In ogni caso, questa esperienza ci insegna che esistono settori strategici che devono essere protetti, bisogna decidere che una quota di mercato deve essere dedicata al fabbisogno nazionale».

Roberto Burioni e Nicasio Mancini per medicalfacts.it il 6 aprile 2020. Mascherine sì, mascherine no, mascherine quando. Questi sono solo alcuni degli interrogativi che ruotano intorno a quello che, nel corso di questa epidemia, è diventato quasi un bene di prima necessità: le mascherine per l’appunto. Qual è il loro reale ruolo nel contenimento di questa pandemia. Hanno davvero la capacità di abbattere in modo drastico la trasmissione del virus? Se lo sono chiesti dei ricercatori di Hong Kong  e statunitensi che hanno valutato “sul campo” la reale efficacia di questi strumenti di prevenzione, focalizzandosi in particolar modo sulle cosiddette “mascherine chirurgiche”. Quelle più semplici, per intenderci.

Lo studio. Più precisamente, gli autori dello studio pubblicato su Nature Medicine hanno valutato la presenza di virus nelle goccioline di saliva di varia grandezza rilasciate nell’aria da pazienti affetti da diverse malattie respiratorie di origine virale. Fra i virus considerati, c’erano anche i coronavirus precedenti al SARS-CoV-2, responsabili di forme respiratorie decisamente meno gravi. Gli autori del lavoro hanno, soprattutto, valutato come la quantità di particelle virali emesse cambiava se il paziente indossava o meno la mascherina. È stato studiato un totale di 246 pazienti, di cui 124 pazienti con la mascherina e 122 che non la indossavano. In particolare, per avvicinarsi il più possibile a una situazione reale, a chi portava la mascherina era stato chiesto di indossarla autonomamente proprio per contemplare anche la possibilità di un suo errato posizionamento, e quindi di un suo errato utilizzo. Una variabile assolutamente cruciale nella vita reale.

I risultati. I risultati ottenuti hanno dimostrato differenze di efficacia a seconda del virus considerato. In particolare, per quel che riguarda i coronavirus (ripetiamo, non quello della pandemia, ma i coronavirus stagionali che circolavano in precedenze), lo studio ha dimostrato una particolare efficacia nel limitare la loro emissione nei pazienti che indossavano la mascherina. Chi la indossava, non emetteva il virus né nelle goccioline più grandi che in quelle più piccole, il cosiddetto aerosol. Al contrario, invece, un effetto molto inferiore è stato riscontrato per i virus influenzali e per altri virus responsabili del banale (in questo caso si può proprio dire) raffreddore (i cosiddetti rhinovirus). In particolar modo, questi virus erano riscontrabili nelle secrezioni più piccole anche in chi portava la mascherina. Probabilmente una buona notizia per quanto stiamo attualmente vivendo, ma attenzione alle generalizzazioni dirette.  Il limite principale di questo studio è, infatti, proprio legato al fatto che, pur includendo coronavirus, non studia pazienti affetti da COVID-19. Una generalizzazione assoluta per il SARS-CoV-2 non è quindi possibile. Nel complesso, quindi, lo studio descritto ribadisce l’importanza potenziale di indossare la mascherina, anche di quelle chirurgiche, per limitare le trasmissioni  A nostro parere, però, il vero messaggio dello studio è un altro. I limiti osservati dalle mascherine chirurgiche nel trattenete le goccioline più fini ribadisce, infatti, il concetto di come le misure più efficaci siano soprattutto quelle legate al mantenimento della distanza interpersonale. Solo così, mantenendo la giusta distanza, si può davvero essere sicuri dell’efficacia della mascherina che si sta indossando. 

Michele Bocci per “la Repubblica” il 6 aprile 2020. Alcune Regioni, come la Lombardia e la Toscana hanno deciso di renderle obbligatorie, altre le hanno imposte nei negozi e negli uffici. E neanche gli scienziati sono tutti d' accordo sulla loro utilità. Ma le mascherine chirurgiche servono davvero contro il coronavirus?

«Il loro utilizzo - dice Walter Ricciardi, consulente del ministero alla Salute - è finalizzato soprattutto ad evitare l' emissione di goccioline di saliva da parte delle persone. Indossare una mascherina al di fuori delle strutture sanitarie offre poca protezione dalle infezioni ma comunque può portare un beneficio. Tra l' altro è ormai chiaro che questi oggetti hanno un ruolo simbolico, sono non solo dispositivi medici ma talismani che possono contribuire ad aumentare il senso percepito di protezione nella popolazione». Per Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità «nei luoghi chiusi, dove può essere difficile mantenere le distanze sicuramente la mascherina aiuta. Resta comunque la fortissima raccomandazione al distanziamento fisico e al lavaggio delle mani. Per quanto riguarda la protezione delle vie aeree c' è una duplice valenza delle mascherine, sia quando siamo portatori di una patologia e potremmo diffondere intorno a noi le famose goccioline, (come potrebbe accadere alle persone positive che non sanno di esserlo), sia quando bisogna proteggersi da altre persone che possono veicolare la malattia. In questo senso nei luoghi confinati la mascherina aiuta a tutelarsi dal contagio».

Quando non c' è bisogno di usare la mascherina?

«Se si sta all' aria aperta e si mantiene una distanza sufficiente dalle altre persone non c' è bisogno di indossarla continuamente», spiega Massimo Andreoni, ordinario di Malattie infettive a Tor Vergata.

Sciarpe, foulard e altri indumenti proteggono dal virus?

Secondo Paolo D' Ancona dell' Istituto superiore di sanità «sono come le mascherine non chirurgiche, quelle non certificate usate ad esempio per l' inquinamento, che non hanno certificazione come dispositivo medico. Qualunque tessuto, qualunque forma di schermo che frappongo tra bocca ed esterno è chiaramente meglio di niente. E poi non sappiamo quanto è fitto quel tessuto, cosa filtra realmente o quanti giri si fanno fare alla sciarpa intorno al collo. In quel caso, in comunità può esserci una protezione ma non si può dire di che tipo». Andreoni aggiunge: «La mascherina ha una funzione meccanica e tutto ciò che riesce a svolgere una attività di filtro, magari un tessuto a trama molto, fine può fare comunque da barriera. Ovviamente la mascherina per come è fatta garantisce buona respirazione e grande filtraggio, cose che insieme i tessuti non assicurano sempre».

Quanti sono i tipi di mascherine?

Tre, due con uso professionale e una per uso in comunità. Le classiche mascherine chirurgiche sono dei dispositivi medici che proteggono dal droplet, cioè dalle goccioline che hanno una dimensione da 50 micron in su.

«Sono nate, come dice il nome, per non far infettare dal medico il paziente che viene operato - dice Paolo D' Ancona - Adesso però abbiamo a che fare con un virus che viene trasmesso attraverso delle goccioline, e così in un decreto le mascherine chirurgiche sono state indicate come dispositivi di protezione». A differenza di molti altri suoi colleghi poi D' Ancona è convinto che le chirurgiche «fungono da barriera e filtrano sia in entrata che in uscita. Non proteggono invece quando abbiamo a che fare con goccioline molto piccole cioè aerosol».

Quali sono i modelli utili per le particelle più piccole?

Quando si ha a che fare con gocce di 5 o 10 micron, che si sprigionano ad esempio durante alcune procedure mediche come le broncoscopie o alcuni tipi di ventilazione meccanica, entrano in gioco i filtri facciali. Indica questo la sigla ff, mentre p sta per protezione. Quindi parliamo di ffp2 o ffp3. In caso di aerosol, le prime proteggono almeno dal 92% delle particelle e le seconde, che aderiscono meglio proteggono almeno al 98%. Possono essere con o senza filtro. Se hanno il filtro l' operatore respira meglio grazie a una valvola che la espirazione. In quel caso, però, il filtro funziona solo in ingresso ma non in uscita quindi se chi le indossa è malato c' è un rischio che possa contagiare qualcuno. Del resto sono presidi nati per proteggere chi li indossa.

Ci sono rischi legati all' utilizzo delle mascherine chirurgiche?

«La discussione internazionale adesso riguarda anche il rischio che indossando la mascherina ci si senta troppo sicuri - dice D' Ancona- E poi in tanti la mettono molto male, non coprono il naso o il mento, non la fanno aderire al viso perché non la stringono abbastanza, oppure toccano la parte esterna, dove può annidarsi il virus. Bisogna ricordare poi che questi strumenti perdono il potere filtrante a causa dell' umidità prodotta dal respiro o dello sporco e quindi vanno usati solo per poche ore. Se si utilizzano per poco tempo, magari per fare la spesa, possono essere riposte ma è importante ripiegarle sempre in due mettendo all' interno la parte esterna, quella di solito colorata, per non rischiare contaminazioni».

Quanto costano le mascherine chirurgiche?

In farmacia e nei negozi si trovano a prezzi compresi tra 1,5 e 3 euro l' una, anche se la cifra varia in base alla quantità che se ne acquista. Le Regioni un tempo le compravano per gli ospedali a 3 centesimi l' una ma con l' epidemia il costo anche per il servizio pubblico è aumentato, arrivando a cifre comprese tra 1 e 2 euro.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020. Aerei carichi di mascherine N95 destinate alla Germania, «dirottati» verso gli Stati Uniti quando già stavano per decollare dalla Thailandia. Un carico di respiratori acquistati dalla Spagna bloccato in Turchia dalle autorità locali che si giustificano con l' urgenza di curare i loro malati. I brasiliani, poi, dicono che la Cina sta dando agli Usa carichi di materiale sanitario anti coronavirus destinati a loro. E, mentre il ministro dell' Interno tedesco, Andreas Geisel, accusa Washington di «moderna pirateria», Valérie Pécresse, la presidente dell' Ile-de-France, il distretto amministrativo che comprende anche Parigi, parla di «caccia al tesoro»: «Ho trovato una partita di mascherine. Mentre le stavo acquistando sono arrivati gli americani - non parlo del governo - che me lo hanno soffiato: hanno offerto il triplo del prezzo che avevo pattuito pagando subito in contanti. Io, che uso denaro pubblico, non posso farlo». Ma nemmeno la Francia è senza macchia: la società svizzera Mölnlycke ha accusato le autorità francesi di aver bloccato e requisito un suo carico di guanti e mascherine destinato a Italia e Spagna. Le notizie di sequestri e dirottamenti in transito di prodotti banali - guanti, maschere, camici - improvvisamente divenuti preziosissimi, si moltiplicano ovunque, a volte anche in modo confuso o poco comprensibile (non è chiaro perché del materiale destinato dalla Svizzera all' Italia debba passare dalla Francia). Ma una cosa è certa: l' emergenza Covid-19, esplosa contemporaneamente in tutto il mondo industrializzato, sta alimentando una guerra di tutti contro tutti a caccia di equipaggiamenti prodotti soprattutto in Cina. E, anche se si sono mossi in ritardo, in una battaglia da Far West gli americani giocano in casa. «Pirati noi? Macché, è il contrario» reagisce Donald Trump. «Sono io arrabbiato con la nostra 3M che continuava a fornire preziosi prodotti sanitari all' estero». La multinazionale Usa che vendeva prodotti realizzati nei suoi stabilimenti asiatici in Europa, Canada e America Latina (sue anche le mascherine dirottate in Thailandia) aveva inizialmente respinto le sollecitazioni del governo sostenendo che «se non onoriamo i contratti, l' America subirà rappresaglie dello stesso tipo». Venerdì Trump ha tagliato corto trasformando l' invito in ordine: ha «militarizzato» la 3M sulla base della legge sulla produzione in tempo di guerra. A nulla sono valse le proteste del premier canadese Trudeau e di altri. Intanto gli Usa si stanno anche riprendendo le ore di volo degli aerei da cargo Nato che avevano ceduto ad altri Paesi in difficoltà. Ieri è toccato anche a un volo dell' Italia (per la quale, però, gli Usa continuano ad avere un occhio di riguardo). L' America, col record dei contagiati e, ormai, anche dei nuovi decessi, è con l' acqua alla gola. Trump, accusato dagli Stati dell' Unione di non fare abbastanza per aiutare le città più esposte, ormai a corto di respiratori e dove in alcuni ospedali si sta pensando di usare sacchi della spazzatura al posto dei camici, ha cambiato registro anche nel rapporto con la Cina. Dopo il colloquio della scorsa settimana col presidente cinese Xi Jinping, è stato messo a punto un programma di invio di materiale dall' Asia: 22 aerei che raggiungeranno gli Stati Uniti, tra donazioni e forniture pagate. Un accordo informale tra le due diplomazie con alcune appendici «private» (Jack Ma di Alibaba che regala a New York mille respiratori). Il confronto strategico tra le due superpotenze rimane durissimo, ma il presidente Usa ha abbassato i toni della polemica: la coincidenza tra gli invii di materiale e la menzione dei «virus cinese» scomparsa delle esternazioni quotidiane di Trump non è casuale. La settimana scorsa il G-7 dei ministri degli Esteri non è riuscito ad approvare un comunicato congiunto perché Mike Pompeo voleva che fosse menzionato a tutti i costi il «virus Wuhan». Un irrigidimento che avrebbe sorpreso anche la Casa Bianca. Forse il segretario di Stato ha tardato a prendere atto del cambiamento di rotta del presidente.

La sporca guerra internazionale delle mascherine. Giorgio Savona su Il Dubbio il 6 aprile 2020. Trump blocca le esportazioni della 3M ed è accusato di “piratera” e Macron requisisce migliaia di mascherine destinate all’Italia. À la guerre comme à la guerre. E che fossimo in guerra, Macron l’ha ripetuto per ben sei volte il 16 marzo la sera in cui la Francia si chiudeva al resto del mondo. Ma che la guerra fosse anche una guerra di mascherine nessuno l’aveva previsto.

I francesi aspettano ancora i 65 milioni di mascherine ordinate ai produttori cinesi, la gran parte della quale non è mai arrivata. E puntano il dito contro gli Stati Uniti. Il perché lo spiega Jean Rottner medico e presidente del consiglio regionale del GrandEst , la regione francese più colpita dal virus.  In un’intervista alla radio nazionale RTL, Jean Rottner racconta che gli americani sono soliti trattare l’acquisto delle mascherine direttamente con i cinesi: “Arrivano direttamente negli aeroporti,  prima che le mascherine siano caricate sui cargo francesi e offrono da 3-4 volte il prezzo pagato dai francesi. Pagano subito e in contant”. Ma non sono solo i francesi ad accusare gli Stati Uniti.

Andreas Geisel, il ministro degli interni del Bundesland di Berlino accusa gli americani di “pirateria moderna” al tempo del coronavirus. Pare infatti che circa delle 200.000 mascherine FFP2 e FFP3 acquistate da Berlino e destinate  al personale sanitario non siano mai arrivate in Germania.  Geisel sostiene che gli americani se ne siano appropriati indebitamente sequestrando il carico a Bangkok trasferendolo su un altro aereo che non è mai arrivato a Berlino. Come nei miglior film hollywoodiani. L’accusa principale è quella di non rispettare le principali regole del commercio internazionale: “Questo non è il modo di trattare gli alleati. Anche in tempo di crisi globale non dovrebbero esserci metodi da far-west”.

Gli Stati Uniti negano di aver partecipato all’operazione. In realtà il problema sembra essere più ampio e complesso ed è difficile far risalire le colpe direttamente all’amministrazione di Washington dal punto di vista legale. Gli Stati Uniti si affidano a intermediari che hanno il compito di ricercare le mascherine nei vari posti del mondo e i metodi usati non sono certo quelli della diplomazia. Ma i problemi non sono solo tra americani ed europei. Anche i paesi dell’unione europea sembrano litigare sulle mascherine. E le scorrettezze non mancano.

L’ultima l’ha svelata il 1 aprile il settimanale francese L’Express e riguarda anche l’Italia. Tutto comincia il 5 marzo quando la Francia requisisce a Lione un grande stock di mascherine protettive. Le mascherine sono di proprietà di una società svedese la Mölnlycke,  un gigante dell’attrezzatura nel settore medico che rifornisce tutti i paesi europei. Sulla propria piattaforma logistica di Lione la società svedese sta preparando 4 milioni di mascherine da distribuire in Europa.  Di queste un milione sono destinate alla Francia ma il resto sono destinate alla Spagna e soprattutto all’Italia che in quel momento è il paese più colpito dal virus. Due giorni prima, il 3 marzo, il presidente francese Emmanuel Macron firma un decreto che permette al governo, come in tempo di guerra, di requisire tutti i prodotti e materiali medici che si trovano sul territorio francese. Le mascherine sono immediatamente sequestrate. In un primo tempo la Mölnlycke cerca di trovare una soluzione coinvolgendo anche il governo svedese ma la mediazione non porta i frutti sperati. L’Italia intanto alle prese con il virus non sembra avere la forza di opporsi. Dopo due settimane di negoziazioni e visto l’aggravarsi della situazione italiana, i francesi decidono di fare partire solo una parte delle mascherine. Richard Twomey presidente della Mölnlycke, dichiara alla radio svedese di trovarsi nell’impossibilità di far transitare qualsiasi equipaggiamento medico attraverso la Francia ”perché regolarmente bloccato e sequestrato.

”La Svezia rimane in silenzio per circa un mese fino al 3 aprile quando il commissario europeo agli Affari Interni, la svedese Ylva Johansson, in videoconferenza da Bruxelles accusa  il comportamento della Francia e lo definisce “inaccettabile”. Il ministro degli esteri Svedese a sua volta afferma che “la situazione è seria” e il comportamento della Francia avrà delle conseguenze, pretendendo una risposta immediata e una data precisa per la cessazione delle restrizioni. Finalmente sabato la situazione si sblocca all’ora di pranzo. Il capo della diplomazia svedese annuncia su Twitter che grazie alla pressione del governo svedese la Francia ha deciso di togliere le restrizioni all’export delle mascherine di protezione della Mölnlycke così da poter essere distribuite in tutta Europa.  I francesi accusati di antieuropeismo una volta interpellati sostengono di aver bloccato le mascherine per paura di vederle finire fuori dall’Unione Europea. E’ una piccola vittoria ma si è perso un mese.

Intanto dalle altre sponde dell’atlantico i due vicini Canada e Stati Uniti litigano come e più degli altri. Il tema è lo stesso, le mascherine.  Tutto comincia giovedì quando Trump ordina alla 3M, società che si trova in Minnesota, leader mondiale nella produzione di materiale sanitario, di fermare le esportazioni in Canada e in America Latina e di far ritirare tutte le mascherine che si trovano all’estero specialmente quelle degli hub asiatici.Il presidente canadese Trudeau minaccia ritorsioni. Fa notare a Trump che la collaborazione sanitaria non può che essere bilaterale, ricordando che migliaia di infermieri canadesi attraversano la frontiera ogni giorno per lavorare negli ospedali di Detroit. “Queste sono risorse su cui gli Americani fanno affidamento e sarebbe un errore creare dei blocchi o ridurre la quantità di beni e servizi, inclusi i prodotti medici che ogni giorno attraversano la frontiera”. Trump dal canto suo, dice di usare una legge di guerra il  Defence Production Act utilizzata ai tempi della guerra con la Corea. Su twitter aggiunge: “Oggi abbiamo colpito duramente la 3M avendo osservato l’uso che facevano delle mascherine. Nel governo molti sono sorpresi dal loro comportamento, gli faremo pagare un prezzo molto alto”. La società 3M fa sapere con un comunicato che ritiene la scelta sbagliata e che ci saranno gravi conseguenze dal punto di vista umanitario essendo loro i principali fornitori sia del Canada sia dell’ America Latina. Rispettare la decisione di Trump vuol dire far mancare gli strumenti minimi di sicurezza indispensabili per gli operatori sanitari nei paesi dove esportano. Nel comunicato aggiunge “In più se noi fermiamo l’esportazione di tutte le maschere prodotte negli Stati Uniti, probabilmente gli altri paesi faranno lo stesso con noi, con il risultato che le maschere disponibili negli Stati Uniti diminuiranno”. I canadesi accusano Washington di violare le regole del libero scambio, ma gli americani fanno notare che nelle regole dell’WTO l’organizzazione mondiale del commercio e nel trattato Nord Americano per il libero scambio, NAFTA, delle eccezioni temporanee sono previste nel caso un paese si dovesse trovare in una situazione estrema per mancanza di materiali ritenuti indispensabili alla difesa del paese.

Come diceva un politico francese al tempo di Bonaparte, Charles Lemesle “Si fanno regole per gli altri ed eccezioni per sé.” Ora il Canada e tutti i paesi dell’America Latina devono cercare altri fornitori. Ed ora che anche l’OMS dichiara l’utilizzo delle mascherine come necessarie per fermare il contagio, la domanda che tutti i paesi si fanno è: “Dove le prendiamo?”

Da leggo.it il 5 aprile 2020. C'è anche un imprenditore pregiudicato tra i vincitori delle gare Consip per la fornitura di mascherine. È quanto rivela un'inchiesta di Piazzapulita (in onda stasera su La7). «Fornirò presto mascherine all'Italia. Incensurato? No sono stato condannato», racconta Salvatore Micelli agli autori dell'inchiesta, Nello Trocchia e Sara Giudice. Micelli, ha ricostruito Piazzapulita, è «pregiudicato per calunnia, e, in un'altra vicenda giudiziaria, arrestato dalla guardia di finanza di Taranto nel 2018 per erogazioni pubbliche ricevute per imprese inesistenti e ora sotto inchiesta per associazione a delinquere e truffa aggravata ai danni dello Stato». La sua azienda ha tuttavia vinto una delle gare per la fornitura di mascherine: «Dovrò consegnarne 7 milioni», afferma l'imprenditore. «L'indagine? Mi difenderò nel merito». Sulle anticipazioni del programma Piazzapulita interviene Consip che, dopo aver premesso che «nessuno dei dispositivi di protezione individuale forniti da Consip alla Protezione Civile per l'emergenza Covid-19 rientra tra quelli oggetto delle contestazioni emerse sulla stampa nei giorni passati», fa alcune precisazioni. In primo luogo di aver «svolto procedure di urgenza di selezione dei fornitori garantendo, da un lato, la massima trasparenza (documentazione tutta disponibile sul sito consip.it), dall'altro, la celerità dell'azione, con aggiudicazione fatta in 3-4 giorni dalla pubblicazione». «Una parte rilevante del lavoro di Consip - viene inoltre sottolineato - è la prevenzione di frodi o altre irregolarità. Al riguardo i controlli circa la regolarità dei fornitori hanno consentito di escludere quelli non in possesso dei requisiti di qualità e professionalità richiesti, segnalando prontamente i fatti alle Autorità competenti. L'azione, pur nell'emergenza, è sempre attuata nel rispetto del Codice degli Appalti, anche per ciò che concerne l'esclusione dei fornitori per determinati reati o altre evidenze». L'Agenzia ricorda infine che «non è consentito a Consip nessun pagamento verso i fornitori se non all'esito positivo dei succitati controlli».

Tutti i retroscena dell' appalto "allegro" della Consip sulle mascherine assegnato al faccendiere pregiudicato Micelli. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2020. Il pregiudicato Micelli risulta condannato definitivamente ad 1 anno e 6 mesi di carcere. Venne arrestato dai finanzieri il 20 dicembre 2018 per l’inchiesta “Quote Rosa 2” a seguito dalle indagini svolte dalla Guardia di Finanza di Taranto, venendo associato alle carceri per 3 mesi ed 1 settimana (misura cautelare) espiati nelle case circondariali di Taranto e Trani, e scarcerato successivamente soltanto a seguito del suo rinvio a giudizio. Nell’inchiesta giornalistica sugli appalti gestiti in maniera anomala dalla Consip sulla fornitura di mascherine, realizzata condotta dai colleghi Nello Trocchia e Sara Giudice del programma “Piazza Pulita“ su La7,  è comparso il faccendiere tarantino Salvatore Micelli, 34enne pregiudicato pluriprotestato, che si è infilato ancora una volta nella maglie larghe della burocrazia statale per aggiudicarsi con la Cooperativa Indaco, che peraltro alcuni mesi fa è stata sfrattata per morosità dagli uffici di via Cesare Battisti, una gara appalto per la fornitura di 7 milioni e 100mila mascherine chirurgiche al prezzo di 0,64 centesimi l’una per un valore complessivo di 4 milioni 554mila euro. Ma Micelli dove avrebbe reperito i soldi per pagare a sua volta questa merce da fornire allo Stato ? Sinora  nessuno se l’è ancora chiesto !!! Infatti è stato proprio lo stesso Micelli attraverso il suo legale tarantino Marcello Ferramosca  in un recente procedimento giudiziario a dichiarare circa un mese fa al Tribunale di “essere disoccupato“, di “essere ospitato in casa dalla sua attuale compagna” e dopo lo sfratto subito  nella casa in cui conviveva con la sua ex-compagna, di ” sopravvivere  grazie  all’aiuto economico della madre” ! E questo sarebbe un “imprenditore”…. ? Il nostro giornale si è dovuto occupare ripetutamente in passato di Salvatore Micelli a causa dei suoi coinvolgimenti in inchieste della magistratura ed indagini delle Forze dell’ Ordine, fra i quali ben 3 rinvii a giudizio riuniti in un processo unico attualmente in corso, per le sue gravi diffamazioni e la reiterata attività di stalking nei mie confronti, un attività delinquenziale che continua tuttora e che è stata nuovamente denunciata alla magistratura competente. Il pregiudicato Micelli che risulta condannato definitivamente ad 1 anno e 6 mesi di carcere, venne arrestato dai finanzieri il 20 dicembre 2018 per l’inchiesta “Quote Rosa 2”  avviata a seguito delle indagini svolte del tenente colonnello Antonio Marco Antonucci della Guardia di Finanza di Taranto,  venendo associato alle carceri per 3 mesi ed 1 settimana (misura cautelare) espiati nelle case circondariali di Taranto e Trani, e venendo successivamente scarcerato soltanto a seguito del suo rinvio a giudizio. La Consip, l’agenzia statale che si occupa degli appalti in Italia, ha inviato una nota in serata, in cui fornisce precisazioni su quanto affermato dalla trasmissione Piazzapulita: “Consip ha svolto procedure di urgenza di selezione dei fornitori garantendo, da un lato, la massima trasparenza e dall’altro, la celerità dell’azione, con aggiudicazione fatta in 3-4 giorni dalla pubblicazione” autogiustificandosi di aver “svolto procedure di urgenza di selezione dei fornitori garantendo, da un lato, la massima trasparenza (documentazione tutta disponibile sul sito consip.it); dall’altro, la celerità dell’azione, con aggiudicazione fatta in 3-4 giorni dalla pubblicazione”. Poi, l’agenzia statale ha aggiunto: “Una parte rilevante del lavoro di Consip è la prevenzione di frodi o altre irregolarità. Al riguardo i controlli circa la regolarità dei fornitori hanno consentito di escludere quelli non in possesso dei requisiti di qualità e professionalità richiesti, segnalando prontamente i fatti alle Autorità competenti. L’azione pur nell’emergenza è sempre attuata nel rispetto del Codice degli Appalti, anche per ciò che concerne l’esclusione dei fornitori per determinati reati o altre evidenze”. Infine, la Consip ha chiarito che “il pagamento per la fornitura, in ogni caso, non verrà effettuato se non successivamente all’esito dei controlli e delle nuove verifiche effettuate, in quanto  non è consentito a Consip nessun pagamento verso i fornitori se non all’esito positivo dei succitati controlli”. Il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli ha annunciato di aver presentato un’interrogazione parlamentare su questa vicenda e dichiara: “In piena emergenza coronavirus la centrale acquisti dello Stato ha affidato l’acquisto di milioni di mascherine ad una cooperativa sociale che si occupa di accoglienza immigrati, la Indaco Service di Salvatore Micelli, imprenditore arrestato poco più di un anno fa per associazione a delinquere e truffa aggravata ai danni dello Stato”. Donzelli ricorda che, nel 2015, Micelli era salito sul palco della Leopolda a Firenze . E non a caso il deputato toscano di Fratelli d’ Italia nel suo filmato riprende ed utilizza i nostri articoli su Micelli, che dimostra ancora una volta che il nostro giornale viene letto anche in Parlamento. Altri si fermano a Massafra….

La storia giudiziaria di Salvatore Micelli. Micelli venne arrestato il 20 dicembre 2018 insieme a un’altra persona Loredana Ladiana, 52 anni, (moglie del noto pregiudicato Roberto Ruggieri n.d.r.) con la quale, secondo l’impianto accusatorio della Procura di Taranto, avrebbe costituito 17 imprese , esclusivamente a titolo fittizio solo per poter accedere ai fondi europei per l’occupazione femminile, cofinanziati dallo Stato e dalla Regione Puglia, con lo scopo in questo caso di finanziare alcune famiglie malavitose del territorio tarantino. Nell’operazione i denunciati sono 20, tra cui due ispettori della Regione Puglia incaricati di svolgere le previste verifiche presso le ditte che avevano avanzato le richieste di contributi pubblici. Verifiche che vennero effettuate in maniera mendace e fraudolenta. La Cassazione a seguito di un ricorso presentato dai difensori del Micelli ha successivamente annullato con rinvio ad un altro Tribunale del Riesame la questione inerente esclusivamente il reato di “associazione a delinquere“. I provvedimenti notificati durante il blitz delle Fiamme Gialle rappresentano l’epilogo di indagini nell’ambito delle quali erano state individuate 17 imprese, tutte riconducibili agli indagati, costituite con il fine di poter accedere ai fondi europei cofinanziati dallo Stato e dalla Regione Puglia e destinati ad incentivare l’occupazione femminile, per poterseli metterseli in tasca propria. L’importo complessivo della truffa nei confronti della Regione Puglia e dalla Commissione europea, ammontava  a 3 milioni e 260mila euro. Le segnalazioni alla Procura tarantina sulla truffa contestata al Micelli, erano sparite  nel gennaio del 2014 da una solerte e scrupolosa funzionaria della Regione Puglia. La Procura di Taranto a seguito delle indagini della Guardia di Finanza di Taranto, ha contestato al Micelli (ritenuto il “dominus” cioè il principale responsabile)  insieme ad altre quattro persone,  anche l’ associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e falsità materiale commessa dal privato in atto pubblico. Micelli sin dall’interrogatorio di garanzia avvenuto nel carcere di Taranto  dopo l’arresto di dicembre scorso aveva respinto le accuse a suo carico. “Le pratiche che ho presentato erano tutte regolari”, aveva sostenuto dinnanzi al giudice per le indagini preliminari, non venendo minimamente creduto, e quindi ritenuto inaffidabile. Il nome del 36enne Micelli era venuto fuori anche in altre inchieste giudiziarie. Il faccendiere tarantino è citato anche nella inchiesta giudiziaria denominata “Alias” con cui il pm Alessio Coccioli della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce coordinando le indagini  della Squadra mobile azzerò di fatto il clan mafioso tarantino dei boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis . Da quello che emerse nelle indagini degli inquirenti Micelli era uno dei “consulenti” vicini al D’Oronzo. Agli atti dell’ inchiesta sfociata poi in un processo compare una telefonata del Micelli che secondo gli inquirenti spiegava molto bene le sue mire affaristiche: “Io adesso, non è che sto giocando con le persone sono stato ad una riunione in Confindustria per un consorzio di cui facciamo parte, per entrare al porto a lavorare“.  Collegata al boss  D’Oronzo era  la Cooperativa Falanto la quale avvalendosi di Micelli aveva provato  in passato  ad infiltrarsi nel  ricco business dell’accoglienza e gestione dei migranti. Un’operazione non andata a buon fine soltanto grazie all’intervento provvidenziale della Questura di Taranto della Polizia di Stato, e della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Ma Salvatore Micelli non ha desistito, costituendo la Cooperativa Indaco insieme a sua sorella Barbara coinvolta da sempre nelle varie truffe dal fratello, ed a un socio Antonello Milella, anch’egli con precedenti penali. Con un’ operazione truffaldina (per la quale pende un giudizio in corso) Micelli era riuscito fraudolentemente a far scomparire dei suoi protesti bancari, diventando  presidente della Cooperativa Indaco con la quale aveva partecipato ad una delle gare d’appalto indetta dalla Prefettura jonica per l’accoglienza dei profughi. Dalle documentazioni che il CORRIERE DEL GIORNO ha avuto la possibilità di visionare vi era una relazione della Digos della Questura di Taranto, dalla quale emergeva la predisposizione a delinquere ed alla truffa del Micelli, che venne tenuta in dovuta considerazione dal Prefetto all’epoca in carica (e cioè Umberto Guidato, dal 2019 diventato Prefetto di  Brindisi ). Ma Micelli non desistette facendo ricorso al TAR Puglia vincendolo ed aggiudicandosi una gara per la quale avrebbe incassato oltre 3 milioni di euro l’anno. La gestione allegra e fuorilegge delle strutture della Cooperativa Indaco venne rivelata da un’inchiesta giornalistica del CORRIERE DEL GIORNO, indusse il comando centrale del NAS dei Carabinieri da Roma (guidato all’epoca dei fatti dal Generale Claudio Vincelli) a disporre un blitz presso uno dei centri di accoglienza , a seguito della quale il  27 giugno 2017  il successivo Prefetto di Taranto dr. Donato Carfagna, subentrato a Guidato, ne dispose con una propria ordinanza la chiusura. Una chiusura che ha conseguito alla cooperativa gestita dai fratelli Micelli, una valanga di cause e vertenze di lavoro dei dipendenti i quali avanzavano stipendi da mesi, qualcuno addirittura di anni. Micelli ha provato più volte ad infiltrarsi anche nella politica, partecipando alla manifestazione della Leopolda di Firenze organizzata da Matteo Renzi, ma a Taranto non ha mai trovato spazio. Successivamente affiancato da un ex-consigliere comunale Alfredo Spalluto, il faccendiere Salvatore Micelli ha presentato una lista civica alle ultime elezioni Amministrative del Comune di Taranto, guidata da sua sorella Barbara Micelli, lista che per fortuna non è riuscita ad eleggere alcun consigliere comunale nel capoluogo jonico. La sorella del Micelli peraltro è affetta da disabilità per disturbi psichiatrici, come ha reso noto lo stesso “faccendiere” in una sua testimonianza resa dinnanzi al Tribunale di Taranto. Recentemente Micelli ed il suo degno “compare” Alfredo Spalluto, si sono iscritti al PSI di Taranto, partito del quale guarda caso era segretario provinciale un altro pregiudicato e cioè quel Fabrizio Pomes condannato per il “processo Alias” alla mafia tarantina, con sentenza definitiva della Corte di Cassazione lo scorso settembre ad 11 anni ed 8 mesi di carcere, e nel quale militava l’ex consigliere comunale Cosimo Gigante rinviato a giudizio per aver truffato l’amministrazione comunale per 94.000 euro! Siamo sicuri che a questo punto il PSI a Taranto non cambi sigla in PPI, e cioè Partito Pregiudicati Italiani?

Coronavirus, la Protezione civile all'imprenditore che poteva importare 50 milioni di mascherine: "No grazie, con le chirurgiche siamo a posto". La Repubblica Tv il 2 aprile 2020. Queste sono solamente due delle 120 telefonate intercorse, tra il 15 e il 20 marzo, tra l’imprenditore Filippo Moroni – che aveva consorziato 21 aziende cinesi capaci di fornire all’Italia 50 milioni di mascherine in un mese -  e i funzionari e i massimi dirigenti della Protezione civile di Angelo Borrelli e dell’organismo commissariale presieduto da Domenico Arcuri. Siamo nella prima fase della chiusura del paese (decretata l’11 marzo). In quei giorni il paese era sotto shock per le misure prese dal governo e per i resoconti che continuavano ad arrivare dagli ospedali dove medici e infermieri si lamentavano (e morivano) a causa della mancanza di dispositivi per la protezione individuale (Dpi) e, segnatamente di mascherine adatte (FFp2 e FFp3) a lavorare nei reparti Covid-19. Nella prima delle due chiamate, lunedì 16 marzo, Moroni che aveva già inviato decine di mail alla Protezione Civile è al telefono con uno dei funzionari dell’ufficio acquisti, Mario Ferrazzano che avanza perplessità di natura economica relative alle modalità di pagamento, i cinesi vogliono il pagamento cash anticipato prima di ogni spedizione, Ferrazzano vuole invece usare un metodo più prudente. “Potete dare i soldi a Banca Intesa”, prova a suggerire Moroni che in altre conversazioni aveva spiegato di voler lavorare “pro bono e senza commissioni”; ma il funzionario esclude questa possibilità.  Poco dopo, non si capisce se mentendo o solo riferendo indicazioni sbagliate, assicura l’interlocutore di aver già rimediato molte mascherine, “siamo a posto”, a costi più che ragionevoli: “Una trentina di milioni - dice - tutte FFp2 e FFp3”. “Se non trovate il modo di pagare cash non comprerete una sola mascherina”, profetizza Moroni. Purtroppo aveva ragione: le prime mascherine di quel tipo (adatto al lavoro dei medici in corsia) sono cominciate ad arrivare in Italia la settimana scorsa. Troppo tardi. Di Marco Mensurati.

Dagospia il 3 aprile 2020. Da “Un Giorno da Pecora – Radio1”. "Finalmente siamo arrivati a regime col numero di mascherine, abbiamo il quantitativo adeguato e necessario di mascherine a livello nazionale per tutte le esigenze che ad oggi sono mappate. C'è tutto il meccanismo della logistica, della consegna, in accordo con la Protezione civile delle Regioni che si sta, spero, portando a regime". Così a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Stefano Buffagni, viceministro M5S dello Sviluppo economico. Secondo lei saremo in grado di essere autosufficienti con la produzione di mascherine? “Il tempo è la variabile che fa la differenza. Noi ora stiamo lavorando per renderci autosufficienti a regime e per garantire di avere del materiale adeguato”.  Oggi si sono fatte delle date per un possibile inizio di ritorno alla normalità. Lei che previsioni fa a riguardo? “Queste valutazioni le lascio fare agli scienziati, noi stiamo lavorando con diverse università per programmare e impostare il rientro. Ci sarà, immagino, un rientro graduale, ci saranno da rispettare una serie di prescrizioni. Bisogna cercare di prevenire e dare messaggi chiari", ha spiegato Buffagni a Rai Radio1.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 3 aprile 2020. Non avevamo le mascherine neppure a Carnevale, che non è una battuta ma il ricordo del primo appuntamento di massa sospeso per coronavirus: il Carnevale di Venezia. Già non c' erano, non si trovavano. Dopodiché, oggi, non ci sono, e non si trovano: che è accaduto frattanto? È accaduto che l' accaparramento delle mascherine è stata una gara, e che l' abbiamo persa. In Europa siamo partiti per primi, ma l' abbiamo persa lo stesso. Lasciando da parte le inefficienze di governo e protezione civile - le diamo per scontate - questo Paese ha scoperto che cosa vuol dire delocalizzare e lasciare che a produrre certi beni siano paesi asiatici con manodopera a costi da schiavismo: significa non avere, quanto conta, aziende nostrane che provvedano all' emergenza, e significa veder realizzato finalmente il federalismo: ogni regione ha fatto a modo suo, col pugliese Michele Emiliano che si è rivolto a suoi amici cinesi mentre altri governatori facevano lo stesso con referenti magari poco affidabili, certo, ma nei fatti più affidabili di quanto si è rivelata la Protezione civile. Già nelle prime due settimane di marzo servivano 90 milioni di mascherine al mese (e guanti in lattice e occhiali medici e tute e calzari di protezione) ma non si riuscivano a importare in quantità sufficiente: non quelle con il filtro - Ffp1 e Ffp2 - né quelle chirurgiche a garza rinforzata. A metà marzo, ospedali, farmacie e volontari avrebbero dovuto riceverne 135 milioni: la Protezione civile ne aveva consegnate 5 milioni, anche se aveva ordini per altri 56 milioni con prenotazioni su ciò che non esisteva ancora: ma 19 milioni, nel frattempo, venivano bloccate. Da chi? India, Turchia, Russia, Romania e la cara Germania: perché il ritardo con cui ci siamo mossi, intanto, era coinciso con la consapevolezza che il contagio si stava muovendo da loro. Forse serviva un ministro degli Esteri, ma c' era Luigi Di Maio che diceva «inaccettabile» una dozzina di volte e infine ha accettato. Le mascherine venivano fermate alle dogane. Come mai si era perso tanto tempo? Qui sta il peccato originale, la ridicola matrice di tutti i mali: accorgersi che nel pieno di una emergenza mai vista, in omaggio al concetto di «spending review», per le mascherine e altri materiali il governo aveva pensato di ricorrere a delle antidiluviane «gare consip» al ribasso, con perdita inusitata di tempo e aste andate regolarmente deserte. Mentre non c' era imprenditore che non annunciasse riconversioni industriali per mettersi a produrre mascherine, nel concreto e nel presente non le produceva nessuno. Così ci arrivavano le elemosine degli altri paesi: la Germania con un milione di pezzi, la Francia con una generica «disponibilità», la Cina con altri cinque milioni e, su tutto, il volto rassicurante di Luigi Di Maio e il celebre Giuseppe Conte del «siamo prontissimi». In Lombardia, l' assessore al bilancio Davide Caparini occupava tutto il suo tempo a cercare mascherine nei mercati di tutto il mondo. Mentre la gente cantava e ballava dai balconi - e i giornali a inseguirli - il ritardo favoriva altri blocchi alle frontiere di ordini già pagati. Il 24 marzo, Giuseppe Conte e il commissario Arcuri - in diretta tv - avevano promesso forniture in 96 ore: dopo 7 giorni non si era ancora visto nulla. Uno scoop di Marco Mensurati, su Repubblica, forse meritava più attenzione: spiegava che l' imprenditore Filippo Moroni, il 14 marzo, aveva trovato il modo di consorziare 21 aziende cinesi per comprare 50 milioni di mascherine certificate dalla Comunità europea (Fp2, Fp3 e chirurgiche) alla metà del costo previsto dalla ridicola base d' asta indetta da Consip: Moroni aveva scritto alla Protezione civile, a Confindustria, alle Regioni Puglia, Lazio, Lombardia e alle Asl. Niente. La burocrazia aveva fatto muro. Respinto e sfinito dai centralini telefonici, disorientato da funzionari incompetenti e impiegati pigri: alla fine si è limitato a dire «qualcosa deve essere andato storto» e ha alzato bandiera bianca. Le prodezze della Protezione civile intanto diventavano leggenda: e siamo ai famosi stracci per pulire, quelli coi due buchi per le orecchie (ottimi per gli occhiali, ha osservato Vincenzo De Luca dalla Campania) che non è roba che a Roma non avevano controllato prima di mandarla: le avevano controllate, le mascherine, ma avevano deciso di mandarle lo stesso precisando che l' utilizzo sarebbe stato «sotto la propria responsabilità», in quanto prive del marchio della Comunità europea. Una truffa legalizzata: ci facessero sapere quanto hanno speso. Sicché a fine marzo - misteri all' italiana - milioni di mascherine risultavano ufficialmente inviate, ma alle Regioni non era arrivato nulla. Il commissario all' emergenza Domenico Arcuri parlava genericamente di «sistema inceppato» e comunque anche le mascherine-fantasma avrebbero rappresentato solo un quinto del fabbisogno nazionale, se ricevute. Non senza un certo coraggio, il commissario annunciava che era stata consegnata una «quantità sufficiente di mascherine all' ordine dei medici Pensiamo che devono essere dotati di una sorta di magazzino di scorta, in modo da poter sopperire o aggiungere dotazioni che vanno direttamente a loro». Cazzate, perché a quanto pare sbagliando non si impara: l' altro ieri risultava che la Protezione civile aveva inviato mascherine definite Fp2 (ad alta protezione) ma che si sono rivelate utilizzabili da medici e infermieri; lo ha rivelato il presidente dell' Ordine dei medici ai responsabili delle varie regioni. Quei dispositivi non erano «autorizzati per l' uso sanitario dalla Protezione civile», quindi ne andava sospesa «immediatamente la distribuzione e l' utilizzo». E siamo in aprile, e siamo ancora in netta carenza. Le farmacie, intanto, si dividono tra chi appende il cartello «non abbiamo mascherine» e le poche che appendono «abbiamo mascherine», perché se le sono procurate con giri loro a prezzi che lasciamo immaginare. Intanto la procura di Bari ha aperto un' inchiesta sul mercato nero, a Torino una società truffaldina prometteva mascherine dalla Malesia che non esistevano, a Roma hanno scoperto produttori di dispositivi falsi, in tutto il Paese si moltiplicano i furti di mascherine da depositi e container: la globalizzazione non globalizza più, e ciascuno torna alle attività radicate sul territorio. Molti privati donano soldi alla Protezione civile perché acquistino mascherine che quest' ultima, però, in pratica non riesce o non sa acquistare. Ieri a Roma sono arrivati decine di scatoloni con la scritta «Forza Italia» in italiano e in cinese, ma Berlusconi non c' entra: sono un omaggio che l' Inter (calcio) ha donato alla Protezione civile con l' aggiunta di prodotti sanitari, indumenti protettivi e altri prodotti per la disinfezione. Il presidente dell' Inter, Steven Zhang, aveva già elargito 300mila mascherine anche alla città di Wuhan nel periodo di maggiore difficoltà. Il soccorso dei privati, in Cina, era una ciliegina sulla torta. In Italia è la torta.

Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2020. La data è del 1 aprile, il mittente è il presidente dell' Ordine dei medici, i destinatari sono i presidenti degli Ordini dei medici nei capoluoghi di Regione, e il testo è questo: «Vi comunico che il Commissario straordinario per l' emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, mi ha appena informato che le mascherine che riportavano la dizione ffp2 equivalenti, inviate dalla Protezione civile in data odierna agli Ordini dei medici capoluoghi di Regione, non sono dispositivi autorizzati per l' uso sanitario dalla Protezione civile. Vi chiedo quindi di sospendere immediatamente la distribuzione e l' utilizzo di quanto ricevuto, informando nel contempo eventuali medici o strutture che ne fossero già in possesso». In pratica era robaccia cinese. Sappiamo che ogni giorno vengono sdoganate 20 milioni di mascherine in arrivo da Cina, India, Sri Lanka, che il decreto del 17 marzo autorizza l' importazione in deroga alle norme vigenti, quindi può entrare materiale senza certificazione Ce, e che l' Agenzia delle dogane può bloccarlo quando non è chiaro il destinatario, ma non può più fare le analisi di conformità. È richiesta solo l' autocertificazione del produttore, e se poi quella partita non è «sicura», valla a ripescare. Qualche importatore ha chiesto una valutazione del prodotto finito acquistato in Cina al Politecnico di Milano. L' esito: la maggior parte è porcheria. A testarle ci pensa la Centrale acquisti lombarda (Aria spa). Lo stesso decreto invita le aziende italiane a riconvertire la produzione in deroga alle norme vigenti, rispettando però rigidi criteri di biocompatibilità e di performance (filtraggio fino al 98%). In tante si sono date da fare, a partire dai test sui materiali, che eseguono enti accreditati, o dal Politecnico di Milano, incaricato dalla Regione per quel che riguarda le mascherine chirurgiche. Al Politecnico si sono presentati in 1.700, sottoposti ai test 600 prototipi: solo 10 avevano requisiti di sicurezza, il resto era cotone senza nessuna capacità filtrante. Molti hanno abbandonato. Ma intanto quelle aziende che hanno fatto investimenti, ottenuto la certificazione dei test, inviato l' autocertificazione all' Istituto superiore di sanità, sono ancora in attesa di conoscere se il protocollo seguito è corretto o meno. Alcune hanno buttato il cuore oltre l' ostacolo e cominciato a produrre, a loro rischio e pericolo. Dalla Sapi di Reggio Emilia, ad altre 7 aziende accompagnate alla riconversione dal Tecnopolo di Mirandola; dalla Fater che fa pannolini e ha avviato una linea di produzione su richiesta della Protezione civile, alla Fippi, su pressione di Assolombarda. La Fippi è stata guidata dal Politecnico nella scelta del materiale giusto, ha superato i test di laboratorio, avviato la produzione di 900.000 mascherine chirurgiche al giorno due settimane fa. Oggi ne ha in stock 4 milioni. Ebbene queste aziende non possono ancora commercializzarle perché l' Istituto superiore di sanità, che per decreto deve rispondere entro 3 giorni, non lo ha ancora fatto. La procedura semplificata alla fine si arena ancora una volta nella confusione romana.

E poi, quando l' emergenza sarà finita cosa succederà? Tutte le aziende che hanno investito in una riconversione per aiutare il Paese o perché erano in crisi, si troveranno di nuovo a competere con quei mercati che producono a 10 centesimi quello che qui costa 50? Bisogna pensarci adesso a mantenere dentro al Paese la produzione di forniture strategiche, prevedendo che nelle gare pubbliche una quota sia riservata ai produttori italiani. Altrimenti da questa tragedia non avremo imparato nulla.

Francesco Bechis e Gabriele Carrer per formiche.net il 3 aprile 2020. La commessa del governo italiano da 180 milioni di mascherine dall’azienda cinese Byd è costata 209,5 milioni di euro. A rivelare l’importo sono fonti diplomatiche che spiegano la composizione della partita annunciata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Una prima tranche, di 100 milioni, è già in produzione e ha iniziato le spedizioni: 7 milioni di mascherine sono arrivate in Italia lo scorso martedì, ha spiegato Di Maio mercoledì nel question time alla Camera. Il primo carico si compone di 50 milioni di mascherine Ffp2, acquistate a un prezzo di 1,50 euro ciascuna, e altri 50 milioni di mascherine chirurgiche (le cosiddette medical masks) a un prezzo di 0,29 euro ciascuna. Il secondo carico, da 80 milioni, è composto unicamente di mascherine Ffp2, allo stesso prezzo delle prime. A firmare il contratto Gaetano Mignone, coordinatore del servizio della Protezione Civile diretta da Angelo Borrelli. La Byd (acronimo di Build your dreams) è il settimo costruttore automobilistico cinese ed è specializzata nelle auto elettriche. Da tre mesi però ha avviato una radicale riconversione della sua produzione, divenendo il primo produttore al mondo di mascherine contro il coronavirus. A lavorare per il contratto del governo italiano con la Byd sarebbero stati in particolare l’ambasciatore italiano in Cina Luca Ferrari e il suo predecessore Ettore Sequi, oggi capo di gabinetto della Farnesina, sotto la regia dello stesso ministro degli Esteri. Nei giorni scorsi il settimanale Panorama aveva segnalato una differenza notevole con i prezzi ante-crisi, rispettivamente di 80-90 centesimi per le mascherine Fpp2 e di soli 10 centesimi per quelle chirurgiche. Secondo fonti qualificate in realtà i prezzi di acquisto sono di mercato, tenendo conto che da quando la crisi è divenuta globale il mercato delle mascherine è letteralmente esploso, con una domanda di gran lunga superiore all’offerta. La Byd infatti dovrà continuare a ritmi serrati la produzione per rispettare i termini dell’accordo con il governo italiano: dopo il primo carico da 7 milioni, consegnerà ogni settimana 20 milioni di mascherine. Palazzo Chigi vorrebbe chiedere di portarle a 30, per colmare il fabbisogno italiano mensile che, ha dichiarato Di Maio alla Camera, ammonta a 90 milioni di mascherine. È stata la Farnesina dunque a fornire le cifre finali della più importante commessa di mascherine ad oggi acquistata dal governo, facendo chiarezza su una delle tante aree grigie intorno alla gestione degli aiuti che da più parti del mondo sono arrivati in Italia. Una partita, va riconosciuto, che ha visto il ministero degli Esteri in prima linea per accaparrarsi contratti di fornitura da aziende estere già nel mirino di altri Paesi colpiti dall’emergenza sanitaria. È più volte mancata, semmai, la chiarezza sulla natura dei contratti. Spesso quelli che in realtà sono acquisti del governo sono stati indicati come “donazioni”. Il caso delle forniture cinesi ha fatto particolare rumore non solo perché sono state le prime a mobilitarsi, con una imponente campagna dei media di Stato cinesi, ma anche perché provenienti da un Paese con una valuta diversa, che non ha facilitato la chiarezza dei conti, a differenza delle forniture donate dagli Stati Uniti. L’ambasciata americana a Roma ha fornito una lista esaustiva degli aiuti arrivati finora in Italia e il presidente Donald Trump si è impegnato a inviare a Roma materiale medico-sanitario per un valore di 100 milioni di dollari. Il 27 marzo, partecipando alla conferenza stampa del commissario Arcuri, Formiche.net aveva chiesto di avere contezza di quali fossero aiuti internazionali e quali invece acquisti. Il commissario aveva risposto che presto la struttura sarebbe stata in grado di fornire “una visibilità puntuale e reiterata nel tempo delle acquisizioni”. Abbiamo poi inviato una mail alla Protezione civile chiedendo un chiarimento sull’importo economico dei contratti e sulle modalità e le tempistiche della spedizione. Il dipartimento, per parte sua, ha invitato a rivolgersi alla Farnesina. Peccato che sia un dirigente della Protezione Civile, Mignone, ad aver apposto la firma sui contratti. Vale la pena di ricordare che il ruolo della Farnesina è quello di coordinare le sole spedizioni inerenti ai contratti firmati dalla Protezione civile e dal commissario Arcuri. Non è competenza del dicastero di Di Maio né la distribuzione del materiale sul territorio né la gestione delle donazioni di enti privati. Su quest’ultimo fronte si è verificato più di un problema. Non è infatti chiaro chi sia preposto al controllo della qualità di queste spedizioni (l’ambasciata italiana in loco non può certo occuparsene da sola), controllo che invece è garantito per i contratti firmati dal governo sia alla partenza che all’arrivo del materiale, grazie anche alla supervisione del Comitato scientifico del governo per l’emergenza. In questi giorni la Farnesina si è dunque ritrovata a dover rispondere a richieste su spedizioni che non rientrano nella sua competenza, rimandando al dipartimento di Borrelli. È il caso, fra le tante, di una donazione di due milioni di mascherine da Hong Kong e Shanghai da parte del movimento delle Sardine, per cui avrebbero fatto da mediatori alcuni imprenditori di Confindustria. Questa situazione di confusione, certamente giustificata dalla drammaticità degli eventi che la Protezione civile e la struttura di Arcuri si trovano a gestire ha fatto emergere alcune falle non indifferenti. Si è creato un caso, ad esempio, intorno alla partita di 600mila mascherine chirurgiche provenienti dalla Cina e donate dalla Protezione civile all’Ordine dei Medici. Un comunicato del commissario Arcuri diffuso dal presidente dell’ordine Filippo Anelli, ha raccontato Il Fatto Quotidiano, ha dovuto chiedere di sospendere la diffusione delle mascherine. Le scatole infatti le indicavano come “maschere Ffp2 equivalenti”, mentre invece si trattava di mascherine chirurgiche, e dunque non idonee all’uso dell’operatore sanitario. C’è da auspicare che nelle prossime settimane, nella speranza che diminuisca la pressione sulle strutture sanitarie, e in particolare sui reparti di terapia intensiva e sub-intensiva, si possa far chiarezza per catalogare tutto il materiale ricevuto e distinguere fra donazioni e acquisti. Intanto, qualche certezza. Come il governo americano quando ha acquistato un carico di tamponi dall’Italia, così anche quello italiano ha pagato il materiale generosamente fornito dalla Cina: 209,5 milioni di euro.

Le mascherine sono il petrolio del 2020. Antonio Selvatici de Il Riformista il 3 Aprile 2020. I virologi non hanno capito nulla: la popolazione cinese è stata salvata dalle arance che l’ex sottosegretario Michele Geraci ha fatto inviare mezzo aereo dalla Sicilia. Tanta buona italiana vitamina C estratta dalle nostre succulente arance, così d’incanto quella dell’esportazione dei preziosi agrumi è diventata un importante voce delle nostre esportazioni. Non ricordate? Era una delle tante inutili quanto pubblicizzate iniziative inserite nell’ambizioso progetto della Nuova Via della Seta. Sembra passato un secolo, invece è passato un anno da quando il Professore sottosegretario Michele Geraci è riuscito a trascinare il Presidente Xi Jinping con tanto di moglie e rappresentati del regime al seguito, in quel di Palermo. Ecco: il paradosso è servito. Ciò che non è riuscito all’ex coppia governativa di fatto, Michele Geraci-Luigi Di Maio, è riuscito allo stramaledetto Coronavirus. Quale paradosso? Ora abbiamo la Nuova Via della Seta Sanitaria, naturalmente, anche questa, a senso unico. E, altrettanto naturalmente, siamo costretti ad importare tanto e esportare nulla. Dobbiamo acquistare un enorme quantità di materiale sanitario e tecnologia medica dalla Cina. La beffa della beffa. Le nostre imprese sono quotidianamente bastonate dalla forzata chiusura, conseguentemente l’economia italiana è in ginocchio. Però, ciò che occorre per la nostra sopravvivenza, lo dobbiamo importare dalla Cina. Il Ministro-bibitaio Luigi Di Maio continua a postare su Facebook inneggianti proclami: «Ho il contratto che abbiamo firmato oggi per 100 milioni di mascherine che arriveranno nelle prossime settimane dalla Cina». Evviva! Per fortuna che ci sono loro, i salvatori! Un affare per tutti (loro, la Cina). Mascherine, respiratori, grembiuli e respiratori? È come importare la nuova materia prima ora che il petrolio è crollato a venti dollari al barile! Il petrolio del Coronavirus sono le mascherine. L’oro del Coronavirus sono i respiratori.  Non è solo un problema italiano, né europeo, ma mondiale. Occorrono grandi quantità di mascherine, le produzioni autoctone non sono sufficienti e le scorte sono ridicole rispetto alla crescente domanda. Non è colpa di nessuno: chi poteva immaginare un simile disastro. Il ministro della Sanità francese Olivier Véran ha annunciato l’acquisto di un miliardo di mascherine, buona parte di queste arriveranno dalla Cina. Per trasportarle è stato organizzato un ponte aereo con cinquantasei voli da distribuire in quattordici settimane. Il primo Boeing 777 Cargo della Air France è atterrato la scorsa settimana a Roissy con un carico di dieci tonnellate di merce sanitaria. Il quotidiano spagnolo El Paìs racconta di un mega contratto da 432 milioni di euro di materiale sanitario acquistato dalla Cina: mascherine, guanti, materiale di protezione, test rapidi e respiratori. Si è mossa anche l’industria aerospaziale con Airbus che ha messo a disposizione alcuni aerei cargo per trasportare dalla Cina all’Europa mascherine e altro materiale. Il ministro della Salute dell’Olanda ha rispedito al mittente merce sanitaria non giudicata idonea proveniente dalla Cina. Nel Paese del Dragone si stima come nei soli mesi di gennaio e febbraio (i dati provengono da una società di statistiche cinese) siano nati ottomila produttori mascherine. Il Bankong Post ha intervistato un imprenditore: «Una macchina per mascherine è una vera stampante di contanti», ha detto Shi Xinghui, direttore delle vendite di una società di macchine per mascherine N95 nella città di Dongguan, nella provincia sud-orientale del Guangdong. «Stampare 60.000 o 70.000 maschere al giorno equivale a stampare denaro». Nonostante gli Stati Uniti possano contare sulla produzione della multinazionale 3M, della Du Pont e della Prestige Ameritech la situazione non è delle migliori. Così l’agenzia Bloomberg: «Gli Stati Uniti hanno solo circa l’1% dei 3,5 miliardi di maschere di cui ha bisogno per combattere un grave focolaio, ha detto il segretario alla Salute e ai Servizi Umani Alex Azar. Il paese prevede di acquistare 500 milioni di maschere chirurgiche e respiratori N95 per le scorte nazionali». Naturalmente il buon Ministro Luigi Di Maio non può che accodarsi alla lunga lista dei pretendenti di mascherine, guanti, grembiuli e qualsiasi altra merce utile per supportare l’emergenza. Però ciò non giustifica affatto l’ottimismo, l’entusiasmo e il sornione sorriso del Ministro. Non significa utilizzare come vetrina gli annunci mediatici modello eroe di guerra quando, con i nostri quattrini, Di Maio è riuscito ad acquistare milioni di mascherine. Anzi, sarebbe opportuno che il Signor ministro degli Esteri dimostrasse (non solo a gesti, ma magari anche con poche ma chiare parole o ancora i più con i fatti) il sentimento di ira. Proprio così: ira. Perché è quello il sentimento degli italiani. Come abbiamo già più volte sottolineato, se la Cina avesse avuto un comportamento più lineare, se non avesse mentito, se non avesse censurato, se avesse comunicato per tempo alle autorità (come era tenuta in base al Regolamento Sanitario Internazionale di cui è una dei firmatari) i morti, i danni, i disastri sarebbero stati minori. Forse non ci sarebbe stata pandemia. Il paradosso è che per amici della Cina questo è ora diventato un momento di gloria: gli amici cinesi ci stanno salvando. E ridono come se la popolazione italiana fosse imbevuta di stupidità e passasse gli interminabili pomeriggi ad invocare e benedire le magnificenze del Ministro Di Maio.  Caro Ministro, forse non l’hai ancora capito, ma gli italiani sono incazzati perché un virus cinese sta distruggendo le loro imprese, il loro posto di lavoro, la loro vita. Continua a sorridere beffardamente, Pechino te ne sarà grata. Gli italiani, no.

Coronavirus, lo Stato specula pure sulle mascherine: Iva, aliquota massima al 22%. Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Agli italiani è ben nota la resistenza dello Stato a toccare l'Iva, quando si tratta di abbassarla. Il più comico degli esempi è quello degli assorbenti igienici femminili, la cui imposta sul valore aggiunto, sciaguratamente al 22%, è stata al centro di una lunga querelle: alla fine ci è stato spacciato che nella legge di bilancio era stato stabilito che dal primo gennaio sarebbe stata abbassata al 5%, salvo poi precisare che la norma avrebbe riguardato solo gli assorbenti compostabili o lavabili. L'emergenza virus non ha ammorbidito le sanguisughe, per cui la questione è cominciata daccapo con le mascherine, imparentate con gli assorbenti per non essere sostituibili con altro, essere usa e getta e quindi di larghissimo uso, e necessarie per la salute. Ragion per cui le mascherine, alle 20 di ieri sera, non risultavano ancora beni di prima necessità, come invece il canone tv, tassato al 4%, e nemmeno di "seconda" necessità, come i tartufi (freschi o refrigerati) la cui Iva è al 5%, né così importanti da godere dell'aliquota ridotta al 10% come lo sono le carrube, gli spettacoli teatrali, i francobolli da collezione e la cera d'api. Le mascherine invece (come anche i ventilatori polmonari) sono equiparate al mascara, al calcio balilla e alle motociclette Harley-Davidson. non detraibili Ieri mattina in qualche grande farmacia di Milano vicino al centro era possibile trovarne qualcuna (di mascherina), c'era addirittura una scelta fra quelle chirurgiche, le Ffp2 e le Ffp3. Sullo scontrino è scritta chiaramente l'Iva al 22% e, detraibili sul 730, spiega il farmacista, sono unicamente le meno protettive, quelle chirurgiche, le altre no. Eppure la Commissione europea già quattro giorni fa aveva approvato le richieste degli Stati membri e del Regno Unito di revocare temporaneamente (per sei mesi) i dazi doganali e l'Iva sull'importazione di ventilatori, mascherine, test e altri dispositivi medici da Paesi terzi, cioè tutti, almeno fino a che le mascherine lombarde, liberate da un sospiratissimo ok dell'Iss, non saranno disponibili al pubblico (secondo Regione Lombardia intorno a metà settimana). Che cosa succede? Sembra che il braccino corto sull'Iva abbia colpito ancora: infatti già da tempo il ministro della Salute Roberto Speranza, confortato dal viceministro dell'Economia Antonio Misiani il 3 aprile, ha annunciato lo "studio" di una misura dal valore di circa 400 milioni per introdurre l'Iva al 5%. Ma finora tutto quel che si è visto è una miseria nella bozza del decreto imprese sul tavolo del Consiglio dei ministri, dove compare un credito di imposta per le imprese che acquistano mascherine e strumenti di lavoro come guanti, visiere e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari, ma anche per gli acquisti di barriere e pannelli da installare a protezione dei dipendenti, detergenti mani e disinfettanti. E anche qui la miseria è ancora più misera di quel che sembra: il bonus infatti sarebbe del 50% fino all'importo massimo di 20mila euro sulle spese sostenute fino al 31 dicembre 2020. Ovvero: intanto le aziende dovranno pagare (e chi ne ha bisogno per più di 20mila euro si attacca) e poi forse l'anno prossimo verrà restituito qualcosa. Inoltre, questa misura è a favore delle aziende, ma niente è previsto per i privati cittadini, che continueranno a pagare il massimo possibile senza poter neppure detrarre qualcosa. Alcune fonti parlamentari hanno ammesso il braccino della Commissione Bilancio - cui è affidato lo "studio" - perché ridurre l'Iva sarebbe un intervento che costa soldi al gettito, e per questo ci sarebbero titubanze sull'opportunità ed eventualmente il modo di inserirlo nel decreto di aprile. dispositivi medici? Altro giallo sta nel fatto che, a forza di tirarli per i capelli, i membri del governo interpellati hanno nominato le mascherine, ma nulla è stato affermato riguardo i ventilatori: Pier Paolo Baretta, sottosegretario all'Economia, ha confermato ieri che «il governo sta lavorando sulla riduzione dell'Iva sulle mascherine», ma né lui, né Speranza e Misiani hanno mai accennato ai ventilatori. A rilevare il qui pro quo legislativo sulle aliquote agevolate è un articolo pubblicato su Eutekne, quotidiano dei commercialisti, dove viene notato che i ventilatori potrebbero essere configurati, secondo quanto dice il DLgs 46/97, come «dispositivi medici», cioè strumenti «destinato a essere impiegato sull'uomo ai fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia attenuazione di una malattia»; salvo poi definire «dispositivi medici» con aliquota al 10% solo medicinali e sostanze farmaceutiche. In effetti se l'Iva rimanesse al 22% il gettito ne godrebbe di sicuro, se è vero che l'uso delle mascherine «potrebbe diventare una necessità quotidiana almeno nei prossimi mesi», come ha dichiarato il Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, e l'Iss «sta valutando il modo in cui dovranno essere utilizzate le mascherine nella fase 2 del contenimento». Con il risultato di aver pagato per una vita la Sanità e appena ci serve dover pagare di nuovo, come se comprassimo un'auto di lusso, per il lusso di salvarci la vita.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 7 aprile 2020. Oggi l'oro ha le sembianze di un elastico che si infila dietro le orecchie e di uno speciale tessuto grande 33 centimetri per 25 che si mette sopra bocca e naso. In una parola, mascherina. Da strumento necessario a livello planetario per tamponare l'avanzata del coronavirus a merce ambita con cui fare soldi il passo è stato breve. Con le mascherine i nuovi pusher hanno messo in piedi un vero e proprio traffico. La crescita esponenziale della domanda ha innescato una spirale spaventosa su presidi sanitari contraffatti, certificati con marchi Ce finti, pur di riuscire a far entrare in Europa il prodotto. Ma se la corsa all'oro era solo una questione di denaro, in questo caso si gioca anche con la pelle delle persone. Al pari della battaglia al Covid-19 diventa adesso fondamentale la lotta contro i presidi sanitari finti, quindi pericolosi, che danno l'illusione di proteggere e in realtà «chissà se lo fanno». In questa battaglia di retroguardia i difensori della salute pubblica non sono medici e infermieri, bensì agenzia delle dogane e carabinieri del Nas. Pochi giorni fa alle frontiere italiane è stata bloccata una partita di ffp2 false. Questa misura è un esempio del lavoro svolto, indicatore della pericolosità dell'intera faccenda. E di come il principio del «mettersi qualsiasi cosa sul viso» non sia sempre quello universalmente valido. Soprattutto se si lavora con un camice bianco dentro un ospedale. Ebbene questa partita di ffp2 era accompagnata da un certificato. Il documento regolare agli occhi di un profano, si è rivelato una patacca a quelli esperti di dogane e militari. Le mascherine avevano le sembianze delle ffp2 ma non avevano passato gli standard di sicurezza, e allora ci si era affidati alle mani di un falsario. Perciò niente potere filtrante al 92% come da standard che questo dispositivo deve garantire. Cosa sarebbe accaduto se quelle maschere fossero finite in un ospedale, in dotazione ai medici? Quest'ultimi le avrebbero indossate nella convinzione di proteggersi e invece, forse, avrebbero potuto contrarre il virus. Questo scenario, nel complesso, non è certo sfuggito all'Olaf (Ufficio europeo per la lotta antifrode) che già il 20 marzo aveva lanciato l'allarme: «Prevenire l'ingresso di questi prodotti contraffatti in Europa è fondamentale per proteggere la nostra salute e lottare contro il virus». L'Olaf inoltre ha sottolineato un altro aspetto. Infatti mascherine accompagnate da certificazioni fasulle non sono solo inutili contro il Covid-19, ma possono essere veicolo di altre malattie. Di norma le chirurgiche, le ffp2 e le ffp3 dovrebbero essere sterilizzate e confezionate. Chi garantisce che questo tipo di lavoro venga svolto anche sulle loro brutte copie? Infatti l'Ufficio europeo per la lotta antifrode aveva precisato che «oltre a essere inefficaci contro il virus, questi prodotti non riescono a soddisfare le norme dell'Ue, danneggiando potenzialmente la nostra salute. Ad esempio, potrebbero provocare una pericolosa contaminazione batterica». Infine nel suo sito l'Olaf inserisce le foto di una partita di mascherine bloccate in Belgio, con il brand (fasullo) di Frozen. L'effige che richiama all'eroina Disney dei più piccoli. Un marchio accattivante, con dietro 0 sicurezza ma solo l'ingordigia di chi è disposto a far quattrini anche sulla pelle dei bambini.

Coronavirus. La Procura di Bari sequestra un milione di mascherine a 3 imprese. Il Corriere del Giorno il 7 Aprile 2020. Inchiesta della Procura di Bari sulla speculazione sulle mascherine vendute alle Asl. Le tre società sono la 3MC spa (per un totale di 626.746 euro), la Penta srl (244.190) e la Aesse Hospita srl (235.929). Le mascherine acquistate in Cina pagate 36 centesimi, venivano rivendute con rincari del 4mila per cento. Tre società sono  baresi sono finite nei giorni  scorsi nel mirino della Procura di Bari, hanno ricevuto un decreto di sequestro preventivo firmato dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, all’esito delle indagini del Gruppo Tutela Spesa Pubblica, del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza, guidato dal colonnello Pierluca Cassano articolazione specializzata  particolarmente nel contrasto alla corruzione e alle patologie afferenti l’impiego di denaro pubblico (con particolare riferimento alla Sanità), avviate nel contesto dell’emergenza epidemiologica da COVID – 19, hanno permesso di acquisire concreti elementi in ordine ad illecite attività poste in essere dalle società fornitrici di aziende sanitarie pubbliche – tra cui ASL Bari e diverse aziende ospedaliere del territorio pugliese.  Il sequestro del profitto delle condotte delittuose ascritte ai legali rappresentanti delle società ammonta ad oltre 1,1 milioni di euro che era stato realizzato in soli 20 giorni. Il sequestro è stato effettuato per un totale di 626.746 euro alla 3MC spa , per 244.190 euro  alla Penta srl  e di 235.929 euro alla Aesse Hospita srl . Contestualmente sono stati notificati avvisi di garanzia a Gaetano Canosino, legale rappresentante della 3MC Spa e rappresentante di fatto della Penta srl; Vito Davide Patrizio Canosino, legale rappresentante della Penta; ed Elio Rubino, legale rappresentante della Aesse Hospital srl, e genero che sulla base degli esiti delle indagini ed accertamenti delle Fiamme Gialle vendevano dispositivi di protezione individuale alle aziende sanitarie della Puglia con ricarichi che arrivavano fino al 4.100%. Rubino è il genero dell’ ex senatore Alberto Tedesco (estraneo ai fatti odierni) in precedenza assessore regionale alla sanità in Puglia, il quale esattamente un anno fa grazie alle prescrizione si è salvato da un processo a suo carico, in cui doveva rispondere delle accuse di essere a capo di un presunta “cupola” che tra il 2005 e il 2009 avrebbe gestito la sanità regionale, pilotando nomine e truccando appalti. Quando nella primavera del 2009 le notizie di stampa portarono alla luce l’esistenza dell’indagine, Tedesco si dimise da assessore regionale. Inizialmente le accuse erano di concussione, reato che il Tribunale ha successivamente riqualificato in induzione indebita a dare o promettere utilità. Nel febbraio 2011, la magistratura barese ottenne l’arresto di cinque indagati e chiese l’autorizzazione a procedere anche all’arresto di Tedesco, che nel frattempo era stato eletto senatore. Il Senato bocciò la richiesta per ben due volte e Tedesco due anni dopo, nel marzo 2013, alla scadenza del mandato parlamentare finì ai domiciliari, per 12 giorni. In particolare, la certosina ricostruzione investigativa operata dagli investigatori delle Fiamme Gialle ha consentito di accertare come la 3MC una delle società coinvolte avesse acquistato nell’ottobre 2019 da un fornitore cinese (estraneo alle indagini) oltre 127.000 mascherine filtranti FFP3 al costo unitario comprensivo dei costi accessori (spese di trasporto, diritti doganali, etc.), di 0,36 centesimi di euro; nello scorso mese di marzo. quando, in piena e virulenta deflagrazione della pandemia, sul mercato nazionale risultava quasi impossibile reperire i suddetti dispositivi di protezione individuale, le stesse mascherine successivamente le avrebbe rivendute alla Penta con ricarico medio del 1.800%.che a sua volta le ha acquistate a 6,40 euro e le ha rivendute alla Aesse Hospital a prezzo oscillante tra 12,80 e 14,80 euro l’una iva esclusa poi rivenderli alle ASL di Bari e Taranto che li pagavano 18,28 euro cad., mentre quelli comprati dalla Penta sono stati venduti alle ASL di Brindisi e Lecce a 20,28 euro cad. Le aziende sanitarie locali non si sono potute sottrarre a questa manovra speculativa, dovendo necessariamente approvvigiornarsi delle protezioni per consentire agli operatori sanitari di poter andare a lavorare ogni giorno nei reparti anti-covid. Le imputazioni contestate sono conseguenti a varie ipotesi di reato per manovre speculative sulle merci, avendo acquistato grossi quantitativi di dispositivi di protezione individuale, e successivamente mettendoli in vendita con ricarichi esorbitanti. Gli operatori commerciali destinatari del provvedimento cautelare, abusando anche della loro qualità di prestatori d’opera necessari (in quanto esercenti attività commerciali “operative” in base ai recenti provvedimenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri) hanno così dolosamente profittato di circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare o quantomeno rendere alquanto difficoltosa la protezione sanitaria di pazienti, medici, infermieri, operatori della sicurezza e di ogni altra categoria particolarmente esposta al rischio di contagio.

Truffe sulle mascherine, la nostra indagine per scoprire la verità. Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. Ha suscitato scalpore e indignazione la notizia, diffusa sul web qualche giorno fa, che i carabinieri dei Nas avrebbero contestato ad una farmacia del quartiere Vomero il reato di rialzo fraudolento dei prezzi, rivelando una compravendita di mascherine a cifre inaccettabili. Nel corso del week end abbiamo visitato 16 farmacie di turno nell’area della quinta municipalità di Vomero e Arenella, per verificare su più larga scala la situazione mascherine. Con grande soddisfazione, abbiamo potuto constatare che nessuna delle farmacie, scelte a campione tra le più grandi e frequentate, ha tentato di venderci mascherine – chirurgiche o FFP2 (quelle con una protezione al 95%) – a prezzi spropositati o sospetti. Quattro di queste farmacie ne erano totalmente sprovviste, mentre le altre 12 proponevano mascherine chirurgiche ad un prezzo di circa 2 euro cadauna, mentre le FFP2 o K95(che è il codice equivalente nel mercato cinese) ci sono state proposte ad un prezzo che oscillava tra gli 8 e i 10 euro. In un solo caso abbiamo avuto la sensazione di ricevere una mascherina non del tutto corrispondente agli standard. Abbiamo inoltre riscontrato un sostanziale rispetto delle norme di distanziamento sociale e poche file , composte e più rarefatte rispetto ai giorni scorsi. In quasi tutti i casi, c’è stato detto che le mascherine “erano le ultime due”. È lecito pensare che sia una misura gentile e prudente dei Farmacisti per evitare accaparramenti da parte di singoli clienti. Le cronache di questi tristi giorni danno spesso notizia di operazioni di speculazione e sciacallaggio lungo tutto lo stivale, soprattutto sui prezzi delle mascherine, insoliti e fragili scudi della guerra contro il Virus. Questi comportamenti offendono il lavoro eroico e incessante di medici, infermieri e degli stessi farmacisti, esposti più di tutti al contagio, spesso proprio a causa della mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuale. La V municipalità Vomero e Arenella conta circa 120000 abitanti, con una densità abitativa che supera i 16000 abitanti per Km quadrato e con un elevatissimo numero di persone anziane. Fa dunque piacere sapere di poter contare, al di là di qualche pecora nera, anche sulle Farmacie del territorio, presidi sanitari divenuti, in questi giorni duri, presidi di civiltà.

Rischiano lo stop anche le aziende che si stanno riconvertendo per produrre mascherine. L’allarme arriva dalla Cna. Al momento queste imprese non hanno un codice Ateco. Quindi restano escluse dall’elenco di attività essenziali che possono continuare a lavorare durante l'emergenza Covid-19. Andrea Pegoraro, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale.  “Bisogna permettere l’operatività alle aziende che si stanno riconvertendo per la produzione di mascherine e dispositivi per la salute”. L’allarme arriva dalla Cna, la Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa. Al momento queste imprese non hanno un codice Ateco, cioè i numeri che identificano le varie attività nei rapporti con la pubblica amministrazione. Quindi restano di fatto escluse dall’elenco di attività essenziali che possono continuare a lavorare durante l’emergenza coronavirus. E in un periodo come questo dove scarseggiano i dispositivi di protezione, è importante garantire occupazione anche alle aziende che adattano la loro produzione alle necessità del momento. L’organizzazione delle pmi ha evidenziato che “l’individuazione delle attività e dei servizi essenziali non può essere rimessa alla mera elencazione dei codici Ateco, in quanto risulterebbe incompleta e foriera di numerosi dubbi interpretativi”. Cna condivide l’esigenza di sospendere qualunque attività che non rientra nella fornitura di beni indispensabili per i cittadini. Tuttavia ha presentato all’esecutivo alcune osservazioni sull’operatività del provvedimento. In sostanza, la confederazione ha chiesto almeno 48 ore per fermare in modo ordinato le attività non essenziali, in particolare per consentire alle imprese di realizzare gli interventi indispensabili alla chiusura degli impianti, alla gestione del personale, dei clienti e fornitori e di evadere gli ordini. La stessa cosa è stata sollevata dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, il quale ha chiesto più tempo al governo per dare modo alle aziende di organizzarsi e soprattutto ha chiesto all’esecutivo di valutare con attenzione quali attività chiudere e quali no.

Patuanelli. Intanto il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha sottolineato che il governo non ha ceduto a Confindustria nella definizione del nuovo decreto in quanto “c'è un grandissimo senso di responsabilità di tutti i settori produttivi e dei singoli imprenditori". In un’intervista a Repubblica, l’esponente pentastellato ha spiegato che sono state esaminate le richieste e si è arrivati a una sintesi apprezzabile. I principi guida sono stati di precauzione e di tutela della salute pubblica. Il senatore grillino ha fatto una precisazione sull'allegato che individua i settori che devono restare aperti. "Laddove vi fosse un'attività che non è espressamente indicata, ma che serve una filiera essenziale - ha concluso il ministro -, può continuare a operare comunicandolo al prefetto. Che ha la possibilità di bloccarla, se non ci sono i requisiti, ma in assenza di un intervento la produzione può continuare".

Da ansa.it l'1 aprile 2020. Da giorni gli esperti sottolineano l'importanza dei presidi di sicurezza per gli operatori sanitari, medici e infermieri ma anche per la popolazione ma mascherine, guanti, camici e visiere sono sempre più introvabili. La situazione è particolarmente delicata in Lombardia dove ieri il governatore Attilio Fontana ha fatto sapere che presto si raggiungerà una produzione tale da garantire l'autosufficienza per le mascherine, grazie alle aziende lombarde che stanno riconvertendo la loro produzione. Prima di poter produrre le mascherine però alle aziende vanno comunicati gli standard da rispettare e i risultati delle prove di filtraggio delle stesse mascherine. Questo compito spetta all'Istituto Superiore di Sanità e oggi il presidente dell'Istituto, Silvio Brusaferro ha dichiarato che gli esperti sono pronti. "Siamo pronti: appena abbiamo i risultati sulle prove tecniche di capacità di filtraggio delle mascherine possiamo renderle immediatamente autorizzate", ha detto. "Abbiamo oltre 80 autorizzazioni a produrre in attesa e da quando ci verranno portate le prove tecniche di capacita di filtraggio dei microrganismi, entro un'ora possiamo rilasciare le autorizzazioni, ma nel frattempo il produttore può produrle". "Certamente - ha rilevato - non posiamo permetterci di mettere in circolazione strumenti che non hanno le performance per cui sono state richiesti. Da un lato dobbiamo rispettare gli standard internazionali e dall'altro garantire che gli strumenti di cui dispongono gli operatori rispondano agli standard". L'Iss "ha raddoppiato in 24 ore il personale che si occupa delle mascherine, ha affrontato 800 pratiche e 1400 interlocuzioni con richiesta di chiarimenti cui è stata data risposta ed ha valutato le prove presentate e dato indicazioni ai produttori sulle capacita di filtraggio". Fontana però insiste: "Come sempre la burocrazia è terribile" e "non demorde: noi abbiamo un'azienda che potrebbe realizzare 900mila mascherine al giorno e che potremmo immediatamente distribuire, con tessuti cercati dal Politecnico di Milano, ciononostante l'Iss ha chiesto tempo per poter rilasciare la certificazione che ci permette la distribuzione" ha sottolineato. "Mi auguro che il governo si attivi subito a sostegno della richiesta del governatore Attilio Fontana: è inaccettabile rischiare di morire di burocrazia". Lo afferma il segretario della Lega Matteo Salvini sulla denuncia del governatore della Lombardia sullo stop dell'Iss alla distribuzione di mascherine con tessuti del Politecnico. "Domani dirò a Conte di sbloccare subito la burocrazia per distribuire le mascherine - ha aggiunto Salviini - . Poi faremo tante proposte concrete per la salute dei cittadini". Il segretario della Lega incontrerà, insieme agli altri leader dell'opposizione il premier a Palazzo Chigi. Il governatore del Veneto, Luca Zaia è entrato nella questione chiedendo alla Protezione Civile che si interrompa l'ordinanza che prevede il sequestro delle mascherine chirurgiche, "perchè è giusto che i rivenditori, supermercati e farmacie, le possano comprare. Ma per farlo non ci devono essere i sequestri alle Dogane". "Noi siamo rimasti le prime tre settimane, anche negli ospedali, con la quasi totale assenza di questi dispositivi, e questo ha permesso la diffusione del contagio. Oggi le mascherine ci sono, da una settimana le stiamo fornendo a tutti. Noi in Veneto, grazie al sostegno di una grande azienda, le abbiamo realizzate anche in casa". Sulla questione è intervenuto anche il commissario Domenico Arcuri il quale ha ricordato che l'Italia ha acquistato 300 milioni di mascherine e i dispositivi "arriveranno progressivamente nei magazzini della protezione civile e verranno distribuiti con il criterio che abbiamo concordato con la totalità delle regioni, anche per garantirci assoluta trasparenza ed evitare asimmetrie". Inoltre, ha aggiunto Arcuri, ieri è stata consegnata una "quantità sufficiente di mascherine all'ordine dei medici". " Pensiamo - ha concluso - che anche loro devono essere dotati di una sorta di 'magazzino di scorta', in modo da poter sopperire o aggiungere dotazioni che vanno direttamente a loro". "Abbiamo fatto molti passi avanti nella produzione nazionale di mascherine in una settimana. Le prime 25 aziende della filiera della moda da ieri producono 200 mila mascherine chirurgiche al giorno. Hanno un piano per andare a 500 mila al giorno la prossima settimana e a 700 mila quella successiva; le aziende del settore dell'igiene personale da ieri fanno 250 mila mascherine al giorno, arriveranno a 400 mila la prossima settimana, a 750 mila quella successiva".

Marco Palombi per "il Fatto quotidiano” l'1 aprile 2020. Che la risposta, anche "industriale", al coronavirus sia stata lenta e inadeguata tanto a livello centrale che regionale non è un mistero. Nella penuria di attrezzature sanitarie per far fronte all' onda del Covid-19 in queste settimane si è scatenata una polemica quasi continua tra il governo e le Regioni, specie la Lombardia, più esposta al virus e alle polemiche sulla sua gestione. La novità è che i governatori finora hanno fatto la parte degli accusatori, ma ora il gioco potrebbe essersi rovesciato: "Chiedete alle Regioni cosa stanno distribuendo, sarebbe interessante saperlo", ha detto ieri ai giornalisti il commissario per l' emergenza Domenico Arcuri scatenando, come vedremo, una sorta di guerra con Attilio Fontana e il resto della sua giunta. Una premessa. L'idea, a Roma, è che ormai la filiera della produzione e degli acquisti dei "dispositivi di protezione" (dalle mascherine in giù) e dei macchinari più complessi sia rodata dopo le iniziali defaillance: per questo da ieri è online una mappa detta "Ada" (Analisi distribuzione aiuti) che giorno per giorno riporta ogni singolo prodotto consegnato dallo Stato alle Regioni nell' ambito dell' emergenza Coronavirus dal 1° marzo in poi. Aggiornato a lunedì, si tratta di circa 50 milioni di "pezzi" di materiale sanitario di vario genere, arrivato ovviamente in larga parte nelle regioni più colpite (oltre il 20% alla Lombardia). La pubblicazione è stata fortemente voluta dal governo e un po' meno dai presidenti di Regione: a quanto risulta al Fatto, quasi la metà si è dichiarata contraria nella video-conferenza di lunedì. L' idea dell' esecutivo è che ora siano i governatori a dover spiegare cosa hanno fatto col materiale consegnato: il sotto-testo, neanche troppo nascosto, è che in questo mese i livelli locali non si siano invece organizzati a sufficienza per far arrivare i dispositivi medici dove servono. Tanto più che il ruolo dello Stato centrale in questa vicenda non è unico, ma concorrente con le Regioni: "E a volte supplente", butta lì Arcuri. La reazione della Giunta lombarda - la cui narrazione finora è ruotata attorno al concetto "è tutta colpa di Roma" - è stata un clamoroso autogol: "Sto leggendo dal sito del governo la lista del materiale che presumono di averci inviato. O si è perso qualcosa tra Roma e Milano o hanno sbagliato l' indirizzo del destinatario", ha detto in diretta Facebook l' assessore al Bilancio Davide Caparini. Peccato che quella lista di oltre 10 milioni di pezzi - tra cui 6,8 milioni di mascherine di vari tipi e 458 ventilatori per terapia intensiva e sub-intensiva, oltre un terzo di quelli distribuiti - sia stata vidimata dalla stessa Regione: "Evidentemente Caparini non è informato che domenica 29 marzo, alle ore 21.59, la dottoressa Maddalena Branchi (delegata della Regione Lombardia alle relazioni con gli Uffici del commissario) con una mail ha dato conferma dei materiali inviati dal governo nell' intero mese di marzo alla Regione", gongola Arcuri nella sua nota di risposta. Il paradosso è che, essendoci una differenza sul numero di un prodotto (i monitor), "in via prudenziale" nel sistema sono stati immessi i numeri della Lombardia e non quelli del governo. Lo scontro tra Roma e la giunta leghista sembra essere ormai totale. Ieri, per dire, Fontana - finito di celebrare l' ospedale costruito alla Fiera di Milano - in Consiglio regionale è tornato a ricordare che lui ha chiesto misure restrittive per settimane, mentre il governo spandeva ottimismo sull' epidemia. La replica del governo, affidata a fonti anonime, testimonia lo stato dei rapporti: oltre a ricordare i materiali sanitari e le decine di medici inviati (russi, albanesi, italiani tanto civili che militari), la costruzione di due ospedali da campo (Crema e Cremona), il trasporto di 73 pazienti gravi fuori regione, dal governo fanno notare "che i presidenti delle Regioni sono stati sempre liberi di intervenire con misure maggiormente restrittive. Il presidente Fontana, se lo riteneva giusto, avrebbe ben potuto adottare misure restrittive anche in passato, senza ridursi alla sera del 21 marzo, nelle stesse ore in cui le agenzie di stampa davano la notizia che il governo stava per annunciare il nuovo decreto per sospendere le attività produttive non essenziali". In una giornata così non poteva mancare nemmeno la polemica, ormai rituale, sulle mascherine: un' azienda lombarda "può produrre 900 mila mascherine al giorno", ha detto Fontana, ma il prodotto non ha ancora l' autorizzazione dell' Istituto superiore di sanità. Arcuri però, che pure ha promesso autorizzazioni più rapide, non pare preoccupato dai numeri: "Abbiamo acquisito 300 milioni di mascherine, che arriveranno progressivamente" e in generale "abbiamo una dotazione di dispositivi di protezione individuale che crediamo ci serva per due mesi".

Giovanna Vitale per “la Repubblica” l'1 aprile 2020. Commissario Domenico Arcuri, se è vero che l' Italia ha in dotazione 300 milioni di mascherine, pari al fabbisogno de i prossimi due mesi, come mai gli ospedali continuano a denunciare di esserne sprovvisti e la gente fatica a trovarle in farmacia?

«Siamo passati in una settimana da 330.000 a 2,4 milioni di mascherine al giorno. I dati non sono più un segreto: da oggi sono online. Il nostro lavoro sarà verificabile giorno dopo giorno. Il periodo più difficile è alle spalle. Forniremo al più presto anche chi lavora nelle farmacie. Faccio però notare che non è il governo né il Commissario che deve rifornire per la vendita le 19.448 farmacie e le 6365 parafarmacie italiane».

Con i superpoteri che le ha assegnato il governo potrebbe comprare senza gara dispositivi di protezione ovunque, distribuirli utilizzando l' esercito (accade soltanto da tre giorni), accelerare le certificazioni.

«Io sono il Commissario italiano all' emergenza, non il nuovo padrone del commercio mondiale. Ho il potere di requisire in Italia e lo sto esercitando pienamente. Non senza polemiche e con tante difficoltà».

Sempre lei martedì scorso aveva detto che il "consorzio moda" sarebbe stato in grado di produrre mascherine made in Italy nell' arco di 96 ore. Finora neanche una è stata consegnata alla Protezione civile.

«Due gruppi di imprese italiane, quelle delle filiera della moda e dell' igiene personale, hanno iniziato a produrre 450mila mascherine la settimana. Tra due settimane saranno 1.450.000. Con il nostro lavoro e la disponibilità delle imprese, stiamo dando vita a una filiera industriale che non esisteva nel nostro paese. Tra pochi giorni, alla fine del primo ciclo produttivo, le distribuiranno esclusivamente alla Protezione Civile. E la prima fornitura di 250.000 mascherine prodotte in Abruzzo l' azienda la regalerà alla sua regione».

Iss e Inail stanno ricevendo tante richieste di certificazione dei dispositivi di protezione dalle aziende produttrici, col risultato di creare un imbuto e allungare i tempi della distribuzione.

«Non c' è alcun ingorgo burocratico. Facciamo parlare i numeri. Sono state presentate ad oggi 258 domande: 129 sono state già respinte per assenza di presupposti, 52 hanno ricevuto un parere negativo e 40 sono state autorizzate a produrre. Le altre 37 sono in valutazione».

I dispositivi medicali, ossia le mascherine Ffp2 e Ffp3, sono di importazione cinese e la gara Consip per approvvigionarsene è stata un fallimento. L' Italia ha lo know how e i materiali per farle?

«In una settimana è stato varato l' incentivo "Cura Italia". Proprio per accelerare la creazione di un' offerta italiana di questi prodotti. In cinque giorni sono state attivate 1.410 domande e pervenute 375 proposte di investimento. Domani Invitalia approverà i primi quattordici progetti. Stiamo davvero correndo».

Ancora lei una settimana fa confessò di non capire perché le mascherine date in distribuzione poi non arrivavano alle regioni. Ha capito perché e dove sparivano?

«Non voglio alimentare polemiche e non è più interessante saperlo. Da sabato scorso, il materiale che arriva a Malpensa e Fiumicino con i cargo della Difesa, che vanno a ritirarlo nel mondo, viene caricato sugli aerei militari e consegnato nella stessa giornata alle Regioni. Non solo: viene tracciato e le informazioni tutte le sere sono certificate e messe online. A disposizione di tutti. Le assicuro che non è un lavoro facilissimo. Quando domenica ci siamo confrontati con Amazon per capire come migliorare ancora, ci hanno detto che consegnare entro le 24 ore è un ottimo risultato».

Fermo restando che lei è commissario dal 18 marzo, non ci si poteva pensare prima della pandemia a ordinare ventilatori e mascherine?

«Batta un colpo chi crede che prima di Codogno con 3 soli contagiati in Italia potesse essere autorizzata una spesa di circa 2 miliardi».

Il governatore Fontana anche oggi ha tuonato contro il governo. Ci sono delle regioni che remano contro per motivi politici?

«Non faccio polemiche, nemmeno sotto tortura. Mi limito però ad osservare che una percentuale assai rilevante di tutti i materiali, come era giusto vista la concentrazione dell' epidemia, sono stati consegnati in Lombardia. E che la Costituzione all' articolo 117 definisce "poteri concorrenti" nella gestione della sanità Governo e Regioni».

Vi sono arrivate offerte da parte di imprenditori disposti a fare da mediatori per reperire mascherine sul mercato cinese. Perché le avete rifiutate o non avete risposto?

«A noi e alla protezione civile sono pervenute migliaia di proposte. In Italia arrivano più intermediari - con tanti sponsor - che produttori di mascherine. C' è un piccolo particolare, spesso dimenticato: lo Stato non paga acconti né salda all' ordine. Paga solo alla consegna del materiale in Italia. Gli intermediari se ne facciano una ragione».

I medici muoiono e la Protezione civile manda un milione di mascherine non a norma: “Bloccate tutto”. Redazione de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Si tinge di giallo la fornitura di mascherine FFp2 dalla Protezione all’Ordine dei medici. In una conferenza stampa tenuta oggi il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri aveva infatti sottolineato come erano state acquistate “300 milioni di mascherine e a breve avvieremo una distribuzione concordata con le Regioni. Già ieri è stata consegnata una quantità sufficiente all’Ordine dei Medici”. Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, aveva quindi precisato che agli Ordini dei medici erano state consegnate “620 mila mascherine Ffp2-Ffp3”. Ma qualcosa è andato storto. A metterlo nero su bianco è Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri. In una lettera invitata ai presidenti degli Ordini regionali dei medici, Anelli invita infatti a “sospendere immediatamente la distribuzione e l’utilizzo di quanto ricevuto, informando nel contempo eventuali medici o strutture che ne fossero già in possesso”. Il motivo? Nella lettera Anelli precisa che “il Commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica Covid-19, dott. Domenico Arcuri, mi ha appena informato che le mascherine contenute in involucri che riportavano la dizione maschere Ffp2 equivalenti, inviati dalla Protezione Civile, in data odierna, agli OMCeO dei capoluoghi di Regione, non sono dispositivi autorizzati per l’uso sanitario dalla Protezione Civile”. Proprio Arcuri in conferenza stampa aveva precisato che “nessun dispositivo e nessuna apparecchiatura acquisiti non hanno superato il vaglio del Comitato tecnico scientifico che ne certifica la qualità e  la compatibilità con le norme”.

Sulla vicenda è intervenuto con un post durissimo Mauro Cappelletti, presidente dell’Ordine dei medici di Alessandria, che ha ricordato come dall’inizio dell’emergenza “siamo a 70 medici morti e centinaia in ospedale o rianimazione”, mentre il “milione di mascherine Ffp2 mandate dal Ministero della Salute agli Ordini dei medici perchè le distribuiscano ai medici (circa 4 per medico) non sono utilizzabili per uso sanitario”.

Marco Lombardo per “il Giornale” il 31 marzo 2020. Un milione e quattrocento mila mascherine al giorno dalla filiera della moda. L' azienda di pannolini in provincia di Varese che trasforma i suoi pannolini in strumenti di protezione. Le aziende tessili che riconvertono la produzione. Così, il made in Italy si schiera compatto per affrontare la crisi, con uno slancio ammirevole. Resta però il problema di chi l' emergenza la vive ogni minuto: gli operatori sanitari. Lo dice ora anche l' Oms: «La priorità va a chi lavora per curare i malati. Le persone sane lascino le protezioni a chi ne ha bisogno». E quindi: servono mascherine professionali, ma non ce ne sono per tutti. Moltissime sono ferme alla dogana. E il perché è incredibilmente scritto nero su bianco nel decreto del 17 marzo del governo, seguito poi dalla direttiva del commissario straordinario Domenico Arcuri. In pratica: le norme che liberalizzano la produzione degli strumenti di protezione, prevedono alcuni paletti. L' accusa arriva dalle aziende italiane che importano i dispositivi ospedalieri, per le quali «si sta giocando con la salute di medici e infermieri». Tanto che, e qui è il fatto grave, mascherine destinate al nostro Paese finiscono all' estero. «Non possiamo far fallire le nostre realtà per colpa di regole assurde». Queste, per esempio: il decreto consente alle aziende, grazie a finanziamenti a fondo perduto, di poter entrare nel campo della produzione di mascherine. Ma per fare in fretta viene consentita l' autocertificazione riguardo al marchio CE e alle altre norme di sicurezza di solito obbligatorie. Si manda il modulo all' Istituto Superiore di Sanità, il quale dovrebbe controllare tutto in tre giorni. Intanto però le mascherine già pronte, vista l' urgenza, vengono già distribuite. Così l' Associazione Nazionale per la Prevenzione, in un comunicato, fa notare che i lavoratori che ora dovrebbero entrare nel sistema produttivo sono senza le giuste e vitali protezioni: «Lo Stato ha cominciato a bloccare tutte le forniture di mascherine ffp2 ed ffp3. E ora ha fermato persino le semi maschere professionali a filtri, dirottate in blocco al settore ospedaliero e alla Protezione civile, necessarie invece a tutti i lavoratori che sono a contatto con rischi certi come polveri, amianto, fumi e gas. Si sta verificando la stessa cosa già accaduta con i medici: quella di mandarli al fronte senza armi». Per risolvere il problema servirebbe allora importarle, perché le aziende che fabbricano materiale sanitario in Italia sono poche e coprono più o meno il 10 per cento dell' attuale necessità. Però, anche in questo caso, il decreto combina un pasticcio, come rilevano appunto le società che distribuiscono materiale certificato: «Prima della crisi una mascherina ospedaliera ordinata in Cina costava circa 15 centesimi. Adesso per farla arrivare in Italia ce ne vogliono più o meno 60, anche se sono state eliminate certe imposte. Sapete quanto ci rimborserà il governo dopo averle requisite? La bellezza di 16 cent... Risultato: volevamo dare una mano all' Italia, le avremmo chiesto massimo 0,70, giusto per pagare le spese visto che i cinesi ora chiedono soldi cash. Invece, per esempio, una delle nostre aziende aveva una partita pronta da 570mila pezzi e le ha dirottati in Polonia. Lì li hanno pagati 1 euro e 10». Dunque: con un mese di ritardo rispetto all' inizio della crisi, ora la Protezione Civile è riuscita a distribuire i primi 10 milioni dispositivi agli ospedali, una scorta comunque per due-tre giorni. I tentennamenti e poi l' imbuto del decreto hanno però impedito di intervenire per tempo. E il risultato, secondo gli importatori, è agghiacciante: «Siamo il Paese con più vittime tra medici e infermieri. Bastavano pochi milioni di euro spesi nel momento giusto e questo non sarebbe successo».

Coronavirus: perché non si trovano le mascherine. Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 29 marzo 2020 su Dataroom de Il Corriere della Sera. Il 22 gennaio — ossia ben 28 giorni prima del caso Codogno — il ministero della Salute scrive, e dunque sa, che il personale sanitario che dovrà occuparsi di casi di Covid-19, oltre ad adottare le misure standard di biosicurezza, dovrà indossare la mascherina protettiva adeguata. Il 4 febbraio i medici scrivono alle autorità chiedendo di provvedere ai rifornimenti di protezioni di sicurezza per gli operatori sanitari. Le forniture restano lettera morta. A epidemia conclamata solo il circuito sanitario della Lombardia ha bisogno di 1,1 milioni di mascherine al giorno, l’Emilia Romagna 500.000, il Veneto 600.000. Ogni mese in Italia ne servono 90 milioni.

I fornitori esauriscono le scorte e pagano di tasca propria. La prima costretta muoversi è la Lombardia. Già a ridosso del 20-21 febbraio solo pochi rifornimenti agli ospedali riescono ad arrivare dai fornitori storici che avevano vinto le gare e avevano stock in magazzino, gli altri avvengono in emergenza come quello della Crespi Enterprise. Le mascherine Ffp3, le migliori sul mercato, sono vendute a 3,39 euro, ma quelle arrivate dalla Cina a gennaio dal loro produttore a Wuhan, e ordinate un mese e mezzo prima, costano 9,6. Poi più nulla. Nella stessa situazione i fornitori dell’Emilia Romagna: compravano in Cina da aziende che producevano secondo gli standard di qualità europei, ma da gennaio non consegnano più. Da quel che risulta, fino ad esaurimento scorte, nessuno ha applicato rincaro dei prezzi. In Veneto la Medline dirotta tutto solo sulla sanità veneta applicando gli stessi prezzi di aggiudicazione di due anni fa. Intanto l’epidemia si allarga e i fornitori cercano su altri mercati. La Comitec, che fornisce Emilia Romagna e Marche, si rivolge alla Turchia e ordina milioni di pezzi certificati alla Edge Mask: le Ffp2 che prima vendeva a 65 centesimi, salgono a 2,50 euro, le Ffp3 passano da 1 euro a 4,35. Consegnato il primo lotto da 200.000 e sborsato 670.000 euro, Erdogan le blocca il 5 marzo alla dogana di Ankara. A nulla serve l’implorazione del premier Conte. L’azienda ci ha rimesso i soldi, fine. La Lombardia ha 500.000 pezzi bloccati a Mumbai (India), e 100.000 l’Emilia Romagna. A provvedere per tutto il territorio è incaricata la Protezione civile nazionale, attraverso la Consip con call internazionale: al 24 marzo i pezzi distribuiti alle Regioni non raggiungono il 30% del fabbisogno reale.

Il mercato parallelo degli intermediari. In questa drammatica ricerca del principale presidio di protezione dal contagio per il personale sanitario, lavoratori essenziali e cittadini, fioriscono broker e aziende che si improvvisano come intermediarie. Dice Silvia Orzi, direttrice del Servizio acquisti ospedalieri per l’Emilia Romagna: «A questo punto abbiamo cominciato a trattare con tutti, dai venditori di piastrelle a quelli dell’acciaio, che dicono di avere contatti personali con la Cina o altri Paesi, ed escludiamo chi non ci dà abbastanza garanzie. Forniamo una lettera di credito e paghiamo alla consegna, ma i primi ordini non sono mai arrivati, allora in alcuni casi anticipiamo il 10% con bonifico assicurato, alla fine qualcosa arriva, ma in termini ridotti rispetto a quello promesso».

Rubate, bloccate, perse in giro per il mondo. Il primo contratto è dell’ultima settimana di febbraio con la «Med 24» di Bologna, che promette 2 milioni di mascherine chirurgiche dal Brasile a 40 centesimi Iva compresa. Parte l’ordine il 26 febbraio: pagamento 50% alla consegna e saldo a 60 giorni. Le mascherine fanno tappa a Bangkok, per sbloccarle interviene la Farnesina. Ripartono per l’Italia via Londra. E lì si fermano in un deposito in città. La «Med 24» interpellata dice: «Ci sono problemi con i trasporti». Hanno trattato con la Bcm di Modena che commercializza metalli, consegna dopo una settimana e pagamento a sette giorni. Alla fine scrivono che il carico resta a Shanghai perché i cinesi vogliono pagamento cash. Si propone la ditta Linea Agri (fa vendite online): ordinate il 13 marzo 100.000 mascherine chirurgiche e 539 tute protettive. Il 23 marzo arriva la email: «Purtroppo la merce ci è stata rubata prima dell’arrivo in Italia. Ci scusiamo per il disagio». La Farmaceutica internazionale di Gravellona Toce importa farmaci, ora anche mascherine tramite il loro grossista. Ordinati un milione di pezzi, Ffp2 con valvola, costo 7,40 euro l’una. Arrivato un lotto da 60.000 la prima settimana di marzo, poi più nulla. Il carico è stato fermato prima a Dubai e poi in Canada. «Le dogane hanno cominciato a bloccare perché giravano brand falsi e senza certificazione — dicono — ma dovrebbero arrivare in Italia il 30 marzo».

Dalla produzione di piastrelle fino alle mascherine. Alla Centrale acquisti di Parma propone via WhatsApp qualche milione di mascherine Ffp2 Ettore Ricchi di Maranello, venditore di ceramiche in Cina: «2,8 dollari l’una, più i costi del trasporto, da quantificare, bonifico anticipato». Il dialogo si ferma subito. Ricchi sostiene di averne già acquistate 200.000, che le venderà a 2 euro: un po’ ad una farmacia di Roma di via Cassia, qualche migliaia glieli ha chiesti il comando dei Carabinieri di Sassuolo (che smentiscono), e 130.000 alla Sensor Medics di Milano che ha già versato il bonifico. La Sensor, che compra direttamente dai produttori cinesi e indiani e fornisce molte strutture lombarde, si fida: «Abbiamo comprato questo piccolo lotto per fare un favore a un politico che ce lo ha raccomandato, in realtà non abbiamo bisogno di utilizzare broker». In Lombardia il film è più o meno lo stesso, idem in Veneto dove un intermediario, che aveva già intascato un anticipo, vende a 3 soggetti diversi un carico da 500.000 mascherine, e agli ospedali non arriva niente.

Il costo dei trasporti a peso d’oro. I rivenditori che sono riusciti a prendere le forniture in Cina oggi devono pagare il charter che prima chiedeva 60/80 mila euro e adesso costa 500.000 euro, perché non devono più competere con i voli di linea che le caricavano nelle stive. E quindi tutto rincara: le tute protettive, che costavano 13 euro, oggi a meno di 20 non si trovano. Le mascherine chirurgiche arrivate in Lombardia sono passate da 10-30 centesimi a 1,4 euro. Inoltre su 123 milioni di pezzi (fra chirurgiche, Ffp2 e Ffp3) ordinati dalla Centrale acquisti, al 24 marzo ne sono arrivati 6,3 milioni. Quel che basta per una settimana.

Il commissario accentra, i sequestri della dogana. I broker comprano grosse partite con la lettera di credito delle centrali acquisti, ma succede che solo una parte la mandano agli ospedali, il resto va sul mercato online o ad altri canali. L’art. 6 del decreto 18 del 17 marzo prevede che tutto il materiale non destinato a servizi essenziali o salute pubblica, venga sequestrato e consegnato agli ospedali. Il Centro estetico di Napoli acquista 20.000 mascherine Ffp2 dalla Turchia per i suoi operatori, ma contemporaneamente si fa il sito internet per rivenderle a 6 euro l’una. A un’azienda di Vicenza viene bloccato un carico di mascherine chirurgiche acquistate in Tunisia in esportazione sotto forma di materiale idraulico. Una parafarmacia ne aveva accumulate 30.000 in un magazzino della Nomentana, destinate al mercato su internet, spacciate per Ffp2 con certificazione Ce falsa. A Verona ne arrivano 30.000 destinate ad un comune del Veneto che ne aveva però ordinate 10.000. In 5 giorni l’agenzia delle Dogane confisca 1 milione e mezzo di mascherine, 2,7 milioni di guanti, 1.840 dispostivi di ventilazione, 4.398 apparecchi medicali, 23 aspiratori chirurgici, 50.000 apparecchi per la terapia intensiva. Il materiale immediatamente sbloccato viene inviato lo stesso giorno agli ospedali attraverso la protezione civile locale. L’indennità spettante ai proprietari verrà liquidata dal Commissario straordinario. Il Commissario Arcuri ha però deciso che tutto il materiale sequestrato deve essere accentrato presso la Protezione civile nazionale, che poi deciderà a quali strutture redistribuirlo. Quindi si strozza tutto nel collo di bottiglia della burocrazia romana, mentre le Protezioni civili regionali affannano nella ricerca di ventilatori polmonari e aspiratori chirurgici, disponibili in depositi a pochi metri da loro in attesa che si decida dove debba andare.

Cosa sta bloccando la produzione italiana. L’art. 15 dello stesso decreto autorizza la produzione di guanti e mascherine per uso medicale e per i lavoratori, in deroga alle norme Ce. Molte aziende, grandi e piccole, si sono attivate per la riconversione della loro attività, ma prima di partire con gli investimenti vogliono avere certezze sul fatto che nessuno contesti poi la sicurezza del prodotto. È richiesta l’autocertificazione del produttore, ma secondo quale criterio? In Germania l’autorità sanitaria ha disposto un protocollo semplificato da seguire. In Italia quaranta produttori si sono rivolti a Italcert e società che testano i materiali per avere indicazioni, le quali hanno definito una procedura semplificata e inviata all’Inail e all’Istituto superiore di Sanità (Iss). Tempo previsto per la risposta: tre giorni. Inail l’ha subito bocciata: occorre seguire la procedura standard (che richiese qualche mese); l’Iss dopo 10 giorni ancora non si pronuncia. Nel mentre, le aziende che sarebbero pronte alla riconversione, sono ferme. Altre hanno iniziato la produzione, ma sono bloccate comunque dalle autorizzazioni romane. In compenso nel decreto, accanto alla frase che autorizza la produzione in deroga alle norme vigenti, è stata inserita la parola «e importazione». Un grande vantaggio per i produttori stranieri di dispositivi fatti con materiali scadenti, e che le dogane non possono più fermare perché basta l’autocertificazione del produttore. Una norma nata per favorire il mercato interno e soddisfare l’enorme richiesta di protezione per operatori sanitari, lavoratori e cittadini, è diventata anche una manna per quei grossi broker che comprano «robaccia» dal produttore indiano o cinese.

Francesco Galietti per ''Italia Oggi'' il 26 marzo 2020. Una delle misure più sbandierate del decreto Cura Italia si rivela un amaro bluff. Si tratta dell'articolo 15, rubricato «Disposizioni straordinarie per la produzione di mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale». Per agevolare la produzione domestica di mascherine, il Governo ha sì scelto di derogare l'accreditamento CE. Non ha tuttavia concesso ai produttori interessati la possibilità di far testare materiali diversi da quelli prescritti dalle normative UNI ISO 10993 e UNI ISO 14683. Lo si desume anche dal sito dell'Istituto Superiore di Sanità, che si chiama fuori dallo svolgimento di alcun tipo di prova di laboratorio e ribadisce che i prodotti devono rispondere alle norme sopra citate ad esclusiva responsabilità del produttore. È un pericoloso controsenso, dato che i materiali tassativamente prescritti in Italia si trovano poco, e vengono invece prodotti massicciamente in Cina. Pertanto, anche se si riuscisse a realizzare le mascherine in Italia, saremmo alla mercé di Pechino per l'approvvigionamento del tessuto. Un vero disastro, insomma, che frena moltissimo la flessibilità e l'ingegno imprenditoriale di molte aziende italiane. Al danno si somma la beffa. Alle aziende più determinate, infatti, le autorità hanno risposto che le stesse aziende possono svolgere le prove di laboratorio sul proprio materiale. A ben vedere, si tratta di una risposta degna di Ponzio Pilato. Con tutte le attività chiuse, infatti, gli esiti delle prove tarderebbero parecchio tempo ad arrivare. Ecco perché molti imprenditori hanno dovuto tornare sui propri passi oppure si stanno affidando a enti regionali che a loro volta stanno testando tutti i materiali disponibili presso molti produttori. Pur accordando priorità ai materiali previsti dalle specifiche ministeriali, non mancano scelte in aperto contrasto con le disposizioni del Governo. La speranza, infatti, rimane quella di reperire le quantità di materiale che al momento mancano sul mercato. Il differenziale di prezzo tra le mascherine importate dalla Cina e quelle prodotte autarchicamente è enorme (le prime costano il doppio delle seconde) e dover dipendere dalle importazioni costerebbe al contribuente italiano molto di più.

277 articoli di legge ma un imprenditore non può vendere le mascherine. Quella del Coronavirus è una emergenza complicata, ma l'anima burocratica di questo Stato non ne vuole proprio sapere di rinunciare a complicare ai cittadini la loro vita presente e futura. Alessandro Sallusti, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. Quella del Coronavirus è una emergenza complicata, ma l'anima burocratica di questo Stato non ne vuole proprio sapere di rinunciare a complicare ai cittadini la loro vita presente e futura. In poco più di un mese, sull'argomento Palazzo Chigi e dintorni hanno emesso sei tra leggi e decreti legge, due delibere del Consiglio dei ministri, otto decreti del presidente del Consiglio dei ministri, diciannove ordinanze del capo dipartimento della Protezione civile, un protocollo, una ordinanza del ministero della Salute e due direttive del ministro della Pubblica amministrazione. In tutto parliamo di 277 tra articoli di leggi e disposizioni che nella loro versione abbreviata senza allegati e rimandi - occupano trecento pagine. Una montagna di carte, spesso scritte in burocratese stretto con indicazioni che su alcuni temi interferiscono tra di loro. Imprenditori, commercianti, commercialisti, avvocati ma anche semplici cittadini ci si stanno spaccando sopra la testa cercando di capire quali sono i loro diritti e i loro nuovi doveri. Esagerato? Leggete questa lettera che ho ricevuto ieri (e all'interno l'intervista all'interessato): «Dispongo, in qualità di titolare di azienda farmaceutica, di una partita di almeno un milione e mezzo di mascherine (certificate Cee), che ho offerto a tutti (Regioni, Protezione civile, ospedali ecc...). Siamo in piena emergenza, però, causa questioni burocratiche, nessuno sino ad ora si è mostrato interessato all'acquisto, nel frattempo medici e personale sanitario muoiono, un numero spropositato di ammalati lascia questo mondo in piena solitudine (forse non succedeva neppure in tempo di guerra, perché esistevano cervelli e organizzazioni diverse)». Ecco, 39 provvedimenti di legge, 277 articoli, trecento pagine di scartoffie e un imprenditore deve tenere in magazzino un milione e mezzo di mascherine salvifiche perché la burocrazia lo respinge. E allora dico: se dobbiamo cambiare registro facciamolo tutti, sudditi e sovrani. Meno chiacchiere, meno norme e più fatti.

Bari, mascherine da 1 euro vendute a 18: sequestri in azienda genero ex assessore. Inchiesta nata da un articolo della «Gazzetta». Imprenditore accusato di manovre speculative su merci di prima necessità. Massimiliano Scagliarini il 26 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Le mascherine “ffp3” da 1,25 euro sono state rivendute alla Asl di Bari a 18 euro l’una, in un momento in cui il fornitore originario - la multinazionale americana 3M - non procedeva alle consegne sostenendo che la merce non fosse disponibile. Per questo stamattina il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Finanza di Bari, agli ordini del colonnello Pierluca Cassano, su disposizione del procuratore aggiunto Roberto Rossi ha effettuato perquisizioni e sequestri nella sede della Aesse Hospital amministrata da Elio Rubino, genero dell’ex assessore alla Salute della giunta Vendola, Alberto Tedesco. L’imprenditore, 47 anni, è accusato di manovre speculative su merci di prima necessità, ipotesi di reato che consente anche il sequestro della merce quando il tentativo di lucrare su beni di prima necessità viene scoperto in flagranza. L’inchiesta della Procura di Bari è nata da un articolo della “Gazzetta” in cui si raccontava, appunto, del fatto che 3M non consegnava le mascherine previste da un appalto dello scorso anno, e che contemporaneamente per quelle stesse mascherine la Asl di Bari riceveva offerte a prezzi sensibilmente più alti. Dopo la pubblicazione dell’articolo, la multinazionale ha riavviato la fornitura e ieri ha consegnato alla Asl altre 4.800 mascherine “ffp3”. La Aesse Hospital è la stessa società coinvolta nella “sanitopoli” scoppiata in Puglia tra 2007 e 2009: l’ipotesi - che poi non ha retto in Tribunale - era che manager e primari ospedalieri, nominati con l’intervento dell’assessore Tedesco, acquistassero poi forniture ospedaliere dalle aziende riconducibile alla sua famiglia.

La Guardia Finanza sequestra altre 23.000 mascherine. Coinvolto a Massafra anche il solito nome "eccellente"....Il Corriere del Giorno il 27 Marzo 2020. Sottoposte a sequestro circa 10.000 mascherine e il titolare dell’attività  con sede a Massafra (coincidenze…?) è stato denunciato alla Procura della Repubblica per violazione dell’art.501 bis c.p. Dai giorni scorsi, militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, hanno orientato la propria attività per fronteggiare l’emergenza sanitaria connessa al rischio da contagio da virus “COVID- 19” , alla ricerca di elementi utili per la determinazione dei prezzi di acquisto e di vendita praticati prima e durante la pandemia, al fine di scongiurare possibili manovre speculative. Le Fiamme Gialle del Nucleo di Polizia Economico – Finanziaria hanno sottoposto a controllo esercizi commerciali che ponevano in vendita dispositivi di protezione individuale (DPI) utilizzati per la profilassi tesa a contenere il contagio da CODIV-19 al fine di valutarne le oscillazioni di prezzo in relazione alla notoria difficoltà di reperimento in questo periodo. Dai riscontri è stato accertato che la variazione in aumento dei prezzi in termini percentuali oscillava tra il 700% e il 1500% circa. Mascherine che nel 2019 venivano acquistate a 0,50 centesimi di Euro per fronteggiare l’emergenza sanitaria connessa al rischio da contagio da virus “COVID- 19” ora, in piena crisi sanitaria, venivano proposte in vendita agli Enti pubblici ad oltre 5 euro! Inoltre, nell’ambito di un controllo alla rivendita Polyedil  della società POLIBECK s.p.a. con sede a Massafra, è stato rilevato che venivano offerte in vendita le   mascherine FFP2 all’importo di € 16,50 l’una. Al momento dell’accesso, i finanzieri operanti hanno rilevato la presenza di operatori del 118 che, entrati per effettuare un acquisto di mascherine, avevano dovuto rinunciarvi a causa del prezzo eccessivamente lievitato rispetto a quello di poco superiore al prezzo di 1 euro che veniva richiesto in periodo pre-emergenza CoronaVirus. Altri dettagli imbarazzanti verranno rivelati stasera in diretta sui socialnetwork Facebook ed Instagram dal nostro Direttore. Per tali ragioni, sono state sottoposte a sequestro circa 10.000 mascherine e Alessandro Melone rappresentante legale della Polyedil s.r.l.  controllata dalla Polibeck s.p.a. con sede a Massafra, società a sua volta  controllata al 100% dalla CISA s.p.a. di Antonio Albanese, che è suo zio (figlio della sorella Tina Albanese), è stato denunciato alla Procura della Repubblica per violazione dell’art.501 bis c.p. Tutti i dispositivi sequestrati, con provvedimento dell’Autorità Giudiziaria verranno messi, tramite il Prefetto di Taranto, a disposizione del Dipartimento di Protezione Civile per i necessari provvedimenti di acquisizione ai fini della successiva distribuzione agli Enti che ne abbiano necessità per far fronte alla contingente carenza, come disposto del D.L. 18/2020 (Decreto “Cura Italia”). In totale sono più di 30.000 le mascherine complessivamente sequestrate ad oggi,  di cui 7.000 già consegnate alla ASL di Taranto in data odierna in esecuzione di ordinanza di requisizione emesso dal Prefetto di Taranto a seguito del provvedimento di messa a disposizione emesso dalla Procura di Taranto nei giorni scorsi.

Coronavirus, quanto costano davvero le mascherine e perché i prezzi sono saliti. Le Iene News il 24 marzo 2020. Da tutta Italia ci avete mandato foto di scontrini di acquisto di mascherine contro il coronavirus, pagate anche 60 euro l’una. C’è una ragione però se il prezzo è salito: lo abbiamo chiesto a un operatore che conosce il mercato e ci racconta cosa sia successo. “La richiesta è altissima e la disponibilità limitata: ecco perché i costi delle mascherine sono saliti”. A spiegare a Iene.it cosa sia successo davvero al prezzo delle mascherine ai tempi del coronavirus è Samuele Falcone, consulente di marketing che ha contratti di lavoro con gestori cinesi di e-commerce e che questo mercato lo conosce molto bene. Tutti sappiamo che da qualche settimana in Italia è molto difficile trovare le mascherine: molte farmacie le hanno esaurite, e in alcuni casi c’è chi le ha comprate a prezzi molto alti. Abbiamo ricevuto tantissime segnalazioni di mascherine vendute a prezzi maggiorati, e noi cerchiamo di spiegarvi perché tutto questo è accaduto.

Partiamo però dalle vostre segnalazioni: In una farmacia del centro di Milano 4 mascherine FFP3 sono state vendute a 240 euro. E sempre nella stessa farmacia, il giorno prima, 2 mascherine FFP3 comprate a 120 euro. Nel video che potete vedere qui sopra invece si vede un uomo mentre chiede il prezzo delle mascherine in una farmacia di un centro commerciale del milanese. “Vendono mascherine FFP2, quelle con filtro, a 26 euro l’una. Poi mi hanno offerto lo stesso modello ma senza filtro, del tutto simili a quelle che si vendono in ferramenta per fare lavori di bricolage, a 22 euro. Ho chiamato la Guardia di finanza e ho fatto la segnalazione: mi hanno ringraziato ma non so poi cosa sia successo”. E ancora il caso di una donna di Latina, che ci ha scritto: ”Ho comprato due FFP2: il prezzo iniziale era di 20 euro l’una, mi ha anche fatto lo sconto e alla fine le ho pagate 32 euro in totale. E dire che lui non le avrà acquistate a un prezzo superiore ai 3,9 euro. La giustificazione è stata che il fornitore ha aumentato il prezzo. Non dovrebbe essere multato anche lui?”. È importante intanto segnalare che nei casi dei due scontrini da 120 e 240 euro,  il farmacista si sarebbe limitato ad applicare un margine nei termini di legge, entro il 60%, perché il prodotto gli era già stato fornito ad un costo molto elevato. Lo ha confermato lo stesso Comandante dei Nas dei carabinieri di Milano, Salvatore Pignatelli, che ha calcolato un ricarico del 40%, sottolineando come il prezzo d’acquisto da parte della farmacia milanese fosse già molto alto. Come funziona allora la filiera d’acquisto delle mascherine? Ce lo spiega ancora Samuele Falcone: “I prezzi a cui si possono acquistare variano a seconda che le mascherine vengano importate da un distributore, quindi da almeno un milione di pezzi in su, o da un semplice rivenditore e quindi anche solo qualche centinaio di unità”. E poi ci dà i prezzi medi: “L’introvabile FFP3, se fatta arrivare in Italia in grandi quantità, può costare all’importatore da 1,3 a 2,9-3 euro. Le FFP2, o anche le N95, una certificazione americana del tutto simile, vengono importate a prezzi dai 2 euro ai 2,5. Di mascherine chirurgiche invece ce ne sono di due tipi: quella suggerita per uso civile si trova anche a 0,20-0,30 euro mentre quelle per uso sanitario, sempre a seconda delle quantità ordinate, possono essere pagate dall’importatore tra i 35 e i 50 centesimi di euro. Questi sono i prezzi dei miei contatti in Cina”. Prezzi maggiorati di poco in Cina, spiega ancora Falcone, rispetto a prima della pandemia da coronavirus: “Le chirurgiche per operatori sanitari costavano 0,20 euro, le FFP2 0,96 e le FFP3 1,3”. Ma cosa è successo allora? Perché le mascherine arrivano a costare di più? Spiega ancora Samuele Falcone: “Funziona così. Prendiamo ad esempio una FFP3. Chi la importa lo fa a 1,3 euro e vuole farci un margine del 10% e così la venderà al rivenditore locale a 1,43. Questi a sua volta, che rifornisce ad esempio le farmacie, l'acquista a 1,43 e aggiunge un suo margine del 20%: quindi la venderà alla farmacia a 1,71 euro. La farmacia infine applica il suo margine, ad esempio il 25%, al quale dovrà aggiungere l’Iva, che verrà pagata dal consumatore finale. E così potrà vendere a 2,13 euro più il 22% di Iva. Normalmente quindi il consumatore finale acquisterebbe la mascherina a 2,59 euro. È successo però che a qualsiasi livello di questa catena di distribuzione è stato aumentato il prezzo di vendita, in modo esponenziale. La richiesta era altissima e la disponibilità limitata: e così a partire dal produttore il prezzo del bene è stato alzato, fino ad arrivare ai prezzi davvero importanti pagati dal consumatore finale, al dettaglio”. Alcune speculazioni comunque potrebbero non essere mancate, tanto che la Procura di Milano ha aperto nei giorni scorsi un fascicolo ipotizzando, a carico di ignoti, il reato di "manovre speculative". Un’ipotesi di reato che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni e una multa da 516 a 25.822 euro. Intanto il Codacons, sul proprio sito, ha messo a disposizione dei consumatori romani un numero di telefono per ottenere informazioni sulle farmacie della Capitale che vendono mascherine e gel disinfettanti al corretto prezzo di mercato.

Come si indossano le mascherine chirurgiche, evitando gli errori più comuni. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Obbligatorie in gran parte d’Italia le mascherine sono uno di quegli oggetti con cui impareremo a convivere per le prossime settimane. Grazie alla loro funzione di barriera per naso e bocca, permettono di limitare fortemente la diffusione delle droplets, ovvero le goccioline di saliva che veicolano il virus. Ne esistono diversi modelli, in base alla loro capacità filtrante ma le più diffuse, ed economiche, sono quelle chirurgiche. Il governo ha imposto un prezzo calmierato di 50 centesimi +iva, che dovrebbe essere tagliata a breve, anche se al momento trovarle non è così semplice. Le mascherine chirurgiche, a differenza dei modelli ffp2 e ffp3, sono efficaci soprattutto per proteggere gli altri: bloccano infatti i fluidi in uscita mentre sono molto meno preformanti per quelli in entrata, nel caso, cioè, in cui qualcuno ci tossisca a breve distanza. Funzionano, quindi, se tutti le utilizzano ma, soprattutto se vengono indossate nel modo giusto. Può sembrare banale, ma esistono alcune semplici regole da tenere a mente per essere certi che le mascherine facciano il loro dovere. Innanzitutto, è necessario lavare le mani con acqua e sapone o con un disinfettante a base alcolica prima di maneggiare la mascherina. Bisogna poi assicurarsi che il lato corretto della mascherina, solitamente bianco in quelle colorate, sia rivolto verso l’interno e che il bordo superiore rigido sia opportunamente piegato sul ponte del naso mentre quello inferiore deve aderire al di sotto del mento. Solo in questo modo il dispositivo di protezione riuscirà a svolgere a pieno l’azione filtrante.

Coronavirus, come sono fatte le mascherine e quali utilizzare. Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2020. Il web pullula di idee stravaganti e tutorial più o meno credibili per fare in casa le mascherine contro il coronavirus, ma per realizzare strumenti davvero utili bisogna rispettare certe indicazioni. La cittadinanza e gli addetti alla vendita non devono usare le mascherine con valvola perché possono diffondere il contagio. Devono usare mascherine senza valvola o chirurgiche o fatte in casa con tessuti pesanti che assorbano l’esalazione ed umidità trattenendola e non rilasciandola

ROMA – C’è chi usa la carta da forno, chi le garze e la pellicola da cucina, chi sfodera addirittura la coppa del reggiseno. Il web pullula di idee stravaganti e tutorial più o meno credibili per fare in casa le mascherine contro il coronavirus, ma per realizzare strumenti davvero utili bisogna rispettare certe indicazioni. Lo spiega Claudio Galbiati, presidente della sezione Safety di Assosistema, che in Confindustria rappresenta i produttori e distributori dei dispositivi di protezione individuale (Dpi).

Mascherine fai-da-te. Le mascherine fai-da-te “non ci proteggono dal coronavirus, ma possono fungere da barriera verso l’esterno per evitare che chi le indossa diffonda il contagio: in un certo senso imitano le mascherine chirurgiche, ma hanno una funzionalità molto più limitata perché non aderiscono bene al volto e l’aria passa facilmente dai bordi”, afferma l’esperto.

Mascherine chirurgiche. Le mascherine chirurgiche sono formate da 2 o 3 strati di tessuto non tessuto (in fibre di poliestere o polipropilene) che filtrano l’aria in uscita e proteggono da schizzi di liquido, come la saliva emessa con tosse o starnuti. Allo stesso modo, prosegue Galbiati, “le mascherine fai-da-te dovrebbero avere uno strato impermeabile e più strati filtranti di tessuto non tessuto, fatti ad esempio con compresse di garza”.

Mascherine Ffp2 e Ffp3. Tutt’altra efficacia per le mascherine Ffp2 e Ffp3 destinate al personale sanitario. “Sono realizzate con tre strati di tessuto non tessuto a diversa densità“, precisa l’esperto. “Lo strato esterno protegge dallo sporco più grossolano, lo strato intermedio filtra mentre quello interno dà forma alla maschera e protegge il filtro dall’umidità del respiro“. Lo strato filtrante “ha innanzitutto un effetto meccanico, perché rende tortuoso il passaggio dell’aria bloccando l’ingresso delle particelle più grosse, fino ai 10 micron di diametro; ma il suo vero segreto sta nell’avere una carica elettrostatica, che attrae e trattiene le particelle più piccole di 5 micron“.

Mascherina Ffp3 con valvola per l’espirazione. La carica deve rimanere stabile nel tempo e in genere dura dai 3 ai 5 anni. “La mascherina comunque va sostituita dopo un certo tempo di utilizzo perché perde l’aderenza al volto“, raccomanda Galbiati. Le Ffp2 filtrano oltre il 92% delle particelle sospese nell’aria, mentre le Ffp3 arrivano a valori pari o superiori al 98%. “Esistono anche maschere Ffp2 e Ffp3 che hanno una valvola per facilitare l’espirazione: pensate per chi lavora nei cantieri, potrebbero essere pericolose se indossate da persone infette, perché non filtrano l’aria in uscita“, sottolinea l’esperto.

Chi deve usarle e quale mascherina usare. Stando alle indicazioni presenti nel documento-vademecum sull’utilizzo corretto delle mascherine protettive, redatto da un’agenzia formativa accreditata dalla Regione Piemonte, Asso.Forma. , i cittadini e i lavoratori del comparto vendite alimentari, degli uffici pubblici, o le forze dell’ordine (quando collaborano a stretto contatto con i colleghi) non devono utilizzare le mascherine FFP2 e FFP3 con la valvola. Questi dispositivi di protezione, infatti, possono rilasciare dalla valvola delle esalazioni che comporterebbero un maggior rischio di diffusione del contagio da coronavirus. Le Mascherine FFP3 con valvola di esalazione vanno utilizzate negli ospedali, in particolar modo nei reparti di Terapia Intensiva ed Infettologia, poiché il personale medico e sanitario è a contatto con pazienti contagiati. L’indicazione per la cittadinanza e per le suddette categorie di lavoratori è quella di ricorrere a mascherine senza valvola, chirurgiche o fatte in casa. Le mascherine FFP2 con valvola di esalazione, invece, sono adatte ai soccorritori, i quali lavorano a contatto con persone potenzialmente contagiate. I dispositivi FFP2 senza valvola – recita ancora il vademecum – sono consigliabili per le forze dell’ordine solo in caso di emergenza, mentre devono risultare di ausilio ai soccorritori per evitare che il virus possa diffondersi tra di loro.Anche i medici di famiglia e le guardie mediche possono fare ricorso alle FFP2 senza valvola. Tuttavia, qualora dovessero essere a contatto per lungo tempo con pazienti potenzialmente contagiati, potrebbero indossare quelle con valvola. In tal caso, si consiglia di coprire la valvola con una mascherina chirurgica per evitare l’eventuale rilascio delle esalazioni. In sintesi, il vademecum sottolinea che tutti coloro che escono di casa (solo in caso di emergenza o necessità), le persone che vanno al lavoro, le forze dell’ordine, gli impiegati di uffici pubblici e gli addetti alla vendita nei negozi alimentari, devono utilizzare mascherine chirurgiche. Questa raccomandazione riguarda anche medici e infermieri ospedalieri solo quando non si trovano in reparto. In conclusione, il documento cita testualmente: “La cittadinanza e gli addetti alla vendita non devono usare le mascherine con valvola perché possono diffondere il contagio. Devono usare mascherine senza valvola o chirurgiche o fatte in casa con tessuti pesanti che assorbano l’esalazione ed umidità trattenendola e non rilasciandola”.

Don Mazzi: «I miei ragazzi ora fanno mascherine per proteggere tutti». Pubblicato mercoledì, 25 marzo 2020 su Corriere.it da don Antonio Mazzi. Quando esplodono drammi impensati e dirompenti, capaci di stravolgere le nostre attività quotidiane, lo spavento, l’ansia e la visione catastrofica del domani spazzano via tutto, circondando di ombre letali anche le cose che fino al giorno prima facevano parte integrante delle nostre speranze, anzi, addirittura delle nostre certezze. Eppure, da sempre, nonostante le catastrofi, il buono, il bello e l’eroico, non solo non cessano, ma si moltiplicano. Così, è successo che nelle mie comunità disseminate in mezzo mondo. A nessuno, ripeto a nessuno tra le centinaia di ragazzi che le abitano, a causa della quarantena del coronavirus, è venuta la voglia di scappare. Anzi, nella comunità di Tursi, in Basilicata, i ragazzi si sono messi in testa di trasformare il laboratorio di sartoria, che fino a pochi giorni prima produceva bomboniere solidali, e di attrezzarlo per confezionare mascherine in Tnt a norma, per tutte le nostre realtà. In pochi giorni hanno prodotto mille mascherine, ed ora, in attesa della certificazione ufficiale, con le macchine che hanno e con gli elastici che sono rimasti, ne producono 200 al giorno che potrebbero diventare 500 se arrivassero altre due macchine ed elastici in più. Vorrebbero spedirle al Sud, prima che accadano i disastri accaduti al Nord. Vorrei dire miracoloso, e invece mi accontento di dire straordinario, che tanti ragazzi che fino a ieri avevamo etichettato come «tossici», lavorino 24 ore al giorno con un entusiasmo impensato e con una serietà da professionisti. Per loro è una sfida e per me una bellissima risposta, una cosa impensata. Piera, la responsabile, al telefono mi racconta con emozione di ritmi serrati, delle cene e dei pranzi saltati e, quasi senza respirare, mi spiega di chi taglia col cartamodello, chi è alla macchina da cucire, chi rifinisce tagliando i fili, chi imbusta e chi prepara la spedizione. Questa emergenza ci ha presi tutti in contropiede, ma devo dire che ci ha preso in contropiede anche la carica positiva che ha trasformato i miei ragazzi in protagonisti di solidarietà. Mai come in questo periodo dentro le comunità i ragazzi sono diventati forza positiva, tra la meraviglia degli educatori. Mai avrei pensato che, in pochi giorni, ragazzi che venivano da ben altre esperienze e con storie complicate si trasformassero in portatori di fraternità. È proprio vero: chi ha avuto tanta forza per farsi del male, può trasformare la stessa forza in volontà e impegno nel fare del bene. Anche nelle giornate più tristi, c’è sempre da qualche parte, qualcuno che le «raddolcisce».

Calzedonia converte gli stabilimenti: via libera alla produzione di mascherine e camici. Redazione de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Il Gruppo Calzedonia ha riconvertito due dei suoi stabilimenti per produrre camici e mascherine. L’azienda ha così risposto all’appello delle istituzioni con un gesto concreto nella lotta contro il coronavirus.  Al momento la produzione, concentrata negli stabilimenti di Avio in Trentino, e di Gissi in Abruzzo, assicura una fornitura da almeno 10mila mascherine al giorno. Ma l’azienda ha fatto sapere di poter incrementare il numero di dispositivi prodotti già nelle prossime settimane. La consegna delle mascherine è iniziata lunedì scorso con le prime 5.000, donate al comune di Verona. A premere per la riconversione della produzione è stato lo stesso presidente del gruppo Sandro Veronesi, che ha avviato il progetto con l’acquisto di macchinari dedicati e alla provvedendo alla formazione delle sarte. Già all’inizio dello scoppio dell’emergenza per cercare di limitare i contagi e tutelare clienti e lavoratori, il gruppo ha prima chiuso tutti i punti vendita delle zone rosse e successivamente di tutta Italia, anticipando le stesse decisioni del governo.

Coronavirus: molti brand di moda stanno producendo mascherine per medici e infermieri. Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2020. Con gli ospedali che fanno fatica a trovare mascherine e camici per proteggere medici e infermieri impiegati in prima linea per combattere il coronavirus, tantissimi marchi di moda in tutto il mondo si sono messi al lavoro per dare una mano. Servono mascherine e servono camici per medici e infermieri che combattono 24 ore su 24 contro l’epidemia di Covid-19, ma è sempre più difficile trovarne. Così sono sempre di più le maison in tutto il mondo che rispondono all’appello delle istituzioni per dare una mano, per aiutare come possibile. E l’Italia fa anche in questo caso da apripista grazie a una filiera di produzione sul territorio che non ha eguali nel mondo e che sostiene quella che è la seconda industria del Paese, come ha ricordato un comunicato recente della Camera Nazionale della Moda Italiana. Fendi, Gucci,  Salvatore Ferragamo, Ermanno Scervino, Miroglio, Prada, Valentino, sono alcune delle case di moda che hanno richiesto alle proprie sarte di mettersi all’opera, anche da casa, utilizzando il Tnt, tessuto non tessuto il cui uso è indicato dalla Regione Toscana sulla base delle analisi di laboratorio condotte da PontLab e dall’Università di Firenze, per poi, una volta ricevuta l’approvazione da parte delle autorità competenti, distribuirle agli ospedali. “Le nostre sarte erano a casa per precauzione, abbiamo chiesto loro se volevano fare volontariato per produrre mascherine, camici e cuffie, e hanno aderito tutte, anche le loro vicine di casa: per noi è un grande orgoglio”, ha dichiarato Toni Scervino all’ANSA commentando l’impegno a titolo gratuito che la maison ha preso in carico. Prada ha fatto saper di aver avviato su richiesta della Regione Toscana, la produzione di 80.000 camici e 110.000 mascherine destinati al personale sanitario della Regione con un piano di consegne giornaliere che termineranno il 6 aprile. Uno sforzo reso possibile grazie al lavoro dell’unico stabilimento del Gruppo rimasto aperto per questo scopo, quello di Prada Montone (Perugia), e a una rete di fornitori esterni presenti sul territorio italiano. 

Coronavirus, da Gucci a Prada, da Lvmh a H&M: tutti a produrre mascherine per l'emergenza. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Maria Teresa Veneziani. La moda è scesa in campo massicciamente per la lotta al Coronavirus. Una solidarietà, non solo sotto forma di milioni di euro, ma anche di atti concreti, primo fra tutti la fornitura di mascherine per fronteggiare una carenza che mette a rischio gli operatori sanitari in prima linea nella lotta alla pandemia. Gucci, griffe di proprietà del gruppo francese del lusso Kering, ha risposto all’appello della regione Toscana e fa sapere che è pronto a realizzare oltre un milione di maschere e 55.000 paia di tute mediche che consegnerà previa approvazione delle autorità. E stanno iniziando a produrre mascherine nelle loro fabbriche francesi anche altre due griffe del gruppo, Balenciaga e Yves Saint Laurent, sempre rispettando le «misure di protezione più rigorose richieste dai sanitari». L’impegno è di arrivare a 3 milioni di pezzi prodotti per aiutare anche gli ospedali francesi. L’iniziativa segue quella del gigante del lusso LVMH che sabato su Twitter ha annunciato il suo impegno a donare agli ospedali francesi 40 milioni di maschere chirurgiche. In particolare, il colosso dell’industria del lusso spiega che è riuscito, «grazie all’efficienza della sua rete globale», a trovare un fornitore industriale cinese in grado di consegnare dieci milioni di maschere in Francia nei prossimi giorni. In totale verranno prodotti sette milioni di maschere chirurgiche e tre milioni di maschere FFP2. «L’operazione può essere rinnovata per almeno quattro settimane in quantità simili (arrivando a 40 milioni)», ha dichiarato il gruppo francese in una nota. Anche Prada si attiva in sostegno alla richiesta di aiuto della regione Toscana. Consegnerà 80.000 camici e 110.000 mascherine realizzate in tempi record (l’azienda ha avviato la produzione il 18 marzo) da destinare al personale sanitario. Il piano prevede consegne giornaliere che saranno ultimate in data 6 aprile. Gli articoli sono prodotti internamente presso l’unico stabilimento del Gruppo - Prada Montone (Perugia), rimasto operativo a questo scopo e da una rete di fornitori esterni sul territorio italiano. Intanto, il gruppo svedese del fast fashion H&M dal proprio sito fa sapere che fornirà dispositivi di protezione per gli ospedali in tutto il mondo. Il gruppo utilizzerà la capacità della sua catena di approvvigionamento, «comprese le sue operazioni di acquisto diffuse e la logistica, al fine di iniziare a consegnare al più presto possibile i dispositivi». «Dopo che il CEO Helena Helmersson ha contattato l’UE per comprendere le esigenze e offrire l’aiuto dell’azienda, H&M ha immediatamente iniziato a preparare la produzione di dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari», si legge nel comunicato. «Il Coronavirus sta colpendo in modo drammatico ognuno di noi. Il nostro gruppo, come molte altre organizzazioni, sta facendo del suo meglio per fronteggiare questa situazione straordinaria. Siamo tutti coinvolti e dobbiamo affrontarla il più collettivamente possibile». La moda è uno dei settori maggiormente colpiti dagli effetti delle pandemia che ha chiuso tutte le capitali fashion e innescato un tracollo economico globale. Una rivoluzione che non riguarda solo il settore tessile. Domenica 15 marzo LVMH si era già impegnata a produrre gel idroalcolico «in grandi quantità» per gli ospedali. Per fare questo, il colosso dell’industria del lusso ha mobilitato tre dei suoi siti di produzione francesi, solitamente dedicati ai suoi profumi e cosmetici (Dior, Guerlain e Givenchy). Lo stesso esempio è seguito da L’Oréal, Coty ed altri brand della bellezza che stanno preparando disinfettanti per le mani nelle loro fabbriche di profumi. I designer-imprenditori italiani si muovono per aiutare gli ospedali del loro territorio. Gianvito Rossi, brand di calzature emiliano, ha fatto una donazione di 100 mila euro all’ospedale Bufalini di Cesena, eccellenza per le ustioni ora al servizio dell’emergenza Covid-19.

Molfetta, azienda abbigliamento si converte: produrrà 10mila mascherine al giorno. La David srl realizza un prodotto in tessuto (98% cotone) filtrante e riutilizzabile grazie a un lavaggio a 90 gradi con disinfettante, conforme al nuovo dl. Non è un dispositivo medico e non può essere utilizzato da personale sanitario. Nicola Pepe il 23 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La produzione di mascherine è iniziata proprio in queste ore: 10mila al giorno, a regime, con una capacità fino a 100mila la settimana. La «David srl» di Molfetta, azienda che produce e distribuisce abbigliamento in tutta Italia con un marchio proprio (Paola T.), è una delle prime ditte pugliesi che ha convertito la sua produzione dopo il «dl cura Italia» di qualche giorno fa. E lo ha fatto interpretando le difficoltà che centinaia di migliaia di persone stanno incontrando in questi giorni nel reperire le tanto agognate mascherine. In che modo? Iniziando una produzione di mascherine di tessuto. Sul punto va fatta una precisazione: il decreto legge, approvato d'urgenza dal Governo, di fatto deroga la produzione di tali prodotti secondo le regole CE ma fissa comunque due distinte procedure come chiarito da una circolare del ministero della Salute: una per le mascherine destinate al personale sanitario, ovvero quelle che per capacità di filtraggio sono classificate come FFP2 (con o senza valvola) ed FFP3 prevista dall'art. 15 del decreto (per le quali è necessaria una validazione dell'Iss),; e una per quelle considerate come «ulteriori misure di protezione e favore dei lavoratori e della collettività» sancite dall'art. 16 del dl che deroga alla certificazione. L'unico requisito richiesto è che siano filtranti, pur non essendo destinate - si ribadisce - nè per usi sanitari (quindi non è un dispositivo medico) nè come DPI per particolari categorie di lavoratori. 

ECCO LA DIFFERENZA TRA MASCHERINE. Tale differenza non è solo una questione di forma visto che, per assurdo, chi va a caccia della mascherine migliori (quelle sanitarie che scarseggiano negli ospedali), in teoria rischierebbe di farsi o far del male perchè l'utilizzo di tali dispositivi è solo per ambienti sanitari. E’ importante sapere, a proposito di mascherine con valvola FFP2 o FFP3 che: dalla valvola della mascherina fuoriescono le esalazioni (che equivale a diffondere il possibile contagio, è come non averle) quindi sono assolutamente sconsigliate per la popolazione (ci contamineremmo uno con l’altro), sono sconsigliate anche per le Forze dell’ordine che sono costrette ad un contatto ravvicinato tra colleghi (si contaminerebbero l’uno con l’altro), sono sconsigliate anche per tutti i reparti di alimentari o banchi del fresco e sono sconsigliate a Uffici aperti al pubblico (si contaminerebbero uno con l’altro tra colleghi). Tutto ciò è contenuto in un vademecum predisposto da un ente accreditato della Regione Piemonte e diventato punto di riferimento nazionale. Quindi, i cittadini e gli addetti alla vendita non devono usare le mascherine con valvola perché possono diffondere il contagio; devono usare mascherine senza valvola o chirurgiche o fatte in casa con tessuti pesanti che assorbano l’esalazione ed umidità trattenendola e non rilasciandola.

LA MASCHERINA PRODOTTA A MOLFETTA. Veniamo alla ditta di Molfetta. La mascherine che la David srl si accinge a produrre (così come altre azienda che in ordine sparso si stanno muovendo) di certo possono essere utilizzate ad esempio dalle forze dell'ordine e dalla gente comune, autorizzata dallo stesso dl a utilizzarla. L'azienda molfettese, per effetto delle misure di contenimento, ha dovuto interrompere l'attività salvo poi testare la propria produzione per una conversione che potesse in qualche modo assolvere anche a una utilità sociale, garantendo al tempo stesso la continuità dell'impresa e una retribuzione ai lavoratori. Quindi ha elaborato un prototipo di mascherina filtrante. La mascherina è costituita per il 98% da cotone (e 2% Elastan), è munita di elastici laterali, ed è realizzata in due strati di tessuto in cotone. I diversi strati - recita la schede tecnica - sono tenuti insieme da saldature termiche e cuciture, in grado di fornire maggiore confort agli utilizzatori. Le mascherine coprono naso e bocca, arrivando fin sotto il mento, provvedendo, così, a realizzare una barriera per minimizzare la trasmissione diretta di agenti infettivi tra le persone. Il prodotto viene confezionato in bustine singole per evitare che la mascherina possa entrare in contatto con agenti contaminati. Limita la diffusione nell’ambiente di particelle di individui infetti o potenzialmente infetti. Ha effetti filtranti. E veniamo alla produzione. La David srl è in grado di poter produrre 10mila mascherine al giorno grazie anche a una quantità di tessuto fatto realizzare appositamente che avrebbe a disposizione in casa. «Ne potremmo ricevere tantissimo altro dai nostri fornitori presso i quali abbiamo tanta stima» precisa il general manager dell'azienda, Stefano Diperte. La produzione in queste ore sta per entrare nel vivo: la ditta sta ricevendo continua richieste da parte di enti e organizzazioni. «Noi forniamo garanzie sulla qualità del nostro prodotto e sulla corrispondenza della mascherina ai requisiti previsti dalle normative in vigore». Il vantaggio è che si tratta di un prodotto, riutilizzabile. «A fine giornata - spiega Diperte - quella mascherina può essere lavata in acqua calda a 90 gradi e disinfettante, quindi riutilizzata più volte. Un modo per andare incontro a chi, in questi giorni, continua a dare la caccia a prodotti introvabili, e comunque monouso, a costi davvero esorbitanti, a dir poco anche speculativi».

Coronavirus, lo stampatore di libri che dona mascherine: "Ho conosciuto la morte, non potevo sottrarmi". Fabio Franceschi è il patron di Grafica Veneta, l'azienda famosa per aver stampato nel mondo Harry Potter. Ha riconvertito una rotativa per produrre e regalare due milioni di mascherine alla Regione. Così affianca al libro, un altro oggetto fondamentale in questi giorni di paura e di tempo sospeso: "Anche i nostri clienti americani hanno capito la situazione e ci hanno concesso la dilazione delle consegne già contrattualizzate". Marco Patucchi il 22 Marzo 2020 su La Repubblica. "Perchè l'ho fatto? Sono sopravvissuto a cinque anni di una malattia rara. So bene cosa significa sentirsi dire che hai pochi giorni di vita, cosa si prova a vedere la morte lì che ti guarda". Fabio Franceschi, 51 anni, non è uno stampatore quasiasi. E non perchè, come racconta, fa quel lavoro da quando era bambino. La sua azienda, Grafica Veneta, ha stampato in meno di un giorno il libro-testamento di Nelson Mandela, 24 ore appunto dopo la morte dell'eroe sudafricano. O, con la stessa velocità, l'instant book scritto da Barack Obama (e allegato al New York Times). Per non parlare della biografia di Michael Jackson, distribuita il giorno dopo la morte della star, o la dilagante produzione mondiale della saga di Harry Potter. Ora un altro tassello nella sua storia di imprenditore, forse quello che lo inorgoglisce di più: due milioni di mascherine anti-coronavirus che regala alla Regione Veneto: "Non ci ho pensato più di un minuto, e certo non mi autocelebro. I veri eroi di questa guerra sono i medici e gli infermieri".

Il libro e la mascherina, due oggetti essenziali per tirare avanti in questi tempi difficili di paura e di segregazione casalinga. Com'è scoccata la scintilla?

"A inizio marzo ho incontrato il governatore Zaia che mi ha chiesto che potevo fare visto che nella mia azienda arrivano trenta autotreni di carta al giorno. Questa cosa mi ha segnato, mi ha commosso".

E poi?

"Era sabato quando ho incontrato Zaia, la domenica mattina ho fatto una riunione con i miei collaboratori e gli ho comunicato l'idea di produrre le mascherine. Alle prime, comprensibili perplessità tecniche e operative ho troncato il dibattito: 'Entro mercoledì dobbiamo essere pronti a fare le mascherine. Senza se e senza ma' . Se vai all'ospedale non ti dicono 'torni' domani, ti curano e basta. Poi però non ho dormito per cinque giorni mentre Zaia continuava a promettere le mascherine a destra e manca".

Che interventi tecnici di riconversione avete realizzato nello stabilimento?

"Abbiamo smantellato con gli addetti della nostra officina una delle quattordici rotative, la  più nuova, una macchina che vale 12 milioni di euro, e abbiamo ristrutturato i processi di stampa".

Cosa ha comportato questo intervento per la vostra produzione ordinaria?

"Gli effetti della guerra dei dazi tra Usa e Cina avevano spostato negli States il bilanciamento della nostra produzione. Abbiamo contratti in essere importanti in America, ma i clienti hanno capito benissimo la situazione, sono stati comprensivi, così abbiamo spostato di circa un mese la consegna. Non solo, sempre dagli Usa mi hanno telefonato per chiedermi la disponibilità a produrre 500 milioni di mascherine per quel mercato...".

Che caratteristica ha la vostra mascherina?

"Ovviamente non è un prodotto chirurgico, ma uno schermo protettivo monouso che può servire la popolazione asintomatica. Ha la durata di un giorno intero, presenta una percentuale di filtraggio adeguata ed è realizzato in un tessuto molto dolce".

Scusi, ma non ha utilizzato la carta?

"No, si tratta di tessuto non tessuto. Se avessimo usato la carta ne avremmo prodotte in miliardi di pezzi...".

Altre imprese vendono le mascherine. Perchè voi le regalate alla Regione?

"Per chi, come me, ha toccato la morte, esiste solo la donazione. Poi le dico un'altra cosa: a 18 anni ero un operaio e ora non lavoro solo per i soldi. E' una grande soddisfazione sentirsi utile per gli altri, e mi ha commosso l'altro giorno vedere uno striscione a Trebaseleghe, dov'è la tipografia, con su scritto “Grazie Fabio per il regalo”. Mio nonno mi diceva sempre che non conta niente essere il più ricco del cimitero".

Continuerete a produrne altre dopo questi primi due milioni?

"Vedremo. Se si faranno avanti altri soggetti magari sì. Mi hanno già contattato realtà importanti".

Quando tutto questo sarà finito e lei si guarderà dietro, potrà dirsi orgoglioso di aver prodotto due oggetti fondamentali in questi giorni di tempo sospeso: il libro, come sempre, e ora la mascherina. Che volume di quelli che ha stampato metterebbe al fianco della mascherina?

"La Bibbia. In ogni pagina ci puoi trovare un tesoro". 

Altri Paesi bloccano forniture di mascherine per l’Italia. «Sequestrati 19 milioni di pezzi». Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 da Corriere.it. Il capo della Protezione civile Angelo Borrelli l’ha fatto sapere durante la conferenza stampa di sabato. Non arrivano o arrivano pochissime mascherine dall’estero. «Sostanzialmente si sta verificando in tutto il mondo una chiusura delle frontiere all’esportazione. Il lavoro che stiamo facendo noi ma anche il lavoro delle regioni, è faticoso. Si lavora fino a notte tarda ma poi il giorno dopo non si ricevono conferme sugli ordini emessi». Secondo quanto riporta l’Ansa, attribuendo la notizia a fonti qualificate, sarebbero oltre 19 milioni le mascherine acquistate all’estero dall’Italia che sono state requisite dai Paesi di origine o di transito. Si tratterebbe di 4 milioni di mascherine Ffp2 e di 15 milioni di mascherine chirurgiche. I dispositivi erano stati acquistati da aziende italiane e sarebbero dovute arrivare nei prossimi giorni ma i Paesi in cui sono state prodotti e, in alcuni casi, quelli di transito, hanno bloccato l’arrivo nel nostro Paese, sequestrando i prodotti e destinandoli al loro mercato. Arrivato a Milano invece un carico di mascherine dalla Cina. Lo ha comunicato domenica il sindaco della città, Giuseppe Sala. «Milano da sempre ha intrattenuto ottimi rapporti con le principali città cinesi, nei giorni scorsi ho fatto un po’ di telefonate alla ricerca di mascherine e ieri è arrivato il primo cargo a Malpensa. - ha detto il primo cittadino milanese —. Ora le distribuiremo ai medici di base, al nostro personale».

Andrea Tarquini per repubblica.it il 22 marzo 2020. Gravissimo caso di mancanza di solidarietà nell'Unione europea nell´emergenza Coronavirus, da parte della Repubblica ceca ai danni dell´Italia. Lo ha denunciato il GR1: solo grazie alle menzogne ufficiali scoperte e alle informazioni in merito fornite da un onesto e coraggioso ricercatore ceco, Lukas Lev Cervinka, si è venuto a sapere che le autorità locali hanno sequestrato arbitrariamente un enorme carico di 680mila mascherine e migliaia di respiratori, che la Repubblica popolare aveva inviato al nostro paese per aiutarci. I fatti, racconta al telefono Lukas Lev Cervinka confermando totalmente la notizia data dal Gr1, sono andati cosí. Martedí le autorità ceche avevano vantanto un grande successo nella lotta a chi specula sui costi di mascherine e altro materiale medico indispensabile per fermare la pandemia. “La versione ufficiale con i primi comunicati diceva all´inizio che su trattava di mascherine e respiratori confiscati, parlando di materiale rubato a imprese ceche da criminali senza scrupoli che volevano venderle a costo maggiorato sul mercato internazionale, sfidando i severi limiti all´export medico imposti in Cechia come altrove dall'emergenza”. Ma poi sono apparsi foto e filmati mostrati da Cervinka e dalle ong democratiche ed europeiste, che hanno fatto capire la brutta verità. A bordo di camion della polizia c'erano scatoloni con le bandiere cinese e italiana, e scritte in italiano e mandarino in cui le autorità di Pechino lanciavano saluti, incoraggiamenti e desiderio di aiuto all'Italia. “Il ministero della Salute ceco è stato contattato”, continua Lukas Lev Cervinka, “e ha insistito nella versione ufficiale, ripetendo la menzogna del sequestro di materiale destinato a vendite illegale. Tutti i media diffusero allora la storia, ma poi la verità è stata scoperta, e si vedevano chiaramente le etichettature sugli scatoloni inviati da Pechino: aiuto umanitario cinese per l´Italia. Eppure il governo ceco ci ha messo tre giorni prima di dire, non ufficialmente ma solo con tweets del ministero dell´interno, che ammetteva che almeno parte, cito i tweets, del carico, in realtà veniva dalla Repubblica popolare ed era destinato al vostro paese come aiuto umanitario. Aggiungendo in termini generici che l´Italia non avrebbe perso nulla”. “Poi l´ambasciata italiana a Praga ha reagito, e la sua versione, veritiera, della vicenda, è stata narrata dall´illustre testata economica Hospodarské Noviny”, prosegue il racconto del ricercatore. “Al momento manca ancora un´ammissione ufficiale e chiara di colpa del governo (guidato dal premier-tycoon antimigranti autocratico e populista Andrej Babis, ndr), manca anche a quanto mi risulta ogni scusa ufficiale all´Italia. Il governo appunto si è limitato alle parziali ammissioni dei tweets del ministero dell´Interno, i suoi vertici tacciono con Italia e resto dell´Unione europea”. “Nei tweet si dice che il governo si sarebbe accorto solo dopo del presunto errore, e adesso sarebbe in contatto con Italia e Cina per tentare di risolvere il problema”. Secondo Hospodarské Noviny invece, “Pechino e Roma hanno deciso che la soluzione piú sicura a questo punto è che un nuovo carico parta dalla Repubblica popolare per raggiungere il vostro paese”. Il materiale confiscato dalle autorità ceche del resto “resterà di fatto nella Repubblica ceca perché è stato già distribuito agli ospedali nazionali mobilitati per affrontare il Coronavirus e registrato nei loro inventari”. Tutto fatto a quanto pare senza informare cinesi e italiani né chiedere il loro permesso. “Non è affatto un gesto di politica europea, è una storia molto vergognosa”, mi dice Lukas Lev Cervinka. E lascia capire che come dice il movimento giovanile e della società civile ceco, la “Nuova primavera” europeista, ambientalista e per la difesa della democrazia contro Babis, dall´autocrate e dai suoi ci si può sempre aspettare il peggio.

Coronavirus, Repubblica Ceca sequestra mascherine inviate da Cina all’Italia. Riccardo Castrichini il 21/03/2020 su Notizie.it. Sequestrate in Republica Ceca migliaia di mascherine spedite dall'Italia alla Cina. La Repubblica Ceca, non curante della grave emergenza coronavirus che sta riguardando l’Italia, avrebbe sequestrato migliaia di mascherine che dalla Cina erano dirette nel nostro paese. Una storia lontanissima dalla solidarietà che è stata denunciata del GR1 che ha fatto tesoro delle informazioni fornite in merito da un coraggioso ricercatore ceco, Lukas Lev Cervinka. Stando al suo racconto, le autorità locali ceche avrebbero sequestrato un carico di 680mila mascherine e migliaia di respiratori diretti in Italia e spediti dalla Cina come aiuto.

La Repubblica Ceca sequestra mascherine per l’Italia. Nel servizio del GR1 è lo stesso ricercatore ceco a spiegare l’accaduto in collegamento telefonico: “La versione ufficiale con i primi comunicati diceva che si trattava di mascherine e respiratori confiscati, parlando di materiale rubato a imprese ceche da criminali senza scrupoli che volevano venderle a costo maggiorato sul mercato internazionale, sfidando i severi limiti all’export medico imposti in Cechia come altrove dall’emergenza”. Poi però Cervinka e alcune ong democratiche ed europeiste, hanno fatto emergere delle foto e dei filmati che raccontavo una storia molto diversa e cioè che a bordo dei camion della polizia c’erano molti scatoloni con sopra le bandiere cinese e italiana, e scritte in italiano e mandarino in cui le autorità di Pechino lanciavano saluti, incoraggiamenti e desiderio di aiuto all’Italia.

Il governo ceco non arretra. Cervinka parla poi del comportamento assunto dopo quelle foto dalle autorità: “Il ministero della Salute ceco è stato contattato e ha insistito nella versione ufficiale, ripetendo la menzogna del sequestro di materiale destinato a vendite illegale. Tutti i media diffusero allora la storia, ma poi la verità è stata scoperta, e si vedevano chiaramente le etichettature sugli scatoloni inviati da Pechino: aiuto umanitario cinese per l´Italia. Eppure il governo ceco ci ha messo tre giorni prima di dire, non ufficialmente ma solo con tweets del ministero dell’interno, che ammetteva che almeno parte, cito i tweets, del carico, in realtà veniva dalla Repubblica popolare ed era destinato al vostro paese come aiuto umanitario. Aggiungendo in termini generici che l´Italia non avrebbe perso nulla”.

L’errore diplomatico e la mancanza di solidarietà. A questo ha fatto seguito la reazione dell’ambasciata Italiana a Praga e il seguente cambio d’atteggiamento da parte del governo della Repubblica Ceca che avrebbe riconosciuto l’errore e sarebbe in contatto con la Cina e l’Italia per cercare di risolvere il problema diplomatico, ma forse potrebbe essere troppo tardi. “Non è affatto un gesto di politica europea, è una storia molto vergognosa” ha concluso Cervinka.

DAGONEWS il 19 marzo 2020. Vi fanno male le orecchie dopo aver tenuto la mascherina per l’intera giornata? Imparate dai cinesi che sono ormai degli esperti e hanno escogitato una serie di “rimedi” per evitare il fastidio costante. Un video umoristico racconta i diversi modi escogitati: c’è chi si è fatto due codini, portando i lacci sulla testa, c’è chi ha optato per l’utilizzo di asciugamani sulle orecchie e chi ha unito i due elastici sulla nuca con delle graffette. Alcuni blogger cinesi hanno anche caricato dei tutorial per capelli per insegnare alle persone come pettinarsi con le mascherine.

Taranto. La Guardia di Finanza sequestra 7.000 mascherine protettive. Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2020. Le mascherine sono state sequestrata nel corso dei controlli effettuati a contrasto di manovre speculative attuante alcuni esercenti operati nel territorio del capoluogo jonico. Il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto ha orientato nei giorni scorsi la propria attività investigativa sul controllo dei prezzi di acquisto e quelli di vendita praticati prima e durante la pandemia, al fine di scongiurare possibili manovre speculative per fronteggiare l’emergenza sanitaria connessa al rischio da contagio da virus “COVID-19”. Le attività sono state predisposte anche per il forte impulso ricevuto dal Prefetto di Taranto durante le numerose riunioni convocate in sede di Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica (C.P.O.S.P.). E’ stato quindi organizzato un poderoso servizio di ordine e sicurezza pubblica in cui è coinvolto personale della Questura di Taranto e dell’Arma dei Carabinieri, fortemente orientato al rispetto delle prescrizioni normative emanate per ridurre il rischio di contagio per la popolazione, al cui interno la Guardia di Finanza ha mantenuto le proprie prerogative di polizia economico-finanziaria. Le Fiamme Gialle del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria e della Compagnia di Taranto, coordinate dal T.Col. Antonio Marco Antonucci hanno sottoposto a controllo esercizi commerciali, tra cui anche farmacie e parafarmacie, che ponevano in vendita dispositivi di protezione individuale (DPI) utilizzati per la profilassi tesa a contenere il contagio da CODIV-19 al fine di valutarne le oscillazioni di prezzo in relazione alla notoria difficoltà di reperimento in questo periodo. Sotto il coordinamento della Procura della repubblica di Taranto, i finanzieri hanno effettuato un’analisi dei prezzi praticati sia alle ASL che a soggetti privati nel periodo ante e post crisi sanitaria, con specifico riferimento alle mascherine protettive identificabili con le sigle FFP1, FFP2, FFP3 oltre a quelle comunemente definite “chirurgiche”. Dai riscontri effettuati è stato accertato che la variazione in aumento dei prezzi in termini percentuali oscilla tra il 700% e il 1500% circa. Mascherine che nel 2019 venivano acquistate a 0,50 centesimi di Euro ora in piena crisi sanitaria sono proposte in vendita agli Enti pubblici ad oltre 5 € il pezzo ed ai privati anche a 35 €, prezzi frutto di una evidente attività speculativa. Il business è risultato così conveniente che esercenti con oggetto sociale diverso da quello sanitario, come per esempio persino dei negozi di telefonia, si sono improvvisati venditori di mascherine chirurgiche (aventi un prezzo pre crisi tra i 2 ed i 5 centesimi) acquistando in un caso quantità per circa 15 mila € per ricavarne in pochi giorni guadagni per oltre 23 mila €. Al termine delle attività di controllo sinora condotte sono state denunciati all’ Autorità Giudiziatia,  8 persone (titolari di attività) per il reato di cui all’art. 501-bis del c.p. (manovre speculative su merci) procedendo al sequestro di circa 7.000 mascherine D.P.I.  Le mascherine sequestrate, previo accertamento da parte dell’ ASL Taranto della loro conformità all’ utilizzo sanitario,  grazie ad apposito provvedimento del Procuratore Aggiunto della Repubblica di Taranto Maurizio Carbone sono state messe a disposizione della Prefettura di Taranto e del Dipartimento di Protezione Civile per i necessari provvedimenti di acquisizione ai fini della successiva distribuzione agli Enti che ne abbiano necessità per far fronte alla contingente carenza come disposto del D.L. 18/2020 (Decreto “Cura Italia”). 

Giuliano Foschini, Marco Mensurati  e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 21 marzo 2020. In quel mare di squali che è il mercato mondiale delle mascherine, l' Italia rischia di fare la parte del tonno. Siamo il Paese più aggredito dal coronavirus, eppure ospedali, autoambulanze e farmacie continuano a soffrire e a denunciare l' indisponibilità dei dispositivi di protezione individuale. Le famose mascherine, soprattutto. Siamo il Paese dei 17 medici morti e dei 3.359 contagiati tra dottori e infermieri, e siamo preda di speculatori, italiani e internazionali. Di ditte che annullano i contratti perché «abbiamo finito le scorte». E poi quelle stesse scorte vengono offerte da intermediari a centosessantasei volte il prezzo di prima. È successo in Emilia, in Toscana, in Puglia e continua a succedere nel resto d' Italia. Il governo si muove in ordine sparso: ha creato una sovrastruttura (il Commissario agli acquisti e alla produzione) su un apparato di compratori - Protezione civile, Consip, le Regioni, le singole Asl, fondazioni benefiche - che intasano il mercato, si fanno concorrenza e, soprattutto, non portano a casa il risultato. A differenza di molti altri Stati nel mondo: Canada, Brasile e Iran su tutti.

19 milioni di pezzi spariti. Partiamo da un numero: diciannove milioni. Sono le mascherine che la Protezione civile era convinta di aver reperito e che invece sono evaporate dal giorno alla notte, i contratti siglati dall' ufficio acquisti bruciati per colpa del miglior offerente: un compratore più ricco, più potente. O solo più rapido. Non è un caso isolato, è una prassi. La Lombardia, per coprire le esigenze delle sue strutture sanitarie, ha bisogno ogni giorno di 300 mila mascherine chirurgiche (quelle di primo livello, monouso, che dopo 4 ore vanno sostituite), in Emilia ne servono 250 mila. Ci sono infermieri costretti a indossare la stessa mascherina per giorni. Il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha stimato in 90 milioni di pezzi il fabbisogno mensile dell' Italia, una cifra ad oggi inarrivabile nonostante la stessa Protezione civile abbia contratti in essere per 56 milioni, ne abbia già trovate 8 milioni e ne distribuisca alle Regioni in media 1,2 milioni al giorno. Di tutto questo ben di Dio si trovano poche tracce sul territorio. Nelle Asl di Roma, per dire, da giorni vanno avanti con mascherine di carta, inadeguate, di produzione autoctona e qualità scarsa. Se parliamo poi delle mascherine di tipo professionale (FFp2 e FFp3) la situazione è - se possibile - peggiore.

Il caso 3M in Puglia. Più ci si allontana dalla zona rossa, più gli squali si agitano. Perché si rischia meno. A Bari a ottobre, dunque prima dell' esplosione cinese del Covid-19, la Asl bandisce una gara per l' acquisto dei dispositivi di protezione individuale. Per quanto riguarda le mascherine, si aggiudica la partita la 3M, la multinazionale americana quasi monopolista del settore. Per le FFp3, quelle con la valvola, le migliori, viene indicato un prezzo: 1,25 euro l' una. La quantità assicurata per le sole FFp3 è di 18 mila, mentre complessivamente i pezzi richiesti sono 40 mila circa, con la possibilità di ampliare l' ordine. Arriviamo a gennaio, e la Asl, viste le notizie che arrivano dalla Cina, ne ordina altri 30 mila. L' azienda ne invia 5 mila. «Scorte finite», dicono. Contemporaneamente, però, piovono le proposte di otto società, alcune delle quali lavorano stabilmente con la 3M, che offrono mascherine 3M. A un prezzo un po' diverso rispetto a quello (1,25) della gara: dai 6 ai 10 euro l' una. «Nelle forniture diamo priorità alla Protezione civile - spiega l' azienda a Repubblica - abbiamo lasciato invariati i prezzi ma non possiamo controllare gli altri rivenditori ».

"Peggio della borsa nera". Più o meno lo stesso accade in Emilia Romagna. Chi si occupa degli acquisti regionali osserva, sconsolato, che «è peggio della borsa nera ai tempi della guerra». Prima dell' epidemia avevano contratti con un fornitore che quotava le chirurgiche a 3 centesimi. A febbraio hanno cominciato a chiederne 50. L' Emilia ha ordini per 30 milioni di euro, ma non ha ancora visto risultati. E all' ufficio acquisti si sono presentati intermediari che proponevano l'"affare": mascherine a 5 euro, 166 volte il prezzo reale. In Toscana, la Mediberg srl vince un bando a 3 centesimi a pezzo. Dopodiché la situazione precipita, la ditta lamenta l' impossibilità di reperire il tnt, il materiale di cui sono fatte, e la Regione si aggrappa a chi gliele propone a 1,6 euro. Del resto, alla Consip non hanno strappato prezzi migliori, anzi: hanno messo su una gara in fretta il 9 marzo, per il lotto 6 chiedevano una fornitura di 24 milioni di mascherine, ne hanno trovate solo 7,7 milioni (prodotte da Betatex, Benefis e Icr) al costo di 2 euro a pezzo.

Ma il supercommissario che fa? Il paradosso è che le mascherine sono tutt' altro che un bene indisponibile. La Cina ne è piena e milioni di pezzi ogni giorno vengono spediti nei Paesi le cui amministrazioni sono più rapide a chiudere i contratti. Brasile e Usa, soprattutto. In Italia regna invece la confusione, tant' è che - nonostante la pletora di soggetti deputati all' approvvigionamento - il miglior risultato potrebbe raggiungerlo il ministro degli Esteri Di Maio che sta lavorando a un maxi-stock di 100 milioni di mascherine (29 centesimi per le chirurgiche, 1,50 euro per le Ffp3) con la Cina. Dovrebbero cominciare ad arrivare in Italia la prossima settimana. Eppure da giorni i centralini di Invitalia e Protezione civile sono presi d' assedio da imprenditori che vantano contatti con aziende cinesi fornitrici di mezzo mondo. Ma sbattono contro un muro di burocrazia. Repubblica ha consultato l' offerta fatta arrivare da un imprenditore direttamente sulla scrivania del Commissario Domenico Arcuri (ma poi anche di Borrelli) domenica 15 marzo e mai presa in considerazione. In una serie di mail, l' imprenditore italiano in questione, Filippo Moroni, aveva mandato i dettagli di una proposta per la fornitura di 50 milioni di mascherine (un milione al giorno) col marchio "Ce" al prezzo di 0,38 dollari l' una. Si trattava solo di pagare e mandare un aereo militare all' aeroporto di Shenzhen, dove era già disponibile il primo stock. Ma le mail inviate sono rimaste senza risposta e alla fine, mentre in Italia le mascherine continuano a non trovarsi, il consorzio cinese "portato" da Moroni si è accordato per fornire 250 milioni di pezzi per il Brasile e 200 milioni per gli Stati Uniti. I primi sono stati consegnati mercoledì.

Mascherine, a Bari appalto a 1 euro l’una ma la ditta non consegna e intermediario rilancia a 6 euro. Gara di un anno fa ma l’azienda è... sparita. Intanto oggi consegnate 300mila mascherine da Protezione civile. Massimiliano Scagliarini il 20 Marzo 2020 su La Gazzetta del mezzogiorno. La Protezione civile nazionale dovrebbe consegnare domani alla Puglia un secondo carico di circa 300mila mascherine, che andranno ad aggiungersi alle circa 20mila già fornite la scorsa settimana. Un aiuto, certo, per tamponare le esigenze del sistema sanitario regionale che - ormai - ha i depositi quasi vuoti: meno di 100mila pezzi, con cui deve far fronte alle richieste degli ospedali (anche di quelli ecclesiastici) e spesso pure del 118. Con la fornitura in arrivo domani si dovrebbe riuscire ad arrivare a fine mese. Ma l’emergenza è tutt’altro che superata, perché i 5 milioni di mascherine che la Regione ha ordinato di acquistare in realtà non si trovano. Molte Asl stanno effettuando in questi giorni ricerche di mercato che non portano risultati. E quella di Bari, che per coincidenza si era mossa in tempo (parliamo di aprile 2019) con un appalto per i dispositivi di protezione individuale, si ritrova oggi nella morsa di uno strano gioco al rialzo. Nello scorso ottobre la Asl ha aggiudicato alla 3M Italia, braccio nazionale dell’azienda americana leader del mercato, la fornitura di 27.000 mascherine a circa 30mila euro, dunque a poco più di un euro l’una. A gennaio ne sono state consegnate solo 5mila e, nonostante vari solleciti, non ne è arrivata più nemmeno una. Quando è cominciata l’emergenza e il direttore amministrativo Gianluca Capochiani si è attivato per reperire altri dispositivi, sono arrivate offerte da altre ditte europee per la fornitura delle stesse mascherine 3M ma a un prezzo maggiore pari a circa 6 euro. La Asl ha chiesto di acquistarle ma al momento di concludere , l’intermediario (che fa capo a una ditta spagnola) si è tirato indietro. E così fino ad ora è stato possibile acquistare sul mercato solo piccoli quantitativi (poche migliaia) di mascherine a prezzi ancora più alti. La «Gazzetta» ha provato invano a interpellare 3M per capire i meccanismi di mercato. Ciò che è accaduto - come spiega un operatore che non vuole essere citato perché non autorizzato a parlare - è che alla Asl di Bari siano state offerte mascherine acquistate in precedenza, nell’ambito di grandi ordini fatti in altre parti d’Europa, con una dinamica dei prezzi che sfugge al fabbricante. Si tratta peraltro degli stessi dispositivi che nei negozi al dettaglio finiscono per costare anche 20-30 euro al pezzo. Nei giorni scorsi il Policlinico di Bari ha lanciato una procedura telematica da 200mila euro per l’acquisto di mascherine Ffp3, dopo che a fine febbraio aveva effettuato una ricerca analoga a inviti per altri dispositivi di protezione individuale. Nel frattempo un minimo aiuto arriva da una circolare ministeriale, che proprio per tenere conto dell’emergenza ha «concesso» la possibilità di riutilizzare le mascherine dopo un lavaggio disinfettante. Allo stesso tempo, il decreto Cura Italia ha incluso anche le mascherine chirurgiche (quelle in tessuto-non tessuto) tra i dispositivi di protezione individuale, ha previsto la possibilità di utilizzare anche dispositivi senza marchio «Ce» e ha introdotto un meccanismo semplificato per autorizzare i fabbricanti alla messa in commercio: basterà inviare i campioni all’Istituto superiore di sanità, che dovrà certificarli entro tre giorni. Un metodo per agevolare il compito di chi vorrà lanciarsi in questo nuovo mercato.

Multa di 1.032 euro  alla farmacista che vende  le mascherine sfuse. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. È partito come messaggio via chat, nel giro di poche ore è diventato rivolta. I “rivoltosi” sono 212 farmacisti dell’Emilia e del Veneto, pronti alla disobbedienza civile - chiamiamola così - per solidarietà con la Farmacia Costa di Parma. È successo questo: nella farmacia in questione due giorni fa si è presentata una pattuglia della guardia di finanza per notificare una sanzione: 1.032 euro per la vendita non autorizzata di mascherine singole invece che a pacchetti di 50. Si tratta di mascherine che normalmente sono vendute ai dentisti, quelle azzurre poco più spesse del modello basico (ce ne sono altre in commercio vendute invece singolarmente). In periodi di non emergenza le mascherine dei dentisti si vendono a scatola perché prese singolarmente non hanno indicazioni di provenienza, scadenza etc... sarebbe, insomma, come vendere un singolo biscotto prendendolo da un pacchetto. Non si può fare. Ma data l’emergenza e la richiesta continua degli utenti, i farmacisti in questo caso si sono affidati al buonsenso. «Se viene una persona che vuole andare a far la spesa e me ne chiede una io gliela vendo, se passa un medico o un infermiere che ha bisogno di due-tre mascherine gliele regalo, ne abbiamo regalato un mazzo a una casa per anziani, se arriva un vecchietto che non ha spicci gliela regalo. Insomma: ci vuole tanto a capire che così accontentiamo più gente che ha bisogno?», se la prende Simona Bertocco, che assieme a sua madre Maria Grazia Costa e sua sorella Franca Lisa Scolari gestisce la farmacia. Tra l’altro, come sua sorella ha fatto mettere a verbale, non solo «vendere le mascherine sfuse ci sembrava più sensato per servire più clienti», ma «tengo a precisare che non abbiamo applicato alcun aumento di prezzo». Ultima precisazione: «Non ce l’abbiamo assolutamente con i finanzieri che, chiamati da qualcuno, hanno fatto solo il loro mestiere. Ce l’abbiamo però con il sistema che in casi di così grave emergenza non prevede deroghe. È assurdo», dice Simona Bertocco. Nella chat che mette assieme, appunto, 212 farmacisti di Emilia e Veneto, la voce e la fotocopia del verbale ha fatto scandalo. La “pratica” è arrivata fino a Federfarma che ieri ha fatto sapere a tutti: non vi dovete preoccupare di niente, a questa vicenda pensiamo noi. E, di fatto, è partita la protesta: un altro farmacista, Alessandro Venturi, ha pubblicato su facebook un video per raccontare questa storia e a centinaia hanno approvato e aderito all’azione di disubbidienza. La vendita delle mascherine sfuse non si fermerà. Dalla stessa farmacia Costa non arriva nessuna frenata: «Se viene un infermiere, la cassiera di un negozio, una vecchietta, chiunque ne abbia bisogno a chiedermi una singola mascherina io continuo a dargliela», insiste Simona. «E che mi diano pure altre sanzioni».

Multa cancellata alla farmacia di Parma che dava agli anziani le mascherine sfuse. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. C’era una segnalazione e la guardia di finanza non poteva ignorarla quindi — a malincuore — gli agenti avevano scritto il verbale: una sanzione da 1.032 euro alla farmacista di Parma (farmacia Costa) che aveva venduto le mascherine sfuse invece che a pacchetti di 50. Lei aveva fatto mettere in quel verbale che le sembrava un gesto di buonsenso accontentare singole persone in difficoltà invece di una sola e che non aveva mai applicato alcun aumento di prezzo. Nessuno ha mai dubitato delle sue obiezioni, finanzieri per primi. Che dopo aver agito per dovere perché una persona aveva denunciato l’irregolarità della farmacista, si sono adoperati per cercare una soluzione. E la soluzione è arrivata ieri: sanzione archiviata. Perché è vero: l’irregolarità c’è stata. Ma il comportamento della farmacista è stato «effettivamente dettato dallo stato di necessità». Questo è il comunicato della guardia di finanza: «Il 14 marzo 2020, a seguito di una segnalazione pervenuta al numero di pubblica utilità “117” da parte di un cittadino, è stato redatto un verbale per violazione al Codice del Consumo nei confronti di una farmacia della città di Parma. I finanzieri, intervenuti sul posto, hanno contestato la vendita di singole mascherine sprovviste della confezione e prive delle informazioni a tutela del consumatore, la cui indicazione è obbligatoria, in violazione di una specifica norma del Codice del Consumo. Durante la stesura del verbale il responsabile della farmacia, presente sul posto, ha dichiarato che la vendita delle mascherine sfuse, in luogo della confezione intera, era stata effettuata per sopperire alla carenza di quel tipo di dispositivi e, di conseguenza, per soddisfare le richieste del più ampio numero di clienti possibile. I successivi approfondimenti, finalizzati a chiarire tutti gli aspetti della vicenda, pur confermando l’irregolarità della vendita effettuata, hanno permesso di rilevare che tale comportamento sia stato effettivamente dettato dallo stato di necessità connesso alla straordinaria emergenza epidemiologica da COVID-19. Pertanto il verbale è stato archiviato in autotutela». Nel frattempo farmacisti (e non) da tutt’Italia avevano chiamato la collega di Parma per solidarietà e molti si erano offerti di fare una colletta per pagare la sanzione. Le titolari della farmacia Costa stanno pensando di rilanciare la loro storia con un nuovo messaggio: per dire grazie alla guardia di finanza e per donare in beneficienza all’ospedale di Parma i soldi che sarebbero serviti alla colletta. Com’era quel detto? Tutto è bene quel che finisce bene. Con tanti saluti a chi aveva fatto la segnalazione ai finanzieri.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 18 marzo 2020. «No, non è vero che le mascherine servono solo a chi è già infetto, per proteggere gli altri dal contagio. Sono utili anche a chi è sano: per il Covid-19 sono una barriera», dice il virologo Francesco Broccolo, docente di Microbiologia clinica dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. E lo stesso pensa l'Ordine dei Medici di Roma, arrivando a proporre un «obbligo di coprirsi il viso per chi esce di casa». Perché, spiega il presidente dell'Ordine Antonio Magi, sarebbe «certamente d'aiuto se si hanno sintomi, per evitare di alimentare la diffusione del virus, ma la mascherina è una protezione primaria anche per chi sta bene». Problema: le mascherine in Italia scarseggiano. Soprattutto quelle più sofisticate: nemmeno chi è in corsia a combattere contro il Sars-CoV-2 riesce ad averne a sufficienza. Può bastare una sciarpa, uno scialle o un passamontagna, allora? Su questo gli esperti si dividono. Walter Ricciardi, membro del board dell'Oms e super-consulente del Ministero della Salute, spiega che «le protezioni utili per chi è sano sono quelle di categoria Ffp2 e Ffp3». I modelli che garantiscono il più alto livello di protezione contro le particelle molto fini e dannose. «Ma questo tipo di dispositivi - avverte Ricciardi - non si riesce a dare nemmeno a tutti i medici ed è fondamentale che sia riservato a chi garantisce le cure. A Wuhan hanno distribuito le mascherine a tutti, è vero, ma lì ne fabbricano miliardi, noi invece no». Tanto che ora il governo ha annunciato di volerne avviare la produzione, in tutta fretta. Le aziende private, dalla Sicilia alla Toscana, si stanno attrezzando per riconvertire le fabbriche. Nel frattempo arriveranno quelle cinesi. Anche la Francia, come ha detto Macron nel Consiglio europeo, spedirà un milione di mascherine all'Italia. Per il virologo dell'università Bicocca, Francesco Broccolo, perfino «una sciarpa o un foulard possono essere utili, di sicuro è meglio di niente». Sarebbe fondamentale, sostiene il professore della Bicocca, «un obbligo di coprirsi il viso, per chi esce di casa. Il problema è reperire le mascherine, le difficoltà sono chiare a tutti. Ma chi ce l'ha, se la metta. Gli altri possono utilizzare altro». Broccolo è convinto che la mascherina non serva solo a chi è contagiato, per non infettare chi è nei paraggi, come sostengono altri suoi colleghi. «È uno strumento che rende certamente più sicuro anche chi non ha alcun sintomo, perché, per semplificare, la gocciolina nel quale è invischiato il Coronavirus, rimane sulla mascherina, come una barriera. Non passa». Gocce minuscole. Alcune droplet, di diametro superiore a 5 micron, raggiungono con un colpo di tosse la distanza di circa un metro. Altre ancora più piccole, sotto i 5 micron, possono superare il metro e mezzo, partendo magari da uno starnuto. «Se si indossa una mascherina, però, possono essere bloccate e restare all'esterno della protezione», sottolinea l'esperto della Bicocca. Per questo sarebbe utile indossare la mascherina quando si va al supermercato, oppure al lavoro, o in farmacia. «Tutti luoghi dove si stanno creando code; in queste situazioni - conclude Broccolo - ha senso coprirsi». L'Istituto Superiore di Sanità, nel Rapporto Covid-19 n.2/2020, ha scritto che «è documentato che i soggetti maggiormente a rischio d'infezione da Sars-CoV-2 sono coloro che sono stati a contatto stretto con un paziente affetto da Covid-19, in primis gli operatori sanitari, senza l'impiego e il corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuali (DPI) raccomandati o mediante l'utilizzo di Dpi non idonei». Insomma le mascherine ad alta protezione possono essere utili. Non a caso vanno a ruba. E in tanti ne approfittano. La Guardia di Finanza ha sequestrato oltre 60mila esemplari solo negli ultimi giorni, 5mila erano alla dogana. I Carabinieri di Roma hanno scoperto farmacie con rincari da record. In Sicilia sono state trovate mascherine scadute rivendute a 15 euro al pezzo. Si assiste poi a situazioni paradossali: centinaia di migliaia di mascherine sono bloccate alla dogana dell'aeroporto di Fiumicino. Motivo: non c'è il bollo della Comunità europea. «Ma ci sono i fascicoli tecnici che ne attestano la sicurezza e la validità secondo la norma Ue - rimarca il produttore - con tanto di test in laboratorio». A quanto pare non basta. Era successo pure per i respiratori. Off limits per l'Italia, sono finiti in Germania, in questo caso meno rigorosa.

La verità sulle mascherine. Quali sono e quanto costano le mascherine per fermare il Coronavirus? Ecco tutto quello che dovete sapere. Fausto Biloslavo, Sabato 14/03/2020 su Il Giornale. Alberto Spasciani ha 45 anni di esperienza nel settore oggi critico delle mascherine, che servono come il pane per combattere l’infezione del Covid 19. La ditta fondata nel 1892 porta il nome della famiglia che ha fornito le maschere militari e gli occhiali protettivi per i soldati della prima e seconda guerra mondiale. E poi per i lavoratori del XX secolo, i minatori ed i vigili del fuoco. L’azienda Spasciani nata nel cuore di Milano e trasferita ad Origgio, in provincia di Varese, è una delle poche realtà italiane specializzate in dispositivi di protezione individuale fondamentali nella lotta in prima linea al virus. Il governo vuole acquistare 34 milioni di mascherine, compresi 10 milioni di quelle veramente protettive per il virus. E’ possibile? “Non sarà facile trovarle sul mercato. Le mascherine certificate, che fermano il virus, normalmente sono un dispositivo di protezione utile all’industria. La richiesta mondiale si attesta normalmente su qualche milione di pezzi all’anno. Il 90% è di provenienza cinese in nome della globalizzazione. Ora se ne chiedono svariati milioni in brevissimo tempo in un solo Paese”.

Non potevamo pensarci prima, quando l’epidemia è scoppiata in Cina?

“All’alba della crisi epidemica il governo ha cominciato timidamente a chiedere ai fabbricanti italiani, quattro scarsi, quali erano le scorte disponibili. Poi ha bloccato l’export. Ma quale, visto che siamo pochi? E adesso hanno addirittura stoppato tutti i dispositivi di protezione individuali, che comprendono elmetti, scarpe, cinture. Nulla a che fare con la lotta al virus. Dei nostri carichi sono fermi in dogana per questo assurdo motivo. La Germania, al contrario, ha fatto una lista precisa di prodotti da non esportare. Il governo avrebbe dovuto convocare subito i quattro fabbricanti attorno a un tavolo e favorire la realizzazione di nuovi impianti e attrezzature fornendo supporto economico. E obbligando tutta la filiera dei sub fornitori a dare precedenza a questa attività. Evidentemente non nell’immediato, ma con un logico tempo di avvio, le aziende avrebbero cominciato a sfornare i prodotti voluti sempre con maggior velocità e a prezzi "calmierati"".

E invece si è scatenata la speculazione…

“I prodotti migliori solitamente sono venduti nei negozi specializzati per l’industria e non nelle farmacie. La nostra associazione di categoria ha stabilito dei prezzi minimi e massimi per le Ffp2 e Ffp3 (le mascherine veramente protettive nda) che variano da 0,80 centesimi a 9,50 €. Poi ci sono quelle non monouso con prestazioni elevate, che possono arrivare a 18 €. E’ inaccettabile che una mascherina sia stata acquistata in farmacia a 60 euro. E quelle che ci venderanno i cinesi per “aiutarci” (2 milioni nda) variano da 1 a 3 € al massimo. Anche in rete si trovano offerte assurde. Per non parlare delle mascherine vendute nei centri commerciali che non servono a nulla. E pure se ne trovi una adeguata devi sostituirla ogni 4 ore, se vuoi continuare a venire protetto”.

Però impazzano le proposte di mascherine con la carta da forno o altre improbabili trovate. Cosa ne pensa?

“Purtroppo si magnifica l’ingegno di chi insegna a realizzare pericolosissime mascherine fai-da-te! Quelle con la carta da forno e altre stupidaggini del genere. Se la gente le usa si espone a rischi maggiori perché sta meno attenta a rispettare le distanze di sicurezza o ad evitare assembramenti. In realtà queste genialate non forniscono alcuna protezione, però vengono pubblicizzate anche da importanti trasmissioni tv”.

Dalla crisi della mascherine ne usciamo solo chiedendo aiuto alla Cina, che ci ha portato il virus?

“Qualsiasi aiuto è utile, ma dovremmo evitare di dipendere da chiunque a cominciare dai cinesi. Israele, quando lancia una gara, come ha fatto pochi giorni fa l’Italia per le mascherine, prevede sempre una bella percentuale garantita per le proprie aziende in maniera tale da mantenere la produzione interna. Noi abbiamo una società in Spagna e siamo stati saturati dagli ordini del governo di Madrid. E purtroppo ci si ostina a non prendere in considerazione utili alternative”.

Cosa intende?

“Non vengono presi in considerazione altri mezzi protettivi uguali o più validi delle cosiddette mascherine. Dispositivi che non sono monouso, ma che si possono utilizzare a lungo. Le semimaschere di cui parlo raccolgono l’inquinante nei filtri ricambiabili. Non lo dico solo perché le produciamo noi in Italia, ma per il fatto che ogni prodotto del genere potrebbe sostituire 300-400 mascherine”.

Biagio Chiariello per fanpage.it il 30/01/2020. Indossare una mascherina è tra le raccomandazioni consigliate dal Ministero della Salute per proteggersi dal Coronavirus, il virus arrivato dalla Cina che sta contagiando sempre più persone nel mondo compresa l’Europa. A causa della psicosi di questi giorni molte persone soprattutto a Roma stanno acquistando le protezioni per il viso per evitare un eventuale contagio. Come riporta il Tempo , molte farmacie della Capitale sono state inondate di richieste di mascherine tanto che in alcuni esercizi sono esaurite. “Siamo rimasti solo con 60 pezzi – racconta la dottoressa Maria Ingria, titolare della farmacia romana di piazza Igea – le richieste di mascherine da noi sono continue: da mille fino a 5mila al giorno”.

Mascherine prodotto in Cina, a Wuhan. C’è però una sorta di beffa per gli italiani che in queste ore hanno voluto dotarsi di mascherine: sono prodotte a Wuhan, città epicentro dell’epidemia, come confermato dalla stessa dottoressa Ingria, come si vede nella foto diffusa dallo stesso quotidiano romano. Sulla confezione è scritto nero su bianco: Mascherina facciale filtrante’ distribuita da Farmac Zabban Spa Calderara di Reno-Bologna, ma prodotta in Cina, Wuhan.

Cristina Bassi per “il Giornale” il 12 marzo 2020. «Una vera cattiveria»: protesta e si difende la dottoressa Paola Colombo, titolare della farmacia Boccaccio, aperta 24 ore su 24 nel centro di Milano. Da ieri un suo scontrino è finito sui social e lei è additata come profittatrice nell' emergenza sanitaria. Un cliente ha acquistato quattro mascherine Fpp3 a 60 euro ciascuna, totale: 240 euro. Una follia, dicono molti suoi colleghi. Lei non si nasconde e argomenta: «Il prezzo è alto certo, ma molto vicino al prezzo di costo. Sono introvabili anche per noi e io ho fatto i salti mortali per fare rifornimento, accettando costi fuori mercato. Altri farmacisti - sostiene - hanno scelto invece di non comprarle, se non ai prezzi di sempre o quasi. Rimanendo in questo modo sprovvisti». A Milano, come in altre città, sono settimane ormai che le farmacie espongono il cartello: «Mascherine esaurite». La risposta alla domanda dei cittadini è sempre la stessa: «Sono in consegna...». Una delle dipendenti della farmacia che le aveva fino a due giorni fa ha pianto, vedendo i post con gli attacchi. «È sconfortante - dice la titolare -, ci accusano di essere sciacalli. Siamo in trincea, ho dipendenti con bambini piccoli che mi chiedono di poter stare a casa, ma noi non possiamo stare a casa. I clienti ci assalgono se rifiutiamo di dare più di due mascherine o se chiudiamo la porta per scaglionare gli ingressi, ci sono crisi di panico». La dottoressa quindi considera ingiusta la gogna social. «Io cerco mascherine notte e giorno, anche per noi e i nostri familiari, visto che l' Ats non ce le fornisce. Le cerco in Spagna, Stati Uniti, su Amazon. Ho messo in vendita tutti i lotti che ho trovato, compresi alcuni dei pezzi che avevamo messo da parte per noi. Le diamo prima di tutti ai malati cronici, ne abbiamo regalate decine a conoscenti o a chi non poteva comprarle. Ho medici che mi supplicano di dargliele, perché non rientrano nelle specializzazioni cui vengono distribuite. Per non parlare delle centinaia che ci dovevano arrivare e sono state requisite dalle forze dell' ordine». La farmacista spiega che i prezzi non possono essere gli stessi di un tempo, perché quello che prima era un acquisto diretto dal produttore adesso passa attraverso 4-5 passaggi. «Anticipo migliaia di euro, ma a volte la merce non mi arriva...». Lo scontrino incriminato? «Il signore che ha insistito per averne quattro invece di due, poteva non comprarle. Sarebbero state più utili a un malato grave. I miei colleghi che dicono che non dovrebbero costare più di 10-15 euro? D' accordo, ma scommetto che loro non le trovano da giorni...». Rivendica la sua scelta scomoda: «L' alternativa era lasciare senza mascherina chi ne ha bisogno. Ringrazio chi ha apprezzato questa nostra efficienza e l' impegno nella ricerca dei prodotti, per poter rendere un servizio indispensabile». C' è un video condiviso su Facebook che mostra lo scontrino di una farmacia di Pescara, segnalato alla Guardia di finanza: 149 euro per cinque mascherine e un gel disinfettante. Sempre la Guardia di finanza, a Palermo, ha sequestrato mascherine vendute a 10 euro in mezzo a bibite e snack negli ospedali Cervello e Villa Sofia. Gli investigatori verificano se ce ne sono altre nei distributori di altri ospedali cittadini. E hanno identificato i gestori delle macchinette. Mentre a Brescia le Fiamme gialle hanno sequestrato oltre 400 mascherine prive della marcatura Ce. Potenzialmente nocive, erano state acquistate in nero direttamente dal Brasile, senza documentazione di conformità sanitaria. La merce era nascosta e veniva mostrata solo su richiesta del cliente. Il titolare dell' attività commerciale rischia multe tra i 4.500 e i 48mila euro.

SCORTE INSUFFICIENTI. Coronavirus, mascherine introvabili. "Di Maio le ha regalate alla Cina": la denuncia di ospedali e militari. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Aumentano le richieste di mascherine da parte ospedali e forze dell'ordine, ma, come riconosciuto dal ministero dell'Interno, vi sono "difficoltà di approvvigionamento". Il peccato originale risale alle prime due settimane di febbraio, quando il coronavirus intensificò la sua diffusione in Cina. Per via della riduzione delle forniture cinesi, da cui provengono la maggior parte delle mascherine, "dalla prima settimana di febbraio i magazzini europei e americani sono vuoti", riferisce a Il Giornale Andrea Spasciani, titolare di una ditta di Varese che le commercializza. Ma non è tutto: il ministero degli Esteri ci ha messo del suo, regalando imprudentemente circa 2 tonnellate di materiale sanitario alla Cina, tra cui le introvabili mascherine. Una "scelta sbagliata", secondo fonti militari citate da Il Giornale. La mossa sconsiderata del governo è stata denunciata da alcuni ospedali italiani (tra cui l'azienda sanitaria regionale del Lazio, gli ospedali di Bari e Palermo), ma anche da forze dell'ordine e farmacisti, i cui scaffali dedicati alla mascherine protettive sono ormai vuoti. Con l'approssimarsi del picco di contagi, previsto in settimana, sono state richieste numerose mascherine per gli addetti ai lavori, ma le scorte sono esaurite. Così il buonista sindaco di Firenze, Dario Nardella, commentava la spedizione di mascherine alla Cina da parte del governo e da alcuni caritatevoli imprenditori toscani: "Bisogna dare un messaggio di forte di supporto e collaborazione con il popolo cinese", affermò. Il problema è attuale, e l'allarme è stato lanciato anche dalle guardie mediche sprovviste di mascherine.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 5 marzo 2020. Farmacie, siti internet, negozi all'ingrosso e al dettaglio, ma anche ospedali e presidi medici. In Italia e nel mondo le mascherine anti-contagio da coronavirus sono ormai introvabili. Non solo le Ffp3, vale a dire quelle con dei sistemi di filtraggio, ma anche le mascherine chirurgiche e cioè i dispositivi utilizzati dal personale sanitario per proteggere se stessi e gli altri dalle infezioni. Una carenza a cui, secondo l'Oms, le aziende potrebbero supplire solo aumentando la produzione del 40%, portandola a circa 90 milioni di unità ogni mese. Per questo è scoppiata una vera guerra mondiale delle mascherine. L'Italia come altri 8 Paesi ha bloccato le esportazioni. I problemi di approvvigionamento e le limitazioni rispetto alle mascherine infatti non interessano solo il nostro Paese. In Francia ad esempio, dopo aver sequestrato «tutti gli stock e la produzione di maschere di protezione» (circa 10 milioni di unità) per distribuirle «agli operatori sanitari nonché ai francesi infettati dal coronavirus», Emmanuel Macron ieri ha reso la loro vendita soggetta a prescrizione medica. Il ministro tedesco della salute Jens Spahn invece, proprio come fatto dall'Italia nei giorni scorsi, ha vietato l'esportazione all'estero di questi dispositivi e di guanti. Ma misure analoghe sono state adottate anche in Russia, Marocco, Turchia, Kenya, Kazakistan, Thailandia e Taiwan. L'Italia ha intanto acquistato 400mila con filtri (Ffp2 e Ffp3) dal Sudafrica. Tuttavia non sono sufficienti né il nuovo stock né le risicate quantità presenti nei depositi e a volte donate alle città italiane dall'estero, come Shanghai che ieri ne ha inviate 5mila a Milano. Così, come annunciato da Angelo Borrelli, nei prossimi giorni ne verranno acquistate altre 5 milioni di unità. Intanto alle aziende di tutta la penisola che si occupano di dispositivi di protezione ne sarebbero state commissionate altre 200mila Ffp3 stabilendo, come si legge in gazzetta ufficiale, che «hanno la priorità assoluta rispetto a ogni altro ordine». Non solo, per fronteggiare alla carenza di mascherine chirurgiche - composte da veli di cellulosa e utili a contenere i germi emanati nel campo operatorio - nel dpcm del 2 marzo è stato definito come siano «utilizzabili anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione dell'istituto superiore di sanità». Per lo stesso motivo alcune aziende hanno iniziato a riconvertire gli impianti per produrre mascherine sanitarie. In toscana al presidente della regione Enrico Rossi «è venuta l'idea che il tessuto non tessuto' può trattenere l'aerosol» così, dopo la certificazione delle università, ora diverse aziende ne stanno producendo tra le 20mila e le 30mila al giorno da distribuire alle strutture sanitarie del territorio. In Brianza invece, l'azienda tessile Montrasio Italia, ha iniziato la riconversione già da fine gennaio e ora riesce a produrre oltre un milione di mascherine con filtraggio al mese. Un cambio di prospettiva aziendale reso necessario non solo dalla situazione allarmante ma anche dai frequenti episodi di sciacallaggio. Lunedì, ad esempio, in Liguria all'ospedale di Imperia sconosciuti hanno sottratto uno stock di mascherine protettive dalle sale operatorie, probabilmente per alimentare il mercato nero delle compravendita online. Ormai da settimane venditori abusivi, su internet come agli angoli delle strade, smerciano mascherine a prezzi esorbitanti (addirittura fino a 5mila euro). Rincari fino al 400% che hanno spinto la Guardia di Finanza ad intervenire effettuando decine di sequestri e denunciando già 9 persone per il reato di «manovre speculative su merci».

Coronavirus, il nuovo dominio cinese: la produzione delle mascherine antivirus. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Prima del Covid-19 la Cina produceva 20 milioni di mascherine al giorno. Per uso ospedaliero, industriale e per la gente normale alle prese con il quotidiano inquinamento da polveri sottili. Quando è scoppiato il Coronavirus le autorità hanno prima consigliato e poi ordinato alla popolazione di indossare la maschera. Con soli 20 milioni di pezzi al giorno e 1,4 miliardi di cittadini le maschere sono subito scomparse dai negozi cinesi, ci sono stati scandalosi aumenti di prezzo, gente spaventata che si copriva naso e bocca anche con le bucce delle arance e con bottiglie di plastica divise a metà. Con soli 20 milioni di pezzi al giorno e 1,4 miliardi di cittadini le maschere sono subito scomparse dai negozi cinesi, ci sono stati scandalosi aumenti di prezzo, gente spaventata che si copriva naso e bocca anche con le bucce delle arance e con bottiglie di plastica divise a metà. Venti milioni di maschere pre-epidemia rappresentavano comunque la metà della produzione mondiale, ma allora in Occidente non ci abbiamo fatto caso. Il coronavirus era un problema cinese. Nel giro di pochissimi giorni molte fabbriche in Cina hanno dovuto raccogliere la sfida. La propaganda ha diffuso foto di operaie al lavoro per produrre manualmente maschere per gli eroici medici e infermieri anzitutto. Uno sforzo anche commovente mentre la Cina era in preda allo sgomento e imponeva la quarantena. Ma con centinaia di milioni di lavoratori bloccati dall’ordine di non tornare alle catene di montaggio, come produrre una quantità inesauribile di maschere usa e getta? I pianificatori dell’economia statale hanno mobilitato le grandi industrie automatizzate, comprese quelle ad altissima tecnologia, che hanno riciclato alcune linee di produzione. Oggi la Cina produce 120 milioni di maschere al giorno. Tra le industrie che hanno risposto agli appelli del governo c’è anche la Aviation Industry Corporation of China (AVIC) di Chengdu, specializzata nella costruzione dei caccia J-20 a tecnologia stealth, orgoglio dell’aeronautica militare. La tecnologia di precisione avionica permette a ogni macchinario di sfornare 100 maschere al minuto, 24 ore su 24. La fabbrica dei J-20 ha impiegato 258 ingegneri e tecnici nella risoluzione del problema: e a quanto pare in tre giorni è stata disegnata la prima linea d produzione. Molte altre aziende di piccole e medie dimensioni, di quelle che prima facevano pannolini per bambini, sono state incoraggiate dalle autorità a lanciarsi nel segmento delle maschere protettive. Sarebbero almeno 2.500 le imprese impegnate al momento nella nuova produzione. Che il 29 febbraio aveva raggiunto quota 116 milioni di unità al giorno. Oltre quelle a bassa tecnologia e alto impiego di mano d’opera ci sono giganti come Foxconn, famoso per l’assemblaggio degli iPhone; Xiaomi e Oppo, specializzati in smartphone a basso costo. La Sinopec, gigante del petrolio, ha aumentato la produzione di materiali di base per le maschere professionali: dal polipropilene al polivinile. Gli esperti hanno segnalato che Xi Jinping nella prima uscita pubblica in maschera, a inizio febbraio, si era messo una comune mascherina di garza di quelle chirurgiche, usa e getta. Lunedì, quando è andato a Wuhan, il leader indossava una N95 di disegno americano, made in China. Dei 2.500 centri di produzione in Cina, 700 sono di industrie hi-tech che prima si dedicavano a tutt’altro. Uno sforzo da economia di guerra che ha precedente solo nel secondo conflitto mondiale. E ora che il peggio sembra passato sul fronte dell’epidemia in Cina — oggi solo 8 nuovi casi registrati ufficialmente a Wuhan ed è stato annunciato ufficialmente il superamento del picco con soli 11 decessi nelle ultime ore — le maschere cinesi sono pronte per l’esportazione. Solo in Italia siamo in attesa di due milioni di pezzi, in un contratto concordato da Luigi Di Maio con il collega di pechino Wang Yi. Al momento l’intesa sembra soprattutto un gesto di solidarietà politica da parte di Pechino, dopo le tensioni di gennaio quando Roma chiuse i collegamenti aerei diretti. Ma intanto Germania e Francia, che si preparano all’esplosione dell’epidemia, hanno bloccato le esportazioni, per non assottigliare le scorte indispensabili al mercato interno. Se davvero il coronavirus sarà arrestato in Cina, è possibile che il surplus di maschere venga esportato. Le maschere e le tute protettive possono diventare uno strumento di geopolitica ai tempi del Covid-19.

La mascherina made in Brianza dell’azienda «in progress». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Rosella Redaelli. «Montrasio Italia Benvenuti. Per informazioni sulle mascherine premere 1». Il centralino dell’azienda con sede ad Aicurzio, nella Brianza vimercatese non ha tregua. Chiamano dall’Italia, dall’Europa, da Israele. Tutti vogliono la mascherina antibatterica «Made in Brianza». Luca Montrasio, titolare con la sorella Emma dell’azienda di famiglia, nata nel 1946 con il nonno Cesare e la nonna Maria come azienda tessile, proseguita con il papà Michele ed evoluta negli anni Novanta nella lavorazione del tessuto non tessuto nel campo della pulizia domestica, professionale e medicale, ha intuito che, di fronte all’emergenza del Coronavirus, non si poteva più dipendere dalla Cina per un prodotto che sta andando a ruba. «A fine gennaio la situazione era già seria — spiega Luca Montrasio — la Cina è rimasta l’unico produttore su grandi volumi e on line si trovano mascherine a dieci volte il prezzo di costo. Ho riunito il mio team di ricerca e sviluppo e abbiamo cercato di capire come potevamo mettere a disposizione le nostre competenze e il nostro spirito di innovazione per creare un prodotto tutto italiano, in grado di superare i test per la certificazione antibatterica». In tre settimane, a tempo di record, l’azienda di famiglia è stata stravolta. Nei 22 mila metri quadri della sede di via Cascina Restelli sono stati adattati i macchinari esistenti, sono state create sei linee di produzione che diventeranno nove da settimana prossima. I sessanta dipendenti lavorano su due turni che durano dalle 7 del mattino alle 7 di sera per produrre un milione di mascherine al giorno. «Stiamo valutando di assumere altro personale perché non possiamo trascurare la nostra produzione tradizionale che resta il nostro core business. Questa settimana abbiamo iniziato le prime consegne di mascherine — spiega il titolare — cerchiamo di accontentare tutti. Stiamo consegnando alla grande distribuzione, discount, alle farmacie e parafarmacie, alle case di riposo. Diamo priorità assoluta all’Italia». La mascherina con il marchio «L’unico Originale» ha superato i test di un laboratorio esterno e si è dimostrata efficace a filtrare fino al 98 per cento dei batteri: «Come sappiamo dalle autorità medico-scientifiche le mascherine da sole non possono isolare il virus —prosegue Montrasio — ma, se correttamente utilizzate, costituiscono una barriera efficace per limitarne la diffusione» (qui la guida del Corriere alle mascherine più efficaci). Prima di arrivare al prototipo, in azienda il team di ricerca e sviluppo ha analizzato i prodotti già presenti sul mercato, fino ad arrivare al prodotto finale: «Abbiamo pensato ad una mascherina più grande del 50 per cento rispetto a quelle chirurgiche, a doppio strato di tessuto non tessuto più spesso, perfettamente aderente al viso e facile da indossare senza lacci ed elastici tramite due aperture all’altezza delle orecchie». Sono già in vendita nei supermercati e si trovano negli scaffali in taglia unica, in confezioni da 6, 14, 30 e 50 pezzi, ovviamente monouso.

«Noi in azienda la indossiamo tutti — conclude il titolare — è una forma di protezione che penso possa essere utile per chi si trova costretto a viaggiare sui mezzi pubblici a trenta centimetri dal naso del proprio vicino, a chi fa professioni a stretto contatto con le persone. Rispetto a quella verde chirurgica la nostra spaventa meno e può essere indossata con maggior disinvoltura. Penso proprio che ne invierò una scatola anche al governatore Fontana che ho visto alle prese con i lacci della sua mascherina».

Coronavirus: quali sono le mascherine in commercio e chi proteggono. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Con l’aggravarsi dell’infezione sono in molti a cercare di proteggersi e, di conseguenza, alla spasmodica ricerca di mascherine di qualunque genere. È difficile trovarle, perché sono esaurite o in vendita a prezzi esorbitanti, come 41 euro su internet per una mascherina FFP3, non più di 5 pezzi disponibili. Tutti le vogliono ma in realtà non tutti devono indossarle e l’enorme domanda è anche uno dei motivi degli attuali problemi di approvvigionamento per chi ne ha davvero bisogno. Anche i giganti del web, Google e Facebook, hanno deciso di mettere al bando tutti gli annunci pubblicitari relativi alle mascherine per uso medico, visto che la carenza di dispositivi è comune in tutto il mondo colpito dal coronavirus.

Le mascherine non servono alle persone sane. Devono indossarle i malati di coronavirus e chi si prende cura di loro, come i sanitari o le persone che li assistono. Le mascherine possono proteggere anche gli immunodepressi che sono a rischio di contrarre malattie e più esposti alle infezioni. L’uso delle mascherine nelle zone rosse o di focolaio può servire se si lavora a stretto contatto con persone sconosciute: tassisti, dipendenti di uffici aperti al pubblico, alcuni sindacati di categoria le consigliano. Per i sani che teoricamente non sono a contatto con malati, in mancanza di protezione basta coprirsi il volto con una sciarpa ma soprattutto lavarsi le mani, non toccarsi il viso, mantenere la distanza di almeno un metro e cercare di non uscire di casa. Indossare una mascherina non deve essere motivo per poter uscire e incontrare persone nelle zone dove è stato detto di limitare i contatti. Ricordiamo anche che qualunque mascherina è monouso e comunque andrebbe cambiata dopo 4 ore di utilizzo, visto che l’umidità del respiro crea un microclima che favorisce la proliferazione dei virus.

(FFP1, FFP2, FFP3). Detto questo, quali sono i vari tipi di mascherine? Le mascherine si dividono in DPI “Dispositivi di Protezione Individuale” e “mascherine Medicali”. I DPI in commercio, di qualunque tipo o categoria essi siano, devono presentare la marcatura CE. Nel campo della protezione delle vie respiratorie ce ne sono circa una quarantina. Nel caso specifico, il tipo di maschere filtranti richieste per evitare il contagio da Coronavirus (classificato come “rischio biologico”), sono regolate dalla norma EN 149. Tale norma, a seconda dell’efficienza filtrante, classifica le maschere in FFP1, FFP2, FFP3, dove FF significa Facciale Filtrante. Le mascherine consigliate (ai medici) sono di classe FFP2 o FFP3 che hanno una efficienza filtrante del 92% e 98% rispettivamente. Le FFP1 con il 78% di efficienza sono insufficienti per il caso attuale, sono quelle “antipolvere”.

(chirurgica). Le “mascherine Medicali” (cosiddette “chirurgiche”) svolgono una differente funzione rispetto al DPI. Esse hanno come caratteristica quella di proteggere non il portatore ma il paziente sul tavolo operatorio dalla possibile contaminazione che può essere veicolata dagli operatori sanitari. Queste mascherine, le cui caratteristiche e performance sono molto inferiori alle citate FFP2 o FFP3 possono, quindi, evitare che il portatore diffonda il contagio, ma non proteggono lo stesso adeguatamente dal contagio di provenienza altrui.

(con valvola). Le mascherine monouso con i “filtri” sono analoghe a quelle chirurgiche e i filtri sono in realtà valvole che permettono una più confortevole respirazione e riducono il riscaldamento dovuto al calore del fiato. L’efficienza del dispositivo comunque non cambia. Esistono anche maschere in elastomeri o tecnopolimeri dotate di filtro sostituibile P2 o P3 regolamentate dalla EN 140 e EN 143. L’efficienza filtrante di questi dispositivi è analoga a quelli medicali, con il vantaggio di un più agevole adattamento al viso.

(FFP1 - antipolvere). A chi sono consigliate? Le mascherine chirurgiche (o simili) devono essere indossate da una persona malata. Se abbiamo una persona sana accanto a una positiva è quest’ultima che deve indossare la protezione. Le mascherine FFP2 o FFP3 devono essere indossate da sanitari o chi sta a stretto contatto con un malato. Queste mascherine sono “sprecate” se utilizzate dalla persona infetta. E sono efficaci solo se indossate con precisa procedura, proprio per questo non sono consigliate a i bambini o persone con la barba od occhiali, a causa “dell’impossibilità di un perfetto adattamento ai contorni del viso”, spiega il Ministero della Salute. Visto che le mascherine sono utili ai malati e a particolari categorie di lavoratori, in primis sanitari, e vista la carenza sul mercato dovuta alla situazione d’emergenza e alla domanda scorretta, l’acquisto e la distribuzione dei dispositivi in questione sono stati contingentati. Le mascherine vengono consegnate e gli acquisti autonomi (spesso anche di singole ATS) vengono bloccati dallo Stato o dalle Regioni. Sono possibili e attive invece le donazioni. Ovviamente in una situazione di crescita dei contagi come quella della Lombardia e alcune zone d’Italia è una rincorsa contro il tempo: i sindacati e le associazioni di medici e farmacisti lamentano gravi carenze a cui si cerca di far fronte. Le mascherine a ondate vengono trovate e consegnate ma poi ne servono altre: per esempio in Lombardia “solo per i nostri operatori sanitari sono necessarie 300mila mascherine al giorno. Questa è la dimensione del problema. Immaginiamo se dovessimo dare a tutti gli italiani una mascherina al giorno», ha detto l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera. Vista la carenza di dispositivi l’Organizzazione mondiale della sanità nelle nuove linee guida del 27 febbraio permette la sostituzione di mascherine mediche con mascherine chirurgiche per gli assistenti di studio, i tecnici di laboratorio, gli inservienti e i visitatori degli ospedali. Non per i medici a contatto con i pazienti di COVID-19. Il decreto Gualtieri consente invece “in conformità alle attuali evidenze scientifiche” di far ricorso alle mascherine chirurgiche anche per proteggere gli operatori sanitari e consente di usare anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione dell’Istituto superiore di sanità (ISS). La Protezione civile ha centralizzato l’acquisto dei DPI. Proprio in queste ore conferma che saranno distribuite un milione di mascherine alle strutture sanitarie regionali. Il commissario Angelo Borrelli in conferenza stampa ha spiegato che tutto il materiale sanitario che viene acquistato dalla protezione civile è destinato agli ospedali e non ai cittadini.

Sebastiano Cascone per tvblog.it l'11 marzo 2020. Nel corso dell'ultima puntata di Stasera Italia, Barbara Palombelli ha realizzato un tutorial su come realizzare in pochi istanti una mascherina artigianale con la carta da forno. Ecco tutte le preziose istruzioni della giornalista Mediaset: "Tanti dicono non ho la mascherina... come faccio ad avere la mascherina... ora ve lo faccio vedere. Prendete la carta da forno perché la carta, come ha detto il professore Garbagnati, deve essere impermeabile. E la carta forno è perfetta. La piegate da un verso e dall'altro. E' una cosa veramente economica ed è sicura per quando esce e non ha la mascherina quella brevettata a casa. Si prendono due elastici, si gira, dobbiamo, ovviamente, fissarli con la spillatrice... da una parte, dall'altra. Quindi, spillate due elastici nei rispettivi versi. Poi, aprite, poggiate sul viso, regolate gli elastici. Fatta la mascherina... credo che costi 10 centesimi".

·         Coronavirus e l’amuchina.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 31 marzo 2020. L' alcol, sosteneva George Bernard Shaw, è un anestetico che permette di sopportare l' operazione della vita. Shaw, in quanto irlandese e convinto sostenitore della Russia stalinista, di cicchetti se ne intendeva. L' alcol, ai tempi del Coronavirus, oltre che per l' ossessiva pulizia di casa, può essere usato nei modi più svariati. C' è la moda di fare l'"ape-social" con gli amici, l' oretta in cui si beve tutti assieme in videochat sparando le minchiate di sempre ma senza poter concludere nulla con la signorina più carina, o comunque con quella più brilla, categorie che purtroppo nella vita reale e non virtuale coincidono di rado. Ci affidiamo (vanamente) al Dio Bacco per cercare di interpretare le supercazzole notturne di Giuseppe Conte che ricordano, pur senza far ridere, quelle del Conte Mascetti di "Amici Miei". E però sempre l' alcol, e stavolta parliamo di alcol spray, forse potrebbe addirittura sopperire alla mancanza di mascherine, chissà, e quindi c' entra ancora l' avvocato foggiano. 500 flaconi Alcol spray? Esattamente. Più percisamente trattasi di grappa spray, imbottigliata in speciali erogatori, che pare ideale per disinfettare la gola. Se l'è inventata il mastro distillatore trevigiano Roberto Castagner, fa 71 gradi alcolici (da cui il nome Grappa Alto Grado 71), non soddisfa il palato, forse, ma di sicuro lo disinfetta. E dato che il governo, anziché mascherine protettive, da alcuni ha inviato quelle del coniglio Bugs Bunny (governatore De Luca dixit), se al supermercato abbiamo la sfiga che qualcuno ci tossisca addosso, è meglio che le goccioline dell'"untore" siano state prima tramortite proprio dall' alcol, che se sono sobrie e aggressive son dolori. Grappa disinfettante? Ecco, già sentiamo l' indignazione dei maestri dell' informazione: «Secondo Libero la pandemia si sconfigge trincando». Andate in mona! In via sperimentale Castagner, titolare dell' omonima azienda di famiglia con sede a Visnà di Vazzola, in provincia di Treviso, ha prodotto 500 flaconi da 5 centilitri e li ha distribuiti ad alcuni alimentari della zona, con l' obiettivo immediato di entrare nella grande distribuzione. Con ogni bottiglietta si possono effettuare 130 nebulizzazioni. La dose consigliata è di 3-6 spruzzi alla volta, i quali permettono per l' appunto la sanificazione della faringe per una mezzoretta. Cinquanta spruzzi, per intenderci, corrispondono a un bicchierino di grappa.

COSÌ È NATA L' IDEA Il rischio, in tempi in cui le sorti del Paese sono affidate a Rocco Casalino, è che molti si diano alla nebulizzazione compulsiva per tentare di dimenticare, che l' igienizzazione della gola sfugga alle prescrizioni (non mediche ma etiliche) e il dosaggio diventi ad libitum. «In questo periodo d' emergenza - dice lo stesso Castagner - mi sono chiesto se e come la grappa potesse essere utile alla gente». Eccome se lo è. Acquavite, acqua di vita. «La grappa - prosegue il mastro distillatore - fa parte del vissuto degli italiani (soprattutto del Nord, ndr) e l' alcol è uno dei prodotti disinfettanti più efficaci per eliminare i virus. Da qui è partita l' idea di unire le due specificità». «Per essere efficace - aggiunge ancora Castagner - il prodotto deve anche contenere la giusta quantità d' acqua. C' è ovviamente un piccolo segreto nel processo di produzione. Abbiamo deciso di tenere un prezzo basso, quello consigliato alla vendita è di 6 euro, in modo che possa essere alla portata di tutti».

SAPERE CONTADINO Il distillato, fa sapere sempre il titolare dell' azienda (14,5 milioni di fatturato con export in trenta nazioni), «riunisce in sé innovazione tecnologica e antico sapere contadino per il quale la grappa era uno spirito medicamentoso. La gradazione, per essere efficace, deve essere tra i 60 e i 90. Il virus che sta contagiando il mondo si propaga maggiormente per via respiratoria con incontri ravvicinati con persone contagiate. Quindi - conclude Castagner - il 22 febbraio ho deciso di mettermi al lavoro coi miei tecnici». Prima di creare il prodotto il mastro distillatore ha chiesto lumi ad alcuni esperti di medicina. I virologi, al momento, hanno capito talmente poco del virus che la prima vera certezza non poteva essere l' inefficacia della grappa spray contro le goccioline da Covid. In ogni caso noi confidiamo molto più nella grappa che in Conte e Di Maio. Alterniamo una spruzzata a un sorso.

Menarini, 5 tonnellate di gel disinfettante (gratis) ogni settimana. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 da Corriere.it. Da qui Menarini ha preso la decisione di produrre il gel disinfettante «esclusivamente per donarlo alle strutture e agli operatori impegnati in prima linea nella lotta contro il Covid-19, quale segno di ringraziamento da parte di tutti noi per l’immane lavoro che stanno facendo, e per aiutarli a lavorare in maggiore sicurezza». La capacità produttiva dello stabilimento fiorentino, «grazie all’impegno di tutte le persone impegnate nella produzione», permetterà all’azienda di fornire gratuitamente ogni settimana almeno 5 tonnellate di gel disinfettante, vale a dire uno degli strumenti chiave per limitare i contagi. «I nostri tecnici — spiega il gruppo — sono al lavoro per poter incrementare queste quantità e sono confidenti di farcela già a breve».

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 14 marzo 2020. Se l'industria privata non ce la fa, e se per di più subentra un sacro egoismo nazionale per cui vengono bloccate le esportazioni di materiali sanitari, occorre che entri in campo lo Stato. Sul tavolo del consiglio dei ministri di oggi arriverà una proposta del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: produrre gel disinfettanti in casa, nello Stabilimento chimico-farmaceutico militare che si trova a Firenze. Un fiore all' occhiello delle nostre forze armate che hanno conservato gelosamente una capacità produttiva di nicchia, ma di alta qualità, utilissima in casi come questo. Non sarà la famosa Amuchina, che è un prodotto della società farmaceutica Angelini Pharma (e che ha già moltiplicato la produzione in questi giorni, mantenendo sempre lo stesso prezzo di vendita come tiene a far sapere la società), ma comunque lo Stabilimento chimico-farmaceutico militare potrà produrre un gel igienizzante di uguale efficacia. Non è nemmeno la prima volta che accade. Dello stabilimento, infatti, la missione è «offrire una risposta pronta e sicura alle esigenze delle Forze Armate e del Paese, fornendo servizi nel settore sanitario e producendo medicinali e presidi di carattere etico e di interesse strategico». Un episodio che pochi ricordano avveniva nel 1998, quando il ministero della Salute incaricò lo Stabilimento di produrre due dei principali farmaci della terapia del professor Di Bella, su cui in quei giorni si appuntavano grandi speranze: in venti giorni, lo Stabilimento produsse 2.400.000 compresse di melatonina e 10.400 flaconi di soluzione ai retinoidi. Dieci anni fa, poi, quando l' emergenza si chiamava A/H1N1, impropriamente definita «influenza suina», i chimici militari produssero capsule del farmaco antivirale oseltamivir. Lo Stabilimento ha una lunga storia, essendo stato fondato nel 1853. Ma quel che interessa oggi è che non ha mai cessato le lavorazioni, ha macchinari all' avanguardia, ed è autorizzato alla produzione di farmaci per uso umano e sperimentale con autorizzazione rilasciata dall' Agenzia Italiana del Farmaco. Lo Stabilimento dispone di reparti produttivi in grado di preparare in «full compliance» con le specifiche normative di settore sia farmaci solidi, orali e iniettabili; sia presidi medico-chirurgici: sia kit di pronto soccorso a beneficio della sanità militare. Nei laboratori i tecnici sono in grado di eseguire tutte le analisi richieste per l' idoneità all' impiego. Un paio di giorni fa, il ministro Guerini aveva anche mandato 25 tecnici della Difesa in una azienda nel Bolognese, la Siare Engineering di Valsamoggia, dove si producono respiratori per i reparti di terapia intensiva. L' azienda ha un buon numero di operai, ma non riesce a star dietro alle richieste di suoi macchinari salvavita e perciò sono stati mandati di rinforzo gli operai della Difesa.

Oronzio De Nora, la storia dell’italiano che inventò l’Amuchina. Redazione de Il Riformista il 2 Aprile 2020. Era il 1923 quando veniva brevettata l’Amuchina. E a partorire quel prodotto fu un italiano. Si chiamava Oronzio De Nora, ingegnere elettrotecnico, nato nel 1899 ad Altamura, in provincia di Bari. E proprio in questi giorni in cui a causa dell’emergenza coronavirus l’Amuchina è tra i prodotti più ricercati – e lo resterà ancora per un bel po’ di tempo a quanto pare – la sua storia è tornata attuale. De Nora – come ha ricordato su La Gazzetta del Mezzogiorno Onofrio Bruno – era nato dunque in Puglia. Il padre, Michele, era ingegnere civile ed esperto di ferrovie e acquedotti. Oronzio però si trasferì, dopo l’infanzia e i primi studi, a Milano, dove studiò al Politecnico di Milano e si laureò nel 1922. Pare che il padre, per descrivere la grande applicazione e dedizione allo studio del figlio, utilizzasse per descriverlo il motto “durante vincunt”, chi persevera vince. Una volta laureato De Nora si iscrisse a un corso di elettrochimica. E nel 1923 mise a frutto la sua intuizione, che consisteva nell’invenzione di un potente antibatterico, l’ipoclorito di sodio diluito in acqua. Lo brevettò come “amuchina” presso archivi tedeschi (catalogato con il numero 1811). Un brevetto poi ceduto, e infatti oggi l’Amuchina è un marchio Angelini Pharma. De Nora invece si dedicò alla sua industria, che fondò quando aveva 24 anni. Le sue scoperte scientifiche facilitavano gli impianti che utilizzavano i processi cloro-soda nei trattamenti di depurazione delle acque e gli anodi per l’industria farmaceutica. A spronarlo nell’approfondire le sue ricerche sulle reazioni tra cloro e soda furono proprio i suoi professori dell’università. E così nel 1969 la sua creatura aziendale fece il salto di qualità brevettando la tecnologia Dsa. Questa prevedeva la sostituzione degli anodi metallici con quelli in grafite, abbassando il consumo energetico. De Nora cominciò così ad avere clienti come Bayer e Solbay, giganti della chimica internazionale, fino alla Apple per l’elettronica. Entrò anche nel mercato giapponese. L’azienda – Industrie De Nora – oggi è ancora attiva. Per aggiornarsi ha puntato su elettrodi e new economy. È gestita dai nipoti dell’inventore, Federico e Michele. Ha nove sedi, circa 1.500 dipendenti e fattura quasi 50o milioni di euro all’anno. La multinazionale ha sede a Milano e si occupa di tecnologie sostenibili, risparmio energetico, trattamento delle acque. L’inventore e  padre del Gruppo, Oronzio De Nora, è scomparso nel 1995.

L’amuchina, geniale invenzione di un ingegnere di Altamura. Il brevetto del disinfettante risale al 1923 e porta la firma di un altamurano, Oronzio Denora (1899-1995). Il prodotto in questi giorni è diventato ricercatissimo. Onofrio Bruno il 27 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Famiglia di cervelli: Oronzio e Niccolò De Nora. È l’articolo più ricercato sugli scaffali dei supermercati e sui banchi delle farmacie. È la parola più ricercata su «google» e c’è gente disposta a pagarla molto di più del suo valore di vendita pur di farne scorta, sebbene è chiaro che siano aumenti ingiustificati del costo. Parliamo dell’amuchina. Tutti sanno cosa sta accadendo in questi giorni per il disinfettante (un marchio della Angelini Pharma). Pochi, invece, sanno che il brevetto del 1923 porta la firma di un altamurano, Oronzio Denora (1899-1995), ingegnere elettrotecnico e genio delle applicazioni della chimica nell’industria. Figlio dell’ingegnere civile Michele De Nora (a cui è intitolata la scuola, ex professionale e oggi istituto di istruzione secondaria superiore), esperto di ferrovia e acquedotti. Oronzio fece fortuna a Milano dove fondò un’industria che oggi è una multinazionale, un colosso nella produzione di elettrodi. Mente molto raffinata, a Oronzio la passione per le scienze era stata trasferita dal padre. Uno studente eccezionale, non temeva alcun esame, nemmeno quelli in apparenza proibitivi. Come racconta l’aneddotica della famiglia De Nora, per lui il padre coniò il motto «Durantes vincunt». Chi persevera vince. E lui certamente vinse. Mise il suo grande intuito a fondamento della storia di industriale. Nel 1922 si laureò con tutti gli onori al Politecnico di Milano (con una tesi sull’elettrolisi dei cloruri alcalini, il settore in cui si affermò nel mondo). Qui rimase e frequentò il corso di elettrochimica. Ebbe grandi intuizioni e una di queste portò all’invenzione di un potente antibatterico, l’ipoclorito di sodio diluito in acqua. La brevettò come «amuchina». Poi vendette il brevetto. Nel 1924 fondò la sua ditta e si lanciò in un mondo in cui fu pioniere: la realizzazione di impianti per la produzione di cloro e soda caustica. Le redini del gruppo chimico industriale furono poi prese dal figlio Niccolò e oggi sono tenute dai nipoti Federico e Michele. I De Nora furono una famiglia di grandi cervelli. Oronzio è poco conosciuto ad Altamura dove visse l’infanzia e i primi studi, prima di trasferirsi a Milano. Lo stesso è avvenuto per il fratello Vittorio, ingegnere chimico, pure lui di fama internazionale. Tanto che a Vittorio De Nora è intitolato dal 1971 il premio «The Vittorio de Nora Award», assegnato ai contributi più significativi nel campo dell’ingegneria e della tecnologia elettrochimica. A Vittorio, morto nel 2008, il consiglio comunale di Altamura nel 2011 ha assegnato il titolo «Leonessa di Puglia» alla memoria.

Carlotta Scozzari per "it.businessinsider.com" il 10 marzo 2020. Tra gli effetti provocati dalla diffusione del coronavirus, c’è la corsa all’acquisto dell’Amuchina, preferibilmente in forma di gel disinfettante per le mani. A ben vedere, non è la prima volta che la propagazione di un’epidemia, come appunto quella del Covid 19, fa convergere i riflettori sul famoso prodotto a base di ipoclorito di sodio. Era già successo negli anni Settanta, ai tempi della diffusione del colera in alcune regioni del Sud Italia. La conseguenza fu che già nei primi anni Ottanta l’Amuchina era diventato il prodotto più utilizzato per la disinfezione dell’acqua da bere e soprattutto di frutta e verdura. Per “ripulire” l’acqua, in realtà, l’Amuchina era già stata ampiamente impiegata negli anni Quaranta, in piena seconda guerra mondiale. La nascita stessa dell’Amuchina, che si fa risalire agli anni Trenta (si veda lo stesso sito internet del prodotto), è legata alla lotta contro una malattia che stava creando problemi sanitari e sociali sempre più gravi: la tubercolosi. Addirittura c’è chi sostiene che il nome del disinfettante derivi proprio dal nome del Bacillo di Koch, ossia il Mycobacterium tuberculosis, che provoca appunto la tubercolosi. L’Amuchina, in realtà, era stata brevettata già nel 1923 dall’ingegnere elettrotecnico di origini pugliesi Oronzio Denora, che dopo avere scoperto i “miracoli” dell’ipoclorito di sodio diluito in acqua vendette il brevetto. La produzione cominciò a Genova negli anni Trenta. Correva l’anno 1948 quando Pietro Giavotto, genovese, rilevò il marchio da Eridania (azienda specializzata nella produzione di zucchero fondata alla fine dell’Ottocento proprio nel capoluogo ligure) per realizzare l’Amuchina nello stabilimento di Busalla (Genova). È al lavoro di Pietro Giavotto e del figlio Giorgio, che si sono spesi per promuoverne l’uso come antisettico e disinfettante, che si deve il graduale aumento, a partire dagli anni Cinquanta, dell’utilizzo del prodotto a base di ipoclorito di sodio negli ospedali, per la disinfezione delle macchine per dialisi e per la dialisi peritoneale. È nel 2000 che l’Amuchina viene acquisita dalla società farmaceutica Acraf, che fa parte del gruppo con base a Roma, Angelini, la cui sola divisione farmaceutica nel 2019 ha realizzato un fatturato di poco superiore ai 900 milioni di euro. Dal bilancio del 2018 di Acraf (ultimo disponibile) si scopre che alla sola Amuchina sono imputabili quasi 42 milioni di fatturato, in progresso sull’anno prima anche grazie alla “crescita organica della linea gel mani” (+0,8 milioni), quella cioè che sta andando per la maggiore proprio in questi giorni. Al contrario, gli sterilizzatori Amuchina, tra l’altro molto utilizzati da donne incinte negative alla toxoplasmosi per disinfettare frutta e verdura, nel 2018 hanno rallentato (-3,9% a valore sul 2017) sia – come spiega il bilancio di Acraf – per il “calo costante di nascite in Italia” sia per un “incremento dei consumi di bicarbonato”. Ma c’è da scommettere che nel 2020, grazie all’exploit del gel per le mani in tempi di coronavirus, l’incremento del bicarbonato a scapito dell’Amuchina sarà solo un lontanissimo ricordo.

·         Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus, il mercato delle macchine salvavita è controllato da pochissime aziende (e nessuna italiana). Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Le ricerche su Google alla parola «respiratori» si sono quintuplicate, negli ultimi giorni. Gli italiani hanno capito rapidamente che quei dispositivi, che vanno sotto il nome tecnico di «ventilatori polmonari», possono diventare la differenza tra la vita e la morte in questa epidemia di coronavirus: non per la gran parte dei contagiati, che non svilupperanno mai sintomi gravi, ma per la piccola minoranza soggetta a complicazioni dell’apparato respiratorio.

Da un dollaro fino a 20 mila. In Italia questi macchinari sono a disposizione delle strutture pubbliche — oltre cinquemila posti letto di terapia intensiva — e la dotazione continua a crescere. La settimana scorsa la Lombardia è riuscita a investire in pochi giorni 47 milioni di euro, con un apporto anche dalla Protezione civile, per comprare ancora più macchine salvavita. Altre regioni e la stessa Protezione civile hanno già concluso altre gare d’appalto e collocato ancora più ordini. Ma basta cercare «mechanical ventilation» nella sezione medicale di Alibaba, il portale cinese di vendite in rete, per capire quale piega stia prendendo la globalizzazione sanitaria nella pandemia del Covid-19. Alibaba ieri sera aveva in offerta in e-commerce, a chiunque fosse disposto a inserire i dati della propria carta di credito, non meno di quaranta diversi modelli di respiratori. Da quelli a un dollaro, per vuotare i magazzini, ai dispositivi da ospedale da 20 mila o 50 dollari a pezzo; ce n’è anche uno fatto a Wuhan, l’epicentro della pandemia, descritto senza traccia d’ironia come un «buon servizio». L’americana Amazon invece non vende quelle macchine, anche perché nei Paesi avanzati solo le strutture sanitarie possono legalmente comprarle. Solo i medici possono applicarle. In Italia questi macchinari sono a disposizione delle strutture pubbliche.

Cinque grandi gruppi. Eppure l’impennata dei prezzi su Alibaba, anche di dispositivi magari truffaldini, lascia intravedere la natura di questa nicchia del mercato globale. Fino a pochi giorni fa valeva poco più di due miliardi e cresceva del 7% all’anno. Adesso sta esplodendo: oggetto di una corsa internazionale all’accaparramento dei dispositivi a ossigeno che (per ora) l’Italia sembra poter evitare. I ventilatori polmonari sono tecnologie avanzate, richiedono investimenti in ricerca massicci e continui, vengono prodotti su scala globale, e sono il recinto di un oligopolio di imprese. Cinque grandi gruppi presidiano metà del mercato mondiale e quasi nessuna grande struttura sanitaria si rifornisce al di fuori dei primi dieci o dodici produttori. Pochi dei loro nomi sono noti fuori da una cerchia di specialisti, ma nelle settimane di Covid-19 questa è diventata un’aristocrazia scelta del capitalismo globale. Eppure l’impennata dei prezzi su Alibaba, anche di dispositivi magari truffaldini, lascia intravedere la natura di questa nicchia del mercato globale.

Imprese italiane tagliate fuori. Il problema è che nessuna fra queste aziende è in Italia, dove le tante piccole imprese biomedicali hanno sempre prodotto pochi respiratori e ora quasi nessuno. I protagonisti sono Becton, Dickinson and Co. (del New Jersey, fondata nel 1897), l’olandese Philips (del 1891), la svizzera Hamilton Medical (del 1983), Fisher & Paykel (Nuova Zelanda, 1934), la Dräger di Lubecca (1889), la Medtronic di Dublino (1949), General Electric, la londinese Smiths che ha quasi due secoli, la californiana ResMed (1989)e la tedesca Maquet, altra azienda quasi bicentenaria. L’accesso e il successo in questa nicchia della globalizzazione, chiaramente, non s’improvvisa. I titoli di alcune di queste società negli ultimi giorni si sono impennati in Borsa, proprio mentre sui listini azionari di tutto il mondo andava in scena una vera e propria capitolazione: è successo alla tedesca Dräger nel settore dei respiratori o alla californiana GenMark Diagnostics nell’area dei kit per gli esami sul virus. Le imprese italiane sono rimaste per lo più fuori da questi mercati, semplicemente, perché in gran parte sono aziende troppo piccole e non hanno le economie di scala per sostenere gli investimenti e le dimensioni degli ordini. Il problema è che nessuna fra queste aziende è in Italia.

L’impegno sui prezzi. Il Sistema sanitario nazionale deve dunque fare affidamento su magazzini esteri, oggi bramati da tutto il mondo, per la sua più grande emergenza da decenni. La corsa dall’Italia è stata così rapida che alcuni dei produttori hanno avuto l’impressione che regioni e Protezione civile fossero in competizione per chi veniva servito prima. Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici, in tempo utile ha fatto sì che molti di questi fornitori esteri firmassero (come gli italiani) un impegno a privilegiare gli ordini del sistema pubblico e a non far salire i prezzi in un’emergenza. Niente aste dunque, almeno non in Italia. Ma Boggetti ricorda come questa crisi riveli il carattere strategico dell’industria biomedicale per un Paese. «Senza nazionalizzazioni — osserva — il governo dovrebbe favorire la crescita delle nostre imprese». Il Sistema sanitario nazionale deve dunque fare affidamento su magazzini esteri, oggi bramati da tutto il mondo.

·         Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Toscana, 200 ventilatori polmonari comprati (e pagati) dalla Regione e mai consegnati. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 su La Repubblica.it da Luca Serranò. Nei giorni più duri dell'epidemia la regione Toscana, tramite la centrale per gli acquisti Estar, comprò 200 ventilatori polmonari da una ditta milanese, pagandoli 7 milioni di euro con procedura d'urgenza. Quei ventilatori, però, non sono mai arrivati. Parte da qui un'inchiesta della procura di Firenze che ha portato all'iscrizione sul registro degli indagati del titolare della ditta milanese, la Assoservizi srl, Giovanni Mondelli e di due funzionarie di Estar, la direttrice generale Monica Piovi e la direttrice dell'area attrezzature informatiche e sanitarie, Marta Bravi. L'imprenditore, Giovanni Mondelli, è accusato di inadempimento in pubbliche forniture, per aver intascato i soldi della commessa senza consegnare neanche un apparecchio, rischiando di fatto di lasciare sguarniti gli ospedali toscani in un momento cruciale della lotta al coronavirus. Piovi e Bravi sono invece accusate di falso ideologico per due distinte delibere del 30 marzo scorso. Piovi per aver "attestato falsamente la fornitura" alla Assoservizi, in realtà decisa senza delibera dieci giorni prima, "con pagamento anticipato e senza alcun controllo sulla società fornitrice". Bravi per una seconda delibera, relativa alla mancata aggiudicazione di una gara ristretta che era stata indetta in contemporanea da Estar, sempre per reperire i preziosi apparecchi. In questo atto, in particolare, la dirigente avrebbe attestato in modo falso di aver ricevuto comunicazione dal referente tecnico che le macchine non erano più necessarie, per l'invio di apparecchi "sufficienti a coprire il fabbisogno" da parte della protezione civile. Secondo il pm Luca Turco, in realtà, "le forniture della protezione civile risultavano del tutto inadeguate". La falsa motivazione sarebbe stata usata per "occultare l'acquisto dei macchinari avvenuto in assenza di delibera".

Il governo s’è fatto rifilare il pacco dai cinesi: ha acquistato ventilatori che non funzionano. Carmine Crocco domenica 3 maggio 2020 su Il Secolo D'Italia. Il governo s’è fatto rifilare il “pacco” dai cinesi. Ha acquistato una partita di ventilatori. Ma dopo si è scoperto che non  funzionano. Ecco come sono andate le cose. Il 15 marzo la Aeonmed, fabbrica cinese di materiale sanitario con sede a Pechino, fa partire un container di ventilatori di sua produzione verso l’Italia, su richiesta del governo italiano.

Lo testimonia anche la pagina del loro sito. Le macchine in questione sono ventilatori polmonari  per terapia intensiva, modello VG70. L’azienda cinese riporta nella sua pagina come il governo italiano abbia ringraziato pubblicamente la società cinese, suonando l’inno della Rep-Pop Cinese all’arrivo di uomini e materiale-Circa tre settimane dopo, il 4 aprile, il ministro britannico Gove annuncia l’arrivo di 250  ventilatori polmonari acquistati in Cina dalla medesima azienda, Aeonmed, di Pechino. Sono di un modello diverso da quelli mandati in Italia. Si tratta di ventilatori Shangrila 510 S, come scrive anche il Guardian. Ma queste macchine hanno dei problemi. Sono apparecchi mobili, utilizzabili più su ambulanze che negli ospedali, hanno una fornitura di ossigeno incostante,i tubi non rispettano le norme europee di sicurezza e non è possibile pulire adeguatamente i filtri. Un gruppo di medici specialisti inglesi denuncia subito la pericolosità di queste macchine che invece che essere salvavita possono , al contrario, risultare letali. Il dipartimento britannico di salute pubblica, che ha sede a Birmingham, ne blocca l’utilizzo e i ventilatori cinesi non vengono mai collegati ai pazienti.Della vicenda non si sa nulla fino a quando lo svela un’inchiesta dell’americana NBC news che riesce ad ottenere la lettera scritta dai medici inglesi. Resta da capire se i ventilatori arrivati in Italia, diversi da quelli mandati in UK, siano efficienti o presentino gli stessi problemi.

Carlo Tecce per il Fatto Quotidiano il 29 marzo 2020. Soltanto ai primi giorni di marzo in Italia si è scoperto che esiste un' azienda italiana, la Siare Engineering, che produce ventilatori polmonari, i macchinari necessari per ampliare le terapie intensive e curare i malati più gravi. È accaduto un mese dopo il decreto legge per proclamare lo stato di emergenza per il coronavirus, il mandato a coordinare i lavori alla Protezione Civile di Angelo Borrelli, elaborati scientifici, oculate pianificazioni, ospedali lombardi intasati, già migliaia di contagi, decine di morti. Il 2 marzo la società statale Consip viene indicata "soggetto attuatore" per gli acquisti per fronteggiare il Covid-19; il 4 marzo la Protezione civile comunica il fabbisogno ospedaliero. In poche ore, scorrendo l' elenco dei fornitori della Pubblica amministrazione, Consip individua la Siare Engineering, sede a Valsamoggia in provincia di Bologna, fondata nel 1974, un' azienda con una trentina di dipendenti che vende all' estero il 90 per cento della propria produzione, in tempi ordinari non supera i 40 respiratori alla settimana. Consip avverte la Protezione civile, il capo Borrelli allerta Palazzo Chigi. Il 6 marzo a mezzogiorno, il premier Giuseppe Conte, con accanto Borrelli e Domenico Arcuri (non ancora nominato commissario), chiama in videoconferenza Gianluca Preziosa, direttore generale di Siare Engineering. In più di un mese della laboriosa gestione dell' emergenza, questo è il dato che segna il ritardo e l' errore, nessuno ha chiamato Preziosa, neanche per una semplice informazione, non la Protezione civile, non il ministero della Salute. Conte si scusa con Preziosa del mancato preavviso e gli chiede uno sforzo per fornire al suo Paese almeno 2.000 ventilatori polmonari e la risposta deve arrivare entro le 16: "Mi dispiace - dice Preziosa - della situazione drammatica dell' Italia e per le occasioni perdute. A dicembre dal mercato asiatico hanno aumentato le commesse proprio per il coronavirus, non volevano farsi trovare impreparati, sprovvisti dei mezzi più utili". Preziosa accetta la proposta di Conte, il ministero della Difesa manda nei capannoni di Valsamoggia i militari dell' esercito, il gruppo Fca e la Ferrari forniscono del materiale, i turni non finiscono mai e si spera di sfondare il limite di 500 ventilatori polmonari al mese. Anche Preziosa è rammaricato: "Si poteva fare meglio con un po' di anticipo. Dopo il contatto con Conte ho subito bloccato i respiratori già imballati nei cartoni per partire verso l' Asia, così ne abbiamo recuperati più di trecento per gli ospedali italiani. Ho vuotato il magazzino. Adesso dal Sudamerica mi domandano 3.500 pezzi, ma ho rifiutato perché la mia fabbrica è a totale disposizione del governo". Gennaio e febbraio sono il prologo della catastrofe, la lunga pausa che non tempera il disastro sanitario di marzo. Al ministero per la Salute studiano il fenomeno, l' Organizzazione mondiale della sanità alla vigilia dell' Epifania lancia l' allarme sul coronavirus che aggredisce i polmoni e richiede l' utilizzo della terapia intensiva. Nella sede della Protezione civile si riunisce spesso il comitato operativo, in forma plenaria il 31 gennaio, come scritto nei giorni scorsi, non si fa un minimo accenno alle condizioni degli ospedali, ai posti letto per il ricovero col Covid-19, alla capienza per i reparti di rianimazione, alla ricerca di tamponi, mascherine, strumenti medici. Il 17 febbraio, ancora al ministero per la Salute, viene compresa l' urgenza di comprare i respiratori, però non si procede. Finché il governo non cala la serranda sull' Italia e negli ospedali non si muore a decine al giorno, non succede niente. Con la disperazione addosso, a marzo ci si affanna a cercare i ventilatori polmonari, senza sapere neppure da dove cominciare, a chi rivolgersi. Per caso Consip pesca la Siare Engineering dall' archivio e si tenta l' ennesimo miracolo italiano dopo la solita approssimazione.

Un ventilatore per due pazienti, la scoperta italiana che raddoppia i posti in terapia intensiva. Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Soltanto 72 ore dall’ideazione alla realizzazione del prototipo, già testato e pronto per l’uso quotidiano, grazie ad un’azienda di Mirandola, la Intersurgical del distretto biomedicale modenese. È grazie al team guidato dal professore Marco Ranieri, direttore del reparto di Rianimazione e Anestesia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, che in Emilia Romagna si sta per fronteggiare l’emergenza Coronavirus con respiratori capaci di collegarsi a due persone invece una una sola, raddoppiando di fatto i posti in terapia intensiva. Per Sergio Venturi, commissario per l’emergenza in Emilia Romagna, è “come moltiplicare i pani e i pesci”. “Hanno costruito il primo prototipo, che è già al Sant’Orsola di Bologna: l’hanno testato e funziona. Nei prossimi giorni saremo in grado di ordinarli e naturalmente andranno per primi a Piacenza e Parma, che sono i territori più in difficoltà”. Per Venturi, “si tratta di una notizia formidabile che ci riempie di orgoglio: molti, anche chi ci guardava con scetticismo, ci riconoscerà quello che siamo stati capaci di fare”. Una scoperta eccezionale che potrà essere distribuita anche nel resto degli ospedali d’Italia, soprattutto in Lombardia, dove la situazione è ormai allo stremo. Sul respiratore ‘doppio’ è intervenuto anche il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, entusiasta per la novità arrivata grazie al team di Ranieri: ““72 ore per realizzare un circuito innovativo che permette di utilizzare un ventilatore polmonare per più pazienti contemporaneamente. Uno strumento messo a punto da un’azienda di Mirandola, nel distretto biomedicale modenese, che potrebbe rivelarsi fondamentale per moltiplicare i posti letto in terapia intensiva. E’ già stato testato all’ospedale Sant’Orsola di Bologna e funziona”.

Giuliana Ferraino per corriere.it il 20 marzo 2020. In tempi straordinari accadono fatti sorprendenti, così in piena emergenza coronavirus succede che la Ferrari stia considerando di fabbricare nel suo stabilimento di Maranello parti per gli apparecchi di ventilazione, di cui gli ospedali hanno urgentemente bisogno per tenere in vita le persone ricoverate in terapia intensiva. Ferrari e Fca, insieme con il produttore di componenti automobilistici Magneti Marelli, stanno discutendo con la Siare Engineering International di Bologna, numero uno in Italia per le macchine per la ventilazione, per cercare soluzioni e aumentare la produzione di questi apparecchi salvavita. Giovedì, durante un incontro tra un gruppo di ingegneri di Fca e Ferrari, sono state messe sul tavolo due ipotesi. La prima punta a ottimizzare il processo produttivo, supportando Saire nella logistica e con i fornitori, due aspetti che potrebbero immediatamente spingere la sua produzione. Ma - è la seconda ipotesi - c’è anche la possibilità di esternalizzare parte della manifattura, in particolare di alcuni componenti. La Ferrari ha già dato la disponibilità a usare i suoi impianti a Maranello, e anche in casa Fca si sta valutando dove e in che modo collaborare alla produzione di alcune parti. Insomma, «o li aiutiamo a casa loro o portiamo fuori parte della produzione. Oppure facciamo entrambe le cose», spiegano da Exor, la holding della famiglia Agnelli che controlla Fca e Ferrari. Una decisione non è ancora stata presa. Mentre l’obiettivo è chiaro: raddoppiare la produzione di apparecchi per la respirazione di Siare, passando da 150 a 300 respiratori alla settimana. Nei giorni scorsi la famiglia Agnelli ha donato 10 milioni alla Protezione civile per l’emergenza Covid-19. Come gruppo invece Fca, Ferrari e Cnh Industrial stanno acquisendo 150 respiratori e mascherine in Cina e le porteranno in Italia. Inoltre Leasys, la società di noleggio, ha messo a disposizione delle Croce rossa italiana una flotta di mezzi per il trasporto. Infine, il gruppo ha offerto alla Protezione civile la propria rete di acquisti e un servizio di consulenza per comprare materiale sanitario e apparecchiature all’estero e portarlo velocemente in Italia.

Coronavirus, la fabbrica che dà fiato ai malati: «Il nostro casco salva centinaia di vite». Una piccola azienda hi-tech di Mirandola, risorta dopo il terremoto del 2012, produce i “caschi Cpap”. Che distribuiscono ossigeno a chi non riesce a respirare da solo. Come i contagiati di Covid19. Francesca Sironi il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Due porte sigillano l’ingresso alla camera bianca, l’ambiente isolato dove è concentrata la produzione. All’interno l’aria è controllata, pulita. E si parla poco. C’è troppo da fare, troppo più del solito. I gesti allenati dal tempo hanno dovuto accelerare d’improvviso. Lilia prende una pellicola di plastica, l’aggancia a una struttura di metallo, gira lo stampo, dà forma al casco, e passa alla prossima pellicola. È difficile tenere il suo ritmo, anche solo a guardarla. Loredana, la caposquadra, cammina fra le postazioni. La mascherina le incide le guance, le appanna gli occhiali; non la toglie da ore, ma non può stare senza. Qui ogni operaio sa quanto bisogna essere rigorosi per ridurre al minimo il rischio di ammalarsi. Lo sa per sé e per la catena, che non si può fermare. In piedi, Loredana cammina e controlla il numero di scatole, di tubi, di valvole, verifica che le matrici di cartone che dovranno fare da diametro al collo siano impilate perfettamente in colonna. I materiali passano fra le mani, le parole restano poche, sottovoce. Non c’è tempo per guardare il telefono, qui, non c’è modo per lasciarsi dominare dai social network, come accade a milioni di italiani affacciati sul contagio in reclusione. L’imperativo, qui, è fare. Mirandola, provincia di Modena. Nella zona industriale risorta dopo il terremoto del 2012 viene prodotta una tecnologia cruciale per la risposta all’epidemia: il “casco Cpap”. Si tratta di uno strumento per la ventilazione non invasiva dei pazienti che sono in insufficienza respiratoria. È un elmo di plastica trasparente, simile al casco di un palombaro, che distribuisce ossigeno a chi non riesce a respirare da solo. Il dieci per cento dei contagiati da Covid-19 va incontro esattamente a questo affanno: il virus, nel suo intaccarsi più aggressivo, può causare infatti una polmonite interstiziale; una forma ostile della malattia che indebolisce i polmoni, facendo calare bruscamente la quantità di ossigeno trasportata nel sangue. Nella sua forma più grave, può abbassare la saturazione al punto da rendere necessaria la ventilazione meccanica invasiva.

Franco Giubilei per ''La Stampa'' il 14 marzo 2020. Le retrovie della guerra al coronavirus passano da questa azienda di 35 dipendenti di Valsamoggia, alle porte di Bologna, l' unica nel nostro Paese a produrre i preziosissimi ventilatori polmonari che servono a far respirare i pazienti gravi ricoverati nelle terapie intensive. Una settimana fa, messo al corrente dell' esistenza della Siare Engineering, il premier Conte ne ha convocato i vertici a Roma per un incontro urgente con la protezione civile e, nel giro di qualche ora, è nato un piano straordinario per reggere all' emergenza: la produzione dei respiratori, dagli attuali 160 al mese, sarà portata a 500, fino a raggiungere il totale di 2.000, ma per rendere possibile uno scatto del genere il personale della ditta bolognese sarà affiancato da 25 tecnici dell' esercito. «Da questo lunedì i militari entreranno a far parte del nostro organico e comincerà un breve periodo di formazione per integrarli nel processo produttivo», spiega Gianluca Preziosa, direttore generale di Siare Engineering. Già da martedì scorso, nell' azienda di Valsamoggia, i normali orari di lavoro sono saltati, ma nessuno si lamenta: «I dipendenti sono molto sotto pressione ed è un bel sacrificio, perché c' è gente che arriva a fare 12, 14, chi persino 15 ore al giorno - aggiunge il dirigente -.Si lavora al sabato, qualcuno anche la domenica, qualche signora del personale ha le piaghe alle mani a forza di avvitare raccordi. Io stesso sono sempre in azienda e praticamente non dormo più, perché ci mandiamo mail continuamente, anche di notte, per aggiornarci a vicenda e scambiarci idee». Funziona così in tempi che, fuor di metafora, ricordano tanto la guerra vera.

Export bloccato. Qui alla Siare, l' enorme responsabilità di realizzare apparecchiature salvavita in un momento così delicato la sentono tutta, e si comportano di conseguenza: «Per far fronte alla prima fornitura di 300 macchine per il nostro governo abbiamo rinunciato a rifornire i nostri clienti in Corea del Sud, Vietnam, Thailandia, India», racconta Preziosa, che parla senza retorica di «patriottismo vero, visto che abbiamo detto no a clienti che speriamo non ci abbandonino in futuro...Ora però c' è l' Italia che conta su di noi, per non parlare del fatto che domani potrebbe trovarsi qualcuno di noi sotto questi ventilatori».

Nessun margine. L' impresa di Valsamoggia, fondata nel 1974 da Giuseppe Preziosa, attuale presidente nonché padre di Gianluca, è un esempio da manuale di fabbrica di piccole dimensioni e ad altissima specializzazione, divenuta negli anni leader mondiale del settore: esporta in 72 Paesi del mondo macchinari che qui vengono progettati, assemblati e distribuiti, mentre i componenti sono realizzati all' esterno da un centinaio di aziende fra Emilia-Romagna e Lombardia. Il valore di mercato è 17mila euro a unità, ma in questo caso il prezzo per la protezione civile scenderà a 10mila: «Data la situazione, abbiamo deciso di togliere del tutto il margine commerciale, ci sarà giusto un piccolo guadagno per non perderci», dice il direttore.

L' aiuto dei militari. Da lunedì, per triplicare la produzione ordinaria, il personale quasi raddoppierà grazie all' arrivo dei militari: «Le loro competenze sono meccanico-elettroniche, visto che hanno a che fare con armi ad alta precisione e coi componenti elettronici dei carri armati - spiega Preziosa -. Con un addestramento breve di 3-4 giorni dovrebbero diventare operativi. Oggi un nostro operaio specializzato monta un macchinario dalla a alla zeta, ma con i tecnici dell' esercito cambieremo l' organizzazione interna in modo da farli specializzare in breve tempo sui singoli gruppi dei ventilatori. I nostri poi metteranno insieme i vari elementi». L' obiettivo è assemblare 125 macchine alla settimana che andranno a rinforzare le prime linee degli ospedali. «Un' operazione titanica», come la definisce il direttore, «per un' azienda abituata a lavorare in un settore di nicchia. In Europa siamo solo in quattro a fare queste cose».

Coronavirus, respiratori: la battaglia di Siare. «Noi unici a produrli in Italia, al servizio del Paese». Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandra Testa. La Siare Engineering entra in guerra contro il coronavirus. È l’unico produttore italiano di ventilatori polmonari utilizzati nei reparti di terapia intensiva che, con 11 milioni di fatturato annui e soli 35 dipendenti nel piccolo comune di Valsamoggia nel Bolognese, sfida dal 1974 la concorrenza delle multinazionali estere. Produrrà alla velocità della luce 125 macchine a settimana, per un totale di 500 al mese e 2 mila entro luglio, per far fronte alle necessità sanitarie delle regioni messe più a dura prova dall'epidemia che sta scuotendo il Paese. Al proprio fianco avrà 25 fra i migliori uomini dell'Esercito italiano: tecnici specializzati nell'assembramento di armi et similia che da lunedì prossimo si metteranno al servizio della sanità nazionale. Mentre già da domenica scorsa sono partite per gli ospedali italiani le macchine richieste e che l'azienda, che ha prontamente bloccato tutte le commesse estere, aveva in magazzino: 90 alla volta della Lombardia, 174 per l'Emilia-Romagna e 56 in Piemonte. Questa task force, che ha dell'eccezionale, nasce da un vera e propria ricerca di mercato fra le eccellenze industriali del Made in Italy condotta dalla protezione civile e dalla presidenza del Consiglio dei ministri che, con il premier Giuseppe Conte in persona, ha lanciato un Sos per affrontare l'emergenza e che il direttore generale di Siare Engineering, Gianluca Preziosa, ha subito colto: «Che militari entrassero in un'impresa privata non succedeva dai tempi di guerra, quando le aziende eccellenti venivano letteralmente sequestrate per favorire la produzione bellica — racconta —. In questo caso ci mettiamo a disposizione, semplicemente accettando una richiesta di aiuto che ci è stata avanzata e mettendo a disposizione tutta la nostra produzione, accordando anche uno sconto del 50% sul prezzo dei macchinari venduti».

I macchinari per le terapie intensive prodotti dalla Siare. Esemplari che in pochi mesi rappresenteranno per quantità il 10% dell'intera richiesta che il mercato avanza ogni anno: 35 mila unità. Per coordinare il piano di lavoro questa mattina arriveranno nello stabilimento felsineo gli uomini di Antonio Zambuco, il responsabile Infrastrutture AID, che è l'agenzia delle industrie di stato della Difesa. E che pianificheranno come i militari affiancheranno, dopo un necessario training coi tutor Siare, l'assemblaggio dei macchinari da qui a luglio. «Mai avremmo pensato, nemmeno in tempo di calamità, penso al recente terremoto — prosegue Preziosa — di dover assurgere ad un compito così prezioso. Siamo una piccola azienda, che forse mettendo da parte gli ordinativi internazionali perderà qualche cliente, ma siamo volentieri a disposizione. Se necessario, viste le assicurazioni del governo a facilitarci nell'accelerazione dei tempi di pagamento dei fornitori e nel garantire gli stipendi ai nostri dipendenti, faremo il massimo per produrre anche più ventilatori di quelli previsti dall'accordo che, con meno di 15 ore di tempo per organizzarci, abbiamo firmato nei giorni scorsi a Roma, alla presenza di Conte e del capo della protezione civile Angelo Borrelli».

La fabbrica dei respiratori che "assume" i militari. La ditta punta a produrre 500 ventilatori polmonari al mese grazie all'aiuto dell'esercito. Emanuela Fontana, Martedì 10/03/2020, su Il Giornale. Serve ossigeno. Per i malati che hanno bisogno della terapia intensiva e subintensiva, e per i medici che ricavano letti in altri reparti nel tentativo di ampliare l'offerta per i pazienti di coronavirus che faticano a respirare. Creare nuovi posti per gli ammalati più in difficoltà, in termini di spazi e macchinari, è la grande sfida, l'obiettivo imprescindibile: un incremento di oltre mille contagiati al giorno significa che almeno cento persone quotidianamente hanno bisogno di un ausilio meccanico per la respirazione. In attesa della conclusione della gara per allestire 5mila postazioni di rianimazione, la protezione Civile ha firmato attraverso la Consip un contratto con la ditta Siare Engineering di Valsamoggia, provincia di Bologna, per la fornitura immediata di 320 respiratori. A questi si aggiungono diversi ventilatori provenienti da altre parti. Valsamoggia è un'altra trincea del contagio: non perché è zona rossa, ma perché è il luogo che fa respirare l'Italia. Nelle ultime ore da qui sono partiti «320 respiratori polmonari destinati a Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Abbiamo aggiunto 5 macchine in extremis per la Liguria. Lavoriamo ora dopo ora» ci spiega il direttore generale, Gianluca Preziosa. Al lavoro ci sono 35 dipendenti specializzati nell'assemblaggio e nel collaudo di apparecchi respiratori. Venticinque tecnici dell'esercito prederanno servizio in supporto da domani, istruiti da 15 tutor: «Non accadeva dai tempi della guerra che militari entrassero nella produzione» commenta il direttore di questa piccola e «unica realtà» italiana. Di aziende di questo tipo «in Europa ce ne sono cinque». Si punta a fornire 500 ventilatori al mese. Duemilacinquecento in cinque mesi come minimo. Equivale alla produzione di questa ditta in due anni e mezzo di lavoro, al 14% della produzione mondiale. Nel mondo si fabbricano infatti «circa 35mila respiratori». Sembrano numeri piccoli a paragone del rischio di trasmissione dell'infezione, se si pensa che i pazienti che vanno in terapia intensiva sono mediamente il 10%. La matematica è una delle chiavi di lettura del contagio. I posti in terapia intensiva in Italia sono 5.300. Settecento sono già occupati da malati di coronavirus. Se il Covid-19 si diffonde troppo, i respiratori devono aumentare di pari passo. Per questo l'atteggiamento dei cittadini è la vera carta vincente. Almeno sedici respiratori al giorno usciranno da questa azienda, «ma ne servono di più. Mi auguro che Consip trovi anche altri operatori. Confidiamo comunque in un ulteriore aiuto dell'esercito. Potete immaginare lo sforzo immane». Straordinari, lavoro anche il sabato, massima sicurezza perché ognuno dei 35 è fondamentale: «Non possiamo permetterci di perdere nessuno». Ci sono poi 100 lavoratori delle aziende fornitrici che devono inviare i pezzi e che «si stanno facendo in quattro». Tutto «organizzato in 48 ore dai primi contatti di venerdì». Con una precisazione. «Nessuna speculazione. Le macchine vengono date al 50 per cento in meno rispetto al normale. Abbiamo ragionato da patrioti». Patrioti sembra una parola enfatica, ma è il concetto di contribuire ognuno per quello che può. «Servono spazi e servono misure ancora più rigide. Il contagio deve essere arginato. Non si può arrivare a staccare un respiratore ad un malato per attaccarlo a un altro».

Coronavirus, la Regione Lombardia acquista i caschi respiratori: così i pazienti meno gravi non andranno in terapia intensiva. L'obiettivo, annunciato dall'assessore Gallera, è scongiurare il sovraffollamento dei reparti destinati ai malati in condizioni più serie. La Repubblica il 02 marzo 2020. Sono la barriera terapeutica per salvare i reparti intensivi dalla crisi, l'ultima trincea per difendere l'operatività degli ospedali lombardi. L'assessore Giulio Gallera ha annunciato che si stanno acquistando i "caschi respiratori", destinati alle vittime del coronavirus che hanno problemi ai polmoni ma possono essere assistite senza ricorrere all'intubazione. Sono apparati semplici di uso, che quindi non richiedono personale specializzato, e portatili: una soluzione d'emergenza per affrontare il moltiplicarsi di pazienti con difficoltà respiratorie senza saturare i reparti di terapia intensiva. Gallera ha fatto riferimento ai caschi Cpap, la sigla inglese che indica la "ventilazione meccanica a pressione positiva continua". Sono maschere o caschi a ossigeno che hanno prezzi abbastanza ridotti - quelle per uso ospedaliero vengono dai mille euro in su - e sono prodotti da molte aziende del Nord. Nel caso in cui la Cpap non dia risultati, c'è una seconda possibilità di intervento con la ventilazione non invasiva - acronimo Niv - che richiede macchinari più complessi ma comunque molto più economici e pratici di quelli per l'intubazione. E soprattutto, la gestione può essere interamente affidata a personale infermieristico, con la sola supervisione dei medici.  I 40 milioni appena stanziati dalla Regione Lombardia serviranno essenzialmente ad acquistare sistemi di questo tipo, con cui ristrutturare i livelli di assistenza per chi viene colpito dal coronavirus. Non appena le macchine saranno disponibili, ci saranno reparti isolati per il trattamento con i caschi Cpap delle persone con difficoltà respiratorie e il passaggio all'intubazione sarà riservato soltanto per i casi più gravi. Una riorganizzazione che si spera rapida e potrebbe permettere di gestire il picco dei ricoveri.   

Coronavirus, caschi che liberano posti in terapia intensiva. Sky 4 Marzo 2020. “Cosi è aperto. Io ho la possibilità, in questo modo, di accedere alla faccia del paziente. Nel momento in cui ho finito non faccio altro che richiudere il mio oblò e il casco automaticamente riparte.” Il casco serve per la terapia Cpap, ventilazione a pressione positiva continua. Tradotto: aiuta a respirare chi ha difficoltà. Negli ospedali si usano sia i caschi che le maschere. La terapia che somministrano è la stessa. “Queste maschere garantiscono una tenuta completa, per cui permettono di mantenere una pressione positiva di ossigeno all'interno delle vie aeree durante tutto il ciclo respiratorio. Questo migliora le caratteristiche di ossigenazione del paziente e può anche prevenire il collasso di unità alveolari, che è nella fisiopatologia di questa malattia.” In emergenza Coronavirus può aiutare nei casi meno gravi di polmonite. Il casco, però, è solo una parte. Il cuore della terapia sta in questo dispositivo. “Questo è il dispositivo che viene collegato all'impianto dell'ossigeno, impianto di ossigeno che è presente in tutti gli ospedali e, nella maggior parte dei casi, ad ogni singolo posto letto.” “In tutti i reparti?” “In tutti i reparti, quindi indistintamente, che sia la rianimazione piuttosto che un reparto di degenza. Favorisce proprio il fatto di non dover intasare le terapie intensive perché in un primo approccio, se il paziente non è particolarmente critico, con questo sistema io posso intervenire direttamente in reparto.” I dispositivi sono riutilizzabili e costano tra i 600 e gli 800 euro al pezzo. I caschi, che non sono monouso, ma mono paziente, vengono buttati al termine della terapia e hanno un prezzo di circa 100 euro l'uno, un costo ragionevole, se pensiamo che permette di liberare posti preziosi in terapia intensiva. Per questo, per questa azienda, leader di mercato in questo settore, è aumentata di molto la richiesta di questi dispositivi da parte degli ospedali. “Sono i singoli ospedali, attualmente, che ce li stanno chiedendo. Per quanto riguarda i caschi, da Regione Lombardia non abbiamo avuto ancora nessuna richiesta. Io li ho contattati e mi hanno detto che stanno facendo le loro valutazioni.” 

Cosa sono i caschi respiratori e perché salvano i pazienti (e gli ospedali) dal coronavirus. Per far fronte all’emergenza coronavirus e ridurre la pressione sugli affollati reparti di terapia intensiva, l’assessore lombardo Giulio Gallera ha annunciato che la Regione acquisterà dei caschi respiratori “CPAP”. Ecco cosa sono e come funzionano questi dispositivi medici per la ventilazione artificiale. Andrea Centini il 3 marzo 2020 su Fanpage. Il nuovo coronavirus emerso in Cina (SARS-CoV-2) è un patogeno che aggredisce il sistema respiratorio, e per i pazienti con le complicazioni più serie – circa il 10 percento del totale – è richiesto il ricovero in terapia intensiva per l'assistenza con la ventilazione artificiale. I posti letto dedicati a questo tipo di trattamento sono naturalmente limitati, a causa dei macchinari e degli specialisti necessari per eseguirlo, e poiché il patogeno è particolarmente contagioso c'è il rischio di saturare rapidamente i delicati reparti degli ospedali (già largamente occupati da pazienti con altre condizioni). In Lombardia, dove si trova il focolaio epidemico più esteso in Italia, gli esperti hanno già denunciato questa eventualità. Per far fronte al problema e ridurre la pressione sui preziosi posti per la terapia intensiva, l'assessore lombardo Giulio Gallera ha annunciato che la Regione acquisterà dei caschi respiratori “CPAP”. Ecco di cosa si tratta e perché saranno utilissimi.

Cos'è e come funziona un casco CPAP. CPAP è l'acronimo di Continuous Positive Airway Pressure, ovvero ventilazione a pressione positiva continua. Si tratta dunque di “caschi respiratori”, che permettono appunto di fornire ventilazione artificiale a un paziente con difficoltà respiratorie. Ne esistono numerosi modelli prodotti da diverse aziende (italiane comprese), ma hanno più o meno tutti un aspetto che ricorda quello di un elmo da palombaro, con i vari tubi che portano ossigeno ed espellono anidride carbonica. Sono completamente trasparenti e si fissano attorno alla testa con cinghie che possono passare sotto le ascelle. Sono dispositivi portatili, sufficientemente comodi e leggeri, che hanno un costo abbastanza ridotto per un dispositivo medico. Il volume interno è di diversi litri (permette il movimento agevole della testa) e i modelli più confortevoli pesano poche centinaia di grammi; sono tutti provvisti di vari sistemi di sicurezza, come manometri per misurare la pressione interna e valvole antisoffocamento. Diversi studi clinici ne hanno dimostrato l'efficacia nel trattare varie condizioni che determinano l'insufficienza respiratoria, dunque i caschi CPAP sono dispositivi versatili e potenzialmente molto utili per far fronte all'emergenza coronavirus. L'idea degli esperti è quella di utilizzarli per i pazienti che richiedono assistenza respiratoria ma non sono così gravi da rendere necessario il ricovero in terapia intensiva. In questo modo non solo si preservano posti letto per i pazienti più gravi, evitando la saturazione con i potenzialmente numerosi contagiati da COVID-19, ma si snellisce anche la pressione sul personale sanitario. Se infatti serve un medico ogni quattro pazienti ricoverati per la terapia intensiva, i controlli dei caschi respiratori possono essere effettuati anche da infermieri supervisionati da un medico. Parte dei 40 milioni di euro stanziati dalla Regione Lombardia per far fronte all'emergenza coronavirus saranno impiegati proprio per acquistare dispositivi come questi.

·         Attaccati all’Ossigeno.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 23 novembre 2020. Già durante la prima ondata del Coronavirus era andato a ruba, ed in questi mesi è ancora uno degli oggetti più acquistati online per uso diagnostico domestico, al punto che oggi, come il termometro, è presente in ogni abitazione italiana. A farla da padrone in fatto di vendite sul web è il saturimetro, un piccolo dispositivo medico che dispone di uno schermo Led molto chiaro e intuitivo, uno strumento non invasivo e indolore, facilissimo da usare, meno da interpretare per i non addetti ai lavori, che rivela la quantità di ossigeno nel sangue, un dato molto utile per valutare la presenza o meno di compromissione respiratoria, soprattutto nella sua fase iniziale, quando appunto si iniziano ad avere livelli di saturazione di ossigeno più bassi del normale. Simile ad una molletta, si pinza su un dito della mano, in genere l' indice o il medio, e all' alluce nei neonati, ed in pochi secondi sul display appare la percentuale di ossigenazione del sangue o, più correttamente, la quantità di ossigeno legata all' emoglobina in rapporto a quella totale circolante, il valore oggi più importante per capire se, in caso di positività al Covid, si stia instaurando un più o meno serio coinvolgimento polmonare nel decorso della malattia virale. Rilevare l' insufficienza respiratoria in fase iniziale infatti, è fondamentale per capire se un paziente Covid sta sviluppando problemi polmonari ed aiuta ad evitare, con l' intervento terapeutico tempestivo, lo sviluppo di future complicanze, tra le quali la temibile polmonite interstiziale bilaterale, che ha mietuto nel nostro Paese decine di migliaia di vittime. Negli alveoli In Medicina la saturimetria rileva la quantità di ossigeno nel sangue arterioso periferico, che è uno dei parametri di riferimento nelle terapie intensive per molte malattie che compromettono la funzione respiratoria, dall' anemia, alle emorragie, alle cardiopatie, alle malattie polmonari e pleuriche, fino all' embolia polmonare, ma che in questi mesi di pandemia viene usato per monitorare l' andamento della infezione da Covid-19, per capire se e quando il virus arriva con la sua azione malefica negli alveoli polmonari, dove appunto avviene lo scambio tra aria e sangue, compromettendone la funzionalità. In condizioni normali i valori di ossigenazione si attestano tra il 98-100% nei soggetti sani, mentre per gli anziani, i forti fumatori e/o persone con altre patologie gli stessi potrebbero scendere fino a 94% ed essere reputati ancora accettabili, e mentre un livello inferiore al 94% consente di sospettare una insufficienza respiratoria in fase iniziale, il valore che scende nella stessa giornata di 4-5 punti deve destare preoccupazione, perché rappresenta un segno clinico importante, che impone un consulto medico urgente insieme all' opportunità di una verifica radiologica in ospedale. L' ipossiemia, ovvero il basso valore di ossigeno nel sangue, è considerata lieve, ma già patologica, quando i valori sono compresi tra il 94% e il 91%, moderata quando gli stessi oscillano tra il 90% e l' 86%, mentre invece è valutata grave quando il saturimetro segnala dati uguali od inferiori all' 85%. È importante però, per chi usa questo dispositivo in casa, effettuare la misurazione sempre nella stessa posizione, con la mano ferma, senza guanti, possibilmente senza smalto per unghie, soprattutto quello di colore scuro come viola, nero, blu o verde, le cui tonalità schermano le radiazioni luminose emesse dalla sonda del saturimetro, con risultati imprecisi ed alterati. Inoltre lo strumento non andrebbe mai usato con le mani o le dita fredde, poiché i valori risulterebbero più bassi a causa della vasocostrizione da frigore, come anche è sbagliato misurare l' ossigenazione dopo essersi scaldati molto le mani, per non avere un falso valore positivo. L' ideale è usare il saturimetro con le mani a temperatura ambiente, con l' eccezione di coloro che soffrono di problemi circolatori, come il morbo di Rainaud, una patologia che causa cattiva circolazione delle dita (mani che si arrossano a chiazze maculate rosse e bianche per diverse ore) che possono mostrare valori di ossigenazione falsamente più bassi, e nelle quali è raccomandato di scaldare le mani per evitare questo problema. È comunque consigliabile che tutti i pazienti con accertata positività al Tampone molecolare, compresi gli asintomatici, abbiano a casa un saturimetro, e tengano sotto controllo l' ossigenazione ematica, al fine di rilevare per tempo eventuali compromissioni a livello polmonare, per poter agire tempestivamente. Il saturimetro, noto tecnicamente come pulsossimetro, è in grado di misurare anche la frequenza cardiaca, in quanto conta i picchi positivi del flusso sanguigno, può essere applicato anche al lobo dell' orecchio, ma di solito viene preferito il dito indice, in quanto ricco di capillari, ed in grado di trasmettere, grazie al flusso sanguigno, un segnale PPG (Photoplethysmography) da cui estrarre informazioni sulla ossigenazione del sangue e sulla attività cardiovascolare. Dal medico È importante sottolineare che, qualora i valori di tale dispositivo siano in dubbio, perché troppo bassi o troppo alti, essi devono essere interpretati da un medico, poiché un grande limite del saturimetro per esempio, è quello di non riuscire a discriminare fra l' ossiemoglobina, ovvero l' emoglobina legata all' ossigeno, e la carbossiemoglobina, cioè quella legata al monossido di carbonio (CO, un composto estremamente tossico e letale) al punto che un paziente con questa intossicazione potrebbe manifestare livelli di saturazione normali (Per tali misurazioni esistono i Puls-CO-ossimetri dedicati). Inoltre un valore pari a 100% misurato in condizioni normali, ossia in assenza di somministrazione artificiale di ossigeno, potrebbe essere indice di iper ventilazione respiratoria. In tutti i casi dubbi infatti, per avere indicazioni più precise, è necessario eseguire l' emogas-analisi, un esame del sangue più invasivo, con prelievo arterioso, ma che non lascia ombre di incertezza sulle reali condizioni di ossigenazione. Per la misurazione della frequenza cardiaca il saturimetro è molto utilizzato in situazioni di urgenza ed emergenza, come per valutare episodi di tachicardia, e per questo il suo uso è estremamente diffuso in ambito medico-sanitario, a livello ospedaliero, sui mezzi di soccorso ed oggi anche in ambito domestico, con la raccomandazione che per interpretarlo, pur essendo accessibile a chiunque sia non sanitario e non specializzato, è sempre meglio far valutare i suoi dati alti o bassi che siano da un medico, l' unico specialista in grado di verificare se effettivamente esistono condizioni pericolose per la salute.

Maria Pirro per ilmattino.it il 21 novembre 2020. «Mio padre ha bisogno di ossigeno!!! Non si trovano bombole a Napoli», e lui «potrebbe morire: ha poche ore di autonomia. Odio questo messaggio, lo odio, ma chiedo aiuto a tutti voi. Chiunque di voi sa o magari ha in casa o può avere la possibilità di avere una bombola d'ossigeno adesso, mi contatti per piacere. È urgente». Le parole chiave sono scritte in stampatello, l'11 novembre alle 12.15, il messaggio compare sulla bacheca Facebook di Antonio Palmentieri, rientrato da Milano per aiutare il genitore 67enne, pensionato Telecom e malato Covid, che abita a Casoria.

L'appello sui social è il disperato tentativo di affrontare l'emergenza. Con il fai-da-te. Dopo quali tentativi?

«Sono andato personalmente anche nella sede delle ditte che fabbricano le bombole ma la loro risposta è stata: Mi dispiace non siamo autorizzati a darle, dovete rivolgervi alle farmacie».

È stato, quindi, in farmacia?

«Certo, e non solo: assieme a mia sorella, costretta a restare in casa, ne ho contattate una trentina. La ricerca è durata 5 ore, quella stessa mattina».

Risposte?

«Prima disponibilità indicata, forse tra due giorni. Ho chiamato anche numero verde e ditte private per la consegna senza riuscire a trovare bombole disponibili».

Online, invece?

«Il messaggio è stato condiviso da oltre cento amici che hanno capito la gravità della situazione: per sei giorni, mio padre era stato un paziente asintomatico, quando il virus impazzito, in poche ore i suoi valori di ossigeno sono scesi da 98 a 88».

A quel punto è stato necessario intervenire.

«Prima ho recuperato una prima bombola di ossigeno da amici, ma poi non sono riuscito a ricaricarla, nemmeno dal rivenditore, o a ottenerne un'altra, presentando la prescrizione del medico di famiglia».

Nulla da fare.

«Impossibile».

Fino alla svolta social.

«Ho trovato 16 bombole nel giro di due ore, tutte ovviamente da recuperare a casa di altre persone».

Cioè?

«La figlia di un altro ammalato mi ha scritto che aveva ricevuto la bombola dopo una settimana per sua madre che, nel frattempo, era stata ricoverata in ospedale».

E gli altri?

«Molti i messaggi simili a questo».

Quando e dove ha ritirato la prima bombola?

«Da una volontaria impegnata nell'assistenza a Giugliano, che ne aveva una a disposizione, e me l'ha data. A distanza di nemmeno un'ora dal mio Sos».

E poi?

«Mi hanno risposto anche due farmacie, una del corso Umberto di Napoli e un'altra ad Aversa».

Quante bombole d'ossigeno ha preso?

«Non tutte quelle individuate. Ne ho usate cinque tra l'11 e il 12 novembre, perché ognuna durava poco più di tre ore, e riportando indietro quelle scariche di modo che potessero essere date ad altri pazienti che ne avevano bisogno. Mi scriveva anche altra gente alla ricerca di bombole».

La sua bacheca è così diventata crocevia dell'«aiutiamoci tra noi».

«Ho iniziato a mettere in contatto le persone tra loro».

Come sta suo padre, ora?

«È ricoverato al Cotugno».

Non è bastata, insomma, tanta solidarietà.

«Allertati dal medico di famiglia, sono venuti a casa i medici Usca (unità speciali Covid) che gli hanno cambiato la terapia, il 12 novembre, di pomeriggio, e nella notte papà ha avuto un tracollo».

Di qui l'intervento del 118.

«E la nuova odissea tra ospedali pieni alla ricerca di un posto letto: prima con il 118 e poi a bordo di un'ambulanza privata».

Così è arrivato al Cotugno.

«Ottenendo assistenza in strada e, dopo circa due ore, il ricovero e tutte le cure possibili. Vorrei sottolineare che i medici e gli operatori sanitari di questo polo di eccellenza sono degli angeli, ma vorrei lanciare anche un altro appello».

Quale?

«Per la donazione del plasma da parte dei malati di Covid che sono guariti da almeno 4 settimane: la terapia sperimentale è necessaria per papà».

Ovviamente, il nuovo appello è anche sulla sua bacheca Fb.

«Centinaia di persone oggi si preoccupano di mio padre e tanti personaggi del mondo dello spettacolo che conosco per lavoro hanno condiviso il messaggio».

È importante donare il plasma non solo per suo padre.

«Ed è anche semplice: consiste in un prelievo di sangue. Si può contattare il centro trasfusionale dell'azienda ospedaliera dei Colli al numero 0817065315, dal lunedì al venerdì (ore 10-13)».

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 17 novembre 2020. Prendi la bombola e scappa. Succede in tempo di pandemia che cresca l' ansia da approvvigionamento. È capitato, all' inizio, per i generi alimentari con le code fuori dai supermercati e gli scaffali di pasta e carta igienica deserti come dopo il passaggio di un tornado, e capita, in questi giorni, con le bombole di ossigeno "tenute in ostaggio" da cittadini particolarmente angosciati e terrorizzati all' idea di doversi curare il Covid a casa da soli. Con la conseguenza che le bombole con dentro l' ossigeno medicale, fondamentale anche per tanti altri malati non di Coronavirus, non si trovano più, per cui medici e farmacisti hanno lanciato l' allarme: «Riportate le bombole». Questi contenitori colmi di ossigeno liquido, in genere, vengono prestati ai pazienti che hanno problemi respiratori ma, come ha spiegato bene Michele Di Iorio, farmacista di Napoli, ex presidente della Federfarma provinciale e membro del Consiglio dell' associazione dei farmacisti titolari partenopei, diverse persone tengono il recipiente vuoto a casa, non lo restituiscono, anche se nel frattempo sono guarite. Di Iorio, parlando con Adnkronos Salute, ha detto che le bombole «vengono trattenute in forma preventiva. È un fenomeno che si sta registrando in maniera più accentuata da una settimana a questa parte». La conferma arriva anche da Paolo Gaoni, nel Consiglio direttivo dell' Ordine di Roma: «Le tengono in casa, dietro una porta, per eccesso di precauzione». Un po' come quando si fa la scorta di aspirina o di sciroppo per la tosse quando si è sani come un pesce: adesso non serve, ma non si sa mai venga l' influenza. Solo che questi medicinali si acquistano con facilità, invece le bombole sono poche, in farmacia c' è un quantitativo limitato, adesso praticamente esaurito. interviene la polizia In Campania, ma pure in Sicilia, Puglia, Abruzzo, Lazio, Liguria, Piemonte e Valle d' Aosta è caccia grossa ai "resi". A Napoli, ieri, è dovuto intervenire, a fianco dei farmacisti, perfino il prefetto auspicando una banca-dati delle bombole per avere in tempo reale il prospetto della situazione delle scorte e della loro distribuzione. Se necessario, il recupero avverrà con l' ausilio della polizia municipale. Attenzione però: non è l' ossigeno a mancare, ma proprio il cilindro in acciaio con l' apposita valvola di erogazione, un oggetto che di solito viene fornito dalle Asl alle farmacie e da queste ai malati che poi devono restituirlo. Il tubo vuoto va, infatti, sterilizzato e sanificato, riempito con il nuovo ossigeno e dato a un altro paziente per l' ossigenoterapia domiciliare. L' ossigeno terapeutico è un farmaco salvavita, e viene somministrato tramite la bombola "unità base" che ne consente l' erogazione allo stato gassoso, oppure mediante un contenitore portatile (stroller) trasportabile a spalla o su un apposito carrellino e che permette al paziente di muoversi dove vuole. In ogni caso, il trattamento è di breve termine per cui, una volta finito, la singola bombola o il carrellino vanno resi. Ma è proprio qui che sorge il problema e interviene il panico. Quella bombola di ossigeno, sebbene vuota, diventa un' ancora a cui aggrapparsi nel mare in tempesta della pandemia. Le scene viste alla tv di persone sotto al casco, intubate, pronate, i discorsi di chi racconta tra le lacrime e la disperazione che il proprio familiare «faceva fatica a respirare e nessuno dalla Asl rispondeva e io l' ho visto morire così tra le mie braccia», hanno fomentato la corsa alla cura fai da te. «Mi tengo la bombola perché hai visto mai dovessi sentire che mi manca l' aria...». Del resto, andare in ospedale è fuori discussione, in certe regioni poi lo sconsigliano gli stessi cittadini: entri lì ed esci in orizzontale. Meglio rimanere a casa con tutto il necessario: saturimetro, bombola, farmaci. Lo diciamo subito: deve sempre essere consultato un medico, le cure non s' improvvisano e anche per la bombola di ossigeno è essenziale affidarsi a chi sa dove mettere le mani, eppure in certi contesti sono già scattate le denunce ai carabinieri per vendita illegale di bombole di ossigeno o "ricariche" attraverso canali paralleli, fuorilegge e pericolosi per la salute. Visto che il fenomeno è allarmante, Aifa, Assogastecnici e Federfarma, hanno provato a tranquillizzare i cittadini: «È vero, c' è un boom di richieste di bombole, ma nessuna carenza. È fondamentale, però, che che i recipienti vengano restituiti alla farmacia appena svuotati, per rendere le bombole disponibili al successivo utilizzo». A breve partirà anche una campagna di sensibilizzazione sul tema e a Napoli sono in arrivo 200 bombole in più, prima che cominci il mercato nero anche di questi dispositivi salvavita.

Susanna Picone per fanpage.it il 9 novembre 2020. "Abbiamo avuto notizie dal territorio che si stanno verificando carenze nella disponibilità di bombole di ossigeno nelle farmacie per le cure domiciliari di pazienti Covid". A lanciare l’allarme all’Ansa è il presidente di Federfarma Marco Cossolo. "Stiamo approfondendo la situazione e valutando il da farsi", ha quindi aggiunto. Anche i farmacisti di Palermo hanno denunciato una problematica simile. "Ci sono gravissime difficoltà nel reperire l'ossigeno liquido medicinale, quello che viene rifornito attraverso le bombole dalle farmacie per l'ossigenoterapia. La normativa è cambiata e non è più possibile usare altri contenitori, anche se a Bergamo durante l'emergenza le aziende sono state autorizzate. In più sempre la normativa non ci permette di rintracciare le persone che magari tengono le bombole a casa o in campagna per una erogazione saltuaria che però oggi, con l'emergenza Covid, deve passare in secondo piano”, è quanto ha detto all’Adnkronos Salute Roberto Tobia, presidente di Federfarma Palermo. È allarme anche in Campania, dove con l’aumento dei casi di Coronavirus da settimane si susseguono appelli di medici e farmacisti sulla difficoltà di reperire ossigeno gassoso. Secondo Vincenzo Santagada, presidente dell'Ordine dei Farmacisti di Napoli, la situazione è peggiorata anche perché moltissime persone non hanno restituito le bombole vuote. Un problema legato anche al fatto che c'è chi trattiene i contenitori a casa, anche se non ne hanno immediato bisogno. Per far fronte alla domanda da oggi è in vigore una direttiva della Regione Campania in base alla quale anche i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta possono prescrivere ossigeno liquido per ovviare alla carenza delle bombole. Fino a questo momento questo tipo di ossigeno era prescrivibile solo dagli specialisti ospedalieri. "Questa direttiva – sottolinea Santagada – dovrebbe ridurre il disagio legato all'assenza di bombole". Un'altra possibilità è data dall'ossigeno liquido concentrato. "Un apparecchio che funziona come se fosse un elettrodomestico – ha spiegato – attaccato a spina della corrente elettrica, questo apparecchio prende l'area dalla stanza in cui si trova una persona e separa l'ossigeno da anidride carbonica e azoto che vengono eliminati". 

Elisabetta Reguitti per ilfattoquotdiano.it il 6 aprile 2020. Emergenza ossigeno nel Bresciano. Mancano le bombole, al punto che Federfarma Brescia ha chiesto la disponibilità di dentisti, studi veterinari e cittadini in possesso di bombole vuote di consegnarle per riempirle. Una persona su 5 che si ammala gravemente di Covid-19, infatti, presenta difficoltà respiratorie e ha bisogno di ossigeno e fa “concorrenza” ai malati cronici. Prima dell’emergenza chi veniva dimesso dagli ospedali con problemi respiratori poteva contare su un mese di “ossigeno per pronto soccorso” gassoso in bombole da 5, 20 o 50 litri fornite dalle farmacie. Il 19 marzo, invece, l’Ats (Azienda di tutela della Salute) ha scritto ai medici di base per autorizzarli, data l’emergenza, a prescrivere direttamente ossigeno liquido utilizzato per la terapia a lunga durata, che prima richiedeva il piano terapeutico redatto dallo specialista per le patologie respiratorie gravi. Le farmacie, ora, si muovono di fatto in regime di libero mercato. Da una parte i pazienti e non restituiscono le bombole, dall’altra latita il coordinamento fra produttori e distributori. E mancano i corrieri. La scorsa settimana l’ossigeno a casa è stato consegnato dalle forze dell’ordine entro 12 ore dalla prescrizione. La consegna di decine di bombole è avvenuta nella bassa bresciana, nelle vicinanze di Manerbio dove sono morte 33 persone, località seconda solo a Orzinuovi dove i decessi sono già stati 39. L’ossigeno sta diventando un’emergenza anche a Bergamo, dove la scorsa settimana ai 400 casi di ossigenoterapia domiciliare già in corso in città e nelle valli, se ne sono aggiunti altri 960 per Covid-19. Dalla Cef (Cooperativa esercenti farmacia) di Brescia arrivano i numeri di quanto sia aumentato il consumo: 1,8 milioni di litri con 20 consegne giornaliere a febbraio, 12 milioni di litri con 120 consegne al giorno soltanto al 25 marzo. Prima l’ossigeno era indirizzato unicamente a malati cronici, adesso oltre l’85% viene distribuito ai malati domiciliati di Covid-19. L’utilizzo dell’ossigeno in questa pandemia, per Carlo Lombardi responsabile dell’unità di Pneumologia della Poliambulanza di Brescia è “importante perché non essendo ancora disponibile una specifica terapia diretta contro il Coronavirus, uno dei presidi terapeutici fondamentali è proprio l’ossigenoterapia”. In Italia attualmente beneficiano di ossigenoterapia a lungo termine 60 mila persone. Una fornitura annua costa al Ssn dai 3 ai 6 mila euro. Oggi le necessità sono aumentate in modo esponenziale. Ats Brescia in una nota ha ritenuto di sottolineare come la distribuzione di ossigeno “sia argomento complesso che può essere rappresentato solo attraverso l’integrazione con quanto a disposizione degli attori fondamentali: Atf Federfarma, Asst Spedali Civili, Prefettura e Regione Lombardia)”. Il coordinamento spetta a Regione Lombardia.

Per l’ossigeno medicale richieste quintuplicate. Rafforzati i serbatoi degli ospedali. L’industria dei gas medicali in condizioni normali accompagna quotidianamente 125mila pazienti in ossigenoterapia ed è in prima linea nell’emergenza sanitaria. Cristina Casadei su ilsole24ore.com il 19 marzo 2020. C’è un’industria, in Italia, che accompagna silenziosamente e quotidianamente la vita di 125mila pazienti in ossigenoterapia. È l’industria italiana dei gas tecnici, speciali e medicinali che ha un giro d’affari di circa 2,4 miliardi di euro all’anno, come spiegano da Assogastecnici Federchimica. La produzione è rappresentata principalmente da ossigeno, azoto, argon, elio e gas rari, ma in questo momento, lo sforzo maggiore è sulla produzione di ossigeno medicale, la cui richiesta nelle aree più colpite dal Covid-19, è aumentata fino a cinque volte. In condizioni normali, ogni anno in Italia si producono oltre 90 milioni di litri di ossigeno liquido, consegnati al sistema ospedaliero, mentre 3 milioni e mezzo di unità base per ossigenoterapia sono consegnate ad ospedali e al domicilio dei pazienti. Oltre un milione le bombole di ossigeno in circolazione fra ospedali, farmacie e pazienti a domicilio. È un’industria che, oggi più che mai, chiede attenzione e va preservata «per il servizio salvavita che sta svolgendo nel paese», osserva Aldo Fumagalli, presidente e amministratore delegato di Solgroup, società quotata che ha un giro d’affari di 900 milioni di euro. In molti ospedali , come per esempio il Papa Giovanni XXIII di Bergamo sono stati aumentati i tank attraverso cui l’ospedale che si trova nell’area più colpita dall’emergenza riceve l’ossigeno. Dalla bergamasca, Bernardo Sestini, amministratore delegato della Siad (presieduta dal padre Roberto Sestini), un giro d’affari di 674 milioni e circa 2mila dipendenti, presente in 14 paesi, racconta: «Siamo al fronte. Dal punto di vista della produzione primaria di ossigeno non c’è alcun problema, la materia prima non manca, anche in questo momento in cui le richieste arrivano a 5 volte il normale uso quotidiano. La criticità è semmai rappresentata dalla fornitura perché la maggiore domanda richiede un maggior numero di imballaggi, (bombole e tank semplificando, ndr) che, anche se già ordinati, non si riescono ad avere in tempi brevi. Non si trascuri poi il fatto che a ogni viaggio in entrata e in uscita, gli imballaggi devono essere opportunamente trattati prima di essere nuovamente riempiti. È una catena molto complicata la nostra, dove ragioni di sicurezza e salute non consentono di trascurare mai alcun passaggio». In questa catena un ruolo essenziale è quello dei trasportatori altamente specializzati che sono solo 500 nel nostro paese e portano l’ossigeno negli ospedali e nelle 150 officine farmaceutiche e quello degli operatori che riforniscono i pazienti ai loro domicili. «Nell’ambito dei gas tecnici medicinali e assistenza domiciliare assistiamo 500mila persone nel mondo e riforniamo 500 ospedali - spiega Fumagalli -. La richiesta di ossigeno medicinale negli ospedali delle zone dove l’epidemia è in atto, è aumentata tra 3 e 5 volte, e stiamo fronteggiando una situazione molto critica, sia per la logistica che per i dispositivi di protezione individuale. I nostri operatori hanno bisogno dei dispositivi di protezione, tra cui mascherine e tute per poter operare e in questo momento non si riescono ad avere - dice Fumagalli -. Sono stati requisiti da Protezione civile e Regioni, ma non dimentichiamo che il nostro settore, normalmente, garantisce la vita a 100mila persone ogni giorno presso le loro case per ossigenoterapia e decine di migliaia di pazienti negli ospedali. È essenziale che la nostra catena produttiva e logistica non sia interrotta a nessun livello perchè altrimenti l’ossigeno non riuscirà ad arrivare ai malati». Anche per Gianluca Cremonesi, presidente di Air Liquide Italia (filiale del gruppo che nel mondo ha un giro d’affari di 22 miliardi), «le uniche vere aree di rischio sono i dispositivi di protezione individuali e la logistica. Abbiamo anticipato l’evento e le sue criticità anche grazie all’esperienza che ha maturato la nostra filiale in Cina e attraverso un’analisi di rischio dei vari scenari. Questo ci ha consentito, per esempio, di approvvigionare una prima importante fornitura di dispositivi di protezione in modo da poter essere coperti sin dall’inizio della crisi». La logistica «nelle ultime settimane - continua il manager -è stata riorganizzata per far fronte alle varie disposizioni che le Autorità hanno via via emanato. A tal proposito stiamo aggiornando le istruzioni operative a tutti i nostri trasportatori per mantenere alto il livello di sicurezza. Il nostro è un mondo che da sempre ha messo al primo posto la sicurezza dei collaboratori, dei clienti e dei pazienti, con un sistema di controllo molto evoluto ed un obiettivo costante di Zero Incidenti». Proprio sui dispositivi di protezione Cremonesi che è anche presidente di Assogastecnici ha scritto alla Protezione civile «una richiesta urgente per la messa a disposizione di mascherine FFP2 e FFP3 per garantire la continuità dei servizi essenziali forniti dagli operatori del settore dell’ossigeno medicinale».

Elisabetta Reguitti per ilfattoquotidiano.it il 2 aprile 2020. “Gli anziani hanno cominciato a risparmiare l’ossigeno perché hanno paura che finisca e non venga più consegnato”. Victor Comanescu inizia il suo viaggio alle sei di mattina, ogni giorno percorre lo stesso triangolo di strada: trecento chilometri nel bresciano a bordo del suo camioncino carico di vita, soprattutto oggi, tempo di Covid-19. È “l’uomo dell’ossigeno”. Il suo carico è prezioso: litri di sostanza indispensabile per chi non è più in grado di scambiare l’ossigeno dall’aria alla circolazione sanguigna. Malati a rischio che l’anidride carbonica nel loro corpo superi l’ossigeno. Caso in cui le conseguenze sarebbero gravi, letali. Victor macina chilometri portando i suoi bomboloni da 59 chili ciascuno che contengono 26mila litri di “O2” allo stato gassoso. Tradotto: 26 litri liquidi destinati a malati di ogni età. “Non posso fermarmi neanche a pranzo perché altrimenti non finisco più soprattutto da quando è scoppiata questa cosa. Le persone anziane sono spaventate. Mi dicono che cercano di risparmiare il dosaggio di ossigeno perché hanno paura di rimanere senza. Che nel blocco generale si blocchi anche la fornitura. Io li rassicuro raccomandando di seguire la quantità che hanno prescritto i medici. Io consegno solamente, ma per la maggior parte io rappresento l’anello di congiunzione con l’ospedale. Non è così. Magari potessi fare qualcosa in più per loro”. Loro, in Italia sono i 60mila pazienti in ossigenoterapia. Numeri destinati ad un aumento esponenziale per chi riuscirà a sopravvivere alla pandemia perché circa 1 persona su 5 che si sta ammalando oggi gravemente, presenta difficoltà respiratorie e quando tornerà a casa avrà bisogno di ossigeno. Anche solo per un periodo, più o meno breve. Victor, con altri 16 colleghi, lavora da un “padroncino” per la ditta che ha vinto la gara d’appalto con l’Asst locale. Il meccanismo è sempre lo stesso per tutti i settori: la ditta, per ipotesi, incassa “mille”, al padroncino arriva “uno” con cui deve sostenere i costi di gestione e manutenzione dei mezzi, gli stipendi e magari anche gli imprevisti di incidenti stradali; il famoso “rischio” di impresa. Victor guida poi scende dal furgoncino, scarica il bombolone posizionandolo in equilibrio su un cerchio “rotante” per la consegna, lo stesso farà quando il carico si è esaurito: movimenti sempre tutti uguali, ripetuti, ma per chi lo aspetta sono ogni volta speciali. A Victor non scappa nulla, attento a ogni dettaglio. Sa che per certe persone il suo accento dell’est è motivo di diffidenza. “Sì, sono rumeno. Orgoglioso di esserlo. Così come lo sono del rapporto che riesco a instaurare con molte persone che servo. Alcuni mi ripetono di non ammalarmi. Mi preparano insalata, uova fresche di giornata. Dicono di portarle a mia moglie e ai miei due figli. Sono i regali più grandi. Ancora più delle mance che magari ricevo per Natale. A volte sono soldi che mi vengono dati senza alcun sentimento da persone che fanno quel gesto per sentirsi a posto con la propria coscienza”. L’uomo dell’ossigeno poi racconta del suo gazebo delle meraviglie dove vengono riposti i frammenti delle vite che ha incontrato. “Molti pazienti cari nel corso degli anni sono morti e le loro famiglie in segno di riconoscenza insistono perché io accetti piccoli oggetti. A volte destinati a essere buttati. Un giorno mi hanno regalato quattro ruote in legno di un carro. Le ho usate per fare un tavolino”.

A tutto ossigeno. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020di Emanuele Bellano. Avere a disposizione una bombola per l'ossigenoterapia può fare la differenza tra la vita e la morte. A marzo in Lombardia le richieste di bombole d'ossigeno per l'assistenza domiciliare sono aumentate di 5 volte. Trovarne una in tempi brevi a quel punto era quasi impossibile. Come hanno affrontato questa emergenza le province più colpite dal virus e come si stanno preparando le altre regioni? Governo e governatori hanno fatto tesoro di quanto accaduto al nord? Se domani scoppiassero nuovi picchi di contagio chi sarebbe pronto e chi no?

“A tutto ossigeno”. Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi Immagini Giovanni De Faveri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora una proposta di Report per ottemperare all’emergenza, qualora dovessero mancare le bombole d’ossigeno nelle terapie intensive o addirittura a domicilio. Il nostro Emanuele Bellano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le principali ditte produttrici di ossigeno medicale hanno sede qui proprio nelle aree maggiormente colpite dal contagio. C’è la Sapio Life che ogni anno produce migliaia di litri di ossigeno liquido. A Bergamo c’è la Siad, 2000 dipendenti e sedi in tutto il mondo. Con l’emergenza ha iniziato a produrre ossigeno anche la Tenaris di Dalmine tutte alla fine incanalano l’ossigeno in bombole come queste distribuite nelle farmacie.

FRANCESCO PARACINI - FARMACIA PALESTRO BRESCIA Questa è una bombola di ossigeno liquido abbiamo due bombole di ossigeno gassoso deve passare nel gorgogliatore umidificarsi e andare poi o con la mascherina o con gli occhialini al naso.

EMANUELE BELLANO Qual è la variazione per esempio che lei ha riscontrato nel numero delle richieste di bombole mediamente, rispetto ai periodi normali diciamo non di crisi?

FRANCESCO PARACINI - FARMACIA PALESTRO BRESCIA Cento volte di più.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Farmacisti e protezione civile a Brescia hanno recuperato tutte le bombole disponibili sul territorio andando a prendere anche quelle negli studi dentistici e veterinari e facendo appello a chiunque avesse a casa bombole non utilizzate. Ma con l’emergenza non sono bastate.

ANNA ALBERTINI Grazie ancora dottore.

ANNA ALBERTINI L’ossigeno quando serve, serve subito.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quanto avete dovuto aspettare per recuperarlo?

ANNA ALBERTINI Un giorno e mezzo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È tanto in quel momento lì?

ANNA ALBERTINI Il problema è la quantità di gente che si è ammalata contemporaneamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con oltre 12 mila totali casi di COVID Brescia è una delle province maggiormente colpite dall’epidemia. Circa 4000 malati sono in isolamento a casa.

ELEONORA PICCHI - FARMACIA COMUNALE - MANERBIO (BS) Purtroppo nessuno era preparato a questa emergenza quindi anche le farmacie che hanno in dotazione alcune bombole di ossigeno gassoso non ne avevano a sufficienza.

EMANUELE BELLANO Quanto tempo capita che un paziente che ha bisogno dell’ossigeno a casa deve aspettare per reperire una bombola?

ELEONORA PICCHI - FARMACIA COMUNALE - MANERBIO (BS) Quasi una settimana.

CLARA MOTTINELLI - PRESIDENTE FEDERFARMA BRESCIA Da 10 consegne al giorno passare a 120 e tu non eri in grado di riuscire a soddisfare le loro esigenze. Sono state veramente delle giornate tragiche perché non volevamo arrivare al punto di dover scegliere a chi dare una bombola.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Bergamo dove l’emergenza COVID ha colpito prima, la richiesta di bombole è aumentata da 800 a 5000 al mese.

FERDINANDO PESCHIULLI - FARMACIA PESCHIULLI - BERGAMO In questi giorni purtroppo abbiamo avuto grandissime difficoltà. E quindi parecchie persone sono rimaste parecchie ore senza ossigeno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Come è capitato a loro, entrambi positivi al COVID adesso ma in cerca disperatamente alcune settimane fa di una bombola di ossigeno per il papà malato.

BENEDETTO GIUPPONI - VERONICA FABRIS Abbiamo attivato proprio tutte diciamo le nostre conoscenze e quindi proprio con vicini di casa, con parenti, amici.

EMANUELE BELLANO Quante farmacie e quante persone avete dovuto sentire?

VERONICA FABRIS Tantissime. BENEDETTO GIUPPONI Consideri che noi avremo fatto un centinaio di chiamate e quindi siamo riusciti dopo ore di ricerca a prendere questa bombola. Siamo stati vicino a lui le ultime ore, è morto domenica sera, quindi il giorno dopo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma a cosa è dovuta durante l’emergenza la mancanza di ossigeno?

FERDINANDO PESCHIULLI - FARMACIA PESCHIULLI - BERGAMO La carenza di contenitori è stata la grossa problematica.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I contenitori, cioè le bombole vengono riempiti di ossigeno alla fine di ogni utilizzo e riusate continuamente.

FERDINANDO PESCHIULLI - TITOLARE FARMACIA PESCHIULLI -BG Sì sì assolutamente la produzione di ossigeno non è un problema, il problema più grosso sono i contenitori, queste che mancano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le producono in questa azienda di Livorno, la HVM. Qui assemblano sia bombole per l’ossigeno per lo stato gassoso che contenitori per l’ossigeno per lo stato liquido in grado di durare molto di più.

DAVID FEDI - HVM SRL Questi serbatoi sono serbatoi che si stanno apprestando alla consegna. I nostri ragazzi li hanno messi nelle scatole e nei prossimi giorni saranno trasferiti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il capannone è pieno di serbatoi imballati in fase di controllo e in assemblaggio. La HVM in questo periodo di crisi ne sta producendo 130 al giorno.

EMANUELE BELLANO A che livello di produzione siete adesso?

DAVID FEDI - HVM SRL Abbiamo più che raddoppiato la nostra produzione.

EMANUELE BELLANO Siete al massimo della produzione?

DAVID FEDI - HVM SRL In questo momento siamo al massimo della produzione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In tempi normali la HVM produce 12mila pezzi l’anno. In due mesi di epidemia Covid hanno già sfornato 9mila serbatoi cioè tre quarti di un’intera produzione annua.

EMANUELE BELLANO Quanti produttori ci sono sul mercato di serbatoi per l’ossigeno?

DAVID FEDI - HVM SRL In questo momento il mercato europeo diciamo è coperto da tre produttori uno è Hvm che produce circa 12mila – 13mila diciamo serbatoi annui. L’altro è rappresentato da un’azienda francese, l’altro competitor è un competitor giapponese.

EMANUELE BELLANO Quindi tre produttori per sopperire a livello mondiale a livello globale tutta la necessità, il bisogno di bombole?

DAVID FEDI - HVM SRL Certo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Bergamo, Regione Lombardia, aziende sanitaria locale, e ditte produttrici di ossigeno hanno avviato il progetto ossigeno liquido, in via del tutto straordinaria autorizza la consegna a domicilio di bombole di ossigeno ad alta pressione normalmente non consentita. Per aumentare ulteriormente la disponibilità di contenitori hanno anche recuperato recipienti autorizzati normalmente solo in ambito industriale. A marzo in piena emergenza è stato avviato uno studio per la soluzione definitiva del problema.

FERDINANDO PESCHIULLI - FARMACIA PESCHIULLI BERGAMO Si sta cercando di creare dei punti dove venga dispensato l’ossigeno canalizzato. EMANUELE BELLANO Cioè come funzionerebbe questo meccanismo?

FERDINANDO PESCHIULLI - FARMACIA PESCHIULLI BERGAMO Ogni letto a disposizione avrebbe la sua bocchetta dell’ossigeno però l’ossigeno sarebbe centralizzato in mega contenitori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’idea è che se non si può portare l’ossigeno a casa dei malati vanno portati i malati dove c’è l’ossigeno creando degli hub sul territorio per la distribuzione.

EMANUELE BELLANO In questi hub verrebbero convogliati tutti i pazienti che normalmente stanno a casa e che hanno l’ossigenoterapia a casa.

FERDINANDO PESCHIULLI - FARMACIA PESCHIULLI BERGAMO Esatto e sarebbe l’unica soluzione possibile per salvare più vite possibili.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con questo documento le autorità locali hanno individuato strutture sanitarie sul territorio pubbliche e private, ospedali dismessi recentemente o poco utilizzati che potrebbero essere riconvertiti in hub per la distribuzione dell’ossigeno come per esempio l’ospedale di Calcinate a pochi km da Bergamo. Qui i pazienti Covid che hanno bisogno di ossigeno sarebbero alimentati da grossi serbatoi come questi facilmente reperibili.

DAVID FEDI - HVM SRL Sono serbatoi da 3mila litri anche qui dentro si trova dell’ossigeno sotto forma liquida e attraverso un apparato di distribuzione arriva all’ospedale sotto forma gassosa.

EMANUELE BELLANO Cioè partendo da questi serbatoi che vengono messi in deposito dell’ospedale l’ossigeno poi arriva fino ai letti dei pazienti.

DAVID FEDI - HVM SRL Arriva fino ai letti dei pazienti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Lombardia, dove il virus ha colpito di più all’inizio dell’epidemia ricoveri in ospedale, pazienti in casa e terapie intensive sono aumentati di pari passo fino a fine marzo. A questo punto le terapie intensive si sono fermate a 1300 e i ricoveri a 12mila segno che gli ospedali erano ormai saturi è aumentato quindi il numero di pazienti in isolamento a casa fino a 15mila, proprio quelli che avevano bisogno dell’ossigeno terapia a domicilio. Nel Lazio per esempio la regione ne ha tratto insegnamento?

EMILIO CROCE - PRESIDENTE ORDINE DEI FARMACISTI PROVINCIA DI ROMA La regione Lazio in materia sta facendo, non abbiamo saputo nulla.

EMANUELE BELLANO Da un punto di vista specificamente dell’ossigenoterapia a casa quali input specifici su questo tema avete ricevuto dalla regione e dalla sanità del Lazio?

EMILIO CROCE - PRESIDENTE ORDINE DEI FARMACISTI PROVINCIA DI ROMA Niente nessuno e ancora nessuno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la regione Lazio ci scrive che si sta adottando presso le strutture sanitarie delle bombole vuote da riempire all’emergenza. Le Marche hanno organizzato invece una distribuzione sul territorio, in via straordinaria da parte dei medici di base che portano proprio le bombole di ossigeno liquido, in grado di contenere di più di quelle tradizionali. L’Umbria invece ha provveduto, già a febbraio scorso, di acquistare un numero straordinario di concentratori, macchinari portatili in grado di produrre più ossigeno che vengono consegnati dalla Asl a domicilio. La Regione Campania invece non vede l’emergenza, beata lei, e dunque le necessità di incrementare le forniture di ossigenoterapia a domicilio. La Calabria ci scrive che ha un piano per la distribuzione dell’ossigeno domiciliare, ma non fa rifornimenti straordinari. Non prende provvedimenti per ottemperare ad un’eventuale carenza delle bombole, dei contenitori. La Regione Sicilia invece ha emanato finora solo una disposizione che chiede alle Asl e ai pazienti di restituire tempestivamente alle farmacie le bombole vuote. Quindi dovete sbrigarvi a restituire. La stessa cosa la fanno le Marche e il Molise. Il problema abbiamo visto che però non ce ne sono di bombole sufficienti per tutti. L’ha capito l’Emilia Romagna, anche perché gli è stato segnalato dalle ditte il problema, dai fornitori. Abruzzo e Puglia invece hanno preferito non risponderci. Poi abbiamo chiesto al ministero della Salute, abbiamo portato la nostra proposta, quella degli hub che fanno per l’ossigenoterapia e hanno giudicato la proposta estremamente interessante. Però hanno detto bisognerà che si occupi la Direzione Generale per la Programmazione Sanitaria, ecco. Insomma, speriamo di aver portato un piccolo, utile, contributo.